#politicanuova - 05

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quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

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novembre 2014

pag. 19-22 Intervista Luciano Canfora

pag. 7-13 Per un’economia ad alto valore aggiunto


Impressum

#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 5 novembre 2014 anno II

Editore Partito Comunista

ISSN 2297-0657

Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio

Direttore Aris Della Fontana

CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona

Abbonamenti 25.- Normale 50.- Sostenitori 30€ Esteri

Email aris.dellafontana@politicanuova.ch

Indice 3 Editoriale: Attualizzare il lungo periodo, intravederne fin da subito i lineamenti 4 Cambio fisso CHF-Euro: una scelta finanziariamente pericolosa e una “gabbia” geo-politica 7 La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto 10 La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile 14 No al disavanzo: un elemento delle politiche di austerità 16 Le sostanze stupefacenti nella società del capitalismo contemporaneo 19 Luciano Canfora: “la vera responsabilità dell’estensione dello scontro da conflitto locale a conflitto europeo e poi mondiale è dell’Inghilterra” 23 Teori: avviata la collaborazione editoriale!

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Attualizzare il lungo periodo, intravederne fin da subito i lineamenti Nell’editoriale presente sullo scorso numero di #politicanuova (giugno 2014) ho sottolineato l’importanza nodale, in termini egemonici, relativa alla messa in campo di una visione strategica, per tramite della quale si possa delineare, realisticamente, un futuro pensabile e sostenibile. In caso contrario cadremmo in un puro “presentismo” - cieco tanto verso il passato quanto verso il futuro -, che, anche e soprattutto, oggigiorno pervade ampie fette della classe dirigente, in difficoltà proprio nell’atto di “pensare” l’avvenire. È sottesa, nelle venature di questa dinamica, una tendenziale abdicazione dal “politico”, cioè da quel momento essenziale in cui un corpo di dirigenti dello stato, cosciente del proprio ruolo, dipinge, secondo le proprie aspettative politico-ideologiche, i lineamenti della società futura. (In ciò pesano come macigni le coordinate dominanti nella dimensione post-moderna, e cioè la (presunta) fine della storia e delle ideologie). E, per una società vulnerabile poiché in crisi, il decadere della progettualità politica, non può che coltivare aspetti problematici e pericolosi. Occorre che i comunisti s’inseriscano costruttivamente in tali contraddizioni: si tratta di una necessità e al tempo stesso di un dovere, considerato che la storia offre raramente una seconda possibilità e, più nel complesso, che essa non si presenta affatto quale costrutto malleabile a piacimento da parte degli uomini, con le loro soavi e comode idealità. Carpe diem, con le dovute proporzioni, insomma. Volgiamo ora lo sguardo, più specificatamente, alla realtà elvetica, per inserire queste riflessioni in una dimensione concreta. Come si presenta, effettivamente, sotto il profilo economico e produttivo, quella realtà a noi più prossima – si dica pur quotidiana – con le sue sopracitate contraddizioni, nella quale occorre calare le nostre indicazioni strategiche? Siamo di fronte ad un tessuto economico che, tendenzialmente, è già orientato – o, quantomeno, possiede le premesse per esserlo effettivamente - sui cardini di una produzione dal considerevole valore aggiunto. E, in relazione a ciò, il pericolo maggiore sta proprio nell’assenza della volontà di puntare – potenziandola – su questa peculiarità. In virtù di ciò, dunque, la via strategica deve essere pensata e modellata a partire dalle particolari condizioni caratterizzanti l’economia elvetica. Di fatto si tratta di sviluppare coordinate già attualmente in vigore. Una tale evoluzione è l’unica soluzione affinché, nel contesto di un’economia altamente globalizzata dalla quale non è (purtroppo) possibile sottrarsi, i prodotti nazionali possano tro-

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vare una propria fruttuosa collocazione sui mercati internazionali. E ciò non a seguito di una controproducente dinamica di dumping salariale, ma a seguito delle performance dei processi produttivi ad alto valore aggiunto. Si tratta di assumere una posizione costruttiva e propositiva, con cui consolidare una Svizzera prospera, ponendo le premesse per il rinascere di aspetti di sovranità popolare in connessione allo svilupparsi di una democrazia progressiva, in cui i produttori (lavoratori del braccio e della mente) conquistino man mano, nel contesto evidentemente della conflittualità di classe, quel ruolo di protagonisti della storia che il socialismo prevede. Traghettare lo scenario nazionale nella direzione illustrata, si lega indissolubilmente ad una parallela ri-modulazione della relazione tra stato ed economia. Il primo – e qui ritorna quanto trattato nella parte iniziale della nostra riflessione - deve tornare a “pensare” la seconda, anche e soprattutto nell’ottica del suo coordinamento, all’interno d’una rinnovata e fresca prassi di programmazione dello sviluppo economico. Questo è poi il segreto su cui poggia l’emersione dirompente della Repubblica Popolare Cinese. Il dossier d’approfondimento presente su questo numero di #politicanuova, non a caso, si occupa proprio di abbozzare questa indicazione strategica – nella consapevolezza della sconfinata vastità della materia, e di riflesso nella coscienza della necessità di investire, ulteriormente, tempo ed energie nel chiarificarne l’essenza.

Aris Della Fontana Direttore #PN

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Cambio fisso CHF-Euro: una scelta finanziariamente pericolosa e una “gabbia” geo-politica Aris Della Fontana ●●

Antefatti

Nell’autunno 2011 la Banca Nazionale Svizzera (BNS) fissò a 1.2 la soglia minima relativa al tasso di cambio Franco-Euro. Per tramite di questa decisione, che sancisce l’adesione ai trattati di Maastricht (1992), de facto, la Svizzera – divenendo una sorta di fondo salva stati - è entrata nell’Eurozona, un’area non certo in buona salute. L’identità della moneta europea si fonda sulla fissazione del cambio tra la stessa e le varie valute nazionali; e, di conseguenza, il fatto di utilizzare effettivamente l’Euro è una mera convenzione di comodità commerciale, funzionale alla maggiore velocizzazione degli scambi. Un tale ancoraggio, per la BNS, comporta una stretta sostanziale nelle scelte di politica monetaria, e un impegno oneroso nel mantenere il cambio sul mercato. La classe dirigente elvetica – socialdemocrazia inclusa - ha sbandierato l’assoluta e impellente necessità di procedere in tal senso, con la motivazione che in caso contrario le esportazioni dei prodotti nazionali sarebbero incorse in una grave impasse; ma le ragioni essenziali che hanno portato a questi sviluppi sono ben diverse. ●● Le sostenute pressioni dall’esterno A onor del vero, infatti, va detto che Consiglio Federale e BNS si sono trovati a dover così operare in seguito alle forti e decisive pressioni internazionali, giunte sia dall’Europa sia dagli Stati Uniti; in ciò si scorge e pesa l’annosa questione del segreto bancario – il cui contenuto, del resto, è stato già rinegoziato con degli incontri bilaterali avvenuti con tutta una serie di paesi -, assieme alla più complessiva questione della presenza elvetica nelle liste nere dei paradisi fiscali emesse dall’OCSE. Per ottenere un quadro complessivo della questione, tuttavia, dobbiamo volgere lo sguardo all’inizio degli anni Settanta. Con la rottura degli accordi di Bretton Woods (1971) e con il di poco successivo Smithsonian Agreement (1973), si produsse la dissoluzione dei rapporti di cambio fisso tra le monete, a favore di un regime di cambi variabili, in cui qualsiasi riferimento aureo della moneta e quindi il valore intrinseco che essa rappresentava venne ad essere eliminato. Si diede così il via libera a una mastodontica produzione di capitale fittizio - ovvero il derivante da un processo improduttivo di ricchezza -, che trovò un fertilissimo terreno sul quale fiorire copiosamente. Non avendo più un reale valore, la moneta

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– e in particolar modo la valuta internazionale di riferimento, che nel caso della storia recente è il dollaro – può essere facilmente stampata, a patto che essa possa venire scambiata all’estero in cambio di beni derivanti da un processo realmente produttivo della ricchezza, e pertanto internazionalizzata. In questa nuova configurazione gli Stati sono confrontati con la necessità di mantenere solide riserve di valuta estera, al fine di sopperire alle oscillazioni del mercato. Ciò non vale tuttavia per gli Stati Uniti, i quali sono il produttore diretto della principale moneta di cambio (nel 2012 - per portare un esempio essi avevano una riserva di 143 miliardi di Dollari, contro i 289 della Svizzera, i 472 della Russia, gli 840 di Eurolandia, e i 3200 della Cina). Gli Usa, di riflesso, non devono dotarsi di difese contro la speculazione anti-Dollaro. La Federal Reserve (Fed), in ogni caso, si ripara da un eventuale pericolo di penuria delle monete con il Central Bank Liquidity Swap (CBLS): la Fed presta Dollari alle altre banche centrali, le quali prestano a loro volta alla Fed lo stesso quantitativo nella rispettiva moneta, basandosi sul cambio del momento; in una data precedentemente stabilita, le parti si restituiscono il prestito considerando il valore di cambio iniziale, azzerando così i rispettivi prestiti, non però attraverso un’operazione a somma zero. Se infatti le banche centrali non USA prestano a loro volta i soldi ricevuti dalla Fed ad altri stati o a società ricevendo un tasso di interesse, dovranno girare gli introiti alla Fed stessa. La cosa non vale però per la banca centrale USA, la quale può quindi prestare questi soldi gratuitamente. Dalla fine del 2007, con la crisi – che è soprattutto statunitense e del capitale fittizio, e soltanto di riflesso di Eurolandia, la quale vive comunque problematiche legate alla struttura contraddittoria della moneta unica e dell’Unione Europea – è aumentato il numero di coloro che hanno cominciato a rifiutare il dollaro. Il gioco, quindi, non funziona più, a causa dei sempre più seri dubbi circa la tenuta del Dollaro stesso – indebolito dalla sua esagerata immissione nel mercato finanziario da parte delle autorità monetarie statunitensi con l’intento di foraggiare sia gli istituti bancari illiquidi sia i numerosi fronti bellici aperti. Così i capitalisti statunitensi e detentori di liquidità in Dollari in tutto il mondo (il 40 % della liquidità americana infatti è, secondo la Federal Reserve, circolante all’estero) sono spinti a cambiare i Dollari con delle valute più stabili. La principale di queste monete rifugio è stata, in questi anni, il Franco, che subisce appunto forti pressioni proprio a causa dello spazio finanziario che sottrae al Dollaro, facendo perdere di valore lo stesso e vanificando così lo schema del sopracitato CBLS. Anche i detentori dell’Euro – Germania in primis -, al fine di salvaguardare la salute di tale valuta sul mercato finanziario internazionale, hanno operato sollecitazioni non indifferenti. Il convergere delle pressioni euro-


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americane – secondo l’economista statunitense Keith Barron queste sarebbero «enormi»1 - sono dunque volte ad indebolire il Franco, il quale verrebbe così a perdere la sua appetibilità per i capitali in cerca di una soddisfacente valorizzazione; e non è affatto un caso che i valori della moneta statunitense e di quella europea si siano alzati dopo la fissazione del cambio Franco-Euro. ●● Conseguenze generali e scenari ipotetici Porre il limite a 1.20 equivale a credere – o a sperare – che la moneta europea si rafforzi e, in particolare, che la crisi di questa stia per finire; i dati macroeconomici, invece, ci dicono il contrario. È aperta la strada all’impiego di ingenti risorse liquide nell’acquisto degli Euro necessari a coprire il differenziale creatosi tra il reale cambio di mercato e quello arbitrariamente stabilito.2 Tale situazione, logicamente, allorquando si verificassero nuove perdite di valore da parte dell’Euro - è proprio notizia recentissima la decisione della BCE di procedere con un’ulteriore svalutazione di tale valuta -, condurrà la Banca Nazionale a doverne comprare considerevoli quantità; e, peraltro, questi soldi saranno investiti in titoli di stato europei: questo percorso è senza dubbio irto di pericoli, dato che pone le premesse per l’apertura di un canale di contagio diretto delle problematiche vissute dall’eurozona sino in Svizzera. E, inoltre, recentemente, a manifestare il proprio scetticismo circa la scelta unilaterale del cambio fisso, è stato l’ormai ex-banchiere Oswald Grübel (già CEO di UBS), che ha posto l’attenzione sul probabile indebolimento dell’Euro.3 La posizione della BNS non è peraltro agevole poiché un sua eventuale svolta, nella direzione di un ritorno alla situazione precedente, sarebbe alquanto nefasta per la sua credibilità. Inoltre, le importanti perdite di bilancio che ne conseguiranno, ostacoleranno la distribuzione dei dividendi a Confederazione, Cantoni e Comuni. E, dato che una trasformazione netta nei cardini della politica elvetica non è realisticamente ipotizzabile, laddove si ponesse la necessità di andare a riprendere quanto dissolto da queste scelte, saranno le fasce popolari a subire lo scossone maggiore, con le politiche dei tagli alla spesa pubblica e allo stato sociale. Nel marzo 2012, Pelin Kandemir Bordoli, capogruppo del Partito Socialista (PS) nel Granconsiglio ticinese, proponeva al governo cantonale di farsi sentire a Berna affinché il cambio fisso salisse a 1.4, comprando quindi ulteriore valuta. La deputata socialista, di fatto, riprendeva una medesima richiesta presentata, nell’autunno 2011, da parte dell’Unione Sindacale Svizzera (USS).4 Ciò s’inseriva nell’argomento principale che aveva sostenuto l’approdo ad un cambio fisso, ovvero la questione delle esportazioni – il cui eventuale decremento avrebbe causato lo scemare degli utili, ponendo le premesse per la soppressione di un numero considerevole di posti di lavoro.5 Tuttavia non appare chiaro in quale modo

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una moneta più concorrenziale possa portare dei miglioramenti concreti ai lavoratori; l’unica cosa certa è che una nota positiva sarà quella relativa ai profitti degli imprenditori privati, dato che le aziende – in un’economia di mercato - hanno il potere di decidere liberamente i loro margini di profitto. Non vi è alcuna clausola che preveda la redistribuzione di eventuali sovrappiù verso i salari, né tantomeno una che includa la creazione di nuovi posti di lavoro. Tali posizioni rimarcano, da parte della socialdemocrazia, una forma di subalternità rispetto agli interessi e alle conseguenti prospettive padronali, e denotano la sostanziale assenza di una visione più ampia del problema e, di riflesso, di una ricetta alternativa credibile. Si consideri, peraltro, che il cambio fisso apre ulteriormente – e senza prevedere le misure contro-tendenti necessarie in ogni relazione bilaterale – il Paese alle istituzioni europee, le quali sono tutto fuorché un’entità volta a potenziare il sostegno alle classi popolari. In virtù della fissazione del cambio Franco-Euro, nel caso – certo remoto - in cui l’assetto dell’eurozona si dovesse scomporre, anche la Svizzera sarebbe interessata dagli smottamenti monetari che ne seguirebbero. Qualora, per fare un esempio, la Germania scegliesse di distaccarsi dall’Euro – magari in tandem con altri Paesi ad essa similari (Olanda, Finlandia, ecc.) - coloro che mantenessero la moneta unica potrebbero usufruire di una cosiddetta «svalutazione competitiva», che si presenterebbe in termini piuttosto consistenti; un potenziale “neo Marco”, dal canto suo, invece, andrebbe a proiettarsi verso tassi di cambio molto alti, sia nei confronti del Dollaro sia nei confronti dell’Euro e, probabilmente, anche nei confronti del Renmimbi cinese. Grazie ad una conformazione dei processi produttivi orientata al medio-alto valore aggiunto, con beni (meccanica di precisione, beni di lusso, utensili avanzati, ecc.) che richiedono tempo, energie e investimenti massicci per essere alla portata della concorrenza, la Germania potrebbe tendenzialmente riuscire a fronteggiare una rapida ascesa dei prezzi delle proprie esportazioni; e, per di più, in conseguenza dello svilupparsi del link con la Repubblica popolare Cinese – si consideri in primis l’aumento considerevole delle esportazioni verso di essa – un potenziale percorso di rivalutazione, per lo Stato tedesco, potrebbe rivelarsi quantomeno sostenibile. Per quanto riguarda la Svizzera, in un tal ipotetico scenario, ad essere nodale sarà la scelta da compiersi in relazione alla collocazione monetaria. E, certamente, il fatto che sia stato formalmente fissato uno sposalizio tra il Franco e la moneta europea, offre già alcune indicazioni prospettiche. E, infatti, sempre in un tal ipotetico scenario, nel caso in cui il legame Franco-Euro permanesse, potremmo assistere alla fine del ruolo di “rifugio finanziario globale” e cioè ad una decisa perdita di credibilità presso i detentori di capitali internazionali, con il conse-

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Si veda: http://goo. gl/1XwGEC

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Alfonso Tuor, exvicedirettore del Corriere del Ticino e noto economista, afferma che, nel maggio 2012, la Banca Nazionale Svizzera (BNS) «è dovuta intervenire sui mercati dei cambi spendendo almeno 65 miliardi di franchi per acquistare euro e così frenare il calo del suo tasso di cambio». Cooperazione (giugno 2012)

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Si veda: http://goo.gl/ q7VW0s

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Si veda: http://goo.gl/ gdEeaF

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Daniel Lampart, portavoce economico dell’Unione Sindacale Svizzera (USS), parlò di oltre 100’000 posti di lavoro a rischio. Si veda: http://goo.gl/MGSLZA


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Si veda: http://goo.gl/ B6FG0I

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Si veda: http://www. sinistra.ch/?p=2366

8

Si veda: http://www. bk.admin.ch/themen/ planung/04632/index. html?lang=it

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guente deflusso degli stessi verso la più “appetibile” Germania – un’evoluzione non certo indelicata. Qualora, invece, si optasse per sciogliere un tale stringete legame, il nostro Paese si incamminerebbe, grosso modo, sul sentiero che poco sopra si è delineato per la Germania. In pochi oserebbero negare che si tratterebbe di un’avventura impervia, irta di pericoli: ma pare, anche e soprattutto, la scelta più lungimirante, segnatamente se si consideri – pur con tutte le precauzioni del caso - la somiglianza tra Svizzera e Germania. Certo, come sopra ricordato, si tratta di uno scenario – quello relativo alla scomposizione dell’eurozona – poco probabile. Esso, tuttavia, soprattutto in virtù del suo valore di svolta radicale, rappresenta un esercizio che ci aiuta a meglio comprendere il peso imponente delle scelte prese in campo geo-valutario. Un’ipotesi più prossima alla realtà, d’altra parte, potrebbe essere quella concernente il proporsi, da parte della sterlina inglese, quale moneta di rifugio internazionale; e, inoltre, il fatto che ivi si sta costituendo un legame con il renminbi - la valuta cinese - accrescerebbe questa posizione da parte della sterlina; e tutto ciò parallelamente all’indebolimento della valuta europea, che nell’attuale configurazione coinvolgerebbe in questo tragitto anche la valuta elvetica. Il nostro Paese, in ogni caso, al fine di prevenire le conseguenze nefaste della rivalutazione del Franco – così da non doversi considerare cagionevole in rapporto a questa eventualità e così, quindi, da non procedere a scelte medio-strategiche ben discutibili quali il cambio fisso - potrebbe e dovrebbe sviluppare due tronconi fondamentali: da una parte rafforzare massicciamente il settore della produzione ad alto valore aggiunto; dall’altra sviluppare relazioni di cooperazione economica in forma multi-polare, superando ogni configurazione che prevede un sistema di blocchi escludentisi (in questo senso l’Accordo di Libero Scambio siglato con la Repubblica Popolare Cinese va nella giusta direzione). È peraltro necessario sottolineare come le aziende elvetiche che esportano, beneficiano dei termini di un “franco forte” nel momento in cui procedono all’acquisto della materie prime necessarie alla produzione – ch’è vantaggioso proprio in virtù di questa condizione. Nel 2012, in tal senso, il finanziere ticinese Tito Tettamanti aveva sottolineato come l’economia elvetica, nell’anno precedente, fosse cresciuta del 3% nonostante il “franco forte”; nella sua analisi, inoltre, aveva puntato l’attenzione sulla detenzione, da parte del nostro Paese, di «nicchie che ci permettono di pretendere prezzi alti».6 Conclusioni Il nodo centrale che concerne le riflessioni sopra realizzate va ricercato nella necessità di una politica di indipendenza monetaria, nonché di equidistanza. Mattia Tagliaferri, nel 2012, aveva sviluppato concretamente tale discorso postulando la possibilità di ●●

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una nuova configurazione dei meccanismi valutari elvetici, e cioè lo statuto di inconvertibilità della moneta, che permetterebbe di dirigere politicamente le scelte strategiche potenzialmente adottabili in un simile sistema. Tagliaferri, inoltre, sottolineava che, «conditio sine qua non per concretizzare l’inconvertibilità della moneta, sarebbe l’adozione del monopolio statale del mercato con l’estero, ma sarebbe comunque possibile mantenere delle fette di mercato in mano ai privati, entro però determinati piani di sviluppo economici, i quali andrebbero preparati dall’intellighenzia economica sotto la supervisione del Consiglio Federale, e successivamente ratificati dalle Camere federali».7 Questo preciso sviluppo, peraltro, si lega a uno degli scenari già pensati dal Consiglio Federale con il documento analitico concernente le possibili strategie per il futuro, denominato “Prospettiva 2025”.8 Appare illusorio, come fatto da gran parte della sinistra, motivare secondo gli interessi delle fasce popolari il sostegno al cambio fisso Euro-Franco. I provvedimenti concreti e con sicuro esito positivo per il mercato del lavoro elvetico sono ben altri. Partendo, per esempio, dall’abolizione dell’antisociale IVA allo scopo di rivitalizzare quei settori in vera difficoltà come il turismo. Con gli utili della BNS si potrebbero sostenere le aziende effettivamente in difficoltà, con l’acquisizione pubblica di parte del capitale e imponendo alle medesime il divieto di licenziare per motivi economici. E, infine, appare necessaria la ridefinizione del ruolo della BNS come organismo al servizio dei bisogni sociali della popolazione: è in tal senso auspicabile che gli utili di questa vadano destinati allo stato sociale, come al rafforzamento dell’AVS.


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La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto

di Massimiliano Ay Al di là delle cifre sulla quantità di lavoratori frontalieri presenti sul nostro territorio, il dato politico che ci deve interessare è il fatto che essi risultano attivi professionalmente in settori economici tendenzialmente a basso valore aggiunto. Ovviamente assistiamo anche a una “fuga di cervelli” dall’Italia che vanno a sopperire lacune in settori di punta nella Svizzera italiana, ma la grande maggioranza dei lavoratori frontalieri non si scosta da quanto sopra. Ciò ci deve spingere alla riflessione e come marxisti dobbiamo capire come delineare una via d’uscita da questa impasse dove l’effetto di sostituzione della manodopera locale con operai più facilmente ricattabili sta creando un serio malessere sociale a tutto vantaggio dell’estrema destra. ●● Dopo il 9 febbraio siamo in una nuova fase storica? A seguito dell’accettazione in votazione popolare dell’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” lo scorso 9 febbraio 2014 i rami ad alto valore aggiunto, come quello dell’industria delle macchine, si ritrovano politicamente indeboliti a Berna, rispetto agli ambiti che creano invece meno ricchezza, come l’agricoltura. I comparti orientanti all’export avranno problemi legati ai costi di reclutamento del personale, cosa che potrà determinare un rincaro dei prodotti, rendendoli meno competitivi sul mercato internazionale. Ecco perché, in questo contesto, la sinistra di classe deve saper essere all’altezza della nuova fase storica e spingere affinché il Paese non solo si apra a nuove forme di cooperazione con potenze emergenti, ma sappia riformare anche il suo modello economico e formativo. La promozione, insomma, di un Paese che, a tutto vantaggio dell’occupazione, dia risalto alla produzione interna di punta, contrastando invece un mercato del lavoro unicamente concentrato sull’economia speculativa e finanziaria, nonché su servizi e professioni non concorrenziali nell’ambito di un’economia globale che – per quanto non ci piaccia – è oggi il dato materiale da cui non è realisticamente fattibile scostarsi, perlomeno sul corto periodo. È evidente, però, in questo contesto, che occorre procedere con una prassi riformatrice atta a regolamentare i flussi di capitali e a favorire il più possibile realtà a chilometro zero. Nel contempo dobbiamo essere capaci di vedere in questa situazione anche una nuova sfida per costruire un processo rivoluzionario del XXI secolo attraverso una nuova

cooperazione multilaterale di tipo win-win, in cui la Svizzera possa eccellere: non sarà insomma una sterzata “sovranista” fuori tempo massimo che salverà le sorti della nostra economia e del benessere della classe lavoratrice residente! E nemmeno servirà a qualcosa fomentare la guerra fra poveri e l’astio che un’aristocrazia operaia vorrà esercitare drammaticamente su altri settori della medesima classe, come gli immigrati.

Quale alto valore aggiunto? La Svizzera non può insomma fare altro che orientarsi nello sviluppo di settori economici e produttivi ad alto ed altissimo valore aggiunto (produzione e logistica avanzata, medical devices, sensoristica e telemetria, scienze computazionali, biomimicry, health trives, ecc.). Nel solo Canton Ticino esistono già alcune aziende interessanti da questo punto di vista: AGIE, IDSIA, Diamond, Synthes, Medacta. Realtà aziendali che potrebbero, a dipendenza del contesto e dei rapporti di forza, anche essere nazionalizzate come il Partito Comunista aveva ipotizzato nel 2008 a Losone in occasione della vertenza sindacale presso AGIE. In tal senso lo Stato deve investire fortemente nel settore della ricerca e in questa direzione può essere letto il rilancio produttivo delle Officine ferroviarie di Bellinzona con il progetto del Centro di Competenze. Per innovare a livello di prodotto occorre però un’accurata conoscenza dei processi produttivi, con conseguenti costi e rischi imprenditoriali non indifferenti. Proprio per questo il ruolo dello Stato diventa fondamentale: non certo come garante in caso di perdita o per ridurre le imposte al padronato, quanto piuttosto per assumere esso stesso un ruolo di primo piano nello sviluppo economico, che è poi il segreto su cui poggia, sul piano globale, l’emersione dirompente della Cina. Per poter spingere sulla ricerca, lo Stato deve però dare priorità all’innalzamento del livello culturale e formativo della cittadinanza intervenendo cioè sul profilo del lavoratore. ●●

Orientarsi verso una società dei saperi La proposta politica dei comunisti deve essere quindi quella di orientarsi verso «una società dei saperi nella quale assumano un’importante centralità dei poli d’eccellenza situati nei settori ritenuti strategici. Tali poli permetterebbero delle convergenze di carattere dialettico con le micro e piccole imprese di cui oggi ancora abbondiamo, permettendo di dare vita a un percorso virtuoso di know how nei più disparati settori, attraverso la crescita di distretti industriali che dovrebbero segnare un ritorno alla preminenza del capitale effettivo. Ciò permetterebbe di inserirsi all’interno di una divisione internazionale del lavoro rispettosa del multipolarismo che sta emergendo, attorno al quale è necessario modellare l’uscita dalla crisi».1 Una posizione, questa, che se adeguatamente e creativamente riconosciuta come ●●

1

Vitali, F.; M. Tagliaferri (2014): “I problemi del keynesismo nel riuscire a incidere nella struttura della società capitalista”, in: #politicanuova, nr. 3, febbraio 2014.


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DO SSI ER

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Cfr. le Tesi 3.2.6 e 3.2.7 del VIII Congresso della Gioventù Comunista dell’Ecuador, 9-11 agosto 2013.

3 Martocchia, A. (2011): “Che cos’è l’intellettuariato”, G.A.MA.DI.

strategica dal Partito Comunista, può rappresentare addirittura un primo passo verso una almeno parziale programmazione e socializzazione dell’economia nazionale stessa.2 Nell’ottica di garantire una Svizzera prospera, con il minor numero di disoccupati possibile e capace di essere protagonista attiva della costruzione di nuove relazioni di cooperazione economica internazionale a favore di uno sviluppo equo e sostenibile, una profonda riforma anche del nostro modello formativo oltre che professionale va progettata con sempre maggiore urgenza. Non si può insomma continuare con una situazione in cui la Confederazione è costretta ad assumere oggi medici dalla Germania e ingegneri dall’India, perché non ne dispone di un numero sufficiente e adeguatamente qualificato. È impellente, insomma, creare posti di lavoro capaci di avere futuro, in cui il lavoratore residente altamente qualificato, formato, competente e preparato possa essere impiegato con un salario adeguato, senza temere forme di concorrenza al ribasso. Insomma: investire nell’ambito formativo non solo crea cittadini con consapevolezza democratica e spirito critico (evitando le involuzioni autoritarie, reazionarie e qualunquiste tipiche dei momenti di crisi), ma innalza le qualità della forza lavoro indigena permettendole di migliorare il livello produttivo senza temere la concorrenza estera, sia quella della manovalanza frontaliera, sia quella sempre più pressante dei paesi emergenti, con un costo del lavoro più basso e che già oggi stanno dimostrando di essere un’alternativa al declino irreversibile dell’Occidente, ma che (ancora) non dispongono del know how tecnologico in vari ambiti su cui il nostro Paese può invece far valere un vantaggio non indifferente, purché si abbandonino pratiche egemoniche di tipo neo-coloniale. Continuare a investire invece in settori professionali a basso valore aggiunto; quei ruoli cioè che possono svolgere benissimo operai di altri paesi il cui il “costo” del lavoro è – purtroppo – inferiore, sarebbe una scelta potenzialmente disastrosa. ●● La formazione non deve dipendere dalle esigenze padronali di corto periodo Se nei momenti di crescita la concorrenza capitalistica avviene anche con l’introduzione di nuove tecnologie nell’ottica di accrescere la produttività, oggi ci troviamo in una fase storica diversa, in cui il capitalismo occidentale pretende di uscire dalla sua crisi di sovrapproduzione distruggendo forze produttive e intensificando lo sfruttamento di classe dei salariati (dai tagli alle pensioni al blocco dei salari, passando anche per le delocalizzazioni) piuttosto che concentrarsi sull’innovazione. «La produzione e riproduzione del sapere scientifico nei paesi a capitalismo avanzato è adesso per molti versi bloccata: la crisi delle università e degli enti di ricerca, assieme agli attacchi al mondo della scuola e della cultura, sono sintomi di una incipiente desertificazione dei luoghi della formazione delle forze produttive avanzate». 3

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Da un’ottica marxista risalta come estremamente attuale la contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive (cioè il fatto che potenzialmente vi potrebbe essere una estensione quantitativa di manodopera qualificata) e l’inadeguatezza dei rapporti di produzione. In pratica: un’economia di punta necessita di un adeguato livello formativo. Tuttavia la crisi capitalistica accentua la mancata armonizzazione fra forze produttive e rapporti di produzione, il che si traduce in una pauperizzazione della classe lavoratrice (e conseguentemente di una decadenza dell’aristocrazia operaia individuata da Lenin), un allargamento del disagio sociale e quindi del sottoproletariato. Rendere il Paese competitivo (nella declinazione socialista del termine) dal punto di vista economico (e quindi occupazionale) è un processo che deve partire non dalla sottomissione della scuola alle esigenze di corto periodo del padronato, ma al contrario istituendo l’obbligatorietà scolastica fino ai 18 anni, favorendo al massimo una istruzione di grado liceale per ognuno e gettando le basi per una futura formazione politecnica che sappia superare alla base la divisione fra lavoratore manuale e intellettuale. Per implementare una tale riforma occorre anche procedere sul piano pedagogico, abituando i ragazzi al lavoro collaborativo e all’attiva partecipazione sindacale. Va insomma, finalmente, messo in discussione il modello di formazione professionale duale attualmente in vigore a solo vantaggio del padronato, cosa che già nel 2005 veniva proposto invano dal Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA) con l’invito – che tuttavia qui non ci pare più sufficiente – a sostituirlo con un sistema a tre pilastri, il quale, oltre agli attuali due (scuola e azienda), prevedesse un terzo elemento nella costituzione di laboratori pubblici di tirocinio. La carente formazione nell’ambito del tirocinio è la causa dei problemi che oggi si riscontra con vari giovani lavoratori neo-qualificati, incapaci spesso di assumersi responsabilità e di lavorare in maniera autonoma: conseguenza anche qui di un modello educativo paternalista, che toglie ogni spazio di reale autogestione da parte degli allievi e che, in sostanza, li deresponsabilizza a tal punto da renderli quasi degli automi. ●● Manca …la classe dirigente! Ciò che ha reso grande il vecchio Partito Comunista Italiano è stato l’essere un vero e proprio motore di emancipazione sociale delle fasce più umili della popolazione. Ma ciò proprio perché le formava e riconosceva il suo ruolo educatore: dalle Case del Popolo alla scuola quadri delle Frattocchie! L’adeguata preparazione si inseriva in una dinamica disciplinata e organizzata di partito o di sindacato, in cui forgiare la propria coscienza e una “Weltanschauung” di classe, necessaria per assurgere a ruoli di responsabilità nello stesso Partito o per sperare di ambire ad incarichi politici. Oggi invece abbiamo una classe operaia in costante processo di pauperizzazione a se-


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●● Investire nella formazione significa salvaguardare la democrazia Con il termine “sottoproletariato” Karl Marx indicava quella parte del proletariato privo della sua connotazione di classe e composto da chi, a causa dell’eccedenza di manodopera, era disoccupato cronico o veniva occupato irregolarmente, finendo per essere emarginato dai rapporti sociali relativi al processo produttivo da cui erano esclusi. Il sottoproletariato in Marx è considerato parassitario e con una mentalità debole, antisociale e individualista, che la borghesia sfrutta nei momenti decisivi della lotta di classe contro i lavoratori organizzati e coscienti. Oggi porsi il problema di come evitare che le forze conservatrici e reazionarie prendano il sopravvento e ancora utilizzino i sottoproletari per i loro sporchi scopi diventa quindi fondamentale: occorre anzi sol-

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guito della crisi e delle politiche di “austerity”, che viene per di più lasciata a se stessa e che conseguentemente è aggregata da alcuni partiti – la Lega dei Ticinesi, ad esempio (non a caso attiva contro la Kultura) – in un’ottica (spesso virtualmente) “anti-sistema” che nulla ha di emancipatorio ma che ne innalza i componenti a donne e uomini “veri”, gli unici che conoscono la realtà. Si sta così formando una nuova pseudo-classe dirigente di livello estremamente basso che non fa bene né al processo decisionale politico, né all’economia del Paese, né in ultima analisi alla stessa democrazia. E noi marxisti sappiamo quanto «la lotta per la democrazia è parte fondamentale della lotta per il socialismo».4 La politica anzi si converte «in azione senza prospettiva, schiacciata in un eterno presente (…). L’esercizio delle libertà democratiche ne risulta svuotato, ciò che preclude immancabilmente al loro restringimento (…) invocato in nome della ‘politica del fare’ di cui si riempiono la bocca i tribuni».5 Si viene a delineare persino un deficit nella formazione degli statisti, ma non solo: a risentirne è pure la formazione dei gruppi dirigenti dei sindacati e dei partiti operai. Non è un caso se la sinistra ticinese ha difficoltà a disporre di giovani e produce sempre più leader insipidi, prevedibili e banali, quando non sfacciatamente carrieristi. Peraltro tale situazione svilisce la credibilità stessa delle istituzioni borghesi, e ciò – per quanto un comunista possa auspicarlo – in un contesto di forte crisi sociale ed economica e senza un’adeguata coscienza di classe rivoluzionaria (ciò significa partiti comunisti forti, sindacati radicati, e movimenti democratici di massa presenti), può solo dare origini a svolte autoritarie e a fenomeni neo-fascisti. Ci ritroviamo così con una parte di sottoproletariato e di una porzione di classe operaia in forte decadenza sociale, abilmente manovrate da una parte della borghesia, che vive secondo alcuni miti costruiti ad arte da una narrazione collettiva spesso di tipo nazionalistico e sciovinistico, dove la scuola ha evidentemente delle forti responsabilità.

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lecitare la partecipazione e sviluppare il potenziale di lotta degli emarginati. Per farlo c’è però bisogno di una strategia: la già citata obbligatorietà scolastica fino alla maggiore età, ma anche la formazione politica e il coinvolgimento di massa fin da giovanissimi nei partiti e nei sindacati, la responsabilizzazione dei giovani nel servizio civile (non certamente nel servilismo militare!), il potenziamento delle materie umanistiche soprattutto nelle scuole professionali (dove attualmente la cultura generale è a dir poco umiliata) sono dei primi passi da intraprendere con una certa urgenza e la scuola pubblica deve abbandonare il suo essere una realtà “ovattata” e anzi favorire il confronto politico dialettico nell’ambito educativo. In questo senso i primi ad aver bisogno di tanta formazione politica sono un valanga di neoinsegnanti che, più che intellettuali critici, sembrano tecnici o ligi funzionari.

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Cunhal, A. (1967): “La questione dello Stato – Questione centrale di ogni rivoluzione”, in: “O militante”, nr. 152, novembre 1967, pp. 17-22.

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Arena, A. (2013): “Dove vanno gli italiani?”, Nemesis


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La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile Alessandro Lucchini

1 La produzione di alto valore aggiunto è intesa come creazione di prodotti e servizi caratterizzati da un elevato valore di scambio, cioè valore creato dalla forza lavoro o valore trasferito da macchinari altamente tecnologici i quali trasmettono il lavoro umano utilizzato per la loro progettazione e costruzione. Essa opera come controtendenza alla tendente diminuzione del valore di scambio dei prodotti in un’economia capitalistica.

●● Introduzione Il processo di sviluppo di un’economia ad alto valore aggiunto1 deve avvenire tramite delle riforme di struttura che permettano la sostituzione di un’economia post-fordista scomposta - ove vive un caos produttivo costituito da industrie ancorate all’era fordista e attività terziarie sconnesse - con un’economia della cultura e della conoscenza. La configurazione di una società dei saperi deve sottostare a un piano strategico regionale che abbia compreso il ruolo dell’Occidente nei mutamenti economici mondiali. Per sottrarsi al declino causato dalle politiche di concorrenza al ribasso conseguenti ad una prassi produttiva impostata sul basso valore aggiunto e legate alla modellazione dell’insegnamento scolastico in base alle necessità impellenti del settore privato, bisogna saper riconfigurare l’economia verso la pianificazione dello sviluppo di clusters tecnologici composti da piccole medie imprese (Pmi) dedite alla produzione di alto valore aggiunto. In questa nuova configurazione economica lo Stato deve saper recitare un ruolo centrale, dettando gli obiettivi strategici e le linee guida dello sviluppo dei distretti, aumentando la qualità dell’insegnamento, il quale promuova lo spirito critico e innovativo, e coordinando la sinergia quadripolare tra la stessa entità statale, i lavoratori, i poli formativi e le Pmi.

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Il capitale fittizio è un elemento onnipresente nello sviluppo delle diverse società del passato ma è elemento centrale nella società capitalista ed è fortemente accumulato nell’attuale fase caratterizzata dalla finanziarizzazione dell’economia.

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Con la definizione di nuove potenze mondiali ci riferiamo principalmente ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e SudAfrica).

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La globalizzazione economica si è sviluppata in conseguenza delle necessità di muovere una controtendenza rispetto alla caduta del saggio medio di profitto.

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Il declino del dollaro come moneta di riferimento negli scambi commerciali è conseguente agli accordi sempre più frequenti tra le nuove potenze che preferiscono, e possono, non passare obbligatoriamente dalla moneta a stelle e strisce.

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●● La necessità di una nuova configurazione economica La crisi strutturale dell’economia capitalistica, alla cui base sta principalmente la caduta tendenziale del saggio di profitto, ha permesso la formazione di diverse contro-tendenze, che hanno favorito lo sviluppo di nuove regioni rilevanti a livello economico e conseguentemente politico. Il dislocamento di aziende produttive verso paesi offrenti un basso costo del lavoro e una maggiore facilità di accaparramento di risorse materiali e immateriali, e la vasta esportazione di capitale fittizio sovraccumulato2, ha permesso l’accumulazione primaria di capitale che ha dato il via alla formazione di vere e proprie nuove potenze mondiali3, che oggigiorno competono per la prima volta sui mercati internazionali (delle risorse primarie, dei prodotti intermedi e di quelli finali). Queste nuove realtà, sebbene diverse tra loro, presentano caratteristiche simili. Esse vivono un periodo di forte industrializzazione economica che, essendo ancora nella sua prima fase, è caratterizzata da produzioni a basso valore aggiunto. I BRICS,

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sull’onda di questa fase del loro sviluppo economico, riescono a produrre prodotti e servizi di basso valore aggiunto a costi relativamente inferiori a quelli delle aziende con sede in occidente. Lo sviluppo della globalizzazione economica4, che permette di ridurre le distanze geografiche favorendo l’integrazione dei mercati nazionali, favorisce l’immissione di questi prodotti competitivi in un unico mercato internazionale. La decisione occidentale di intraprendere la competizione internazionale sul terreno di un’economia in maggioranza di basso valore aggiunto porta con sé le inevitabili problematiche legate al dumping salariale, che, da una parte, è strumento della classe dominante per estorcere sempre più plusvalore ai lavoratori e dunque rientrante in un discorso di massimizzazione dei profitti, e dall’altra serve a mantenere competitive su scala mondiale le produzioni a basso valore aggiunto. La rincorsa al basso valore aggiunto favorisce inoltre una desertificazione industriale, dovuta sia alle delocalizzazione di questo tipo di produzioni, sia alla cessazione dell’attività. L’attuale declino dei paesi occidentali è, da una parte, naturalmente conseguente allo sviluppo delle nuove potenze5, dall’altra è il risultato di scelte politiche basate sugli interessi di breve periodo della classe dominante, i quali non considerano gli sviluppi geo-economici mondiali a livello strategico. La mancata conversione della struttura economica verso una produzione ad alto valore aggiunto, che permetterebbe di immettere sul mercato prodotti e servizi internazionalmente difficilmente sostituibili, è dovuta principalmente agli interessi privati, che preferiscono continuare a godere dei (seppur in declino) vantaggi di un’economia basata sul basso valore aggiunto, sfruttando la manodopera locale e la messa in concorrenza dei lavoratori immigrati. Inoltre, perseguire lo status quo permette di evitare gli ingenti investimenti e le rivoluzioni organizzative necessarie alla programmazione di una nuova configurazione economica. Il declino occidentale, inoltre, invece di essere risolto attraverso politiche economiche di riforma strutturale, viene frenato attraverso l’aggressione imperialista, allo scopo di mantenere6 gli storici vantaggi nell’accaparramento delle risorse naturali e umane. In una visione strategica di lungo periodo, il ruolo dell’Europa dovrà essere quello di proporsi quale portatrice di know how e di alto valore aggiunto alle relazioni internazionali 7, trovando così il suo spazio nell’edificazione di una nuova divisione del lavoro propria di un mondo multipolare. L’Europa dovrà essere uno degli elementi fondanti di una forma di cooperazione internazionale triangolare, dove l’alto valore aggiunto dell’Europa, le risorse naturali dei paesi ancora sottosviluppati e il capitale fisico, umano e monetario dei paesi emergenti si uniscano sulla base dell’obiettivo comune dello sviluppo omogeneo del mondo, verso un mondo multipolare, in cui si affermi il rispetto dell’indipendenza reciproca.

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I clusters composti da aziende ad alto valore aggiunto Il cluster 9 è la configurazione strutturale ideale per organizzare la produzione secondo i criteri dell’alto valore aggiunto. I clusters, inseriti nella struttura di un’economia ad alto valore aggiunto, sono un insieme d’imprese geograficamente vicine, connesse da relazioni verticali ed orizzontali, che condividono, sotto la direzione statale, una visione evolutiva della sviluppo economico, basato sulla sinergia in ambito innovativo, al fine di aggiornare periodicamente i lineamenti di un’economia ad alto e altissimo valore ●●

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aggiunto. Sebbene la vicinanza territoriale sembri in contrasto con i recenti cambiamenti tecnologici, quali la diffusione dell’informatica e delle telecomunicazioni, le esperienze internazionali di successo mostrano come la concentrazione geografica rappresenti un indubbio fattore di successo.10 Questi clusters sono caratterizzati da aziende che producono beni e servizi tra loro complementari, i quali favoriscono la naturale propensione alla sinergia in ambito innovativo, disincentivando così la competizione tra le aziende nello stesso cluster. Rispetto ad altre strutture organizzative sovra-aziendali, i clusters permettono la condivisione di processi conoscitivi e tecnologici11 capaci di avviare processi innovativi in ambito locale ma con valenza internazionale, i quali spingono le aziende coinvolte ad utilizzare lavoro qualificato pronto ad essere parte integrante del processo operativo ed innovativo dell’azienda. ●● La nuova configurazione economica: la sinergia quadripolare e la struttura dei clusters favoriscono l’innovazione La sinergia quadripolare favorisce l’osservazione, la discussione, il confronto tra soluzioni differenti di lavoratori, aziende, poli informativi ed entità pubbliche operanti sullo stesso territorio. La sinergia quadripolare favorisce lo sviluppo e la diffusione della conoscenza, disincentivando la corsa alla sua privatizzazione rappresentata dal sistema dei brevetti. La sinergia in ambito innovativo, elemento fondante per il raggiungimento di un’economia ad alto e altissimo valore aggiunto, è garantita in questa nuova configurazione economica da svariati elementi: in primo luogo dalla condivisione tra i diversi attori economici degli obiettivi generali (e dalla loro pianificazione) impartiti strategicamente dall’entità statale e parallelamente dall’alto grado di complementarità dei beni e servizi ad alto valore aggiunto prodotti nei clusters, e più in generale dalla natura stessa della sinergia quadripolare. Essa, infatti, mettendo in continuo confronto quattro entità innovative e dunque potenzialmente portatrici di alto valore aggiunto, favorisce la condivisione della conoscenza principalmente per due ragioni: la condivisione dell’innovazione è più performante se condivisa con gli altri attori poiché discussa e validata da esperienze passate e previsioni future. Inoltre, ogni impresa valuta positivamente il suo inserimento nella sinergia quadripolare in forma di clusters, poiché essa permette di fruire di un continuo aggiornamento circa le innovazioni sviluppate dalle altre entità. Non da ultimo sotto questa nuova configurazione economica si vengono a formare rapporti fiduciari e di scambio fondati sulla reputazione, che penalizzano comportamenti individualistici nella gestione della conoscenza, favorendo così la duratura sinergia tra i soggetti. In una simile configurazione economica assume importanza, sul mercato mondiale, non solo l’immagine della singola azienda,

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●● La società dei saperi In questo contesto, per l’Occidente, e quindi anche per la Svizzera e il Ticino, l’unico possibile sviluppo è legato alla costruzione di una società dei saperi che si concentri su una produzione ad alto e altissimo valore aggiunto. In Svizzera, questa direzione, è in parte già percorsa (basti pensare che gran parte delle esportazioni elvetiche sono composte da prodotti ad alto valore aggiunto), ma tale prassi avviene in modo sconnesso, senza una strategia globale di lungo periodo, lasciando gran parte delle decisioni ai singoli privati, che non considerano le capacità innovative dei lavoratori e preferiscono percorrere la via della competizione invece che quella della sinergia aziendale e extra-aziendale. A differenza di quello che è osservabile oggi in Svizzera, in una società dei saperi il problema centrale non è quello di sviluppare prodotti ad alto valore aggiunto promuovendo allo stesso tempo la competitività delle imprese tramite una maggiore produttività del lavoro e la riduzione dei costi. Una società dei saperi, invece, si basa su un modello di sinergia quadripolare capace di assicurare un flusso continuo d’innovazione condizionato dalle competenze dei lavoratori. La sinergia quadripolare è composta da quattro attori. Essa si basa sul legame tra: l’istituzione pubblica, che detta la linea strategica e ne pianifica la sua realizzazione impartendo i vincoli che le imprese devono rispettare per poter operare in un ambiente altamente performante; una formazione sconnessa dagli interessi privati che favorisca lo spirito critico e innovativo dei lavoratori; un tessuto di piccole e medie imprese, in quanto organizzazioni flessibili e facilmente controllabili; i lavoratori, portatori del valore aggiunto. Nella società dei saperi, dunque, le competenze sono il risultato di un lungo e complesso processo di apprendimento di tipo interattivo tra le quattro componenti. In questa prospettiva la competitività dell’economia locale dipende da un insieme di fattori tra loro collegati, tra i quali ha un’importanza cruciale lo sviluppo di processi di apprendimento e di reti di conoscenza e di innovazione su scala territoriale. Questa struttura di sinergia quadripolare permette, sotto determinate condizioni, di generare un circolo virtuoso di sviluppo.8

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Questi vantaggi stanno via via svanendo soprattutto a causa del ruolo della Cina in Africa e in Medioriente. La Cina, che dagli anni ‘90 va riaffermandosi come potenza mondiale, ha potenziato il proprio impegno in Africa. Dal 2000, gli scambi sino-africani sono andati sempre più intensificandosi, il volume degli investimenti cinesi in Africa è notevolmente aumentato ed è cresciuta la cooperazione allo sviluppo offerta dalla Cina ai paesi africani, nella quale rientra anche l’esperienza acquisita dal paese in materia di riduzione della povertà. Secondo la politica ufficiale di sviluppo della Cina, la cooperazione è improntata al rispetto della sovranità, alla solidarietà, alla pace e allo sviluppo, senza ingerenze negli affari interni e nella ricerca del beneficio reciproco (cooperazione win-win). (Commissione delle comunità europee, 2008, UE, Africa e Cina: verso un dialogo e una cooperazione trilaterali)

7 Le relazioni internazionali europee dovranno diversificarsi nel tempo staccandosi così dagli Stati Uniti in declino e superare le pratiche neo-coloniali favorendo una cooperazione win-win. 8

Per ulteriori informazioni sulla collaborazione tra entità statale, imprese e poli formativi si veda: Etzkowitz, H., & Leydesdorff, L., The Dynamics of Innovation: From National Systems and ‘‘Mode 2’’ to a Triple Helix of UniversityIndustry-Government Relations, 2000, Research Policy, 29(2), 109-123.

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Nell’accezione inglese il cluster indica «a group of similar things growing together»

10 Si veda: Laura Bottinelli, Enrica Pavione, Distretti industriali e cluster tecnologici: strategie emergenti di valorizzazione della ricerca e dell’innovazione, Giuffrè Editore, Milano 2011 11

I clusters favoriscono l’intensificarsi di „economie di raggio d’azione“ o „economie di scopo“ derivanti dalla produzione congiunta di prodotti diversi con comuni fattori produttivi (know-how, risorse, impianti, ecc.)


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R E I S S O D 12 Un discorso simile è trattato in Paul Krugman, Development, Geography and economc theory, The MIT Press, 1995 13 Il rapporto di vicinanza tra alcuni tipi di distretti aziendali e la realtà territoriale in cui operano è trattato in Giacomo Beccattini, Enzo Rullani, Sistema locale e mercato globale, in Economia e politica industriale, n. 80/1993

14 Questa tesi è condivisa in: Laura Bottinelli, Enrica Pavione, Distretti industriali e cluster tecnologici: strategie emergenti di valorizzazione della ricerca e dell’innovazione, cit. 15 In questo articolo il termine Pmi è utilizzato per identificare sia le piccole (meno di 50 lavoratori) e le medie imprese (meno di 250 lavoratori) che anche le microimprese (meno di 10 lavoratori).

quanto più quella del distretto nel suo complesso. In questo modo si rafforza l’elemento di collaborazione tra le aziende e gli altri attori economici poiché la singola azienda non è più riconosciuta per le sue caratteristiche produttive ma bensì per essere parte del cluster. L’immagine dinamica e innovativa del cluster diventa elemento qualificante e caratterizzante per la scelta di acquisto del consumatore finale. Allo stesso modo, sui mercati di approvvigionamento, si vengono a creare significative opportunità di economie di scala per le imprese appartenenti al cluster. Attraverso la sinergia in ambito innovativo ogni singola azienda è inserita in un ciclo d’innovazione più dinamico rispetto a quello comunemente presente nella singolarità della ricerca e dello sviluppo aziendale. Questo favorisce la volontà d’inserimento delle singole aziende in clusters sinergici; esse saranno così disposte a modificare la loro produzione dal basso all’alto valore aggiunto, rispettando i vincoli statali concernenti il suo inserimento nel distretto. All’interno di questi clusters, si forma, tendenzialmente, un senso di appartenenza che è la base di un approccio associativo volto allo sviluppo di un governo comune del sistema produttivo locale che porti alla creazione di associazioni, consorzi, forum ed altri strumenti istituzionali di collaborazione. Questa sinergia o integrazione in termini produttivi e cognitivi tra le imprese è certamente d’importanza cruciale al fine di porre le premesse per la nascita di nuove imprese ad alto valore aggiunto. Lo sviluppo dei distretti è, in tal senso, concepito come un processo cumulativo in grado di autoalimentarsi, e in cui avviene un aumento della creazione di nuove imprese sul territorio. Questo processo, dando vita ad una concorrenza aziendale per la manodopera locale, crea una spirale inflazionista dei salari. Questa circostanza, a sua volta, stimola l’ingresso di nuove imprese attratte da un mercato del lavoro fiorente, generando in tal modo un circolo virtuoso di crescita del distretto, dei salari, e della produzione ad alto valore aggiunto.12 ●● La nuova configurazione economica e il legame con il territorio Allo scopo di favorire lo sviluppo di reti innovative capaci di unire le aziende nei clusters alle altre entità potenzialmente innovative sul territorio e favorire così lo sviluppo di un’economia ad alto valore aggiunto, i clusters devono agire su una dimensione locale e regionale. La diffusione di questa configurazione economica favorisce l’evolversi di un modello aziendale fortemente radicato sul territorio, che faciliti l’accumulazione locale di conoscenze tecniche specializzate. La comunità locale partecipa attivamente al processo produttivo, rinnovando conoscenze e competenze attraverso processi di condivisione che molto spesso hanno natura informale. Questi processi di condivisione generano saperi taciti, che sono stati a lungo riconosciuti come la principale fonte di vantaggio competitivo dei distretti.13

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Diversamente dalla grande impresa verticalmente integrata focalizzata sul perseguimento di economie di scala interne, l’impresa distrettuale riconosce nei legami con la comunità di riferimento un patrimonio intangibile, sul quale fondare il proprio sviluppo. Il legame con il territorio rappresenta un incentivo alla specializzazione del distretto, traducendosi in know how localmente diffuso e funzionale all’innovazione continua. Nell’ambito del distretto il territorio non rappresenta solo l’ambiente di riferimento nel quale le imprese operano, ma soprattutto il luogo in cui si creano, si accumulano e si condividono quelle conoscenze critiche per il processo produttivo difficilmente trasferibili attraverso i convenzionali canali informativi.14 L’insieme dei valori che la comunità locale esprime costituisce uno dei requisiti preliminari per la formazione di un distretto e una condizione fondamentale per il suo sviluppo futuro. Alle già esistenti comunità di piccole e medie imprese basate sui valori della tradizione famigliare, sembra necessario aggiungere i valori trasmessi dalla sinergia quadripolare, dalla partecipazione dei lavoratori e dallo sviluppo sostenibile. ●● Il ruolo delle micro, piccole e medie imprese per l’innovazione Le caratteristiche organizzative e la loro naturale predisposizione alla cooperazione in ambito innovativo qualificano le Pmi15 come elemento centrale della nuova configurazione economica funzionale allo sviluppo di un’economia ad alto valore aggiunto. In confronto alle grandi imprese le Pmi innovano spesso in modo più informale, condividendo contatti basati su legami personali e duraturi. Esse sono predisposte ad imparare per lo più da altre imprese simili, con le quali condividono, in parte, la base conoscitiva. Le Pmi innovano utilizzando in modo più intenso le loro risorse umane; nella loro attività, inoltre, la qualità della forza lavoro gioca un ruolo determinante rispetto alle grandi imprese. Esse sono dunque spinte a migliorare la formazione dei lavoratori e a collaborare con loro intimamente per stimolare il trasferimento tecnologico e i processi di apprendimento. Esse inoltre necessitano maggiormente di fonti esterne d’innovazione e perciò tendono naturalmente alla creazione di relazioni a forma di rete, che sono estremamente efficaci per promuovere l’innovazione. Le performance innovative dipendono molto dall’apertura dell’impresa verso l’esterno e dalla capacità interne di tipo organizzativo. Le Pmi, rispetto alle grandi imprese, sono vincolate localmente e dipendono in misura maggiore dal loro ambiente istituzionale, sociale e locale. Esse sono radicate sul territorio da una serie di relazioni e quindi il contesto locale rappresenta un fattore fondamentale nel generare l’innovazione.


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●● Il ruolo dello Stato Lo sviluppo di un approccio strategico allo sviluppo locale di un’economia ad alto valore aggiunto richiede che le istituzioni pubbliche locali individuino specifici partner strategici con i quali stabilire una relazione sinergica stabile. Queste sono reperibili negli elementi precedentemente citati per definire la sinergia quadripolare (polo formativo, lavoratori e impresa). Il ruolo dello Stato all’interno di questa nuova configurazione economica è quello di dettare gli obiettivi strategici e le tempistiche della transizione dell’economia verso l’alto e l’altissimo valore aggiunto. Si tratta, fondamentalmente, di adottare una fresca e attualizzata prassi di programmazione dell’economia. Lo Stato, inoltre, determina la regolamentazione che i diversi attori, specialmente le imprese, devono rispettare per poter godere dei vantaggi dell’inserimento nei clusters e nella sinergia quadripolare. Le Pmi, ad esempio, dovranno sottostare a determinati parametri lavorativi, come un salario minimo più che dignitoso, contratti collettivi per tutti i lavoratori, ecc. e regolamentazioni riguardanti il rispetto dell’ambiente. L’entità pubblica ha inoltre il ruolo di coordinatore e supervisore della sinergia quadripolare. Essa organizza regolarmente con le imprese, i lavoratori e i poli formativi scambi di conoscenza e controlla e ridefinisce gli obiettivi. Essa inoltre mette a disposizione degli altri elementi partecipanti alla sinergia quadripolare le infrastrutture necessarie al funzionamento del cluster. Ai lavoratori, inoltre, offre una formazione di alto livello, generalista, che promuova lo spirito critico e innovativo, e che si distanzi dagli interessi privati. Alle aziende mette a disposizione infrastrutture e servizi adeguati che incentivino nuove aziende a far parte del cluster e ad allineare la loro produzione agli obiettivi di una transizione verso un’economia ad alto valore aggiunto. Lo Stato, infine, assicura il finanziamento degli investimenti innovativi orientati all’alto valore aggiunto, ad esempio mettendo a disposizione dei fondi appositi per nuove Pmi disposte ad incamminarsi su questa via e che rispettano i parametri lavorativi e ambientali. La creazione di nuove entità innovative richiede quindi una politica esplicita degli enti locali che miri a valorizzare le relazioni di complementarietà tra le diverse imprese e i quattro attori sinergici che aiuti le stesse a rendere più solide sia le loro relazioni in rapporto alla domanda su scala nazionale e internazionale, sia il loro radicamento nel sistema produttivo locale. E’ quindi necessario promuovere lo sviluppo di reti internazionali e collegare tra loro le Pmi inserite nei diversi clusters al fine di sviluppare progetti comuni su scala nazionale e internazionale. Pertanto l’istituzione pubblica deve mirare a convertire la conoscenza individuale delle singole entità in conoscenza organizzata e strutturata, non solo a livello regionale, ma anche nazionale e internaziona-

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le. Esso, inoltre, deve facilitare l’acquisizione rapida dall’esterno di conoscenze, che sono essenziali per la competitività del sistema produttivo regionale considerato.16 ●● La partecipazione dei lavoratori La realtà distrettuale esalta le peculiari capacità dei lavoratori e il loro grado di qualificazione. All’interno della descritta struttura economica i lavoratori sono protagonisti e collaborano multilateralmente con gli altri partner, acquisendo però, rispetto alla situazione odierna, una parte di potere decisionale vincolante e tutelate dalla legge. La formazione del lavoratore è poi da considerarsi continua, poiché esso è inserito in un ciclo innovativo dove, appunto, è perennemente coinvolto. Le qualifiche lavorative, pertanto, non sono dettate – come oggi accade - dai rapporti di forza preponderanti dell’imprenditore sul lavoratore, ma saranno di responsabilità sindacale. La partecipazione delle maestranze è quindi determinante nel quadro della sinergia quadripolare, benché si dovranno creare le condizioni quadro affinché non si scada in un collaborazionismo di stampo interclassista che castri la lotta di classe. Ciò può essere escluso non solo tramite un serio e vincolante controllo democratico degli operai sugli apparati sindacali, ma anche prendendo in considerazione il fatto che la sinergia quadripolare, in effetti, favorisce un sostanziale miglioramento dei rapporti di forza a vantaggio dei lavoratori rispetto allo status quo, ed è da concepire come un primo passo verso la diretta autogestione dei mezzi di produzione. Questa configurazione economica garantisce nel tempo, infatti, lo sviluppo della coscienza di classe nel suo rapporto con il lavoro produttivo.

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16 Per maggiori informazioni vedi: Riccardo Cappellin, Sviluppo locale e reti di conoscenza ed innovazione, 2002 (http://goo.gl/4zx43X)

R E I S S O D ●● Il ruolo del basso valore aggiunto nella società dei saperi Lo sviluppo di un’economia ad alto valore aggiunto non presuppone l’immediata scomparsa delle produzioni a basso valore aggiunto nell’economia; sotto determinate condizioni e per il medio periodo esso può essere funzionale allo sviluppo di una società di saperi. Ciononostante, il settore della produzione a basso valore aggiunto, nella forma in cui si presenta oggigiorno, va riformato nelle sue contraddizioni, che si presentano con il dumping salariale e con la guerra fra poveri. Per questa ragione, in questi settori, devono crescere la protezione sindacale e sociale. Se l’Occidente vuole evitare la strada del declino imboccata e giocare il ruolo di polo di riferimento per il know how su scala mondiale, la produzione di basso valore aggiunto deve essere, nel tempo, progressivamente riconvertita verso una produzione di valore aggiunto, favorendo così l’instaurarsi della configurazione economica sopra-descritta. Questa riconversione deve essere incentivata tramite gli indubbi vantaggi che offre l’inclusione delle imprese in clusters tecnologici e la sinergia quadripolare.


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Con l’espressione “Trenta Gloriosi”, coniata dall’economista francese Jean Fourastié, si intende il periodo di crescita economica dell’Occidente registrato tra la fine della seconda Guerra mondiale e la crisi petrolifera del 1973.

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Documento politico per il XXII Congresso Cantonale del Partito Comunista, “Consolidare il Partito; diventare un’alternativa reale a sinistra”, sezione A “Individuare le caratteristiche di fase dello sviluppo imperialista”. Si veda: http://goo.gl/8dupps

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Quella parte della classe operaia che, avendo raggiunto un certo benessere economico, si allea con la borghesia. Ad essa si riferisce Engels quando parla degli «operai perfettamente imborghesiti per la momentanea prosperity». Lenin condusse una battaglia contro il dilagare di questo fenomeno che aveva assunto proporzioni drammatiche sul piano ideologico, perché induceva confusione nelle masse minandone l’unità, e sul piano politico per le connessioni con l’opportunismo e il revisionismo. (Dizionario Enciclopedico Marxista – www.resistenze.org)

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Si veda: Giulio Sapelli, Elogio della piccola impresa, Il Mulino, Bologna 2013; Pompeo Macaluso, Storia del Partito Socialista Autonomo, Armando Dadò Editore, Locarno 1997.

5 Si pensi al caso svizzero dello sciopero generale del 1918. 6 Documento politico per il XXII Congresso Cantonale del Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC), “Consolidare il Partito; diventare un’alternativa reale a sinistra”, sezione A “Individuare le caratteristiche di fase dello sviluppo imperialista”. Si veda: http://goo.gl/8dupps

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No al disavanzo: un elemento delle politiche di austerità

Mattia Tagliaferri

La crisi economica ha portato in auge l’adozione delle cosiddette politiche d’austerità - non solo in Europa ma, seppur in tono minore, anche in Svizzera e in Ticino - la cui attuazione ha visto un ruolo di primo piano anche della socialdemocrazia. L’introduzione del freno al disavanzo, approvato in votazione popolare lo scorso 18 maggio, è una delle misure rigoriste che sta impoverendo le classi meno abbienti occidentali, e pure nel Cantone potrebbe avere risvolti negativi. Le politiche di austerità È ormai dall’inizio della corrente crisi economica che, in tutta l’Europa occidentale, si sente parlare delle misure di austerità, volte al contenimento dei debiti sovrani attraverso una riduzione della spesa pubblica imposta dalla Banca Centrale Europea (BCE) a tutti i paesi dell’Eurozona. Con l’applicazione delle politiche di cosiddetto rigore finanziario, la prima istituzione ad essere colpita è lo stato sociale contemporaneo, il quale - rispetto alla sua prima fase di vita, nel momento dello sviluppo della società di massa durante i Trenta Gloriosi1 - era già stato ridimensionato dall’ondata neoliberista conseguente alla crisi del modello capitalistico basato sul sistema di produzione fordista.2 L’attacco in corso al welfare state e ai diritti ad esso connessi, potrebbe anche portare verso la definitiva rimozione dello stato sociale che abbiamo conosciuto nella seconda metà del Novecento. Ciò in quanto le ripercussioni sui lavoratori salariati - e più in generale sulle classi sociali meno abbienti, considerando che vanno prese in analisi anche le peggiorative condizioni dei pensionati, degli studenti, ecc. - stanno portando alla messa in discussione della leniniana aristocrazia operaia3, saldamente costruita negli anni di sviluppo economico del Dopoguerra, sia in conseguenza della crescita della mobilità sociale a partire dagli anni Cinquanta4 (senza naturalmente dimenticare il ruolo giocato dalle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta) sia quale deterrente nei confronti del blocco sovietico, fonte d’ispirazione di molte lotte politiche fin dal momento della Rivoluzione d’ottobre5, e pertanto quale elemento di divisione della classe operaia a livello globale.6 Emblematica è la situazione della Grecia, paese che - a seguito proprio delle politiche economiche imposte dalla BCE (si pensi al pacchetto di risparmi di 13,5 miliardi di euro approvato dal parlamento ellenico nel novembre 20127) - ormai si trova confrontato con un tessuto produttivo decisamente sgretolato. Anche la Svizzera non è immune ●●

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da una politica di smantellamento dello stato sociale, il quale sta subendo dei notevoli ridimensionamenti che stanno rovesciando il principio di sussidiarietà che dovrebbe vigere nel rapporto tra la Confederazione e i cantoni, e quindi scaricando parte degli impegni finanziari verso entità statuali minori (favorendo così, indirettamente, la concorrenza fiscale tra cantoni). Esempio lampante in questo senso è la quarta revisione della LADI.8 Il ruolo della socialdemocrazia europea La critica più immediata (e mediaticamente più popolare) che viene mossa contro le politiche di austerità, è quella che si limita a vedere nella strategia della BCE un insieme di misure controproducenti per la ripresa dell’economia, in quanto essa non permette - andando a colpire, attraverso lo smantellamento del welfare state, il potere d’acquisto delle classi sociali meno abbienti9 - un aumento del consumo aggregato. È questa, ad esempio, la posizione del Partito del Socialismo Europeo (PSE)10, e conseguentemente di tutti i partiti nazionali che ne fanno parte11, il quale probabilmente non comprende (o non vuole farlo) la natura della crisi che stiamo vivendo: non congiunturale, ma strutturale e addirittura sistemica. La comprensione della natura della crisi economica è un punto determinante per l’elaborazione di una conseguente strategia che riesca a produrre delle proposte politiche efficaci per il superamento dello stato di cose presenti. Il primo aspetto da tenere in considerazione per una comprensione della crisi è la causa originaria della stessa, ovvero la crisi del ruolo egemonico degli Stati Uniti a livello economico e geopolitico, in modo particolare quale detentore della valuta internazionale di riferimento, e quindi della capacità/possibilità degli USA di imporre il dollaro al resto del mondo12 (è proprio qui che sta l’elemento sistemico dell’attuale contesto di crisi), e non la questione del debito pubblico europeo, la quale è una conseguenza e pertanto non considerabile come contraddizione primaria.13 Secondariamente va esaminata la natura dei problemi di debito pubblico in Europa, i quali non sono tanto figli di una politica “spendacciona” - si pensi al sentimento antipolitico di lotta alla “casta” fortemente radicato in Italia, ma pure al populismo della lotta ai “fuchi di Stato” visibile in Ticino - quanto di un disegno economico neoliberista, resosi particolarmente aggressivo dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, per mezzo del quale si è operato un trasferimento della ricchezza dagli organi statuali14 a una ristretta cerchia di facoltosi capitalisti, attraverso la svendita di beni pubblici15 e soprattutto tramite gli sgravi fiscali.16 Di fronte a questa situazione non si può più riproporre una politica di matrice keynesiana, in quanto la stessa è intrinsecamente legata alla ridistribuzione di una ricchezza fondata sulla prassi imperialista e, pertanto, è da un lato, sulla scorta delle analisi e delle condanne all’imperialismo fatte da ●●


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Lenin17 e da Bucharin18, da criticare politicamente, mentre dall’altro è da considerarsi economicamente inefficace in una fase di distruzione di capitale come quella corrente.19 ●● Freno al disavanzo Anche il Canton Ticino si è allineato al resto dell’Europa nell’adozione delle politiche di austerità, in modo particolare con l’introduzione del freno all’indebitamento, approvato in votazione popolare lo scorso 18 maggio: una versione nostrana del fiscal compact.20 L’ancoraggio alla Costituzione del principio qui considerato è stato argomentato in base alla possibilità che il debito pubblico, in un futuro prossimo, raggiunga livelli destabilizzanti, a causa di un presunto aumento continuo della spesa pubblica; e, quindi, indirettamente mostrando che ci troviamo in un contesto (per ora) differente dal resto di buona parte dell’Europa, in cui il debito sovrano ha già raggiunto livelli molto alti. I partiti di governo, quindi, si sono mossi secondo una sorta di “spirito di prevenzione”. In realtà, tanto l’evoluzione del debito pubblico ticinese quanto l’aumento della spesa pubblica, mostrano un trend tutt’altro che allarmante, come ha sottolineato Matteo Pronzini, deputato in Gran Consiglio della lista MpS-Partito Comunista: «Nei primi anni ‘80 il debito pubblico del cantone si è costantemente tenuto al di sopra del miliardo. Ha raggiunto, per l’esattezza nel 1983, la cifra di 1’226’319 mila franchi. Come si vede cifre simili a quelle raggiunte in alcuni degli anni più recenti (2007,2008, 2009) e non molto lontane dal miliardo e 400 milioni fatto segnare dal consuntivo 2012. Potremmo anche aggiungere, per restare alle cifre reali, che il miliardo debito di pubblico era pure stato raggiunto e superato verso la fine dello scorso millennio (1998 e 1999). […] ricordiamo l’evoluzione della spesa pro-capite negli ultimi dieci anni. I dati del cantone ci dicono che essa è aumentata del 15% circa. Se togliamo l’inflazione abbiamo, nell’ultimo decennio, un aumento di circa il 7% della spesa pro-capite».21 Considerando i rapporti di forza attuali, un freno al debito pubblico è per forza di cose un freno al welfare state - e pertanto un fardello per le classi sociali meno abbienti poiché è difficile che Governo e Parlamento intravedano la priorità sul versante delle entrate statali.

Le riforme di struttura Vanno messe in campo delle riforme di struttura fondate su una comprensione del capitalismo postfordista, ormai privo di una produzione industriale massificata, e incentrato su una struttura terziarizzata e particellizzata: il cosiddetto capitalismo della cultura e della conoscenza.22 Questa prospettiva viene sviluppata all’interno del Dossier contenuto nel presente numero di #politicanuova. Contestualmente all’evoluzione della struttura economica in Europa e negli Stati Uniti, la risposta alla crisi - e conseguentemente anche all’austerità - è la pro●●

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grammazione da un lato di un’economia ad alto valore aggiunto - più che mai necessaria per arginare il pericolo di non trovare una giustapposizione concorrenziale del mondo occidentale nella divisione internazionale del lavoro che sembrerebbe emergere dalla costituzione di un mondo multipolare, frutto da un lato del decadimento occidentale e dall’altro dell’emergere di nuove realtà statuali e politiche23 - e dall’altro la salvaguardia dello stato sociale e dei diritti acquisiti nel tempo dalla classe lavoratrice. Un tessuto economico che sappia imporsi in virtù delle performance dei processi produttivi, e non a seguito di controproducenti dinamiche di dumping salariale, è la chiave di volta, spiccatamente strategica, per assicurare un sostanzioso flusso entrate fiscali. Ed è proprio in ragione di ciò che, per quanto riguarda la questione della salvaguardia dello stato sociale, occorre sottolineare la necessità, per i comunisti, di spostare il punto d’osservazione dell’evoluzione delle finanze pubbliche dalla voce delle uscite (rimanendo comunque attenti a non creare degli sprechi, in modo particolare nella gestione consociativista e partitocratica delle commesse pubbliche) a quella delle entrate. A riguardo resta più che mai attuale la proposta del Partito Comunista della Svizzera Italiana della Tassa dei Milionari.24 7 Il Sole 24 Ore, Grecia, il parlamento vota misure di austerità per 13,5 miliardi. Guerriglia urbana tra le vie di Atene, 7 novembre 2012. Si veda: http://goo.gl/3wgb1E

11 Aderente svizzero del PSE è il Partito Socialista Svizzero (PSS).

8 Legge sull’assicurazione contro la disoccupazione, la cui riforma, approvata in votazione popolare il 26 settembre 2010, ha sancito una generale riduzione dei periodi di disoccupa-zione, spostando così parte delle persone senza lavoro sotto la giurisdizione dell’Assistenza sociale.

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9 Come dimostrato da John M. Keynes la propensione marginale al consumo dei redditi più modesti è superiore a quella dei ceti più ricchi. Si tiene qui conto, marxia-namente, della differenza tra classe sociale e ceto, nella consapevolezza che tendenzialmente i redditi maggiori appartengono alla classe sociale dominante. 10

Joint Declaration adopted by the PES Presidency and the S&D Group in the European Parliament, “A Progressive Way Out of the Crisis”. Si veda: http://goo.gl/xRk59n

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Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek, Milano 2013 Mattia Tagliaferri, “Il bombardamento di dollari che spinge la Svizzera nell’euro”. Si veda: http:// www.sinistra. ch/?p=2366.

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Trattandosi dello Stato o di organi direttamente riconducibili allo stesso, la ricchezza qui presa in considerazione è da definirsi come pubblica, nonostante non vada dimenticato il ruolo classista dello Stato stesso. 15 È paradossale: in Europa le maggiori privatizzazioni sono state portate avanti dai governi socialdemocratici, i cui partiti di riferimento compongono proprio il PSE, che oggi propone soluzioni inefficaci al superamento della crisi. Anche nel caso svizzero, in cui emerge la semi-privatizzazione delle ex regie federali, il ruolo del PSS è tutt’altro trascurabile.

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16 Gli sgravi fiscali permettono alle frange più ricche di risparmiare ingenti ricchezze a scapito delle finanze pubbliche: lo Stato è costretto ad aumentare le entrate con l’emissione di titoli di Stato, incrementando il debito pubblico. In buona parte, gli acquirenti dei titoli saranno quei ricchi già alleviati dagli sgravi fiscali, che potranno godere degli interessi relativi agli asset acquistati. Un doppio regalo, insomma. 17

Vladimir I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, La Città del Sole, 2011

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Nikolaj I. Bucharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale, Laterza, 1972

19 Francesco Vitali e Mattia Tagliaferri, I problemi del keynesismo nel riuscire a incidere nella struttura della società capitalista, #politicanuova numero 3 (febbraio 2013) 20

Il fiscal compact è un accordo internazionale approvato il 2 marzo 2012 dagli stati membri dell’UE (con le eccezioni della Gran Bretagna e della Repubblica Ceca), concernente le regole vincolanti per l’equilibrio dei bilanci pubblici.

21 Matteo Pronzini, Freno all’indebitamento, uno strumento per attaccare la spesa pubblica!. Si veda: http://goo.gl/nuxHNO 22 Allen J. Scott, Città e regioni nel nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna 2011 23

Il riferimento è prevalentemente rivolto alla Cina, ma certamente allargabile a tutti i paesi dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).

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Si veda: http:// tassadeimilionari. wordpress.com/


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Le sostanze stupefacenti nella società del capitalismo contemporaneo Stefano Robertini Al fine di effettuare una lettura globale ed esaustiva circa la questione del proibizionismo occorre, anzitutto, chiarificare la problematica riguardante la diffusione delle droghe nel contesto sociale odierno, modellato attorno a coordinate capitalistiche. Si possono, in tal senso, distinguere tre ben definiti momenti analitici: capire in che misura il fenomeno della droga presenta dinamiche di classe, mettendo in rilievo gli interessi che lo determinano; capire come nasce il proibizionismo, chi ne beneficia e quindi chi lo sostiene; ragionare attorno ad effettive risposte ai problemi legati alla droga, che permettano di affrontare direttamente la questione. Il fenomeno delle droghe, una realtà di classe Il primo passo da fare in rapporto alla problematica delle droghe è in realtà un passo indietro. Per osservare la questione in modo realmente obiettivo appare infatti necessario disfarsi di tutti quei pregiudizi che la cultura dominante, da diversi anni a questa parte, propina nei confronti di chi fa uso di sostanze stupefacenti. Questi schemi mentali, infatti, portano ad assumere un’impostazione moralista, ch’è fonte di irrigidimento e segregazione sociale, e che, quindi, ostacola sin dall’inizio un’apertura (scientifica) rispetto a tale tematica. Ciò, di fatto, distoglie l’attenzione dalla vere radici del problema, portando non già alla sua risoluzione, bensì alla vera e propria emarginazione dei soggetti che vengono a cadere in questa realtà. In primo luogo, dunque, occorre inserire tali fenomeni all’interno dei meccanismi di funzionamento dell’attuale sistema sociale ed economico. Solo in questo modo è possibile risalire alle cause scatenanti, che sono, appunto, sostanzialmente determinate dai lineamenti che caratterizzano la società contemporanea, e segnatamente dalle sue contraddizioni. Nel concreto, crediamo esista un nesso logico e conseguente tra la struttura della società capitalista e le problematiche attualmente imperanti: il malessere sociale, le difficili condizioni di lavoro, le scarse prospettive occupazionali (come, infatti, poter costruire un futuro personale sostenibile senza la garanzia di un reddito dignitoso?) e, soprattutto per le nuove generazioni, la mancanza di spazi aggregativi, sono tutti fattori che incidono in modo gravemente negativo sulla salute di una società. Ed è proprio in questi frangenti che s’inseriscono le sostanze stupefacenti: esse, infatti, possono venire individuate quali vie attraverso cui rifuggire dai problemi patiti. Di rimando, a livello sovrastrutturale, un ruolo im●●

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portante lo gioca anche un individualismo sfrenato, che distrugge la coscienza di un malessere collettivo per rimpiazzarlo con un malessere individuale (ciò rende meno immediata una reazione ai problemi poiché ridotti ad una dimensione individualista, nella quale il soggetto si rinchiude nei “propri” problemi ricorrendo eventualmente al consumo di droghe). Il modello economico capitalista, quindi, con le sue naturali devianze sul mercato del lavoro, si pone come componente importante nello stimolo all’assunzione di sostanze stupefacenti. Basti pensare ai fenomeni della disoccupazione e dell’assistenza sociale che, se non accompagnati da misure di sostegno adeguate (e qui, riferendoci alla realtà ticinese, il Dipartimento della Sanità e della Socialità (DSS) dovrebbe fare molto di più invece di trincerarsi dietro al costo della spesa sociale, non capendo che la stessa rappresenta in realtà un investimento), possono condurre all’assunzione di sostanze per combattere il senso di smarrimento, la mancanza di identità di chi si ritrova senza scuola o lavoro e soprattutto senza obiettivi e ambizioni per il proprio futuro. Anche chi un lavoro invece l’ha, è comunque a rischio: basti pensare a settori dove i ritmi di lavoro sono serrati e la fatica – anche fisica – è molta. In questi contesti diventa facile ricorrere all’assunzione di sostanze psicoattive stimolanti – come la cocaina – per riuscire a stare al passo con le richieste del mercato. Per non assolutizzare il dibattito sul tema, occorre pertanto anche distinguere il rapporto intrattenuto con la sostanza, per non perdere mai di vista il contesto che spinge determinate persone ad avvicinarsi alle droghe: l’assunzione di sostanze, causata da quest’ultimi fattori, non può essere infatti analizzata alla stregua del traffico che ne sta a monte. ●● Il proibizionismo: la maschera politicoculturale dell’ipocrisia È importante, nell’ottica di completare il quadro della nostra analisi – il che è fondamentale al fine di mettere in campo proposte veramente esaustive ed efficaci -, volgere lo sguardo ad un altro importante versante della questione, ovvero quello concernente gli interessi in gioco, soprattutto a livello finanziario e politico. In primo luogo si considerino i grandi profitti che, il cosiddetto triopolio economico – ovvero il monopolio dell’industria alimentare per quanto riguarda vino, birra e superalcolici; quello dell’industria farmaceutica per quanto riguarda psicofarmaci a largo consumo come benzodiazepine, anfetamine, sostanze dopanti, ecc. ); e quello della criminalità organizzata per quanto riguarda hashish, marijuana, eroina, cocaina, Mdma, ecc. –, ottiene a seguito di questa particolare conformazione della diffusione delle sostanze stupefacenti. Questi settori, infatti, determinano un commercio integrato nelle reti di scambio internazionali che, realizzando ingenti profitti, vedono spesso an-


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che coinvolti governi, alta finanza, grandi imprese, criminalità organizzata, ecc. Di conseguenza, la frangia dei potenziali interessati al fatto che questo vasto e multiforme panorama resti attivo secondo la sua odierna modalità di funzionamento (essenzialmente privatistica), è folta e, soprattutto, munita di rapporti di forza (politici ed economici) assolutamente importanti. Il secondo aspetto che deve essere messo in luce concerne il fattore di controllo sociale insito nel consumo di droga: per la dipendenza prodotta, per le ripercussioni psichiche e fisiche che in caso di abuso si possono presentare, questo fenomeno è spesso risultato un buon strumento nell’ottica di dissuadere i tentativi di organizzazione da parte delle classi popolari, e per impedire il diffondersi stesso d’una coscienza classista (si pensi, ad esempio, alla celeberrima Central Intelligence Agency (CIA), che specialmente verso gli anni Settanta introdusse sostanze stupefacenti negli ambienti della contestazione studentesca, per meglio controllarla e per spingerla al disimpegno politico).

Struttura e sovrastruttura? E cioè? 2 «La struttura economica è definita da Marx come l’insieme dei rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali della società. In altri termini ogni formazione economico-sociale ha una base reale, concreta, che la caratterizza come epoca storica e come modo di produzione, diverso in epoche storiche diverse. La struttura è l’elemento determinante, il fattore decisivo che imprime a una società il carattere generale di un modo di produzione: per esempio la società capitalistica è contraddistinta da una struttura economica dominata dai rapporti di produzione capitalistici e non potrebbe sussistere qualora questi rapporti fossero caratterizzati dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. A cominciare dal periodo in cui la divisione sociale del lavoro ha assunto un’importanza rilevante e ha condotto alle prime divisioni in classi, sulla struttura - secondo l’espressione di Marx - si «eleva una sovrastruttura giuridica e politica», e alla base reale «corrispondono forme determinate della coscienza sociale». «La sovrastruttura è quindi in primo luogo tutto il complesso delle istituzioni, di cui la più importante è lo Stato: secondo Engels «Lo Stato ci si presenta come il primo potere ideologico sugli uomini».

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Il proibizionismo, per di più, rappresenta una prassi coercitiva, che, veicolando messaggi moralisti e criminalizzanti, oltre a nascondere le reali radici del problema, determina un’involuzione securitaria della società. Quest’ultimo aspetto si ricava in modo emblematico dalla legge Fini-Giovanardi1, proposta in Italia nel 2006: intensificando la repressione contro i reati minori legati agli stupefacenti ed equiparando le droghe pesanti a quelle leggere, era volta a schiacciare i consumatori sotto una disciplina ferrea e moralizzante. Inutile dire che, soprattutto in rapporto alle fasce giovanili, un simile approccio risulti assolutamente improduttivo se non fonte di ancor più aspri conflitti intergenerazionali. Il sovrapporsi dell’interesse economico (del triopolio) con quello coercitivo-politico dà vita ad una sorta di contraddizione, che viene risolta mediante la maschera del proibizionismo. La contraddizione consiste nel fatto che, proibendo formalmente il commercio e il consumo della droga, ne viene mantenuto il traffico illegale, andando così a soddisfare il primo interesse. Ma, d’altra parte, le droghe cir-

In secondo luogo appartengono alla sovrastruttura tutte le manifestazioni culturali, artistiche, religiose, filosofiche, morali e in generale tutte le idee che gli uomini elaborano con la loro riflessione. Le sovrastrutture sono il riflesso mediato, cioè non meccanico, ma dialettico, dei rapporti reali che intervengono tra gli uomini nel momento della produzione materiale. Secondo l’espressione di Marx, una società non può essere giudicata per le idee che essa ha di se stessa, così come un uomo non deve essere giudicato per ciò che dice di essere, ma per ciò che fa. Ad esempio nella società capitalistica potrebbe essere dominante per una certa fase una produzione intellettuale improntata al razionalismo e un’organizzazione statale liberale o democratico-borghese, e per un altro periodo una produzione intellettuale sostanzialmente irrazionalista e un’organizzazione statale fascista: ma ciò non modificherebbe, in modo sostanziale, la natura effettiva dell’epoca storica in cui va inserita questa società. Tra struttura e sovrastruttura si verifica, secondo il marxismo, un continuo processo di azione reciproca. A questo proposito Marx ed Engels hanno più volte ribadito che il materialismo storico non dev’essere interpretato come una concezione che privilegia in senso assoluto e schematicamente l’analisi economica della struttura, trascurando lo studio del ruolo che le istituzioni, la cultura, le ideologie e tutti i fenomeni sovrastrutturali, possono esercitare, influenzando in modo talvolta decisivo il corso dello sviluppo storico».

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1 Il testo completo della legge: http://goo. gl/9X8JiU 2 Dizionario enciclopedico marxista: http://goo.gl/g2fzqt


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colano – anche se ufficialmente proibite -, anche perché, da parte della classe dirigente, non si è mai verificato un efficace contrasto del commercio di droghe gestito dalla criminalità organizzata; quest’ultima – addirittura –, in determinate realtà statuali, ha talvolta beneficiato della stipula di “accordi sottobanco” con le autorità statali. Lo statuto d’illegalità delle droghe, inoltre, nell’ottica della volontà di conseguire un irrigidimento della società, consente di esercitare un’accresciuta repressione sui consumatori. Il proibizionismo, di conseguenza, agendo su fronti apparentemente antitetici, non è altro che un modo efficace con cui fare “buon viso a cattiva sorte”. ●● L’antiproibizionismo come soluzione progressista e di rottura Per quanto appaia anomalo, può essere utile concludere considerando la ‘‘buona fede’’ di alcuni fautori del proibizionismo. Nessuno, in tal senso, oserebbe negare che qualsivoglia abuso di sostanze stupefacenti risulti dannoso. E, dunque, un efficace, sostenibile e credibile discorso a favore di un’impostazione antiproibizionista, oltre a volgere lo sguardo verso le cause scatenanti, necessita anche di una riflessione a proposito del fine “disciplinante” che le politiche proibizioniste sostengono d’avere nei confronti dei consumatori. Ma, sulla base di tale concetto, e non considerando l’odierna struttura sociale, il tema concernente la mancanza di “autodisciplina e responsabilità” dei consumatori, finisce per classificarli semplicemente come coloro che non sono in grado di badare a se stessi, e che di conseguenza non possono che essere sanzionati e stigmatizzati. Il fatto che, nonostante i molteplici deterrenti, molti continuino a fare ricorso alle droghe, deve tuttavia portare a concludere che non sempre sussistono le condizioni materiali per evitarne il consumo – e non, invece, che le sanzioni non sono abbastanza severe per indurre il soggetto a smettere. Anche in relazione a ciò, e in un’ottica di classe, il proibizionismo rappresenta, sostanzialmente, una risposta di carattere sovrastrutturale a una problematica che, dal canto suo, detiene profonde radici nella struttura dell’odierno sistema economico. E, quindi, i principi e la prassi proibizionista, distorcendo la reali cause del fenomeno, ne impediscono la risoluzione, garantendo di conseguenza il perpetuarsi degli interessi ruotanti intorno al grande spaccio; e fornendo uno strumento ulteriore di controllo sociale. Ed è quindi proprio in virtù di ciò che, una seria politica antiproibizionista, rappresenta una risposta capace di rompere gli interessi di classe che attualmente ruotano attorno alle droghe. In tal senso l’attività promossa dall’Associazione Cannabis Ricreativa Ticino (ACRT) ha senz’altro contribuito, attraverso uno studio ragionevole e ben documentato, ad alimentare un dibattito fondato su solide basi progettuali ed analitiche; l’avvio di un

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progetto pilota nel nostro Cantone (purtroppo recentemente bocciato dal Consiglio di Stato), inteso a regolamentare la produzione, la distribuzione e il consumo della cannabis e dei suoi derivati, rappresenta infatti una proposta lungimirante ed equilibrata nonchè un interessante stimolo per costruire una più ampia intesa antiproibizionista. Occorre, da un punto di vista marxista, porsi un ultimo, fondamentale interrogativo, ch’è la diretta conseguenza di quanto fino ad ora argomentato. Ovvero: internamente al sistema capitalista – con le sue insolubili contraddizioni – è possibile eliminare definitivamente il consumo e la distribuzione delle droghe? Ciò appare ben arduo, data l’intimità delle problematiche sopra menzionate rispetto al funzionamento dell’attuale società. Appurato che questo genere di proibizionismo sia comunque la conseguenza di un dato sistema sociale, nonché l’espressione dei suoi interessi di classe, dobbiamo però chinarci sui mezzi più efficaci per combatterlo oggi stesso.

La Gioventù Comunista della Svizzera Italiana (GC), in tal senso, nel quadro di un più ampio impegno nella lotta sociale – rivolto al superamento della cause scatenanti dal fenomeno proibizionista -, si batte al fine di raggiungere i seguenti obiettivi, che saranno, nei prossimi mesi, tema centrale di una strutturata campagna politica: 1. consolidamento di un’efficace politica di riduzione del danno, per quanto concerne i consumatori di droghe pesanti, attraverso la somministrazione controllata di sostanze stupefacenti e sostitutive da parte di strutture pubbliche adeguate e nel rispetto della riservatezza del tossicodipendente; 2. potenziamento e sviluppo di centri d’assistenza, disintossicazione e riabilitazione, che anche attraverso la distribuzione di materiale sterile (siringhe, profilattici, ecc.) siano rivolte alle persone con problemi legati alla tossicodipendenza; 3. depenalizzazione del consumo di droghe pesanti e leggere, unitamente alla loro piena regolamentazione statale nella sfera della produzione, della distribuzione e del consumo; 4. attuazione di un serio programma di prevenzione e sensibilizzazione che, soprattutto fra le nuove generazioni, persegua un’informazione scientifica e scevra da vuoti moralismi, adottando anche metodi innovativi a livello di approccio didattico e comunicativo 5 rilancio di una lotta, ferma e complessiva, al grande traffico di sostanze stupefacenti.


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Luciano Canfora, 1914 Sellerio Luciano Canfora spiega l’origine della Grande Guerra come primo atto della guerra civile europea e baratro in cui precipita la centralità dell’Europa. «Nel 1914 l’Europa era sull’orlo del socialismo, ma anche della guerra; in pochi giorni, in poche ore precipitò nel baratro». Da questa osservazione di Fernard Braudel, coniugata con l’altra notazione critica della prima guerra mondiale come avvio della guerra civile europea in cui si consumò il «secolo

Luciano Canfora: “la vera responsabilità dell’estensione dello scontro da conflitto locale a conflitto europeo e poi mondiale è dell’Inghilterra” #Politicanuova intervista il noto storico, filologo e saggista italiano Luciano Canfora, a proposito della prima guerra mondiale, del cui scoppio quest’anno ricorre il centenario. A cura di Aris Della Fontana 1. Interroghiamo il passato per meglio conoscerci e, anche, per rispondere alle suggestioni che il presente pone. Si potrebbe affermare che un attendibile spaccato d’una società si misura in rapporto alla consapevolezza che questa ha del fondale storico sul quale si è sviluppata. E, alla luce di ciò, come si presenta, all’interno della società odierna, la percezione della prima guerra mondiale? L’anniversario del secolo intercorso ha avuto degli effetti un po’ odiosi: si è rilanciata una sorta di nostalgia della Grande Guerra, con la celebrazione dei luoghi del combattimento. Tale prassi - sostanzialmente cerimoniale - si è manifestata in Italia, ma anche nel Nord Europa, e cioè in Francia, Germania e Paesi Bassi. Si è mescolato, sempre su questa scia, lo sbarco in Normandia (1944) con i fatti del ‘14; un’operazione storiografica decisamente ambigua. Nel caso italiano, peraltro, si è trattato di un processo di stampo quasi nostalgico-revanchista. È stato, sotto questo punto di vista, un centenario abbastanza fastidioso, nel quale – a parte qualche libro intelligente, penso ad una recente opera di Gian Enrico Rusconi1 non si è prodotta storiografia veramente degna di attenzione. 2. Quanto aderisce alla realtà effettuale l’operazione (propagandistica) di rivestimento del conflitto con l’antitesi tra democrazie e autocrazie? È un’impostazione manichea quella secondo cui la democrazia politica – non si capisce se di tipo liberale o quasi – sta dalla parte anglo-francese, e dall’altra, invece, vi è l’autoritarismo prussiano. L’impero tedesco e quello austroungarico costituiscono, dal punto di vista delle dinamiche politico-parlamentari, dei modelli più avanzati rispetto, per esempio, a quello italiano. La Germania, per quanto riguarda il parlamento imperiale, ha una struttura moderna; è stata tra le primissime a instaurare il suffragio uni-

breve», muove il racconto del fatidico 1914. L’anno della guerra è rappresentato come la conclusione della corsa a rotta di collo tra guerra e rivoluzione.

versale maschile; tutto ciò, anche se smussato dalla sostanziale prevalenza dei ceti dominanti tradizionali, che nella Camera prussiana governano senza contrasti2, attesta l’energia portata dalla spinta democratica e le possibilità a disposizione dell’opposizione.3 Nessun altro paese europeo, inoltre, aveva un movimento operaio e sindacale così organizzato e potente come quello tedesco. In Inghilterra, all’insegna di un conservatorismo sostanziale, si ha un meccanismo elettorale nel quale il suffragio universale non è attuato4 e vige un rigoroso maggioritario a collegio uninominale, che annulla la rappresentanza dell’opposizione tutte le volte che questa è soltanto una forte minoranza. In Francia vige una legge elettorale maggioritaria, rigorosamente penalizzante per il suffragio universale; a ciò si aggiunge la corruzione, la clientela politica e il peso dei notabili. L’antitesi in questione non regge nemmeno se volgiamo lo sguardo al rapporto intrattenuto dall’Inghilterra con la Russia – della quale tutto può dirsi tranne che fosse una «democrazia». Con l’accentuarsi e inasprirsi del conflitto, peraltro, le varie libertà politiche, di fatto, saranno ridotte dovunque. E, pertanto, siamo di fronte ad una presentazione schematica che è, chiaramente, un prodotto della propaganda, come tale interessante perché la propaganda è interessante di per sé, purché si sappia che è falsa. 3. È sostenibile “distribuire le responsabilità”, cioè postulare, oltre la cortina delle verità ufficiali, la compartecipazione di ambo gli schieramenti nel gettare le basi del conflitto? Oppure tutte le “colpe” vanno ascritte agli Imperi Centrali? Alla guerra si arriva per progressivi scivolamenti. Essa è quindi costituita da numerosi antefatti, che attengono a una convergenza di responsabilità sostanziali, che si è intrecciata con casi fortuiti, contrattempi, ritardi, consegne di ultimatum e così via. Tuttavia, considererei qui una questione specifica, alquanto significativa in riferimento all’economia della responsabilità, e cioè il tentativo, da parte inglese, di trascinare la Russia nell’avventura bellica. Da una parte – è vero – la Russia è tenuta a proteggere le popolazioni slave, e quindi, nel caso concreto, la Serbia; dall’altra, però, sappiamo che, per sua tradizione geopolitica, la Russia non si impegna tanto volentieri in una guerra; vi viene trascinata, ma tendenzialmente la evita; storicamente ha subito le aggressioni: vi è, in tal senso, una sostanziosa tradizione di nazioni (i polacchi, gli svedesi, i francesi, i tedeschi) intenzionate ad invadere questo Paese. L’Inghilterra, dal canto suo, ha assoluto bisogno che la Russia – una massa d’urto formidabile - entri in guerra, e quindi è ben felice dell’incidente di Sarajevo, che costringe la Russia ad avere una posizione molto ostile nei confronti dell’Austria, la quale, in sostanza, interferisce nella gestione dell’inchiesta sull’attentato.5 L’Inghilterra, al fine di far propendere

1 Gian Enrico Rusconi, 1914: attacco a Occidente, il Mulino, Bologna 2014 2 «Accanto al parlamento del Reich, il Reichstag, per il quale i socialisti concorrono con grande successo, esiste [...] il parlamento prussiano, la cosiddetta Camera Alta prussiana, nella quale però il sistema elettorale è completamente diverso – non solo un sistema maggioritario ma addirittura una rappresentanza per “ceto”». Luciano Canfora, 1914, Sellerio, Palermo 2006, p. 36 3 «È vero che la camera imperiale, il Reichstag, era un luogo dove si faceva soprattutto discussione politica; e però è altrettanto vero che era importante per le forze di opposizione avere una sede così autorevole dove manifestare dinanzi a tutta la nazione le istanze dell’opposizione». Ivi, p. 39 4 «In Inghilterra è elettore chi sia o proprietario di una casa, o titolare di un affitto di casa; gli altri non lo sono: il che esclude una quantità notevolissima di persone». Ivi, p. 42 5 «L’inchiesta ufficiale dell’impero austriaco sul delitto di Sarajevo fu realmente un’inchiesta superficiale; gli esiti che essa diede erano tutti già preordinati, era una verità già conosciuta che veniva resa pubblica. In particolare l’inchiesta dimostrò – fra molte virgolette – che a Belgrado il delitto era stato preparato politicamente; [...] in sostanza questo tipo di diagnosi era rivolta unicamente a incastrare in una responsabilità ineludibile il governo della Serbia». Luciano Canfora, 1914, cit., p. 66


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6 «Il termine Stretti o Stretti Turchi si riferisce ai due stretti (Dardanelli e Bosforo) che uniscono da una parte il Mar di Marmara con il Mare Egeo e dall’altra il Mar di Marmare al Mar Nero». Il Piccolo Rizzoli Larousse, dizionarioenciclopedia, 2004 7 «Ricordiamo il famoso romanzo di Heinrich Mann, Der Untertan, Il suddito: aiuta a capire come il cittadino attraverso la scuola, attraverso l’esercito, attraverso la disciplina civile particolarmente forte nella Germania, è portato naturalmente all’obbedienza, al conformismo, a fare quello che il governo gli dice di fare». Luciano Canfora, 1914, cit., p. 132 8

«Conferenza internazionale dei partiti socialisti, tenutasi in Svizzera su iniziativa italiana ed elvetica, per ritrovare la perduta unità d’azione tra socialisti di fronte alla guerra. Approvò un manifesto, redatto da Trockij per una pace senza annessioni. Priva di effetti concreti, offrì una platea internazionale alle posizioni dei bolscevichi». Dizionario di storia moderna e contemporanea online 9 «Convocata nella cittadina svizzera dalle componenti socialiste della seconda Internazionale ostili alla Prima guerra mondiale, riaffermò la proposta di una pace senza annessioni e senza indennità, ma vi guadagnarono anche largo consenso le tesi di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe». Dizionario di storia moderna e contemporanea online 10

«Uomo politico e storico francese. Deputato nel 1885, dapprima di opinioni moderate, si andò poi interessando a questioni sociali. Prese perciò posizione, nelle legislature alle quali partecipò, per una politica di riforme, dopo il 1905 con radicale intransigenza. Nella crisi europea del luglio 1914, schieratosi tra gli oppositori alla guerra, in nome dell’Internazionale socialista, fu ucciso con un colpo di pistola da un certo R. Villain». Enciclopedia Treccani online

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la Russia verso l’entrata in guerra, le offre la possibilità d’attraversare gli Stretti6, di far transitare la flotta nel Mar Nero e di accedere al Mediterraneo. È quantomai necessario, infatti, operare un accerchiamento della Germania – da secoli l’Inghilterra era interessata, con cura quasi gelosa, affinché nessuna potenza s’insediasse sul continente europeo -, andando ad infrangere, di fatto, la politica bismarckiana, che consisteva nell’evitare il formarsi di un soggetto nemico ad est (il fatto di collocarsi tra due potenze, infatti, avrebbe significato, tendenzialmente, soccombere). E, quindi, la vera responsabilità dell’estensione dello scontro da conflitto locale – magari aspro, ma pur sempre conchiuso – a conflitto europeo e poi mondiale è proprio dell’Inghilterra, che tanto s’impegna allorquando capisce che la Germania può essere accerchiata. 4. Qual lettura dare della sciagurata decisione da parte dei partiti socialisti di abbandonare l’internazionalismo e di votare i crediti di guerra? I socialisti europei ebbero nel luglio-agosto del ‘14 il loro grande momento, in cui avrebbero potuto fare la scelta giusta e decisiva, e invece fecero la scelta sbagliata, che agevolò enormemente lo scoppio del conflitto, il consolidarsi del conflitto. Essi furono posti dalla guerra dinanzi ad un’alternativa: aderire al conflitto e con ciò determinare una situazione paradossale dal punto di vista dell’ideologia e della pratica del movimento socialista – unito in una Internazionale, appunto, socialista – e di schierare operai tedeschi contro operai francesi, operai italiani contro operai austriaci; oppure boicottare, combattere contro i governi che la guerra l’avevano voluta e quindi porsi fuori da quel coro osannante dell’«unione sacra», in una posizione certamente difficile. La drammatica discussione apertasi fu motivo di un dilaniarsi all’interno di ciascun partito. In Germania, il 4 agosto del ‘14, il Reichstag viene posto dinanzi alla perentoria richiesta di votare a favore dei crediti di guerra. E i partiti tutti – socialisti compresi - votano a favore. Solo in un secondo momento, dinanzi all’evolversi della situazione, dinanzi alla trasformazione della guerra-lampo in guerra di posizione, in guerra di trincea, cominceranno a entrare in crisi le loro certezze. E comincerà a farsi strada un concetto di cui Karl Liebknecht in particolare, e Rosa Luxemburg sono artefici: che cioè il nemico principale (nel caso della Germania) del popolo tedesco è il governo tedesco (un concetto che ovviamente rasenta il crimine di tradimento passibile di una persecuzione giudiziaria, come infatti accade). Un’impostazione del genere rimane ultra-minoritaria – quasi una testimonianza – per varie ragioni, ivi compreso il fatto che ormai da decenni il partito socialista stesso si è messo sul terreno «legale», di adesione all’ordine costituito, e dunque non facilmente

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può spostare i propri militanti su di una posizione così radicale, lucida certo, fondata, ma molto impopolare rispetto al «senso comune»7. Una storia di progressiva immissione nell’ordine costituito, di adesione ai pilastri della società capitalistica, faceva inevitabilmente propendere, dinanzi all’alternativa della guerra, per l’opzione peggiore: l’opzione che andava nella direzione di rendere sempre più forte l’economia tedesca onde ottenere un benessere diffuso e quindi una maggiore possibilità di successo per il partito. Fu un colpo mortale per il movimento socialista il fatto che il maestro dei socialismi, cioè il partito tedesco, si comportasse in questa maniera; la sua scelta, quindi, si riverbera sulle altre formazioni nazionali. L’Internazionale si suicida nel momento in cui ogni partito opta per il suo rispettivo governo: così agiscono tedeschi e francesi; gli italiani, invece, per diverso tempo mantengono una posizione cosiddetta di “guerra alla guerra”. Lenin, che rappresenta una piccola frazione dello schieramento politico – praticamente illegale, nonostante le riforme e la Duma – è senza alcun dubbio, fino e dove può – a Zimmerwald (1915) 8, a Kienthal (1916) 9 – contro la guerra, e quindi appoggia quelle frazioni dei partiti socialisti europei che hanno una posizione di contrarietà rispetto alla guerra. Queste ultime, tuttavia, sono tutte soccombenti, soprattutto dopo l’uccisione di Jean Jaurès10, un personaggio autorevolissimo che avrebbe potuto imporre un diverso orientamento, perlomeno ai socialisti francesi, ove è forte la componente sciovinista. 5. Nel concorrere delle cause, quanta centralità occupa l’aspra concorrenza tra i grandi interessi spartitori ed egemonici nell’ambito coloniale? La diagnosi leniniana è esauriente nell’indagare le cause prime scatenanti del conflitto? La spartizione coloniale è pienamente in atto negli anni che precedono immediatamente la guerra, e anche le piccole potenze, se possibile, vi compartecipano. Con ciò si comincia a profilare la situazione che fa da sfondo al conflitto: le potenze europee sono sul piede di guerra e stabiliscono alleanze di convenienza funzionali ai fini spartitori. E, dunque, la compartecipazione alle responsabilità belliche va suddivisa fra tutti, perché tutti sono protesi a non lasciare che il contendente si avvantaggi. L’interpretazione che Lenin presenta circa la cause del conflitto è acuta poiché va al fondo delle cose, e vede alla radice il primum movens di scontri di questa portata. È l’idea di una compartecipazione di tutti – non solo della Germania - alle responsabilità. Egli ha incentrato i suoi molti saggi a proposito della questione sulla nozione secondo cui l’imperialismo in quanto tale – fase ultima dello sviluppo capitalistico – produce conflitti inter-imperialistici, e quindi, immancabilmente, guerra. Si tratta, per così di-


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re, di una predisposizione fisiologica al conflitto, e ciò in virtù del fatto che l’imperialismo è fondato sulla competizione tra i grandi paesi protesi alla spartizione del globo al fine del controllo delle materie prime, dei mercati e delle aree di investimento. 6. Quale relazione, in Russia, è intercorsa tra guerra e rivoluzione? Con quale margine il ribaltamento che matura in Russia ha esercitato un’influenza all’interno dei contesti nazionali europei? L’Inghilterra – dicevamo – agisce, energicamente, al fine di portare al suo fianco la Russia. Ma ciò che non poteva prevedere sono gli sviluppi politici inediti, cioè, per esempio, il fatto che la guerra – e questo nel Novecento è accaduto più volte, e peraltro già ricorse nella guerra franco-prussiana (1870-1871) – genera movimento rivoluzionario, come all’interno di un intreccio; non poteva prevedere il crollo dell’impero zarista: poteva pensare che la Russia sarebbe uscita ammaccata, che poi avrebbe compartecipato all’eventuale vittoria, che avrebbe dovuto accontentarsi di quanto ottenuto e che, infine, nei suoi confronti sarebbero state disattese le promesse offertegli sullo scacchiere mediterraneo. Invece l’inedito è che, dall’interno, questo gigante si comincia a sgretolare, con la Rivoluzione di febbraio, con l’abdicazione dello Zar, con la caduta della monarchia e con il governo provvisorio, il quale tuttavia continua ad essere alleato delle potenze occidentali e, anzi, vi si riconosce ancor più e ritiene di potersi assimilare – un po’ alla Eltsin, si potrebbe dire – con queste. Ma è un equilibrio che non regge. E, così, all’interno delle potenze tradizionali comincia un processo decisamente inedito. La socialdemocrazia tedesca, già nel settembre del 1917 – e quindi ancora prima dell’Ottobre -, si divide, a seguito, da una parte, del crollo dello Zar e, dall’altra, del disagio interno alla Germania. E, quindi, nasce il Partito Socialdemocratico Indipendente (USPD), che poi confluirà nel Partito Comunista (KPD). Un analogo processo inizia a manifestarsi in altre formazioni nazionali, per esempio in Italia all’interno del Partito Socialista (PSI), che solo dopo la Battaglia di Caporetto11 sceglie la linea patriottica. Abbiamo quindi un panorama frastagliato che comincia a ruotare intorno alla Rivoluzione di Ottobre quale punto di riferimento capace di coagulare tutte queste posizioni. 7. È possibile intendere il ‘14-’18 quale culla del decadimento reazionario degli ordinamenti liberal-democratici e della riconfigurazione delle collocazioni politiche? Alla fine del ‘17 si ha l’intervento statunitense, che è decisivo – è inutile, in tal senso, fingere che la guerra è stata vinta dagli Stati europei contro la Germania. Con il crollo della Russia zarista e con la pace di Brest-Litovsk (1918), la Germania, ad est,

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non ha un nemico nel governo sovietico, e quindi può riversare le forze sul fronte occidentale, puntando sull’offensiva nelle Ardenne, che viene fermata – appunto – con l’intervento statunitense. Dato che questo costituiva l’ultimo sforzo bellico realisticamente possibile per la Germania – dissanguata dall’interno, divisa da conflitti sociali, colpita dagli scioperi nelle fabbriche delle munizioni -, la richiesta della pace si imponeva quale unica soluzione. Il fatto che l’azione statunitense fu causa determinante del crollo verticale germanico, fece presagire qualcosa che non accade subito, ma che era comunque destinato a concretarsi: lo Stato nordamericano comincia ad assumere le sembianze del convitato di pietra della politica europea; Wilson vorrebbe addirittura pilotare la fuoriuscita dalla guerra, con i 14 punti, con la Società delle Nazioni; e nel contempo appoggia l’aggressione contro l’Unione Sovietica, che viene attuata subito. Ma poi, tutto ciò, non viene a concretizzarsi, ed è uno scacco terribile: gli Stati Uniti si chiamano fuori dal trattato di Versailles (1919-1920), lasciando alle grandi potenze europee, essenzialmente Francia e Inghilterra, la libertà di giocarsi tutte le carte della pace a proprio vantaggio. Si giunge, in tal modo, all’umiliazione della Germania, in una maniera inaudita, tale che in altri casi avrebbe messo in ginocchio, definitivamente, il Paese; si concedono delle briciole all’Italia, che essa pretende, ma che, in rapporto alla complessiva condotta di guerra, “merita” ben poco. La politica inglese e, in particolare, quella francese (si pensi alla decisione di occupare la Ruhr con la motivazione del mancato rispetto dei pagamenti dovuti dalla Germania in virtù dei risarcimenti di guerra) - “a noi la parte del leone” - si è appoggiata su una visione abbastanza miope. Il quadro, in questa luce, è tale da preparare il nuovo conflitto: gli Stati Uniti se ne sono andati e quindi l’Europa, di nuovo, è lasciata al suo permanente dinamismo conflittuale; il movimento comunista sembra essere in grande espansione e ciò spinge ad una serie di reazioni su quel versante, che s’incontrano con la volontà punitiva nei confronti della Germania; e, in più, abbiamo una piccola potenza inquieta – il fascismo, infastidito e scontento del trattato di Versailles - che sta già preparandosi ad una svolta politica di tipo aggressivo-imperiale. Tutti gli elementi per un nuovo conflitto sono pronti: questo, i diplomatici occidentali a Versailles, non lo capirono, complice il naturale conservatorismo della diplomazia, la quale non pensa guardando in avanti, ma crede che la storia si ripeta perennemente: conseguentemente si ritenne doveroso, uscendo da una guerra vittoriosa, umiliare lo sconfitto. Tanto più se ciò avesse tolto di mezzo, definitivamente, lo Stato germanico, che costituiva un grande problema, per la sua capacità organizzativa e di ripresa, per le sue risorse, per il suo stile di lavoro e per tante altre ragioni.

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11 «La dodicesima battaglia dell’Isonzo (24 ottobre 1917), durante la Prima guerra mondiale. Le divisioni austrotedesche inflissero presso Caporetto, centro dell’odierna Slovenia, una pesantissima sconfitta alle truppe italiane, guidate dal generale Cadorna, le quali furono costrette a ritirarsi, attestandosi poi sul Piave (9 nov. 1917). Centinaia di migliaia di prigionieri caddero in mano al nemico, insieme a migliaia di cannoni e a grandi depositi di materiali da guerra e alimentari. La rotta subita dalle truppe italiane provocò un vero e proprio trauma nell’immaginario collettivo e nella memoria storica del Paese». Enciclopedia Treccani online


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«(settembre 1919 dicembre 1920). Essendo rimasta inevasa la richiesta italiana (suffragata da un plebiscito) alla Conferenza di Versailles (1919) di annettere la città dalmata, assegnata invece alla Croazia dal patto di Londra (1915), Gabriele d’Annunzio la occupò con una legione di volontari instaurandovi il comando del “Quarnaro liberato”». Enciclopedia Treccani online

13 «(corpi franchi). Unità di volontari che si distinsero per la prima volta, in Austria e Prussia, nelle guerre antinapoleoniche. Nel 1919 lo stesso nome presero i corpi paramilitari dell’estrema destra che repressero il tentativo rivoluzionario della Lega di Spartaco. Sciolti dalla repubblica di Weimar, svolsero però un ruolo primario nel putsch di Monaco (1923) e nel partito nazionalsocialista». Dizionario di storia moderna e contemporanea online

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8. Concretamente, quali dinamiche involutive ha generato l’approccio altamente penalizzante – potremmo dire “distruttivo” - nei confronti della Germania? La miopia di cui sopra è stata letale perché ha prodotto uno stato di pre-guerra strisciante, di cui i vari episodi che si susseguono sono il sintomo (persino l’impresa fiumana12, in un certo senso, è un’avvisaglia del fatto che la guerra può ricominciare; per non parlare dell’occupazione della Ruhr e dei Freikorps13 in Germania, che continuano la loro guerra privata senza che nessuno prenda seri provvedimenti). Oltre a ciò, seguendo la via intrapresa, si tiene a battesimo il nazionalismo tedesco. All’inizio un tale movimento è incerto, poiché vi sono grossi partiti di destra più o meno tradizionali e squalificati. Nell’ultimo anno di guerra era nato il Deutsche Vaterlandspartei, che era diventato in breve tempo un partito di massa, dalla forza pari a quella dei socialisti; questo, con la fine del conflitto, si era poi sgonfiato; ma risorse sotto-forma di Deutschnationale Volkspartei, il partito tradizionale della destra, rapidamente in posizione tale da condizionare il governo, per poi addirittura entrarvici, dato che i socialisti, molto presto, perdono la maggioranza, sfiorata solo nella costituente del 1919. E però, questo tipo di destra, non è tale da galvanizzare quelle masse scontente, che sono proletarizzate, che non si riconoscono nel movimento comunista, che non hanno fiducia nei socialisti che sono stati al governo non offrendo la prova di voler cambiare veramente le cose. Il germe del nazionalismo comincia lì; nel ‘24 fallisce il putsch di Monaco, ma poi vi è una vera e propria scalata elettorale, aiutata dall’inflazione galoppante e, più in generale, dalla crisi economica (alla quale l’intervento degli Stati Uniti – che avevano compreso il futuro inquietante che poteva sorgere su un tale terreno - cerca di porre rimedio: più volte – nel ‘24, nel ‘26 e nel ‘27 – e in tutti i modi il tentativo è quello di aiutare la Germania weimariana). Ma, di fatto, la destra tedesca, anche per la complicità del presidente Hindenburg, della Chiesa e degli industriali (il principale aiutante di Hitler è Alfred Hugenberg, il capo degli industriali), vede la propria ascesa segnata; i comunisti, nel ‘30, hanno ancora 100 deputati nel Reichstag, e cioè sono una forza notevole; ma il cancellierato viene affidato ad Hitler nel gennaio del ‘33, quand’egli non detiene ancora la maggioranza; e con la provocazione dell’incendio del Reichstag vince le elezioni nel marzo dello stesso anno, massacrando violentemente l’opposizione in capo a poche settimane. 9. Quanto è aderente alla realtà storica il concetto di «guerra civile europea»? Si può postulare un’unità del conflitto almeno all’interno della prima metà nel Novecento europeo, le cui fasi sono intimamente concatenate – in virtù di una vera e propria «seconda guerra dei Trent’anni (1914-1945)»?

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È corretto, alla luce di quanto sopra, parlare di “un’unica guerra”; in essa, tuttavia, i soggetti cambiano - anche se, tutto sommato, si ha lo stesso tipo di schieramenti: mentre in apertura è il conflitto tra gli imperi contrapposti, in seguito, invece, comincia a diventare quella che – appunto - Ernst Nolte ha definito «guerra civile europea», nell’ottica di fotografare non soltanto una guerra di potenza, ma anche un fenomeno di contrapposizione alla rivoluzione, che è ormai diventata un soggetto centrale. Occorre tuttavia rettificare la periodizzazione: Nolte, infatti, individua nella rivoluzione comunista la discontinuità che innesca il conflitto; conseguentemente, in quest’ottica, prima il fascismo italiano e poi quello tedesco non sono altro che la risposta a questo evento. L’errore, in questa analisi, consiste nel non capire che la rivoluzione d’Ottobre è essa stessa la risposta a qualcosa di precedente, e cioè al ‘14, un conflitto avversato sin dal primo momento dai rivoluzionari russi; essa fornisce l’alternativa rispetto ad una società e ad un assetto mondiale che hanno causato la guerra, portando alla catastrofe. Il concetto di “sfida e risposta”, quindi, si può applicare, ma dobbiamo essere consci del fatto che la “sfida” si presenta nel ‘14, questo sciagurato anno, con cui si infrange un equilibrio dal quale non ci si riprende se non con convulsioni sempre più forti.


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#politicanuova e Teori: avviata la collaborazione editoriale! Il Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC) e il Partito dei Lavoratori di Turchia (IP) hanno intrapreso un cammino di collaborazione, sotto differenti aspetti (reciproca informazione a proposito del contesto regionale e nazionale di riferimento, incontri bilaterali, trattazione di temi e questioni d'interesse comune, ecc.). La dimensione editoriale e, segnatamente, il settore dei periodici di carattere teorico, ha le caratteristiche per rientrare a pieno titolo in quest'ambito. Di conseguenza, #politicanuova, quadrimestrale di approfondimento edito dal Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC), e Teori, giornale teorico del Partito dei Lavoratori di Turchia (IP), hanno instaurato una collaborazione editoriale che, principalmente, riguarderà lo scambio di articoli da ospitare nei rispettivi spazi. Tale collaborazione editoriale è la premessa per ulteriori e più strutturati momenti di sinergia, per esempio concernenti la partecipazione a stage di formazione giornalistica, organizzati congiuntamente od ospitati in una delle due rispettive parti contraenti; oppure per quanto riguarda compartecipazioni nel campo dell'editoria libraria.

Il Comunicato Ufficiale emesso dalla Redazione di Teori Collaborazione Editoriale con #politicanuova Alla vigilia del collasso dello stadio imperialista del capitalismo e del sorgere di un nuovo necessario illuminismo, siamo felici di annunciare la collaboraione editoriale fra Teori e #politicanuova. Il dialogo tra queste due riviste rappresenta un possibile mezzo funzionale allo sviluppo degli strumenti intellettuali da utilizzare nella nostra lotta contro l'imperialismo. Da un lato la "caccia alla streghe" e dall'altro il bombardamento mediatico perpetrato dall'apparato ideologico dell'imperialismo sono gli elementi caratterizzanti di una sorta di un nuovo medio evo nel quale viviamo e che questa collaborazione editoriale mira a contrastare. Lottando insieme per un nuovo e autentico processo rivoluzionario e di progresso, queste nostre due riviste potranno diventare più efficaci ed incisive. Nell'era dell'oblio generalizzato, la redazione di Teori è onorata di partecipare a questa collaborazione e di avere l'opportunità di approfondire le connessioni intellettuali con i nostri compagni del Partito Comunista della Svizzera Italiana.

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