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quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

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pag. 4-9 Intervista Massimiliano Ay

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aprile 2015


Impressum

#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 6 aprile 2015 anno III

Redazione: Aris Della Fontana (Direttore), Tobia Bernardi, Mattia Tagliaferri, Luca Robertini, Damiano Bardelli

Editore Partito Comunista

ISSN 2297-0657

Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio

Email aris.dellafontana@politicanuova.ch

CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona

Abbonamenti 25.- Normale 50.- Sostenitori 30€ Esteri

Indice 3 Editoriale: 4 Intervista a Massimilano Ay 10 “Lettere corsare”: note sullo sviluppo della privatizzazione della formazione 14 Oggettivare la condizione economica, un primo passo verso l’universalismo dei beni sociali! 18 Riconfigurare la gestione dei rifiuti, nell’ottica di uno scenario sostenibile e moderno 20 La famiglia monoparentale: un’entità che merita attenzione 22 Lo sguardo multipolare del Ticino: una prospettiva vitale

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Editoriale

Intervista

Teoria

Economia

Costruire l’alternativa futura attraverso il presente Questo numero risente del contesto elettorale invischiante il Ticino: ci allineiamo all’argomento prevalente, tuttavia manteniamo la priorità dell’analisi. A differenza dei numeri precedenti, diamo un maggiore peso alla proposta politica concreta, la quale, del resto, sboccia sul terreno dell’indagine e non, invece, su quello di un’affrettata, “tecnica” e amministrativa ricognizione della realtà. È anche una questione di responsabilità: le proposte dei comunisti vogliono essere applicabili e utili. E ciò richiede, in primis, un attentto studio della realtà. I comunisti e le elezioni. Un gran bel dilemma. Massimiliano Ay, attraverso le risposte all’intervista contenuta in questo numero, ci aiuterà a chiarire tale spinosa questione. Ma diciamo, già in questa sede, alcune parole. Per verificare se il rapporto fra questi elementi è sostenibile, procediamo, innanzitutto, a considerarli separatamente. Le elezioni, dunque lo Stato, ossia quell’istituto, storicamente determinato, cioè in movimento, partecipe del corso del reale, rappresentante «la posta in gioco e il luogo di scontro tra le classi»1 e, al tempo stesso, anziché macchina dell’astratto funzionamento slegata dai conflitti materiali assorbente le istanze d’ogni realtà sociale, strumento del dominio della classe preminente e forma di regolazione e sanzione dell’ineguaglianza tra classi2 nella società scissasi in «antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare»3. Dal canto loro, i comunisti esprimono una critica radicale, perché radicale – cioè vertente sull’intima essenza - è il marxismo quale lettura delle intrinseche, insopprimibili, contraddizioni della realtà capitalista; in linea a ciò, dialetticamente, sostanziale è l’alternativa ricercata: nessuno spazio per una trasformazione interna alle compatibilità sistemiche. Attenzione: prospettare un tal rivolgimento, non equivale a disconoscere la realtà quale dimensione attraversata da regole e, quindi, da limiti, che determinano il campo nel quale possono avere luogo, realisticamente, i processi di trasformazione. Processi in relazione ai quali il socialismo scientifico non offre alcuna “ricetta” pre-ordinata, valevole in ogni tempo e in ogni luogo. Discostandosi dall’«idealismo della prassi»4 - e cioè dalla convinzione secondo cui le volontà ideali possono, sovranamente, modellare e dirigere gli scenari concreti, indipendentemente dai meccanismi di funzionamento di questi ultimi - e, con esso, da qualsivoglia pensiero magico, i marxisti accettano di costruire la società futura con i frammenti di quella odierna e, di conseguenza, al fine di individuare la corretta strategia, volgono innanzitutto lo sguardo allo stato di cose di volta in volta presente. È insita, in un tale approccio, sia l’accettazione di una costruzione progressiva nel tempo che rigetta il “tutto e subito” e che, ciononostante, non equivale alla concezione di un’astratta

Ecologia

Stato sociale

gradualità (altrettanto astratti, in tal senso, appaiono, sia il «logorante binomio riformismo/rivoluzione»5, sia la semplicistica equazione tra via democratica e via parlamentare6), sia una ragionata flessibilità per quanto concerne gli strumenti attraverso i quali eseguire la trasformazione. Giunti a questo punto, è lecito unire i due corpi della discussione. In quanto gli organi statuali rappresentano, tendenzialmente, il riverbero, il rispecchiamento della dialettica sociale – è quest’ultima, cioè, in virtù di contestuali rapporti di forza, a costituire la variabile indipendente rispetto al valore determinato degli assetti istituzionali-rappresentativi7 -, sarebbe alquanto discutibile concentrarsi esclusivamente sul frangente elettorale, eludendo il lavoro sul territorio. All’attività istituzionale, in tal senso, occorre conferire un grado di attenzione politica proporzionale al peso relativo concreto da essa occupato all’interno dei meccanismi che dirigono e trasformano la realtà. E, quindi, - molto semplicemente – sia evitando di svalutarne integralmente il ruolo sia evitando di scadere nel cosiddetto cretinismo parlamentare, individuare in essa, pur sempre nella coscienza della sua determinatezza rispetto ai complessivi rapporti sociali reali, una delle sedi in cui svolgere la lotta per la trasformazione, una delle tante forme di organizzazione politica proprie della società moderna. Del resto, nessuna sincera lettura dell’odierna realtà può giungere alla conclusione che il parlamentarismo è stato superato: nonostante il nitido squarcio apertosi tra istituzioni politiche e popolazione, la seconda continua ancora a intravedere nelle prime una dimensione necessaria della vita in società. In virtù di ciò, rimane possibile, attraverso il lavoro interno a tali istituzioni rappresentative, intercettare un novero di istanze sociali potenzialmente coinvolgibili nella trasformazione e, al contempo, in occasione delle tornate elettorali, «contare gli effettivi»8 a disposizione di tal progetto politico. Se, dunque, da un lato, non appare fruttuoso organizzare il lavoro politico in funzione e sulla base delle elezioni e dell’attività parlamentare, dall’altro, è possibile applicare, in rapporto al lavoro in queste sedi, un definito schema di finalità, che, in primis, preveda, conseguentemente all’auspicabile intensificarsi delle lotte sociali concrete, la creazione di rotture, più o meno profonde, ai rapporti tra capitale e stato mediante la legittimazione politico-istituzionale di strumenti di lotta»9. Un tale atteggiamento, congiuntamente ad un approccio strategico, realista e di governo – inteso come la capacità, di indicare la modalità di risoluzione concreta dei mali criticati10 -, costituisce il miglior antidoto rispetto alla banale amministrazione delle istituzioni statali. Aris Della Fontana Direttore #PN

Internazionale

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Andrea Catone, Prefazione a Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, Sandro Teti Editore, Roma 2004, p. 14

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«La teoria borghese si esaurisce in una astrattamente simbolica visione formale di uno “stato di diritto” identificabile con un sistema di regole, a supporto di un potere tsociale organizzato istituzionalmente». E ancora. «L’autoritarismo dello stato liberale attenua solo quantitativamente – nel passaggio al costituzionalismo – l’incidenza del potere dall’alto che la monarchia assoluta non ha visto capovolgere nella forme con cui lo stato liberale si è organizzato» Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, cit., p. 37, p. 45 e p. 51

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Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 60

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Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Bari 2013, pp. 240-245

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Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, cit., p. 76

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Enrico Berlinguer, Via democratica e violenza reazionaria, p. 39 in G. Chiarante (a cura di), Enrico Berlinguer. La crisi italiana. Scritti su Rinascita, Ed. L’Unità, Roma 1985

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I movimenti reali, quindi, come terreno d’incubazione di un aggiornamento istituzionale. Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, cit., p. 174

8

Antonio Gramsci, “I comunisti e le elezioni”, L’Ordine Nuovo, Aprile 1921

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Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, cit., p. 44

10 Oliviero Diliberto / Vladimiro Giacché / Fausto Sorini, Ricostruire il Partito Comunista. Appunti per una discussione, Simple, Macerata 2011, pp. 280-281


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Economia

Ecologia

Massimilano Ay: “la normalizzazione è la sfida di dimostrare che la nostra identità comunista è quella che rappresenta gli interessi della maggioranza della popolazione” #politicanuova intervista Massimiliano Ay, Segretario Politico del Partito Comunista della Svizzera Italiana (PC) e Candidato al Consiglio di Stato sulla lista Mps-PC alle elezioni cantonali di aprile 2015. A cura di Aris Della Fontana e Tobia Bernardi 1. La tua candidatura al governo è coerente con la volontà di raggiungere l’obiettivo sostanziale, cioè la “società nuova”? E, in tal senso, la volontà di realizzare una “politica progettuale” può darsi all’interno di un esecutivo operante secondo un sistema collegiale che, come già notava Guido Pedroli nel lontano 1962, è tendenzialmente immobilista e conservatore? Più in generale, che ruolo svolge il programma delle riforme?

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Evidentemente la collegialità è funzionale alla riproduzione del consociativismo, che impedisce una reale alternanza democratica, in quanto esiste, fra tutti i maggiori partiti – formanti il Partito dello Stato, per l’appunto -, una perenne “unità nazionale” che permette di “spartire” la torta senza temere opposizioni, e in pieno stile corporativo. Un tale sistema, data la sua composizione e il suo funzionamento, è destinato alla tendenziale inazione, all’assenza di progettualità, e perciò impedisce delle modificazioni non solo radicali ma pure parziali che siano tali – limitandosi a gestire lo stato di cose corrente; di fronte ai problemi strutturali della società, cioè, esso non possiede la forza e gli strumenti per intervenire attivamente. Inoltre, valgono ancora le parole di Giorgio Canonica: «l’elezione proporzionale del governo costituisce un blocco all’evoluzione dei rapporti di forza politica, occulta i conflitti di classe a livello politico, mistifica l’opinione popolare, integra le forze opposizionali nell’ideologia del consenso». Per il Partito Comunista, tuttavia, da questa aspra critica del sistema di governo proporzionale-collegiale, non deriva né l’abbandono delle istituzioni, né una prassi politica extra-parlamentare: cerchiamo di muoverci dialetticamente nella realtà che critichiamo, mantenendo l’indipendenza propria della nostra identità di classe, e dunque senza farci fagocitare dalle logiche in questione. Concretamente, ciò equivale a partecipare al lavoro politico-istituziona-

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Internazionale

le attraverso una prassi riformatrice (non riformista!) della struttura economica e sociale, la quale, oltre a rappresentare uno degli strumenti con cui costruire l’alternativa sociale, scardina o, quantomeno, non rispetta la collegialità. Anziché privilegiare la governabilità – uno strumento egemonico volto all’auto-conservazione dei rapporti di forza tra le classi -, riteniamo vitale porre al centro dell’agenda il conflitto, il quale, oltre a rappresentare un elemento di progresso – e nient’affatto di caos -, è imprescindibile nella società liberale, dove le differenze sociali sono alla base dello stesso sistema economico. 2. Nel suo Congresso del 2011 il Partito Comunista della Svizzera Italiana aveva varato il cosiddetto processo di normalizzazione. I comunisti, oggi, rispetto al contesto cantonale complessivo, sono diventati normali? Se sì, tale percorso è stato realizzato all’insegna della liquidazione del passato (storico e ideologico) e del “nuovismo”? Fra il 2002 e il 2003 abbandonai il movimento giovanile del PS dopo varie delusioni di fronte a una politica che stentavo a riconoscere come socialista. Nel 2005 mi schierai con i comunisti dell’allora Partito del Lavoro (che nel 2007 cambiò nome in Partito Comunista), con la consapevolezza che bisognasse lavorare per cambiare la percezione di marginalità in cui essi versavano, spesso anche a causa di una prassi gruppettara e un appiattimento culturale in cui erano finiti nel corso degli anni ‘90. Il processo di normalizzazione è stato teorizzato al Congresso di Locarno del 2011, ma in realtà era già partito fin dal 2008/2009 con una tattica elettorale piuttosto audace in quel di Bellinzona, dove il Partito Comunista, allora quasi inesistente, riuscì a emergere clamorosamente nel dibattito politico comunale. In sostanza si trattava di toglierci di dosso quell’aura di estremismo parolaio e inconcludente in cui eravamo finiti, quasi fossimo un gruppuscolo di folklore nostalgico, piuttosto che un partito marxista del XXI secolo, che sapesse rispondere alla nuova fase politica ed economica con cui si confrontava la popolazione. Il ragionamento era semplice: in paesi a noi vicini i comunisti, per quanto con risultati elettorali magari modesti, sono riconosciuti come componente del dibattito politico nazionale. Da noi essere comunisti è ancora visto come qualcosa di inaffidabile: si doveva assolutamente “normalizzare” la percezione che la popolazione aveva del Partito Comunista, rivendicando la nostra legittimità democratica e il nostro ruolo nella società come forza politica seria. E questo non significa liquidare il marxismo-leninismo o nascondere la nostra storia di cui siamo invece orgogliosi: ma semmai è la sfida di dimostrare che la nostra identità comunista è quella che rappresenta gli interessi della maggioranza della popolazione. Io credo che abbiamo fatto in questo ambito vari passi avanti, non ancora sufficienti, ma basta vedere come si è estesa la nostra proposta politica e l’apparato di analisi di cui disponiamo, per dire che la direzione è quella corretta. Insomma si tratta di fare politica


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cercando di incidere nella realtà e nei rapporti di forza, e non ridurci a romantici rivoluzionari autoreferenziali che sventolano la bandiera rossa in un fortino assediato. 3. In stretta connessione con quella economica, è legittimo parlare anche di una crisi politica? Le classi dominanti sono ancora dirigenti? E, cioè, riescono ad intravedere un piano strategico con il quale superare l’attuale impasse? In tale temperie, quale ruolo spetta ai comunisti? Questi ultimi debbono lasciare il capitalismo nel “suo brodo” oppure individuare e proporre uno sbocco progressivo, cioè un serio progetto d’alternativa? Quale senso ha, in tal ottica, definirsi un partito di governo, pur non essendovici effettivamente? Abbiamo una classe politica estremamente confusa, che non sa nemmeno più fare i propri interessi borghesi, come è stato il caso di recente con la crisi ucraina dove addirittura contro la stessa economia nazionale la Confederazione ha continuato a schierarsi di fatto dalla parte dei decadenti alleati euroatlantici. Il che come comunisti potrebbe anche farci piacere, se non fosse che la sinistra appare messa ancora peggio, in un contesto di declino generalizzato delle società occidentale. I comunisti non hanno come compito quello di gestire il capitalismo, ma anche “lasciarlo nel suo brodo” sarebbe irresponsabile anzitutto perché a pagarne le conseguenze sarebbe proprio la stessa classe lavoratrice che vorremmo invece vedere emancipata. Bando quindi all’estremismo parolaio, e facciamo i marxisti seri, quelli che stanno nelle contraddizioni della società e che intendono il comunismo come il movimento reale e non idealistico delle cose. Oggi vediamo una classe operaia in costante processo di pauperizzazione a seguito della crisi e delle politiche di “austerity”, che viene per di più lasciata a se stessa e che conseguentemente è aggregata da alcuni partiti – la Lega dei Ticinesi, ad esempio (non a caso attiva contro la Kultura) – in un’ottica (spesso virtualmente) “anti-sistema”. Si sta così formando una nuova pseudo-classe dirigente di livello estremamente basso (fatta anche di deputati semi-analfabeti e addirittura al limite del caso sociale) che non fa bene né al processo decisionale politico, né all’economia del Paese, né in ultima analisi alla stessa democrazia. La politica anzi si converte da una prospettiva di miglioramento a una mera amministrazione di un presente eterno. Si viene così a delineare persino un deficit nella formazione degli statisti, ma non solo: a risentirne è pure la formazione dei gruppi dirigenti dei sindacati e dei partiti operai. Non è un caso se la sinistra ticinese ha difficoltà a disporre di giovani e produce sempre più leader insipidi, prevedibili e banali, quando non sfacciatamente carrieristi (cosa che il PC sta facendo di tutto per impedire). Peraltro tale situazione svilisce la credibilità stessa delle istituzioni borghesi, e ciò – per quanto un comunista possa auspicarlo – in un contesto di forte crisi sociale ed economica e senza un’adeguata coscienza di classe rivoluzionaria (ciò

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significa partiti comunisti forti, sindacati radicati, e movimenti democratici di massa presenti), può solo dare origini a svolte autoritarie. Uno svilimento delle istituzioni borghesi può essere infatti fonte di progresso solamente nel contesto della formazione di un duopolio di potere, uno dei quali basato su forme consiliari in aperto conflitto con la borghesia, cosa che oggi non esiste. Fintanto che tale situazione non si avvererà – come spiegava lo storico dirigente del Partito Comunista Portoghese Alvàro Cunhal – l’interesse della classe lavoratrice è di lottare affinché “la dittatura della borghesia si eserciti attraverso le forme più democratiche possibili, poiché queste (…) le permettono di meglio (…) forgiare la sua unità, rafforzare le sue organizzazioni, limitare e indebolire il potere dei monopoli, conquistare le masse alla causa della rivoluzione socialista. Ecco perché si afferma che la lotta per la democrazia è parte fondamentale della lotta per il socialismo”. Ci ritroviamo insomma con una parte di sottoproletariato e di una porzione di classe operaia in forte decadenza sociale, abilmente manovrate da una parte della borghesia priva anch’essa di prospettiva, che vive secondo alcuni miti costruiti ad arte da una narrazione collettiva spesso di tipo sciovinistico, dove la scuola ha evidentemente delle forti responsabilità. La Svizzera ha però delle chance per uscirne in modo positivo, a partire dalla stabilità economica ancora relativamente presente e dal discreto apparato formativo, ma è necessaria una consapevolezza per svoltare subito! 4. Qual è il tuo giudizio a proposito dell’operato del governo cantonticinese nell’ambito di questa legislatura? Estremamente negativo. Come affermato in precedenza, il consociativismo e la collegialità sono forme di castrazione e di immobilismo, a cui purtroppo anche la socialdemocrazia si è adagiata. E poi in modo molto concreto questo governo ha approvato la pianificazione ospedaliera che prevede di smantellare gli ospedali pubblici delle regioni periferiche, declassandoli e tagliando posti di lavoro in contesti economici già fragili, senza contare la valorizzazione delle cliniche private in cui bazzicano i vertici liberali e dove non manca lo zampino della curia. A questo aggiungiamo l’idea nefasta del freno all’indebitamento che impedisce allo Stato un controllo sull’economia e un’adeguata ridistribuzione della ricchezza. E come se non bastasse i contratti normali di lavoro a tremila franchi mensili, che non sono un primo passo verso dei salari minimi come pensano i socialisti, ma sono degli strumenti di dumping salariale micidiale perché legittimano il padronato nella sua corsa al ribasso dei salari. 5. Secondo quale modalità il Partito Comunista intende rapportarsi ai soggetti che, genericamente, definiamo subalterni? L’ultimo Congresso del Partito Comunista ha ribadito che non è il momento di organizzare prioritaria-

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mente la massa, poiché non abbiamo gli strumenti per esercitare l’adeguata egemonia e nemmeno per costruirla: dobbiamo anzitutto formare noi stessi nella qualità della proposta, nella compattezza identitaria e nella coerenza ideologica. Attraverso questo strumento che abbiamo definito in sede congressuale come “partito di quadri con vocazione di massa” stabilire alcuni esperimenti prioritari con cui interagire con i settori sociali più ricettivi in questo momento anche se meno chiari a livello di classe: gli studenti in primis, in seguito alcuni movimenti (come quello pacifista) e infine alcuni settori professionali ancora da identificare. Credere di potersi subito rapportare alla classe operaia nel suo insieme o – ancora peggio – al sottoproletariato è, al momento, semplicemente illusorio. Ecco quindi che va non solo ribadita la valenza centrale della politica rispetto al neo-qualunquismo dell’anti-politica, ma anche la centralità dell’aspetto pedagogico e formativo come campo di azione e costruzione dei comunisti. Quest’ultimo ambito è strategico poiché non vediamo la possibilità né di emergere come forza politica, né di conquistare le masse a una prospettiva socialista, se non si tutela la base democratica e laica della rivoluzione repubblicana ticinese oggi messa in pericolo da una destra securitaria e reazionaria la cui cultura è permeata, a causa dell’irresponsabilità dei Verdi ticinesi, anche a sinistra.

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6. Il Partito Comunista propone di impostare il tessuto economico attorno ai parametri di una produzione ad alto valore aggiunto. Questa prospettiva non rischia di essere sprovvista di una (necessaria) connotazione di classe? Insomma, dove sta la lotta per il socialismo? Il Partito Comunista da oltre un anno parla di alto valore aggiunto. Ora è sulla bocca di tutti, ma come formula vuota adatta giusto il tempo delle elezioni. Iniziamo con il definire questo concetto: l’alto valore aggiunto non è altro che una produzione destandardizzata e centrata su una manodopera altamente qualificata, che permette di produrre un bene e/o un servizio considerabile un unicum sull’intero mercato. Nel contesto del declino economico occidentale, il nostro Paese può restare competitivo solo se saprà sviluppare questo tipo di settori produttivi: produzione e logistica avanzata, medical devices, sensoristica e telemetria, biomimicry, health trives, ecc. Infatti un posto di lavoro nel settore dell’alta tecnologia crea un indotto di circa cinque altri posti di lavoro. In Ticino esistono aziende come l’AGIE, istituti come l’IDSIA specializzato nell’intelligenza artificiale, la DIAMOND attiva nell’ambito delle fibre ottiche, ecc. Realtà che se necessario potrebbero anche essere oggetto di un processo di nazionalizzazione. Lo Stato deve investire fortemente nel settore della ricerca e in questa direzione può essere letto il rilancio produttivo delle Officine di Bellinzona con il progetto del Centro di Competenze. La nostra riflessione in questo ambito è partita nel contesto dell’accettazione in votazione popolare della disastrosa iniziativa “contro l’immigrazione di massa”

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lo scorso 9 febbraio 2014. Secondo il Politecnico di Zurigo i “rami ad alto valore aggiunto, come quello dell’industria delle macchine, non dispongono di un appoggio politico solido a Berna, al contrario di altri che creano invece meno ricchezza, come l’agricoltura. I comparti orientanti all’export avranno inoltre maggiori problemi perché l’iniziativa aumenterà i costi di reclutamento del personale, cosa che rincarerà i prodotti rendendoli meno competitivi a livello internazionale”. In tale contesto, evidentemente peggiorato con l’ultima votazione, occorre puntare in modo accelerato sull’alto valore aggiunto e riuscire nel contempo ad aprire il Paese a nuove forme di cooperazione con potenze emergenti. Va qui tenuto peraltro in considerazione anche il fatto che se l’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” dovesse essere totalmente applicata, l’UE potrebbe imporre, da un lato, dazi doganali aumentando in questo modo il costo di materie prime e prodotti semi-lavorati (che andrebbero inevitabilmente a incidere sul costo dei prodotti finiti che la Svizzera esporta e consuma); e dall’altro lato l’UE potrebbe imporre una tassazione particolare sui prodotti che la Confederazione esporta verso l’Eurozona. E’ chiaro a tutti che qualora ciò si verificasse il capitalismo svizzero farebbe ricadere almeno in parte tali spese sulle classi subalterne del nostro Paese, ad esempio con un incremento dell’IVA. E già qui abbiamo una risposta alla tua domanda sulla connotazione di classe. Si tratta di assumere una posizione propositiva, in cui far emergere la “nuova” Svizzera, consolidarne il benessere in un’ottica però che vada verso un discorso, se non internazionalista, perlomeno cooperativo. Tutto ciò sarebbe peraltro in piena sintonia con la prospettiva di un mondo multipolare come auspicato dal movimento comunista internazionale, dove – nell’affermarsi di relazioni internazionali pacifiche e nella rinuncia a prassi imperialistiche – potrannorinascere aspetti di sovranità popolare con potenzialità di sviluppare una democrazia progressiva, in cui i produttori (lavoratori del braccio e della mente) conquistino man mano, nel contesto evidentemente della conflittualità di classe, quel ruolo di protagonisti della storia che il socialismo prevede. E’ proprio per garantire una Svizzera prospera, con il minor numero di disoccupati possibile e capace di essere protagonista attiva della costruzione di nuove relazioni di cooperazione economica internazionale a favore di uno sviluppo equo e sostenibile, che una profonda riforma anche del nostro modello formativo (oltre che professionale) va progettata con sempre maggiore urgenza. Non si può insomma continuare con una situazione in cui la Confederazione è costretta ad assumere oggi medici dalla Germania e ingegneri dall’India, perché non ne dispone in numero sufficiente e adeguatamente qualificato. E’ impellente creare posti di lavoro capaci di avere futuro, in cui il lavoratore residente altamente qualificato, formato, competente e preparato possa essere impiegato con un salario adeguato senza temere concorrenze al ribasso. La proposta del Partito Comunista è quella insomma di orientarsi verso quella che i com-


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pagni Francesco Vitali e Mattia Tagliaferri su #politicanuova nr. 3 del febbraio 2014, definivano “una società dei saperi nella quale assumano un’importante centralità i poli d’eccellenza situati nei settori ritenuti strategici. Tali poli permetterebbero delle convergenze di carattere dialettico con le micro e piccole imprese di cui oggi ancor abbondiamo, permettendo di dare vita a un percorso virtuoso di know how nei più disparati settori, attraverso la crescita di distretti industriali che dovrebbero segnare un ritorno alla preminenza del capitale effettivo. Ciò permetterebbe di inserirsi all’interno di una divisione internazionale del lavoro rispettosa del multipolarismo che sta emergendo, attorno al quale è necessario modellare l’uscita dalla crisi”. Una posizione, questa, che se adeguatamente e creativamente riconosciuta come strategica dal Partito Comunista, può rappresentare addirittura un primo passo verso una almeno parziale pianificazione e socializzazione dell’economia nazionale stessa. 7. In tale prospettiva, quindi, la formazione scolastica gioca un ruolo fondamentale? Certamente! La scuola non deve subire i diktat dell’economia; sono semmai scuola e ricerca che possono costruire una nuova economia. Un’economia reale di punta necessita di un adeguato livello formativo. Tuttavia la crisi accentua la mancata armonizzazione fra forze produttive e rapporti di produzione, il che si traduce in una pauperizzazione della classe lavoratrice (e conseguentemente in una decadenza dell’aristocrazia operaia individuata da Lenin), un allargamento del disagio sociale e quindi del sottoproletariato. Rendere il Paese competitivo (nella declinazione socialista del termine) dal punto di vista economico (e quindi occupazionale e di controllo macroeconomico da parte dello Stato) è un processo che deve partire non dalla sottomissione della scuola alle esigenze di corto periodo del padronato, ma al contrario istituendo l’obbligatorietà scolastica fino ai 18 anni, favorendo al massimo un’istruzione di grado liceale per ognuno e gettando le basi per una futura formazione politecnica che sappia superare alla base la divisione fra lavoratore manuale e intellettuale. Per implementare una tale riforma occorre anche procedere sul piano pedagogico, abituando i ragazzi al lavoro collaborativo e all’attiva partecipazione sindacale. La carente formazione nell’ambito del tirocinio è la causa dei problemi che oggi si riscontrano con vari giovani lavoratori neo-qualificati, incapaci spesso di assumersi responsabilità e di lavorare in maniera autonoma: conseguenza anche qui di un modello educativo paternalista, che toglie ogni spazio di reale autogestione da parte degli allievi e che, in sostanza, li de-responsabilizza a tal punto da renderli quasi degli automi. 8. Credi ci sia la possibilità di ripensare, in termini strategici, il futuro della piazza finanziaria luganese? Il Partito Comunista già a inizio 2013 aveva dato vita – da solo – a una campagna specifica sulla piazza finanziaria di Lugano. Sempre meno impie-

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ghi, le prime ristrutturazioni senza piani sociali, la vendita di BSI, ecc. rendono la situazione molto precaria. Lugano da sola non potrà certamente influenzare sensibilmente le grosse dinamiche globali, ma il management della piazza finanziaria dimostra una totale cecità rispetto alla realtà. Se non si supera il paradigma capitalistico il sistema finanziario tende al massimo disordine e all’impossibilità di una coordinazione adeguata delle risorse disponibili. La crisi rende necessario un cambiamento radicale del sistema bancario e creditizio, facendo della sostenibilità e del soddisfacimento dei bisogni della popolazione la sua ragione d’essere. I fallimenti del Risk Management e l’incontrollabilità delle operazioni bancarie mostrano come l’attuale sistema finanziario sia in balia delle proprie contraddizioni. Negli ultimi anni l’attuale modello bancario ha vissuto mutamenti che hanno portato a preferire investimenti a corto termine, rischiosi, nell’economia finanziaria invece che investimenti in progetti a medio-lungo periodo nell’economia reale. Troppo spesso vediamo come questo sistema bancario preferisca concentrarsi su pochi colossi commerciali, le cui operazioni sono troppo spesso di matrice speculativa – e che quasi mai hanno un impatto economico positivo per la popolazione ed il resto dell’economia nazionale – anziché sulla miriade di potenziali piccoli clienti commerciali. Questi ultimi, come le famiglie, le microimprese a gestione giovanile e/o femminile, e le aziende strategiche per il tessuto economico nazionale, sono perciò messi in secondo piano e devono concorrere con questi colossi per l’accesso al credito. Una maggiore solidità e sostenibilità del sistema bancario può avvenire solo mutando strutturalmente questa logica, cambiando cioè i core business degli istituti finanziari. Per far questo è necessario che il settore pubblico intervenga sempre più in queste faccende, fino ad essere lui stesso promotore di attività finanziarie non per forza redditizie, ma capaci di incidere sulla prosperità del settore economico nazionale e non. Un primo passo in questa direzione, ed è la proposta del Partito Comunista concretamente, sarebbe la costituzione di una holding bancaria di proprietà pubblica, detentrice di almeno il 41% delle azioni delle altre banche esistenti. Questa coordinerebbe in modo razionale le concessioni di credito e gli investimenti delle sue affiliate secondo il principio di sviluppo sostenibile dell’economia produttiva in base ai bisogni della popolazione. Solo in questo modo è possibile dare la precedenza alle famiglie e alle microimprese, permettendo loro di svilupparsi nell’economia reale concedendo crediti a tassi ridotti. Il controllo pubblico sulle operazioni bancarie permette inoltre di creare un sistema efficace di vigilanza sulle transazioni finanziarie. Questo consente una maggiore controllabilità del settore che attualmente è asservito alla massimizzazione dei profitti e permette indisturbatamente il proseguo di attività finanziarie anti-sociali e non etiche, come il riciclaggio di denaro e il trasferimento di capitali verso i paradisi fiscali. Un sistema bancario e creditizio che non sottostia alle logiche del profitto a

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corto termine, ma che valorizzi maggiormente i propri dipendenti e i progetti a medio-lungo termine nell’economia reale, è l’unico capace di incidere positivamente sugli altri settori economici, salvaguardando l’impiego e lo sviluppo professionale dei salariati.

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L’articolo di Nicolas Fransioli presente su questo numero di #politicanuova contribuisce a fornire contenuti teorici e pratici a questa prospettiva.

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9. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana sostiene la necessità di rimodulare lo schema delle relazioni internazionali elvetiche in ottica multipolare. Ritieni che questo indirizzo sia applicabile anche alla sola dimensione ticinese? La domanda è complessa e non abbiamo ancora analizzato a fondo la questione per poter esprimere una chiara linea politica in merito1. Tuttavia partendo dalla recente esperienza dei bambini ecuadoriani scolarizzati a Contone e in seguito espulsi dal Paese, mi viene da dire che il Partito Comunista ha agito proprio nell’ottica di costruire nuove relazioni internazionali anche nella mera dimensione ticinese: piuttosto che il piagnucoloso buonismo visto da una parte della sinistra, noi abbiamo incontrato il corpo diplomatico dell’Ecuador (un paese retto da un governo rivoluzionario) segnalando il caso concreto e tentando di togliere i migranti ecuadoriani dal racket della tratta di esseri umani, per inserirli piuttosto nell’interessantissimo progetto di rimpatrio organizzato dal compagno presidente Rafael Correa, che prevede forme di reinserimento scolastico e professionale. Per noi aiutare i migranti non significa farli vivere nelle roulotte e dar loro l’elemosina, non è questo l’internazionalismo! 10. L’imam della Lega dei Musulmani di Lugano ha proposto di insegnare l’islam nelle scuole pubbliche. Come vedi la questione della lezione di religione? E soprattutto come si pone il Partito Comunista di fronte a una certa destra che fomenta la paura sull’invasione islamica. Chiedo ciò perché il PC era rimasto cauto sulla questione dei profughi siriani. Il Partito Comunista ritiene la religione una questione personale e chiede la sua abolizione dai programmi scolastici. Siamo contrari anche all’idea sostenuta dal resto della sinistra di una lezione di storia delle religioni e sosteniamo al contrario le tesi dell’Associazione ticinese dei Liberi Pensatori e del Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti: il fenomeno religioso, in forma rigorosamente laica e senza prevalenza del cristianesimo, va semmai visto in modo interdisciplinare nelle materie umanistiche, senza appesantire ulteriormente un orario scolastico già sufficientemente carico, come già una decina di anni fa avevano denunciato le assemblee dei genitori delle scuole medie ticinesi. E così ho risposto anche alla proposta dell’imam di Lugano, benché sia chiaro che se nelle scuole vi sono religioni che hanno spazio, al contrario di altre si crea malcontento. La nostra proposta risolve alla radice il problema e valuta positivamente semmai la centralità della razionalità nell’educazione pubblica. Per quanto concerne invece l’islamofobia strumentalizzata da certa destra, ritengo che soprattutto do-

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po gli attentati a Charlie Hebdo bisogna evitare a tutti i costi che si sviluppi un’irrazionale crociata contro tutti i musulmani e un clima di “scontro di civiltà”: ideologia, questa, che andrà a giustificare nuovi interventi militari nei confronti di Paesi ritenuti ostili, nonché a perpetuare la sudditanza dell’Europa e della Svizzera ai disegni geostrategici degli Stati Uniti, tesi a fare del nostro continente un campo di battaglia contro la Russia, il Medio Oriente e altri nostri potenziali partner strategici, con cui il nostro Paese non ha alcuna ragione di dover confliggere. Non si può però tacere il fatto che i terroristi islamisti che hanno colpito a Parigi erano gli stessi che nei mesi scorsi, con l’attiva complicità dei governi occidentali, partivano come mercenari per scatenare la guerra civile in Siria allo scopo di rovesciarne il governo laico. Quando vedo alcuni socialisti che si fanno ritrarre su Facebook con la bandiera tricolore con le tre stelle utilizzata dalle forze reazionarie in Siria pensando che stanno aiutando dei civili, mi spavento per l’ingenuità di questi compagni: noi come comunisti chiediamo che la Svizzera sostenga gli sforzi del Libano nella gestione dei profughi civili vittime dei ribelli siriani in loco e impedisca l’accesso sul nostro territorio, sfruttando magari il sacrosanto diritto all’asilo, di persone legate ai movimenti islamisti radicali come quelli che stanno mettendo a ferro e fuoco la Siria e il Medioriente. Il Partito Comunista, inoltre, forte delle relazioni con le forze secolariste dei paesi arabi, rivendica la normalizzazione immediata delle relazioni diplomatiche e di cooperazione economica con il Governo nazionale della Repubblica Araba di Siria, l’unico che può contrastare il terrorismo e intavolare con Damasco e, in questo caso anche con la Russia, un partenariato per la sicurezza. Urge inoltre che la Confederazione avvii un’intensa collaborazione con le comunità musulmane in Svizzera, partner vitale nell’ottica di evitare infiltrazioni di qualsiasi tipo sul nostro territorio. 11. Veniamo alla fiscalità. Abbassiamo le imposte o le aumentiamo? Non siamo e non vogliamo essere il “partito delle tasse”. Il Partito Comunista vuole abolire l’IVA e tutti i balzelli indiretti che colpiscono tutti indistintamente. Ma certamente noi vogliamo una fiscalità progressiva ed equa. La proposta che avanziamo dal 2011 è quella della Tassa dei Milionari, una patrimoniale che riguarderebbe solo il 2% della popolazione con un patrimonio superiore al milione di franchi (esentata la prima casa fino a un valore di Fr. 750’000.-). I milionari hanno avuto per decenni regali fiscali, hanno goduto di privilegi come nel caso dei globalisti, hanno speculato in borsa, addirittura per chi di loro è un evasore si parla di amnistia fiscale, e questo mentre nel contesto di crisi i salariati pagano fino all’ultimo centesimo. Applicando questa imposta solidale sulla fortuna il Cantone avrebbe un’entrata annua di 340 milioni di franchi, che sarebbe utilissima per le assicurazioni sociali. Lo spauracchio della fuga dei contribuenti ricchi è poi


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una colossale montatura: una tale patrimoniale esiste anche in Francia con un tasso di fuga estremamente ridotto, questo perché esistono altre condizioni che interessano a una persona facoltosa: le infrastrutture, i servizi, la stabilità, la sicurezza, ecc. 12. Qual è il tuo giudizio, in termini di quantità e qualità, a proposito degli spazi di aggregazione giovanile in Ticino? E’ un giudizio negativo. Io vengo da Bellinzona dove abbiamo fatto una figura barbina con la storia del 65 decibel o con la volontà di abbattere il centro giovanile (e questo proprio quando abbiamo vinto le elezioni come Sinistra Unita, un segnale disastroso all’elettorato giovane!). Ma di recente, Simone Romeo, nostro consigliere comunale a Locarno, si è scagliato contro le limitazioni dei concerti in quel comune. Si tratta insomma di un problema strutturale: fra proibizionismi e restrizioni agli eventi ricreativi le città sono letteralmente morte. Ora, qualcuno pensa che parlare di tali eventi equivalga ad affrontare dei problemi “grassi”, che nemmeno dovrebbero occupare i comunisti in quanto partito di classe. E’ una visione del tutto sbagliata: gli spazi di aggregazione sono fondamentali proprio per ricostruire una cultura comunitaria progressista fra le nuove generazioni. Oltre a ciò tali momenti e ritrovi sono determinanti per favorire il controllo informale nell’ottica di una strategia della riduzione del danno per quanto riguarda comportamenti a rischio da parte degli adolescenti. E ciò è importante se vogliamo evitare di cascare nella repressione moralista e paternalista che purtroppo si sta facendo strada anche in certa sinistra. Nel contempo sono utilissimi per favorire la responsabilizzazione dei giovani, purché non li si ingabbi in consessi neo-corporativi della cultura borghese come i parlamentini giovanili e quant’altro. E’ chiaro tuttavia che se non miglioriamo e rendiamo gratuita ad esempio la rete di trasporti pubblici, tutto questo discorso risulterà vano e lo stesso vale per altre infrastrutture considerate troppo costose a favore delle nuove generazioni. Insomma l’aggregazione giovanile è un terreno anch’esso di un moderno conflitto di classe! 13. Quali sono le contraddizioni insite nella pianificazione ospedaliera prospettata dal governo uscente? Sul numero 4 di #politicanuova ho già avuto modo di approfondire la questione della pianificazione ospedaliera che nel frattempo è stata contestata dalla preposta commissione. Essa è uno strumento per favorire le strutture sanitarie private, guarda caso in mano o ai soliti noti della politica liberale o alle organizzazione clericali. Insomma si vede che il PPD non ha perso tempo dopo aver ereditato il DSS nel 2011. Oltre a ciò la pianificazione ospedaliera sta procedendo a un declassamento che è un vero e proprio smantellamento di nosocomi nelle periferie, minando il concetto stesso di servizio pubblico. E non va scordato che il rappresentante del PS in governo non si è opposto a questa tendenza; intanto at-

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tendiamo di votare l’iniziativa “Giù le mani dagli ospedali” per la quale abbiamo contributo a raccogliere le firme. 14. Tra gli aspetti più originali dell’elaborazione politica afferente al Partito Socialista Autonomo (PSA) troviamo l’aspra critica al sistema clientelare e lottizzante cantonticinese. Ritieni che tale questione sia ancora attuale ai giorni nostri? Assolutamente sì, peccato che il PSA confluendo – passando per la tappa intermedia dell’ex-PSU nell’odierno PS nel 1992 si sia adeguato a questa realtà. In pratica il PSA è stato inglobato nella spartizione della torta. Non è un mistero che oggi i partiti – e non è che la socialdemocrazia sia immune da ciò – sono comitati d’affari che spartiscono posti di lavoro, lottizzano l’amministrazione, piazzano parenti e amici in questa o quella commissione, in questa o quella direzione di liceo, in un modo in alcuni casi francamente imbarazzante. Soprattutto quando poi queste stesse persone pontificano sul comportamento immorale di altre organizzazioni. Il Partito Comunista è escluso da questi giochi perché il pedegree delle famiglie proprietarie della sinistra ticinese non ci è concesso (preferendo queste famiglie non a caso creare altre sigle). E’ un fattore che ci rende orgogliosi perché questa partitocrazia di stampo semifeudale che abbiamo in Ticino sta portando il Paese nel baratro. 15. Il Partito Comunista della Svizzera Italiana e il Movimento per il Socialismo (Mps), in vista dell’imminente momento elettorale, hanno mantenuto l’impostazione unitaria già manifestatasi in occasione delle elezioni cantonali del 2011. Ci si potrebbe domandare: per quale motivo limitarsi solamente a questo grado di unità, e non, invece, procedere con la fusione delle due sigle? In tal senso, quali sono le differenze essenziali – se ce ne sono - tra PC e MpS? MPS e PC sono complementari, ecco perché la lista 3 mi soddisfa anche politicamente e rappresenta il voto utile a sinistra per il Granconsiglio: dal carattere fortemente sindacale il primo, che proviene dall’esperienza dell’ex-PSL di orientamento troskista e con una modalità di lavoro molto tematica; noi ci siamo invece caratterizzati per essere un partito molto concentrato sui giovani, sull’analisi economica e sulla cooperazione nell’ambito dei nuovi equilibri internazionali, nonché per tentare di costruire una nuova identità marxista che non scadesse nel folklorismo degli slogan roboanti ma che al contrario sapesse delineare delle soluzioni pragmatiche ai cittadini, come ho spiegato rispondendo in merito al processo di “normalizzazione”. Percorsi unitari sono possibili avanzando gradualmente, prestando attenzione ai contenuti e alle strategie partendo però dall’unità d’azione sul territorio.

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“Lettere corsare”: note sullo sviluppo della privatizzazione della formazione 1

Giovanni Galli 1

Psicologo e psicopedagogista

Una “lettera di corsa”, o “patente di corsa”, era una garanzia emessa da un governo. Garanzia che autorizzava il corsaro, a catturare o distruggere, beni o personale, appartenenti ad un governo, un gruppo avverso. Questa garanzia veniva usata da privati (i corsari) per assalire e catturare bastimenti mercantili di una nazione nemica. Se i pirati erano dei fuorilegge che tenevano per sé il frutto delle rapine, i corsari erano dei predoni salariati e protetti dai loro agenti. La guerra di corsa era così una politica di rapina, per il dirottamento delle risorse nelle proprie tasche. Premessa In Europa, dagli anni Ottanta, l’attenzione portata alle scuole private, il loro sviluppo e la loro crescita hanno subito un cambio di strategia e paradigma. Prima degli anni Ottanta lo sviluppo delle scuole private avveniva in maniera indipendente dalle politiche educative degli Stati. Vale a dire: lo Stato e le strutture private agivano indipendentemente le une dalle altre, si sviluppavano e si modificavano secondo le loro proprie esigenze e politiche, facendosi poi una concorrenza più o meno forte a seconda delle contingenze storiche e locali. Dagli anni Ottanta, invece, lo sviluppo delle scuole private, è avvenuto sotto l’impulso delle autorità politiche - autorità pubbliche! - sedotte dalle parole d’ordine neoliberiste. Per cent’anni lo Stato ha sviluppato le scuole pubbliche, le ha finanziate, le ha fatte crescere, eccetera. Adesso non più …si gratta, si gratta e poi si gratta il barile. E poi ancora. Ora del barile si gettano i pezzi (si ricordi la proposta di Beltraminelli, volta all’eliminazione del 4° anno di Liceo).Dagli anni Ottanta assistiamo ad una politica sistematica di delegittimazione della scuola pubblica. Oltre ai dibattiti sulla bontà e l’utilità delle scuole private, la supposta inefficacia di quelle pubbliche, e altro ancora, le autorità pubbliche hanno sviluppato sistematicamente una politica di delegittimazione dello Stato e della scuola, grazie alla riduzione dei finanziamenti pubblici, l’aumento degli oneri, eccetera. Se il sistema pubblico di insegnamento non ottempera (o, più semplicemente, sembra non ottemperare) correttamente agli obiettivi che gli sono assegnati e nemmeno risponde alle aspettative delle famiglie, le spinte (oggettive e soggettive) verso la privatizzazione risultano maggiorate e rinforzate. Nelle spinte oggettive, in tal senso, si possono classificare dinamiche quali l’apertura di servizi (?) privati, scuole private di “nicchia” (scuola religiosa, scuola Montessori, scuola Stern, lezioni private, eccete●●

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ra), proposte di corsi specifici di aggiornamento, alternativi, eccetera; le spinte soggettive, invece, corrispondono all’insoddisfazione dei genitori. ●● Primo Il disegno neoliberista non è totalmente velato. Lo sappiamo, avviato con il colpo di stato cileno, ha raggiunto tutto il mondo e imperversa in Europa, imponendo oggi alla Grecia le attuali scriteriate politiche di austerità. Ricordiamolo in poche parole: il neoliberismo ha proposto e continua a proporre il mercato quale unico regolatore sociale ed economico della società. Privatizzazioni, ottimizzazioni, razionalizzazioni, riduzione dei compiti dello Stato, svendita dei beni pubblici, de-fiscalizzazione, sostegno alle banche. Il neoliberismo è un processo economico, ma è anche un processo politico. Il processo di conquista e di impadronimento neoliberista dello Stato è un processo politico e finanziario (non sorprende, a tal proposito, che il Partito Liberale Radicale, nell’ottobre 2013, abbia riproposto una riduzione delle imposte). Oggi, l’educazione di base rimane ancora a carico del potere pubblico, ma le famiglie sono chiamate sempre più a contribuire in maniera significativa alla loro istruzione, se esse vogliono offrire ai loro figli i complementi necessari alla formazione.

Secondo In Svizzera ed in Ticino le scuole private si sono sviluppate meno che altrove, ciò nonostante permane un discorso pubblico che propone sempre la solita litania neoliberista. Non è un mistero che uno degli scopi principali del neoliberismo è la trasformazione dei servizi in mercato. Così, regolarmente appaiono proposte di privatizzazioni, di finanziamento diretto o indiretto delle scuole private, confronti sull’efficacia delle scuole private e così via. Nel contempo gli investimenti sono stati ridotti e le condizioni di lavoro peggiorate. Nel passato l’insegnamento privato derivava principalmente da un discorso d’ordine etico-morale, con la proposta di scuole religiose o “alternative”, per determinate nicchie di popolazione. Oggi il discorso non è più sorretto da valori di un determinato tipo, ma da un principio economico. Nel passato, nel dibattito pubblico, le opposizioni fra gli utenti della scuola pubblica e utenti della scuola privata investivano dei valori opposti (stato laico, scuole religiose, eccetera), valori che essi sostenevano. Oggi, questa visione sociologica è sostituita da una visione organizzativa e manageriale. Non si tratta più di visioni e/o missioni educative differenti. Si tratta di supposta maggiore o minore efficacia. Non sono più i programmi e le finalità educative a venire opposte, ciò che conta è la qualità mercantile. La competizione viene innalzata quale processo di qualità e la scuola privata quale suo strumento. Ai valori fondatori, la visione dell’uomo o della società, si sostituiscono dei valori strumentali: è il mercato e la competizione che migliora la scuola (e non certo la ●●


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ricerca in educazione). La libera scelta dell’istituto, la concorrenza fra scuole, la competizione, eventualmente il ticket 2, sono considerati quindi regolatori e strumenti della qualità. In verità sono le famiglie più ricche che si esprimono a favore della libertà di scelta della scuola. E quando la competizione dovrebbe spingere le scuole ad innovare i loro progetti pedagogici, quando la competizione dovrebbe portare ad un processo virtuoso di crescita qualitativa di tutti i plessi scolastici, quasi come che le risorse fossero infinite e quindi potremmo vedere investimenti sempre crescenti per tutti, si osserva in verità la creazione di gerarchie scolastiche (scuole di serie A e di serie B). Ciò è inevitabile. Le risorse sono limitate. I processi di privatizzazione sono unicamente delle dinamiche di pirataggio, e accaparramento, che dirottano le risorse verso l’uno o l’altro versante. Terzo In verità, in regime di competizione, sappiamo benissimo che si producono delle “dinamiche di qualità”. La questione è che queste dinamiche creano scuole di serie A e scuole di serie B. Ma ciò è lapalissiano. Non è certo ciò che si propone il modello neoliberista? Non è questa la diretta conseguenza di tutto ciò? Non è esattamente ciò che si vuole con la competizione? Può esistere una competizione senza vincenti e perdenti, senza il dirottamento delle risorse sui vincenti? Non meravigliamoci se le scuole di serie A e di serie B sono sociologicamente determinate e predestinabili. Una delle questioni è la modifica dei paradigmi di valutazione di ragionamento. Un paradigma è un meccanismo produttore di immagini, di idee e di valori, di visioni del mondo. Viene pure utilizzato il concetto di matrice cognitiva. Un paradigma costituisce e delimita il campo, logica e prassi della ricerca stessa. Un paradigma è tanto più influente quanto è più egemonico, quanto più assume un carattere di evidenza. L’attuale questione del dibattito tra pubblico e privato fornisce un’indicazione del cambio di paradigma politico, di termini valori e categorie di ragionamento. La scuola non è più indicata come luogo di socializzazione e di formazione dei cittadini, ma come produttore di competenze e sapere spendibili sul mercato del lavoro. Il neoliberismo ha un concetto del tutto economico della conoscenza. Quest’ultima equivale a capitale umano, il quale non è nient’altro che una risorsa da investire. La scuola non è più una istituzione al servizio dello Stato, al servizio della collettività (che sia laica o religiosa), ma una organizzazione orientata alla produzione di competenze individuali e di titoli scolastici che la certificano. Insomma il cambio di paradigma non considera le finalità, ma l’efficacia, indipendentemente dai valori portati dalla scuola. Ciò introduce un discorso manageriale che si costruisce con la definizione di obiettivi operativi, la promozione di una razionalità strumentale, la costruzione di sistemi di valutazione e strumenti di regolazione ●●

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fondati sulla competizione (esempio PISA) e la costruzione di dispositivi di informazione, per determinare l’agenda del discorso pedagogico ed egemonizzarne i contenuti. Il ruolo dello Stato oggi è in primo luogo finalizzato a fornire una base comune a tutti, durante la scolarità obbligatoria. Poi può aiutare la costruzione di percorsi individuali, con le borse di studio. Ma favorisce la certificazione dei percorsi individuali al di là della base comune e degli aiuti individuali 3. Che poi per raggiungere l’eccellenza (vedi il tasso di bocciatura in prima e seconda liceo) siano necessari dei corsi privati alle medie è una forma particolare e rilevatrice di una strisciante privatizzazione dell’insegnamento (vedi punto 7). Quarto (esercizio) “Il linguaggio è la coscienza reale, pratica” K. Marx, L’ideologia tedesca ●●

Lo sviluppo attuale della politica scolastica si basa su una terminologia seducente. Lemmi quali: autonomia, rispetto dei ritmi individuali, differenziazione, invitano il consumatore (genitori-allievi) ed il produttore (docenti) ad avvicinarsi in verità ad un terreno preparato e minato dalla politica neoliberista. Questi concetti non sono neutri. Si sviluppano in un contesto, ne sono dipendenti, oltre che cinghie e meccanismi di trasmissione. Ciò perché il tutto riposa (per modo di dire) sui concetti di competizione e mercato. Una delle tecniche usate dai fautori del nuovo disordine mondiale è quella di rinominare (cioè chiamare con un altro nome) l’ingiustizia che producono. Con questo sforzo di rinominare le cose tentano di nascondere e rimuovere dalla coscienza i misfatti che nascondono (la rimozione, in tal senso, equivale ad un processo che impedisce agli impulsi, ai sentimenti, e alle idee incompatibili – con il disordine mercantile – di insediarsi nella sfera della coscienza). Facciamo allora un piccolo esercizio. Prendiamo le seguenti coppie e ad ogni prima definizione sostituiamo la seconda: • libero mercato = furto legalizzato • libero scambio = libero disordine • ottimizzazione delle risorse = licenziamenti • competizione = sfruttamento • razionalizzazione = centralizzazione, abbandono delle zone periferiche • libera impresa = sfruttamento obbligatorio • datore di lavoro = padrone • mondializzazione = imperialismo • libera circolazione delle genti = circolazione della mano d’opera secondo i bisogni del mercato (emigrazione) • liberalizzazione = abolizione delle protezioni sociali • flessibilità = lavoro serale, notturno e festivo • privatizzazione = disservizio, diminuzione del servizio • deregolamentazione = abolizione degli obblighi contrattuali • globalizzazione = “ancora di più …”

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Il sistema del ticket scolastico prevede l’emissione di sussidi a favore dei genitori i cui figli frequentano una scuola privata. In Ticino tale opzione è stata bocciata alle urne dai ticinesi nel 2001. Per maggiori informazioni: http://www.swissinfo. ch/ita/voto-sul-ticketscolastico-in-ticino-respinte-iniziativa-econtroprogetto/1892840

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Portfolio: http://web. ticino.com/ giovannigalli/lessico%20 formale%3Ainf.html


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Eliminiamo le prime espressioni per utilizzare solo le seconde. Avremo un bel quadretto del “nuovo che avanza”. Per esempio la frase “vogliamo la libera circolazione delle genti” in verità significa “vogliamo che la circolazione della mano d’opera segua i capitali”. Oppure: “siamo in una fase di globalizzazione e di ottimizzazione delle risorse” significa “ancora di più licenziamo mano d’opera”. Oppure: “la deregolamentazione favorisce l’espansione di un mercato libero” significa “l’abolizione degli obblighi contrattuali favorisce il furto legalizzato”. Provate voi adesso a coniugare le vostre frasi, combinandole in tutti i modi possibili. Quinto (come l’uovo del cuculo) Che bisogno c’è di confrontare i modelli educativi se vengono standardizzati i programmi e gli obiettivi (esempio Harmos)? Risposta: si confrontano i modelli educativi standardizzati (tramite le competizioni PISA) per metterli meglio in competizione fra loro. La competizione fra sistemi educativi permetterà di farne una graduatoria. Graduatoria sicuramente illuminante nell’ottica della scelta dell’istituto. E’ questo un parto del pensiero neoliberista, sviluppato con i tagli alla formazione pubblica. La questione degli standard non è (in prim’ordine) una questione pedagogica: è una questione economica, che, solo in second’ordine, i ricercatori tentano di rendere plausibile. La certificazione dell’informale, certificazione organizzata tramite lo strumento Portfolio4, sembra introdurre un movimento contraddittorio alla standardizzazione. In effetti riconosce la varietà e la ricchezza dell’informale, la varietà e la ricchezza degli apprendimenti che avvengono fuori dalla scuola. Vuole appunto certificare questa ricchezza che la scuola non può oggi offrire da sola. Allora a che scopo “stringere”, limitare, omologare, standardizzare la formazione e la certificazione da un lato, per allargarla, arricchirla, dall’altro? Risposta: economicamente parlando, il riconoscimento degli apprendimenti informali e la loro certificazione rende interessante l’offerta e il mercato dei corsi ed istituti privati. Li rende competitivi rispetto al servizio pubblico derubato, derubato nelle risorse e standardizzato nelle sue offerte da parte delle politiche neo-liberiste. La verità è che, in qualche maniera, la definizione degli standard ha a che fare con le leggi del mercato (ossia le leggi della domanda-offerta, della competizione e della riduzione dei costi di produzione) e non con la pedagogia. Vale a dire con l’instaurarsi di un mercato della formazione. In qualche maniera la definizione degli standard ha a che fare con l’aziendalizzazione della scuola. In effetti, come abbiamo descritto, uno degli obiettivi nella definizione degli standard in educazione è quello di permettere il confronto fra modelli educativi. Non dobbiamo poi meravigliarci se i costi pubblici (gli investimenti) in educazione vengono rosicchiati sino a raggiungere ed oltrepassare il fondo del barile: tutto ciò ha a che fare con l’impostazione neo-li●●

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Esso raccoglie ordinatamente e stabilmente le documentazioni più significative del percorso scolastico dell’alunno, registrandone esiti e modalità di svolgimento del suo processo formativo

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berista della scuola: la riduzione dei costi di produzione. “Autonomia”, “progetti”, “obiettivi”, “competenze” … Nel campo dell’istruzione, il vocabolario utilizzato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), è molto seducente. Carpito ai docenti progressisti, i più contrari alla trasformazione capitalistica della scuola, è ora utilizzato per giustificare la liberalizzazione dei sistemi di istruzione e per costruire la “nuova scuola” (privata o non): un linguaggio che meglio caratterizza la riduzione degli investimenti, la delegittimazione dello Stato e l’occupazione del discorso pedagogico (come il cuculo che depone il proprio uovo nel nido di un altro uccello). Proviamo quindi a tradurre alcune parole d’ordine del moderno volgo pedagogico. • Standardizzazione = riduzione dei contenuti scolastici, appiattimento • Valutazione = selezione • Autonomia = dipendenza dal campo • Competenze = saper fare • apprendimenti non formali = corsi eseguiti in tempi extra-scolastici • certificazione dell’informale = legittimazione (certificazione) degli apprendimenti extra-scolastici • meritocrazia = maggiore produttività Per cui una frase come “la valutazione dei contenuti standard” diventa “la selezione dei contenuti omogeneizzati”; “acquisire le competenze per l’autonomia” significa “sapere fare gli esercizi senza necessitare la presenza del docente”; alla “tradizionale valutazione va associata la certificazione informale” diventa ”oltre gli apprendimenti dispensati dalla scuola vanno legittimati quelli extra”. “Va premiato il merito” diventa “va premiata la produttività”. E così via. Sesto (Meritocrazia) La meritocrazia sembra essere uno dei nuovi obiettivi del contratto sociale. Sia a destra come a sinistra, l’idea del merito, dagli anni Ottanta in poi, è venuta ad imporsi quale strumento della scalata (gerarchia) sociale e della sua legittimazione scientifica. Non più il sangue, non più il ceto, non più la ricchezza, ma il merito diventa lo strumento della organizzazione e della stratificazione sociale. Come ogni parola anche “meritocrazia” indica qualcosa di non neutrale. In verità il merito viene (va) misurato e la scuola promuove la selezione basata sulle “valutazioni oggettive”. La metodologia sostenuta dalle valutazioni, e basata sulle valutazioni, trasforma gradualmente il sistema scolastico. L’istruzione non è più impartita uguale per tutti, ma va differenziata secondo i “ritmi di sviluppo personali” degli allievi. Dall’educazione uguale per tutti, si passa all’educare secondo il potenziale di ognuno. Quindi il merito5 viene stratificato con misurazioni oggettive. In qualche maniera l’origine storica e sociale di questo moderno pensiero è pre-illuministica: tutti gli individui sono ineguali. Ben lontano dall’essere uno strumento di emancipazione e di democrazia, la meritocrazia non fa che inchiodare i cittadini alle loro disparità ed inchioda●●


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re gli allievi ai “propri spontanei” ritmi di sviluppo. La meritocrazia non abolisce le ineguaglianze: , oltre che abitarle, le stabilisce. La meritocrazia si diffonde in veste scientista, mistificando l’iniquità del sistema sociale. E’ un termine abusato, perché in verità non viene premiato il merito5, ma viene premiata la produttività. Si tratta quindi di una falsificazione (manipolazione) ad uso autoritario e subordinato all’economia di mercato del diritto alla formazione. L’idea poi che con il “premio al merito” si abbia a promuovere l’emancipazione e la scalata sociale dei cittadini, di tutti i cittadini, indipendentemente dalle origini, e in particolare dalle origini di classe, è del tutto allucinatoria, uno specchietto per le allodole. Ciò perché le posizioni di partenza sono sempre molto socialmente determinate, perché gli strumenti culturali a disposizione degli allievi sono sempre molto socialmente determinati, perché le spese culturali che le famiglie possono effettuare con la loro busta paga sono socialmente determinate, e così via. Piove sul bagnato6. ●● Settimo Certamente, in Svizzera e in Ticino, oggi, l’educazione di base rimane ancora a carico del potere pubblico, ma le famiglie sono chiamate sempre più a contribuire in maniera significativa alla loro istruzione, se esse vogliono offrire ai loro figli i complementi necessari alla formazione, per una migliore riuscita. Dalle ricerche condotte nel cantone Ticino sappiamo che gli utenti dei corsi privati di recupero sono originari di categorie sociali medio alte, se non alte. La necessità per queste categorie di migliorare il livello formativo dei propri figli, è vista probabilmente come garanzia per una migliore riuscita nelle filiere successive, segnatamente al Liceo. La fruizione di corsi particolari di recupero servirebbe quindi a garantirsi un migliore e più alto livello futuro. La ricerca internazionale indica che le materie più gettonate, in questa rincorsa all’eccellenza, come in Ticino e in Svizzera, sono la matematica e le lingue. Interessante scoprire che i dati ticinesi corrispondono completamente a quelli internazionali. Pensando alla riduzione del numero degli allievi per classe, ci si chiede perché le alternative che si prospettano alle famiglie sono: le classi numerose o il precettorato. Per essere più precisi, ciò che il privato offre in questo caso è un sistema di formazione, parallelo e dipendente. Se non ci fossero le scuole di base non ci sarebbero i corsi particolari. I corsi particolari si propongono come accompagnamento normale della scolarità. È una preparazione a lungo termine per la formazione individuale, mirata alla successiva iscrizione agli studi liceali, poi universitari e/o politecnici. Il lavoro proposto dalle lezioni private, o dai corsi privati di recupero, non garantisce un alto livello formativo, o una qualità accresciuta di strumenti didattici o una novità in questi ambiti! Il lavoro proposto dalle lezioni private fornisce delle qualità relazionali specifiche, di cui hanno particolarmente bi-

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sogno gli allievi che si sentono sotto pressione o devono tenere il colpo. Gli allievi apprezzano prima di tutto la capacità di adattamento di cui devono fare prova gli insegnanti di corsi privati. Questo suppone che si stabilisce una relazione di vicinanza e magari di confidenza tra allievo e docente. Disponibilità, adattabilità, particolare attenzione alle competenze e alle performance dell’allievo fanno sì che il corso privato può essere particolarmente efficace. Il principio è quello di seguire attentamente lo sviluppo dell’allievo. Per diventare performante, raggiungere la competenza attesa, è magari necessario acquisire dei metodi di lavoro particolari, d’essere puntualmente guidato nel proprio lavoro, nell’applicazione di questi metodi e d’essere messo in situazione di fiducia. Quello che va sottolineato è come il successo di questi corsi è costruito su parametri tutt’altro che accademici, ma – appunto - relazionali. Ottavo Infine vale poi la pena ricordare il concetto di “capitale sociale”. In verità un escamotage per raccogliere studenti originari di un medesimo gruppo sociologico, etnico, religioso o altro, gruppo che dovrebbe condividere determinate norme, professare una specifica dottrina o ideologia, ma in verità che oltre le caratteristiche culturali, sociali, manifesta condizioni economiche privilegiate (alla scuola cattolica non vanno tutti i cattolici: vanno quelli che possono). Insomma l’idea è che se si condividono delle norme si crea un capitale sociale che sfocia in performance scolastiche, in quanto tutti condividono gli stessi valori. La ricerca in Belgio (dove c’è una lunga secolare tradizione e storia di confronto e convivenza tra scuole private e scuole pubbliche) dimostra che, verificate le caratteristiche individuali degli allievi e considerate le caratteristiche socioculturali, le scuole pubbliche fanno meglio di quelle private. Uno degli argomenti dei promotori delle scuole private è che costano meno e danno risultati migliori. Falso! A partire dei risultati Pisa 2000 – 2003 e 2006, in Svizzera non si vedono tendenze significative. ●●

Riferimenti Bibliografici Ball S. J. – Youdell D., (2007) La privatisation déguisée dans le secteur éducatif public. Bray M., (1999), A l’ombre du système éducatif. Le développement des cours particuliers: conséquences pour la planification de l’éducation. Cavet A., (2006), Le soutien scolaire entre éducation populaire et indutrie des services. Galli G., Sette lezioni per una pedagogia di classe Galli G., Hirtt N., Note per un lessico di pedagogia Glasman D., (2004), Le travail des élèves pour l’école en dehors de l’école. Hirtt N., La prova starr, La grandezza delle classi é determinante per la riuscita degli alunni. Hirtt N., Quand les marchés se saisissent de l’éducation. Inchiesta: Lezioni private di ricupero scolastico nel nostro istituto, novembre 2002, Scuola Media Losone. Lezioni private, in Scuola ticinese, periodico della divisione scuola, DeCS, anno XXXI, serie III, 2002, 253

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5 Il merito come valore, qualità, azione lodevole, pregio e virtù – insomma. 6 http://web.ticino.com/ giovannigalli/lessico%20 meritocrazia.html


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Oggettivare la condizione economica, un primo passo verso l’universalismo dei beni sociali Alessandro Lucchini Contestualizzazione economica Trascorsi ormai diversi anni dallo scoppio della crisi economica Occidentale1, riconducibile al settembre 2008, con il fallimento di Lehman Brothers, risulta chiaro che l’Unione Europea ha reagito all’unisono applicando le cosiddette politiche di austerità. Queste misure di rigore finanziario hanno principalmente l’obiettivo di ridurre lo stato sociale reo - secondo politici ed economisti della classe dominante - di essere un’importante fonte di spesa che grava su un debito pubblico in forte espansione. Almeno due distingui andrebbero fatti. Innanzitutto, il welfare state, rispetto alla sua prima fase di vita riconducibile al periodo di forte espansione economica avutosi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha de facto subito tutta una serie di ridimensionamenti dovuti all’ondata neoliberista degli anni Ottanta. In secondo luogo, nel contesto generale della crisi economica, i problemi dei debiti sovrani europei vanno ricondotti alle misure di salvataggio effettuate da parte degli Stati allo scopo di evitare la bancarotta di diversi colossi aziendali, così come al decremento del gettito fiscale conseguente al rallentamento della crescita economica. Infatti, con la scusa del “too big to fail”, molte aziende hanno potuto socializzare le loro perdite momentanee per risollevarsi e continuare a privatizzare i profitti. Un esempio di questo processo è il salvataggio di UBS nell’ottobre 2008. Il forte indebitamento dei paesi dell’UE è solo in ragione minore dovuto all’aumento della spesa pubblica derivante da un maggiore sollecitazione dello stato sociale durante il periodo di crisi economica. La Svizzera e il Ticino, seppur in tono minore, sono anch’essi colpiti dallo smantellamento dello stato sociale: basti pensare, a titolo d’esempio, alla generale diminuzione dei periodi di disoccupazione con la quarta riforma della LADI. Anche in Ticino, per mezzo dei media, è stato diffuso il terrore circa le conseguenze nefaste di un debito pubblico elevato. Attraverso questi canali la classe dominante è riuscita abilmente ad imporre la propria egemonia e così a convincere la popolazione della necessità di misure di rigore finanziario, come la recente introduzione del freno all’indebitamento, approvato in votazione popolare il 18 maggio 2014. Esso non è altro che l’ancoraggio alla Costituzione di regole vincolanti per l’equilibrio dei bilanci pubblici, principio alla base del fiscal compact europeo, che limita il ruolo dello Stato nell’attuare politiche redistributive anticrisi. ●●

1 Una crisi strutturale che ha prima colpito l’economia reale, poi il sistema finanziario e poi ancora di riflesso l’economia reale. 2 A questo proposito si vedano le critiche del Partito Comunista all’iniziativa popolare federale 1:12 per salari equi: http://www. sinistra.ch/?p=3191

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Il debito pubblico Cantonale non può essere analizzato a sé stante, senza rapportarlo alla fase storica e al suo sviluppo temporale. Esso infatti, attualmente, raggiunge livelli simili a quelli degli anni Ottanta; e, nel contempo, il fatto che si continuino a riscontrare interessi negativi legati al debito inferiori agli interessi positivi provenienti dal patrimonio cantonale, non deve essere motivo di preoccupazione. Inoltre, non bisogna dimenticare il ruolo giocato dalle politiche di alleggerimento sull’evoluzione del debito pubblico. Addirittura, queste riforme, che hanno avuto il loro culmine nel 1998 con la riduzione dell’indice di pressione fiscale aziendale sotto la media nazionale (e nel 2000 con la riduzione dell’indice generale calcolato su reddito e patrimonio), sono state additate come cause delle forti difficoltà del Cantone nelle Linee direttive e nel Piano Finanziario 2008-2011. ●● Disuguaglianze di patrimonio: necessità di maggiore giustizia sociale L’abbattimento delle prestazioni sociali, l’incremento delle tasse indirette (come ad esempio la tassa sul sacco e l’aumento dell’IVA) e il parallelo mantenimento (se non incremento) dei privilegi fiscali alla borghesia, hanno de facto contribuito all’ampliarsi delle disuguaglianze in Svizzera, principalmente di carattere patrimoniale. Errore recente del fronte progressista e segnatamente del Partito Socialista (PS) e dell’Unione Sindacale Svizzera è stato quello di concentrarsi prioritariamente su politiche redistributive incentrate sulle disuguaglianze di reddito invece che su quelle di patrimonio. Basti pensare alle recenti iniziative, alquanto lacunose, a proposito dei salari equi e del salario minimo2. Una seria politica di redistribuzione della ricchezza, invece, dovrebbe indirizzarsi laddove la ricchezza è più concentrata e più disegualmente distribuita. L’introduzione di una tassa patrimoniale come quella proposta dal Partito Comunista già nel 2012 e mai ancora considerata dalle altre forze progressiste, agirebbe a questo proposito. I dati sulla concentrazione del patrimonio ci dicono che, nel nostro Cantone, poco più del 2,5% dei contribuenti (coloro che dichiarano un patrimonio netto superiore a un milione di franchi) detiene quasi la metà della fortuna (per l’esattezza il 43,1%), mentre il 46,9% dei contribuenti (quelli che dichiarano una sostanza inferiore ai 50’000 franchi) possiede appena il 2,3% di tutta la ricchezza. Si riscontra dunque la necessità di maggiore progressività fiscale allo scopo di frenare e diminuire le crescenti disparità di ricchezza. Oltre alla Tassa dei Milionari, che andrebbe a colpire meno del 2% della popolazione con aliquote progressive a partire dall’1% del patrimonio (esclusa la prima casa e beni necessari al conseguimento del reddito), si rendono necessarie altre misure. In tal senso, nel programma di legislatura 2015-2019 MPS-PC, troviamo l’aumento dell’aliquota sugli utili delle persone giuridi-


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che al 15% e il raddoppio dell’aliquota sul capitale delle persone giuridiche. Sarebbe inoltre necessario intervenire laddove, palesemente, il sistema fiscale funge da strumento attraverso il quale la borghesia si elargisce privilegi. In Ticino il numero di persone che hanno beneficiato della tassazione globale è raddoppiato in tredici anni. Una tassazione sul dispendio viene applicata ad un sempre più nutrito gruppo di persone che non svolgono un’attività lucrativa in Ticino, ma che possiedono ingenti capitali. Queste, di fatto, sono state tassate in modo alternativo e relativamente più leggero rispetto al resto della popolazione. Questa ingiustizia verso chi, anche se a stento, versa regolarmente le imposte, deve essere abolita. Universalismo e selettività Al disegno strategico prefigurato del contenimento pubblico, sostanzialmente caratterizzato da un’insanabile incompatibilità tra sviluppo economico e sviluppo sociale, bisogna contrapporre un progetto di società che ponga al suo centro il valore sociale del lavoro e metta radicalmente in discussione i cardini culturali ed etici del liberismo economico. Un progetto politico che ha interiorizzato questo obiettivo e che opera per la trasformazione sociale della società in senso progressista, deve puntare, sul medio-lungo periodo, all’universalismo dei beni sociali, come l’istruzione, la sanità, la previdenza sociale e la cultura, e cioè alla garanzia, per ogni cittadino, di poter disporre gratuitamente di tali servizi essenziali. Affinché questi ultimi vengano offerti universalmente, funzionalmente e in modo duraturo, è necessaria una gestione pubblica degli stessi; la loro attribuzione prioritaria al mercato, infatti, significherebbe la fine stessa dell’universalismo. La tendenza riscontrata in Occidente lo dimostra: con lo sviluppo della gestione privata dei servizi sociali si è evidenziato un decremento della fruibilità delle prestazioni, uno spostamento verso posizioni di nicchia (selettività del mercato), nonché un costante deflusso di capitali dai servizi pubblici a quelli privati, realizzato tramite politiche di favoreggiamento politico. La concorrenza in settori economicamente inefficienti tende inoltre alla concentrazione dei capitali e alla velocizzazione della scomparsa del servizio meno redditizio. Questo, il più delle volte, è il servizio gestito dallo Stato, che possiede un minore grado di selettività e dunque minore possibilità di specializzazione e sfruttamento di economie di scala. Con il venire meno del socialismo est-europeo e con la progressiva omologazione ideologica dei partiti occidentali di tradizione operaia, negli anni si sempre più radicata, nelle formazioni socialdemocratiche, una visione del welfare state quale strumento di sostegno dell’efficienza del mercato. Secondo tale lettura, i compiti del welfare state dovrebbero essere essenzialmente volti al contrasto della povertà, per il tramite di politiche ispirate ad un universa●●

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lismo selettivo fine a sé stesso. Questo modo di operare non si china sul problema della povertà nella sua specificità, ma, invece, ricerca un suo contenimento entro parametri ritenuti accettabili. In questo modo non si attuano politiche atte a combattere alla radice le cause della povertà – attraverso, concretamente, l’azione sulla contraddizione primaria del sistema capitalistico: quella tra capitale e lavoro. Questo approccio non ha una visione strategica volta al superamento graduale delle politiche basate sull’universalismo selettivo allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’universalismo non selettivo. In una società divisa in classi, l’universalismo produce certamente anche elementi discutibili, dato che esso tende a rivelarsi più confacente alla classe borghese rispetto a chi sta peggio. Infatti, tramite questo modello, il servizio è elargito a soggetti appartenenti a classi differenti. E, come diceva Don Milani, «non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». Il principio di selettività offre inoltre un vantaggio non indifferente: potendo indirizzare in modo più mirato i servizi sociali essi sono soggetti in modo più marcato al loro stesso miglioramento sia qualitativo che quantitativo. Considerati questi aspetti, un’organizzazione marxista, nel breve periodo, deve sapersi muovere dialetticamente tra la necessità di difendere e sviluppare elementi di universalismo selettivo, e quella di progettare un percorso graduale in cui le conquiste realizzate sappiano portare alla trasformazione sociale in senso progressista. È dunque fin da subito necessario frenare le politiche che scalfiscono il vigente sistema sociale, difendendo le conquiste del passato e, allo stesso tempo, progettare un percorso graduale in grado di tenere in considerazione i rapporti di forza politici che spingono sempre più verso il basso la selettività e l’annullamento dei servizi sociali. Un primo passo sarebbe quello di proporre una serie di rivendicazioni sociali basate sull’universalismo selettivo, che sappiano nel tempo progredire verso l’universalismo mediante un percorso di presa di coscienza della popolazione. ●● I servizi sociali e il volontariato In Occidente si osserva la forte crescita del fenomeno del volontariato, ossia un’attività svolta attraverso un prestazione di lavoro gratuita, che permette di risparmiare ingenti quantità di denaro pubblico. In questo modo il volontariato tende ad alleggerire la sfera d’influenza dello Stato. Proprio per questa sua funzione il volontariato è stato, passo dopo passo, istituzionalizzato ed è per questo che gode del sostegno dei governi occidentali, soprattutto di quelli socialdemocratici. Attraverso il volontariato si affidano ad organizzazioni apparentemente indipendenti servizi universali (o meno) che poi rischiano di trasformarsi in servizi fortemente selettivi a causa della necessità di specializzarsi verso gruppi ben definiti di utenti. Questa “solidarietà” assume quindi un


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carattere che come minimo garantisce lo status quo se non addirittura favorisce una deriva regressiva. L’evolversi del volontariato ha poi favorito un’ambigua e pericolosa confusione fra il primo e il settore privato-sociale. Molto spesso operano nel settore sociale imprese private, non profittevoli, ma che adottano principi economici borghesi. Non da ultimo il volontariato ha contribuito ad una progressiva dequalificazione delle professioni sociali, lasciando operare personale spesso poco qualificato e selezionato, secondo pratiche clientelari per vicinanze politiche e religiose. Un esempio concreto Un esempio di proposta universale selettiva che può essere la base per una progettualità graduale verso l’universalismo dei servizi è quella dei trasporti pubblici gratuiti per giovani in formazione. Essa si riferisce ad uno specifico target sociale a cui viene offerto un servizio universalmente. Si tratta di una rivendicazione storica del movimento studentesco del nostro Cantone: essa fu infatti alla base della piattaforma con cui i liceali nel 2003 scesero in sciopero. Negli anni successivi, regolarmente, il tema è poi tornato alla ribalta sia in Granconsiglio, sia sul territorio, con numerose petizioni della Gioventù Comunista. Questa proposta deve essere concepita come un salario indiretto che permetterebbe ai figli delle famiglie delle classi popolari di poter godere del diritto alla mobilità. La prima volta che se ne discusse a livello istituzionale fu nel 2012 e in mancanza dei voti del Partito Socialista la proposta venne bocciata in Granconsiglio. Nel 2014 essa venne riproposta, ma ancora senza successo, nonostante l’assenso tardivo del PS. Ora che la proposta è stata nuovamente respinta, è utile valutare la modalità con cui presentarla. In quest’ottica potrebbe essere sensato proporre come primo “nuovo” passo quello di una calmierazione dei prezzi. Compito dei comunisti è riportare alla ribalta il tema e lottare affinché si trovi uno sbocco verso l’universalismo di questo servizio pubblico. Ciò è avvenuto di recente nella città di Aubagne, retta da un sindaco esponente del Partito Comunista francese (PCF), che ha introdotto la gratuità dei mezzi pubblici per tutti i suoi cittadini. Un processo come quello sopracitato, basato su una fase iniziale di applicazione di politiche incentrate sul principio dell’universalismo selettivo, ma che sappia essere pragmaticamente il ponte verso un universalismo completo, deve essere correlata all’utilizzo di uno strumento in grado di selezionare i beneficiari delle politiche socio-assistenziali sulla base delle condizioni economiche oggettive del nucleo familiare di appartenenza. ●●

3

Y indica il reddito (escluso quello da patrimonio mobiliare), W il patrimonio (con il suffisso IMM quando immobiliare, MOB quando mobiliare), D le franchigie e le detrazioni, r il rendimento “normale” del patrimonio mobiliare, n il numero dei componenti del nucleo familiare, p(·,·) la funzione che individua la scala di equivalenza, x alcune particolari caratteristiche del nucleo familiare, i un indice che individua i componenti del nucleo e alpha la componente patrimoniale che concorre nel calcolo. Per maggiori informazioni vedi: Tangorra R. & Izzi L., La riforma dell’ISEE: uno strumento migliore al servizio dei cittadini.

●● L’Indicatore della Situazione Economica Equivalente Per quel che concerne il contesto italiano, nasce negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso l’esigenza

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di misurare con criteri oggettivi la ricchezza delle famiglie, conseguentemente alla riduzione della spesa sociale destinata ai servizi e alle prestazioni. La misurazione della ricchezza delle famiglie, a garanzia dell’equità sociale, è stata introdotta nell’ordinamento italiano dal Decreto Legislativo del 31 marzo 1998 n. 109 e prende il nome d’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE). Si tratta di un misuratore della situazione economica di coloro i quali richiedono prestazioni o servizi sociali o assistenziali. Ogni richiedente di una prestazione ha uno specifico indicatore che considera specificatamente la sua situazione famigliare. In questo modo le prestazioni e i servizi sociali vengono elargiti secondo un criterio oggettivo. In Italia il campo di applicazione dell’ISEE è piuttosto vasto e riguarda tutti gli aspetti della vita associata, a livello nazionale e locale. Esso, tra le altre cose, viene applicato per la concessione degli assegni famigliari, i costi d’iscrizione agli asili nido e altri servizi educativi per l’infanzia, i prezzi delle mense scolastiche, le prestazioni scolastiche come libri scolastici, borse di studio, agevolazioni per tasse universitarie, ecc. Il principale pregio dell’ISEE è quello di non considerare il richiedente di una prestazione sociale come un singolo individuo, bensì come un soggetto che opera in stretta relazione con persone con le quali convive, nonché con quella di altri soggetti con i quali sussiste un legame accertabile di dipendenza economica. L’ISEE, nella sua forma generale, può essere espresso con la seguente formulazione3 :

ossia la somma ponderata di reddito e patrimonio diviso per una funzione che individua la scala di equivalenza. Questa funzione dipende dal numero dei componenti del nucleo famigliare e da sue particolari condizioni. ●● L’Indice in cifre In Italia nel corso del 2011 sono state presentate poco più di 7,5 milioni di richieste di servizi pubblici con riferimento all’ISEE che si riferiscono a circa un terzo della popolazione italiana. Le tipologie di prestazioni richieste dai 6,5 milioni di nuclei familiari riguardano principalmente il settore economico assistenziale (66% delle dichiarazioni), i “Servizi di pubblica utilità e casa” (40%), i “Nidi e scuola” (31%) e i “Servizi socio sanitari” (27%). Se tra i 6,5 milioni si considerano solo i nuclei con almeno un componente in età lavorativa (80% del totale), nel 29% di questi non c’è nessun soggetto che lavora. Queste percentuali evidenziano come l’ISEE sia utilizzato principalmente da nuclei in difficoltà economica per motivi occupazionali.


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Complessivamente si può stimare che ogni anno vengono trasferiti alle famiglie attraverso l’ISEE circa 10 miliardi di euro, cioè un trasferimento medio a famiglia di circa 1.500 euro. Tenendo conto che il sostegno va, o perlomeno dovrebbe andare, solo ai nuclei familiari in condizioni disagiate, siamo di fronte ad importi quantitativamente piuttosto significativi, rispetto ai quali è fondamentale che la distribuzione rispetti il criterio di equità. Criticità L’ISEE è uno strumento di misurazione delle condizioni economiche delle famiglie ed adempie il suo compito se fotografa nel modo più aderente possibile alla realtà le condizioni delle famiglie. Esso non deve però essere confuso con una politica redistributiva. L’obiettivo di un maggiore sostegno alle classi più bisognose si raggiunge attraverso una politica in grado di concedere forme di salari diretti e indiretti. Pensare di introdurre questo strumento senza parallelamente lottare per un allargamento dei servizi sociali alla popolazione è stato uno degli errori principali dell’esperienza italiana. L’ISEE è solo e semplicemente uno strumento tecnico che permette di selezionare in modo oggettivo i destinatari di servizi sociali. La modifica dell’ISEE operata dal governo Renzi ed entrata in vigore a Gennaio 2015 ha sollevato tutta una serie di critiche. Innanzitutto, tale modifica del metodo di calcolo del reddito, a seguito della quale, ora, si includono nel reddito anche le indennità, le pensioni e gli assegni d’invalidità che una famiglia percepisce, ha de facto penalizzato le famiglie più povere o gli individui più disagiati. Infatti, proprio in virtù della loro situazione socio-economica, queste famiglie hanno potuto beneficiare del diritto ad indennità o assegni straordinari che vengono invece ora contabilizzati come fonte di reddito. Tramite la riforma Renzi si è acutizzato il pericolo dell’utilizzo del nuovo strumento per accedere a prestazioni e servizi sociali finora garantiti universalmente. In questo modo uno strumento che ha lo scopo di cercare obiettivamente di categorizzare il tenore di vita della popolazione può diventare uno strumento in mano alla classe dominante per distruggere lo stato sociale. ●●

●● L’ISEE in Svizzera L’inserimento di uno strumento di misurazione della ricchezza individuale basata su un calcolo che considera reddito, patrimonio, nucleo famigliare ed eventuali situazioni particolari sarebbe utile nel nostro paese. Ovviamente è necessaria una contestualizzazione alla situazione svizzera, soprattutto per quel che riguarda il peso conferito al patrimonio rispetto al reddito. In Italia questa percentuale è del 20%, giustificata principalmente per l’elevato tasso di evasione fiscale. Infatti gran parte della ricchezza sottratta al fisco si trasforma il più delle volte in patrimonio. È importante evitare che l’attualizzazione dell’I-

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SEE non vada a negare diritti universali o prestazioni che già ora vengono erogate dallo Stato gratuitamente; essa, in tal senso, si dovrebbe inserire in quel panorama di servizi in cui la selettività rispecchia troppo poco i principi di progressività. Appare inoltre necessario che lo strumento in questione venga costantemente aggiornato, sulla base di una gestione centralizzata e correlatamente all’anagrafe tributaria. Un primo passo, in Svizzera, potrebbe essere quello di utilizzare questo strumento per garantire ai giovani in formazione una serie di servizi pubblici e sociali calmierati sulla base della situazione economica oggettiva della loro famiglia. Si pensi ad esempio alla possibilità di disporre di una “card” che possa venir utilizzata per i prezzi delle mense scolastiche, l’accesso ai musei, l’acquisto di abbonamenti di treno e bus, il pagamento delle rette universitarie, ecc.

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Riconfigurare la gestione dei rifiuti, nell’ottica di uno scenario sostenibile e moderno Francesco Vitali ●●

1 «Il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come un punto di partenza e un punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione». Karl Marx, Il Capitale, Libro III, sez. III, cap. 15, p. 1083, Newton Compton, Roma 2013) 2

Pierre Eyben, Per un comunismo verde, http:// www.partitocomunista. ch/index. php?option=com_

3 Numerose fonti attestano la nocività degli inceneritori per gli abitanti che vi abitano attorno. Una breve ricerca su internet è sufficiente per trovarne.

Introduzione

Negli ultimi tempi l’attenzione della società – media, classe politica e opinione pubblica – si è focalizzata in maniera preponderante sulla crisi economica e, in seguito, sulla situazione internazionale, che, con il rischio di un nuovo conflitto militare a livello mondiale, si sta aggravando sempre più. Tali questioni sono indubbiamente di centrale importanza viste le implicazioni a loro connesse. In stretta correlazione con questi sviluppi, tuttavia, occorre rimarcare il sussistere di un’altra questione, altrettanto importante, di cui, ultimamente si discute ben poco approfonditamente: gli impatti delle attività produttive sull’ambiente. Questo articolo focalizzerà la propria analisi su un frangente particolare di tale, ampio, argomento. La politica relativa alla gestione dei rifiuti rappresenta un importante ambito in cui agire al fine di fronteggiare i problemi ambientali prodotti dal sistema economico capitalista, e cioè un modello di sviluppo che, essenzialmente, cozza contro qualsivoglia criterio di gestione eco-compatibile del territorio1. Evidentemente, in tal senso, l’unica prospettiva realistica per salvaguardare in modo sostanziale l’ambiente naturale e, con esso, la società, è quella concernente il superamento del capitalismo, con la conseguente razionalizzazione delle produzioni «in funzione di una oggettivazione dei bisogni e di una valutazione seria delle risorse (ancora) disponibili»2. I comunisti, tuttavia, pur non dimenticando questo orizzonte strategico, propongono soluzioni concrete a problemi concreti, ed è proprio in tal solco che s’inserisce questo scritto. Concretamente, la modalità attraverso la quale si gestiscono i rifiuti ha un ruolo centrale nel determinare la diffusione di sostanze inquinanti nei suoli, nelle acque e nell’atmosfera. Inoltre, di fronte all’esaurimento dei giacimenti di molti minerali e metalli - che avverrà nella prossima metà di questo secolo -, la messa in funzione di un metodo di riciclaggio il più completo possibile, assume un’importanza sempre più centrale. ●● Realizzare in Ticino una gestione dei rifiuti al passo coi tempi In virtù di quanto sopra, il Partito Comunista ha deciso di elaborare una riforma della gestione dei rifiuti. In Ticino, infatti, esistono ancora molti tipi di rifiuti che non vengono riciclati e, una buona parte di

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essi, finisce per essere bruciata nell’inceneritore di Giubiasco, con conseguente dispersione di sostanze nocive nell’aria3. La proposta in questione è pertanto incentrata attorno alla finalità di aumentare sia le tipologie di materiali riciclati, sia la quantità dei rifiuti riciclati, attraverso l’incentivazione della raccolta differenziata. Obiettivo ultimo di tale politica è quello di scoraggiare l’utilizzo del “sacco indifferenziato”, fino alla sua abolizione. Rispetto ad una tale evoluzione, logicamente, l’utilità dell’inceneritore verrebbe a dissolversi. Tale apparato propositivo rientra nel solco di una strategia denominata rifiuti-zero – o, per usare una terminologia più internazionale, zero-waste. Concretamente, questo approccio è al passo coi tempi in virtù del fatto che, tenendo conto degli attuali problemi concernenti l’inquinamento ambientale e la scarsità delle risorse, intende operare una riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti e l’aumento della durata di vita dei materiali attraverso il riciclaggio di tutti i rifiuti. ●● Assi concreti in vista del raggiungimento della politica rifiuti-zero Affinché i cittadini vengano indotti a separare i rifiuti e a portarli ai centri di raccolta, occorre che questi ultimi possano essere facilmente raggiungibili e, cioè, capillarmente distribuiti sul territorio. Se, in tal senso, nelle zone periferiche, andrebbero creati ulteriori punti di raccolta, negli agglomerati, invece, occorrerebbe potenziare il sistema di raccolta a domicilio, andando peraltro ad includere le tipologie maggioritarie di rifiuti (alluminio, ferro, plastica, materiale organico, etc). Un altro, assai importante, cardine della proposta complessiva concerne la creazione di uno stabilimento destinato al riciclaggio della plastica. In Ticino (come anche nella maggior parte della Svizzera), infatti, il PET è, quasi unicamente, l’unica tipologia di tale materiale ad essere effettivamente riciclata. È, inoltre, doveroso centralizzare la gestione dei rifiuti a livello cantonale (oggigiorno ciò è prerogativa dei comuni): tale trasformazione, oltre a permettere la diminuzione di alcuni costi di gestione, come, per esempio, il controllo dei centri di raccolta da parte delle agenzie di sicurezza privata (che impedisce l’utilizzo di un determinato centro comunale da parte di utenti di altri comuni), faciliterebbe l’interazione tra aree di raccolta e smaltimento rifiuti. Dato che attualmente esiste già un’azienda pubblica di respiro cantonale – l’Azienda Cantonale dei Rifiuti (ACR) –, si tratterebbe di potenziarne le prerogative, affidandogli la gestione di tutto il sistema cantonale di raccolta dei rifiuti. ●● Riforma della gestione dei rifiuti: una questione politica Con molta probabilità, l’applicazione di una tale ri-


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forma comporterebbe più costi che ricavi, almeno sul corto-medio periodo. Tuttavia, in termini politici, essa va perseguita in virtù del fatto che la salute dei cittadini e la salvaguardia dell’ambiente rappresentano uno scopo sostanzialmente prioritario rispetto all’andamento dei bilanci comunali e cantonali. Va tenuta in considerazione, peraltro, attraverso questa evoluzione, la concreta possibilità di creare posti di lavoro. Ancora sul frangente politico, occorre sottolineare la necessità di intraprendere una scelta reale e sostanziale circa la promozione del riciclaggio e l’esclusione progressiva della combustione e non, invece, un discorso di facciata, cioè destinato a non concretizzarsi. La classe politica ticinese, purtroppo anche se, nell’ottica di ottenere consenso, praticamente tutti gli esponenti politici si dichiarano attenti alle tematiche ambientali -, ha deciso di puntare sul foraggiamento dell’inceneritore, ad ovvio discapito del riciclaggio. Nei fatti, in conclusione, anziché la speculazione edilizia, il risparmismo anti-stato e gli interessi imprenditoriali contrari al riciclaggio, occorre favorire una politica di gestione dei rifiuti attenta ai problemi ambientali odierni e alla salute dei cittadini.

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Matteo Borioli e Pier Zanetti, Ustat, Foto di famiglia (dall’esterno) in dati 2-2005, p. 27 citato in: http://sezioni.ps-ticino. ch/documenti/868/ Ricerche/Anticipo_ alimenti_def.pdf

2

Ufficio federale di statistica, Neuchâtel 2007, http://www.bfs.admin. ch/bfs/portal/it/index/ themen/die_schweiz_in_ ueberblick/ fuehrungsgroessen/ sektoriel/0 3_02/03_02_09.html

3

Nel 2007 la Federazione svizzera delle famiglie monoparentali stima che la metà dei bambini non ricevono gli alimenti a loro dovuti o li ricevono in modo irregolare o fuori dai tempi stabiliti. Si veda: Comunicato stampa del 9 ottobre 2007, Segretariato Centrale della Federazione Svizzera Famiglie Monoparentali, 3000 Bern 6

4

Si veda: http://sezioni. ps-ticino.ch/ coordinamento/index.

5

Si veda: http://sezioni. ps-ticino.ch/ documenti/868/ Ricerche/Anticipo_ alimenti_def.pdf

6

Si veda: Hausherr/ Faschon, Wie schützen di Kantone di Rechte der Kinder? Untersuchung zur

7

Si veda: http://www. dialogare.ch/Sport_ita. htm

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La famiglia monoparentale: un’entità che merita attenzione

Amos Speranza

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Introduzione

In Svizzera, la crisi economica, seppur in modo più temperato rispetto ai contesti nazionali circostanti, prosegue e, con essa, anche il classico processo di “socializzazione delle perdite”, che punisce gli strati più deboli della società. Quest’ultimo, frastagliato, panorama è composto, tra le altre, dalla categoria delle cosiddette economie domestiche monoparentali, ossia quei nuclei famigliari in cui tutto il peso relativo il sostentamento dei figli è a carico di un solo genitore, il quale deve riuscire a provvedere con un solo stipendio agli innumerevoli oneri finanziari ed umani che ciò comporta. ●● Situazione globale In Ticino, nel 2000, il 6,9% della popolazione viveva all’interno di famiglie monoparentali; e, all’incirca l’87% di questa tipologia famigliare, era caratterizzato da una conduzione femminile1. Nel 2003, sempre nel nostro Cantone, le famiglie monoparentali costituivano il 20,4% dei cosiddetti working poors 2. Da queste sommarie indicazioni, che, data l’evoluzione in fatto di tasso di divorzi e di crisi economica, molto presumibilmente non hanno subito trasformazioni sostanziali col passare del tempo, si evince che siamo di fronte ad una categoria il cui peso relativo, all’interno del contesto cantonale, non può essere in nessun modo eluso. Secondo i dettami legislativi, in caso di divorzio, entrambi i genitori devono partecipare, in base alle loro capacità, al mantenimento dei figli. Di riflesso, l’importo del contributo a favore dei figli versato dal genitore al quale non è affidata la custodia è rapportato, caso per caso, alle sue capacità finanziare concrete. Da ciò, tuttavia, non consegue automaticamente – anzi - che le quote versate siano effettivamente sufficienti alla copertura dei costi complessivi relativi ai bisogni filiali3. Al fine di fronteggiare tale inconveniente, è stato istituito il cosiddetto anticipo alimenti, attraverso cui, ai figli minorenni, viene garantito un importo – che non può superare i 700 CHF - corrispondente alla quota fissata dalla sentenza o dalla convenzione del divorzio. Dal 1 gennaio 2005, nel nostro Cantone, l’anticipo degli alimenti è stato limitato ad un periodo massimo di 60 mesi complessivi; a questo provvedimento sono seguite, periodicamente, legittime prese di posizioni,

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tra le quali, la più significativa è stata la petizione, lanciata il 14 giugno dello stesso anno dall’Associazione ticinese famiglie monoparentali, denominata “Ridiamo i mezzi finanziari alle madri in difficoltà” 4. Emerge, dalla presa in considerazione della condizione delle famiglie monoparentali, un’abbondante schiera di aspetti problematici, oltremodo fonte di preoccupazione. ●● Il genitore: solo, precario e stressato Il caso più problematico – e, del resto, maggioritario – è rappresentato dalla famiglia monoparentale guidata da una donna. La precarietà, laddove si presenta, è legata alla percezione di redditi da lavoro insufficienti per coprire le spese complessive (nel determinare questa situazione, ovviamente, svolge un ruolo alquanto importante la ancora imperante disparità salariale di genere). È importante, in tal senso, rilevare come, in diretta conseguenza della frammentazione famigliare, varie voci di spesa (alloggio, salute, mobilità, etc.) incrementino in fatto di peso relativo (si calcola che una persona sola necessita di entrate superiori del 44% per mantenere il proprio standard di vita con un figlio a carico, mentre a una coppia basta il 18%5 ; alcuni studi indicano che nel caso di famiglie monoparentali, il costo dei figli è superiore del 50%6). È assodata, peraltro, la sostanziale difficoltà di reinserimento professionale dopo il divorzio7, che, molto spesso, di fronte a impellenti necessità materiali, porta ad accettare lavori poco pagati e sfiancanti. E, sempre nell’ambito di questa generale impasse, alle donne sole con a carico uno o più bambini, risulta alquanto difficoltoso migliorare la propria situazione professionale: l’aggiornamento professionale, l’aumento del tempo di lavoro e la mobilità professionale costituiscono operazioni ben poco concretizzabili, che di fatto erodono eventuali progettualità. Il basso livello del risparmio, peraltro, preclude la possibilità di eseguire qualsivoglia tipologia di investimenti - i quali, nella maggior parte dei casi, sono la premessa per incrementare la propria posizione sociale – e, inoltre, prolungano i problemi anche al periodo successivo al pensionamento. Per quanto concerne la salute psico-fisica del capo-famiglia, il fatto di badare individualmente all’educazione del figlio o dei figli, quello di dover assicurarsi, mese per mese, che gli alimenti dei figli vengano effettivamente versati e - come se non bastasse - quello di condurre un’attività lavorativa che, tra le altre cose, comprime a livelli infimi il tempo libero, rappresentano uno spaccato alquanto indicativo del contesto all’interno del quale può maturare una condizione caratterizzata da stress e, anche, da problemi ben più gravi. ●● L’altra vittima: il bambino A livello complessivamente esistenziale, la precarietà finanziaria che, in misura importante, colpisce queste famiglie, può assestare, ai bambini che cre-


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scono in tali contesti, più o meno pesanti conseguenze negative, le quali, di fatto, annullano le cosiddette pari opportunità. In modo particolare, ad essere messa in discussione è l’integrità delle prospettive future, sostanzialmente incrinate da una base di partenza decisamente sfavorevole. Infatti, in aggiunta ai già rilevanti contraccolpi conseguenti alla spaccatura del nucleo famigliare originario, si dispongono altre, alquanto imponenti, conseguenze, dal carattere tendenzialmente vizioso. L’imperiosa necessità di far quadrare i conti conduce ad una restrizione dell’esposizione finanziaria da parte della famiglia. Le ripercussioni, sul bambino, di un tal dinamica sono decisamente rilevanti: per esempio, il deperimento delle attività sportive e culturali (musicali, in primis), pone le premesse per un decremento della presenza all’interno delle reti sociali – le quali garantiscono il riconoscimento e l’integrazione in una comunità - e, al tempo stesso, in un periodo cruciale in fatto di crescita complessiva, riduce la sfera delle opportunità di arricchimento e sviluppo genericamente personale - un’evoluzione in nessun modo indelicata, insomma. I problemi finanziari, inoltre, assieme alla presenza relativamente minore del genitore (il quale, oltre a dover gestire individualmente il proprio figlio, deve, per tramite di un’occupazione professionale, garantire anche un’entrate finanziaria) e ai potenziali contraccolpi psico-fisici che non di rado possono scatenarsi in conseguenza dell’impasse vissuta dal soggetto, incrinano la possibilità di condurre con performance il percorso scolastico. Non casualmente, all’interno degli istituti cantonticinesi, in rapporto a quest’ultima dinamica, la selezione sulla base dell’origine sociale rappresenta una questione decisamente all’ordine del giorno, data l’assenza di sufficienti contro-tendenze a livello complessivamente pedagogico8. E, com’è chiaro, un profitto scolastico più che sottotono, corrisponde, nel futuro, tendenzialmente, ad una collocazione professionale che non permette di percepire un salario corposo, cioè in grado di fronteggiare le spese globali a cui i soggetti sono confrontati: in questo modo, concretamente, si riproduce, ereditariamente e viziosamente, la povertà. I costi sociali e le scelte della politica Le autorità cantonali motivarono la decisione di limitare l’anticipo degli alimenti ad un periodo massimo di 60 mesi complessivi secondo uno schema risparmista (nei termini di alcuni milioni di Franchi, concretamente). In realtà, per tramite di provvedimenti similari, le spese statali, anziché diminuire, aumentano. Innanzitutto, il peso sociale della precarietà economica, eluso da una parte, emerge da un’altra: di fronte alla necessità, logicamente, le famiglie, oltre ad indebitarsi, si appoggiano - spesso e volentieri all’interno di un vero e proprio circolo vizioso - ad un differenziato novero di aiuti sociali (dai sussidi cassa malati fino alle borse di studio). E, an●●

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che soprattutto, il disagio sociale che può trovare terreno fertile all’interno delle famiglie monoparentali precarie e che non viene adeguatamente medicato, è causante di ulteriori, non indifferenti, costi (dai costi conseguenti alla piccola criminalità fino a quelli relativi ai servizi di assistenza psicologica). Alla luce di tali evidenze, per quanto fin da subito possibile, il problema va risolto alla radice. I bilanci cantonali vanno fatti respirare andando a prendere la ricchezza dove questa è effettivamente e abbondantemente presente: il Partito Comunista della Svizzera Italiana, in tal senso, ha messo in campo la proposta della Tassa dei Milionari9. Per quanto riguarda la dimensione lavorativa, invece, occorre superare qualsivoglia dinamica legata alla precarietà, per dirigersi verso un contesto che preveda impieghi ben retribuiti – fondamentale, in tal senso, l’affermarsi della parità salariale di genere - e stabili. È fondamentale, in tal senso, anziché ripiegare passivamente sul soccorso dello Stato sociale, configurare un tessuto economico all’interno del quale vengano a svilupparsi performanti opportunità occupazionali, bastevoli al sostentamento dell’economia famigliare. Ovviamente, finché questa evoluzione non si concretizzerà, lo Stato deve continuare a fornire sufficienti aiuti a che patisce le summenzionate problematiche: è importante, in tal senso, potenziare i servizi di consulenza (gratuiti) destinati all’orientamento delle famiglie monoparentali e, inoltre, - invece che ridurli – incrementare il ruolo dei servizi d’incasso e anticipo di alimenti, la cui positiva peculiarità è quella di tamponare adeguatamente i diversi casi concreti. Infine, affinché, per il genitore, la conciliazione di lavoro e cura dei figli sia sostenibile, è necessario che gli asili nido vengano resi finanziariamente accessibili, territorialmente capillari e qualitativamente sviluppati in termini di servizio offerto (orari ampi, personale competente, etc).

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Per maggiori informazioni: http:// www.sinistra.ch/?p=1929

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Per maggiori informazioni: https:// tassadeimilionari. wordpress.com


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Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica

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La Svizzera è oggi caratterizzata da un’economia orientata all’esportazione e dall’assenza di materie prime

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Lo sguardo multipolare del Ticino: una prospettiva vitale Nicolas Fransioli

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La recente decisione di fondare una banca dei BRICS (tuttavia aperta a tutte le nazioni facenti parte dell’ONU) con lo scopo di finanziare investimenti strutturali è una chiara sfida alle politiche neo-liberiste imposte a numerosi paesi in via di sviluppo dal Fondo Monetario Internazionale

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La recente escalation militare in Ucraina può essere facilmente letta come il tentativo da parte degli Stati Uniti di impedire la realizzazione di un integrazione Euro-asiatica, particolarmente caldeggiata da Russia e Cina, e in cui anche molti esponenti delle élite economiche europee (in particolare tedesche) vedono una possibile via di uscita dalla crisi. Il sostanziale appoggio dell’UE e della Germania al governo golpista Ucraino dimostra la evidente sottomissione dell’Europa (a scapito dei propri interessi nazionali) rispetto ai diktat di Washington5 Si veda: http://sezioni.ps-ticino. ch/documenti/868/ Ricerche/Anticipo_ alimenti_def.pdf

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La prima controtendenza si consolida a livello macroeconomico con la rottura degli accordi di Bretton Woods del 1971, che rendono il dollaro, la moneta di riferimento internazionale, una moneta meramente fiduciaria, sospendendo (a tempo indeterminato) la sua convertibilità in oro e aprendo la strada all’enorme immissione di capitale fittizio nel sistema economico da parte della Federal Reserve. La seconda controtendenza (attacco ai diritti del lavoro), si è manifestata con particolare evidenza dopo il 1989 in conseguenza della perdita del contrappeso rappresentato dai diritti sociali garantiti dal blocco socialista e dal progressivo declino dell’egemonia del movimento operaio in Occidente

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I mutamenti in atto a livello globale, che vedono il ridimensionarsi del ruolo predominante dei paesi a capitalismo avanzato - in profonda crisi - nei rapporti di forza internazionali, a favore di nuove realtà emergenti, in modo particolare i BRICS 1, impongono un ripensamento della collocazione della Svizzera – e con essa del Ticino - rispetto all’economia internazionale. Occorre soprattutto considerare che il processo di globalizzazione ha assunto caratteri di irreversibilità, o perlomeno, per quanto riguarda il nostro Paese, risulta impossibile sottrarsi ad esso se non a costo di una riconversione pressoché totale del sistema produttivo 2. ●● In quale contesto ci muoviamo? Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dall’ascesa, sia sul piano economico che politico, dei BRICS, che hanno saputo efficacemente perseguire una politica di sviluppo economico. Pur tenendo conto delle specificità e delle divergenze riguardanti singoli paesi e gradi di sviluppo, tale evoluzione ha complessivamente non solo migliorato le condizioni di vita di larghe fette della popolazione dei paesi coinvolti, ma ha anche consentito a quest’ultimi, sul piano internazionale, di slegarsi progressivamente dalla dipendenza economica e politica dai paesi del centro imperialista e, inoltre, di farsi essi stessi protagonisti di modelli di cooperazione economica alternativi al neo-colonialismo occidentale e alle sue emanazioni3. L’imperialismo statunitense e i suoi vassalli europei hanno colto in questa tendenza la minaccia per il proprio primato economico e politico sul resto del mondo, e piuttosto che consentire un cambiamento degli equilibri mondiali - che comporterebbe un’equa redistribuzione in senso paritario del peso economico e geopolitico fra Nord e Sud del mondo – nella direzione, quindi, di un ordinamento multipolare, hanno preferito seguire la via del conflitto, anche sul piano militare4, nel tentativo di conservare la propria egemonia globale e il conseguente drenaggio di risorse economiche dalla periferia verso il centro. È indubbio che il successo di tale politica imperialista si è rivelato finora quanto meno parziale: arginato, nel corso del Novecento, dal ruolo di primo piano giocato nello sforzo anti-imperialista e per la democratizzazione dei rapporti fra nazioni da Unione Sovietica e dal Movimento degli Stati non allineati, esso si è dovuto scontrare, dopo il crollo del blocco orientale, con la poderosa ascesa della Cina. In Occidente, a fronte della crescita economica dei paesi della periferia del mondo, e anche come conseguenza della riduzione della possibilità di al-

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largare ulteriormente la sfera d’influenza del capitale, si è assistito, già a partire dalla fine del boom economico del dopoguerra, al susseguirsi, con cadenza regolare, di crisi e al progressivo declino della redditività dell’economia reale. A queste contraddizioni di carattere sistemico, l’Occidente ha reagito, sul piano interno, principalmente con due contro-tendenze: da una parte la progressiva finanziarizzazione dell’economia e, dall’altra, l’energico attacco al fronte del lavoro, finalizzato a comprimere i costi di produzione5. In estrema sintesi, siamo di fronte ad un approccio che, invece di risolvere la crisi alla radice, tampona i livelli di profittabilità degli investimenti, conservando con ciò i privilegi delle oligarchie al potere, e, soprattutto, non fa altro che riprodurre – aggravandole - le contraddizioni alla base delle summenzionate impasse. La finanza, peraltro dopata dalle ingenti immissioni di liquidità da parte dello Stato, assorbe una parte sempre maggiore dei capitali in cerca di valorizzazione, causando una vera e propria desertificazione industriale e il susseguirsi di bolle speculative. Parallelamente, le politiche di concorrenza al ribasso sul costo del lavoro precarizzano progressivamente la condizioni di vita dei salariati e negano le condizioni per lo sviluppo in senso qualitativo del capitale umano e la possibilità di beneficiare appieno, nel contesto globalizzato, dell’unico vantaggio di cui l’Occidente ancora dispone quanto a know-how. La crisi del 2008 rappresenta l’apice dell’insostenibilità dell’attuale modello economico. A fronte dell’impoverimento della stragrande maggioranza della popolazione6 continua a prosperare un’oligarchia finanziaria che assorbe una porzione sempre più consistente di ricchezza. Contemporaneamente, si assiste, sul piano internazionale, ad un incremento dell’aggressività dell’imperialismo statunitense, che vede pesantemente minacciato il suo primato, riportando in auge scenari di guerra globale. Il contesto svizzero e ticinese, pur essendo finora stato colpito dalla crisi in modo meno pesante rispetto ad altri Paesi, difficilmente potrà sottrarsi, senza adeguate misure, al declino dell’Occidente, ed è proprio in virtù di questa certezza che occorre, fin da subito, configurare strategicamente prospettive sostenibili. ●● Quale futuro per il Ticino? Dato che la crescita economica dei BRICS ha comportato lo sviluppo in senso multipolare della geopolitica mondiale, instaurare con essi rapporti di cooperazione da pari a pari e reciprocamente vantaggiosi è l’unico modo per inserirsi virtuosamente in una corrente di sviluppo trainata dall’espansione di queste economie che, a quanto pare, è destinata a rafforzarsi ulteriormente. Pur avendo conseguito uno sviluppo notevole negli ultimi decenni, i paesi emergenti risultano ancora deficitari rispetto ai paesi a capitalismo avanzato sul piano dello sviluppo tecnologico e del sapere. Il loro sistema produttivo,


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infatti, rimane caratterizzato principalmente dall’industria a basso valore aggiunto. Per i paesi a capitalismo avanzato, quindi, si presenta la possibilità di partecipare attivamente, attraverso la messa in rete delle posizioni d’avanguardia in fatto di know-how, a questo percorso. Ciò, concretamente, può avvenire sia attraverso l’esportazione di prodotti ad alto valore aggiunto, sia attraverso l’esportazione del know-how stesso7. Per fare ciò, tuttavia, è necessario abbandonare la concezione di cooperazione internazionale finora imperante in Occidente, che vede i paesi extra-occidentali come soggetto passivo e subordinato. I BRICS hanno infatti dimostrato chiaramente la loro intenzione di rifiutare rapporti lesivi alla loro sovranità. La Svizzera e il Ticino presentano in questo senso caratteristiche tali da essere soggetti privilegiati per l’inserimento in questa evoluzione. Oltre alla cospicua presenza sul territorio elvetico di organizzazioni internazionali, la recente stipulazione dell’accordo di libero scambio con la Cina popolare pone un’opportunità unica per slegarsi (o perlomeno bilanciare) dalla dipendenza dallo schieramento dell’imperialismo a stelle e strisce. Per poter ricoprire proficuamente questo ruolo è però necessario fin da subito implementare misure volte a ri-orientare l’economia verso la valorizzazione delle competenze necessarie alla produzione ad alto valore aggiunto. Il campo fondamentale su cui agire è evidentemente la formazione, che va sottratta agli interessi di breve termine del mondo economico (che in genere coincidono con la compressione del costo del lavoro) per implementare una visione strategica in grado di promuovere i centri di produzione del sapere e connetterli efficacemente con il tessuto economico. In Ticino ciò è realizzabile concretamente promuovendo il concetto di “Ticino città universitaria”, nell’ambito del quale lo sviluppo di poli universitari d’eccellenza si connetterebbe, per tramite della creazione di centri di competenze, ad un tessuto economico peculiarmente incentrato attorno alle PMI8. ●● Agire fin d’ora Per il nostro Cantone, particolarmente colpito da fenomeni di dumping salariale e dal ridimensionamento dello stato sociale, risulta essenziale, oltre ad implementare una serie di misure ad hoc per combattere tali fenomeni9, rivendicare un’autonomia propositiva riguardo ai summenzionati scenari di inserimento nel contesto globale. Non possiamo permetterci, in altre parole, di aspettare che sia la politica federale a promuovere questo riorientamento strategico: il Ticino deve dotarsi degli strumenti per instaurare autonomamente rapporti di cooperazione con i BRICS. Alcuni recenti sviluppi, infatti, rendono particolarmente pressante la necessità di un ripensamento della nostra collocazione rispetto all’economia internazionale e dell’attuazione delle misure necessarie a tale scopo. L’approvazione dell’iniziativa contro l’im-

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migrazione di massa ha portato ad un punto critico i rapporti con l’Unione Europea, oggi il principale partner commerciale della Confederazione e del Cantone. Considerando il rafforzarsi del sentimento di ostilità verso l’Unione Europea all’interno degli stessi suoi paesi membri, essa potrebbe scegliere di seguire la “linea dura” con la Svizzera, al fine di lanciare un monito generale a proposito del prezzo da pagare per chi pensasse di poter fare a meno dell’integrazione europea10. In tal senso, per la Svizzera e particolarmente per il Ticino, ri-orientare la collaborazione economica dall’Unione Europea verso i paesi emergenti potrebbe rappresentare una vera e propria ancora di salvezza. Numerosi paesi, inoltre, di fronte alle difficoltà nel far quadrare i loro bilanci a seguito della crisi economica, sembrano intenzionati ad arginare energicamente la possibilità di sottrarre i patrimoni all’imposizione fiscale: gli accordi recentemente presi dalla Confederazione con diversi paesi hanno de facto sancito la fine del segreto bancario. Tale settore, pertanto, come dimostrano i segnali di allarme provenienti dalla piazza finanziaria luganese, va incontro ad un ridimensionamento tutt’altro che indolore, sia per il personale oggi impiegato nel settore, sia per il gettito globale della nostra economia. Va pertanto - rapidamente - definita una exit-strategy anche per il settore bancario, il quale, da una parte, deve essere traghettato al di fuori della spirale concernente la finanza speculativa e, dell’altra, deve acquisire un ruolo propulsivo di sostegno agli investimenti necessari a realizzare la prospettata riconfigurazione economica. Al contempo, questa branca dell’economia occorre mantenga la sua vocazione internazionale: in quest’ottica, per esempio, l’accordo di libero scambio con la Repubblica Popolare Cinese rende la Svizzera una piattaforma privilegiata per l’internazionalizzazione della valuta cinese. Va da sé che il perseguimento di tale cambiamento di rotta e l’implementazione delle misure necessarie ad attuarlo, presuppongono un ritorno sulla scena dell’entità statale come soggetto propositivo in grado di avere una visione strategica per il futuro e perseguirla coerentemente, anche dal punto di vista finanziario, attraverso l’intervento diretto nell’economia nei settori chiave qui esposti. Fino ad ora, purtroppo, l’impressione che ha dato la classe politica nostrana nel reagire al peggioramento delle condizioni economico-sociali è quella di navigare a vista. I prossimi anni saranno fondamentali per determinare se il Ticino riuscirà ad evitare la spirale deflazionistica che ha già colpito realtà a noi non così distanti e inserirsi in maniera virtuosa nei processi di emancipazione dall’imperialismo tutt’ora in atto.

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La creazione di centri di competenze, oltre a garantire alla produzione locale livelli d’eccellenza, può facilmente avere luogo attraverso consulenze nei processi di sviluppo avviati dai BRICS

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Per un approfondimento si veda: Alessandro Lucchini, “La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile”, #politicanuova, Novembre 2014

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Salari minimi, obbligatorietà dei contratti collettivi e controlli capillari sui posti di lavoro a tutela del rispetto delle norme. Va, inoltre, invertita la tendenza verso la de-fiscalizzazione degli altri redditi e dei profitti a favore di una politica di investimento nella socialità

10 Un’eventuale rottura degli accordi bilaterali potrebbe comportare un’introduzione unilaterale da parte europea di dazi doganali per le esportazioni elvetiche verso l’UE, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il settore delle esportazioni. Oltre a ciò va notato come, dato che l’UE non sembra dare segnali di ripresa dalla crisi da cui è afflitta, le esportazioni elvetiche non potranno che subirne le conseguenze



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