quadrimestrale marxista della Svizzera italiana
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ottobre 2015
Speciale
pag.4 Intervista a Domenico Losurdo
elezioni federali pag.9 Dossier: La Svizzera di fronte all’estero
Impressum
#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 8 ottobre 2015 anno III
Redazione: Aris Della Fontana (Direttore), Tobia Bernardi, Mattia Tagliaferri, Luca Robertini, Damiano Bardelli
Editore Partito Comunista
ISSN 2297-0657
Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio
Email aris.dellafontana@politicanuova.ch
Stampa Tipografia Cavalli
CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona
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3 Editoriale: Realista, «di governo» e strategico: il metodo politico dei comunisti 4 Domenico Losurdo: “Il movimento socialista è nato dall’incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!” 7 Un raddoppio che necessita responsabilità 9 Condizioni e prospettive per la Svizzera della Nuova Cooperazione 13 Dal congresso di Vienna ai BRICS: storia e prospettive della neutralità svizzera 15 Un’Europa ed una Svizzera al servizio delle multinazionali? No al TTIP-TISA! 19 Il settore finanziario elvetico nel XXI secolo: governabile, sostenibile ed efficiente 23 La Svizzera nel cuore della sfida agro-alimentare 25 Analisi e prospettive per una svolta nella politica energetica
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Realista, «di governo» e strategico: il metodo politico dei comunisti Un numero speciale di #politicanuova dedicato alle elezioni era già stato realizzato l’aprile scorso, in occasione del voto per il rinnovo del Granconsiglio e del Governo ticinesi. Nuovamente ritorniamo su una tale impostazione, concentrandoci questa volta sulla politica nazionale, data la concomitanza con le Elezioni Federali; ma sempre dando priorità all’analisi, presupposto per la qualità e per la spendibilità di qualsivoglia proposta. Già nell’editoriale presente nel numero di aprile erano state chiarite le ragioni della partecipazione dei comunisti alla corsa elettorale: non c’è incompatibilità tra, da una parte, la critica radicale alla società capitalistica1 e, dall’altra, il fatto di individuare nell’attività istituzionale interna agli organi dello Stato 2 una delle sedi in cui svolgere la lotta per la trasformazione, una delle forme di organizzazione politica della società moderna. Con ciò si era sottolineata la necessità di evitare sia di svalutare l’utilità della partecipazione alle elezioni, sia di scadere nel «cretinismo parlamentare» - in quest’ultimo caso ai danni del “lavoro (extra-parlamentare) sul territorio”.Il discorso, a questa tornata, non cambia. Consolidare la prosperità elvetica; porla, cioè, su fondamenta solide, durature e sostenibili. La sfida, nell’ambito di tale percorso, è quella di dimostrare che c’è compatibilità e soprattutto fruttuosa armonia tra l’accrescimento delle dinamiche di sovranità popolare e il potenziamento del processo di sviluppo materiale. Dimostrare, di fronte allo strapotere del capitale privato a livello economico e politico, che, attraverso il protagonismo d’uno Stato3 che adotti una rinnovata e fresca prassi di programmazione dello sviluppo all’interno di un’economia mista ad egemonia pubblica, è possibile delineare un orizzonte nel quale l’accrescimento della ricchezza sociale proceda di pari passo con la sua redistribuzione. Al contempo, bisogna riconoscere la scarsa praticabilità di una statalizzazione totalizzante: un settore privato esiste e certo non lo si annullerà per il semplice desiderio di volerlo annullare. Concretamente, i presupposti strategici funzionali a garantire un processo di crescita lungimirante si riconducono a due assi fondamentali, reciprocamente legati. Da un lato, occorre impostare strutturalmente il tessuto economico elvetico sui cardini di una produzione ad alto valore aggiunto: è l’unica soluzione affinché, nel contesto di un’economia altamente globalizzata dalla quale non è (purtroppo) possibile sottrarsi, i prodotti nazionali possano trovare una fruttuosa collocazione sui mercati internazionali - e ciò non a seguito di una contro-producente dinamica di dumping salariale, bensì in virtù delle performance dei processi produttivi. È auspicabile che tale dinamica si svolga nell’ambito di una sinergia quadripolare, ossia una configurazione economica composta da poli formativi, lavoratori, impresa e Stato. Quest’ultimo dovrà saper recitare un ruolo centrale, dettando obiettivi e linee guida dei distretti e coordinando gli attori in gioco.4 Dall’altro, urge adottare un approccio multi-polare alle relazioni con l’estero, affinché il nostro Paese eluda la limitante e perciò contro-producente logica dei blocchi auto-escludentisi. Logica che contraddice la neutrali-
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tà elvetica - la cui storia e attualità è trattata da Damiano Bardelli nelle pagine seguenti -, e che attualmente rischia di essere rafforzata qualora la Svizzera aderisse alla Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), inserita in un’orbita geo-politica sostanzialmente euro-americana – a sua volta analizzata da Tobia Bernardi nel suo articolo. Si tratta di un approccio fondamentale affinché il nostro Paese, da un lato, s’inserisca adeguatamente nella divisione internazionale del lavoro - puntare sulla produzione ad alto valore aggiunto consentirebbe al tessuto produttivo elvetico di divenire stabilmente un punto di riferimento nei settori di punta e, più in generale, in termini di know-how - e, dall’altro, possa fare affidamento sulla diversificazione dei partner, condizione che costituisce un’importante risorsa nell’ottica di ridurre il danno relativo a potenziali rotture nelle relazioni economico-commerciali. E, come spiego nel contributo presente in questo numero e dedicato alla cooperazione internazionale, è basilare che il rapporto con i partner esteri si caratterizzi specificatamente per essere di natura win-win e, in legame a ciò, rifiuti una prassi di carattere coloniale e imperialista. Questi due orizzonti, alquanto intrecciati, non si oppongono in nessun modo all’accrescersi degli aspetti di sovranità popolare, in connessione allo sviluppo di una democrazia progressiva nella quale i produttori – del braccio ma anche della mente: ricordiamocelo! - acquistino maggiorati margini di agibilità e incisività politica. I comunisti, nel solco di un tale progetto, sono chiamati a far proprio un approccio alla concreta situazione nazionale che sia realista, «di governo» e strategico. Realista, in conseguenza della consapevolezza che un determinato contesto e le istanze che lo compongono sono attraversati da regole5, quindi da limiti, che delineano il campo in cui può realisticamente aver luogo la trasformazione. Grazie all’intervista a Domenico Losurdo, approfondiremo il significato di questo dato di fatto. Di governo, poiché appare fondamentale – anche e soprattutto in termini di credibilità - essere in grado di indicare la modalità di risoluzione concreta dei mali criticati 6. (Altra faccenda, invece, quella d’un atteggiamento da partito «al governo» e cioè caratterizzato da una sostanziale propensione al governismo). Strategico, in virtù della necessità di muoversi sui binari del lungo periodo. E ciò al fine di essere lungimiranti, cioè capaci di “preparare” al meglio il futuro, il quale - pur tenendo conto degli oggettivi limiti propri dell’azione degli esseri umani7 – può e deve essere pensabile e modellabile.8 Vanno in una tale direzione, concretamente, sia l’articolo firmato da Alessandro Lucchini e da Edoardo Cappelletti a proposito della ristrutturazione della piazza finanziaria, sia quello firmato da Francesco Vitali concernente la questione delle energie rinnovabili: entrambi, infatti, sulla scorta di un’analisi dello stato di cose presenti, prospettano un orizzonte strategico effettivamente concretizzabile (realista) e in grado di rispondere in termini costruttivi (di governo) alle contraddizioni considerate.
Aris Della Fontana Direttore #PN
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«I comunisti esprimono una critica radicale, perché radicale – cioè vertente sull’intima essenza è il marxismo quale lettura delle intrinseche, insopprimibili, contraddizioni della realtà capitalista; in linea a ciò, sostanziale è l’alternativa ricercata». Aris Della Fontana, Costruire l’alternativa futura attraverso il presente (Editoriale), #politicanuova, Aprile 2015, p. 3 2015, p. 3
2 Che può essere intesa come la «posta in gioco tra le classi» e quindi anche il riverbero dell’esito concreto della lotta sociale. Andrea Catone, Prefazione a Salvatore d’Albergo, Diritto e Stato tra scienza giuridica e marxismo, Sandro Teti Editore, Roma 2004, p. 14 3
Ovviamente nella misura in cui, al suo interno, le tendenze della lotta di classe si pieghino a favore dei lavoratori
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Per un approfondimento circa la questione della produzione ad alto valore aggiunto: Massimiliano Ay, La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto, #politicanuova, Novembre 2014, pp. 7-9; Alessandro Lucchini, La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile, #politicanuova, Novembre 2014, pp. 10-13
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Hanno cioè una propria insopprimibile legalità
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Oliviero Diliberto / Vladimiro Giacché / Fausto Sorini, Ricostruire il Partito Comunista. Appunti per una discussione, Simple, Macerata 2011, pp. 280-281
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«Gli uomini fanno la loro storia da sé, ma non a proprio piacimento, non in circostanze scelte da loro, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 10 8 «In caso contrario cadremmo in un puro “presentismo”, che, anche e soprattutto, oggigiorno pervade ampie fette della classe dirigente, in difficoltà proprio nell’atto di “pensare” l’avvenire». Aris Della Fontana, Attualizzare il lungo periodo, intravederne fin da subito i lineamenti (Editoriale), #politicanuova, Novembre 2014, p. 3
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Domenico Losurdo: «Il movimento socialista è nato dall’incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!» #politicanuova intervista Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato il suo ultimo libro, “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un’analisi originale e spregiudicata a proposito della presenza assente, in Occidente, di una forza d’opposizione in grado di incidere nella realtà e offrire la prospettiva della trasformazione sociale. A cura di Aris Della Fontana 1
«Grazie alla televisione, ai telefonini, ai computer e ai social media, l’indignazione spontanea o artificialmente prodotta può contare su una diffusione di una capillarità e pervasività senza precedenti, e di essa il paese più potente anche sul piano della tecnologia della comunicazione può servirsi per destabilizzare il paese nemico già dall’interno». «Potendo disporre di strumenti che rendono impossibile distinguere la verità dalla manipolazione, la Psywar ha acquisito un’importanza senza precedenti». Domenico Losurdo, La sinistra assente, Carocci, Roma 2014, p. 75 e p. 85
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1. Lei afferma che, di fatto, «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a reagire ai processi in atto». Come si spiega questa – apparentemente - paradossale contraddizione? Occorre precisare che, quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all’Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all’aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: questo è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l’acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell’arma nucleare; e ciò, all’occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all’aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s’impone la necessità di una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e, con ciò, una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento. 2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini definiti, non eternamente posponibili? Insomma, se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi? E, in stretto legame a ciò, per la sinistra, si pone anche una questione di
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doverosa responsabilità - anche e soprattutto in rapporto all’involuzione autoritaria che potrebbe avere luogo laddove si approfondisse la realtà di una classe dominante sempre meno dirigente? Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra. La sinistra è indubbiamente in ritardo. Questo di per sé non è un fatto nuovo. Prendere coscienza di una situazione oggettiva è un processo faticoso e, quindi, un certo ritardo è quasi la regola. Però oggi ci troviamo dinanzi a qualcosa di assolutamente inedito. In seguito al trionfo occidentale nella Guerra Fredda ha avuto luogo una demolizione sistematica della complessiva storia del movimento comunista. Questa ha prodotto i suoi frutti, cioè effetti devastanti sul fronte dell’incisività politica ed egemonica. Alla luce di ciò, prima di tutto, occorre colmare tale ritardo. E, pur essendo un obbligo morale, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di un’impresa estremamente complessa. Occorre sentirne l’urgenza, ma senza per ciò scoraggiarci per i ritardi, i quali in qualche modo sono inevitabili. 3. Attraverso il «monopolio delle idee e soprattutto delle emozioni» le classi dominanti hanno eseguito un “salto di qualità” nell’ambito del controllo del potere, e cioè dell’egemonia e della lotta di classe? Il concentrarsi, da parte delle prime, sulla suggestione e, in legame a ciò sull’inconscio, potrebbe denotare una loro lacunosità in fatto di argomenti sostanziali? E, se ciò fosse tale, esistono i margini, da parte della sinistra, per incidere proprio per tramite di un solido apparato analitico? Quest’ultima operazione, ancorché valente, non rischierebbe di essere silenziata dagli acuti meccanismi della «società dello spettacolo»? In tal senso, come va impostata, a sinistra, la questione comunicativa? La situazione odierna è più difficile che ai tempi di Marx. Egli constatò come la classe che detiene il monopolio della produzione materiale ha anche il monopolio della produzione intellettuale. Ma oggi appunto c’è una novità: la borghesia detiene, oltre a quello delle idee, anche e soprattutto il monopolio delle emozioni; ed è grazie a quest’ultimo che che si scatenano le guerre e i colpi di stato dell’imperialismo. E, per rispondere al quesito, mi pare esemplare proprio il caso del ricorso a quello che definisco il «terrorismo dell’indignazione»1, ossia il fatto di suscitare scientemente una vera e propria ondata di indignazione in grado di giustificare la guerra: ciò denota, indubbiamente, anche una mancanza di argomenti razionali da parte delle classi dominanti. Questa particolare forma di terrorismo, come detto, ha avuto una funzione decisiva nello scatenamento delle ultime guerre. Però non è adeguato assolutizzarne gli effetti. Se, per esempio, confrontiamo la reazione che a sinistra si è verificata, poco tempo fa, per i fatti di Ucraina con quella avutasi, in un passato un po’ meno recente, in occasione della guerra contro la Libia o di quella contro la Jugoslavia, si può osservare come il terrorismo dell’indignazione in-
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contri qualche difficoltà in più. A sinistra, infatti, c’è qualcuno che comincia a prendere coscienza del funzionamento e delle finalità di questo terrorismo dell’indignazione. E personalmente credo, con la mia ricerca, di poter contribuire all’allargarsi di questa importante presa di coscienza. Ovviamente è inutile farsi illusioni: non esiste un’arma magica che neutralizzi una volta per sempre il monopolio della diffusione delle emozioni e con ciò il terrorismo dell’indignazione. La priorità, in tal senso, è contrapporre ad esso un solido sistema di argomentazioni alternative, in grado di essere ampiamente condiviso. E, per conseguire tale finalità, il partito di tipo leninista rappresenta uno strumento essenziale. 4. Se c’è una «sinistra imperiale» che si cala – incidendovi – nella realtà con argomenti e progetti pressoché indistinguibili dagli altri partiti borghesi, ce n’è anche un’altra che «non si appiattisce sull’esistente, rispetto al quale anzi vuole costruire un’alternativa radicale». Quest’ultima, però, è in grado di prendere le mosse «dai movimenti e dalle “lotte reali’’», e quindi di porre i presupposti per incidere politicamente? Ritiene, in tal senso, ci sia il pericolo della «fuga nella teoresi» (Burgio), e cioè dell’elusione delle responsabilità politiche e organizzative conseguente alla difficoltà – oggettiva – di muoversi tra i corpi reali? In legame a ciò, il conflitto politico si risolve in maniera preminente nella teoria, oppure è necessario porre all’ordine del giorno la questione dell’organizzazione delle forze e della teoria del partito? Credo sia sufficiente sottolineare un fatto storico di centrale importanza: il movimento che si è richiamato al socialismo è nato dall’incontro fra, da una parte, la teoria rivoluzionaria e scientifica e, dall’altra, il movimento concreto e cioè le lotte di classe reali. Ed è attorno a tale specifico incontro che oggi, ancora, dobbiamo puntare. Da questo punto di vista, concretamente, si tratta di non abbandonarsi né al teoreticismo astratto né all’empirismo. Questa, invero, è la fondazione e la storia del leninismo. 5. Ne La sinistra assente viene usata l’espressione «romanticismo rivoluzionario»; di esso si afferma il ruolo fortemente negativo allorquando pervade coloro i quali si confrontano con il processo d’indipendenza dei paesi ex coloniali. Ad esso possono essere collegati tendenze quali il «rozzo egualitarismo» e l’«ascetismo universale» da lei trattati ne La lotta di classe (Laterza, 2013)? Un’emblematica dimostrazione delle conseguenze del romanticismo rivoluzionario si ha nell’atteggiamento che taluni hanno di fronte alla figura di Ernesto Che Guevara. Egli suscita emozioni ed entusiasmo allorché si pensa al guerrigliero rivoluzionario – e ben si comprende, sia chiaro, questa intensa partecipazione. E, però, se riduciamo Che Guevara a questa raffigurazione, ne dimidiamo il profilo, poiché egli, oltre ad essere stato uno dei protagonisti della lotta armata che rovesciò la
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dittatura di Fulgencio Batista, è stato anche il teorico della lotta di Cuba contro l’aggressione economica - espressione non a caso da egli coniata. Il romanticismo rivoluzionario è la dinamica nell’ambito della quale, da un lato, ci si commuove e ci si indigna allorché è in atto una lotta armata e, dall’altro, invece, si è incapaci di concepire che tale lotta armata, ai giorni nostri, ha la sua continuazione più spiccata nella lotta finalizzata alla liberazione dalla dipendenza economica e tecnologica e cioè nell’emancipazione dal neo-colonialismo. Cito spesso un passaggio di Empire (2000), lo scritto di Michael Hardt e Antonio Negri. I due autori esprimono una solidarietà nei confronti della Palestina che, tuttavia, si verrebbe a dileguare laddove quest’ultima divenisse uno Stato nazionale. Una solidarietà, dunque, che si attiva esclusivamente nei confronti d’un popolo palestinese che subisce disfatte; invece, nella misura in cui esso conseguisse potenziali vittorie e, in legame a ciò, si edificasse quale Stato nazionale indipendente, tale vicinanza verrebbe a dileguarsi. Il seguace del romanticismo rivoluzionario si emoziona per gli sconfitti, ma non riesce a provare sentimenti simpatetici allorché lo sconfitto tenta di andare oltre la situazione che lo caratterizza; un caso emblematico è quello dei paesi che consolidano la propria indipendenza politica attraverso lo sviluppo economico e tecnologico: si tratta di un compito ben più prosaico e oscuro che la resistenza contro un mostruoso Golia militare e politico, e ciò non affascina il seguace del romanticismo rivoluzionario 2. Per quanto riguarda l’«ascetismo universale», ne La lotta di classe denuncio soprattutto il populismo, ossia la tendenza che individua nella miseria anche il luogo dell’eccellenza morale. Questo non è mai stato il punto di vista di Marx. Egli, infatti, se, da una parte, non idolatrò mai la ricchezza – al contrario: rinunciò a una vita agiata per seguire la sua vocazione rivoluzionaria – dall’altra men che meno idealizzò la miseria. In tal senso era quantomai consapevole del fatto che proprio la povertà dei rapporti sociali e materiali rende maggiormente difficile l’elaborazione di idee in qualche modo più illuminate. E nel Manifesto del Partito Comunista criticò il «rozzo egualitarismo» e l’«ascetismo universale» quali visioni del mondo che possono essere proprie dei movimenti proletari solo nelle fasi iniziali del loro sviluppo, ma che certamente dovranno essere superate da un movimento socialista collocatosi sul piano scientifico. È necessario, perciò, distinguere Marx da altri movimenti di protesta contro la società di classe. E, inoltre, va sottolineato come un elemento essenziale della visione marxista si rifà alla constatazione secondo cui il socialismo rappresenta un sistema sociale nettamente superiore al capitalismo, non soltanto ché procede ad una più equa redistribuzione della risorse, ma anche ché è in grado d’accrescere la produzione stessa e con essa la ricchezza sociale, la quale, invece, viene distrutta dal capitalismo, come dimostrano le ricorrenti crisi di sovrapproduzione e come sta dimo-
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Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 245
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«F. D. Roosvelt, nel celebrare il “nostro sistema americano” e nel criticare Jefferson per essersi lasciato troppo influenzare dalle “teorie dei rivoluzionari francesi”, chiamava i suoi concittadini a opporsi non solo al comunismo ma anche a “qualunque altro “ismo” forestiero». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 141 4 «Ogni volta che a ragione o torto si è sentita in pericolo, la repubblica nordamericana ha proceduto a un rafforzamento più o meno drastico del potere esecutivo e a un restringimento più o meno pesante della libertà di associazione e di espressione. Ciò vale per gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese, per la guerra di secessione, la prima guerra mondiale, la Grande Depressione, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la situazione venutasi a creare dopo l’attacco alle torri gemelle». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 168 5 «Nel 2008 e nel 2014 esse si sono impegnate, se non a sabotare, a delegittimare le Olimpiadi estive di Pechino e quelle invernali di Sochi, accodandosi acriticamente alla campagna scatenata dall’Occidente prima contro la Cina e poi contro la Russia». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 192 6 György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, trad. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976-81, p. 3 7 Si veda Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano, cap. III, § 2 8 Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, 1997
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strando la crisi scoppiata nel 2008. 6. La fine della guerra fredda ha decretato il formarsi di un quadro radicalmente diverso rispetto ai paradigmi vigenti nella fase storica apertasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. A questo proposito, lei ritiene che ciò abbia aperto uno spazio nuovo e amplissimo per l’«universalismo imperiale». Quali sono i suoi lineamenti essenziali? E ad esso, con quale modalità si lega il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario» ? Quale ruolo giocano, in tutto ciò, le Organizzazioni non governative (ONG)? Nella Seconda Guerra Mondiale le grandi potenze europee e occidentali si erano scontrate a partire da «valori» tra loro inconciliabili: quello che oggi chiamiamo Occidente appariva lacerato. Con l’affermarsi di un’incontrastata egemonia statunitense, il politeismo dei valori cedette il posto all’Occidente quale custode di un monoteismo dei valori da universalizzare. Gli Stati Uniti, in linea a ciò, nella fase finale della guerra fredda, sfruttarono il grave indebolimento dei paesi socialisti e del movimento comunista sul piano ideologico, politico e propagandistico: abbandonarono, da una parte, il protezionismo economico e, dall’altra, quello politico-ideologico – e con esso il culto dell’irriducibile peculiarità americana 3 - al fine di riempire, con le coordinate dell’universalismo imperiale, lo spazio nuovo e amplissimo apertosi. L’universalismo imperiale si è concretato nell’imperialismo del libero mercato e dei diritti umani; attorno a questi ultimi si è venuta definendo una vera e propria religione civile (manipolata), chiamata a glorificare l’Occidente e a ricoprire di vergogna i suoi avversari. E, se, da una parte, non esiste una concordanza nel definire questi valori – si pensi alle divergenze a proposito di questioni quali l’aborto, il porto d’armi e, soprattutto, la pena di morte – va sottolineato, dall’altra, come laddove tali valori sono effettivamente definiti, come nel caso delle varie «libertà», è proprio l’Occidente il primo attore a calpestarli4. E, dato che l’Occidente si ritiene interprete dei valori universali e dunque titolare esclusivo del diritto ad esportarli, le guerre di aggressione possono essere argomentate in base a questo schema, che comporta, appunto, una sovranità dilatata e imperiale. In forme nuove si riproduce la dicotomia – nazioni elette e realmente fornite di sovranità versus popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo – propria dell’imperialismo. Oggi, specificatamente, il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario» si sostanzia in quattro elementi: esteso controllo economico; superiorità tecnologico-militare; dominio sul fronte multimediale; doppia giurisdizione, funzionale a garantire l’impunità dell’aggressore. E, tra le varie istanze che si inseriscono in tali dinamiche, un ruolo significativo è svolto dalle Organizzazioni non governative. Innumerevoli e variegate, esse offrono un ampio spazio alle agenzie e ai servizi segreti delle grandi potenze; ma, se non mancano casi di ONG rappresentanti una traduzione immediata di un progetto imperiale, va detto che a svolgere un ruolo essenziale sono soprattutto l’influenza e l’egemonia ideologica: si pensi al contributo fornito da non poche ONG all’aizzamento di una nuova guerra fredda, sem-
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pre in agguato5. L’impatto egemonico si riscontra nitidamente nella gerarchia dei diritti umani stessi: non c’è più spazio per i diritti sociali ed economici, sanciti dall’Onu alla sua fondazione. Ciò è funzionale alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale. Per i paesi di nuova indipendenza, infatti, la priorità non può che essere la «libertà dalla paura» e la «libertà dal bisogno»: solo una volta sbarazzatisi della preoccupazione di dover fronteggiare l’aggressione e i tentativi di destabilizzazione, questi paesi, grazie allo sviluppo, potrebbero garantire ai cittadini il diritto alla vita e avanzare sulla via del governo della legge e della democratizzazione dei rapporti sociale e delle istituzioni politiche. 7. Concludendo, veniamo a considerare un’opera già citata nel corso di questa discussione, La lotta di classe (Laterza, 2013). In essa, tra le altre cose, si sviluppava criticamente un concetto di centrale importanza, ossia l’«idealismo della prassi». Di cosa si tratta? “Insistendo sulla trasformazione del mondo, il pensiero rivoluzionario è esposto all’«idealismo della prassi», in virtù del quale elementi quali il mercato, la nazione, la religione, lo Stato tendono a smarrire «il carattere dell’essere»6. Essi risultano cioè plasmabili in modo agevole e illimitato dall’azione politica; ma il confronto con la prassi effettuale non può che smentire una tale presunzione e rimettere al centro l’oggettività dell’essere sociale, dato che i fichtiani «vincoli delle cose in sé»7 continuano a essere spessi e resistenti. Concretamente, ogni grande movimento rivoluzionario è portato a pensare che la propria vittoria sia in grado di porre fine a tutte le contraddizioni. In tal senso, per esempio, immediatamente dopo la Rivoluzione d’Ottobre, alcuni pensarono che il trionfo del socialismo fosse sinonimo del dileguare d’ogni confine statale e d’ogni contraddizione nazionale e, persino, del dissolversi del mercato in quanto tale. Circa quest’ultima istanza è utile rifarsi ai passaggi dei Quaderni ove Gramsci sottolinea il concetto di «mercato determinato»: ivi dimostrò che il «mercato» non è sinonimo di capitalismo, bensì assume declinazioni diverse lungo il corso storico. In altri lavori, specialmente nel libro su Gramsci8, sottolineo come la sua grandezza stia nell’aver insistito su un punto essenziale: dobbiamo sviluppare un’idea di emancipazione – quella comunista - decisamente radicale, che tuttavia non coincida con la fine della storia. E in linea a ciò non dobbiamo nemmeno pensare alla fine dello Stato; Marx stesso talvolta parla di una sua estinzione, altre volte, invece, si riferisce alla sua estinzione nell’attuale senso politico: ed è questa seconda variante quella corretta. Lo stesso discorso vale per la questione delle nazionalità. Esse non si dileguano col dileguare del sistema capitalistico; e si tenga conto che Karl Kautsky e anche alcuni bolscevichi credevano che col superamento del capitalismo sarebbe scomparsa persino la lingua russa, una sciocchezza contro la quale, come noto, polemizzò anche Stalin (le identità linguistiche, in tal senso, sono al tempo stesso identità nazionali)”.
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Un raddoppio che necessita responsabilità Mattia Tagliaferri Il risultato delle elezioni Cantonali dello scorso 19 aprile ha - per i comunisti - un valore storico, in quanto la sinistra di trasformazione sociale ticinese non ha due seggi in Gran Consiglio dal 1987. Nonostante la straordinarietà del successo elettorale - che ha visto la riconferma del sindacalista Matteo Pronzini (MPS) e l’elezione del Segretario politico del PC Massimiliano Ay - il Partito Comunista (PC) non può permettersi di sedersi su presunti allori, in quanto l’entrata in Parlamento impone maggiore responsabilità e ciò, peraltro, in assenza della garanzia che la crescita del Partito possa proseguire senza intoppi. Le alleanze La vittoria alle scorse elezioni Cantonali parte dalla riconferma dell’alleanza con il Movimento Per il Socialismo (MPS), la quale ha permesso di costruire un’unità della sinistra in grado di non disperdere voti e, anzi, di conquistarne di nuovi. Inutile dire che una corsa in solitaria non avrebbe probabilmente permesso, né a PC né a MPS, di sedere in Gran Consiglio per la corrente legislatura. Il Partito e l’alleato trotzkista provengono da esperienze profondamente diverse, tanto nell’analisi quanto nella prassi politica; ciò non ha però impedito di costruire una lista comune, fondata su punti programmatici concreti e su delle lotte sociali che hanno visto la militanza di entrambe le organizzazioni1. Un’alleanza definita su tali basi ha permesso di realizzare una campagna elettorale fondata sul rispetto delle specifiche differenze, mettendo d’accordo strutture politiche per molti versi complementari. Si pensi, da una parte, al radicamento del Partito nel mondo giovanile e, dall’altra, all’esperienza sindacale di MPS. Uscendo momentaneamente dall’ambito delle elezioni Cantonali, ci si potrebbe chiedere come mai - a fronte dei positivi risultati ottenuti con MPS sia nel 2011 sia nel 2015 - la medesima unità della sinistra d’alternativa non si possa riproporre alle elezioni Federali del prossimo 18 ottobre. Le motivazioni sono le stesse che hanno spinto, nel 2011, a correre unitamente a MPS alle Cantonali, e a optare per una congiunzione con il Partito Socialista (PS) alle Federali. Innanzitutto va tenuto in considerazione il fatto che MPS non partecipa alle Federali (e non lo ha mai fatto) in quanto pare ritenere prioritario concentrarsi su altri progetti, quali il lancio di iniziative popolari (dal salario minimo cantonale all’iniziativa “Giù le mani dagli ospedali”). Evidentemente - nel pieno rispetto delle altre organizzazioni politiche, soprattutto quelle che hanno un rapporto solido con il PC - non è compito dei comunisti giudicare queste decisioni, ma, nella scelta delle tattiche da adottare, è opportuno tenerne conto. Va inoltre ricordato che, se nella politica cantonale il Partito ha una visione pressoché identica a quella di MPS sulla maggioranza dei temi, a livello federale la situazione è differente. Su ●●
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importanti tematiche nazionali e internazionali le due formazioni cozzano: basti pensare alle differenti declinazioni del concetto di imperialismo. In tal senso, quella che qualcuno potrebbe considerare una divergenza ideologica “d’accademia”, conduce invece all’elaborazione di divergenti analisi sulle contraddizioni interne alla borghesia svizzera (con cui eventualmente costruire alleanze tattiche per raggiungere degli obiettivi di progresso). Nell’ambito delle differenze tra PC e MPS sulla politica federale si possono citare altre tematiche: la questione delle riserve auree della Banca Nazionale Svizzera, quella della soglia minima di cambio fisso tra il franco e l’euro, i rapporti con i BRICS e con altri paesi emergenti, i rapporti con l’Unione Europea e la costruzione di un’economia ad alto valore aggiunto. Proprio quest’ultimo tema, su cui il PC si sta concentrando fortemente, evidenzia come tale formazione politica si preoccupi anche dello sviluppo economico del Paese, e non solo da un punto di vista sindacale. Una campagna elettorale comune con MPS alle Federali rischierebbe quindi di limitare i comunisti su molte tematiche sviluppate negli ultimi anni. Il Partito Socialista (PS), dal canto suo, in non pochi casi ha assunto posizioni eurocentriche; ma al suo interno vi sono pure settori ricettivi rispetto a posizioni quali quelle poc’anzi citate. Non va poi dimenticato che la congiunzione con il PS è pure frutto d’una scelta di responsabilità: di fronte a una deriva politica, economica e sociale - in un contesto elettorale, quello delle Federali, dove i comunisti non hanno l’ambizione di conquistare un seggio - bisogna aver il coraggio di fare una scelta che assecondi il principio del “meno peggio”, senza però annacquare le proprie posizioni e, anzi, prendendosi gli spazi necessari a sottolineare le peculiarità e le diversità dei comunisti. Non è un caso che si sia avanzata la candidatura di Demis Fumasoli per il Consiglio degli Stati. Il PC, inoltre, ha ritenuto doveroso offrire all’elettorato una lista con volti diversi dai soliti, e al tempo stesso seria, propositiva, innovativa nelle proposte: una squadra che valga la pena sostenere, grazie anche alla sicurezza di poter compattare i voti con gli altri partner che si oppongono alla deriva securitaria e anti-sociale. ●● La lista per il Consiglio di Stato Quale importante contribuito al risultato positivo delle Cantonali vi è certamente il fatto d’aver presentato una lista anche per il Consiglio di Stato (CdS): ciò ha permesso di presentarsi come una forza politica completa, affidabile e non invece come un’organizzazione “barricadera” e folkloristica. Questo modus operandi è inoltre perfettamente conseguente tanto alle scelte operate nella tornata elettorale cantonale del 2011, quanto al concetto di «partito di governo»2, espresso nelle tesi congressuali del PC 3. È stato altresì importante presentare una lista per il CdS completa (comprendente cinque candidature), avente al suo interno sia profili politici e professionali differenti sia un’eterogenea composizione anagrafica. E si consideri che in un’arena politica sempre più mediatizzata e piegata prevalente-
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Si pensi, per esempio, al presidio presso le Ferriere Cattaneo di Giubiasco in sostegno alla lotta dei lavoratori contro i tagli imposti dall’azienda 2 Un partito di governo è un partito che, seppur piccolo, è in grado di prospettare soluzioni e proposte per il governo del Paese - ma questo non implica una automatica propensione al governismo. È un partito, cioè, che indica soluzioni concrete rispetto ai mali criticati. 3 Documento congressuale 2011 (http://goo.gl/RqWKml) e Documento congressuale 2013 (http://goo.gl/1Vx9sz)
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mente sull’uso del marketing, anziché da analisi e contenuti, una lista per il Governo permette di avere una maggiore visibilità rispetto a chi sceglie di correre solo per il GC. Si pensi, ad esempio, all’organizzazione delle apparizioni televisive organizzate dalla RSI (alquanto criticabili), dove una lista per il CdS è conditio sine qua non per non essere posti ai margini del dibattito politico. ●● Un risultato storico, ma... Il raddoppio dei seggi ottenuto alle Cantonali del 2015 segna un risultato storico almeno per due motivi. Innanzitutto il PC conquistò un seggio, per l’ultima volta, nel 2003, in un momento in cui il Partito era però profondamente differente rispetto a quello attuale. La costruzione di un partito giovane non era neppure cominciata; la linea politica non era definita; l’allora Partito del Lavoro (PdL) si presentava come una compagine mossa dal folklore. Nel 2003, peraltro, vi era ancora la possibilità di presentare delle congiunzioni anche per le Cantonali, cosa che portò il PdL - congiunto con il PS - ad ottenere un seggio in GC, nonostante raccolse un numero di consensi inferiore a quello di MPS. Il secondo - e ancor più importante - motivo che permette di definire storico il risultato delle Cantonali 2015, è il fatto che la sinistra d’alternativa non ha due seggi in Parlamento dal 1987, quando - su liste separate - un posto in GC venne conquistato dal PdL e un altro dal Partito Socialista dei Lavoratori (PSL), organizzazione trotziksta precorritrice di MPS. Nel medesimo anno ci fu l’entrata in Governo del Partito Socialista Autonomo (PSA) - a cui spesso il PC si rifà - ma che già prima dell’elezione di Pietro Martinelli va considerato non più come un partito di trasformazione sociale, bensì socialdemocratico. Inoltre, nel 1987 il contesto storico era completamente differente rispetto a quello odierno: basti pensare che l’Unione Sovietica non era ancora implosa. Quella che potrebbe sembrare un’osservazione nostalgica, tiene invece in considerazione il fatto che, da dopo la seconda Guerra Mondiale, il blocco sovietico è stato indirettamente un motore per le conquiste sociali ottenute in Occidente nella seconda metà del Novecento (assieme all’azione diretta delle lotte sociali portate avanti da partiti progressisti e sindacati) in quanto visto come spauracchio dalle classi dirigenti europee. La portata della vittoria elettorale assume inoltre un rilievo ancora maggiore se pensiamo al difficile contesto nel quale il Partito si è trovato costretto a operare (ed opera tutt’ora). A muovere contro il Partito - forse sorprendentemente, almeno per qualcuno - non sono però tanto i partiti borghesi, quanto una fetta della sinistra. Si pensi al portale, vicino al PS, GAS - il quale non perde occasione di calunniare i comunisti per cercare di creare zizzania entro l’intera area progressista - o al comportamento assunto dal Partito Operaio e Popolare (POP), una nuova formazione politica anti-capitalista nata proprio a
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ridosso delle elezioni e animata da persone provenienti dall’apparato sindacale, alcune delle quali, in passato, sono state attive anche nel PC. Gli elementi qui indicati contribuiscono a disegnare una sorta di accerchiamento, da sinistra, a danno dei comunisti. Per quanto questo contesto avverso dia ulteriore rilievo alla vittoria elettorale, non è immaginabile sedersi sugli allori, in quanto la nuova dimensione parlamentare del Partito impone maggiore impegno e serietà. L’entrata in GC è inoltre frutto di una non trascurabile dose di fortuna, in quanto il secondo seggio è stato ottenuto grazie ai “resti” e, pertanto, da una manciata di schede che, se compilate in maniera differente, avrebbero potuto fare andare diversamente le cose. Radicamento nel Sottoceneri Elemento determinante per la conquista dei due seggi in Parlamento è stato il miglioramento del radicamento territoriale del Partito, che ha permesso - durante la campagna elettorale e non solo - una presenza militante nei principali centri urbani cantonali, oltre che in alcuni comuni periferici. Nel 2011 il Partito era quasi esclusivamente “sopracenerino”; un limite che i risultati elettorali di quattro anni fa misero in luce: in quasi tutto il luganese e in buona parte del mendrisiotto le percentuali di schede raccolte nei singoli comuni erano inferiori a quelle della media cantonale (lo 0,76% per il CdS e l’1,27% per il GC). Alla più recente tornata elettorale si è invece giunti con un radicamento territoriale che - per quanto molto perfettibile - raggiunge tutte le regioni. A Lugano vi è una sezione funzionante già dal 2012, il cui lavoro ha portato all’elezione di due esponenti del PC in Consiglio comunale. Nel mendrisiotto la sezione è più giovane, per cui ha sfruttato il periodo elettorale prevalentemente per farsi conoscere e quindi per meglio affrancarsi al territorio, cosa che ha permesso d’ottenere importanti risultati anche in termini meramente elettorali. La dinamica descritta è ben rappresentata dai dati statistici, che mostrano un forte aumento a Lugano, dove le schede sono quasi raddoppiate (da 107 a 199) e la percentuale è balzata dal 0,92% all’1,35%, un dato di poco sotto la media cantonale del 2015 (1,45%), ma non di quella del 2011. Nel Mendrisiotto la crescita è invece più contenuta - a Chiasso si è passati da 23 a 24 schede - allora più marcata, come Mendrisio, dove - dall’1,05% del 2011 - l’alleanza tra PC e MPS s’è attestata sull’1,31%, passando da 47 a 73 schede. ●●
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Condizioni e prospettive per la Svizzera della Nuova Cooperazione
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●● 1. La crisi di sovraccumulazione del centro: un presupposto L’«Età dell’oro del capitalismo»1, il quarto di secolo successivo alla ricostruzione del secondo dopoguerra, che vide l’«integrazione dell’Europa occidentale nel regime di dominio e di accumulazione statunitense», fu una «fase di espansione materiale» alquanto rilevante. Ma negli «anni cruciali 1968-73» 2 s’ebbe un «inceppamento del meccanismo di accumulazione» 3, e con ciò una flessione del tasso di profitto del capitale (produttivo): «tecnostrutture sovradimensionate» determinavano bassa redditività, data la «generalizzazione delle strutture del capitalismo delle grandi imprese all’intero centro dell’economia-mondo»4 e la «crescita esponenziale degli investimenti nella produzione e nel commercio», che portavano a un’intensificazione delle pressioni concorrenziali. La profittabilità fu compromessa anche dall’incremento vertiginoso del costo del petrolio e dalla rigidità salariale (e reddituale). Questa «crisi spia»5 del regime di accumulazione (euro-)statunitense creò i presupposti per la spinta verso la conquista di posizioni sui mercati mondiali e dunque per la «multinazionalizzazione». Ma fu anche il tempo per una radicale riconfigurazione delle modalità di accumulazione.
2. Le contro-tendenze alla crisi: chiave di volta per comprendere l’oggi Nei Paesi del centro capitalista, di fronte all’impasse d’inizio anni ‘70, venne messo in campo un pacchetto di contro-tendenze. Questo mutamento di paradigma pospose e acutizzò il ripresentarsi delle contraddizioni: la crisi del 2007-2008 fu qui concepita. ●●
a) Capitale versus Lavoro Con l’immissione di strumentazioni tecnologiche e con miglioramenti logistico-organizzativi, la produttività del lavoro aumentò. Tale progressione, per la maggior parte, fu recintata nel campo dei profitti; non ci fu una proporzionale attribuzione di maggiorate quote di ricchezza al lavoro; questo, anzi, subì un attacco frontale (precarizzazione, flessibilizzazione, de-sindacalizzazione). Sul corto periodo i tassi di profitto poterono respirare; ma si posero le basi per l’affermarsi di sottoconsumo e sovrapproduzione (di capitale e merci). b) Finanziarizzazione strutturale Nel 1971 Nixon riconobbe l’impossibilità di garantire la trasformazione dei dollari in oro; poco dopo, con l’abbandono dei tassi di cambio fissi, venne dichiarata la libera fluttuazione del dollaro. La valuta statunitense divenne una «moneta assolutamente fidu-
ciaria», pur restando il «perno del sistema monetario internazionale». Gli Usa poterono così «attingere alle risorse del resto del mondo mediante l’emissione della propria moneta»6. In un intreccio con questa discontinuità, progressivamente, si spianò la strada a un processo di finanziariazzazione strutturale: l’irrigimentazione dei capitali lasciò spazio all’internazionalizzazione dei loro movimenti in forme improduttive o speculative, all’insegna della messa in circolazione di crescenti quantità di «capitale fittizio»7 La finanziarizzazione sospinse profitti e consumi. Molte grandi imprese industriali potenziarono le unità specializzate nell’intermediazione finanziaria: se nel «1980, il valore complessivo delle attività finanziarie a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL mondiale», alla fine del 2007 «la proporzione di queste attività rispetto al prodotto interno lordo era del 356 %»8 . Il capitale, poi, colse altri benefici: liquidità facile a imprese operanti in settori produttivi saturi, possibilità di riscadenzare i debiti e di usufruire di prestiti a condizioni di tasso eccezionalmente favorevoli 9. E i consumi, nonostante la forbice quantitativa apertasi tra salari (e redditi) e produttività del lavoro, si mantennero alti grazie ad un’artificiale creazione di ricchezza, data dall’espansione delle strumentazioni creditizio-finanziarie. Così, in parte, si compensò la «scarsità sistemica di domanda effettiva» 10. La finanziarizzazione consente, a chi la promuove, di prolungare la leadership nell’economia-mondo; ma storicamente «l’eccessiva attenzione verso la finanza e la tolleranza nei confronti del debito sono tipiche delle grandi potenze economiche nel corso delle ultime fasi del loro dominio»11. c) La cosiddetta «globalizzazione» Nel centro capitalista, per contrastare la flessione dei profitti autoctoni, ci si volse verso le periferie dell’economia-mondo, alla ricerca di rendimenti maggiorati. L’«internazionalizzazione» del capitale rappresentò una «modernizzazione del vecchio colonialismo»12. Si sviluppò un «sistema di produzione integrato fondato su una nuova divisone internazionale del lavoro»: le multinazionali disegnarono una fabbrica mondiale. L’ordine che si impose non era caratterizzato da omogeneità nei livelli di sviluppo economico: il gap Nord-Sud circa ricchezza e reddito generati dal mercato, infatti, s’ampliò a partire dalla metà degli anni ‘8013. Ciò fu tale ché la «legge dello sviluppo economico e politico disuguale capitalista» venne proiettata globalmente14 : «l’elemento della diseguaglianza è strettamente correlato a quello dell’integrazione tra mansioni, produzioni, sistemi economici», e la combinazione avviene come «conseguenza necessaria di un’ineguaglianza preesistente»15. Gli «sfasamenti tecnologici» tra paesi generano differenze nella produttività dei fattori e danno luogo a «vantaggi assoluti nel commercio». Chi deve “inseguire” vede viziosamente limitate le basi di partenza per «garantire infrastrutture, continuità dei processi di formazione, capacità scientifico-tecnologiche endogene, etc.»; e il ruolo escludente della proprietà intellettuale incide a sua volta (il 90% dei
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S. A. Marglin / J. B. Schor (a c. d), The Goldan Age of Capitalism. Reinterpreting the Postwar Experience, Clarendon Press, Oxford 1991 2 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 337 e p. 327
3 Luciano Vasapollo, Il risveglio dei maiali, Jaka Book, Milano 2012, p. 91 4 Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine globale, Manifestolibri, Roma 2010, p. 90 e p. 89 5 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, cit., p. 327, p. 334 e p. 335 6
Vladimiro Giacché, Il lungo XX Secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo: http://goo.gl/i1DaGH 7 Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek, Milano 2013, pp. 46-48 8
D. Farrell, “New Thinking for a New Financial Order”, Harvard Business Review, settembre 2008
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Vladimiro Giacché, Titanic Europa, Aliberti, Roma 2012, p. 34
10 Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine globale, cit., p. 31 11 K. Phillips, Boiling Point. Republicans, Democrats, and the Decline of Middleclass Prosperity, Random House, New York 1993, p. 194 12 Luciano Vasapollo, Trattato di critica dell’economia convenzionale. La crisi sistemica, Jaca Book, Milano 2012, p. 133 13 James Petras / Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata, cit., p. 23 e p. 26 14
Luciano Vasapollo, Trattato di critica dell’economia convenzionale, cit., p. 112 15 Luciano Vasapollo, Trattato di economia applicata, cit., p. 304
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Luciano Vasapollo, Trattato di critica dell’economia convenzionale, cit., p. 132 e p. 130
17 A. Shaikh / E.A. Tonak, Measuring the Wealth of Nations. The Political Economiy of National Accounts, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1994, p. 173 18 Luciano Vasapollo, Trattato di economia applicata, cit., p. 267
19 Mauro Casadio / James Petras / Luciano Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, Jaca Book, Milano 2004, p. 237 20 Luciano Vasapollo, Il risveglio dei maiali, cit., p. 97 21 Luciano Vasapollo, Trattato di economia applicata, cit., p. 302 e p. 292 22 Luciano Vasapollo, Il risveglio dei maiali, cit., p. 23 23
James Petras / Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata, cit., p. 107 24 Luciano Vasapollo, Trattato di economia applicata, cit., p. 292, p. 294 e p. 295 25
Mauro Casadio / James Petras / Luciano Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, cit., p. 125
26 Vladimiro Giacché, Il lungo XX Secolo e oltre. Per una storia del capitalismo maturo: http://goo.gl/i1DaGH 27
James Petras / Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata, cit., p. 43
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Mauro Casadio / James Petras / Luciano Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, cit., p. 103 29 http://goo.gl/j0VwwM 30 Mauro Casadio / James Petras / Luciano Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, cit., p. 99
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brevetti è controllato dai paesi del centro)16. Date asimmetrie nei rapporti di forza economico-politici, «il libero commercio è lo sviluppo diseguale»17, e cioè «un meccanismo per la concentrazione del capitale internazionale»18. E tutto ciò avvenne, dalla metà degli anni ‘80 e ancor più con la fine dell’Urss, nella cornice di una «fase unipolare di dominio» a guida Usa.19
●● 3. Dopo l’unipolarismo, la «competizione globale» nella crisi che continua Con la metà degli anni ‘90 la mondializzazione capitalista si approfondisce. In uno scacchiere globale più aperto la «competizione globale» connota la fase e «misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio»20. Il confronto avviene su più livelli: economico (materie prime, nuovi mercati, tecnologie), finanziario (aree valutarie), giuridico (accordi di libero scambio, brevetti) e militare. La concorrenza tra gli operatori è incrementata; e una centralità di fondo è occupata dalle politiche geoeconomiche dei poli, nei termini d’una «redistribuzione territoriale del dominio internazionale»21. I tre «soggetti-polo» - Usa, Ue e area asiatica a guida giapponese – sono costituiti; ma lo scontro non esclude le convergenze: il fatto che il polo statunitense e quello europeo confliggano interimperialisticamente 22, non contraddice il periodico affermarsi di un «imperialismo euro-americano»23. L’economia nordamericana, seppur «spesso forzata e drogata», conserva fattori di vantaggio: supremazia tecnologica; flessibilità del sistema di credito facilitante le innovazioni e il sostegno dei consumi; classe operaia controllata e frammentata. E sul piano internazionale gli Usa traggono forza dall’egemonia militare e politico-diplomatica. L’Europa, intanto, non è ancora una «vera e propria economia continentale, con un’univoca progettualità politica»24 ; ma tenta comunque di affermarsi geo-economicamente25, allargando la propria area di influenza ai paesi est-europei e varando il progetto Euro (1992) («ad oggi la maggiore sfida lanciata all’egemonia valutaria statunitense su scala mondiale»).
●● 4. Anni Duemila e oltre: emergere di nuovi equilibri globali a) «Dominio senza egemonia» per l’Occidente Nel 2007-2008 si è chiusa «l’èra in cui debito e finanza riuscivano a nascondere e tamponare una crescita asfittica e un’insufficiente valorizzazione del capitale»26. La crisi di accumulazione, quindi, è ancora vigente. E, se crediamo a quanto ci ha insegnato Fernand Braudel, e cioè che il momento della finanziarizzazione rappresenta l’autunno di ogni egemonia, allora considerazioni più generali possono essere condotte. In un profondo intreccio con tali difficoltà economiche strutturali, infatti, si è anche ridimensionata in modo considerevole la capacità da parte del polo statunitense (ed europeo) di garantire la propria posizione imperiale a livello geo-politico. E ciò, tendenzialmente, nei termini di un circolo vizioso in cui l’arretramento sul fronte dei rapporti di forza economici incide sulle possibilità di sostenere gli
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i d a r e z z i v S La obiettivi geo-militari; tale limitazione comporta una regressione dei rendimenti esteri ottenibili – e così via, verso l’avvitamento. Ma, anche di fronte a questo declino relativo, la cautela è necessaria: i processi storici sono il campo di movimenti tendenziali, che maturano sul lungo periodo. È in ogni caso il compartimento conclusivo del ciclo di preminenza atlantico – capeggiato dal polo statunitense ma conflittualmente alimentato anche da quello europeo -, il quale è caratterizzato da un «dominio senza egemonia». Ciò vale nonostante l’emergere di aree economiche, geopolitiche e finanziarie che minacciano il primato statunitense. Gli Stati Uniti, cioè, rimangono lo stato più potente. In tandem al polo europeo, esercitano «un’influenza sproporzionata e determinante all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali e di altri enti mondiali»27 ; conservano la capacità di ottenere risultati rilevanti con l’«intimidazione e [con la] cooptazione diplomatico-politica»28 ; possono disporre di un tessuto economico-produttivo che, pur essendo attraversato da intense tensioni speculative e da difficoltà strutturali, sul fronte della tecnologia e dell’innovazione mantiene una posizione di relativa avanguardia; possedendo il dollaro, la moneta di riferimento internazionale, ottengono consistenti benefici; e, soprattutto, sul fronte della politica estera, si muovono nell’ottica di salvaguardare, allargare e intensificare la propria area di influenza geo-strategica, tentando di «vincere la competizione globale sul terreno militare» 29, in cui conservano un primato. La struttura imperiale è mantenuta tramite la conquista, le minacce di guerre regionali e il massiccio allargamento di operazioni clandestine militari e di spionaggio30, nonché attraverso la balcanizzazione e la fomentazione delle rivalità. Ai danni della Cina è in atto un crescente spostamento di forze militari statunitensi nella regione Asia/Pacifico31; la Russia, dopo aver subito le pressioni conseguenti all’allargamento della NATO ai paesi dell’ex blocco sovietico, vede distendersi, nel contesto Ucraino, un progetto di aggressione ai propri confini32. Ovviamente «l’apparato militare è di importanza centrale per la promozione e la protezione delle imprese multinazionali, le banche e gli importatori ed esportatori la cui base sono gli Stati Uniti»33. Questi vieppiù scomposti tentativi da parte degli Usa di mantenere il timone delle sorti globali rendono instabile la situazione internazionale. b) Nuovi competitori si affermano Alla flessione dell’egemonia statunitense si è accompagnato, tendenzialmente, un «fondamentale mutamento nell’epicentro dei processi sistemici di accumulazione del capitale»: «la Cina ha cominciato a sostituire gli Stati Uniti come principale forza motrice dell’espansione commerciale ed economica anche al di là dell’Asia»34. Le regioni emergenti stanno ascendendo la «gerarchia del valore aggiunto» internazionale: «per la prima volta dalle origini dell’economia-mondo capitalistica, sembra che il potere del denaro stia sfuggendo alle mani dell’Occidente 35 » . Sul fronte geo-politico lo scenario è maggior-
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sentarsi di smottamenti nel panorama euro-americano. Gli Usa, ad esempio, non sono riusciti a impedire che Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia entrassero nella “Asian Infrastructure Investment Bank” (AIIB), che ha come epicentro la “Shanghai Cooperation Organisation” (SCO). Quest’ultima è nata nel 2001 da un accordo sino-russo finalizzato a controbilanciare in diversi ambiti la penetrazione statunitense in Asia Centrale. La “Asian Infrastructure Investment Bank” e la già citata “Nuova Banca di sviluppo” hanno l’opportunità, col tempo, di marginalizzare la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Questi organismi potrebbero anche «realizzare la dedollarizzazione degli scambi commerciali, togliendo agli Stati uniti la capacità di scaricare il loro debito su altri paesi stampando carta moneta usata come valuta internazionale dominante». Di fronte ad un tale scenario non sarebbe fuori luogo un relativo allontanamento dal fronte atlantico di alcuni suoi componenti, i quali potrebbero convergere – anche solo tatticamente – verso il blocco delle economie emergenti. Un esempio significativo è il fatto che Londra stia per diventare la base per lo sviluppo di strumenti finanziari denominati in renminbi – ben più affidabile del dollaro statunitense quale valuta internazionale40.
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Mauro Casadio / James Petras / Luciano Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, cit., p. 87
34 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, cit., p. 364 e p. 408 35
Ivi, p. 368 e p. 390
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Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, cit., p. 407, p. 371 e pp. 393-408
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mente frastagliato; ciononostante, anche in questo ambito, appare indubbia la progressione relativa dei nuovi competitori internazionali. In tal senso, il progressivo avvicinamento tra i Paesi che compongono i BRICS è indicativo del formarsi di un blocco dai consistenti rapporti di forza. Nel luglio 2015 la città russa di Ufa ha ospitato due importanti incontri: la riunione della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) e il VII summit dei BRICS. Nel primo consesso si è ufficializzata l’entrata, nel 2016, di India e Pakistan, che si aggiungono ai membri storici (Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan). Il vertice dei BRICS ha evidenziato le problematiche delle relazioni internazionali: dall’adozione, da parte occidentale, di “doppi standard” nel riferimento ai principi e alle norme del diritto internazionale; fino agli interventi militari unilaterali e alle sanzioni economiche in violazione del diritto internazionale. È stata sottolineata la centralità dell’economia pubblica e dell’azione dello Stato nella crescita nei paesi del Sud del mondo; e «il sostegno allo sviluppo dei diritti umani con un approccio complessivo – e non “politicizzato” - che pone sullo stesso piano quelli civili, sociali, economici e culturali»36. Il summit dei BRICS ha inoltre visto la nascita dalla “Nuova Banca di Sviluppo”, il cui principale compito sarà quello di sostenere progetti infrastrutturali nei Paesi del Sud. Un Fondo di Riserva di 100 miliardi di dollari, invece, assisterà i componenti afflitti da crisi finanziaria37. I capi di Stato di Russia e Cina, oltre al mantenimento d’uno stretto coordinamento su temi regionali e mondiali di interesse comune, hanno definito un ampliamento della collaborazione in svariati settori; segnatamente è stato avviata la creazione di un Partenariato economico (EPA) tra Cina e Unione Euroasiatica38. Peraltro, il panorama regionale che sta cercando di posizionarsi alternativamente all’orbita atlantica comprende anche corpose porzioni dell’America Latina. Sono iniziate nel gennaio 2015 le riunioni del Forum che riunisce la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac) e la Repubblica Popolare di Cina: l’impegno programmatico è volto a una cooperazione tra le parti su basi di uguaglianza e reciproco vantaggio, e ciò si sostanzierà in un piano quinquennale (20152019), che toccherà, tra gli altri, settori quali energie, finanze, scienza e scambi tra popoli39.
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c) Contraddizioni nel campo imperialista In precedenza, per argomentare il superamento tendenziale della fase relativa all’«unipolarismo» a guida statunitense, s’è adottato il concetto di «competizione globale»; segnatamente è stato sottolineato l’emergere di un polo europeo, la cui sfida più evidente all’egemonia statunitense fu il varo del progetto Euro (1992). Il panorama euro-americano, ciononostante, ha mantenuto una convergenza di massima o perlomeno non è incorso in una scomposizione sostanziale. Le prospettive di questo blocco, però, mutano di fronte al relativo declino del fronte atlantico e alla consistente ascesa del blocco facente capo ai BRICS. Così, infatti, sono poste le basi per il pre-
d) Transizione verso un mondo multipolare? Gli «scenari post-egemonia statunitense» sono molteplici. Se ci affidassimo all’insegnamento del passato, concluderemmo che al crollo dell’«ordine dominante» seguirà un «cambio della guardia ai vertici dell’economia-mondo capitalistica», e la nuova egemonia sarebbe economica e politica. Ma il meccanicismo dei modelli non ha nulla a che fare coi processi reali. Non per forza il fatto che la Cina e i Paesi ad essa maggiormente legati stiano diventando la principale forza motrice dell’espansione commerciale ed economica sistemica, dovrà condurre questi attori ad esercitare un’egemonia imperiale 41. Gli indizi che smentiscono tale ipotesi sono consistenti (e in parte già considerati). Con Hugo Chavez possiamo affermare che «la Cina ha dimostrato che è possibile essere potenza senza pretese imperiali né egemoniche»42. I caratteri delle iniziative politicodiplomatiche cinesi interne al progetto “One Belt, One Road” sono istruttive. Come sottolineato dal Presidente Xi Jinping esse - aperte a tutti i paesi che aspirano alla pace e allo sviluppo - rappresentano «un’inclusiva piattaforma destinata a combinare la rapida espansione dell’economia cinese con i benefici che tutte le parti coinvolte potranno fruire da tale processo di crescita», e nella conduzione di questi progetti la Cina sarà ricettiva nei confronti dei partecipanti, per tramite di una prassi di consultazione allargata43. Ma l’incertezza predomina, ché non è affatto chiaro in che direzione conduca la transizione. La democratizzazione delle relazioni internazionali non avverrà spontaneamente e non è nemmeno garantita, seppur sono tali i «nuclei di una possibile e futura cooperante comunità internazionale di segno multipolare»44. Ad essere allarmante è la «refrattarietà de-
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http://goo.gl/5vW6z2 http://goo.gl/xDTe5E http://goo.gl/IuoI2E
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’ l l a e t n o r f i d a r e z z i v La S 45
Giovanni Arrighi / Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 336
DO SSI ER
46 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, cit., p. 405
gli Stati Uniti all’adattamento e alla conciliazione»45 : di fronte a uno scenario internazionale che accumula corposi fattori di conflitto, la «transizione non catastrofica verso un ordine mondiale più equo» 46 è prioritaria.
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http://goo.gl/rwgWeM http://goo.gl/ NBvsRj 48
http://goo.gl/Eqf3if
5. Il ruolo della Svizzera in e per un mondo multipolare
a) Perché non è più conveniente sfruttare? Di fronte a un riequilibrio relativo nei rapporti di forza mondiali dato dall’energica ascesa di nuovi competitori, occorre rivedere radicalmente la modalità con cui la Svizzera – attori istituzionali e privati – si rapporta con il resto del mondo. Una tale prospettiva si motiva in virtù di due principali constatazioni. Da una parte la periferia come categoria geo-economica ha subito mutamenti sostanziali: molti Paesi che ricadevano semanticamente sotto di essa – tra i quali anche e soprattutto i «nuovi competitori» - hanno realizzato un’importante progressione delle loro posizioni economiche e politiche e perciò non possono più essere sottomessi. Dall’altra, in stretta relazione a questi sviluppi, relazionarsi con gli altri Paesi su basi paritarie è necessario ché sono proprio i soggetti emergenti che adottano tale prassi. La Cina fin dal 1989-91 ha avviato un processo di interscambi commerciali e finanziari coi paesi in via di sviluppo, fino ad allora del tutto subalterni all’imperialismo. Ciò è stato fatto perché è considerato fondamentale sostenere la crescita interna stabile e duratura dei partner, sia attraverso la costruzione in loco di infrastrutture e servizi sociali, sia attraverso un flusso di finanziamenti a un tasso pari quasi a zero47. La cooperazione sino-africana è emblematica: essa punta prioritariamente alla costruzione di infrastrutture sul suolo africano nell’ottica di promuovere un «sviluppo auto-sostenuto» che emancipi il continente dal circolo vizioso relativo alla simbiosi che, per l’appunto, intreccia una condizione di sviluppo economico oltremodo rallentato all’assenza di infrastrutture; e tutto ciò sulla scia di una cooperazione win-win48. b) Dallo sfruttamento alla crescita reciproca, consolidando la prosperità elvetica Per la Svizzera rigettare una prassi neocolonialista non solo è giusto secondo canoni etico-morali, ma è lungimirante a livello economico. In una configurazione delle relazioni internazionali di carattere multi-polare, il nostro Paese può giocare un ruolo da protagonista e crescere economicamente. Occorre declinare le peculiarità del tessuto economico elvetico all’interno di una divisione internazionale del lavoro in fieri ma connotata dall’ascesa delle economie emergenti. Tendenzialmente la Svizzera è già orientata sui cardini di una produzione dal considerevole valore aggiunto: ed è su questa caratteristica – opportunamente potenziata - che è doveroso puntare. Il know-how accumulato nel corso degli anni, la ca-
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pacità di produrre beni de-standardizzati ad alto valore aggiunto e il fatto di poter mettere a disposizione servizi efficienti (non da ultimo quelli di carattere diplomatico), sono fattori che il nostro Paese deve far fruttare nel solco di una cooperazione internazionale nella quale i diversi partner – che agirebbero nell’ottica di conseguire «vantaggi cooperativi», non quindi «competitivi» – mettano a disposizione i rispettivi «punti di forza»; e ciò nella direzione di uno sviluppo complementare ed equilibrato. Lo sforzo culturale che occorre compiere è quello di rendersi consapevoli del fatto che agire nell’ottica di consolidare le posizioni dei partner e dunque appianare le diseguaglianze rappresenta un’operazione ben più proficua dello sfruttamento dei «vantaggi competitivi» che un’economia ad alta intensità tecnologica possiede rispetto alle altre. L’obiettivo dovrebbe essere quello di definire i binari per il raggiungimento di una prosperità condivisa, che potrà essere tale solo laddove la programmazione dello sviluppo economico saprà superare i confini nazionali49.Traghettare lo scenario nazionale in tal direzione si lega ad una rimodulazione della relazione tra stato ed economia: il primo deve tornare a “pensare” la seconda, nei termini d’una fresca prassi di programmazione dello sviluppo. È all’interno di questo orizzonte che i comunisti intravedono i presupposti per il definirsi di una funzione progressiva da parte della Svizzera nello scacchiere internazionale. Questo anche e soprattutto nell’ottica di contribuire attivamente alla strutturazione di un contesto multipolare, che è la conditio sine qua non per immaginare, in futuro, di poter parlare di trasformazione socialista della società. Evidentemente, adottare una prassi multipolare nelle relazioni estere comporta il fatto di superare una situazione in cui la collocazione all’interno di un determinato blocco sovra-regionale esclude il dialogo con le istanze ad esso concorrenti: allontanarsi da una tale configurazione rappresenta un’importante traguardo, anche al fine di promuovere la distensione internazionale. La Svizzera, in tal senso, potrebbe essere resa una sorta di testa di ponte tra Oriente e Occidente; un tale obiettivo impone sia l’elusione dei diktat atlantici, sia un’apertura ai BRICS. In questo senso l’Accordo di Libero Scambio siglato con la Repubblica Popolare Cinese (2013) va nella giusta direzione ed è interessante ché permette la diversificazione dei partner commerciali, importante per ridurre la dipendenza dalla sola area atlantica; al contrario degli accordi TTIP/TISA, che vincolano l’economia svizzera al campo occidentale.
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Dal congresso di Vienna ai BRICS: storia e prospettive della neutralità svizzera Damiano Bardelli Quest’anno corre il bicentenario del congresso di Vienna, in occasione del quale le grandi potenze europee riconobbero la neutralità perpetua della Svizzera. Occorre approfondire gli avvenimenti che hanno marcato la neutralità elvetica non solo per capire cosa essa sia – contrastando l’utilizzo strumentale della storia nazionale messo in atto dai partiti conservatori – ma anche per riflettere sulle sue prospettive future. Nel contesto attuale di cambiamento negli equilibri geopolitici internazionali, la Svizzera potrebbe infatti approfittare del suo status di paese neutrale per giocare un ruolo centrale nello sviluppo di rapporti paritari tra l’Occidente e le potenze emergenti. ●● Le origini della neutralità: il mito di Marignano e il congresso di Vienna I partiti conservatori – e in particolare l’UDC – ricorrono regolarmente al mito del Sonderfall elvetico 1 per ottenere consensi tra la popolazione e per giustificare le loro proposte in materia di politica interna ed estera. Per contrastare questa tendenza e per smascherare la debolezza degli argomenti della destra, è fondamentale che i partiti di sinistra cambino la loro attitudine nei confronti della storia nazionale e comincino ad approfondirla. Diversi esempi concreti posso essere presi in considerazione, tra cui quello della neutralità. Questa primavera, la pubblicazione di un’opera dello storico Thomas Maissen, nella quale vengono smantellati i principali miti della storia svizzera2, ha dato luogo ad un acceso dibattito tra politici conservatori – incluso Christoph Blocher – ed esperti del tema. Questa discussione ha permesso di mettere in evidenza la fragilità della posizioni dell’UDC sulla storia nazionale3. In particolare, ci si è scontrati sulla questione delle origini della neutralità elvetica, che i miti popolari fanno rimontare alla battaglia di Marignano del 15154 ma che, concretamente, diviene realtà solo con la pace di Parigi, stipulata nel 1815 nel quadro del congresso di Vienna5. Dalla fine del XIX secolo e per quasi un secolo, gli storici hanno applicato una lettura a posteriori della neutralità svizzera, facendo risalire la tradizione della neutralità alla battaglia di Marignano per giustificare la politica di forte isolamento promossa dalle autorità elvetiche. Solo negli ultimi decenni si è cominciato a mettere in discussione questo approccio, favorendo piuttosto un’interpretazione in contesto6. Si è così potuto confermare che la neutralità svizzera non è iniziata con la sconfitta di Marignano, ma che essa si è sviluppata nel corso dei secoli fino alla sua dichiarazione al congresso di Vienna7. Il
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concetto stesso di neutralità si è profondamente trasformato nel corso dell’epoca moderna8, e si è dovuto attendere il XIX secolo perché questa prendesse un significato simile a quello che le si attribuisce oggi. Per esempio, sebbene il Corpo elvetico non abbia più partecipato a dei conflitti dopo Marignano, tutti i 13 cantoni che lo componevano sono stati alleati del regno di Francia dal XVI secolo sino al 17989, e i mercenari svizzeri hanno giocato un ruolo centrale nelle guerre europee fino all’inizio del XIX secolo. La questione dell’origine esatta della neutralità non è banale come potrebbe inizialmente sembrare: far rimontare la neutralità a Marignano anziché alla pace di Parigi implica un’interpretazione completamente diversa del suo significato. I sostenitori della storia leggendaria della neutralità, vedono quest’ultima come una decisione saggia, presa in modo autonomo e unilaterale dalle autorità elvetiche in un contesto epico, quello delle battaglie del XVI secolo. La storia è ben diversa, visto che la dichiarazione della neutralità perpetua, sebbene sia stata scritta da un ginevrino, il diplomatico Charles Pictet de Rochemont, è stata presa di concerto tra le autorità elvetiche e le potenze europee dell’epoca. Senza il consenso di queste ultime, interessate ad avere un cuscinetto che le dividesse e che riducesse il terreno di scontro in caso di un conflitto, difficilmente la Svizzera avrebbe potuto restare neutrale e indipendente sino ai giorni nostri. La neutralità della Svizzera non dipende quindi solo dal volere di quest’ultima, ma anche dagli interessi delle grandi potenze regionali e – nel contesto odierno della globalizzazione – mondiali. ●● Ambiguità della politica di neutralità Dal congresso di Vienna ad oggi, il modo in cui viene applicata la neutralità è evoluto profondamente. Una tappa importante è rappresentata dall’adesione della Svizzera alla convenzione dell’Aia del 1907, che ancora oggi definisce i diritti e i doveri dei paesi neutrali in tempo di guerra, in particolare l’obbligo di non aprire il proprio territorio ad azioni militari dei belligeranti10. In contrapposizione con questo “diritto della neutralità”, si considera che in tempo di pace sia la cosiddetta “politica di neutralità” a definire la politica estera della Svizzera, il cui scopo è di assicurare la credibilità della neutralità grazie a delle scelte equilibrate e coerenti. Va da sé che se il diritto della neutralità è una realtà chiaramente definita, lo stesso non si può dire della politica di neutralità, che è più che altro uno strumento retorico utilizzato in modo ricorrente dalle autorità elvetiche. Gli eventi che hanno caratterizzato la storia svizzera nella prima metà del XX secolo costituiscono un esempio emblematico di come l’applicazione della politica di neutralità – ma anche del diritto della neutralità – da parte delle autorità elvetiche possa risultare ambigua, in particolare a causa dell’influenza del mondo bancario e padronale sul Consiglio federale. Basti pensare ai crediti accordati dal governo svizzero agli industriali che esportavano i
Idea secondo la quale la Svizzera costituirebbe un caso virtuoso unico al mondo. Chi sostiene questa tesi dimentica ovviamente che ogni nazione ha una storia e delle caratteristiche che la rendono unica. 1
Thomas Maissen, Schweizer Heldengeschichten – und was dahintersteckt, Hier und Jetzt, Baden, 2015. 2
Si vedano Marc Tribelhorn, “Blocher contra Maissen”, NZZ, 12 aprile 2015 (http://goo. gl/OJ1Kdo) e le prese di posizione apparse sulla NZZ sullo stesso tema (http://goo.gl/1jSMdh), così come il dibattito tra Maissen e Blocher organizzato dalla Weltwoche e disponibile su YouTube (https://goo. gl/OwGy3x). 3
Battaglia che rimise in discussione le politiche espansionistiche dell’antica Confederazione. Essa si svolse tra il 13 ed il 14 settembre 1515 a Marignano, dove le truppe confederate subirono una cocente sconfitta contro l’esercito del re di Francia Francesco I. Si veda la voce “Marignano, battaglia di”, nel Dizionario storico della Svizzera (DSS): http:// goo.gl/DeHoKu.
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Congresso tenutosi tra il 1814 e il 1815 e guidato dalle monarchie vincitrici delle guerre napoleoniche (Austria, Prussia, Russia e Gran Bretagna), nel quale vennero ridisegnati gli equilibri in Europa. Si veda la voce “Vienna, congresso di” nel DSS: http://goo.gl/XJ1UF9.
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Georg Kreis, “Die Neutralität – eine historische Kategorie für eine künftige Politik?”, in Georg Kreis (dir.), Die Schweizer Neutralität. Beibehalten, umgestalten oder doch abschaffen?, Werd, Zurigo, 2007, p. 36-39. 6
Per una sintesi della questione, si veda l’intervista allo storico Béla Kapossy in Jocelyn Rochat, “Au soir de Marignan, la Suisse n’est pas devenue neutre”, Allez savoir!, n° 59, gennaio 2015, p. 45 (http://goo. gl/5qM5Hy). 7
Thomas Maissen, “Wie die Eidgenossen ihre Neutralität entdeckten. Frühneuzeitliche Anpassungen an eine veränderte Staatenwelt”, in Georg Kreis (dir.), Die Schweizer Neutralität. Beibehalten, umgestalten oder doch abschaffen?, Werd, Zurigo, 2007, p. 51-67.
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o r e t s e ’ l l a e t n o r f i d a r La Svizze Editoriale
Andreas Würgler, “The League of Discordant Members’ or How the Old Swiss Confederation Operated and How it Managed to Survive for so Long”, in André Holenstein, Thomas Maissen e Maarten Prak (ed.), The Republican Alternative. The Netherlands and Switzerland Compared, Amsterdam University Press, Amsterdam, 2008, p. 32.
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11 Marc Perrenoud, “L’économie suisse et la neutralité à géométrie variable”, Matériaux pour l’histoire de notre temps, n° 93, vol. 1, 2009, p. 81.
Con le importanti eccezioni del Consiglio d’Europa e dell’OSCE.
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Vedi articolo seguente.
Basti pensare che le autorità elvetiche non hanno preso alcuna misura contro gli Stati Uniti e il Regno Unito in occasione dell’invasione dell’Iraq del 2003, che costituiva una violazione del diritto internazionale. Al riguardo, si veda per esempio René Schwok, Politique extérieure de la Suisse après la Guerre froide, Presses polytechniques et universitaires romandes, Losanna, 2012, p. 36.
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15 Si veda l’articolo di Mattia Tagliaferri “Il ruolo della Svizzera nell’internazionalizzazione del renminbi” apparso su #politicanuova n° 3.
Si veda la pubblicazione della Cancelleria federale Prospettive 2030, nella quale vengono definite le sfide future della politica federale. In particolare, viene riconosciuta come inevitabile l’ascesa delle potenze emergenti, e della Cina più in particolare. Il pdf del documento è gratuitamente scaricabile all’indirizzo https://goo. gl/xjX5EK.
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17 Per un’analisi più dettagliata della questione, si veda Prospettive 2030, p. 9-10, 18-26.
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loro prodotti nel Terzo Reich – prodotti che delle ricerche recenti dimostrano includessero anche materiale di guerra, il che significa che la Svizzera arrivò addirittura a infrangere la convenzione dell’Aia.11 Durante la Guerra fredda, la neutralità – divenuta ormai un elemento centrale dell’identità nazionale – è stata assurta a obiettivo della politica estera elvetica. Concretamente, la politica di neutralità si è tradotta in quasi mezzo secolo di chiusura nei confronti della comunità internazionale, come testimoniato dalla decisione di non aderire alle principali organizzazioni internazionali12 e di non partecipare alle sanzioni economiche decise per esempio dall’ONU. Si è dovuto attendere il crollo del blocco sovietico affinché la Svizzera si aprisse al mondo. Dall’inizio degli anni Novanta, infatti, le relazioni internazionali hanno subito delle profonde trasformazioni, e con esse anche la neutralità svizzera ed il modo in cui essa viene intesa ed applicata. In nome della “neutralità attiva”, promossa prima da Micheline CalmyRey e ora da Didier Burkhalter, la Svizzera si è sempre più integrata nelle strutture di cooperazione internazionale, incluse quelle che favoriscono l’egemonia nord-atlantica e neoliberista sul pianeta. Questo vale tanto per l’ambito economico – come la stipulazione degli accordi bilaterali con l’UE e la contrattazione dei trattati Ttip e Tisa13 – che quello militare – come la partecipazione alla Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) dell’UE e alla Partnership for Peace (PfP) della NATO. Inoltre, la Svizzera partecipa alle sanzioni economiche contro i paesi che infrangono il diritto internazionale – perlomeno in teoria14 – ma essa si allinea oltre che a quelle decise dall’ONU anche a quelle decise esclusivamente dagli Stati Uniti e dall’UE. La situazione attuale conferma quindi l’ambiguità della politica di neutralità, grazie alla quale le autorità intrattengono delle buone relazioni con i principali partner del mondo finanziario elvetico, a dispetto del presunto senso di equilibrio che dovrebbe starne alla base e a scapito dello sviluppo di relazioni internazionali più equilibrate e pacifiche. ●● Costruire ponti in un mondo multipolare Il nostro essere critici nei confronti degli accordi sopra citati non significa che intendiamo la politica estera nello stesso modo della destra conservatrice, secondo la quale la neutralità dovrebbe essere il fine – e non uno strumento – della politica estera. Come abbiamo visto sopra, la storia ci insegna che la via dell’isolamento estremo proposta dall’UDC, teoricamente volta a salvaguardare la neutralità, non solo non è consigliabile, ma non è neanche realisticamente praticabile, in quanto la neutralità svizzera dipende anche dalla benevolenza della comunità internazionale. Una politica di chiusura che difende il solo profitto del mondo finanziario svizzero a discapito della comunità internazionale come quella concretizzata con l’approvazione dell’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa”, non gioverebbe affatto al mantenimento dell’indipendenza e della neutralità svizzera. Al contempo, siamo convinti che la “neu-
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tralità attiva” promossa dal Consiglio federale vada rivista. Essa dovrebbe essere intesa piuttosto nei termini di una partecipazione attiva nella scena internazionale in veste di paese non-allineato, dialogando sia sul piano diplomatico che su quello economico tanto con le potenze emergenti – i BRICS – che con quelle “declinanti” – USA e UE. In materia economica, la Svizzera ha già compiuto passi importanti, per esempio stipulando l’accordo di libero scambio con la Cina, in vigore dall’estate scorsa. Un accordo esiste ugualmente con l’Unione doganale dell’Africa australe, di cui fa parte il Sud Africa, e degli accordi sono in corso di negoziazione con l’India. Ma diversi passi possono essere ancora compiuti per favorire lo sviluppo di rapporti multipolari. Si pensi per esempio al ruolo che la Svizzera potrebbe giocare nell’internazionalizzazione del renminbi, favorendo la creazione di un sistema monetario internazionale basato su un paniere di valute da utilizzare negli scambi internazionali in sostituzione al dollaro15. In quest’ottica, è ugualmente auspicabile che la Svizzera rinunci alla partecipazione dei trattati Tisa e Ttip, che la renderebbe ulteriormente subordinata al mercato americano ed europeo. Dal punto di vista diplomatico, la Svizzera potrebbe fungere da interlocutore veramente neutrale tra tutte le nazioni del globo rinunciando al suo attuale allineamento con le potenze Occidentali. Questo le permetterebbe di avere un ruolo di primo piano nello sviluppo di rapporti più armoniosi tra i membri della comunità internazionale. In questo senso, lo sviluppo di legami più stretti con l’Unione europea non è accettabile. L’UE ha più volte dimostrato di non voler rinunciare all’egemonia occidentale sul globo, malgrado il contesto attuale dimostri che lo sviluppo di un mondo multipolare sia inevitabile16. L’integrazione della Svizzera nell’UE minerebbe pericolosamente la credibilità della neutralità elvetica. Si dovrebbe invece favorire il rafforzamento di uno statuto paritario tra i membri di organizzazioni internazionali come l’ONU, o eventualmente favorire la creazione di nuove istituzioni. In un mondo multipolare, il ruolo di tali organizzazioni è fondamentale per assicurare rapporti armoniosi e il benessere di tutti17. Senza di esse, sarebbe impossibile prevenire lo sviluppo di conflitti a scala planetaria dettati dalla concorrenza tra nazioni, le cui conseguenze sarebbero devastanti. La Svizzera, in quanto stato neutro, ha l’opportunità di tessere alleanze volte a cambiare strutture obsolete come ad esempio quella del Consiglio di sicurezza dell’ONU, figlia di un mondo – quello sorto al finire della Seconda Guerra mondiale – che non c’è più.
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La convenzione dell’Aia permette invece il transito e il commercio privati, incluso quello di armi, anche in tempo di guerra. Il mondo finanziario elvetico fece tutto il possibile perché questa clausola venisse integrata nella convenzione. Al riguardo, si veda Hans-Ulrich Jost, “Origines, interprétations et usages de la ‘neutralité helvétique’”, Matériaux pour l’histoire de notre temps, n° 93, vol. 1, 2009, p.8.
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La Svizzera di f ronte all’estero Un’Europa ed una Svizzera al servizio delle multinazionali? No al TTIP-TISA!
Tobia Bernardi
Negoziati nella più assoluta segretezza, due importanti trattati di libero scambio stanno assumendo negli ultimi anni contorni sempre più precisi, che lasciano presagire un futuro nient’affatto roseo per tutti coloro che non appartengono alla ristretta cerchia degli azionisti delle grandi multinazionali americane ed europee. Si tratta del TTIP (il Transatlantic Trade and Investment Parternship – Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) e del TISA (Trade In Services Agreement – Accordo sul commercio dei servizi), destinati – se approvati – a trasformare profondamente la vita di milioni di persone. Questi accordi sono però ancora sconosciuti alla maggior parte dell’opinione pubblica, in parte a causa della nube di mistero che avvolge le negoziazioni, in parte per colpa del silenzio (complice) della maggior parte dei grandi media. #politicanuova propone perciò un approfondimento, destinato sia a capire il contenuto e l’impatto di questi trattati, sia il contesto e le ragioni profonde che muovono la loro realizzazione.
TTIP – Di che cosa si tratta Sebbene, per molti versi, i due trattati possono (e devono) essere considerati congiuntamente, si tratta in realtà di due accordi distinti, sia per quel che riguarda i paesi contraenti, sia per quel che concerne l’oggetto stesso delle negoziazioni. Il TTIP – conosciuto anche con il nome di Grande Mercato Transatlantico – si pone un obiettivo estremamente ambizioso: creare la più grande zona di libero scambio del pianeta, risultante dall’unione doganale e commerciale tra due delle più grandi economie mondiali: Stati Uniti ed Unione Europea. Definito dalla borghesia europea ed americana come il «trattato più importante del mondo»1, esso intende sopprimere le barriere commerciali esistenti tra Europa e Stati Uniti, permettendo così la creazione di un unico, gigantesco, mercato interno di circa 800 milioni di consumatori. Dato che le barriere tariffarie tra i due giganti economici sono già estremamente basse (la media dei dazi doganali tra UE e USA si colloca intorno al 3% 2 ), sono sopratutto le cosiddette barriere non tariffarie a costituire l’oggetto dei negoziati. Tra Stati Uniti ed Unione Europea esistono in effetti numerose differenze normative e diversi divieti di importazione (si può pensare, ad esempio, alle restrizioni europee in materia di OGM, completamente sconosciute sull’altra riva dell’Atlantico), e sono precisamente tali differenze normative ad essere nel mirino del TTIP. Dato che, come la storia ci ha insegnato, una tale “armonizzazione” normativa si farà sulla base ●●
del più piccolo denominatore comune, vi è senz’altro da attendersi un forte abbassamento delle tutele giuridiche a difesa dell’ambiente, del consumatore o delle condizioni di lavoro. Ma il TTIP non si accontenta di “armonizzare” le norme esistenti sulle due sponde dell’Atlantico: esso vuole anche e sopratutto fornire agli investitori degli strumenti giuridici per rimuovere ogni tipo di ostacolo legislativo che si frapponga sul loro cammino3. Si tratta del cosiddetto ISDS (Investitor-State Dispute Settlement), ovvero della creazione di una serie di tribunali speciali aventi come funzione l’arbitraggio dei conflitti potenziali che potrebbero sorgere tra le multinazionali europee e americane e gli Stati firmatari del trattato, qualora questi ultimi procedessero all’elaborazione di norme giuridiche giudicate dagli investitori come una limitazione al loro diritto di investire «quello che vogliono, dove vogliono, quando vogliono, come lo vogliono e di ritirarne il beneficio che vogliono»4. Sebbene sconosciute al grande pubblico, tali dispute tra investitori e Stati non sono certo una novità: per non fare che un esempio, nel giugno del 2012 la multinazionale francese Véolia ha attaccato in giustizia una delle sole conquiste sociali della primavera araba: l’aumento del salario minimo egiziano da 41 a 72 euro mensili; un aumento giudicato da Véolia come contravvenente agli impegni presi nel quadro del partenariato pubblico-privato contratto con la città di Alessandria per il trattamento dei rifiuti5. Queste dispute, che toccano sopratutto i paesi che rifiutano di sottomettersi alle esigenze della globalizzazione neoliberista (l’Argentina di Kirchner è stata oggetto di 53 denunce da parte degli investitori, il Venezuela chavista di circa 36) 6, concernono però sempre più spesso anche i paesi al centro dell’economia-mondo, che si trovano così, anch’essi, alla mercé delle multinazionali e dei grandi gruppi economici. Nel 2009, ad esempio, Vattenfall (gruppo pubblico svedese colosso del settore energetico) ha presentato denuncia contro Berlino, reo di aver promulgato una serie di norme – nient’affatto rivoluzionarie – tendenti a migliorare la protezione dell’ambiente, che rendevano però “antieconomico” il suo progetto di costruire una centrale a carbone ad Amburgo7. Sebbene le multinazionali non vincano sempre questi processi 8 , la semplice minaccia di dover sborsare diversi milioni di dollari in avvocati e contenziosi giuridici spinge al ribasso la legislazione degli Stati e di fatto consegna il pianeta nelle mani dei grandi gruppi monopolistici. Il TTIP vuole precisamente perfezionare questo tipo di meccanismo, applicandolo all’insieme dell’Eurozona e degli Stati Uniti: attraverso l’istituzione di uno speciale tribunale (l’ISDS) – che appare, anche secondo i principali media borghesi, come una «istanza incaricata di difendere gli interessi delle multinazionali»9 – i gruppi economici predominanti potrebbero in effetti attaccare in giustizia non solo i diversi governi nazionali, ma l’insieme delle collettività pubbliche europee ed americane. Nel mandato di negoziazione dell’UE, si legge infatti che gli obblighi dell’accordo impegneranno tutti i livelli di go-
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Il Sole 24 ore, 26.10.2013.
2
“Accord de libreéchange transatlantique: de la transparence, s’il vous plaît”, Le Temps, 22.05.2014.
3 “La mondialisation heureuse, mode d’emploi”, Le Monde diplomatique, giugno 2014. 4 Definizione dei diritti dell’investitore, data dal direttore generale di American Express, citata in: Ibid. 5 “Des tribunaux pour détrousser les Etats”, Le Monde diplomatique, giugno 2014. 6
Ibid. Oggi Venezuela, Ecuador e Bolivia hanno annullato la maggior parte di questi trattati.
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Ibid.
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Il 42% delle cause intentate fino a fine 2012 è stato vinto dagli Stati, il 31% dagli investitori e il 27% ha dato luogo a un compromesso.
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Si veda ad esempio: “Les Européens mettent le TTIP en danger”, Le Temps, 15.1.2015.
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e t n o r f i d a La Svizzer 11 Si veda: “Dix menaces pour les peuples européens”, Le Monde diplomatique, giugno 2014. 12 Si veda: “Dix menaces pour les peuples américains”, Le Monde diplomatique, giugno 2014. 13
Si veda su questi aspetti l’articolo – per nulla “bolscevico” ed anzi, ingenuamente “altereuropeista” – di Pierre Defraigne, “Affranchir l’Europe du TTIP et du dollar”, Madariaga Papers, 19.3.2015.
14
Ibid.
15
Ibid.
16
Si veda: padre Alex Zanotelli, “Una Nato del commercio”, www. comune-info.net, 24.2.2014.
17 Il TPP (Trans Pacific Partnership), negoziato con Giappone, Australia, Canada, Cile, Peru, Singapore, e numerosi altri paesi in orbita americana.
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verno10. Una regolamentazione municipale o dipartimentale potrebbe così essere attaccata in giustizia da qualunque investitore, non più davanti ad un tribunale amministrativo nazionale ma davanti ad un tribunale privato internazionale, che si incaricherebbe di redimere la controversia. Con quali risultati, non è difficile prevederlo. ●● TTIP – Rischi e benefici (?) La minaccia che il TTIP fa planare sulle collettività pubbliche europee e statunitensi è enorme. Mentre le prime dovranno fare i conti con un forte ridimensionamento delle proprie legislazioni ambientali e lavorative11, per le seconde vi è invece sopratutto il rischio di dover smantellare quelle (poche) regolamentazioni finanziarie che sono state introdotte all’indomani della crisi del 2008 (come ad esempio la regola Volcker, che limita la capacità speculativa delle banche commerciali, e che le grandi banche statunitensi ed europee vogliono ad ogni costo abolire)12. Entrambe dovranno poi fare i conti con la sottomissione dei propri governi – indipendentemente dalle alternanze politiche – ad un diritto tagliato su misura delle multinazionali americane ed europee. Se il trattato dovesse venire approvato ed adottato, la deriva plutocratica del mondo occidentale troverebbe dunque il suo pieno compimento. Ci troveremmo in effetti di fronte ad un mondo in cui la capacità legislativa dei diversi governi sarebbe prossima allo zero, e in cui i popoli si troverebbero privati di qualsiasi decisione in materia di politica economica, riducendosi così al ruolo di semplici consumatori. Già il solo fatto che le discussioni tra la Commissione Europea e le autorità americane (che durano ormai da quasi un decennio) si siano svolte nella più completa segretezza – tenendo all’oscuro dei contenuti del trattato non solamente l’opinione pubblica ma anche i principali governi dell’Eurozona – ci fa capire a che punto il TTIP costituisca un’evidente minaccia per la vita democratica dei diversi paesi firmatari. In quanto ai benefici economici, nonostante la Commissione Europea paghi profumatamente i principali think tank neoliberisti per presentare l’impatto del trattato sotto la migliore luce possibile, appare evidente che gli eventuali benefici saranno davvero irrisori. O perlomeno, lo saranno per l’insieme dell’economia europea: uno studio comandato dalla Commissione sottolinea infatti che il PIL europeo dovrebbe crescere dello 0.5% nei prossimi 10 anni13. Una cifra irrisoria, per nulla suscettibile di rilanciare l’occupazione e l’economia dell’Eurozona, la quale – come è ormai noto a tutti, salvo agli ideologhi monetaristi – non può essere rilanciata che tramite un aumento della domanda. Vi sono però, beninteso, alcuni “vincitori”: in primo luogo, le multinazionali americane, che possiedono spesso un migliore know-how tecnologico in grado di dominare, in diversi ambiti (digitale, energia, telecomunicazioni, difesa, servizi finanziari), i propri corrispettivi europei14. In secondo luogo, quei paesi dell’Eurozona – e soprattutto la Germania, primo esportatore industriale mondiale – che, pur avendo
acquisito altissimi livelli di competitività, si trovano di fronte al paradosso di non poter disporre di una domanda sufficiente all’interno dell’UE, precisamente a causa delle politiche di austerità di Bruxelles15. Il TTIP permetterebbe di allargare dunque gli sbocchi potenziali per le loro esportazioni, e di continuare così ad imporre la loro ossessione monetarista al resto dell’Europa. Appare evidente che il trattato è tagliato su misura delle grandi multinazionali a discapito delle piccole e medie imprese, così come è evidente che esso favorisce in primo luogo le economie americana e tedesca, sfavorendo al contempo quelle meno competitive dei paesi del Sud Europa. ●● Le implicazioni geopolitiche del TTIP Per poter valutare pienamente le implicazioni del trattato transatlantico di libero scambio, è però indispensabile gettare un occhio all’evoluzione della situazione geopolitica mondiale. Il contesto è ormai noto a tutti: ascesa della potenza cinese, emergenza dei BRICS, declino dell’egemonia americana e del “nuovo ordine mondiale” creatosi all’indomani del crollo del blocco sovietico. In quest’ottica, il TTIP rappresenta un’inedita opportunità per l’imperialismo americano, e questo perlomeno su due livelli. In primo luogo, esso permetterebbe di legare in modo quasi irreversibile l’economia europea all’economia americana, impedendo così qualsiasi riavvicinamento dell’UE verso la Russia, e contribuendo dunque a fomentare quella sorta di nuova guerra fredda che vediamo all’opera nell’ambito della crisi ucraina. La costituzione di un grande blocco economico transatlantico – una sorta di NATO del commercio16 - permetterebbe poi di disporre di un più grande peso geopolitico per contrastare quella che è la vera e propria ossessione di Washington: l’ascesa del gigante cinese. Non è infatti un caso che, oltre a negoziare il TTIP, la Casa Bianca negozi al tempo stesso un trattato analogo con diversi paesi affacciati sul Pacifico (Giappone, Australia, Canada, Cile, Peru, Singapore, etc.), il cosiddetto TPP (Trans-Pacific Partnership), la cui funzione anti-cinese è palese. Inoltre, il TTIP si inserisce in quella serie di “mega accordi regionali” (con il TPP ed il TISA) destinati ad imporre al mondo le peggiori regole della globalizzazione neoliberista nonostante il fallimento manifesto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Bloccata – come lo testimonia il fallimento del “Ciclo di Doha” nei primi anni duemila – dall’opposizione tra i paesi occidentali e i nuovi paesi emergenti, l’OMC non pare più in grado di soddisfare le esigenze esorbitanti di Washington (e Bruxelles) in materia di libero scambio. Questi mega accordi regionali permettono dunque al blocco occidentale di aggirare l’OMC e il multilateralismo che ormai la contraddistingue. Creando degli insiemi commerciali autonomi, e fissando le regole di questi ultimi a loro piacimento, gli Stati Uniti possono così sperare di estendere queste stesse regole agli altri Stati membri dell’OMC, attraverso il principio della cosiddetta “clausola della nazione più favorita” 17 . Due piccioni con una fava, dunque: da un lato, Washington impedisce ogni riavvicinamento russo-
OSSIE R
10 “La mondialisation heureuse, mode d’emploi”, Le Monde diplomatique, giugno 2014.
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o r e t s e ’ l l a e
europeo e si pone nella miglior condizione possibile per contrastare l’ascesa di Pechino; dall’altro, le multinazionali americane ed europee possono sperare di imporre al mondo le proprie convinzioni neo-liberiste che altrimenti si sarebbero scontrate – nel quadro dell’OMC – con l’opposizione dei paesi emergenti (BRICS in testa). Avendo deciso di legare il proprio destino ad una potenza manifestamente in declino, l’Europa si dimostra ancora una volta incapace di posizionarsi in modo autonomo di fronte al mondo multipolare che sta nascendo. Riversare l’insieme delle responsabilità del TTIP sulle spalle di Washington sarebbe infatti fuorviante: sebbene è sicuramente quest’ultimo che ne otterrà i più grandi benefici, abbiamo in effetti visto come anche la Germania e le multinazionali europee spingano verso l’adozione dell’accordo; un accordo che, lo ripetiamo, avrà pesanti ripercussioni anche sulle collettività pubbliche americane. Con la conclusione di quest’accordo l’UE conferma la sua vera natura: non tanto una costruzione sovranazionale in grado di far giocare ai paesi europei un ruolo autonomo e di peso nel nuovo scacchiere geopolitico mondiale, quanto piuttosto una succursale tecnocratica del grande capitale, sottomessa agli imperativi geostrategici di una potenza extra-europea.
TISA – di che cosa si tratta? Definito da alcune voci come l’accordo più segreto mai negoziato18, il TISA è conosciuto dall’opinione pubblica solo grazie ad alcuni cables pubblicati da Wikileaks, che hanno così permesso al mondo di sapere in che condizioni si stava negoziando quella che è forse la più grande liberalizzazione della storia contemporanea. Negoziato tra una cinquantina di paesi (tutti in orbita atlantista19), compresa la Svizzera, questo trattato super-segreto vorrebbe liberalizzare non più le merci e gli investimenti (come nel caso del TTIP) bensì il mercato dei servizi, che rappresenta la maggior parte del PIL dei paesi a capitalismo avanzato. Si tratta, in sostanza, di eliminare tutte quelle barriere che impediscono ad un’impresa di un paese X di fornire i propri servizi in un paese Y; barriere che sono costituite oggigiorno dalle cosiddette quote nazionali, dai mercati pubblici riservati, dai monopoli nazionali (come nel caso dell’educazione) o dalle norme che regolamentano ad esempio i servizi finanziari20. Per fare ciò, il TISA riprende gli obiettivi e i metodi del suo predecessore, l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi (AGCS), rallentato e poi bloccato dall’opposizione dell’opinione pubblica a metà degli anni duemila21: si tratta, in sostanza, di accelerare le privatizzazioni in tutti gli ambiti del mercato dei servizi e, sopratutto, di impedire ogni forma di rinazionalizzazione o di riappropriazione pubblica di un’attività privatizzata. Due clausole del trattato, rese note da Wikileaks, risultano fondamentali a tal proposito. In primo luogo, la tecnica della cosiddetta “lista negativa”: ogni paese firmatario dovrà compilare una lista dei settori che intende preservare dalla privatizzazione. Al di fuori da questa lista, la liberalizzazione si applica in modo automatico. Possiamo ●●
ben immaginare l’impatto futuro di tale clausola, ad esempio sulle nuove invenzioni in ambito energetico: basti pensare a che cosa sarebbe successo se essa fosse stata adottata prima dell’invenzione dell’energia atomica che, non esistendo ancora, non avrebbe ovviamente potuto essere inserita nella lista negativa22. In secondo luogo, la clausola detta dello “statu quo” fissa il livello di liberalizzazione ottenuto, rendendo così impossibile ogni riappropriazione pubblica di un determinato servizio privatizzato23. Liberalizzazione ad oltranza dei servizi finanziari, erosione quasi totale dei servizi pubblici, libertà assoluta nel mercato dei dati, impossibilità di gestione pubblica delle nuove risorse energetiche, conseguente minaccia sulle norme sociali ed ambientali, e chi più ne ha più ne metta. Insomma, nonostante sia difficilissimo prevedere l’impatto effettivo del TISA – proprio in ragione dell’opacità delle negoziazioni e del mistero che avvolge tutt’oggi i contenuti effettivi del trattato – è evidente che si tratta di un accordo destinato a cambiare profondamente la vita quotidiana di milioni di persone. E non certo in senso positivo.
E la Svizzera? In primo luogo va detto che la Svizzera non si pone in modo uguale nei confronti dei due trattati. Nel caso del TISA, essa è parte integrante delle negoziazioni, mentre nell’ambito del TTIP essa si limita ad osservare i negoziati in corso tra UE e USA, pur sapendo di non essere al riparo dalle ripercussioni che deriverebbero da una sua eventuale accettazione. Cominciando dal TTIP, nonostante i principali media borghesi abbiano dato prova di un grande allarmismo24, e nonostante il consigliere federale Schneider-Amman abbia recentemente annunciato di voler spingere la Svizzera ad aderire al TTIP, si può verosimilmente pensare che una sua eventuale accettazione non marginalizzarebbe il nostro Paese in conseguenza della costituzione di un’area di libero scambio tra USA e UE. Come sottolinea Simon Evenett, professore all’Università di San Gallo, il livello delle tariffe doganali tra UE e USA è talmente basso che la loro abolizione non dovrebbe comportare troppi svantaggi per l’economia svizzera25. Svantaggi che sarebbero invece evidenti nel caso di un’eventuale adesione al TTIP, e non solo perché quest’ultimo sancirebbe la fine dell’agricoltura elvetica (inondata di prodotti americani) 26, ma anche e sopratutto perché ne risulterebbe, come per gli altri paesi europei, un forte indebolimento delle norme a tutela del consumatore, dell’ambiente e delle condizioni lavorative, di cui già abbiamo detto sopra. Eppure, anche nel caso che la Svizzera non aderisca al TTIP, vi è il forte rischio che, in virtù del principio del “Cassis de Dijon”27, molte di queste tutele vadano perdute: se per esempio l’UE dovesse autorizzare semenze geneticamente modificate, queste ultime si troverebbero, via Cassis de Dijon, autorizzate anche in Svizzera. Insomma, nonostante non faccia parte dei negoziati, è innegabile che le ripercussioni negative del TTIP si faranno sentire anche in Svizzera. Nel caso del TISA, del quale la Svizzera è parte inte●●
18 Si veda: Isolda Agazzi, “TISA: vers une déréglementation tous azimuts des services publics”, Le Temps, 4.7.2014. 19 Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Canada, i 28 paesi dell’Unione Europea, più Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein, Israele, Turchia, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Pakistan, Panama, Perù, Paraguay, Cile, Colombia, Messico e Costa Rica. 20 “TISA: un accord géant de libre-échange en discrètes négociations”, Le Monde, 9.7.2014. 21
Si veda: “Cinquante Etats négocient en secret la libéralisation des services”, Le Monde diplomatique, settembre 2014.
22
Si veda a questo soggetto la petizione di alcuni consiglieri nazionali socialisti, pubblicata in: “Les nouveaux accords de libre-échange menacent le ‘’modèle suisse’’, Le Temps, 26.1.2015.
23 “Cinquante Etats négocient en secret la libéralisation des services”, Le Monde diplomatique, settembre 2014. 24 Si veda ad esempio: “Le commerce mondial, ce bastion menacé de l’influence suisse”, Le Temps, 19.9.2014. 25 “L’axe BruxellesWashington défie le commerce suisse”, Le Temps, 3.6.2015. 26
Fu d’altronde la volontà del Consiglio Federale di proteggere l’agricoltura svizzera ad aver fatto fallire i negoziati di libero scambio tra Svizzera e USA a metà anni Duemila
27
La cosiddetta clausola del Cassis de Dijon sancisce che quando un articolo è prodotto conformemente alle disposizioni legali di uno stato membro dell’UE esso può essere venduto negli altri Stati membri. Nel quadro degli accordi bilaterali, questo principio è stato accettato dal Consiglio Federale
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La Svizzera di fronte all’e stero 28
Si veda ad esempio: “L’accord international sur les services qui fait peur à la Ville de Genève”, Le Temps, 28.5.2015.
29 Si veda: “Libreéchange: la cuisante défaite d’Obama”, Le Temps, 13.6.2015.
grante, le cose sono parzialmente diverse. In primo luogo, va detto che la Svizzera è stato l’unico paese (seguito poi dalla Norvegia) a pubblicare le sue condizioni di negoziazione su internet, ciò che torna sicuramente a suo onore. Il segretario di Stato all’economia ha poi a più riprese ribadito che i principali servizi pubblici non saranno privatizzati, cercando di smorzare le inquietudini che serpeggiano ormai a gran voce dell’opinione pubblica28. Tuttavia, le clausole della lista negativa e dello statu quo impedirebbero un eventuale ri-nazionalizzazione dei servizi privatizzati e, sopratutto, impedirebbero la regolamentazione futura di servizi non ancora esistenti. L’impatto del TISA, dunque, sarebbe enorme anche nella Confederazione, e per ciò quest’ultimo va energicamente combattuto. ●● Che fare? A livello di governo nazionale, la Svizzera dovrebbe innanzitutto uscire dai negoziati TISA – evitando così il rischio di liberalizzare oltre misura il suo settore dei servizi – e ribadire, attraverso la via bilaterale, che non intende applicare il principio Cassis de Dijon nell’ambito dell’“armonizzazione” delle norme che risulterebbe da un’eventuale adozione del TTIP da parte dell’Eurozona. Più in generale, una battaglia internazionale contro questi nuovi trattati è non solo auspicabile, ma improrogabile. Sfruttando le sue corpose solidarietà internazionali, oggi decisamente più articolate rispetto a quelle del mondo del lavoro, il grande capi-
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tale cerca di creare un mondo fatto su misura per gli azionisti e per le multinazionali, una sorta di gigantesco “paradiso padronale” in cui le grandi imprese monopolistiche fanno il bello e il cattivo tempo, dettando legge a degli Stati nazionali ormai sempre più incapaci di assicurare un futuro dignitoso ai propri cittadini. Sebbene possa sembrare una battaglia impari, qualche avvisaglia ci indica che, questa volta – combinando un’eccessiva segretezza e delle richieste spropositate – le diverse multinazionali si sono spinte un po’ troppo in là. Basti pensare al voto negativo del Congresso americano che, sotto la pressione della corrente di sinistra del Partito Democratico, ha rifiutato di fornire a Obama la possibilità di negoziare da solo il TPP ed il TTIP29, o all’opposizione che una frangia sempre più folta dell’opinione pubblica europea manifesta nei confronti dell’ISDS (opposizione che, non fosse stato per il tradimento degli europarlamentari socialdemocratici, avrebbe potuto far vacillare seriamente l’intero trattato). Dei piccoli segnali, certo, che costituiscono però la prova del fatto che, sebbene sia assuefatta da una propaganda neoliberista sempre più battente, l’opinione pubblica occidentale rimane potenzialmente mobilitabile su questioni così importanti. Starà alla sinistra, quella vera, saper cogliere questo potenziale per opporsi con forza ed energia alle nuove regole della globalizzazione neoliberista.
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Il settore finanziario elvetico nel XXI secolo: governabile, sostenibile ed efficiente #politicanuova propone un contributo a proposito delle prospettive dell’attività finanziaria in Svizzera. Anziché abbandonarci ad una superficiale condanna della finanza tout court, nelle prossime righe abbiamo cercato di congiungere un’analisi di respiro teoricostrategico – condotta da Alessandro Lucchini – con un apparato propositivo geo-concreto – a firma di Edoardo Cappelletti. In questo modo è stato possibile concepire realisticamente un’orizzonte di vitalità per le attività finanziarie nell’ambito dei decenni a venire. Attività finanziarie che, peraltro, potrebbero svolgere concretamente una funzione fondamentale nel quadro dello sviluppo di un’economia reale basata sull’alto valore aggiunto.
La riconversione del settore finanziario svizzero all’interno di una configurazione economica sostenibile Alessandro Lucchini Il segreto bancario ha costituito il principale atout del modello bancario svizzero. La finanza elvetica si è storicamente sviluppata grazie a questo strumento, e il Paese, in linea a ciò, ha potuto arricchirsi e vivere al di sopra delle proprie possibilità (in particolar modo nel settore finanziario), accumulando ricchezze di provenienza più o meno chiara. La finanza nostrana, infatti, ha giocato un ruolo importante nell’attività di riciclaggio di denaro sporco. Lo scoppio della crisi del 2007-2008 ha portato molti Paesi a frenare la fuga dei loro capitali verso i lidi finanziari elvetici. Conseguentemente, si sono poste le condizioni per una compromissione sostanziale del segreto bancario. La ridiscussione degli accordi fiscali con numerose nazioni, infatti, è stata già portata a compimento nel 2010, e con ciò l’attratività del segreto bancario è stata alquanto rimpicciolita – e tale decorso non potrà che continuare. Inoltre, il ruolo sempre più importante che stanno assumendo la Gran Bretagna e la piazza finanziaria di Londra, contribuisce a togliere ulteriore ossigeno alla cosiddetta “Svizzera che lava più bianco”. Tale evoluzione non può che portare a un ridimensionamento del settore finanziario elvetico, e ci costringe - finalmente - a ricercare una prospettiva che unisca, da una parte, l’abbandono delle attività criminose e, dall’altra, la funzionalità e l’efficienza rispetto al complesso dell’economia nazionale.
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Il dossier del quinto numero di #politicanuova (novembre 2014) aveva descritto una possibile – e auspicata - configurazione economica: la cosiddetta sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto1, atta a favorire uno sviluppo del tessuto economico e sociale della Svizzera nella direzione di un’economia in grado di competere in modo performante sui mercati esteri. Una sinergia tra quattro attori - lavoratori, piccole e medie imprese (PMI) 2, poli formativi e Stato - sottostante ad una programmazione economica pubblica, che consentirebbe di collocare la Svizzera in un circolo virtuoso di prosperità all’interno di un contesto di crisi dell’Occidente. Questa configurazione favorirebbe una produzione de-standardizzata difficilmente sostituibile sul mercato internazionale globalizzato. L’interazione costante tra i quattro attori permetterebbe l’evolversi di nuove condizioni economiche quadro3 che favorirebbero un’inversione di rotta rispetto all’insensata corsa al ribasso dei salari4 per mantenere competitiva una produzione a basso valore aggiunto. Nell’analisi e nella formulazione teorica di una configurazione come quella della sinergia quadripolare è di centrale importanza la determinazione dei ruoli, le interazioni e l’evoluzione che tutti i settori economici avrebbero con lo sviluppo della stessa. La struttura dell’economia svizzera, fondata in modo sostanzioso su un sistema finanziario sviluppato, rende necessario concepire i caratteri dell’inserimento della dimensione finanziaria nel quadro della complessiva configurazione economica prospettata. All’interno di quest’ultima, la piazza finanziaria elvetica potrebbe giocare un ruolo fondamentale, funzionale alla creazione di condizioni quadro ottimali in cui gli attori sopracitati operino sinergicamente per edificare e consolidare un’economia ad alto valore aggiunto. A tale proposito la piazza finanziaria andrebbe incontro a una graduale riconversione, parallela allo sviluppo della sinergia quadripolare, e ad essa strettamente intrecciata. Nell’ambito di questo processo, l’economia svizzera si renderebbe maggiormente indipendente rispetto alla piazza finanziaria, la quale agirebbe piuttosto in modo funzionale al sostegno di un processo di crescita programmata basata sullo sviluppo delle forze produttive e dell’economia reale. All’interno di questa configurazione la piazza finanziaria svizzera, e ticinese in particolar modo, sarebbe progressivamente spinta ad abbandonare le attuali attività di gestione patrimoniale e speculativa a favore invece di attività finanziare indirizzate alle PMI, ai lavoratori e ai poli di ricerca e formazione. Il sistema finanziario avrebbe come ruolo quello di offrire servizi finanziari capaci d’indirizzare lo sviluppo dei sistemi produttivi delle PMI verso una produzione ad alto valore aggiunto. Questi servizi dovranno principalmente avere l’obiettivo di convogliare
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«La sinergia quadripolare si basa sul legame tra: l’istituzione pubblica, che detta la linea strategica e pianifica la sua realizzazione impartendo i vincoli che le imprese devono rispettare per poter operare in un’ambiente altamente performante; una formazione sconnessa dagli interessi dei privati che favorisca lo spirito critico e innovativo dei lavoratori; un tessuto di micro, piccole e medie imprese, in quanto organizzazioni flessibili e facilmente controllabili; i lavoratori, portatori del valore aggiunto» (Alessandro Lucchini, La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile, #politicanuova, novembre 2014, p. 10
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In questo testo il termine PMI è utilizzato per identificare sia le piccole (meno di 50 lavoratori) e le medie imprese (meno di 250 lavoratori) sia le microimprese (meno di 10 lavoratori)
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La sinergia quadripolare favorirebbe l’instaurarsi di una società dei saperi, la quale assicurerebbe un flusso continuo d’innovazione utile a rendere la produzione delle PMI altamente competitiva sul mercato internazionale, e, attraverso il ruolo programmatore dello Stato, porterebbe a una diminuzione progressiva del plusvalore estorto al lavoratore
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Si pensi all’attuale sostituzione di lavoratori residenti con lavoratori frontalieri favorita dai padroni d’impresa allo scopo di aumentare il plusvalore estratto dal lavoro; ciò è fonte di una guerra tra poveri che arricchisce solo i proprietari
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5 Si pensi, per fare un esempio, alle potenziali forme di collaborazione e d’interscambio di know-how attraverso la formazione di joint venture tra PMI locali e aziende di stato o private dei paesi emergenti 6
Allo scopo di favorire un processo progressivo di maggiore controllo pubblico sulle PMI, la partecipazione diretta dello Stato nell’azienda dovrebbe essere, per le PMI, tendenzialmente più conveniente rispetto all’accaparramento del credito agevolato concesso dagli istituti finanziari privati
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Ci si riferisce a servizi bancari e finanziari di gestione forniti a clienti privati con elevate somme potenzialmente investibili
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Evitando così anche la conseguente cancellazione di migliaia di posti di lavoro
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La piazza finanziaria svizzera potrebbe autonomamente intraprendere un processo di scostamento dalle attività di “private banking” senza una direttiva esplicita da parte dell’istituzione pubblica proprio in virtù della maggiore redditività della nuova alternativa. Lo Stato, invece, influenzerebbe in modo indiretto questo processo quale programmatore del tessuto economico e sociale
10 Mattia Tagliaferri, Il ruolo della Svizzera nell’internazionalizzazione del renminbi, #politicanuova, febbraio 2014, pp. 18-21 11
La Banca Asiatica d’Investimento per le infrastrutture è stata fondata a Pechino nell’ottobre 2014. Essa è un’istituzione finanziaria internazionale voluta principalmente dalla Repubblica Popolare Cinese con lo scopo di fornire e sviluppare progetti infrastrutturali nella regione AsiaPacifico
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investimenti e capitali verso le PMI particolarmente meritevoli. Si pensi, in tal senso, alla possibilità per gli istituti finanziari di concedere del credito agevolato, di gestire la collaborazione finanziaria tra PMI locali e aziende di stato o private dei paesi emergenti coadiuvando gli investimenti diretti esteri e le forme di partecipazione aziendali5 da e per i paesi emergenti, e di creare un’apposita borsa valori che permetta unicamente a quelle PMI che garantiscono il rispetto degli standard ecologici e sociali, di disporre di un canale agevolato per finanziare le proprie attività. Non da ultimo si renderebbe necessario un sistema diretto e coordinato di partecipazione statale all’interno delle PMI. In questo modo l’istituzione pubblica avrebbe un controllo diretto sulle decisioni strategiche concernenti lo sviluppo delle stesse6. Le potenzialità del settore finanziario all’interno di questo scenario, inoltre, potrebbero rendere attrattivo l’inserimento in un tessuto economico elvetico altamente innovativo e performante di quelle aziende svizzere che oggigiorno operano in modo imperialista nei paesi sottosviluppati. In questo modo, perciò, si porrebbero le condizioni per un progressivo indebolimento del neo-colonialismo economico. L’attuale crisi dei servizi finanziari “private banking”7, e dunque anche della loro redditività, sta condannando la piazza finanziaria svizzera - e soprattutto ticinese - ad un ridimensionamento “naturale”. Una sua riconversione verso le attività sopra-elencate permetterebbe di ridare un ruolo, e dunque anche un futuro sostenibile8, alla piazza finanziaria. Nel corso del re-indirizzamento delle attività finanziarie verso la coordinazione dei finanziamenti alle PMI che si caratterizzano per una produzione ad alto valore aggiunto – aziende cioè potenzialmente molto redditizie se connesse adeguatamente alle economie emergenti tramite forme di cooperazione di tipo win-win – e nell’ambito di una loro riconversione in funzione del potenziale ruolo strategico di una Svizzera “testa di ponte” tra Occidente e Oriente – basata sull’indirizzamento paritario degli investimenti dei paesi emergenti alle PMI svizzere e viceversa -, la piazza finanziaria manterrebbe consistenti tassi di redditività, evitando il suo “naturale” ridimensionamento. E ciò riconvertendosi liberamente9 verso attività atte a favorire lo sviluppo dell’economia reale. Il fatto di disporre di una piazza finanziaria svizzera inserita in una strategia di apertura alle economie emergenti, oltre che di gestire una cooperazione finanziaria tra le PMI svizzere e quelle dei paesi emergenti, avrebbe conseguenze di peso. La piazza finanziaria elvetica potrebbe svolgere un ruolo concreto nell’internazionalizzazione del renminbi10, e potrebbe favorire un radicamento in Europa della Banca Asiatica degli Investimenti11 indebolendo così la supremazia imperialista del Fondo Monetario Internazionale.
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I comunisti svizzeri dunque, chiamati a chinarsi sul futuro del settore finanziario svizzero, non devono commettere l’errore di lanciare biecamente slogan contro lo stesso, bensì comprendere che la sua riconversione si muove parallelamente al prefigurarsi di un’auspicata economia basata sulla sinergia quadripolare: lo sviluppo di questo tipo di tessuto crea le condizioni per una riconversione “libera” della piazza finanziaria, mentre la riconversione del settore finanziario – e le nuove attività finanziarie ad esso collegate – permetterebbe il concreto sviluppo di una configurazione economica ad alto valore aggiunto.
Riconvertire la piazza finanziaria di Lugano, governare il cambiamento Edoardo Cappelletti La crisi finanziaria iniziata negli anni 2007-2008 e la pressione internazionale esercitata sulla Svizzera per una maggiore collaborazione in ambito fiscale12, sono fattori che stanno contribuendo in modo decisivo a minare uno dei pilastri del nostro Cantone: la piazza finanziaria. Nel 2004 il settore bancario contava 76 istituti, impiegava 7767 dipendenti ed emetteva un gettito di ben 84 milioni di franchi13 ; oltre a ciò va considerato il notevole indotto del parabancario, che occupava nel 2008 quasi 8000 unità a tempo pieno14. Quando si determina l’importanza del settore bancario, bisogna infatti tenere conto degli attori che svolgono un ruolo ad esso dipendente: al contributo diretto delle banche al PIL, per esempio, si stima ne vada sommato uno indiretto, corrispondente a circa il 40-50% del primo; Swissbanking invece, approssima che per 100 posti creati nelle banche se ne generino 115 in altri settori15. Per comprendere il tracollo della piazza finanziaria, e così le ragioni di una risposta politica conseguente, dobbiamo però gettare lo sguardo al presente. Rispetto al 2006, il gettito del puro bancario a Lugano è sceso nel 2013 da 55 a 15 milioni: se fino al 2006 il settore costituiva il 45-55% delle entrate delle persone giuridiche, nel 2012 non ne costituirà che il 20%16. A confronto dei dati iniziali, nel 2013 gli istituti sono inoltre diventati 54 mentre l’occupazione è scesa a 6465 unità17. Ha pertanto avuto luogo uno storico ridimensionamento della piazza finanziaria, che ha segnato una battuta d’arresto anche per il settore con il più elevato valore aggiunto in Ticino: quello terziario18. Il settore bancario potrà certo mantenere un suo ruolo di rilievo, eppure, ciò non potrà che avvenire di pari passo a una riconfigurazione dell’economia cantonale. Malgrado parte della clientela privata sia sparita, alla piazza finanziaria rimangono infatti competenze, condizioni quadro favorevoli e un tessuto imprenditoriale con grandi potenzialità. Tessuto che potrà creare una fonte di compensazione al
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settore bancario, così come nuove opportunità per lo stesso. Ciononostante, benché il terreno sia fertile, oggi non possiamo certo raccogliere molti frutti. Secondo l’IRE la produttività ticinese si colloca al di sotto del dato nazionale (6%), a causa di una crescita basata troppo sul terziario e sulla manodopera a basso costo, perlopiù impiegata in settori a basso valore aggiunto19. Una crescita insomma, ostacolata da uno scarso impulso all’innovazione e da un settore bancario poco portato a garantire un progresso economico durevole. Di conseguenza, ora più che mai s’impone un ripensamento del nostro modello di sviluppo: investendo su nuovi settori di crescita (quali l’innovazione, la ricerca e la formazione) nell’ottica di assicurare un’alternativa alla piazza finanziaria e un riorientamento della stessa, nonché valorizzando le risorse presenti sul territorio (tessuto di PMI, centri di ricerca e formazione, manodopera e settore bancario) attraverso un intervento pubblico strutturato. Uno dei comparti più promettenti del Ticino è il secondario, il quale registra un valore aggiunto in costante aumento e un progresso superiore alla media nazionale: non a caso, si ritiene che lo stesso possa «essere un’ottima alternativa al terziario e soprattutto alla crisi bancaria»20. Mentre il primo è alle prese con una lunga stagnazione, l’elettronica, la logistica e il chimico-farmaceutico presentano un’evoluzione favorevole, che lascia intravedere nuove prospettive di crescita21. All’origine di questo successo non vi è un semplice dato congiunturale, bensì la
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realizzazione di processi produttivi altamente avanzati: presupposto chiave per la creazione di beni e servizi concorrenziali sul mercato globale, e dunque meno esposti alla crisi. Una qualifica che si discosta da una produzione carente nel valore aggiunto e nell’innovazione che, speculando sulla forza lavoro, trova ancora largo spazio nella realtà cantonale. La riconversione della piazza finanziaria, specie se riferita a sfere di crescita alternative, richiede pertanto una trasformazione dei rami produttivi impreparati alle sfide del futuro: vale a dire l’incremento della produttività e del tasso d’innovazione22. Obiettivi che, in virtù di un tessuto imprenditoriale caratterizzato da piccole unità produttive, quindi più flessibili a cambiamenti di paradigma, si presentano senz’altro alla portata del Ticino. Per una riconfigurazione dell’apparato produttivo serve una politica economica con un chiaro orientamento strategico, che sappia individuare gli attori (anche internazionali) da coinvolgere e le adeguate misure da adottare23. Benché la politica abbia denotato una «mancanza di strategia e progettualità»24, ad oggi possiamo comunque ricavare iniziative di un certo interesse. La fondazione AGIRE, racchiudendo le principali entità economiche e di ricerca, è un’agenzia che incarna un esempio di collaborazione fra pubblico-privato e si prefigge di sostenere uno sviluppo economico ad alto valore aggiunto che, mettendo in rete le risorse presenti sul territorio, contribuisce al rafforzamento del tessuto industriale rivolto all’innovazione. L’agenzia funge da piattaforma per il trasferimento dei saperi fra industria e centri
12 Alberto M. Di Stefano, Questioni di piazza, considerazioni sul futuro del settore bancario e finanziario ticinese, novembre 2012 13
Centro di Studi Bancari Villa Negroni, La piazza finanziaria ticinese, ottobre 2013
14
Associazione Bancaria Ticinese, Il personale occupato nel settore bancario ticinese: un’indagine dell’ABT, dicembre 2008
15
Alberto M. Di Stefano, Questioni di piazza, considerazioni sul futuro del settore bancario e finanziario ticinese, novembre 2012
16
Messaggio Consuntivo della città di Lugano, anno 2014
17 Centro di Studi Bancari Villa Negroni, La piazza finanziaria ticinese, ottobre 2013 18 Istituto di Ricerche Economiche, Ticino Futuro, riflessioni per un itinerario economico ticinese, marzo 2015 19 Significativo a questo proposito il dato secondo cui «in Ticino la forza lavoro transfrontaliera rappresenta circa il 43% dell’occupazione totale ed è costituita principalmente da lavoratori che si trovano in settori caratterizzati da basso valore aggiunto, come ad esempio l’industria, le costruzioni e il commercio». (Ibidem) 20
Ibidem
21
Elaborazione IRE su dati BAK, 2014
22
Istituto BAK Basel, Analisi dei settori ticinesi: benchmarking internazionale e smart specialisation, dicembre 2014
23 Per un approfondimento sul tema, solo in parte toccato dal presente contributo, si veda: Alessandro Lucchini, La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile, #politicanuova, Novembre 2014, pp. 10-13
Foto: Ex-press
24 Istituto di Ricerche Economiche, Ticino Futuro, riflessioni per un itinerario economico ticinese, marzo 2015
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25 Comunicato stampa DFE, Strategia di sviluppo Tecnopolo Ticino: definite le tappe di realizzazione, giugno 2013 26 Gianluca Colombo – USI, Agire perché il Ticino diventi un ecosistema imprenditoriale, marzo 2015 27 Istituto di Ricerche Economiche, Ticino Futuro, riflessioni per un itinerario economico ticinese, marzo 2015 28
Andrea Graf Dipartimento Tecnologie Innovative, Lugano Città del Futuro: tavola rotonda sui poli innovativi, aprile 2013 29 Per un approfondimento si veda: Massimiliano Ay, La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto, #politicanuova, Novembre 2014, pp. 7-9. 30 Il problema sta nella mancanza di uno stock di capitale umano disponibile con competenze alte, specifiche e variegate, che permette di sfruttare le opportunità offerte da location e costi e soprattutto di trasformare tecnologie in innovazione (IRE, 2015). 31 Risposta del Municipio di Lugano all’interrogazione Un progetto pilota per i lavoratori della Piazza Finanziaria?, aprile 2014 32
La piazza allo specchio, analisi e raccomandazioni del ‘’Tavolo della crisi’’, aprile 2013
33
Modello analogo che sta raccogliendo risultati interessanti è la Lugano Commodity Trading Association (LCTA), che su spinta della Camera Cantonale di Commercio si prefigge, fra le altre cose, di rafforzare la formazione nel settore.
34
Istituto di Ricerche Economiche, Ticino Futuro, riflessioni per un itinerario economico ticinese, marzo 2015
35
Vedi campagna politica sulla piazza finanziaria lanciata nel 2013 dal Partito Comunista: http:// goo.gl/In3mzx
36 Le fideiussioni sono garanzie concesse dallo Stato alle aziende e start-up che intendono innovare e accedere a nuovi mercati, in modo da agevolare loro l’accesso al credito bancario (DFE)
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di ricerca, opera a sostegno di imprese innovative e mette a disposizione spazi per raggruppamenti di aziende (cluster). Questo intento si concretizza nel Tecnopolo Ticino, cioè nell’apertura di stabili che accolgono le aziende più meritevoli in un clima favorevole all’innovazione25 ; da sottolineare che la Fondazione AGIRE soggiace a un mandato di prestazione stipulato con il DFE, che la porta ad avere una preferenza per realtà innovative con salari adeguati. Nell’ottica di accompagnare una riforma economica, altrettanto fondamentale diventa la creazione di un «ecosistema dell’innovazione», ovvero un’insieme di condizioni e risorse che rendono fertile un territorio per l’innovazione26. Per questo motivo, verso intelligenze quali USI, SUPSI, IRB, IOSI e la ricerca in senso lato sarà necessario stanziare fondi in modo più consistente27. Una sinergia fra ricerca e industria, perseguita peraltro da AGIRE, garantisce infatti una continua innovazione del processo produttivo e nel contempo un sostegno qualificato allo stesso esercizio imprenditoriale (come dimostra il DTI della SUPSI, il quale presta puntuali collaborazioni a realtà tecnologicamente avanzate28). Premessa per un «ecosistema dell’innovazione» è inoltre la disponibilità di manodopera altamente qualificata, che consenta di seguire l’evoluzione del processo produttivo e migliorare la qualità del lavoro29, ma di cui accusiamo al momento la mancanza30. Nel contesto descritto deve perciò affermarsi la riqualifica professionale degli operatori bancari, i quali, disponendo di un rilevante know-how, hanno buone possibilità di portare indotto anche al di fuori del settore d’appartenenza31. Benché manchi la volontà di attuarli, gli strumenti per conseguire questo obiettivo ci sono: in primis la concessione di apposite borse di studio32 e l’avvio di un progetto pilota per i lavoratori della piazza finanziaria, ai sensi della legge sul rilancio dell’occupazione (L-rilocc). Una tale politica dovrebbe riuscire a ottimizzare la forza lavoro inattiva, indirizzandola dove sia garantita un’occupazione stabile e in modo particolare funzionale al progresso qualitativo della realtà produttiva. A questo scopo il consolidamento di un tavolo che coinvolga, nel quadro di un preciso indirizzo pubblico, le sfere economiche, di formazione, di ricerca e non da ultimo gli enti regionali di sviluppo (ERS), rappresenta una buona soluzione per trovare soluzioni efficaci33. A completamento di quanto esposto, una strategia basata sulla ricerca e l’innovazione non mira soltanto a restituire competitività al tessuto imprenditoriale, ma anche a costruire le premesse per sostenere una piazza finanziaria in crisi. All’affermarsi di una struttura economica di successo, costituita nella fattispecie da aziende ad alto valore aggiunto, «emerge sullo sfondo la necessità di modificare la vocazione del sistema bancario ticinese: dal private banking alla consulenza e ai servizi per le imprese, specializ-
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zandosi in quei settori che mostrano trend vincenti»34. Grazie a una solida configurazione economica, contraddistinta per un chiaro indirizzo pubblico, nonché per una proficua connessione fra centri di ricerca e imprenditoria, a un settore bancario barcollante si presentano infatti opportunità d’investimento alternative e convenienti. Una vocazione maggiormente rivolta all’economia reale corrisponde a sua volta alle esigenze delle PMI, le quali, per l’innovazione dei processi produttivi, devono ricorrere in larga misura al credito. Nel sistema creditizio odierno, ben lungi dall’essere regolato dall’interesse collettivo come auspicato dal Partito Comunista35, l’operato del settore bancario può essere influenzato dell’ente pubblico, che può appunto contribuire a rendere più o meno interessante un certo ramo produttivo; più direttamente, rimane però necessario attuare quelle misure che possono facilitare l’accesso al credito per le aziende meritevoli, come prestiti a tasso agevolato o fideiussioni36. In conclusione la riconversione della piazza finanziaria, della sua attività e dei suoi operatori, non può quindi prescindere da un’evoluzione qualitativa del presente apparato produttivo, in grado di assicurare una crescita economica sostenibile.
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La Svizzera nel cuore della sfida agro-alimentare Lea Ferrari, candidata al Consiglio Nazionale ●● Le due dimensioni inscindibili: globale e locale Da una parte grandi sfide dell’umanità: nutrire 9-10 miliardi di persone nel 2050 ed abbattere la fame che riguarda ad oggi 900 milioni di uomini, bambini e principalmente donne, che ne costituiscono il 60% originando «il più vizioso dei circoli: madri malnutrite che crescono figli sottosviluppati»1. A cui pare semplice rispondere con l’affermazione dello svizzero Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione, per cui «l’agricoltura mondiale potrebbe nutrire senza problemi 12 miliardi di esseri umani»2 e la fame è una questione politica non tecnica. Dall’altra l’apparente complessità dei sistemi di sovvenzioni pubbliche alla produzione agricola nei paesi occidentali, che nasconde giochi di potere tragicamente banali che questo articolo cerca di mettere in luce attraverso un’analisi degli attori, delle loro interazioni e delle reciproche influenze tra decisioni a livello locale e globale. ●● Politica agricola L’Unione Europea è stata fortemente plasmata dalla politica agricola comunitaria, per essa ha pure rischiato il collasso: negli anni ‘80 il 70% delle spese dell’UE-10 (35 milioni di euro) 3 era destinato ai sussidi della produzione agricola nella forma di sostegno dei prezzi. A seguito della sovrapproduzione, dell’eccessivo ed inquinante impiego di fertilizzanti i sussidi odierni sono stati diversamente strutturati: sia in Europa sia in Svizzera si compongono di un pagamento diretto all’agricoltore e di entrate complementari se si assolve a certe misure ecologiche, anche definite ‘inverdimento’ (greening). Il concetto centrale è la multifunzionalità che riconosce all’agricoltura oltre al ruolo produttivo altre prestazioni non di mercato (no-commodity outputs) di carattere ambientale e socio-economico; alcuni esempi sono l’insediamento decentralizzato sul territorio, la gestione del paesaggio rurale, la manutenzione dei corsi d’acqua, ed altre attività collaterali al lavoro di produzione agricola come esternalità positive. L’attuale programmazione della politica agricola svizzera è in vigore dal 2014 al 2017 per un costo complessivo di 14 miliardi, l’inverdimento e la multifunzionalità giustificano questa spesa che si rivolge direttamente solo a meno del 3% della popolazione (gli attivi nel settore agricolo). La diversificazione del ruolo dell’agricoltore ha creato malumore e sconcerto nei contadini che giustamente si riconoscono in quanto produttori e temono di dover diventare dei giardinieri del paesaggio rurale svizzero. In nessun
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modo all’agricoltore dovrà in futuro venir meno il mandato di produrre cibo, perderemmo con esso anche la nostra identità, se non sappiamo riprodurre il nostro sostentamento, se non sappiamo da dove viene e come viene prodotto il nostro cibo: «mangiare è un atto agricolo»4, quindi non dovremmo mai scordare l’origine dei nostri alimenti. ●● Sovranità alimentare Un’elaborazione di Paul McMahon dei dati FAO sulla produzione ed il consumo di calorie in 170 paesi5 situa la Svizzera nella categoria dei paesi ricchi importatori di cibo poiché essa produce una proporzione molto bassa del proprio fabbisogno ma ha molto denaro per importare le necessarie derrate alimentari, per altro è molto vulnerabile alle oscillazioni del mercato e alla geopolitica mondiale. La parola sicurezza ha acquisito molta risonanza in un clima di crescente instabilità internazionale sempre più palpabile anche nella nostra nazione a causa dei cambiamenti climatici, della crisi finanziaria del 2008 e nello stesso anno dell’ascesa vertiginosa dei prezzi delle derrate alimentari che hanno contribuito ad affamare popolazioni già vessate, poi ribellatesi nelle Primavere arabe e ora alla deriva sulle principali rotte migratorie. L’iniziativa popolare “Per la sicurezza alimentare”, depositata l’8 luglio 2014 dall’USC chiede di rafforzare l’approvvigionamento della popolazione con derrate alimentari di produzione indigena variata e sostenibile; adottando misure efficaci contro la perdita di terre coltive e volte ad attuare una strategia in materia di qualità. La Confederazione dovrà pure provvedere affinché l’onere amministrativo nell’agricoltura sia contenuto e affinché siano garantite la certezza del diritto e un’adeguata sicurezza degli investimenti 6. I temi sono quelli del grado di autoapprovvigionamento, in Svizzera del 55% nel 2012 7, della cementificazione del territorio svizzero che erode 11000 ettari al giorno8 di terre agevolmente coltivabili mentre altre terre meno comode da lavorare vengono abbandonate al rimboschimento e del costo amministrativo dell’attuazione della politica agricola. Di questo tenore vi sono altre due iniziative popolari in corso di raccolta firme: i Verdi promuovono l’iniziativa per alimenti equi che ha il pregio di sottolineare oltre alla qualità degli alimenti anche la loro produzione in condizioni di lavoro eque, sistematicamente non rispettate all’estero durante i picchi lavorativi della raccolta della frutta e dei pomodori per cui si impiega manodopera sfruttata, sottopagata e al nero, e su cui è bene vigilare anche in Svizzera. Questa iniziativa si premura anche di esigere che le derrate alimentari e gli alimenti per animali importati soddisfino gli stessi requisiti9 della produzione indigena. Il sindacato Uniterre ha lanciato il settembre scorso l’iniziativa ”Per la sovranità alimentare. L’agricoltura riguarda noi tutti”, simile in certi contenuti alle inziative dell’USC e dei Verdi, ma più articolata e puntuale nel promuovere l’occupazione nell’agricol-
1
Martin Caparros, La fame, Einaudi, Torino, 2015, p. 30
2
Jean Ziegler, Destruction massive. Géopolitique de la faim, Seuil, Paris 2011
3
DG Agriculture and Rural Development, CAP expenditure in the total EU expenditure, European Union, 2015, URL: www.europa.eu, visitato il 25.08.2015
4
Warren Barry, Mangiare è un atto agricolo, Lindau, Torino, 2015
5
Paul McMahon, Feeding Frenzy. The New Politics of Food, Profile, London 2013 6 Assemblea federale svizzera, Decreto federale concernente l’iniziativa popolare «Per la sicurezza alimentare», Berna 2015 7 Maria Bystricky, Martina Alig, Thomas Nemecek, Gérard Gaillard, Ökobilanz von Schweizer Landwirtschafts produkten im Vergleich zum Import, Agrarforschung Schweiz 6 (6): 264-269, 2015. 8
Angelus Eisinger und Michel Schneider, Stadtland Schweiz. Untersuchungen und Fallstudien zur räumlichen Struktur und Entwicklung in der Schweiz, Brikhäuser Verlag für Archtektur, Basel 2003
9
Consiglio federale svizzero, Messaggio concernente l’iniziativa popolare «per la sicurezza alimentare», Berna, 24 giugno 2015, p. 4754
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10 Martin Caparros, La fame, Einaudi, Torino, 2015, p. 390 11 Matteo Bernardelli, Prezzi del latte, cosa succede nel mondo, 27 luglio 2015, URL: www. agronotizie.it, visitato il 25 agosto 2015 12 SBV, Produzentenpreise: Preiserhöhungen notwendig!, URL: www.sbv-usp.ch, visitato il 23.08.2015 13
Martin Caparros, La fame, Einaudi, Torino, 2015, pp. 330-340 14 Frederick Kaufman, Bet the farm. How food stopped being food, Wiley, Hoboken, 2012 15 Motto dell’associazione Slow Food
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tura, nel vietare l’impiego degli OGM, nel garantire una trasparente ed equa formazione del prezzo nelle filiere agro-alimentari, nel favorire forme di organizzazione tra contadini per conciliare l’offerta di prodotti agricoli con la domanda dei consumatori e sostenere la vendita diretta, la diversificazione e la trasformazione della produzione. Tutte e tre le iniziative sono da accogliere positivamente, sebbene quella di Uniterre sia più esaustiva e completa e comprenda le prime due. La sovranità alimentare è un concetto vasto e facilmente declinabile a piacimento, frutto della disparità nella distribuzione della ricchezza e del cibo a livello globale, ribadisce il diritto di ogni nazione ad usufruire delle proprie terre per soddisfare prima di tutto i bisogni della propria popolazione. Dai paesi depauperati dal neocolonialismo all’Occidente opulento in cui la sovranità alimentare deve significare consapevolezza di quel che si mangia, di come e da chi viene prodotto, contro un’alimentazione per ricchi a base di frutta e verdura e un’alimentazione per poveri satura di zuccheri, grassi e sale, perché «l’obesità è la fame dei paesi ricchi». La sovranità alimentare deve contrastare «la malnutrizione dei poveri dei paesi poveri che consiste nel mangiare poco e non sviluppare i loro corpi e le loro menti; e quella dei poveri dei paesi ricchi che consiste nel mangiare moltissimo cibo spazzatura economico e sviluppare corpi smisurati»10. ●● Prezzi giusti Bernard Lehmann, già professore ordinario di economia agraria presso il Politecnico federale di Zurigo e attuale direttore dell’Ufficio federale dell’agricoltura (UFAG), ‘l’uomo forte’ della politica agricola svizzera, segue principi strettamente liberisti credendo visceralmente in un possibile avvicinamento del prezzo del latte svizzero a quello europeo di 27 euro per 100 kg di latte 11 e smentendo con altrettanto vigore qualsiasi influenza della speculazione sui prezzi delle derrate alimentari. Questa è la posizione teorica degli esperti che muovono i fili della politica agricola fermandosi raramente a consultare chi lavora sul campo e deve convivere con le scelte calate dall’alto. Dalla parte dei contadini vi sono invece a livello svizzero l’Unione Svizzera dei Contadini (USC/SBV/USP) e il sindacato Uniterre. Dell’USC è il comunicato stampa del 21 agosto che chiede un’azione concreta al rialzo dei prezzi dei produttori12. Da diversi anni invece Uniterre conduce la battaglia del litro di latte a 1 Fr, con uno slancio più combattivo e una visione di cooperazione planetaria in quanto membro della Via Campesina. La base rurale non si è per niente arresa all’idea di un’agricoltura per definizione deficitaria e sussidiata, come invece fanno le politiche e i teorici agricoli, remissivi agli interessi dei grossi gruppi agro-alimentari (Emmi, Nestlé, etc.) e della grande distribuzione (Coop e Migros) che hanno i margini maggiori di profitto grazie ai rapporti di forza sul mercato nella formazione dei prezzi.
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Speculazione alimentare
Forse è solo una coincidenza: «nel 2003 gli investimenti in commodities alimentari valevano circa 13 miliardi di dollari; nel 2008 arrivarono a 317 miliardi» proprio quando i prezzi degli alimenti esplosero, «il 6 aprile del 2008 una tonnellata di grano era arrivata a costare 440 dollari. Solo cinque anni prima costava tre volte di meno: circa 125», gettando nella fame più nera i numerosi poveri del mondo. Nel settore si elencano altre cause: l’aumento dei consumi delle economie emergenti e il cambiamento climatico che ha provocato forte siccità, ma «un rapporto della stessa Goldman Sachs - che inventò il primo fondo d’investimento in alimenti - afferma che senza dubbio, l’aumento dei prezzi è stato dovuto all’aumento dei fondi investiti nelle commodities alimentari». Come si può ancora dubitarne quando si sa che «la speculazione sul grano muove cinquanta volte più denaro che la produzione di grano»13 e che «gli speculatori - tradizionalmente un quinto del mercato - ora sono quattro volte più dei compratori e dei venditori reali»14. Ce lo dicono fin da bambini: “non si gioca con il cibo” ma alla borsa di Chicago non hanno ancora imparato, per questo servono leggi e interventi per impedire che con i soldi dei cittadini occidentali, delle loro pensioni, dei loro risparmi, si possano condannare alla fame donne, bambini, uomini. A questo scopo l’inizitiava popolare “Contro la speculazione sulle derrate alimentari” promossa dalla GISO Svizzera può lanciare un forte segnale globale. Conclusione Le strategie della sopravvivenza e della prosperità dell’agricoltura in Svizzera dovranno ambire ad una produzione sana e di qualità, che con una buona comunicazione gioverebbe all’intera immagine della Svizzera quale cuore verde d’Europa, dove si produce, si mangia, ci si muove in sintonia con la natura. Da valorizzare sono la prossimità, il biologico, le filiere corte, le attività agrituristiche e didattiche, la vendita diretta e la trasformazione di prodotti destandardizzati in forme cooperative che possono garantire un reddito maggiore, diminuendo pure l’impatto ambientale. Le istituzioni pubbliche per prime dovrebbero favorire l’approvvigionamento di mense ed ospedali principalmente con prodotti regionali, educando ai valori di un «cibo buono, pulito e giusto»15. Le zone agricole devono essere difese con una mirata pianificazione territoriale che disincentivi scelte d’insediamento poco oculate. Si deve favorire il ricambio generazionale e l’attrattività della professione. Da queste condizioni quadro l’agricoltore potrà riacquistare la propria dignità in quanto attore essenziale di ogni economia, al pari del trasformatore e del distributore. ●●
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Analisi e prospettive per una svolta nella politica energetica Francesco Vitali, candidato al Consiglio Nazionale ●● Premessa Il periodo odierno vede i popoli e le nazioni del mondo trovarsi in un importante crocevia del proprio futuro. Tra i nodi centrali della vicenda va annoverata senza ombra di dubbio la questione ambientale. Questo perché i cambiamenti climatici e la scarsità delle risorse diverranno di anno in anno un problema sempre più pressante. Nella fattispecie, la sfida principale consisterà nel limitare l’effetto serra e contenere i danni che ne derivano, tra i quali, per esempio, eventi climatici estremi come alluvioni e uragani, perdita di terreni coltivabili e acqua potabile, innalzamento del livello del mare, distruzione degli ecosistemi, etc. In rapporto alle prospettive che si correlano a tali constatazioni, le scelte che si compiranno nel campo della politica energetica giocheranno un ruolo cruciale, in quanto l’80% delle emissioni di gas a effetto serra proviene dal settore energetico. Questo dato di fatto, sommato ad altre circostanze negative proprie delle attuali fonti energetiche, stanno imprimendo un’effettiva svolta nelle politiche energetiche, soprattutto (ma non solo) nei paesi avanzati. ●● La politica dei trasporti e il petrolio: una panoramica Un’importante svolta in ambito energetico consisterà nel progressivo abbandono dell’utilizzo del petrolio. Questo avverrà sì a causa del suo forte potere inquinante, ma anche e soprattutto perché le riserve petrolifere sono in fase di esaurimento: già oggi i costi di estrazione si trovano in una fase ascendente. A tal proposito è significativo il fatto che sempre più petrolio venga estratto da giacimenti sottomarini o dalle scisti bituminose: si tratta di un chiaro segnale del fatto che si sta raschiando il fondo del barile. E a ciò va aggiunta una constatazione di carattere geopolitico: nel Medio Oriente e nel Nord-Africa, le zone di maggiore approvvigionamento di petrolio a livello mondiale, vige una situazione di forte instabilità. Il petrolio dovrà quindi essere sostituito. Questo però non avverrà nell’immediato futuro, poiché attualmente è nel settore dei trasporti che si ha il maggiore impiego di petrolio: e in tale settore vengono utilizzati quasi esclusivamente motori funzionanti a benzina, se escludiamo quelli alimentati dall’elettricità (i quali, ora come ora, per le autovetture non sono particolarmente performanti mentre per gli aeroplani non risultano essere adeguati). Probabilmente, a sostituire in maniera importante i motori a benzina, ci penserà il motore ad idrogeno, la cui tec-
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nologia, per esempio, è fortemente ricercata in Unione Europea, dove si prevede di cominciarne l’utilizzo per il 2030. In alcuni paesi emergenti, invece, potrebbe già giocare un ruolo di primo piano la benzina prodotta a partire dalla biomassa; per quanto riguarda i paesi occidentali, l’utilizzo di biocarburanti è in fase di valutazione. In Svizzera la questione petrolio tocca quasi solamente il settore dei trasporti, perché per quanto concerne la produzione elettrica a livello macro non viene utilizzato petrolio (va detto però che la scarsità di petrolio graverà anche sull’evoluzione del settore agricolo, dato che tutta la chimica di fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi si basa sul petrolio). A tal proposito la Confederazione sta puntando sull’ampliamento dell’infrastruttura ferroviaria, andando a penalizzare il trasporto su strada tramite l’istituzione di nuove tasse sulla circolazione ed il traffico pesante.1 La situazione della produzione elettrica A livello mondiale il fabbisogno di energia elettrica è destinato ad aumentare. Questo fatto, unitamente ad altri elementi che penalizzano le attuali fonti di produzione elettrica, richiamano fin d’ora la necessità della messa in campo di una valida strategia in ambito energetico. A livello svizzero poco meno del 60% dell’elettricità prodotta proviene dall’idroelettrico, circa il 40% dall’energia nucleare e il restante, in percentuali molto basse, dalle energie rinnovabili o dagli inceneritori di rifiuti. L’energia idroelettrica è già di fatto sfruttata al massimo per quanto concerne i bacini idrici. Nel contempo, i cambiamenti climatici che erodono le riserve d’acqua nei ghiacciai e determinano maggiori periodi di siccità, riducono la capacità di fornitura di elettricità da parte degli impianti idroelettrici. Per quanto riguarda il nucleare, la Confederazione ha decretato nel 2011 l’uscita del nostro Paese dall’energia atomica. Il motivo di questa decisione va ricercato nell’immagine negativa che l’opinione pubblica si è fatta a proposito dell’energia nucleare, in conseguenza del grave incidente avvenuto nel 2011 a Fukushima (Giappone); a ciò occorre aggiungere che i costi di sicurezza delle centrali a fissione sono aumentati e, ancora, che le stesse non dispongono di copertura assicurativa, cosa che le penalizza sempre più a livello finanziario. Di fronte a quanto sopra esposto appare quindi chiaro il bisogno di trovare ed investire in ‘’nuove” fonti energetiche. Ma quali? In molti potrebbero pensare che non esiste altra via se non quella che s’indirizza verso l’energia rinnovabile, solare o eolica, per esempio; tuttavia appare maggiormente probabile l’utilizzo, in primis, di idrocarburi quali gas metano e carbone. In regime capitalistico, infatti, la questione relativa all’abbattimento dei prezzi finalizzato alla massimizzazione dei profitti resta ovviamente prioritaria; e in tal senso gas e carbone rappresentano le fonti energetiche più economiche e i loro giacimenti ●●
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Le tasse sul traffico pensante TTCPC e TFTP sono state introdotte nel 2001. Si veda: http:// www.ezv.admin.ch/ zollinfo_
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“Turkish Stream” sarà una pipeline che passerà dal Mar Nero per approdare in Turchia, da lì proseguirà per la Grecia. Questo progetto è l’evoluzione di “South Stream”, che doveva invece passare dalla Bulgaria per poi attraversare l’Ungheria. Quest’ultimo progetto è stato abolito poiché dietro pressioni statunitensi il governo bulgaro ha rinunciato all’accordo.
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Per un quadro approfondito circa la questione della produzione ad alto valore aggiunto si vedano i due contributi interni al dossier che #politicanuova ha dedicato a questo tema: Massimiliano Ay, La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto, #politicanuova, Novembre 2014, pp. 7-9; Alessandro Lucchini, La sinergia quadripolare dell’economia ad alto valore aggiunto: alla ricerca di un futuro sostenibile, #politicanuova, Novembre 2014, pp. 10-13
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Fonte: http://www. parlament.ch/i/suche/ pagine/geschaefte. aspx?gesch_id=20103085
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Questo investimento è molto ingente poiché a livello mondiale si sta cercando di creare la tecnologia per controllare la fusione nucleare (differente dalla fissione nucleare attualmente in uso nelle nostre centrali). L’energia prodotta tramite fusione rilascia poche scorie radioattive e utilizzerebbe idrogeno (o i suoi isotopi) anziché uranio.
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Peraltro già il Consiglio Federale consiglia di incentivare la ricerca in ambito energetico. Vedasi documento Strategia energetica per il 2050. Si veda: http://goo.gl/ d1sZyO
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risultano essere ancora abbondanti sulla Terra. Nella fattispecie sul continente europeo ci si sta adoperando al fine di incrementare la produzione elettrica derivante dal gas metano, e proprio in quest’ottica va letta l’attuale “guerra” del gas tra Russia e Stati Uniti. La posta in gioco di questo peculiare conflitto è di carattere sostanzialmente geopolitico: si tratta, per i due sfidanti, di assicurarsi l’’Europa quale area di sbocco per la propria produzione di gas. La Russia, concretamente, si sta adoperando per costruire una nuova pipeline, denominata “Turkish Stream” 2, destinata a fornire ulteriori quote di gas all’Europa, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, stanno cercando a tutti i costi di sabotare questo strategico progetto. Eolico e solare, invece, sono ancora considerati troppo costosi rispetto alle fonti energetiche sopracitate. Occorre però tener conto del fatto che la continua innovazione tecnologica, sul lungo periodo, farà in modo di rendere le energie rinnovabili redditizie. ●● Che fare come sinistra progressista ed ecologista? Sulla scia delle considerazioni sopra realizzate appare chiaro come, ora come ora, il nostro Paese - assieme a molti altri - si trovi confrontato con una fase nella quale è prioritario condurre una svolta energetica saggia e sostenibile. Il momento è perciò propizio per cercare di indirizzare la politica energetica in senso progressista, favorendo così, sul lungo periodo, sia l’ambiente, sia la salute e il benessere della popolazione. In questo senso occorre agire principalmente attraverso due modalità. In primis va combattuto l’uso – come fonte energetica - del carbone e, in parte, quello della biomassa e del gas. Opporsi al carbone si rende necessario: esso è di gran lunga il materiale combustibile più inquinante in termini di emissioni di CO2 e, inoltre, a côté produce una gran numero di sostanze tossiche per l’organismo umano che si diffondono nell’atmosfera. Il gas è invece molto meno inquinante rispetto a carbone e petrolio, tuttavia esso resta una fonte di emissioni di anidride carbonica: troppe centrali a gas contribuirebbero quindi in maniera importante al surriscaldamento climatico. Il biocarburante sarebbe invece problematico qualora lo si impiegasse in maniera massiccia, andando così ad utilizzare, per la sua produzione, terreni altrimenti potenzialmente coltivabili: di fronte alla futura scarsità di alimenti data dallo sviluppo dei consumi nei paesi emergenti e dai cambiamenti climatici, l’impiego di questo tipo di biocarburanti diverrebbe un’attività irresponsabile. Al contrario, va sostenuto il biocarburante prodotto dagli scarti della produzione alimentare che non compromette direttamente la produzione alimentare. Parallelamente a questi momenti di “opposizione”, occorre che fin da subito sia promossa la ricerca e l’implementazione delle tecnologie rinnovabili e dei sistemi ad esse associate (per esempio i sistemi grazie ai quali è possibile immagazzinare l’energia,
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atti a risolvere la problematica dei picchi della produzione). Va prima di tutto sottolineato che attualmente la Svizzera produce una parte molto piccola della sua energia a partire da fonti rinnovabili, e vi è perciò un ampio margine di miglioramento in tal senso. E, del resto, se potenze economiche come Germania e Cina stanno puntando in modo molto importante sullo sviluppo e sull’implementazione di impianti eolici e fotovoltaici, ciò rappresenta un chiaro segnale circa il potenziale economico piuttosto rilevante che queste tecnologie portano con sé. Le forze progressiste sono chiamate a impegnarsi sin d’ora affinché vengano messe in atto politiche funzionali all’incentivazione dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, e ciò deve avvenire sia nell’economia pubblica, sia in quella privata. Esse, inoltre, devono fare in modo che la ricerca nell’ambito delle tecnologie energetiche sia potenziata in modo importante attraverso l’aumento dei fondi statali destinati a questi settori. Una tale prospettiva, peraltro, potrebbe costituire uno dei binari sui quali sviluppare concretamente l’indirizzo strategico che richiama la necessità della strutturazione del tessuto economico elvetico attorno ai canoni di una produzione ad alto valore aggiunto3. La Confederazione attualmente spende all’incirca 100 milioni di franchi annui per la ricerca in campo energetico4 ; di questi la metà confluisce nella ricerca per l’energia nucleare5, e di conseguenza sono relativamente minimi gli investimenti per l’energia eolica e per quella solare. Infine, non va dimenticato il fatto che occorre sviluppare tutta una serie di elementi e sistemi funzionali a favorire la transizione verso un’altra configurazione della dimensione energetica nel suo complesso: si pensi allo sviluppo di sistemi per lo stoccaggio di energia, al ruolo di motori alternativi come quello all’idrogeno, al miglioramento dell’efficienza energetica, etc. Insomma, l’assenza di forti investimenti per l’innovazione in questo ambito è sicuramente un grave errore strategico6.
Qualità svizzera significa... ...costruire un ponte coi BRICS
La Svizzera non deve aderire all’Unione Europea (UE) delle banche, delle misure di austerità (vedi Grecia), delle ingerenze guerrafondaie (vedi Ucraina). Consideriamo che ogni relazione fra la Svizzera e l’UE debba quindi basarsi sulla tutela dei salariati e garantire la nostra indipendenza. Il nostro Paese non deve dipendere da un solo partner commerciale, al contrario bisogna favorire una diversificazione economica: auspichiamo quindi l’intensificazione della cooperazione con i paesi emergenti, in modo particolare i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Per permettere ciò bisogna investire nella ricerca, nell’innovazione economica (puntando sui settori ad alto valore aggiunto, sulle eccellenze tecnologiche e sulla preparazione culturale), rendendo così la Svizzera una testa di ponte fra l’Occidente in crisi e l’Oriente in ascesa.
...pianificare un’economia sostenibile al servizio dei cittadini
La Svizzera disponeva di un invidiabile servizio pubblico, ma le politiche neo-liberiste degli ultimi decenni hanno indebolito la nostra economia. Occorre evitare quindi ulteriori privatizzazioni, favorendo bensì una pianificazione pubblica dello sviluppo economico nazionale in base ai bisogni della collettività e una (ri-)nazionalizzazione dei settori strategici (energia, comunicazioni, trasporti). Ci opponiamo per questo all’adesione della Svizzera agli accordi commerciali TTIP e TISA che mirano non solo a una liberalizzazione economica incontrollata, ma che renderebbero il nostro Paese vincolato al solo mercato atlantico a scapito dei diritti sociali e dell’ecologia. Pensare però alla massimizzazione dei profitti senza badare a chi produce e all’ambiente, sarebbe una scelta poco lungimirante che porterebbe squilibri sociali ed ecologici. Sollecitiamo quindi maggiori diritti per i lavoratori a partire dalla protezione dai licenziamenti e dei contratti collettivi per ogni settore e una sostenibilità ambientale rafforzata, a partire dall’uso parsimonioso di territorio e risorse, dalla tutela della biodiversità e del commercio a chilometro zero.
...costruire una società solidale
La Svizzera, applicando la “Tassa dei milionari”, ossia una legge patrimoniale che colpisca in maniera progressiva il 2% della popolazione con un patrimonio superiore al milione di franchi (esentata la prima casa) raggiungerebbe non solo maggiore equità fiscale, ma anche una società solidale. La “Tassa dei milionari” porterebbe nelle casse della Confederazione ben 12 miliardi di franchi, utili non solo alle assicurazioni sociali, ma anche ad investimenti produttivi. I milionari che hanno speculato in borsa e goduto di ingenti sgravi fiscali in passato, potrebbero finalmente avere la possibilità di essere solidali con la collettività colpita dalla crisi e sostenere concretamente il Paese nel suo rilancio economico.
...valorizzare la neutralità e la pace
La Svizzera deve restare un paese neutrale e deve pertanto abbandonare ogni collaborazione militare con la NATO e l’esercito di Israele. L’offensiva guerrafondaia ed espansionista degli USA e dell’UE sta rendendo il mondo più insicuro: hanno distrutto la Libia e ora si lamentano dei flussi migratori; hanno distrutto la Siria e ora si lamentano del terrorismo religioso; ecc. Noi non dobbiamo renderci complici di questa scellerata politica bellicista delle potenze imperialiste: chiediamo pertanto il rientro immediato dei soldati svizzeri all’estero. L’aiuto umanitario è necessario per permettere alle popolazioni in difficoltà di far fronte alle proprie esigenze primarie, va però anche favorita la cooperazione in loco per stabilire le condizioni necessarie alla ricostruzione o allo sviluppo, garantendo così il diritto al rimpatrio dei profughi.
...puntare sui giovani
L’unica materia prima di cui disponiamo sono i nostri cervelli: la Svizzera deve investire nettamente nella formazione. Le scuole devono essere accessibili gratuitamente ad ogni grado, indipendenti dalle multinazionali per garantire libertà didattica e di ricerca, nonché funzionare tramite la cogestione fra insegnanti e studenti. Ma la democrazia deve arrivare ovunque, per questo bisogna liberare risorse umane ed economiche anche in un ambito che oggi frena i progetti dei giovani, cioè l’esercito: nell’attesa di abolire l’obbligo di leva, rivendichiamo la parificazione fra servizio militare e servizio civile a livello di accesso, durata, retribuzione e diritti.
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