#politicanuova - 09

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quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

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maggio 2016


Impressum

#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 9 maggio 2016 anno IV

Redazione: Aris Della Fontana (Direttore), Tobia Bernardi, Mattia Tagliaferri, Luca Robertini, Damiano Bardelli

Editore Partito Comunista

ISSN 2297-0657

Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio

Email aris.dellafontana@politicanuova.ch

Stampa Tipografia Cavalli

CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona

Abbonamenti 25.- Normale 50.- Sostenitori 30€ Esteri

3 Dentro la realtà, ma profondamente 5 Michel Collon: “il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione” 10 Il ruolo di stabilizzatore mondiale cinese passa dall’internazionalizzazione del renminbi; la “schizofrenica” Svizzera ha perso il treno 12 Un Parco in Ticino: non museo a cielo aperto, ma opportunità per il rilancio dell’economia 14 Werner Carobbio: “la sinistra deve continuare a battersi affinché sia tutelata in modo integrale la privacy dei cittadini” 16 Sicurezza, ma a quale prezzo? 18 Le politiche fiscali: vessatrici imperterrite della protezione sociale? 20 I partiti della sinistra alternativa in Svizzera 22 Lugano e il pericolo di esternalizzare la socialità comunale

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Dentro la realtà, ma profondamente Da troppi anni a questa parte si è imposta con gran forza la convinzione che il capitalismo rappresenti un punto d’approdo definitivo. La constatazione di una «fine della storia»1 ha generato nientemeno che una «perdita di futuro»2, nell’ambito della quale ci si accontenta dei piccoli passi di un pragmatismo che, nella sua superficialità, rigetta sia larghe vedute conoscitive sia le correlate prospettive strategiche. Il presente, non essendo più uno spazio in cui attuare una prassi consapevole ed energica, inghiotte i soggetti3. In sintonia con tutto ciò, chi opta per il riformismo si pone in un’ottica di compatibilità sistemica, operando così una «critica immanente (interna) del capitalismo»4, che non ha altro scopo se non un suo mero miglioramento. L’alternativa sostanziale è dunque persa di vista. In questa manovra gioca un ruolo centrale il fatto di rilevare nella fase attuale una radicale diversità rispetto al passato, anche e soprattutto data dalla presunta scomparsa delle classi sociali e con esse del loro conflitto. La logica, in tal senso, imporrebbe di concludere che, laddove fosse mutato qualitativamente l’oggetto a suo tempo criticato da Marx, allora pure l’ipotesi della società nuova da egli messa in campo andrebbe accantonata. Ma il punto è che le tesi relative ad una sostanziale novità dell’oggi sono infondate. Il processo di produzione è sì mutato fenomenicamente, e certo in gran misura, non però nella sua struttura. Struttura che «ruota ancora intorno alla valorizzazione del capitale via estrazione di plusvalore dal lavoro vivo» e che porta con sé, inevitabilmente, la centralità del con-

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flitto di classe tra capitale e lavoro5. Ineludibili, sempre in tal ottica, rimangono la «modalità privata di appropriazione della ricchezza sociale» e l’«anarchia della produzione»6, fattori che contraddistinguono il sistema capitalistico. Siamo cioè ancora immersi in quel «gigantesco processo di riproduzione sociale delle esistenze» che in ambito capitalistico è in ultima istanza governato dal «permanente imperativo di generare e rigenerare un profitto»7. Ed è proprio a partire dall’osservazione dei tratti caratterizzanti il capitalismo che risulta legittimo pensarne il superamento: la condizione della sua finitudine, del suo essere storicamente determinato, gli è infatti insita. Ciò per il semplice motivo che questi tratti sono, al tempo stesso, contraddizioni di valenza sistemica, e inoltre, più concretamente, l’«origine principale degli attuali problemi del mondo». Alla «diagnosi dei problemi» non può che seguire l’«avvertita necessità di un cambiamento». Necessità – e possibilità (logica) - d’una società “nuova”, d’un «futuro diverso», dunque, non calata in modo libresco dall’alto, non fantasticata utopisticamente, ma ricavata con l’esperienza e lo studio dell’esperienza: non c’è alcuna messianica missione da compiere8 né alcun ineluttabile destino da divinare. Non dobbiamo ingiungere aprioristicamente alla realtà il suo “dover essere”, bensì «legger[n]e operosamente» i processi, saperne ascoltare le pulsazioni e con ciò intravederne le tendenze: è infatti solo e soltanto il presente ad avere i «germi del futuro» nel proprio grembo9. Far fiorire il nuovo dal vecchio, come in un «processo di storia naturale»10 - questo il compito, espressione di libertà e di coscienza, e in nessun modo garantito nel suo successo. Così facendo, del resto, sarà possibile evitare che il nostro fare politico

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1

Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003

2

Fredric Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 10

3

Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, pp. 42-43

4

«La nozione di «classe» rinviando precisamente alla divisione sociale e internazionale del lavoro». Alberto Burgio, Perché non possiamo non dirci comunisti, Essere Comunisti, n° 7, maggio-giugno 2008

5

Ibidem

6

Vladimiro Giacchè, “Comunisti”, premesse per una definizione, Essere Comunisti, n° 6, marzoaprile 2008

7

Emiliano Brancaccio (intervista a), Perché essere comunisti oggi?, Essere Comunisti, n° 8, luglio-agosto 2008

8

Vladimiro Giacchè, “Comunisti”, premesse per una definizione, cit.

9

Alberto Burgio, Perché non possiamo non dirci comunisti, cit.

10

V. I. Lenin, Opere scelte, Roma, 1965, p. 887


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Vladimiro Giacchè, “Comunisti”, premesse per una definizione, Essere Comunisti, cit.

12 Michele Ciliberto, Giuseppe Vacca (a c. di), Palmiro Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, Bompiani, Milano 2014, p. 1012 13

Emiliano Brancaccio (intervista a), Perché essere comunisti oggi?, Essere Comunisti, cit.

14

Oliviero Diliberto, Vladimiro Giacché, Fausto Sorini, Ricostruire il partito comunista (appunti per una discussione), Simple, Macerata 2011, p. 288

15 Emiliano Brancaccio (intervista a), Perché essere comunisti oggi?, Essere Comunisti, cit. 16

“L’organizzazione economica e il socialismo”, in Il grido del popolo, a. XXVI, n. 707, 9 febbraio 1918

17 Umberto Cerroni, Crisi ideale e transizione al socialismo, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 85 18 Sergio Cararo, C’è spazio per un’opzione comunista nel XXI secolo?, Essere Comunisti, n° 5, maggio 2008 19 Michele Ciliberto, Giuseppe Vacca (a c. di), Palmiro Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, cit., p. 1133 20 Alberto Burgio, Perché non possiamo non dirci comunisti, Essere Comunisti, cit.

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appaia come un «culto della memoria sterile» e «di un passato morto e sepolto», e anche come un «millenarismo senza oggetto, [...] nebuloso»11. È dunque indispensabile collocarsi in un contesto geografico storicamente determinato, avente cioè lineamenti specifici. Palmiro Togliatti, nel ricordare il giovane Gramsci, incontrato alle soglie dell’Università di Torino, ne sottolineava proprio la capacità di configurare pensiero e azione al caso concreto italiano, discostandosi da qualsivoglia massimalismo poltrone: «già allora, in quelle prime conversazioni, il suo pensiero di socialista era un pensiero storicamente concreto, adeguato pienamente alla realtà, ed adeguato, prima di tutto, alla realtà economica, politica e sociale del nostro paese»12. La credibilità politica dei comunisti va quindi riguadagnata attraverso un prioritario lavoro attorno a questioni di interesse nazionale: sarà il fatto stesso di trattare tali problematiche, concrete quanto fondamentali, che potrà meglio illuminare il senso e la necessità della trasformazione sociale. Ed è alla luce di ciò che, pur perseguendo «soluzioni forti e credibili»13, non dobbiamo temere la parzialità delle lotte puntuali, bensì fare in modo che esse, in qualche modo, alludano ad una prospettiva più generale di società alternativa14. Va da sé che, prima di criticare e con ciò rivendicare la trasformazione, anzitutto bisogna comprendere: è ciò che conferisce un «carattere scientifico, materialisticamente fondato»15, alla prassi politica. Nel marxismo, quindi, la conoscenza è patrimonio per l’azione: teoria e prassi interagiscono virtuosamente. E la realtà che va analiticamente afferrata non può che esserlo nella sua totalità, ché «politica ed economia, ambiente e organismo sociale sono tutt’uno, sempre»16 : il vero è l’intero. Solo in questo modo è possibile aver chiare di fronte a sé le «regolarità oggettive su cui misurarsi»17. Lo sforzo deve essere quindi quello di un ininterrotto aggiornamento teorico: #politicanuova, con modestia e coscienza dei propri limiti, si vuole inserire in questa dinamica. La realtà odierna esige una chiara visione circa i fatti globali, non certo suscitata da una dirompente passione per l’esotico, bensì finalizzata alla conoscenza della posizione del proprio paese nello scacchiere globale, funzionale anche e soprattutto per delineare una coerente e realistica strategia politica ed economica nazionale. Non dovrebbe essere un segreto, in tal senso, il fatto che la «dimensione internazionale dei problemi» condiziona pesantemente gli scenari nazionali18. Per questo motivo diamo sempre spazio a tematiche di valenza internazionale: l’intervista al giornalista belga Michel Collon schiarirà gli sviluppi in atto nel Medio Oriente, mentre l’articolo di Alessandro Lucchini evidenzierà, nel caso concreto della conversione Franco-Renminbi, le importanti ricadute legate ad un’intelligente gestione, da parte elvetica, delle relazioni internazionali. E del resto anche l’articolo di Lea Ferrari concernente i parchi naturali sottolinea

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l’inscindibile legame tra dinamiche globali e situazione nazionale. E tuttavia, pur trovandoci attualmente in una fase in cui il frangente internazionale incide con forza sul contesto nazionale, occorre non dimenticare la centralità dei processi che si svolgono all’interno dei confini elvetici. Processi che, data la loro complessità, possono essere compresi solo con una lettura che, pur mantenendo una visione d’insieme, sia internamente stratificata e sempre sottoposta alla revisione. In tal senso l’articolo di Edoardo Cappelletti a proposito dell’esternalizzazione della socialità comunale luganese è un esempio indicativo di analisi d’un caso particolare che, invece di calare conclusioni partendo da assunti generici, cerca di afferrarne le caratteristiche e con ciò lo distingue nella sua specificità. E se il tutto non è una cosa indistinta, risulterà anche utile rintracciare i collegamenti che tra i diversi settori della realtà vengono a crearsi: l’articolo di Rocco Brignoli tratta per l’appunto i legami causali che intercorrono tra riforme fiscali ed evoluzione dello stato sociale. Dal canto suo, il contributo di Damiano Bardelli, che offre una panoramica dei partiti della sinistra alternativa in Svizzera, costituisce un importante sussidiario per una formazione partitica intenzionata a condurre un’oculata politica delle alleanze: occorre infatti rigettare ogni «carattere corporativo»19 e con ciò ricercare momenti di collaborazione attraverso cui concretizzare i vari obiettivi – infatti «avere le idee chiare non costringe ad essere dogmatici o settari: non è incompatibile con un’etica dell’ascolto e con una ricerca di convergenze nel rispetto delle diverse prospettive»20. Assenza di settarismo e nel contempo voglia di conoscere il nostro passato ci hanno spinto a interpellare Werner Carobbio – storico esponente del progressismo ticinese e svizzero - a proposito dello scandalo delle schedature (Fichenaffäre), che ha segnato la recente storia elvetica. E Alberto Togni, a questo proposito, attualizza la questione trattando la nuova Legge sul servizio di Informazioni, che potrà gettare le basi legali per un’ampia sorveglianza preventiva. Collegandomi ai temi di questi due ultimi contributi, mi limito a sottolineare un fatto di fondamentale importanza: se da un lato sarebbe ingenuo ignorare che lo scontro tra le classi sociali è nelle cose per come esse si dispongono – la realtà di interessi divergenti -, dall’altro risulta indispensabile fare di tutto affinché un tale aspro conflitto sia incanalato in un orizzonte di compatibilità democratica.


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Michel Collon: “il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione” #politicanuova intervista Michel Collon, giornalista e saggista belga, fondatore di “Investig’Action”, un collettivo indipendente di analisti delle dinamiche geo-politiche e geo-economiche internazionali che da diversi anni a questa parte – svolge un prezioso ruolo di contro-informazione rispetto alle logiche massmediatiche egemoni in Occidente. A cura di Raffaele Morgantini e di Aris Della Fontana 1. Quali sono le principali caratteristiche dei rapporti tra Occidente (Usa ed Europa) e Medio Oriente a partire dai momenti conclusivi del Novecento? Quale funzione svolge il Medio Oriente all’interno delle strategie geo-politiche e geoeconomiche occidentali? Il Medio Oriente, inteso in senso ampio, quindi comprendente anche il Maghreb, la penisola arabica, il Corno d’Africa e paesi asiatici quali l’Afghanistan e il Pakistan – di fatto quel “Grande Medio Oriente” concepito dall’amministrazione statunitense -, è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione, innescata nel 1991 con la prima guerra del Golfo. A quel tempo Saddam Hussein cadde in una trappola: gli si fece credere che gli Stati Uniti non si sarebbero mossi laddove egli avesse tentato di recuperare il Kuwait, sottratto all’Iraq dal colonialismo britannico; ma George Bush senior, invece, intervenne. Lo scopo degli Stati Uniti era quello di distruggere l’Iraq assieme a Saddam Hussein perché quest’ultimo aveva commesso l’imperdonabile errore di sollecitare gli arabi e più in generale il Medio Oriente alla ricerca dell’indipendenza rispetto agli Stati Uniti, alla resistenza rispetto ad Israele e all’utilizzo del petrolio al fine di ingenerare uno sviluppo autonomo che mettesse fine alla colonizzazione economica della regione. Così facendo Saddam Hussein, come tutti quei dirigenti arabi che storicamente si sono mostrati troppo indipendenti rispetto agli Stati Uniti e al colonialismo in generale, firmò la sua condanna a morte: si tentò dunque di abbatterlo, ma la resistenza irachena si rivelò molto forte, e inoltre non si riuscì a contare su personaggi corrotti interni al paese né ad organizzare la divisione tribale di quest’ultimo. La guerra, in ogni caso, indebolì molto l’Iraq, e servì da avvertimento generale ai paesi arabi, africani e asiatici. Possiamo dire che, con il 1991, si aprì un periodo nuovo: parallelamente alla caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avviarono la ri-

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colonizzazione di tutto quanto, precedentemente, avevano perduto: i paesi del Terzo mondo divenuti indipendenti nel Medio Oriente e in Africa, assieme ai paesi dell’Europa dell’Est. L’obiettivo era quello di instaurare un nuovo ordine a livello mondiale in cui gli Stati Uniti si fossero imposti quale unica superpotenza – e, in tal senso, era ottimo che la Russia eltisiniana si fosse fortemente indebolita, mentre l’Europa andava mantenuta quale vassallo subordinato e il processo di crescita della Cina andava in qualche modo depotenziato. 2. Quali fattori hanno portato gli Stati Uniti ad avviare una tale dinamica? E, all’interno di quest’ultima, quale funzione ha svolto il Medio Oriente e quale invece Israele e le petro-monarchie del Golfo? L’Europa, dal canto suo, come si posiziona? Ragione principale alla base d’un tale progetto è stata la crisi economica che attanagliava gli Stati Uniti dal 1973, se non da prima: il paese si era indebolito economicamente, il tasso di profitto evidenziava un’importante caduta, e inoltre, se, da una parte, la delocalizzazione delle aziende di vari settori produttivi (tessile, automobilistico, informatico) aveva fatto aumentare i guadagni delle multinazionali statunitensi e permesso agli Stati Uniti di avvantaggiarsi rispetto ad Europa e Giappone, dall’altra, essa aveva assestato un duro colpo alla base economico-produttiva nazionale e, ancora, aveva indebolito in modo importante il potere d’acquisto dei consumatori statunitensi. Di conseguenza, dati questi presupposti, gli Stati Uniti, con uno squilibrio della bilancia dei pagamenti e con un profondo deficit dei conti statali – reso maggiormente acuto dalle dispendiose politiche militari -, sono via via diventati dipendenti dal credito. Nel quadro del processo di rivalsa coloniale e soprattutto nel tentativo di acquisire un potere mondiale unipolare, il controllo del Medio Oriente si è rivelato, per gli Stati Uniti, un’arma d’importanza basilare: l’obiettivo, a tal proposito, non era tanto quello di assicurare le proprie forniture petrolifere – gli Stati Uniti importavano petrolio prevalentemente da territori vicini quali il Messico e il Venezuela (dall’Arabia Saudita proveniva solo il 19% della quantità totale) – quanto quello di controllare – in termini strategici – l’approvvigionamento dei rivali (Europa, Giappone, Russia e Cina). Oggi, 25 anni dopo la prima guerra del Golfo, la strategia in questione si è rafforzata. Obama ha indicato con chiarezza che l’obiettivo centrale è il controllo dell’Asia: egli, del resto, non fa altro che applicare le indicazioni del suo maître à penser, Zbigniew Brzezinski, il quale, a suo tempo, spiegò che se gli Stati Uniti avessero voluto restare i signori del mondo avrebbero dovuto controllare l’Eurasia, ossia la zona ove è presente la maggior parte della popolazione, della produzione e della ricchezza mondiale – e la crescita della Cina ha confermato ciò. Secondo Brzezinski, al fine di controllare effettivamente l’Eurasia, occorre im-

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In italiano, una possibile traduzione della citata esclamazione potrebbe essere la seguente: «E per quel che riguarda l’Unione Europea [...], vada a farsi fottere!». Viktoria Nuland è massimo responsabile statunitense per i rapporti con l’UE e all’epoca della presidenze di George W. Bush è stata consigliera in materia di politica estera del vicepresidente Dick Cheney. Nuland ha affermato quanto sopra durante una telefonata – realizzata nel gennaio 2014 - con l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt, in cui si è discussa la possibilità di trovare un accordo tra il governo ucraino di Viktor Ianukovich e l’opposizione guidata da Vitali Klitschko. Per maggiori informazioni, si veda s.n., “’L’Unione europea si fotta’, l’audio della diplomatica che imbarazza gli USA”, IlFattoQuotidiano. it, 6 febbraio 2014 (http:// goo.gl/U269Gh).

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Ahmed Bensaada, Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes, Investig’Action, 2015

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Michel Collon, Libye, Otan et médiamensonges, Investig’Action - Couleur livres, 2011

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pedire ai vari vassalli di unirsi: Russia e Cina, a tal proposito, devono rimanere ben divisi – politicamente ed economicamente – dall’Europa e, in modo particolare, la Russia non si deve connettere alla Germania. Di fatto, quindi, i paesi dell’Europa non posseggono un’indipendenza integrale rispetto agli Stati Uniti. Emblematica, in tal senso, la celeberrima esclamazione dell’inviato speciale statunitense per l’Ucraina Victoria Nuland, «Fuck the EU», che evidenzia la ben scarsa considerazione, da parte statunitense, delle posizioni dei partner europei1. Israele e le petro-monarchie del Golfo rappresentano dei pilastri molto importanti al fine di mantenere il controllo sul Medio Oriente: gli Stati Uniti, infatti, non sono in grado di garantire un attivo e sistematico intervento nella regione – cioè attraverso invasioni via terra o colpi di stato, entrambe le azioni essendo alquanto pericolose – e quindi Israele, una forza di valenza militare, e le petro-monarchie del Golfo, una forza di valenza economica, si rivelano funzionali a dividere il Medio Oriente. 3. Il concetto di «primavere arabe» ha raccolto nello stesso contenitore numerosi processi aventi carattere regionale e/o nazionale. Ritieni che tale concetto sia effettivamente in grado di contenere in modo esaustivo quanto sotto di esso è stato posto? Quello di «primavere arabe» è un concetto fasullo [concept bidon], fabbricato dagli esperti di comunicazione psicologica e di manipolazione dell’opinione. Esso è funzionale a velare due fondamentali elementi. In primo luogo, il fatto che gli Stati Uniti e l’Europa hanno sostenuto [maintenu en place] e protetto sino all’ultimo momento dittatori arabi come Ben Ali e Mubarak. In secondo luogo, il fatto che gli Stati Uniti - molto lungimiranti e con ciò sempre pronti ad anticipare il maturare dei processi -, sapendo che Ben Ali e Mubarak erano personaggi politici finiti – rivolte terribili non potevano che sorgere sia date una dittatura e una corruzione inaccettabili sia dato l’accumulo scandaloso di ingenti quantità di ricchezza in antitesi a una condizione di spaventosa povertà -, hanno preparato la loro sostituzione. A tal proposito, in Egitto e in Tunisia, si sono avuti degli scioperi operai e delle rivolte molto importanti, ma sono stati stroncati dal governo con l’aiuto e il sostegno di Stati Uniti ed Europa. La strategia occidentale consisteva nel tentativo di controllare l’esplosione delle proteste affinché si potessero alleviare [soulager] le frustrazioni ma, nel contempo, impedire che a livello politico qualcosa effettivamente cambiasse: ciò è stato conseguito sacrificando qualcheduno, come Mubarak, Ben Ali e i loro più stretti seguaci, ma mantenendo al loro posto sia le élite sia le istituzioni militari, dividendo i giovani e in generale la società civile e organizzando delle elezioni. Il libro che Investig’Action ha recentemente pubblicato, “Arabesque’’. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes2, scritto da Ahmed

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Bensaada, mostra con evidenza il modo con cui gli Stati Uniti hanno individuato, comprato, condotto negli Stati Uniti e formato i cosiddetti young leaders – i dirigenti di domani -, preparati appositamente al fine di giocare un ruolo nell’ammaestramento della rivolta popolare affinché essa non si sviluppasse in una direzione eccessivamente radicale e cioè che non diventasse una vera rivoluzione sociale e politica. 4. Per il caso libico e per quello siriano si può parlare di uno snaturamento sostanziale delle proteste ad opera degli attori esterni? Cioè, se inizialmente si sono presentate legittime ragioni di malcontento relative a contraddizioni interne, successivamente c’è stata una deformazione e con ciò un ingigantimento dei motivi e dei moti di protesta? Come districare la matassa che lega protestanti sinceri, fondamentalisti e attori eterodiretti? In Libia e in Siria – certamente - vi erano delle legittime ragioni di manifestare. Per la Libia non parlerei di problematiche sociali: Gheddafi ridistribuiva i proventi del petrolio e, inoltre, aveva concesso [avait accordé] un livello di vita estremamente elevato a tutti i libici: l’educazione e la sanità erano gratuite, e le politiche dell’alloggio avevano permesso una buona accessibilità. Vero è che negli ultimi anni si erano avute delle misure che avevano ridotto questo Stato sociale – misure che, peraltro, erano state prese a seguito della pressione e dei consigli degli Stati Uniti e degli altri popoli sedicenti liberi; ma, ciononostante, in Libia c’era il più alto livello di vita dell’Africa. La Libia, d’altro canto, non era definibile una democrazia liberale: essa aveva bensì l’aspetto d’un regime autocratico. E però, a tal proposito, il dato centrale risiede nel fatto che in Medio Oriente c’erano e ci sono ordinamenti politici ben peggiori, come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuweit – di conseguenza, se veramente gli Stati Uniti avessero voluto solamente instaurare una democrazia liberale (che, in ogni caso, non può essere imposta dall’esterno con le bombe), avrebbero dovuto cominciare da questi ultimi. In Libia la protesta – come ho spiegato nel mio libro “Libye, Otan et médiamensonges”3 - è stata manipolata e, molto velocemente, orientata [détournée] verso un altissimo contenuto di violenza, della quale sono stati responsabili i terroristi islamisti rispondenti alla sezione libica di al-Qaida: dal secondo giorno di manifestazioni sono apparsi missili e armi anticarro, e si è assistito all’attacco delle prigioni finalizzato alla liberazione dei terroristi ivi prigionieri. Insomma, non si è trattato propriamente di manifestazioni pacifiche. In Siria c’erano legittime ragioni di carattere politico che hanno portato a manifestare. Anche la Siria, infatti, non può essere definita una democrazia liberale. C’erano inoltre delle ragioni di carattere socio-economico, date dal fatto che anche in questo paese si era avuto un ridimensionamento dello Stato


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sociale (e, come nel caso libico, gli Stati Uniti si sono distinti per le pressioni volte al varo di riforme neoliberali) – la Siria era un paese meno ricco rispetto alla Libia, ma comunque pure ivi erano attive forme di socialità relativamente consistenti se paragonate alla miseria di altri paesi circostanti. Ad essere colpiti in modo particolarmente acuto da queste riforme sono stati i contadini, i quali parallelamente avevano dovuto sopportare due annate filate di siccità: essi si sono perciò ritrovati in grosse difficoltà a livello finanziario e sociale. Il copione, a questo punto, è grosso modo lo stesso: le legittime ragioni di protesta sono state ben presto messe a frutto dagli attori esterni, Stati Uniti in primis, la cui volontà di rovesciare Assad era tale già da diversi anni: l’ex Ministro degli affari esteri di Francia Roland Dumas (1984-1986, 1988-1993) ha dichiarato che, nel 2009 – cioè ben due anni prima delle manifestazioni -, era stato avvicinato, a Londra, da agenti inglesi i quali, comunicandogli che la Siria sarebbe stata presa di mira, lo interrogarono circa la volontà francese di partecipare a ciò4. Ci sono poi molti altri documenti e rivelazioni di giornalisti, statunitensi e non, che mostrano con chiarezza l’effettiva preparazione di un’offensiva nei confronti della Siria. Appare alquanto chiaro come una grande potenza non abbia alcun motivo valido di sferrare un attacco contro un paese per il fatto che all’interno di quest’ultimo si stiano svolgendo delle manifestazioni di protesta, ché di esse ve ne sono pressoché dappertutto tutti i giorni. Gli Stati Uniti, invece, intervengono al fine di esacerbare le tensioni, operare delle provocazioni, trarre un pretesto dal caos ingenerato per pretendere e prendere delle sanzioni economiche e militari e, infine, effettuare un cosiddetto regime changhe. 5. Nei tuoi interventi hai sostenuto l’operare di una «propaganda di guerra» finalizzata a legittimare l’intervento militare occidentale. In tal senso, hai individuato i cinque principi costituenti di tal narrazione: ce ne puoi parlare? C’è una cosa che una grande potenza intenzionata a muovere una guerra non potrà mai dire: la verità. «Facciamo questa guerra per impadronirci della ricchezza della regione»; «questo paese mette in pericolo la nostra supremazia»; «questa guerra è necessaria per i profitti delle nostre multinazionali»: sono tutte dichiarazioni che mai si sentiranno pronunciare ufficialmente. Queste ragioni vanno oscurate, perché evidentemente c’è bisogno che l’opinione pubblica – il contribuente finanziario - sostenga queste onerose operazioni. La cinque regole della propaganda di guerra rispondono a questa necessità. A. Nascondere il fatto che, alla base, stiano determinati interessi economici. Se il Medio Oriente non fosse un campo di petrolio bensì di carote, gli Stati Uniti avrebbero le stesse ragioni per spendere, ogni

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anno, tre o quattro miliardi di dollari per fare d’Israele il guardiano della regione? E se l’Iraq non contenesse nient’altro che sabbia, e non quindi petrolio, gli Stati Uniti avrebbero speso molte energie per far sloggiare un dittatore quando invece, nel contempo, essi ne proteggono molti altri? B. Invertire i ruoli tra vittima e aggressore: colui che sferra l’attacco militare non può definirsi l’aggressore, egli è infatti la vittima o, anche, il protettore che accorre a soccorso della vittima. Quando Israele passa all’offensiva per annettere dei territori palestinesi, pretende sempre di agire in posizione di legittima difesa contro gli Arabi, che o l’avrebbero attaccato o si preparerebbero a farlo. C. Offuscare la storia e con ciò fabbricare un pretesto plausibile e inattaccabile – proprio ché non si possono comprendere gli antecedenti e le cause profonde d’un conflitto - per poter intervenire in una data regione. In Ruanda, Francia e Belgio si presentano come forze neutrali; in realtà essi hanno aizzato le etnie una contro l’altra al fine di meglio dividere e con ciò indebolire la loro resistenza. D. Demonizzare l’avversario – crudele, immorale e pericoloso - e di riflesso convincere l’opinione pubblica del sincero desiderio, da parte delle forze governative, di proteggerla tramite l’eliminazione della minaccia da esso rappresentata. Si tratta, in fondo, di manipolare le emozioni dell’opinione pubblica – che si impaurisce oppure si indigna - impedendole di analizzare lucidamente i reali interessi in gioco. E. Monopolizzare l’informazione, dando prevalentemente voce alle fonti e agli esperti organici agli interessi dominanti, impedendo così alla popolazione di riflettere sulla base dei due o più punti di vista in campo. Come dimostrato da Noam Chomsky, esiste una vera e propria censura che non pronuncia il proprio nome e che impedisce un effettivo dibattito sul ruolo delle multinazionali, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Medio Oriente, come anche in America latina o in Africa. Il discorso massmediatico viene fatto virare su questioni secondarie o totalmente false, ed esso, inoltre, non presenta adeguatamente le posizioni dell’altra parte in causa e in generale le prospettive alternative come quelle proposte dagli analisti che rilevano l’ingiustizia e la strumentalità di queste guerre. 6. Spesso e volentieri, le letture di largo respiro, cioè quelle analisi costruite da ramificazioni causali che tendenzialmente assorbono le varie dinamiche in un disegno complessivo, vengono accusate di avere una natura “complottista”. Come è più adeguato rispondere a questo tipo di accuse – nel caso concreto finalizzate a svalutare l’attendibilità delle posizioni anti-imperialiste?

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Qui è possibile visualizzare il video della dichiarazione di Dumas: https://goo.gl/3xk5N4


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In genere nei miei scritti cito testi, dichiarazioni e rapporti provenienti dai dirigenti politici degli Stati Uniti oppure dai responsabili della strategia di questo paese: li faccio parlare. Domandiamoci: quando Hillary Clinton afferma che gli Stati Uniti hanno creato al-Qaida, è anch’essa complottista? E quando il già citato Brzezinski ammette di essere il responsabile dell’invio di Osama bin Laden in Afghanistan e della crescita dell’islamismo, è anch’egli un complottista? E, se io li cito, divento un complottista? Non credo proprio. Credo occorra porsi altre tre domande. I complotti esistono? Sì, essi hanno un’esistenza reale. La definizione che ne dà un vocabolario è molto chiara: stiamo parlando di una manovra, di una cospirazione, di un’intesa segreta, tra più soggetti, finalizzata a conseguire uno o più obiettivi. Nella storia politica degli Stati Uniti – come in quella degli altri paesi – ci sono stati dei complotti, ad opera di determinate personalità, le quali hanno mantenuto le loro azioni celate all’opinione pubblica nazionale e internazionale. La faccenda relativa al presunt possesso, da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, di armi di distruzione di massa, è un caso emblematico: George W. Bush e Tony Blair hanno fatto in modo fossero redatti falsi rapporti che dimostrassero le loro pretestuose tesi. Ma si pensi anche all’Operazione Gladio, promossa dalla Cia in Europa al fine di seminarvi il panico, giustificare l’adozione di politiche repressive e impedire ai comunisti di andare al governo: essa rappresenta un complotto i cui dettagli sono oggi appurabili. E, di complotti di tal genere, se ne svolgono in modo periodico. E – detto tra parentesi – ci sono pure i “complotti di sinistra”: quando Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara organizzano di nascosto il rovesciamento della dittatura militare di Fulgencio Batista e con essa la dominazione statunitense su Cuba, essi effettuano nient’altro che una cospirazione, che fortunatamente ha avuto successo. Ma, alla luce di ciò, possiamo comprendere tutta la politica e la storia facendo uso dei complotti? No. Oggi, pensatori appartenenti all’estrema destra francese ed europea credono di poter spiegare la crisi 8-9

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economica, la crescita delle ineguaglianze, la povertà, come se tutto ciò fosse un complotto ordito dalle banche, o dagli ebrei, o dai massoni o, ancora, dai dirigenti statunitensi. Credo che di fronte a tali questioni si debba essere chiari: non esiste nessuno in grado di controllare l’economia al punto da poter provocare una crisi. L’economia capitalista funziona attraverso leggi intrinseche e cioè in modo tendenzialmente autonomo rispetto alle volontà e ai progetti degli attori umani (singoli o collettivi). L’economia capitalista - concretamente - si basa sulla proprietà privata dei grandi mezzi di produzione: in virtù di ciò i proprietari possono decidere ciò che deve essere prodotto e a quale prezzo, e possono fissare le retribuzioni salariali; c’è poi anche il momento della concorrenza tra i capitalisti, che si lega a filo doppio all’assenza d’una pianificazione della produzione: ognuno, all’interno di questa dinamica, perseguendo la legge della massimizzazione del profitto, tenta di guadagnare più degli altri, sia attraverso la compressione dei costi del lavoro e delle materie prime, sia precipitandosi nei settori maggiormente redditizi e con ciò investendo nell’innovazione tecnologica funzionale all’incremento della produttività. Ma ciò genera tre conseguenze alquanto rilevanti: il montante sfruttamento del lavoro indebolisce il potere d’acquisto e di riflesso una quota maggiorata di prodotti resta invenduta; i capitalisti, investendo nello stesso momento in quei settori che appaiono più redditizi, elevano la capacità di produzione in modo sproporzionato rispetto alle reale possibilità di assorbimento del mercato (il caso dell’industria automobilistica è emblematico: ogni anno si sfornano 25 milioni di auto in più di quanto il mercato può assorbire) e così si genera un enorme spreco di forze produttive; il miglioramento delle tecniche produttive, dal canto suo, se da un lato aumenta la produttività, dall’altro, in termini complessivi, dato che comporta un relativo aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile (il solo creatore di plusvalore e quindi di profitto), conduce ad una flessione del saggio di profitto complessivo. Così ha origine la crisi di sovrapproduzione, la quale porta con sé diminuzione degli investimenti, chiusura degli stabilimenti, licenziamenti, diminuzione dei salari e altre similari reazioni, che non fanno altro che incrinare ulteriormente la situazione economica complessiva. Grosso modo da quarant’anni ci troviamo in questo tipo regime. E non c’è alcun dirigente politico né capitalista – per nulla interessato al fatto che si produca in funzione dell’interesse della popolazione e secondo una forma di pianificazione - che possieda gli strumenti per risolverne le contraddizioni. Bisogna dunque smetterla di fantasticare pensando che la crisi sia il frutto d’un complotto voluto da banche o da non so chi altro; la crisi è un prodotto inevitabile del capitalismo, e le guerre sono condotte per conseguire interessi economici e sono la diretta conseguenza delle politiche economiche delle grandi


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potenze, intenzionate sia a controllare le materie prime, a non pagarle e ad impedire che i rivali se le aggiudichino, sia ad ottenere nuovi mercati per le loro merci, sia, infine, a procurarsi manodopera a basso costo. Come ebbe a dire all’inizio del XX secolo Jaen Jaurès, «le capitalisme porte en lui la guerre comme la nuée porte l’orage». Il complottismo, quindi, è un’assurdità dal punto di vista dell’analisi teorica - anche se, evidentemente, i complotti si fanno per fabbricare pretesti, nascondere le vere ragioni e per conseguire altri obiettivi strumentali. Ma perché, allora, ci sono persone come BernardHenri Lévy o Caroline Fourest che utilizzano quale spauracchio la questione della teoria del complotto laddove si critichi la politica statunitense, europea ed israeliana, laddove si critichino le politiche coloniali? La ragione è semplice: essi non possiedono altri argomenti, non hanno assolutamente nulla da ribattere allorquando gli si presenta sotto gli occhi un’analisi basata sui fatti oggettivi, allorquando si dà la parola alle vittime, allorquando, in fin dei conti, si esce dal perimetro del pensiero dominante amministrato dalle élite occidentali. È continuamente in atto una battaglia ideologica che ruota attorno alla spiegazioni di fenomeni quali le contraddizioni economiche, le cause della povertà e delle ingiustizie, la guerra e il terrorismo. Le classi dominanti auspicano che i giovani e i lavoratori accettino le letture dominanti e che non si pongano altre domande. La precisa funzione di uno spauracchio quale la sempre in agguato accusa di complottismo, in questo senso, è quella di impedire che la gente rifletta autonomamente. 7. Concretamente, i pacifisti e gli anti-imperialisti occidentali come si devono muovere? Penso che la sparizione, in Europa occidentale, del movimento contro la guerra sia una vera e propria tragedia. Nel passato si sono avuti dei grandi movimenti che si opponevano alle politiche guerrafondaie: i lavoratori scioperavano per impedire che le navi caricassero le armi che sarebbero poi state usate nelle guerre coloniali, una quota importante di giovani rifiutava di servire negli eserciti, c’erano fenomeni di disobbedienza, e gli intellettuali si mobilitavano per lanciare appelli contro la guerra e per la costruzione di un movimento per la pace. Dopo la prima guerra del Golfo si è avuta praticamente una guerra all’anno – considero anche le guerre non dichiarate e le cosiddette proxy wars. Ma la popolazione non si è mobilitata. È vero che nel 2003 c’è stato un grande movimento contro la guerra, quando George W. Bush attaccò l’Iraq; ma nel caso specifico va tenuto conto di due fenomeni eccezionali. Bush, coi suoi metodi, ha fatto ben comprendere a tutti che si trattava d’una guerra per il petrolio; inoltre, alcuni paesi europei si sono opposti denunciando l’azione statunitense (comprendendo come si trattasse, anche, di una guerra contro l’Euro-

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pa): ciò ha aperto uno spazio di discussione che rese possibile che sui media si parlasse esplicitamente di “guerra per il petrolio”. Ma nel 2011 per la Libia od oggi per la Siria sui media non si può leggere che le guerre sono fatte per interessi economici; e come se non bastasse, non è sorto alcun movimento che sensibilizzi e faccia contro-informazione. Questo è anche la conseguenza della capitolazione della sinistra – per non parlare dei socialisti al governo – e dei suoi intellettuali; le “mediamenzogne” vengono accettate, senza ricercare altre spiegazioni, e, inoltre, non si osa difendere determinati governi i quali, pur non essendo delle democrazie liberali e pur non essendo di sinistra, difendono almeno la sovranità del loro paese e con essa il diritto alla libera gestione delle loro ricchezze. La sinistra occidentale, insomma, non conducendo più una lotta contro il colonialismo e la guerra, ha commesso un vero e proprio tradimento nei confronti della sua storia: di ciò non potranno non tenere conto i progressisti delle prossime generazioni, chiamate a ricostruire al più presto un movimento per la pace di cui i popoli del Sud hanno assolutamente bisogno.

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La possibilità di accumulare valore in cambio di nient’altro che d’un “pezzo di carta” tal’è la natura del «capitale fittizio» sostenne il continuo sviluppo della forza militare statunitense.

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Per un approfondimento si veda: Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro. Ovvero i giorni che sconvolgeranno il mondo, Odradek, Roma 2013

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Una manovra simile a quella messa in atto dalla Germania negli anni ‘20 del Novecento: alle promesse di pagamento dello Stato rispondeva la banca centrale con soldi stampati ad hoc. Questa immensa massa di capitale fittizio, gettata nell’economia, portò ad una situazione di iperinflazione e alla distruzione della moneta.

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Si stima che la Federal Reserve “stampi” all’incirca 1000 miliardi di nuovi dollari l’anno.

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La Cina avrebbe la capacità di dare vita ad una “Guerra Monetaria” che potrebbe destabilizzare il dollaro americano fino alla sua sostituzione quale moneta di riferimento internazionale. La Cina, immettendo nel mercato le sue proprietà in dollari, produrrebbe un crollo inesorabile del valore di scambio del dollaro, difficilmente rimediabile dalla Federal Reserve.

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Gli USA potrebbero forzare la “Guerra Monetaria”, giocandosi l’ultima carta possibile, svalutando fortemente il dollaro e causando un danno alla Cina in virtù della sua esposizione valutaria in dollari. È l’auspicio del Tea Party e la minaccia del candidato repubblicano alla Casa Bianca Mitt Romney, il quale propose nel 2012 un ritorno all’ancoraggio tra dollaro e oro.

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Esso sarebbe un riconoscimento del diritto di investire all’estero da parte dei cinesi, il quale porta con sé un forte impatto anche sugli investimenti verso la Cina.

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Il ruolo di stabilizzatore mondiale cinese passa dall’internazionalizzazione del renminbi; la “schizofrenica” Svizzera ha perso il treno

Alessandro Lucchini

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40 anni di privilegi a stelle-e-strisce

Da oltre 40 anni gli Stati Uniti godono del privilegio di possedere la moneta di riferimento negli scambi internazionali. Nel 1971 Nixon abolì la convertibilità del dollaro con l’oro, eliminando così ogni freno all’espansione monetaria e spalancando le porte al “capitalismo fittizio”. Nixon, subito dopo, negoziò con l’Arabia Saudita – in cambio di armi e protezione - il sottostante sul quale avrebbe dovuto essere determinato il prezzo del petrolio, ovvero il dollaro. Rapidamente, tutti i 30 paesi OPEC adottarono il dollaro come valuta di scambio nella compravendita di petrolio. Fu così che il dollaro s’impose come moneta di riserva internazionale: con ciò non possedere dollari sarebbe equivalso a non avere accesso alla stragrande maggioranza del commercio mondiale. L’imperialismo USA fu così in gran parte favorito e incoraggiato dalla possibilità di accaparrarsi materie prime di valore nei paesi “sotto-sviluppati”, utilizzando non solo la potenza della sua forza militare1, ma anche la forza della sua moneta. ●● La situazione geo-economica e la fuga dal dollaro La tesa situazione politico-economica attuale ha forti legami col graduale trasferimento del potere di valuta di riferimento, di riserva e di conto internazionale dal dollaro verso altre soluzioni, data l’entrata o il rientro in gioco di altre potenze. La causa di ciò risiede nella progressiva decadenza degli USA in termini produttivi, tecnologici, industriali, scientifici e culturali; nel cambiamento dei rapporti di forza tra l’Europa e gli Stati Uniti, nonché tra i paesi cosiddetti “ricchi” e i paesi cosiddetti “emergenti”, ma soprattutto nell’enorme e irrefrenabile sviluppo della Cina. Gli USA hanno perso la leadership della produzione industriale e hanno la bilancia commerciale e dei pagamenti in cronico e profondo passivo. Lo sproporzionato ammontare dei debiti statunitensi richiede la continua apertura di nuovi prestiti, e pure il benestare, da parte delle altre nazioni, verso la fiumana di dollari stampata e posta sul mercato2. Lo sviluppo di nuove potenze mondiali obbliga gli USA a remunerare adeguatamente i prestiti ottenuti, con conseguenze che negli altri paesi si tramuterebbero in un’austerità generalizzata. La soluzione statunitense è tanto semplice quanto pericolosa: a pagare è la Federal Reserve (FED), che oggi compra

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il 61% dei nuovi e dei vecchi debiti USA3. Ma l’immissione di grosse masse di nuovo denaro per supportare i continui deficit di bilancio sta minando il ruolo internazionale del dollaro come valuta di riserva. Le forti iniezioni di denaro4 spingono i detentori di dollari ad alleggerire l’esposizione in questa moneta e a cercare nuove forme di riserva. Oltre che dalla politica monetaria della FED, la fuga dal dollaro è generata in buona parte anche dal coordinamento delle decisioni dei BRICS, che stanno favorendo la “de-americanizzazione” del mondo. Questo processo è condotto in modo congiunto, facendo valere il peso economico e politico di un’area in pieno sviluppo. Ciò viene concretizzato tramite un’azione comune volta all’abbandono dell’uso del dollaro per quanto concerne il pagamento delle differenze delle bilance commerciali, al conseguimento di accordi fra banche centrali finalizzati a stimolare flussi di pagamenti non in dollari, e al perseguimento di varie tipologie di attività che prevedano l’utilizzo di monete altre rispetto a quella statunitense – si pensi all’accordo (giugno 2015) col quale il gigante russo Gazprom s’è accordato per vendere petrolio alla Cina in renminbi. Il ruolo di stabilizzatore della Cina Nel passato Washington ha potuto contare sulla Cina (e sul Giappone) per sostenere la sua posizione imperiale. La Cina ha incamerato una grandissima quantità di dollari: i surplus commerciali le hanno permesso di acquistare consistenti porzioni del debito statunitense. Essa ha così rallentato il declino del dollaro, e ha fruito d’un duplice vantaggio: da una parte incamerare il capitale (fittizio) originario, che le ha consentito di sostenere la sua ascesa mondiale, e dall’altra rallentare il processo di sostituzione del dollaro come moneta egemone - evitando così l’escalation di una “Guerra Monetaria”5 che avrebbe probabilmente avuto disastrosi impatti mondiali - nel contempo esercitando un ruolo di stabilizzatore mondiale rispetto alla politica monetaria statunitense incentrata sui valori fittizi. La Cina ha ammesso di non essere disposta a sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di polo mondiale di riferimento a livello economico-monetario, prediligendo lo sviluppo delle forze produttive interne e quindi, in primis, lo spostamento del modello di crescita economica da un’economia improntata sulle esportazioni a un’economia basata sui consumi interni. Attualmente, però, la forte esposizione cinese rispetto a un dollaro che ha imboccato la strada declinante, è foriera di gravi rischi e sta diventando vieppiù insostenibile. E la dirigenza cinese è ben consapevole di ciò. Allo scopo di diminuire questo rischio, ma mantenendo il ruolo di stabilizzatore mondiale, la Cina si trova a dover accelerare il processo d’internazionalizzazione del renminbi (RMB). La Cina sarà spinta a sacrificare l’inconvertibilità della propria moneta – elemento importante in un paese socialista al fine di esercitare un pieno controllo del commercio estero e più in generale per garantire un alto grado di difesa nei confronti delle ingerenze ●●


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estere - così da agire direttamente da stabilizzatore sui mercati internazionali, aumentando la sua influenza globale, e spingere con ciò alla transizione monetaria meno dolorosa: un paniere di monete (includente il dollaro, il renminbi, l’euro e lo yen giapponese) quale moneta di riferimento internazionale. La Cina, parallelamente, ridurrebbe il rischio accollatosi, evitando così un forte contraccolpo qualora gli USA decidessero di reagire incontrollatamente alla perdita d’egemonia6. ●● Il processo d’internazionalizzazione del renminbi Tra le priorità del 13° piano quinquennale cinese figurano alcune riforme decisive nel settore finanziario, dalla liberalizzazione del conto capitale7 all’internazionalizzazione del renminbi. Oltre a promuovere la stabilità politico-monetaria, tali riforme sono in linea con la strategia del governo di stimolare gli investimenti esteri attraverso il progetto della nuova “Via della Seta”8 e la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali9. Questo processo è tutt’altro che privo di rischi: le esperienze di liberalizzazione dei movimenti di capitale nei paesi emergenti hanno dimostrato come il susseguirsi d’una lunga serie di crisi bancarie e finanziarie era legato all’immediatezza, incontrollabilità e impreparazione strutturale della liberalizzazione. Per ridurre al minimo i rischi di un’esposizione repentina alle “intemperie” borsistiche, il processo seguirà una “convertibilità gestita”, ove la liberalizzazione sarà pianificata stabilendo regole finanziarie rigorose. Il processo d’internazionalizzazione della moneta cinese sta passando da molte tappe intermedie. Anziché precipitare verso una rapida e completa convertibilità, la Cina si assicura che le sue istituzioni e strutture finanziarie siano pronte a supportare le inevitabili esternalità negative. Questo processo è guidato dall’unicum dell’utilizzo di mercati offshore, i quali permettono un aumento controllato dell’utilizzo del RMB a livello nazionale ed internazionale. I centri di RMB offshore10 sono mercati finanziari con sede all’estero, dove vengono scambiati titoli denominati in RMB. Il supporto cinese verso i mercati RMB offshore ha avuto un’accelerazione a partire dalla fine del 2010 ed è principalmente concentrato ad Hong Kong11. Mentre in Cina esistono delle forti limitazioni allo scambio di RMB, in questi centri offshore esso è acquistato e venduto molto più liberamente, con grandi vantaggi per la piazza finanziaria, che incrementa la sua rilevanza internazionale con effetti positivi per la nazione che la ospita, connettendo in modo sistematico il suo potenziale di crescita a quello cinese. ●● La “schizofrenia” svizzera L’establishment cinese ha però ben in chiaro – come recentemente confermato dal capo economista della China Minsheng Bank, Wen Bin - che l’internazionalizzazione del renminbi richiederà tutta una serie di solidi mercati offshore, i quali dovranno contare sull’esperienza, lo status e la struttura finanziaria

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che solo i mercati finanziari europei più importanti possono dare. L’accordo bilaterale di libero scambio Svizzera-Cina firmato a luglio 2013 aveva gettato le basi per un ruolo centrale della Svizzera quale ponte tra la Cina e l’Occidente e per uno scostamento della Svizzera dall’orbita statunitense. Sulla scia di questo accordo i dirigenti cinesi avevano fatto intendere come la Svizzera potesse diventare un centro finanziario per il commercio di renminbi, dato che essa offriva una lunga tradizione finanziaria, una teorica neutralità, ed una moneta - il franco svizzero - solida e ritenuta un bene rifugio per gli investitori internazionali. Se ciò non è ancora avvenuto, lo si deve principalmente alla politica “schizofrenica” della Confederazione, che prima ha teso la mano alla Cina e al suo progetto di cooperazione win-win in ambito di know how nei settori industriali ad alto valore aggiunto, e poi ha optato per cedere la propria sovranità monetaria all’UE vincolando il franco all’euro12, voltando così le spalle in primis ai cinesi e in generale ai paesi emergenti, per ulteriormente ancorarsi al declinante campo atlantico a egemonia USA13, da cui molte nazioni cercano invece razionalmente di staccarsi. Tutto questo per fare poi dietro front in occasione della crisi riguardante gli accordi bilaterali con l’UE a causa del voto del 9 febbraio 2014. I passi avanti della piazza londinese La piazza finanziaria londinese, a differenza della Svizzera, non ha cambiato repentinamente strategia, mantenendo una certa equidistanza tra le potenze mondiali e garantendo la solidità e l’indipendenza della propria moneta. Perciò il ruolo londinese nella gestione di attività finanziare denominate in RMB sta potenziandosi, simbolo ne è la visita in Gran Bretagna (ottobre 2015) di Xi Jinping, seguita da un’estensione del vecchio accordo di Currency swap - che ha permesso d’incrementare la liquidità di RMB nel mercato londinese - e dall’emissione del primo titolo offshore denominato in RMB quotato a Londra. La coerenza strategica ha portato l’Inghilterra ad essere la prima economia “sviluppata” a siglare un accordo di Currency swap con la Cina (2013) e con ciò ad essere la più grande piazza offshore cinese in Occidente. Il progetto londinese ha permesso di aumentare il suo vantaggio rispetto alle rivali europee (Svizzera in primis), aumentando considerevolmente il suo ruolo nel mercato offshore del RMB e mostrandosi l’unica piazza europea disposta a giocare un ruolo serio e duraturo fino alla completa internazionalizzazione della valuta cinese, favorendo la “de-dollarizzazione” del mondo e contribuendo così al ruolo di stabilizzatore mondiale della Cina verso una transizione pacifica da un’egemonia statunitense ad un mondo multipolare. Per la Svizzera le occasioni perse potrebbero costare moltissimo. ●●

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Per la prima volta annunciata pubblicamente dal presidente Xi Jinping nel settembre 2013, essa è un’iniziativa strategica della Cina per il miglioramento dei collegamenti (infrastruttura di trasporto e logistica) e della cooperazione tra i paesi dell’Eurasia con lo scopo di favorire i flussi d’investimenti internazionali e gli sbocchi commerciali cinesi.

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L’AIIB, fondata a Pechino nell’ottobre 2014, è un’istituzione finanziaria internazionale proposta dalla Cina che si contrappone principalmente al Fondo Monetario Internazionale. Il suo scopo è quello di sviluppare progetti infrastrutturali nella regione Asia-Pacifico senza dipendere dai capitali e dalle scelte strategiche dei paesi Occidentali.

10 Oggi i centri di RMB offshore si trovano ad Hong Kong, Singapore, Taiwan, Londra, Parigi, Francoforte e Lussemburgo. 11

Grazie alla sua forte espansione, il monopolio di Hong Kong sulle emissioni di RMB, seppur di recente costituzione, continua a godere di un notevole vantaggio sugli altri centri offshore. Si stima che oltre l’80% di tutte le transazioni commerciali in RMB siano state effettuate a Hong Kong.

12 Durante il periodo in cui era in vigore la soglia minima Franco-Euro, nel 95% delle variazioni giornaliere dei tassi di cambio, il cambio Franco-Dollaro e Euro-Dollaro si presentava praticamente identico, a dimostrazione della totale dipendenza della Svizzera dall’Eurozona, e del ruolo della Banca Nazionale Svizzera (BNS) quale succursale de facto della Banca Centrale Europea (BCE). 13

Senza dimenticare che nello stesso periodo la politica monetaria svizzera stava vendendo sotto prezzo grandi quantità di riserve auree proprio ai paesi europei e agli Stati Uniti.


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Un Parco in Ticino: non museo a cielo aperto, ma opportunità per il rilancio dell’economia Lea Ferrari ●● 1

James Fairhead, Melissa Leach, Ian Scoones, Green Grabbing: a new appropriation of nature?, The Journal of Peasant Studies, Vol. 39, No.2, April 2012, 237–261

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Serravalle, Acquarossa, Blenio, Medel, Disentis, Sumvitg, Trun, Vrin, Vals, Hinterrhein, Nufenen, Splügen, Mesocco, Soazza, Rossa, Calanca, Busano.

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Parc Naziunal Svizzer, Giubileo dei 100 anni, URL: http://www. nationalpark.ch/it/ about/chi-siamo/ giubileo-dei-100-anni/, visitato il 06.01.2016

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Per l’appunto, il Freilichtmuseum Ballenberg (“Museo all’aperto di Ballenberg”) è un museo all’aperto situato nel comune di Holfstetten bei Brienz. Il museo si estende in un’area boscosa di circa 66 ettari e raccoglie circa 250 edifici rurali antichi provenienti da varie parti della Svizzera.

5

Parc Adula, Un parco nazionale di nuova generazione, URL: http://parcadula.ch/it/ Charta-Parc-Adula/ Parco-nazionale-nuovagenerazione.html, visitato il 06.01.2016

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Ordinanza sui parchi d’importanza nazionale del 7 novembre 2007 (Ordinanza sui parchi, OPar; RS 451.36)

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Parc Adula, Come sarà finanziato il parco?, URL: http://parcadula.ch/it/ Charta-Parc-Adula/ finanze.html, visitato il 06.01.2015

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Green-grabbing

Il tema dei parchi naturali è oggi di rilievo perché abbraccia le nostre valli alpine ma ha pure ripercussioni internazionali non marginali. Green-grabbing, questo è il nome del fenomeno neo-coloniale di creazione di riserve forestali e di parchi in Africa, nel Sud-est asiatico e in Sud America, che costringe le popolazioni locali ad abbandonare la propria terra, le attività agricole e i propri mezzi di sostentamento a favore di interessi ambientali globali, e in nome della risoluzione di problemi dei quali esse non sono la causa1. Se, da una parte, nei paesi in via di sviluppo l’istituzione di parchi naturali è spesso deleteria, soprattutto se imposta e se non considera le esigenze delle economie locali, dall’altra, in Svizzera, potrebbe portare investimenti e occupazione nelle zone periferiche. In ogni caso le due facce della questione hanno un punto in comune: solo le reali ricadute socio-economiche sulle popolazioni locali devono valere quale parametro di successo del progetto. ●● Prospettiva nazionale: Parc Adula e Parco nazionale del Locarnese A febbraio, 17 comuni di cinque regioni rurali tra Ticino e Grigioni2 si esprimeranno in votazione sulla creazione di un parco d’importanza nazionale, ossia il Parc Adula. Un requisito per la creazione di un Parco nazionale è la definizione di una zona centrale, che ha come obiettivo, secondo l’Ordinanza sui parchi (OPar) all’art. 17, il libero sviluppo della natura. Attorno alla zona centrale si estende la zona periferica, che non subisce cambiamenti legislativi di alcuna sorta e viene amministrata come prima dell’avvento del parco. L’OPar prevede tre categorie di parchi: nazionale, regionale e periurbano, che divergono sia nell’estensione della zona centrale (protetta), di almeno 100 m2 per nazionale e regionale mentre di almeno 4m2 per il parco naturale periurbano, sia nelle finalità, dichiaratamente più naturalistiche nel caso del parco nazionale e periurbano e con più aspetti di sviluppo economico nel caso del parco regionale. Per avviare il processo di candidatura del Parc Adula, si è dovuto scegliere tra le categorie nazionale e regionale: il dibattito è iniziato 14 anni fa. La rinomanza nazionale è sicuramente pregievole, ma si porta appresso il paragone con il Parco Nazionale di Zernez (GR), fondato nel 19143 con il sol obiettivo - benché nobile - di protezione della natura. Si comprende la resistenza da parte dell’Unione con-

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tadini svizzera verso questi interventi, collegati al rischio di Ballenbergisierung, colorito concetto che definisce la cristallizzazione di un contesto nella condizione di rurale scenario nostalgico e con ciò la sua “morte” a livello economico-produttivo4. Invece il Parc Adula, in quanto ‘parco di nuova generazione’5, incorpora aspetti economici concernenti lo sviluppo sostenibile e la designazione di marchi, quali il marchio Parco (per far conoscere il Parco stesso) e il marchio prodotto (conferito ai beni e servizi del territorio del Parco che rispettano una prassi sostenibile) 6. Qualora gli aventi diritto accettassero il progetto in questione, sarebbero vincolati per 10 anni, scanditi da una programmazione quadriennale, che nel periodo 2016-19 prevede un investimento di 15 milioni di Fr., finanziato per il 60% dalla Confederazione, per il 20% dai Cantoni Ticino e Grigioni e per il restante 20% dai Comuni, dalle Regioni e da sponsor privati7. Il Parc Adula occuperebbe direttamente 18 persone, tra cui dei rangers. Le regioni periferiche e a vocazione rurale si caratterizzano per la costante diminuzione di investimenti e occupazione. Un intervento come quello del Parc Adula ha senz’altro il vantaggio di portare un po’ di linfa, là dove ad agire prevalentemente è la ruggine. Positiva è pure la collaborazione e lo scambio tra regioni linguistiche e cantoni diversi. Permangono, tuttavia, sia le avversioni di una parte della popolazione che si identifica fortemente nel territorio, sia l’incertezza sulle reali ricadute economiche locali, poiché si conosce solo il regolamento della zona centrale e non sono chiari i progetti che saranno promossi. In questo senso dovrebbero essere meglio presentati i progetti previsti nella zona periferica del parco. In Svizzera si contano 12 parchi d’importanza nazionale, 7 parchi in fase di istituzione e il Parco nazionale svizzero (Zernez). In Ticino si è candidato anche il Parco nazionale del Locarnese, sul quale si dovranno esprimere nei prossimi mesi i 13 comuni coinvolti8. La riuscita di questa votazione è più improbabile rispetto a quella sul Parc Adula, ciò a causa della minore vastità del parco, la cui zona centrale, con la sua regolamentazione restrittiva, occuperebbe la maggior parte della superficie, limitando pesantemente le attività produttive del territorio. In ogni caso, gli obiettivi concernenti investimenti e occupazione nelle regioni periferiche possono essere perseguiti in diverse maniere e nei diversi settori economici, per cui un parco può rilanciare il turismo, stimolare la ricerca scientifica e rivitalizzare il settore primario. Quest’ultimo punto non deve essere lasciato al caso: ciò per il ruolo fondamentale dell’agricoltore, spesso sottovalutato, nella produzione di reddito, di derrate alimentari con valenze socio-culturali, nella gestione del territorio e nel decentramento della popolazione. Il turismo consapevole e sostenibile è attento e attirato da realtà vive e propositive garantite da un settore primario sano, e di pari passo la ricerca scientifica nelle valli alpine non può escludere le millena-


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rie interazioni uomo-natura. Inoltre, strumenti quali i marchi sono validi a patto che sia promossa una solida organizzazione dell’attività produttiva. ●● Prospettive internazionali Si è da poco conclusa l’acclamata Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop 21) a Parigi, che ha visto 195 nazioni concordi nel prodigarsi per limitare l’aumento della temperatura globale a meno di 2°C. Ora spetterà alle varie nazioni promuovere misure coerenti con questa presa di posizione: come la Svizzera ha già lanciato da alcuni anni l’obiettivo di ridurre del 20% le emissioni di gas serra entro il 20209, così l’Unione Europea persegue il programma Horizon 2020, che prevede entro il 2020 la riduzione del 20% delle emissioni di CO2 e dei consumi energetici e l’aumento del 20% della quota di energia da fonti rinnovabili. In entrambi i casi si tratta di obiettivi più che raggiungibili e in parte pure poco coraggiosi rispetto alle odierne possibilità tecnologiche. Visto che siamo di fronte a un problema globale, la comunità internazionale cerca soluzioni tra nazioni in un’ottica però fermamente neoliberista: il commercio dei crediti di carbonio. Dagli anni ‘90 e con il protocollo di Kyoto si è sviluppato il concetto di mercato delle quote di emissioni di CO2 tra le nazioni poco industrializzate che possono vendere la possibilità di inquinare alle economie avanzate. Nel complesso si può parlare di privatizzazione del clima, che presuppone un atteggiamento astratto rispetto a chi, dove e come inquina, senza indagare le cause reali. In questa logica i parchi naturali sono risorse che immagazzinano CO2 e forniscono crediti di carbonio alle nazioni per continuare a inquinare o vendere questa prerogativa ad altri stati. Come previsto dal mercato, stanno entrando in gioco gli speculatori quali Deutsche Bank, Morgan Stanley, Barclays Capital, Rabobank, BNP Paribas Fortis, Sumitomo, Kommunalkredit e Cantor Fitzgerald. JP Morgan Chase ha accorporato Climate Care, mentre Credit Suisse ha acquistato EcoSecurities, entrambe imprese che forniscono consulenza e intermediazione nel campo dei serbatoi di carbonio. Nel 2008 si contavano 80 fondi d’investimento in carbonio10 e perciò è da ipotizzare anche un prossimo caso di «subprime carbon»11. Nelle pratiche di questi fondi e di queste imprese si annovera il già citato green-grabbing, ovvero l’eco-colonialismo12 con cui si privatizzano i polmoni verdi della Terra, promosso anche da alcuni governi come la Gran Bretagna, che, nella figura del consigliere speciale per l’energia e le foreste del presidente Gordon Brown, Johan Eliasch13, ha cercato di privatizzare parte della foresta amazzonica nel nome della protezione della natura, escludendo così le popolazioni brasiliane che da secoli ne traggono sostentamento. Esempio ecclatante dell’ambiguità dei parchi naturali è stata, negli anni Novanta, l’assegnazione a Parco Nazionale - per la salvaguardia dei gorilla - delle

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terre della tribù dei pigmei Bambuti Ba’twa nella foresta equatoriale al confine del Rwanda, nell’odierna Repubblica democratica del Congo. Questo fenomeno è sempre più diffuso: in Namibia, dall’istituzione della proprietà privata degli animali selvaggi (1967), i ranches privati sono cresciuti dell’80%14. Per la protezione della natura non vi è una ricetta unica applicabile a tutte le realtà. Se a livello mondiale la deforestazione è un problema, in Svizzera si assiste al fenomeno contrario: l’imboschimento causato dall’abbandono delle attività primarie. Perciò non bisogna confondere i piani e gli obiettivi, come invece succede lasciando al mercato la regolazione delle emissioni di gas serra. Con il laissezfaire si rischia di creare una tensione tra fame e ambiente, in quanto l’agricoltura viene sacrificata per permettere la conservazione della natura foriera di crediti di carbonio, in particolare nelle zone tropicali e sub-tropicali, dove senza la tradizionale lavorazione della terra l’accesso al cibo non sarebbe garantito15. Grazie alle conoscenze e alle tecnologie sino ad ora accumulate possiamo evitare «l’eterno oops! che definiva i rapporti tra l’uomo e la natura»16, agendo con lungimiranza nel rispetto dei cicli biologici ed ecosistemici. ●● Conclusione Perseguire finalità di protezione della natura è nobile, ma, più spesso, nobilitante la persona che se ne fa promotrice, la quale agisce con falsa umilità nei confronti del progresso degli ultimi secoli e del millenario rapporto uomo-natura, ignorando che la stessa conservazione della natura è un atto di forza e controllo dell’homo erectus sul resto dell’ecosistema. Non bisogna ammantarsi di facili principi ecologisti ma analizzare singolarmente le necessità socio-economiche delle varie regioni del pianeta. Se, in Svizzera, è insensato mantenere l’obiettivo dell’avanzata del bosco nelle zone centrali dei parchi - quando invece accade che l’imboschimento si verifica per l’abbandono delle aree agricole e comporta una minore biodiversità rispetto ad un pascolo -, per contro, nel resto del mondo non si può permettere alla mano invisibile di legittimare l’inquinamento dei paesi occidentali a scapito delle pratiche agricole locali di tradizionale sostentamento e alle possibilità di progresso e industrializzazione dei paesi in via di sviluppo e delle regioni periferiche delle economie avanzate.

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Ascona, Bosco Gurin, Brissago, Cavigliano, Centovalli, Gresso, Isorno, Linescio, Losone, Mosogno, Onsernone, Ronco s. Ascona, Vergeletto, Verscio.

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Rts, Vers une réduction des émissions de CO2 de 20%, 2010, URL: http:// www.rts.ch/info/ suisse/1053036-vers-unereduction-des-emissionsde-co2-de-20-.html, visitato il 08.01.2016

10 Larry Lohmann, Neoliberalism and the calculable world, 2009, URL: http://www. thecornerhouse.org.uk/ resource/neoliberalismand-calculable-world, visitato il 12.12.2015 11

Michelle Chan, Carbon Markets and Financial Risk, 2009, URL: http:// www.mercyworld.org, visitato il 08.01.2016

12 John Vidal, The great green land grab, The Guardian, 13.02.2008, URL: http://www. theguardian.com/ environment/2008/ feb/13/conservation, visitato il 06.12.2015 13

Harry Underwood, Brazil bridles at Eliasch bid to save Amazon, 2008, URL:http://www. theweek.co.uk/26749/ brazil-bridles-eliasch-bidsave-amazon, visitato il 08.01.2016

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Nik Heynen, James McCarthy, Scott Prudham and Paul Robbins, Neoliberal Environments, Routledge, London, 2007, pp. 25-26

15 Kathleen McAfee, Selling Nature to Finance Development? The Contradictory Logic of International Environmental-Services Markets, URL: http:// www.iss.nl/fileadmin/ ASSETS/iss/Documents/ Conference_presentat 16

Jonathan Miles, Scarti, Minimum fax, Roma, 2015


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Werner Carobbio: “la sinistra deve continuare a battersi affinché sia tutelata in modo integrale la privacy dei cittadini” 1

L’attuale Partito Comunista della Svizzera Italiana (denominato in precedenza Partito Operaio e Contadino Ticinese e in seguito Partito del Lavoro) è stato sezione ticinese del PSdL dal 1944 al 2014.

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La prima Colonia libera italiana fu fondata nel 1925 a Ginevra: “libera” stava a significare l’opposizione al regime mussoliniano che voleva fascistizzare le organizzazioni degli emigrati italiani, imponendo la nomina di dirigenti non democraticamente eletti dai soci ma scelti personalmente dal console. Sull’esempio di Ginevra, altre Colonie libere sorsero in altre località Svizzere. Grande impulso alla creazione di nuove Colonie libere fu dato all’indomani del crollo del regime fascista. Negli anni Sessanta e Settanta con l’arrivo di sempre nuove masse di lavoratori italiani in Svizzera, la FCLIS divenne una grande organizzazione dell’emigrazione, stabilendo rapporti di collaborazione con le altre associazioni italiane e di altri Paesi, così come con i sindacati locali ed i partiti della sinistra italiana e svizzera.

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In Svizzera l’obiezione di coscienza al servizio militare veniva punita con il carcere fino al 1996, quando venne istituito il Servizio Civile.

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Otto Stich (1927-2012) fu ministro delle finanze della Confederazione, membro del Partito Socialista Svizzero e dell’allora sindacato FCTA.

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A cura di Alberto Togni e di Aris Della Fontana Nel 1989, a seguito di alcuni dubbi sull’operato della Polizia Federale (Bundespolizei), fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc. Poco tempo dopo, scoppiò quello che divenne famoso come il “Fichenaffäre”, lo scandalo delle schedature. Erano stati collezionati tra i 700 e i 900mila dossier, contenenti innumerevoli informazioni personali riservate; si stimò che circa un cittadino su sette fosse schedato. Poco dopo lo scoppio del “Fichenaffäre”, una nuova commissione parlamentare (1990) constatò che anche il Dipartimento federale della difesa e i Servizi segreti militari stavano raccogliendo materiale riservato. La commissione rivelò l’esistenza sia della P-26, una formazione militare segreta, sia della P-27, un’unità specializzata nella raccolta di informazioni riservate entrambe interne ai Servizi segreti militari. Nella seconda commissione d’inchiesta – in qualità di co-presidente - sedeva anche Werner Carobbio, che fu consigliere nazionale fino al 1999, fondatore e segretario cantonale dell’ex-Partito Socialista Autonomo (PSA) nonché redattore responsabile del suo settimanale “Politica Nuova” (1965-1992). Con lui parleremo di questo momento di storia elvetica, come anche della nuova Legge sul Servizio di Informazioni, approvata nel settembre 2015 e nei confronti della quale è stato indetto un Referendum. 1. Quali furono le categorie della società elvetica che, in modo consistente e significativo, vennero prese di mira dalla furia dei dossier? Come si spiega una sorveglianza preventiva così vasta? Nelle centinaia di migliaia di schede raccolte dalla Polizia federale (Bundespolizei) e poi dal Dipartimento militare, a essere presi di mira furono soprattutto persone di nazionalità svizzera e non, che avevano legami con sezioni del Partito Svizzero del Lavoro (PSdL)1, che erano membri di associazioni quali per esempio le “Colonie libere”2 o attivisti dei movimenti contrari all’armamento atomico, così come gli obiettori di coscienza3. Il clima, indubbiamente, era quello della Guerra Fredda. È vero tuttavia che la sorveglianza si era estesa a tutti quelli che avevano fatto semplicemente uso dei diritti costituzionali, firmando una petizione o prendendo posizioni che, in qualche modo, si rivelavano critiche nei confronti della difesa nazionale. A tal proposito è innegabile come la raccolta di

informazioni fosse completamente sfuggita di mano, trasformandosi così in una registrazione sistematica e maniacale di ogni minimo segnale di dissenso. Emblematico, in quest’ottica, il controllo del Consigliere federale Otto Stich (1984-1995)4, in ragione del saluto da egli portato, a nome del Consiglio federale, ad una conferenza culturale svoltasi a Basilea, il cui argomento – a quanto si ritenne – poteva minacciare la sicurezza nazionale. Il controllo istituzionale nei confronti di questi uffici era pressoché inesistente. Era attiva una commissione, composta da membri del Consiglio Nazionale e da membri del Consiglio degli Stati, che avrebbe dovuto vigilare sull’operato dei servizi legati al Dipartimento militare. Tuttavia, i meccanismi di funzionamento di questa commissione erano alquanto particolari: per esempio, solo alcuni membri – appartenenti guarda caso ai partiti borghesi – venivano convocati regolarmente (nel caso concreto, Sepp Stappung, Consigliere nazionale del PSS dal 1983 al 1991, non potendovi partecipare in modo adeguato, non disponeva di tutte le informazioni concernenti l’operato degli uffici). 2. La commissione parlamentare a cui lei partecipò constatò che il Dipartimento federale della difesa e i Servizi segreti militari stavano raccogliendo materiale riservato. Emerse peraltro l’esistenza sia della P-26, una formazione militare segreta, sia della P-27, un’unità specializzata nella raccolta di informazioni riservate - entrambe interne ai Servizi segreti militari. Come giudicare e spiegare tutto ciò? Chiariamo subito il perché del termine P-26. In un rapporto concernente la sicurezza elvetica, al punto 26 c’erano quattro righe che notavano come il governo si fosse impegnato e s’impegnasse a prendere le misure atte a garantire un tale obiettivo. Questa premura va inserita nel quadro del timore di una potenziale invasione, la quale, ovviamente, sarebbe potuta giungere solo dall’Unione Sovietica – e a tal proposito non è per nulla casuale che, durante le esercitazioni militari, ad impersonare il nemico fossero sempre i russi. Il clima storico, dunque, è qui ancora quello caratterizzato dalla Guerra fredda. Questa era l’unica informazione che concretamente possedevamo, ma nessuno sapeva esattamente cosa ci fosse dietro. Scavando, scoprimmo che era stata


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allestita una sorta di organizzazione paramilitare che, in caso di invasione, avrebbe dovuto organizzare la «resistenza popolare» del paese. Evidentemente, parlare di «resistenza popolare» risulta alquanto fuori luogo e assurdo, dato che essa, per essere effettivamente tale, dovrebbe originarsi dal basso e non, invece, venire architettata e finanziata da ristrette cerchie altolocate. A capo della P-26 figurava un membro del Dipartimento militare: i finanziamenti messi a disposizione dal Dipartimento - una piccola percentuale dei crediti militari - giungevano su un suo conto personale. Egli, tra le altre cose, aveva il compito di reclutare tutta una serie di personaggi disposti, in caso di necessità, a partecipare a questa «resistenza» - tra questi figuravano anche dei ticinesi. Poteva capitare che queste persone tenessero dei “corsi di formazione”. Quando la commissione d’inchiesta chiese di poter visionare la lista degli aderenti a tale organizzazione, il Consiglio Federale si oppose sostenendo che sussistevano problemi di privacy (molte di queste persone, infatti, partecipavano al progetto senza aver nulla riferito ai propri famigliari). Ma la legislazione prevedeva che l’ultima parola spettasse alla commissione: insistemmo e così si raggiunse il compromesso che permise ai due presidenti della commissione – ovvero il sottoscritto e Carlo Schmid (PPD) – di visionare la lista. La P-26, inoltre, disponeva di molte strutture ben attrezzate e disseminate in tutta la Svizzera, che fungevano da deposito di munizioni, di armi e di altro materiale. Come si spiega tutto ciò? Devo dire che Carlo Schmid, di fronte a quanto emerse, si trovò ad essere piuttosto scandalizzato. Da parte mia, invece, ci fu una relativa “tranquillità”: avevo capito come la P-26 non rappresentasse nient’altro che la variante elvetica dell’italiana “Gladio”5. A questo proposito il dubbio era che, nonostante la neutralità, la Svizzera intrattenesse relazioni con la NATO. Sollevammo la questione, chiedendo che il mandato della commissione d’inchiesta fosse esteso, così che potesse recarsi alla sede NATO di Bruxelles. Ma il parlamento non diede seguito all’autorizzazione, optando invece per dare l’incarico di chiarire la questione al Consiglio Federale, il quale stabilì che non vi era alcuna prova a sostegno della citata tesi. Per quanto concerne la P-27, devo ammettere che si rivelò un’organizzazione a tratti al limite del ridicolo – anche e soprattutto se paragonata alla ben strutturata P-26. Questo servizio aveva lo scopo di mantenere informata la Confederazione a proposito di differenti situazioni e questioni, consegnando periodicamente fascicoli al Consiglio Federale. Una volta, durante i lavori della commissione, mi capitò di leggere uno di questi fascicoli, il quale riguardava la Mongolia: scorrendo il testo mi resi ben presto conto che esso era, in realtà, poco più che una riformulazione di un articolo recentemente apparso su “Le Monde Diplomatique”.

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3. In che modo si deve porre la sinistra rispetto a questi fenomeni? Ad oggi la questione può dirsi risolta, oppure permangono contraddizioni e interrogativi di rilievo circa il diritto alla privacy? A tal proposito, la nuova Legge sul Servizio di Informazioni, approvata nel settembre 2015, getta le basi legali per un corposo ampliamento della sorveglianza preventiva di massa in Svizzera – attuabile, peraltro, sulla base di semplici supposizioni? La sinistra, dal canto suo, non può far altro che continuare a battersi affinché sia tutelata in modo integrale la privacy dei cittadini. A questo proposito, il referendum contro la Legge sul Servizio di Informazioni costituisce un’azione molto importante – anche se, purtroppo, esso si rivelerà molto probabilmente un disastro, dato il clima vigente. Occorre inoltre pretendere con fermezza un aumento della vigilanza sulle attività di sorveglianza interna. A seguito dell’inchiesta condotta dalla commissione, è stata creata una delegazione della sicurezza, composta da 6 membri (di cui 3 provenienti dal Consiglio nazionale e 3 dal Consiglio degli Stati), che ha il compito di controllare sia il ministero pubblico sia i servizi di informazione del Dipartimento militare. Io stesso facevo parte di questo organo. Devo ammettere che, inizialmente, vi si poteva svolgere un buon lavoro; per qualsivoglia caso, anche il più insignificante, la commissione veniva convocata. Con il passare del tempo, tuttavia, le cose si sono fatte ben più complicate, soprattutto sul versante della metodologia di lavoro: se inizialmente le schedature erano manuali, a seguito dell’introduzione dei sistemi informatici risultava molto più difficile eseguire dei controlli efficaci. Va poi detto che la questione concernente i servizi segreti non potrà mai dirsi risolta fino in fondo, proprio per il fatto che stiamo parlando di organismi «segreti». In ogni caso, oggi le priorità della sicurezza nazionale sono mutate. I timori e le conseguenti precauzioni non sono più riferiti all’Unione Sovietica e ai suoi “appoggi” interni, bensì al cosiddetto «terrorismo» - e senza dubbio i recenti attentati non fanno che rafforzare questa impostazione. Siamo ovviamente tutti d’accordo sulla bontà di un’azione preventiva volta ad impedire che episodi di terrorismo abbiano luogo sul territorio nazionale. Il rischio, nell’ambito di questa prassi, è però quello di andare ben oltre a quanto effettivamente sarebbe necessario: le ultime modifiche di legge, infatti, prevedono controlli preventivi, intrusione nei sistemi informatici e altro ancora. E, in tal senso, se non è presente un controllo attento ed efficace su questo tipo di operazioni, il rischio probabile è quello che la storia si ripeta. Inoltre, costituisce un importante limite il fatto che il controllo politico, esercitato nei confronti di funzionari a tempo pieno, sia condotto da parlamentari di milizia.

Denominazione con cui è nota un’organizzazione para-militare segreta italiana, collegata con una struttura - denominata “Stay behind” - alla quale partecipavano in funzione anti-comunista Paesi del blocco occidentale, e operante a partire dal secondo dopoguerra.


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La National Security Agency o, NSA (in italiano “agenzia per la sicurezza nazionale”) è, assieme a CIA e FBI, l’organo governativo degli USA che si occupa della sicurezza nazionale. Se la CIA svolge il proprio ruolo soprattutto all’estero, la NSA invece si occupa del monitoraggio di quanto accade sul territorio nazionale.

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http://goo.gl/hY3Epo

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Fenomeno politico connesso alla campagna anticomunista scatenata negli Stati Uniti durante i primi anni cinquanta del Novecento dal senatore repubblicano J. MacCarthy. Presidente della commissione senatoriale di controllo sulle attività governative, egli denunciò in più occasioni presunte infiltrazioni comuniste in diversi enti statali; la sua carriera venne compromessa nel 1954 dopo le accuse mosse ad alti gradi dell’esercito. Le radici del maccartismo, divenuto ideologia dilagante che avversò soprattutto esponenti del mondo dello spettacolo, affondavano nel clima della guerra fredda. (Dizionario di storia moderna e contemporanea: http:// goo.gl/iZCVXu)

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Il Patriot Act (acronimo di “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001”) è una legge federale introdotta nell’ottobre del 2001 a seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre. Unitamente al “Military Order”, esso concede al governo e ai servizi segreti la facoltà di svolgere attività investigative e repressive senza mandato dell’autorità giudiziaria. Nel 2011, su proposta del presidente Obama, è stato prorogato di altri 4 anni.

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Per maggiori informazioni: http://goo. gl/eh2M7o

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Sicurezza, ma a quale prezzo? Alberto Togni ●● Introduzione Il termine «sorveglianza di massa» e, più in generale, tutte le problematiche legate alla privacy, sono entrati nel dibatitto pubblico nel giugno 2013, con la pubblicazione sul “Wasington Post” e sul “Guardian” delle rivelazioni di Edward Snowden circa le attività di sorveglianza e di intercettazione messe in atto a tappeto dalla NSA1 e dai servizi segreti con cui egli collaborava. Se da un lato la Corte Federale di New York ha recentemente dichiarato illegali tali attività di sorveglianza2, dall’altro, sull’onda degli attentati terroristici alla redazione del periodico francese “Charlie Hebdo” prima e delle stragi di Parigi del 13 novembre 2015 poi, i governi di Francia e Spagna, con l’appoggio dei rispettivi parlamenti, hanno implementato a loro volta testi legislativi volti a controllare a tappeto i cittadini e le loro comunicazioni. Una pratica, questa, che nella storia ha una lunga tradizione, negli Usa amplificatasi durante il cosiddetto «maccartismo»3 e decisamente esplosa dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 con l’emanazione del celeberrimo “Patriot Act”4. ●● L’approvazione della LAIn in Svizzera e la deriva securitaria globale Siamo di fronte a una deriva securitaria forse senza precedenti, che rappresenta un chiaro pericolo per quegli stessi principi - tanto osannati a scuola e sui media - ritenuti fiore all’occhiello delle democrazie liberali. E tutto ciò rischia di estendersi ad altri paesi del vecchio continente: Austria e Finlandia si stanno infatti già muovendo in questo senso; la prima istituendo un’autorità per la sicurezza solo minimamente soggetta a controlli esterni, la seconda intenzionata addirittura a una modifica costituzionale per indebolire la tutela della privacy. Rispetto a questa tendenza internazionale, nemmeno la Svizzera è esclusa. Ben al contrario! Il 25 settembre 2015 il Parlamento federale ha infatti approvato a larga maggioranza, comprendente addirittura alcuni esponenti del Partito Socialista Svizzero (PSS), la nuova legge sulle attività informative (LAIn), che permetterà un pericoloso ampliamento della sorveglianza di massa. La nuova legge, in questo senso, «riformula il compito del Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC) di fornire una valutazione globale della situazione a favore dei beneficiari delle sue prestazioni». Al SIC verranno forniti «strumenti migliori per l’individuazione tempestiva e per la protezione della Svizzera e della sua popolazione», e il Consiglio federale potrà «impiegare il SIC per proteggere l’ordinamento costituzionale, la politica estera nonché la piazza industriale, economica e finanziaria svizzera»5.

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Dal testo di legge si evince chiaramente l’espansione massiccia delle competenze e degli strumenti a disposizione del Servizio Informativo, che fruirà dell’autorizzazione a penetrare nella sfera privata dei cittadini, attraverso l’intercettazione di telefonate e posta elettronica, l’uso di parole chiave per scandagliare la rete, l’intrusione in sistemi informatici grazie ai famosi «Trojan Horse» oppure con le più tradizionali cimici. E tutto questo potrà addirittura essere realizzato sulla base di semplici sospetti. La situazione sta quindi assumendo dei risvolti preoccupanti. Non solo la Svizzera non esula dal processo securitario avviatosi in Occidente, ma addirittura la legislazione varata pochi mesi fa alle camere pone dei seri rischi circa la possibilità di abuso da parte del SIC. Abusi che riportano alla memoria quanto accaduto sul finire degli anni ‘80, quando, a seguito di alcuni dubbi sull’operato della Polizia Federale, fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta che portò allo scoppio di quello che divenne famoso come il “Fichenaffäre”. Nell’ambito dello scandalo delle schedature erano stati collezionati tra i 700 e i 900mila dossier, contenenti innumerevoli informazioni personali riservate: le stime parlano di all’incirca un cittadino su sette vittima di schedatura. Poco dopo lo scoppio del “Fichenaffäre”, una nuova commissione parlamentare (1990) rilevò come anche il Dipartimento federale della difesa e i Servizi segreti militari stavano raccogliendo materiale riservato. La commissione rivelò l’esistenza sia della P-26, una formazione militare segreta coinvolta nelle operazioni stay-behind in Europa, sia della P-27, un’unità specializzata nella raccolta di informazioni riservate - entrambe interne ai Servizi segreti militari6. Isteria da Guerra Fredda? Non solo... Se nella seconda metà del Novecento lo spauracchio agitato dai fautori della sorveglianza di massa era quello dei comunisti, in riferimento ad una presunta invasione da parte dell’URSS (ipotesi su cui Mosca non ha mai lontanamente ragionato), oggigiorno il pericolo proclamato è quello del terrorismo. In tal senso il XXI secolo è stato soprannominato da molti come «l’Età del terrore». Già sul finire della Guerra Fredda, una volta garantita la sicurezza del sedicente “mondo libero” rispetto al bolscevismo, l’attenzione iniziava pian piano ad essere spostata sull’Islam radicale quale nuovo grande pericoloso avversario. La definizione di «Età del terrore» è stata sfruttata dai paesi imperialisti come USA, Francia, etc., quale pretesto per condurre numerose iniziative in ambito di politica estera (invasione dell’Afghanistan, operazioni in Mali, lotta a Daesh - il sedicente Stato Islamico -, etc.) ma anche interna, quali per l’appunto un’estensione della sorveglianza di massa. Infatti, se a livello sovra-nazionale la lotta al terrorismo ha assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra, nei confini nazionali essa giustifica la necessità di rinunciare temporaneamente alle tradizionali li●●


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bertà e con esse anche alla privacy al fine di garantire la sicurezza nazionale. Oggigiorno, grazie allo sviluppo tecnologico, si assiste ad un’integrazione dei sistemi di sorveglianza presenti nella società: ciò ha portato a un salto di qualità per quanto concerne l’efficacia di questi strumenti. Se in passato un sovrano non poteva guardare oltre le mura domestiche del suddito se non penetrandovi con la forza, al giorno d’oggi il lavoratore è invece sottoposto, durante l’intero arco della giornata, a una sorveglianza continua. Sul posto di lavoro, sia tramite il controllo delle attività svolte sia in virtù dei numerosi sondaggi interni; nel tempo libero, grazie all’enorme numero di dati che ogni istante consegniamo senza pensarvi e senza poterlo evitare - il caso dei social network, monitorati dai responsabili delle risorse umane dalle aziende, è emblematico. La dimensione di classe della sorveglianza È importante tuttavia non limitarci ad analizzare la questione in relazione alla sola lotta al terrorismo. La sorveglianza infatti è da sempre presente nella realtà capitalista: il monitoraggio continuo del dipendente sul posto di lavoro è solo uno dei tanti esempi di un sistema che, unitamente al monopolio statale della violenza, garantisce il proprio controllo sociale anche attraverso pratiche di sorveglianza diretta o indiretta. Nell’ambito del controllo sociale è bene ricordare che vi si ritrovano sia fattori evidenti come per esempio la leva militare obbligatoria, sia pure aspetti molto meno espliciti e, di primo acchito, forse anche banali: pensiamo solo al corporativismo sindacale, celebrato come elemento di pace sociale. In questo senso, il controllo sociale è anche legato alla penetrazione, nelle maglie del sentimento popolare, di quei fattori che producono l’egemonia culturale della classe dominante. Come abbiamo visto, però, il dibattito generatosi attorno al problema dello «Stato Ficcanaso» si concentra generalmente attorno alle dinamiche di intrusione da parte dello Stato nella sfera privata dei cittadini. Dall’inserimento indiscriminato di ogni individuo nella lista dei potenziali «terroristi», alla sistematica raccolta di qualsiasi informazione (andando così a creare, per ogni individuo, i celeberrimi «profiling»). Tali accuse sono certamente corrette, tuttavia denotano una visione che si limita al lato individuale del problema. La sorveglianza di massa presenta infatti una seconda dimensione, ben più grave della prima poiché di carattere collettivo e, come tale, squisitamente di classe: siamo infatti di fronte ad una forte divisione e una esplicita discriminazione sociale. A titolo di esempio, negli USA dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 la cerchia dei potenziali terroristi si è allargata al campo di chiunque appartenesse alla categoria dei musulmani. Questa «classificazione del sospetto», se da un lato non ha alcuna utilità effettiva - di musulmani al mondo ve ne sono più di 1,5 miliardi e il rischio è dunque semplicemente quello di allargare le maglie ●●

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della sorveglianza a scapito dei possibili risultati concreti -, dall’altra, per le vittime, comporterà l’emergere di un fattore di esclusione, sia rispetto alla collettività (che vedrà qualsiasi membro di tale categoria come un potenziale terrorista, da cui l’esacerbarsi del populismo xenofobo), sia da sé stessi (i sorvegliati stessi potranno essere inclini ad evitare di compiere anche le azioni più basilari e legittime, arrivando addirittura ad auto-colpevolizzarsi per comportamenti in sé assolutamente normali). Tutto questo va a snaturare la vita democratica di un paese, in quanto i sorvegliati eviteranno in misura sempre maggiore di partecipare alla vita sociale, così come di esprimere le proprie opinioni e rivendicare i propri diritti. E tutto ciò non solo non va a impedire eventi quali le recenti stragi di Parigi, ma indebolisce proprio la resistenza delle fasce popolari, spinte a ritirarsi nel privato e così a rifuggire dalla mobilitazione sociale e civile: in questo modo, evidentemente, si spiana la strada alla «guerra fra poveri», nell’ambito della quale la diffidenza per lo straniero prevale sulla solidarietà di classe. Il securitarismo non significa dunque solo controllo poliziesco sui cittadini: esso è anche funzionale nell’ottica di scongiurare potenziali forme di resistenza all’ordine costituito. E quindi? La sorveglianza di massa è da sempre presente nella società: la presunta lotta al terrore ha semplicemente potenziato tale processo e funge da perfetto alibi per l’annullamento dei diritti alla privacy, garantendo invece il mantenimento del controllo sociale. Se da un lato non si può negare la difficoltà di bloccare organizzazioni criminali che operano sempre di più attraverso una struttura a rete e a cellule, quindi complessa da delineare e da reprimere, dall’altro non dobbiamo scordare che chi ha creato questi pericoli è lo stesso che oggi pretende maggiore sorveglianza. Da Al-Qaeda creata dalla CIA negli anni ‘80 per rovesciare il socialismo afghano, all’odierno Daesh armato e finanziato dai governi di Washington e Parigi per rovesciare il socialismo arabo in Libia e Siria7 – e Berna, dal canto suo, rispetto a queste dinamiche, ha mostrato troppo spesso una neutralità claudicante. La sinistra deve insistere nel denunciare le operazioni di sorveglianza ad ampio spettro. Esse sono infatti pericolose per la democrazia, poiché minano i principi liberal-democratici su cui si fonda il nostro Paese. Per questo motivo, al fine di evitare il varo della nuova Legge sul Servizio di Informazioni, occorre sostenere il referendum “No allo Stato Ficcanaso”. Nel contempo risulta molto importante rivendicare un maggiore controllo sugli organismi preposti a tale sorveglianza, troppo spesso lasciati nelle condizioni di abusare del proprio potere. ●●

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Per un approfondimento, rimandiamo all’intervista a Werner Carobbio presente sul presente numero di #politicanuova.

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Lo conferma un documento ufficiale dell’Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012. Esso riporta che «i paesi occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione che tentano di controllare le aree orientali, adiacenti alle province irachene occidentali», aiutandole a «creare rifugi sicuri sotto protezione internazionale». C’è «la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime siriano». Il documento conferma che l’Isis, i cui primi nuclei vengono dalla guerra di Libia, si è formato in Siria, reclutando soprattutto militanti salafiti sunniti che, finanziati da Arabia Saudita e altre monarchie, sono stati riforniti di armi attraverso una rete della Cia (documentata, oltre che dal New York Times, da un rapporto di «Conflict Armament Research»). Fonte: http:// goo.gl/Jmd7Sc


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Le politiche fiscali: vessatrici imperterrite della protezione sociale? Rocco Brignoli

1

P. Y. Greber, “Protection sociale”, in J.-P. Fragniere, R. Girod, Dictionnaire suisse de politiques sociales, Éditions Réalités sociales, Lausanne, 1998, p. 170.

2

R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Librairie Arthème Fayard, Paris, 1995.

3

Ivi, p. 22 (traduzione libera).

4

F. Bertolozzi, G. Bonoli e B. Gay-des-Combes, La réforme de l’État social en Suisse. Vieillissement, emploi, conflit travail-famille, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne, 2005, p. 37.

●● Introduzione La fine del secondo conflitto mondiale sancisce lo stato sociale come pilastro fondamentale di ogni nazione dell’Europa occidentale. La sua creazione può essere storicamente considerata come una contromisura politica di fronte all’aumento delle proteste operaie contro l’indigenza di massa causata da un processo d’industrializzazione senza regole1. Attraverso molteplici forme istituzionalizzate di copertura, lo stato sociale ha la funzione di garantire alla popolazione protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale. Lo stato sociale odierno è quindi per lo più un’eredità della fase di crescita del dopoguerra. Per quanto soggetto a numerose controversie, tale sistema riveste un ruolo cardine nella solidarietà, nella protezione e nella parziale ridistribuzione della ricchezza fra cittadine e cittadini. Esso possiede infatti un’importanza cruciale nella coesione sociale2. Oggi, tuttavia, questa istituzione è profondamente rimessa in discussione. In queste pagine è analizzata l’evoluzione della protezione sociale, con un’attenzione particolare sul legame diretto e per lo più occulto che sussiste fra riforme fiscali e riforme sociali. L’invito è altresì quello di riflettere sulle cause alla base del lento e progressivo indebolimento – per non dire smantellamento – dello stato sociale elvetico.

La sicurezza dell’incertezza Sebbene lo stato sociale ricopra un ruolo fondamentale nella protezione di ogni persona e di conseguenza nella stabilità politica e sociale di ogni nazione, tale istituzione è oggigiorno profondamente rimessa in discussione. Il monopolio statale della protezione sociale sembra ormai essere un lontano ricordo. Effettivamente, anche se con differenze sostanziali nelle diverse nazioni, non si può che costatare un’ingerenza sempre maggiore degli attori privati nell’assistenza alla popolazione bisognosa. Nell’era del neoliberismo sovrano, la protezione provvidenziale europea si sta gradualmente allineando al modello statunitense, ed è così che si può assistere alla rievocazione di una solidarietà d’altri tempi basata sul modello caritatevole. L’incertezza del futuro sembra ormai essere la sola sicurezza che rimane a ogni individuo in un’Europa in balia di una situazione socio-economica marcata dalla crisi. Di fronte a questa precaria situazione, lo stato e la politica si dimostrano per lo più inadatti nell’ottica di trovare delle soluzioni concrete a ●●

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sostegno della popolazione; questi soggetti, in tal senso, si limitano ad imputare le cause di tali contraddizioni ai mutamenti della società. ●● Anziani-migranti-truffatori: una crisi ben più complessa Negli ultimi decenni, in conseguenza delle nuove logiche sociali ed economiche, i dispositivi di protezione sociale europei hanno subito un’involuzione che ne ha sempre più indebolito l’efficacia. La solidità finanziaria di questi sistemi di protezione è sempre meno tale e le innumerevoli ristrutturazioni che si susseguono a ritmo estenuante si riducono essenzialmente alla compressione delle prestazioni. Queste manovre, tra le altre cose, contribuiscono a rendere maggiormente precaria la condizione delle fasce vulnerabili della popolazione. E tale tendenza non risparmia neanche la Svizzera. Invecchiamento della popolazione, aumento della disoccupazione, disoccupazione giovanile, aumento delle richieste di assistenza, flussi migratori, metamorfosi del concetto di famiglia, esplosione dei costi della sanità, abuso delle prestazioni, sono alcune delle cause che vengono principalmente associate, dai media e dalla politica, alla crisi dello stato sociale. È ormai lecito domandarsi se lo stato sociale odierno sia ancora realmente adeguato per fronteggiare i numerosi rischi sociali che affliggono la popolazione. A questo interrogativo non si può rispondere in termini semplicistici: l’analisi del sistema di protezione sociale ingloba molteplici campi di analisi (economici, politici, sociali, geopolitici, etici, etc.). A livello accademico vi è quantomeno unanimità nel constatare il vero e proprio immobilismo politicoistituzionale di fronte alla necessità di radicali riforme del sistema di protezione sociale: e si tenga conto che stiamo parlando di trasformazioni fondamentali nell’ottica di far fronte alle nuove esigenze della popolazione. In una delle sue opere più celebri, il sociologo francese R. Castel, si mostra perentorio al riguardo: la collettività si trova dinanzi a un bivio, «accettare che un’intera società sia sottomessa alle esigenze dell’economia, oppure edificare uno stato sociale che sia in grado di far fronte alle nuove sfide». Secondo lo stesso autore il consenso alla prima opzione non può essere escluso ma va aggiunto che ciò «porterebbe al crollo della società salariale, ovvero a quell’inedito assemblaggio di lavoro e di protezioni che tanto è costato prima che venisse costituito»3. ●● Un sistema economico antisociale Lo studio dell’attuale crisi dello stato sociale deve essere focalizzato in primis sul mutamento della struttura economica successivo alla crescita eccezionale del dopoguerra. Infatti le trasformazioni avvenute nella società postindustriale4 hanno esercitato ed esercitano tuttora una pressione enorme sullo stato


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sociale5. Esse hanno peraltro luogo in un mondo globalizzato, dove l’integrazione internazionale dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali rafforza l’interdipendenza delle economie, indebolendo così la sfera d’influenza degli Stati nel controllo dell’economia stessa6. La situazione economica globale genera altresì un clima di competizione estrema che, a sua volta, è la causa principale dell’esasperata concorrenza fiscale internazionale e nazionale. Secondo il sociologo belga D. Vrancken7, le battaglie intranazionali e internazionali nell’accaparrarsi i capitali e le aziende stanno inevitabilmente ridimensionando lo stato sociale, il quale, al contempo, viene additato come responsabile principale della crisi delle finanze pubbliche e del rallentamento della crescita economica. La politica delle “casse vuote” Per quel che concerne la Svizzera, il sistema di assicurazione sociale (AVS, AI, AD, etc.) si finanzia soprattutto attraverso le contribuzioni della popolazione attiva e, nel caso dei lavoratori salariati, grazie alle rispettive contribuzioni del datore di lavoro. Tuttavia si tende sovente a ignorare che la Confederazione partecipa in modo rilevante al finanziamento di tali assicurazioni. Ad esempio, per quel che concerne l’AVS, la Confederazione, attraverso le imposte federali, emette un finanziamento (corrispondente al 19,55% del budget) 8. Inoltre, alcuni sistemi di protezione sociale, quali ad esempio l’assistenza, esistono esclusivamente grazie all’imposizione fiscale. E va sottolineato, a tal proposito, che in futuro, nel finanziamento del sistema previdenziale elvetico, l’imposizione fiscale giocherà un ruolo sempre più preponderante: ciò anche e soprattutto in ragione dei mutamenti legati alla globalizzazione economica, la quale porta con sé l’affermarsi di un mercato del lavoro maggiormente delocalizzato, deregolamentato e automatizzato. Pure in Svizzera la lettura della crisi dello stato sociale passa quindi, forzatamente, dal sistema d’imposizione fiscale. Secondo lo storico svizzero S. Guex il sistema fiscale e le sue continue riforme costituiscono una fonte primordiale delle molteplici problematiche che affliggono lo stato sociale elvetico9. Sempre secondo costui, la Confederazione ha adottato una vera e propria politica delle “casse vuote”, a cui si lega la tendenza all’affermarsi di uno “Stato povero” che, evitando la bancarotta, promuove permanentemente e volontariamente una situazione finanziaria instabile. Secondo Guex, negli ultimi decenni le istituzioni elvetiche si sarebbero altresì adoperate nel favorire i deficit di bilancio tendendo a stabilizzare il livello della pressione fiscale. Al contempo, rimettendo in discussione la struttura stessa del carico fiscale, negli ultimi decenni si sarebbero favoriti i detentori di capitali a discapito della maggioranza dei salariati10. ●●

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Le politiche fiscali sotto la lente d’ingrandimento ●●

Uno studio promosso dall’Associazione romanda e ticinese delle istituzioni di azione sociale (ARTIAS)11 – frutto di un’attenta lettura di migliaia di pagine di messaggi del Consiglio federale, di deliberazioni parlamentari e di vari dossier – ha permesso di comparare il ritmo, i costi e il contenuto delle principali riforme fiscali e sociali messe in atto negli ultimi decenni a livello federale. Lo studio ha evidenziato chiaramente l’esistenza di una correlazione diretta fra diminuzione delle ricette fiscali federali e misure di risparmio realizzate nell’ambito della protezione sociale. Interessandosi in particolar modo alla concordanza temporale che lega le riforme fiscali e sociali, l’ARTIAS ha così posto sotto la lente d’ingrandimento il ritmo, i costi e i contenuti di tali riforme. Secondo M. Kurth, redattrice dello studio, nessuno sarebbe in grado di quantificare i costi reali e i benefici delle varie riforme in ambito sociale - aventi tutte, come denominatore comune, il deterioramento delle loro prestazioni. In altre parole, secondo lo studio in questione, non ci sarebbe una vera e propria verifica degli effetti di tali riforme sui vari dispositivi sociali rispetto ai quali si è voluto intervenire per contenere i costi. Ad esempio, per quel che concerne l’assicurazione invalidità, nel giugno del 2004 è entrata in vigore la quarta revisione dell’assicurazione. Il messaggio concernente la quinta revisione è datato giugno 2005 e nel 2008 la riforma era già entrata in atto. Senza poterne valutare realmente gli effetti, nel 2009 il Consiglio federale aveva elaborato il messaggio per la sesta revisione (6a). Rispettivamente, le riforme fiscali, volute dal Consiglio federale e dal parlamento per ostacolare al minimo l’attività economica, hanno seguito una simile tempistica12. Chi ci perde e chi ci guadagna? Secondo M. Kurth, il legame esistente fra riforme fiscali e sociali spiegherebbe una parte importante del costante deficit della Confederazione, generato per mezzo di “regali” fiscali e grazie alla diminuzione delle entrate che vi sono corrispondenti. E, a questo proposito, non è un segreto che le cerchie dominanti dell’economia e della politica sono intenzionate a mantenere l’imposizione fiscale la più moderata possibile. La fiscalità svizzera segue inoltre una tendenza generale nella quale la progressiva sostituzione del principio dell’imposta diretta in funzione della capacità contributiva viene ad essere compensata con tassi e contribuzioni a tutti i livelli di reddito13. Assottigliamento dell’imposizione, aumento della tassazione e lento e progressivo indebolimento dello stato sociale; benché nessuno possa provare con certezza i benefici reali per l’intera collettività delle diminuzioni fiscali, esse si susseguono a un ritmo este●●

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R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale, cit.

6

F.-X. Merrien, “L’État-providence” in F. Bertolozzi, G. Bonoli e B. Gay-des-Combes, La réforme de l’État social en Suisse. Vieillissement, emploi, conflit travailfamille, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne, 2005, p. 37

7

D. Vrancken, Social barbare, Éditions Couleur livres, Charleroi, 2010.

8

Si veda il sito dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (UFAS), http://goo.gl/ qN3mYA (consultato il 31.01.2016).

9

S. Guex, “‘La politique des caisses vides’. État, finances publiques et mondialisation”, Actes de la recherche en sciences sociales, n° 146-147, 2003.

10

Ivi, p. 58.

11

M. Kurth, “Qui perd, qui gagne? 20 ans de réformes fiscales, 20 ans de réformes des assurances sociales”, ARTIAS, Les dossiers du mois, novembre 2011.

12 Ivi, p. 4. Per avere più esemplificazioni e spiegazioni a riguardo, rinviamo allo studio ARTIAS liberamente consultabile in francese: http://www.artias.ch 13

M. Kurth, “Qui perd, qui gagne? 20 ans de réformes fiscales, 20 ans de réformes des assurances sociales”, cit., p. 4.


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F. Bertolozzi, G. Bonoli e B. Gay-des-Combes, La réforme de l’État social en Suisse. cit., p. 11.

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nuante. L’evoluzione del mercato del lavoro e della struttura demografica contribuiscono altresì a rimettere in discussione le forme classiche dell’intervento pubblico elvetico14. Preoccupante è inoltre il fatto che le varie forme di lavoro precario non garantiscano più delle contribuzioni stabili al sistema d’assicurazione sociale elvetico quando, al contempo, la percentuale di popolazione non attiva per diritto acquisito è sempre più elevata. Anche in Svizzera il funzionamento dello stato sociale e, di conseguenza, il suo finanziamento, sono letteralmente in panne. Tale situazione finanziaria non permette più di sostenere veramente l’attuale sistema né tantomeno consente di affrontare le radicali riforme che sarebbero indispensabili. Lo stato sociale si mostra incapace di far fronte in modo adeguato ai nuovi bisogni di una società in metamorfosi, con una popolazione sempre più vulnerabile. Conclusione Attualmente l’ambito relativo alla fiscalità si muove secondo una dinamica sostanzialmente contrapposta a quella dello Stato sociale, sia promuovendone indirettamente un lento ma graduale smantellamento, sia impedendo il necessario adeguamento di tal istituzione ai parametri della nuova fase storica. È necessario invertire la rotta: lo Stato sociale, in un prossimo futuro caratterizzato da incertezze materiali consistenti, sarà ancora chiamato a svolgere un ruolo fondamentale nell’ottica di garantire la coesione sociale, ed è per ciò che occorre chinarsi in modo prioritario sulla sua rivitalizzazione. D’altro canto appare altrettanto ovvio come uno Stato sociale forte e al passo coi tempi non possa essere visto come la soluzione a tutte le contraddizioni socio-economiche: occorre, in tal senso, agire alla radice e, concretamente, creare le condizioni per la definizione di un mercato del lavoro che sia in grado di offrire retribuzioni proporzionate alle necessità degli individui e delle famiglie. ●●

1

S.n., “I numeri della sinistra di classe in Svizzera”, sinistra.ch, 20 ottobre 2015 (http://goo. gl/LP7ZOA).

2

Vale la pena ricordare che le sezioni cantonali del PSdL hanno diverse denominazioni: Partito del Lavoro (PdL) nei cantoni della Svizzera tedesca e a Ginevra, Nuovo PdL a Basilea (in contrapposizione all’ex-sezione ufficiale, epurata nel 1988 dalla direzione nazionale, oggi chiamata PdL 1944), Partito operaio e popolare (POP) in canton Vaud, Neuchâtel e ormai anche in Ticino, e CS-POP in canton Giura (dopo la recente fusione con il movimento Combat socialiste).

3

Va segnalato che il successo della Linke tedesca e l’insuccesso della Sinistra possono essere spiegati dalle diverse condizioni di partenza in cui hanno operato questi partiti (supporto elettorale nelle regioni della ex-DDR vs. Svizzera paese storicamente anticomunista, Linke unione di partiti socialisti vs. La Sinistra unione di partiti e movimenti comunisti di diverso orientamento).

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I partiti della sinistra alternativa in Svizzera Damiano Bardelli Molte lotte in favore dei lavoratori, dell’ambiente e delle minoranze (etniche, di genere e di orientamento sessuale) vanno combattute su scala nazionale. I comunisti ticinesi e grigionesi devono quindi familiarizzarsi con i loro potenziali interlocutori d’oltralpe. Il compito però non è facile: la sinistra alternativa in Svizzera è fortemente frammentata e i recenti tentativi di riunirla in un unico partito si sono finora rivelati infruttuosi. Tuttavia, è possibile identificare le principali forze politiche con le quali sarà fondamentale collaborare in futuro.

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Geografia della sinistra alternativa

In Svizzera, la situazione dei partiti e movimenti alla sinistra della socialdemocrazia è molto particolare. Come sottolineato da un articolo di analisi del risultato delle Elezioni federali pubblicato lo scorso mese di ottobre sul portale sinistra.ch, «le forze della sinistra di classe in Svizzera sono estremamente deboli e frastagliate cantone per cantone»1. Il Partito svizzero del Lavoro (PSdL) – solo partito alla sinistra della socialdemocrazia ad aver mai operato su scala nazionale – è ormai ridotto ad una rete di sezioni cantonali più o meno indipendenti2 e sta vivendo una crisi di consensi nella maggior parte delle regioni. Inoltre, il recente tentativo di unire tutte le forze della sinistra radicale in un unico partito sotto il nome “Alternative Linke – La Gauche – La Sinistra” si è finora rivelato infruttuoso, contrariamente al modello da cui trae ispirazione, vale a dire la Linke tedesca3. Va sottolineato che la tendenza alla frammentazione dei partiti di sinistra occidentali è rinforzata in Svizzera dal federalismo, per il quale l’attività politica ha luogo principalmente su scala cantonale. Nella Svizzera italiana, operano principalmente due forze politiche della sinistra radicale: il Partito Comunista (PC, epurato a fine 2014 dal PSdL, di cui era lo storico rappresentante nella regione), che conta un rappresentante nel parlamento cantonale ticinese e un deputato supplente in quello grigionese, e il Movimento per il Socialismo (MPS), di ispirazione trotskista, rappresentato anch’esso nel parlamento ticinese da un deputato brillantemente rieletto alle ultime elezioni su una lista comune con il PC. Il PSdL è oggi rappresentato in Ticino da una nuova formazione politica, il POP, che va ad aggiungersi alla costellazione delle forze politiche radicali di cui fanno parte anche il Collettivo Scintilla e la Sinistra Anticapitalista. A nord delle Alpi, i partiti e movimenti della sinistra alternativa sono presenti e attivi principalmente nei più grandi centri urbani del paese – dove risiede una popolazione tendenzialmente progressista – e nelle regioni nelle quali una parte consistente della popolazione è storicamente occupata nel settore secondario. Il principale rappresentante della sinistra radicale nel canton Zurigo è il partito Alternative Liste (AL), che conta diversi deputati nel parlamento cantonale e nei legislativi comunali dei grandi centri urbani della regione, e che alle recenti elezioni federali è arrivato a un soffio dall’eleggere in Consiglio nazionale il suo rappresentante di maggior spicco, Markus Bischoff. AL è anche ben presente nel piccolo canton Sciaffusa, dove conta cinque rappresentanti nel parlamento cantonale e dove ha ottenuto il 4,4% dei suffragi alle ultime elezioni nazionali. Nel canton Berna la situazione è differente, visto che i partiti della sinistra radicale sono fortemente frammentati e in conseguenza marginali sul piano istituzionale: basti pensare che alle recenti elezioni


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federali il PdL ha raccolto meno consensi del Partito pirata o della Gioventù socialista (JUSO)4. Va sottolineato che i partiti della sinistra alternativa del cantone (PdL, Alternative Linke e gli ecologisti radicali di Demokratische Alternative) sono presenti quasi esclusivamente nella città di Berna. Il cantone di Basilea Città è l’unica altra regione della Svizzera tedesca nella quale una forza della sinistra alternativa è rappresentata nelle istituzioni e sembra vivere un momento di crescita. Il riferimento ovviamente non è allo storico PdL 1944, né al Nuovo PdL – i quali sono ormai prossimi all’estinzione a causa della scarsa lungimiranza del PSdL5 – ma a BastA! (acronimo che sta per “Basels starke Alternative”, l’alternativa forte di Basilea), partito affiliato su scala nazionale ai Verdi svizzeri, che alle federali dello scorso ottobre è riuscito a portare in Consiglio nazionale la giovane giurista di origine curda Sibel Arslan. In Svizzera romanda la situazione è diversa, visto che i partiti della sinistra radicale vi sono ben impiantati da lungo tempo, perlomeno nel canton Ginevra, nel canton Vaud (quasi esclusivamente nell’agglomerato losannese) e nella regione industriale dell’Arco giurassiano, che tocca sia il canton Neuchâtel che il canton Giura. A Ginevra operano principalmente il PdL e il movimento solidaritéS, che negli ultimi anni hanno dato vita a una proficua collaborazione sotto la bandiera di “Ensemble à gauche”, eleggendo rispettivamente quattro e cinque deputati al parlamento cantonale alle ultime elezioni. Stessa situazione in canton Vaud, dove il POP in crisi di consensi collabora sia a livello comunale che cantonale con solidaritéS. Quest’ultimo è in leggera crescita nella città universitaria di Losanna soprattutto grazie al suo radicamento nella comunità studentesca. Nel canton Neuchâtel e nel canton Giura, invece, sono le locali sezioni del PSdL a essere maggiormente presenti, specialmente nelle regioni di La Chaux-de-Fonds, Le Locle (NE) e Delémont (JU). Alle elezioni federali dello scorso ottobre, il POP di Neuchâtel ha ottenuto l’eccellente risultato del 12,2% dei suffragi, eleggendo il suo rappresentante Denis de la Reussille al Consiglio nazionale grazie a un apparentamento di lista con i Verdi. ●● Storia e idee della sinistra alternativa Le divisioni tra questi partiti e movimenti nascono nel contesto politico della Guerra fredda, quando la sinistra di opposizione era divisa essenzialmente tra il PSdL – vicino all’URSS – e le principali forze della nuova sinistra nate sulla spinta della contestazione giovanile del ’68, vale a dire il Partito Socialista Autonomo (PSA) in Ticino, le Organizzazioni progressiste della Svizzera (POCH) in Svizzera tedesca, e la Lega marxista rivoluzionaria (LMR, poi Partito Socialista dei Lavoratori) in Svizzera romanda6. Membro della Sinistra Europea, il PSdL si batte tra le altre cose per un miglioramento delle condizioni dei lavoratori (introduzione di un salario mini-

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mo nazionale, settimana lavorativa di 35 ore, uguaglianza salariale tra uomo e donna, etc.) e per un rafforzamento dello stato sociale (introduzione di una cassa malati pubblica, asili nido gratuiti, rinforzo del congedo paternità/maternità, etc.)7. L’ultimo programma del partito rivendica anche una revisione degli accordi con l’Unione Europea, ma la posizione del PSdL sull’UE è piuttosto ambigua8. Dal punto di vista ideologico, il partito oscilla tra l’eurocomunismo ed il marxismo-leninismo: come detto, il partito non ha più una linea politica nazionale definita e le posizioni delle diverse sezioni cantonali differiscono tra loro. Malgrado sia tendenzialmente in difficoltà anche in roccaforti storiche come Ginevra e Vaud, il PSdL rimane un attore importante della sinistra radicale in Svizzera, essendo l’unico partito ramificato in tutte le regioni linguistiche del paese. Erede dei POCH9, AL si presenta ormai con un attore importante della sinistra alternativa in Svizzera tedesca: da quando è stata istituita come partito cantonale a Zurigo a inizio 2007, non cessa di crescere di elezione in elezione e si è espansa al di là dei confini del cantone. AL non ha un’impostazione ideologica chiaramente definita: la sua strategia politica è costruita attorno a delle lotte concrete, tra le quali vanno segnalate quella per l’apertura di asili nido accessibili a tutti, quella per la creazione di alloggi a pigione moderata, e quella per l’abolizione dei forfait fiscali nel canton Zurigo, sulla quale aveva lanciato un’iniziativa approvata poi in votazione popolare nel febbraio 2009 dal 52,9% dei votanti. L’AL di Zurigo pubblica a scadenze irregolari (da 4 a 6 numeri l’anno) un foglio informativo di 8 pagine, i cui contenuti portano abitualmente sui soggetti in votazione a livello federale e cantonale e sull’attività dei rappresentanti del partito nelle istituzioni10. BastA! di Basilea è un altro partito nato dalle ceneri di una sezione dei POCH, fondata nel 1995 su iniziativa di diversi membri della sezione locale delle Organizzazioni progressiste, disciolta due anni prima. Membro dei Verdi svizzeri, BastA! è un’entità politica indipendente dai Verdi di Basilea, ma i due partiti si presentano abitualmente su delle liste unitarie sotto il nome di “Alleanza verde”. Come AL, BastA! non ha una linea ideologica chiaramente definita, ma a differenza dei compagni zurighesi, essa conduce delle battaglie meno concrete e le sue rivendicazioni sono in conseguenza più vaghe. Pur facendo parte dei Verdi, BastA! si distingue per il suo interesse per le questioni di politica sociale (difesa dello stato sociale e dei diritti dei più deboli) più che per i temi ambientali11. SolidaritéS nasce a Ginevra nel 1992 dalla fusione tra la sezione locale del Partito Socialista dei Lavoratori e il gruppo Rupture pour le communisme, di ispirazione maoista. Dopo aver stabilito un’alleanza di successo a Ginevra con il PdL per tutta la durata degli anni ’90, solidaritéS ha preso piede anche in canton Vaud e Neuchâtel nel corso degli anni 2000. Malgrado sia ben lontano dal settarismo della

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Il PdL, principale rappresentante della sinistra radicale a queste elezioni a Berna, si è fermato a un misero 0,5% a fronte dello 0,9% del Partito pirata e dello 0,8% della JUSO (sezione giovanile della socialdemocrazia).

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Nel 1988, il PSdL decise di espellere la sezione basilese, in rotta con il partito nazionale, e creò una nuova sezione cantonale composta da membri allineati sulle posizioni della direzione centrale. Le conseguenze di questa scelta sciagurata sono oggi ben visibili. Strano che nessuno ci abbia pensato quando si è deciso di fare la stessa cosa in Ticino, espellendo il PC e fondando il POP. Riguardo l’esclusione della sezione di Basilea Città dal PSdL e la crisi vissuta dal partito in quegli anni, si veda André Rauber, Histoire du mouvement communiste suisse. Tome II (19441991), Slatkine, Ginevra, 2000, p. 474 ss.

6 A differenza del PSA e dei POCH, la LMR era presente su scala nazionale ma era fortemente radicata solo in Svizzera romanda, dove il partito aveva preso origine. Il nome Partito Socialista dei Lavoratori venne adottato nel 1980, quando il partito cominciò a distanziarsi dalle sue posizioni rigidamente trotskiste dei primi anni. Si veda Benoît Challand, La Ligue marxiste révolutionnaire en Suisse romande (1969-1980), Chaire d’histoire contemporaine de l’Université de Fribourg, Friburgo, 2000. 7

L’ultimo programma del PSdL, elaborato in vista delle elezioni federali dello scorso anno, è disponibile sul sito del partito, all’indirizzo http://goo.gl/SlvAG3.


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Come la Sinistra Europea, il PSdL auspica un cambiamento dell’UE in senso democratico, agendo però entro i limiti concessi dagli accordi che attualmente definiscono il quadro istituzionale dell’Unione. Va anche segnalato che nel 2009, le tesi (critiche) uscite dalla Conferenza nazionale del PSdL sull’UE furono bloccate dai vertici del partito.

9

AL nasce come lista della sinistra radicale alle elezioni comunali di Zurigo del 1990 su iniziativa di Niklaus Scherr, membro di spicco della sezione zurighese dei POCH. Quest’ultima era stata sciolta quello stesso anno.

10

Tutti i numeri della rivista sono disponibili in formato pdf sul sito della sezione zurighese di AL, all’indirizzo http://goo. gl/XQrS8A. 11

Per le rivendicazioni di BastA!, si veda il sito ufficiale del partito all’indirizzo http://goo. gl/Llj2ZK.

12 Il programma di solidaritéS è disponibile sul sito del movimento, all’indirizzo http://goo. gl/YyZRo9. 13

Più di quanto non lo fossero per esempio le forze politiche che hanno portato alla nascita della Linke tedesca.

14

Mathieu Signorell, “Le label La Gauche divise à l’extrême gauche”, 24 heures, 16 maggio 2015, p. 10.

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LMR, solidaritéS ha un impianto ideologico ben definito basato essenzialmente su una rilettura contemporanea del trotskismo, cosa che si riflette nel suo status di osservatore permanente nel Segretariato Unificato della Quarta Internazionale, oltre che nel programma scaturito dal primo congresso interregionale di solidaritéS del marzo 200912. Il forte comparto ideologico di solidaritéS deve parecchio ai numerosi esponenti del mondo accademico che ne fanno parte, come i professori Jean Batou e Sébastien Guex. Se questo facilita il radicamento del movimento tra gli intellettuali e gli studenti, sembra al contempo alienargli le classi popolari, il che ovviamente è paradossale se si tiene conto della sua linea politica incentrata sul ruolo delle masse. SolidaritéS pubblica un omonimo bimensile concepito come uno strumento di controinformazione rispetto alla stampa di massa. Il giornale può contare sull’appoggio di numerosi redattori e collaboratori che nella maggior parte dei casi svolgono il ruolo di ricercatori negli atenei di Ginevra e Losanna. Che fare? Di fronte alla necessità di collaborare con altre forze politiche della sinistra alternativa per portare avanti alcune delle proprie lotte, i comunisti devono porsi questa fatidica domanda: che fare? Se il progetto della Alternative Linke – La Gauche – La Sinistra ha confermato la volontà dei partiti della sinistra radicale di collaborare tra loro senza però rinunciare alle loro peculiarità, al contempo ha dimostrato quanto sia difficile unire in tempi brevi delle forze geograficamente e storicamente – e in parte ideologicamente – divise tra loro13. La forzatura nella tempistica può in parte essere attribuita all’ex-consigliere nazionale vodese del POP Josef Zisyadis, principale promotore del progetto, e a Frédéric Charpié, attuale coordinatore de La Sinistra. A quest’ultimo, inoltre, si rimprovera di aver imposto dall’alto una linea politica alla nuova formazione, oltre che di ergersi a portavoce universale della sinistra alternativa in Svizzera senza averne l’autorità14. La via da seguire sembrerebbe essere quella di lavorare su progetti concreti con altre forze politiche con le quali ci sono dei punti di convergenza. Perché ciò possa essere efficace, è fondamentale al tempo stesso unire le forze della sinistra alternativa anche su scala regionale, di modo che queste forze non siano frammentate al punto da rendere impossibile il dialogo. Interessanti in questo senso sono gli esempi di Ensemble à gauche (POP+solidaritéS) in canton Vaud e Ginevra, della collaborazione tra POP e Verdi in canton Neuchâtel, e dell’alleanza tra BastA! e Verdi a Basilea (per quanto entrambi siano espressione dei Verdi svizzeri). Seguendo questa logica, non va in alcun modo incoraggiata la creazione di nuovi partiti o movimenti in contesti in cui la sinistra radicale è già ben radicata e sufficientemente frammentata. Dividere ●●

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ulteriormente la sinistra equivale a indebolire le possibilità di instaurare un dialogo e di portare avanti dei progetti comuni di politica nazionale. È utile piuttosto prendere coscienza delle posizioni degli altri partiti della sinistra in modo da individuarne i punti di convergenza e quelli di divergenza, per stabilire poi delle collaborazioni puntuali. L’instaurazione di un dialogo tra i partiti e i movimenti della sinistra alternativa è un prerequisito fondamentale per chiunque ambisca a creare una forza politica nazionale che possa incidere a livello istituzionale, che sappia mobilitare ampi strati della popolazione in occasione di referendum e iniziative popolari, e che tolga alla sinistra radicale quell’aura di marginalità che da troppo tempo la affligge.

Lugano e il pericolo di esternalizzare la socialità comunale Edoardo Cappelletti 1. La nascita dell’ente autonomo di diritto pubblico L’evoluzione della nostra società, creando nuove sfide, non può che imporre di trovare altrettante soluzioni. A questa massima non sfugge la gestione dei compiti dello Stato, il quale si trova confrontato con obiettivi e bisogni sempre crescenti. In questo senso, anche sul piano comunale si è giunti ad avvertire degli evidenti limiti operativi, che hanno portato nel 2009 all’attuazione della revisione parziale della Legge Organica Comunale (LOC). Tra le altre cose, la riforma ha previsto la possibilità di costituire enti di diritto pubblico con personalità giuridica propria, capaci di prendere decisioni attraverso i propri organi e ai quali viene affidato l’adempimento di un determinato compito comunale. Nel quadro di un mandato vincolante, al Comune si presenta così l’opportunità di operare attraverso un soggetto più dinamico, adeguato a perseguire un preciso obiettivo strategico e nel quale possono confluire maggiori competenze. È necessario riconoscere che si tratta di una gestione meno diretta di quella assicurata dai servizi comunali, ciononostante, sovente più efficace per investire in alcuni campi come quello socio-economico, turistico, culturale, ecc. La forma dell’ente autonomo, conciliando un’essenziale governance pubblica con un necessario margine di autonomia, ha perciò rappresentato un modello di gestione più avanzato per questo genere di attività. Per le stesse, prima che entrasse in vigore la revisione della LOC,


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i Comuni ricorrevano infatti alla forma della società anonima, compromettendo in questo modo un adeguato controllo democratico1. La facoltà di creare un soggetto esterno all’amministrazione, modulabile nei suoi obblighi e doveri, colmava quindi un limite delle precedenti organizzazioni comunali. Un limite che si scontrava con precise esigenze di flessibilità e, di conseguenza, solo con alcuni compiti che il Comune era tenuto a svolgere. Per questo motivo la modifica della LOC ha offerto un nuovo modello organizzativo che il Comune, tenuto conto di quelli già a disposizione, nonché dei rispettivi pro e contro, deve però sapere adottare in funzione della circostanza. 2. Un caso concreto: l’esternalizzazione della socialità comunale 2.1. Quadro generale Nel luglio del 2015 il Municipio di Lugano ha licenziato, senza voler destare particolare clamore, un messaggio richiedente la costituzione di un ente di diritto pubblico per la gestione degli Istituti Sociali Comunali (ISC). In sostanza, quanto viene proposto è un distaccamento della struttura degli ISC dal Comune per affidarne la gestione a un soggetto autonomo e separato dall’amministrazione. La governance comunale ne determina la strategia di fondo e l’organizzazione, delegando all’ente la parte operativa: in quest’ottica il legislativo è chiamato ad approvare il mandato di prestazione, la convenzione e lo statuto del nuovo soggetto. Il mandato di prestazione si occupa di regolare le modalità di finanziamento, di definire le prestazioni che l’ente produce a favore della cittadinanza e fissarne gli aspetti quantitativi e qualitativi. D’altra parte la convenzione stabilisce le condizioni quadro dei rapporti con il Comune, mentre lo statuto gli scopi, gli organi decisionali, il meccanismo di controllo e altre disposizioni relative al finanziamento. Nell’organizzazione dell’ente, denominato Lugano Attività Sociali, ricadrebbero le tre attuali sezioni degli ISC. In primo luogo quella sociosanitaria, che comprende sei case anziani con quasi 600 posti letto e ben 650 unità di personale. Sull’importanza di questa sezione va anche ricordato che, secondo le indicazioni del Consiglio di Stato sulla capacità d’accoglienza degli Istituti per anziani, a fine 2020 il fabbisogno del Luganese dovrà aumentare del 24%. L’ente raggrupperà inoltre la sezione socio-educativa, che include quattro nidi d’infanzia per un totale di 105 posti, e un centro educativo minorile, dove sono accolti 40 minori fra i 3 e 18 anni. Sarà infine accorpata la sezione di promozione e intervento sociale, dove rientrano il Servizio di Accompagnamento Sociale (costituito da assistenti sociali e curatori) e l’Ufficio d’Intervento Sociale (che si occupa di gestire l’istruzione di richieste per le prestazioni sociali cantonali). Più in generale, vale la pena osservare che l’attuale sistema di finanzia-

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mento prevede già un contratto di prestazione fra le case per anziani e il centro educativo minorile con il Dipartimento della Sanità e Socialità (DSS). Per contro, i nidi d’infanzia sono principalmente finanziati dalle rette degli utenti e dal contributo fisso dal Cantone, mentre la sezione di promozione e intervento sociale viene pienamente finanziata dalla Città di Lugano2. 2.2. La socialità: un caso con le sue peculiarità Neanche a dirlo si tratta di un settore assai delicato che, toccando gli strati più fragili della popolazione, corrisponde oltretutto alla spesa più ingente della città. Non v’è pertanto da stupirsi se, gettando uno sguardo verso gli altri comuni svizzeri, progetti di così vasta portata sono tutt’altro che la regola. Per questi motivi, sull’opportunità di esternalizzare la socialità comunale, hanno manifestato prudenza anche i responsabili di tutti i partiti presenti in Consiglio comunale. Delegando a un ente autonomo dei compiti del Comune si crea infatti un’esternalizzazione che, come approfondiremo, non può che assottigliare il controllo pubblico sull’esecuzione degli stessi. Al proposito è significativo il seguente passaggio di Eros Ratti, il quale, se riferito al nostro caso, offre un’autorevole e attenta riflessione proprio su tale concetto. «In forza di ciò è nata la tendenza di delegare ad altri, per ragioni di razionalità, di praticità e di comodità compiti e decisioni sinora prerogative dei Comuni. [...] Tendenza che si è talvolta spinta e si spinge verso soluzioni di trasferimento a terzi di compiti propri [...]. Queste tesi partono dal presupposto che oggi, anche presso il Comune, pur nel rispetto dei contenuti democratici del nostro ordinamento, sono assai più determinanti la rapidità d’esecuzione, la razionalità, l’efficienza e la professionalità. Tesi le quali, malgrado le buone intenzioni, non sono sempre state paganti e hanno vieppiù concorso a indebolire l’autonomia comunale [...]. Di qui alla perdita graduale e totale dell’autonomia comunale il passo è breve»3 . Nell’analisi di questo scenario, l’esposizione del Municipio denota però un’inspiegabile leggerezza, nonché un’ingenerosa approssimazione nelle conclusioni. Anche dal messaggio municipale si può constatare come il rischio di vedere limitato il controllo del Comune viene fortemente relativizzato, se non addirittura neanche menzionato; appaiono inoltre difficilmente comprensibili, dati gli inconvenienti di queste esternalizzazioni, i vantaggi che si otterrebbero rispetto alla gestione odierna degli ISC. Limitandosi a elencare gli elementi qualificanti di un ente autonomo viene appunto da chiedersi se, a fronte di una diminuita capacità di controllo del Comune, un aumento dell’autonomia degli ISC possa effettivamente servire a una migliore gestione della socialità comunale: sussiste il pericolo, insomma, che i rischi travalichino le possibili opportunità.

1

Messaggio 5897 del Consiglio di Stato, datato 6 marzo 2007, concernente la revisione parziale della Legge organica comunale (LOC) del 10 marzo 1987

2

Messaggio Municipale 9241, datato 6 luglio 2015, concernente la costituzione di un ente autonomo di diritto comunale per la gestione delle attività attuali degli Istituti Sociali Comunali, denominato Lugano Attività Sociali

3

Eros Ratti, Il Comune, organizzazione politica e funzionamento (Volume I), settembre 1987


4

Ibidem

La specificità dell’ente vuole infatti rispondere a esigenze di settori che richiedono, in virtù della loro attività, una maggiore reattività e flessibilità operativa (il ricorso a tale istituto per la gestione del LAC, ad esempio, risulta almeno più comprensibile). Diversamente, nel caso della socialità comunale, un’esternalizzazione presenta dei pericoli che vanno tenuti in considerazione, e che tenteremo ora di precisare. 2.3. Le concrete problematiche all’orizzonte L’eventualità di vedere compromesso un adeguato controllo sull’ente, nella gestione ordinaria ma anche nel monitoraggio della sua attività, risulta come detto molto probabile. Ne consegue che, perdendo un contatto diretto con la gli ISC, per le autorità comunali sarebbe anzitutto più difficile intervenire su controversie che coinvolgono una struttura autonoma. Va quindi previsto che, come verificatosi con situazioni analoghe, l’ente pubblico potrebbe non riuscire a esercitare le sue funzioni di controllo in tempo utile. A monte invece, risulta decisamente discutibile la scelta di sottoporre il preventivo alla sola approvazione del Municipio: come per gli altri ambiti, anche quello dell’ente dovrebbe poter essere esaminato dal Consiglio comunale. Stando allo statuto, all’ente è inoltre concessa la facoltà di stipulare contratti di prestazione e collaborazioni con altri attori giuridici, con il pericolo di allontanare ulteriormente l’influenza del Comune. Non è quindi esclusa una seconda esternalizzazione di compiti, la quale, segnando una potenziale apertura al settore privato, non potrà che vedere a sua volta coinvolti altri soggetti. Come si evince dal messaggio municipale, da questa facoltà deriva poi un ulteriore problema, legato all’incertezza delle condizioni lavorative di numerosi collaboratori. Mentre quelli sotto l’ente saranno assoggettati al Regolamento Organico dei Dipendenti (ROD), non sussistono invece garanzie per quelli che, per via delle possibili deleghe, do-

vranno invece sottostare a condizioni di lavoro esterne (non certo sempre favorevoli). Non da ultimo, un’incognita è riconducibile alle trattative in corso con il DSS, che mirano a consentire l’utilizzo degli utili d’esercizio delle case anziani e del centro minorile a beneficio di tutto l’ambito sociale. Qualora andasse in porto, una simile operazione sarebbe potenzialmente pericolosa in quanto potrebbe indurre l’ente, su spinta del Municipio, a conseguire utili a discapito delle prestazioni offerte dagli istituti; così facendo gli utili si potrebbero indirizzare verso i servizi a carico delle finanze comunali, al fine di sgravarle. 3. Conclusione Come esposto in entrata, l’ente autonomo si presenta come una forma organizzativa munita delle caratteristiche per confrontarsi in modo adeguato con determinate sfide riguardanti l’amministrazione comunale. Ciononostante, nel caso in esame, si è avvertita una discrepanza tra le finalità dello stesso e una prudente gestione della socialità comunale. Quelle che, paradossalmente, sono le peculiarità di un ente autonomo, rischiano in questo caso di essere inappropriate e gravide di incognite. Una perdita diretta del controllo sugli ISC, con tutte le conseguenze che ne derivano, non può quindi che incontrare delle robuste e sane resistenze: a esserne coinvolte sono le fasce più deboli della popolazione, che devono potersi affidare su servizi sicuri, equi e di prossimità. Bisogna insomma stare in guardia, quando si tratta di delegare ad altri delle prerogative del Comune: per dirla con Ratti, «nella misura in cui ci si convince sempre di più che «l’altra» soluzione è la migliore e che di questo «altro» (sia esso il Cantone, il consorzio o il Comune polo) non se ne può fare a meno, si cade automaticamente nella convinzione, di tipo fatalistico, della debolezza congenita [della gestione comunale]»4 .


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