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quadrimestrale marxista della Svizzera italiana

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giugno 2018

pag. 22 Intervista a Yunus Soner: “per noi il patriottismo è la rimozione della natura politica delle differenze etniche e religioseâ€?


Impressum

#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 10 giugno 2018 anno VI

Redazione: Aris Della Fontana (Direttore), Luca Robertini, Simone Romeo, Zeno Casella, Alberto Togni

Editore Partito Comunista

ISSN 2297-0657

Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio

Email aris.dellafontana@politicanuova.ch

Stampa Tipografia Cavalli

CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona

Indice

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3

Manifesto per l’istruzione

4

Contro i risparmi nella scuola pubblica, per una formazione economicamente vantaggiosa e socialmente sostenibile

6

Origini, sviluppi, e prospettive. Cronaca delle contraddizioni dello Stato sociale

9

L’analisi e la strategia dei candidati alla presidenza del PS Ticino: spunti critici per un confronto aperto a sinistra

12

Possiamo criticare Foucault?

18

La necessità di un dibattito franco sui problemi della transizione al socialismo nel caso concreto dell’ex-URSS

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Yunus Soner: “per noi il patriottismo è la rimozione della natura politica delle differenze etniche e religiose”

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Locarno, dubbi e prospettive per un Festival che al momento rinuncia alla sua tradizione innovativa

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Economia e lavoro

Ticino

Teoria e prassi

Contro i risparmi nella scuola pubblica, per una formazione economicamente vantaggiosa e socialmente sostenibile Zeno Casella Introduzione I motivi che spingono i comunisti ad impegnarsi per garantire all’istruzione una maggior centralità nella spesa pubblica sono già stati più volte evidenziati in queste pagine; per usare le parole di Massimiliano Ay, «investire nell’ambito formativo non solo crea cittadini con consapevolezza democratica e spirito critico (evitando le involuzioni autoritarie, reazionarie e qualunquiste tipiche dei momenti di crisi), ma innalza le qualità della forza lavoro indigena permettendole di migliorare il livello produttivo senza temere la concorrenza estera, sia quella transfrontaliera, sia quella dei paesi emergenti».1 La fase storica attuale ci vede però spettatori di una tendenza opposta a quella da noi auspicata: l’offensiva neoliberista al servizio pubblico, in atto tanto a livello internazionale quanto a livello cantonale, non risparmia infatti nemmeno l’apparato scolastico ●●

1

Massimiliano Ay, La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto, #politicanuova, Novembre 2014, p. 8

2

Luciana Castelli et al., Scuola a tutto campo. Indicatori del sistema educativo ticinese, SUPSI-DFA, Locarno, 2015

3

Nel gennaio 2014 il Gran Consiglio ticinese ha approvato una modifica costituzionale con cui è stato introdotto il cosiddetto freno al disavanzo, misura in base alla quale il deficit a preventivo del Cantone non potrà superare il 4% dei ricavi. Il popolo ticinese nel maggio 2014 ha a sua volta avallato questa modifica

4

Pau Origoni (dir.), Annuario statistico ticinese 2015, Ufficio di statistica, Lugano, 2015

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Internazionale

Cultura

ticinese. Essa si rivela essere, come vedremo, perfettamente funzionale alle esigenze del mercato e si muove su due assi principali, che paiono contrapposti ma rivestono un ruolo complementare nell’assoggettamento del sistema formativo alle necessità dell'economia privata: il “disinvestimento” nella scuola pubblica da un lato e la mercificazione dell’istruzione dall’altro. ●● Il disinvestimento nella scuola pubblica: lo Stato abbandona l’istruzione A partire dai primi anni '90, l'impegno finanziario del Cantone in ambito educativo ha subito un graduale ridimensionamento: se nel 1989 ben un terzo della spesa pubblica cantonale era costituito dalla spesa per l'istruzione, nel 2011 quest'ultima ne rappresentava poco più di un quarto.2 Quest'evoluzione è strettamente connessa all'approccio neoliberista adottato nei confronti del debito e del deficit pubblici: puntando ad un rigido contenimento della spesa pubblica3, governo e parlamento cantonali hanno rivolto la propria attenzione a quei settori d'attività particolarmente “costosi”, tra cui figura naturalmente il sistema scolastico (nel 2013, esso costituiva la seconda maggior voce di spesa del Cantone, secondo solo alla previdenza sociale).4 La tendenza generale appena descritta non ha tuttavia prodotto delle conseguenze uniformi in tutti gli ordini scolastici: se nel settore obbligatorio la spesa per allievo ha mantenuto negli anni un livello relativamente stabile (registrando anche una - minima - crescita), lo stesso non si può dire per il settore secondario superiore.


Economia e lavoro

Ticino

Come possiamo notare dal grafico5, la spesa per allievo nelle scuole medie superiori (SMS) e nelle scuole professionali (SP) a tempo pieno ha subito un significativo calo a partire dalla fine degli anni ‘90, arrivando a registrare, per le SMS, una diminuzione in termini reali pari al 6%. A fronte di questo drastico ridimensionamento finanziario, si è tuttavia assistito ad un’importante crescita della spesa per allievo nel settore della formazione professionale duale, pari ad un incremento in valori reali del 45.5%. Questa evoluzione pare evidenziare una preoccupante convergenza al ribasso tra il settore medio superiore e la formazione professionale in tirocinio: in controtendenza rispetto al resto dei paesi sviluppati – dove «la crescente diffusione di una scuola secondaria superiore di stampo unitario [...] la porta ad agire secondo un modello inclusivo che stimoli l’integrazione dei singoli nella società civile, anziché favorire il loro ingresso nel mercato del lavoro»6 –, in Ticino la scuola secondaria si è ormai avviata verso un futuro incerto e costellato di pericoli per la democraticità dell’istruzione. ●● La mercificazione dell’istruzione: l’economia privata subentra allo Stato Il crescente ruolo assunto dall’economia privata nel finanziamento e nella gestione dell’apparato formativo è ormai ampiamente dimostrato.7 Ciò su cui ci preme porre l’attenzione è il riorientamento della formazione secondo le esigenze puntuali del mercato del lavoro: il processo in atto nel settore secondario superiore è infatti frutto di una ben precisa volontà politica volta ad assecondare queste necessità. Il settore privato ha infatti un grande interesse a privilegiare una formazione secondaria di tipo specialistico basata su di un apprendimento pratico sul posto di lavoro, dal momento che questa gli fornisce due garanzie fondamentali. Da un lato, questo modello di istruzione è in grado di assicurargli un costante approvvigionamento di manodopera tendenzialmente a basso costo, per di più caratterizzata dalla carenza di conoscenze generali (formazione umanista) e in connessione a ciò tendenzialmente meno portata ad assumere un approccio critico verso la realtà circostante (da cui una minore accettazione ad esempio dell’azione diretta in seno a un sindacato o a una cellula di partito). Dall’altro, queste lacune nella formazione generalista non pongono alcun ostacolo ad un’eventuale specializzazione di grado terziario: l’ampio sviluppo delle scuole universitarie professionali avvenuto negli ultimi anni – di cui la SUPSI è un esempio lampante –, se da una parte rappresenta indubbiamente un importante passo verso una maggiore mobilità sociale e soprattuto verso un avvicinamento del tessuto cantonale ai parametri di un'economia a medio-alto valore aggiunto, dall'altra costituisce però anche un altrettanto significativo cedimento verso la formazione di una manodopera altamente specializzata, ma – come detto – tendenzialmente meno incline a organizzarsi nell'ottica della difesa dei propri interessi. Le recenti proposte avanzate dagli ambienti economici rispecchiano la loro determinazione nel

Teoria e prassi

Internazionale

voler rafforzare e ampliare questo modello: l’iniziativa parlamentare depositata dal deputato PLRT Nicola Pini per un maggior coinvolgimento delle associazioni padronali nell’orientamento professionale8 testimonia la volontà di queste ultime di partecipare in modo attivo (ed egemonico) alla gestione dei flussi degli studenti al termine della scuola dell’obbligo e alla formulazione dell’offerta formativa nel settore secondario superiore. Le ripetute accuse indirizzate all’eccessivo tasso di licealizzazione – tra le poche cose di cui poter ancora andar fieri! – indicano poi un chiaro interesse per l’indebolimento di questo ramo di studi, destinato, nelle intenzioni del padronato, ad una ristretta élite incaricata di occupare posizioni dirigenziali. In tal senso non ci sarebbe affatto da stupirsi se tornassero d’attualità le assurde richieste risparmiste, da parte della destra ticinese, relative a una riduzione da 4 a 3 anni della durata del liceo. ●● Manodopera altamente specializzata: a quale prezzo? Se la necessità impellente di un rinnovamento economico non si può che risolvere - come il Partito Comunista sostiene da tempo - tramite una formazione altamente specializzata in grado di promuovere un’economia reale ad alto valore aggiunto, in quanto marxisti ci dobbiamo interrogare sulla natura di classe del processo attualmente in atto, che parrebbe a prima vista corrispondere alle nostre aspirazioni e andrebbe sostenuto in quanto tale. Come già in parte evidenziato, la lenta ma decisa riforma neoliberista del settore secondario superiore è frutto di un ben preciso interesse da parte dei settori padronali: l’approvvigionamento di manodopera a basso costo prima, e altamente specializzata poi, le permette di garantire continuità e stabilità al proprio impianto economico, in nessun modo minacciato da una massa di dipendenti sempre più frammentata e indifferente ai processi di sfruttamento cui è sottoposta. Questa impostazione è tuttavia fonte di due gravi pericoli per la classe lavoratrice: da un lato, si manifesta il rischio di un progressivo calo della partecipazione democratica delle fasce popolari – o addirittura di un’involuzione autoritaria – causata da un percorso di studi non generalistico e quindi, tendenzialmente, non funzionale a trasmettere spirito critico e consapevolezza civile; dall’altra, si delinea un’acutizzazione delle disparità sociali in ambito educativo, causata da una crescente e profonda stratificazione dell’istruzione secondaria superiore e dal diffondersi di pratiche di valutazione degli apprendimenti informali. Per questi motivi, è necessario contrastare, tanto sul territorio quanto nelle istituzioni, le politiche di risparmio nella scuola pubblica e il modello neoliberista di istruzione superiore, per rivendicare invece un’alternativa seria e credibile, basata sull’«obbligatorietà scolastica fino ai 18 anni, su un’istruzione liceale per ognuno e su una formazione politecnica che sappia superare alla base la divisione tra lavoratore manuale e intellettuale»9, così come su un’oculata politica di investimenti nell’educazione e di valorizzazione dell’offerta formativa pubblica.

Cultura

5

Valori reali calcolati utilizzando l’indice nazionale dei prezzi al consumo calcolato dall’UFS sulla base dicembre 1982 (valore = 100); dati attinti da Luciana Castelli et al., Scuola a tutto campo, cit.

6

Antonio Schizzerotto e Carlo Barone, Sociologia dell’istruzione, Il Mulino, Bologna 2006, p. 77

7

Vedi Mattia Tagliaferri, “Una politica scolastica lontana dai bisogni dei giovani e da una società democratica”, 2008: http://goo.gl/22HAbb

8

Vedi S.n., “Quale futuro per l’orientamento scolastico e professionale”, Ticino Today, 17 novembre 2015 (http://goo.gl/ UNFTUY)

9

Massimiliano Ay, “La formazione come base per una riforma economica orientata alla produzione ad alto valore aggiunto”, cit., p. 8


Economia e lavoro

1

Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli BUR, Milano 1997, pp. 316-317

2

Ivi, p. 304

3

Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, p. 209

Ticino

Teoria e prassi

Origini, sviluppi, e prospettive. Cronaca delle contraddizioni dello Stato sociale Premessa: vista la portata e le tematiche trattate nell’articolo, chi scrive ha dovuto condurre una grossa opera di riduzione e talvolta semplificazione dei fenomeni e delle dinamiche descritte, molto più ampie, sfaccettate e complesse di come sono presentate. Simone Romeo Quando nasce lo Stato sociale Il moderno Stato sociale (dall’inglese welfare state, letteralmente «Stato del benessere», formulazione che implica un diverso senso dall’omologo italiano) nasce dopo la seconda guerra mondiale, durante il periodo conosciuto in Occidente a vario titolo come “i trent’anni di gloria”, “il trentennio glorioso” o “l’Età dell’oro”. Furono anni di grande – pur se effimera - prosperità economica, che generò complessi mutamenti economici, sociali e culturali, i quali perdurano ancora oggi. Un balzo economico che «consistette in una sostanziale ristrutturazione e riforma del capitalismo e in una spettacolare mondializzazione e internazionalizzazione dell’economia [...] rendendo possibile una divisione internazionale del lavoro assai più elaborata e sofisticata».1 In quegli anni si affermarono, come linea economica generale degli Stati capitalisti occidentali, i dettami economici keynesiani, che prevedevano un ingente piano di investimenti pubblici finalizzato a sostenere e ad aumentare i consumi attraverso la spesa pubblica per raggiungere il pieno impiego. ●● Le ragioni dello Stato capitalista per la creazione del welfare Nel dopoguerra gli interventi statali cominciarono gradualmente a configurare la strutturazione di uno Stato sociale che sostenesse il mercato e l’espansione economica. Da un lato, con una serie di servizi (asili nido, scuole a tempo pieno, congedi) che favorivano l’impiego nel mercato delle fasce di popolazione prima escluse dell’economia di guerra (specialmente le donne). Dall’altro, con un sistema previdenziale e assicurativo che permetteva a chi si trovava per varie ragioni escluso dal mercato – disoccupati (nonostante i tassi relativamente bassi di allora), anziani, disabili – di continuare a consumare. Il sostegno al mercato e alla produzione non era però finalizzato unicamente a dimostrare la superiorità dell’Occidente nel conflitto economico e d’immagine che ha permeato i due blocchi durante la guerra fredda. Nell’immediato dopoguerra si temevano rivoluzioni ●●

6-7

Internazionale

Cultura

sociali in molti Paesi d’Europa, specie quelli in cui la resistenza antifascista era stata più forte, nei quali i partiti di classe fecero grandi balzi in avanti a livello elettorale. Ecco allora che «negli Stati non comunisti la ripresa significava anche superare la paura della rivoluzione sociale e dell’avanzata comunista, eredità della guerra e della resistenza».2 «Nella diffusione di forme robuste di protezione sociale» vi era sì una concessione dei diritti sociali ed economici che accontentava in parte la sinistra e le rivendicazioni operaie, ma contemporaneamente si trattava di un sistema in cui i governi occidentali «scorgevano [...] un mezzo idoneo per contrastare l’influenza ideologica e politica dell’Unione Sovietica»3, che in quegli anni costituiva un modello di società alternativo al capitalismo verso il quale molti guardavano. ●● Perché rivendicare uno Stato sociale da parte di sindacati e sinistra riformatrice? Così presentato, qualora seguissimo la logica scellerata di alcuni esponenti della sinistra che invocano il “tanto peggio, tanto meglio”, il welfare potrebbe apparire a prima vista uno strumento essenzialmente “controrivoluzionario”, e cioè uno strumento in mano al capitalismo per rabbonire le masse che rivendicavano a gran voce benessere socioeconomico. E allora perché mai la sinistra, tanto più quella con intenti riformatori, si è storicamente battuta per esso? Le ragioni sono molteplici: in primo luogo, il complesso sistema del welfare permette(va) di innalzare le condizioni di vita dei lavoratori. Ciò significava innanzitutto conferire a impiegati e operai maggior potere contrattuale nei rapporti con i padroni. Avere un diffuso sistema di tutela sociale garantito per legge, come la disoccupazione, era ben diverso dai sistemi mutualistici e dalle casse comuni da utilizzare durante gli scioperi. In sede di contrattazione e rivendicazione riguardo le condizioni di lavoro, le assicurazioni sociali esponevano meno ai ricatti della borghesia e davano maggiore libertà, anche di pensiero, ai lavoratori. In secondo luogo, un miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice – e di conseguenza dei loro figli – significava poter dare loro un’istruzione, tempo da dedicare all’impegno politico e sociale e favorire l’emancipazione femminile. Le donne, infatti, erano spesso relegate al ruolo di casalinghe – oltre che per una cultura patriarcale e maschilista – a causa dell’aumento generalizzato dei salari nel dopoguerra, che generalmente permetteva condizioni di vita dignitose anche a famiglie monoreddito. L’assenza, inoltre, di istituzioni accessibili cui demandare parte della cura dei bambini, degli anziani e di quelli che erano definiti invalidi, le obbligava a compiti di cura verso i componenti del nucleo familiare. Si tratta di una tematica da tenere sempre presente, poiché «i regimi di welfare, nelle risorse che provvedono, nel modo in cui le provvedono, e anche in ciò che viceversa non provvedono, possono, infatti, dare per scontato,


Economia e lavoro

Ticino

o incentivare, modelli di famiglia, di rapporti uomodonna e di generazione diversi».4 Questo vario insieme di rivendicazioni inoltre, laddove ottenute, rafforzava e legittimava il ruolo delle lotte sindacali e della sinistra d’opposizione. ●● L’inizio della lunga crisi economica e la fine dei blocchi: dov’è finita la sinistra? «Dopo i «Trenta gloriosi» seguiti alla Seconda guerra mondiale [...] il welfare state è entrato in una lunga crisi di delegittimazione e di spostamento di significato. [...] Sul piano economico, la promessa di un rapporto univocamente positivo tra espansione dei consumi e pieno impiego, che aveva retto il cosiddetto «consenso keynesiano» alla base del welfare state, si è mostrata di debole realizzazione a fronte delle nuove forme assunte dalla globalizzazione».5 La nuova divisione internazionale del lavoro, che in Occidente ha generato la deindustrializzazione, portò alla «ripresa della disoccupazione, proprio nel periodo in cui cominciavano a diventare visibili – sul piano pensionistico e su quello sanitario – i costi del miglioramento delle speranze di vita e dell’invecchiamento della popolazione», indebolendo così «anche le basi economiche del welfare state».6 Di fronte a questi mutamenti, di cui era in parte corresponsabile per le scelte di politica economica, la sinistra occidentale fu trascinata in un duro confronto con il grande capitale e le politiche neoliberiste da cui sindacati e partiti uscirono a pezzi negli anni Ottanta. Al termine del decennio in cui il neoliberismo si affermò prepotentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con Ronald Reagan e Margareth Thatcher, dettando la linea economica generale in Occidente, la caduta dell’Unione Sovietica giunse in contemporanea alla (rovinosa) corsa al centro delle formazioni socialdemocratiche e al serio indebolimento dei partiti comunisti. Questa commistione di fenomeni fece sì che lo Stato sociale non avesse più difensori sia da parte della sinistra, sia da parte di quella borghesia che ne riconosceva l’importanza a livello civile e sociale, sia da parte di coloro che lo vedevano come mezzo per contrapporsi all’URSS. Ma, oltre alla difesa, mancò del tutto qualcuno che rivendicasse con forza – e ottenendoli - miglioramenti tangibili: dalla grande offensiva mirante all’ottenimento di diritti ci si diede ad una ritirata frettolosa, in cui si tentarono di schivare i colpi peggiori. ●● Crisi economica e crescita delle disuguaglianze «La lotta secolare del movimento operaio e sindacale per strappare il riconoscimento del diritto al lavoro, per limitare il potere dei «proprietari» di licenziare a proprio piacimento i loro dipendenti, per contenere mediante l’edificazione dello Stato sociale gli effetti rovinosi del licenziamento, mirava non solo a migliorare le condizioni di vita e di lavoro del lavoratore salariato o dipendente ma anche a ridurre il po-

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Internazionale

tere su di lui esercitato dalla «volontà altrui» e a strappare un minimo di «indipendenza». Si trattava in ultima analisi di una lotta anche per la libertà. Ora questa lotta viene ricacciata indietro».7 Lotta da cui la sinistra da oltre due decenni sembra come detto essersi assentata, limitandosi a qualche sporadico tentativo di conservazione dello status quo o di compromesso atto a una parziale riduzione dei danni. In un contesto storico di crisi come quello odierno – innanzitutto economica, ma di conseguenza anche politica, sociale e culturale – le istituzioni dello Stato sociale sono sulla via di un lento, progressivo e - parrebbe - inesorabile smantellamento. Ci troviamo in una fase storica dove un’economia di mercato liberista, imperante dagli anni Ottanta in Occidente e non solo, si combina con le politiche di austerità promosse dai governi occidentali in nome del freno al disavanzo e del contenimento della spesa pubblica. Combinazione che, come sempre, fa gli interessi del grande capitale e nel contempo colpisce la classe lavoratrice, in continuo e drammatico impoverimento, soprattutto in seguito alla crisi del 2007-2008 – dai più presentata quale crisi della finanza, causata da improvvidi speculatori, sottacendo con ciò il suo reale significato, ossia il collasso del modello di sviluppo che il capitalismo occidentale aveva perseguito a partire dagli anni Settanta.8 Spirale negativa di diminuzione dei consumi e perdita di posti di lavoro, che ha portato a una polarizzazione economica e sociale senza precedenti. Nonostante nell’immediato periodo “post-crisi” tutti si siano affannati, a parole, a condannare la speculazione e la crescita delle disuguaglianze globali e intra-nazionali, il risultato concreto e materiale è che, «dopo il 2007, durante gli anni del crollo del credito con conseguente depressione economica e crescente disoccupazione, la tendenza ha acquisito un ritmo decisamente esponenziale: anziché abbattersi su tutti in uguale misura come molti si aspettavano e proclamavano, la frusta si è dimostrata severamente e tenacemente selettiva nella distribuzione dei suoi colpi: il numero dei miliardari degli Stati Uniti ha raggiunto nel 2011 il suo record storico fino a oggi di 1210, mentre la ricchezza combinata è cresciuta da 3500 miliardi di dollari nel 2007 a 4500 miliardi di dollari nel 2010».9 ●● Spesa sociale o investimento? Opportunità e rischi. In Svizzera lo Stato sociale è ancora tendenzialmente esteso, ma non per questo ci troviamo confrontati con una situazione florida o con prospettive rosee. Le politiche assistenziali e sociali sono in continua erosione sia nella tipologia di prestazioni offerte che nella sostanza delle stesse. Basta osservare le continue proposte e revisioni: dalla revisione della LADI del 2010 con il taglio dei sussidi di disoccupazione a livello nazionale che ha fatto esplodere i costi e i beneficiari dell’assistenza, alla diminuzione nel 2016 delle prestazioni assistenziali e il taglio degli assegni

Cultura

4

Chiara Saraceno, Il welfare. Modelli e dilemmi della cittadinanza sociale, il Mulino, Bologna 2013, p. 33

5

Ivi, p. 33

6

Ibidem

7

Domenico Losurdo, La sinistra assente, Carocci, Roma 2014, p. 50

8

Si veda: Luciano Vasapollo, La crisi sistemica. Metodi di analisi economica dei problemi dello sviluppo, Jaka Book, Milano 2012

9

Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” FALSO!, Laterza, Bari 2013, p. 10


Economia e lavoro

10 Anna Bracci, Progetto Midada: il valore sociale ed economico dell’inserimento, SUPSI Ricerca e servizi, Lugano 2012, p. 5 11

Ibidem

12

Chiara Saraceno, Il welfare. Modelli e dilemmi della cittadinanza sociale, il Mulino, cit., pp. 120-121 13

Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Laterza, Bari 2007, p. 8

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Ticino

Teoria e prassi

familiari integrativi e di prima infanzia (AFI e API), fino all’ultima proposta di riduzione delle borse di studio per il bachelor convertite in parte in prestiti da rimborsare. Non è ancora chiaro se queste tendenze si arresteranno di fronte al rischio di esplosione del malessere sociale. Il governo elvetico e quello ticinese, spinti anche da una certa cultura dell’assistenza sociale che dopo tutto contraddistingue la Svizzera, sembrano al momento voler mantenere un minimo di Stato sociale e assistenziale. Sia i cittadini che la classe politica, tendenzialmente, ritengono ancora problematico mostrare la povertà estrema, soprattutto se si tratta di cittadini elvetici, in quanto essa suscita maggior clamore e malcontento rispetto a quella relativa, immediatamente più percepibile. Per avvicinarci alla realtà ticinese, molto spesso specchio degli indirizzi di quella europea e internazionale, negli ultimi anni parole come “investimento” e “attivazione” sono diventate dei principi importanti riguardo le decisioni concernenti il finanziamento pubblico delle istituzioni che si occupano di persone a vario titolo escluse dal mercato del lavoro: fenomeno che, è bene tenerlo presente, nei paesi capitalisti continua a costituire la principale divisione tra l’inclusione e l’esclusione sociale. In una ricerca commissionata dalla Fondazione Il Gabbiano, svolta dalla Supsi tra il 2010 e il 2012, è stato calcolato come, attraverso un percorso di reinserimento socioprofessionale a carattere educativo, «l’inserimento di un giovane inserito che lavorerà secondo gli anni di occupazione medi registrati in Ticino, si stima che generi benefici di ca. 30.000 CHF/anno che, proiettati negli anni futuri, determinano una somma attualizzata di 680.000 CHF», a fronte «di un giovane in caso di assistenza passiva [...] è stimato di un valore di 500.000 CHF, a carico principalmente di Cantone (76%) e Comuni (22%)».10 Lo studio sulla struttura, tenendo conto del tasso di riuscita dell’inserimento, mostra come «di fronte all’impegno di spesa per Stato e Assicurazioni Sociali (benefici – costi) raggiunge 1,3 Mio CHF. Il rapporto di benefici-costi è di 2,8: ogni milione di franchi determina la creazione di quasi 3 milioni di costi evitati o risorse supplementari».11 Si tratta indubbiamente di un passaggio importante nella comprensione dell’utilità dell’investimento sociale, da concepire come generatore di benefici sociali (e utili economici!) e non come mero costo, nonostante la destra nel dibattito pubblico invochi spesso lo Stato sociale come una delle cause della crisi economica e proponga continui tagli. Tuttavia, «emerso come nuovo discorso sul welfare state negli anni a cavallo del nuovo secolo, l’approccio dell’investimento sociale presenta una forte continuità con il neoliberismo nell’enfasi sul ruolo delle politiche sociali come strumenti di «attivazione» degli individui: perché assumano la responsabilità per il benessere proprio e delle loro famiglie tramite la

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partecipazione al mercato del lavoro. [...] A differenza del neoliberismo, tuttavia, l’approccio dell’investimento sociale è più consapevole della necessità di contrastare e compensare i fallimenti del mercato e ha, per questo, un’immagine più positiva dello Stato».12 Investimento che va quindi sostenuto, ma non posto quale unico metro di giudizio. In questo modo, infatti, si rischia di focalizzare l’importanza solo sulla “ri-educabilità al mercato” trascurando la crescita e lo sviluppo di coscienza critica verso se stessi, il mondo e il proprio ruolo in esso. Specchio di questo indirizzo, è anche la scelta dell’assistenza in Ticino di non permettere ai beneficiari di intraprendere una nuova formazione in ottica di una riconversione professionale qualora costoro abbiano già un diploma conseguito o qualsiasi attestato professionale. Situazioni che spesso mantengono nel limbo persone formate in settori saturi a livello occupazionale, o che costringono chi già si trova in difficoltà a rimanere in settori dove non si trovano a proprio agio e in cui hanno incontrato problematiche di vario genere. Ben venga quindi l’attenzione alla cosiddetta prevenzione secondaria per far sì che situazioni transitoriamente complesse delle vite delle persone non cadano in problematicità croniche. Ma queste ultime continuano a esistere e non vanno ignorate. Ed è qui che la logica di mercato rischia di prevalere sull’investimento nelle persone, discriminando ulteriormente chi non può essere occupabile neppure in prospettiva – quelli che con lucidità e amarezza Zygmunt Bauman chiama «rifiuti umani»13 – e scavando un solco troppo profondo per essere risalito.


Economia e lavoro

Ticino

L'analisi e la strategia dei candidati alla presidenza del PS Ticino: spunti critici per un confronto aperto a sinistra

di Massimiliano Ay

1. Introduzione La Socialdemocrazia rappresenta una forza politica e culturale importante: certo è diversa dai marxisti e, a volte, persino in contrasto. Tuttavia nella nostra realtà gode di un discreto radicamento (benché in notevole calo da quasi dieci anni) che non possiamo nascondere e su cui non si può soprassedere. La tradizione riformista ha storicamente e internazionalmente dimostrato la sua inefficacia nei momenti cruciali della vita politica: senza bisogno di ripescare il voto ai crediti di guerra nel 1914 o la repressione dei comunisti svizzeri nel 1940, basterebbe considerare l'involuzione guerrafondaia e neo-liberista dell'Unione Europea sostenuta, sul finire degli anni '90 e nei primi anni 2000, dai governi socialdemocratici contemporaneamente in Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna.1 Eppure, nella precisa fase storica che stiamo vivendo, di involuzione democratica e securitaria in Europa, non possiamo nemmeno ciecamente etichettare tutta la Socialdemocrazia superficialmente come “avversaria”: vale pur sempre, per i marxisti, l'insegnamento di Lenin: “dividersi dai riformisti, per unirsi ai riformisti”. Appare peraltro chiaro a tutti coloro che hanno avuto anche solo minime esperienze politiche o sindacali all'estero, che il PS alle nostre latitudini, certamente nel Canton Ticino, dispone al suo interno di un minimo Hintergrund di sinistra ancora presente e non del tutto assimilabile a modelli ormai appiattiti alla cultura anti-popolare e imperialista come il PD in Italia o il PS in Francia. Da qui a dire che tale retroterra culturale porti per via naturale a un’alleanza fra socialisti e comunisti ce ne passa, e tuttavia non si può nemmeno escluderlo a prescindere. 2. Nuova presidenza...ma qual è il programma? In vista dello scorso Congresso del PS ticinese del 23 gennaio 2016, che ha poi eletto il compagno Igor Righini alla presidenza, sono stati pubblicati i programmi personali con cui tre dei quattro candidati si presentavano all'assise: Corti, Lepori e Righini hanno presentato dei documenti di orientamento strategico, mentre Storni (che poi si è effettivamente ritirato dalla corsa) si è limitato a una breve nota autobiografica. L'obiettivo di questo articolo è analizzarne i contenuti e le prospettive mostrandone pregi e limiti. Occorre però una premessa: non è nostra intenzione intrometterci nelle questioni interne a un altro Partito, non per caso questo contributo esce a oltre un

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anno dalla scelta democratica dei militanti socialisti di cui abbiamo preso atto con serenità. Ci si vuole qui limitare a un confronto nell'ottica di chiarire le diverse chiavi di lettura esistenti fra comunisti e socialdemocratici, che non precludono però in alcun modo un costruttivo dialogo unitario fra le forze politiche progressiste, di cui il PS è forza egemone. Il problema che sorge a una prima lettura dei tre documenti è la differenza sostanziale con il caso del Partito Comunista (PC). Mentre quest'ultimo si riunisce a Congresso con tesi congressuali suddivise in un'analisi del contesto internazionale e nazionale, per poi proseguire con un'analisi delle strategie di sviluppo del Partito nel contesto precedentemente indicato e infine proponendo degli assi di lavoro immediati o di medio periodo, nell'ambito del PS tutto questo è arduo individuarlo. Diversa è pure la prassi congressuale, essendo la nostra struttura organizzativa retta dal centralismo democratico. 3. Le caratteristiche dei tre candidati 3.1. Carlo Lepori Come i suoi colleghi che analizzeremo in seguito, pure Lepori ammette che i processi decisionali nel PS «sono lunghi e noiosi, altre volte poco trasparenti e spesso avvengono così da scoraggiare chi vuole impegnarsi personalmente». Tuttavia non esiste alcuna analisi o proposta concreta per superare questo malumore. Ma al di là di questo leitmotiv che sembra molto più di facciata che di sostanza (visto che tutti lo citano in modo vago e senza offrire soluzioni), quello di Lepori è forse il documento più denso dal lato politico-ideologico. Egli inizia giustamente con un tentativo – seppur appena accennato – di leggere i cambiamenti intercorsi sul piano internazionale, riconoscendovi gli effetti diretti anche sul modo di affrontare la politica interna. Eccellente in tal senso il passaggio in cui invita il PS a collaborare «con organizzazioni internazionali» poiché gli «accordi tra gli Stati e le leggi svizzere hanno un influsso molto forte sulla nostra realtà». Tuttavia non chiarisce cosa ciò significhi concretamente, visti gli errori compiuti sul piano della politica estera dai socialisti negli ultimi anni. Ricordiamoci come il PS abbia del tutto stravolto la rivolta di Maidan in Ucraina arrivando a sostenere inizialmente i golpisti poi rivelatisi filo-nazisti; per non parlare della totale subalternità all’imperialismo atlantico per quanto riguarda il sostegno del separatismo etnico in Siria con la grottesca mitologia di Kobâne. Nell’epoca dell’imperialismo la collocazione internazionale dovrebbe assumere in ottica socialista carattere dirimente, ma così purtroppo non è! Lepori non spiega, ad esempio, se si riferisce alla collaborazione con l’Internazionale Socialista (composta pure dai sionisti) con cui il PS dovrebbe intensificare le sinergie. Anzi, l’ex-presidente socialista continua affermando che «in Grecia e in Spagna movimenti popolari di sinistra sono vincenti»: ma si tratta di movimenti almeno tendenzialmente neo-comunisti 2 che si posizionano in contrasto agli alleati ufficiali del PS.

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Italia: Romano Prodi (1996-1998), Massimo D’Alema (1998-2000), Giuliano Amato (2000-2001); Francia: Lionel Jospin (1997-2002); Germania: Gerhard Schröder (1998-2005); Gran Bretagna: Tony Blair (1997-2007).

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In effetti in Grecia “Syriza” è l’evoluzione della ex-corrente gorbacioviana del Partito Comunista di Grecia (KKE) che non ha nulla a che vedere con i socialisti del PASOK responsabili dell’applicazione delle misure di austerità; e in Spagna “Podemos” si è alleato con il Partito Comunista Spagnolo (PCE/IU) proprio contro i socialisti del PSOE.


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Nell'ambito del processo che porterà alla fusione fra il Partito Socialista Ticinese (PST) e il Partito Socialista Unitario (PSU, sorto a sua volta dalla fusione fra il Partito Socialista Autonomo e la Comunità dei Socialisti Ticinesi) si registra, nel Congresso di Sessa del 1991, il rifiuto di sciogliersi da parte del Partito del Lavoro (PdL, l’odierno Partito Comunista). Tuttavia il segretario del PdL Silvano Gilardoni con Giancarlo Nava e altri post-comunisti non accetteranno la decisione congressuale e entreranno comunque nel futuro PS riunificato. Scelta opposta al PdL la compie il PSL troskista: il Partito Socialista dei Lavoratori diretto da Pino Sergi confluirà infatti nel PS per poi fuoriuscirne nel 1999 e fondare il Movimento per il Socialismo (MPS) nel 2002.

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Una democrazia può essere liberale (come quella svizzera) o socialista (come quella cubana), senza contare le altre varianti. La domanda per un marxista è quella di capire al servizio di quale classe sociale si pone una certa democrazia.

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Mentre il PC e il PS svizzero si opponevano al Reddito di Base Incondizionato, il PS ticino (con l’opposizione di Lepori) lo sosteneva.

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Interessante tutta la parte ideologica del documento, nel quale si spiega che «l’ideale socialista di superamento delle forme di controllo capitalista si basa su due principi: uno Stato democratico e la democratizzazione dell’economia, dove le decisioni sono prese con la partecipazione delle cittadine e dei cittadini coinvolti». Pur non prendendo in considerazione l’elemento classista che in una democrazia si esprime con forza 3, Lepori tocca una corda quasi del tutto abolita nell’odierno PS, concludendo che «una democrazia è completa sola se comprende i diritti di proprietà e i processi produttivi». Ma come farà il PS sotto un’ipotetica presidenza Lepori ad applicare queste dichiarazioni? Non ci è dato saperlo! La riflessione sul mondo del lavoro consiste nel tentativo di analizzare la «rivoluzione tecnologica in corso»: Lepori sembra preoccupato per «l’automazione delle attività manuali» arrivando a concludere che occorrerà «distribuire meno lavoro, ma più ricchezza». Al di là del fatto che la prospettiva di una robotizzazione della produzione non trova concordi vari economisti di scuola marxista, non capiamo allora perché Lepori qualche mese più tardi si sia schierato contro il Reddito di Base Incondizionato, considerato un antidoto (?) all’automazione del mondo del lavoro.4 Lepori ammette infine che l’attività degli esecutivi comunali «è in gran parte amministrativa» ma ha il coraggio politico di aggiungere come i socialisti non dovrebbero «dimenticare le nostre visioni e i nostri obiettivi politici»: cioè in pratica la sinistra nei municipi non deve fare solo amministrazione, ma deve agire secondo una visione politico-ideologica. Esattamente l’opposto di quello che fanno oggi tanti eletti socialisti nei comuni. In conclusione la candidatura di Lepori era forse quella più strutturata e tipica di un buon partito socialdemocratico ma che, probabilmente, nel contesto di liquidazione di un “pensiero forte” a sinistra potrebbe apparire a vari esponenti del PS come troppo “retrò”.

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3.2. Claudio Corti Dal canto suo Claudio Corti insiste su tre concetti: “voglia di fare”, “orgoglio socialista” e “senso di appartenenza”. Tutti aspetti importanti in ottica motivazionale, ma si tratta di parole che, se non si riempiono di contenuti, restano meri slogan che denotano forse anche una poca conoscenza dell’apparato e degli equilibri interni al Partito da parte del candidato outsider. Secondo Corti, il PS «deve puntare a farsi carico del benessere in primo luogo del Ticino e della Svizzera» attraverso «politiche di valorizzazione delle proprie eccellenze». In tal senso il PS «dev'essere riconosciuto come bandiera delle peculiarità elvetiche». Qualcuno potrebbe etichettare tali espressioni come “nazionalistiche” ed effettivamente l’ambiguità non manca, anche perché in ottica marxista non esiste il benessere del Paese se non si pone prima la questione di classe come elemento fondante della strategia. Tuttavia, forse, Corti ha solo formulato male concetti che potrebbero essere invece interessanti: peccato che senza chiarire quali siano le “peculiarità elvetiche” (e come dovrebbe operare il PS per sostenerle) diventa arduo procedere con un’analisi. Vedendo la drammatica inconsistenza della politica estera socialista (non si va oltre al mero romanticismo umanitario e vi è una diffusissima ignoranza, anche a livello di quadri, sui temi dell’attualità geo-politica) è praticamente impossibile credere che questo Partito possa progettare un ruolo di protagonista per il nostro Paese sul piano globale senza accogliere la linea di apertura ai BRICS avanzata dal Partito Comunista. Infine Corti si lancia in altre proposte: la necessità, ad esempio, di «nuove regole che cambino radicalmente le basi per la formulazione delle strategia», ma sinceramente non capiamo cosa ciò voglia dire. Qual è la strategia attuale? Come si è formulata la strategia attuale? Senza aver risposto a queste domande non si possono neanche immaginare «nuove regole» che ne modifichino addirittura «radicalmente le basi». Che si tratti di situazioni che solo i membri del PS conoscono? Visti i consensi ottenuti al Congresso, ne dubitiamo. 3.3. Igor Righini Il documento di Igor Righini parte in modo estremamente vago e, al di là dell'elenco delle priorità (a dire il vero anche un po' scontate): protezione delle “fasce più deboli della popolazione”, servizio pubblico, ecc., l'unico cenno minimamente politico-ideologico nel testo si riduce alla prospettiva di una indefinita «economia di mercato più solidale». Non ci attendiamo il “superamento del capitalismo”, ma notiamo la formulazione ben più cauta rispetto alla già edulcorata tesi della “democrazia economica” vista in precedenza. In merito alla democrazia interna, Righini, riconoscendo il «malessere dei compagni e delle compagne sul modo di funzionare del Partito», non esplicita quali siano questi modi e continua con l'al-


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trettanto vago mantra del «riorganizzare il partito, rivedere i nostri organi, rivisitare lo Statuto e trovare il modo per facilitare e velocizzare la comunicazione interna». Tutto e niente, insomma. Egli asserisce anche che «a differenza di altre realtà partitiche dove a dettare la linea politica sono i loro leader e lo staff dirigenziale, secondo una politica di vertice dettata dall’alto al basso, il nostro partito funziona in modo trasparente e democratico. Questo principio che coinvolge nelle decisioni programmatiche la base del partito è un valore per noi irrinunciabile». Senza voler mettere per forza in dubbio che nel PS vi sia maggiore partecipazione rispetto ai partiti borghesi, non esiste alcuna spiegazione di cosa allora vada migliorato in questo ambito o – se è già tutto in ordine – in cosa consista concretamente questa maggiore democrazia partecipativa che distinguerebbe il PS dagli altri. Il rischio che intravvediamo in questo discorso è che la retorica un po’ grillina contro la “casta” dirigista abbia alla fine la meglio sulla cultura di partito, l'ordine della discussione, il riconoscimento dell’avanguardia e la disciplina necessaria per essere incisivi. Un partito serve infatti ad agire: chi lo confonde con un salotto non va lontano! La proposta quindi di convocare il Congresso ancora più spesso (la cui distinzione con una Conferenza Cantonale appare a questo punto vacillante) conferma queste preoccupazioni: va detto peraltro che il PS fa congressi in continuazione, a differenza del PC in cui l’assise congressuale essendo un momento importante di analisi e di adeguamento strategico avviene solo ogni tre anni. Banalizzare il ruolo del Congresso, convocandolo ogni qualche mese, dubitiamo servirà a rendere il Partito più coeso e capace di azione. Estremamente lucida invece la considerazione seguente: «alcuni compagni non conoscono nel dettaglio come funziona il Partito. Molti non distinguono e non fanno grande differenza fra l’essere membri oppure semplici simpatizzanti». Quante volte nelle sezioni socialiste locali dettano legge persone che nemmeno sono tesserate al Partito? E quante volte è capitato che a esponenti del PC venissero proposte cariche nelle sezioni PS, non riuscendo a capire che si tratta di due partiti diversi anche se talvolta alleati? La mancanza di cultura politica nella base militante della sinistra sta raggiungendo livelli molto preoccupanti e qui Righini sembra averlo capito. E' Nel 2004 Anna Biscossa, proveniente dei movimenti sociali ed ecologisti di base, abbandona la presidenza del PS. Le subentra Manuele Bertoli, allora segretario del Partito, la cui gestione viene spesso indicata dai critici come verticista. L’era di Saverio Lurati a capo del PS inizia nel 2012 con un’accentuata impronta sindacale. Il periodo ad interim di Carlo Lepori come presidente si caratterizza per il tentativo di apertura verso la sinistra di opposizione.

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molto importante che questo punto possa realizzarsi nel PS, ciò faciliterebbe anche le relazioni con il PC che spesso ha difficoltà a capire quali siano i reali interlocutori socialisti cui rivolgersi. In tal senso il fatto che Righini chiarisca che la Direzione debba «condividere con lui un progetto politico» è un elemento di chiarezza molto importante anche per i comunisti: troppo spesso infatti prevale l'idea che la Direzione dei partiti sia un organo amministrativo dove tutte le correnti possono trovare spazio. Nel PC questa linea l'abbiamo abolita nel 2011: il segretario presenta delle tesi politiche al Congresso ed è su quella base – se approvate – che lui dirigerà il Partito ed è sempre su quella base che costruirà la propria Direzione. L'eventuale opposizione interna si potrà esprimere dunque nel parlamentino del Partito, ma non nell'organo esecutivo. Righini riflette anche sul ruolo delle donne e dei giovani. A nostro avviso egli inciampa sulle quote rosa: «nelle liste elettorali le donne devono essere in numero uguale a quello degli uomini. L’obiettivo è quello di avere una rappresentazione femminile in parlamento in ragione della metà degli eletti». Le quote rosa sono infatti una scelta altra rispetto a una visione di classe, e anzi assume un carattere di “messa sotto tutela” dell’universo femminile. Obiettivo di chi aspira al socialismo è la qualità politica dei deputati e il loro legame di classe, non certo il loro genere! Interessante invece come Righini affronta il tema giovani: «dovessero manifestarsi giovani motivati e capaci questi devono trovare spazio; sarà una delle mie priorità». In effetti montare la testa a ragazzi palesemente impreparati e mossi da carrierismo sarebbe un pessimo investimento. Il ringiovanimento dei quadri è fondamentale per la sinistra e il PC l'ha insegnato con una lunga lotta interna iniziata dal 2009, ma sarebbe deleterio confondere questa giusta prassi con una politica giovanilista. 4. Conclusioni Emerge, complessivamente, uno spaccato che rimanda all'assenza di una chiara e solida articolazione tra, da una parte, il frangente tattico e, dall'altra, quello strategico. Ciò che in tal senso appare significativo, per chi dall'esterno cerchi di comprendere il PS ticinese, è la difficoltà di cogliere la sostanza del processo di trasformazione prospettato. Si tratta – come già ricordato - di un aspetto che non riguarda esclusivamente tale formazione politica, bensì va inserito in una parabola di respiro europeo, le quale chiama in causa alcune delle principali discontinuità storiche che hanno segnato la fase conclusiva del Novecento – la controrivoluzione neo-liberale e il parallelo arretramento della galassia progressista, tanto a livello organizzativo quanto a livello filosofico-politico. La volontà sincera di invertire la rotta, nella direzione della ricostruzione di un pensiero forte che torni a leggere la realtà per trasformarla, si dovrebbe quindi concretizzare, anzitutto, nel riconoscimento della problematicità insita nella tendenza generale che attualmente caratterizza il centro-sinistra europeo.

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Possiamo criticare Foucault? 1

Leggibile qui: goo.gl/5zh2ba

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Paul Veyne, Foucault, sa pensée, sa personne, Albin Michel, Paris 2008

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Noam Chomsky, Michel Foucault, Sur la nature humaine: comprendre le pouvoir. Interlude, Aden, Bruxelles 2016. Il dibattito è visibile qui: goo.gl/EtgAw2

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Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005

A partire dalla sua morte, nel 1984, il lavoro di Michel Foucault è diventato un punto di riferimento essenziale per la sinistra intellettuale di tutto il mondo. Di fronte a tale significativa condizione, una squadra di ricercatori, coordinata da un giovane sociologo belga, Daniel Zamora, ha recentemente pubblicato “Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale” (Aden, Bruxelles 2014), un'opera che solleva interrogativi penetranti a proposito della relazione tra Foucault e la rivoluzione neoliberale che stava prendendo piede precisamente negli ultimi anni della vita dello studioso francese. #politicanuova propone la traduzione, a cura di Alberto Togni, di un'intervista a Daniel Zamora apparsa sulle pagine online della rivista francofona“Ballast”.1 Nel libro “Foucault, Sa Pensée, Sa Personne”, Paul Veyne afferma che il pensiero di Foucault e la sua persona erano inclassificabili politicamente e filosoficamente. «Non credeva né a Marx né a Freud, né alla Rivoluzione né a Mao, in privato sogghignava dei buoni sentimenti progressisti, e non ho potuto appurare una sua posizione di principio circa problemi di ampia portata: terzo mondo, società dei consumi, capitalismo, imperialismo americano».2 Tu scrivi che è sempre stato «un passo avanti rispetto ai suoi contemporanei», cosa intendi con ciò? Difficilmente si può togliere a Foucault il merito di aver messo in luce problematiche che erano chiaramente ignorate, o addirittura accantonate, dagli intellettuali dominanti della sua epoca. Dalla psichiatria alla prigione o alla sessualità, i suoi lavori hanno posto con evidenza l'attenzione su temi “impensati” nel campo intellettuale. Sicuramente egli si inserisce in un'epoca, in un contesto sociale molto più ampio, e non è stato il solo, né il primo, a lavorare su questi temi. Tali problematiche emergono un po' ovunque e sono il campo d'azione di importanti movimenti sociali e politici. In Italia, per esempio, il movimento anti-psichiatrico iniziato da Franco Basaglia non ha atteso Foucault per rimettere in causa i manicomi e formulare nuove stimolanti proposte politiche per rimpiazzare questa istituzione. Foucault non è dunque all'origine di tutti questi movimenti - e non lo ha mai preteso - ma ha chiaramente aperto la strada a numerosi storici e ricercatori che hanno lavorato su nuove problematiche e nuovi territori ancora poco esplorati. Ci ha insegnato a mettere in discussione politicamente i temi che allora sembravano “al di là” di ogni sospetto. Mi ricordo ancora del suo famo-

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so dibattito con Chomsky, quando dichiarava che il vero compito politico era quello di criticare le istituzioni «apparentemente neutre e indipendenti» e di attaccarle «in modo tale che la violenza politica che si esercitava oscuramente in esse venisse smascherata».3 Se a volte ho qualche dubbio sulla natura delle sue critiche - ci torneremo in seguito, ne sono certo – non si può assolutamente negare che la sua fosse una sfida più che innovatrice e stimolante. Rendendo Foucault compatibile con il neoliberismo il suo libro potrà infastidire non poche persone! Lo spero! È un po' lo scopo del libro. Volevo rompere chiaramente con l'immagine fin troppo consensuale di un Foucault in opposizione completa al neoliberismo durante l'ultimo periodo della sua vita. Da questo punto di vista, penso che le interpretazioni tradizionali di tali ultimi lavori siano erronee o quantomeno evitino una parte del problema. Oggigiorno è diventato una sorta di figura intoccabile in una parte della sinistra radicale. Le critiche nei suoi confronti sono perlomeno timide. Questa cecità è sorprendente: io stesso, immersomi nei suoi testi, mi sono meravigliato dell'indulgenza di Foucault nei confronti del neoliberismo. Non parlo solo del suo corso al Collège de France 4 ma anche di numerosi articoli e interviste, tutti documenti facilmente consultabili. Foucault era molto attratto dal liberalismo economico. In effetti, egli vi vedeva la possibilità di una forma di governamentalità molto meno normativa e autoritaria rispetto a quella della sinistra socialista e comunista, che riteneva completamente superata. Nel neoliberismo, specificatamente, percepiva una politica «molto meno burocratica» e «molto meno disciplinarista» rispetto a quella proposta dallo Stato sociale del dopoguerra. Egli pare immaginare un neoliberismo che non proietta i suoi modelli antropologici sugli individui e che offre loro una maggiore autonomia nei confronti dello Stato. Foucault, alla fine degli anni '70, sembra allora avvicinarsi intellettualmente a quella «seconda sinistra», corrente minoritaria ma intellettualmente influente del socialismo francese, in cui troviamo anche una figura come Pierre Rosanvallon, di cui Foucault apprezzò i lavori. Egli trovava affascinante questo anti-statalismo e questa volontà di «destatalizzare la società francese». Anche Colin Gordon, uno dei principali traduttori e commentatori di Foucault nel mondo anglosassone, non esitava a dichiarare di vedere in Foucault una sorta di precursore della terza via di Blair, la quale inseriva nel corpus socialdemocratico alcuni elementi della strategia neoliberista. Tale constatazione è particolarmente importante se vogliamo comprendere i cambiamenti del post '68. La maggior parte delle opere consacrate alla svolta conservatrice degli anni '80 sono state articolate attorno all'idea del «tradimen-


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to»: erano di sinistra, ma poi hanno cambiato casacca per «opportunismo» - si è sostenuto. Dal mio punto di vista è una lettura sommaria e completamente scorretta. Studiando seriamente l'analisi di Foucault, ma anche di molti altri, al volgere degli anni '80, si capisce subito che il loro gauchisme o le loro critiche vertevano essenzialmente su tutto ciò che la sinistra del dopoguerra aveva incarnato. Lo Stato sociale, i partiti, i sindacati, il movimento operaio organizzato, il razionalismo, la lotta contro le disuguaglianze. In fondo, al di là di Foucault, non penso che questi intellettuali abbiano «cambiato casacca». Essi, piuttosto, erano predisposti, in virtù delle loro critiche e del loro odio nei confronti della sinistra classica, ad abbracciare la doxa neoliberista. Da questo punto di vista, diviene molto meno sorprendente che François Ewald, assistente di Foucault al Collège de France, sia divenuto consigliere del MEDEF [Mouvement des entreprises de France] pur continuando a richiamarsi all'eredità di Foucault. Allo stesso tempo il libro non è un pamphlet grossolano, un processo d'inquisizione. Infatti riconosci le qualità dell'opera di Foucault. Certo! Sono affascinato dal personaggio e dalla sua opera. Essa è, ai miei occhi, preziosa. D'altra parte ho enormemente apprezzato l'opera recentemente pubblicata da Geoffroy de Lagasnerie, “La dernière leçon de Michel Foucault”.5 Questo lavoro è in sostanza agli antipodi del nostro, perché vede in Foucault una volontà di utilizzare il neoliberismo per reinventare la sinistra. Il nostro punto di vista è invece che Foucault abbia considerato il neoliberismo come qualcosa di più che un semplice strumento: egli adottò il punto di vista neoliberista per criticare la sinistra. Ciononostante, Lagasnerie sottolinea un punto che è, a mio modo di vedere, essenziale, e che è il fulcro di numerosi problemi concernenti la sinistra d'opposizione. Egli sostiene che Foucault sia stato uno dei primi a prendere realmente sul serio i testi neoliberisti e a leggerli rigorosamente. Prima di lui, la produzione intellettuale di questi autori era largamente screditata e percepita come semplice propaganda. Per Lagasnerie, Foucault ha distrutto la barriera simbolica eretta dalla sinistra intellettuale contro la tradizione neoliberista. Nel mondo accademico non esisteva una lettura stimolante che prendesse in considerazione le tesi di Hayek, Becker o Friedman. Su questo non si può che dare ragione a Lagasnerie: Foucault ci ha permesso di comprendere questi autori, di leggerli e di scoprire in essi un pensiero complesso e stimolante. Su questo piano, sono in pieno accordo con lui. Foucault ha sempre avuto cura di interrogarsi su ambiti teorici dagli orizzonti molto differenti e di mettere costantemente in discussione le proprie idee. La sinistra intellettuale non è purtroppo mai riuscita a fare al-

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trettanto. Essa resta spesso chiusa in un atteggiamento «di scuola», rifiutando a priori di considerare o di discutere con le idee e le correnti che non partono dai suoi stessi presupposti. È un atteggiamento alquanto dannoso. Ci si ritrova, fondamentalmente, con delle persone che non hanno quasi mai letto le opere dei padri intellettuali dell'ideologia politica che vogliono combattere. La loro conoscenza di questi lavori si riduce spesso a qualche luogo comune molto riduttivo. Nel libro contesti la sua visione della sicurezza sociale e della redistribuzione delle ricchezze: puoi parlarcene? È una questione quasi inesplorata dall'immensa produzione dei «foucaultiani»! A dire il vero io stesso non pensavo di lavorare su tale questione quando ho immaginato il progetto del libro. Il mio interesse per la sicurezza sociale non era inizialmente legato direttamente a Foucault. Le mie ricerche su tale questione mi avevano portato a interrogarmi sul modo in cui si è passati, nel corso degli ultimi 40 anni, da una politica che mirava a lottare contro le disuguaglianze, ancorata alla sicurezza sociale, a una politica mirante a combattere la povertà, sempre più organizzata attorno ai budget specifici e calibrata su obiettivi pubblici. Con il passaggio da un obiettivo all'altro, è l'intera concezione della giustizia sociale ad essere trasformata. È infatti molto differente lottare contro le disuguaglianze (e voler ridurre i divari assoluti) o lottare contro la povertà (e voler offrire un minimo vitale ai più indigenti). Per portare a compimento questa piccola rivoluzione, è stato necessario un lungo lavoro di delegittimazione della sicurezza sociale e delle istituzioni legate al panorama salariato. Ed è percorrendo con attenzione le pagine dell'«ultimo» Foucault (quello della fine degli anni '70 e dell'inizio degli anni '80), che mi è parso chiaro come egli abbia preso pienamente parte a questa operazione. Egli non solo mette in discussione la sicurezza sociale ma è anche sedotto dall'alternativa dell'imposta negativa proposta da Friedman in questa epoca. Dal suo punto di vista, i meccanismi di assistenza e di assicurazione, che egli mette sullo stesso piano della prigione, delle caserme e delle scuole, sono istituzioni indispensabili «per l'esercizio del potere nelle società moderne». È d'altronde interessante notare che, nella sua opera centrale – non solo dedicata a Foucault ma anche, in gran parte, redatta sotto la sua direzione -, François Ewald non ha esitato a scrivere che lo «stato sociale realizza il sogno del biopotere»! Proprio così! Visti i troppi difetti che comporterebbe il classico sistema di sicurezza sociale, Foucault sembra allora interessato al progetto di sostituirlo con un sistema di imposta negativa. L'idea è re-

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Geoffroy de Lagasnerie, La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la théorie et la politique, Fayard, Paris 2012


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Lionel Stoleru, Vaincre la pauvreté dans les pays riches, Flammarion, Paris 1974

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Ivi, p. 237

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Ivi, pp. 286-287

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Robert Castel, Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi. Entretiens sur la construction de l’individu moderne, Fayard, Paris 2001

10 Karl Polanyi, The Great Transformation, Holt, Rinehart & Winston Inc., New York 1944 (Tr. it. La Grande Trasformazione, Einaudi, Torino 2000)

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lativamente semplice: l'offerta da parte dello Stato di un sussidio a tutti coloro che si trovano al di sotto di un certo livello di reddito. In Francia, questo dibattito apparve nel 1974, attraverso “Vaincre la pauvreté dans les pays riches” 6, di Lionel Stoléru. È d'altronde interessante notare che Foucault stesso, a più riprese, ha incontrato Stoléru, quando questi era consigliere tecnico al gabinetto di Giscard D'Estaing. Un argomento importante attraversa la sua opera e ha direttamente attirato l'attenzione di Foucault: nello stesso modo di Friedman, egli traccia una chiara linea di demarcazione tra una politica che cerca l'uguaglianza (socialismo) e una che vuole semplicemente sopprimere la povertà senza mettere in discussione le differenze (liberalismo). Per Stoléru, «le dottrine [...] possono promuovere sia una politica volta ad eliminare la povertà, sia una politica che cerca di limitare il divario tra ricchi e poveri». È quella che egli definisce la «frontiera tra povertà assoluta e povertà relativa».7 La prima rinvia semplicemente a un livello determinato arbitrariamente (al quale l'imposta negativa si indirizza) e l'altra ai divari generali tra gli individui (a cui si indirizzano la sicurezza sociale e lo Stato sociale). Secondo Stoléru, «l'economia di mercato è capace di assimilare le azioni di lotta contro la povertà assoluta» ma «è incapace di digerire dei rimedi troppo forti contro la povertà relativa».4 Ecco perché ritiene «che la distinzione tra povertà assoluta e povertà relativa sia di fatto la distinzione tra capitalismo e socialismo».8 La posta in gioco nel passaggio dall'una all'altra è dunque una questione politica: accettazione o meno del capitalismo come forma politica dominante. Da questo punto di vista, l'entusiasmo appena celato con cui Foucault parla della posizione di Stoléru fa parte di un movimento più ampio che procede di pari passo con il declino della filosofia egualitarista della sicurezza sociale, a vantaggio di una lotta alquanto liberale contro la «povertà». Per quanto possa sembrare sorprendente, questa lotta, lungi dall'aver limitato gli effetti delle politiche neoliberiste, ha in realtà operato in favore della loro egemonia politica. Detto questo, non dovrebbe sembrare strano vedere gli uomini più ricchi al mondo, come Bill Gates e Georges Soros, impegnarsi in questa lotta alla povertà pur continuando a difendere, apparentemente senza contraddizione, la liberalizzazione dei servizi pubblici, la distruzione di tutti i meccanismi di redistribuzione della ricchezza e le «virtù» del neoliberismo. Lottare contro la povertà permette così di includere le questioni sociali nell'agenda politica senza tuttavia dover lottare contro le disuguaglianze e i meccanismi strutturali che le producono. Questa evoluzione ha dunque pienamente accompagnato il neoliberismo e Foucault ha la sua parte di responsabilità in questa deriva.

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La questione dello Stato è onnipresente nel libro. Chi ne critica la ragion d'essere sarebbe un liberale. Ciò, però, non comporta, da Bakunin a Lenin, dimenticare la tradizione anarchica e marxista? Non penso. Credo che la critica della tradizione marxista o di quella anarchica sia molto differente da quella formulata da Foucault e, con lui, da una parte non trascurabile del marxismo degli anni '70. Prima di tutto, per la semplice ragione che questi autori non conoscevano la sicurezza sociale e la forma che avrebbe assunto lo Stato dopo il 1945. Lo Stato al quale si rivolge Lenin è effettivamente lo Stato della classe dominante, in cui gli operai non godono di alcun diritto reale. Il diritto di voto, per esempio, viene reso autenticamente universale - per gli uomini solo nel periodo tra le due guerre. È dunque difficile sapere cosa avrebbero pensato di queste istituzioni e del loro carattere cosiddetto «borghese». Io sono sempre stato molto irritato da questa idea, abbastanza diffusa nella sinistra radicale, per cui la sicurezza sociale sarebbe fondamentalmente uno strumento di controllo sociale da parte del grande capitale. Questa idea manifesta una totale ignoranza della storia e delle origini dei nostri sistemi di protezione sociale: essi non sono stati instaurati dalla borghesia per controllare il popolo; ma, al contrario, la prima era fortemente ostile nei loro confronti. Queste istituzioni, frutto di una posizione di forza del movimento operaio all'indomani della Liberazione, sono state inventate dal movimento operaio stesso. Fin dal XIX secolo, per esempio, gli operai e i sindacati avevano costituito le casse di mutuo soccorso per versare dei sussidi a chi fosse stato impossibilitato a lavorare. La logica stessa del mercato e le enormi incertezze che essa fa pesare sulle vite degli operai spinsero dunque questi ultimi a sviluppare dei meccanismi che permettessero di socializzare almeno parzialmente i loro redditi. Se, durante la prima fase della rivoluzione industriale, solo i proprietari potevano dirsi pienamente cittadini, è - come sottolinea Robert Castel - con la sicurezza sociale che ha realmente avuto luogo la «riabilitazione sociale dei non proprietari».9 Essa instaura quindi, a fianco della proprietà privata, una proprietà sociale destinata a fare realmente entrare nella cittadinanza le classi popolari. Questa idea è quella che difendeva Polanyi ne “La grande trasformazione” 10, individuando egli in ogni principio della protezione sociale l'obiettivo di svincolare l'individuo dalle leggi del mercato e dunque di riconfigurare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Si può certamente criticare la gestione statale della sicurezza sociale e dire, per esempio, che sono dei collettivi che la dovrebbero amministrare - anche se io non ci credo molto -, ma criticare lo strumento e i suoi fondamenti ideologici in quanto tali è molto differente. Quando Foucault arriva a dire che


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è «chiaro che non ha alcun senso parlare di diritto alla salute», a domandarsi se «una società deve cercare di soddisfare con degli strumenti collettivi il bisogno di salute degli individui» e «se è giusto e legittimo che gli individui rivendichino un diritto alla soddisfazione di questi bisogni», non si è più nel registro anarchico. Al contrario di Foucault, credo sia necessario approfondire le esperienze e le conquiste del passato, partire, come dice Bernard Friot, da «ciò che già esiste».11 La sicurezza sociale è uno strumento formidabile che dobbiamo sia difendere che approfondire. E così, quando leggo la filosofa Beatriz Preciado affermare che «noi non piangeremo per la fine dello stato sociale, perché lo stato sociale era anche l'ospedale psichiatrico, il centro di ricovero per handicappati, la prigione, la scuola patriarcale–coloniale–eterocentrata», mi dico che il neoliberismo ha fatto molto di più che trasformare semplicemente la nostra economia: ha anche profondamente riconfigurato l'immaginario sociale di una certa sinistra «libertaria»! 12 Se ci rivolgiamo ad alcuni intellettuali che criticano Foucault (pensiamo a Mandosio, Debray, Bricmont, Michéa, Monville o Quiniou), si può dire, a grandi linee, che essi gli rimproverano un posizionamento più «societario» che «sociale». Ma, focalizzandosi sui «marginali» (gli esclusi, i prigionieri, i folli, gli «anormali», le minoranze sessuali, etc.), Foucault non ha permesso di mettere in luce tutte quelle persone fino ad allora ignorate dal marxismo ortodosso – attento esclusivamente ai rapporti economici? Hai completamente ragione. Come ricordavo all'inizio, il suo apporto su questo versante è molto importante e ha chiaramente messo in luce tutta un a gamma di oppressioni che erano state invisibili fino a quel momento. Ma il suo modo di procedere non mira unicamente a illuminare questi problemi: egli cerca di dare loro una centralità politica che mi risulta discutibile. Ai suoi occhi e a quelli di molti altri autori di quell'epoca, la classe operaia appariva come «imborghesita» e perfettamente integrata nel sistema. I «privilegi» che essa avrebbe ottenuto nel dopoguerra l'avrebbero trasformata da agente di cambiamento sociale a freno della rivoluzione. Questa idea era molto diffusa e si trova anche in autori diversi come Herbert Marcuse 13 o André Gorz. Quest'ultimo arriverà addirittura a parlare di una «minoranza privilegiata» riferendosi alla classe operaia.14 La fine di questa centralità - che sarebbe sinonimo della fine della centralità del lavoro – trova allora il suo esito nelle «lotte contro le marginalizzazioni», a fianco delle minoranze etniche o sociali. Il sottoproletariato (o i «nuovi plebei», per riprendere un termine di Foucault), acquisisce una nuova popolarità ed è ormai visto come un soggetto autentica-

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mente rivoluzionario. Per questi autori, dunque, il problema non è più tanto lo sfruttamento quanto il potere e le forme moderne di dominio. Come scrive Foucault, «il XIX secolo si è preoccupato soprattutto delle relazioni tra le grandi strutture economiche e l'apparato statale», adesso sono «i problemi dei piccoli poteri e dei sistemi diffusi di dominio» che «sono diventati i problemi fondamentali».15 Al problema dello sfruttamento e della ricchezza si sarebbe allora sostituito quello del «troppo potere», quello del controllo delle condotte e delle forme di potere pastorale moderno. All'alba degli anni '80, per Foucault sembra chiaro che non occorre più ridistribuire la ricchezza; egli, così, non esita a scrivere che «si potrebbe dire che abbiamo bisogno di un'economia che non si basi sulla produzione e la distribuzione della ricchezza, ma di una economia che si basi sulle relazioni di potere».16 Non, dunque, lotte contro il potere in quanto attore dello sfruttamento economico ma piuttosto lotte contro il potere nella sua dimensione quotidiana; lotte cioè incarnate dal femminismo, dai movimenti studenteschi, dai detenuti e dai sans papiers. Sia chiaro, il problema non è l'aver posto all'ordine del giorno tutta una serie di forme di dominio fino a quel momento relativamente ignorate, ma il fatto che queste sono sempre più teorizzate e pensate al di fuori delle questioni relative allo sfruttamento. Lungi dal tracciare una prospettiva teorica che pensi le relazioni tra questi due problemi, essi sono stati poco a poco contrapposti, fino al punto di intravedervi una sostanziale contraddizione. Questo, effettivamente, è ciò che alcuni gli rimproverano: aver lodato la figura del «delinquente», del criminale e del sottoproletario, screditando il lavoratore e l'operaio, ai suoi occhi troppo «conservatori». Nel vostro libro, Jean-Loup Amselle rintraccia un legame tra questo abbandono del «popolo» e la posizione «écolo-bobo» della sinistra di governo - come nel caso di “Terra Nova”.17 Che ne pensi? Il problema è che tale squalificazione del mondo operaio ha avuto degli effetti alquanto sorprendenti. Nel dibattito pubblico essa pone l'«esclusione sociale» dei disoccupati, dei giovani delle banlieue e degli immigrati come principale problema politico. Non è più la disuguaglianza in senso generale a costituire un problema bensì la forma che questa assume per certe categorie sociali. Questa evoluzione sarà il punto di partenza della centralità che assumeranno - a destra come a sinistra - gli «esclusi» e l'idea che, ormai, la società «post-industriale» si dividerebbe tra quelli che hanno accesso al mercato del lavoro e quelli che – in un modo o nell'altro - ne sono esclusi; ciò sposta così l'attenzione dal mondo del lavoro verso l'esclusione, i poveri o la disoccupazione. Come

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Bernard Friot, L’Enjeu du salaire, La Dispute, Paris 2012

12 Paul B. Preciado, “Nous disons Révolution”, Libération, 20 marzo 2013 (goo.gl/LQibKw) 13

Herbert Marcuse, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon, Boston 1964

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André Gorz, Adieux au Proletariat, Galilée, Paris 1989

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Michel Foucault, “Michel Foucault. Les réponses du philosophe, novembre 1975”, in Dits et Ecrits I. 1954-1975, n°163, Gallimard, Paris 2001, p. 1674

16 Michel Foucault, “La philosophie analytique de la politique”, in Ivi, p. 536 17 «Nell’immaginario collettivo, gli «écolos» sono persone che si spostano in bicicletta, frequentano il mercato biologico e amano dibattere delle questioni sociali sorseggiando una birra artigianale» (goo. gl/gGdXUW). Dal canto suo, il termine «bobo» è la contrazione di «bourgeoisbohème»; si tratta di un profilo avente un’etica che intreccia la «ribellione» degli anni Sessanta al «successo» degli anni Ottanta: «una persona con un reddito consistente ma non astronomico, con una formazione piuttosto alta, che fruisce delle opportunità culturali e che vota a sinistra» (goo. gl/H5O9PD). “Terra Nova” è un think thank francese, ritenuto vicino al Partito Socialista Francese, e impegnato nel rinnovamento dell’ideale socialdemocratico (http:// tnova.fr)


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Stéphane Beaud, Michel Pialoux, Retour sur la condition ouvrière, 10/18, Paris 2004, p. 424

19 Serge Halimi, préface à Thomas Frank, Pourquoi les pauvres votent à droite, Agone, Marseille 2008, p. 19 20 Charles Murray, Excerpts from Losing Ground: American Social Policy, 1950-1980, Basic Books, New York 1984 21

Isabelle Garo, Foucault, Deleuze, Althusser et Marx, Demopolis, Paris, 2011, p. 70

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notavano i sociologi Stéphane Beaud et Michel Pialoux, questo dislocamento porrà indirettamente gli operai «dalla parte di quelli che hanno un impiego (dal lato dei «privilegiati» e dei «vantaggi acquisiti»)».18 Questa logica, che ridefinisce da una parte e dall'altra, a sinistra come a destra, la questione sociale nei termini di un conflitto tra due fazioni del proletariato (e dunque non più nei termini del conflitto tra capitale e lavoro), pone alcuni problemi. A destra, essa mirerà a limitare i diritti sociali dei «soprannumerari», mobilitando contro di essi gli «attivi»; a sinistra, invece, si tratterà di mobilizzare i «soprannumerari» contro l'imborghesimento degli «attivi». Entrambe le parti accettano quindi la centralità delle fazioni «escluse» dal salario stabile, a scapito degli «operai». E in tal senso ci si può chiedere se, quando Margaret Thatcher oppose l'«underclass» «assistita» e «protetta» agli inglesi che «lavorano», non stesse esprimendo, sotto una forma capovolta, la tesi di Foucault o di Gorz. Questa nuova doxa della destra neoliberista conservatrice cerca essenzialmente, come notava Serge Halimi, «la ridefinizione della questione sociale in modo che la linea di frattura non opponga più ricchi e poveri, capitale e lavoro, ma due fazioni del «proletariato» tra loro: da una parte coloro che «non ne possono più di fare degli sforzi» e dall'altra «la repubblica degli assistiti».19 Se da un lato è evidente che il contenuto politico di queste dichiarazioni di destra differisce radicalmente da quelle degli autori della fine degli anni '70, dall'altro lo è altrettanto il fatto che entrambe presuppongono che oggi sono gli «esclusi» - secondo i rispettivi punti di vista - a causare il problema o ad essere la soluzione. In una maniera o nell'altra, per entrambi sono i soprannumerari, e non più la classe operaia, ad essere divenuti il soggetto politico centrale. Come infatti non vedere uno strano paradosso tra la «non classe» di Gorz e l'«underclass» cara all'ideologo ultra-conservatore Charles Murray?20 Sia per Gorz che per il neoliberismo, il problema non è più tanto il fatto di essere sfruttati quanto quello relativo al rapporto con il lavoro. Gorz individua nel modo di vita dei «soprannumerari» un rapporto affrancato dal lavoro, la Thatcher vi vede un «vizio» la pigrizia - da combattere; l'uno eleva al rango di virtù un «diritto all'ozio» mentre l'altra ne fa un'ingiustizia da sopprimere. Ma, in fondo, queste due versioni funzionano con la stessa logica. Sia a sinistra che a destra si individua nei «soprannumerari» il problema, rimpiazzando così le vecchie idee superate e dogmatiche che facevano dello sfruttamento il cuore della critica sociale. A destra come a sinistra, si tende ormai ad opporre due fazioni del proletariato che, con le evoluzioni economiche neoliberiste, sono entrate in una concorrenza distruttrice. Questa transizione contribuirà a «rimpiazzare lo sfruttamento e la sua critica con una focalizzazione

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sulla vittima del diritto negato, prigioniero, dissidente, omosessuale, rifugiato ecc.».21 Debray, in Modernes catacombes, scrive che Foucault, la penna ribelle e sovversiva, è diventato un «filosofo ufficiale». Come si spiega questo paradosso? E come si spiega che egli possa sedurre quegli ambienti radicali che, con clamore, affermano di volere superare l'era neoliberale? È una domanda molto interessante alla quale però non ho una risposta esaustiva. Penso tuttavia che questo fatto sia in gran parte dovuto alla struttura dell'ambiente accademico stesso. Bisogna tornare a Bourdieu e ai preziosi lavori di Louis Pinto per meglio comprendere questa evoluzione. Non bisogna mai dimenticare che inserirsi in una «scuola» o in una certa prospettiva teorica significa anche inserirsi in un campo intellettuale dove c'è una lotta importante per avere accesso alle posizioni dominanti. Dirsi marxista nella Francia degli anni '60, quando il campo accademico è parzialmente dominato da autori che rivendicano una tale appartenenza, non ha lo stesso senso che l'essere marxista oggi. I concetti e gli autori canonici sono evidentemente degli strumenti intellettuali, ma essi corrispondono ugualmente ad altrettante strategie per inserirsi nel campo e nelle lotte di cui sono l'oggetto. Pertanto le congiunture intellettuali sono in parte determinate dal rapporto di forza interno al campo stesso. In tal senso mi sembra che i rapporti di forza nel campo accademico siano considerevolmente cambiati a partire dalla fine degli anni '70: in seguito al declino del marxismo, Foucault vi occupa un ruolo centrale. Egli, in effetti, offre una posizione molto comoda, poiché permette di esercitare un certo grado di sovversione senza che ciò risulti contro-producente in fatto di codici accademici. Oggi richiamarsi a Foucault è relativamente valorizzato e permette spesso ai suoi difensori di essere pubblicati su riviste prestigiose, di inserirsi in vaste reti d'intellettuali, di pubblicare libri, etc. Grandi aree del mondo intellettuale fanno riferimento a Foucault nei loro lavori e gli fanno dire tutto e il contrario di tutto. Si può così essere consigliere al MEDEF e, nel contempo, pubblicare i suoi corsi! Direi proprio che egli spalanca diverse porte. Ai giorni nostri, la stessa cosa non si può dire di Marx! La critica che muovi a Foucault in virtù del suo individuare i «margini» come centro della contesa politica non rischia di intercettare e con ciò entusiasmare settori di fatto contro-rivoluzionari, ostili a ogni emancipazione? Non temi di fare il loro gioco? Effettivamente penso esista una critica «conserva-


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trice» di Foucault e, più in generale, di quello che ha potuto rappresentare il maggio '68 nella storia sociale francese. Questa critica non è marginale: la si ritrova in modo consistente tra i pensatori della destra conservatrice, come Eric Zemmour, o nel “Front National”. Essi criticano apertamente tutta l'eredità femminista, antirazzista e culturale del maggio '68, pur essendo molto meno attenti alle devastazioni economiche del neoliberismo. Un po' come se il problema fosse il liberismo politico che ha attraversato gli anni '80; di fronte al quale, quindi, per potere ritornare a «fare società», sarebbe necessario un passo indietro tale da cancellare le evoluzioni vissute dalla società. Spesso infatti si sente l'idea secondo cui la distruzione dei valori familiari o delle forme comunitarie del legame sociale costituirebbe la discontinuità che ha permesso l'espansione del neoliberismo. Se da una parte hanno senza dubbio una parziale verosimiglianza, dall'altra tali critiche sono totalmente fantasiose quando, come corollario, propongono un ritorno a modelli di vita più «tradizionali»! Forse ci stiamo proprio dirigendo verso una sorta di liberismo molto più autoritario, con un ritorno dei valori famigliari, di una cultura nazionale e del buon vecchio capitalismo precedente alla mondializzazione [, ossia alla globalizzazione neoliberista]. Quanto all'idea di «fare il gioco di qualcun altro», non penso che ciò sia un problema, anzi. Se vi sono delle contraddizioni concernenti una certa eredità del Maggio '68, il ruolo della sinistra non è quello di chiudere gli occhi perché l'estrema destra se ne occupa; è infatti necessario elaborare un proprio bilancio, formulare una propria critica, così da non perdere totalmente la contesa ideologica! È questo ciò di cui necessitiamo nell'ottica di ricostruire una sinistra che possa essere radicale e popolare.

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La necessità di un dibattito franco sui problemi della transizione al socialismo nel caso concreto dell'ex-URSS di Fabio Scolari

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Quello odierno è stato definito da Bauman un «capitalismo parassitario»: tale sistema, come un parassita, «può prosperare per un certo periodo di tempo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l’ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza». Zygmunt Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Bari 2009, p. 4

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Domenico Losurdo, “Come nacque e come mori il «marxismo occidentale»”, in Mario Cingoli e Vittorio Morfino (a c. di), Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, Unicopli, Milano 2011, pp. 395-418

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Vladimir, Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Ed. Rinascita, Roma 1957, p. 27

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Dopo lo scioglimento del Partito Comunista Italiano (PCI), trattare in modo approfondito le vicende relative alla storia sovietica è stato davvero arduo. Stretti tra esigenze prevalentemente propagandiste, questi argomenti sono stati spesso riscoperti e utilizzanti solo nelle lotte di corrente interne ai vari partiti, favorendo in ultima analisi solo una deleteria volgarizzazione delle argomentazioni. L’unica sicurezza sulla quale si potrebbe concordare è relativa all’utilizzo strumentale di questi “accesissimi” dibattiti, i quali se da un lato hanno impedito uno studio più bilanciato della storia del movimento comunista, dall’altro hanno reso di fatto possibile la progressiva liquidazione della peculiare cultura politica comunista italiana. Funzionale a questo risultato, molto spesso unicamente volto ad accreditarsi agli occhi di forze politiche moderate, è stata la demolizione del leninismo e dalla storia dell’URSS, presentata come una sequela interminabile di orrori e di crimini. Non vi era quindi la reale intenzione di affrontare gli irrisolti problemi concernenti le diverse modalità di transizione al socialismo, che il crollo dei regimi dell’Europa dell'Est aveva portato allo scoperto, ma unicamente quella di rilegittimare o forme organizzative grettamente spontaneiste o una prassi socialliberale sprovvista della volontà di ricercare la trasformazione socialista. La necessità odierna, di fronte a una crisi epocale del sistema capitalista1, all’emersione di nuove potenze economiche (che hanno alle spalle decenni di lotte contro il colonialismo) e a una rinata aggressività della NATO, è quella di ritornare a problematizzare molte delle presunte “innovazioni politiche” avanzate negli ultimi vent'anni; e, parallelamente, quella di giungere a un bilancio critico che sappia realmente indicare i limiti delle esperienze rivoluzionarie del '900, senza per questo lasciar spazio a qualsivoglia forma di liquidazionismo, promuovendo in definitiva una riflessione che ci conduca ad abbandonare quella che Domenico Losurdo ha definito la nostra autofagia. ●● Studiare la storia sovietica con metodo, attenendosi ai fatti Uno dei pilastri della moderna corrente “revisionista/innovatrice” è la continua calunnia contro la storia della prima esperienza di costruzione di un sistema sociale che superasse il modo di produzione

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capitalistico. L’obiettivo fondamentale consiste nel delegittimare il leninismo come guida all’azione nell’opera di trasformazione sociale. Di riflesso, tale prassi è stata viziata alla base dall'adozione di principi astratti e dalla conseguente rimozione di un'analisi delle condizioni oggettive: ne è risultata una grave perdita in termini di plausibilità dei risultati e di concretezza della proposta politica stessa. Certo, nell’ambito del cosiddetto «marxismo occidentale», l’analisi critica, concentratasi «esclusivamente sulle “forme rispettabili” del dominio borghese e capitalistico» (rimuovendo costantemente la sorte inflitta ai popoli coloniali), ha raggiunto vette molto elevate, ma forse proprio la distanza dall’effettivo esercizio del potere politico, a differenza dei “marxisti orientali”, ha convertito «la critica pur assolutamente necessaria del socialismo reale», «in una banale apologetica liberale e in una liquidazione indifferenziata della storia del comunismo novecentesco».2 Se davvero volessimo confrontarci con l’esperienza sovietica e con l’opera del suo principale teorico, dovremmo evitare di confondere l'«essere» con il «dover essere», e attenerci alla machiavelliana «verità effettuale». Se l'essenza del marxismo, come ci insegna Lenin, è «l'analisi concreta della situazione concreta», occorre in primis contestualizzare gli eventi che hanno caratterizzato la storia sovietica e, dopo averli così compresi, trarne insegnamenti che possano essere utili per l'azione politica contemporanea. ●● Approfondire le cause della Rivoluzione d'Ottobre A seguito della prima grande crisi capitalista (18731895), iniziò a presentarsi una sempre maggiore tendenza alla concentrazione monopolistica del capitale attraverso i «kartell» (accordi tra imprese autonome per evitare la concorrenza e controllare un settore produttivo) e i «trust» (fusioni di aziende). Questa caratteristica, già messa in luce da Marx nel “Capitale”, verrà colta e analizzata in modo più compiuto e approfondito da Lenin nei suoi scritti sull’imperialismo: «allorché Marx, mezzo secolo fa, scriveva il Capitale la maggioranza degli economisti considerava la libertà di commercio una “legge naturale”. La scienza ufficiale ha tentato di seppellire con la congiura e con il silenzio l’opera di Marx, che, mediante l’analisi teorica e storica del capitalismo, ha dimostrato come la libera concorrenza determini la concentrazione della produzione, e come questa, a sua volta, a un certo grado di sviluppo conduca al monopolio»; e concludeva: «oggi il monopolio è una realtà”.3 Risulta anzitutto inesatto bollare come prematura la Rivoluzione d’Ottobre, riproponendo le stesse argomentazioni dei principali esponenti della socialdemocrazia del primo '900 (Kautsky, Turati, ecc.), tanto più se non si tiene in considerazione l'evoluzione del capitalismo che, negli anni della “Belle Époque” (1896-1914), abbandonerà definitivamente i tratti della libera concorrenza per tramutarsi – ap-


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punto - in un sistema monopolistico. Proprio l’aver colto questo profondo mutamento porterà Lenin ad affermare: «l'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all'inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente».4 La conseguente azione politica porterà i rivoluzionari russi a opporsi alla Prima Guerra Mondiale e, dinnanzi alla svolta sciovinista della socialdemocrazia (che porterà alla fine della II Internazionale), a mostrarne i caratteri di classe – le borghesie europee in lotta per il banchetto coloniale - nonché a lanciare la parola d’ordine per «trasformare la guerra imperialista in guerra civile». Lungi allora dall’essersi presentata come una sommossa sanguinaria, la Rivoluzione d’Ottobre trae la sua origine in primo luogo dalla volontà di pace del popolo russo – di fronte a quella che papa Benedetto XV definì l'«inutile strage». «Una grande rivoluzione è già matura nelle coscienze, quando si manifesta nei fatti; non è solo uno scatenamento di violenza: è sopra tutto il risultato di un intenso sforzo di pensiero, di un rinnovamento morale».5 Queste parole di Gaetano Salvemini, pronunciate in riferimento alla Rivoluzione Francese, sono forse ancora la migliore chiave di lettura per indagare come sia possibile arrivare a situazioni esplosive, che preludono il passaggio a nuove epoche storiche. Ben presto, a seguito delle repressioni in Ungheria, Germania e Italia, le speranze di “fare come in Russia” si dimostrarono semplicistiche e i comunisti europei si trovarono a dover ripensare profondamente le modalità di conquista del potere, non potendo ricalcare l’attacco frontale messo in atto dai bolscevichi. Iniziò così una fase ricca di spunti e ripensamenti per i comunisti che, in diverse forme e contesti, continua ancora oggi. Per far fronte a tale inatteso rallentamento della “rivoluzione mondiale”, il III Congresso dell’Internazionale Comunista (1921) varerà la politica del “Fronte Unico”, volta a predisporre una strategia delle alleanze verso organizzazioni riformiste al fine di ampliare il coinvolgimento dei lavoratori. Chi tutt’oggi continua a voler deformare il pensiero di Lenin, per sottolinearne un’innata carica autoritaria e anti-democratica, ed estrapola maliziosamente a tal fine qualche passaggio del Che Fare?, non tiene assolutamente conto del fatto che tale testo fu scritto nel pieno della polemica con l’ala riformista della socialdemocrazia russa e in relazione a una realtà nazionale connotata da una violentissima repressione politica. Al contrario, gli insegnamenti leniniani risulteranno molto utili ai partiti comunisti negli anni della soppressione dei “diritti liberali” operata dai regimi nazi-fascisti, risultando le sole forze in grado di mantenere cellule attive nei vari stati nazionali. Questo approfondimento strategico – completamente occultato dalla storiografia dominante – non sfuggirà ad Antonio Gramsci, che non a caso in carcere lo porrà alla base di un’opera di pro-

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fonda riformulazione globale della strategia rivoluzionaria da applicare nell’Occidente capitalisticamente avanzato. D’altra parte proprio oggi, nelle nazioni occidentali è possibile rendersi conto di come, una volta private delle proprie formazioni politiche di riferimento, le coscienze delle classi subalterne non riescano ad elevarsi oltre a una semplice politica “tradeunionista”, abbandonando completamente il terreno della lotta per la conquista del potere politico e della trasformazione sociale. «La coscienza politica può essere portata all’operaio solo dall’esterno»6, questa è la sostanza della concezione leniniana dell’organizzazione, che, lungi dal giustificare in modo assoluto forme organizzative centralizzate e gerarchiche, esalta il momento della razionalità, del pensiero attivo e della volontà creatrice. La Rivoluzione d'Ottobre si può dunque presentare in ultima analisi come la più evidente dimostrazione dell’infondatezza della concezione antidialettica e positivista del pensiero marxista veicolato della II Internazionale. Non solo deve essere messa in luce la straordinaria capacità tattica dei bolscevichi durante i “10 giorni che sconvolsero il mondo”, ma soprattutto la loro opera di profondo rinnovamento teorico della dottrina marxista. A seguito della morte dei due fondatori del “socialismo scientifico”, si era andata infatti rafforzandosi la tendenza ad una lettura evoluzionistica-gradualista e dogmatica del materialismo storico. In verità già Engels nella sua corrispondenza privata metteva in guardia da interpretazioni eccessivamente riduttive, sottolineando che «secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell'affermazione in modo che il momento economico risulti essere l'unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda».7 In Italia, solo grazie al lavoro di approfondimento sviluppato da Labriola poté circolare una versione meno rozza della “concezione materialistica della storia”, la quale assumeva in definitiva un ruolo di metodo di ricerca. In relazione a questa lettura labrioliana, Marcello Mustè sostiene: «la parola “metodo” significava appunto che il marxismo, lungi dal poter determinare la struttura (il senso e il significato) del processo storico, avrebbe dovuto limitarsi al compito, per altro essenziale, di ricondurre i fatti della storia umana alla loro radice autentica, portandoli oltre il velo ideologico che li occultava alla coscienza».8 Su questa scia, attraverso una riscoperta più completa del pensiero di Hegel, della filosofia classica tedesca e della dialettica - la quale pone la contraddizione come molla attraverso cui la realtà si sviluppa e la sintesi come superamento che ha fatto proprio quello che vi era di vero nei momenti precedenti -, si posero le basi per fuoriuscire dalle secche di una visione economicistica e volgare, che vo-

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“Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, in V. I. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 556. Leggibile qui: goo. gl/4sGSUf

5

Gaetano Salvemini, La rivoluzione francese 1788-1792, Feltrinelli, Milano 1989, cap. II, p. 31

6

Vladimir Lenin, Che fare?, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 115

7

Friedrich Engels, Lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890. Leggibile qui: goo.gl/BMZ3NZ

8

Marcello Mustè, “Il marxismo teorico in Italia: Labriola, Croce, Gentile”, in Storia del Marxismo, Carocci, Roma 2015, vol. I, p. 83


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György Lukács, Testamento Politico, Edizioni Punto Rosso, Milano 2016, p. 46

10 Vladimir Lenin, “Meglio meno ma meglio”, 1923. Leggibile qui: goo. gl/BHKd1K 11

Lisa Foa, Introduzione a “Nikolaj Bucharin, Evgenij Preobrazenkij, L’accumulazione socialista”, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. XXII-XXIII (introduzione, a cura di Lisa Foa)

12 Josiph Stalin, “Rapporto al XVII congresso del partito sull’attività del comitato centrale”, 26 gennaio 1934 13 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Roma 2016, pp. 148-149

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leva fare del momento economico l’unica determinante ai fini dello sviluppo storico e sociale. L’aver inficiato l’analisi marxista con schemi di natura positivistica decretò l’impossibilità per le organizzazioni social-democratiche europee di anticipare ed agire sulle esplosive contraddizioni generate dalla I guerra mondiale, isolandosi o in un democraticismo inconcludente oppure in uno sterile massimalismo. Sicuramente a rallentare una presa di coscienza dei limiti di analisi che travolsero la II internazionale vi è ciò che Lukacs individuò come il «falso dilemma: fascismo o bolscevismo».9 Problema che bloccherà una ricerca più approfondita e in grado di esplorare diversi ambiti teorici. Certamente non si vogliono negare anche parziali successi ottenuti in quegli anni: ad esempio la SPD, organizzazione di riferimento per generazioni di militanti socialisti germanici, riuscì, durante il periodo della dura repressione antisocialista del cancelliere Bismarck, ad evitare l’integrazione del movimento operaio nella politica dell’Impero tedesco. D’altra parte, solo con la fondazione della III Internazionale si porranno le basi per depurare la prassi del movimento operaio dell’Europa Occidentale da una concezione lineare e per tappe predeterminate del processo di evoluzione storica, che in realtà nascondeva l'incapacità, grave, di saldare un’ampia alleanza tra classe operaia, contadini e popoli sfruttati nelle colonie, limitandosi nel migliore delle ipotesi a una difesa corporativa delle “aristocrazie operaie”. ●● Restituire la dimensione storica alla transizione socialista Non solo i bolscevichi evitarono la disintegrazione dell’apparato statale, ma furono costretti ad edificarne uno nuovo scontrandosi con una situazione interna e internazionale sfavorevole. Questo è forse un fatto tra i più controversi, oggetto di aspre discussioni e critiche: proprio l’aver accantonato una visione messianica del marxismo, l’essersi scontrati con innumerevoli problemi nell’edificazione della società socialista, ha causato significativi turbamenti in coloro che hanno guardato e guardano a queste dinamiche mediante lenti analitiche non critico-scientifiche, cioè non confacenti all'interna legalità dell'oggetto considerato. Lenin, negli ultimi anni di vita, riconoscendo implicitamente di aver trattato - in Stato e Rivoluzione - troppo sbrigativamente il tema dell’estinzione statuale, sostenne: «riguardo all'apparato statale dobbiamo trarre dall'esperienza precedente la conclusione che sarebbe meglio andare più adagio»; era invero necessario edificare nel modo più completo «un apparato veramente nuovo che meriti veramente il nome di socialista, di sovietico, ecc»10, tanto che ogni rallentamento in tale percorso avrebbe significato la sopravvivenza delle vecchie strutture zariste. È comunque ampiamente riconosciuto come queste ultime indicazioni furono recepite solo in parte dalla maggioranza del PCUS e come

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sotto la direzione di Stalin le decisioni in materia economica furono attuate con «metodi puramente amministrativi», che di fatto implicarono il «rifiuto di una mediazione politica fra le parti».11 Sempre in relazione a tutto ciò, si potrebbe discutere a lungo sulla valutazione leniniana, ad esempio, della NEP come semplice “ritirata strategica” (analisi – questa – che impedisce di cogliere appieno gli aspetti più innovativi dell’integrazione di forme di mercato nello sviluppo delle forze produttive) oppure della rottura dell’alleanza fra operai e contadini causata dalla collettivizzazione forzata delle campagne funzionale al controllo di tutti i processi economici e al drenaggio di maggiori risorse a favore di uno straordinario sviluppo industriale del Paese, poi rivelatosi fondamentale. Dinamiche che certamente comportarono «degenerazioni» e limitazioni delle libertà democratiche, ma che devono essere analizzate nella loro dimensione storica, evitando analisi manichee e soprattutto astratte. In ogni caso, il gruppo dirigente bolscevico si distinse per aver saputo abbandonare visioni rozzamente egualitarie e pauperiste del socialismo. Lo stesso Stalin sosteneva: «sarebbe stupido pensare che il socialismo possa essere edificato sulla base della miseria e delle privazioni, sulla base della riduzione dei bisogni personali e dell’abbassamento del tenore di vita degli uomini al livello dei poveri, i quali invece non vogliono più rimanere poveri e tendono a innalzarsi verso una vita più agiata»; e concludeva: «il socialismo può essere edificato soltanto sulla base di un impietoso aumento delle forze produttive della società, sulla base di un’abbondanza di generi alimentari e di merci, sulla base di una vita agiata dei lavoratori, sulla base di un impetuoso sviluppo della cultura».12 ●● La funzione nazionale della classe operaia Al gruppo dirigente bolscevico e a Stalin in particolare è stata rivolta l'accusa di aver sostituito l’iniziale internazionalismo proletario con un gretto nazionalismo russo. Ovviamente, di fronte all’avanzata del nazifascismo – inizialmente sottovalutato e considerato alla stregua di un normale cambio di classe dirigente tutto interno alla borghesia –, i comunisti di tutto il mondo rivalutarono non solo le “libertà dell’89”, ma anche la funzione nazionale della classe operaia. A discapito delle critiche, tale impostazione era già presente nel Manifesto, in cui si legge: «gli operai non hanno patria. Non si può levar loro quello che non hanno»; ma «siccome il proletariato d’ogni paese deve, in primo luogo, costituirsi in classe nazionale nel proprio paese, nei suoi propri limiti nazionali, per questo fatto egli è nazionale, non però nel senso borghese».13 Occorre però comprendere il concetto marxista di nazione per evitare equivoci. In proposito Palmiro Togliatti spiegava: «cosa intendiamo noi marxisti, quando parliamo di nazione? Noi intendiamo la classe operaia, la classe contadina, la massa degli intellettuali, la massa dei lavora-


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tori del pensiero e non soltanto quelli del braccio: impiegati, professionisti. Noi escludiamo dalla comunità nazionale soltanto quei gruppi egoistici, quelle classi possidenti, reazionarie, le quali non sono capaci, nella loro politica di elevarsi al disopra della considerazione dei loro gretti interessi e di mettere al disopra di questi gli interessi generali del popolo del loro paese». Proprio nel momento in cui «le classi borghesi cessano di essere nazionali, quando diventano imperialiste», il compito della classe operaia è quello di rilanciare la costituzione di un nuovo blocco storico per la sostituzione delle vecchie classi dirigenti.14 La dimensione nazionale della lotta di classe viene riconosciuta anche da Gramsci quando, in un passaggio dei Quaderni, qualifica Trotsky come un «cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista ed europeo», contrapponendogli invece un «profondamente nazionale e profondamente europeo» Lenin.15 Lungi dunque dal presentarsi come una nozione trasversale e interclassista oppure favorevole ad un ritorno al più bieco nazionalismo, la necessità di radicare l’azione del Partito partendo da uno studio della realtà concreta di ciascun Paese rappresenta ancora oggi un insegnamento di inestimabile valore. ●● Approcciarsi alla storia per rinnovare la cultura comunista Dinnanzi allo smarrimento dovuto alla demolizione del “mito Stalin”, effettuata da Nikita Kruschev durante il XX Congresso del PCUS (1956), Togliatti seppe lucidamente cogliere come tale modalità non seguisse un metodo marxista. Egli argomentò: «sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell’ambito del «culto della personalità». Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell’altro siamo fuori del criterio di giudizio che è proprio del marxismo. Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica poté giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità che si era tracciata, e persino di degenerazione. Lo studio dovrà essere fatto seguendo le diverse tappe di sviluppo di questa società, e sono prima di tutti i compagni sovietici che debbono farlo, perché conoscono le cose meglio di noi, che possiamo sbagliare per parziale o errata conoscenza dei fatti».16 La leadership post-staliniana, eseguendo una critica astratta e perciò de-storicizzante, non forniva un coerente progetto di rinnovamento teorico e pratico. Per approcciarci in modo corretto alle vicende sovietiche occorre in primis non separarle dall'involucro in cui esse presero forma e, in correlazione a ciò, rifiutare concetti non scientifici come quello di «totalitarismo», funzionale a parificare indiscriminatamente comunismo e nazismo. Riappropriandoci

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di quelle categorie analitiche di volta in volta in grado di elaborare concettualmente il corso storico, per esempio quella gramsciana di “cesarismo”, comprenderemo in modo più esaustivo e dialettico passaggi epocali della storia del socialismo reale. Gramsci definisce tale nozione come la «soluzione “arbitrale”, affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica»; «ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico»: «è progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria».17 Tale categoria, con cui «si dimostra come l’irrigidimento giuridico-politico non ubbidisca a scelte arbitrarie, bensì a circostanze e rapporti di forza oggettivi», appare un «evidente rinvio concettuale alla situazione dell'Unione Sovietica»18, e può dunque essere un utile strumento per cogliere l'essenza degli eventi considerati. Insomma, della vicenda sovietica occorre «comprendere ciò che appare incomprensibile».19 E, siccome la storia non è un «supermercato dove si possano scegliere solo le cose gradite», anziché oscurarla, occorre illuminare la contraddizione, porla al centro dell'analisi.20 Concretamente, rifuggendo tanto da una demonizzazione criminalizzante quanto da una celebrazione acritica, è necessario contestualizzare – cioè cogliere nella sua determinatezza - il tentativo bolscevico della costruzione d'una nuova società. A tal proposito, la «tragedia» sovietica si può comprendere solo sullo sfondo di una «catena inestricabile di conflitti» - «nella quale ben tre guerre civili (quella tra la rivoluzione bolscevica e i bianchi, quella innescata dalla «rivoluzione dall’alto» che promuove la collettivizzazione dell’agricoltura e l’industrializzazione, quella che divide senza esclusione di colpi lo stesso gruppo dirigente bolscevico) si intrecciano con le molteplici spinte di un conflitto internazionale che si svolge esso stesso su più piani (Prima guerra mondiale, conflitti nazionali, cordone sanitario, nazifascismi, Seconda guerra mondiale, Guerra Fredda, contrasti interni al campo socialista, ...)».21 Alla luce di tutto ciò, sarebbe miope disconnettere quella che viene ad affermarsi come una vera e propria «dittatura sviluppista» - impegnata a «mobilitare e “rieducare” tutte le forze in funzione del superamento della secolare arretratezza» della Russia», così da concentrare in pochi anni ciò che i paesi più avanzati avevano realizzato in diversi secoli -, dall'accerchiamento e dalla necessità di difendersi da un attacco mortale quali caratteristiche peculiari dell'Urss. In base a un tale prospettiva – che rintraccia l'esistenza di un permanente stato d'eccezione attraversato da una crisi acuta ove l'esistenza stessa della comunità nazionale e dello Stato è a repenta-

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Palmiro Togliatti, Il partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma 1971, cap. IX, p. 79

15 Antonio Santucci (a c. di), Antonio Gramsci, Le opere, Editori Riuniti, Roma 1997, estratto VII°, Quaderno p. 250 16

Palmiro Togliatti, L’intervista a «Nuovi Argomenti», ora in Id., Opere, VI, 1956-1964, a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 137

17 Antonio Santucci (a c. di), Antonio Gramsci, Le opere, Editori Riuniti, Roma 1997, Estratto XIII, Quaderno pp. 382-383 18 Emiliano Alessandroni, “Antonio Gramsci tra postmodernismo e Rapporto Chruščëv”, in Angelo D’orsi (ed.) Inchiesta su Gramsci, Quaderni scomparsi, abiure, conversioni, tradimenti: leggende o verità?, (2014), La Biblioteca di «Historia Magistra», Accademia University Press, pp. 13-22 19 Lettera di André Tosel rifiutata da Liberazione, giovedì 16 aprile 2009, “Stalinismo e utopia astratta”. Leggibile qui: goo.gl/iwWbUW 20 Paolo Favilli, “Ripensare il Novecento, secolo di contraddizioni, utopie e distopie. Questione comunista e storia del comunismo”, in Liberazione, 22/04/2009. Leggibile qui: goo.gl/ B32Jyf 21

Stefano G. Azzarà, La storia del Novecento e il socialismo reale di fronte al postmodernismo storiografico, in “Marxismo Oggi”, 2-3 (2009), pp. 166-188. Leggibile qui: goo. gl/7bJuzX


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Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2013, pp. 156-157

23 «Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’estensione del suffragio in Europa va di pari passo con il processo di colonizzazione e con l’imposizione di rapporti di lavoro servili o semi servili alle popolazioni assoggettate; il governo della legge nella metropoli s’intreccia strettamente con la violenza e l’arbitrio burocratico e poliziesco e con lo stato d’assedio nelle colonie». Domenico Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma 1998, p. 18. 24 «Democrazia moderna» che va intesa quale la cornice storica all’interno della quale si affermò la partecipazione attiva e autonoma dei ceti subalterni e, in stretta connessione ad essa, una progressione in fatto di diritti economici e sociali. Si veda: Stefano G. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur, Reggio Emilia 2014 25 Stefano G. Azzarà, La storia del Novecento e il socialismo reale di fronte al postmodernismo storiografico, cit.

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glio, e in cui vi è un «assillo produttivistico e pedagogico» - è possibile chiarire (non giustificare!) le origini del terrore, della ferrea irreggimentazione della società e dell'«universo concentrazionario».22 Un «universo concentrazionario» che non può essere sovrapposto a quello nazista (nel gulag un enorme numero di persone è morta per gli stenti, la fame e il sovraccarico di lavoro ma non certamente per ragioni razziali, come invece accadeva nel Konzentrationslager, «sin dagli inizi il risultato di un ben determinato progetto politico e di una ben determinata visione ideologica») né può essere isolato rispetto alle analoghe pratiche occidentali: invero, se proprio volessimo ricercare l’origine di tali crudeltà dovremmo concentrarci sulla storia del liberalismo, sulle vessazioni subite dai popoli coloniali e dalle classi subalterne nella «democrazia dei signori».23 Sarebbe inoltre intellettualmente disonesto spezzare l'intreccio che unisce la massa enorme di orrore implicita nella politica staliniana alle dinamiche progressive ingenerate dall'Ottobre, sul fronte interno (una forte mobilità sociale; l'alfabetizzazione di massa; l’accesso all’istruzione, alla cultura e persino a posti di responsabilità e di direzione di strati sociali sino a quel momento del tutto emarginati; la creazione di uno stato sociale di massa) nonché su quello esterno (anzitutto la vittoria sul nazismo ma anche il ruolo propulsore rispetto ai movimenti di liberazione anticoloniali e pure rispetto alla società occidentale, stimolata nella costruzione della «democrazia moderna»).24 Disgiungere questi due orizzonti equivarrebbe a eludere la tragicità dei processi considerati e, con essa, la tragicità della storia in quanto tale, in cui «tutte le parti in gioco hanno le loro ragioni e nessuno può pontificare con piglio manicheo»: è quella stessa tragedia «che fa sì che quel grandioso processo di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata che costituisce il cuore del progetto della modernità finisca molto spesso per passare attraverso l’urto del negativo, della contraddizione oggettiva e del dolore soggettivo».25 Qualora si eludessero queste lezioni storiche, non si valutassero in maniera dialettica e scientifica i problemi relativi al primo tentativo storico di superamento del capitalismo, e ci si dimenticasse che la realtà costituisce un terreno attraversato da regole – e quindi da limiti oggettivi -, risulterebbe impossibile rivitalizzare una cultura comunista al passo coi tempi, cioè in grado di cogliere le strutture essenziali dell'attuale fase storica e, di riflesso, meditare le strategia più adeguate per la trasformazione sociale.

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Un’intervista che, dopo il fallito golpe, è più attuale che mai! L’intervista esclusiva che Yunus Soner ha concesso alla nostra rivista è stata elaborata in due tempi. Un’ampia prima parte è stata realizzata di persona nel 2015 e una seconda parte è stata completata nei primi mesi del 2016. I tempi redazionali di #politicanuova hanno impedito una sua pubblicazione più celere e, nel frattempo, la Turchia ha subito un tentativo di colpo di stato che potrebbe costituire un momento di cesura della storia turca e della geopolitica euro-asiatica. Golpe che, peraltro, il partito di cui Soner è vicepresidente aveva previsto con anticipo.1 Tuttavia l’intervista non solo non perde in attualità, al contrario assume oggi un carattere per certi versi “preveggente”. Tre sono infatti a nostro avviso le questioni che meritano di essere sottolineate nel testo alla luce di quanto avvenuto: (1) la prospettiva euro-asiatica, (2) il ruolo reazionario della balcanizzazione etnica degli stati nazionali e (3) le contraddizioni interne all’esercito. Tre questioni che, dopo il tentato putsch del 15 luglio 2016, assumono una valenza di primaria importanza nell’analisi. 1. La prospettiva euro-asiatica Soner prevedeva che la Turchia, prima o poi, avrebbe assunto maggiore autonomia dal campo atlantico (“la borghesia stessa sa che il modello occidentale non le offre più prospettive”), cosa che effettivamente, in modo graduale e sicuramente contraddittorio come è peraltro ogni processo politico, il fallito golpe ha involontariamente e almeno parzialmente promosso. Erdogan sembrerebbe così – ad affermarlo è un dirigente separatista curdo come Duran Kalkan – “essersi arreso” ai kemalisti.2 Teniamo presente qui non solo la normalizzazione delle relazioni fra Ankara e Mosca, ma ricordiamoci anche la riapertura del dossier Turkish Stream3; la svolta della Turchia sulla Siria (anche qui preparata proprio dallo stesso Soner nel corso di due viaggi a Damasco); i recenti accordi fra la Turchia e la Cina4 in ambito energetico e la trattativa con l’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione (SCO).5 Il nostro interlocutore spiega poi nell’intervista che la Turchia è destinata a orientarsi verso l’area euro-asiatica e a rendersi sempre più autonoma dall’Occidente. Tutti i nodi creatisi con la spaccatura in seno al partito governativo AKP (fra la corrente smaccatamente filo-atlantica di Gülen che ha ordito il golpe e l’ala più istituzionale di Erdogan) sono ora venuti al pettine. Ed Erdogan, che i media mainstream definivano, fino a poco tempo fa, un “islamico moderato” e un “democratico”, di colpo è oggetto di demonizzazione6, con tanto di “bufale” mediatiche come la presunta legalizzazione del reato di pedofilia e di poligamia oppure la


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notizia faziosa sulla “censura” delle opere teatrali di Shakespeare). Il che lascia immaginare che il presidente turco – che noi abbiamo sempre severamente contestato – abbia ora realmente esagerato nel disturbare certi interessi strategici dell’imperialismo. 2. La balcanizzazione degli stati nazionali Soner chiariva poi che i separatisti curdi (tanto mitizzati dalla sinistra liberal europea) sono in realtà da diverso tempo al soldo dell’imperialismo atlantico. In Svizzera, sul fronte progressista, praticamente solo il Partito Comunista ha condiviso questa lettura fin dal primo istante: oggi essa viene totalmente confermata dai fatti! Il separatismo curdo (presuntamente marxista!), idealizzato per il suo contrasto all’ISIS, ha rivolto le sue armi (fornite dagli Stati Uniti) proprio contro i socialisti e i comunisti siriani e, dopo aver autorizzato l’esercito americano a colonizzare il territorio “liberato” del Rojava7 tanto da definire quello statunitense e quello sionista dei “colonialismi democratici”8, addirittura starebbe negoziando con l’Arabia Saudita per balcanizzare la Siria laica e rovesciare il governo democraticamente eletto di Bashar Al-Assad. Anche la stampa vicina agli interessi atlantici, alla fine, ha dovuto ammettere che i separatisti curdi (benché definiti ufficialmente “terroristi” da Washington) godevano in realtà del sostegno della Casa Bianca: dal Guardian che ha affermato che “la Turchia dispiega forze in Siria per allontanare i gruppi curdi che gli Stati Uniti appoggiano” al Wall Street Journal che ha definito i separatisti curdi come “l’alleato più efficace della coalizione occidentale”. Dai media progressisti che si erano sperticati nella propaganda filo-curda, finora nemmeno un po’ di autocritica, ma già sui social network qualche dubbio sul mito della presunta “Rivoluzione” nel Rojava inizia a palesarsi. 3. Il ruolo dell’esercito Infine, per quanto le forze armate abbiano gravi colpe nell’aver aperto la strada all’islam politico con il golpe del 12 settembre 1980, Soner intravvedeva in esse “delle prospettive progressiste, esattamente come gli USA li identificano attualmente come loro potenziali nemici”. Non solo, in effetti, la stragrande maggioranza dei comandanti superiori non si è schierata con la recente sollevazione, finendo anzi in parte sequestrati dai golpisti, ma da tempo nell’esercito vi sono tendenze tendenzialmente insofferenti verso la NATO.

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Yunus Soner: “per noi il patriottismo è la rimozione della natura politica delle differenze etniche e religiose” A cura di Alessandro Lucchini e Massimiliano Ay Il nostro interlocutore, Yunus Soner (44 anni), è un politologo turco che ha vissuto in Germania e in Messico. Laureatosi a Brema con una tesi sullo stato nazionale nella globalizzazione, è stato sindacalista e ricopre ora la carica di vice-presidente di Vatan Partisi (Partito Patriottico), la nuova denominazione adottata da Isçi Partisi (Partito dei Lavoratori), una formazione di tradizione maoista fra le più longeve della sinistra rivoluzionaria in Turchia (di cui abbiamo già accennato su #Politicanuova, nr. 2). 1) Il vostro ultimo Congresso ha sancito il cambiamento del nome del Partito: da Partito dei Lavoratori a Partito Patriottico. Non è la prima volta che accade: siete nati come Partito Rivoluzionario Operaio e Contadino, poi siete diventati Partito Socialista, in seguito Partito dei Lavoratori e ora avete assunto questo nuovo nome. Avete deciso di abbandonare il legame con la classe operaia? I passati cambiamenti di nome sono stati intrapresi poiché quei partiti vennero chiusi d‘ufficio e la loro attività vietata. Tali modifiche nella denominazione avvenivano quindi in relazione alla repressione dello Stato e alla conseguente necessità di costituire nuovi partiti. Per contro l‘ultimo cambiamento non è una risposta alla repressione: è stato discusso nel Partito e deciso in maniera unanime durante il Congresso Straordinario del Partito dei Lavoratori del 15 febbraio 2015. Per il Partito Patriottico, così come per i suoi predecessori, la contraddizione primaria è quella fra le nazioni oppresse da un lato e l‘imperialismo dall‘altro. E‘ su questa constatazione che stabiliamo sia la linea e la fase della lotta, sia il soggetto rivoluzionario e i suoi alleati. Il nostro Partito persegue l‘obiettivo di completare la Rivoluzione nazional-democratica, che in Turchia è iniziata nel 19° secolo. Il suo scopo più importante è di completare il processo di costruzione della nazione raggiungendo l’indipendenza dal dominio imperialista sia dal punto di vista politico che da quello economico e realizzare il laicismo, cioè la messa al bando della religione dalla politica. Solo una volta completato questo processo, sarà possibile per la Turchia procedere sulla via della Rivoluzione socialista. Naturalmente in quest’ultima fase del processo rivoluzionario consi-

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Il quotidiano “Aydinlik” legato a Vatan Partisi aveva avvertito di manovre golpiste fra quella parte dell’apparato turco colluso con i settori finanziari atlantici ormai scontenti di Erdogan già nel mese di febbraio 2016 e nuovamente quindici giorni prima dell’azione. Vedi: www.sinistra. ch/?p=5194

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Leggi su: www.sinistra. ch/?p=5255. La situazione nella realtà è più complessa, poiché le frizioni fra Erdogan e i settori kemalisti continuano ancora oggi, anche se con minore intensità di fronte a un comune e ben più forte avversario individuato nella setta islamista e filo-atlantica di Fetullah Gülen.

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Progetto di gasdotto che dalla Russia arriva in Turchia attraverso il Mar Nero, dato per defunto a seguito della grave crisi diplomatica fra i due paesi dovuta all’abbattimento di un aereo militare russo da parte di un ufficiale turco aderente alla setta gülenista e fra i promotori della sollevazione golpista. Turkish Stream è un progetto fortemente temuto dall’Unione Europea come si può leggere su: goo.gl/ xHEPHM

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Leggi su: goo.gl/ imebX9

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Il vicepresidente dell’Accademia russa di geopolitica, generale Leonid Grigoryevich Ivashov, stando all’agenzia russa Sputnik avrebbe addirittura proposto che la Turchia aderisca a pieno titolo ad essa.


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Sembrerebbe che sia giunta l’ora anche per Erdogan di finire vittima di una “reductio ad Hitlerum”, ossia una tattica politicocomunicativa con cui i media imperialisti mirano a squalificare un interlocutore comparandolo a Hitler. Tattiche simili sono state usate dall’imperialismo per preparare l’opinione pubblica alle ingerenze ai danni della Serbia di Milosevic, dell’Irak di Saddam, della Libia di Gheddafi, dell’Ucraina di Janukovic, della Siria di Assad, della Corea di Kim Jong Un, del Venezuela di Maduro, ecc.

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Il Rojava è la regione della Siria in cui si trova la fin troppo mitizzata Kobane, ossia la città araba di Ayn Al-Arab che le milizie curde hanno ridenominata dopo averla occupata. 8 Leggi su: goo.gl/ rSLwXh

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deriamo forza principale della stessa la classe operaia e i lavoratori in generale, tuttavia nell’attuale fase di lotta per completare la Rivoluzione nazional-democratica anti-imperialista consideriamo importanti anche le altre classi sociali come la borghesia nazionale e i contadini. La Turchia ha attraversato finora tre ondate rivoluzionarie: 1) alla fine del 19° secolo i nazionalisti che lottavano contro le istituzioni feudali del Sultanato gettando le basi per costruire lo stato nazionale e una moderna democrazia; 2) negli anni 1920 i repubblicani che lottavano per l’indipendenza politica e per costruire un’egemonia pubblica sull’economia; 3) negli anni 1960 i socialisti9 con il programma della rivoluzione ininterrotta fra la fase borghese e il socialismo. Il nostro programma di Partito vuole riunire queste esperienze e nel nostro statuto si dice che il Partito Patriottico unisce “Nazionalisti, Repubblicani e Socialisti sotto un’unico programma”. In questo senso va letto la decisione di cambiare il nome: non è un addio ai lavoratori, al contrario rappresenta l’esigenza per la classe operaia di attrarre a sé nuovi alleati nella lotta contro l’imperialismo. Allo stesso tempo si sottolinea il fatto che nell'imperialismo i conflitti di classe tra operai e capitalisti non hanno alcuna prospettiva rivoluzionaria se restano puramente interni ai meri confini nazionali.

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Con “socialisti” si intende qui coloro che seguono il “socialismo scientifico”, che il nostro interlocutore preferisce rispetto al termine “marxismo-leninismo”. In generale in turco il termine “socialista” indica il rivoluzionario comunista e non viene confuso con il termine “socialdemocratico” come capita spesso alle nostre latitudini.

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Le sei frecce che sintetizzano il pensiero kemalista sono: l’ideale repubblicano, lo statalismo, il populismo (nel senso dato dai narodniki russi), il patriottismo, il laicismo e la prassi rivoluzionaria.

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2) La vostra origine sta nel movimento maoista. Da qualche anno avete sempre di più insistito sul kemalismo. Perché lo avete fatto e in che modo la Rivoluzione nazional-democratica di Mustafa Kemal Atatürk è compatibile con una prospettiva comunista? Completare la Rivoluzione kemalista, come dice il vostro statuto, è davvero la prima tappa di una via turca al socialismo? La prima repubblica costituita nel Vicino Oriente è stata quella forgiata dalla Rivoluzione kemalista contro il Sultanato feudale e gli invasori imperialisti. Essa rappresenta una delle prime guerre antiimperialiste di liberazione del 20° secolo. Ad essa si riferiscono in maniera positiva tutti i rivoluzionari da Mao a Castro, per non citare i comunisti russi. Essa è il punto più elevato della nostra storia e ad essa ci siamo riferiti da sempre con orgoglio e non solo negli ultimi tempi. L’indipendenza nazionale e la sovranità sono indispensabili per il socialismo. Così come contro il dominio statunitense la sinistra venezuelana si forgia su Simon Bolivar, così la sinistra greca lotta per la sovranità nazionale contro il dominio dell’UE. Una conseguenza dell’indipendenza nazionale è un’economia orientata non a soddisfare le esigenze del capitale internazionale, ma quelle del benessere collettivo del popolo. Non è un caso se uno dei primi punti del nostro programma è il freno ai flussi transnazionali di capitali. E la reazione della controparte si nota: quei partiti che mantengono

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una forte simbologia e retorica socialista ma rifiutano di difendere l’indipendenza nazionale, non vengono colpiti dall’imperialismo e, a volte, vengono persino sostenuti tramite le ONG. Ma guai a chi osa sfidare l’imperialismo: sono subito etichettati come ultra-nazionalisti! Le cosiddette “6 frecce”10 della Rivoluzione kemalista sono senza eccezioni contro il feudalesimo e l’imperialismo, e quindi stanno alla base del socialismo. 3) Il termine “Patria” in Europa ha quasi sempre una connotazione sciovinista e di destra. Vi sono in realtà alcune eccezioni: ad esempio il Partito Comunista Portoghese (PCP) si dichiara “patriota e di sinistra”. La sinistra in Svizzera fa fatica a definirsi patriota perché la nostra Patria è imperialista e corresponsabile delle politiche di saccheggio neo-coloniale, e non ne andiamo fieri. Come declinate voi il patriottismo? Davvero la Turchia è un paese che si trova sotto attacco dell’imperialismo? Nella distinzione fra oppressori e oppressi, la Turchia si trova fra le nazioni oppresse, così come una grande parte del mondo. In quanto tale la Turchia è sotto il controllo dell’imperialismo dagli anni 1940. 11 A seguito del crollo dell’Unione Sovietica, l’imperialismo statunitense, soprattutto nel Vicino Oriente, ha sfruttato le differenze etniche e settarie per indebolire gli Stati nazionali, fino a frantumarli. Questo lo si vede in modo chiarissimo con il caso della Siria e dell’Iraq. In entrambi i Paesi l’imperialismo americano cerca di balcanizzare le nazioni su base etnica e confessionale, creando piccoli staterelli facilmente manipolabili. Grazie alla sua posizione strategica, ma anche perché ha una storia progressista e la più grande tradizione repubblicana, la Turchia è sempre l'obiettivo principale dell'imperialismo. Un governo rivoluzionario in Turchia, che si opponesse al dominio statunitense, cambierebbe non solo il Paese e l’intera regione, ma i rapporti di forza su scala globale. Ecco perché la Turchia è l’obiettivo del progetto di balcanizzazione ideato dagli USA. E questo già da 50 anni: non a caso noi definiamo l’adesione turca alla NATO come “l’invasione della NATO in Turchia”! Con il concetto di patriottismo noi intendiamo la resistenza a questi piani imperialisti di spaccatura delle nazioni. Insomma: per noi il patriottismo e il nazionalismo comportano la rimozione della natura politica delle differenze etniche e religiose e, anzi, l'integrazione di tutta la popolazione in una sola nazione.12 Una nazione unificata in cui tali differenze non abbiano alcuna rilevanza nella vita sociale sarebbe in grado di resistere contro l'imperialismo e consentire uno sviluppo indipendente del Paese. Questo è la base del socialismo, non certamente la concorrenza e il frazionismo etnicosettario. Il patriottismo e il nazionalismo, così come


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l'idea di Patria, esprimono anche gli interessi delle classi popolari sfruttate nel loro complesso dall'imperialismo e dalla borghesia compradora.13 Chi soffre maggiormente di questo sistema è la classe operaia, ma anche altri segmenti della società, come la piccola borghesia e la borghesia nazionale. E su questo aspetto che il contenuto del nazionalismo differisce nei paesi imperialisti e nelle nazioni oppresse. Mentre il patriottismo nelle nazioni oppresse può rappresentare un approccio progressista quando si dirige contro l'imperialismo, questa stessa ideologia nei paesi imperialisti viene invece usata dalle classi dominanti per imporre i propri interessi di classe su tutto il popolo. 4) Dopo che il Partito Comunista di Turchia (TKP) venne vietato, il dottor Hikmet Kivilcimli, un marxista che poi fuggì nella Jugoslavia di Tito, fondò nel 1954 il primo partito marxista-leninista legale turco, chiamato proprio Partito Patriottico. Vi siete ispirati a lui? Come ho spiegato prima, consideriamo la storia rivoluzionaria del nostro Paese come parte del nostro patrimonio. E di questa tradizione fa sicuramente parte anche un rivoluzionario come Hikmet Kivilcimli. Tuttavia non abbiamo cambiato il nome del nostro Partito per questo motivo. Questo retroterra culturale ha giocato un ruolo, anche se non il più importante. 5) Di recente numerosi esponenti politici provenienti dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP), cioè la Socialdemocrazia turca, hanno raggiunto le vostre fila. Se da un lato è positivo che dei socialdemocratici si schierino contro l'imperialismo, non temete che il vostro Partito perderà così la sua identità marxista e la sua vocazione rivoluzionaria? Anzitutto una premessa: il marxismo non è un’identità, ma un metodo di analisi e un punto di vista. Come detto sopra esso non si riflette nella retorica o nella simbologia ma nella lotta concreta contro l’imperialismo. Inoltre il marxismo necessita anche dal lato teorico di uno sviluppo, poiché al momento della sua nascita il mondo conosceva l’imperialismo ancora agli inizi. Per rispondere alla domanda: negli ultimi tempi, soprattutto durante e dopo il Congresso straordinario, si sono iscritti al nostro Partito non solo ex-esponenti del CHP ma anche ex-membri del Partito dell’Azione Nazionalista (MHP) e altri militanti di tradizione socialista. Noi consideriamo queste nuove adesioni riunite contro l’imperialismo, seppur provenienti da esperienze politiche e ideologiche diverse, come un segnale importante per il futuro del nostro Paese. Queste persone, aderendo al

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nostro Partito, diverranno militanti attivi per la nostra causa: un generale pensionato dell’esercito turco dopo aver aderito al Partito ha subito partecipato al fianco degli operai a un corteo di centinaia di chilometri contro le privatizzazioni. Questo è il miglior esempio che dimostra come il Partito Patriottico sia anche una scuola dove la coscienza politica e ideologica viene sviluppata in una fruttuosa discussione fra tutti i settori rivoluzionari della Turchia. Noi abbiamo fiducia nel nostro Programma, nei nostri militanti e nei nostri quadri. La preoccupazione per la nostra identità è al momento secondaria rispetto alla preoccupazione che abbiamo per il nostro paese minacciato dalla balcanizzazione. Resistere a ciò è l’identità più rivoluzionaria oggi possibile in Turchia! 6) Il vostro Partito ha ricevuto un messaggio di saluto dall’ambasciatore della Repubblica Socialista del Vietnam. Che relazioni avete con i paesi socialisti? Come Partito Patriottico, ma già prima come Partito dei Lavoratori, manteniamo ottime relazioni con i paesi socialisti, in modo particolare Vietnam, Cina, Cuba e Venezuela.14 Tuttavia noi consideriamo alleati non solo i paesi socialisti, ma tutte le nazioni che si oppongono all’imperialismo. E questo anche perché sono nazioni a noi vicine e con cui i nostri popoli hanno relazioni da secoli. Perciò diamo molta importanza alle relazioni con i paesi del Vicino Oriente e non a caso al nostro Congresso straordinario era presente un delegato dell’ambasciatore egiziano e come Partito abbiamo aperto nostre rappresentanze permanenti in Egitto, Siria e Iran. 7) Nel vostro Partito sono entrati recentemente anche alti ufficiali dell’esercito. L’esercito turco ha delle responsabilità pesanti nella repressione del movimento operaio. In che modo riuscite a convivere? Vedete una prospettiva progressista nell’attuale esercito turco? Il nostro Partito lotta da quarant‘anni sia contro l‘imperialismo statunitense sia contro i colpi di stato militari da esso organizzati. L‘adesione di questi alti ufficiali nel nostro Partito dimostra da che parte stanno: peraltro questi militari sono stati a loro volta vittime del complotto ordito dagli Stati Uniti ai danni dell‘esercito turco, infatti molti di essi hanno passato molto tempo in carcere. Non abbiamo bisogno di trovare un particolare modus vivendi con loro, al contrario hanno arricchito il nostro Partito con le loro esperienze: tre di essi faranno parte della prossima delegazione del nostro Partito in Siria e molti di loro hanno attivamente preso parte a dimostrazioni contro le privatizzazioni neo-liberiste. Effettivamente noi

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Il nostro interlocutore spiega questo passaggio sostenendo come, dopo che l’Impero Ottomano era di fatto diventato il paese di destinazione delle varie potenze imperialiste, la Rivoluzione Kemalista fosse riuscita a vincere la guerra di liberazione turca e a costruire una repubblica moderna e indipendente. Dopo la morte di Mustafa Kemal Atatürk, avvenuta nel 1938, iniziò però un processo di controrivoluzione.

12 Si tratta di un aspetto tipico della politica kemalista delle nazionalità, volta a costruire un sentimento nuovo di appartenenza nazionale superiore alle etnie e ai legami di sangue. Anche la Cina attua una simile politica delle nazionalità 13

Quella parte cioè di borghesia che è complice del grande capitale internazionale. Va distinta dalla borghesia nazionale dai tratti anti-imperialisti.

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Relazioni storiche intercorrono anche con il Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, come lo stesso Soner ha spiegato in questa intervista televisiva: https://youtu.be/ VbJEaSBu_h4


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Ci si riferisce al rischio di balcanizzazione etnica che distruggerebbe la Repubblica sorta dalla Rivoluzione kemalista

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Doğu Perinçek (1942), di formazione giurista, ha poi svolto il dottorato presso la Otto Suhr Institute for Political Science di Berlino. Fin dagli anni ‘70 leader della corrente “filo-cinese” della sinistra turca, è oggi il presidente del Vatan Partisi. Autore di numerosi libri sul marxismo, è uno dei curatori dell’opera omnia di Atatürk.

17 Il riferimento è al bi-polarismo fra Stati Uniti e Unione Sovietica nel secondo dopoguerra e alla nascita del Movimento dei Paesi Non Allineati.

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vediamo fra i militari oggi delle prospettive progressiste, esattamente come gli USA li identificano attualmente come loro potenziali nemici.

tibilità rientra nelle vostre priorità strategiche per la Turchia? L’incovertibilità della moneta, secondo voi, è condizione necessaria per definire un paese socialista?

8) Nel vostro programma si parla di unità tra la classe operaia, i contadini e la borghesia nazionale. Da un punto di vista teorico ciò è corretto. Tuttavia i vostri critici di sinistra ritengono che la borghesia nazionale turca sia ormai del tutto dipendente dai capitali esteri, rendendola di fatto una borghesia compradora. Esiste davvero oggi, nella pratica, una borghesia nazionale turca?

L‘apertura del nostro mercato finanziario risale agli anni 1950. Con tale apertura inizia anche la convertibilità della lira turca. Entrambe queste riforme avranno poi uno sviluppo enorme in particolare dopo il colpo di stato militare del 1980. La convertibilità della lira turca è effettivamente parte dell‘aggressione imperialista alla nostra nazione, ma più che sul ritorno a un‘inconvertibilità in sé della moneta, il nostro orientamento strategico come Partito consiste ora piuttosto nel favorire la produzione nazionale e la cooperazione economica in Asia occidentale.

Oggi tutta la Turchia è minacciata nella sua esistenza come nazione15, allo stesso modo della Siria e dell‘Irak. Questo scenario rende in sé „nazionale“ la borghesia. Si aggiunga il fatto che, economicamente parlando, la Turchia è sempre di più stabilmente presente in Eurasia: Germania, Russia e Cina sono infatti oggi i nostri principali partner commerciali e l‘energia che consumiamo ci arriva dai nostri vicini. In pratica la Turchia è un paese che si trova in Asia economicamente, mentre politicamente resta atlantica. Si tratta di uno squilibrio che dobbiamo assolutamente correggere: la borghesia stessa sa che il modello occidentale non le offre più prospettive e quindi sostiene il nostro piano. 9) Nel vostro programma viene chiaramente esplicitato il legame diretto che deve esserci tra la Banca Centrale turca (TCMB) e il governo. E' una scelta che anche il nostro Partito condivide nel contesto svizzero. Ciononostante durante la campagna elettorale il vostro Presidente Doğu Perinçek16 ha garantito l’indipendenza della TCMB in caso di vittoria elettorale. Si tratta di un cambiamento tattico oppure avete sviluppato un’altra linea programmatica su questo tema? Come si sta sviluppando nel paese tale dibattito? Ti risponderò così: noi combattiamo contro un‘economia basata sul capitale speculativo e il relativo „denaro caldo“. Rivendichiamo al contrario il ritorno degli investimenti nell‘economia reale. Su questo la nostra linea politica è chiarissima. Dal nostro punto di vista è prioritario che la Banca Centrale non debba servire il capitale fittizio ma semmai quello produttivo. L‘indipendenza della Banca Centrale dal governo non deve trasformarsi, insomma, nella sua dipendenza dalla finanza globale e dai suoi padroni. 10) L’inconvertibilità della moneta nazionale permette un maggiore controllo del commercio estero dalle ingerenze imperialiste. La lira turca è sempre stata convertibile come oggi? L’inconver-

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Internazionale

11) Secondo alcuni partiti comunisti i BRICS sarebbero un nuovo polo imperialista. Al contrario noi riteniamo che questi paesi emergenti frenino l’imperialismo e auspichiamo che la Svizzera aumenti la cooperazione con essi. Qual è la vostra visione sui BRICS e sull’obiettivo di costruire un mondo multipolare? Noi lottiamo per una Turchia indipendente e socialista; il nostro nemico è quindi l‘imperialismo statunitense. I BRICS sono per contro degli alleati. Quanto più la Turchia si saprà liberare dalla morsa politica ed economica dell‘imperialismo, tanto più l‘integrazione sud-sud potrà essere promossa. Se già il bipolarismo17 aveva aperto per molti paesi la possibilità di un proprio percorso di sviluppo non allineato, il mondo multipolare farà altrettanto e in maniera ancora più ampia. E questo è in parte già oggi una realtà dal punto di vista economico: si pensi che le navi cinesi che attraccano al porto di New York vengono caricate con prodotti di alta tecnologia elettronica e in cambio scaricano carta straccia e rottami.


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Locarno, dubbi e prospettive per un Festival che al momento rinuncia alla sua tradizione innovativa

di Davide Rossi

Il presidente del Festival di Locarno Marco Solari ha commentato l’ennesima edizione da lui capitanata sostenendo, con forza, che oggi Locarno è un Festival capace di parlare e attrarre non solo i cinefili, ma anche il pubblico. Sempre Solari, giunto al sedicesimo anno di una gestione che si annuncia ventennale, ha affermato l’anno scorso che il Festival di Locarno è il più libero e autonomo del mondo, in quanto la direzione artistica sceglie con estrema libertà i film selezionati. A questo punto, se non ci si vuole unire al coro trionfale, occorrerebbe capire a chi si debbono porre alcune domande e chi porta la responsabilità di molte scelte. Tuttavia pur nell’incertezza di trovare degli interlocutori, forse è opportuno provare a porsi veramente qualche interrogativo. Il primo dubbio è quello del cosiddetto pubblico. Il prodotto cinematografico, nei suoi consumi di massa, è sempre più piegato a una deriva televisiva, per linguaggi e per finalità, anche perché alla fine lo si vuole portare sul piccolo schermo, con tutta una serie di tragiche ricadute qualitative, sia di forma, che di contenuto. È questa una pratica che i Festival debbono incoraggiare? In questo solco, invitare a Locarno in permanenza ogni sera allegri vecchietti, gloriose cariatidi per l’attribuzione dei Pardi alla carriera, è una scelta giusta e innovativa? Le perplessità sono molte, per quanto gli anzianotti portino molti sponsor facoltosi, ma anche questo fatto solleva altri dubbi, tanti milioni di franchi non potrebbero essere utilizzati per selezionare opere di più alta qualità? Il cinema, con l’avvento del digitale, una ventina di anni fa, si è molto trasformato, tutti possono girare col proprio cellulare un film, poi basta trovare il produttore che sostenga l’opera. È sufficiente? È ammissibile vedere opere, in tutti i festival europei, non solo a Locarno, totalmente sconclusionate nella forma cinematografica, prima ancora che nella vaga espressione di idee, sentimenti, pensieri più o meno politici e costruite su trame frammentate e abborracciate? Di contro vi sono giovani e anche giovanissimi, la proiezione di “Ogni roveto un dio che arde” di Giorgio Cornelio e Luca Rossi lo ha dimostrato quest’anno al Rivellino, che del mezzo cinematografico hanno una geniale visione moderna, capace di coniugare rimandi alla grande cinematografia del Novecento, da Parazdanov a Pasolini, con una sa-

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piente innovazione aderente a quella video-arte che è oggi l’orizzonte di molte scuole di cinema, a partire da quella della prestigiosa Accademia di Brera a Milano. Esiste quindi un problema di linguaggi cinematografici, le nuove esperienze e le nuove proposte devono essere capaci di un linguaggio compiuto, non arzigogolato o puerilmente semplicistico. Vi è poi il problema di scelte che saranno pure solo, soltanto ed esclusivamente artistiche, tuttavia lasciano dubbi, anche per una generale omogeneità tra i grandi festival europei, Cannes, Venezia, Berlino e Locarno. Si selezionano opere dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti, dall’Asia filo-occidentale, in particolare Sudcorea e Giappone, si ammettono poche pellicole del resto del mondo, dal Sudamerica quasi sempre sono accolte solo se ripiegate in una dimensione privatistica e sentimentale, da altre parti del mondo i film arrivano solo se parlano male di quei paesi e di quei popoli, Russia, Cina, Iran. A Locarno nel 2015 clamoroso esempio “Paradiso”, film in concorso, cosiddetto iraniano, del regista Sina Ataeian Dena, realizzato senza alcuna collaborazione o autorizzazione del governo iraniano, con una attrice principale bella e brava, Dorna Dibaj, che aveva come obiettivo quello di parlar male delle conquiste della Rivoluzione, a partire dall’istruzione per tutti e dal diritto allo studio e al lavoro delle donne, tuttavia incapace di essere totalmente disonesto e quindi alla fine inutile ai fini dell’operazione di propaganda che si era prefissato. Il grande Emir Kusturica da quando ha dichiarato che ammira Putin e la politica estera russa è diventato sgradito in tutti i festival occidentali, solo Venezia, anche per la presenza di Monica Bellucci nel suo ultimo film “La via lattea”, lo ha accolto quest’anno al Lido, seppure senza troppo entusiasmo. Ecco allora che ammirare un film di pregevole qualità proveniente dall’Iran, dal mondo arabo, dall’America Latina bolivariana diventa impossibile. Penso allo stupendo “Libertador”, film venezuelano di Alberto Arvelo, ammirato al Festival dell’Avana del 2013, il quale, se fosse presentato a Locarno in Piazza Grande, otterrebbe per la sua spettacolarità un trionfale successo, ma nessuno lo ha mai preso in considerazione, purtroppo. Tra l’altro il pubblico di Piazza Grande non è un pubblico di deficienti. Quest’anno, ancora una volta, tra film di imbarazzante pochezza e stupidaggine, è arrivato pure Ken Loach con la Palma d’oro di Cannes “I, Daniel Blake” e guarda caso il pubblico ticinese gli ha tributato il premio del pubblico, a dimostrazione che una diversa selezione per la piazza sia oramai una urgente necessità. L’assurdità di un atteggiamento bellicoso e schierato, in particolare per un Festival promosso da una nazione che fa vanto della propria neutralità, è evidente, ma sento di corroborare tale riflessione con le parole che il fondatore del Festival del Cinema di Venezia, Luciano De Feo, direttore dell’Istituto in-

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ternazionale per la cinematografia educativa e direttore delle prime due edizioni del 1932 e 1934 e alcuni critici italiani, legati al regime fascista imperante allora in Italia e alla sua censura, esprimevano nei confronti della cinematografia sovietica, invitata a quelle edizioni nonostante l’Internazionale Comunista e Iosif Stalin in persona stessero promuovendo il fronte antifascista mondiale che avrebbe portato ai Fronti Popolari in Francia e in Spagna: “se il cinema è un’arte, il cinema russo è poesia, perché nel cinema l’arte è la quotidianità e la poesia è una festa, … arte poetica che si contrappone all’idea industriale di Hollywood, … inquadrature di inusitata originalità, … l’idea politica, tramutata in idea narrativa e questa concepita in termini schiettamente cinematografici, trova il regista sovietico pronto a trasferirla integrale ed eloquente sullo schermo, …”. Ecco, questa capacità di apprezzare ciò che non corrisponde ideologicamente ai propri orizzonti culturali è oggi totalmente estranea ai responsabili dei Festival del cinema occidentali, Locarno compresa. Emerge insomma con tutta evidenza il pesante clima internazionale che vede contrapposto l’Occidente legato alla NATO contro il resto del mondo e in particolare a quanti, dalla Cina alla Russia, passando per l’Iran, Cuba, il Venezuela, la Bolivia cercano di costruire un mondo multipolare. Qualcuno potrebbe sostenere che ciascuno dei contendenti di questa nuova guerra mondiale abbia diritto a promuovere la propria propaganda e sia giusto così, allora però si dovrebbe ammettere che non si tratta di qualità cinematografica, ma di chiara scelta politica quando a Locarno negli ultimi anni si è deciso di proporre film sulla Siria e sull’Ucraina mediocrissimi per qualità e smaccatamente schierati per contenuti, quelli cosiddetti siriani per di più tutti volti a sostenere un evanescente Esercito Libero, quando sappiamo bene che dietro tale sigla si trova quasi esclusivamente il terrorismo più sanguinario, anche questa è a tutti gli effetti una scelta imbarazzante per il Festival di Locarno. Al Festival elvetico resterebbe l’antico primato delle opere prime, scelte con accuratezza, ma è abbastanza sconfortante trovarsi di fronte a prodotti in molti casi scadenti in proiezione a Locarno, per ammirare opere prime di qualità due settimane dopo a Venezia. Perché un film sui lapponi o uno sulla durezza della vita delle donne in Croazia sono a Venezia e non a Locarno? Tali opere non sono state viste dai selezionatori rossocrociati? Maria Rosa Mancuso, grande critica cinematografica, dalle colonne del domenicale ticinese “Caffè” ha ironizzato, a commento di Locarno 2016, sulla pochezza dei film dell’Europa Orientale arrivati in riva al Lago Maggiore, sostenendo che forse qualcuno, nostalgico del campo socialista, li avrà apprezzati comunque. Incontrandola, le ho ribadito la mia passione per il cinema est-europeo, ma ho concordato con lei sullo scarso livello delle opere presenti a Locarno quest’anno.

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Restano pochi sprazzi di luce, fugaci, spesso passati nella sezione “Cineasti del Presente” e tragicamente e immediatamente dimenticati, senza distribuzione, quindi privi di quei supporti e di quegli sponsor capaci di imporli nella selezione del concorso internazionale, destinati a non avere alcun passaggio televisivo, senza progetti di trasformazione in dvd, scomparsi nel gorgo della dimenticanza, persi e con loro perso il meglio di quanto Locarno aveva offerto. Nessuno ricorda più dell’edizione 2015 lo stupendo “Siembra” di Angela Osorio Rojas e Santiago Lozano Alvarez, racconto in un bianco e nero dai forti richiami buñueliani del dramma della Colombia attuale. Sorte migliore non avranno le due più interessanti opere di quest’anno. La riuscita e sorprendente commedia presentata dalla tedesco-argentina Nele Wohlatz, “El futuro perfecto”, racconto di Xiaobin, diciassettenne immigrata cinese a Buenos Aires, che incontra e ama l’indiano Vijay, un amore dapprima muto, capace poi di riempirsi poco a poco di quelle parole che Xiaobin sta imparando alla scuola di spagnolo per immigrati, un percorso umano e di emancipazione personale raccontato con leggerezza e con il sorriso, meritevole della vittoria del premio per la migliore opera prima del Festival e di quello del miglior film, secondo il giudizio della giuria della critica indipendente del premio Boccalino. Il secondo è “Verde appassito” dell’egiziano Mohammed Hammad, girato come una poesia visiva, con una fotografia stupenda e toccante, capace di scavare con delicatezza nella quotidianità di due sorelle sole, interpretate da Hiba Ali e Asmaa Fawzy, dentro la bellezza del Cairo di oggi, quello popolare, fatto di case decorose seppure modeste, di balconi impolverati dal deserto, di finestre capaci di aprirsi su cieli stellati, di letti massicci eppure comodi, che raccolgono le membra dopo le fatiche del giorno, mentre la metropolitana sferraglia insistente. Se poco offrono Locarno e i consimili festival occidentali, diventa facile per un’istituzione culturale locarnese come il Rivellino realizzare nei giorni del Festival uno spazio aperto che si trasforma naturalmente in una sezione parallela autorganizzata, senza polemiche, senza contrapposizioni, ma con il naturale desiderio di presentare opere come “Il Palazzo del Popolo”, della russa Elena Gladkova, come avvenuto quest’anno, o già qualche anno fa “Il diario di una ragazza”, film di successo della Corea Popolare, entrambe in anteprima nazionale per la Svizzera. Locarno ha tutte le opportunità, dall’apertura al mondo alla video-arte, di tornare una apprezzata rassegna cinematografica contraddistinta dall’innovazione e dalla capacità di leggere con anticipo il futuro, occorrono solo la volontà, il coraggio e la determinazione di riscoprire la vocazione originaria di un Festival che è da sempre il più piccolo tra i grandi e il più grande tra i piccoli.


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