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febbraio 2019
Nel prossimo numero: il PC alle elezioni Cantonali
quadrimestrale marxista della Svizzera italiana
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#politicanuova quadrimestrale marxista della Svizzera italiana nr. 11 febbraio 2019 anno VI
Stampa Tipografia Cavalli Editore Partito Comunista
Indirizzo c/o Aris Della Fontana, Via al Casello 8, 6742 Pollegio CCP 69-3914-8 Partito Comunista 6500 Bellinzona
ISSN 2297-0657 Email aris.dellafontana@politicanuova.ch Abbonamenti 25.- Normale 50.- Sostenitori 30â‚Ź Esteri
4 Officine FFS: ci hanno preso per ritardat(ar)i?! 6 Ricostruire l’alternativa 9 La strategia e la tattica nel socialismo scientifico 12 Le caratteristiche del Partito leninista nel contesto odierno (e qualche esempio concreto fra PC, MPS e POP) 16 Le contraddizioni fra USA e UE e la prospettiva dei comunisti 19 Il militarismo italiano: i parà della Folgore, criminali e neofascisti al servizio della P2 23 Cuba: il fulcro della nuova Costituzione sono le istituzioni e il diritto internazionale!
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Officine FFS: ci hanno preso per ritardat(ar)i?! di Massimiliano Ay e Alessandro Lucchini 1. Introduzione A dieci anni dallo storico sciopero del 2008 non bisogna affrontare la discussione sul futuro delle Officine FFS con una visione nostalgica e folkloristica, ma piuttosto essere consapevoli che sviluppo e innovazione sono importanti. Allo stesso modo non si può considerare lo spostamento in sé dell’ubicazione del sito produttivo come qualcosa di assolutamente negativo. È il progetto, in tutte le sue sfaccettature, che bisogna pragmaticamente analizzare tenendo in considerazione gli attuali rapporti di forza e le alternative a disposizione. 2. Superficialità, mancanza di coraggio e sottomissione Il primo elemento da sottolineare è la vaghezza, per certi versi imbarazzante, con cui sono stati preparati sia il Messaggio municipale di Bellinzona sia il Messaggio del Consiglio di Stato, i quali anzi sono in numerose loro parti letteralmente identici, realizzati con una molto discutibile tecnica del copia-incolla. In buona sostanza si deve accettare senza tanti argomenti un dato di fatto presentato come inevitabile, e cioè che gli spazi industriali attuali siano inadatti per la manutenzione dei treni di nuova generazione e che dunque spostare le Officine sia necessario. La Città e il Cantone sono insomma pronti a versare 120 milioni di franchi ad un’azienda che fa solo i propri interessi fregandosene del mandato pubblico, senza peraltro sapere nulla su quello che questa nuova Officina sarà concretamente. Vale anche la pena evidenziare le tempistiche molto corte con cui si arriva al voto, a dimostrazione della frettolosità con cui si vuole chiudere il discorso al fine di non scontentare i vertici aziendali che hanno preso in giro le maestranze e la cittadinanza per un decennio: quando la politica si sottomette in questo modo all’economia, a soffrirne è la democrazia e i diritti popolari, oltre naturalmente a quelli sociali.
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Per il corretto svolgersi del processo democratico, prima di fare pressione sul legislativo cantonale e su quello della capitale ticinese, bisognava attendere l’esito della votazione popolare sull’Iniziativa lanciata dai lavoratori in lotta nel 2008, la quale nel frattempo è stata ritenuta ricevibile, ed è dunque da considerarsi a tutti gli effetti attuabile. In questi anni è certamente mancato il coraggio politico sia per il Municipio della Turrita sia per il Consiglio di Stato di rimanere saldi sulle rivendicazioni dello sciopero del 2008, ma ancor peggio risulta essere la passività avuta in fase contrattuale con le FFS nel rivendicare delle minime garanzie su tutta una serie di aspetti e condizioni imprescindibili. Il nuovo progetto contiene troppe incognite: in generale non si conosce l’interesse di lungo periodo delle FFS in Ticino, e nel concreto non c’è certezza su posti e volumi di lavoro, così come sulla nuova occupazione del sedime lasciato libero a Bellinzona e la struttura del famigerato “Tecnopolo”. Totalmente sparito dal dibattito politico è inoltre il fatto, non certo trascurabile, che il terreno sulle quali siedono attualmente le Officine FFS fu regalato (e sottolineamo: regalato!) all’ex-regia federale dal Patriziato di Daro oltre un secolo fa, ed è dunque alquanto discutibile il prezzo al metro quadrato che Cantone e Città di Bellinzona sono disposti a pagare alle FFS per ottenere una parte del sedime. 3. Le Nuove Officine ad Arbedo Come detto precedentemente, sono i contenuti che devono interessare ben più che la localizzazione geografica del nuovo impianto industriale. Ciononostante, la promessa che la superficie agricola persa nel comparto designato ad Arbedo sarà sicuramente compensata, non può rassicurare dato che non si conoscono né modi né termini. Il nuovo progetto prevede poi la manutenzione dei treni Giruno, Flirt, ETR610 con altre attività di complemento. Di fatto ciò significa puntare esclusivamente sul settore dei passeggeri e non più sul settore delle merci, il che rappresenta già di per sé un calo del 70% delle attività attualmente svolte alle Officine di Bellinzona. L’attività che si prospetta appare inoltre non solo ridotta, ma pure di basso valore aggiunto, poiché tecnologicamente non avanzata e priva di alcuna garanzia per il futuro. A ciò si aggiungono i posti di lavoro, evidentemente in
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calo rispetto ad oggi se le FFS parlano di 200300 lavoratori, un’analisi svolta con maggiore distacco critico e meno autocelebrazioni relativamente ai volumi di lavoro fa concludere che i posti di lavoro effettivi saranno solamente un centinaio circa. Come se non bastasse, la lavorazione dei carri merci, segmento industriale innovativo e di ricerca, non viene sostanzialmente considerata e la lavorazione delle sale avverrà solo “qualora ragionevole dal punto di vista economico”. Verosimilmente ci stanno insomma già spiegando che qui ben presto si razionalizzerà a scapito dell’attività produttiva. La prospettiva di lungo termine del sedime industriale è data per di più solo se “sensata” economicamente e “sostenibile dal profilo aziendale” non solo viene data carta bianca al management che voleva liquidare le Officine già dieci anni fa, ma lo Stato rinuncia di fatto a ogni tipo di intervento, e lo fa dietro promesse alquanto fumose che lasciano presagire il peggio. Infine – ed è una presa in giro – in caso di cessazione dell’attività del nuovo impianto entro i primi 35 anni, le FFS s’impegnerebbero a versare allo Stato quale “rimborso” un’elemosina di 1.7 mio per ogni anno di chiusura anticipata. Una cifra ridicola per un’azienda che genera un utile consolidato di 300-400 milioni di franchi …all’anno e che dimostra il poco interesse dell’azienda a concedere al Ticino delle garanzie per lo sviluppo a lungo termine della nuova officina. 4. L’attuale sedime delle Officine di Bellinzona La gran parte dell’attuale sedime rimarrà di proprietà delle FFS, le quali hanno già annunciato che sarà edificata a palazzi. Della restante parte, la quale sarà acquistata da Cantone e Comune di Bellinzona, poche sono ancora le idee chiare: benché si possa vedere con un cauto favore l’ipotesi di realizzare un centro di quartiere e degli alloggi per anziani e a pigione moderata, qualche dubbio in più lo lascia il progetto del Tecnopolo, il quale risulta tutt’ora una “scatola vuota” e ben diverso dal progetto di “Centro di Competenze” che abbiamo sempre sostenuto. Sebbene l’idea di creare un luogo dove possano svilupparsi idee e progetti innovativi non dispiace, non è chiaro se questo spazio sarà realmente produttivo oppure semplicemente un’ag-
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gregazione di diversi uffici atti a promuovere (a parole) lo sviluppo innovativo. Inoltre, questo spazio “innovativo” risulta essere, più che altro, lo spostamento a Bellinzona dell’attuale Tecnopolo di Manno e non la creazione ex-novo di un nuovo spazio tecnologico. Questa impostazione potrebbe essere vista positivamente da chi, non certo noi, ha una visione “Bellinzonacentrica”, ma per lo sviluppo economico, industriale ed occupazionale del Cantone sarebbe stato utile proporre ben altro. 5. L’iniziativa popolare del 2008 Si è dato un po’ troppo per scontato inoltre che l’iniziativa popolare “Giù le mani dall’Officina” sia superata dai fatti. Intanto essa pone dei quesiti che sono estremamente avanzati e che, come sinistra, non possiamo non riconoscere: anzitutto essa prevede un incisivo intervento pubblico in un settore particolarmente sentito dalla cittadinanza, con una società controllata dallo Stato che rilevi le attuali attività delle Officine e che le possa sviluppare (come chiesto in campagna elettorale anche dalla lista “Unità di Sinistra” a cui partecipavano sia il Partito Socialista sia il Partito Comunista di Bellinzona); in secondo luogo l’iniziativa non esclude la possibilità dell’esproprio per un’azienda che non mantiene i patti e che non ottempera come dovrebbe al perentorio mandato di servizio pubblico, adottando al contrario modalità aziendalistiche tipiche di quanto imposto dalle esigenze di mercato. Infine il testo del 2008 pone in modo inequivocabile la realizzazione di un centro di competenze che non sia una foglia di fico come invece vorrebbero le FFS. 6. Conclusioni Non c’è alcun dubbio che prima di ogni accordo con le FFS occorra che i cittadini ticinesi (che attendono da ormai dieci anni) possa finalmente votare sull’iniziativa popolare lanciata dagli operai. Questa fondamentale premessa democratica non viene tuttavia garantita anche perché l’azienda ha di fatto minacciato il popolo, qualora esso non votasse quelle che fa comodo alle FFS, di spostare tutto oltre Gottardo (minaccia che, peraltro, anche dal lato organizzativo e aziendale si potrebbe mettere in dubbio). Viste le trattative al ribasso finora svolte fra l’autorità politica cantonale e comunale con i manager della ferrovia, i margini di migliora-
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mento appaiono alquanto risicati: non solo è poco chiaro il futuro reale dell’attuale comparto, ma incerto è pure quanto ci si può attendere dalle nuove Officine ad Arbedo. L’impossibilità infine di emendare i messaggi posti all’attenzione dei legislativi esclude di fatto il loro miglioramento. Viene insomma umiliato il ruolo del parlamento e si decreta l’irriformabilità (il che dovrebbe rappresentare un controsenso per la stessa sinistra riformista!) di decisioni calate dall’alto in cui l’autorità politica cede vergognosamente ai ricatti a quella padronale. Non ci facciamo, insomma, insegnare la politica industriale da chi non riesce a far arrivare i treni in orario: non siamo ritardat(ar)i!
Ricostruire l’alternativa di Damiano Bardelli Questo articolo, apparso in una sua prima versione sul numero 18 dei “Quaderni del Forum Alternativo”, non impegna la nostra rivista e il suo editore, tuttavia lo riteniamo un valido spunto di riflessione sui fenomeni di rinnovata aggregazione a sinistra a seguito della crisi (e dell’irriformabilità) della socialdemocrazia e abbiamo quindi chiesto all’autore – che ringraziamo per la disponibilità di poterlo riprendere.
A dieci anni dal devastante tracollo dei mercati finanziari, l’ordine politico occidentale costruito sulla democrazia liberale e il dominio globale del libero mercato comincia a sgretolarsi. Le impopolari politiche neoliberali messe in atto per rispondere alla crisi economica, spesso imposte dai tecnocrati di istituzioni sovranazionali come l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, hanno alimentato l’esasperazione delle classi popolari e hanno spianato la strada ai successi elettorali della destra populista e nazionalista. Per quanto quest’ultima si presenti come un’alternativa antisistema al dominio delle élite, il suo progetto politico ambisce anzitutto a rinforzare il grande capitale nazionale e non prevede alcuna messa in discussione del sistema economico. Si assiste così ad una frattura in-
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terna alla classe dirigente, divisa tra i difensori del capitalismo globalizzato promosso dai vari Barack Obama, Angela Merkel e Emmanuel Macron e i promotori del capitalismo “illiberale”, nazionale e autoritario sognato da Donald Trump, Viktor Orbán e Matteo Salvini. Le grandi testate internazionali, facendo prova di uno scarso spirito critico e di una superficialità analitica allarmante, mettono in scena una narrazione di questo scontro che ne amplifica le divergenze al punto da ridurre l’orizzonte delle scelte politiche a queste due sole opzioni. Dal New York Times al Guardian, dal Corriere della Sera a Repubblica, dalla NZZ a Le Temps, e così, di riflesso, dal Corriere del Ticino alla Regione, tutti presentano la congiuntura politica attuale come uno scontro strutturale tra i due poli contrapposti della sinistra liberale (o del liberal centre, il centro liberale, per riprendere la terminologia anglosassone corrente) e della destra populista, spesso qualificata impropriamente di “sovranista”. E a trarne beneficio è proprio quest’ultima, visto che in questo apparente scontro a due essa risulta essere l’ultimo bastione a difesa della sovranità popolare e l’unica alternativa allo status quo, cosa che le permette di intercettare i voti di tutti coloro che ne sono scontenti. Analizzando la situazione più in dettaglio, però, appare evidente che questi due poli, lungi dall’essere antitetici, convergono in modo sostanziale nel loro sostegno a un capitalismo neoliberale insostenibile e distruttivo. La destra populista ne sogna una variante reazionaria – costruita attorno al mito di un capitalismo passato ed idealizzato – che dovrebbe concretizzarsi tramite l’instaurazione dell’autarchia, la limitazione dei diritti individuali (in particolare per quel che concerne il mondo del lavoro) e l’espulsione dal territorio nazionale di ogni elemento percepito come esogeno. Il centro liberale, da parte sua, dopo aver contribuito alla deregolamentazione del mercato del lavoro e alla liberalizzazione del servizio pubblico, si batte per il mantenimento dello status quo, forte della convinzione che la democrazia liberale e il capitalismo globalizzato siano rispettivamente il sistema politico e il sistema socio-economico migliori che possano essere realizzati. E poco importa se per imporre questa visione del mondo si debba ricorrere alla restrizione degli spazi democratici, riducendo votazioni ed elezioni ad un involucro vuoto e piegando la volontà popolare alle decisioni prese a
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Bruxelles o, ancora peggio, all’andamento dei mercati finanziari. Entrambe queste prospettive, in sintesi, sostengono gli interessi della classe dirigente a scapito del resto della popolazione e difendono un sistema economico che per sua stessa natura è costruito sullo sfruttamento della forza lavoro e sulla distruzione delle risorse naturali. Il paradossale “capitalismo inclusivo” recentemente invocato da Obama come alternativa alla destra populista, insomma, resta pur sempre capitalismo. Per invertire la tendenza attuale, che vede profilarsi all’orizzonte un ordine brutale e minaccioso dominato dalle peggiori forze reazionarie, bisogna quindi rompere urgentemente con la narrativa che presenta i vari Trump e Salvini come l’unica alternativa allo status quo e come gli unici difensori della sovranità popolare. Il primo passo da compiere è quello di costruire una nuova forza politica che dia voce a quella larga fetta della popolazione che non accetta le politiche neoliberali attuali e che non ne può più della malapolitica e l’inettitudine a cui ci ha abituato la nostra classe dirigente. Una forza politica che non si limiti a difendere un amaro status quo ma che rompa in modo deciso con il sistema economico attuale, irriformabile e insostenibile. Una forza politica che sia in grado di combattere simultaneamente quelli che Thomas Frank definisce i “tecnocrati illuminati” e i “miliardari arrabbiati” (“Four More Years”, Harper’s Magazine, aprile 2018), e che sia quindi equidistante da quei due poli che vengono oggi presentati come le uniche due opzioni disponibili. I partiti socialdemocratici tradizionali, da tempo scivolati nel campo del centro liberale, hanno ampiamente dimostrato di non essere in grado di fornire quest’alternativa. Dopo aver rinunciato ad una lettura di classe della società ed essersi progressivamente trasformati in partiti della borghesia diplomata, hanno completamente perso la bussola. Privati della loro identità, hanno finito per accodarsi al pensiero neoliberale divenuto egemone, seguendo una traiettoria che non avrebbe minimamente sorpreso Gramsci. L’unica eccezione, come è noto, è quella del Partito laburista britannico, che ha spettacolarmente cambiato rotta sotto la guida di Jeremy Corbyn. Non bisogna però illudersi di poter ripetere altrove quanto avvenuto nel Regno
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Unito: il sistema elettorale britannico rendeva questa via l’unica percorribile e la peculiare organizzazione del Partito laburista – che dalle sue origini ricorda più una rete di associazioni che non un partito nel senso continentale del termine – ha fatto il resto. Al contempo non si deve pensare che la rinascita della socialdemocrazia sia la via più facile. L’elezione di Corbyn ha avviato una guerra interna ai laburisti, portata avanti a suon di calunnie dall’ala liberale vicina all’ex-premier Tony Blair e che, stando a quanto emerso all’ultimo congresso del partito, potrebbe sfociare in una scissione dei centristi, i quali preferirebbero fondare una nuova formazione piuttosto che partecipare alla rinascita di una prospettiva socialista. Il Partito socialista svizzero, da parte sua, continua a mandare segnali inequivocabili che non lasciano spazio a possibili illusioni. L’ultimo in ordine di tempo è quello dell’odioso accordo con i partiti borghesi che ha portato all’elaborazione del progetto nominato “Riforma fiscale e finanziamento dell’AVS” (RFFA), un vero e proprio ricatto fortemente voluto dai dirigenti del partito, tra cui in particolare il presidente Christian Levrat, il capogruppo in Consiglio nazionale Roger Nordmann e il consigliere federale Alain Berset. Per quanto il progetto abbia dato luogo ad un acceso dibattito interno al PSS, niente lascia intravedere un radicale e improvviso cambiamento nei rapporti di forza tra le diverse anime del partito. A riprova che una fetta consistente della base socialista continuerà ad essere scarsamente rappresentata dai suoi vertici e nelle istituzioni. La via da seguire, quindi, è quella dei nuovi movimenti e delle nuove coalizioni di sinistra che in questi ultimi anni sono sorte un po’ in tutta Europa, le quali generalmente ribadiscono il valore supremo del voto popolare rispetto alle decisioni prese in istituzioni sovranazionali come l’UE. L’esempio più recente è Aufstehen (letteralmente “In piedi”), il movimento politico lanciato in Germania da Sahra Wagenknecht, ispirato principalmente alla France insoumise di Jean-Luc Mélenchon. In occasione della conferenza stampa organizzata per presentare il movimento, la Wagenknecht ha ribadito che la Germania sta vivendo una “forte crisi democratica”, come testimoniato dal fatto che “molte persone non si sentono più rappresentate nelle istituzioni e voltano così le spalle alla politica.” Una situazione comune in tutto il continente e che conosciamo bene anche in Ticino.
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Per rendere nuovamente appetibile ed entusiasmante la politica bisogna quindi tornare a fornire un’alternativa credibile, che non si pieghi ai diktat dei tecnocrati e dei mercati finanziari e che non sia succube del dogma dell’europeismo ad ogni costo. Non per niente, come ha ricordato la Wagenknecht, “tutti i successi nel limitare e regolare il capitalismo sono stati ottenuti all’interno dei singoli Stati, e gli Stati hanno dei confini”. Vista l’impostazione neoliberale dell’UE, per portare avanti con successo una politica socialista bisogna prima di tutto lavorare all’interno dei singoli Stati. Bisogna quindi smetterla di ricorrere al termine “sovranista” in modo improprio, come principale aggettivo per definire la destra populista. Ci sono termini ben più precisi per descrivere persone come Trump o Salvini: populisti, nazionalisti, xenofobi, in parte conservatori, e poi ancora sessisti, omofobi e razzisti. Certo, costoro si presentano anche come sovranisti, ma l’espressione è del tutto inappropriata per riassumere l’insieme delle loro posizioni. Associare chi si oppone a cessioni di sovranità che svuoterebbero la democrazia di un paese a un attitudine reazionaria e beceramente nazionalista è fuorviante e controproducente. Ogni popolo ha diritto di essere sovrano, come rivendicato anche dai movimenti e dalle coalizioni della nuova sinistra. Finché le istituzioni europee insisteranno ad imporre delle politiche neoliberali contro la volontà popolare, andando a rinforzare le disuguaglianze e a peggiorare le condizioni di vita delle persone comuni, i popoli dovranno avere il diritto di opporvisi e sta proprio alla sinistra di assicurare che la loro sovranità sia rispettata. La grande stampa internazionale – generalmente vicina, pur con le dovute sfumature, alle posizioni del centro liberale – ne ha ovviamente approfittato per tracciare un disonesto parallelo tra la destra populista e la nuova sinistra alternativa che si leva in tutta Europa, facendo di queste due visioni diametralmente opposte due facce della stessa medaglia. Aufstehen è stato così immediatamente bollato come “sinistra antimigranti” – un termine a suo tempo appioppato anche alla France insoumise – e accusato di “imitare la retorica dell’estrema destra”, sebbene il testo fondatore del movimento non contenga alcuna dichiarazione ostile ai migranti e anzi inviti a
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“garantire il diritto d’asilo per i rifugiati”. Insomma, la sinistra deve avere il coraggio di ribadire forte e chiaro che la sovranità popolare è un pilastro della democrazia e che nel contesto attuale le politiche socialiste possono essere attuate solo su scala nazionale, spesso in aperto contrasto con istituzioni come l’UE. Ma soprattutto la sinistra deve smetterla di farsi imporre i termini del dibattito politico da una stampa liberaldemocratica che cerca di salvare un insostenibile e agonizzante status quo. Il lavoro per costruire un’alternativa alla destra populista e al centro liberale è certo immenso, ma fortunatamente altri ci hanno preceduti in questo cammino. Non ci resta che seguire la via tracciata da Jeremy Corbyn, Jean-Luc Mélenchon e Sahra Wagenknecht, tutti uniti e con entusiasmo.
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La strategia e la tattica nel socialismo scientifico di Edoardo Cappelletti 1. Introduzione L’apporto del socialismo scientifico non si esaurisce nella comprensione dei processi storici, ma contribuisce anche a forgiare, in quanto dottrina della trasformazione sociale, una guida alla quale i comunisti devono ispirarsi per operare nella realtà. In questa prospettiva, esso non si presenta come semplice teoria sociale, utile soltanto a interpretare l’esistente, bensì come strumento necessario a un suo cambiamento. Per farlo non basta tuttavia aspirare a un nuovo progetto di società, ma s’impone un metodo, scientifico e rivoluzionario, che consenta passo dopo passo di costruirla. Nel presente articolo, di questo metodo s’intendono delineare alcuni degli aspetti più rilevanti. In modo particolare verrà quindi affrontata la questione della strategia e della tattica, la cui comprensione, in ultima analisi, costituisce il prerequisito indispensabile per un lavoro politico cosciente dei comunisti di ogni epoca. 2. La questione strategica 2.1. La portata politica della strategia Per un Partito che aspira ad abolire lo stato di cose presente, la questione strategica riveste una particolare importanza politica. Avere una giusta comprensione della situazione d’insieme, e così dell’obiettivo strategico, contribuisce anche a determinare una linea corretta nell’attività quotidiana. Nel contempo, l’esistenza di una strategia permette di dare il peso appropriato a successi episodici che, se concepiti soltanto in loro stessi, rischiano di compromettere la vocazione rivoluzionaria dei comunisti all’interno della società. Un rischio che, se da un lato si è concretizzato in una deriva meramente tatticista, se non apertamente reazionaria, di ampi settori della socialdemocrazia; dall’altro non è nemmeno estraneo ai gruppi più estremisti della sinistra occidentale. Se nel primo caso si scade,
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a discapito di un progetto sociale alternativo, in una sopravvalutazione delle semplici riforme politiche; nel secondo si presenta invece una preferenza delle sole parole d’ordine strategiche, slegate dalla realtà, che finiscono per tradursi in una visione propagandistica della politica. Opposta a queste due tendenze, entrambe accomunate, inevitabilmente, da un’incapacità a incidere veramente nella realtà, vi è tuttavia una concezione dialettica della strategia, propria del socialismo scientifico, che sarà oggetto del presente capitolo. 2.2. I lineamenti della direzione strategica In linea generale, intendiamo per strategia una condotta politica complessiva volta a perseguire, in un dato periodo storico, un obiettivo giudicato essenziale per lo sviluppo del movimento rivoluzionario. In questo senso, la strategia serve a determinare l’orientamento generale del Partito, il quale, nel suo complesso, tenderà verso la meta prefissata. Oggetto dello stessa non sono quindi le singole battaglie, bensì il risultato a cui tali battaglie tendono. Si tratta insomma di vittorie che, ben lungi dall’essere meramente puntuali, consentono di superare ostacoli decisivi per l’affermazione degli interessi di classe. Anche per questa ragione, a imporsi sono necessariamente una serie di operazioni che, seppure minori, sono indispensabili per raggiungere il successo strategico. Questo insieme di operazioni, proprio perché di natura funzionale, non può però che essere parte coerente di un disegno strategico. Pertanto, stabilendo uno scopo generale e di lungo periodo, la direzione strategica andrà a inquadrare l’operato politico quotidiano che, a sua volta, tale scopo si prefigge di conseguire. In quest’ottica, ad esempio, per una forza come il PCI, padre della Costituzione Repubblicana, avente quale obiettivo una democrazia progressiva da svilupparsi nell’ambito delle istituzioni democratiche, il dispiegamento di un attacco frontale contro lo Stato nel dopoguerra, come quello incoraggiato da alcuni movimenti extraparlamentari, non poteva che incontrare forti resistenze. Abbracciando una determinata strategia, si delimitano perciò il punto d’arrivo del proprio lavoro e i mezzi principali per raggiungerlo. La strategia costituisce così un aspetto centrale della linea politica dal quale discende, in modo dialettico, una prassi che ad esso si trova subordinato: la tattica, appunto, della quale si parlerà in seguito.
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2.3. I fondamenti del piano strategico Dovendo orientare la politica generale del Partito, compito della strategia consiste anche nel determinare quale direzione offre maggiori vantaggi al movimento rivoluzionario. In altri termini, una corretta impostazione strategica permetterà di capire quale indirizzo, fra i diversi possibili, si presenti come il più adeguato a perseguire un obiettivo dato. Affinché ciò avvenga, si rende necessaria una profonda comprensione della fase storica in corso. In modo particolare, ciò significa avere in chiaro i rapporti di forza esistenti tra le classi, a partire dal contesto nazionale e internazionale nel quale si dispiega la lotta. Così, se a fronte di una decadenza del regime zarista, delle ripercussioni del primo conflitto mondiale, nonché di una forte organizzazione della classe operaia, la strategia dei bolscevichi consisteva nella rivoluzione proletaria; ecco che, a cent’anni di distanza, in un Stato a capitalismo avanzato, dinnanzi a un arretramento delle posizioni di classe, compito dei comunisti sarà di studiarne una diversa, aderente alle circostanze, capace comunque d’incidere nella realtà. La strategia non può dunque essere qualcosa di statico, fissato una volta per tutte, ma riflette ogni volta delle precise condizioni sociali. Per non scadere in una completa estemporaneità, a un’evoluzione della fase storica deve perciò sempre corrispondere un aggiornamento del piano strategico. Tuttavia, nel corso di una medesima fase è indispensabile che alla strategia adottata ci si attenga fedelmente: pena, una confusione e inconsistenza della stessa. Se non in presenza mutamenti sostanziali, l’avanguardia deve quindi mantenere ben salda la guida che si è data. Non vi è insomma spazio per improvvisazioni, avventurismi o idealismi: la determinazione delle priorità politiche, poggia infatti nel marxismo su un’analisi dello stato di cose presente. 3. La questione tattica 3.1. Il compito della direzione tattica Complementare alla strategia, la tattica consiste in una condotta politica assunta per un periodo relativamente breve allo scopo di preparare, dati i rapporti di forza esistenti, il successo del piano strategico. La direzione tattica non ha perciò una valenza propria, ma è subordinata, derivata e funzionale alla strategia. Detto altrimenti, essa concerne operazioni tempora10 - 11
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nee e parziali, la cui esecuzione s’inserisce in una finalità di più ampio respiro. In tal senso, compito della tattica consiste anche nella definizione dei problemi più immediati, la cui risoluzione assicura un maggiore avvicinamento al successo strategico: se la strategia, insomma, volge lo sguardo alla ‘’guerra’’, la tattica si occupa invece delle singole battaglie. Benché dipendenti dalla strategia e, con essa, dalla fase storica, le scelte tattiche devono però considerare un altro fattore, il quale può mutare più velocemente: si tratta dei momenti di flusso o rifluso del movimento, rispettivamente di slancio o depressione della rivoluzione. Non è infatti escluso che, in una medesima fase, possa sopraggiungere una significativa variazione nei rapporti di forza. In questo caso, a una tale nuova conformazione il Partito deve sapersi adattare, cambiando non tanto il suo orientamento generale, quanto le proprie forme di lotta. Nella prima tappa della rivoluzione russa, obiettivo strategico rimaneva sempre il rovesciamento del regime zarista. Dal 1903 al 1917, i comunisti hanno tuttavia seguito diverse tattiche, a seconda delle condizioni presenti: concretamente, a un particolare flusso rivoluzionario corrispondeva cioè una linea offensiva, composta per esempio da scioperi politici generali, boicottaggio della Duma e insurrezione; viceversa, di fronte a una depressione del movimento, gli stessi bolscevichi incoraggiavano una sorta di ritirata, che concepiva scioperi economici parziali, partecipazione alla Duma e semplice agitazione politica. Come spiegato, mentre un piano strategico può rimanere invariato, è invece indispensabile che la tattica continui ad aggiornarsi. 3.2. La definizione delle forme di lotta Subordinare l’idoneità di una tattica alla sua compatibilità con la strategia e la fase storica, comporta una conseguenza di capitale importanza. L’esistenza di una tale dipendenza reciproca, non a caso, sottintende il riconoscimento non vi siano forme di lotta giuste o sbagliate in assoluto. Secondo il metodo dialettico, per giudicare la bontà di una tattica non la si può soltanto concepire in sé stessa, ma bisogna riferirsi ai compiti specifici che, in una data contingenza, i comunisti si trovano ad affrontare. In quest’ottica, una direzione tattica performante dovrebbe consentire di definire, tra tutti i canali possibili, quelli che conferiscono il massimo dei vantaggi per preparare il successo strategico. Pertanto, restringere in partenza la sfera d’a-
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zione del Partito sarebbe quanto di più estremista, poiché in tal modo si rinuncerebbe subito a mezzi che, malgrado non apertamente rivoluzionari, potrebbero comunque rivelarsi utili ai fini strategici: i comunisti devono potere contare così anche su rivendicazioni che, seppure incompatibili con una logica capitalista, possano avere già delle possibilità di successo. Nel contempo, reclamare in maniera assoluta, senza alcuna aderenza alla realtà, una forma di lotta piuttosto che un’altra, è sintomatico di un’immaturità politica che, ben lungi dall’essere progressiva, rischia di relegare i comunisti alla marginalità. Se oggi rifiutiamo di concepire, sul piano della tattica rivoluzionaria, le mobilitazioni dell’Ottobre come le uniche valide da intraprendere, non è per una presunta deriva liquidazionista, ma in quanto siamo convinti che le stesse non corrispondano alle condizioni attuali; d’altra parte, se ammettiamo la rilevanza del lavoro parlamentare, ciò non significa che in esso troviamo la panacea per contraddizioni capitalistiche, ma semplicemente che reputiamo un nostro impegno in questo campo come efficace per consolidare il Partito nella società. Come vedremo, nessuna tattica può quindi sottostare a modelli assoluti: al contrario, essa non può che dipendere dalla situazione data.
gna temere di adeguare la propria tattica, aprendosi a forme di lotta forse meno ambiziose: non è infatti rivoluzionario ciò che risuona come tale, ma ciò che consente veramente di cambiare la società, tenuto conto dei rapporti di forza. A essere determinante, di conseguenza, non è tanto una tattica in quanto tale, che può prendere la forma di una riforma o di un compromesso, ma soprattutto l’uso che ne viene fatto. Se essa consiste, tra quelle presenti, in quella più efficace per avvicinarsi a uno scopo, ecco che possiamo allora parlare di una buona tattica: basti pensare alla politica del fronte unito sostenuta da Mao Zedong, la quale, al fine di contrastare un’offensiva imperialista ritenuta il problema principale per la Cina, aveva previsto un’alleanza temporanea con lo stesso Partito Nazionalista. Capiamo perciò come il ripudiare quanto non sia prettamente strategico e, in questo senso, qualsivoglia azione inserita nelle contraddizioni esistenti, avrebbe sempre quale rischio di castrare il lavoro politico dei comunisti, che sarebbero così ridotti a un semplice gruppo autoreferenziale e inconcludente. Anche per questa ragione, la comprensione della fase tattica può quindi divenire il migliore antidoto contro le derive estremiste, del volere tutto e subito, nonché dello sterile purismo ideologico.
3.3. La tattica come rifiuto dell’estremismo
4. Conclusione
Come visto, la natura stessa della tattica impone di considerare le forme di lotta non secondo canoni assoluti, ma in funzione della loro conformità al piano strategico. Non essendo guidata da idealismi, la tattica deve aderire alle contingenze che di volta in volta si configurano. Per questo motivo, non vi sono mezzi che il Partito può rifiutare ad adottare, in quanto all’apparenza non rivoluzionari. Non a caso, a rendere possibile un successo strategico è proprio un’accumularsi di operazioni, sia pure parziali e minori, che costituiscono appunto un percorso di avvicinamento. Ciononostante, quest’ultimo può altresì richiedere delle deviazioni che, seppure in un primo momento allontanino dalla meta, si rendano comunque per proseguire nella direzione data. Nella scalata di un monte, rinunciare a un sentiero insidioso, benché più diretto verso la cima, in favore di un altro, meno immediato ma percorribile, non significa abdicare alla scalata, ma riconoscere la naturale esigenza di compiere anche degli zig-zag. Così, nei periodi di riflusso della rivoluzione non biso-
In conclusione, compito dei comunisti deve consistere anzitutto nella comprensione della fase storica, nazionale e internazionale, nella quale stanno operando. In base alla stessa, si rende necessario studiare una strategia che, individuando i principali obiettivi del movimento rivoluzionario, permetta di orientarne l’attività sul lungo periodo. Consapevole che, per conseguire tale obiettivo strategico, s’impone un processo di avvicinamento, nel suo lavoro quotidiano il Partito dovrà però riuscire ad adottare le forme di lotta più adatte alle contingenze, senza alcuna preclusione (direzione tattica). Una ponderata dialettica fra questi due elementi, che sono fra loro complementari, rappresenta perciò quanto di più importante per delineare una corretta linea politica dei comunisti: da un lato per non ricadere in uno stanco riformismo, privo di alcuna prospettiva di trasformazione sociale; dall’altro per non banalizzare la carica rivoluzionaria del socialismo scientifico, la quale, ben lungi dall’essere estetica, è una questione di pura prassi politica.
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Le caratteristiche del Partito leninista nel contesto odierno (e qualche esempio concreto fra PC, MPS e POP) di Massimiliano Ay
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Marx, Engels (1846): “L’ideologia tedesca”. Reperibile al sito: https://www.marxists. org/italiano/marxengels/1846/ideologia/ index.htm
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Il contesto nel quale ci troviamo a militare è quello della cosiddetta “società liquida” e – mi viene da aggiungere – anche “post-tutto”: è una società post-moderna, post-democratica, postfordista. Oggi addirittura ci sono pure le ... post-verità! In questo genere di società capitalista occidentale (ormai decadente), i partiti politici diventano semplici gruppi di individui privi di programma e di sostanza: sono appunto una realtà “liquida” e molto mediatica, insomma un bluff continuo in cui si sviluppa l’anti-politica che è l’anticamera di nuove forme di fascismo. Il fatto drammatico è che proprio la sinistra, producendo un ceto politico letteralmente inconsistente (tutto costruito su banalità e “indignazione” fine a se stessa), sta gettando le basi del suo suicidio politico. L’unica forma di partito vittoriosa – nel senso di riuscire a compiere una rivoluzione profonda dei rapporti di forza e dell’ordinamento sociale ed economico egemone – ha dimostrato di funzionare in modo totalmente diverso rispetto agli schemi dei partiti attuali della sinistra liberal o, appunto, post-moderna. Il nostro scopo è oggi quello di ricordarne i principi e di continuare il percorso di strutturare un tale Partito nella nostra difficilissima realtà: non si tratta infatti “solo” di contrastare la radicatissima borghesia svizzera, si tratta anche di lanciare la sfida di una sinistra 2.0 che aborrisca i “nuovismi” e anzi sappia riprendere, ovviamente aggiornandoli, i valori veri e unici del pensiero forte che il movimento operaio e progressista ha forgiato. Il Partito del socialismo scientifico Il Partito di nuovo tipo, concepito da Vladimir Ilic Lenin, che trionfa nell’Ottobre 1917 si di-
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stingue per cinque caratteristiche che qui ricordiamo: 1. Il Partito è un reparto d’avanguardia 2. Il Partito è un reparto organizzato 3. Il Partito è la forma suprema dell’organizzazione di classe 4. Il Partito è uno strumento di potere 5. Il Partito è un reparto unitario e centralista E sono cinque anche le caratteristiche che un buon militante di un tale Partito deve avere, e che possiamo ricavare parafrasando Antonio Gramsci: 1. curare la propria formazione marxista-leninista 2. essere in prima linea nelle lotte proletarie 3. aborrire dalle pose rivoluzionarie: esse re non solo rivoluzionario ma anche un politico realista 4. giudicare le situazioni e gli accadimenti dal punto di vista della propria classe e del proprio Partito 5. essere internazionalista. Un Partito concepito in questo modo (e composto di tali militanti) dispone, almeno teoricamente, degli strumenti non solo organizzativi ma anche intellettuali per iniziare ad agire concretamente in una prospettiva socialista con metodo scientifico, con l’obiettivo di incidere nella realtà pur senza finire in quello sterile riformismo fine a se stesso che ha portato molti partiti operai a finire assimilati, prima ancora che dalle dinamiche del sistema, da concezioni culturali non appartenenti alla propria tradizione, rinunciando così all’indipendenza ideologica senza la quale è impossibile anche solo immaginare realisticamente il superamento della società borghese. Non ci sfugge infatti che “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio”1
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Il Partito come reparto d’avanguardia Il pensiero di Lenin chiarisce come il Partito non possa essere davvero tale “se si limita a registrare quello che la massa della classe operaia sente e pensa, se si trascina alla coda del movimento spontaneo, se non sa superare l’inerzia del movimento spontaneo, se non sa elevarsi al di sopra degli interessi momentanei del proletariato”, il Partito deve insomma saper vedere più lontano della classe operaia. Deve ciò elevare le masse, non piegarsi ad esse! Certi “populisti” di sinistra e di estrema sinistra che per prendere qualche voto in più si muovono invece proprio seguendo una sorta di “operaiolatria”, dove l’operaio ha sempre ragione ed è in sé espressione di saggezza, non solo cadono nel ridicolo, ma fanno un danno enorme a ogni progetto di trasformazione sociale. Il socialismo scientifico riconosce certamente nella classe operaia il settore sociale che potrà determinare – date le condizioni oggettive e soggettive – un processo rivoluzionario di superamento del capitalismo, ma ciò non significa che si debba accettare una sorta di visione “messianica” della classe operaia stessa. Naturalmente essere avanguardia non significa essere élite: bisogna essere nel contempo parte della classe che si considera protagonista del futuro cambio sociale, legarsi ad essa per comprenderne gli orientamenti, i bisogni, le necessità, e dunque per sapere come convincerla ad assumere una determinata impostazione di analisi e quindi di lotta, ma non bisogna scordarsi il fatto di essere appunto alla sua avanguardia: seguirne le “percezioni”, anche quando imprecise, non è dunque un errore in sé, purché il Partito sappia quali sbocco politico dare alle stesse. Nel nostro territorio abbiamo avuto di recente due esperienze di intensa lotta operaia: nel 2008 le maestranze entrano in sciopero per un mese alle Officine ferroviarie di Bellinzona e nel 2017 incrociano le braccia anche i dipendenti della Navigazione del Lago Maggiore. In queste due vertenze abbiamo avuto due partiti di orientamento anti-capitalista che godevano di posizione estremamente vantaggiose nel sindacato di categoria: il Movimento per il Socialismo (MPS) nel primo caso e il Partito Operaio e Popolare (POP) nel secondo. La differenza nella capacità di lavoro spiccano subito agli occhi: MPS – che alle Officine disponeva di militanti e funzionari sindacali – nel 2008 faceva un’elabo-
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razione costante sui vari mezzi a disposizione e sugli sbocchi che la lotta operaia poteva assumere, uscendo addirittura con anticipo sugli eventi e rendendo evidente a tutti come i trotzkisti sapevano indirizzare l’elaborazione della strategia sindacale in fabbrica. Il che dimostra come il PS, benché sindacalmente forte, non disponeva della capacità di agire e di fatto era in balia di quanto i quadri trotzkisti dettavano alla base. Ben diverso si è mosso invece nel 2017 il POP, il quale non solo disponeva fra i funzionari sindacali alcuni dei propri dirigenti, ma che potenzialmente disponeva di militanti con tempo a disposizione per poter seguire attivamente la vertenza. Il tutto si è invece ridotto a due comunicati stampa, roboanti nella retorica ma anche relativamente banali nell’analisi, una striminzita presenza militante e un praticamente nullo ruolo di avanguardia nella conduzione della lotta. Il POP risulta ideologicamente inclassificabile talmente è povera la sua analisi: potremmo quasi definirlo “codista” essendo incapace di elaborare strategie proprie. Il Partito Comunista, per contro, ha lavorato conscio dei propri limiti: non disponendo di sindacalisti nel settore (e non avendo dunque entrature adeguate nella vertenza in corso) ha optato per un impegno collaterale di altro tipo, cercando comunque di svolgere il proprio compito. Anzitutto abbiamo garantito una presenza costante di delegazioni militanti ad ogni evento di solidarietà, abbiamo preso contatto con il Partito Comunista Italiano (PCI) attivo sull’altra sponda del lago Maggiore diramando una dichiarazione congiunta che non solo desse un valenza internazionalista alla lotta, ma che sapesse delineare un’ipotesi di lungo periodo sul piano dello sviluppo, attraverso ricerche universitarie, dell’economia lacustre di ambo i paesi; abbiamo sfruttato la nostra presenza parlamentare per promuovere una interrogazione al governo in cui – per primi sul piano istituzionale – abbiamo messo le mani avanti sul rischio di liberalizzazione del trasporto su acqua. Se a ciò avessimo potuto aggiungere una nostra presenza sindacale stabile (come ad esempio ha avuto il POP senza saperla però sfruttare) avremmo potuto oggi dirci totalmente soddisfatti nel nostro intervento. C’è quindi ancora da lavorare, ma possiamo affermare già oggi che il nostro impegno commisurato alle attuali nostre forze è stato assolutamente dignitoso.
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Il Partito come reparto organizzato Il Partito non può essere una somma di gruppi militanti o di singoli compagni: deve essere, al contrario, un tutt’uno organizzato e disciplinato. Da qui derivano due questioni assolutamente dirimenti nello stato di cose attuali della sinistra svizzera: a) bisogna rifiutare con forza al “trade-unionismo”: se ogni scioperante, ogni simpatizzante, ogni elettore lo facciamo figurare quale membro del Partito magari anche con diritto di voto, il Partito verrebbe semplicemente snaturato, diventando una entità amorfa, poiché avrebbe cancellato ogni frontiera fra il Partito appunto e la classe sociale. Il Partito risulterebbe in questo modo disarmato sia organizzativamente sia ideologicamente. Questa è la modalità di presunta “organizzazione” che riscontriamo nella Gioventù Socialista (GISO), la quale sembrerebbe una associazione di massa con numeri elevatissimi di membri, quando in realtà essa dispone una capacità di intervento reale e militante assolutamente più modesto, rispetto a quanto essa stessa ammetta e i media compiacenti cercano di comunicare. Basti qui vedere le sole 75 firme (sulle 150 promesse) portate in occasione del referendum contro gli sgravi fiscali che proprio la GISO aveva innalzato a priorità assoluta nella lotta interna al PS. b) bisogna in secondo luogo rifiutare con altrettanta forza il “franchising” del proprio marchio (che a volte rasenta un’attitudine non solo opportunistica, ma di patologica schizofrenia). Questa è quanto avviene in ormai molti partiti: ad esempio nel Partito Socialista (PS) dove una sezione comunale diverge dall’altra e dove ogni esponente (anche di punta) parla a titolo personale su ogni tema anche in contraddizione con la linea politica del proprio partito. Ma ancora più grave – vista la pretesa matrice comunista – è la situazione nel Partito Svizzero del Lavoro (PSdL/POP): così abbiamo avuto nel 2005 la sezione del Canton Ginevra che proponeva di chiudere le frontiere ai lavoratori francesi e lo stesso Partito nel Canton Vaud che, proprio nel medesimo periodo, perorava invece la causa europeista e della libera circolazione della manodopera. Così abbiamo il POP ticinese che esprime ben due dei propri dirigenti nell’Ufficio esecutivo del Partito della Sinistra Europea (SE), nonostante il suo segretario cantonale utilizzi una retorica inferocita contro Bruxelles e fino a pochi anni fa si ergeva ad avversario totale del-
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la SE, senza porsi però problemi – di fronte alla vittoria elettorale di SYRIZA in Grecia – di uscire pubblicamente sulla stampa in sostegno a Alexis Tsipras rivendicandone addirittura l’appartenenza al medesimo sodalizio europeo! Così abbiamo sezioni del PSdL che teorizzano la “nonviolenza” e altre sezioni che invitano i giovani a recarsi a scuola reclute per imparare l’uso della armi in vista della ...rivoluzione proletaria e che passano il loro tempo a fraternizzare con organizzazioni armate estere che agiscono (clandestinamente) nel nostro Paese. Insomma un gigantesco pasticcio… Il Partito come forma suprema dell’organizzazione di classe Il Partito non è l’unica organizzazione di classe che esiste: ce ne sono altre di utilissime e necessarie, a partire dal sindacato, dalle cooperative di consumo fino alle redazioni di giornali indipendenti, alle associazioni culturali, ai movimenti giovanili, ecc. Esse servono a consolidare le posizioni di classe nei diversi ambiti di lavoro e di vita sociale e, alla lunga, sono necessarie al fine di creare quel “duopolio di potere” che è preludio di una fase potenzialmente rivoluzionaria, quando cioè al fianco del potere costituito a dominio borghese si creano le cosiddette “casematte” di gramsciana memoria, dove cioè si intravvedono settori sotto egemonia operaia. Ognuna di queste associazioni di massa e collaterali agisce nel settore che gli è proprio, non si devono pestare i piedi a vicenda, ma devono comunque agire in modo coordinato. Tutte devono lavorare in una sola direzione, perché servono a una sola classe e gli interessi di questa sola classe. A determinare la direzione strategica comune è, secondo Lenin, sempre il Partito come nucleo centrale, il nucleo attorno al quale si riuniscono e si aggregano gli elementi più preparati della classe, i quadri politici migliori. Ma ci sono anche organizzazioni di massa di persone senza partito: qui non è fattibile una nostra direzione formale, ma devono essere i membri del partito che, facendo parte di tali associazioni, portano al loro interno la linea elaborata dal Partito e, democraticamente e con la persuasione, convincere gli altri partecipanti della correttezza della proposta comunista. Lenin diceva che “la teoria opportunista della neutralità delle organizzazioni senza partito, che genera i deputati indipendenti o i sindacali-
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sti super-partes, ecc. non è solo sbagliata, ma è falsa ed è una truffa”! Siamo così arrivati al punto di dover chiarire la necessità del rafforzamento della disciplina operativa dei marxisti: “il Partito Comunista non accetta la divisione dei compiti (…) per cui i partiti non si occupavano dei sindacati ma solo delle elezioni (…). Bisogna invece occuparsi di tutte le manifestazioni di vita della classe proletaria a cominciare dal sindacato, operandovi in maniera intelligente e organizzata, per cercare di influenzarlo, contrastarne la burocratizzazione, orientarlo alla lotta, conquistarne la direzione”.2 Situazioni interessanti le abbiamo viste svilupparsi anche nella nostra realtà, ad esempio con i militanti di MPS attivi in UNIA (almeno fino al 2009), oppure con i giovani del PC attivi nel SISA fin dal 2006. Piuttosto inversa invece la situazione nel POP, dove – almeno di primo acchito – sembra essere il sindacato a dettare l’agenda al partito (senza che ciò peraltro produca alcunché di concreto sul piano di massa). Il Partito come strumento di potere Si tratta, questo, di uno dei punti ormai più difficili da accettare nella sinistra post-moderna e liberal che oggi va per la maggiore. Una certa cultura idealista di tipo anarco-libertario, che rifiuta ogni potere (e così facendo, involontariamente, approva il potere attuale!), considera che un partito di sinistra debba quasi ridursi a mero strumento di riflessione, di opinione e di discussione intellettuale, la cui azione si riduca al massimo a prevedere forme di aiuto assistenziale, quasi la sinistra fosse una realtà caritatevole. E invece no! Gramsci è chiarissimo in questo: il Partito “non è una società di mutuo soccorso” affermava il comunista sardo! L’obiettivo di un partito politico è sempre – soprattutto se si pone in ottica di superamento del capitalismo – quello di prendere, né più né meno, il controllo politico della società e sempre Gramsci, a tal proposito, chiariva: “noi intendiamo per partito la organizzazione politica di una determinata classe, e non semplicemente un gruppo di cittadini che la pensa alla stessa maniera”. Lenin definiva il partito “lo stato maggiore”, proprio come in un esercito, capace di raccogliere intorno a sé le organizzazioni di massa e di centralizzarne l’azione con lo scopo molto concreto di ...governare! L’Accademia delle scienze della ex-URSS nel suo “Manuale del
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marxismo-leninismo” 3 spiegava come i comunisti, pur denunciando il capitalismo, non debbano limitarsi a criticare senza fornire risposte su quanto bisogna fare concretamente oggi: Lenin rifiutava in effetti la tendenza a lanciare slogan intesi solo ad “acutizzare” la coscienza di classe: una critica al sistema che non è unita ad una azione positiva altro non è che una declamazione priva di contenuto, del tutto inutile al fine della lotta di classe. E’ l’esperienza concreta, infatti, che fa crescere la coscienza. Ecco perché sbagliava chi criticava la vocazione “di governo” (benché non “al governo”) che il Partito Comunista aveva espressamente sancito nelle proprie tesi congressuali del 20114 e da allora sempre ribadito. Come spiegava anche Armando Cossutta, insomma, occorre un Partito Comunista che non si limiti a fare “mera propaganda delle sue pur fortissime ragioni”.5 Ma per fare questo è necessario una disciplina ferrea. Lenin, non a caso, affermava: “i bolscevichi non sarebbero rimasti al potere nemmeno due mesi se non fosse esistita una disciplina severissima, veramente ferrea, se il Partito non avesse avuto l’appoggio pieno di abnegazione di tutto quanto vi è nella massa popolare di pensante, di onesto, di devoto, di influente, capace di condurre dietro a sé gli strati arretrati”. Il Partito, dunque, come realtà che educa allo spirito di disciplina, di organizzazione, creando una coesione e quindi una barriera contro le influenze culturali deleterie piccolo borghesi (ribellismo, anarchismo, ecc.). Il Partito come reparto unitario e centralista Ottenere qualcosa di concreto (e nel caso di Lenin compiere nientemeno che una rivoluzione) non è fattibile senza la necessaria compattezza. Se il Partito è una realtà eclettica con varie frazioni interne che si fanno la guerra a vicenda come è successo nel caso del Partito della Rifondazione Comunista in Italia (ma non solo) con quasi una decina di correnti organizzate, prima o poi si va allo sfascio oppure semplicemente si diventa un “salotto” intellettuale, ma dove non si conquista assolutamente nulla. Gramsci spiegava in effetti che il Partito “non è un’accademia in cui ognuno si batte per le sue idee personali”. Ecco perché il Partito leninista è basato sul concetto imprescindibile, fondamentale e indiscutibile del centralismo democratico, che non può e non deve tollerare il frazionismo. La disci-
2
Giacomini, Ruggero (2016): “La lezione che ci viene da Gramsci, in otto punti”, Supplementi alla tesi congressuali del Partito Comunista Italiano.
3
Ci si è riferiti all’edizione in lingua spagnola del 1960 diffusa dal PSUV venezuelano su: http:// www.formacion.psuv. org.ve/wp-content/ uploads/2013/06/ Manual-de-MarxismoLeninismo.pdf 4
Cfr. documentazione del 21° Congresso del Partito Comunista, Locarno, novembre 2011
5
Cossutta, Armando; “Dopo la crisi”, in: “Rifondazione”, dicembre 1998.
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Vedi riforma statutaria del Partito Comunista approvata nella Conferenza d’Organizzazione di Lugano, marzo 2014.
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plina, tuttavia, non è cieca: solo una disciplina cosciente può essere effettivamente ferrea; finita la lotta di opinioni, esaurita la critica, presa una decisione, infatti subentra l’unità di volontà e di azione di tutti i militanti del Partito. La disciplina di partito nella società liquida oggi accettata anche dal resto della sinistra suona male, ma è caratteristica fondamentale, l’unica alternativa all’individualismo, senza riscoprire la quale non vi sarà possibilità di neppure pensare una prospettiva socialista. C’è chi sostiene che si possa superare gli elementi opportunisti mediante la lotta ideologica all’interno del Partito: certamente tale confronto dialettico è utile e necessario, ma ponendo anche alcuni paletti, poiché è insito a ciò un pericolo non indifferente. Una lotta interna esasperata rischia infatti di portare letteralmente l’organizzazione alla paralisi: un’infermità cronica che spinge il Partito sulla via dell’opportunismo e quindi ne distrugge la propria indipendenza e, in ultima analisi, la sua stessa utilità per le classi sociali di riferimento. Può essere interessante ricordare qui il conflitto interno al Partito Comunista in Ticino sviluppatosi intorno al 2011 fra chi – poi confluito nel POP – pretendeva un Comitato Centrale come organismo di rappresentanza delle sezioni territoriali (come è il caso nel PS) e chi invece chiedeva, come è corretto che sia, un Comitato Centrale eletto su criteri di lavoro politico e di capacità militanti, dove cioè fossero abolite le rendite di posizione e i familismi che invece permangono (a livelli atroci!) nella sinistra ticinese. Allontanare dal Partito (o perlomeno dai suoi posti di vertice) gli elementi opportunisti e revisionisti è umanamente spesso una scelta dura, ma anche necessaria, poiché è atta a rafforzare l’unità del Partito d’avanguardia. Ciò va fatto, naturalmente, con ponderazione e buon senso, insistendo preventivamente con una buona formazione politico-ideologica degli aderenti, con una corretta cultura dialettica interna e una adeguata selezione di chi può passare dallo status di membro a quello di militante e quindi a quadro dirigente del Partito.6
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Le contraddizioni fra USA e UE e la prospettiva dei comunisti di Alessandro Lucchini A seguito della decisione del presidente statunitense Donald Trump di imporre dei dazi doganali a danno dell’economia dei paesi dell’Unione Europea (UE), leggiamo la tendenza, perlomeno in alcuni settori del movimento comunista europeo, a tentare di smussare la pregiudiziale anti-europeista per evitare di favorire l’imperialismo americano. C’è chi addirittura – pur di non sembrare simpatizzante del nuovo governo italiano – sta un po’ goffamente prendendo le difese dell’UE in chiave anti-USA, quasi a ipotizzare un “euro-comunismo” 2.0. L’UE è in realtà ancora succube degli USA. Più che frantumare l’UE, a Washington vedono con favore piuttosto mantenere su di essa l’egemonia economica, militare e culturale. La Casa Bianca ha infatti tutto l’interesse a disporre di un mercato di sbocco europeo capace d’assorbire la sua (sovra)-produzione nazionale ed è con l’impostazione attuale, quella liberista degli accordi TTIP/TISA ad esempio, che gli USA riescono a mantenere la loro egemonia sull’UE. Il Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) parla esplicitamente di mondo multipolare. L’Europa (quindi non per forza l’UE!) ha chiaramente un ruolo in questo progetto. La Cina attualmente vuole un mercato europeo forte per non sforzare il conflitto con gli USA e per continuare a diversificare i suoi partner economico-commerciali. I comunisti cinesi insomma prendono atto di quello che c’è e, come da loro tradizione, non sono propensi a voler modificare l’impostazione politico-economica degli altri paesi o unione di Stati. L’UE non è riformabile e dobbiamo superarla da sinistra. Dobbiamo agire nel nostro territorio e non ragionare su “cosa vogliono o non vogliono gli USA” (premesso che, come detto, gli USA in realtà vogliono questa UE liberista, succube ai loro interessi). Per superare l’UE ci
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vuole da un lato l’uscita in senso progressista dai diktat di Bruxelles e dall’altro lato sono necessari degli accordi con Cina e Russia per garantire la stabilità economica (e il debito pubblico) ed evitare così l’isolamento politico ed economico. Possiamo certamente discutere se occorra o meno un’unità politica ed economica tra i PIGS 1 per permettere l’uscita di paesi come la vicina Italia dall’UE, oppure se valutare altre modalità di “exit”, ma il concetto di fondo è uno: è illusorio attualmente credere che esista un conflitto inter-imperialista tra USA e UE! Ci sono normali contraddizioni, che in futuro potrebbero esacerbarsi, certo, ma non (ancora) un conflitto e sarebbe idealistico vederne uno per correre a cambiare immediatamente la strategia dei partiti comunisti. Prima, insomma, di immaginare un conflitto inter-imperialista fra USA e UE vanno anzitutto create le basi per un’indipendenza economica, poi culturale e infine militare dagli USA. Attenzione quindi a leggere, come fa qualcuno a sinistra, il militarismo francese o tedesco (quello del futuro esercito europeo) come un’opportunità per indebolire la NATO: è infatti più probabile che questo degeneri per ora in un rafforzamento congiunto dell’imperialismo e della guerra globale. I comunisti devono lavorare nelle contraddizioni che si sviluppano fra Washington e i vari paesi membri dell’UE per indebolire l’imperialismo, ma non lo si può fare né difendendo (anche solo tatticamente) l’UE, né illudendo la popolazione che l’UE possa diventare qualcosa di diverso da quello che conosciamo. Teniamo presente che la Francia fa la voce grossa contro Trump, ma nella realtà in politica estera porta avanti una strategia (economica, militare, …) perfettamente compatibile con quella della Casa Bianca. La Germania peraltro è ancora occupata militarmente dalla NATO. E’ evidente che all’interno di questi stessi paesi agisce un conflitto tra una borghesia più orientata agli interessi nazionali e una borghesia del tutto venduta al grande capitale transnazionale atlantico e questo può confondere i piani, ma sarebbe un errore intellettualistico anticipare le situazioni. La dialettica presuppone il materialismo, che non permette di correre con la mente!
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Nell’ottica di una geopolitica multipolare è chiaro che ci vorrà in futuro un progetto per rendere l’Europa (non l’UE!) un soggetto geopolitico con un certo grado di indipendenza. Per arrivare a questa situazione – progetto tutt’altro che evidente – che, a questo punto sì, inevitabilmente, genererà un conflitto con gli USA (e che dovrebbe impegnarci in prima linea come comunisti), ci vorrà verosimilmente prima una tappa in cui l’UE sia “indebolita” da movimenti cosiddetti “sovranisti” sia di destra (cioè la borghesia “nazionale”) sia di sinistra (sui modelli unitari evocati da Jean-Luc Mélenchon o da Sahra Wagenknecht, in cui però i comunisti dovranno costruirsi un ruolo!) e dunque una fase di ritorno agli Stati nazionali “sovrani” che potranno creare liberamente tra loro accordi di cooperazione bilaterale e multilaterale. Un Partito Comunista del nostro tempo deve ridare vita alla soggettività che vogliamo rappresentare: innanzitutto nella nostra realtà locale, così da avere una voce sufficientemente forte al fine di agire in seguito sul piano continentale per imbastire un fronte unito (sarebbe ridicolo lanciare una nuova Internazionale dai numeri irrisori a rischio di totale autoreferenzialità). Un fronte unito, al di là di schemi ideologici troppo stretti, che – quello sì – potrà davvero permetterci di inserirci in un discorso che ora è occupato al 99% da un battibecco tra le sole destre. Senza tutto ciò il rischio è, naturalmente, il “codismo” (subendo l’egemonia altrui, in questo caso leghista) oppure finire definitivamente nei manuali di storia delle dottrine politiche alla voce “marxismo”, cioè sparire! La sfida della nostra generazione è proprio quella di uscire da questo vicolo cieco.
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I PIGS (acronimo per Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono i paesi dell’UE accomunati da situazioni finanziarie non virtuose.
Salvare l’ambiente si può, ma solo superando le regole del mercato! Karl Marx, di cui è da poco passato il 200° anniversario della nascita, affermava che “ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di derubare l’operaio, ma anche in quella di spogliare la terra”. Da qualche settimana stiamo assistendo a una rinata sensibilità ecologica fra i giovani che non possiamo non salutare: riteniamo importante in modo particolare, però, che le nuove generazioni comprendano come solo una trasformazione profonda che superi il modo di produzione capitalista potrà garantire realmente la salvaguardia dell’ecosistema. Non ci si deve insomma illudere che siano azioni di tipo etico-individualistico a determinare dei veri cambiamenti ecologici: solo scelte collettive (e dunque politiche) potranno sortire degli effetti al riguardo. Abbiamo appreso con interesse che la riunione costitutiva del coordinamento studentesco che promuove in Ticino una “Marcia per il clima” abbia posto fra le sue rivendicazioni alcuni punti che hanno caratterizzato anche l’azione del Partito Comunista in questi anni: in primis certamente la gratuità del trasporto pubblico per i giovani in formazione (a tal proposito vi sono pendenti ancora nostri atti parlamentari in Gran Consiglio), così come altre questioni importanti quali la rivendicazione di trasferire il traffico merci dalla strada alla ferrovia, la tassazione delle aziende più inquinanti, la critica alle multinazionali che saccheggiano le risorse naturali del terzo mondo fomentando così i flussi migratori, ecc. In tal senso la maturità dimostrata dagli studenti ticinesi merita un plauso perché non si sono limitati agli slogan, ma hanno saputo produrre delle rivendicazioni concrete a cui ora la politica deve dare risposte altrettanto concrete!
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Il militarismo italiano: i parà della Folgore, criminali e neofascisti al servizio della P2 di Stefano Zecchinelli
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nitense in Italia, avrebbe fatto da braccio armato della CIA e dei servizi di intelligence britannici. Per molti aspetti possiamo considerarla il volto legale di Ordine Nuovo, l’organizzazione terroristica fondata da Pino Rauti che, fra le altre cose, esaltava il colonialismo razzista israeliano. Per questa ragione un buon numero di parà sono delinquenti comuni che si addestrano militarmente e non esiterebbero a compiere crimini contro la stessa Costituzione italiana qualora gli fosse ordinato. La Folgore è così tanto aderente a Gladio che ne ha mutuato gli stessi simboli.
La nostra rivista aveva ospitato nel suo numero 2/2013 due approfondimenti sul tema del servizio militare obbligatorio in Svizzera, dimostrandone il carattere di classe e la sua funzione di controllo sociale. Pubblichiamo di seguito un contributo sulla realtà italiana per certi versi ancora più preoccupante e che ci impone di aumentare la vigilanza anche sulle forze armate svizzere.
I soldati italiani – come quelli USA, britannici ed israeliani – provengono spesso dal sottoproletariato oppure da una certa piccola borghesia reazionaria, e quindi, inclini all’autoritarismo, sono ossequiosi nei confronti degli ufficiali e ben propensi a servire l’imperialismo USA senza porsi molte domande. Tutto questo – come vedremo – è insito nell’educazione che ricevono. Si tratta, spesso, di piccoli delinquenti prestati alla carriera militare, oppure simpatizzanti di organizzazioni politiche neonaziste e neofasciste; alcuni di loro si sono anche macchiati di reati particolarmente spregevoli come lo sfruttamento della prostituzione. Il caso della Folgore di Pisa è alquanto eloquente. L’articolo in questione, data la complessità dell’argomento, si dividerà in due piccoli paragrafi: (1) nel primo paragrafo analizzerò, in linee generali, la Folgore in quanto organizzazione paramilitare e neonazista; (2) nel secondo parlerò delle relazioni fra la Folgore e la “scuola superiore Sant’Anna” la quale, ipocritamente, ideologizza il paramilitarismo d’estrema destra. La Folgore è l’imputata principale ma anche il Sant’Anna – da me definita una “scuola quadri dell’imperialismo” – merita di stare sul banco degli imputati. 1. La Folgore: un covo di neofascisti La Folgore si colloca all’interno dell’Operazione Gladio ed, in caso di intervento militare statu-
Classico basco della Folgore con, al centro, il simbolo di quest’organizzazione neofascista
Simbolo di Gladio
Possiamo considerare questa organizzazione paramilitare una sorta di prolungamento di ciò che lo storico Daniele Ganser ha chiamato gli eserciti segreti della NATO. Eversivi. Folgore di morte e di omertà, titola un libro dell’Editore Kaos. Nell’estate del 1999, Emanuele Scieri parte da Siracusa per il servizio militare nella caserma ‘Gamerra’ di Pisa. La sera stessa del suo arrivo le tracce del giovane si perdono, il giorno dopo non si fa vivo, nessuno si preoccupa della sua scomparsa. Emanuele è
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https://news.vice. com/it/article/ fascismo-parafolgore-esercitoitaliano
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https://www. ilfattoquotidiano. it/2013/11/17/drogaproduzione-record-inafghanistan-soldatinato-coinvolti-neltraffico/780177/
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https:// comedonchisciotte. org/forum-cdc/#/ discussion/2856/ dinucci-difesa-i-fortilegami-tra-tel-aviv -e-roma
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stato vittima di un criminale rito d’iniziazione vergognosamente tollerato dagli ufficiali felloni della caserma. La magistratura di Pisa aveva indicato questa pista ma è stata immediatamente fermata; “è probabile che Scieri sia stato costretto a salire la scaletta, senza nessuna protezione e con un oggetto contundente colpito ai piedi e alle mani affinché cadesse”.1 La violenza e l’autoritarismo contraddistinguono questo gruppo che per certi aspetti assomiglia molto alle organizzazioni mafiose. Non soltanto la magistratura di Pisa è stata stoppata impedendogli di dimostrare i gravissimi delitti di cui si sono macchiati alcuni militari della Folgore. L’Università di Messina ha allontanato il sociologo Charlie Barnao per lo studio Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle forze armate italiane: un’autoetnografia. Barnao ha cercato di dimostrare che “I due tipi di fascismo che si incontrano nella forze armate sono sia quello storico-culturale, che uno di tipo psicologico” e prosegue con una interessante considerazione: “Ci sono dei riferimenti culturali ben precisi basta leggere i resoconti di Bolzaneto e Diaz. Il retaggio della cultura fascista è ampiamente presente e dimostrato all interno delle Forze Armate”. Forse è per questa ragione che diversi parà, in caserma, sono diventati anche eroinomani? Una vergogna tipica dell’imperialismo italiano è il caso di Alessandra Gabrieli, prima parà donna italiana, arrestata per spaccio di stupefacenti. Questo è ciò che ha raccontato al nucleo operativo dei Carabinieri di Sampierdarena, una storia davvero disgustosa: “Mi hanno iniziato all’eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall’Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall’Asia”.2 Insomma, soldati spacciatori proprio come i picciotti della ’ndrangheta. Forse anche peggio. Terminata la prima parte dell’articolo, passo a spiegare ai lettori come il Sant’Anna si sia legato, nel corso degli anni, alla Folgore coll’obiettivo, nemmeno tanto celato, di creare artificialmente intellettuali militaristi e guerrafondai. Si tratta d’una generazione di neoconservatori i quali devono stare a stretto contatto coi paramilitari, il loro – prossimo – braccio armato. L’argomento è delicato, bisogna selezionare le fonti con estremo rigore.
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2. Le “eccellenze” prendono lezioni dai neofascisti della Folgore Il Sant’Anna è molto attento all’addomesticamento ideologico. I suoi docenti sono tutti neoliberisti come per ogni think tank che si rispetti. Israele è il dogma assoluto, la NATO si venera ed i crimini imperialistici devono essere occultati. Gli studenti del Sant’Anna vengono indottrinati al razzismo colonialistico e perdono qualsiasi contatto con la realtà sociale. Che cosa dobbiamo aspettarci da costoro? Occultano i crimini della NATO invece di denunciarli, il rigore scientifico e l’onestà intellettuale gli sono del tutto estranei. Il giornalista Manlio Dinucci ci comunicò, da grande studioso di geopolitica qual è, che i rapporti fra il Sant’Anna e il regime sionista sono iniziati nel febbraio del 2006 quando “il ministro Moratti «ha approvato il finanziamento (10,2 milioni di euro) di 31 progetti di ricerca congiunta con controparti israeliane, attuando così diversi accordi bilaterali firmati dal ministro stesso durante la sua missione in Israele nel 2004». Le controparti italiane sono il CNR, la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, le università di Milano, Roma, Torino, Bologna e altre. Le controparti israeliane sono soprattutto l’istituto Weizmann e l’istituto tecnologico Technion, ciascuno dei quali partecipa a dieci progetti. Nel campo scientifico e tecnologico, siamo nell’area grigia in cui non c’è una netta linea di demarcazione tra ricerca a fini civili e ricerca a fini militari. Per di più, il memorandum sulla cooperazione militare con Israele stabilisce che «le attività derivanti dal presente accordo saranno soggette all’accordo sulla sicurezza», il quale prevede la massima segretezza. C’è però un dato certo: l’istituto Weizmann è il principale centro di ricerca che ha permesso a Israele di costruire e potenziare il proprio arsenale nucleare. Attualmente, documenta l’organizzazione statunitense Global Security, esso compie avanzate ricerche sugli effetti delle armi nucleari. Il Technion compie invece ricerche sulle armi a energia diretta, soprattutto su quelle a microonde, che Israele ha probabilmente già usato a Gaza e in Libano”.3 Salvo continuare coi governi di centro-sinistra nel 2011: “A livello universitario, il top è il corso di «peacekeeping» tenuto, con il Centro militare di studi strategici, dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che ha celebrato con una conferenza dell’Associazione Allievi i «dieci anni di impegno politico e militare» dell’Italia in Afghanistan. E mentre l’Italia parte-
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cipa alla guerra in Libia (la quinta in due decenni) arriva in Senato dopo essere passata alla Camera grazie a un intesa multipartisan (Pd, Idv, Pdl, Lega) la legge per «la promozione e diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà» in particolare nelle «scuole di ogni ordine e grado». Ha dunque ragione il presidente Napolitano: l’Italia, oggi fermo presidio della pace, si è lasciata alle spalle gli anni bui del bellicismo fascista.4 Pare proprio che la guerra sia fra le priorità del Sant’Anna. Il sociologo marxista James Petras ci ha spiegato come Israele sia il paese più guerrafondaio del mondo ma, per i santannini, tutto ciò va rimosso. Meglio gonfiare, con borse di studio, il portafogli. Devo dire che sono davvero inquietanti i corsi di “peacekeeping” tenuti dai paramilitari della Folgore nei pressi di Livorno a due passi dal Camp Darby, base militare abusiva da cui partono spesso raid di picchiatori neofascisti. Si parla di “missioni di pace” ma non mancano scene violente in cui i parà aggrediscono civili inermi oppure danno lezioni di strategia militare. La cosa giornalisticamente interessante è che queste foto sono irreperibili nel sito della “scuola” mentre è facilissimo visionarle negli spazi in rete della Folgore. Il Sant’Anna si vergogna delle sue relazioni pericolose? La seconda immagine è particolarmente cruda, che cosa c’entrano gli studi accademici con tutto ciò? Gradirei ricevere delle spiegazioni. La Folgore studia al Sant’Anna è l’iniziativa tenuta, nel 2013, dal professor Andrea de Guttry,
http://www.congedatifolgore.com/it/la-folgoredocente-ai-corsi-della-scuola-post-universitariasantanna-di-pisa/
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http://www.congedatifolgore.com/it/la-folgoredocente-ai-corsi-della-scuola-post-universitariasantanna-di-pisa/
docente di relazioni internazionali all’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola stessa. Vediamo di cosa si tratta: “L’Afghanistan ha spiegato De Mistura ai soldati vive un momento di transizione, particolarmente delicato. Nel 2014, con l uscita anche delle truppe italiane, il Paese si prepara ad assumersi la responsabilità della sua sicurezza. Si tratta di una fase delicata ma promettente. Un aspetto che desidero sottolineare è che in questa fase di cambiamento e di progressiva uscita delle truppe di altri Paesi, non devono essere le donne a pagarne il prezzo. Questo non sarebbe accettabile.5 Il professor Andrea de Guttry, un sionista di estrema destra, ha chiarito che “Si parlerà anche di diritto bellico e diritti umani e del ruolo della NATO nel mantenimento della stabilità e nella ricostruzione del Paese”. Si parlerà di “diritto bellico”, parole che farebbero inorridire le anime di Voltaire, Kant, Hegel, Marx, Kelsen e tanti altri. Al Sant’Anna insegnano a legittimare i massacri? Di fatto sembrerebbe proprio di sì. Non è una “scuola d’eccellenza” è un think tank neoconservatore dove si indottrinano giovani, tanto dotati quanto cinici e pronti a tutto. Perché creare delle personalità autoritarie? Ci risponde il sociologo Charlie Barnao: “C’è un duplice fascismo dietro le mura delle caserme. Un fascismo storico/culturale e un fascismo psicologico. Il fascismo storico/culturale fa riferimento a tutta una serie di simboli, pratiche, linguaggi legati direttamente o indirettamente al fascismo del Ventennio. È un fascismo che è radicato nella storia recente del nostro paese e di alcune istituzioni particolari. Viene rappresentato da modi di dire, canti e altri ‘oggetti’ culturali di vario tipo”. 6 E continua: “Vi è poi un fascismo – che è quello che sto cercando di
http://serenoregis. org/2011/06/09/ la-cultura-delladifesa-manlio-dinucci/
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http://www. perseonews.it/index. php?option=com_ content&view=article &id=1222%3 Aafghanistan -la-folgore-lo-studiaalla-scuola-santanna&catid=70%3 Anewshome &Itemid=234
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Fonte: http://it. blastingnews.com/ opinioni/2015/11/ servizio-militare-efascismo-intervistain-esclusiva-alsociologo-charliebarnao-00651031.html
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studiare in modo più approfondito – di tipo psicologico. È un fascismo che studio a partire da un adattamento della famosa scala F della Scuola di Francoforte. È una scala che individua le principali caratteristiche di una personalità autoritaria e, appunto, fascista. Si tratta di un fascismo “psicologico” nel senso che non è necessariamente collegato a delle convinzioni politiche. Un fascismo, cioè, che può riguardare chiunque a prescindere dall’orientamento politico. Il modello addestrativo delle caserme punta alla formazione di personalità con molte delle caratteristiche del fascismo psicologico. I due tipi di fascismo, per quanto distinti tra di essi, dialogano e si intrecciano nelle pratiche quotidiane all’interno delle caserme. Ovviamente, questo non significa che ogni militare addestrato in una caserma presenti queste caratteristiche estremizzate. Gli agenti di socializzazione sono tanti e la caserma e il mondo militare, per quanto in alcuni casi siano particolarmente ‘totalizzanti’, sono solo alcuni dei numerosi attori coinvolti nella socializzazione di un militare”. La Folgore tiene insieme entrambi i fascismi, per questa ragione andrebbe sciolta ed i suoi vertici incriminati. E’ una struttura eversiva ed anticostituzionale che non ha nulla a che vedere con la difesa della patria. Il colonialismo ed il neofascismo sono le braccia dell’imperialismo USA, vero nemico dell’umanità, e, in nome del diritto all’autodeterminazione dei popoli, devono essere gettati nella spazzatura della storia.
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I parà della Folgore fanno il saluto romano dimostrandosi dei neofascisti
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Cuba: il fulcro della nuova Costituzione sono le istituzioni e il diritto internazionale! di Massimiliano Ay “Il presente articolo è stato elaborato nell’autunno 2018 nel corso della consultazione popolare e non tiene quindi conto degli ultimi emendamenti che saranno inclusi nel testo definitivo della nuova Costituzione cubana che si può consultare su www.partitocomunista.ch/cuba_cost.pdf”
1. Introduzione Sono molti coloro che hanno tentato di fare un’analisi della riforma costituzionale attualmente in discussione a Cuba. La maggior parte dei giornalisti europei (purtroppo anche di sinistra) ha compiuto però un errore e cioè ha usato chiavi di lettura valide solo per i paesi retti da principi liberali: i paesi socialisti basati sul marxismo-leninismo funzionano infatti con paradigmi opposti (che ormai nemmeno i politologhi conoscono!). Prima di addentrarci nell’analisi del nuova Costituzione dell’Isola occorre fare insomma tre premesse. La prima premessa è che, in un paese concepito secondo le regole marxiste-leniniste “classiche” (Cuba, Cina, Vietnam, Laos e Corea del Nord), al centro di tutto vi è non tanto il governo, ma il Partito alla guida del processo rivoluzionario. Senza studiare quindi le tesi politiche ed economiche degli ultimi due congressi del Partito Comunista di Cuba (PCC) è semplicemente impossibile leggere (e soprattutto capire) la riforma costituzionale appena approvata dal parlamento dell’Avana e posta ora a consultazione popolare. A buon intenditor aggiungiamo che il primo segretario del Partito si chiama ancora Raul Castro e a lui è toccato presiedere la commissione che ha scritto il nuovo testo costituzionale: chi parla dunque di “svolta capitalista” o chi tenta di mettere il neo-presidente Miguel Diaz-Canel in una sorta di confronto/scontro con Raul prende insomma un abbaglio.
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La seconda premessa è che la cancellazione del termine “società comunista” dagli obiettivi del Partito sanciti dalla Costituzione è una modifica francamente irrisoria. Solo giornalisti superficiali potevano costruire un can-can ridicolo su questo aspetto: l’obiettivo di un partito marxista-leninista non è infatti costruire il comunismo, bensì il socialismo. Il comunismo è l’orizzonte “libertario” in cui solo una avanzata società socialista potrà evolvere. Inoltre, mentre il socialismo secondo Lenin (e non secondo Stalin, come invece vuole la vulgata comune!) può realizzarsi in un paese solo, il comunismo ha una prospettiva forzatamente globale (ma, con il venir meno del COMECON, questa prospettiva non è evidentemente all’ordine del giorno come poteva invece sembrare negli anni ‘60). La riforma costituzionale cubana, insomma, non fa altro che sistematizzare la priorità del consolidamento del modello socialista, migliorando fra l’altro il ruolo partecipativo delle masse. La terza premessa è che l’economia (cioè la struttura della società) è sì fondamentale, soprattutto per i marxisti, tuttavia a Cuba non si tratta di far altro che adeguare la Costituzione alle nuove linee guida in materia economica adottate a partire dal 2011 dai congressi del PCC e di regolamentare quindi a livello costituzionale quanto da anni già esiste di fatto sul territorio. Il vero punto su cui ci si dovrebbe soffermare nell’analisi è dunque un’altro, quasi sempre sottaciuto dai commentatori occidentali: quello istituzionale! 2. Il concetto di “stato di diritto” Sono stati 605 i deputati che si sono riuniti nel Palazzo delle Convenzioni dell’Avana per iniziare la prima sessione della 9.a legislatura dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare, il parlamento di Cuba. Il tema forte previsto dall’ordine del giorno dei lavori riguardava il dibattito sul progetto di riforma della Costituzione che, prima di essere sottoposto a consultazione popolare (che nel frattempo si sta concludendo) deve essere approvato dal parlamento. I deputati hanno così dovuto – sotto la moderazione di Homero Acosta, membro della Commissione della riforma costituzionale presieduta come detto dal segretario del PCC Raul Castro – iniziare l’analisi dei vari articoli del testo di legge, partendo dal presupposto che non di una revisione parziale si tratta, bensì di una ri-
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1 la locuzione è usata per indicare le garanzie delle libertà personali del cittadino assicurate costituzionalmente
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forma totale della carta costituente: parziali furono le riforme del 1976 e 1978, del 1992 e del 2002, ora è giunto però il momento di far compiere un deciso passo avanti al ...diritto: non è un caso se il primo articolo della nuova Costituzione stabilisca come Cuba non sia un semplice “Stato socialista di lavoratori” ma sia “uno Stato socialista di diritto (…) fondato sul lavoro” dove quindi la certezza della legge assume un carattere esplicito. Il concetto di “Stato di diritto” – spiega correttamente la redazione di Cubadebate – “è una nozione sorta dal pensiero liberale del 19° secolo” basato cioè sulla certezza della legge. Per la prima volta inoltre il concetto di “Habeas Corpus” 1 viene integrato nel dettato costituzionale cubano. E la divisione dei poteri – anche questo un concetto relativamente nuovo in un sistema di impostazione marxista-leninista – ne uscirà rafforzato attraverso una maggiore indipendenze dei tribunali rispetto al potere politico. 3. L’unicità del Partito e il suo ruolo patriottico Acosta ha iniziato i lavori presentando gli aspetti generali del progetto di riforma, ad esempio sottolineando il carattere esplicitamente laico della nazione e della scuola, pur garantendo la libertà religiosa. In particolare però il portavoce della commissione costituzionale ha chiarito che il carattere socialista della Rivoluzione cubana è ribadito, così come il ruolo guida attribuito al solo Partito Comunista di Cuba. Quest’ultimo, che nel precedente articolo 5 della Costituzione era solo – si fa per dire – “martìano e marxista-leninista”, ora diventa non solo “martìano, fidelista e marxista-leninista” ma si specifica esplicitamente che sarà “unico”, in quanto – riprendendo la formulazione già in vigore precedentemente – “avanguardia organizzata della nazione” (e non solo della classe operaia). E infatti al compito attribuito al PCC di “orientare gli sforzi comuni verso il socialismo” (formulazione di fatto ripresa tale e quale dal precedente testo) si aggiunge che il Partito “lavora per preservare e rafforzare l’unità patriottica dei cubani”. Allo stesso tempo come “irrevocabile” è definito il modello politico ed economico cubano. Le novità sono un maggiore ruolo normativo alla Costituzione, un’attenzione particolare alla difesa dell’ambiente e un miglioramento a livello di diritti dei cittadini e della loro partecipazione alla vita comunale.
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4. La questione della proprietà Il dibattito economico ha avuto in parlamento naturalmente una parte importante nel dibattito. Anzitutto la nuova Costituzione definisce i beni pubblici, quali il suolo, le miniere, le vie di comunicazione, ecc. Inoltre la sanità e l’educazione resteranno in mani pubbliche e accessibili gratuitamente. Il nucleo fondamentale dell’economia cubana, poi, resterà la “proprietà socialista di tutto il popolo”, ma accanto ad essa si riconosceranno altri tipi di proprietà: quella cooperativa, quella mista (che non sarà più esclusivamente una derivazione dagli investimenti stranieri) e anche quella privata. E proprio su quest’ultima il dibattito è stato giustamente intenso giungendo alla conclusione di dover riconoscere forme di proprietà privata, ma di dover assolutamente frenare la “concentrazione della proprietà in soggetti non statali”. In effetti l’impresa statale resta il soggetto economico principale ed è ritenuto dai deputati il “generatore della ricchezza del paese”. La Costituzione rafforza inoltre il ruolo dello Stato nel controllo e nella direzione dei processi economici, ma riconosce la necessità degli investimenti stranieri nell’economia nazionale per renderla più dinamica. A Cuba vi erano già altre forme di proprietà rispetto a quella statale: non si poteva far finta di nulla, andava accettato materialsticamente il dato di realtà e dunque andava regolamentato all’interno di un quadro di legalità socialista. “Il pensiero marxista e l’azione di un partito marxista e leninista non possono mai rimanere fermi a schemi che la realtà abbia superato” diceva Palmiro Togliatti, e i comunisti cubani hanno preso atto che l’economia cubana era più avanzata rispetto a quello che diceva la precedente carta costituente (ancora in qualche modo influenzata dall’impostazione sovietica) con il 13% della forza lavoro cubana che già oggi lavora in ambito privato. Interessante l’intervento del giovame deputato Adisbey Galvez, di professione contadino, che durante il dibattito in aula ha voluto sottolineare l’importanza del fatto che la nuova Costituzione riconosca le cooperative, soprattutto in ambito rurale, e che la terra resterà nelle mani di chi la lavora. Il nuovo art. 129 prevede poi esplicitamente che il segretario generale della Centrale dei Lavoratori di Cuba (CTC) partecipi d’ufficio alle sedute del Consiglio dei Ministri (sia l’attuale leader dei sindacati cubani, Ulises Guilarte de
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Nacimiento, sia il suo predecessore Salvador Valdés Mesa erano invece membri del Consiglio di Stato). Questo implica un rafforzamento, con legittimazione costituzionale, della partecipazione dei sindacati operai nell’impostazione dell’indirizzo economico della nazione. La CTC, così come le altre organizzazioni di massa, a partire dalla Federazione degli Studenti Liceali e di quella degli Universitari, è uno degli organismi a cui la nuova Costituzione riconosce il diritto di iniziativa legislativa. 5. Coniugare sovranismo e internazionalismo In politica estera la nuova Costituzione darà esplicite indicazioni di orientamento strategico e quindi vincolanti: se prima a riguardo il tutto veniva condensato in un lungo articolo, ora le relazioni internazionali godono di un intero capitolo della Costituzione. I principi anti-imperialisti e internazionalisti restano espliciti, così come la “promozione dell’integrazione latinoamericana”: ma alla semplice enunciazione in un capoverso, essa viene ora drasticamente sottolineata con un articolo dedicato ad essa, in cui addirittura si concede la facoltà di attribuire a “entità sovranazionali” l’esercizio di alcuni compiti. In pratica la sovranità nazionale cubana, ribadita in continuazione, si unisce però come non mai al processo bolivariano. Si tratta, da un lato, di un messaggio tangibile di solidarietà ai paesi del subcontinente che stanno attraverso un periodo estremamente irrequieto e pericoloso per la loro tenuta progressista (basti pensare alla crisi in Nicaragua e in Venezuela, al golpismo in Brasile o al tradimento dell’Ecuador), ma è pure un segnale importante verso la Cina che del multipolarismo e dell’integrazione latinoamericana ne fa un caposaldo. E infatti compare anche un capoverso in cui si propugna “l’unità di tutti i paesi del Terzo Mondo”. A sparire è invece – in un contesto geopolitico stravolto rispetto al passato – il capoverso tutto dedicato ai rapporti fra Cuba e i soli paesi socialisti, a dimostrazione di una prassi molto più pragmatica nelle relazioni diplomatiche. Benché si ribadisca il sostegno internazionalista alle lotte di liberazione nazionale, non si fa più cenno esplicito al sostegno che ancora la Costituzione del 1992 prevedeva per la “resistenza armata”, anzi la nuova Costituzione sancisce il rispetto del “Diritto internazionale” (un concetto che mancava nei precedenti dettati costi-
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tuzionali) e in particolare Cuba rispetterà “la integrità territoriale” degli Stati. Quest’ultimo è in verità un aspetto già in vigore, ma che oggi acquisisce particolare importanza di fronte alla tragica esperienza di balcanizzazione yugoslava e dei tentativi di separatismo etnico ad esempio in Siria e in Irak. 6. L’impronta di Mariela Castro nel riconoscimento dei diritti civili Dal punto di vista dei diritti civili il progetto di riforma fa enormi passi avanti. Innanzitutto il matrimonio non è più fra un maschio e una femmina, ma è fra due persone senza riferimento di genere. Ciò potrebbe aprire la porte in futuro a una modifica legislativa che riconosca il diritto fra persone omosessuali, un segnale molto forte per un paese in cui il “machismo” resta presente. La discriminazione di genere e quella di orientamento sessuale sarà inoltre vietata e combattuta: qui si nota il lavoro enorme svolto da Mariela Castro, figlia dell’ex-presidente Raul, esperta del settore. Altro elemento che segnala una cesura rispetto al passato è la doppia cittadinanza, attualmente vietata: i cittadini cubani che vivono all’estero potranno acquisire d’ora in poi un secondo passaporto senza cedere quello cubano, tuttavia quando torneranno in patria non potranno utilizzarli facendosi passare per stranieri. Quella della doppia cittadinanza è una questione che in ottica socialista è meno netta di quanto si possa credere alle nostre latitudini: la difesa da infiltrazioni borghesi passa infatti anche da tali misure. Concederla, tuttavia, può rappresentare – ed è il ragionamento fatto dal Vietnam – uno strumento per frenare fughe di cervelli. La partecipazione dei cittadini viene infine rafforzata: oltre agli organi partecipativi realizzati dai tempi della Rivoluzione, ora vi sarà la possibilità di convocare consultazioni popolari su temi di interesse locale e il diritto di petizione viene meglio regolamentato. 7. L’organizzazione dello Stato e la divisione dei poteri Dal punto di vista istituzionale e dell’organizzazione dello Stato il progetto di riforma prevede il mantenimento del diritto di voto a 16 anni di età. Una novità è invece rappresentata dall’abolizione delle assemblee provinciali del potere popolare, con un conseguente peso maggiore ai
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I CDR presidiano ogni quartiere con l’obiettivo di combattere la delinquenza, organizzare il volontariato sociale, promuovere la cultura e prevenire la controrivoluzione. 3
Cfr. AA.VV. (1970): “Politisches Grundwissen”; Parteihochschule “Karl Marx” beim ZK der SED, Dietz Verlag, Berlino.
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comuni, arrivando a riconoscerne una certa autonomia. Quella del decentramento è però una sfida non priva di rischi per un’ordinamento socialista nel contesto dell’imperialismo perché se la prossimità con il cittadino e il territorio sono sicuramente elementi positivi, anche in senso anti-burocratico, l’autonomia comunale rappresenta anche un’arma a doppio taglio sia per il controllo sociale sia per la pianificazione, aspetti che gli elementi controrivoluzionari possono sfruttare per un’infiltrazione dal basso. Sarà quindi di fondamentale importanza che la territorialità non solo del Partito ma pure dei Comitati in Difesa della Rivoluzione (CDR)2 e delle altre organizzazioni di massa resti sempre al centro delle priorità organizzative. Il dettato costituzionale del 1992 prevedeva un Consiglio di Stato eletto dai deputati e organo del parlamento stesso, con il compito di eseguirne le decisioni, nonché di “impartire istruzioni generali ai tribunali” e “istruzioni alla Procura Generale della Repubblica”. Ad esso si affiancava il Consiglio dei Ministri ritenuto il governo della Repubblica, sottoposto però al controllo del Consiglio di Stato (che come abbiamo visto è organo integrante il parlamento). A presiedere sia il Consiglio di Stato sia il Consiglio dei Ministri vi è oggi una sola persona, il presidente Diaz-Canel. Se attualmente insomma il presidente del Consiglio di Stato è sia capo dello Stato sia capo del governo, la riforma divide queste due figure: vi sarà infatti un Presidente della Repubblica quale Capo dello Stato e un Primo Ministro quale Capo del Governo. Viene poi introdotto un Consiglio Elettorale come organo statale di rango costituzionale. In pratica quella attuale è una differenziazione dei poteri simile all’impostazione socialista di tipo sovietico, più che una vera e propria separazione degli stessi come prevede la teoria liberale. Il progetto di nuova Costituzione prevede alcuni cambiamenti verso una maggiore distinzione fra i vari organi dello Stato senza però cedere alla cultura giuridica borghese. Si inizia con il divieto per i membri del potere giudiziario e del Consiglio dei Ministri di far parte in contemporanea del Consiglio di Stato, che sarà presieduto dal Presidente dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare. Il Consiglio di Stato potrà ancora “impartire istruzioni di carattere generale ai tribunali” mentre sparisce la medesima indicazione alla Procura Generale della Repubblica.
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8. Conclusioni Non la proprietà privata o la presunta fine del “comunismo”, insomma, bensì le istituzioni sono il vero punto di innovazione della riforma costituzionale di Cuba. La separazione dei poteri deriva dalla cultura liberale, non da quella marxista: quest’ultima, infatti, proprio perché orientata all’unità di classe e al superamento del conflitto fra di esse, concepisce la società retta dal principio del centralismo democratico che scioglie di fatto la contraddizone fra Stato e “società civile”.3 Eppure da tempo il tema della divisione e del reciproco controllo dei poteri è entrato nel dibattito anche nel processo di aggiornamento del socialismo iniziato in Laos, Cina e Vietnam. Cuba oggi segue di fatto, pur con le sue peculiarità, queste riflessioni e queste esperienze. Il dibattito sull’Isola è insomma come sempre appassionante e mostra che la Rivoluzione riguarda anche il diritto e la democrazia (che non si ferma alle porte delle fabbriche e delle scuole!). Mentre questo articolo sarà in stampa, a Cuba la fase consultiva sarà conclusa e si prospettano centinaia di migliaia di emendamenti e proposte che dalle istanze di base arriveranno all’indirizzo dal Palazzo delle Convenzioni dell’Avana in cui i deputati si riunirà a fine dicembre per dotare l’Isola Ribelle della sua nuova magna carta.
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