L'Isola

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L’ISOLA


Disteso sulla calda roccia grigia, avendo rifiutato il conforto banale di un telo di spugna, provai a percepire il presente, questo tempo difficile da corrompere con illusioni, questo nemico dei sogni. La brezza e il sussurro rassicurante delle onde che scavavano lente fra i ciottoli, la schiuma del mare che si ritira sempre con lo stesso abito bianco, il profumo, così acuto sull’isola, del sale secco e dei bassi fiori selvatici.

Erano distesi all'ombra di un salice. Laddove l'isola formava un istmo con la terraferma veniva un forte sciabordio diffuso. Come di un fiume che esondava. Un rivolo ribelle del Laxà, sciacquando tra le rocce, usciva dal suo alveo e si perdeva nel lago Musillis. Un odore forte di alghe e muschi cotti dal sole si levava dalla Gullfoss, la cascata d'oro: l'acqua sembrava quasi che si ritirasse, che scomparisse, denudando il letto del fiume, per dare poi mostra di sé all'improvviso e riprendere più copiosa di prima, rigettandosi nella gola. Il cupo odore algoso impregnava l'aria. «Dormivi?» gli domandò la giovane Siri. Lui si voltò su di un fianco e sbadigliò. «Potessi dormire» rispose Moy. - «È che ho fame, fame, fame.» Tornò a sbadigliare e si stirò. «La marea scende» disse Siri. «Io ho fame.» «Anch'io ho fame, ma gli alberi non hanno frutti. Ho guardato.» «Lo so. Qualcuno è arrivato prima di noi.» «O i pellicani, o i gabbiani.» «Uomini o uccelli, che importa? Tutti mangiano. E io ho fame.» «Dov'è Dedos?» chiese Siri. «Eccolo.»

Dedos apparve dalla parte della Gullfoss. Con la grossa pelliccia che lo ricopriva tutto, sino alla testa, non sembrava affatto sottile e scarno, come dicevano ch'era. Sulla punta di una fiocina snodata era infilzato un bel merluzzo dalle scaglie argentate. Con l'altra mano reggeva un omaro


dalle notevoli dimensioni, che teneva per le chele, discosto dal corpo, come uno scudo. In cima alle branchie, le forbici dell'omaro si aprivano, si serravano, cercavano le dita del suo cacciatore. Si agitavano confusamente, freneticamente per afferrare qualcosa che sfuggiva.

Come fu sotto il salice, Dedos mostrò il grosso omaro ai due giovani. Sorrise. Poi cominciò a piegare e a torcere le chele del crostaceo. Le zampe e le forbici ebbero come uno spasimo. Dedos fece un gran sforzo per torcere le chele: una branca si staccò, subito dopo anche l'altra. L'omaro cadde nella terra sabbiosa e rimase lì immobile per un istante, poi si riscosse e riprese a camminare. Menomato, indebolito, più traballante di prima, camminava con l'incedere incerto sulla strada da prendere. Poi, via via più sicuro e deciso, camminava più svelto, sempre più svelto. Doveva aver sentito la presenza e il richiamo dell'acqua, non lontano. Filava verso la Gullfoss.

Moy gli balzò sopra, prima che potesse prendere il largo, e lo alzò sopra la testa come un trofeo. Una zampa dopo l'altra, Moy gliele staccò tutte. Staccandosi, esse davano uno scricchiolio simile a quello dei rametti secchi che si rompono. Con sfrenata bramosia spezzava le zampe e le buttava per terra, sino a quando non gli restò che la tozza corazza turchino scura. Niente si muoveva di quel corpo spogliato di tutte le sue appendici. Forse solo gli occhi cercavano l'acqua. In terra le zampe spezzate continuavano a muoversi, contraendosi. Si vedevano le punte delle chele aprirsi e chiudersi. Una forza vitale che resisteva in tutte le parti ognuna di esse separate del corpo. Non si lasciava abbattere e sembrava opporsi, contrastando una forza oscura. Poi Moy si mise una chele tra i denti e la stritolò. Masticava, tritava e succhiava. Infine sputava. Si mise poi un'altra chele in bocca e la masticò, sino a succhiarla e a sputarla. Raccolse da terra le altre zampe e succhiò anche quelle. Infine, tirò fuori un coltello dalla guaina. Nella mano che stringeva il coltello c'era come un flusso di piacere. Per lui, il coltello non era un semplice strumento o un'arma, ma un prolungamento, o meglio, un completamento naturale della sua mano, come l'artiglio della zampa di una belva. Moy posò il corpo dell'omaro su una roccia e gli piantò il coltello nel corpo, spaccandolo il due.

Poi si rivolse a Dedos: «Ne vuoi anche tu?» «Grazie, ma ho già mangiato due piccoli granchi. Io non ho fame, adesso.»


«Meglio così. Questo è per noi due» disse rivolto ad Siri. Appena ebbe finito l'opera, le porse la metà del grosso gambero. Intanto lui svuotava la sua metà. Tolse la mucillagine e la carne bianca e salmastra. Indi, ripose nella carcassa del crostaceo la pasta rossa delle uova e la mischiò con la carne. Con la punta del coltello, ne trasse un po' e l'assaggiò. Tritava, succhiava e sputava frammenti d'osso.

Siri fece la stessa cosa. «Ci vuole ben altro!» disse carico d'ira Moy quando ebbe finito di ripulire il guscio. «Ci vuole ben altro per placare la fame!» e scagliò il guscio con forza, contro la parete di una roccia, poco lontano. Frattanto Dedos lasciò tutti e corse verso il mare, dov'era ormeggiata la sua piccola barca da pesca a due alberi. La marea seguitava a scendere. Ora si vedevano solo le sommità dei due alberi che tenevano distese le vele della barca. Riapparve dopo un po', con il fiato grosso per la gran corsa. «C'è una balenottera! Correte! Venite con me!» urlò eccitato ed ansimante.

Non se lo fecero ripetere due volte. I due giovani balzarono in piedi e corsero a raggiungere Dedos. Zampettavano da una roccia all'altra con grande agilità sino ad arrivare nel punto indicato da Dedos. Non si capiva se fosse un delfino o un cucciolo di balena. Di certo posava nell'acqua smeraldina a poche braccia dalle rocce, pareva che dormisse. La bassa marea l'aveva fatto giungere sin lì e forse non se n'era accorto. Moy voleva scendere in acqua e catturarlo con l'asta. Si disfò del perizoma e degli stivali impellicciati, incurante del mare gelido. Quando la fame sbranava il suo stomaco, l'equilibrio termico corporeo repentinamente si assestava al cambiar delle condizioni. Una reazione biochimica che consentiva al suo corpo di sopravvivere quando la preda era a portata di mano.

Scese nell'acqua. Con movimenti lenti, soffici, attutiti avanzava verso il cetaceo. Anche Dedos si spogliò e scese in acqua, con gli stessi movimenti smorzati del compagno. La balenottera non li vide. Sembrava proprio che dormisse dentro un caldo guanciale di cristallo. Quando arrivò alla giusta distanza, Moy le scagliò l'asta addosso. Allora fu un furibondo sbattere di coda, il guanciale di cristallo smeraldino su cui posava la grossa mole si ruppe e da esso sgorgò il sangue che si


spanse tutto attorno tra la schiuma generata dal suo disperato dimenarsi senza scampo. Siri afferrò la cima a cui era legata l'asta, mentre i due giovani tentarono di trascinare la balenottera verso riva.

«Pesa. Accidenti se pesa!» esclamò esausto Moy. Avvolsero allora con la cima la balenottera, ma quella cesoiava violenti fendenti con rabbiose spatolate che facevano fischiare l'aria. «Attenzione alla coda! Taglia come una lama!» Siri fece con l'altra cima un nodo scorsoio e riuscì, dopo alcuni tentativi, ad assicurarlo alla coda della bestia. La trascinarono, così, legata per di dietro. Mentre Siri si industriava a procurare mucchietti di rami per il fuoco, Moy si piegava sul cetaceo con il coltello in mano e la penetrò per scuoiarla. L'animale ebbe come un sussulto finale, definitivo. «Sente l'odore della tua fame» disse Siri.

Quando Moy finì il suo lavoro, acchiappò la coda con la cima e la tirò su. Passò la cima a Dedos che la assicurò attorno ad un robusto ramo che spuntava alto dalla roccia. Allora Moy poté tranquillamente continuare a spolpare la balenottera, sino a quando, acceso il fuoco, la sua carne ornò con il suo odore prelibato il desco improvvisato all'ombra del salice. Adesso quell'odore oleoso si sposava con quello delle alghe e dei muschi arsi della scogliera.

Ormai sazi, i due ragazzi si assopirono e Siri, nel guardare Moy dormiente con quell'animalità sazia, pensò ad un orso in letargo. Quindi le parve che un'onda morbida lo coprisse. Un'onda oleosa che sgorgava dalla sua bocca e lo sommergesse in un denso sonno oleoso. Lui nuotava in quell'onda morbida e grassa che sapeva d'olio di balena. La marea continuava a scendere. Laddove l'isola formava un istmo l’armonioso sciacquettio della Gullfoss cresceva d'intensità, facendo sentire la sua liquiescente melodia.


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