PER CHI SUONA LA CAMPANELLA? Sostenere il servizio pubblico della scuola paritaria
Le voci dell’Università Cattolica
© 2020 per i contenuti Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano a cura della Funzione Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Hanno scritto: Giovanni Domaschio, Melissa Paini Edizione a cura di EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio Universitario dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1, 20123 Milano | web: www.educatt.it/libri | tel. 02.7234.22.35 e-mail: editoriale.dsu@educatt.it (produzione) | librario.dsu@educatt.it (distribuzione) Associato all’AIE – Associazione Italiana Editori ISBN: 978-88-9335-724-1 Stampa: Tiber SpA - Brescia Questo volume è stato composto con i caratteri Salzburg, Quebec, Jenson e Pastonchi, e stampato nel mese di ottobre 2020.
Card. Angelo Scola, Arcivescovo emerito di Milano @angeloscola 14 set Buon ri-inizio dell’avventura educativa in tutte le scuole, sia statali, sia paritarie. Tutte a buon diritto pubbliche.
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Prefazione. Leggiamo la Costituzione per superare gli ideologismi di Renato Balduzzi
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Scuola paritaria, non chiamatela privilegio di Marco Grumo
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Se anche la laicissima Francia finanzia le scuole cattoliche di Anna Gianfreda
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«Facciamo come le grandi democrazie». Intervista a monsignor Pierantonio Tremolada a cura di Paolo Ferrari
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Suor Anna Monia Alfieri, la battaglia per la detraibilità integrale di Giovanni Domaschio
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Pierpaolo Triani: più risorse (non solo economiche) per un sistema plurale e integrato Dialogo con il pedagogista Pierpaolo Triani a cura di Giovanni Domaschio
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Massimo Massagli: la sfida della qualità Massimo Massagli
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Luigi Morgano: per le scuole dell’infanzia la strada della parità è ancora lunga Intervista a Luigi Morgano a cura di Melissa Paini
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Davide Guarneri: fare rete contro la crisi delle scuole cattoliche di Giovanni Domaschio
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Un Patto educativo per il nostro Paese di monsignor Claudio Giuliodori
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Prefazione Leggiamo la Costituzione per superare gli ideologismi di Renato Balduzzi*
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li ideologismi sono sempre duri a morire, alcuni poi sembrano davvero inossidabili. Crollano i muri, si afferma il mutuo apprendimento tra le culture, ma taluni steccati paiono invalicabili. Pare a me, e da tempo, che sia questo il caso della ricorrente controversia sulle cosiddette scuole private e sull’ammissibilità di un concorso finanziario statale almeno per alcune categorie tra esse. Si richiama l’inciso finale dell’art. 33, comma 3 (“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”), dimenticando che in sede di dichiarazione di voto il proponente principale e gli altri sostenitori dell’inciso, opponendosi a quei democratici cristiani (Gronchi, in particolare) che ne sostenevano la possibilità di un’interpretazione estremistica, furono unanimi. Da Bianca Bianchi che sottolineò che con l’inciso “senza oneri per lo Stato” si voleva dire semplicemente che lo Stato non è obbligato, a Malagugini che affermò che la legge potrà validamente rimediare a letture estremistiche, al proponente principale Corbino che ne diede una lettura “autentica” nel senso che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato, a Codignola secondo cui esso non impedisce qualsiasi aiuto, ma si limita ad affermare che non esiste un diritto costituzionale a chiederlo. Tuttavia non c’è verso, gli ideologismi non temono le proprie contraddizioni, e dunque, anche in questi giorni, assistiamo alla riproposizione di interpretazioni meramente letteralistiche (normalmente respinte dai medesimi autori in tutti gli altri casi) e al rifiuto, ugualmente anomalo, di un’interpretazione conforme ai principi costituzionali di pluralismo culturale e ideale, oltre che di sussidiarietà, come confermato dall’ultimo comma dell’art. 118. Per contro, la migliore e più equilibrata dottrina costituzionalistica arriva a concludere che dall’art. 33, comma 3, si desume un divieto di finanziamento pubblico integrale della scuola non statale, ma che sono ammissibili forme di finanziamento in corrispondenza al mancato costo sopportato dallo Stato per l’iscrizione di un alunno in una scuola non statale in luogo dell’iscrizione in una scuola statale. In ogni caso, alle scuole non statali paritarie (quelle cioè che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge n. 62 del 2000, che “corrispondono agli ordinamenti generali dell’istruzione, sono coerenti con la domanda formativa delle famiglie e sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia”) dovrebbe essere riservato un trattamento a sé stante, in ragione proprio della loro appartenenza * Docente di Diritto costituzionale presso la facoltà di Giurisprudenza, campus di Milano dell’Università Cattolica.
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piena al sistema nazionale dell’istruzione e della circostanza (art. 1, comma 3, della legge citata) che esse svolgono un “servizio pubblico”. Nei loro confronti, non per nulla, la Costituzione esige che la legge fissi diritti e obblighi coessenziali alla condizione di “parità” e, d’altra parte, sono ormai pacifici e incontestabili sia il ruolo che tali istituti svolgono nel nostro sistema scolastico, sia la considerazione peculiare che essi hanno da parte della giurisprudenza della Corte costituzionale. Come si vede, vi è una sovrabbondanza di elementi che dovrebbe indurre il legislatore a trarre le conseguenze e a intervenire, senza esitazioni, per garantire la sopravvivenza delle scuole paritarie, nell’interesse del sistema nazionale di istruzione. Riusciremo a superare, finalmente, gli ideologismi del passato? Auguriamoci di sì.
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Scuola paritaria, non chiamatela privilegio di Marco Grumo*
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razie ai docenti, ai presidi ma anche agli studenti e alle loro famiglie non si è mai veramente fermata. È proprio in questi momenti che si vede l’importanza di investire nella scuola, perché rappresenta il futuro del Paese. Tutte le scuole, anche quelle paritarie. Stiamo parlando di oltre 12.600 scuole soggette a tutti i controlli della statale e per questo definite “paritarie”, che per la legge hanno “pari dignità” delle altre. Accolgono circa 866.000 studenti (quasi il 10% del totale), di cui quasi 18.000 disabili, che ricevono in queste scuole un’attenzione molto particolare con grandi risultati per i ragazzi e per i loro genitori, con un contributo statale pari a 0,55 miliardi di euro di finanziamento pubblico annui (posticipatamente) e una possibilità per le famiglie di detrarre la retta pagata per un massimo di euro 152 euro all’anno, contro un finanziamento annuo accordato alle scuole statali di circa 55 miliardi di euro solo per le spese correnti (senza contare i finanziamenti in conto capitale). È sempre stato così: i soldi dei contribuenti italiani vengono dati alle scuole statali ma non a quelle paritarie, che si devono accontentare dell’1% del finanziamento dato alle statali perché, come dice qualcuno, sono scuole “private” e, cioè, per i “ricchi”, con il sottinteso che “è giusto che se le paghino le famiglie con i soldi propri”. Lo stereotipo suona così: “Non daremo soldi ai benestanti”. Ne esce un quadro in cui c’è una scuola statale da finanziare in toto (anche e soprattutto in tempo di Covid) e una “privata” che, in quanto “privilegio”, come se fosse una borsa di marca, non deve essere sostenuta. Ciò vale per i muri, per gli insegnanti, per l’aiuto agli studenti (anche quelli più deboli), per i computer, eccetera.
Discriminazione e scorrettezza Queste distinzioni sono non solo discriminatorie ma nemmeno tecnicamente corrette. È un cortocircuito culturale e ideologico che non può continuare: dietro le scuole paritarie c’è un indotto, ci sono famiglie, studenti e tanti docenti, che non possono essere trattati come cittadini di “serie B”, poiché hanno pagato le imposte come tutti gli altri, finanziando anche la scuola statale di cui non usufruiscono. I genitori delle scuole paritarie sono costretti a pagare la retta perché altrimenti quelle scuole non potrebbero vivere, dato che lo Stato non le finanzia. È giunto il * Docente di Economia aziendale della facoltà di Economia dell’Università Cattolica e coordinatore scientifico di “Cattolica per il Terzo Settore”. Co-autore del volume “Il diritto di apprendere”, Giappichelli Editore 2015.
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momento di abbandonare gli sterili “ritornelli” del passato perché non appartengono più alla realtà e soprattutto la indeboliscono. La realtà, infatti, è diversa: la paritaria non è la scuola privata, ma comprende la scuola paritaria non profit - in particolare quelle cattoliche, che sono la maggioranza - e accoglie tutti, anche e soprattutto nelle zone più povere del nostro Paese, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado. È lo Stato che impone la retta: le paritarie ne farebbero volentieri a meno, essendo nate per educare e non certo per fare profitti. Scuola paritaria non significa assolutamente “di qualcuno” e/o “solo per qualcuno” e/o al “di fuori del sistema”, poiché è soggetta a tutti i controlli previsti per le scuole statali; scuola paritaria non significa nemmeno scuola “di una parte” o di “un’altra”, significa solo scuola posta sullo stesso piano di quella statale (paritaria appunto) ma costruita (interamente) e condotta (totalmente o principalmente) con risorse non statali e quindi non derivanti dal gettito tributario, appunto “senza oneri per lo Stato” come dice la nostra Costituzione.
Molte scuole rischiano di non farcela Oggi l’Italia e l’Europa non hanno bisogno solo della scuola statale o solo della scuola non statale ma di entrambe. L’una completa e rafforza l’altra. Non c’è nemmeno una scuola a priori meglio di un’altra, c’è solo una scuola diversa dall’altra, ma entrambe buone e necessarie per il bene di tutti. Avere più scuole diverse tra loro significa dare alle famiglie e agli studenti un servizio migliore. Basta pensare anche ai tanti ragazzi con disabilità o con bisogni speciali che in queste scuole hanno un’accoglienza particolare. Eppure oggi molte scuole paritarie rischiano di chiudere per sempre, poiché le famiglie a causa della crisi non riescono più ad auto-finanziarle con la retta. Le scuole cattoliche da tantissimi anni svolgono un servizio sociale ed educativo estremamente rilevante e anche tanto conveniente per le finanze pubbliche, usando risorse umane, finanziarie e patrimoniali proprie, spesso insufficienti, poiché a differenza della scuola statale, per una scuola paritaria lo Stato assegna solo 500 euro annui per studente contro i 6.500/7.000 euro assegnati agli studenti delle scuole statali. Così le scuole paritarie cattoliche accumulano perdite, lo Stato risparmia e le scuole sono costrette a chiedere ai genitori di pagare una retta, dopo aver già pagato le imposte. Una retta che nasce da una mancanza di parità nel sostegno finanziario pubblico e sempre più proibitiva per le famiglie. Da qui il rischio che il 30% circa delle scuole paritarie non profit cattoliche italiane (molte anche nelle zone più povere del Paese) sia costretto a chiudere con la necessità di ricollocare circa 300.000 studenti nella scuola statale e sostenere oltre 40.000 lavoratori disoccupati, con un aggravio di spesa per lo Stato fino a 5 miliardi di euro.
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Tra non profit e mercato Le scuole paritarie cattoliche e di ispirazione cristiana (che sono la maggioranza) non operano per profitto, ma solo per svolgere un’importante funzione educativa a favore delle famiglie e delle future generazioni. Il Paese ha bisogno, più che mai, di pluralismi. Il monopolio non è mai stato conveniente per nessuno: per i diritti, per la qualità del servizio e per l’economia individuale e dei sistemi. Il monopolio impoverisce sempre e questo vale anche per la scuola. Abbiamo già assistito a troppi fallimenti di business e di servizi statali per andare a sacrificare anche la scuola paritaria non profit. «Ma nella Costituzione c’è scritto “senza oneri per lo Stato”» dice chi vuole continuare a sostenere solo la scuola statale. Infatti è sempre stato proprio così: le scuole paritarie non si trovano in immobili pagati con i soldi della collettività, bensì in strutture totalmente a carico dei soggetti gestori (nella costruzione e nelle manutenzioni ordinarie e straordinarie). Strutture su cui si pagano le tasse e finanziate con redditi già tassati. Gli insegnanti sui redditi ricevuti pagano le imposte, le famiglie pagano le rette con redditi su cui hanno già pagato le imposte e non recuperano praticamente nulla (senza peraltro usufruire della scuola da loro pagata con le imposte). In più la scuola paritaria consente allo Stato di risparmiare circa 6.500 euro per studente rispetto alla scuola statale. Altro che senza oneri per lo Stato, la scuola paritaria è ben di più, è una “gallina dalle uova d’oro”. Bisogna anche considerare che le scuole in Italia (come del resto la sanità, l’assistenza, ecc.) sono ormai sul mercato: un mercato in cui però esiste un player (la scuola statale) che compete in modo molto più agevolato rispetto ai player non statali, mettendo così di fatto fuori mercato tutti gli altri. E la libertà di impresa? E la concorrenza sleale? E la disciplina degli aiuti di Stato? E il principio di sussidiarietà? Per non parlare del principio della libertà delle famiglie di scegliere l’educazione per i propri figli.
Serve una riforma per un sistema scolastico integrato Ci sono chiaramente un po’ di cose da sistemare. La questione è discriminatoria da anni, ma ora siamo giunti veramente al rischio di “estinzione” per molte realtà, anche nelle zone più povere del Paese. Servono quindi interventi di breve periodo e soprattutto un riordino del sistema di medio-lungo periodo e, comunque, prima che sia troppo tardi. Le scuole non statali sono una risorsa della Repubblica tanto quanto quelle statali e quindi, come tali, devono essere riconosciute e valorizzate, anche finanziariamente. Il concetto di scuola paritaria non coincide assolutamente con quello di scuola privata. Nell’Italia della ricostruzione post-Coronavirus c’è bisogno di scuole statali e paritarie di elevata qualità culturale ed educativa, efficienti e innovative. Servono entrambe e servono forti in tutto il Paese. Il sistema educativo deve essere pensato in modo unitario e non più distinto.
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È giunto il momento di ragionare in modo nuovo, anche e soprattutto in materia di finanziamento della scuola paritaria non profit, prendendo in considerazione la possibilità per le famiglie che la scelgono di fruire di una detrazione integrale della retta pagata (o parametrata a un costo standard efficiente e di sostenibilità) scontabile nel medesimo periodo di imposta in cui essa viene sostenuta. Non si chiede certamente un aiuto per chi può o per chi fa profitti, bensì una detrazione proporzionata al reddito dei genitori e parametrata in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Tutto ciò, in attesa di una riforma del sistema più organica basata su un nuovo modello di finanziamento della scuola tutta, dove ciascuno studente (della scuola statale e di quella non statale) potrebbe disporre, a regime, di un voucher o buono-scuola, pari proprio al costo standard di sostenibilità per allievo, versato dallo Stato direttamente alla scuola prescelta, sia statale che paritaria. Un parametro unico per tutte le scuole del Paese, differenziato per ciclo scolastico. Una quota che può essere eventualmente modificata anche in funzione della zona geografica e del fatto che la classe accolga o meno studenti in difficoltà e in base al numero dei figli a carico della famiglia. Chiaramente il parametro di finanziamento non dovrà essere né insufficiente, né eccedente rispetto a ciò di cui si necessita per svolgere un servizio formativo di eccellenza, innovativo ed efficiente e deve essere in grado di remunerare tutto il necessario (appunto di sostenibilità). Applicare la detrazione integrale delle rette pagate dalle famiglie (all’interno certamente di alcuni limiti di reddito e tenuto conto del numero dei figli) è un atto da fare subito ed equivale a stanziare circa un miliardo di euro, contro i 5 miliardi a cui andrebbe incontro lo Stato (e quindi la collettività) se chiudessero il 30% delle scuole paritarie. Applicare, invece, nel tempo il nuovo modello di finanziamento della scuola significherebbe far risparmiare alla collettività circa 11 miliardi di euro all’anno. Si tratta quindi di soluzioni anche convenienti sul piano della finanza pubblica e quindi per i cittadini.
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Se anche la laicissima Francia finanzia le scuole cattoliche di Anna Gianfreda*1
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a presenza delle scuole di tendenza a carattere confessionale in pressoché tutti i Paesi europei prescinde dall’assetto nazionale dei rapporti tra singoli Stati e religioni: infatti, esse esistono sia nei Paesi con una Chiesa di stato e/o una religione ufficiale, come in Danimarca, così come nei Paesi che intrattengono rapporti di natura bilaterale con le confessioni religiose, come per esempio quelli concordatari, e sono presenti finanche nella Francia laica e separatista (che peraltro ospita una delle reti di scuole private cattoliche tra le più estese in Europa), così come nell’Irlanda separatista. Ciò che a livello nazionale può variare, dunque, non è tanto l’esistenza e/o la più o meno ampia diffusione del fenomeno, quanto la disciplina sulla natura giuridica (pubblica o privata) di tali istituzioni, il regime di finanziamento delle stesse e la partecipazione statale ad esso, le regole concernenti i criteri di ammissione o gli standard educativi e formativi che tali istituzioni devono rispettare. Ciascuno di tali aspetti costituisce spesso una variante normativa e ordinamentale propria degli Stati e contribuisce a delineare il sistema giuridico – spesso complesso – che disciplina lo statuto delle scuole confessionali in ciascun Paese europeo. Come spesso avviene nelle materie “ad alta tensione di costituzionalità”, che riguardano cioè i diritti fondamentali degli individui e delle comunità, il contesto storico-politico nel quale sono maturate le scelte nazionali dà ragione dell’atteggiamento dei Paesi europei rispetto alla questione della gestione del sistema educativo. La radice dei modelli attualmente vigenti è sicuramente rintracciabile nella contrapposizione tra il pensiero proprio del liberalismo nord europeo, tendenzialmente favorevole al pluralismo educativo e al principio della libera concorrenza anche “nel mercato dell’istruzione”, e il modello statalista, tipico dei Paesi latini, diffidenti nei confronti dell’istruzione “privata”, impartita prevalentemente dalle istituzioni religiose, soprattutto cattoliche, le quali pure per svariati secoli hanno mantenuto il monopolio nel settore e determinato lo sviluppo e la diffusione della cultura europea. Se tali retaggi storici sono in grado di spiegare ancora oggi più o meno nettamente i diversificati approcci degli Stati in materia di equilibri tra istruzione pubblica e istruzione privata, un ruolo di “omogeneizzazione” di tali approcci è stato svolto tuttavia dalle carte internazionali dei diritti dell’uomo del secondo dopo* Docente di Diritto ecclesiastico e canonico presso la facoltà di Economia e Giurisprudenza, campus di Piacenza dell’Università Cattolica.
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guerra, così come dal processo di integrazione europea e dalle fonti giuridiche che lo hanno caratterizzato. Atti quali la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (art. 26), il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (art. 13), la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (art. 2 prot. Addiz.), la Carta di Nizza dell’Unione europea (art. 14) hanno infatti delineato un fascio di libertà connesse al fondamentale diritto all’istruzione, identificabili innanzitutto con il diritto dei genitori a educare i propri figli conformemente alle proprie convinzioni etiche e religiose, con il conseguente divieto di qualsiasi forma di indottrinamento da parte degli Stati (libertà di istruzione), e poi con il diritto di soggetti diversi dalle autorità pubbliche di istituire scuole (libertà delle scuole). Queste irrinunciabili libertà, che possono essere interpretate come tradizioni costituzionali comuni agli Stati europei, orientano sia le legislazioni unilaterali nazionali sia i diversi Concordati con la Chiesa cattolica, determinando una convergenza “nella ricostruzione di una positiva e ricca dialettica tra pubblico e privato che costituisce un punto fermo del diritto europeo e che trova a livello nazionale (soprattutto nei Paesi del Centro ed Est Europa) una spinta notevolissima, in qualche caso sorprendente” (Cardia, 2010), tanto che gli assetti ordinamentali nazionali, che mantengono le competenze rispetto alla disciplina dell’istruzione scolastica, rispetto alle scuole confessionali, sembrano in larga parte non dipendere dalle dinamiche tipiche dei singoli modelli di rapporti tra Stati europei e confessioni religiose.
I modelli europei: alcuni esempi nazionali Uno dei punti di osservazione privilegiati per delineare alcune caratteristiche delle discipline nazionali sulle scuole di tendenza confessionale è sicuramente la fonte concordataria, la quale, ove esistente, contiene sempre tipicamente disposizioni sulla tutela della libertà di istituire e gestire scuole private, dotate di un progetto educativo nel suo insieme confessionalmente caratterizzato. Per alcune linee di tendenza, si possono individuare come aree di indagine quella dei Paesi ex comunisti dell’est Europa e quella dei Paesi dell’Europa occidentale e del nord. In entrambe le situazioni e in maniera differente il dato storico è essenziale. Nei paesi ex comunisti l’esigenza imprescindibile di ricostruire un tessuto civile solidaristico nei terreni più elementari e importanti della vita collettiva, come quello dell’istruzione, spinge le nuove democrazie verso un “bisogno quasi spasmodico di reintrodurre l’interazione tra pubblico e privato laddove esisteva solo la logica collettivistica”. Questo bisogno ha un riflesso immediato, e per certi versi inaspettato, nell’ampiezza con la quale i Paesi dell’Est accordano spazio, legittimazione, finanziamenti alle strutture, appunto, assistenziali, educative, di istruzione, delle varie confessioni.
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Nei Concordati con i Paesi dell’ex blocco sovietico, post caduta del muro di Berlino, infatti, si riscontra un sostegno pubblico e generalizzato alle scuole private anche di origine confessionale. Nell’Accordo tra Santa sede e Albania del 2002, ad esempio, sia pur in maniera piuttosto sintetica e minimale, è riconosciuta la personalità giuridica pubblica “delle istituzioni della Chiesa cattolica che godono del medesimo status secondo il diritto canonico”, ivi incluse “le scuole e le istituzioni educative a tutti i livelli, e le istituzioni sanitarie” (art. 2), ed è garantito il diritto della Chiesa di “istituire e gestire scuole, cliniche e centri sociali propri” (art. 7). Più articolata e impegnativa sul fronte dei rapporti tra autorità pubblica e scuole confessionali, è la posizione che emerge nei Concordati stipulati con i Paesi dell’est con una più significativa maggioranza cattolica. Emblematico il contenuto del Concordato con la Slovacchia del 2000 che, oltre a prevedere il “diritto di costituire, gestire e utilizzare per l’educazione e l’istruzione, scuole elementari, scuole medie, università e altre istituzioni scolastiche, secondo le condizioni stabilite dall’ordinamento giuridico della Repubblica Slovacca”, sancisce l’uguale condizione di queste scuole rispetto a quelle statali, considerandole parte inseparabile ed equivalente del sistema educativo e formativo della Repubblica Slovacca (art. 13). L’innovatività dell’accordo slovacco sta nella volontà di instaurare non semplicemente forme di dialogo tra istituzioni statali e cattoliche sui temi educativi e dell’istruzione, ma vere e proprie collaborazioni di carattere progettuale, nelle quali la Repubblica interverrà con strumenti di sostegno finanziario: “Le Alte Parti collaboreranno alla realizzazione dei progetti comuni nei settori della cura sanitaria, della formazione e dell’educazione, e in quella dell’assistenza degli anziani e dei malati. Questi progetti riguarderanno scuole, istituzioni educative e sanitarie, istituzioni di servizi sociali, di terapia e di reinserimento dei tossicodipendenti. La Santa Sede garantisce che la Chiesa Cattolica promuoverà questi progetti soprattutto con il personale; la Repubblica Slovacca vi provvederà, in misura proporzionale, soprattutto materialmente e finanziariamente” (art. 16). Quanto alle modalità gestionali, agli spazi di autonomia confessionale nonché agli strumenti di finanziamento da parte del bilancio statale, l’accordo base rinvia a una Intesa più specifica firmata nel 2004 sull’educazione e l’istruzione cattolica, la quale per esempio prevede che “alle scuole cattoliche viene concessa la copertura finanziaria nella stessa misura in cui viene concessa a tutte le altre scuole, in conformità con l’ordinamento giuridico della Repubblica Slovacca”. Il finanziamento con fondi di bilancio statali è previsto anche nell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica della Lituania sulla cooperazione nell’istruzione e nella cultura del 2000, così come nel Concordato polacco del 1993. Tali soluzioni evidenziano chiaramente l’adesione di tali Paesi a un certo modello di integrazione europea che ha nella dialettica tra pubblico e privato una costante ordinamentale che supera ogni confine e tradizione, e che infatti si allarga al riconoscimento delle strutture scolastiche private anche differenti da quelle cat-
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toliche, come avviene anche in Bulgaria, che tuttavia non contempla alcun finanziamento pubblico per le scuole private religiose, Repubblica ceca e Romania. Se volgiamo lo sguardo ai Paesi dell’Europa occidentale e del nord, si riscontrano differenziazioni soprattutto sullo statuto giuridico pubblico o privato delle scuole confessionali e anche sulle scelte di finanziamento e sovvenzioni pubbliche. In Austria e Germania, per esempio, le scuole confessionali hanno statuto di diritto pubblico, anche se i due Paesi individuano differenti criteri per la selezione dei destinatari delle sovvenzioni pubbliche e per l’entità degli aiuti finanziari pubblici a esse: in Austria, per esempio, la Convenzione con la Santa Sede al fine di regolare questioni attinenti l’ordinamento scolastico prevede che “lo Stato concederà alla Chiesa Cattolica regolari sovvenzioni per gli stipendi del personale delle scuole cattoliche che godono di diritto pubblico” (art. 2 par. 2). Nell’ordinamento ungherese, invece, le scuole della Chiesa sono qualificabili come una categoria di tertium genus, né pubblica né privata. Se in linea di massima i Paesi concordatari di tradizione protestante hanno implementato piuttosto agevolmente i principi del pluralismo scolastico, anche sul fronte confessionale, dimostrando ampie aperture anche rispetto al sostegno pubblico ad esse, gli Stati concordatari a maggioranza cattolica, come la Spagna, il Portogallo e la stessa Italia conservano nella normativa, pur aperta e favorevole al pluralismo scolastico di stampo religioso, qualche rigidità, dovuta alla diffidenze storicamente affermatisi nell’epoca ottocentesca. In Spagna, per esempio, nell’Accordo circa l’insegnamento e le questioni culturali del 1979 è sancito il principio di parità tra scuole private confessionali e non confessionali, ma non il pari trattamento tra scuole pubbliche e private sotto il profilo delle sovvenzioni e degli interventi di sostegno pubblico. Più sintetico ancora il Concordato portoghese del 2004 che, nel riconoscimento della libertà della Chiesa cattolica di istituire seminari e altri istituti di formazione, non fa cenno alla questione del finanziamento, così come il Concordato italiano del 1984 che all’art. 9, nell’ambito del principio costituzionale della libertà della scuola, si limita ad assicurare alle scuole istituite dalla Chiesa cattolica, che ottengono la parità, “piena libertà” “e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello Stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di Stato”. Solo nel 2000 è stato previsto in Italia un sistema integrato di istruzione pubblica e privata, che contempla tuttavia ancora delle restrizioni sul fronte del finanziamento statale e regionale. Sorprendentemente, molto più favorevole è la regolamentazione dell’istruzione privata in un Paese tradizionalmente laico e separatista come la Francia, nel quale le scuole confessionali, pur dovendo rispettare nella struttura e nella programmazione i principi dell’ordinamento scolastico, sono abilitate a rilasciare titoli di studio di ogni ordine e grado riconosciuti dallo Stato e godono di un finanziamento pubblico cospicuo per i docenti che vi insegnano. L’assetto ordinamentale francese dimostra il superamento degli approcci anticlericali al tema dell’istruzione, anche se va considerato che tale favore per le scuole private, che per la maggioranza sono
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di ispirazione cattolica, è bilanciato dall’assenza di qualsiasi insegnamento a carattere religioso nelle scuole statali.
Le nuove sfide della presenza ecclesiale nel sistema educativo europeo I dati di carattere storico-politico che hanno influenzato l’atteggiamento degli ordinamenti europei rispetto al fenomeno delle scuole di ispirazione confessionale hanno, soprattutto negli interventi normativi più recenti, lasciato il passo a una più consapevole integrazione dei principi del pluralismo scolastico ed educativo, determinando in larga parte una omogeneizzazione delle legislazioni nazionali attorno al valore e alla necessità della coesistenza tra pubblico e privato anche nel sistema educativo e formativo. Le sfide che la contemporaneità propone in ambito educativo sono molteplici sia sotto il profilo contenutistico sia metodologico. Alcuni di questi nuovi scenari interpellano forse in maniera più incisiva proprio le scuole di ispirazione confessionale: basti pensare ai temi del multiculturalismo, all’integrazione tra la missione educativa della Chiesa e la pastorale della famiglia, dei giovani ecc. Quanto al metodo, la rete dell’istruzione privata, che offre un imprescindibile e insostituibile apporto educativo e formativo nell’Europa contemporanea, non potrà non caratterizzarsi per una progettualità diretta a instaurare proficue e significative forme di collaborazione con le istituzioni culturali della società civile, sul fronte della formazione, così come degli standard di trasparenza e di rendicontazione gestionale. Solo nell’accoglimento costruttivo delle repentine evoluzioni che il sistema di istruzione europeo propone, il già elevato standard reputazionale delle scuole di tendenza confessionale può confermarle quali agenti significativi e imprescindibili di educazione e formazione, così da rispondere all’irrinunciabile principio del pluralismo educativo quale specchio della realtà sempre più pluralista che stiamo vivendo.
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«Facciamo come le grandi democrazie». Intervista a monsignor Pierantonio Tremolada a cura di Paolo Ferrari
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a decisione da parte del governo di stanziare 300 milioni per le scuole paritarie è assolutamente apprezzabile per il valore simbolico che ha. È una sorta di riconoscimento che ci fa molto piacere. Nel merito è chiaro che i costi che le nostre scuole sostengono e dovranno sostenere non potranno essere coperti da un contributo come questo. La questione di fondo è un’altra». Monsignor Pierantonio Tremolada è vescovo di Brescia ed è delegato della Conferenza episcopale lombarda per Scuola, università e insegnamento della religione cattolica. Nelle sue parole, pacate ma nette, la posizione della vasta rete di scuole cattoliche paritarie di fronte a un passaggio delicato come la crisi da Coronavirus. «Siamo preoccupati – afferma – perché stiamo parlando di realtà che, per varie ragioni, faticano a portare avanti la loro attività educativa in una situazione normale, perché in molti casi sono costrette a sostenersi facendo leva unicamente sulle rette delle famiglie. Nello scenario dell’emergenza Covid, le normative di prevenzione, l’aumento del personale, il ridimensionamento del volontariato possono aumentare la difficoltà. Occorre prevedere un maggiore aiuto reciproco tra scuole cattoliche, in rapporto con il territorio e con la realtà ecclesiale e, spero, anche un sostegno dell’amministrazione pubblica».
Monsignor Tremolada, che cosa significherebbe per il Paese se buona parte delle scuole cattoliche chiudessero, come potrebbe accadere soprattutto nel Nord Italia, dove da sempre rappresentano una fetta importante del sistema educativo? «I nostri sindaci sanno bene cosa succederebbe se dovesse venire meno la presenza delle scuole paritarie. I nostri amministratori sono molto accorti e attenti alla situazione della propria gente e sono consapevoli che nel momento in cui dovessero chiudere le scuole cattoliche ci troveremmo a fare i conti con un tracollo: non sarebbero sostenibili i costi che sarebbero trasferiti soprattutto all’ambito delle amministrazioni locali. Non dimentichiamo che le nostre scuole portano avanti la loro attività con costi che, complessivamente, sono molto inferiori di quelli delle scuole statali corrispondenti».
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Qual è la situazione in Lombardia? «Sul nostro territorio le scuole paritarie hanno un peso notevole. Dai dati in nostro possesso, risultano circa 5.300 scuole statali e 2.500 scuole paritarie di ogni ordine e grado. Per le scuole dell’infanzia abbiamo 1.337 scuole statali contro 1.717 scuole paritarie (di cui la stragrande maggioranza cattoliche)».
Eppure ci sono molte persone che continuano a considerarle un privilegio... «Non è semplice far capire cosa sono le scuole paritarie cattoliche, perché ci sono dei convincimenti radicati che andrebbero rivisti. Per esempio, si parla di scuola pubblica ma la si indentifica con la scuola statale. La scuola pubblica non coincide con la scuola statale: scuola pubblica è per definizione la scuola dei cittadini. Lo Stato, con le sue istituzioni, si mette a disposizione dei cittadini perché venga garantito il diritto all’educazione scolastica. Ma i cittadini stessi si possono organizzare per questo scopo e lo Stato potrà verificare se sono in grado di farlo, dettando le condizioni di questa verifica».
Ma c’è chi dice che siano scuole per pochi «Si parla di scuola privata e non di scuola paritaria e la si immagina come la scuola dei ricchi, la scuola a scopo di lucro, la scuola che ruberebbe fondi allo Stato. Se uno guarda alle nostre scuole dell’infanzia, alle scuole delle nostre parrocchie, davvero è così? Sono realtà che cercano in tutti i modi di autosostenersi e potrebbero essere aiutate. Svolgono un ruolo molto significativo e lo fanno in maniera anche molto seria. Se saliamo alle scuole elementari, medie, superiori e alle scuole delle congregazioni, possiamo dire che sono scuole per ricchi? Certo, se non ricevono alcun aiuto dallo Stato e devono contare solo sulle rette di chi iscrive i propri figli, rischiano di diventare scuole per chi ce la fa. Sappiamo che tante famiglie fanno molti sforzi per poter garantire questa formazione, perché la considerano un’esperienza significativa per i loro figli. È un circolo vizioso. Se ci venisse dato quello che per diritto dovremmo ricevere, saremmo ben felici di aprire le porte a tutti».
Che è poi quello che avviene in tanti Paesi, perfino nella laicissima Francia, che stipendia gli insegnanti delle scuole cattoliche «Questo è quello che ci amareggia, perché le grandi democrazie europee hanno un sistema scolastico davvero integrato e non solo non si scandalizza nessuno, ma la scuola pubblica è gestita sia dallo Stato che da enti costituiti da cittadini. Perché noi non possiamo fare altrettanto?».
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Non c’è solo un’opinione pubblica esterna con cui confrontarsi ma ce n’è anche una interna. Come sono considerate le scuole cattoliche nel mondo ecclesiale e cattolico? «Questo è un punto che un po’ ci addolora. La comunità cristiana dovrebbe fare di più, apprezzando la realtà delle scuole cattoliche paritarie e il ruolo educativo che svolgono, come scuola in generale e come occasioni e luoghi in cui far cogliere la connessione tra la fede e la cultura e far apprezzare un’esperienza di comunità che ha caratteristiche tutte sue. Questo entra a fare parte della missione della chiesa come tale sul territorio. Essere chiesa non significa soltanto tenere vive le parrocchie ma anche farci carico dell’azione educativa dei nostri ragazzi attraverso la scuola. Certo, non è l’unico modo di vivere questa tensione, che passa anche dai singoli docenti e dai singoli dirigenti all’interno delle strutture statali. Vorrei che le nostre comunità cristiane apprezzassero di più e riconoscessero questo valore in modo che le scuole cattoliche ne sentissero la vicinanza, anche con un sostegno economico».
Monsignor Tremolada, quali sono valori e caratteristiche distintivi delle scuole paritarie cattoliche? «Anzitutto si tratta di scuole. Sono cattoliche ma sono essenzialmente scuole. A noi importa fare bene scuola e contribuire alla responsabilità che il nostro Paese si assume di offrire un’educazione complessiva attraverso la comunicazione del sapere. Se dovessimo individuare uno specifico che qualifica le scuole cattoliche o, meglio, il modo cattolico di fare scuola, individuerei due direzioni. La prima è quella del rapporto tra fede e cultura, e la seconda è l’esperienza di comunità».
Partiamo dalla prima... «Rapporto fede-cultura vuol dire che nelle nostre scuole vogliamo fare comprendere come la fede costituisca l’orizzonte nel quale collocare la cultura e la comunicazione del sapere. Non c’è contrasto tra il credere e il sapere».
E la seconda? «L’esperienza di comunità è singolare: non che nelle scuole statali non la si viva, però nelle nostre scuole vogliamo che questa dimensione venga particolarmente coltivata: tutti coloro che intervengono nell’esperienza educativa che è la scuola, tra di loro sviluppano dei legami che danno forma a una vera e propria comunità».
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Come tenere insieme i valori ispirativi della scuola cattolica con l’apertura a tutti e l’inclusività? «Si deve distinguere tra fede e ideologia, quando si intende la fede in modo ideologico la si tradisce. Questo vale in particolare per la fede cristiana che ha al centro la croce di Cristo che è per definizione un atto d’amore, frutto della condivisione che Dio ha voluto far sua nei confronti dell’umanità. Credere in questo mistero d’amore che si è rivelato significa necessariamente non mettere confini, non mettere paletti, non mettere barriere, non fare distinzioni ma vivere l’accoglienza, l’apertura, la solidarietà. Anche per visioni della vita diverse, in un atteggiamento di vero dialogo, senza rinunciare alla radice della nostra fede, che è per sua natura contraddistinta dalla carità, cioè un atteggiamento d’amore che non permette di mancare di rispetto a nessuno».
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Suor Anna Monia Alfieri, la battaglia per la detraibilità integrale di Giovanni Domaschio
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i piace molto approcciare il mondo della politica, perché credo che la politica sia la più alta forma di carità. Non ho mai creduto nelle posizioni partitiche. Credo invece ci siano delle persone che hanno grandi ideali, grandi valori, e a cui devi quindi arrivare a scaldargli il cuore». Così Anna Monia Alfieri racconta della propria esperienza in Commissione di Bilancio, in qualità di economista e di rappresentante dell’Unione delle Superiore Maggiori d’Italia (USMI) e della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM). Una donna, sola, con indosso un abito, e il dovere d’infrangere molti pregiudizi, di fronte a una platea eterogenea negli ideali politici e spirituali. «In commissione di bilancio non ha parlato Anna Monia, hanno parlato i numeri, le leggi, i fatti». Numeri e cifre, sì, perché è nei conti economici che si può leggere la grave crisi delle scuole paritarie. Con 900mila studenti iscritti in tutt’Italia, e lo Stato che, per ognuno di questi alunni, devolve 500€ all’anno, alle paritarie non restano che due opzioni: trasformarsi in una scuola per ricchi o indebitarsi e, nel tempo, chiudere i battenti. Con la crisi vocazionale degli ultimi decenni, le scuole paritarie hanno necessariamente dovuto aprire le porte ai laici, e questo ha comportato un fisiologico aumento dei costi del personale. Questo fatto, chiaramente, ha alimentato una crisi già in atto, dovuta alla necessità, da un lato, di non discriminare i meno fortunati, dall’altro, di evitare il fallimento. In questo delicato equilibrio già destinato a non reggere, s’è inserito il Coronavirus: «Il sistema scolastico italiano è già classista perché il ricco sceglie e il povero s’accontenta. Le realtà più colpite sono sempre quelle del centro sud e delle periferie. Il Covid è quel cigno nero che in economia fa emergere il problema allo stato puro, senza filtri. Se fosse passato il Coronavirus non se ne sarebbe parlato più di questo problema, era necessario affrontarlo adesso», spiega Suor Monia. Parole, queste, che ricordano la lapidaria affermazione del Pontefice: «Non sprechiamo questa pandemia». Suor Monia Alfieri ha seguito questo messaggio, e il confronto con la classe politica ha dato i suoi frutti. Infatti, «è stato inserito un aiuto di 300 milioni alle paritarie nel DL rilancio. Finalmente, sia tra la maggioranza che tra l’opposizione, è passato il principio che le paritarie sono pubbliche e fanno parte di un sistema integrato. Questo non eravamo mai riusciti ad ottenerlo, neanche durante la redazione della Costituzione italiana, in cui ci fu una grossa divisione tra cattolici e non». Un traguardo non da poco quello di mettere d’accordo forze di destra e di sinistra sull’importanza del comparto delle scuole paritarie. «Questi 300 milioni sono un riscatto assoluto della scuola paritaria e un risultato senza precedenti in questa fase politica che ne va a confermare il suo ruolo pubblico».
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Nonostante «questa vittoria» l’impegno di Suor Monia per sostenere le scuole paritarie va avanti: «È necessario approvare nelle aule del Parlamento gli altri 6 emendamenti e, in particolare, quello relativo alla detraibilità integrale del costo delle rette versate dalle famiglie alle scuole pubbliche paritarie nei mesi di sospensione della didattica, con tetto massimo di 5.500 euro (che è il costo standard di sostenibilità per allievo): ciò sanerebbe anni di discriminazione subita dai genitori, dagli alunni e dai docenti. Non si tratta di un favore ai ricchi: tutt’altro! I numeri parlano con la loro schiacciante evidenza». Inoltre, aggiunge, «è importante l’intervento delle Regioni, Province e Comuni» e, in particolare, a livello locale «è necessario siglare “Patti di comunità” con le scuole paritarie, utilizzando le 40.749 sedi scolastiche statali e le 12.564 sedi paritarie per consentire agli 8.466.064 studenti di ritornare in classe in sicurezza. Si dia a queste famiglie una quota capitaria pari al costo standard di sostenibilità per allievo (da modulare per corso, e che va da 3.500 euro per la scuola dell’infanzia a 5.800 euro per la scuola secondaria di 2° grado, con una media di 5.500 euro), consentendo la libera scelta della scuola».
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Pierpaolo Triani: più risorse (non solo economiche) per un sistema plurale e integrato di Giovanni Domaschio
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uando si parla di scuole paritarie in Italia, si tende a confonderle – talvolta intenzionalmente, spesso superficialmente – con il più generico e limitante “scuole private”. Ma nel loro nome si cela un significato molto diverso: paritaria è ogni scuola istituita da un soggetto diverso dallo Stato che, facendo parte di un più ampio sistema d’istruzione, è messa sullo stesso piano delle scuole statali, con i medesimi obblighi e le medesime libertà che ne derivano. «Sono scuole che, da un lato, hanno la possibilità di agire secondo il proprio progetto educativo ma, dall’altro, sono parte di un sistema complessivo» spiega Pierpaolo Triani, docente di Pedagogia dell’Università Cattolica, inquadrando la questione della coesistenza e dell’equiparazione tra scuola statale e istituti paritari. «Il principio base della vita democratica è permettere a tutti di avere i propri valori e la propria libertà di espressione e, insieme, di avere una base comune in cui riconoscersi». È l’idea sottesa a un sistema scolastico plurale e integrato. Un modello, quello vigente in Italia secondo quanto disposto dalla legge 62 del 10 marzo 2000, che prevede la sinergia tra statale e paritario. L’obiettivo di un sistema così congegnato è quello di unire nella diversità, permettere agli istituti d’avere uguale dignità e il medesimo riconoscimento nonostante i margini d’autonomia necessariamente garantiti per consentire a statale e non statale di coesistere e offrire un unico, ma pluralistico, servizio pubblico. Le alternative a questo tipo di modello sarebbero il monopolio statale dell’istruzione o, all’estremo opposto, la totale frammentazione. «Un modello centralistico che non riconoscesse ad altri soggetti di esercitare la propria libertà educativa sarebbe anticostituzionale, proprio perché essa è prevista dalla Costituzione» afferma Triani. «D’altra parte, un sistema frammentato e senza nessuna regia, non favorirebbe la coesione sociale e il confronto, e quindi neppure la vita democratica. I due estremi porterebbero portare al rischio del totalitarismo o, all’opposto, a quello del più sfrenato individualismo». In Italia, sulla carta, l’equiparazione tra statale e paritario esiste, ed è un elemento garantito e incentivato da ogni gradino della legislazione italiana, a partire dalla Carta costituzionale. Tuttavia l’implementazione di questo principio presenta ancora delle zone d’ombra e la mancanza di finanziamenti stabili alle paritarie ne rappresenta solo una parte. Secondo il professor Triani, uno dei problemi è la mancanza di coordinamento tra pubblico e privato nel territorio: «Nel momento in cui pensiamo, nello spirito
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della legge 62, a un sistema nazionale d’istruzione, costituito sia dalle scuole statali che dalle paritarie, diventerebbe importante che anche in ogni singolo territorio si ragionasse secondo la stessa logica, definendo i bisogni di istituzione di realtà formative in virtù dell’esistenza non solo della realtà statale, ma anche di quella paritaria, e viceversa. Per esempio, se una paritaria volesse ampliare la propria offerta formativa è suo diritto farlo ma è importante che si chieda quanto questa nuova proposta arricchisca o meno il territorio, o se invece non sia opportuno andare a coprire un altro bisogno formativo. Questo vale anche a parti invertite, ovviamente, proprio per integrare bene le parti e non agire unicamente in una logica di sovrapposizione». Un altro aspetto su cui occorrerebbe investire maggiori risorse e attenzioni è quello dei progetti di cooperazione e lavoro comune tra scuole paritarie e statali: «Il sistema scolastico italiano dovrà accrescere i momenti di lavoro e incontro tra i due tipi di scuole. Se nella scuola dell’infanzia c’è già una buona comunicazione, più si cresce nell’ordine e grado, meno i momenti di interazione e di lavoro comune sono frequenti. Da un punto di vista pedagogico, invece, il sistema può consolidarsi soltanto se si comunica e si lavora insieme, se si sta sugli stessi tavoli a confrontarsi, se si iniziano a fare progetti comuni tra paritarie e statali». Un obiettivo, quello di un sistema didattico integrato, che ha ancora bisogno di risorse, mentali ancora prima che economiche, al di là del sostegno legato alla crisi causata dalla pandemia.
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Massimo Massagli: la sfida della qualità di Giovanni Domaschio
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o Stato, ogni anno, investe 7mila euro per ciascuno studente delle scuole statali e circa 500 per chi frequenta una paritaria. Questi numeri, ripetuti fino allo sfinimento da chi, come l’economista Anna Monia Alfieri, si batte da sempre per la parità di trattamento tra statale e non statale nel contesto dell’istruzione pubblica, rappresentano un’evidente e per ora insormontabile disparità. E i 300 euro annui per studente in più per le paritarie inseriti nel DL Rilancio hanno spostato davvero di poco gli equilibri. In questo contesto, per le scuole paritarie la sopravvivenza passa dalla capacità di compensare le difficoltà finanziarie delle famiglie. «La scuola, anche tramite fondi di solidarietà, deve essere capace di compensare le perdite e sostenersi, pur nella iniquità del trattamento statale» spiega Massimo Massagli, rettore delle Scuole Regina Mundi di Milano. Una realtà, quella in cui si trovano le paritarie, nata probabilmente da questioni ben al di là del mero campo economico: «Finché la scuola paritaria continuerà a essere terreno di scontro ideologico – prosegue Massagli – le cose non cambieranno molto. Il problema è che le paritarie non sono terreno elettorale, e i vari schieramenti politici non hanno quindi consenso da perdere nel maltrattarle. Il risultato è che le famiglie che mandano i figli alle paritarie pagano due volte i servizi educativi: prima con le tasse e poi con la retta». La radice del problema, in altri termini, è culturale. Ma proprio dalle difficoltà legate alla pandemia sono emerse le scuole che hanno saputo reagire meglio alla crisi: «La battaglia si vince con la qualità – afferma Massagli – e noi col Coronavirus abbiamo avuto famiglie della scuola dell’infanzia soddisfatte del lavoro svolto, che stanno chiedendo di iscriversi alla nostra primaria perché quella statale della zona non ha gestito la situazione con altrettanta prontezza». Una crisi che diventa occasione di riscatto, insomma, nell’attesa di scoprire in concreto come verrà gestito il rientro nelle aule ed il vero e proprio inizio del nuovo anno scolastico.
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Luigi Morgano: per le scuole dell’infanzia la strada della parità è ancora lunga di Melissa Paini
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anno scolastico 2019-2020 è terminato. Si lasciano alle spalle mesi difficili, mesi di didattica online, di distanziamento e isolamento sociale, per guardare con misurata fiducia e ottimismo all’anno scolastico 2020-2021. Un ottimismo, però, che non è così diffuso tra le scuole paritarie. Quando parliamo di questo tipo di scuole, in Italia, parliamo di oltre 12 mila istituti, di cui quasi 9 mila scuole dell’infanzia; degli oltre 866mila alunni di questi istituti, 524mila frequentano la scuola dell’infanzia paritaria. A questi numeri, nell’ambito dello 0-3, vanno aggiunti i servizi educativi che riguardano 354mila bambini. Il progetto 0-6 vede una presenza di realtà non statali con 878mila bimbi. In questo contesto complessivo le scuole dell’infanzia Fism (Federazione Italiana Scuole Materne) sono 6.700, a cui si aggiungono 2.300 servizi educativi, per un totale di circa 500mila bambini. Secondo Luigi Morgano, Segretario nazionale della Fism, i problemi sono due: la chiusura dell’anno scolastico e l’apertura del prossimo. E le domande a cui si attende risposta sono sostanzialmente tre: quando, come e per quanto tempo si prevede duri questa transitorietà dovuta al Covid-19. La data di riapertura di tutto il sistema scolastico nazionale è stata indicata per il 14 settembre ed è in fase di definizione con la mediazione delle regioni, tenendo conto delle elezioni regionali che si terranno in alcune di queste, per evitare il rischio di un’ulteriore temporanea chiusura dovuta al fatto che molte scuole sono sede di seggio. Il secondo quesito riguarda le modalità con le quali si intende riaprire a settembre. «La discussione in atto riguarda fondamentalmente il “come”» spiega il segretario della Fism. «La volontà diffusa è che a settembre si riaprano le scuole in presenza. Le soluzioni possibili sono legate al pronunciamento delle istituzioni che hanno la responsabilità del contrasto alla pandemia per tutelare la salute pubblica, quindi anche di alunni, personale docente e non docente e famiglie, che devono definire le prescrizioni per la riapertura. Molto è legato a questo». Le modalità e le condizioni con le quali si rincomincerà, infatti, condizioneranno le soluzioni che anche le scuole paritarie devono rispettare per riaprire. La ipotizzata riduzione degli alunni per la scuola dell’infanzia comporta un aumento di sezioni o una selezione degli alunni che possono frequentare, un aumento del personale e anche possibili interventi strutturali agli istituti, nonché un prevedibile e tutt’altro che ridotto incremento di spesa. «La differenza tra entrate e costi fissi che una scuola dovrà sostenere, da chi va coperta?» si chiede Morgano. «Da Stato, regioni, enti locali, con riferimento alle rispettive competenze, ma anche da scelte politiche che riguardano il sostegno di
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tutto il sistema scolastico italiano. Per quanto concerne le associazioni di scuole paritarie no profit, a partire dalla Fism, hanno già dichiarato e comunicato a livello istituzionale che non procederemo caricando costi aggiuntivi su genitori e famiglie che vi mandano i loro figli». La richiesta di sostegno economico alle pubbliche istituzioni per la riapertura di settembre è dovuta alla consapevolezza che non è immaginabile un aumento delle rette per le famiglie, colpite anch’esse dalla crisi economica determinata dal Coronavirus. Diversamente, «se le condizioni dovessero diventare non sostenibili la questione della non riapertura è oggettiva e reale. Il problema va quindi tempestivamente affrontato». La terza questione al momento è ancora tutta da definire e riguarda per quanto tempo si immagina che l’attuale situazione “transitoria” cessi e si possa ritornare alla “normalità”. «Tra le questioni importanti che, invero, non hanno avuto rilievo, vi è quella dell’attenzione che riguarda i vissuti dei bimbi che rientrano nella scuola dell’infanzia e nei servizi educativi e le attenzioni da prestare a chi inizia la frequenza, dati i vincoli attuali legati alla presenza dei genitori nella scuola e una socialità “ridotta”: quindi gli aspetti più propriamente educativi, psicologici, pedagogici e didattici». A tale riguardo la Fism ha attivato proprie commissioni pedagogiche a livello nazionale e regionale che hanno, non solo messo a punto la questione, ma avanzato alle realtà istituzionali competenti, precise proposte e indicazioni. «Non va dimenticato che la scuola è in primo luogo per l’alunno» chiosa Luigi Morgano. «Quando si parla di parità scolastica, si parla di libertà. Se non ci fossero le scuole paritarie non ci sarebbe libertà di scelta per le famiglie, come anche per il personale che intende insegnarvisi. Nell’ambito dell’unico sistema nazionale italiano di istruzione, costituito di scuole statali e paritarie, le difficoltà delle une si riflettono sulle altre. Se un certo numero di scuole paritarie non dovesse riaprire, dove troverebbero posto migliaia di alunni? È noto che in molte realtà italiane, se la presenza delle scuole dell’infanzia venisse meno cesserebbe il servizio scolastico tout court e sparirebbe una realtà di inclusione e coesione sociale che ha alle spalle una lunghissima tradizione di presenza, con una qualità alta dell’educazione. Vanno quindi adottate scelte di riapertura e funzionamento realistiche, flessibili, praticabile e sostenibili sul versante organizzativo, economico e gestionale». Che cosa dire delle ultime decisioni di governo e parlamento? «Dopo quanto causato dal Covid-19 a vent’anni dalla legge 62/2000 (nota come “legge della parità scolastica” nel nostro Paese) si sono compiuti alcuni passi importanti. Innanzitutto la scuola ha recuperato la sua collocazione strategica e primaria, quindi il sostegno economico alla scuola è un investimento e non una spesa. Faccio riferimento agli ammortizzatori sociali adottati e, nell’ambito dell’approvazione del decreto Rilancio, l’esito di un finanziamento di 300 milioni di euro complessivamente per l’età dall’infanzia alla maturità (di cui 180 per lo 0-6 e 120 per alunni e studenti dalla scuola primaria alla secondaria superiore). Un esito per cui la Fism, e non da sola, si è battuta».
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Ma questo non basta. Secondo Morgano «non si può ancora parlare di parità di intervento con la scuola statale. Una scelta che, inoltre, non può essere una tantum, ma deve diventare strutturale. Perché 300 milioni sono una cifra rilevante ma vanno calcolati quanti sono gli utenti cui è destinata. Come già detto, 524mila frequentano la scuola dell’infanzia paritaria, 354 mila i servizi educativi, quindi la cifra di 180 milioni va divisa per 878mila, che significa una media di 205 euro a testa, riferiti ai quattro mesi di forzata chiusura del 2019-2020, perciò 51 euro pro capite». C’è ancora molta strada da fare. «L’impegno per il raggiungimento di una piena parità scolastica nel nostro Paese va continuato perché l’Italia è ancora tra i fanalini di coda rispetto ai Paesi dell’Unione europea che da anni hanno risolto adeguatamente la questione. Senza dimenticare che le regioni italiane ricevono direttamente dall’Ue un rilevantissimo contributo per la coesione sociale che può essere destinato anche a questo scopo. Inoltre è bene ricordare che l’Ocse definisce il sistema delle scuole dell’infanzia italiano parametro di eccellenza a livello internazionale. Se consideriamo che oltre un terzo degli alunni frequentanti questo tipo di istituzione in Italia è rappresentato dalle scuole paritarie, a chi gioverebbe non operare per realizzare la piena parità scolastica?».
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Davide Guarneri: fare rete contro la crisi delle scuole cattoliche di Giovanni Domaschio
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e il benessere di una comunità si vede dalla capacità di fare rete e dimostrarsi più forti della somma dei singoli componenti, di sicuro Brescia ne è un esempio virtuoso. In questi mesi d’emergenza sanitaria i bresciani hanno dimostrato di saper reagire al meglio, donando più di 17 milioni di euro a supporto della sanità locale dall’inizio della pandemia. Davide Guarneri, responsabile per il coordinamento delle scuole cattoliche della diocesi di Brescia, racconta di come solidarietà e vicinanza abbiano mantenuto intatto anche il comparto delle scuole paritarie cattoliche bresciane. Proprio per la loro natura capillare, questo tipo di istituti, spesso piccoli, radicati nel territorio e gestiti da parrocchie, congregazioni e fondazioni, di frequente sono state le prime a livello nazionale a risentire della crisi economica legata al Covid 19. Nel caso bresciano a salvare la situazione è stata proprio l’idea di rete e la convinzione che fosse fondamentale non lasciare indietro nessuno: «Ogni situazione le scuole ci abbiano presentato, abbiamo cercato di risolverla insieme – racconta Guarneri – e già prima del Covid avevamo distribuito 40mila euro di sussidi per famiglie in difficoltà. Durante questo periodo abbiamo ricreato il fondo, che non è la soluzione di tutto, ma abbiamo comunque raccolto 200mila euro che andranno a sostenere principalmente il rilancio, e non solo la gestione dell’emergenza. Nell’amministrare il fondo, le scuole stesse ci hanno chiesto di premiare gli istituti che hanno introdotto il maggior numero di migliorie a seguito della pandemia. Abbiamo, insomma, cercato di cogliere questa difficoltà come una sfida per migliorarci». Una risposta di welfare privato, quella che racconta Davide Guarneri, che dimostra come visione d’insieme e vicinanza tra le realtà locali possano essere la salvezza di un territorio: «Se un parroco sa, per esempio, di avere quest’anno una passività di 15mila euro, sa anche che 6 o 7mila li raccoglierà dagli imprenditori locali e alla fine, quindi, non chiederà al vescovo somme eccessive. Questo momento segna la fine dell’autoreferenzialità: chi resta da solo muore». Tuttavia, questa necessità di fare rete con imprenditori e cittadini nasce anche da una mancata applicazione del principio di parità scolastica, sancito dalla nostra carta costituzionale: «L’articolo 33 della Costituzione – spiega Guarneri – parla di equipollenza di trattamento degli studenti. Lo Stato non è tenuto a finanziare la costruzione di nuove scuole private, tuttavia avrebbe il dovere di trattare nel medesimo modo gli studenti di ogni scuola. Questo, almeno in teoria, significherebbe fornire a tutti mascherine e test sierologici in questo momento di pandemia. Invece con la fondazione Comunità e Scuola ci siamo ritrovati a dover raccogliere
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mascherine, gel igienizzante e altro materiale, quando invece le scuole statali hanno ricevuto una sovvenzione per acquistarli». Durante il periodo di pandemia, anche nel contesto bresciano circa il 10% delle famiglie con figli iscritti a scuole paritarie non è riuscito a pagare la retta. Questo, in contesti meno preparati e coesi, ha portato al collasso finanziario alcuni istituti che già vivevano situazioni di precarietà economica. A Brescia, racconta Guarneri, un tempestivo ricorso alle fondazioni private ha scongiurato quest’eventualità. Un encomiabile esempio di comunità, sicuramente, che però non colma il vuoto lasciato dall’ormai nota disparità di fondi pubblici tra scuole statali e paritarie. Nonostante permangano, a livello nazionale, enormi difficoltà, e ancora numerosi istituti non abbiano trovato risposta ai propri problemi finanziari, qualcosa anche a livello governativo si è comunque mosso. Il bonus di 300 euro annui in più per ogni studente delle paritarie, contenuto nel DL Rilancio e voluto da numerose parti politiche, «è una misura che potrebbe essere significativa se venisse riconfermata anche nel 2021. Abbiamo creato un precedente, ma solo se verrà tutto riproposto significherà che è stato intrapreso un percorso virtuoso». Rimane viva, quindi, la speranza che qualcosa cambi, e che il Coronavirus possa essere un’occasione per raggiungere una reale parità scolastica.
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Un Patto educativo anche per il nostro Paese di monsignor Claudio Giuliodori*
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i chiude quest’anno il percorso decennale che la Chiesa italiana ha sviluppato alla luce degli Orientamenti pastorali “Educare alla vita buona del vangelo”. Un percorso che ha visto la comunità ecclesiale impegnata a rafforzare il suo servizio educativo che si esprime in molteplici ambiti, da quelli più interni legati alla catechesi e agli spazi formativi, come gli oratori, alle iniziative indirizzate a tutta la collettività, come i luoghi aggregativi a carattere sportivo o culturale, e soprattutto l’ampia e articolata presenza di scuole paritarie all’interno del sistema scolastico nazionale. Un contributo rilevante dal punto di vista numerico (10% circa degli studenti del Paese) e qualificato dal punto di vista culturale con punte di comprovata eccellenza. Il documento dei vescovi ribadiva ancora una volta che: «Il principio dell’uguaglianza tra le famiglie di fronte alla scuola impone non solo interventi di sostegno alla scuola cattolica, ma il pieno riconoscimento, anche sotto il profilo economico, dell’opportunità di scelta tra la scuola statale e quella paritaria. […]. Il confronto e la collaborazione a pari titolo tra istituti pubblici, statali e non statali, possono contribuire efficacemente a rendere più agile e dinamico l’intero sistema scolastico, per rispondere meglio all’attuale domanda formativa (n. 48). In questi dieci anni si è lavorato molto per dare pieno sviluppo a questi orientamenti, ma la realtà registra purtroppo crescenti difficoltà rese ancora più marcate in questi mesi dalle vicende legate al contagio da Coronavirus. Il problema dell’inquadramento e del pieno riconoscimento, anche dal punto di vista economico, delle scuole paritarie all’interno del sistema scolastico pubblico italiano non è recente, ma oggi diventa ancora più urgente affrontarlo sia perché resta un vulnus che rende incompiuto il sistema integrato formativo del Paese sia perché si trascina dal dopo guerra - e si accentua ogni giorno di più - una inaccettabile situazione di squilibrio che penalizza le scuole paritarie, sempre più in difficoltà e costrette a chiudere. La boccata di ossigeno data dal governo con il recente contributo di 300 milioni a sostegno della scuola pubblica non statale se è vitale per sopravvivere non costituisce però una soluzione al problema. Si rende pertanto ancora più urgente riprendere la riflessione e sviluppare un serrato confronto sui dati oggettivi e reali della situazione superando anacronistici pregiudizi e chiusure di matrice ideologica. È in primo luogo una questione antropologica e culturale perché l’educazione, bene primario e fondante della soggettività sociale, non è appannaggio dello Stato ma è legata alla responsabilità e alle scelte dei genitori. Il rapporto tra il diritto inalienabile alla libertà di educazione da parte dei genitori e il servizio che lo Stato * Assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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è chiamato a garantire per la sua concreta attuazione deve essere regolato dal principio di sussidiarietà. Solo in questo modo lo Stato non prevarica sulla titolarità dei genitori e può offrire un sistema integrato di servizio scolastico pubblico che si avvale sia delle strutture statali sia di quelle paritarie non statali. È assolutamente improprio e deviante usare la dizione “private” per scuole che offrono un servizio aperto a tutti e quindi per sua natura pubblico. I qualificati contributi apparsi in queste settimane su CattolicaNews offrono una puntuale analisi della situazione e soprattutto forniscono le chiavi di lettura per affrontare in modo appropriato i diversi aspetti della questione. Da quello giuridico-costituzionale a quello socio-economico, da quello organizzativo a quello più squisitamente politico che, soprattutto nel confronto con le moderne democrazie, mette in evidenza l’arretratezza del nostro Paese e le incongruenze del nostro sistema scolastico. Solo dentro un quadro che tenga conto di tutti i fattori è possibile dare risposte pertinenti e non distorte o parziali. Il cammino appare certamente arduo e complesso, ma non si può rinunciare a uno spazio di libertà e di responsabilità civile che tanto ha contribuito e tanto può ancora offrire alla crescita del Paese e al bene delle nuove generazioni. L’invito di Papa Francesco a costruire assieme un grande Patto educativo globale ci indica ulteriori motivi di impegno e di confronto per realizzare un sistema scolastico integrato capace di rispettare la titolarità educativa dei genitori, di valorizzare il contributo di tutte le soggettività sociali e di offrire una formazione all’altezza delle sfide del nostro tempo. Iniziamo un anno scolastico difficile e complesso ma la scuola è sempre una grande opportunità e mai un rischio. Non dobbiamo avere paura di affrontare anche i grandi cambiamenti in atto. Come scriveva papa Francesco: «ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo che coinvolga tutti. Per questo è necessario costruire un “villaggio dell’educazione” dove, nella diversità, si condivida l’impegno di generare una rete di relazioni umane e aperte» (Messaggio per il lancio del patto educativo, 12 settembre 2019).
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