pretesti Occasioni di letteratura digitale
Il pavimento di pietra
di Tim Parks
Il viaggio come scrittura, la scrittura come viaggio di Giuseppe De Marco
Madame Dora di Bruno Arpaia
Dicembre 2012 • Numero 12
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Lampare spente di Andrea Molesini
pretesti | Dicembre 2012
Il meglio della narrativa e della saggistica italiana e straniera in oltre 30.000 titoli www.cubolibri.it
Editoriale Cari lettori, abbiamo preparato per voi un numero degno delle migliori letture sul divano, dei palati più raffinati e delle menti più desiderose di trascorrere le festività in compagnia di buone storie. Tim Parks, Andrea Molesini e Bruno Arpaia sono i tre scrittori che hanno partecipato alla sfida di questo numero: non lasciarvi soli. E nessuno rimarrà solo in questi giorni di Natale pensando anche ai grandi delle letteratura che Giuseppe De Marco ci aiuta a riscoprire. Certo non possiamo dire di avere molto da festeggiare quest’anno. Sono sempre più numerose le persone senza lavoro e le famiglie in difficoltà economiche. Proprio per questo non vogliamo che nessuno resti prigioniero della propria solitudine, anche se la letteratura è innanzitutto un’avventura del singolo. Le buone storie, tuttavia, sono capaci di un miracolo, quel miracolo che invochiamo come dono natalizio per ciascuno di voi: rendere popolata la solitudine dei singoli dinnanzi alla vita e alle sue fatiche. Anche grazie a questa moltitudine di personaggi, e alla capacità di ciascuno di diventare moltitudine, possiamo sperare di uscire dalla crisi. La crisi economica che è prima di tutto crisi delle coscienze: abbiamo avuto l’illusione di non essere soli inseguendo social network, amicizie virtuali, amicizie a distanza. Ci siamo dimenticati di noi stessi. Della singolarità che ciascun individuo rappresenta. Non ci resta che ripartire da qui, non ci resta che abitare questa solitudine e farla popolare dalle storie della letteratura, che poi in fondo non sono altro che le storie del nostro vicino di casa, di quartiere, del nostro collega di lavoro. Buon Natale allora, con la speranza di avervi aiutato un po’ a popolare la vostra solitudine. Buoni PreTesti a tutti. Roberto Murgia
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Indice
Testi
Il mondo dell’ebook
Rubriche
05-13 Racconto Il pavimento di pietra di Tim Parks
34-38 Ebook da mettere sotto l’albero di Daniela De Pasquale
14-21 Saggio Il viaggio come scrittura, la scrittura come viaggio di Giuseppe De Marco
39-42 Tablet ed eReader i regali perfetti, parola di Babbo Natale di Roberto Dessì
43-45 Buona la prima Tito Lucrezio Caro “De rerum natura” di Fabio Fumagalli
22-26 Racconto Madame Dora di Bruno Arpaia 27-33 Racconto Lampare spente di Andrea Molesini
46-49 Sulla punta della lingua L’Università nella tempesta delle lingue di Francesco Sabatini 50-52 Anima del mondo Il nostro agente a Panama di Francesco Baucia 53-58 Alta cucina Il jazz a tavola di Luca Bisin 59 Recensioni 60 Appuntamenti 61 Tweets / Bookbugs
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Racconto
IL PAVIMENTO DI PIETRA di Tim Parks
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A
rrivavano tutti e tre in modi disembrava impolverato sotto la luce al neon. versi e la cosa migliore era veMark portò il caffè sulla soglia. Fuori tirava dersi al bar del museo. Il tempo vento. I pochi fumatori erano tutti ammassarebbe passato prima in caso di sati. Dopo un attimo di esitazione, uscì; mise ritardi. Come quello assai probabile di Tereil caffè su un tavolino e tornò dentro a prensa, che veniva da più lontano. Mark si era dere il computer. Uscendo gli volò il tovaportato dietro il laptop. Dopo quindici anni gliolino. Mark si chiuse l’ultimo bottone del non era sicuro di riconoscere Joe. Davvero cappotto e lo sentì tirare. Gli si stava ingrosera passato così tanto? O di più? Joe era stasando il collo. Poi aprì lo schermo per metto un amico di Teresa. Mark diede un rapitersi al lavoro. Ora toccava a Joe riconoscere do sguardo ai tavolini all’esterno, poi entrò. lui, sempre che Teresa non lo precedesse. Il bar era pieno e scalcinato. Mark ebbe l’imEsaminando quello che aveva scritto, renpressione che gli avventori occupassero i tadendosi conto che non andava bene e che volini molto più del tempo necessario a conle scadenze incombevano, Mark si chiese sumare bevande e spuntini. Molti leggevano perché avesse acconsentito a prendere quel il giornale. Nonostanpermesso. Di norte il caldo, avevano ma la moglie doveErano loro stessi tenuto quasi tutti il va escogitare un’ocun’istituzione, due coetanei cappotto. Le vetrine casione speciale per in coppia da decenni: una creare uno di quei erano appannate. Si accorse subito che la squadra. Ma era sempre con “momenti di coppia” moglie non c’era – di un sospiro di sollievo che come li chiamava lui, solito avvertiva la sua una ricorrenza o una Mark la riaccompagnava presenza prima ancoriunione di famiglia alla stazione. ra di vederla – e solin Cornovaglia; altritanto un uomo richiementi era lui a invise una seconda occhiata, un prete vestito di tarla a Londra per qualche cena istituzionale nero. Ma difficilmente Joe si sarebbe presenche richiedeva una compagna all’altezza. In tato con la tonaca. Non l’aveva mai fatto. Il quei casi se la cavavano discretamente. Eraprete seduto nell’angolo, di fronte alla vetrino loro stessi un’istituzione, due coetanei na, aveva gli stessi capelli, neri e lucidi, ma in coppia da decenni: una squadra. Ma era uno sguardo più ravvicinato rivelò che era sempre con un sospiro di sollievo che Mark troppo giovane. Joe non avrebbe più avuto la riaccompagnava alla stazione. Mi presto a i capelli così. Sarebbero stati sale e pepe orfare cose che non voglio, decise, perché detemai, o magari era calvo. Il tempo volava. sto deludere le persone. Di sicuro non aveva Mark si prese un caffè, trovò un tavolino e nessuna voglia di rivedere Joe né di visitasfilò il laptop dalla borsa, poi si alzò di nuore la mostra; Joe avrebbe risvegliato ricordi vo. Dentro non si stava male, ma lui era a molesti e le rassegne d’arte erano sempre sodisagio. Il donnone di fronte alle prese con il pravvalutate. Mark si stava ancora sforzanSudoku, i due della giovane coppia sulla sinido di concentrarsi sulla sua relazione quanstra concentrati ognuno sul suo eBook, gli dado una voce lo salutò. vano sui nervi. Il “Financial Times” del prete Ma non la voce di Joe. Era Richard Shields,
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con il quale anni prima Mark giocava a va chiesto a Joe il suo numero di telefono. squash. “Abbiamo il nuovo ufficio qui a “Non ha voluto darmelo. Ha detto che era Hendry Place,” disse l’uomo alto di statura. la sua ragazza. Sono tornato in camera e, Giocavano duro, malmenando la palla come guarda un po’, dieci minuti dopo mi telefose ne andasse della loro vita; poi al pub parna Teresa. Dove hai preso il numero? le ho lavano delle loro amanti fino all’orario di chiesto. A quanto pare gliel’aveva dato Joe.” chiusura. Mark rise. “A lei non poteva mica dire che Come per un riflesso nostalgico, Richard ero il suo ragazzo.” chiese subito a Mark se avesse tempo per un Risero tutti e due. bicchiere e Mark, che sarebbe stato contenPoi Richard chiese: “E c’era qualcosa fra tissimo di trascorrere la pausa pranzo a bere loro?” con Richard, spiegò che stava aspettando la Mark esitò. “Lo sai che non ci ho mai pensamoglie e un loro vecchio to? Io e Teresa siamo finiti amico che viveva all’ea letto quella sera stessa; la stero. Volevano vedere la settimana dopo già vivemostra: Augustus e Gwen vamo insieme. Sono semJohn. pre stato uno che vive nel “Ancora insieme?” Ripresente. Quello che conta chard inarcò un sopracciè l’immediato.” glio. “Cioè se te la danno o no,” “I John sono morti da deRichard fece un gran sorricenni.” so. “Tu e Teresa, scemo.” “Esatto!” Mark sorrise. “Scontiamo Era simpatico, pensò Mark, i nostri peccati. Lei adora anche se un po’ inquietanla casa sulla costa. Io sono te, ricordare che lui e Terequi a Londra.” sa se l’erano spassata all’iGwen John, A Corner of the Artist’s “Sempre il solito donnaionizio. Ma per quanto ancoRoom in Paris (1907) lo,” disse Richard scuotenra poteva misurare la vita do la testa. in base al fatto che gliela dessero o meno? Mark sospirò. Il tempo stringeva. Stava per chiedere a Ri“E l’altro?” chard cosa combinava lui in quel periodo “Joe? Ti sembrerà incredibile, ma è lui che ci quando si accorsero in contemporanea della ha fatti conoscere.” presenza di un terzo. Mark si lanciò in un aneddoto che ave“Mark Wilson?” va già raccontato mille volte. Trent’anni Mark ebbe un attimo di esitazione. L’uomo prima, passando di corsa al bar dell’uniche si era avvicinato al tavolino aveva i baffi versità, si era fermato a scambiare due pain meno e un paio di occhiali in più. La mezrole con Joe, uno studente irlandese che za età anziché riempirlo sembrava averlo viveva nel suo stesso dormitorio. Questo smagrito e i capelli, scompigliati dal vento a Bristol. La ragazza accanto a Joe gli avelondinese, erano folti e neri da fare invidia. va fatto gli occhi dolci e dopo Mark aveAveva una tracolla di cuoio e l’aria virile. 7
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“Joey!” Mark si alzò e si diedero la mano dai pegnativo. Arrivò Teresa, insolitamente in capi opposti del tavolino. Mark si stupì per forma ed elegante. La moglie di Mark era l’intensità della propria emozione; lo travoluna bella donna. Ma, neanche a dirlo, detese come un’onda. Dopo tanti anni! Joey! Postava Richard. Per un istante rimase spiaztendo l’avrebbe anche abbracciato. Ma c’ezata. “Joey!” urlò. Erano ancora in piedi inra il tavolino di mezzo. Il laptop era ancora torno al tavolino esterno, al vento gelido. aperto. Abbracciò il vecchio amico, tirandoselo al “Devo proprio andare,” disse Richard, ma seno e trattenendolo a lungo. “Joey!” ripeté, Mark insistette per fare le presentazioni. Si lanciando però sguardi interrogativi a Mark sentiva animato e affabile, le remore iniziada sopra la sua spalla. Si era messa rossetto li ormai superate. Richard era un guru del e eyeliner, che le davano come un’aria di framarketing, disse, originario di Sydney. Olgilità. La verità era che Mark non aveva mai tre che un giocatore di squash provetto. Joe, capito niente della moglie. Non sapeva deciex residente a Dublino ora di stanza a New frarla. Rivolgendosi a Richard, Teresa chiese York, era un prete gesuita. di punto in bianco: “Come sta Sarah?” “Però,” esclamò Richard tendendogli la Richard si dimostrò un signore. “Le ragazze mano. “Un vero gesuita irlandese.” mi dicono che sta bene,” fece con un sorriso. Ma Joe aveva comin“In effetti è un po’ che ciato a sorridere. Il non ci vediamo.” Tor“Mi spiace deludervi,” viso aveva una sicunò a spiegare che il disse, “ma sono un paio rezza seducente. Il suo ufficio era lì a due d’anni che sono uscito sorriso si allargò. “Mi passi; aveva incontradal sacerdozio.” spiace deludervi,” to Mark per caso. disse, “ma sono un Teresa entrò a prendepaio d’anni che sono uscito dal sacerdozio.” re caffè e brioche per lei e Joey. Vedendo l’o“Oddio!” stilità fra la moglie e il vecchio amico, Mark “Non credevo che vi lasciassero uscire,” disprovò quel miscuglio ben noto di inquietuse Richard ridendo. dine ed esaltazione, come se l’avessero col“Vi dirò di più: mi sono sposato.” to in flagrante, ma con il coltello dalla parte “Cristo santo, Joey!” del manico. Teresa era sempre stata convinta Il sorriso di Joe divenne una risata. Ci stava che il marito si fosse lasciato traviare dall’inprendendo gusto a comunicare le sue notifluenza negativa di Richard. Che fosse un zie clamorose. “Aspettate, però, manca la cipappagallo. Eppure bastava la sola presenza liegina sulla torta,” disse. “Pronti?” L’accendi Richard, pensò Mark, a renderla vulnerato dublinese era rimasto inalterato. “Con un bile, quasi le ricordasse con quanta facilità uomo.” finiscono le cose. Vedendo che gli altri non collegavano subiRichard strinse la mano a Joe ridendo: “Tu to, lo disse chiaro e tondo. “Mi sono sposato sì che sai entrare in quarta in un discorso!” con un uomo.” Ora, però, doveva proprio andare, disse. Mark scorgeva ancora le spalle del vecchio Tutto sommato, allora, l’incontro si prospetamico muovere risolute verso l’angolo con tava più interessante del previsto. E più imHendry Street quando Teresa tornò con brio8
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che e cappuccini. Stasera lo chiamo, pensò. altri. Vi ricordate Tom e Marcia? Avere un Almeno il piacere di farsi una lunga chiacpartner, crescere figli.” chierata, visto che non potevano più giocare “E noi abbiamo pensato a te,” gli assicurò a squash. Teresa. “Non ti ci vedevo come prete, proTeresa fu entusiasta delle novità di Joe. Fin prio non ci riuscivo.” troppo. Batté le mani, lo abbracciò di nuovo Al vento gelido, i piedi e le dita ormai freddi, e disse di aver semMark guardò la mopre trovato strano che glie diventare sempre Batté le mani, lo abbracciò fosse scappato in sepiù animata e istriodi nuovo e disse di aver minario subito dopo nica. “Non ci posso sempre trovato strano che credere,” continuava aver fatto conoscere lei e Mark. “Nean- fosse scappato in seminario a ripetere battendo le che fosse tutta colpa mani, “hai avuto un subito dopo aver fatto mia!” Joey raccontò bel coraggio a fare coconoscere lei e Mark di aver capito subito, ming out con le autoprima ancora di prenrità ecclesiastiche. Dio dere i voti, che era gay. Anzi, aveva scoperto santo! Dev’essere come evadere di prigione. il sesso proprio in seminario. “Non crediate Ti sentirai liberato.” Disse che voleva sapeche sia poi così raro!” Ma poi aveva vissuto re tutto del nuovo maritino. “Ce l’hai una negando la verità, per un tempo infinito; gli foto?” sembrava impossibile ammetterla. La maMark chiuse il computer e propose di entradre sarebbe morta per la vergogna. re a vedere la mostra. Era un sollievo, pensò, “Non potete sapere quante volte ho pensato che i riflettori di quell’incontro fossero puna voi due,” disse con un gran sorriso. “E agli tati su Joe anziché su loro. Ma le effusioni
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della moglie lo infastidivano; parlava come se volesse accogliere il vecchio amico nel novero di quelli che possono permettersi di essere onesti riguardo alla propria vita. Davvero considerava il loro matrimonio moribondo in quei termini? Mark ripensò alle serate con Richard e alla folle euforia di quando si raccontavano le loro tresche. Ufficialmente avevano smesso di giocare a squash dopo che Mark si era leso un legamento. Avrebbe zoppicato per mesi. Ma il motivo vero, lo sapevano tutti e due, era stata la decisione di Richard di separarsi. La vita entrava in una nuova fase e le conversazioni del passato non avevano più nessun senso. “Sembri preoccupato,” disse Joe mentre si alzavano. “Sono indietro con una relazione per il consiglio di amministrazione di venerdì.” “Qual è l’argomento?” “Perché non abbiamo previsto la crisi,” disse Mark con un sorriso amaro. “O meglio: perché abbiamo perso qualche miliardo dei nostri clienti.” “Mark è fissato col lavoro, è difficile prendere un appuntamento con lui,” disse Teresa in tono spensierato. “Anche per la sua mogliettina. Vero, amore?” Joe aveva studiato storia dell’arte all’università. Presi gli ordini era diventato professore di arte religiosa e ora insegnava alla Columbia. Era naturale che trovandosi a Londra per pochi giorni volesse vedere quante più mostre possibile. Poi Gwen John si era convertita, dopo che l’amante Rodin l’aveva mollata, disse; era diventata cattolica e si era fatta strada dipingendo suore. L’ex prete fece una risatina. Aveva ritratto più volte la madre superiora in cambio di vitto e alloggio in un convento di Parigi. Secondo certi era lesbica. Né Mark né Teresa sapevano niente di Gwen 10
John, a parte il fatto che era la sorella di Augustus John, ma a Mark la risatina dell’ex prete non era certo piaciuta. Joe sembrava anche troppo soddisfatto di sé e dei cambiamenti avvenuti nella sua vita. Mentre salivano le scale che dall’ingresso portavano alle sale della mostra, Teresa prese il marito da parte e gli confidò sottovoce di essere preoccupata per Marina, la loro seconda figlia, che l’aveva chiamata giusto quella mattina con una voce tristissima e che senz’altro veniva maltrattata dal fidanzato; Mark, disse, doveva assolutamente assicurarle che a Islington c’era sempre un divano pronto ad accoglierla. “Non deve pensare che non ha un posto dove andare,” insistette Teresa. “Temo che quel tipo possa farle davvero del male. Dille che può stare da te.” Abbassando ulteriormente la voce, aggiunse: “E poi non credo neanche per un attimo che Joe è un vero gay. Che ne dici?” Arrivati ai pannelli informativi dei primi dipinti, Teresa prese Joe sottobraccio e lui le raccontò quello che sapeva sulla vocazione religiosa di Gwen John e su come ne avesse influenzato l’opera. Guardandoli l’uno accanto all’altra vicino alla prima tela, Mark pensò che formavano una bella coppia. A lei i pantaloni neri con la piega davano un bel piglio. Aveva fatto bene a tagliare i capelli corti ora che cominciavano a ingrigire. Joe era robusto senza essere corpulento. Gli occhi scuri comunicavano un piacere quasi infantile per la vita. Dimostravano tutti e due molto meno di cinquant’anni. La mostra combinava i ritratti sgargianti che Augustus John aveva fatto ad amici famosi, amanti, bambini e accampamenti di zingari, con le tele scolorite di Gwen John dove le donne pallide e solitarie sbiadivano negli sfondi pastello. Passando da un artista all’altra, l’evolversi della loro pittura dava
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l’idea che le uniche alternative nella vita fossero un’allegria superficiale e carnosa o uno struggimento spettrale. Joe ridacchiava e chiacchierava con Teresa – i dipinti di Gwen, spiegava, contenevano astuti rimandi a Piero della Francesca – mentre Mark si teneva un po’ indietro. Aveva fatto quattro figli con quella donna, pensò, e tutto sommato li avevano tirati su piuttosto bene, eppure c’era molta più alchimia tra lei e l’ex prete gay che fra loro due. Ridendo e abbandonandosi ai ricordi, Joe e Teresa sembravano vivaci, effervescenti – un passante li avrebbe scambiati per una simpatica coppia che festeggiava l’anniversario di matrimonio. Eppure c’era sempre un che di fragile nell’espansività di Teresa, pensò Mark. Perché aveva insistito sul fatto che Joe non era un ‘vero gay’? Perché non dirglielo direttamente, se ne era così convinta? Il mondo non doveva mai cambiare, ecco perché. Era per questo forse che loro non erano riusciti a prevedere la crisi? Il mondo non deve mai cambiare. Pieno di presentimenti, Mark si fermò davanti a una suora pallida che teneva le mani poggiate su un grosso libro chiuso sopra un tavolo. L’unica cosa del quadro che non sembrasse in pericolo di dissolversi in mestizia era quel libro. Aveva uno strano color ocra. Una Bibbia? Dopo che Rodin l’aveva lasciata, diceva intanto Joe, Gwen aveva dipinto unicamente suore, gatti e sedie vuote, mentre l’indomito fratello Augustus proseguiva il suo ménage a trois con la moglie e l’amante facendo figli a non finire con tutt’e due. “Porco egoista!” disse Teresa ridendo. Un attimo dopo si avvicinò a Mark e bisbigliò: “Essere gay è un’altra scappatoia, come il celibato. Per evitare ogni responsabilità”. Questo, Mark ne era sicuro, per farlo ripensare a Marina. Uno dei detti preferiti di Teresa era che non si finisce mai di essere genitori. 11
Era anche vero che se Marina fosse andata a stare da Mark a Islington, lui non avrebbe saputo dove portare Connie. E Connie era la sua ultima occasione. Ne era convinto. Ma intanto Teresa aveva ripreso Joe sottobraccio. Erano davanti a un quadro di sobria eleganza che raffigurava una semplice sedia di vimini vicino a una finestra aperta. Mark li raggiunse e per qualche istante i tre rimasero in silenzio a guardare la sedia vuota e un abito femminile azzurro abbandonato su un bracciolo. Un quarto d’ora dopo, quando la moglie andò in bagno, Mark chiese a Joe come fosse giunto alla decisione cruciale. Dopo tanti anni in seno alla Chiesa, a dire messa, predicare, confessarsi, studiare arte religiosa, che cosa gli aveva dato finalmente la scossa, e come si era difeso dagli attacchi dopo? “Ci sarà stata una reazione anche violenta, immagino. È stato conoscere il futuro marito che ti ha spronato?” “Ma figurati,” rispose Joe. Nigel non lo conosceva ancora. Aveva avuto una relazione tormentata con un prete più giovane che si era conclusa un paio d’anni prima. Si imbronciò. In realtà era stata la salute a decidere per lui. Stanchezza cronica, dolori intestinali cronici, insonnia cronica. Mesi e mesi senza chiudere occhio. O così gli era sembrato. Una notte si era messo in ginocchio, sul pavimento di pietra, e aveva pregato fino all’alba. O meglio, finché non aveva sentito irrompere nei pensieri una voce perentoria che diceva: “Vattene, Joseph! Prima che ti uccida. Vestiti e vattene!” “Una voce?” Erano davanti a uno dei quadri con i gatti. Macchie nere a malapena definibili come felini addormentati su un morbido divano grigio. “Sì, una voce vera, molto forte. Così, alme-
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no, mi è parso. Mi ci sono volute un altro sperienza paranormale era importante per paio di settimane insonni ma alla fine ho fatlui, si capiva che sarebbe andato avanti a to come diceva e me ne sono andato. Quanraccontarla per anni. Rifece l’elenco dei sinto al putiferio che si è scatenato dopo, l’ho tomi fisici avuti prima di armarsi di coraggio ignorato. Non ho parlato con nessuno. Me ne e sciogliere i voti, abbandonando la vocaziosono andato e basta. Se mi ne di una vita: la stitichezmandavano lettere sgradeza, il sogno ricorrente in voli, non le leggevo.” cui cercava di attraversare Mark trovava la cosa affaun campo di fango, il forscinante. “Ma dovevi pur te senso di soffocamento, avere qualche buon amii mal di testa, i mesi d’inco.” sopportabile insonnia, poi, “Certo.” alla fine, la lunga notte di “E non ne hai sentito la fervore religioso sul pavimancanza?” mento di pietra e, verso Joe sorrise. “Per niente. l’alba, quella voce impeUna notte si era messo Era un tale sollievo non riosa: “Vattene, Joe, vestiin ginocchio, sul stare più lì dentro, non ti ed esci da qui. Vai!” pavimento di pietra, vestirmi più da prete. Vi“Incredibile,” concordò vevo una grande bugia.” e aveva pregato fino Teresa. “Già.” A Mark quell’eMentre l’ex prete parlaall’alba. O meglio, spressione aveva sempre va, aggiungendo partifinché non aveva dato fastidio. “Qualcucolari su particolari, poi sentito irrompere nei no di loro si sarà sentito meravigliandosi di aver pensieri una voce tradito, però, e anche di conosciuto Nigel soltanbrutto.” to pochi giorni, ebbene sì, perentoria. “Di sicuro,” Joe sorrise di pochissimi giorni dopo nuovo. “Di sicuro. Ma sono affari loro. Senessere fuggito dalla sorella – la madre era tivo il tempo fuggire. Dovevo agire subito.” morta l’anno prima – Mark, che intanto si “E secondo te la voce era quella di Dio?” era allontanato di nuovo dagli altri, si acJoe si strinse nelle spalle. “Stavo pregando corse che i quadri con i gatti addormentati e Dio. Chi lo sa.” quelli delle suore sbiadite erano in un certo “Sei ancora credente, allora?” senso uguali. Erano immagini di invulnera“Non proprio, o comunque non come lo inbilità, le suore perché avevano deciso di ritende la Chiesa. Ma è successo davvero. Altirarsi dal mondo, non potevi più toccarle, i trimenti non me ne sarei mai andato.” gatti perché i gatti vivono solo per se stessi. “Che cosa?” Erano immagini del desiderio di sottrarsi Era tornata Teresa. Stavolta poggiò il braccio alle grosse decisioni, di sottrarsi al dolore, sulla spalla del marito. Era il primo contatto ma anche alla crudeltà. Avere il coltello dalla fisico da diverso tempo. parte del manico non basta, aveva osservato Joe le spiegò di che cosa stavano parlando. una volta Richard poco dopo aver lasciato Con qualche belluria. Era chiaro che quell’eSarah, devi anche usarlo. 12
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A chiudere la mostra c’era un Augustus John che raffigurava due donne e sei bambini sulla spiaggia. La didascalia spiegava chi fossero. Teresa scosse la testa. “Come avrà convinto quella poveretta di sua moglie ad accettare?” Rise come se fosse una grande sciocchezza. “Io mi chiedevo cosa ci guadagnasse l’amante,” disse Mark. Tutt’a un tratto gli venne la nausea. “Voglio invitarvi a pranzo,” diceva intanto Joe, mentre si dirigevano verso l’uscita. “Dovremmo festeggiare la mia rinascita. E i vecchi tempi. Andiamo in un posto carino. È stupendo essere di nuovo a Londra.” Mark disse che gli sarebbe piaciuto molto ma aveva davvero troppo da fare. Il consiglio di amministrazione si aspettava una serie di proposte da mettere subito in atto. “Perché voi due non mangiate da soli?” Gli serviva subito il bagno. “Eh dai, Mark, per favore,” si lamentò Teresa. “Non fare il guastafeste. Joey non è mica
qui tutti i giorni. Dobbiamo ancora raccontagli dei figli, e lui non ci ha ancora fatto vedere le foto del suo amico.” Un calore triste le saturava la voce. “Rimani,” insistette Joe. “In effetti ho un paio di domande da farti sugli investimenti. Io e Nigel dobbiamo pur piazzare il denaro da qualche parte.” Mark corse in bagno ma non vomitò. Né sentì una voce. Seduto sulla tazza telefonò a Connie e le disse che avrebbe fatto tardi. Le disse che l’amava. Più tardi, mentre facevano le ordinazioni e Teresa raccontava di fidanzati, fidanzate e lavoro dei loro figli, il potente banchiere decise di prendere comunque la storia di Joe come un buon auspicio. Forse si trattava solo di trovare un pavimento di pietra dove inginocchiarsi. Traduzione di Giovanna Granato
Tim Parks Nato a Manchester nel 1954, Tim Parks abita in Italia da più di trent’anni. Romanziere e professore di lingue all’Università IULM di Milano, scrive regolarmente per la “New York Review of Books” e “Il Sole 24 Ore”. Ha tradotto opere di Moravia, Tabucchi, Calvino, Calasso e Machiavelli ed è autore di vari saggi che esplorano le curiosità della vita italiana: Italiani (Bompiani 1995), Un’educazione italiana (Bompiani 1996) e Questa pazza fede (Einaudi 2002). Le sue più recenti pubblicazioni in Italia sono il romanzo Sogni di fiumi e di mari (Mondadori 2011, disponibile in ebook da Cubolibri), e il saggio Insegnaci la quiete (Mondadori 2010), che esamina il rapporto mente-corpo. Nel 2013 Bompiani pubblicherà il suo nuovo romanzo: Il sesso è vietato. Disponibile su www. cubolibri.it
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Saggio
IL VIAGGIO COME SCRITTURA, LA SCRITTURA COME VIAGGIO DAL PALINURO DI UNGARETTI ALLA VENEZIA DI ZANZOTTO
di Giuseppe De Marco
I
l tema del viaggio, correlato a quelli dell’esilio, della conoscenza, della scoperta, ecc., è sicuramente tra i più intriganti dell’universo letterario di ogni latitudine, protagonista di mille pagine famose, dall’esodo del popolo eletto nella Bibbia al peregrinare dell’Enea virgiliano, dal “folle volo” dell’Ulisse dantesco fino a più recenti declinazioni, italiane e straniere. Antichissimo è il binomio “parola”-“viaggio”; il rapporto simbiotico e la fitta trama di corrispondenze metaforiche ed interrelazioni tra i due sostantivi, che è una costante di gran parte della letteratura universale, sono stati accuratamente analizzati.1 Il viaggio quale topos letterario riveste anche un grande significato antropologico; dal nostos omerico fino all’esotismo del traveller che si muove nella globalizzazione contemporanea, la “categoria” di viaggio, dalla valenza di approccio con il diverso, perviene anche al riconoscimento dello status di artista, identificandosi totalmente con esso. Nella correlazione fra il viaggio come esperienza concreta del movimento nello spazio e la narrazione di questa esperienza, il baricentro non gravita sul
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viaggio, bensì sul suo racconto; nel caso dei testi letterarî sulla sua scrittura. A rigore, componente indissolubile dell’esperienza del viaggio è proprio “la modalità del raccontarlo”, in quanto si tratta di un processo specificamente mentale e intellettuale che attua ulteriori spostamenti e metamorfosi, consentendo di tradurre “l’altrove fisico in una narrazione”.2 Indicazioni illuminanti in proposito provengono dalla lezione autorevole di Fernando Savater, soprattutto per quel che concerne la mirabile sapienza dell’arte di raccontare viaggi e storie: Il narratore di storie è sempre appena tornato da un lungo viaggio, durante il quale ha conosciuto le meraviglie e il terrore […]. Ma il viaggio non ha consentito sempre al viaggiatore di essere protagonista dell’avventura; spesso si è dovuto accontentare di ascoltarne le peripezie per bocca altrui, seduto davanti ad una pinta di birra in una taverna gremita di gente e di fumo o attento al mormorio convulso delle labbra del moribondo, i cui occhi iniziano a familiarizzare con i fantasmi.3
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Tra gli studî più significativi si segnalano: AA. VV., Il viaggio e la scrittura, a cura di P. Nerozzi e V. Matera, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2001; S. SGAVICCHIA, Scrivere il viaggio: cronache, memorie, invenzioni, in AA. VV., Storia generale della Letteratura Italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Motta-L’Espresso, 2004, vol. XVI, pp. 498-514; AA. VV., Il viaggio nella letteratura occidentale tra mito e simbolo, Atti del Convegno Internazionale, Napoli 19-20 maggio 2004, a cura di A. Gargano e M. Squillante, Napoli, Liguori, 2005; P. FASANO, Letteratura e viaggio [1999], Roma-Bari, Laterza, 20064; G. DE MARCO, Le icone della lontananza. Carte di esilio e viaggi di carta, cit.; L. MARFÈ, Oltre la ‘fine dei viaggi’. I resoconti dell’altrove nella letteratura contemporanea, Premessa di M. Bossi, Prefazione di F. Marenco, Firenze, Olschki, 2009; E. GUAGNINI, Il viaggio, lo sguardo, la scrittura, Trieste, EUT, 2010; AA. VV., Viaggiare con la scrittura. Tracciati odeporici, letterari e autobiografici, a cura di A. Cavalli, Bologna, ArchetipoLibri, 2011; G. DE MARCO, «Qui la meta è partire». Scritture di viaggio e sguardi di lontano nel Novecento italiano, Venezia, Marsilio, 2012.
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G. R. CARDONA, I viaggi e le scoperte, in AA. VV., Letteratura italiana. Le questioni, dir. da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, vol. V, pp. 687-716, a p. 687.
3
F. SAVATER, L’evasione del narratore, in ID., Pirati e altri avventurieri. L’arte di raccontare storie [2008], trad. di P. Collo, Firenze, Passigli, 2010, pp. 15-42, a p. 15.
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Difatti è la scrittura che conferisce al viaggio uno spessore e una tenacia che travalicano i limiti della soggettività dell’esperienza e della sua fugace estensione nel tempo. Ma è specialmente la scrittura che dà al viaggio una linea e una valenza, in quanto vaglia esclusivamente taluni segmenti entro la sua composita traiettoria e le ristruttura a posteriori in un complesso comunicabile e dotato di senso coeso. Dunque la parola letteraria, grazie alla sua capacità di spaesamento che le consente di percepire l’inconsueto che si dissimula nel quotidiano, assume un ruolo regale, trovando proprio nel viaggio l’humus ideale per sviluppare compiutamente il suo potere straniante. Se l’esperienza del viaggio permette di giungere in contatto con l’ignoto, la scrittura tenta, mediante procedimenti retorici e narrativi, di rappresentare l’inenarrabile. In tale ottica, non è rilevante se sia reale o immaginaria l’esperienza del viaggio: conta invece come si racconta e si dispiega in parole, insomma come il viaggio si trasfigura in scrittura. Lo attesta, come si accennava all’inizio, il serrato scambio metaforico tra i relativi campi semantici del viaggio e della scrittura: la scrittura stessa rùbrica questo viaggio nel tempo interiore del soggetto, si dà come costante e fluente “transizione”, il viaggio si completa all’interno della scrit-
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tura, cosicché è la narrazione stessa a proporsi come itinerario esplorativo. Quindi lo stesso atto dello scrivere, a prescindere dal messaggio che sottende, si costituisce come “percorso”. La scrittura eleva la propria “mobilità”, che coinvolge, trasporta il lettore. Calzante, al riguardo, si rivela una citazione tratta dalla Prefazione a L’infinito viaggiare, dove Claudio Magris illustra l’intimo rapporto che si stabilisce tra viaggio e scrittura: La prefazione è una specie di valigia, un nécessaire, e quest’ultimo fa parte del viaggio; alla partenza, quando ci si mette dentro le poche cose prevedibilmente indispensabili, dimenticando sempre qualcosa d’essenziale; durante il cammino, quando si raccoglie ciò che si vuole portare a casa; al ritorno, quando si apre il bagaglio e non si trovano le cose che erano sembrate più importanti, mentre saltano fuori oggetti che non ci si ricorda di aver messo dentro. Così accade con la scrittura; qualcosa che, mentre si viaggiava e si viveva, pareva fondamentale è svanito, sulla carta non c’è più, mentre prende imperiosamente forma e si impone come essenziale qualcosa che nella vita – nel viaggio della vita – avevamo appena notato.4
C. MAGRIS, Prefazione a L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2005, pp. VII-XXVIII, a p. VII. Inoltre, lo scrittore, sempre nella stessa pagina, scrive tra l’altro che, se «il prologo si addice a una raccolta di pagine di viaggio», è «perché il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo; partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo» (ibid.).
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Giuseppe Ungaretti
Il rilievo di Magris è, altresì, utile a ridefinire le idee di “frontiera” e di “identità”: Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte […]. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. 5
Ma chi è l’altro, dunque, e per chi? Sembra chiedersi l’autore. In un libro precedente, Magris aveva rilevato che “ciascuno può essere l’Altro”, aggiungendo che “la letteratura, fra le altre cose, è pure un viaggio alla ricerca di sfatare questo mito dell’altra
parte, per comprendere che ognuno si trova ora di qua ora di là”.6 Inoltre, è soltanto l’esperienza della scrittura che consente di rendere conto della totalità dei sensi – come a ragione sostiene Michel Onfray –, in quanto “gli altri supporti soffrono di indigenza nei confronti dei rivali: l’acquarello, il disegno, la foto afferrano il reale in una delle sue modalità (il colore, la linea, il tratto, il disegno, l’immagine) ma mai nell’interezza”.7 Difatti, puntualizza poco oltre il filosofo, “solo il verbo circoscrive i cinque sensi, e oltre. Il tragitto conduce le cose alle parole, la vita al testo, il viaggio al verbo, il sé al sé. Nell’operazione che porta dall’universo infinito alla sua formula puntualmente e momentaneamente compiuta, si sintetizzano dei frammenti di memoria trasfigurati in ricordi scintillanti”.8 Il viaggio si declina, così, in ritualità dalle numerose e differenti dinamiche, mai identico a se stesso e l’occhio metaforico del viaggiatore-scrittore assume i più varî connotati per la letteratura. Alla luce di queste considerazioni, si procederà qui per esemplarî campionature novecentesche, poiché l’analisi richiederebbe spazî ed esemplificazioni che esulano dall’economia di queste pagine; ci si limiterà, pertanto, ad un agile tracciato: dal Palinuro di Ungaretti alla Venezia di Zanzotto. L’esperienza straordinaria condotta da Giuseppe Ungaretti viaggiatore nel Cilento nel 1932 si colloca al punto d’incrocio delle
Ibid., p. XIII.
5
ID., Utopia e disincanto, Milano, Mondadori, 1999, p. 52.
6
M. ONFRAY, Cristallizzare una versione, in ID., Filosofia del viaggio. Poetica della geografia [2007], trad. it. di L. TONI, Milano, Ponte alle Grazie, 2010, pp. 97-102, a p. 102.
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Ibid.
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due coordinate del “sentimento” del “classico” e del “girovago”, dove fonti letterarie ed esperienze dirette del viaggio cilentano si fondono inestricabilmente. Attraverso la rievocazione del viaggio temporale – esistenziale e culturale – del poeta e la sua esplorazione dei luoghi e della realtà di alcune aree geografiche (Elea, Palinuro, Paestum) viene ad intersecarsi, germogliando, la flessuosa divagazione intellettuale e fantastica dell’“io” narrante. Ed è proprio in virtù del viaggio reale a sud della Campania, nei luoghi del mito virgiliano, che Ungaretti immaginerà ed architetterà quella “Terra promessa”, a lungo vagheggiata e mai attinta, cogliendovi gli spunti per il proseguimento della sua attività creativa, in particolare per il Recitativo di Palinuro,9 modulato sullo spartito virgiliano. La sestina ungarettiana riprende, così, il regale tema del viaggio, rigenerando l’antico topos omerico. Il motivo del viaggio come esilio e ricognizione della patria attraversa, come è noto, tutta l’opera di Ungaretti e affiora sin dall’Allegria. Nella Terra Promessa il tema viene mutato miticamente attraverso le figure di Ulisse e di Enea. Con l’eroe del nostos l’archetipo del viaggio rifiorisce come simbolo della condizione esistenziale del poeta e dell’uomo moderno. Il conclusivo approdo equivale, altresì, all’origine del viaggio, secondo un disegno precisamente
circolare. Viene, quindi, posto in evidenza come il viaggio in Ungaretti, sconfinando il dato reale, costituisca di per sé un aspetto peculiare del suo nomadismo, che è “categoria astratta”, dimensione della mente, condizione della poesia. Forme e motivi che riconducono alla “categoria” spirituale e al rilievo mentalistico dell’esilio, strettamente legati alla dimensione del viaggio, si individuano, attraverso la lettura di alcune scaglie tematicometoforiche,10 nella scrittura caproniana; in particolare nel Congedo del viaggiatore cerimonioso. Oltre alla poesia, Caproni ha scritto pagine di frammenti di diario11 risalenti agli anni 1948-1949, con particolare riguardo ad un viaggio in Polonia, in occasione del Congresso mondiale degli intellettuali per la pace, che si svolse a Wroclaw (Breslavia) dove si riunirono i più prestigiosi nomi dello schieramento intellettuale di sinistra. Inoltre, in questi Frammenti di diario viene rilevato come il tratto distintivo della Genova caproniana sia la “verticalità” e come la centralità di Livorno, riannodata agli anni d’infanzia del poeta, costituisca il passaggio obbligato di una tappa memorabile, riaffiorante, significativamente, nel corso della sua scrittura. Anche Mario Luzi ci ha lasciato prose di viaggio, raccolte in Trame12 – un volume del 1963, ripubblicato nel 1982 – dove si giun-
Sia consentito di rinviare a G. DE MARCO, Il sorriso di Palinuro. Il visibile parlare nell’invisibile viaggiare, Roma, Studium, 2010; ID., In viaggio con Ungaretti alla ricerca del «piloto vinto». Il «Recitativo di Palinuro», in «Strumenti Critici», n.s., XXVII, 128, 1, 2012, pp. 121-140.
9
G. DE MARCO, Scaglie tematico-metaforiche in Caproni: l’esilio, il viaggio, in «Studi Novecenteschi», XXXV, 76, 2, 2008, pp. 505-521.
10 11
G. CAPRONI, Frammenti di un diario (1948-1949), a cura di F. Nicolao, con una Nota di R. Debenedetti, Introduzione di L. Surdich, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1995; cfr. G. De Marco, Il viaggio attraverso i «Frammenti di un diario» di Giorgio Caproni, in «Critica Letteraria», XXXIX, 153, 4, 2011, pp. 652-669. M. LUZI, Trame [1963], Milano, Rizzoli, 1982.
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ge all’elaborazione di una poetica del paesaggio e del viaggio, culminante nel poema sinfonico Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini del 1994. Procedendo per luoghi distinti – Firenze, Venezia, Viterbo e le relative suggestioni cromatiche e figurative da esse suscitate – in Trame si coglie la centralità dell’immagine di Siena nel repertorio simbolico del Luzi tardo, attraverso il mutare delle attitudini del poeta alla disposizione del paesaggio e alla sua resa verbale. Recentemente sono state riproposte le prose che Alfonso Gatto scrisse in occasione di un viaggio svolto nel 1949 in varie regioni del nord Italia per conto del quotidiano “l’Unità”.13 Ispirati alle cronache del “Giro d’Italia”, i testi si presentano come un percorso attraverso paesi e province, in anni poveri, tormentati, per un’Italia che provava a inventarsi un nuovo destino. L’itinerario compiuto da Gatto risponde anche alla “categoria” del “viaggio di ricerca”, con ricezione profonda e culturale dell’esperienza; un viaggio oggi controcorrente, perché lento, ma sospeso sulla soglia della luce e della “rinascita”. Un’opera pasoliniana poco nota e indagata è La lunga strada di sabbia. I testi che la compongono risalgono all’estate 1959, allorché Pasolini intraprese un viaggio lungo le coste della nostra Penisola per raccontare le
vacanze degli Italiani. L’avventura del viaggio (da giugno ad agosto), a bordo della Fiat Millecento dello scrittore, viene condotta in compagnia del fotografo Paolo di Paolo. L’iter corrisponde, a grandi linee, a tre aree geografiche: la prima dal confine tra Francia e Italia a Fregene; la seconda da Ostia a un “paesetto miserando” denominato Porto Palo, sotto Pachino (Siracusa); la terza ed ultima da Reggio Calabria a Taranto, quindi Santa Maria di Leuca per risalire a Trieste. I resoconti di questa esperienza videro la luce in tre puntate sul mensile “Successo” diretto da Arturo Tofanelli (4 luglio, 14 agosto e 5 settembre 1959).14 Dal percorso emergono realtà e miraggi di luoghi celebri e ignoti, ricchi e miseri, mitici e selvaggi e, con essi, incontri, laconiche conversazioni, opinioni di un Pasolini che, smarrito tra le persone, ascolta i discorsi più o meno frivoli della gente e scruta consuetudini, atteggiamenti, gesti, appunta particolari segni linguistici, paesaggi e popolazioni, tratteggia geografie, individua antagonismi tra Nord e Sud, registra impressioni. Sono, insomma, scene radiose ancora vivaci di una mente che, mediante il ruolo protagonistico dello sguardo, mirava a leggere realtà e trasformazione, l’evoluzione di un presente il cui ottenebramento sembrava vanificare eventi gravidi di passato e di conflitti an-
A. GATTO, Viaggio per l’Italia all’insegna dell’«Unità», a cura di R. Vetrugno, Presentazione di M. A. Grignani, Novara, Interlinea, 2011.
13
I testi sono stati parzialmente riproposti in P.P. PASOLINI, La lunga strada di sabbia [1959], ID., Tutte le opere, Romanzi e racconti 1946-1961, edizione diretta da W. Siti, a cura dello stesso e S. De Laude, con due saggi di W. Siti, Cronologia a cura di N. Naldini, Milano, A. Mondadori «I Meridiani», vol. 1, to. 1, 1998, pp. 1479-1526; completa invece è l’edizione P.P. PASOLINI, La lunga strada di sabbia, Fotografie di Ph. Séclier, Testo e dattiloscritto, a cura di G. Chiarcossi, Trascrizione dei brani inediti, a cura di G. Tuccini,Roma, Contrasto, 2005.vv
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I testi che compongono La lunga strada di sabbia risalgono all’estate 1959, allorché Pasolini intraprese un viaggio lungo le coste della nostra Penisola per raccontare le vacanze degli Italiani
tropologici. L’occhio di Pasolini non mutò lungo il corso degli anni, né si estenuò la sua perspicacia nello scoprire quali fossero i molti cadaveri nella cassapanca che l’Italia del benessere e del miracolo economico si apprestava ad occultare. In queste pagine di viaggio palpita una trepidazione giuliva, una partecipazione che non cede a remore di compararsi fuori schema con quanto le sta dinanzi, di mitigare voluttà e brame e di elevare uno scalpello stilistico che incalza con esaltazione qualsivoglia particolare. È già in nuce l’occhio del regista di cinema che organizza il tessuto del racconto, impiegando “la lingua della realtà”, per inquadrature ampie e primi piani, senza fallire mai un colpo nel focalizzare l’essenziale e nello scansare decisamente l’accessorio. La lunga strada di sabbia è un fotolibro di viaggio che solca quasi tutte le coste della nostra penisola, con il precipuo intento di
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ritrarre un’Italia spalmata sul mare in balia di un turismo disparato da regione a regione e con tradizioni e folklori ritmati da un tempo che sembra diverso da Nord a Sud. Dal confronto lampante tra la forma di turismo mondano della riviera ligure e quella culturale dei litorali del Sud discende un racconto di una profonda rottura mai cicatrizzata. I villeggianti del Nord, con capelli vistosi, un po’ decadenti, sembrano visitare altri luoghi, scattare altre foto, comunicare in un’altra lingua. Quelli del Sud, sconcertati degli “scugnizzi” napoletani che versano nelle strade chiedendo elemosine, appaiono come non volersi esporre al sole accecante davanti allo stesso mare. In Venezia, forse,15 Andrea Zanzotto, dopo aver individuato eventuali approcci alla città, rileva come sia impresa davvero disagevole pervenire ad una ‘comprensione’ del carattere “inafferrabile” che da sempre ha
ZANZOTTO, Venezia, forse [1976], Sull’Altopiano-Altri luoghi, in ID., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, con due saggi di S. Agosti e F. Bandini, Bibliografia, a cura di V. Abati, Milano, A. Mondadori «I Meridiani», 1999, pp. 1051-1066.
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caratterizzato la città lagunare, in particolare quando si tenta di racchiuderla e immobilizzarla entro l’officina letteraria e, quindi, sul proprio tavolo di lavoro. Proprio per questo suo essere fluente, per il suo moto anguillare, per i suoi elementi di “indecidibilità”, Venezia si offre allo sguardo del viaggiatore come una città indicibile. Dalla lettura del testo zanzottiano emerge una teatrale e vertiginosa girandola di immagini, ricordi, concetti interpretativi e intarsi ver-
bali, in cui si ravvisa la ricerca di un punto di vista (e “di parola”). Così, attraverso le loro opere, gli autori sopra indicati – oggetto di studio di un mio prossimo libro – comunicano un’esperienza dei luoghi legata non alla convenzionalità delle “impressioni” di viaggio, ma alla trasfigurazione della realtà attuata dalla scrittura.
Giuseppe De Marco Giuseppe De Marco (Omignano Scalo – SA), ha orientato i suoi interessi di studi prevalentemente su Dante, sulla Letteratura italiana del Cinquecento (I. Morra, M. Campiglia), del Novecento (Ungaretti, Montale, A. Pozzi, P. Levi, Vittorini, Bassani, Gadda, Piovene, Pasolini, Sereni, Caproni, Luzi, Gatto, Zanzotto, Merini) e sulla Letteratura comparata, con specifico riguardo all’indagine tematico-imagologica (l’“esilio”, il “viaggio”, la “lontananza”, lo “sguardo”), privilegiando l’analisi testuale. Ha collaborato e collabora con autorevoli riviste di italianistica nazionali ed internazionali. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: Caproni poeta dell’antagonismo e altre occasioni esegetiche novecentesche (Il Melangolo 2004); Le icone della lontananza. Carte di esilio e viaggi di carta (Salerno Editrice 2009); Il sorriso di Palinuro. Il visibile parlare nell’invisibile viaggiare di Ungaretti (Studium 2010); “Qui la meta è partire”. Scritture di viaggio e sguardi di lontano nel Novecento italiano (Marsilio 2012).
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Racconto
Pabo Picasso, Dora Maar au chat (1941)
MADAME DORA di Bruno Arpaia
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ra buonissima, Madame Dora. In tutti i sensi. Buona perché, appena seppe che mio padre era un antifascista italiano costretto a rifugiarsi lì a Parigi e che in famiglia faticavamo a mettere insieme il pranzo con la cena, cominciò a invitarmi tutti i giorni a far merenda nel loro studio di rue des Grands-Augustins. E buona perché, anche se qualche anno dopo il signor Pablo l’avrebbe dipinta tutta stortignaccola, col naso che sporgeva a sinistra della faccia e gli occhi appiccicati dove capitava, Madame Dora aveva un culo che fa-
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ceva capoluogo e delle tette che sembravano lavorate al tornio, fatte a mano. Oggi lo posso tranquillamente confessare: ci davo dentro, a volte, pensando a quel suo culo, alla sua mano che mi accarezzava quando mi offriva il latte o il pane col salame. A volte, invece, niente, niente da fare: mi gelava il ricordo del suo sguardo, talmente intenso che ti inceneriva. Avevo tredici anni, allora, e stavo lì a Parigi da quando portavo ancora i pannolini. Venivamo da un piccolo paese della Lunigiana, terra di rossi e anarchici. La mia famiglia, i
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Rosi, era da sempre staAnzi, mi ci scontrai. Gita socialista, perciò mio rato un angolo, le andai padre se l’immaginava a finire addosso. che prima o poi l’avreb“Scusi, mi scusi” le urlai bero arrestato. E infatti, mentre già provavo a rinel Ventotto, gli fecero partire, ma lei mi inchiola posta all’uscita di una dò là con uno sguardo. tipografia che stampa“Che ti è successo?” va manifesti clandestini, Non so cosa mi prese. So ma lui li vide venire su solo che, invece di scapper la salita e se la diede pare, rimasi lì a spiegara gambe sgusciando da glielo. Mi misi pure a una finestrella in fondo piangere, perché il signor al magazzino. Non passò Dubois, se mi prendeva, Il signor Pablo, in più da casa. Tre settimami avrebbe fatto ripagare ne dopo, un suo compamaglietta e calzoncini, il vaso. Lei mi abbracciò, gno consegnò a mia ma- appollaiato su un resto mi strinse forte al petto. dre duecento lire e due di sgabello, guardava e La faccia in quelle tette, biglietti per il treno delle riguardava un disegno io mi dimenticai del vaso nove. e del portiere. enorme, lungo sei “Cambiate a Genova, e “Come ti chiami?” chieo sette metri, che poi ancora a Torino. Atse. si prendeva tutta la tenti alla frontiera.” “Angelo” le risposi. parete Parigi. Dice: la ville lu“Seguimi.” mière. Col cazzo. Noi faE la seguii. Mentre camcevamo solo vita grama. Ci si arrangiava in minavamo, lei mi faceva un mucchio di dotre in una stanza senza cucina e bagno. Lamande, e io le raccontavo tutta la mia vita, voro non ce n’era. Mio padre, qualche giorgli sforzi di mia madre e di mio padre, la nata qua e là da muratore, oppure all’alba scuola che non andava tanto bene. Tutto ai mercati generali a scaricare; mia madre, in pochi minuti, perché arrivammo subito. solo dei lavoretti di cucito. Dopo la scuola, Lo studio, l’atelier, era una stanza enorme, mi davo anch’io da fare: giravo per il cenzeppa di cavalletti, tele, forni per la ceramitro chiedendo a ogni concierge se c’era una ca, attrezzature per la fotografia, giornali e soffitta da sgombrare, una rampa di scale libri abbandonati a terra. Era quasi crudele, da pulire, gli ottoni di un palazzo da passala luce di quel maggio che entrava a fiotti re a lucido. Fu una di quelle volte, mentre dalle grandi vetrate. Il signor Pablo, in mascappavo dopo aver rotto un vaso pesanglietta e calzoncini, appollaiato su un resto tissimo, che m’imbattei nella signora Dora. di sgabello, guardava e riguardava un dise-
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gno enorme, lungo sei o sette metri, che si prendeva tutta la parete: un toro, gambe e braccia sparse, linee confuse da cui spuntavano tre o quattro facce molto spaventate. “Come ti chiami?” mi chiese il signor Pablo. “Angelo. Angelo Rosi” gli dissi mentre addentavo il pane che mi aveva dato la signora Dora. “Ti piace?” mi domandò facendo segno col mento verso il quadro. Io diedi un sorso al latte, guardai per un secondo Madame Dora, poi portai a spasso gli occhi per quel disegno immenso. La verità, non ci capivo niente, e quelle facce, se non m’impegnavo, ero capace di farle pure io. Soltanto il toro… Ecco, trovato. “Mi piace molto il toro…” mormorai. “Già” disse lui. E intanto aveva preso un carboncino, aveva disegnato sopra un grande foglio qualcosa che rassomigliava a un uomo a terra con una spada rotta in mano, poi si era alzato come se un cane gli avesse morso il culo, e con gli spilli aveva appiccicato il foglio sul disegno. Io lo osservavo, davo un morso al pane, un sorso al latte, e lo osservavo, finché trovai il coraggio e glielo chiesi. “Ma cosa rappresenta?” “Questa è la guerra” sussurò il signor Pablo. E basta. Fu la signora Dora a dirmi sottovoce che pochi giorni prima l’aviazione nazista aveva bombardato la cittadina basca di Guernica. C’erano stati quasi duemila morti e un migliaio di feriti. Donne, vecchi, bambini erano stati presi a mitragliate mentre fuggivano verso la campagna. Era un orrore, e adesso il signor Pablo lo stava dipingendo.
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“Vieni un po’ qua, aiutami… Adesso gli facciamo una fotografia…” Mantieni questo, sposta il tavolino… Io lo sapevo che non servivo a niente, che la signora Dora poteva fare a meno del mio aiuto, ma mi piaceva quella sensazione di fare parte della loro vita. Finimmo che era quasi buio. Dalle finestre aperte entrava un’aria tiepida sospesa sulla luce rossastra del tramonto. “Torna domani, eh? Mi raccomando…” mi disse Madame Dora sulla porta. E io tornai. Il giorno dopo e quello dopo ancora. Per la merenda, è chiaro. Ma anche perché mi piaceva la signora Dora, perché mi dava i brividi guardare il signor Pablo che lavorava come un invasato, che disegnava bozzetti su bozzetti e poi li appiccicava sopra al quadro, che cancellava, faceva e disfaceva, che dipingeva tutto in grigio, bianco e nero, come se fosse una fotografia, perché nella sua testa quel massacro non meritava neanche un’ombratura di colore. E più guardavo il quadro, più distinguevo tutte le sue figure: la donna con il bambino morto in braccio, il toro, il soldato steso a terra, il cavallo, la donna con il lume, che assomigliava alla signora Dora, e le due donne in fuga. Di tanto in tanto, via via che il signor Pablo procedeva, io e la signora scattavamo delle fotografie, poi lei e il signor Pablo discutevano. A me, invece, neanche mi filava, lui. Solo una volta, un pomeriggio di pioggia lenta e fine, all’improvviso si girò e mi chiese: “Allora, che ne pensi?”. Tossii, perché il biscotto che stavo masticando si mise di traverso in gola. “Il toro…” balbettai. “Mi sembrerebbe me-
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“Il toro…” balbettai. “Mi sembrerebbe meglio se avesse il culo da quell’altra parte… Verso sinistra, dico…” glio se avesse il culo da quell’altra parte… Verso sinistra, dico…” Lui non rispose. Fece solo un mugugno e andò nello stanzino. Il pomeriggio dopo, sulla sinistra della grande tela c’era la coda del toro che sventolava come il pennacchio di fumo di un vulcano. Mi aveva dato retta. Non stavo nella pelle, però rimasi zitto a masticare il pane col salame, e intanto la signora Dora sorrideva. Era già luglio, quando finì il quadro. Brindammo, quella volta. Mi offrirono del vino. Ma qualche giorno dopo, il signor Pablo e la signora Dora mi aprirono la porta e mi fecero entrare come se fossi l’ispettore delle tasse o il fattorino delle pompe funebri. Erano incazzati neri. Ai dirigenti repubblicani spagnoli, che l’avevano commissionato, il
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quadro non era piaciuto neanche un po’: antisociale e inadeguato alla mentalità del proletariato, avevano stabilito. Invece poi lo esposero a Parigi, e fu un successo. Di lì andò a Londra, in Norvegia e poi a New York. Fu allora che li persi di vista, il signor Pablo e la signora Dora. Scoppiò la guerra e con i miei partimmo per il Messico. Seppi che quando cadde Franco, il quadro tornò in Spagna. Ma solo qualche mese fa, a Parigi, ho visto un’altra volta le foto che scattammo la signora Dora e io. Era la prima volta che tornavo in Francia. L’ultima, mi ero detto, prima di morire. Al museo Picasso ho visto quelle foto, e poi tutti i ritratti che le aveva fatto il signor Pablo. Quando si erano lasciati, nel ’45, lei era stata male, molto male. L’avevano rin-
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chiusa in una clinica psichiatrica, e allora Éluard, il poeta, aveva convinto Jacques Lacan a curarla. Così, Dora Marr aveva ripreso a dipingere e a fotografare, fin quando la vecchiaia l’aveva chiusa in casa. Fino a quel giorno del ’97 in cui era uscita, sola. A novant’anni, aveva attraversato la Senna con lo stesso coraggio con cui aveva attraversato la vita ed era morta, sola, davanti a Nôtre-Dame. Io l’ho saputo solo a quella
mostra. Quando ho voluto comprare una copia del catalogo, la giovane cassiera ha sollevato gli occhi. “Che c’è, qualche problema? Si sente bene?” ha chiesto. “Sì, tutto bene” ho detto. Soltanto fuori, nella luce di maggio che allagava le strade di Parigi, mi sono messo a piangere in silenzio mentre guardavo e riguardavo quelle fotografie.
Bruno Arpaia Bruno Arpaia è nato a Ottaviano (Napoli) nel 1957 e vive a Milano. Collabora con diverse testate nazionali, è consulente editoriale, esperto e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana. Ha scritto finora sei romanzi, tradotti in diverse lingue: I forestieri (Leonardo Editore 1990, premio Bagutta Opera Prima); Il futuro in punta di piedi (Donzelli 1994); Tempo perso (Marco Tropea Editore 1997, premio Hammett Italia, finalista al Premio Elsa Morante-Isola di Arturo); L’angelo della storia (Guanda 2001, Premio Alassio-Un autore per l’Europa e Premio Selezione Campiello 2001); Il passato davanti a noi (Guanda 2006, Premio Minerva, Premio Napoli e Premio Comisso); L’energia del vuoto (Guanda 2011, premio Merck Serono e premio Stresa, finalista al premio Strega). È autore anche di un libro-conversazione con Luis Sepúlveda dal titolo Raccontare, resistere (TEA 2002). Nel 2007 ha pubblicato un saggio dal titolo Per una sinistra reazionaria (Guanda), che ha suscitato un vasto dibattito. Insegna “Tecniche della narrazione” presso il Macsis (Master in comunicazione della scienza e dell’innovazione) dell’Università Bicocca di Milano. I suoi libri L’angelo della storia e L’energia del vuoto sono disponibili in ebook da Cubolibri.
Disponibile su www.cubolibri.it
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Racconto
LAMPARE SPENTE di Andrea Molesini
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ebbia. La stella in fondo al cofano. Strada grigia, cofano grigio e quella stella d’argento nella luce scura della strada. Anche il cappello dell’autista era grigio e gli stava un po’ largo. I capelli gli coprivano appena la punta delle orecchie piccolissime, percorse da una vibrazione nervosa su cui fissavo lo sguardo. Teneva all’uniforme come a una fidanzata. La voleva impeccabile, i bottoni lucidi, il fazzoletto a ciuffo nel taschino. E ritmicamente, con un guizzo, si passava le dita sulle spalle per spazzare il nevischio dei capelli. La Mercedes aveva odore di cuoio. Mi sfi-
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lai le scarpe blu, la punta rotonda, il tacco basso, e dalla cartella tirai fuori quelle di vernice rossa. L’autista si girò e inghiottì un sorriso. Dondolai i piedi. Mi sentivo felice. Me le aveva regalate Miss Carol, mi dava lezioni d’inglese, erano il nostro segreto, se la mamma l’avesse saputo... La Miss me le aveva fatte trovare in un pacco prima dell’ultima lezione. Le scarpe di vernice portano bene, disse. Sentivo che con quel rosso ai piedi, anche se avevo nove anni, potevo fare tutto quello che volevo. Abbassai il finestrino per guardare un uomo con la barba sporca e la giacca rotta. A che mi serviva adesso andare a
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quel grosso scarafaggio danza se avevo le scardel marito che le scorpe rosse? Potevo anche reggia vicino la notte. camminare sulle gronL’auto deviò all’improvdaie, sui soffitti, a testa viso verso la banchina in giù come una mosca, delle barche con le lamo farmi la pipì nelle mupare, si passava sempre tande e riderci sopra, di là per andare a leziotanto con quelle ai piedi ne d’inglese. Mi piaceva ero invisibile, se voleguardare i pescatori, le vo e, se volevo danzare, loro facce sembravano danzavo senza bisogno quelle delle figure della di quegli stupidi esercimia Iliade. Hanno una zi. Caviglia rigida, petto faccia che il vento scolin fuori, nuca indietro. Quella mattina, pisce notte dopo notte. Quella mattina, dondodondolando le Non lo trovi del grigio lando le scarpe di verscarpe di vernice, nella faccia di un pescanice, mi resi conto che mi resi conto che tore. E poi che belli quei l’autista – in casa tutti lo l’autista – in casa maglioni rotti. La sola chiamavano così, l’Autitutti lo chiamavano cosa che mi spaventava sta – era la persona con così, l’Autista – era la era quel loro sorriso, un cui stavo di più. Nemmeno la tata mi vedeva persona con cui stavo pettine di denti marroni fino alle gengive, mentre molto, perché ero semdi più il mio autista aveva una pre sballottata da un batteria di frigoriferi al posto dei denti. E circolo sportivo all’altro, da una Fraülein quando l’autista rideva – non rideva quasi a una Miss, tutte più o meno perdute nel mai – era come se volesse mordere l’aria grigio degli anni, di quella nebbia che, con per farla a brani. Aveva la pelle color terra, asburgica puntualità, veniva su dal mare il muso di un cavallo, anche se era saldo con la prima luce. sulle gambe e alto più di mio padre, che Ma adesso avevo le scarpe di vernice rossa era un uomo ben piantato. e con quelle ai piedi non me la metti la nebLa Mercedes si fermò sotto il lampione delbia nel cervello. L’avevo capito subito che le donne con le cosce in mostra. Le donil grigio comincia a entrarti dentro quanne che avevano tutte le gambe di fuori e do sei piccola e lì cresce e cresce perché tra piccolissime borsette di vernice che mi piatutti i colori, non so come, è quello che vincevano tanto. Aspettavano i marinai, e ce ce. Sempre. Metti un po’ di grigio in cielo e n’erano che andavano e venivano. L’autidopo un poco piove, mettine uno spicchio sta si fermava di rado al lampione. Quel in una bambina e a vent’anni sarà una segiorno rallentò, abbassò il vetro e sporgretaria, e a quaranta, in un mattino quase il collo cortissimo nell’aria bagnata. lunque, si scoprirà non molto diversa da
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Sussurrò qualcosa a una che aveva i capelli color lavanda, gli occhi dipinti di blu e le labbra rosse come un gambero rosso. Non voleva che sentissi, ma vidi che mi indicava col pollice e che la donna con la bocca di gambero si abbassava un po’ per vedere chi ero. Aveva gli occhi da strega matta, rotondi e grandi, tutti aperti. Che bella bambina, disse a voce alta perché sentissi. Mi guardai le scarpe rosse. Erano le scarpe che mi facevano bella. La Mercedes ripartì con una sgommata. Non voglio che lei faccia tardi, signorina, disse l’autista. Aveva la nuca rossa, come scottata. Però non c’era il sole, non era estate. Forse erano i miei pensieri a tingerla di rosso. Girammo intorno ai magazzini, attraversammo il piazzale dei container – mi piacevano i container perché hanno i colori forti dei mari caldi – e poi giù per il viale dei tigli, fino alla piazza con il monumento al generale delle giubbe rosse. La lezione d’inglese quel giorno fu noiosa, perché Miss Carol non trovava il bocchino e si aggirava tra le pile dei 45 giri e i libri accatastati con le dita nervosamente appiccicate agli orecchini di plastica (due stelle
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marine) che le sfioravano il collo lentigginoso. Senza il suo bocchino non poteva sventolare la sigaretta accesa e, siccome la magia delle storie che raccontava veniva tutta dalla strisciolina di fumo della bacchetta, quella mattina il racconto naufragò nel ritmo di Yellow Submarine. I Beatles erano il sottofondo musicale delle mie lezioni, perché il metodo Carol era un bombardamento di canzoni, poesie, storie, risate inglesi. In un modo o nell’altro il metodo dava i suoi frutti, anche se io non stavo ad ascoltarla più di tanto, ipnotizzata com’ero da quella sigaretta che roteava in cima all’interminabile bocchino. Quella sera, dopo il saluto della tata e la svelta visita della mamma, chiamata Bacio della buonanotte, aspettai un po’ a spegnere la luce con la scusa che dovevo finire di ripetere la lezione. Invece non lessi nemmeno una riga e rimasi a guardare le scarpe di vernice che nascondevo sotto il letto. La mattina la tata mi svegliò più tardi del solito. Mi vestii in fretta, infilai le scarpe rosse nella cartella e saltai la colazione, non feci nemmeno in tempo a dare un bacio alla tata che ero già in macchina.
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a toccarlo. Non andare, ripetevano le scarLa Mercedes uscì dal giardino a passo d’uope rosse, ma io non stavo andando, era lui mo e dopo un po’ l’autista si voltò a guarche mi portava. Entrammo in un container darmi con un mezzo sorriso. Allora, signomezzo vuoto, mi spinse giù, su un materina, oggi non si mette le scarpine rosse? rasso che puzzava di piscio di gatto, e io Quell’accenno alle scarpe m’irritò, come se chiusi gli occhi e inghiottii la saliva. la voce dell’uomo avesse il potere di sporSentii quelle mani ruvide sulle ginocchia. carle. Svoltammo verso il porto e mi proMi tirò su la gonna che era tutta pieghe, tesi in avanti, tra i poggiatesta dei sedili tutta flanella, tutta grigia. La gonna sulla anteriori, perché vedere il mare e le barche faccia, negli occhi, sul mento e sulla fronte, ormeggiate mi dava sempre allegria. L’acmorsi la flanella e ancora inghiottii saliva. qua era ferma e la nebbia del mattino non Stringevo le palpebre e sentivo caldo. Avesi era ancora alzata, le sagome delle navi va le mani come cartavetro. Sentii che mi alla fonda nella rada si vedevano appena. spingeva giù la faccia, mi mancava l’aria, Svoltammo ancora e ancora, l’autista faceavevo la flanella in bocca, la nuca che enva una strada diversa dal solito, aveva evitrava nel materasso. tato di passare davanti alla taverna e sotto Mi teneva ferma col suo peso. Muta, denil lampione delle donne con le cosce di fuotro gridavo. Caldo, sofri. Il grigio della nebbia foco, un coltello che mi cominciò a salire. Allora In macchina mi spacca, in bocca il sapore mi guardai le scarpe, ma venne il singhiozzo. ruggine della flanella, e per la prima volta il rosUn singhiozzo che un rumore di ferro nelle so, anziché tirarmi su, mi mi faceva andare su e orecchie. Quel muggire fece paura. L’autista acgiù, ma non piangevo, affannoso. Un leone che costò. Alzai la testa e vidi perché non c’era muore. E poi quelle mani che eravamo in mezzo al spazio nemmeno per grandi, quelle dita unte, piazzale dei container. I loro colori, che la nebbia un lamento in tutta me mi stringono e mi tirano su. Sto in piedi sul matesmorzava, non mi fecero rasso. La voce dell’autista, diversa, come se nessuna allegria. avesse in bocca una noce, dice Se lo racconVoglio mostrarle una cosa, signorina, disse ti te lo faccio di nuovo, hai capito? Avevo l’autista scendendo e venendo ad aprire la capito, e feci di sì con la testa. Non racconportella posteriore. Io guardai le mie scarto, dissi piano, perché la mia voce aveva pe rosse dondolando i piedi e le mie scardentro spine di ghiaccio e mi bruciava in pe dissero che non dovevo vedere un bel gola. Ero un urlo grigio e muto. Non pianniente. Non ci vengo, e poi non voglio fare gevo, un singhiozzo forse, ma senza lacritardi da Miss Carol. me, e con la testa feci cenno di sì e ancora Avanti, è una bella cosa, signorina, venga. di sì. Ero un urlo, ero il grigio, ero muta. Mi guardai ancora le scarpe e le scarpe disE poi non so cosa successe. Mi rassettò la sero Non andare. gonna, le mille pieghe di flanella, mi passò, Sentii le mani dell’autista intorno alla vita. con improvvisa delicatezza, le brusche dita Scalciai, ma le mie scarpe non riuscivano 30
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nei capelli, mi rimise le scarpette rosse che se n’erano andate per conto loro. In macchina mi venne il singhiozzo. Un singhiozzo che mi faceva andare su e giù, ma non piangevo, perché non c’era spazio nemmeno per un lamento in tutta me, nemmeno giù in fondo, là dove nessuno vede. L’auto svoltò per una strada che non avevamo mai fatto. L’autista si fermò vicino a una fontana, scese senza voltarsi, si chinò sul rubinetto, sfilò di tasca un bicchierino giallo, a telescopio, e me lo portò con passo di passero. Beva signorina, le farà bene. Il singhiozzo finì. Poi l’autista guidò più veloce, in silenzio, col cappello grigio sopra la nuca arrossata. Miss Carol, per un po’, mi guardò con una faccia strana, ma non disse niente. Non si accorse dell’urlo grigio che avevo dentro, le scarpe rosse funzionavano di nuovo. Mentre la Miss raccontava col fumo intorno alla faccia e i Beatles cantavano, mi accorsi, e fu terribile, che su un calzino – i miei lunghi calzini bianchi – c’era una piccola macchia rossa, sull’orlo dell’elastico. Feci finta di niente, ma non riuscivo a non guardare quella macchia. Ascoltavo e facevo di sì con la testa ma quella macchia, piccola, rossa come le scarpe, scivolava sempre di più dentro di me e sentivo di dover fare qualcosa, dovevo afferrarla prima che fosse troppo tardi. Così, quando Miss Carol si mise a girovagare nella stanza vicina, in cerca di un disco di Irish songs che doveva farmi sentire, sfilai le scarpe, tolsi i calzini, li raggomitolai, alzai il cuscino del divano e li cacciai nella piega che unisce il sedile allo schienale, e subito mi sentii meglio, come se avessi seppellito tutto il bruciore caldo e grigio che mi era sceso dentro, giù nella pancia.
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Quando l’autista venne a prendermi, mi portò a lezione di danza, e poi di francese, senza dire una parola. Aveva sempre la nuca rossa, ma ora su un orecchio c’era un cerotto. A sera la mamma, vedendomi senza calze, si arrabbiò con la tata. Non voglio che la bambina vada in giro in questo stato! Ci siamo capite? La tata disse che quando ero uscita le calze ce le avevo. Così finii a letto senza cena e l’indomani tutto ricominciò come prima, perché non era successo niente. Al mattino, in macchina, sfilai le scarpe rosse dalla cartella, come ogni altro giorno, e con quelle ai piedi ripresi il giro delle lezioni, l’auto passò davanti alla taverna del porto e quando vidi i pescatori pensai che erano belli. L’autista non mi parlò e io non parlai con lui e, da quel giorno, grazie alla forza che mi veniva dalle scarpe, smisi di parlare con tutti, anche con la tata. La bocca l’aprivo, a dire il vero, e ne uscivano parole e frasi come prima. Ma non erano le mie parole, io parlavo solo con le scarpe. Dopo il bacio della buona notte me le infilavo, sotto le lenzuola. Erano molto arrabbiati con me, mia madre, mio padre e anche la tata, perché ingrassavo a vista d’occhio. Questa bambina non fa che mangiare, non faccio a tempo a riempire il frigorifero che lo svuota. Ma io non mangiavo né più ne meno di prima, ingrassavo perché il grigio che mi era entrato dentro doveva pur finire da qualche parte. E siccome nella testa non ci stava tutto, allora dovevo fargli posto nella pancia. Però è vero che il frigorifero si svuotava. Si riempiva e si svuotava come una pompa che succhia e che sputa, succhia e sputa.
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niente e sentii che il sangue mi gonfiava la Io però non c’entravo, doveva essere qualfaccia di caldo. cun altro a spargere le briciole e a impiaVieni... let’s have a chat, my dear... racconstricciarmi il cuscino del letto, le tasche, il ta alla tua amica Carol com’è che sono finicomodino. Qualcuno che ce l’aveva con me ti là sotto, non ci sono andati da soli, sai... e voleva mettermi contro la mamma, e anerano schiacciati là, tra lo schienale e il seche la tata. L’urlo grigio aveva fame. Non dile, allora... ma let’s have a cup of tea, su, ero io, no, non ero io, io ingrassavo e basta. parliamo... e questa macchia... rossa? E venne il giorno in cui la Miss, dopo averIl tè si era fatto tiepido, così Miss Carol riemmi offerto il tè con le meringhe e una sbobba pì il bollitore e quando il bloblò dell’acqua si di canzoni irlandesi che parlavano di foglie fece sentire io cominciai che cadono e bambini a raccontare la storia dei che muoiono, si accorse calzini e di quella macQuando ebbi finito di aver perso il bocchino, chiolina di sangue che e per lei non era proprio Miss Carol mi m’infiammava la faccia possibile fumare senza abbracciò. budella. Mi guardai il suo bocchino. CominMi abbracciò forte e, ele lescarpe di vernice rossa ciò a cercare e a cercare. senza versare il tè, che dondolavano e donMi unii alla battuta di disse Ti porto a casa dolavano e dissi quello caccia. Mettemmo sottoche era successo nel consopra foreste di scatole, tainer, giù al porto. colline di libri, oceani di 45 e 33 giri, dal La terza sigaretta della Miss smise di fumabanco della cucina al comodino accanto al re in cima al bocchino. Fissavo i suoi denletto. Ma anche se non era la donna più orti gialli, le sue gengive rosse come le mie dinata del mondo, Miss Carol, nell’emerscarpe, e quando ebbi finito Miss Carol mi genza, era sistematica e meticolosa. L’opeabbracciò. Mi abbracciò forte e, senza verrazione di rastrellamento durò una buona sare il tè, disse Ti porto a casa. mezz’ora, e alla fine quel prezioso arnese Ma fra poco passa a prendermi l’autista. spuntò da sotto il grammofono, e fui proTi porto a casa io, disse Miss Carol. prio io a trovarlo. A casa la Miss, dopo avermi consegnato alla Chissà com’è finito là sotto? Mi sarà scivotata, trascinò mia madre in salotto, mentre lato quando ho messo il disco della Baez, io guardavo dalla finestra della cucina la disse la Miss riassettando il divano. E fu Mercedes parcheggiata davanti al cancello, allora che successe il patatrac. E questi qui con i lunghi denti di lupo che scintillavacosa sono? Socks, white socks, are these no sopra il paraurti, e la vernice grigia che yours, love? luccicava appena. Avevo paura di quello Feci di no con la testa. I calzini erano bianche poteva succedere. Ma quando la Miss chi, raggomitolati, e su uno spiccava, e a uscì non successe niente. Niente. me sembrava scintillasse, una piccola macAllora ti aspetto domani, disse Miss Cachia rossa, sull’elastico. Pensai a Barbablù rol. E la mamma disse che era ora di manma feci ancora di no con la testa e non dissi
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giare anche se non erano ancora le otto. A tavola rimase zitta e non disse niente nemmeno quando venne per il bacio della buona notte e mio padre non disse niente quando tornò dal solito viaggio e la tata non disse mai niente. Nemmeno Miss Carol disse più niente. Io continuavo a ingrassare e nessuno diceva niente. Ma una cosa era cambiata, una sola: adesso la Mercedes la guidava mia madre perché, così mi dissero, l’autista ci aveva piantato in asso e un altro non lo volevano.
Non ho mai parlato con mia madre, né con la tata, o un’amica, del container giù al porto. Nessuno sa dell’urlo grigio. E non ho mai smesso d’ingrassare, nemmeno quando la mamma mi fece rinchiudere in una clinica dove la vita si riduceva a una tazza di brodo di prezzemolo. Oggi compio 44 anni e peso 114 chili. Questa sera do una festa per pochi amici – lo so che mi chiamano La povera Giovanna – ma domani, con la prima luce, vado al molo a vedere i pescatori che tornano dal mare con le lampare spente.
Andrea Molesini Andrea Molesini è nato e vive a Venezia. Ha studiato Comparative Literature negli Stati Uniti. Con il romanzo Non tutti i bastardi sono di Vienna (Sellerio 2010, disponibile in ebook da Cubolibri), tradotto nei paesi di lingua inglese, francese, tedesca, spagnola, olandese, slovena e norvegese, nel 2011 ha vinto il Premio Supercampiello, il Premio Comisso, il Premio Città di Cuneo Primo Romanzo, il Premio Latisana. Negli anni Novanta ha scritto libri per ragazzi pubblicati, in Italia, da Arnoldo Mondadori. Nel 1999 ha vinto il Premio Andersen alla carriera. Per Adelphi ha curato e tradotto alcuni volumi di poesia angloamericana. Nel 2008 ha vinto il Premio Monselice per la Traduzione letteraria. Insegna Letterature comparate all’Università di Padova. Disponibile su www.cubolibri.it
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Il mondo dell’ebook
eBook da mettere sotto l’albero Il percorso a ritroso tra le classifiche settimanali di tutto il 2012 permette di individuare la top ten degli eBook più venduti dell’anno. Utile a chi sta scegliendo gli eBook da regalare, da valutare insieme alle nuove proposte di questo Natale.
di Daniela De Pasquale
A
Natale con un libro non si sbaglia mai regalo. Ce n’è uno per ogni tipologia di persona, dai bambini agli anziani, per ogni genere e gusto, per tutti i budget. Per il puro piacere di essere al passo con i tempi, nel rispetto delle nuove esigenze legate allo spazio, alla mobilità, alla praticità e (perché no?) alla moda, quest’anno si possono regalare libri digitali. Costano meno, dunque se ne può scegliere anche più di uno, si abbinano al regalo di un tablet o un eReader fatto alla stessa persona da un altro amico o parente, sono un’idea nuova e originale. È questo il primo vero Natale degli eBook in Italia, dal momento che ci avviciniamo alla notte del 24 dicembre con una consistente diffusione nazionale di eRaeder e tablet, a cui Babbo Natale darà il suo bel contributo, dato che i prezzi dei dispositivi si sono notevolmente abbassati e i player sul mercato sono più che triplicati. A farla da padrone sono in realtà i tablet, dunque dispositivi multifunzione. Se andassimo ad analizzare più a fondo quanti utilizzano questi gadget per leggere, scopriremmo che sono solo il 3% della popolazione italiana (AIE, ottobre 2012). Ma per una volta diamo appuntamento ai numeri al prossimo anno e concentriamoci sulle lettere. Quali eBook regalare e come? Potremmo rifarci alle top ten o alle classifiche che iniziano ad affacciarsi sui siti e sulle riviste letterarie, che ci dicono quali sono i titoli più venduti dell’anno. Sulla carta. Nel caso degli eBook, sono già passati due anni ma gli inviti alla creazione di una classifica nazionale e ufficiale non sono stati ancora accolti. Ecco allora che ci viene incontro “Pianetaebook”, il primo magazine in ordi-
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ne cronologico ad aver reso disponibile una classifica aggiornata settimanalmente su 12 store, osservando la quale è possibile individuare le tendenze dell’anno. Sembra che le letture digitali del 2012 somiglino a un quadretto familiare. La cornice è formata da quattro titoli di due autori che hanno dominato la scena di gennaio e tornano sotto i riflettori a dicembre. Il primo è Andrea Camilleri che, dopo i suoi giochi letterari ne Il diavolo, certamente, torna a proporci un’indagine del commissario Montalbano in Una voce di notte. L’altro è Marco Malvaldi: ci aveva sedotti e abbandonati con un nuovo caso per i quattro vecchietti-detective, La carta più alta, che però aveva annunciato come conclusione del ciclo del BarLume, ma si fa perdonare proprio a Natale con Milioni di milioni, un’investigazione all’inglese ma con ambientazione toscana, come nei suoi gialli precedenti. Un titolo che abbiamo sentito spesso in primavera, e che ha sempre fatto capolino nelle classifiche è Il silenzio dell’onda, di Gianrico Carofiglio, una storia sul rapporto tra padri e figli sull’onda dei ricordi e dei fili da riallacciare, candidato al Premio Strega. Un legame simbolico con il libro che ha davvero portato a casa il Premio Strega 2012: Inseparabili di Alessandro Piperno. Dopo Persecuzione, l’autore torna a parlarci dei Pontecorvo, famiglia romana di ebrei benestanti. Stavolta i protagonisti sono i due fratelli Filippo e Samuel: il primo con la sola passione per cibo, donne e fumetti, il secondo con grandi ambizioni di carriera nella finanza. I ruoli dei due, però, si invertono all’improvviso, e le loro vite così diverse si incroceranno intorno a un segreto che riguarda tutta la famiglia.
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Storie dai forti legami di sangue in cui si inserisce, con la leggerezza primaverile e il profumo speziato dei romanzi a cui ci ha abituato Newton Compton, Amore, zucchero e cannella di Amy Bratley. Un manuale della perfetta casalinga, pieno di appunti e contenente una lettera che aggiunge un po’ di giallo al rosa della trama, è il filo che lega la protagonista a sua nonna e le permetterà di percorrere il suo cammino sulla strada dell’autoconsapevolezza e della riscoperta delle tradizioni e del piacere delle piccole cose. Padri e figli, fratelli, nonni e nipoti, quindi, ma non manca un posto speciale riservato alla mamma, grazie al long seller di Massimo Gramellini Fai bei sogni. Secondo i dati diffusi da Longanesi a novembre, il libro, vincitore del premio Elsa Morante, sulla carta ha venduto un milione di copie, unico titolo nel 2012, primo assoluto in Italia per 10 settimane consecutive, quinto nella classifica dei libri più venduti in Spagna, e i cui diritti di pubblicazione sono stati acquistati in 14 paesi. La parola mamma assume tutta un’altra sfumatura se inserita nel contesto del cosiddetto mommy porn: così è stato etichettato il genere rivelazione dell’anno, che piace alle donne over 30 e che mescola sentimenti da romanzo rosa a brividi da thriller con una consistente e generosa spolverata di passaggi erotici. Perfetto per essere letto soprattutto nel formato digitale, discreto e anonimo, senza copertina che attiri l’attenzione di un annoiato e assonnato vicino di metropolitana. Bestseller tra i bestseller di tutti i tempi, il più venduto di sempre su Kindle, Cinquanta sfumature di Grigio di E.L. James ha sdoganato una tendenza editoriale che aveva
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avuto in precedenza solo qualche caso isolato e comunque molto chiacchierato, come i 100 colpi di spazzola di Melissa P. In un anno il genere è passato dallo 0,15% delle vendite al 4,27%, e ha dato un grosso input anche alle vendite del nascente mercato degli eBook. Nonostante le numerose collane, i nuovi titoli e i nuovi autori che si inseriscono nell’onda di questo successo, pare proprio che la trilogia erotica per eccellenza costringerà la trilogia ben più sobria del Papa, che si è appena conclusa con l’ultimo volume arrivato sugli scaffali in tempo utile e strategico per il Natale, L’infanzia di Gesù, a convivere cover a cover con tutte le sfumature, tutte le parodie e tutti gli spin off, le fan fiction, gli eredi del filone. Ripercorrendo l’anno, si è venuta magicamente a creare la top ten del 2012: 10 titoli con cui si è sicuri di non sbagliare. Le 10 stelle del firmamento digitale sono circondate da tante meteore che hanno brillato solo per poche settimane. Si tratta dei titoli daily deal, o promo flash, o offerte lampo che dir si voglia, l’esempio più evidente a cui abbiamo assistito dell’influenza che il fattore sconto ha avuto sulla scelta di acquisto di titoli rispetto ad altri con maggiore visibilità mediatica. È stato uno degli elementi di maggiore divergenza tra la classifica digitale e quella cartacea, assieme al fenomeno dei libri di cucina, il cui successo è stato creato dai vip ai fornelli, soprattutto quelli televisivi. Ma solo sulla carta, forse perché le immagini a colori di un librone sporco di burro e farina appoggiato tra uova rotte e frullatori non ha ancora perso il suo fascino, e allo stesso tempo cliccare sul display di un tablet con l’indice unto non sembra affatto una buona idea.
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A differenza del genere fantasy, che invece è solido e intramontabile, e vede proprio in fase di shopping natalizio un capitano d’eccezione, Lo Hobbit di Tolkien, in una nuova edizione illustrata lanciata a ridosso dell’uscita del film nelle sale cinematografiche, e una madrina d’eccezione, J.K. Rowling, che con un Harry Potter mandato in pensione per aver raggiunto ormai l’età per guidare, bere alcolici e votare, si è dedicata al primo romanzo per adulti, una commedia nera dai temi forti: Il seggio vacante. Per un target trasversale è la Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico di Luis
Maya, almeno per l’economia, il lavoro e i conti da fare alla fine del mese; per consolarci c’è Madama Sbatterflay, con cui Luciana Littizzetto riesce a farci abbozzare un sorriso anche quando sembra che non ci sia proprio nulla da ridere. E poi ci sono I custodi della biblioteca di Glenn Cooper per gli appassionati di thriller, Il corpo umano per chi ha amato La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, Battuta di caccia di Jussi Adler-Olsen per chi colleziona tutti i brividi scandinavi. Se la vostra scelta ricadrà sul filone erotico, noi buttiamo nel calderone Massimo Lugli con
Sepúlveda: un racconto di amicizia adatto sia ai ragazzi che agli adulti. Un classico annunciato, e si sa che con un classico non si sbaglia mai. Irresistibile anche la tentazione di acquistare per sé, più che regalare, un Erri De Luca, quasi un marchio di fabbrica per storie brevi e intense come quella sullo sfondo delle feste appena pubblicata dal titolo La doppia vita dei numeri. Quest’anno non è stato la fine del mondo, se non per i
Gioco Perverso che, se fosse una sfumatura, sarebbe di noir. La sua esperienza quarantennale come cronista di nera e le sue collaudate qualità letterarie nell’averci già regalato altri casi per il suo collega alter ego Marco Corvino, ci daranno la garanzia di addentrarci nel mondo del bondage e del sesso estremo concedendoci la lettura di un buon thriller. Grazie al digitale, ognuno può crearsi la sua
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Per Natale, Cubolibri presenta La fabbrica dei regali per scegliere e confezionare con dedica gli eBook che un moderno Babbo Natale in versione 2.0 consegnerà a genitori, amici, compagni, fratelli e anche ai più piccoli personale top ten natalizia sdraiato comodamente in casa e in pochi clic. Dopo la classifica del 2012, noi chiudiamo questa carrellata che compone la nostra proposta dei magnifici 10 di Natale con L’inverno del mondo, di Ken Follett, secondo libro della trilogia “The Century” e, naturalmente, una storia di famiglia. Se dunque agli italiani piace leggere “in famiglia”, Cubolibri ha individuato questa tendenza valorizzandola nella sua iniziativa natalizia: la fabbrica dei regali di Natale. Un’intera settimana per regalare eBook, che
piacciano ai genitori oppure che parlino di genitori. E lo stesso vale per fratelli e nonni, figli e nipoti, amici e partner. Anche all’ultimo momento, invece di perdervi nel caos folle dei regali last minute, basta un clic per una consegna puntuale e perfetta degna di un Babbo Natale 2.0. Regalate un eBook: è un dono innovativo, amico dell’ambiente, anti-crisi. Risparmiando tempo, denaro e fatica, l’augurio è di un Natale al cubo!
I 10 eBook più venduti nel 2012
10 novità del Natale 2012
A. Camilleri, Il diavolo, certamente (Mondadori)
J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit (Bompiani)
A. Camilleri, Una voce di notte (Sellerio)
J.K. Rowling, Il seggio vacante (Salani)
M. Malvaldi La carta più alta (Sellerio)
L. Sepúlveda, Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico (Guanda)
M. Malvaldi, Milioni di milioni (Sellerio) G. Carofiglio, Il silenzio dell’onda (Rizzoli) A. Piperno, Inseparabili (Mondadori) A. Bratley, Amore, zucchero e cannella (Newton Compton)
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E. De Luca, La doppia vita dei numeri (Feltrinelli) L. Littizzetto, Madama Sbatterflay (Mondadori) G. Cooper, I custodi della biblioteca (Nord) P. Giordano, Il corpo umano (Mondadori)
M. Gramellini, Fai bei sogni (Longanesi)
J. Adler-Olsen, Battuta di caccia (Marsilio)
E.L. James, Cinquanta sfumature di Grigio (Mondadori)
M. Lugli, Gioco perverso (Newton Compton)
J. Ratzinger, L’infanzia di Gesù (Rizzoli)
K. Follett, L’inverno del mondo (Mondadori)
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Il mondo dell’ebook
Tablet ed eReader i regali perfetti, parola di Babbo Natale In un’esclusiva intervista, Santa Claus ci regala alcuni utili spunti per i regali natalizi. Parola d’ordine: letture digitali. di Roberto Dessì
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atale è alle porte, ammesso che la profezia Maya non si compia. Avete già provveduto ai doni? Se siete tra i tanti che attendono con ansia l’ispirazione, la tredicesima mensilità o entrambe le cose, “PreTesti” quest’anno ha in serbo per voi un incredibile scoop giornalistico. No, non si tratta delle ecografie che svelano il sesso del reale pargolo di Kate e William; non è neppure l’ingrediente segreto della Coca-Cola, o il metodo per dimagrire con una dieta a base di pandoro e cotechino. Il vostro reporter d’assalto ha affrontato in-
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denne un lungo viaggio per terre desolate. Incurante del freddo, e dei famelici sguardi di tenerissimi orsi polari, si è recato là dove nessuno aveva finora osato recarsi: casa Santa Claus, per una intervista esclusiva dedicata al Natale 2012. Rovaniemi? Il villaggio finlandese è soltanto un’abile copertura. Il barbuto vecchietto dispensatore di balocchi risiede in un altro segretissimo luogo, sperduto tra i ghiacci della Lapponia; lo manterremo segreto, per rispetto della sua privacy nonché per un’ingiunzione dei legali di Babbo Natale. Ma questa è un’altra storia.
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Negli USA, Nielsen incorona ancora una volta l’iPad come “regalo più desiderato”
A casa Santa, il calore e lo spirito natalizio pervadono il corpo e lo rinfrancano, dopo tanto camminare sotto la neve. Il padrone di casa lavora alacremente, seduto dinanzi al camino scoppiettante, con una tazza di cioccolata bollente sul tavolino e, dall’altro lato, tonnellate di letterine cartacee e un iPad, per consultare quelle dei bimbi che hanno scelto di inviarle via email. Anche questo, in fondo, è un emblema dei vantaggi del digitale sul cartaceo. Da vicino Babbo Natale dimostra molti meno secoli di quanti in realtà ne abbia. Cordiale e affabile, mi invita a sedere sulle sue ginocchia, e a prendere un biscotto allo zenzero (davvero delizioso!), prima di poterne interrompere il lavoro con qualche domanda. Innanzitutto…come posso chiamarla? Babbo Natale? Santa Claus? San Nicola? Oh oh oh (la grassa risata con la quale apre ogni frase, N.d.A.), carissimo, può chiamarmi come desidera. Babbo Natale ha tanti nomi, ma rimane sempre la stessa persona! 40
Bene, credo opterò per la versione italiana, esordendo con un classico: “Caro Babbo Natale”… lei che è un esperto del settore, quali saranno doni più desiderati del 2012? Ho studiato con attenzione le tendenze del mercato, ma non avevo molti dubbi: i regali dell’anno sono i gadget tecnologici portatili. Gli smartphone continueranno a dominare il mercato, ma anche i tablet e gli eBook reader hanno avuto una notevole crescita nelle richieste dei bambini e degli adulti del mondo. Le indagini e gli studi che consulto quotidianamente confermano questo trend: Nielsen, ad esempio, negli USA incorona ancora una volta l’iPad come “regalo più desiderato”; e se non bastasse, al terzo, quarto e quinto posto Apple piazza rispettivamente iPod touch, iPad mini e iPhone. Gli eReader vanno molto bene tra gli adulti (il 13% di loro ne ha chiesto uno) e ancora meglio tra i bambini (21%). L’Italia seguirà questo trend? Anche da noi, nonostante la crisi morda più forte di un orso polare affamato, si regaleranno iPad ed eReader?
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Il 27% degli italiani (il 29% tra chi percepisce la tredicesima) regalerà ad altri o acquisterà per sé un prodotto Hi-Tech Può scommetterci: osservi i dati dell’indagine Confesercenti-SWG e se ne renderà conto. Il 27% degli italiani (il 29% tra chi percepisce la tredicesima) regalerà ad altri o acquisterà per sé un prodotto Hi-Tech: di questi, il 9% regalerà un tablet o uno smartphone, andranno fortissimo gli iPad mini, e anche gli eBook reader avranno un notevole seguito. In fondo, lo ha dichiarato di recente anche l’Associazione Editori Italiani: il 3% dei suoi connazionali legge in formato digitale, e il fatturato per le case editrici continua ad aumentare raggiungendo in alcuni casi la doppia cifra percentuale nell’intero bilancio aziendale. Ipad, iPhone, e iPod quindi. Quest’anno le novità sono state tante in casa Apple. Sì, nonostante la prematura scomparsa di Steve Jobs, dalle parti di Cupertino si sono dati parecchio da fare nel 2012. Hanno proposto un nuovo iPad, cambiando in realtà pochissimo ma rendendolo ancora più potente e versatile, hanno aggiornato gli iPod touch, hanno allungato l’iPhone e accorciato l’iPad. Il mini ha certamente un prezzo superiore alla media dei tablet Android, ma è pur sempre un iPad, con tutti gli aspetti positivi e “modaioli” che ne conseguono. A proposito di tablet Android, il lavoro si è molto complicato per lei quest’anno, l’offerta italia-
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na si è ampliata e ci sono tanti device tra cui scegliere. È vero, la scelta è davvero vasta: prenda quel tale pelato con gli occhi furbi che vuole rivoluzionare l’editoria, Jeff Bezos, mi pare si chiami. Non gli è bastato proporre il nuovo Kindle Paperwhite, l’eBook reader con schermo eInk ad alta risoluzione, con luce integrata per poter leggere anche la notte al buio e notevolmente schiarito per somigliare ancor di più alla carta stampata. Ha deciso anche di puntare forte sui tablet per far concorrenza ad Apple e agli iPad. Sono ottimi dispositivi, con schermi HD e antenna wi-fi doppia, con i quali si possono acquistare tanti contenuti, non soltanto eBook. Vero, ma anche Kobo non è stata a guardare… No, anzi. Ha triplicato il proprio sforzo con eReader touchscreen ad alta definizione dei font e luce integrata, versioni mini da portare sempre con sé, e perfino un tablet da 7 pollici, anche lui con schermo HD e tanti contenuti acquistabili sullo store o con Google Play. L’alleanza con Mondadori ha facilitato la penetrazione di questo brand anche in Italia, dove è possibile acquistarli – oltre che online – anche nelle normali librerie, di fianco ai libri cartacei.
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Ho sentito dire che anche Cubolibri ha qualche novità in serbo per i suoi clienti, ne era a conoscenza? Certamente. Oltre al biblet reader, uno dei pochissimi dispositivi a coniugare l’interfaccia touchscreen (schermo eInk Pearl da 6 pollici) con quella a tasti fisici, a meno di 100 euro, la novità arriva dall’eBook store Cubolibri. Già, perché quest’anno chi desidera regalare un eBook a un amico, un parente o al partner potrà farlo direttamente dallo store, scegliendo tra una selezione di titoli che include L’inverno del mondo di Ken Follett, Fai bei sogni di Massimo Gramellini e Inseparabili di Alessandro Piperno. Può dare qualche consiglio su come scegliere il dispositivo perfetto per la propria necessità?
ta e dal peso contenuto? L’eReader è perfetto per voi. Se invece la lettura è uno dei tanti utilizzi che fareste del device, valutate un tablet. Scegliete un eReader con uno schermo eInk di qualità, che sia compatibile con il DRM Adobe e che possibilmente abbia uno slot per l’espansione della memoria. E naturalmente, fate i bravi, o Babbo Natale non esaudirà i vostri desideri! Ci congediamo dal magico villaggio di Santa Claus scortati da un festoso drappello di elfi, prima di essere riaccompagnati da magiche renne volanti fino al più vicino aeroporto. Giusto in tempo per augurarvi un felice Natale, e uno splendido 2013 ricco di felicità, serenità e…eBook!
L’esigenza è alla base della scelta: desiderate un prodotto destinato esclusivamente alla lettura, con una batteria di lunga dura-
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Buona la prima Storie di libri ed edizioni
TITO LUCREZIO CARO
“DE RERUM NATURA” di Fabio Fumagalli
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i sono accadimenti storici che, al fine di sfidare la fame del tempo, il passare dei millenni, sono costretti a trasformarsi in racconti di fantasia, a salvarsi con i voli pindarici dell’arte. Ciò rende necessario accostarsi a essi con prudenza. Da un lato, infatti, abbiamo il travisamento dell’intuizione artistica che, come il velo di maya di schopenhaueriana memoria, nasconde e occulta la verità del fatto concreto con orpelli e abbellimenti. Dall’altro, però, la cruda realtà reclama la sua parte. Non si può dare nascondimento senza svelamento. È vano, infatti, tentare di discriminare l’immaginato dal vero su questa superficie splendente che chiamiamo storia. Tutto può partire da una biografia “romanzata”, come quella scritta da San Girolamo (ca. 345-420 d.c.) nel Chronicon: “Nasce il poeta Tito Lucrezio, il quale, spinto poi alla follia da un filtro d’amore, dopo aver scritto alcuni libri, poi riveduti da Cicerone, negli intervalli di lucidità, si uccise di propria mano a quarantaquattro anni”. Queste poche righe sembrano già stabilire una certa familiarità con l’autore e la sua opera. Eppure, chi è Lucrezio? Nulla si sa della sua esistenza terrena, se non
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vero e proprio “trionfo della vita” in cui si il fatto che si sia svolta lungo il corso del I riversa la fredda dimostrazione epicurea secolo a.C. Le molteplici ipotesi a riguardo che “nulla si distrugge completamente”: “E hanno avuto solo il merito di sfumare ancor dunque nessuna sostanza ritorna nel nulla, di più i contorni della sua figura. Così ci rema tutte / dissolte ritornano alle particelle sta tra le mani, come sabbia finissima, solo elementari della materia. / Si perdono infine un nome, un puro flatus vocis... e un’opera. le piogge quando l’etere padre / le effonde Si tratta di un poema didascalico in esametri a rovesci nel grembo della intitolato De rerum natura. madre terra; / ma sorgono Raro esempio di perfeziole splendide messi e verne stilistica armonicamente deggiano i rami degli albecongiunta all’esposizione ri, / questi si accrescono e filosofica, la storia di quepiegano al peso dei frutti; / sto testo, pur essendo corodi qui si alimenta la specie nata da un lieto fine, è tandegli uomini e delle fiere, / to esaltante quanto mistedi qui vediamo rigogliose riosa. Pressoché ignorato, città fiorire di fanciulli, / e per quanto riguarda il conselve frondose echeggiare tenuto, dai contemporanei delle recenti nidiate; / di (Cicerone e Virgilio in priqui stanche le pingui pecomis), esso fa sentire la sua re distendono i corpi, / per influenza, in maniera soti floridi pascoli, e il candido tile, delicata e sotterranea, Epicuro nella Scuola di Atene di Raffaello umore del latte / stilla dagli nello stile di tutti i grandi uberi colmi; di qui nuova prole di agnelli, / scrittori latini dell’epoca, quando, citando sulle tremule membra ruzzanti per le tenere Gustave Flaubert, gli dei non c’erano più e erbe, / si trastulla, le giovani menti inebriaCristo non ancora, ma solo l’uomo con il suo te da purissimo latte”. Sono, così, innumeingegno regnava. Però lo stile, come ormai revoli gli apologisti cristiani che strumentasappiamo, occulta e, nel contempo, svela lizzano lo scritto lucreziano, o utilizzando qualcosa di più profondo. Con l’avvento del le sue innovazioni stilistiche, o criticando cristianesimo, gli attacchi al De rerum natuaspramente, come Lattanzio nel suo De ira ra, benché mai espliciti, si fanno più serrati e Dei, la filosofia in esso contenuta. C’è però stringenti. A essere posta dinnanzi al tribuuna crudeltà ben peggiore a cui può essere nale della ragione questa volta è la dottrina, sottoposto un testo: l’oblio. Per motivi che non il metodo. Come tollerare un testo ove comprendono sia la storia che l’ideologia, il si afferma la mortalità dell’anima, l’assenza De rerum natura infatti scompare dalla cirdi qualsiasi provvidenza divina, la religione colazione nel medioevo. L’ipotesi più procome superstizione nociva? Il tutto, inoltre, babile è che le rare copie sopravvissute alle abbellito da immagini metaforiche potenti, traversie della storia e al furore cristiano adatte perciò ad attrarre gli animi più facilsiano finite, insieme a molti altri libri di scritmente suggestionabili. Eccone un esempio,
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tori pagani, in qualche sperduto monastero, dove, con coscienziosità e scrupolo, secondo la formula benedettina dell’ora et labora, sono state ricopiate tramite la minuziosa arte degli amanuensi. La paradossalità della situazione è evidente: un testo condannato da una religione viene salvato proprio grazie all’esistenza di quei luoghi in cui quella religione si trasforma in regola di vita. Ma la storia è ricca di contraddizioni simili e quella del testo lucreziano è giunta solo a metà del suo percorso. Nel 1417, infatti, essa si imbatte nell’umanista Poggio Bracciolini che, cavalcando il suo destriero, si dirige verso la città tedesca di Fulda. Egli è alla ricerca di quei libri antichi per cui il suo cuore di uomo dotto e collezionista batte. Siamo, infatti, in un’epoca in cui gli intellettuali riprendono interesse per l’antichità classica, paradigma insuperabile di perfezione artistica, e, incoraggiati dalle riflessioni della loro stella polare, Francesco Petrarca, tentano in ogni modo, anche a costo della vita, di recuperare le poche opere sopravvissute ai secoli bui del passato. Poggio Bracciolini, per quell’astuzia della ragione che sempre soccorre gli eventi, nel suo girovagare incontra l’opera di Lucrezio. Basta questo, i tempi sono ormai maturi. La rivoluzione può avere inizio. Il De rerum natura, nel giro di un secolo, esce dai ristretti ambienti degli umanisti ed entra nelle riflessioni delle più eminenti personalità intellettuali dell’epoca: Giordano Bruno, Tommaso Moro,
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Galileo Galilei, Michel de Montaigne, Isaac Newton solo per citare i più noti. Declinata in una miriade caleidoscopica di interpretazioni differenti, come gli infiniti atomi dell’universo lucreziano, l’opera giungerà fino ai giorni nostri. La ritroveremo sottesa alle affermazioni del giovane Karl Marx, oppure come base metafisica delle moderne teorie scientifiche riguardanti l’atomo. Ma, grazie a quell’inscindibile connubio tra fantasia e realtà che forma la storia umana e da cui siamo partiti, sarà l’arte a subirne la fascinazione maggiore. Essa, opponendosi alle idee generali, desiderando l’individuale, l’unico, tenterà di cogliere a ogni costo il mistero dell’opera. E allora ci faremo sedurre dal Lucrezio “immaginario” di Marcel Schwob: “Sapeva che le lacrime vengono da un certo movimento delle piccole ghiandole che stanno sotto le palpebre e che sono agitate da una processione di atomi uscita dal cuore, Disponibile su www. cubolibri.it quando il cuore stesso è stato colpito dalla successione di immagini colorate che si distaccano dalla superficie del corpo di una donna amata. Sapeva che l’amore non è causato che dal gonfiarsi degli atomi che desiderano congiungersi con altri atomi. […] Ma, conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, e che esse sono vane immagini quando le si contempla dallo spazio calmo dove bisogna rinchiudersi, continuò a piangere, e a desiderare l’amore, e a temere la morte”.
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Sulla punta della lingua
Come parliamo, come scriviamo
Rubrica a cura dell’Accademia della Crusca
L’UNIVERSITÀ NELLA TEMPESTA DELLE LINGUE di Francesco Sabatini*
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Il dato da focalizzare subito è che, nel proom’è noto, il ministro Francesco getto Profumo, i corsi in inglese devono esProfumo – ex-rettore del Polisere esclusivi, cioè non affiancati da corsi tecnico di Torino, dal dicembre paralleli delle stesse discipline in italiano. 2011 titolare del ministero dell’INon si tratta, dunque, di una innovazione struzione, dell’Università e della Ricerca – marginale, opzionale o sperimentale, ma di ha stabilito che l’inglese deve essere lingua un auspicato cambio totale di regime linguiesclusiva per l’insegnamento universitario stico ai livelli alti della al livello delle lauformazione delle noree magistrali e dei Nel progetto Profumo, stre classi professionali dottorati. L’innovazione diventerebbe i corsi in inglese devono e della ricerca. Stabiliti pressoché un obbligo essere esclusivi, cioè non questi termini, possiaattraverso i meccaaffiancati da corsi paralleli mo discuterne. Ne hanno discusso sunismi premiali e gli delle stesse discipline in bito docenti e ricercatoincentivi che le Uniitaliano ri di un buon numero versità ottemperandi discipline – matemati riceverebbero. Di tica, diritto, scienze, linguistica – convenuti esempio sarebbe una prassi già attuata in il 27 aprile a Firenze nell’Accademia della vari insegnamenti nella sede universitaria Crusca; tra i partecipanti al dibattito c’era dal suo sostenitore e nel Politecnico di Miil rettore del Politecnico di Milano, Giovanlano, oltre che sparsamente in altri Atenei.
* Emerito di Linguistica italiana, Università Roma Tre; Presidente onorario dell’Accademia della Crusca.
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ni Azzone, che ha sostenuto le ragioni del suo collega ministro. Sono stati poi invitati ad esprimersi altri esperti in materia o coinvolti a vario titolo e ne è derivata un’ampia messe di pareri (101, per la precisione) raccolti in un volume ora pubblicato dall’Accademia in collaborazione con l’editore Laterza (Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino, pp. 321). Non posso certo sintetizzare tante voci, che tra l’altro sviluppano riflessioni anche al di là del vero tema in questione. Cerco di mettere in luce l’essenziale delle due posizioni. Il rettore Azzone, unico sostenitore deciso dell’innovazione, ne ha puntualizzato in questi termini il significato e gli obiettivi (seguo nell’ordine i suoi argomenti): 1) c’è la forte pressione delle grandi imprese multinazionali, che richiedono «persone aperte al mondo»; 2) molti nostri studenti di Ingegneria, Architettura, Design preferiscono sempre più perfezionarsi all’estero, per assicurarsi migliori sbocchi professionali; 3) anche in Atenei di altri paesi si sta «rafforzando la presenza della lingua inglese». Di qui la necessità di assicurare una effettiva «internazionalizzazione» dei corsi a partire dalla laurea magistrale, formando direttamente in lingua inglese gli studenti italiani e nel contempo rimuovendo «la barriera ‘psicologica’ della conoscenza preventiva della lingua italiana» per gli studenti che provengano dall’estero. I risultati di otto anni di questa prassi a Milano sarebbero questi: affluenza di studenti stranieri che va dal 30% al 50% nei diversi corsi [ma secondo Raffaele Simone sono in totale il 17% in quel Politecnico]; decisa soddisfazione dei laureati 47
di questi corsi (italiani e stranieri) che trovano più facilmente occupazione. Segue un altro dato: là dove sono presenti parallelamente corsi in inglese e corsi in italiano, i primi accolgono il 90% di studenti stranieri e solo il 10% di italiani («gli studenti italiani bravi»). Davanti a questo dato, che apre una falla in quel muro di certezza, il rettore Azzone risponde che il suo Politecnico si attrezza per dare supporto al miglioramento della conoscenza dell’inglese per gli studenti che ne rivelino il bisogno durante il triennio iniziale. E aggiunge che, se proprio non si accetta l’esclusivo insegnamento in inglese «entro un’ora di treno dal Politecnico di Milano vi sono Atenei che consentono di frequentare in italiano tutti i corsi di studio che il Politecnico erogherà in inglese». Un ultimo tassello riguarda i docenti: «tutti i docenti che lo vorranno potranno insegnare in italiano al primo livello»; affermazione che sembra avere due significati: a) chi non vuole insegnare in inglese, passerà a insegnare in italiano al primo livello; b) anche al primo livello si potrà insegnare in inglese. Sulla linea così decisa del rettore milanese non si pone nessuno degli altri intervenuti, a voce o per iscritto, al dibattito. Tutti si tengono chiaramente lontani da posizioni di sciovinismo linguistico e riconoscono, con maggiore o minore risalto, la necessità inderogabile che una lingua di comunicazione mondiale, come l’inglese, debba far parte della dotazione, a livelli variabili di competenza, di ogni individuo che voglia operare, dovechessia, nel mondo attuale. Ma le obiezioni mosse al teorema milanese sono veramente tante e non vengono solo da quello schieramento interno al Politecnico che da tempo contrasta un’applicazione
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così totalizzante dell’alta formazione in un bagno d’inglese. Cerco di sintetizzarle nei punti seguenti. a) L’insegnamento, nella parte centrale affidata alla lezione del docente, richiede a questi, proprio in corsi di forte impegno formativo, una prestazione linguistica di “alta definizione”, al tempo stesso spontanea e ricca di creatività, nient’affatto standardizzata e ripetitiva: una qualità che ben pochi docenti possono fornire in una lingua non nativa o non praticata in lunghe permanenze ed esperienze didattiche nell’ambiente di quella lingua. Evidentemente non si è fatta distinzione tra questo tipo di prestazione e la comune capacità, che molti docenti hanno, di uso comunicativo e colloquiale o di stesura di un testo scritto in una lingua estera: il basic English, che è certo un’utilissima zattera in ambienti di larghi incontri culturali (come argomenta il linguista Francesco Bianco), ma non basta per fare lezioni efficaci. b) Lo stesso limite di capacità linguistica si riscontra dalla parte degli apprendenti, almeno nella grande maggioranza dei casi (vedi già la constatazione di quel rapporto 90% stranieri / 10% italiani rivelato dal rettore milanese). c) L’internazionalizzazione dell’Università perseguita prevalentemente attraverso l’accesso linguistico facilitato per gli stranieri pare attirare più che altro studenti esteri (perlopiù dai Balcani e dall’Est europeo) che semplicemente non hanno superato le prove di accesso, molto selettive, in altri Paesi: i migliori studenti puntano direttamente alle Università dei Paesi anglofoni (anche ben quotate in campo scientifico, come sappiamo).
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d) L’internazionalizzazione delle nostre Università deve fare i conti con la situazione interna dell’intero Paese, dove permangono forti squilibri educativi in aree sociali e geografiche, che potrebbero portare a perdite di notevoli comparti umani nei ranghi dei ricercatori di alto livello. La vita intera dell’Italia unita ha sofferto gravemente di una astratta uniformità di governo dei processi sociali e culturali (a cui ha fatto sempre riscontro poi, nella realtà, un andamento a forbice degli stessi processi) e sembra che di questo ci si dimentichi ancora una volta. e) Se le nostre Università per migliorare la qualità linguistica dell’insegnamento in inglese dovessero (come anche si prevede) chiamare a insegnare sempre più docenti anglofoni nativi (requisito di grande vantaggio nelle assunzioni), questo si potrebbe tradurre in una presenza di docenti esteri di seconda scelta (saremmo in grado di attirare le eccellenze?) e certo in una depressione della classe docente italiana. f) Uno studioso molto bene informato sui sistemi universitari europei, Michele Gazzola, contesta decisamente i dati circolanti sulla pretesa ampia anglificazione dei corsi di alta formazione negli Atenei di altri Paesi non anglofoni. g) Privare la lingua nazionale, di un Paese che ha tanta storia culturale alle sue spalle, di una funzione così importante come quella di esercitare il pensiero scientifico e fornire la formazione più avanzata alle nuove generazioni (pur destinate in gran parte a operare in patria) non è un intervento di lieve entità, che si attua senza profondi contraccolpi sull’intero quadro dei valori in atto nella vita di quel Paese. È documentata la resistenza che oppongono a questo feno-
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Senza cadere nel culto delle “identità” nazionali, bisogna credere che sempre l’apertura ad altre culture e lingue deve avere il valore di scambio meno soprattutto la Germania e la Francia. Queste considerazioni non poggiano solo su induzioni e convinzioni di carattere generale, ma anche su dati quantitativi accertati e su competenze specifiche di chi opera proprio nel campo della formazione linguistica. Si vedano i contributi di Piero Bianucci, Carla Marello, Annamaria Testa, con l’appendice di testimonianze dal vero. Una conclusione va aggiunta. Le questioni legate alle funzioni delle lingue sono molto complesse, perché cariche di implicazioni
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soggettive e nei sistemi sociali e culturali. Senza cadere nel culto delle “identità” nazionali, bisogna credere che sempre l’apertura ad altre culture e lingue deve avere il valore di scambio (come nell’import-export commerciale), altrimenti si traduce in impoverimento e sottomissione di una delle parti. La politica dei Politecnici milanese e torinese non sembra farci caso. A molti sembra perciò, almeno in quella forma totalizzante, una fuga in avanti.
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Anima del mondo Paesaggi della letteratura
IL NOSTRO AGENTE A PANAMA Graham Greene, “l’uomo dai molti luoghi” di Francesco Baucia
“S
e vuoi andare dalla Germania in Spagna come fai?”: questa la domanda con cui il Capitano dà inizio alle lezioni private di geografia che decide di impartire al figlio adottivo Jim. Problema piuttosto insolito per cominciare un corso, seppure casalingo, di introduzione ai paesi europei. Ma se si aggiungono particolari alla scena, ci si accorgerà che questo non è il più anomalo dei dettagli. Innanzitutto, l’uomo che si fa chiamare “il Capitano” non ha un nome proprio: o meglio, ne ha molti, troppi forse, perlomeno tanti quanti sono i suoi travestimenti. In ogni caso, per gli intimi è “il Capitano”. In secondo luogo, il giovane Jim non è proprio il suo figlio adottivo. Il Capitano l’ha vinto a backgammon in una partita con il vero padre del ragazzo, un inquietante individuo noto come “il Diavolo” e, dopo averlo rapito dal collegio in cui si trovava rinchiuso, ne ha fatto “dono” alla
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sua compagna Liza, che di figli suoi non ne può avere. Ah, un ultimo dettaglio: Jim non è il vero nome del ragazzo, ma è Victor. Dargli un nuovo nome è soltanto l’ennesima stravaganza del Capitano. Questo intricato quadretto familiare è tratto da L’uomo dai molti nomi (The Captain and the Enemy) – ultimo libro di fiction di Graham Greene, che lo pubblicò nel 1988 – e facilmente schiude ai lettori la vista su un panorama romanzesco popolato di identità sfuggenti, come d’abitudine in molti libri del grande autore inglese. E questo, forse non solo per il fatto di essere l’ultimo, ha il pregio di racchiudere in poco più di duecento pagine i temi ricorrenti di tutta la carriera di Greene, costituendone una sorta di testamento spirituale. Vi si può ritrovare la rievocazione autobiografica delle violenze subite nelle tetre istituzioni scolastiche inglesi, il senso del male incombente e il dovere di difendere il
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ri lo scorcio di una Panama spettrale e della nucleo degli affetti – affetti spesso disperasua capitale divisa tra l’algido lindore degli ti, anomali, ingenui – dalle forze negative, la istituti bancari e la desolazione dei quartietragicomica doppiezza della personalità di ri poveri: “Nel quartiere che era chiamato ogni essere umano, il fascino per il viaggio ironicamente Hollywood era un contrasto e l’esotismo. terribile vedere le malferme baracche su cui Innegabilmente quest’ultimo aspetto riflette alloggiavano gli avvoltoi e nelle quali famiancora una volta un côté della reale persoglie intere erano ammucchiate nell’intimità nalità di Greene, che nella sua vita viaggiò della povertà totale a poche centinaia di memolto, traendo dalle proprie peregrinazioni tri dalle banche, dove le alte finestre luccicagli spunti per gli scenari di innumerevoli rovano al sole del mattino… Non ricordo quali manzi. Tra l’altro, i suoi continui vagabonparole usai per espridaggi furono uno dei mere il mio sgomento, motivi per cui venne ma ricordo la risposta assunto dai servizi sedi Pablo. ‘Questo non greti britannici, in una è solo il Panama. Quesezione diretta da Kim sta è l’America CenPhilby (il celebre agentrale…’”. Paese spette doppiogiochista che trale non soltanto per nel 1963 finì per ripala geografia urbana, rare in URSS). L’Amee per i loschi intrighi rica Latina in particopolitico-finanziari che lare fu al centro degli vi si svolgono, ma aninteressi di Greene, e che per l’ineffabilità in primis il Messico, della natura: “Sopra che visitò nel 1938 per le foreste del Darien documentare le feroci volammo in silenzio, persecuzioni antirelicol tappeto verde scugiose, e in cui ambienGraham Greene ro ininterrotto sotto di tò uno dei suoi capolanoi senza nemmeno vori, Il potere e la gloria I suoi continui un minuscolo strappo (1940). Ma è difficile vagabondaggi furono uno nella superficie”. Ed è non ricordare altri due dei motivi per cui venne proprio in questo scepaesi dell’America Laassunto dai servizi segreti nario contraddittorio tina che sono al cenbritannici, in una sezione che è destinata a contro di libri altrettanto sumarsi l’ultima avindimenticabili: Cuba diretta da Kim Philby ventura del Capitano, nel Nostro agente all’Agiocato dalla malinconia per il proprio amovana (1959) e l’Argentina nel Console onorario re perduto e da un complotto politico più (1973). E sempre oltreoceano torna, proprio grande della sua scaltrezza, abituata a espenell’Uomo dai molti nomi, per offrire ai letto-
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dienti di più piccolo cabotaggio. Il piccolo aereo che egli pilota prestandosi a misteriosi traffici di armi si inabissa così nel mare nero della foresta, e quasi sembra di sentire in quel volo l’eco della stupenda canzone Panama di Ivano Fossati: “Di andare ai cocktails con la pistola / non ne posso più, / piña colada o coca-cola / non ne posso più. / Di trafficanti e rifugiati / ne ho già piena la vita…”. Ma la divorante curiosità per il mondo e l’umanità che ha mosso negli anni la penna e i passi di Greene, non si è limitata all’America Latina. Fondamentali per la sua biografia intellettuale sono i soggiorni in Africa, continente al quale guardò con fervido occhio anticolonialista. Da questi viaggi, e in particolare dalle spedizioni in Liberia e in Sierra Leone (dove si recò inizialmente per ordine dei servizi segreti), nacquero altri due capisaldi della sua produzione letteraria: la raccolta di pagine autobiografiche Viaggio senza mappa (1936) e uno dei più importanti romanzi di tematica “religiosa”, Il nocciolo della questione (1948), le cui vicende si svolgono per l’appunto in una colonia dell’Africa occidentale. Cambiando latitudine, è pure impossibile dimenticare la vivida rappresentazione del Vietnam e del primo conflitto indocinese – cui Greene assistette come inviato di guerra – offerta nel romanzo del 1955 Un americano tranquillo, in cui l’autore tratteggia magistralmente uno dei suoi “doppi” letterari più riusciti, il giornalista Thomas Fowler. Giunti al temine di questo excursus, sarebbe tuttavia riduttivo relegare Greene nella casella dei narratori dell’esotico. Non solo per il fatto che anche gli scenari europei ebbero grande spazio nelle sue opere (basti pensare, tra gli altri, alla Londra della seconda guerra mondiale di Fine di una storia e alla Vienna
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“Sopra le foreste del Darien volammo in silenzio, col tappeto verde scuro ininterrotto sotto di noi senza nemmeno un minuscolo strappo nella superficie” postbellica della novella Il terzo uomo, da cui sarà poi tratto il celebre film di Carol Reed con Orson Welles). Ma soprattutto perché il viaggio non è un semplice complemento nell’arredo delle sue creazioni letterarie: è piuttosto per l’autore la suprema metafora dell’esistenza umana, la situazione in cui la solitudine del vagare costringe a vedere con più chiarezza non solo fuori di sé, ma anche nella propria interiorità, giungendo ad ammettere che l’unico bagaglio davvero inseparabile sono i segreti che ciascuno serba nel cuore. E forse, per il cattolico Greene, il viaggio è anche il simbolo della precarietà dell’esistenza umana, del suo fragile cammino dalla culla alla tomba, vissuto nella convinzione – per dirla con le parole di Chesterton – che l’uomo non è fatto per questo mondo.
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Alta cucina Leggere di gusto
IL JAZZ A TAVOLA Le contaminazioni culinarie di Haruki Murakami
di Luca Bisin
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uando, nel 1223, il maestro Eihei Dogen giunse in Cina dal Giappone per approfondirvi i principi e la pratica dello zen, egli ricevette sulla propria barca la visita di un monaco che vi si recava per acquistare presso i mercanti giapponesi alcuni funghi shitake. Impressionato dalla competenza e dalla profondità con cui il monaco rispondeva alle sue domande, Dogen lo invitò a trattenersi per prolungare la loro conversazione ricevendone però una risposta sorprendente: il monaco, che era il tenzo della propria
nessun’altro avrebbe potuto sostituirlo. Di questo insegnamento, che non esitò a indicare come un’illuminazione, Dogen fece tesoro una volta rientrato in Giappone e nel redarre le sue Istruzioni a un cuoco zen volle segnalare l’importanza di trattare con la massima cura anche un’umile foglia di verdura: “cucinare dei cibi ricchi ed elaborati non è necessariamente un’attività superiore, cucinare delle semplici verdure non necessariamente un’attività inferiore. Quando sei intento a preparare delle semplici verdure devi trattarle allo stesso modo di un cibo ric-
comunità, ossia l’addetto alla preparazione dei pasti, declinò l’invito per la fretta di tornare alla cucina del monastero e attendere al proprio compito. Sconcertato, Dogen gli fece notare che chiunque avrebbe potrebbe sostituirlo in un’attività tanto modesta come il cucinare, mentre sarebbe stato per lui tanto più utile e dignitoso impiegare ogni minuto del suo tempo nello studio dello zen, ma ne ottenne una risposta ancor più stupefacente: cucinare era, per il tenzo, la sua pratica dello zen, il suo modo di percorrere la Via in cui
co ed elaborato, con la mente aperta, sincera e pura”. Della dedizione rituale e della valenza spirituale che la tradizione giapponese ha saputo infondere nella propria cucina, sottraendola, almeno nelle sue espressioni più autentiche, all’inevitabile corruzione di una modernità che ha ormai reso il sushi un cibo globale quasi quanto l’hamburger, non si troveranno molte tracce nell’opera di Haruki Murakami, così ecletticamente aperta alle più disparate suggestioni occidentali e a innume-
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spaghetti da solo e li mangiavo da solo. Non revoli prestiti dalla cultura pop americana, avevo bisogno di compagnia. Mi piaceva così impegnata alla rappresentazione di un mangiare per conto mio. Sentivo che gli spaGiappone odierno, contraddittorio, contaghetti dovevano essere mangiati in solitudiminato, così risolutamente libera dal peso ne. Non so come spiegarmi”), il pungolo di delle tradizioni (“non leggevo molti scrittori un’inquietudine che rimane senza nome (“A giapponesi durante la mia infanzia o adovolte prendo a caso degli avanzi dal frigo lescenza, – dichiara Murakami in un’interper cucinare degli spaghetti che tragicamenvista – volevo fuggire da questa cultura, la te non avranno mai un nome”), lo spunto di trovavo noiosa. Troppo opprimente”). E tutuna scusa per sottrarsi al fastidio di una teletavia il cibo e la cucina hanno conservato per fonata importuna e cedere al gioco malincolo scrittore lo statuto di occasioni esemplari, nico dell’immaginazione (“È triste pensare a cariche di significato, che non di rado, anche tutti quegli immaginari mazzi di spaghetti quando si presentano nella forma apparenche non verranno mai cucinati”). temente distratta di un pasto frettoloso, conAnni dopo, nel romanzo L’uccello che girava ducono i suoi personaggi al confronto inagle viti del mondo, Muragirabile con gli aspetti kami vorrà riprendere e più intimi della propria “Nella vita, ci sono sviluppare quella cellula condizione esistenziale: momenti in cui si ha di ispirazione legata agli non più, forse, nella dilidavvero bisogno di spaghetti: il romanzo si gente consapevolezza di apre appunto sul protaun esercizio di meditamangiare qualcosa gonista intento alla prezione, bensì nell’irruziodi buono. E in quei parazione di un piatto ne involontaria di un demomenti, a seconda di spaghetti, mentre la stino bizzaro o nell’imche uno entri in un radio diffonde una muprovvisa epifania di un tratto insospettato del- buon ristorante o meno, sica di Rossini, quando la natura umana. In un l’esistenza può prendere la misteriosa telefonata un corso del tutto di una donna sconosciubreve racconto del 1983, ta lo interrompe dando ad esempio, dall’embledifferente.” inizio alla vicenda conmatico titolo L’anno detorta e surreale che occupa le pagine del rogli spaghetti, il protagonista trova la propria manzo. Ma è in tutta l’opera di Murakami ragione d’essere nel gesto ordinario e futiche il cibo sembra scandire certi eventi intele di una semplice preparazione culinaria: riori dei personaggi, perché (come si legge “cucinavo spaghetti per vivere, e vivevo per in un racconto del 1984 intitolato Granchi) cucinare spaghetti”. E l’apparente banalità “nella vita, ci sono momenti in cui si ha davdel contesto diviene subito lo scorcio dietro vero bisogno di mangiare qualcosa di buoil quale può affacciarsi il profilo di una vino. E in quei momenti, a seconda che uno cenda dai contorni ancora incerti: cucinare entri in un buon ristorante o meno, l’esistenspaghetti potrebbe rivelarsi allora un preza può prendere un corso del tutto differentesto di solitudine (“Di solito cucinavo gli
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Midori, è significativamente segnato da due te. È come cadere da questa o da quella parte pasti importanti. Nel primo, Watanabe è indi un muro”. In questo, il cibo è forse pari vitato a pranzo da Midori, una domenica alla musica, soprattutto il jazz, di cui Muramattina, e avverte i primi segni del proprio kami è sempre stato grande appassionato e affetto per lei osservandola mentre, con la in cui, non a caso, egli ha indicato una sugrapidità e la destrezza di un cuoco esperto gestione importante tanto della sua cucina (“La sua figura, vista di spalle, faceva penquanto della sua scrittura: rispondendo alla sare a un percussionista indiano. Mentre lo domanda di un lettore, Murakami disse una vedevi che suonava quei cimbali laggiù, era volta che il suo piatto preferito è quello in già a colpire un piatto da quest’altra parte, cui “non hai idea di cosa cucinare, apri il frio a battere un osso. Ogni singolo gesto era go e ci trovi sedano, uova, tofu e pomodoro. rapido e senza sprechi, e l’equilibrio dei suoi Uso ogni cosa e preparo il mio piatto. Quello gesti perfettamente calibrato”), appronta è il mio cibo preferito. Nessuna pianificazioun pasto sorprendentemente buono ed elane”; e volendo fornire un modello per il suo borato: “Pesce all’agro lavoro di scrittura egli ha da fritfatto spesso riferimento “Uso ogni cosa e preparo accompagnato tatine, sgombro mariall’improvvisazione nel il mio piatto. Quello è nato, melanzane bollite, jazz: “Apprezzo il senso il mio cibo preferito. brodo con erbette, riso del ritmo e l’improvvisazione. Un buon mu- Nessuna pianificazione.” ai funghi, e un piatto di rafani sottosale tagliati sicista non sa cosa sta sottilissimi e ricoperti di semi di sesamo. Il per succedere. È una decisione impulsiva. gusto di tutto era quello delicato e inconfonQuando scrivo un romanzo o un racconto, dibile della cucina del Kansai”. Nel seconnon so cosa sta per succedere”. do, ormai certo del proprio sentimento per Nel romanzo che gli ha dato la notorietà inMidori e dopo la morte di Naoko, il giovane ternazionale, Norvegian Wood - Tokyo Blues, il prende finalmente congedo dal doloroso riprotagonista Toru Watanabe è diviso tra l’acordo del suo primo amore suggellando la more un po’ idealizzato per la bella Naoko visita di Reiko (amica di Naoko presso la cli– che un tempo era stata la ragazza del suo nica e confidente di Watanabe) con la prepamigliore amico e che dopo il suicidio di razione, improvvisata ma solenne, di un suquest’ultimo decide di abbandonare Tokyo kiyaki: “Sai quanti anni sono che non lo manper ritirarsi in una clinica nei pressi di Kyogio? Me lo sogno perfino la notte. Con carne, to, divenendo per Watanabe una presenza porri, vermicelli di konnyaku, tofu e foglie di tanto importante quanto evanescente e ancrisantemo che bollono gorgogliando…” gosciosa – e il crescente affetto per Midori, Come altri piatti della cucina giapponese, il una ragazza dal carattere estroverso e disinsukiyaki viene preparato direttamente a tavolto. E l’inquieto percorso interiore di Wavola dai commensali: questo stile di cottura, tanabe, che lo porterà a congedarsi serenachiamato nabemono, è tipico dei mesi invermente da Naoko, dopo la morte di quest’ulnali e delle occasioni festose, e prevede nutima, per affrontare il crescente amore verso
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merose varianti possibili, una delle quali è, appunto, il sukiyaki. Gli ingredienti vengono cotti in una casseruola bassa d’argilla o di metallo (quest’ultima è preferibile nel caso del sukiyaki) posta su un fornelletto elettrico al centro del tavolo, da cui i cibi appena pronti vengono prelevati direttamente con le bacchette. La preparazione classica del sukiyaki prevede l’utilizzo di una carne di manzo appositamente tagliata in fette molto sottili, che dovrebbe presentare una certa quantità di grasso distribuita in striature uniformi. Alla carne si accompagnano diverse verdure (cavolo cinese, porro, funghi giapponesi), il tofu e un particolare tipo di vermicelli detti shirataki (si tratta di una varietà di pasta ricavata dal kunnyaku, una pianta molto diffusa in Asia da cui si ottengono una farina e una gelatina che vengono usate in numerose preparazioni). A caratterizzare il sukiyaki rispetto ad altre preparazioni nabemono, è poi l’impiego di una particolare salsa, detta warishita, che si ottiene miscelando insieme il brodo, la salsa di soia e il sake dolce (la variante Kansai del piatto, la più popolare, prevede che anche questa venga preparata direttamente a tavola); inoltre l’uso dell’uovo crudo, che andrà disposto in una ciotolina (una per ciascun commensale) e nel quale si dovranno intingere gli alimenti prelevati dalla pentola di cottura subito prima di mangiarli. Sebbene il sukiyaki sia un piatto piuttosto popolare, non andrà ovviamente trascurato l’aspetto estetico della preparazione: le verdure pulite e tagliate andranno quindi disposte ordinatamente, insieme alla carne e agli spaghetti precedentemente ammollati in acqua tiepida, su un grande piatto da portata, quasi a costituire un centrotavola, dal
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quale verranno prelevate per la cottura. Una volta che la tavola è stata accuratamente allestita, si può procedere alla preparazione del sukiyaki. Far sciogliere nella pentola una modica quantità di grasso (strutto o olio), quindi aggiungere lo zucchero e la salsa warishita precedentemente miscelata. La pentola deve essere già ben calda, in modo che la salsa vada immediatamente in ebollizione facendo evaporare la parte alcoolica del sake. A questo punto, aggiungere una parte della carne e farla cuocere leggermente finché rilasci un po’ del suo grasso: questo, insieme alla salsa warishita, costituisce la base per la cottura di tutti gli altri ingredienti. Quando la carne ha cominciato a prendere colore si possono aggiungere le verdure, poi il tofu e da ultimo gli spaghetti shirataki già ammollati. Appena i vari ingredienti saranno pronti, ogni commensale potrà prelevarli con le bacchette direttamente dalla pentola, passarli rapidamente nella ciotolina con l’uovo crudo (che, ovviamente, dovrà essere freschissimo) e mangiarli. Nel frattempo si possono mettere in cottura altri ingredienti prelevandoli dal piatto da portata. Se durante la cottura il liquido nella pentola diminuisce troppo, si potrà aggiungere un po’ di acqua e di salsa warishita.
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SUKIYAKI Ingredienti (per 10 persone): 450 g di lombata di manzo 1 pezzo di tofu grigliato (yakidofu) tagliato a cubetti 1 cavolo cinese (o cavolo di Pechino) tagliato a cubetti 1 mazzo di pak choi (una varietà di cavolo con foglie dalla costolatura spessa; si può comunque utilizzare qualsiasi verdura a foglie verdi) 4 funghi shiitake di grandi dimensioni 1 porro affettato (si userà solo la parte bianca) 1 pacco di shirataki (si tratta di una varietà di pasta ricavata dal kunnyaku, una pianta molto diffusa in Asia da cui si ottiene una farina e una gelatina che vengono usate in numerose preparazioni) 4 uova Per la salsa warishita: 1 tazza di brodo o acqua 1 tazza di salsa di soia 1/3 di tazza di mirin (una varietà di sake dolce) 2 chucchiai di zucchero
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La scrittura che genera bellezza
Recensioni
NEL NOME DEL FIGLIO di Vittorio Sgarbi
prosecutore sia per quanto riguarda il suo imAvete notato che nel periodo prenatalizio escopegno civile a tutela del patrimonio artistico, sia no sempre i libri più interessanti e soprattutto per quanto riguarda la passione verso il lettore meglio realizzati dal punto di vista del confee il cittadino invitato con i suoi scritti a mettersi zionamento cartaceo? Sono comunemente dette in cammino e a riscoprire la bellezza, che pure si “strenne natalizie”, riprendendo l’antica tradinasconde spesso a pochi passi dalle nostre case. zione romana di scambiarsi doni bene auguranti Così Nel nome del figlio è un libro da leggere, da in occasione della festa del dio Saturno che ricorregalare, ma soprattutto è un libro da custodireva tra il 17 e il 23 dicembre. Ecco, il significato re come fonte di sviluppo della nostra umanidi “dono bene augurante” è quanto mai approtà. Le parole di Vittorio Sgarbi, priato per un libro: buon auinfatti, se prendiamo le pagine gurio di prosperità, di svilupdedicate al Maestro della Tavola po e di piacere. di Sant’Agata o a Giovanni AgoTra questi doni certamente è stino da Lodi, riescono a dare un ben augurante l’ultimo libro tale senso di bellezza al lettore di Vittorio Sgarbi Nel nome che se ne immagina le opere da del figlio, uscito da poche setfavorire una catarsi dello spettimane per Bompiani, splentatore immaginario più vicina al didamente rifinito nella sua senso di pace che non al senso versione cartacea, come sadi angoscia. L’arte è pace, la belpientemente curato nella sua lezza genera pace, quella pace edizione elettronica. Sgarbi, si patrimonio dell’umanità che è sa, è mediaticamente noto per custodita nelle chiese più che in le sue sfuriate, le sue invettiogni altro luogo. ve, diciamolo pure, per il suo Disponibile su Per questo “nel nome del figlio” “capra, capra, capra” ripetuwww. cubolibri.it si cambia il mondo, come dice to fino all’ossessione. Eppure l’autore nella sua introduzione, perché dalla nulla di tutto questo trovano i lettori nell’aprire guerra e dall’angoscia si deve tendere alla beli suoi recenti libri d’arte. Da L’Italia delle meravilezza e alla pace. Quanto mai allora l’arte divenglie a Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri, da ta ricerca inquieta per lo Sgarbi televisivo che in Piene di grazia a Nel nome del figlio i lettori hanfondo non fa che continuamente viaggiare per no riscoperto un fascino per la scrittura d’arte scovare un po’ di bellezza e quando ne trova che non risuonava dai tempi di Cesare Brandi. tracce le sa condividere con tutti. Con chi almeno Cesare Brandi, quanti lo ricordano? Un campione vuol fare la sua stessa fatica di imparare qualcodella scrittura d’arte come scrittura d’artista, con sa. Nel nome del figlio che ognuno di noi è meti suoi memorabili scritti di viaggio (ricordo per tiamoci in cammino. Ne va della nostra umanità. esempio Pellegrino di Puglia e Viaggio nella Grecia Parola di Sgarbi. (Sergio Bassani) antica). Vittorio Sgarbi ne è il più degno erede e
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UNA MONTAGNA DI LIBRI
Appuntamenti
e gli altri eventi del mese
UNA MONTAGNA DI LIBRI È partita il 7 dicembre e proseguirà fino a marzo del 2013 a Cortina d’Ampezzo la settima edizione di “Una montagna di libri”. Giunta ormai al suo terzo anno di vita, la rassegna si svolge in due edizioni annuali in estate e in inverno, e presenta nello splendido scenario della cittadina dolomitica una fitta serie di incontri con personalità provenienti dal mondo della narrativa, del giornalismo, della cultura. Gli appuntamenti delle prossime settimane prevedono tra l’altro la partecipazione di Mogol, Marcello Veneziani, Arrigo Petacco, Valerio Massimo Manfredi, Gian Antonio Stella. Il 29 dicembre Paolo Mieli cercherà di tratteggiare gli scenari a venire della politica e dell’attualità italiane, mentre il 4 gennaio interverrà l’antropologo Marc Augé con una lezione sull’idea di futuro. Fino al 30 marzo LE IMMAGINI DELLA FANTASIA A Sarmede (TV) proseguirà fino al 20 gennaio 2013 la trentesima edizione della Mostra internazionale d’illustrazione per l’infanzia Le immagini della fantasia, che ha visto come ospite d’onore l’illustratore italiano Roberto Innocenti. Oltre agli spazi espositivi, dove sono presenti
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più di 350 opere di illustratori provenienti da tutto il mondo, sono previsti laboratori creativi per bambini e adulti, letture animate, incontri di approfondimento e formazione sul mondo del libro illustrato e della letteratura per l’infanzia. Fino al 20 gennaio GIULIO EINAUDI. L’ARTE DI PUBBLICARE Fino al 13 gennaio 2013 è in mostra nelle sale di Palazzo Reale a Milano Giulio Einaudi. L’arte di pubblicare. A cent’anni dalla nascita, l’allestimento ripercorre la straordinaria parabola del grande editore che a partire dal 1933, anno di fondazione della casa editrice, ha saputo convogliare attorno all’impresa editoriale alcune delle maggiori personalità del panorama culturale italiano: da Leone Ginzburg a Fernanda Pivano, da Norberto Bobbio a Cesare Pavese. Attraverso un’accurata scelta di volumi, la mostra documenta anche l’innovativa attenzione di Einaudi per gli aspetti grafici e tipografici del prodotto editoriale, che lo porterà a collaborare con maestri del design e dell’illustrazione come Bruno Munari, Albe Steiner, Max Huber, e a definire un’identità grafica attestata dalle inconfondibili copertine delle più importanti collane della casa editrice. Fino al 13 gennaio
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Tweets @killermedia Chi crede ancora agli #ebook?
@patrizialadaga L’editoria indipenden te in mezzo alla tempesta . Tra crisi economica e rivol uzione digitale, quale futuro ?
@pandem ia 729 gli e ditori ita liani che no #ebo pubblica ok +40% rispetto fa, wow! a sei mes 37% dell i e novità digitali. subito
@marcoA modio alle pres e con i fi les #InDesig n e tutto #epub quello ch riguarda e la proge ttazione #checon . fusione!
@EdCrossmediale
“Il mondo è fatto per finire in un bel libro” varrà anche per gli #ebook? :D
line , @apogeon nieri addio io P le a it ig #EditoriaD dustria. Il 2013 in i d he è tempo book, anc e # li g e d o sarà l’ann . in Italia
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pretesti Occasioni di letteratura digitale
PreTesti • Occasioni di letteratura digitale Dicembre 2012 • Numero 12 • Anno II Registrazione Tribunale di Cagliari N. 14 del 09-05-2012 ISSN 2280-6385 Telecom Italia S.p.A. Direttore responsabile: Daniela De Pasquale Direttore editoriale: Roberto Murgia Coordinamento editoriale: Francesco Baucia Direzione creativa e progetto grafico: Fabio Zanino Alberto Nicoletta Redazione: Sergio Bassani Luca Bisin Fabio Fumagalli Patrizia Martino Francesco Picconi Progetto grafico ed editoriale: Hoplo s.r.l. • www.hoplo.com In copertina: Tim Parks L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito. Per informazioni info@pretesti.net
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