Tito Trombacco Tito Trombacco
La Tagliatella Bolognese La unaTagliatella città da gustare Bolognese una città da gustare
I Grandi Piatti Petroniani
I Grandi Piatti Petroniani
VALORI E IDEE PER NUTRIRE LA TERRA
L’Emilia-Romagna a Expo Milano 2015
Realizzazione editoriale a cura di Casalecchio Insieme Proloco, per conto della Tagliatella Accompagnata in occasione della Festa dei Sapori Curiosi, 30 e 31 maggio 2015. www.latagliatellaccompagnata.it www.casalecchioinsiemeproloco.org
VALORI E IDEE PER NUTRIRE LA TERRA
L’Emilia-Romagna a Expo Milano 2015
Con il Patrocinio della:
ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA Istituzione Culturale della Repubblica Italiana DELEGAZIONE DI BOLOGNA DEI BENTIVOGLIO
Grafica copertina e impaginazione a cura di: visual designer, arch. Marco Battaglia
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La Tagliatella bolognese
Per parlare della Tagliatella bolognese dobbiamo necessariamente partire dalla pasta sfoglia che è la sua progenitrice, per poi concludere, e chiudere, parlando del ragù bolognese perché senza questo la Tagliatella si presenterebbe al pubblico, sulle tavole, nuda come la sfoglina l’ha fatta! Il ragù bolognese è nato appunto per vestirla degnamente. Nella cucina tradizionale bolognese, tra le nobiltà delle sue minestre, incontrastato Re è Sua Maestà il Tortellino, il quale benignamente concede la Sua regale presenza solo nelle grandi occasioni famigliari e nelle maggiori feste e solennità, la Tagliatella per molti ne è la Regina, ma sarebbe più appropriato considerarla come una Contessa, sia perché è più alla mano, nobilitando popolarmente tutte le domeniche con la Sua presenza le tavole bolognesi, sia per non fare un torto al resto della Corte, dove troviamo come nobili scudieri di pari lignaggio, piatti che rispondono al nome di Lasagna e Tortellone da vigilia. La pasta sfoglia è una delle immagini più genuine e più antiche non solo della cucina bolognese, ma di tutta la tradizione culinaria dell’Emilia Romagna. Il termine sfoglia corrisponde ad un sottile strato di pasta e la sua nascita si perde nella notte dei tempi, l’uomo, inteso in senso generico, con il suo evolversi, dal semplice impasto di farina con l’acqua, ha sempre ricavato da che sfamarsi. In realtà e nel quotidiano, e la storia ne è buona testimone, i ruoli della coppia, sono stati sempre ben precisi e definiti: mentre l’uomo era fuori a procurarsi il cibo, la donna era dentro a cucinare ed accudire la casa e la prole, prima nelle caverne, poi nelle capanne su palafitte e nelle rudimentali case medioevali sino alle attuali abitazioni. Dalla notte dei tempi, questo semplice impasto ha dato all’uomo la possibilità di vivere, e sopravvivere in qualsiasi luogo, latitudine e circostanza, per questo è sempre stato uno degli elementi base dell’alimentazione della sua esistenza. Da questo semplice impasto la donna ha imparato a ricavare pani e paste sfoglie, nasce da qui il concetto di pasta, in primis la “Lagana”, dei romani, da cui deriva il termine lasagna, i quali nei primi secoli D.C. ebbero inoltre il pregevole merito di arricchire l’impasto con l’uovo, il vero progenitore della nostra pasta sfoglia emiliana. Dalla pasta sfoglia, oltre alle lasagne e le tagliatelle, nacquero tutte le paste farcite italiane, diventando così parte integrante insostituibile e caratteriz5
zante della nostra cultura della cucina, una forma di cultura non accademica ed elitaria, ma patrimonio comune di tutti, segno di coesione di un comunità e di forte relazione tra le persone ed il territorio. Forse non nelle forme a noi oggi conosciute, la pasta sfoglia ed i suoi derivati, sono sempre state presenti nell’alimentazione padana, dove la farina in genere non mancava, di frumento ma anche di granoturco, di castagne, di segala od altri cereali inferiori, e nei momenti di carestia o in presenza di guerre, per il popolo più povero e quello contadino, anche quella ricavata dalle ghiande, o da radici di piante varie fatte seccare. Già nel duecento la pasta sfoglia era un foglio sottile che, tagliato a riquadri cotti e farciti da formaggi vari era la lasagna, mentre in forma di quadrati ridotti, ma crudi, ripiegati e farciti diventava il raviolo. Tra la seconda metà del cinquecento e la prima metà del seicento, abbiamo un generale rinnovamento culturale, anche per la cucina c’è aria nuova, nelle corti trionfa il banchetto con i suoi superbi piatti, con i trattati di Cristoforo Messisbugo, ferrarese pubblicato nel 1557, di Bartolomeo Scappi, bolognese, pubblicato nel 1570, del Vasselli e di Vincenzo Tanara l’ “Economia del Contadino in Villa” un classico della cultura contadina e povera, pubblicato nel 1644 a Bologna, c’è l’incontro tra la cucina e la cultura, un tripudio di cibi e piatti. Nei banchetti illustrati nei trattati, appare spesso la pasta sfoglia, nella forma di “Lasagnuole”, larghe fette di pasta, più pappardelle che tagliatelle. Bartolomeo Scappi, la cui origine è controversa poiché per alcuni è nato in Valtellina o nel Veneto, mentre per altri invece è a Bologna, dove esisteva una importante famiglia, che è nato, e precisamente a San Lorenzo in Collina, dove a quell’epoca risultava abitare una famiglia con quel cognome. Prima cuoco del celebre Cardinale bolognese Campeggi, e già da questo fatto si può dedurre la sua bolognesità, perché era normale che ad alto livello ci si avvalesse di collaboratori in grado di proporre, in questo caso con un cuoco bolognese, la cucina del luogo di origine, poi lo troviamo a Roma quale cuoco segreto di Pio V, qui, nel 1570 pubblica il suo famoso ed importante trattato, diviso in sei libri: “Opera”, che è l’esempio più interessante di descrizione dell’uso degli ingredienti e dell’impiego appropriato degli attrezzi in quell’epoca. Inoltre vi troviamo uno degli esempi più affascinanti della storia della pasta fresca la ricetta: “Per far minestra di tagliatelli” che è la prima ricetta, codificata e pubblicata della tagliatella, dove si impasta la farina con acqua tiepida e tre o quattro uova, ma già in precedenza, a metà del ‘400, dopo i secoli bui e poveri, nella pasta sfoglia è testimoniata il ritorno della presenza dell’uovo. La tradizione romana, unita poi alla secolare dominazione Papale, ha fatto si che nelle aree bolognesi ed in quelle romagnole, si abbia il tipo di lasagna medioevale, gastronomicamente parlando per questo, ed altri motivi, Bologna e la sua cucina, è più legata alla Romagna che all’Emilia, tra l’altro divisa nei tanti Ducati, vera novità è la nascita in questi luoghi delle paste farcite dai diversi ripieni, i tortelli ed i vari anoli e ravioli. 6
Dal ‘500 all’ Ottocento, non abbiamo mutamenti significativi se non particolarità legate alle mode ed ai gusti del tempo, come l’uso dell’acqua rosata per l’impasto, o l’aggiunta di zafferano, e talvolta, di zucchero e pan grattato. Tranquillamente possiamo affermare che, da sempre, l’Emilia Romagna è la patria della pasta sfoglia all’uovo, dove per gli emiliani, ma in particolare per i bolognesi, è solo “la sfoglia”. Rigorosamente lavorata a mano, e sempre a mano tirata con il matterello, questo indispensabile ed insostituibile strumento di legno, era talmente radicato nelle abitudini famigliari, in modo tale da aver assunto il simbolo dell’autorità della donna nella casa: mentre nel resto dell’Italia, nelle vignette umoristiche la donna era disegnata con in mano una scopa, qui il marito, che rientrava tardi e spesso brillo, era accolto dalla moglie, sulla porta, con il matterello in mano. Non per campanilismo ma è a Bologna che la pasta sfoglia ha il suo celebrato trionfo, infatti si può tranquillamente affermare che è qui che ha una sua completa, ma particolare e diversificata interpretazione. Nelle altre città emiliane alle immancabili tagliatelle sono abbinate, secondo le specialità locali, solo il cappelletto, l’anolo, l’anolino, il tortello e la lasagna, a Bologna abbiamo invece, caso unico, ben cinque minestre la cui base è la pasta sfoglia. Paste che sono state tutte omologate, come minestre tipiche, dalle Delegazioni bolognesi dell’Accademia Italiana della Cucina, e con atto notarile, depositate alla Camera di Commercio di Bologna: Sua Maestà il Tortellino, la Contessa Tagliatella, il Tortellone da vigilia, ed infine la Lasagna nelle due versioni: quella classica verde e quella gialla all’uovo, una vera apoteosi della sfoglia. Per quanto riguarda la tagliatella, questa vuole una pasta sfoglia dove il giusto equilibrio tra farina ed uovo deve dare un impasto da cui si ottengono delle tagliatelle, che buttate (è questo il giusto verbo utilizzato nelle cucine delle nostre zone: butta la pasta!) nell’acqua in bollore, cotte, ritornino subito in superficie per essere immantinente scolate, condite all’istante, il tempo di sporzionarle nel piatto, servite e mangiate; al palato devono risultare sode, fragranti, ben sgranate e non lisce e scivolose, con l’acqua di cottura od i grassi del condimento non assorbiti. Per ottenere il meglio dobbiamo avere l’accortezza di tener ben presente che ci sono due tipi di tagliatelle, e di conseguenza due tipi di sfoglia, sfoglia grossa tagliata stretta per le tagliatelline in brodo, sfoglia sottile tagliata larga per quelle d’asciutto; per i veri cultori delle tagliatelle esiste poi la variante per le tagliatelle al prosciutto (condite con un ragù di burro e ragù di prosciutto fresco) queste sono tagliate un medio strette (una via di mezzo tra la larghezza della tagliatella e quella della tagliatellina) e sfoglia meno sottile rispetto alle normali, queste a Bologna sono dette anche tagliatelle romagnole. La cucina bolognese nasce in una città dove le arti hanno avuto in ogni epoca un posto di preminenza e di rilievo assoluti, cresce e si sviluppa quindi in un ambiente permeato di cultura ed ingegno, si affina nel tempo accanto alla costruzione di chiese, palazzi e monumenti di assoluto valore, ed al talento dei suoi illustri pittori che nel corso dei secoli hanno reso rinomata la 7
città, i suoi grandi piatti realizzati dai suoi famosi cuochi, celebrati in tutto il mondo, avendo come base il principio che “ la cucina è l’arte di utilizzare ciò che la natura ci dona ” sono anche il frutto e la conseguenza di questa atmosfera. A non tutti è noto che la fama della cucina bolognese, non solo in Italia ma anche in Europa, ha la sua consacrazione nei secoli XVII° e XVIII°, per Bologna questa notorietà coincide, nel campo delle arti con l’influsso, impresso dalla scuola bolognese di pittura dei Carracci, per tutto il XVII° secolo, sia in Italia che Francia, con l’Accademismo. Se da una parte i Carracci con la loro scuola, incidono direttamente sull’evolversi della pittura, nel campo della cucina il discorso non è così semplice, perché parliamo di secoli dove ancora non si parlava o scriveva di cucina come l’intendiamo noi oggi, ma le uniche tracce e poche testimonianze, le possiamo ricavare praticamente solo dai trattati che sono giunti a noi, trattati che parlano solo di una cucina nobile ed ufficiale di Corte, la cucina dei grandi banchetti e delle grandi occasioni ed eventi, ed è qui che Bologna, con i suoi cuochi scrittori ha il suo predominio. La fama della Bologna gastronomica, la notorietà della sua cucina e dei suoi celebrati piatti, passa necessariamente attraverso l’autorevolezza ed l’importanza, nel panorama delle pubblicazioni dei trattati di cucina, di una letteratura gastronomica di origine bolognese, scritti, e pubblicati anche a scopo didattico, con le ricette, i consigli e le esperienze maturate nelle cucine delle corti in cui i loro autori hanno lavorato, in questi testi, c’è tutto il loro patrimonio culturale e professionale di cui erano dotati. Leggendo le pagine di questi pochi trattati giunti sino a noi, e che riportano in dettaglio le vivande gustose ed abbondanti presenti nei banchetti, e quelle che descrivono minuziosamente le sofisticate preparazioni culinarie servite sulle tavole dei nobili di quei tempi, si potrebbe provare la sensazione di essere presenti ad un vero e proprio paese ricco e florido, ma questo contrasta nettamente con la concreta e reale realtà, non solo in campo alimentare, di quelle epoche. La realtà era molto diversa infatti, perché sino a quando non si è avuta una produzione sufficiente, il grano ed il pane di farina bianca era riservato solo ai signori, mentre il popolo il più delle volte si è sempre sfamato mangiando pane fatto con farine di diversi tipi di cereali. A questo proposito, preziosissima testimonianza, è l’opera di Annibale Carracci, “Un villano a tavola” più nota come “il mangiafagioli”, il personaggio raffigurato in questa tela che si riconosce dal cappello di paglia ornato di penne di gallo che lo qualificano come bracciante o contadino, è rappresentato a tavola mentre si porta alla bocca una cucchiaiata di zuppa di fagioli, l’altra mano stringe un pezzo di pane sbocconcellato, pane che dal colore, meglio lo si nota nella pagnotta intera che è posata ai bordi della tavola, si intuisce essere fatto non solo di farina bianca. Da questa preziosa opera possiamo ricavare altre due importanti testimonianze, la prima è forni8
ta dalla forma del pane che non si discosta molto da similari pezzi che ancora oggi, si possono trovare prodotti dai fornai dei piccoli centri rurali e di campagna; la seconda che possiamo ricavare è il salubre menù giornaliero di un lavoratore del XVI° secolo: una corposa e rigenerante zuppa, una tonificante torta salata con verdure, il tutto accompagnato da un mazzetto di stimolanti ed energetici cippolotti e l’immancabile sostegno del vino rosso. Lo stesso ragionamento vale per i vini, dove solo i nobili, nei loro convivi, avevano vini in abbondanza, per quanto riguarda le carni, ed in particolare per le carni bovine, sino a quando non è entrata l’abitudine di avere diversificate le bestie per il lavoro da quelle per l’alimentazione, questa era ricavata unicamente dalle bestie vecchie e non più in grado di lavorare e fare il latte, tutte pelle ed ossa, quindi con carne scarsa e dura. Era norma ed abitudine che i periodi di macellazione sia dei bovini, che dei suini ed ovini, coincidessero con i mesi di novembre, dicembre e gennaio quando erano finite le necessità di averli a disposizione per i lavori, e quindi per non doverli alimentare nei mesi in cui non venivano impiegati ed il foraggio scarseggiava.. La spinta e lo stimolo popolare, innovativo se non rivoluzionario, che impregna specialmente le opere del primo periodo di attività di Annibale Carracci, e che ne fanno uno dei grandi maestri protagonisti della pittura italiana di tutti i tempi, è evidenziata, e la troviamo, in due sue opere: le “Macellerie” quella “grande” di Oxford e quella “piccola” di Fort Worth, opere in cui si uniscono e concretizzano l’originalità di concezione e l’alta qualità di esecuzione, perfette raffigurazioni di un lavoro, di un ambiente, di un evento. Queste due opere sono una precisa e pregnante documentazione di un momento, di una situazione, sono la fedele ricostruzione ambientale di un lavoro, il che rende perfettamente riconoscibile il luogo in cui la scena si svolge, ogni dettaglio è reso con la massima naturalezza e veridicità, i tratti dei personaggi mettono in risalto la dignità di un lavoro, e di un lavoratore, in cui si intuisce e percepisce più una azione sacra che il fatto puramente materiale. Anche attraverso la particolarità, e la notorietà di opere con questi temi, ed a questi livelli, ha fatto si che il prestigio e la fama culinaria di Bologna, e l’importanza riservata dai bolognesi al cibo ed alla tavola, abbiano raggiunto e toccato i livelli di rilevanza non solo nazionale, ma mondiale, che tutti ci riconoscono, e questo vale sino al più recente passato, tenendo però presente che il futuro ha le sue radici ed è racchiuso solo in uno splendido passato. Per Bologna il ‘600 ed il ‘700, sono stati secoli che hanno significato uno dei periodi di maggior successo, importanza e prestigio, in campo Europeo, se accanto alla pittura ed all’architettura possiamo oggi tranquillamente annoverare anche la cucina e la letteratura gastronomica e dell’alimentazione, rievocando questo periodo, infine non è possibile trascurare, e quindi non prendere in considerazione la musica, anche in questo settore la scuola bolognese in quell’epoca era maestra e nella musica di cappella addirittura dettava legge. Per questi motivi, allacciare la cosiddetta cucina 9
del tempo dei Carracci con la cucina bolognese, certamente non è solo un assioma ed una tesi affascinante, ma una realtà concreta. La pasta sfoglia diventa così l’emblema ed il vanto delle cucine emiliane romagnole, dove le caratteristiche e la qualità della sfoglia lavorata rigorosamente a mano e tirata con il matterello sono uniche, a Bologna e nelle zone di questi territori costituisce un simbolo insostituibile per garantire la continuità di una tradizione casereccia che proviene direttamente dalle sue radici medioevali, che accomuna le sue tradizioni e le sue popolazioni, da qui comincia anche la storia della tagliatella. La tagliatella, minestra che onora Bologna e che ha contribuito in maniera determinante a farla conoscere ed identificare nel mondo dei buongustai, condita ed impreziosita da un classico ragù, altro pilastro della mitologia gastronomica bolognese, così da farla diventare la grassa, è un piatto straordinario che solo qui si può mangiare, dove la convivialità è una filosofia di vita e dove accanto alla storica “Dotta Confraternita del Tortellino” sorta nel lontano 1974 per celebrare il tortellino ed il suo classico ripieno, ha recentemente partorito l’Associazione Gastronomica Bolognese “La Tagliatella accoppiata”, sorta proprio per esaltare, ma anche difendere il valore della tagliatella.
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Misura Aurea della Tagliatella
La Delegazione di Bologna dell’Accademia Italiana della Cucina nel 1972 depositò alla Camera di Commercio di Bologna la: “Misura Aurea della Tagliatella bolognese” dove la misura indicata della larghezza da cruda deve essere di mm 6.5-7 che corrisponde alla 12.270 esima parte della Torre degli Asinelli, una volta cotta deve risultare intorno agli 8 mm. Il campione in oro, della riproduzione della tagliatella depositato è di 8 mm. Dobbiamo ricordare che la Corte di Cassazione con pronuncia n° 75 del 17.01.1980, ha stabilito che solo alla tagliatella che risponde ai canoni fissati dalla Misura Aurea, cioè larga non più di mm 8 dopo la cottura, potrà essere affiancato il termine “bolognese”.
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Per “Far minestra di Tagliatelli”
“ Impastinosi due libbre di fior di farina con tre uova e acqua tiepida e mescolisi bene sopra una tavola per lo spatio di un quarto d’hora, e da poi stendasi sottilmente con il bastone, e lascisi alquanto risciugare il sfoglio, e quando sarà asciutto però non troppo, perché creperebbe, spolverizzisili di fior di farina con il setaccio, acciochè non si attacchi; piglisi poi il bastone dela pasta e comincisi da un capo e rivolgasi tutto lo sfoglio sopra il bastone leggiermente, cavisi il bastone e taglisi lo sfoglio così rivolto per lo traverso con un coltello largo sottile; e tagliati che saranno, slarghinosi e lascinosi alquanto rasciugare, e asciutti che saranno, setaccisi fuora per lo crivello il farinaccio e facciasene minestra con brodo grasso di carne, o con latte, e butiro. E cotti che saranno servansi caldi con cascio, zuccaio e cannella; e volendone fare lasagne taglisi la pasta sul bastone per lungo e compartasi la detta pasta in due parti parimente per lungo, e taglisi in quadretti, e faccianosi cuocere in brodo di lepre, overo di grua, o d’altra carne, o in latte, e servansi calde con cascio, zucaro, e cannella.” 12
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Ricetta della pasta sfoglia
Ingredienti per la sfoglia:(per 4 persone): gr 400 di farina bianca 00 - n. 4 uova intere ed all’occorrenza si può aggiungere ½ guscio d’acqua - una presa di sale. In molte famiglie al posto dell’acqua, si preferisce usare ed aggiungere nell’impasto il rosso di un uovo se si vuole ottenere una pasta sfoglia più soda, mentre se si vuole più elastica si usa aggiungere la chiara di un uovo. Per la lavorazione, 1 – 2 cucchiai di farina. Preparazione della sfoglia: lavorato a mano l’impasto con sottile maestria ed un raffinato gioco di matterello, la sottile sfoglia così ottenuta, si arrotola su un canovaccio e si fa leggermente asciugare, a qual punto e’ pronta per essere stesa sul tagliere ed essere tagliata.
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Diversi sono i termini ed i titoli che vengono usati per l’identificazione di questo piatto, Tagliatelle al ragù, Tagliatelle alla bolognese, Tagliatelle al ragù bolognese, Tagliatelle al ragù alla bolognese, Tagliatelle bolognesi al ragù, ma tra queste quale è la dizione esatta? Per quanto detto ne deriva che la dizione esatta è unicamente “Tagliatelle bolognesi al classico ragù bolognese”. A parte il fatto che nelle nostre zone ogni donna che faccia cucina ha la sua personale ricetta, del ragù, del ripieno dei Tortellini, della sfoglia e di tutte le altre nostre tipiche ricette, possiamo dire che in generale per la sfoglia ad ogni etto di farina corrisponde l’impiego di un uovo intero. E’ tutta la sottile maestria della mano che sfoggiano le donne emiliane, ed in particolare le bolognesi, che da sempre ne ha decretato il loro primato, prima per impastare, poi queste sapienti mani iniziano il raffinato gioco con il matterello ed ecco la sfoglia uniforme, sottile il dovuto, perfetta, le sfogline, maestre di quest’arte, che praticamente hanno sostituito la donna oggi sempre più fuori casa per lavoro, ci deliziano quanto una poesia che non si stanca mai di ascoltare, la sfoglia arrotolata su di un canovaccio si fa asciugare leggermente per una quindicina di minuti, si libera dal canovaccio e si torna ad arrotolare su se stessa, si taglia, da qui il nome, con le mani si aprono e si sgranano i rotolini, le Tagliatelle sono pronte per essere immerse nell’acqua in bollore, dopo un paio di minuti, come tornano in superficie, sono pronte, al dente, per essere condite e, nel piatto ben caldo, servite a tavola. La bontà di un piatto di Tagliatelle cotte, è giudicato dal fatto che la superficie della Tagliatella non deve risultare scivolosa, ma di pasta ben soda, e sempre in grado di assorbire ed amalgamarsi bene con il sugo del ragù, il quale, alla fine, non deve lasciare sul fondo eccessive tracce di unto. Come per il Tortellino, anche se meno nota, esiste pure per la Tagliatella la leggenda della sua invenzione, infatti questa è stata immortalata in versi, scritti alla fine del ‘400, dal poeta Michele Angelo Salimbeni, presente alla Corte dei Bentivoglio Signori di Bologna, versi che testimoniano come sia invenzione ed opera del Mastro Zafirano, capo cuoco della grande famiglia bolognese, che, ispirandosi ai lunghi capelli biondi di Lucrezia d’Este, sposa nel 1487 ad Annibale Bentivoglio, in occasione del loro matrimonio, in loro omaggio inventò la Tagliatella. La tradizione ce li riporta cosi:
Tagliatini di pasta e conditura
da Zafiran creati e sua fattura
negli occhi avendo li capelli d’oro
della Lucrezia sposa e suo decoro. 15
Nell’ottocento Bologna consacrò la rotondità carnosa della sua tavola e soprattutto, quel piatto succulento che si identificava nella Tagliatella bolognese, minestra che onora Bologna, e che ha contribuito in maniera determinante a farla conoscere ed identificare nel mondo dei buongustai, condita ed impreziosita da un classico ragù, altro pilastro della mitologia gastronomica bolognese, così da farla diventare la grassa, è un piatto straordinario che solo qui si può mangiare, e che assieme ai Tortellini in brodo, furono definiti da Piovene: “piatti mitologici”. Alla fine del secolo, lo scrittore e poeta Olindo Guerrini, con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti scrisse “L’Arte di utilizzare gli avanzi della mensa” il famosissimo trattato di arte culinaria, testo, che insieme a quello scritto dall’Artusi, è fondamentale per la nascita della cucina italiana, suo è il sonetto che dà la ricetta delle Tagliatelle: Fate una pasta d’ova e di farina e riducete rimenando il tutto in una sfoglia ma non troppo fine eguale, soda e, su taglier pulito, fatene tagliatelle larghe un dito, che farete bollire allegramente in molta acqua salata, avendo cura che come si suol dire, restino al dente, poiché se passa il punto di cottura, diventan pappa molle, porcheria, insomma roba da buttar via. Dall’altra parte in un tegame basso mettete alcune fette di prosciutto indi col burro rosolate il tutto. Scolate la minestra e poi conditela Con questo intinto e forma, indi servitela. Questa minestra, che onora Bologna detta la grassa non inutilmente, carezza l’uomo dove gli bisogna Il 17 ottobre 1982 il Prof. Carlo Citrullo, allora Delegato di Bologna dell’Accademia Italiana della Cucina, aprì il Convivio durante il quale ci sarebbe stata la registrazione notarile della ricetta del “ragù alla bolognese”, motivò l’operazione: “per vestire degnamente la tagliatella, depositata nuda come fu creata con altrettanto degno ragù”. Nel suo discorso introduttivo tra l’altro affermava: “…. Il riconoscimento del ragù nasce dal desiderio di rinsaldare una tradizione che vogliamo non sia uccisa o dimenticata dalla fretta del nostro tempo………Abbiamo voluto riportare ai suoi antichi canoni uno dei pilastri della cucina bolognese, il ragù, anche per non continuare a rimpiangere come stiamo facendo, il buon tempo antico”. 16
Parole che ogni buongustaio non solo bolognese, amante delle nostre caratteristiche tradizioni culinarie nazionali, di qualsiasi regione o comune esso appartenga, riferendosi ai propri piatti caratteristici, salvo poche e rare eccezioni, purtroppo oggi potrebbe far sue. La cucina bolognese, come quella italiana, sin dal medioevo condiva le sue paste, anonime e povere fatte solo con acqua e farina, arricchendole con salse, intingoli e sughi di carne animale stufata, come ci dimostrano le testimonianze di ricette scritte e giunte sino a noi, molto probabilmente con l’intelligente recupero di tutte quelle parti, o ritagli, non altrimenti non utilizzabili di carni di ogni tipo animale, allevato o cacciato, che per la loro durezza richiedevano una lunga e lenta cottura. La parola ragù deriva dalla francese ragout, che nella cucina d’oltralpe sta ad indicare appunto condimento, intingolo, stufato. E’ molto difficile andare indietro nel tempo per individuare, con una certa approssimazione, la data a cui far risalire la nascita del ragù, anche se già nella seconda metà del settecento il menu di una trattoria bolognese riportava: -“ le tagliatelle e le pappardelle servite col sugo di anatra”, considerando le abitudini culinarie dell’epoca, si può anche ipotizzare che quelle tagliatelle venissero condite anche con uno stracotto di carne, il primo passo era così compiuto. Il tempo, le esperienze davanti ai fornelli delle massaie, la fantasia dei primi grandi cuochi di corte, ma specialmente con la rivoluzione industriale dei primi decenni dell’ottocento con la contemporanea affermazione dell’uso generalizzato del pomodoro, del suo sugo e del suo passato, probabilmente hanno contribuito a creare un po’ alla volta, con giusto uso ed equilibrio di ingredienti, la base di quel condimento che poi è diventato l’attuale ragù e che ha trovato nella cucina dell’ottocento, la sua vera celebrazione ed elegia, tanto da conquistare il palato dei più celebri scrittori e viaggiatori stranieri, in visita a Bologna. Per i dizionari della lingua italiana la voce ragù corrisponde a: “sugo per pasta asciutta, pasticci, sformati che si ottiene facendo rosolare e cuocere a fuoco lento con prosciutto, lardo, sale e pepe, battuto di cipolla e pomodoro, un pezzo scelto o anche ritagli di carne di manzo”. Tra la cucina italiana e quella francese c’è sempre stato un forte legame ed un intreccio di influenze: prima la cucina francese diventa succube della cucina rinascimentale italiana, poi a metà degli anni seicento Francois Pierre Sieur de la Varenne scrive il “Cuoco Francese”. Questo autore agli occhi dei suoi connazionali, che accolsero le sue pubblicazioni con entusiasmo, apparve come il liberatore dalla sudditanza italiana, da notare che tra queste una si intitolava “L’Ecole des ragouts”. Il “Cuoco Francese” tradotto e pubblicato in Italia alla fine dello stesso secolo, diventa un trattato che affiancherà la nostra gastronomia sino agli inizi dell’ottocento, quando in Italia, anche nella cucina di tutti i giorni, esplode la moda della cucina francese, divulgata dagli autori italiani, tramite la pubblicazione dei nostri primi trattati “moderni”, dove accanto alle nostre ricette comparivano parecchie preparazioni di netta marca ed influenza francese. 17
L’Artusi alla fine dell’ottocento, con il suo trattato, tra gli altri meriti ha anche quello di avere offuscato questa dipendenza, ristabilendo in cucina una nostra precisa identità. L’Artusi, è il primo autore che prende in considerazione, e mette in risalto, anche se in evidente preponderanza vi troviamo solo quelle Toscane, dell’Emilia e Romagna e quelle del Veneto, le ricette ed i piatti di gran parte d’Italia. E’ il modello, tra tradizione e rinnovamento, che la cucina borghese ottocentesca ha imposto nelle famiglie italiane e che, praticamente, è quella su cui ancora oggi basiamo il nostro pasto quotidiano, le basi su cui l’Artusi ha costruito la sua esperienza e la sua idea di cucina, si basano sulla cucina pratica e rurale toscana a cui unisce la conoscenza della natale cucina romagnola, e quella della storica cucina bolognese, di cui apprezzava in particolare i tortellini, tanto che ogni occasione era valida per una sua visita alla trattoria Tre Re, nel vecchio mercato di mezzo, nel cuore di Bologna. Strano però che l’Artusi, pur amante della cucina bolognese, nel suo famoso trattato non faccia cenno del ragù bolognese, menzionando solamente l’uso romagnolo di un sugo chiamato: “sugo di carne brodo scuro”. Qui a Bologna per il ragù accade come per il ripieno dei Tortellini: ogni famiglia bolognese si ritiene la depositaria della verità assoluta, cosa che nella cucina italiana per tanti piatti caratteristici di un posto, è un fatto abbastanza frequente.
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Ricetta del ragù bolognese
Tale preparazione è la più aderente alla formula che garantisce il gusto classico e tradizionale del vero Ragù Bolognese. Ingredienti: cartella di manzo (o fallata, o girello) gr. 300, pancetta distesa gr. 150, carota gialla gr. 50, costa di sedano gr. 50, cipolla gr. 50, salsa di pomodoro cucchiai 5, oppure estratto triplo gr. 20, vino bianco o rosso bicchieri ½, latte intero bicchieri 1. Utensili necessari: tegame di terracotta Ø circa 20 cm., cucchiaio di legno, coltello a mezzaluna. Procedimento: si scioglie nel tegame la pancetta tagliata a dadini e tritata con la mezzaluna; si aggiungono le verdure ben tritate con la mezzaluna e si lasciano appassire dolcemente; si aggiunge la carne macinata e la si lascia, rimescolando sino a che “sfrigola”; si mette il 1/2 bicchiere di vino e il pomodoro allungato con poco brodo e si lascia sobbollire per circa 2 - 3 ore aggiungendo, volta a volta, il latte e aggiustando di sale e pepe nero; facoltativa ma consigliabile l’aggiunta, a cottura ultimata, della panna di cottura di 1 litro di latte intero.
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Le ricette
“ Mâsa cûrta e tajadèl lónghi ”
Tagliatelle al prosciutto o alla romagnola Come detto in precedenza, queste tagliatelle sono ottenute da una sfoglia leggermente più grossa rispetto alla tagliatella normale, e con una larghezza media tra la misura canonica e quella stretta delle tagliatelline, sono condite con un ragù preparato facendo rosolare nel burro la cipolla tagliata fine, a cui si unisce il prosciutto crudo, dolce, grasso e magro, tagliato a fette spesse, e poi tagliato a listerelle e cubettini, farlo rosolare e colorare, bagnare con un poco di vino bianco e farlo evaporare. Cotte e scolate le tagliatelle, in una padella tirarle con del burro, il condimento di prosciutto ed abbondante parmigiano grattugiato fresco. Esiste anche la variante rossa, partendo da un trito di cipolla, sedano e carota, rosolare il tutto con il prosciutto, far evaporare un poco di vino bianco, indi unire il passato di pomodoro, cuocere e far restringere per circa tre quarti d’ora, procedere poi come le precedenti. Tagliatelle aglio e noci A testimonianza di una cucina povera, ma ricca di fantasia, è questa ricetta caratteristica del primo Appennino bolognese. Cuocere delle tagliatelle, condirle con del burro crudo unito ad una salsa ottenuta pestando dell’aglio con delle noci a cui va aggiunta della mollica di pane precedentemente ben inzuppato nel latte. Tagliatelle alla cipolla Tagliare grossolanamente della cipolla mettendo da parte degli anelli, far rosolare ed intenerire in una padella nel burro la cipolla ed uno spicchio d’aglio, unire del passato di pomodoro, cuocere e fare stringere, a parte sempre nel burro, delicatamente dare una scottata agli anelli, cuocere e scolare delle tagliatelle, condirle con il sugo, nel piatto spruzzarle con abbondante formaggio parmigiano reggiano, un poco di pepe e guarnire con alcuni anelli. Tagliatelle all’ortica con prosciutto e fiori di zucca In una padella, rosolare nel burro, del prosciutto dolce tagliato a listerelle, unire i fiori di zucca tagliati sottili, togliere subito dal fuoco e condire con abbondante parmigiano grattato le tagliatelle. Tagliatelle con asparagi alla Bismarck Cuocere al dente le punte di asparago verde di Altedo, in una padella nel burro rosolare dello scalogno tagliato a fette, unire e far colorire il prosciutto fresco tagliato a cubetti fini, aggiungere gli asparagi, far insaporire e condire le tagliatelle amalgamando bene. Una variante è usare il culatello al posto del prosciutto. 20
Tagliatelle della stornella Far appassire in una padella nell’olio, ed un poco di burro la cipolla tagliata a dette sottili, unire dei peperoni tagliati a quadretti abbastanza grandi, far rosolare, aggiungere le zucchine tagliate a dadini, del peperoncino e cuocere per 15 – 20 minuti, a parte rosolare nel burro dello speck tritato grossolanamente ed unire a resto, nella padella versare le tagliatelle e saltarle amalgamando bene, servire guarnendo con del prezzemolo tritato e parmigiano. Tagliatelle al profumo di limone In una padella, far sciogliere il burro con il succo di limone, la buccia di limone grattata e del prezzemolo tritato, condire con questo sugo ed abbondante parmigiano grattugiato, le tagliatelle, servire mettendo sulla pasta del prosciutto crudo tagliato a listerelle. Tagliatelle gialle con porcini In una padella, nell’olio, rosolare dell’aglio tritato e del prezzemolo pestato, aggiungere i funghi porcini tagliati a cubetti, possibilmente molto piccoli, cuocere per pochi minuti, nella padella versare le tagliatelle cotte, amalgamare bene con un poco di latte. Tagliatelle ai funghi porcini nel cartoccio In una padella soffriggere nell’olio dell’aglio e del prezzemolo tritati, unire i funghi tagliati a fette non troppo sottili, e far cuocere, aggiungere del brodo ed una noce di burro, versare le tagliatelle e farle saltare nel condimento, unire del prezzemolo tritato ed abbondante parmigiano, preparare con la carta di alluminio un cartoccio, versarvi le tagliatelle con della scamorza tagliata a cubetti, passare per due minuti al forno a 180°. Tagliatelle con ragù di anitra e spinaci Imbiondire nel burro fuso, in una padella, della cipolla tritata finemente, unire il petto di anitra tagliato a fettine sottili, cuocere versando del brandy facendolo evaporare, aggiungere gli spinaci e cuocere, unire la panna e condire le tagliatelle. Tagliatelle con ragù di anitra e spinaci Soffriggere in una padella nell’olio dello scalogno, della carota, e del sedano tritati finemente, unire i ventrigli precedentemente puliti, privati del grasso che li circondano e ben sminuzzati, una volta dorati unire i fingerli, cuocere a fuoco vivo con del vino bianco, far evaporare ed unire la polpa di pomodoro, finire di cuocere a fuoco lento per circa un’ora, condire subito le tagliatelle. Tagliatelle al caffè Rosolare nel burro dello speck tagliato a listerelle sottili, versare del rhum e far evaporare, unire della panna e cuocere, condire le tagliatelle aggiungendo dell’altra panna e parmigiano, servire unendo qualche chicco di caffè. Tagliatelle con ventrigli e finferli Soffriggere in una padella nell’olio dello scalogno, della carota, e del sedano tritati finemente, unire i ventrigli precedentemente puliti, privati del grasso che li circondano e ben sminuzzati, una volta dorati unire i fingerli, cuocere a fuoco vivo con del vino bianco, far evaporare ed unire la polpa di pomodoro, finire di cuocere a fuoco lento per circa un’ ora, condire subito le tagliatelle. 21
A Bulåggna una vÔlta as magnèva acsé
Da sänper, fén såul ajîr d là, as nasêva, e spassi vôlt as carsêva, biasànd pan, lât e dialàtt: äl prémmi parôl äli éren in dialàtt. Al dialàtt l é al naturèl véncol con un sît ed i sû abitànt. Par quasst, §bagliànd, as dî§ che al dialàtt l é un dscårrer popolàn, vilàn e surpasè, lighè ai nûster vîc’, al tänp ed mî nôna; invêzi, sicómm la memòria l’é una cadä@na ch’la lîga l’umanitè al sô pasè, int al dialàtt äli én asrè tótti äl nòstri radî§ culturèl, äl nòstri ziviltè dla tèvla, äl nòstri u§ànz anc qualli alimentèri, äl pió stièti tradiziån ed cu§è@na con i sû piât e prudótt caraterésstic. Par intànnder la nòster pre§änt culturèl avän da cgnósser a fånnd al pasè; e stra i tant tasèl ch’al fåurmen, al dialàtt l é tra i pió inpurtànt. L é såul al dialàtt la längua ch’la sêruv par capîres. Äl rizèt téppic äli én di vîr e pròpi regâl che i vé@nen dal pasè, regâl fât ed prufómm, sensaziån, arcôrd ed famajja, ed dòn e òmen che anc con la cu§éna i an ufêrt sé stass al parsån chèri. Äl rizèt ptrugnàn i én tanti, mo såul äl pió inpurtànti i én stè omologhè dal Delegazión Bulgnai§i dal’Acadâmia Itagliàna dla Cu§è@na e depo§itè ala Câmra ed Cumêrzi ed Bulåggna. Äl rizèt, fén adès ch’é pôc, äl vgnêven tra§méssi da mèder in fiôla par la pió a båcca, e al dialàtt l êra la längua prinzipèl par tstimugnèr cómm a Bulåggna as magnèva una vôlta. Par tramandèr stäl maraviåu§i tradiziån al pió prezî§ pusébbil, äl rizèt depo§itè äli én pre§entè int la sô versiån uriginèl: in dialàtt. La largazza dla tajadèla bulgnai§a, còta e sarvé in tèvla, l’é òt (8) milémmeter; crûda, al mumänt dal tâi, l’é sî e mè< – sèt (6,5-7) milémmeter, mi§ûra ch’la curispånnd ala dåggméll-duzantstantê§ma pèrt dla Tårr A§nèla. ÄL TAJADÈL In vatta al tulîr, inpastè col man la faré@na insàmm ali ôv. Quand ste inpàst l é bèle léss, lasèl arpu§èr cuêrt par zîrca mè<åura. Tirè pò l inpâst col matarèl fén ch’al n dvänta una spójja sutîla mo ch’la n se strâza, ch’a lasarî pò asughèr. Adès l’é da arudlinèr e da tajèr in strislé@ni ed zîrca mè< dîd o, s’äl piè§en, pió sutîli. TAJADÈL SÓTTI Par la cûra ed tótt i mèl, par ògni mèl pió difézzil e pió brótt, al rimêdi radichèl, l’é una cûra ed tajadèl sótti, mèi tajadèl con al parsótt. Ste rimêdi l é bån anc par far turnèr l’armunî in famajja o par fèr la pè§ con un amîg. In vatta al tulîr, inpastè col man la faré@na insàmm ali ôv. Quand ste inpâst l é bèle léss, lasèl arpu§èr cuêrt par zîrca mè<åura. Tirè pò l inpâst col matarèl fén ch’al n dvänta una spójja sutîla (mo ch’la n se strâza!) e pò l’avî da lasèr asughèr. Adès l é da arudlinèr e da tajèr in strisléngi ed zîrca 6,5-7 mm (pió sutîli e cunzè con ragó ed parsótt äl s ciâmen tajadèl rumagnôli). Fè bójjer con vigåur abundànta âcua salè, bucèi dänter äl tajadèl; man in man ch’i véngen a gâla sculèli, arbaltèli, cunzèli, armi§dàndi, con la cónza da mnèstra sótta. 22
Äl tajadèl sótti, còti al dänt (òcio ch’i n pâsen d cutûra), avî da cunzèrli con al ragó bulgnai§, sfurmajànd sänza avair pòra con fåurma parm§àna: l é quassta la miåura manîra par gustèr al màsum äl tajadèl. RAGÓ BULGNAI$ La rizèta dal ragó ala bulgnai§a, o cónza da mnèstra sótta, l’é quassta: tulî tar§änt (300) grâm ed cartèla ed man<, zäntzincuanta (150) grâm ed panzatta dstai§a, una zivålla, una pistinèga e una cûsta ed sàrrel, cunsêrva ed pundôr. Pistè e dsfè la panzatta e, pian pianén insàmm ai udûr tridè fén, mitîla a sufré<<er int una cazarôla, sänza fèri strinèr. Quand la panzatta e i udûr i an ciapè la rô§a, mitî dänter la chèren ed man< bató int la pistadûra, lasè sufré<<er un puctén pò a<untè mè< bichîr ed vén bianc sacc, armi§dànd spass in prinzéppi. Quand al vén al srà stè tirè, mitî trî quèrt ed bichîr ed cunsêrva ed pundôr dsfâta int un pôc d âcua o d brôd, e pò un pôc ed sèl, ed pàvver naigher e un pzigutén ed nû§ muschèta s’la v piè§. A ste pónt abasè la fiâma al ménnum e lasè andèr sänza pòra dimónndi adè§i, §barluciànd ed quand in quand e armi§dànd par môd che la cónza la n s atâca in fånnd al tegâm. Andè avanti con la cotûra fagàndi tirèr un bichîr ed pâna o ed lât, sänper andànd ed lóng a fèrel bójjer adè§i adè§i par zîrca quâtr åur, pruvè ed sentîrel par al sèl. S’l’avéss da asughères tròp, a<untèi ògni tant dal brôd. A cotûra conplèta, al grâs l à da fèr cómm un vail par d såura sänz èser dimónndi. S’a vlî un ragó pió récc, a psî a<untèri däli archèst ed galé@na o di fónn< o dl’arvajja, che i an da èser bèle stè cût a pèrt. TAJADLÉ#NI ED CASTÂGN Con quâter ètto d faré@na ed castâgn sutîli sutîli ch’i parevên tail d râgn. Preparè una spójja prezî§ a cómm s’avéssi da fèr äl tajadèl, con un de pió ed faré@na ed castâgn (2/3), tajè la spójja in strislé@ni ed 1 cm. Sufré<<er con l òli un pòr pistè con panzatta tajè a dèd e strislé@ni. Int abundanta âcua salè, cû§è äl tajadlé@ni, pò sculèli e cunzèli col ragó ed panzatta e abundànt pigrén sta§unè e pàvver. TAJADLÉ#NI SÓTTI CUNZÈ CON UN TUCÉN ED FRI>ÅN In vatta al tulîr, inpastè col man la faré@na insàmm ali ôv. Quand ste inpâst l é bèle léss, lasèl arpu§èr cuêrt par zîrca mè<åura. Tirè pò l inpâst col matarèl fén ch’al n dvänta una spójja sutîla (mo ch’la n se strâza!) e pò l’avî da lasèr asughèr. Adès l’é da arudlinèr e da tajèr in strislé@ni ed zîrca mè< dîd o, s’äl piè§en, pió sutîli. Äl tajadèl sótti, còti al dänt, avî da cunzèrli con al tucén ed fri<ån.
In quarta di copertina, Dedica al cuoco Mastro Zefirano, Augusto Majani in arte Nasica, 1931 (Archivio Giovanna Bonani presidente de la Fameja Bulgneisa) 23