69-80 Riflessioni sugli anni dell'odio

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Premiazione vincitori del concorso

«’69-80: Riflessioni sugli anni dell’odio-Mai più giovani uccisi per un’idea».

Il 29 aprile 2011 nella Sala Affreschi a Palazzo Isimbardi della Provincia di Milano,sono stati premiati i vincitori del concorso «’69-80: Riflessioni sugli anni dell’odio-Mai più giovani uccisi per un’idea». L’iniziativa ha inteso ricordare tutte le vittime del terrorismo e dello stragismo ed ad evitare che l’intolleranza manifestata oggi da tanti giovani si incanali lungo la china della violenza politica. In palio tre borse di studio per finanziare gli studi universitari, rispettivamente di € 3.000,00, € 2.000,00 e € 1.000,00, destinate ad altrettanti studenti delle classi quinte di tutte le scuole secondarie di secondo grado, statali e paritarie, che avessero presentato una tesina riguardante la storia d’Italia dei cosiddetti “anni di piombo” (1969-1980).

Alla premiazione erano presenti il Presidente della Provincia di Milano, On. Guido Podestà,

l’Assessore all’Istruzione e all’edilizia scolastica, Marina Lazzati, e il direttore de «La

Stampa» e presidente della giuria Mario Calabresi.


Composizione della giuria Giuseppe Orazio Colosio Provveditore Ufficio Scolastico Regionale Lombardia

Giuseppe Petralia Direttore Ufficio Scolastico Provinciale

Presidente Mario Calabresi Direttore de «La Stampa»

Marina Lazzati Assessore all’Istruzione

Motivazioni

1°premio a: Francesco Mazzù, (Istituto tecnico industriale Conti di Milano)

Per l’originalità del racconto e per l’alta qualità della narrazione con cui è stata costruita una storia avvincente che accompagna il lettore durante tutto il testo. Per la descrizione dei singoli personaggi e del loro percorso emotivo che, da posizioni conflittuali e contrapposte e attraverso le singole esperienze e riflessioni, lascia via via spazio per il rifiuto condiviso di ogni atto di violenza. 2° premio a: Lucia Trapani (Istituto d’istruzione superiore Besta di Milano)

Per aver saputo arricchire i fatti e l’interpretazione personale con la preziosa testimonianza di una fonte, che aggiunge al racconto maggiore autorevolezza e prestigio. Per la suggestione che vede l’ombra degli anni di piombo come un problema ancora aperto, frutto dell’intolleranza tra ideologie, che ostacola il pluralismo delle idee. 3° premio a: Alessandro Ferrari (Liceo paritario Leone XIII di Milano)

Per l’attenta osservazione e ricostruzione dei fenomeni legati al terrorismo ed, in particolare, dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi e per l’autenticità del dialogo tra padre e figlio, che rende il racconto schietto e confidenziale. Per le considerazioni finali che definiscono gli “anni di piombo” come una delle più complesse epoche della storia italiana, come un periodo ancora confuso, impreciso e, come tale, da approfondire anche e soprattutto attraverso le testimonianze di chi ha vissuto quegli anni Una menzione speciale a: Dario Cavallone (Liceo Scientifico Einstein di Milano)

Per l’impegno e l’interesse dimostrato nello svolgimento dell’elaborato e per aver affrontato con coraggio e senza conformismo un tema controverso della storia italiana, riscrivendo una mappa dell’odio politico, dalla morte di Socrate ai giorni nostri. Interessante altresì che il tema in chiusura si interroghi sull’assenza dei valori contemporanei.


Cognome ANDRIANI Nome FRANCESCA

Scuola LICEO PARITARIO “MELZI”, LEGNANO

Classe QUINTA

Contro il terrorismo e la violenza Introduzione Il saggio “ Contro il terrorismo e la violenza” è un’argomentazione tesa a dimostrare che le stragi che hanno caratterizzato gli anni dal 1968 al 1980 sono alla base degli atti terroristici di oggi. Per dimostrare questa tesi, l’argomentazione inizierà trattando le stragi degli “anni di piombo”, poi ci si soffermerà sui motivi che hanno spinto le persone, in particolare i giovani, a simili azioni, facendo un paragone con la situazione attuale, mettendo in evidenza le rispettive conseguenze. Infine, si tratterà delle soluzioni di ieri e quelle di oggi agli attentati terroristici. Le stragi degli “anni di piombo” Con il termine “anni di piombo” si vuole far riferimento agli anni compresi tra il 1968 e il 1980. Questo periodo storico è stato denominato così dagli storici a causa delle numerose stragi, che sono avvenute in Italia, tra cui la strage di piazza Fontana a Milano. Questa strage avvenne il 12 dicembre 1969 quando un ordigno contenente sette chili di tritolo esplose alle 16,37, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio delle vittime è di sedici morti e ottantasette feriti. In seguito a queste prime stragi, ne avvennero molte altre, come la strage di Gioia Tauro avvenuta il 22 luglio del 1970 alle 17.10 quando il treno diretto Palermo - Torino deragliò a poche centinaia di metri dalla stazione Gioia Tauro. Il treno trasportava circa 200 persone, tra cui un gruppo di 50 pellegrini diretti a Lourdes. Il bilancio finale della tragedia fu di sei morti e più di settanta feriti, di cui molti in gravissime condizioni. Successivamente, nel 31 maggio del 1972 avvenne un altro atto terroristico, la strage di Peteano, che provocò la morte di tre uomini dell’Arma dei Carabinieri: il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni di 33 e 23 anni. Rimasero gravemente feriti il tenente Tagliari e il brigadiere Giuseppe Zazzaro. Questo avvenne perché la notte del 31 maggio giunse una telefonata al centralino del pronto intervento della Stazione dei Carabinieri di Gorizia. L’informatore anonimo disse di aver visto un macchina con due fori sul parabrezza, così quando sopraggiunsero i carabinieri tentarono di aprire il cofano dell’automobile, provocando però l’esplosione dell’auto e provocandone la morte dei tre carabinieri, mentre altri due rimasero gravemente feriti. Poi avvenne la strage della questura di Milano, quella di piazza della Loggia a Brescia, quella sull’espresso Roma - Brennero, quella di via Fani a Roma e infine quella della stazione di Bologna. Stragi che apparivano insensate e talvolta senza colpevoli: riguardo ad alcune di esse non vi è tuttora certezza sugli esecutori, e in nessun caso sono noti i nomi di eventuali mandanti, come ha messo in evidenza il processo per la strage di piazza Fontana, che è stata definita la “strage impunita”. Anche se spesso i testimoni non mancavano, infatti Pier Paolo Pasolini, dichiarò sull’articolo “Io so” pubblicato sul “Corriere della Sera” nel 1975, di conoscere i mandanti delle stragi, anche se non mostrò mai alcuna prova a sostegno della sua teoria. Così, a causa di questa sua dichiarazione, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: battuto a colpi di bastone e travolto con la sua auto sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, località del Comune di Roma. Il cadavere massacrato fu ritrovato da una donna alle sei e trenta circa del mattino. E solo grazie all’intervento di un amico sarà possibile riconoscerlo. Le cause e le conseguenze L’Italia, negli ultimi decenni del XX secolo, è caratterizzata da un forte sviluppo economico e sociale: l’economia italiana era cresciuta rapidamente ed il miglioramento del tenore di vita era percettibile; la mortalità infantile si era fortemente ridotta e l’analfabetismo era praticamente scomparso. Dati questi presupposti, le classi operaie, che fino a quel momento erano state sfruttate, perché considerate incolte e quindi incapaci


di ribellarsi, ora iniziano a prendere coscienza di quelli che dovrebbero essere i loro diritti e li vogliono rivendicare, a qualunque prezzo. Lo stesso avvenne per quanto riguardava gli studenti, che all’inizio degli anni Sessanta, all’interno delle tradizionali organizzazioni studentesche, iniziarono le prime proteste contro la politica scolastica del governo. Queste organizzazioni chiedevano una maggiore partecipazione negli organi decisionali, una riforma della didattica e un miglioramento dei servizi. Portando, così, il popolo italiano a ribellarsi con atti terroristici. Invece, le cause che caratterizzano gli atti terroristici di oggi sono ben diverse, perché non partono dal presupposto di una situazione sociale favorevole, ma al contrario sono caratterizzate da un forte malcontento generale, causato dalla forte crisi mondiale. Infatti, molti ragazzi italiani oggi decidono di arruolarsi, spesso, non per reali sentimenti patriottici o per riportare la pace, ma perché è l’unico modo che hanno per assicurarsi uno stipendio fisso. Questa situazione sociale c’è raccontata da Roberto Saviano, nell’opera “Il contrario della morte”, nella quale sostiene che le guerre, che prendono il nome di missioni di pace, sono così numerose da non riuscire a definire se l’ultima guerra di cui si vuole trattare è l’Afghanistan, Nassiriya, il Libano, Bosnia, Kabul, Kosovo, Somalia, Iraq… Di conseguenza, ai giovani d’oggi sono più interessati a restare in vita e portare a casa uno stipendio, che sapere di fatto per quale causa si combatte. Quindi i giovani italiani, soprattutto quelli meridionali si arruolano perché non hanno altre scelte. Lo stesso accade tra alcuni giovani dell’Iraq, Iran, Afghanistan che sono costretti, in cambio di denaro per la famiglia, a trasformare se stessi in kamikaze. Come il caso di un attacco terroristico talebano alla sede dell’Onu di Herat, la provincia afghana occidentale sotto il controllo degli italiani, che è stato sventato grazie al tempestivo intervento della sicurezza afghana, che ha ucciso quattro sospetti kamikaze islamici, armati di cinture esplosive, razzi e mitragliatrici. Però, sono davvero numerosi i casi di attentati terroristici, in particolare contro gli Stati Uniti d’America. Tra questi gli attentati dell’11 settembre 2001: in questa tragica mattina quattro aerei civili sono stati dirottati da diciannove islamici dell’organizzazione terroristica di al-Qa’ida, con lo scopo di colpire obiettivi civili e militari. Infatti, due degli aeri dirottati hanno colpito le Torri Gemelle, un altro il Pentagono e l’ultimo, che aveva come obiettivo la Casa Bianca, ma che grazie all’intervento dei passeggeri, il volo è precipitato poco distante dal suo obiettivo. In seguito molti attentati furono sventati, come il piano di al-Qa’ida di dirottare un aereo commerciale e lanciarlo contro la Library Tower di Los Angeles, nel 2002. Un altro esempio è quello avvenuto il 26 dicembre 2009, quando un uomo ha innescato una piccola carica esplosiva, poco prima dell’atterraggio di un volo della compagnia aerea Usa Delta-Northwest in volo da Amsterdam a Detroit, con a bordo 278 passeggeri, di cui sono rimasti feriti l’aggressore e due passeggeri. Infine un altro attentato svenato molto più recente, che risale al 24 febbraio del 2011, è quello contro l’ex presidente degli Stati Uniti d’America G.W.Bush, quando un giovane saudita è stato arrestato dall’Fbi in Texas, perché aveva costruito degli ordigni esplosivi che avevano come obiettivo la casa a Dallas di Bush e anche centrali nucleari. Le soluzioni di ieri e di oggi Per quanto riguarda le soluzioni apportare dallo stato italiano come risposta alle stragi degli “anni di piombo” ricordiamo in particolare la voce di Oscar Mammì, deputato al Parlamento e presidente della commissione Interni Camera dei Deputati, la quale sosteneva l’inutilità di aggravare le pene già esistenti, perché significa farsi delle illusioni, se si crede che il criminale resti sbigottito e sia persuaso dall’imponenza delle pene, proprio come aveva già affermato Cesare Beccaria, nell’opera “Dei delitti e delle pene” nel 1764. Quindi era necessario un piano di edilizia carceraria molto efficiente, e per fare ciò bisognava indirizzare molti fondi per questo progetto. Se, le soluzioni, apportate dallo stato italiano, si possono definire come pacifiche, non si può affermare lo stesso della reazione americana agli attacchi dell’11 settembre 2001. Infatti, in seguito a questi tragici avvenimenti Bush, attuale presidente in carica nel 2001, dichiarò “guerra al terrorismo”, con l’obiettivo di portare Osama bin Laden e al-Qa’ida davanti alla giustizia e di prevenire la costituzione di altre reti terroristiche. I mezzi previsti per perseguire questi obiettivi includevano sanzioni economiche e interventi militari contro gli stati che avessero dato l’impressione di ospitare terroristi, aumenti dell’attività di sorveglianza su scala globale e condivisione delle informazioni ottenute dIl congresso passò anche lo USA PATRIOT Act, affermando che sarebbe stato utile a individuare e perseguire il terrorismo e altri crimini; i gruppi per le libertà civili hanno però criticato il PATRIOT Act, affermando che permette agli organi di polizia di invadere la vita


privata dei cittadini e che elimina il controllo da parte della magistratura della polizia e dai servizi segreti interni. L’amministrazione Bush indicò gli attacchi dell’11 settembre per giustificare l’inizio di una operazione segreta della National Security Agency volta a «intercettare comunicazioni via telefono e e-mail tra gli Stati Uniti e persone all’estero senza mandato». Furono riportati numerosi incidenti di molestie e crimini d’odio contro mediorientali e persone “dall’aspetto mediorientale”; furono coinvolti particolarmente Sikh, in quanto gli uomini sikh vestono un turbante, elemento essenziale dello stereotipo del musulmano negli Stati Uniti. Vi furono abusi verbali, attacchi a moschee e altre costruzioni religiose (tra cui un tempio induista) e aggressioni, tra cui un omicidio: Balbir Singh Sodhi, un Sikh, fu ucciso il 15 settembre, dopo essere stato scambiato per un musulmano. Quindi la politica rigida e restrittiva attuata dagli Stati Uniti d’America ha non ha portato a una soluzione del terrorismo, ma anzi l’ha incrementato, facendo nascere un profondo sentimento di razzismo verso gli stranieri. A differenza dell’Italia, che è stata in grado di risolvere il problema, pur esistendo ancora la mafia. Conclusioni Si può affermare che gli atti terroristici, non quelli avvenuti sul suolo americano, ma quelli di tutto il mondo, sono il risultato degli “anni di piombo”. Questo perché il mondo ha scoperto una nuova forma per far sentire la propria voce, in particolare tutte quelle persone la cui opinione non è sostenuta e tutelata dai propri politici. Infatti, molti altri casi di attentati terroristici nel mondo sono: l’attentato alla metropolitana di Mosca del 29 marzo 2010 è un attentato terroristico portato a termine da due donne kamikaze in due stazioni della metropolitana di Mosca, che ha causato quaranta persone morte e cento gravemente ferite; l’attacco terroristico all’aeroporto di Mosca-Domodedovo, avvenuto il 24 gennaio del 2011, è stato un attacco suicida con l’uso di potenti esplosivi, che ha causato trentasei vittime e decine di feriti; e molti altri ancora. C’è da considerare che una soluzione a breve termine al problema del terrorismo di oggi, perché tramandano le loro idee di generazioni in generazione, causando così un fenomeno duraturo forse di qualche centinaia o migliaia di anni. Quindi bisogna pensare ad una soluzione a lungo termine. Per fare questo bisogna che si riesca ad istaurare dei veri legami d’ onestà tra i vari stati, perché solo con la fiducia e il rispetto reciproco si possono cercare soluzioni a questo problema umanitario, che causa numerose morti.

Bibliografia Comitato permanente antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano, Eversione, democrazia e rinnovamento dello Stato, Teti Editore, Milano 1977 Galli G., Storia del partito armato, Rizzoli Editore, Milano 1986 Saviano R., Il contrario della morte, Edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano 2007 Tarrow S., Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, Laterza, Roma Bari, 1990


Cognome CASTELLANO Nome CARLO

Scuola LS “MAJORANA”, RHO Classe QUINTA

ANNI DI PIOMBO

Tutto ebbe inizio con l’occupazione delle varie università italiane, la prima fu l’università Cattolica di Milano seguita da quella di Trento nella quale non si tennero le lezioni. Era l’epoca in cui a frequentare l’università di Trento erano studenti quali Marco Boato, Mauro Rostagno, Renato Curcio, Mara Cagol, tutti studenti che, secondo il rettore Francesco Alberoni, avrebbero dovuto: “coltivare, raddrizzare uomini che sarebbero stati coltivati, potati e raddrizzati loro stessi come piante” (documento del lavoro n 9). Dopo le prime “manifestazioni pacifiche” si passò allo scontro, esempio fu “Valle Giulia” Facoltà di Architettura a Roma dove il 1 marzo 1968 ci furono scontri tra il movimento studentesco e la polizia, che fecero centinaia di feriti, contusi ed arresti. Uno dei pochi critici degli scontri di “Valle Giulia” fu Pierpaolo Pasolini, il quale rovesciò il sentire comune scrivendo che il popolo era rappresentato dai poveri ed umiliati poliziotti, costretti a difendersi dai figli di papà in cerca di uno scontro nelle lotte di piazza per provare e rivendicare l’indipendenza dai propri genitori. Sopraggiunse l’autunno caldo del 69-70 dove oltre 5 milioni di lavoratori protestavano e manifestavano per i rinnovi contrattuali: si annullò la meritocrazia e le gabbie salariali poiché per legge tutti erano uguali e tutti dovevano avere lo stesso stipendio (fu di questo periodo la definizione, accettata dai ministri democristiani, che il salario è una variabile “indipendente” del costo del lavoro). Fu un autunno di follia, dove in fabbrica, negli uffici, nelle scuole tutto era permesso, si organizzavano scioperi spontanei, si diffuse un clima d’intimidazione e violenza generalizzata. Le istanze iniziali, legittime, di aumenti salariali e migliori condizioni lavorative, si trasformarono in un clima di scontro permanente; la classe politica italiana cercò di fornire una risposta adeguata mantenendo la pace sociale semplicemente accettando tutte le richieste avanzate dai sindacati. Il clima diventò di “piombo” , con la strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), dove per lo scoppio di una bomba all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, morirono 16 persone e ci furono decine di feriti. Dopo la strage l’Italia cambiò, cambiò in peggio poiché le istituzioni non seppero dare una risposta adeguata agli avvenimenti (ancora oggi non sono stati scoperti i fautori della strage), si estremizzò lo scontro tra tutte le parti sociali: polizia, studenti,operai creando gruppi estremisti specializzati nella propaganda e nella pratica della “lotta armata” contro lo Stato capitalista, gruppi che affondavano le loro radici nei miti illusori quali fascismo e maoismo. In mezzo c’era lo Stato, governato da una classe politica inetta appartenente ai partiti storici italiani: i democristiani; i socialisti; i liberali; i repubblicani -che governavano il paese con varie alleanze-, ed i comunisti che non avevano rinunciato all’idea della rivoluzione e continuavano a veder crescere il numero dei consensi elettorali. A capo dei gruppi estremisti troviamo nomi famosi come Valpreda, Pinelli, Freda, Ventura, Curcio, Cagol, Feltrinelli, Capanna, Negri, attori di un’epoca governata da una cieca violenza. Migliaia di saggi e milioni di parole sono stati spesi su questo periodo, troppo vicino perché sia considerato storico ma lontanissimo per le istanze che rappresentava; periodo in cui si ricercava un mondo liberato dal potere capitalistico, un mondo in cui la classe operaia potesse finalmente


essere protagonista e scrivere da sola la propria storia. Invece, l’Italia si ritrovò in uno dei peggiori periodi della propria storia: non era possibile manifestare la propria opinione, una propria idea o un giudizio senza rischiare di essere pestati o di essere uccisi (esempi sono Carlo Casalegno, giornalista de “La Stampa” e Walter Tobagi, giornalista del “Giorno”, entrambi assassinati); si arrivò ad usare mezzi di protesta impropri, veri e propri sabotaggi, così nelle fabbriche per combattere l’alienazione (che pure esiste) della catena di montaggio, si rallentavano i ritmi, nelle università, per affermare il diritto allo studio, non si studiava, erano aboliti gli esami e si chiedeva la promozione generalizzata. I meriti e la meritocrazia erano concetti obsoleti e “fascisti”, eredità di un epoca passata e anacronistica; in questi anni una minoranza di italiani aveva preso il sopravvento su un intera nazione, vigeva il “pensiero unico”. La cosa più grave fu proprio il coinvolgimento forzato delle masse nella protesta: piccoli gruppi armati s’infiltravano in cortei studenteschi, o di operai pacifici per provocare scontri armati con carabinieri e polizia, coinvolgendo, come conseguenza naturale, anche il resto del corteo. In quegli anni hanno avuto grande rilievo soprattutto i gruppi di estrema sinistra, e proprio di questi gruppi è indispensabile comprenderne i tratti essenziali, la struttura e la strategia che adottarono, per capire a fondo l’importanza della Democrazia. Il Terrorismo Rosso Lo sviluppo del Terrorismo Rosso in Italia durante “Gli Anni di Piombo” può essere suddiviso in 3 fasi: Le origini (dal 1969 al 1972) La fase di aggregazione intorno all’asse Brigate Rosse – Autonomia Operaia (dal 1973 al 1977) Una fase di ripresa della “lotta di massa” e l’inizio della scissione del partito armato Si può individuare anche un quarto periodo, dopo l’assassinio di Moro nel 1978

1) Le origini del terrorismo rosso Una minoranza molto organizzata che si ritiene “élite cosciente” vede sfumare nel giro di poco tempo l’opportunità di creare un movimento rivoluzionario formato spontaneamente dagli operai stessi, opportunità creata precedentemente dalle manifestazioni del 1968. Infatti i sindacati godevano di un vastissimo consenso per via dell’approvazione dello “Statuto dei Lavoratori” nel 1970 e degli aumenti salariali ottenuti nel 1972. Viene fondato “Potere Operaio”, partito neoleninista, in grado di piegare il movimento di protesta alle indicazioni strategiche che l’organizzazione interpreta, ponendosi come obbiettivo l’insurrezione generale. Il “nemico” è lo Stato che si identifica con il Capitale, questo determina, secondo i teorici dell’estremismo, che l’insurrezione venga fatta attraverso una guerra civile di lunga durata”, o come l’ha definita A. Negri “guerra civile permanente” (da La fabbrica della strategia).

2) Organizzazione dei partiti di azione Dal 1972 in poi, vanno via via configurandosi più chiaramente i rapporti tra i vari gruppi estremisti: Autonomia Operaia, le Brigate Rosse di Curcio e Moretti, e i Gap di Feltrinelli. I 3 gruppi di azione decidono la strategia e la struttura del partito e della guerra civile. Autonomia Operaia è la “base rossa”, ha il compito di praticare tutte le forme di violenza legate alle azioni di massa: appropriazioni, autoriduzioni, piccoli sabotaggi, pestaggi, cortei “duri”, lanci di molotov… Le Brigate Rosse sono il partito d’attacco (definito da Negri, in uno scritto del 1974, come “Brigate Rosse dell’attacco operaio e proletario”). A loro spettava il compito di operare una sorta di “terrore rosso” e di “giustizia proletaria” (Cfr. Negri, Partito operaio). Le Br conducono la lotta con attacchi mirati allo Stato-Capitale, attacchi che solo un’organizza-


zione clandestina e militarizzata può compiere come il rapimento del magistrato Mario Sossi, l’uccisione del procuratore generale Francesco Coco e della sua scorta, l’assassinio dell’onorevole Aldo Moro. Così la “base rossa” viene utilizzata come vivaio per il reclutamento dei giovani destinati alle Br, ma tutte le azioni di massa: violenza organizzata nelle scuole, nelle università, nei quartieri e nelle fabbriche devono essere rigorosamente e totalmente illegali, poiché si devono differenziare dalle azioni democratiche di protesta degli altri gruppi. I GAP, guidati da Feltrinelli, appoggiano le Brigate Rosse fino al marzo del 1972, fino a quando il fondatore stesso non morì “sul traliccio di Segrate” (“Per una storia del terrorismo italiano”, Angelo Ventura). Questo portò allo scioglimento dei Gap e le Br,a loro volta, furono costrette ad entrare nella più rigorosa clandestinità. “Finirono così per costituire il gruppo più professionale, specializzato nelle azioni terroristiche più impegnative che richiedono, appunto, il massimo grado di clandestinità, ma che non avrebbero alcun senso – secondo la stessa strategia delle Br – se non potessero riferirsi ad una organizzazione parallela che opera a livello di massa” (idem): Autonomia Operaia.

3)La ripresa della “Lotta di massa” Nel 1977 ci fu una ripresa delle manifestazioni di piazza, nelle scuole, nelle università ecc. A numerosi cortei di Roma, Milano, Bologna e Padova prese parte l’ultrasinistra; alcuni nuclei di guerriglieri assaltarono le armerie ed attaccarono le forze armate. Questi nuovi scontri di piazza portarono ad una divisione all’interno del fronte Autonomia – Br, poiché il partito armato “rischia di isolarsi dal movimento complessivo dell’estrema sinistra, ancora non disponibile alla lotta armata” (idem). Comunque il fronte della lotta armata “si presenta sostanzialmente unito alla soglia della campagna di primavera del 1978” (idem). Con l’assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, Autonomia cessa ogni rapporto e dichiarerà: “ogni ultimo residuo rapporto è caduto” (Rosso, 27 – 28 aprile 1978) con le Br e le definisce “variabile impazzita del movimento”. Ma a questa dichiarazione seguirà una decisa intensificazione del “terrorismo diffuso”, attraverso le azioni di Prima Linea ed altri gruppi armati. Le Brigate Rosse cercando di recuperare consensi promuoveranno azioni terroristiche verso dirigenti industriali. All’inizio del 1979 si ha una nuova ripresa del terrorismo diffuso con gli assassinii di Guido Rosso (sindacalista) e Emilio Alessandrini (magistrato), con vari pestaggi squadristi che ricordavano quelli di Balbo e Farinacci. Il 7 aprile si ha una svolta: l’inchiesta condotta da Pietro Calogero, per prima, fa affiorare i tratti essenziali, la struttura, la strategia, la decennale storia del partito della lotta armata. Inchiesta fondamentale, che permetterà allo Stato di organizzare al meglio la resistenza dello Stato stesso contro il terrorismo.

Tuttavia è impensabile cercare di comprendere il fenomeno terroristico italiano studiandolo al di fuori del contesto internazionale, proprio perché il terrorismo ha “naturalmente” in sé una componente internazionale. Punto chiave nelle relazioni internazionali tra il terrorismo “nostrano” e quello di altri paesi è certamente Giangiacomo Feltrinelli (anche se purtroppo una pubblicistica imprecisa e superficiale ne ha fatto un personaggio velleitario), che grazie alla sua ricchezza, alle capacità come organizzatore e come comandante ed al suo prestigio personale lo resero idoneo a ricoprire il ruolo di intermediatore. Ma è anche il primo a capire che (riferito agli avvenimento storici a lui contemporanei) “oggi noi viviamo di già la terza guerra mondiale” la quale “si sviluppa con le tecniche della guerriglia”


sia nei paesi del terzo mondo sia nei ghetti dei neri negli Stati Uniti, ed è un tipo di guerra che si doveva ancora intraprendere, a suo parere, nei paesi europei (fonte: Persiste la minaccia di un colpo di stato in Italia, aprile 1968). In un capitolo intitolato “In Italia come in Vietnam”, Feltrinelli delinea anticipatamente quello che sarà la suddivisione dei compiti adottata da Autonomia Operaia e Brigate Rosse. Feltrinelli espone esplicitamente la sua Strategia globale sul mensile “Voce Comunista”, da lui diretto, nel luglio del 1970 sostenendo che “l’esercito rivoluzionario internazionale del proletariato è costituito da un immenso schieramento di forze rivoluzionarie” che comprendono: le “avanguardie strategiche rivoluzionarie” (forze della guerriglia in Asia, Africa e America latina); “il grosso delle forze dell’esercito rivoluzionario” (forze regolari del Vietnam del Nord e dei Vietcong, Coreane e di Cuba); “la prima riserva strategica” (l’esercito della Cina popolare); “il grosso della riserva strategica rivoluzionaria” (composta “dalla gloriosa Armata Rossa dell’Urss e dagli eserciti del Patto di Varsavia con i compiti specifici di deterrente a livello delle nuove armi strategiche nucleari, di arsenale delle forze rivoluzionarie”. Visione per altro non condivisa né da Autonomia né dalle Brigate Rosse che vedevano nell’Imperialismo Occidentale e nel Social Imperialismo Sovietico forme di dominio sostanzialmente diverse e in contrasto tra loro. Oltre ad una visione alquanto delirante dei rapporti internazionali tra guerriglie organizzate, Feltrinelli vuole, attraverso un’intensa attività editoriale, divulgare anche in Italia e in Europa tutte quelle esperienze dei vari movimenti rivoluzionari, nonché le tecniche terroristiche adottate dalla guerriglia per arrivare ad una minuziosa descrizione del modo corretto di fabbricare e usare armi e ordigni esplosivi (esempio di pubblicazione risulta la traduzione della rivista “Tricontinental” e il “Piccolo manuale della guerriglia urbana”).Attività tesa sempre ad inculcare nelle masse l’organizzazione di una lotta eversiva armata. All’interno di questo ambito bisogna ricordare anche i vari finanziamenti di Feltrinelli a riviste e movimenti estremistici come “La Sinistra” e “Potere Operaio”. Sul piano internazionale mette in contatto varie organizzazioni eversive, per esempio nel 1968 promuove la costituzione della “Centrale di Zurigo”, cui in seguito si sovrappone il Coordinamento internazionale di cui era magna pars l’Ufficio internazionale di Potere Operaio prima e Autonomia dopo, con a capo Negri. Dai rapporti degli inquirenti risultano contatti frequenti tra Feltrinelli e gruppi terroristici tedeschi come la Rote Armee Fraktion di Andreas Baader e Ulrike Meinhof e il Movimento 2 Giugno di Michael “Bommi” Baumann. I fondi per l’organizzazione terroristica erano accreditati tramite il conto conosciuto come “Robinson Crusoe”, aperto presso “la banca svizzera italiana” di Lugano.Vari assegni erano versati in favore di terroristi come Wolfgang Mayer e Gianbattista Lazagna entrambi appartenenti ai Gap. Sul piano nazionale fu il primo a spingere per il passaggio alla lotta armata e fu il primo ad esercitarla. I Gap (Gruppi d’ Azione Partigiana) da lui costituiti e diretti, furono la prima formazione clandestina di sinistra che compì attentati (aprile – maggio 1970).Dopo la sua morte armi, denaro, rete logistica e militanti vennero ereditati da Autonomia operaia e dalle Br.

Verso un contesto internazionale si volge anche la lotta delle Br e di Autonomia contro “l’imperialismo delle multinazionali”, si va così a delineare nell’immaginario dei due gruppi una sorta di “Stato delle Multinazionali” che troviamo citato per la prima volta in “Risoluzione della Direzione strategica” (aprile 1975) come “Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM)”. Questo concetto di Stato non è altro che una sintesi originale di due elementi differenti: l’imperialismo concepito come una sorta di sistema globale di dominio e l’idea di “fabbrica diffusa” (il capitale si estende dalla fabbrica alla società) e di conseguenza il Capitale si identifica con lo Stato, diventando, appunto, lo “Stato Imperialista delle Multinazionali”.


Ma come in ogni movimento, i gruppi terroristici hanno alla base persone che ne supportano l’azione; allora quali sono le motivazioni che spingono un uomo a sostenere questo tipo di lotta violenta? Tra tutti i personaggi più famosi di quegli anni si può individuare un denominatore comune: il terrorismo era in grado di offrire “una difesa contro la complessità ed il peso della vita normale; volevano trovare e già trovavano nel loro microcosmo clandestino una vita diversa meno alienata” (da “Il Provinciale” di Giorgio Bocca). Ognibene (membro storico delle Br) disse “bisogno di liberazione […] Liberazione da tutto ciò che gli altri” società, famiglia, scuola “hanno deciso per te”. Aurora Betti scrive così ad una amica: “avevano già preparato i posti in cui avremmo dovuto sederci nella vita. Io non ci sono stata”. Cercavano un modo per riformare la società, inutile dire che hanno fallito miseramente.

Altri trovarono i loro compiti all’interno dell’organizzazione divertenti e coinvolgenti: così disse Lauro Azzolini in un intervista di Bocca “Sai dove andavo spesso a mangiare? Al ristorante di via Fatebenefratelli, vicino alla Questura. Mi sedevo accanto al tavolo di quelli della Digos, avevamo quasi fatto amicizia!”. Ma tra loro c’erano anche professori come il professor Enrico Fenzi, filologo, che si era pentito e aveva collaborato con la giustizia, ma alla domanda: su cosa l’avesse spinto ad associarsi ad Autonomia rispondeva che provava una sorta di ammirazione – attrazione verso la violenza dei duri, dei forti, rozzi operai.

A questo punto diviene spontaneo domandarsi cosa abbiamo imparato, o meglio cosa ci è stato insegnato da questi avvenimenti? Naturalmente potremmo rispondere che, come bravi scolari che imparano a memoria la lezione, la democrazia è l’unico modello di governo giusto che tutela i diritti di tutti, ma siamo veramente sicuri che questo concetto semplice (ma non banale) sia stato recepito e assimilato correttamente da tutti? Nonostante le varie iniziative che ogni anno vengono promosse dagli enti pubblici, la maggior parte di noi ignora, completamente o in parte, quello che è successo, ignora chi sono le persone che hanno sacrificato la propria vita per difendere la nostra democrazia, ma cosa ancora più grave, tutt’oggi non si sa chi sono i responsabili di diversi attentati terroristici come quelli di piazza Fontana e della stazione ferroviaria di Bologna. Purtroppo non si conoscono, o non si presta attenzione, neanche ai motivi che spingono un gruppo di persone ad aderire ad un movimento terroristico. La non comprensione o l’ignoranza dei fatti porta inevitabilmente a studiare il corso degli eventi in maniera superficiale (nei testi di Storia delle scuole Superiori c’è solo un accenno sugli avvenimenti degli anni di piombo), determinando così un possibile ripetersi degli errori commessi in passato. Così siamo ancora testimoni di comportamenti d’intolleranza dettati da idee e posizioni estremiste, che vogliono imporre la propria visione della realtà senza rispettare le opinioni degli altri. Pertanto abbiamo il dovere di non dimenticare le migliaia di persone che hanno sacrificato la propria vita per fondare e difendere la nostra Repubblica Democratica e soprattutto ricordiamoci che la Democrazia non è la forma di governo adottata in tutti gli Stati del mondo ma esistono ancora stati in cui si lotta per ottenerla.

Per questo, la Democrazia è un bene prezioso da tutelare.


Cognome CAVALLONE Nome DARIO

Scuola LS “EINSTEIN”, MILANO Classe QUINTA

‘69-‘80 Riflessioni sugli anni dell’odio: Mai più morti per un’idea

Nella storia la vita dell’uomo è sempre stata caratterizzata dalla lotta ideologica e dalle morti che questa lotta porta. La morte di Socrate, che Platone così magnificamente ci narra nel Fedone, è già una morte ideologica, deriva dalla condanna per la dottrina che Socrate predicava, e fortemente ideologica è la sua scelta di non fuggire di fronte alla condanna. La democrazia, la forma di governo per cui tanto si è lottato in tutti gli stati dell’Occidente,in quanto governo del demos, del popolo, deve garantire a ogni singolo componente del suo stesso popolo la libertà riguardo le idee. Deve garantire che la libertà di professare un’idea non sia mai intaccata da qualsiasi timore in relazione all’idea stessa. Ogni limitazione di questa libertà, ogni morte ideologica costituisce una sconfitta della democrazia, contro cui si deve combattere e su cui bisogna riflettere per evitarne la ripetizione. Dopo il fascismo l’ideologia dominante in Italia, come spesso accade dopo la fine delle dittature, fu quella di reazione contro la dittatura appena sconfitta e la classe politica si trovò, pur all’interno delle sue discordanze, unita; anche per esorcizzare e prevenire il rischio di un nuovo totalitarismo. La forza di questa tendenza venne però attenuandosi con il tempo, con il conseguente emergere di conflitti interni al Paese sempre più forti. Divenne allora sempre più manifesta la frattura tra società civile e mondo politico, frattura che si riscontra anche nella società attuale, in cui però si declina in maniera differente. Fallirono tutti i tentativi della classe politica di risanare questa frattura, e sicuramente a questo fallimento contribuirono i numerosi scandali in cui gli appartenenti a questa classe erano sempre più spesso coinvolti. In quel periodo, questo distacco provocò paradossalmente un notevole aumento del coinvolgimento politico personale e a-partitico, ad esempio in battaglie per i diritti civili. Il movimento operaio del ’68, ad esempio, ebbe un considerevole appoggio dalla classe studentesca, con un gran numero di studenti che decisero di manifestare attivamente per questioni sociali, evidentemente delusi dall’inoperatività di un certo tipo di classe politica. Studenti e operai, mossi da motivazioni apparentemente distanti, riuscirono ad unirsi grazie alla lotta ai valori borghesi. Inevitabilmente, il rafforzarsi delle ideologie portò allo scontro tra idee differenti. Scontro la cui violenza fu direttamente proporzionale alla forza delle ideologie. E così questo scontro si spostò rapidamente dal piano dialettico a quello del terrorismo e della guerriglia urbana. Certamente, la mancanza di risposte da parte della politica contribuì alla degenerazione di questo scontro. Quando la politica non dà l’impressione di poter cambiare le cose, quando si chiude in se stessa in una maggioranza silenziosa, apre ad altre vie per arrivare ai cambiamenti: vie spesso ricche di violenza. Come già aveva analizzato Nicolò Machiavelli nel “Principe”, il popolo spinge al cambiamento: la classe politica di allora si rivelò inadeguata a dare un senso e uno sfogo a questa voglia di cambiamento. Ill terrorismo si sviluppò in modalità differente a destra e a sinistra, ma in maniera ugualmente violenta e condannabile.Il terrorismo di destra, di inspirazione prevalentemente neofascista, utilizzava come metodo attentati in luoghi pubblici. Le vittime civili non erano lo scopo di questi


attentati, ma piuttosto erano un mezzo; mezzo con cui arrivare al vero scopo: la diffusione della paura, del terrore, volta a favorire svolte autoritarie. Questi movimenti neofascisti però, pur non perdendo la loro forte connotazione ideologica, furono in un certo senso svuotati della matrice del fascismo stesso, che fu sostituta da un disagio sociale che sempre più spesso non coincideva con un disagio economico. Disagio che spinse questi giovani verso un’attività politica estrema, che appariva come unica possibile fuga a tale disagio. Pier Paolo Pasolini, in uno degli articoli raccolti negli “ Scritti Corsari”, ha scritto: “ il nuovo fascismo non si distingue più: il suo fine è l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.” Questo terrorismo mirava quindi ad una “strategia della tensione”: tutti dovevano sentirsi vulnerabili e indifesi. La popolazione doveva vivere in un continuo stato di paura, soprattutto nei luoghi pubblici e lavorativi. In questo modo, secondo il piano dei terroristi, sarebbero state legittimate forme di reazione estreme quali l’instaurazione di uno stato di polizia. Un terrorismo che aveva quindi già una forte componente mediatica, che sfruttava e tentava di ampliare con ogni mezzo l’effetto delle sue azioni,generando quella paura per certi versi irrazionali a cui ogni meccanismo del terrore mira. Nacquero movimenti come Ordine Nuovo, Ordine Nero, Terza posizione e i NAR ( Nuclei armati rivoluzionari). E’ molto probabilmente da attribuire alla matrice del terrorismo nero la Strage di Piazza Fontana, uno dei più gravi attentati terroristici avvenuti in Italia in questo periodo insieme alla strage di Bologna. Alle ore 16 del 12 Dicembre 1969 un ordigno detonò nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Milano, provocando 17 morti e quasi 90 feriti. L’ordigno viene collocato sotto il tavolo del salone dei clienti, per provocare il massimo numero di vittime: altro segno della grande premeditazione dell’atto. Lo stesso giorno venne fatto brillare dagli artificieri un altro ordigno a Milano ed esplosero altri tre ordigni a Roma, provocando 17 feriti. Nello stesso giorno quindi erano stato programmati cinque attentati, nelle due principali città italiane. Solo una struttura terroristica fortemente organizzata avrebbe potuto progettare una serie di attacchi così mirati. Complesse e drammatiche saranno le indagini sulla strage: inizialmente viene esplorata la pista anarchica, successivamente si mirerà verso la matrice neo-fascista. La difficoltà di queste indagini fu il sintomo della situazione difficile e complessa dell’epoca, e del campo minato entro cui la magistratura dovette agire. Il più grave attentato mai compiuto in Italia fu però la Strage di Bologna, di cui l’anno scorso si è ricordato tragicamente il trentesimo anniversario. Il 2 agosto 1980, alle 10.25, nella sala di attesa di seconda classe scoppia un ordigno dalla potenza devastante. Crolla l’ala sinistra dell’edificio, i morti saranno 85, i feriti oltre 200. A differenza di molte altre stragi, per quella di Bologna esistono dei condannati definitivi, appartenenti al nucleo di estrema destra del Nar.Come per Piazza Fontana, le indagini furono tormentate, ci furono episodi di depistaggio e molte testimonianze vennero ritrattate: ancora oggi non abbiamo un’ipotesi incontrovertibile sull’origine dell’attentato. Sergio Romano ha scritto, sul Corriere della Sera del 21 giugno 2010 : “In Italia, le Commissioni sono generalmente parlamentari, vengono composte con evidenti dosaggi politici e diventano spesso il luogo in cui ogni partito sostiene l’ipotesi che maggiormente coincide con la sua visione ideologica dell’avvenimento o, peggio, che maggiormente conviene ai suoi interessi. Nei casi più controversi sarebbe meglio […] affidare le indagini a un collegio di personalità indipendenti, possibilmente giunte alla fine di una onorata carriera. Credo che gli italiani sarebbero maggiormente disposti ad accettare le loro conclusioni.” In definitiva, questi due episodi sono emblematici della violenza del periodo, che fu fomentata oltre che dalle grandi stragi dai numerosi scontri urbani, spesso con vittime, che avvenivano in quel periodo. E’ ancora oggi molto difficile tentare di inquadrare il periodo da un punto di vista storico e con-


testualizzarlo nella storia del nostro paese, proprio per la difficoltà di guardarlo in maniera distaccata e oggettiva La paura per i colpi di stato, insieme all’assenza e alla debolezza dello stato stesso, diedero origine al movimento terroristico di sinistra. La lotta armata divenne per alcuni giovani l’unico valore, che andava a sostituire i valori che la società stessa proponeva. In nome di ideologie quali la lotta contro il padrone o contro il capitale, questi movimenti videro nell’uso della violenza il modo più incisivo per sovvertire l’ordine sociale. Il terrorismo di sinistra si sviluppò parallelamente a quello di destra da un punto di vista cronologico, ma anteticamente non solo nell’ideologia ma anche nel modus operandi. La formazione principale del terrorismo rosso furono le Brigate Rosse, formate tra il ’70 e il ’73. Queste formazioni evidenziarono da subito la loro distanza da qualsiasi lotta convenzionale: la lotta contro “il sistema” doveva avvenire in maniera radicale e violenta, gli stessi moderati, anche se appartenenti alla medesima fazione politica, erano traditori e nemici. E’ ancora da evidenziare come la creazione di gruppi votati programmaticamente alla violenza sia stato un sintomo di enorme disagio sociale, di una grande mancanza non di valori ma di possibilità di incanalare positivamente i valori stessi. L’episodio forse più drammatico riguardo le Brigate Rosse e il terrorismo “rosso” fu il rapimento di Aldo Moro: il 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse uccise cinque rappresentanti delle forze dell’ordine e rapì il presidente della DC. Anche in questo caso il rapimento venne effettuato con grande organizzazione e grande disponibilità di mezzi. Fallirono i tentativi di mediazione, e prevalse comunque il “fronte della fermezza, che vedeva come inaccettabile qualsiasi trattativa e concessione ai terroristi. Dopo 55 giorni di prigionia il corpo di Moro venne ritrovato nel pieno centro di Roma. Le indagini sul caso non furono però semplici e anche in questo caso non esiste una versione definitiva che chiarisca gli eventi in ogni loro particolare. Sia le stragi terroristiche che il caso Moro diedero adito a numerose ipotesi. A prescindere dalla loro plausibilità, il gran numero di teorie e di problematiche nel chiarimento dei fatti è un ulteriore segno dell’enorme squilibrio politico dell’epoca, che ancora oggi si ripercuote sulle indagini. Con l’inizio degli anni’80, nonostante qualche residuo episodio, finirono le violenze organizzate, che miravano a delegittimare e demolire l’intera struttura politica italiana. La lotta armata tramontò definitivamente ed ebbe inizio un processo di analisi complesso e ancora oggi in corso sulle cause che portarono a tale lotta. Tra le tante analisi proposte, una delle più discusse e controverse è indubbiamente quella di Ernesto Galli della Loggia. La sua analisi riconduce l’origine delle violenze ad una matrice storica: secondo Della Loggia infatti “il germe dell’illegalità e di quella sua manifestazione estrema che è la violenza l’Italia democratica lo porta in certo senso dentro di sé, nella sua storia culturale e dunque nella sua antropologia accreditata”. Una corrente di pensiero che quindi vede in maniera decisamente negativa l’intera storia d’Italia che dalla sua unità, e nel procedimento stesso che portò a questa unità, porterebbe insita la tendenza alla violenza e all’illegalità. La violenza, secondo questo pensiero, sarebbe conseguenza logica e necessaria della situazione Italiana da un punto di vista antropologico e culturale: situazione Italiana che appunto accetterebbe come possibile e talvolta necessario il cambiamento per mezzo della violenza. Condivisibile o no, questo pensiero ci pone davanti a una considerazione di spazio più ampio, che non si limita a considerare gli anni di piombo, ma attraverso di essi ci permette di effettuare una riflessione che parte dall’unità di’Italia fino ad arrivare alla situazione Italiana. Davvero la nostra popolazione è differente dalle altre popolazioni europee? Davvero la nostra travagliata unità, di cui si celebra quest’ anno il centocinquantesimo anniversario, ha lasciato una macchia indelebile di violenza su di noi? Penso che indubbiamente la nostra realtà sia diversa da altre realtà Europee: sulla nostra tendono a far presa molto soventemente spinte violente e rivoluzionarie, quel fascino di “morire per delle idee” che cantava De Andrè, riprendendo Brassens.


Ma la cosa peggiore davanti a queste spinte sarebbe rassegnarsi generalizzando e svalutando la nostra nazione e la nostra cultura, non vedendo le accezioni positive che la diversità rispetto al resto d’Europa può assumere. Della Loggia ci invita provocatoriamente a riflettere sul nostro statuto nazionale, sul ruolo che l’unificazione ha avuto e sul futuro della nostra nazione: futuro che dipende inevitabilmente dalla nostra capacità di comprendere le problematiche della storia del nostro paese per superarle in maniera definitva. Le violenze degli anni di Piombo non possono essere analizzate e trattate superficialmente, ma anzi devono essere comprese fino in fondo una volta passata l’emergenza e l’incombenza del pericolo, se si vogliono evitare che fenomeni di questo tipo danneggino la nostra nazione, il suo e di conseguenza il nostro futuro. Se però si vogliono comparare le violenze di quel periodo con la situazione odierna, si evidenzia subito una grande differenza: all’epoca la componente politica e in generale la componente ideologica, intesa come ideologia degenerata ma come insieme di valori, era una parte integrante e attiva della vita dei giovani, pur sfociando talvolta in modalità condannabili. Oggi si assiste in generale a uno svuotamento di questi valori, sostituti da valori commerciali o semplicemente dal vuoto assoluto. Umberto Galimberti ha definito generazione dal pugno chiuso quei giovani che diedero vita al terrorismo ideologico, contrapponendola alla generazione X, la generazione vuota di oggi. “Nessun progetto per il futuro, anche perché non ci sono abbastanza opportunità, nessun ideale da realizzare, anche perché non ce ne sono di “abbastanza” coinvolgenti ” scrive Galimberti (L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano 2007). Si è passati dalla situazione di un’ideologia talmente forte da sfociare nella violenza ad una completa assenza di ideologia. Si cade così nell’omologazione del vuoto di idee, che come un circolo vizioso blocca i valori sul nascere, spingendo i giovani a non avere valori se vogliono essere accettati nella società, o meglio ad avere solo i valori pre-confezionati che la società stessa fornisce. Forse allora andrebbe recuperata quella vis, quel vigore che ,ovviamente condannando le forme con cui si manifestò all’epoca, potrebbe contrastare e superare il tedio e la mancanza di motivazioni e spinte. Altrimenti si rischia di sprofondare nell’indifferenza, forma di violenza non manifesta ma comunque dannosa per gli altri, in quanto dell’indifferenza generale ne risente la società stessa.


Cognome FERRARI

Nome ALESSANDRO

Scuola LICEO PARITARIO “LEONE XIII”, MILANO Classe QUINTA

69’- 80’ : RIFLESSIONI SUGLI ANNI DELL’ ODIO- MAI PIÙ GIOVANI UCCISI PER UN’ IDEA

Immagino di dover affrontare il tema degli “ANNI DI PIOMBO” con ragazzi e ragazze più giovani di me; per esempio della scuola media. Inizierei sicuramente a raccontare dall’episodio più eclatante dal mio punto di vista: l’omicidio di Luigi Calabresi da parte di esponenti di “lotta continua”, il 17 maggio 1972. Lo definisco “il più eclatante” poiché indubbiamente è stato, insieme alla strage di Piazza Fontana avvenuta nel Dicembre 1969 e il sequestro Moro nel 1978, uno degli avvenimenti che ha segnato di più quel periodo.Ad ispirare, inoltre, questo mio interessamento ha avuto un ruolo fondamentale il libro intitolato “spingendo la notte più in là” pubblicato dal figlio di Luigi Calabresi: Mario Calabresi. Commissario appunto, ma un uomo come un altro, che dopo aver studiato legge e successivamente entrato in polizia, ricevette il suo primo incarico a Milano dove, dal 1968, si occupò di eversione. Una lettura, quella del libro di Mario Calabresi, che, nel suo campo, è probabilmente l’unica a dare a noi giovani una visione si storica, ma soprattutto umana del commissario Calabresi, della sua famiglia, e di molta altra gente nelle loro stesse condizioni. Sicuramente, però, se incomincio a parlare di un omicidio, la domanda più ovvia da parte di un ragazzino di tredici anni sarà: «Perché fu assassinato Luigi Calabresi?». A questo punto è d’obbligo riprendere il discorso da qualche anno prima, dal 12 Dicembre 1969. Quel giorno ci fu la famosissima strage di Piazza Fontana che fu il culmine della contestazione del sessantotto e che probabilmente diede inizio a quel periodo denominato “GLI ANNI DI PIOMBO” che durò fino al principio degli anni ottanta e che portò con sé migliaia di giovani vittime tra le quali appunto il commissario Luigi Calabresi. In quel periodo si erano formati strati sociali che non da tutti erano visti favorevolmente, l’economia italiana era cresciuta celermente, l’Italia stava finalmente diventando, anche se con indiscutibile ritardo, una vera e propria nazione. Le contestazioni, che come detto prima avevano avuto inizio nel sessantotto, altro non erano che proteste studentesche che sfociarono presto nelle lotte dei lavoratori per i rinnovi contrattuali. Eppure queste contestazioni che scoppiarono tra il 67 e il 68 da parte degli studenti sono esplose per motivi che devono essere rintracciati a partire dagli anni sessanta: con l’introduzione della scuola media dell’obbligo estesa fino ai 14 anni applicata dal 1962, infatti, si veniva a formare un nuovo sistema di istruzione a livello di massa che però mostrava gravissime lacune come carenze di aule e di libri di testo, mancanza di aggiornamento degli insegnanti e molti altri problemi. In positivo, la nuova legge permise a tutti gli studenti, anche di classi medie, di proseguire gli studi; però questo stesso vantaggio fece si che le università dovessero ospitare un numero esorbitante di studenti rispetto al numero di insegnanti e aule disponibili, rendendo molto difficile l’istruzione e lo studio di tutti i ragazzi iscritti alle facoltà. Dalla strage di Piazza Fontana ne seguirono altre, come la Strage di Gioia Tauro nel 70’, quella di Peteano a Gorizia nel 72’, quella della questura di Milano nel 73’, le stragi di Piazza della Loggia a Brescia e quella sull’espresso Roma-Brennero entrambe nel 74’, la famosa strage di Via Fani a Roma con il rapimento di Aldo Moro nel 78’ e quella della stazione di Bologna nell’ 80’.


Prima di una lunga serie, la strage di Piazza Fontana, appunto; quella su cui doveva indagare Luigi Calabresi. Ci stava lavorando, il commissario, e proprio durante le indagini accadde un imprevisto che gli cambiò la vita, a lui e alla sua famiglia: infatti, in un giorno come un altro di indagini, l’anarchico Giuseppe Pinelli, interrogato per la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, cadde dalla finestra del suo ufficio. “Quella sera” racconta Mario Calabresi nel suo libro “mio padre rincasò sconvolto”e disse a sua moglie: “Gemma, Pinelli è morto”. Da quel momento incominciò una durissima campagna di stampa contro questo uomo, che neanche si era accertato essere colpevole; i giornali incominciarono a definirlo “assassino”, a raffigurarlo con suo figlio mentre gli insegnava a decapitare un anarchico con una ghigliottina-giocattolo. Proprio Mario Calabresi ci rende partecipi di una vita, quella della sua famiglia, completamente mutata da quell’episodio: dal nonno che tentava di convincere suo padre a lasciar perdere, a farsi una nuova vita a Roma, a lasciarsi alle spalle i brutti ricordi di Milano fino alla moglie che non si spiegava perché di punto in bianco non c’era più posta, fino ad accorgersi che proprio suo marito, Luigi Calabresi, la prendeva la mattina di nascosto e leggeva così tutte le lettere di minacce, insulti, diffamazioni, che lui stesso tentava di nascondere alla famiglia per evitarle preoccupazioni e paure. E così, poco a poco, il terrore crebbe nella famiglia fino a rendersi conto che, quel che tutti speravano non succedesse, sarebbe accaduto presto: racconta sempre Mario Calabresi che, una mattina in C.so Vercelli, esattamente una settimana prima dell’omicidio del padre, sua madre si guardò riflessa su una vetrina di una farmacia e, pensando di essere già vedova, scoppiò in lacrime dopo aver tentato invano di calmarsi. Già da tempo sui giornali più estremisti quali “Lotta Continua” si parlava di Luigi Calabresi come nemico pubblico, un uomo che già era stato responsabilizzato dell’assasinio di Pinelli e che, a detta del proletariato avrebbe dovuto pagarla cara. “Gli siamo alle costole ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito” o “Siamo stati troppo teneri con il commissario di P.S. Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i compagni.”: questo il modo in cui i rivoluzionari erano soliti aggredire lui e la sua famiglia. Una sera Gemma Calabresi tentò addirittura di invertire una tendenza che vedeva lei e suo marito sempre tombati in casa, proponendogli di andare a Brera o sui Navigli, ma lui: “a Brera io ci andrei volentieri, ma avrei bisogno della scorta ……”. Quando i due, lui di 32 anni e lei di 23 decidevano di andare al cinema, la loro vera passione, dovevano entrare in sala solo a spettacolo iniziato, per evitare di essere riconosciuti: avevano ormai perso quelle libertà che noi oggi diamo per scontate. E così, come persino uno dei ragazzini a cui sto parlando può immaginare, il fatidico giorno arrivò: era il 17 maggio 1972 e Luigi Calabresi fu ucciso mentre usciva di casa, con due colpi di arma da fuoco, sparati alle spalle. “Tutto quello che ho raccontato” direi sempre al mio giovane pubblico ”si basa sulla mia cultura generale o da testimonianze come quella di Mario Calabresi; tuttavia sono dell’idea che talvolta è giusto anche ascoltare le sensazioni di persone a noi molto vicine, che hanno vissuto direttamente, seppur da giovani, quel periodo, a partire dal 68”. Una di queste è mio padre, che al tempo dei primi movimenti studenteschi aveva all’ incirca vent’anni: spesso ho parlato con lui di quella particolare situazione venutasi a creare negli anni 70’ e, riguardo a tutto ciò, lui stesso ha definito la sua visione inesatta, perché probabilmente influenzata dalle sue esperienze personali. Innanzi tutto, a suo avviso, nonostante tutte le violenze avvenute in quel periodo, non si respirava un clima di terrore come io avevo forse giustamente, forse erroneamente, intuito: effettivamente solo gente che tentava di opporsi al terrorismo o che lavorava per fermarlo come Luigi Calabresi, trascorse anni duri e travagliati. Nell’anno del 68’ molti studenti universitari, soprattutto della Statale, cercavano di “arruolare” più ragazzi possibili in modo da convertirli con le loro idee: allo


stesso tempo si recavano anche nelle fabbriche, dagli operai, con il medesimo intento. Secondo mio padre, inoltre, le idee, soprattutto di uguaglianza sociale, di quel movimento, erano ritenute valide e giuste dai più e, ad un certo punto seguire quegli ideali diventò quasi una moda: chi non li appoggiava era quasi considerato uno studente “fuori dal mondo”, non all’avanguardia con i tempi che correvano.Quello che però mi ha sconvolto di più dai racconti di mio padre è che a questa “tendenza”, se così la possiamo definire, partecipava anche gente lontana dal proletariato e dalla classe operaia come borghesi, gente benestante e persino figli di politici che appartenevano alla fazione di destra e quindi, dello schieramento opposto al movimento. Quando poi questa “moda” si tramutò in terrorismo e lotta armata, sostiene mio padre che ci furono diversi dissensi poiché, se fino ad allora la gente apprezzava alcuni ideali, non poteva di certo accettare i metodi violenti del gruppo rivoluzionario. E proprio quella violenza, che vedeva più spesso la gambizzazione piuttosto che l’omicidio di individui, veniva denunciata, a detta di mio padre, da tutti i giornali, di destra e di sinistra ad eccezione dei quotidiani rivoluzionari: del resto, anche gli stessi politici di entrambe le fazioni non accettavano la situazione, semmai alcuni tentavano di giustificarla. A livello politico, inoltre, quello era un periodo alquanto travagliato: infatti Destra e Sinistra stavano tentando di raggiungere un’intesa che avrebbe definitivamente generato una coalizione partitica: secondo mio padre proprio il raggiungimento di questo intento grazie al cosiddetto “COMPROMESSO STORICO” fu una delle cause della genesi del movimento rivoluzionario, del quale fece parte gente che si sentiva abbandonata anche dalla sinistra comunista, fino ad allora esponente dei loro principi. Enrico Berlinguer ebbe un ruolo fondamentale ai fini del patto e coalizione tra destra e sinistra politica: lo stesso sosteneva infatti che non poteva governare una delle due fazioni dopo aver preso qualche voto in più dell’altra e quindi, vedeva come unica soluzione un partito “di centro”. In sintesi potremmo dire che Berlinguer chiedeva e offriva una collaborazione, per il bene del paese, per consentire all’Italia di superare la crisi politica ed economica. A questo proposito fu essenziale anche la volontà di Aldo Moro, allora esponente di Democrazia Cristiana, di aprire un confronto politico con Berlinguer e di superare i tradizionali pregiudizi anticomunisti. Questa coalizione, come già detto, non fu esattamente una scelta felice: generò infatti non soltanto insoddisfazione e malcontento in parte degli elettori italiani ma anche delusione all’interno del partito. A seguito del compromesso storico del 73’, inoltre, continuarono le stragi un po’ in tutta Italia fino a sfociare nel 77’ nell’omicidio di Aldo Moro, di cui dopo parlerò. Prima, nel 74’, le stragi di Piazza della Loggia a Brescia e quella sull’espresso Roma-Brennero. Il 28 maggio 1974 per l’esattezza, nel centro bresciano viene fatta esplodere una bomba nascosta in un portarifiuti durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista; otto vittime di cui cinque molto giovani. Sempre nel 74, il 4 agosto, vi fu quella che viene chiamata STRAGE DELL’ITALICUS, in provincia di Bologna; la bomba esplose nella vettura 5 dell’espresso Roma-Monaco di Baviera via Brennero. Nell’attentato morirono 12 persone e altre 48 rimasero ferite; giudico questo avvenimento uno dei più importanti perché proprio su quel treno ci doveva essere Aldo Moro, che successivamente verrà ucciso, il quale perse la coincidenza perché dovette firmare delle carte importanti. Proprio il 16 marzo 1978 infatti, durante la strage di Via Fani a Roma, fu rapito : quella mattina l’auto che trasportava lo stesso dalla sua abitazione alla Camera dei deputati fu intercettata e bloccata da terroristi delle Brigate Rosse che, con armi automatiche uccisero due carabinieri a bordo del veicolo, tre poliziotti che viaggiavano sull’auto di scorta, e sequestrarono appunto l’allora presidente di Democrazia Cristiana. La domanda di un ragazzo viene, come ci si può immaginare, spontaneamente: «ma perchè fu rapito proprio Aldo Moro?». Il perché si riallaccia al discorso affrontato precedentemente, ovvero al percorso di avvicinamento tra PCI e Democrazia Cristiana della quale maggiore interprete e


artefice era stato proprio il presidente di DC. Nell’ottica brigatista infatti, si credeva che il successo delle loro azioni avrebbe definitivamente sconfitto Democrazia Cristiana e avrebbe posto le basi del controllo BR della sinistra italiana per una lotta contro il capitalismo. Una volta rapito, Moro fu vittima di una prigionia durata 55 giorni per poi essere ritrovato morto il 9 maggio nel cofano-bagagli di una Renault. Non si sa esattamente dove venne custodito per quel lungo periodo; alcuni dicono in Via Camillo Montalcini, altri in Via Gradoli, altri ancora, come il fratello della vittima, ritengono fosse stato segregato in una abitazione presso una località marittima. Durante il periodo della sua detenzione Moro scrisse 86 lettere ai principali esponenti di Democrazia Cristiana, alla famiglia e all’allora Papa Paolo VI, anche se non tutte furono recapitate. Durante la prigionia di Moro, le BR scrissero dei comunicati nei quali spiegavano i motivi del rapimento: l’organizzazione propose inoltre di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi imprigionati, alla fine ne avrebbero accettato anche uno solo . La reazione della politica italiana a questa richiesta fu duplice: da una parte quelli che rifiutavano l’ipotesi di una trattativa, definiti del “FRONTE DELLE FERMEZZA”, dall’altra il “FRONTE POSSIBILISTA” nel quale vi era anche Bettino Craxi, che sosteneva la possibilità di un eventuale avvicinamento ad un accordo con i terroristi. Prevalse il primo orientamento: questa decisione rese Moro inutile agli occhi delle Brigate Rosse e, allo stesso tempo, lo condannò. In conclusione vorrei in primo luogo dire la mia sul periodo affrontato e poi lanciare una provocazione a tutti i ragazzi della mia età e più piccoli e, perché no, anche a tutti gli adulti. Secondo me, il periodo denominato “anni di piombo” è uno dei più complessi della storia italiana, non soltanto per la ricchezza di avvenimenti, ma anche per una certa confusione e imprecisione riguardo agli eventi accaduti: ho potuto constatare, di conseguenza, che nonostante una documentazione e interessamento approfonditi, una persona che non ha vissuto direttamente quegli anni, non potrà mai sapere cosa c’è stato dietro, potrà solo intravedere, immaginare. Per quanto riguarda poi la provocazione, ecco, vorrei solo far riflettere tutti e allo stesso tempo far si che la gente si interroghi sul perché ancora oggi questo importantissimo periodo della storia italiana sia così poco trattato: con questo intendo non soltanto le poche pagine dedicatogli su un qualunque libro di storia, ma anche il quasi assente dibattito o discussione a scuola o la mancanza di iniziative come conferenze o concorsi come quello a cui sto partecipando, finalizzate al ricordo e alla conoscenza della nostra nazione e della struttura politica italiana.


Cognome LOVATO

Nome GUENDALINA

Scuola LICEO PARITARIO “MELZI”, LEGNANO

Classe QUINTA

GLI ANNI DI PIOMBO: UNA CARTA D’IDENTITA’

INTRODUZIONE: In questa esposizione, volutamente breve ed essenziale, ho deciso di evidenziare per lo più i soggetti particolari che hanno partecipato in modo attivo, positivamente o meno, alle numerose azioni degli “anni di piombo”. Ho voluto concentrarmi su questo aspetto poiché ho cercato di pensare ad un modo essenziale ma appassionante per introdurre i giovani all’analisi e allo studio del periodo italiano degli anni ’60, ’70 e ’80. I destinatari ideali di questo lavoro sono studenti della scuola superore di primo grado. Dopo questa esposizione, i ragazzi forse saranno più consapevoli del programma di studio, riuscendo ad approcciarsi alla storia recente già con un minimo di conoscenza e anche con la voglia di scoprire più nei particolari i diversi eventi. Parlando degli “anni di piombo” in Italia, ci si riferisce al periodo storico che va dal 1970 ai primi anni ’80, nei quali i dibattiti politici vennero portati all’estremo, fino a sfociare nelle lotte armate, nel terrorismo e nelle manifestazioni di piazza.

GLI SCHIERAMENTI E I PERSONAGGI: A questi scontri hanno preso parte, oltre a giudici, poliziotti e alle innumerevoli vittime tra cui si contano molti giovani, anche gruppi politici, i quali si possono dividere in due schieramenti principali: i rossi e i neri.

Tra i ROSSI troviamo : 1_ il GAP, ossia il “Gruppo di azione Partigiana” Questo fu il primo gruppo clandestino armato, nacque a Milano per volontà e azione dell’ editore Giangiacomo Feltrinelli con il fine di dare vita a un’insurrezione ispirata alla guerriglia messa in atto da Fidel Castro nei primi anni ‘60. 2_i NAP, cioè i “Nuclei armati proletari” Essi sorgono nella città di Napoli, soprattutto tra i soggetti attivi nella calda questione carceraria del tempo. 3_le BR, ovvero le “Brigate Rosse” Compaiono per la prima volta a Milano compiendo azioni di propaganda armata negli stabilimenti della Sit Siemens e della Pirelli. Tra i fondatori delle BR, che ha come simbolo la celebre stella a cinque punte racchiusa in un cerchio, ci sono esponenti del movimento studentesco della Università di Trento, ex militanti comunisti e attivisti di gruppi estremisti di fabbrica. 4_il PL, acronimo di “Prima linea” Inizialmente questa organizzazione di estrema sinistra punta sulla grande importanza acquisita sul territorio, in seguito questa scelta fu modificata al fine di seguire l’azione di terrorismo e clandestinità. Tra i suoi militanti ritroviamo Marco Donat Cattin, figlio di un importante esponente della sinistra democristiana. PL firmò una serie di azioni talmente lunga da poter fare quasi concorrenza al terrore delle BR. L’organizzazione venne sgominata grazie alla con-


fessione di Patrizio Peci, primo pentito nella storia del terrorismo. 5_il PC, ossia “Lotta Continua” Questa fu una delle maggiori formazioni della sinistra extraparlamentare italiana, di orientamento comunista rivoluzionario. CURCIO, fondatore delle BR. Condannato all’ergastolo, oggi impegnato nel volontariato. FELTRINELLI Editore di sinistra, tra i primi a passare alla clandestinità. Morì nel ‘72 mentre collocava una bomba su un traliccio. Mara CAGOL (BR) uccisa dopo uno scontro a fuoco con i Carabinieri.

La fazione dei NERI include invece:

1_i NAR, ossia i “Nuclei armati rivoluzionari”

Il gruppo più importante dell’estrema destra, ritenuto responsabile, in tutto, di ventitre omicidi. Tra i militanti dei NAR troviamo Francesca Mambro, condannata in un secondo momento con Valerio “Giusva” Fioravanti per la strage della stazione di Bologna, di cui hanno sempre negato le proprie responsabilità. 2_ Avanguardia Nazionale

Un’organizzazione politica della destra nazional-rivoluzionaria italiana, fondata nel 1960 da Stefano Delle Chiaie e disciolta, anche se solo formalmente, nel 1976. DELLE CHIAIE. Fondatore di Avanguardia Nazionale. E’ attualmente in libertà. FREDA Neonazista, imputato per la strage di Piazza Fontana, poi assolto.

VENTURA Editore neonazista. Imputato con Freda per la strage di Piazza Fontana, poi assolto. TUTI Arrestato per la strage del treno Italicus, poi scagionato. Resta comunque in carcere per omicidio.


BERTOLI Nel ‘73 lancia una bomba a mano davanti alla questura di Milano durante la commemorazione della morte di Calabresi provocando 4 morti. Si dichiara anarchico, ma presto si scopre che in realtà è un informatore dei servizi segreti ed ex appartenente all’organizzazione Gladio. CONCUTELLI Terrorista di Ordine Nero.

MERLINO Imputato per la strage di Piazza Fontana poi assolto.

BORGHESE Ex comandante della X MAS. Tenta un improbabile golpe nel ‘70

Infine altre personalità di rilievo che hanno partecipato agli scontri degli anni di piombo sono: VALPREDA Anarchico accusato della strage di piazza Fontana. Scontò 8 anni di prigione da innocente.

CALABRESI Commissario di Polizia in servizio alla questura di Milano durante l’interrogatorio di Pinelli, fu additato dalla sinistra come responsabile della sua morte. Fu ucciso nel 1972; per il suo omicidio sono attualmente in carcere alcuni ex dirigenti di Lotta Continua. MACCHIARINI Dirigente industriale. E’ il primo sequestrato dalle BR.

SOSSI Magistrato, sequestrato dalle BR verrà rilasciato senza contropartite. COSSIGA Ministro dell’Interno durante il sequestro Moro. Si dimise dopo il ritrovamento del suo cadavere.

ANDREOTTI Presidente del Consiglio durante il sequestro Moro.


ROSSA

Operaio del PCI, testimoniò contro le BR, e quali lo ferirono per rappresaglia. Uno

degli esecutori decise invece, autonomamente, di ucciderlo.

Generale Carlo DALLA CHIESA L’uomo che sconfisse militarmente le BR. Ucciso dalla Mafia siciliana a cui stava per sferrare i primi colpi decisivi.

LA CRONOLOGIA E I FATTI PIU’ IMPORTANTI:

Gli anni di piombo raccolgono innumerevoli episodi di terrore e orrore, durante i quali uccisioni di massa, ferimenti e violenza sono stati i drammatici protagonisti. Anno per anno ho riportato alcuni degli avvenimenti più importanti, divenuti famosi non solo in Italia ma anche all’estero. Il 1969:

9 agosto. Otto attentati scuotono l’Italia e si registrano dodici feriti. E’ l’inizio della strategia della tensione. 12 dicembre . Strage di piazza Fontana. 15 dicembre. Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico tra i sospettati della strage di piazza Fontana, muore dopo esser precipitato dal quarto piano della questura dove è interrogato dal commissario Calabresi. I poliziotti sostengono che, sconvolto dall’interrogatorio, si sia gettato da solo, mentre la sinistra dichiara che sia stato spinto. La verità non è mai stata svelata. Il 1970:

17 settembre. A Milano, in via Moretto da Brescia una bomba fa esplodere l’autorimessa di Giuseppe Leoni direttore centrale della Sit Siemens; sulla porta è riportata la scritta “Brigate Rosse“. 1 dicembre. Il divorzio è riconosciuto dallo stato. Il 1971:

25 gennaio. E’ l’inizio “ufficiale” del terrorismo. La stella rossa a cinque punte fa la sua prima comparsa con il commando di brigatisti che collocano bombe incendiarie sotto ad alcuni autocarri, distruggendone tre sulla pista di Lainate dove la Pirelli prova i suoi pneumatici. 4 febbraio. Viene lanciata una bomba contro la folla dopo una manifestazione antifascista a Catanzaro. 24 novembre. All’università statale di Milano la polizia interviene contro un corteo non autorizzato composto soprattutto da giovani. Settantadue sono i feriti, undici gli arrestati. Il 1972:


11 marzo. Gravi incidenti a Milano durante una manifestazione della sinistra extraparlamentare. Vengono lanciate bottiglie molotov contro la sede del Corriere della Sera, giudicato essere il portavoce dei conservatori. 15 marzo. Viene ritrovato il corpo dell’editore Giacomo Feltrinelli, capo e ideologo dei GAP, ucciso dall’esplosione di un ordigno, mentre cercava di minare un traliccio dell’alta tensione a Segrate, in provincia di Milano. Il 1973:

3 gennaio. Gravi scontri con la polizia all’università Bocconi di Milano. 7 aprile. Un esponente dell’estrema destra rimane ferito dallo scoppio di un detonatore mentre cerca di posizionare una carica di tritolo sulla tratta ferroviaria Roma-Torino. 28 giugno. Rapito dalle BR , il dirigente dell’Alfa Romeo, Michele Marcuzzi. 10 dicembre. Rapito dalle BR Ettore Amerio, direttore del personale della Fiat.

Il 1974:

9 maggio. Rivolta nel carcere di Alessandria sedata dall’intervento dei carabinieri. Sette i morti, di cui cinque ostaggi dei detenuti e quattordici i feriti. 28 maggio. A Brescia, in piazza della Loggia, durante una manifestazione sindacale, l’esplosione di un ordigno, provoca la morte di otto persone. La strage, attribuita all’estrema destra, rimarrà impunita. 30 maggio. A Pian di Rascino (RI), rimane ucciso un esponente di Avanguardia nazionale in un conflitto a fuoco con i carabinieri che scoprono un campo di addestramento paramilitare dell’estrema destra. 4 agosto. Una bomba esplode nella vettura n.5 del treno Italicus, l’espresso Roma-Monaco, provocando la morte di dodici persone. Mandanti ed esecutori non saranno mai individuati. 8 settembre. Il leader delle BR è arrestato a Pinerolo grazie alle informazioni fornite da Silvano Girotto, “frate Mitra”, infiltrato nelle BR dal Generale Dalla Chiesa, il quale aveva istituito un gruppo speciale antiterroristico. Il 1975:

2 aprile. Un attentato distrugge l’abitazione di Gaetano Arfè, direttore del quotidiano socialista “Avanti”. Il 1976:

24 marzo. I giornali danno notizia dell’arresto di Giorgio Semeria, uno dei capi storici delle BR. 29 novembre. Cinque esponenti di Prima Linea irrompono nella sede dirigenziale della Fiat a Torino, incatenano gli impiegati, rubano soldi e scrivono con una bomboletta spray il nome “Prima Linea”; è la prima comparsa della sigla. Il 1977:

21 gennaio. Due donne esponenti del NAP evadono dal carcere femminile di Pozzuoli. 12 maggio. Un colpo di pistola sparato dalla polizia uccide la diciannovenne Giorgiana Masi durante una manifestazione organizzata dai radicali a Roma per festeggiare l’anniversario del referendum sul divorzio. 19 maggio. Vengono incendiati, da militanti di Prima Linea, i magazzini della Sit Siemens e della


Magneti Marelli di Milano. 16 novembre. Le BR colpiscono il vicedirettore del giornale La Stampa; è la prima volta che i brigatisti sparano ad un giornalista con l’intenzione di ucciderlo. Il 1978:

16 marzo. Alle ore 9.15, in via Mario Fani a Roma, le BR rapiscono Aldo Moro, presidente di DC. Poche ore dopo Moro avrebbe dovuto partecipare, a Montecitorio, al dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti. Nell’agguato vengono uccisi cinque uomini della scorta del rapito. Dopo un’ora le BR telefonano all’Ansa e comunicano l’accaduto, contemporaneamente il presidente della Camera Pietro Ingrao sospende la seduta e i comitati Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale. 18 marzo. Dopo i funerali degli uomini della scorta di Moro, alle ore 12.00 le BR telefonano al quotidiano Il Messaggero e indicano una cabina telefonica in cui viene trovato il “Comunicato n.1” con la fotografia del presidente della DC. Le stesse aggiungono che Moro si trova in una “prigione del popolo” in quanto è responsabile “dei programmi controrivoluzionari della borghesia imperialista”. 19 marzo. Papa Paolo VI lancia il primo appello ai rapitori di Moro. 21 marzo. Il governo approva il “decreto antiterrorismo”: trent’anni di carcere per i terroristi ed ergastolo in caso di morte dell’ostaggio; la polizia può fermare, interrogare e ascoltare le telefonate sospette. 25 marzo. Le BR fanno trovare il “Comunicato n.2” in cui annunciano di aver cominciato il “processo popolare” contro Moro. 29 marzo. E’ trovato il “Comunicato n.3”: una lettera al ministro degli interni Francesco Cossiga in cui Moro accenna alla possibilità di uno scambio e aggiunge: “Sono sotto un dominio pieno e incontrollato dei terroristi”. 30 marzo. La direzione della DC rifiuta qualsiasi trattativa per il rilascio di Moro; comincia la “linea dura”. 2 aprile. Papa Paolo VI, durante l’Angelus, rivolge il secondo appello alle BR. 4 aprile. Il “Comunicato n.4” delle BR è una copia della lettera di Moro al segretario della DC Benigno Zaccagnini: “Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io”. 7 aprile. Il quotidiano Il Giorno pubblica una lettera di Eleonora Moro, la moglie dell’ostaggio, nella quale la donna si dissocia dalla “linea dura”. 10 aprile. Ritrovato il “Comunicato n.5”; è una lettera autografa di Aldo Moro, in cui egli sostiene l’ipotesi delle trattative e attacca alcuni esponenti del suo partito. 15 aprile. Il “Comunicato n.6” annuncia la fine del “processo popolare” a Moro e ne stabilisce la condanna a morte. 17 aprile. Amnesty International si offre come mediatore tra le BR e il partito di DC. 18 aprile. In via Gradoli 94, a Roma, viene scoperto un covo delle BR. Qui è trovato un altro comunicato, il n.7, che poi si rivelerà falso, dove viene annunciato che Moro è stato ucciso e il suo corpo si trova nel Lago della Duchessa. 20 aprile. Alla redazione del giornale Repubblica arriva il vero “Comunicato n.7”: Moro è fotografato con una copia del quotidiano del 19 aprile. Questo è l’ultimatum: “Scambio di prigionieri o lo uccidiamo”. Lo stesso giorno Moro scrive al DC e lo rimprovera per la sua intransigenza nei confronti dell’avvenimento. 21 aprile. Democrazia Cristiana ribadisce la “linea dura” ma la famiglia di Moro chiede di accettare le condizioni delle BR. Altri partiti si dichiarano favorevoli alle trattative. 22 aprile. Papa Paolo VI lancia il suo terzo mesaggio: “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate rosse...”. Il segretario dell’Onu Waldheim fa lo stesso, rivolge, quindi, il secondo appello alle BR. 24 aprile. Il “Comunicato n.8” detta le condizioni per la liberazione di Aldo Moro: la liberazione di tredici brigatisti detenuti. 29 aprile. Moro scrive alla DC: “Lo scambio è la sola via d’uscita”.


30 aprile. Alle 16.30 un brigatista telefona a casa della famiglia Moro: per salvare la vita al rapito serve un intervento immediato. 5 maggio. Andreotti ribadisce il “no” alle trattative. Poche ore dopo, nel “Comunicato n.9”, le BR scrivono: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”. 7 maggio. E’ pubblicata l’ ultima lettera di Aldo Moro all’amata moglie: “Cara Norina, ti bacio per l’ultima volta…“. 8 maggio. Moro scrive l’ultima lettera alla famiglia. 9 maggio. Alle 13.30, in via Caetani, a metà strada tra le sedi del Partito Comunista Italiano e di Democrazia Cristiana, in una Renault 4 rossa, viene trovato il corpo senza vita di Aldo Moro. Il 1979:

24 gennaio. Viene ucciso il sindacalista della CGIL Guido Rossa, per aver scoperto e denunciato uno dei più importanti fiancheggiatori delle BR. 9 marzo. Alcuni terroristi di Prima Linea organizzano, in un bar di Torino, un’azione di rappresaglia contro la polizia. Nella sparatoria muore un passante, il giovane studente Emanuele Iurilli. 20 marzo. Viene trovato morto nel suo ufficio il direttore del notiziario OP, spesso utilizzato dai Servizi Segreti. 11 dicembre. Un gruppo di esponenti del PL si impadronisce dell’istituto scolastico di amministrazione aziendale “Valletta”, a Torino. Fra le persone raggruppate dai terroristi nell’Aula Magna della scuola vengono gambizzati cinque studenti e cinque insegnanti. Il 1980:

31 gennaio. A Milano la casalinga Anna Maria Minci viene uccisa per errore dai carabinieri. 22 febbraio. I NAR uccidono a Roma lo studente Valerio Verbano. 12 maggio. Alfredo Albanesi, dirigente della Digos, è ucciso dalle BR a Venezia. 27 giugno. Ottantuno persone muoiono in un incidente aereo. Un aeroplano DC9 dell’Itavia precipita nei pressi dell’isola di Ustica per motivi ignoti. 2 agosto. Muoiono ottantacinque persone per dell’esplosione di un ordigno nella sala d’attesa della stazione di Bologna. 12 novembre. Viene ucciso a Milano dalle BR, il direttore del personale dell’azienda Magneti Marelli. 1 dicembre. Muore il direttore sanitario del carcere di Regina Coeli, Giuseppe Furci, assassinato dalle BR. 24 dicembre. Il penitenziario dell’isola sarda Asinara viene chiuso.

Il 1981: 27 aprile. Viene rapito dalle BR, Ciro Cirillo; durante il rapimento vengono uccisi il suo autista e il suo agente di scorta. 2 giugno. Rapimento del dirigente dell’ Alfa Romeo Sandrucci, liberato poi il 23 luglio. 17 dicembre. Il generale americano Lee Dozier è rapito dalle BR a Verona.

UN’ANALISI COMPLESSIVA: Il viaggio nell’Italia di questi anni risulta molto lungo e controverso, caratterizzato solamente da dolore, spargimenti di sangue e uccisioni gratuite. Dopo aver compiuto un’analisi volutamente così poco accurata, con una ricerca più approfondita solo per quanto riguarda la questione del rapimento di Aldo Moro, risulta davvero facile mettere in risalto i fattori dominanti dello stragi-


smo degli anni ’60 e ’70 in Italia. Quello che più emerge e colpisce il lettore di questa breve “carta d’ identità” è il fatto che gli anni di piombo hanno dominato la nostra intera penisola, da Milano, a Roma, a Bologna, a Napoli, ecc. Inoltre le vittime riguardano per lo più il mondo della politica, ma anche quello della società borghese del tempo, detentrice della ricchezza in contrapposizione alla grande povertà, tipica della crisi italiana di quegli anni. Non si possono dimenticare, inoltre, i numerosissimi militari che hanno sacrificato la propria vita in nome di un governo e di uno stato egoista e assetato di potere e ricchezza, i quali però oggi vengono ricordati con grande ammirazione. È importante evidenziare, inoltre, il fatto che, nonostante il potere fosse in mano a pochi, questi non si presentassero coesi fra loro, ma combattessero contro il popolo, i partiti popolari e quelli politici, come nel “caso Moro”, senza rendersi conto che l’Italia si stava sgretolando e dilaniando autonomamente e operando contro il principio di solidarietà e unione per il bene comune. Un altro fattore importante è che i protagonisti degli scontri degli anni di piombo sono davvero vari, non solo per la posizione sociale che ricoprivano e per la zona geografica in cui hanno agito, ma anche per il genere e l’età anagrafica: giovani, adulti e anziani. Questo fa capire come le condizioni di vita fossero davvero critiche e poco soddisfacenti per tutta la popolazione. A tal riguardo è importante affermare che il popolo ricopre sia una funzione attiva che una passiva negli scontri di questi anni. Nel primo caso per quanto riguarda i numerosi partiti politici e le manifestazioni di piazza; nel secondo caso, invece, poiché spesso, accanto ai “grandi nomi”, si ritrovano come vittime persone prive di qualsiasi incarico di rilievo a livello politico o economico come studenti, casalinghe, maestri e anche bambini che, a causa del fato o di un progetto sbagliato delle autorità, non hanno avuto la possibilità di sottrarsi alla morte o al ferimento. Nonostante tutto ciò, però, non bisogna giudicare solo ed esclusivamente in modo negativo la stagione degli anni di piombo e del terrorismo italiano. Questi ultimi, infatti, se analizzati correttamente e dopo averne preso una completa e oggettiva consapevolezza, possono risultare come un esempio per la nazione stessa. Questa testimonianza, vissuta concretamente dal nostro paese e che ha segnato duramente tutti gli italiani, dovrebbe quindi cercare di limitare la possibilità di un’eventuale ricaduta in situazioni disperate come quelle degli anni di piombo, anche se, ancora nel presente, si possono trovare i tratti caratteristici che possono portare ad una nuova ricaduta in esso. Per rendere l’introduzione all’argomento trattato più interessante per i ragazzi, propongo di ricercare in classe, a gruppi, le diverse caratteristiche comuni agli anni di piombo e alla contemporaneità, al fine di acquisire anche maggiore consapevolezza sull’argomento.


Cognome MAZZU’

Nome FRANCESCO

Scuola ITI “CONTI”, MILANO Classe QUINTA

Al di là della barricata

Meno di un quarto d’ora alla fine dell’ultima ora di lezione. L’idea di dover fermarsi a scuola altre due ore non lo esaltava, specialmente dopo aver avuto la presa di coscienza di come le avrebbe trascorse. Durante le lezioni in classe, tutte le volte che l’attualità eludeva i rigidi allarmi deontologico-professionali dei professori, queste si trasformavano in occasioni, fin troppo appetitose per essere evitate dai golosi idealisti della classe, di dibattito fra diversi schieramenti: agli antipodi per costumi, estrazione sociale, ma principalmente per fede politica, i liceali ribelli e i liceali figli di papà. I primi seguaci delle poltrone estreme dell’aula parlamentare, i secondi di comoda famiglia borghese, spesso democristiana. A fare da cuscinetto moderatore, una schiera variegata di compagni di classe composta da svogliati, indecisi da che parte stare, o, come lui, semplicemente disinteressati. Questa volta la miccia che innescò la discussione fu l’ennesima manifestazione di un qualche movimento, casinista, forse extrastudentesco; non ne era sicuro, ma doveva essere di sinistra, uno di quelli in cui militano i capelloni con le sciarpe dei palestinesi. <<A mio padre ora toccherà rifare tutte le vetrine! Per non parlare degli obiettivi e delle macchine! Per cosa? A cosa è servito romperle? E le centinaia di persone spaventate a morte?>>. L’espressione della medio borghesia, Sergio. Suo padre aveva un negozio che vendeva articoli per la fotografia, in cui lavoravano la madre e la sorella di qualche anno più grande, e in cui, a parte sorprese e possibili colpi di testa visto il suo fanatismo per le quattro ruote, sarebbe anda to a lavorare anche lui, qualche mese più in là. << Servono per farci sentire, servono per fare vedere che le cose così non vanno, che l’unica democrazia che ha diritto di esistere è quella del popolo, non quella parassitaria di sfruttatori e criminali!>>. Classica Giada, del clan dei liceali ribelli, dai facili sermoni politici, proveniente da una famiglia comoda e agiata, ma che evidentemente lei non apprezzava troppo, vista la scelta di vita così diversa che aveva fatto. <<E come pensi che le altre persone ti possano ascoltare se le spaventi e gli rompi il lavoro di una vita?>> <<Perché colpendoli, riportandoli alla realtà, li svegli dalla loro atarassia storica! La società si è fatta abbindolare dalle comodità, stuprare dalla corruzione!>> Risate del cuscinetto alla parola stuprare; tutto il cuscinetto credeva sostanzialmente che Giada avesse letto qualche manifesto politico di troppo. << Ma stupra chi? Stupro che cosa? Stupro di che? Ma ti senti,piccola anarchica? Poi, anarchica, parliamone: hai più soldi tu che tutti noi messi insieme!>> Brusio di consenso del cuscinetto, e anche qualche risata, nascosta. La cosa si faceva interessante, iniziava a seguire la discussione. << Ma sta’ zitto ignorante! E poi ti chiedi perché è successo quel che è successo alla bottega dei tuoi? Questo è il perché! Sei così cieco che non vedi neanche cosa succede intorno a te! La storia passa sotto il tuo culo borghese seduto sulla tua poltrona borghese, nella tua casetta borghese, e tu non fai niente! Bisogna agire, cambiare le cose, attivarsi!>> Il cuscinetto accusa il colpo, il professore tenta di ristabilire la calma nella sua classe: la parola culo era troppo. <<Io non vedo storia qui, vedo solo un gruppo di esauriti fancazzisti che passa il suo tempo a fumare, bere, rompere le cose e picchiare chi si trova in mezzo!>>


<< Fancazzista lo sarai tu che non fai niente! Passivo!>> << Ma sta’ zitta, ronciosa..>> <<Secondo me siete ridicoli entrambi.>> Bum, silenzio interrogativo del cuscinetto. Ecco la creazione di una supernova. Un membro del cuscinetto si stacca dal sistema, e diventa parte di uno schieramento indipendente. <<Ah beh, tu si che puoi parlare. Ma dai stai zitto, che a parte cazzeggiare tutto il giorno non fai altro.>> Giada l’aveva colpito in pieno; in effetti l’ammissione all’esame era sempre meno prossima, e sempre più remota, per la seconda volta. <<Dico solo che siete ridicoli forte per quello che dite, e per come vi arrabbiate. Tanto cosa cambia? Fra qualche mese, dopo la scuola, ti becchiamo con i vestitini firmati all’università privata!>> <<Scommetto che non sai neanche cosa dovrebbe fare un politico, vero?>> <<Cosa dovrebbe fare? Beccarsi i soldi, mangiare, ingrassare e incasinare le idee nella nostra testa!>> gran giudice entra in azione:<<Ok, basta così, tutti quanti!>> <<Eh beh, hai proprio le idee chiare. Ma si può essere così ignoranti..>> Il professore ci riprova:<<Basta ho detto!>> <<A chi hai detto ignorante?>> Oramai la situazione era persa,la tranquillità era persa, la lezione era persa; urgeva una punizione esemplare per recuperarla. <<D’accordo, Leoli e Caputi hanno vinto un approfondimento extra della materia questo pomeriggio con il sottoscritto. E non ridere Meroni, che ci sarai anche tu, cosa credi?>> <<E io che c’entro?>> <<Hai preso parte anche tu al comizio prima. Quindi, due ore in più a scuola per tutti e tre. Ora se avete finito tutti di dire la vostra su qualsiasi cosa che non c’entri con il Fanciullino, gradirei andare avanti.>>

Ecco come si erano ritrovati in quella situazione, due ore dopo. Tempo di mangiare un boccone, e si ripresentò in classe il trio del comizio. Leoli e Sergio si salutarono, Giada entrò sbuffando. Il professore ancora non si vedeva; i due chiacchieravano della Serie A, la ragazza non sbiascicava una parola. E ciò non era dovuto solo alla mancanza di interesse verso l’argomento di conversazione; la sua ostilità verso i due era originata da una presunzione di tipo culturale e sociale, dall’arroganza che parlare con loro non avrebbe avuto nessuno effetto. Lei era illuminata, loro dormivano; e, cosa ancora più brutta, non davano alcun segno di volersi svegliare. Gli andava bene così, semplicemente, e lei non li capiva proprio. Dopo una mezzoretta di attesa inutile, Giada sbottò:<<Che palle, io me ne vado!>> Leoli:<<Guarda che se te ne vai, un bel 4 non te lo toglie nessuno.>> <<E chissene frega!>> <<Massì, lasciala andare, non vedi che ha fretta? Il Che deve fare la rivoluzione!>> Fece Sergio alzando il pugno chiuso e aprendo un ghigno. Giada smorfiò un “buona lezione” e prese l’uscita andandosene, lasciando soli i due. <<Che tipo che è..>> disse Leoli. <<Già, completamente strippata per la politica. E il bello è che non è sempre stata così: avresti dovuto vederla qualche anno fa, quando tu eri in seconda e noi in prima. Irriconoscibile, un’altra ragazza. Spesso I genitori la venivano a prendere fuori da scuola in macchina il sabato.>> <<E poi che è successo?>> <<Poi deve avere scoperto l’esistenza della televisione e del telegiornale e avrà smesso di giocare con le bambole. Boh, no, seriamente, nessuno lo sa, fatto sta che in poco tempo era irriconoscibile. Ha iniziato a vestirsi da pezzente.>> Leoli:<<Ma i genitori scusa? Avranno pur notato che la figlia era diversa no?>> <<Non ne ho idea.>> Certo, che non ne aveva idea, nella sua famiglia se avesse cominciato a fare il randagio e stare


a scuola a scaldare il banco, una bella raffica di “farfalle”, come le chiamava suo papà non gliele avrebbe tolte nessuno. Ancora Leoli:<<Tralasciando poi il fatto che non ho ancora capito cosa ci faccia io qui. Per una volta che parlo..>> <<E’ proprio questo il punto, infatti. Cosa ti aspettavi, che una come quella lì si facesse dare della ridicola da uno che quando gli chiedi qualcosa di politica al massimo ti dice per chi vota Altobelli?>> chiese Sergio in un ghigno. <<Mh..>> Silenzio. Leoli:<<Ma quindi tu che ne pensi di tutta sta’ storia? Anni di piombo, terroristi rossi, neri,studenti tossici..>> <<Penso che siano dei terroristi e basta, tutti. Buoni solo a spaccare vetrine e incendiare qualche camionetta dei vigili. E vai a capire il perché. Tu? Tanto oggi oramai ti sei lanciato nel mondo della politica, mi sembra.>> <<Io, non lo so. Non capisco neanche perché ci siano manifestazioni.>> <<Ah beh, per quello neanche io.>> <<No no,non intendo dire che io non capisco le motivazioni che li possano o meno muovere,quello c’è scritto sui loro volantini; no, io non capisco perché si ostinino a volerlo fare. Tanto l’antifona è uguale da sempre e sempre lo sarà. Chi va in Parlamento o al Governo, si siede e ingrassa, punto.>> <<Io invece non capisco proprio perché fanno quello che fanno. Cosa può non andargli bene di come stanno le cose ora come ora?>> <<Stanno dall’altra parte della barricata.>> <<Cioè?>> <<Cioè dico che se fossi nei loro panni, con i loro pensieri strippati che non vanno d’accordo con la situazione d’oggi, così convinti di poter cambiare le cose facendo casino in giro,probabilmente lo farei anche io.>> <<Ma cosa può non andarti bene? Tutti hanno tutto oggi!>> <<No Sergio, TU hai tutto. Non conosco la famiglia di Giada, ma fidati: esistono famiglie che non hanno tutto.>> “Come la mia” avrebbe voluto aggiungere. Cadde un silenzioso ronzio di pensieri e riflessioni sui due. Intanto la ribelle camminava, passo veloce. Attraversava Corso Buenos Aires per arrivare fino in Piazzale Loreto, dove si sarebbe unita agli altri, dove avrebbe retto uno striscione, in prima linea nella guerra sociale; una lotta importante, la Lotta, che sicuramente non si sarebbe persa per colpa di un professore bigotto che rinchiude i suoi studenti. Con quei due poi, te lo raccomando: un bocciato stupido e ignorante, e un borghesotto che ha il cervello sintonizzato sul fermo immagine di un compagno che manifesta rabbiosamente, in atteggiamenti sospetti o durante una qualche malefatta, probabilmente vista su qualche giornale di destra. Ad ogni modo, doveva accelerare, era in ritardo. Una volta quel corso lo faceva con i suoi, da piccolina; prendevano sempre le castagne in centro e poi passeggiata su e giù per il corso dello shopping, illuminato a natale. Certo era prima di crescere e diventare una compagna: ora non aveva più tempo per quelle bambinate, troppe persone da svegliare e un progetto di liberazione della società troppo importante per perdere tempo. Poi ora che fumava a passeggiare con i suoi non ci si vedeva proprio. Era in ritardo, doveva accelerare. Chissà quei due, in classe come due scemi a fare lezione extra per due ore. E chissà cosa deve aver pensato quella mattina Leoli per parlare! Uno del genere pensa di poterla chiamare ridicola? E dopo il danno, la beffa: sarebbe dovuta anche rimanere con lui a fare lezione! Ma senti un po’! No no, mai. Il corso era quasi finito, doveva accelerare..no, ecco ora li vedeva. Ma il clima non era tra i più rilassati. C’era già la madama, ed era in assetto anti-sommossa. Doveva riunirsi ai compagni, doveva essere pronta a fare la sua parte. Ma tempo di finire il corso, e si era già scatenata la rivolta, che, a dire il vero, era come una delle tante a cui aveva partecipato: oramai non era più una primina, era quasi diciannovenne, era a suo agio.


Si mosse con disinvoltura fra i gruppetti di “sciuri” radunatisi fuori dai negozietti per assistere alla scena ed evitò con facilità le macchine ed i furgoni parcheggiati “temporaneamente” in seconda fila per scaricare le merci per conto dei vari negozi. Ecco che una volta finito il corso si trovava nel vortice dello scontro, anche se invece questa volta era differente: questa volta si trovava tra il martello dei suoi compagni e l’incudine degli scudi delle forze d’ordine. Questa volta non vedeva le persone che conosceva manifestare insieme a lei. Non era fra la sua gente, fra i suoi compagni. Questa volta volava qualche pietra di troppo. Questa volta c’erano un po’ troppe persone a terra, con il viso rosso di sangue. Questa volta, qualche cosa si incendiava spesso e volentieri. Questa volta si attaccava. Iniziava a essere preoccupata; non doveva andare così. Il corteo doveva proseguire senza interruzioni per tutto il corso come da volantino, fino alla tana della società borghese e capitalista: San Babila, Duomo, Piazza Affari. Perché non procedevano? Perché si fermavano a fare guerriglia? Uno spintone sbarrò il flusso dei suoi pensieri, e la riportò alla realtà: gente che urlava e picchiava, lanciava e rompeva. Un’altra spallata. Perché si fermavano a picchiare e avevano abbandonato la Lotta? Un altro spintone, e questa volta cadde a terra, sbattendo il viso su un cestino, poco più in là, e fu subito buio.

Due ore dopo, Leoli e Sergio erano fuori da scuola, consegnati di nuovo ai loro pomeriggi da ragazzi liberi. Si salutarono e presero due cammini differenti; bel ripasso che gli era toccato, pensava Sergio. Anche se dopotutto in quinta, un po’ di studio non fa mai male; qualcosa però l’aveva “toccato”. Sicuramente non erano state le due ore in più di Scienze: no, no, doveva essere stato qualcosa d’altro. Fece mente locale e ripensò alla giornata. Il pullman che prende alla mattina per andare a scuola sempre pieno di lavoratori e studenti, l’entrata a scuola, le prime 3 ore, il dibattito con Giada, l’intervento di Leoli, il pranzo, la chiacchierata con Leoli quel pomeriggio..ecco, la chiacchierata con Leoli il pomeriggio. Quando lui si interrogava su come potevano lamentarsi i vari rivoltosi, aveva affermato che tutti hanno tutto. Ma Leoli ci aveva tenuto a precisare che Lui, aveva tutto. Ripensava alla sua vita, alla sua infanzia, alla sua adolescenza, agli anni presenti. Ripensava alla sua famiglia: una mamma e un papà che vanno d’accordo, una sorella più grande che lo copriva quando ne combinava qualcuna delle sue, un’attività, quella del negozio di fotografia, oramai ben avviata e che procedeva bene. Una bella casa, una macchina. Ma cosa, di tutto questo, aveva mai messo in discussione ogni qualvolta ci pensava? No Sergio, Tu hai tutto. Come sarebbe stato se avesse avuto problemi economici, o i suoi fossero dipendenti mal retribuiti di qualche azienda, oppure se litigassero tutto il giorno? Lui aveva sempre vissuto nella sua agiata situazione, e ringraziava il destino per quello. Per questo difendeva il sistema che gli aveva permesso tale vita: dalla sua politica, alle sue ideologie. Ma se, come aveva detto Leoli, fosse stato dall’altra parte della barricata, cosa avrebbe fatto? Avrebbe lottato per cambiare le sue condizioni? Alla fine,non era forse un impulso universale quello di migliorare le proprie condizioni? Continuava a non capire il loro comportamento pan-rabbioso verso il mondo, certo, ma in cuor suo sapeva che si sarebbe comportato esattamente come loro.

Intanto la luce era tornata in sala per Giada. Una coppia di anziani l’aveva soccorsa durante gli scontri fra manifestanti e polizia. Il colpo preso in faccia non sembrava nulla di che, probabilmente era svenuta per lo spavento, più che per la durezza della botta; tranquillizzò i due premurosi “sciuri” promettendogli che sarebbe passata all’ospedale per un controllo, poi si mise in piedi e si diresse verso casa. Che grande spavento, e che confusione nella testa della giovane ragazza. I suoi compagni non l’avevano riconosciuta; l’avevano strattonata e gettata a terra, non ci poteva credere. Ma più che per i colpi rifilati a lei, Giada era scioccata per come i compagni avevano trattato la Lotta. Possibile che avessero preferito fermarsi in piazza e fare guerriglia contro la Polizia piuttosto che farsi sentire dal resto della città? Non sapeva più che ne sarebbe stato dei suoi ideali, del suo senso di


appartenenza a qualcosa di grande, a qualcosa che avrebbe dovuto cambiare le cose: non era il suo ideale quello della violenza; non apparteneva lei a qualcosa di irrazionale e, soprattutto, non era in questo senso che le cose sarebbero dovute cambiare. Fra le tante incertezze, di una cosa era certa: non erano più i suoi compagni. E non era sicuramente più la sua lotta: per lo meno non in quel modo. Le riflessioni l’accompagnarono silenziosamente fino a casa.

La notizia la si era sentita in giro: in televisione, sui giornali, era sulla bocca di tutti. Un atto spietato, l’ennesimo, a sangue freddo, su chi sarebbe impossibile da toccare e dovrebbe proteggerci. L’8 Gennaio 1980, le Brigate Rosse avevano freddato a colpi di arma automatica i tre poliziotti Santoro, Cestari e Tatulli, fra cui, l’ultimo, appena venticinquenne. A sole poche settimane dalla manifestazione in Piazzale Loreto, Giada risultava essere radicalmente cambiata. Studiava, passava più tempo in casa e aveva riallacciato i rapporti con i suoi. Certo, non erano ancora dei migliori, ma c’era la speranza che ritornassero ad esserlo, presto o tardi. L’8 gennaio lei ringraziava di essersi svegliata in tempo: ora riusciva ad analizzare quello che aveva sotto gli occhi senza limitazioni, e senza essere accecata o fuorviata da nulla. Sergio visse con disincantata amarezza quello che successe. Dopo lo scambio di opinione con Leoli, aveva rivalutato il compagno di classe. Ma aveva rivalutato soprattutto la sua compagna di classe ribelle Giada, con la quale i rapporti sembravano essere migliorati. Ora capiva che lei non aveva letto troppi manifesti politici ma si trovava semplicemente “dall’altra parte della barricata”, e che quando la gente si trova dall’altra parte della barricata rispetto a te, questa compie delle azioni che ti risulteranno incomprensibili, ma che compie nel tentativo di migliorare la propria situazione, e che resteranno incomprese fintanto che non si sfida il filo spinato sopra la barricata e ci si spinge per un attimo al di là, per vedere come si sta. Bisogna essere aperti e pronti a immedesimarci nell’altro per poter capire, ora lo sapeva. Come ora Giada sapeva che non è il terrore nelle strade il mezzo per svegliare le persone dal loro sonno, ma lo sono gli strenui sforzi, la volontà e l’esempio. Ed è indubbio, che l’esempio di cui parlava non era costituito sicuramente da una manifestazione di violenza. E così eccoli, i due, al di là delle rispettive barricate. L’11 Gennaio, Giada e Sergio, insieme ad altri centinaia di studenti, erano usciti dalle loro trincee e avevano superato le loro barricate. Tutti insieme erano ad assistere ai funerali dei tre poliziotti, morti ammazzati da un processo violento di cui loro non volevano fare parte. Vicini alle famiglie dei tre caduti, marciavano affianco dei personaggi di stato venuti al funerale. Erano centinaia di speranze che seguivano il corteo,insieme, importanti. Importanti non per una bandiera, uno stendardo, o per l’importanza conferitagli da qualche potere materiale, ma per la sola, unica, immensa importanza di essere il futuro.


Cognome SINNO Nome ENRICO

Scuola IIS CALVINO, ROZZANO Classe QUINTA

‘69-‘80 RIFLESSIONI SUGLI ANNI DELL’ODIO

Si può morire di politica? Come se questa fosse una malattia, come se le ideologie che la guidano non fossero altro che un morbo di cui aver paura, come un cancro invisibile che ti paralizza per il terrore o una malformazione che nessuno vorrebbe mostrare. La risposta risiede in quel periodo che va dal 1969 al 1980 e che prende il nome, in Italia, di “Anni dell’Odio” o anche, il più conosciuto di “Anni di Piombo” dall’omonimo film di Margarethe Von Trotta uscito nel 1981. Uno dei momenti più bui per la democrazia italiana, quando l’astio e il risentimento tra gruppi politici e rispettivi pensieri e filosofie presero il sopravvento. E’ incredibile pensare che uomini politici, giornalisti, intellettuali e soprattutto giovani persero la vita per le proprie idee, per un qualcosa di astratto, intangibile, che nessuno ha mai potuto vedere o toccare, ma che dall’alba dell’esistenza umana ha influenzato l’uomo sia come individuo, sia come membro di una comunità, divenendo così un fatto concreto realmente incidente sulla vita di tutti, trasformandosi in forme di governo, leggi, diritti, ma spesso anche in sangue, violenza e odio. Fu proprio l’odio il sentimento predominante di quel decennio e il piombo caldo uscente da pistole fumanti la sua manifestazione. Una vera e propria sconfitta della civiltà e dell’umanità e della loro rappresentazione, ovvero la democrazia, che fu umiliata, ferita a colpi di manganello, “gambizzata” e i proiettili nelle sue gambe la resero inerte, la fecero barcollare col rischio che, una volta caduta, non fosse stata in grado di rialzarsi per lungo tempo. Dialogo e confronto furono annichiliti e condannati a un regresso barbaro e violento, molte persone furono uccise per il loro modo di vedere la società, ma non per abbattere l’individuo in sé, ma annientare l’idea di cui era immagine. Basta pensare all’assassinio di Robert F. Kennedy o di Martin Luther King, uccisi per una visone rivoluzionaria della vita guidata da pace ed uguaglianza, che volevano trasmettere e condividere con altri, ma questo a qualcuno non stava bene e nel ‘69 furono eliminati, colpevoli solamente di avere manifestato il loro pensiero e le loro idee. Questo atteggiamento non è proprio della civiltà, non è proprio dell’uomo, ma più attinente alla “società” animale, dove il dialogo non è contemplato e lascia il posto alla brutalità e alla violenza. “L’uomo è l’unico animale che abbia la parola”, scriveva il filosofo greco Aristotele, ed è quindi l’unico a poter avere un dialogo e a poter confrontarsi pacificamente coi suoi simili. Come si arrivò, quindi, alla violenza e all’odio verso un “nemico” di pensiero? Sicuramente alla base di questa intolleranza ci fu un fanatismo ideologico, una religione delle idee che non ne ammetteva altre, un’intransigenza verso il dialogo e il confronto che non poté che portare alla violenza e al terrorismo. Terrorismo rosso e terrorismo nero furono i due grandi blocchi che, con convinzioni politiche diverse,in quegli anni, si schierarono contro lo Stato in una vera e propria guerriglia urbana, accantonando le parole e i confronti, decisero di scendere in campo con manganelli, pistole, piazzando ordigni esplosivi o lanciando “sampietrini” per abbattere un nemico, un traditore e una Repubblica non più in grado di rappresentarli. Le forti convinzioni rosse, guidate da ideologie marxiste-leniniste, lotta al capitalismo e alla borghe-


sia, e aventi come riferimento le figure di grandi rivoluzionari come Mao Tse-Tung ed Ernesto ”Che” Guevara, si sentirono traditi dal Partito Comunista Italiano capeggiato da Enrico Berlinguer, troppo moderato e , per loro, sleale e insieme alle prese di posizione del terrorismo nero dei nostalgici della Repubblica di Salò e del fascismo instaurarono una vera e propria “dittatura della violenza”, che come tale non poté che mostrarsi attraverso l’intolleranza, la brutalità nei confronti dell’avversario politico e la mancanza di libertà di espressione. Tale “regime” ha il suo inizio con i 16 morti e 87 feriti del 12 dicembre 1969 a causa della tristemente nota strage di Piazza Fontana, durante la quale un gruppo di terroristi, dei quali non si conosce ancora oggi il nome con sicurezza, piazzò un ordigno nella Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano. Questo episodio sancisce convenzionalmente l’inizio degli Anni dell’Odio e il lungo periodo di instabilità della democrazia italiana, che dovette affrontare una situazione difficilissima resa ancor più complicata dalla giovinezza di una Repubblica nata solamente vent’anni prima. Il primo periodo degli “Anni di Piombo” fu caratterizzato dalle stragi, per lo più organizzate dai terroristi neri e da nuclei neofascisti che misero in atto la cosiddetta “strategia della tensione”, che mirava a creare un clima di forte tensione politica, con stragi e attentati, in modo da rendere più agevole un eventuale colpo di Stato per una decisiva svolta autoritaria in Italia. E’ di esempio il golpe del 1970, quando dopo l’ordine del principe Junio Valerio Borghese, seguace delle ideologie neofasciste, un commando si introdusse nel Ministero degli Interni a Roma e il centro di produzione RAI fu occupato, un vero è proprio colpo di stato che fu fermato proprio da un nuovo comando del principe. Ancora oggi non si è a conoscenza del perché di tale ordine, si è ipotizzato addirittura di possibili infiltrazioni dei servizi segreti italiani e la vicenda lascia dietro di sé, tutt’oggi, numerose domande senza risposta. Certo è che Piazza Fontana fu il primo ingranaggio della macchina della “strategia della tensione” ad essere messo in moto; era necessario, per i terroristi, arrivare ad una radicalizzazione dello scontro contro lo Stato e questo generò un forte impatto sull’opinione pubblica, colpita dai numerosi morti e le altrettante braccia mozzate dalle schegge del 12 dicembre, e ad una crisi sociale e delle istituzioni. Piazza Fontana portò con sé grandi dibatti e incongruenze riguardo lo svolgersi dei fatti, a livello mediatico e processuale. La verità di Stato e la sua trasparenza verso i cittadini furono messe in discussione, fu difficile individuare i veri colpevoli dell’attentato e gli scandali riguardo le procedure della Questura di Milano e le informazioni che arrivavano ai cittadini crearono un clima di forti dubbi e di sfiducia. Tanto che fu pubblicato, in forma anonima, “La Strage di Stato”, libro di controinformazione che mirava a far luce sugli avvenimenti di Milano e su altri attentati e morti misteriose. A quella Piazza Fontana seguirono altre stragi, se ne contava circa una ogni tre giorni nei prima anni ‘70, fu fatta esplodere, per esempio, una bomba durante un comizio a Brescia, in piazza della Loggia, provocando 8 morti nel 1974 e nell’agosto dello stesso anno fecero saltare in aria, in una provincia di Bologna, il treno Italicus provocando ben 12 morti e 48 feriti. Furono molte altre le stragi che si susseguirono una dietro l’altra, tante quante i funerali di semplici cittadini innocenti. La tensione, come voleva la loro strategia, salì alle stelle e la vita sociale e le istituzioni iniziarono a barcollare. Insomma la violenza dilagava così come la paura, sia all’interno della classe politica, sia all’interno della popolazione e al fianco del terrorismo nero si affiancò quello rosso di estrema sinistra, che evitò le grandi stragi e preferì rapimenti, omicidi e “gambizzazioni”, ovvero un particolare atto criminale durante il quale i terroristi sparavano alle gambe delle vittime inconsapevoli, per terrorizzarle e dare un significativo avvertimento a persone con ideologie affini. Furono sottoposti alla “gambizzazione” personaggi di grande rilievo come ad esempio il giornalista Indro Montanelli, che pagò in questo modo il peso della sua espressione di pensiero, si dichiarò


apertamente contrario ai nuovi movimenti terroristici in Italia affermando per esempio, in un’intervista, che “...quelli che si chiamano rivoluzionari, non sono altro in realtà che disertori.” Uno dei gruppi terroristici più importanti, affini alle ideologie di estrema sinistra, furono le Brigate Rosse che si resero protagoniste di atti spregiudicati e numerosi attacchi al “cuore dello Stato” che le resero tristemente note. Come nel 1978, quando, in nome della “giustizia proletaria” rapirono il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, che insieme al Presidente del Consiglio Andreotti e Enrico Berlinguer , aveva reso possibile un “compromesso storico” tra i partiti italiani e una solidarietà nazionale per affrontare il grave momento di crisi delle istituzioni in nome di una alternativa democratica. Moro fu trattenuto dalle Brigate Rosse per ben 55 giorni e sottoposto a un “processo popolare” , nel quale i brigatisti, autoproclamandosi giudici, lo condannarono a morte e, dopo l’assassinio, lo fecero ritrovare in una Renault 4 rossa in Via Caetani a Roma. Questo episodio mise in evidenza l’incapacità di poter avere un confronto tra le varie realtà politiche formatesi e neanche le numerose lettere di Moro a Cossiga o al Santo Padre e ad altri membri del Parlamento bastarono a salvargli la vita. Ci fu un abbandono da parte della politica italiana e il leader della DC fu lasciato solo difronte al suo destino da una classe dirigente che voleva mantenere la propria fermezza e non scendere a patti con terroristi spietati e violenti, neanche un’azione umanitaria, proposta dal Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi, servì a salvarlo. Stragi, assassinii e scontri si susseguirono ripetutamente e nel 1980 si contarono 125 deceduti e 236 feriti ( Fonte: a cura di M. Galleni, “Rapporto sul Terrorismo”, Milano 1987),l’‘80 fu l’anno che segnò il declino di attentati terroristici e una stagione di morte non poteva che chiudersi con altro spargimento di sangue quando, con la strage di Bologna, nella sala d’aspetto di una stazione, un ordigno esplose mietendo 85 vittime. Da quel momento ci fu una fase di declino e gli atti di violenza diminuirono, anche se l’ultimo attentato risale al 2002 quando, le Brigate Rosse uccisero il professor Marco Biagi, consulente del lavoro del ministero del Welfare, ritenuto dalle BR uno dei simboli dello “sfruttamento del lavoro salariato”. Gli “Anni dell’Odio” lasciano quindi ,anche nel passato più recente, le loro tracce, la loro atmosfera inquieta, dove forti ideali politici vengono nascosti dietro il velo insanguinato della violenza e non c’è spazio per la comprensione, ma solo per un insensato odio verso il “nemico”. E l’odio genera odio, e la violenza genera violenza creando un circolo destinato, però a rallentare e in seguito fermarsi, quando i “grandi ideali” sfumano nel tempo e perdono vigore lasciando dietro di sé le traccie di gravi errori e forti rimorsi. Non si può pensare che gli “Anni dell’Odio” siano un fenomeno improvviso, infatti sono il frutto di episodi precedenti, nei quali forti ideologie ebbero il tempo di maturare, e temprarsi in modo adeguato. Fu nel 1968, infatti, che grandi dimostrazioni pubbliche e le numerose manifestazioni raggiunsero il loro apice e fu in quell’anno che i giovani acquistarono una loro importanza, mostrarono come loro fossero parte integrante dello Stato conquistandosi un proprio spazio nella società di massa e iniziarono a farsi sentire, a uscire allo scoperto. Gli “Anni di Piombo” sono stati un prodotto dei sessantottini e dei movimenti studenteschi che iniziarono in America con l’occupazione dell’Università californiana di Berkeley dove il “Black Power”, il femminismo, l’anticonformismo e la lotta al consumismo borghese esplosero con tutta la potenza che una giovane generazione può avere. Dalla California il movimento contagiò i paesi europei, arrivando anche in Italia, dove la contestazione studentesca invase aree sociali diverse, e assunse un modello di protesta più profondo e completo, dato che inglobò altri movimenti rivoluzionari come quello operaio provocando la scintilla che causò, usando le parole de “L’Avanti!”, il conosciuto “autunno caldo” nel ‘69, quando iniziarono ad esserci i primi scontri tra manifestanti e polizia, che si risolsero con la vittoria operaia e studentesca.


Furono infatti accolte tutte le richieste dei sindacati e la scuola subì alcune riforme. Il clima era piuttosto ardente e ben presto gli scontri aumentarono e nel marzo 1968 ci fu il primo vero scontro tra Stato e studenti, una vera e propria guerriglia urbana, passata alla storia come la “battaglia di Valle Giulia”, quando degli studenti romani che volevano occupare la facoltà di architettura della Sapienza a Roma reagirono violentemente alle cariche della Polizia che tentava di ostacolarli. Lo scrittore Pier Paolo Pasolini, conosciuto e amato dai giovani di quel periodo dei quali condivideva molte idee, in quell’occasione non mascherò i propri pensieri e sentimenti, arrivando a scrivere la poesia “Vi odio, cari studenti”, che non riconosceva come giusta una lotta tra classi, tra Polizia e studenti che avrebbero dovuto, parafrasando i versi del poeta, dare agli avversari dei fiori, piuttosto che usare la violenza. La tensione che caratterizzò gli “Anni di Piombo” si faceva, quindi, già sentire prima di Piazza Fontana e all’origine di questi anni, si può dire, c’è la nascita della “classe giovanile” e delle sua irriverente manifestazione che con prepotenza investì le istituzioni e le leggi. Una prepotenza che voleva cambiare radicalmente la società del tempo, una prepotenza propria dei giovani che non vollero fermarsi difronte a nulla e tanto meno difronte alle repressioni, spesso violente, della polizia, una prepotenza che confluì negli “Anni dell’Odio”, perdendo però il suo smalto realmente ideologico, adatto al dialogo, al trasmettere messaggi profondi e importanti, cedendo, invece, il passo alla mera violenza. I giovani da quel momento in poi hanno sempre portato sulle spalle il peso delle grandi ideologie e delle grandi utopie, e i giorni d’oggi ne sono la dimostrazione più evidente. Basta pensare agli ultimi mesi in Italia e alla tanto contestata Riforma Universitaria del Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini e alle migliaia di studenti, appoggiati anche dai loro professori, che, come nel ‘68, hanno manifestato per giorni nelle grandi città italiane, che hanno occupato le maggiori università o sono saliti sui tetti per difendere una propria visione della realtà, provando a difenderla ad ogni costo. Oppure, con un orizzonte più ampio si può pensare ad una situazione di maggior rilievo internazionale, come la sanguinosa rivolta del medio-oriente, dove si stima giovani, tra i 16 e i 35 anni, sono scesi nelle piazze delle capitali di Tunisia, Egitto, Libia, Algeria, Yemen e Siria disposti a perdere la vita per un’idea, per un’alternativa ai totalitarismi vigenti nei loro Stati, per la libertà. Ancora una volta dalla storia non si è appreso nulla, ancora una volta le ideologie sono state soffocate nel sangue, prima fra tutte In Libia, dove il colonnello Gheddafi non ha avuto ripensamenti su come affrontare la rivoluzione, e ha bombardato le sue stesse città, il suo stesso popolo, evitando così, nuovamente, il dialogo e il confronto che avrebbero potuto salvare tante vite umane.

Questi giorni devono essere un forte monito, le idee non devono essere necessariamente insanguinate. Non si deve morire di politica, non deve essere necessario rischiare la vita per il proprio modo di pensare , gli “Anni dell’Odio” servono a ricordarci questo e non possono essere dimenticati, poiché “Tutti coloro che dimenticano il passato sono condannati a riviverlo”(Primo Levi, “Se Questo è un Uomo”).


Cognome TRAPANI Nome LUCIA Scuola IIS “BESTA”, MILANO Classe QUINTA Immaginate per qualche secondo di essere un cliente della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. È il 12 Dicembre del 1969, sono circa le 16:00 del pomeriggio e vi recate come di consueto all’edificio per portare a termine alcune commissioni. Vi soffermate qualche secondo all’ingresso della banca per una sigaretta ed entrate accolti dal familiare brusio della gente in attesa; prendete il vostro numero alla macchinetta e, sbuffando per la lentezza con cui si svolgono semplici pratiche di ordinaria amministrazione, vi accomodate salutando qualche conoscente e chiacchierando per ammortizzare l’attesa. Il tempo scorre. Sono circa le 16:15 ed improvvisamente l’allegro vociare delle persone viene interrotto da un boato assordante. Dopo che avete perso conoscenza per qualche minuto lo spettacolo che vi si presenta dinnanzi al risveglio è terrificante: la banca è saltata in aria. Intorno a voi ci sono morti, feriti, volontari della croce rossa, pompieri e poliziotti; qualcuno vi solleva e vi accompagna all’ambulanza. Forse per miracolo,vi reggete sulle vostre gambe e attoniti, increduli e sbigottiti,camminate con lo sguardo incollato sulle macerie. Solo alla sera sareste venuti a conoscenza del fatto che non poteva trattarsi di un incidente; pochi minuti dopo quello di Piazza Fontana un altro attentato aveva colpito Roma. Un terribile disegno inizia a delinearsi nella vostra mente come in quella di tutti: ora è il tempo delle domande; “chi è stato?” “perché?”. Con questi interrogativi si apre il decennio denominato degli “anni di piombo”; caratterizzato da guerriglia urbana d’ascendenza rivoluzionaria. La popolazione fu attanagliata da un forte sentimento di inquietudine e di paura. Calò l’oblio sul cielo tricolore: lo scontro ebbe inizio. Destra contro sinistra, omicidi, manifestazioni di piazza, leggi speciali per contenere l’emergenza terroristica; e come dimenticare altre stragi come quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 Maggio del 1974, a cui seguì quella dell’espresso Italicus durante la corsa Roma - Brennero e infine il 2 Agosto del 1980 la bomba piazzata alla stazione di Bologna. Già come si può dimenticare? Sarebbe più facile ricordare senza cercare un’interpretazione, una chiave di lettura che renda comprensibile quanto è accaduto. È necessario invece calarsi nell’atmosfera dell’epoca, riprovare sulla propria pelle quel terrore che crebbe alla follia proporzionalmente al crescente terrorismo che dilagava in ogni dove. Ci sono luoghi, persone e fatti che vale la pena ricordare con coscienza di sé e una nota di amarezza. A tal proposito è significativo il rapimento del presidente del partito della Democrazia Cristiana Aldo Moro del 1978, eseguito da parte del commando brigatista e che, dopo un’agonizzante tratta di cinquantacinque giorni con lo Stato per liberare alcuni compagni reclusi, si concluse con un efferato omicidio. Giusto? Sbagliato? L’eterna dialettica politica qui tace. Davanti alla morte di qualcuno non vi è giustificazione che regga lo sguardo della dura verità che amara, rovente ed impetuosa smuove le nostre coscienze rendendoci piccoli, più di un granello di sabbia, più sottili dello spessore di un capello. Un’idea non uccide, l’uomo sì, ma è giusto che un uomo uccida per un’idea? La risposta non è, ahinoi, sempre stata la stessa. Alcuni italiani, alcuni uomini, hanno ucciso a tale scopo; e non parliamo di secoli fa per cui nell’immaginario collettivo tale pensiero si esaurirebbe con l’immagine di un guerriero con la smania di successo che ferisce a morte i civili sferrando colpi di spada alla velocità con cui si scandiscono i secondi. No, non si tratta di nulla di tutto ciò, l’ombra delle vicende degli anni di piombo è molto più vicina, non è ancora tramontata sulla carta stampata di qualche libro di scuola. È viva, è una questione ancora aperta sotto molti punti di vista tra cui quello delle responsabilità. È un contenzioso secolare quello tra la destra e la sinistra italiana che inevitabilmente sfociò nella società causando malcontento ed insofferenza tra la popolazione. È interessante capire quali furono le ragioni sociali che hanno realizzato il fatto; per farlo mi sono rivolta ad un Alto ufficiale dei carabinieri in pensione specializzato in rapporti politici, a cui ho rivolto alcune domande. D:<< Ufficiale quali furono i mutamenti che si verificarono a livello sociale alla vigilia degli


anni del terrore? >> R: << Il decennio di piombo affonda le sue radici nel 1968, anno in cui si consumarono forti agitazioni da parte del movimento studentesco, soprattutto in Francia, dove durante il cosiddetto “Maggio francese” vi furono duri scontri contro il Governo, che si risolsero con una Riforma della scuola. A questo fenomeno si agganciarono le proteste giovanili italiane, che presero il nome di contestazione. Inizialmente insorsero contro il potere dei professori nelle università, ma le proteste ben presto confluirono al “sistema”, ossia allo Stato che l’università rappresentava e si concretizzarono duramente nel dramma di Piazza Fontana del 1969 ad opera di un gruppo extraparlamentare di estrema destra chiamato Ordine Nuovo. >> D: << Quali furono le ragioni sociali di tutto ciò? >> R: << La parte studentesca sicuramente non si sentiva a proprio agio, ma dare un giudizio sociale agli attentatori di Piazza Fontana mi sembra un po’ azzardato, sarebbe come giustificare il loro operato. >> D: << Dopo Piazza Fontana si susseguirono una serie di avvenimenti concatenati tra loro; prima di congedarla vorrei fare con lei un breve excursus nel lasso di tempo che si snoda tra Piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. >> R: << Effettivamente vi è un fil rouge che coordina un succedersi di accaduti che di primo acchito potrebbero sembrare indipendenti. Inizialmente fu additato come responsabile dell’attentato di Piazza Fontana l’anarchico Pietro Valpreda, poi si passò ad un altro anarchico, il ferroviere Giuseppe Pinelli; si tentò dunque di espiantare l’accaduto dalla diatriba politica in corso in quegli anni. >> D: << Da questo depistaggio iniziale in poi ebbero luogo una serie di equivoci a causa dei quali persero la vita più persone. >> R: << Esattamente; la notte del 15 Dicembre del 1969 vi fu un’interruzione intorno alle 12:00 dell’interrogatorio di Pinelli, quando gli agenti rientrarono nella stanza l’interrogato non c’era più, fu trovato in fin di vita nel cortile della questura. Sul Commissario Luigi Calabresi gravarono le pesanti accuse di un suo ipotetico coinvolgimento con la morte dell’anarchico, specialmente da parte del sinistrismo del periodo. La Polizia, i Carabinieri ed il Magistrato presenti quella notte tutti insieme proprio per superare le divergenze interne e condurre al meglio le indagini affermarono da subito che Pinelli si suicidò. >> D: << Purtroppo però le accuse di omicidio costarono la vita al Commissario Calabresi. >> R: << Ricordo bene il giorno in cui appresi la notizia della sua morte; perché via Cherubini si trova vicino alla mia caserma, era il 17 Maggio del 1972, il commissario uscì di casa e gli spararono in pieno volto mentre metteva piede nella sua 500. Omicidio avvenuto per mano di alcuni militanti di Lotta Continua. Difatti sedici anni dopo l’accaduto Leonardo Marino ebbe una crisi di coscienza e confessò davanti ai giudici di esser stato uno dei quattro componenti che avevano ucciso il commissario. >> D:<< Questo è quanto accade quando l’uomo in cuor suo brama vendetta; ma si trattò di una vendetta ingiustificata dato che Calabresi fu prosciolto da ogni accusa che lo vedesse coinvolto. >> R: << Esattamente, accecati dalla rabbia ed esaltati dal clima di tensione che li circondava, quei fanatici hanno ucciso per un’idea, da tutti poi proclamata sbagliata. Mi fa sorridere pensare che ora in Piazza Fontana ci sono ben due targhe in ricordo di Giuseppe Pinelli; la prima riporta le parole “..innocente morto tragicamente” e l’altra “ ucciso innocente..” così che ognuno possa andare a piangere sulla sua targa. >> D: << Già, qualcuno crede che sia un’offesa alla memoria di Calabresi, ma oramai il danno è fatto, lasciamo piangere, chi ancora ha lacrime per farlo, sulla versione in cui crede. La violenza ideologica, ciò è testimoniato proprio dagli avvenimenti degli anni di piombo, è un’arma molto pericolosa; parliamo di Moro. >> R: << La cerniera della “questione Moro” fu l’accordo tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana; chi era a sinistra non condivideva questo stato di cose: coloro che li rappresentavano al governo dovevano mantenere come caposaldo del proprio sistema interno la lotta di classe filo-marxista. Sotto questo aspetto gli si può dare anche ragione. Le Brigate Rosse avevano un’ideologia condivisibile, il


punto è che intrapresero strade sbagliate e con i mezzi meno opportuni. >> D: << Sarà un caso che Moro fu ucciso proprio il giorno in cui si realizzava il grande accordo storico, tra l’altro pensato proprio per mettere i freni al terrorismo? >> R: << Io credo di no; dopo il rapimento del parlamentare la Democrazia Cristiana era decisa a non scendere a patti con i brigatisti, quindi le speranze delle BR si riposero sul Partito Comunista che, invece fu il più duro nel dire di non accettare alcun compromesso. Il partito socialista con Craxi e il Papa tentarono una trattativa, nella speranza che Moro venisse rilasciato. Credo però, che accettare un accordo con le BR sarebbe stato come legittimare e affermare un contropotere fuori dall’istituzione. >> D: << Come vivevate questi avvenimenti in caserma? >> R: << Se ne discuteva parecchio, ma noi eravamo molto “terra terra”, trattavamo i fatti dal punto di vista giudiziario, giacché furono commessi molteplici assassinii, si voleva mandare tutti all’ergastolo, non si arrivava a questa sottigliezza, si era molto più pratici. >> D: << Crede che gli anni di piombo si spieghino semplicemente attraverso accuse ed accusati? >> R: << Io penso che questi movimenti insurrezionali volevano sostituire lo Stato perché l’immagine della loro ideologia non era più rispecchiata nel nuovo modo di vedere le cose. >> D: << Dunque concorda con me nel dire che alla base di tutto ci fu molta intolleranza? >> R: << Assolutamente sì. Quello che è venuto a mancare agli albori degli anni di piombo fu il rispetto. Le divergenze ideologiche furono portate all’esasperazione da entrambe le parti, fino al punto in cui la situazione diventò “out of control” per tutte le istituzioni coinvolte e per la popolazione. L’intolleranza è una brutta malattia che affligge il mondo da sempre, ma a cui non riusciamo a trovar cura. >>

Sono anni di ingiustizie quelli che intercorrono il decennio tra il 1969 e il 1980, perché non si può pretendere di tingere un intero paese di rosso o di nero senza tener conto delle innumerevoli sfumature che si collocano tra questi due colori. Le opinioni in merito sono tuttora in disaccordo: si parla di terrorismo di sinistra da una parte e di stragismo di destra dall’altra; dunque il dualismo a oggi permane. Non bisogna però soffermare l’attenzione solo su un ipotetico colpevole, o illudersi di poter affermare che la colpa è dell’uno o dell’altro schieramento; si cadrebbe nuovamente nel pericoloso gap politico alimentandone la profondità. Perché è stata proprio questa la miccia dell’ ordigno a cui è stato dato fuoco negli anni di piombo: l’intolleranza. Intolleranza che si estese a macchia d’olio in ogni ambito della società diventando motivo di scontro e troppo spesso anche di morte. La legge del taglione sembrava l’unico credo politico a cui ci si potesse appellare. Eppure, molti anni fa or sono, Galilei disse: “Occhio per occhio rende cieco il mondo”; tale affermazione si è rivelata una grande verità, ma purtroppo inapplicabile perché l’uomo per quanto sia un buon predicatore della morale, di fatto cerca sempre di prevaricare sugli altri, cosa che, come diceva il grande Darwin potrebbe derivare da un disegno biologico molto più grande e più antico di noi: l’istinto di sopravvivenza; per cui un bene, quale in questo caso la supremazia, tanto più è scarso, quanto più ci si azzuffa per ottenerlo. Profetiche furono dunque le rivelazioni dei nostri celeberrimi avi, ma forse il buon Darwin, me ne perdoni, dimenticò che l’uomo non è solamente un essere organico che pullula di istinti, né “è solo ciò che mangia” a differenza di quanto affermò il filosofo Feuerbach; è altro, l’uomo è molto di più. Egli è vita, è storia, è più di un istinto primordiale, a cui certamente bisogna far fede, ma a cui nel corso del tempo abbiamo imparato ad accostare un’etica, un rigore; una consapevolezza sempre maggiore di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Come scrisse Dante nel canto XXVI dell’Inferno: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.”. Tuttavia, quando è a noi che tocca agire, questa consapevolezza tende a venir meno. L’istinto di sopravvivenza prevale; ed è così che si risolvono molte pagine nere della storia del mondo. Nello specifico quanto accadde negli anni di piombo, altro non fu che il ripetersi della lotta tra bene e male che è in ciascuno di noi. Il confine tra l’una e l’altra sponda è sottile, talvolta impercettibile; tanto più quando alla base dei nostri giudizi vige l’intolleranza verso il prossimo, nei confronti di un’idea diversa dalla nostra. È molto più facile di quanto si possa credere cedere alla tentazione di eliminare il nemico, che in questo caso è chi la pensa diversamente da noi, vantandoci di una onniscente superiorità che di fatto non ab-


biamo; siamo uomini e come tali dobbiamo sentirci ognuno alla pari dell’altro; e dalla diversità fisica, economica, sociale, culturale, o politica dobbiamo trarre insegnamento, non creare motivo d scontro. Il principio del pluralismo delle idee deve restare ben saldo in ognuno di noi e deve essere il punto di vista mediante il quale poggiamo lo sguardo sugli altri; solo così possiamo evitare di cadere nella discriminazione e possiamo affrontare le divergenze ideologiche senza urtare la sensibilità altrui. A questo proposito il giornalista Giorgio Bocca nel libro “ Fratelli coltelli. Dal 1943-2010. L’Italia che ho conosciuto” scrisse: << Posso dire che conosco il paese in cui sono nato e vissuto? Sì e no. Le virtù continuano a stupirmi come i suoi difetti. Dopo aver per due volte primeggiato nel mondo, ne siamo ancora in certo modo estranei: i nostri imperi non hanno lasciato il segno nel nostro carattere, i santi, gli eroi, i navigatori hanno vissuto invano, non hanno lasciato una traccia nel nostro modo di essere e forse questa è la nostra peculiarità: dobbiamo ancora imparare a vivere in società, a essere Stato, inutilmente furbi, inguaribilmente infantili, ma molto umani nelle nostre debolezze come nelle virtù, in un certo senso rassegnati a questa nostra umanità: capaci di fermarci prima della ferocia del fanatismo. >> La perseveranza nel cadere negli stessi errori è sintomatica dell’essere umano; proprio per questo è fondamentale riflettere nel presente sul passato per far sì che ciò che ieri fu non sarà anche domani.


Cognome TURATI Nome GIOELE Scuola IIS GADDA, PADERNO DUGNANO Classe QUINTA ’69-’80 RIFLESSIONE SUGLI ANNI DELL’ODIO

Per potere affrontare questo argomento del terrorismo, delle sue radici ideologiche e delle vittime che ha seminato, ritengo importante collocare il periodo di riferimento, ovvero gli anni compresi tra il 1969 e il 1980, in un contesto politico, sociale ed economico molto più ampio. Per capire meglio questi fatti, serve chiarire il quadro complessivo in cui avvengono. Per cominciare, bisogna forse ricordare gli anni Cinquanta, quando il nostro Paese ebbe un periodo di crescita economica e al tempo stesso di stabilità sociale. L’Italia iniziava la sua nuova vita democratica e lavorava, dopo il disastro della seconda guerra mondiale, a partire dalla ricostruzione. Cominciarono però a sorgere dei problemi quando si determinò una certa tensione al cambiamento, legato soprattutto alla condizione delle masse, dei ceti popolari, che volevano migliorare le loro condizioni di vita. Di fronte a queste richieste la DC - Democrazia Cristiana -, il più grande partito italiano e garante dell’equilibrio del sistema politico, si pose per tutti gli anni Cinquanta in una posizione di mezzo, di equidistanza tra sinistra e neofascisti.

Questa politica cosiddetta “centralista” della Democrazia Cristiana, con l’appoggio di alcuni partiti minori (liberali, repubblicani e socialdemocratici), da una parte impostava la nuova vita del Paese, dall’altra doveva contrastare la “minaccia comunista”, cioè impedire che la nuova situazione sociale portasse a una svolta di sinistra nel nostro paese. In tutto questo, pesava fortemente il contesto internazionale della divisione del mondo in due blocchi e della guerra fredda, in cui l’Italia rimaneva nel blocco dell’Occidente ed il comunismo era vissuto come pericolo (anche se in Italia il PCI - Partito Comunista Italiano - era una forza democratica come le altre, presente in Parlamento e non rivoluzionaria). Con l’arrivo degli anni Sessanta, l’Italia vide crescere questa voglia di cambiamento e accolse la nascita del centro-sinistra, che significava la fine del centrismo (sempre più instabile nelle alleanze politiche) per un ampliamento della base politica del governo, aprendo così la possibilità di far nascere forze più vicine ai ceti popolari e operai. Intanto ci fu il “miracolo economico”, proprio a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, che rese l’Italia un moderno paese industriale, seppure con i suoi squilibri tra Nord e Sud. Nello stesso periodo, si affermavano i nuovi orientamenti della Chiesa in campo sociale, con Giovanni XXIII e Paolo VI, che proponevano di rinnovare la vita della Chiesa come comunità ecclesiale e, soprattutto, modificare la posizione della Chiesa nei confronti del mondo contemporaneo. Così la svolta politica, il boom economico, le aperture sociali e culturali, tutto questo insieme creò delle grandi aspettative di riforma. Peccato, però, che gli anni Sessanta “non mantennero le promesse”. Infatti sul piano economico si mostrò la fragilità del nostro sistema, la difficoltà di mantenere la crescita economica, quando giustamente in un tempo di crescita i sindacati chiesero gli aumenti salariali anche per i lavoratori. Mentre sul piano politico, si formarono diversi governi democristiani, appoggiati pienamente dai socialisti, che si dimostrarono però incapaci di dare risposta alle esigenze di modernizzazione del paese. La vita politica fu anzi caratterizzata da un progressivo deterioramento, con fenomeni sempre più evidenti di clientelismo e di spartizione dei posti di potere fra i partiti del governo (la cosiddetta lottizzazione). Nell’occupazione politica dei vari posti di lavoro e di dirigenza (posti nelle imprese e nei vari uffici controllati dai partiti politici, spesso in cambio di voti) riemergevano così la mancanza di senso dello Stato e la tendenza all’illegalità che sembravano caratterizzare, in maniera profonda, il sistema di potere italiano.


In questa Italia, con la sua forte crescita economica e con i suoi grandi cambiamenti sociali, ma ancora segnata da squilibri e miserie, arrivò il movimento di protesta del 1968. Proveniente dall’estero, e in Europa soprattutto dalla Francia, questo movimento fu fortemente vissuto dai giovani. Si diffuse nella scuola e nell’università, dove al grande aumento della popolazione studentesca non era corrisposto alcun adattamento delle strutture e dei metodi di insegnamento. Così il movimento studentesco diede voce, come negli altri paesi occidentali, al disagio delle giovani generazioni nei confronti del conformismo sociale e dell’arretratezza delle strutture politiche ed educative, con la ricerca di nuove forme di espressione e di partecipazione, dai gruppi di studio autogestiti alle assemblee. Dappertutto i giovani occupavano le facoltà e le scuole superiori, scendevano nelle piazze a manifestare contro l’autoritarismo dei docenti e della famiglia, il perbenismo imperante e il modello di vita consumistico. Il movimento studentesco appariva fortemente politicizzato a sinistra. I suoi riferimenti ideologici, marxisti e rivoluzionari, si rifacevano alla cultura comunista e in parte a quella cattolica.

La mancanza di dialogo concreto con i partiti e di sbocchi alla protesta portò però rapidamente al formarsi di una sinistra extraparlamentare, che contestava anche la politica del PCI e respingeva il riformismo sociale come un tradimento delle speranze rivoluzionarie. Come se i miglioramenti che si realizzavano fossero solo “le briciole”, fossero sempre minori di un grande cambiamento sociale che ci si aspettava. Questo portò il movimento a diventare più radicale, insieme all’atteggiamento di repressione adottato dal governo e dalle forze di polizia. Iniziò così una spirale di violenza e lo scontro fisico divenne una costante nelle manifestazioni in piazza. Insomma, la grave insoddisfazione della parte più politicizzata del movimento giovanile verso i partiti e l’immobilismo della società fu anche all’origine delle scelte di molti protagonisti del futuro terrorismo di sinistra, che inseguiva confusi disegni rivoluzionari. La contestazione si spostò presto dall’università alla società, dalla scuola alla fabbrica, e alla protesta studentesca si affiancarono le lotte operaie del cosiddetto “autunno caldo”, con gli scioperi del 1969 per i nuovi contratti di lavoro. Gli operai non chiedevano solo aumenti salariali, ma anche più potere in fabbrica e mettevano in discussione le forme del lavoro precedenti, come l’organizzazione del lavoro nei reparti e i licenziamenti. Vennero adottati tipi di lotta particolarmente duri, dagli scioperi selvaggi alle interruzioni delle linee ferroviarie, dall’occupazione delle fabbriche ai picchetti. Quindi da una parte ci furono conquiste importanti del mondo del lavoro, come l’unione dei grandi sindacati (Cgil, Cisl e Uil) in una confederazione unitaria nel 1972 o, sul piano delle leggi, l’approvazione dello “Statuto dei lavoratori” già nel 1970, che fissava nuove norme nei rapporti tra dipendenti e datori di lavoro (maggiori libertà sindacali e tutela dai licenziamenti). Ma d’altra parte l’Italia, proprio in questi anni, attraversò una delle fasi più tormentate della propria storia unitaria, segnata da una forte crisi economica, politica e sociale, che in alcuni momenti sembrò “fuori controllo”. Esplose così la violenza durante gli anni Settanta, nel periodo definito degli “anni di piombo”, nelle forme del terrorismo e dello stragismo.

A questo punto, ricostruito il quadro sociale e politico, si entra nel cuore del nostro argomento e alcune domande sorgono spontanee. Chi erano e cosa volevano ottenere i terroristi e gli autori delle stragi che insanguinarono l’Italia per oltre un decennio? Che rapporto c’era tra le loro idee, le loro azioni violente e la realtà italiana? E poi, si è ristabilita l’amara verità di quei fatti e si è fatta giustizia nei processi, innanzitutto per le vittime e per i loro familiari, ma anche per l’intera società italiana?

Per rispondere a queste domande, tra i tanti scritti sul terrorismo, c’è un libro fondamentale di Fasanella e Sestrieri, Segreto di Stato, in cui gli autori intervistano Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi voluta dal Parlamento (di cui dico meglio più avanti, seguendo il filo cronologico).


Ma si può anticipare che ancora oggi la risposta è no, rispetto all’esigenza di giustizia. Molti processi, soprattutto quelli relativi alle stragi, non hanno mai trovato dei responsabili e hanno anche incontrato ostacoli (compreso il segreto di stato) e subìto gravi depistaggi. Invece la verità più generale, quella di capire la logica dei diversi gruppi terroristi e stragisti, quella verità si è potuta abbastanza ricostruire negli anni, come racconta il presidente Pellegrino, collegando i risultati dei vari processi e testimonianze raccolte. Cerchiamo allora di ricostruire i fatti principali e la logica dei diversi gruppi.

La cosiddetta “strategia della tensione”, propria dei gruppi neofascisti e coperta da alcuni settori deviati dello Stato, voleva utilizzare appunto le tensioni sociali per favorire una svolta autoritaria dello Stato stesso. Si trattava di colpire la gente comune, di disseminare il panico, per addossare la colpa ai movimenti sociali del periodo (movimenti degli studenti, degli operai, “minaccia comunista”, ecc) e di conseguenza chiedere o imporre un ordine statale più autoritario. Questa strategia si attuò in Italia con una serie di stragi. La prima strage di questo periodo fu quella di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, con l’esplosione di una bomba che colpì una banca e la gente che si trovava lì, provocando sedici morti e un centinaio di feriti. Della strage furono subito incolpati gli anarchici e ci vollero anni prima che le responsabilità degli ambienti di destra emergessero. Di matrice “nera” fu anche la strage di piazza della Loggia a Brescia, nel 1974: 8 morti uccisi da una bomba durante una manifestazione democratica, voluta da sindacati e partiti politici e partecipata da molti cittadini, proprio contro la violenza eversiva di quel periodo. E ancora nel 1974 ci fu l’attentato al treno Italicus, saltato in aria per l’esplosione di un ordigno nella galleria nel percorso tra Firenze e Bologna: si contarono dodici vittime. Infine avvenne la strage della stazione di Bologna, la più sanguinosa di tutte: 87 morti e oltre 200 feriti, il 2 agosto 1980. Questa volta l’esplosione colpì la folla presente in una stazione ferroviaria, in un periodo di vacanze. Fatti tragici che hanno profondamente segnato la storia dell’Italia repubblicana, lasciando strascichi non ancora risolti, fino a quando non si farà giustizia nei processi, finché non si darà un nome ai mandanti di queste stragi. Al terrorismo “nero”, stragista, si contrappose subito un terrorismo di opposta matrice politica: il terrorismo “rosso”, che si intendeva rivoluzionario. Si iniziò con il sequestro di un dirigente della Sit-Siemens nel marzo del 1972. Nello stesso mese morì dilaniato da una carica di tritolo nei pressi di un traliccio dell’energia elettrica l’editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli. Poco dopo, il 17 maggio, fu assassinato a Milano il commissario di polizia Luigi Calabresi, accusato dalla sinistra extraparlamentare di aver provocato la morte dell’anarchico Pinelli all’indomani della strage di piazza Fontana, ma già prosciolto in tribunale da tale imputazione. Il gruppo di maggior nome del terrorismo di sinistra furono le Brigate rosse. Nate agli inizi degli anni Settanta e presto dotatesi di una struttura clandestina armata, agirono dapprima nelle fabbriche con intimidazioni e sequestri-lampo di dirigenti industriali e capireparto. Il rapimento del giudice genovese Mario Sossi, nel 1974, e l’assassinio del procuratore di Genova Francesco Coco, nel 1976, segnalarono il passaggio delle Brigate rosse alla cosiddetta fase di “attacco al cuore dello Stato”. In questa successione di omicidi politici e atti di violenza, alle Brigate rosse si affiancarono presto i Nuclei armati proletari e Prima linea. Obbiettivi del terrorismo “rosso” furono esponenti della magistratura, della polizia, della classe di governo e giornalisti. Nemmeno le personalità della sinistra riformista vennero risparmiate. E mentre il terrorismo “nero” aveva come fine l’instaurazione di un regime autoritario, il terrorismo di sinistra si poneva l’obbiettivo della rivoluzione proletaria. A partire da questi scopi diversi, il risultato sicuramente raggiunto dall’uno e dall’altro terrorismo fu di intrappolare nell’incertezza la classe di governo italiana e di bloccare la spinta riformista. Punto massimo, ma anche inizio del declino del terrorismo, fu il rapimento e l’assassinio, dopo cin-


quantacinque giorni di prigionia, del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Il 16 marzo 1978, giorno in cui in Parlamento si apriva il dibattito sulla fiducia del nuovo governo di “solidarietà nazionale”, un commando delle Brigate rosse rapì Aldo Moro, uccidendo i cinque uomini della scorta. Scopo dei brigatisti era colpire, attraverso il leader democristiano, il dialogo tra forze di centro e di sinistra, che dal loro punto di vista avrebbe bloccato “la rivoluzione proletaria” che avevano in mente. Il Paese visse 54 giorni di angoscia e di paura, mentre i partiti si dividevano sull’opportunità di trattare il rilascio dell’uomo politico. Infatti, dopo averlo condannato a morte, le Brigate rosse ne chiesero lo scambio con alcuni terroristi detenuti. Il cosiddetto fronte della fermezza, che comprendeva il governo e altri partiti, sostenne che non si doveva trattare, per non dare legittimazione ai brigatisti, mentre altri cercarono di contrastare questo orientamento. Dal Vaticano, il pontefice Paolo VI rivolse ai brigatisti un accorato appello a liberare Moro, i cui messaggi dalla prigionia suscitavano aspre polemiche. Fu tutto inutile, il 9 maggio 1978 il cadavere di Aldo Moro venne trovato riverso nel bagagliaio di un’auto posteggiata in via Caetani a Roma, non lontano dalle sedi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Il delitto Moro diede al terrorismo la massima visibilità e la strategia della violenza ne trasse nuovo impulso. Nel 1979 gli attentati salirono a 805, mentre le vittime delle Brigate rosse o di altre formazioni armate di sinistra furono 22 nel 1979 e addirittura 30 nel 1980. Ma l’uccisione dello statista democristiano segnò anche la fine delle connivenze e delle complicità che avevano consentito al terrorismo di radicarsi nella società. Si era superato un limite e, con la fine degli anni Settanta, lo Stato riuscì finalmente a impostare contro l’estremismo di sinistra una strategia efficace. Venne soprattutto incoraggiato il “pentitismo”, con una legge che riduceva la pena in cambio di collaborazione. Si aprì in tal modo una strada che portò alla resa di molti militanti dei gruppi armati e allo smantellamento delle strutture eversive. Dunque soltanto negli anni ’80 l’Italia venne fuori dagli “anni di piombo”, dagli attentati e gli omicidi, i rapimenti e le bombe, in una parola dal terrore. Sui libri e nelle varie memorie si tende poi a ricordare soprattutto i nomi delle vittime note a quell’epoca, ma il numero dei morti conteggiati in quegli anni non comprende solamente gli esponenti politici, magistrati e poliziotti. In realtà una grande quantità di persone persero la vita solo perché esprimevano i loro ideali, perché esercitavano il loro diritto di sciopero o di manifestazione, o solamente perché si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato. Naturalmente, alla fine di tutto questo, si fanno i conti con ciò che è successo, che è ingiusto ed è ormai irreparabile. Ma come trasformare quel dolore, soprattutto quello di chi resta e ricorda e non ha ancora avuto giustizia, in qualcosa di costruttivo? In questo senso, bisogna ricordare almeno due fatti importanti.

Per prima cosa, negli anni a seguire, ci fu la nascita di molte associazioni per le vittime e per i familiari delle vittime, per far modo che il loro ricordo non venisse sepolto e trascurato e che venisse ottenuta la giustizia dovuta. Queste associazioni, con tutte le loro iniziative di grande valore civile, hanno assunto un carattere forte di denuncia, nei confronti di chiunque voglia depistare o sottovalutare la gravità della mancata risposta giudiziaria, continuando a richiedere l’accertamento della verità nei processi. Piazza Fontana, piazza della Loggia, la stazione di Bologna e le altre stragi impunite vengono ancora ricordate da queste associazioni e, con loro, da tutta Italia.

L’altro segnale di movimento, per la ricostruzione della verità almeno sul piano storico, lo diede anche lo Stato, quando costituì in Parlamento la cosiddetta Commissione Stragi (“Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”).


Nata nel maggio 1988, composta da 20 deputati e 20 senatori oltre al presidente (il senatore Giovanni Pellegrino), rimase attiva per 13 anni, fino al 2001, dato il grosso lavoro che doveva svolgere. Senza sostituirsi ad altri organi dello Stato, in particolare alla magistratura, svolse un ruolo prevalente di visione generale del fenomeno del terrorismo e delle stragi in Italia, collegando i risultati dei vari processi e una mole di materiali utili. La Commissione stragi rispose finalmente a una domanda di verità. Fu un organo pubblico di grande autorevolezza, che lavorò per far luce sui molti misteri della recente storia italiana.

In chiusura di questo scritto, cosa rimane a noi oggi di tutta questa esperienza? Forse, in coincidenza con i 150 anni dell’Italia unita, si può fare una differenza storica, ma che importa ancora oggi, nel nostro presente. Da una parte ci sono quei veri rivoluzionari, come Garibaldi o Mazzini o altri, che hanno dato la vita per una causa realmente esistente, come è stata l’unità d’Italia. Nella storia, queste persone vengono poi celebrate come “eroi”. Dall’altra parte ci sono dei falsi rivoluzionari, presi dalla loro follia di iniziare una rivoluzione popolare che in realtà non esiste, che è solo nella loro mente. E poi, come in tutta la storia, ci sono sempre i potenti attaccati solo alla conservazione del loro potere con ogni mezzo, fino allo spargimento di sangue di persone innocenti. E di fronte a tutto questo, la continua ricerca della verità e della giustizia sono “le armi” più potenti di una democrazia.


Cognome VANOLO Nome BRUNO Scuola IIS “EINAUDI”, MAGENTA Classe QUINTA

’69-’80 RIFLESSIONI SUGLI ANNI DELL’ODIO-MAI PIU’ GIOVANI UCCISI PER UN’IDEA

Anni ’70; qualcuno li ha definiti anni di Piombo, anni di porfido, anni di guerra, anni di gioia e dolori, anni di un passato così prossimo e così vivo del quale ancora oggi si fa fatica a parlare; ma sono realmente finiti gli Anni ’70? È questo il quesito che è venuto spontaneo porre a me e ad altri coetanei interessati a questo periodo storico. Quanti sono i protagonisti di quella stagione dell’odio che ha segnato per un decennio la vita del nostro Paese, disposti oggi a parlarne serenamente e a chiudere definitivamente con quel passato che, certo, non è di buon esempio per le nostre nuove generazioni? Per noi quegli anni di violenza sono lontanissimi. Per noi, fino a qualche settimana fa, era impossibile pensare che si potesse essere demonizzati, aggrediti e magari cacciati di scuola, solo per aver espresso idee o voglia di sapere. Pensavamo che, a distanza ormai di 35 anni dalla morte di Sergio Ramelli, fosse possibile, per la generazione dei nostri padri, parlare serenamente o semplicemente raccontare come vissero quegli anni di spranga e di piombo. Ma ci sbagliavamo, e di molto.

Tutto è iniziato qualche mese fa, quando incuriosito dal Concorso bandito dalla Provincia di Milano ho deciso di organizzare una conferenza rivolta ai ragazzi, nel Comune di Magenta, in modo da approfondire maggiormente ed analizzare l’argomento attraverso testimonianze storiche. Lo scopo era esclusivamente quello di promuovere la conoscenza di un’importante decennio della nostra storia, creando un dibattito culturale e sociale “bi parte” in modo da escludere qualsiasi tipo di faziosità, e arrivare così ad un’unica affermazione comune: «Mai più giovani uccisi per un’idea». Avendo deciso di organizzare la conferenza nella maniera più onesta possibile e reputando che il confronto sia l’unico mezzo efficace per una conoscenza approfondita e non di parte dell’argomento, abbiamo voluto invitare due relatori competenti e “militanti”, in quel periodo storico, in movimenti giovanili contrapposti; così facendo avremmo potuto far riflettere i ragazzi sull’odio e sulla violenza politica che ha caratterizzato quegli anni, in modo da evitare che certe cose possano ancora ripetersi. La conferenza era strutturata in modo da avere un moderatore super partes, che ponesse una serie di domande sull’esperienza personale dei due ospiti, le domande avrebbero permesso di capire: cosa spingeva i ragazzi ad avvicinarsi alla politica giovanile, quali erano i motivi di aggregazione all’interno delle “sezioni”, quali erano i rapporti con i ragazzi delle altre fazioni, ma in particolare come hanno reagito di fronte alla morte di un amico e se fossero stati disposti e/o coscienti di poter morire per l’idea. Partiti con l’organizzazione subito sono iniziate le prime difficoltà. Da una parte, quella - diciamo così - di destra: abbiamo cercato la disponibilità di vecchi missini, ma chi per motivi d’età, chi per ritrosia, chi forse ancora per timore di esporsi, è stato quasi impossibile trovare qualcuno che volesse intervenire al dibattito. Infine, abbiamo trovato la disponibilità del giornalista Guido Giraudo (autore del libro inchiesta sul delitto Ramelli) che, anche se poco a Magenta, è stato uno dei protagonisti di quegli anni. A sinistra, invece, avevamo trovato subito la disponibilità di un ex militante di Lotta Continua, ma dopo le iniziali promesse, lui come molti altri, si è tirato indietro. La risposta era sempre la stessa: «no... a Magenta non è successo nulla... ma io non me la sento di espormi e di parlarne». Ancora troppa paura,


troppa viltà. Più parlavamo con le persone di quella stagione di odio e di violenza, più ci rendevamo conto che, nonostante a Magenta non si fossero registrati episodi particolarmente sanguinosi, tragici o che potessero lasciare strascichi nel tempo, nessuno, né da una parte né dall’altra, parlava volentieri. È come se una cappa scura gravi ancora su quella generazione. Chi ha sofferto troppo, chi ha preferito dimenticare, chi ha ancora paura e chi non vuole che si “rinvanghino” vecchie storie, probabilmente ingloriose. Un misto di timore e di vergogna. In quel momento ha incominciato a prendere corpo in noi l’idea che proprio lo sforzo di far parlare onestamente di quegli anni fosse il tema su cui concentrarci, più ancora che sui contenuti delle testimonianze stesse.

Perché ancora oggi tanta paura? Perché quel senso di orrore o di nausea che molti hanno esternato? Perché quella ritrosia ad affrontare l’argomento? Perché questo malcelato respingimento? La sensazione era che non fosse una cosa buona alzare il sipario sugli anni di piombo. Il fatto poi che l’iniziativa di noi studenti partisse su sollecitazione della Provincia di Milano non aiutava per nulla, anzi, incrementava il sospetto di chissà quali “strumentalizzazioni” politiche, ed è stato subito manifestato il fastidio per il fatto che la nostra “curiosità” fosse orientata alla ricerca di “cattivi maestri” e non al tentativo di disegnare quegli anni come “formidabili”. A un certo punto, proprio quando eravamo più propensi a rassegnarci, abbiamo trovato un professore di lettere ex militante dell'area della sinistra, molto disponibile, che ha accettato volentieri il nostro invito. Mano a mano che l’appuntamento si avvicinava, con la diffusione della locandina e dei comunicati stampa la tensione si è fatta palpabile, e ci sono giunti i primi “avvertimenti” minacciosi, fino all’inaspettata telefonata del professore che, con dubbie giustificazioni, rinunciava all’incontro facendoci intendere di aver subito pressioni e ricatti da parte di altre persone di sinistra e, paradossalmente, ha dichiarato al “Corriere Della Sera” di essere stato avvicinato da noi con l’inganno. Cosa è successo? È stato minacciato? Ricattato? Intimorito proprio come ai tempi dei "servizi d'ordine" di 40 anni fa? Quali che siano le considerazioni personali che ognuno vorrà trarre su questo comportamento è evidente che le pressioni subite dal professore devono essere state notevoli. Senza voler polemizzare, ci ha dimostrato che, ancora oggi, in Italia, a Magenta, una città tranquilla, non scossa da gravi episodi di violenza, è difficile trovare il coraggio civico di testimoniare le proprie idee. Una cosa è evidente: prevale ancora una forma di pesantissima censura ammantata di ideologia. Non oso immaginare cosa i colleghi, gli amici, i “compagni”, forse i familiari stessi abbiano detto al professore per costringerlo a fare pubblicamente marcia indietro. Ma è su questo che ci siamo interrogati Il tema della Provincia chiede appunto di “Riflettere sull'odio e la violenza politica che caratterizzarono gli Anni di Piombo” sulle sue cause sulle sue origini, su cosa può aver spinto una generazione al macello. Nell’atteggiamento del professore e di tanti che avevamo incontrato abbiamo incominciato a capire che “gli anni Settanta non sono ancora finiti” che, evidentemente, qualcosa o qualcuno continuava a seminare quel germe di odio e di paura. Ma chi? La risposta ci è venuta, fortissima, inattesa, bruciante e rivelatoria dalla lettera aperta inviata da “Punto Rosso”, un’associazione di sinistra, al Sindaco di Magenta. La forma e la sostanza riportano immediatamente ai linguaggi e agli atteggiamenti degli anni Settanta. Si tratta di un comunicato carico di tutta la retorica, la demagogia, la violenza verbale e le falsità che pare ricalcare a pieno i volantini di Lotta Continua o di Avanguardia Operaia degli anni ‘70; con quella eterna voglia di redigere liste di proscrizione, di mettere all'indice chi non la pensa come loro, di accusare di tutti gli orrori del secolo scorso dei ragazzi che hanno oggi solo 18 anni!

Analizzando con attenzione, assieme ad un giornalista esperto degli anni ’70, il comunicato, abbiamo ritrovato al suo interno la stessa terminologia, tipica degli anni di piombo, un linguaggio che tende a


etichettare il “nemico”, il politicamente diverso, in una categoria automaticamente ghettizzata. C’è, inoltre, un palese inquadramento generale fatto in base a “parole d’ordine” precostituite, che fanno venire a mancare un’onesta e personale valutazione dei fatti, ma è evidente che all’estensore non importa la verità, importa poter costruire, con una strategia dialettica, un’accusa infamante che possa annientare l’oppositore di pensiero. Gli estensori del comunicato ci hanno descritto come: « …persone che non nascondono il loro apprezzamento verso la Germania nazista e la Repubblica sociale italiana, così come non fanno mistero del loro disprezzo verso alcune categorie di persone giudicate indegne di vivere». Secondo il sillogismo implicito in questa affermazione, si arriva all’ardita conclusione che dei ragazzi di Magenta, dell’età di 16, 18 anni, sono da ritenere co-responsabili di guerre, persecuzioni, violenze, stermini, stragi e di ogni genere di atrocità commesse nel Novecento. Vale la pena di ricordare che proprio con questo stesso meccanismo logico e dialettico si è arrivati ad accusare di “fascismo” e poi a colpire a morte Sergio Ramelli, diciassettenne, “reo” solo di aver scritto un compito in classe contro le Brigate Rosse. Arrivato a questo punto non ho potuto che esclamare: “fantastico”! Anche se è triste ammetterlo, non poteva esserci prova migliore che gli "Anni Settanta non sono finiti" e che il germe dell'odio ancora cova nei cuori di vecchi "residuati bellici" che non hanno fatto i conti con la storia, ma neppure con la realtà. Ciò che è avvenuto è, quindi, solo la prima parte di un esperimento perfettamente riuscito. Volevamo dimostrare ai giovani e giovanissimi studenti magentini che l'odio, la faziosità la falsità che hanno portato orrori, omicidi, stragi e viltà negli anni Settanta in Italia, sono ancora vivi, anche a Magenta. "Riflettere sull'odio e la violenza politica che caratterizzarono gli Anni di Piombo perché non riaccadano più”: e' questo secondo me l'intento della borsa di studio istituita dalla Provincia di Milano per ricordare Luigi Calabresi commissario della Polizia di Stato ucciso 38 anni fa, Sergio Ramelli, il giovane missino ucciso tre anni dopo, Claudio Varalli militante di Movimento Lavoratori per il Socialismo morto lo stesso anno, e tutte le vittime di quella stagione racchiusa tra la Strage di Piazza Fontana e la Strage di Bologna. Questo era il tema assegnato a noi giovani studenti perché lo sviluppassimo e ne facessero tesi di dibattito e questo noi abbiamo incominciato a fare ottenendo un risultato ancora superiore alle nostre aspettative. Facciamo, però, un passo indietro, che anni erano gli anni ’70? Anni si di fede e dedizione per l’ideale, ma soprattutto anni di odio, di violenza, di contestazione, sia a destra che a sinistra, anni di “guerra civile”; Erano gli anni in slogan come: “Uccidere un fascista non è reato” o “Se vedi un punto nero spara a vista:o è un carabiniere o è un fascista”. Erano gli anni non certo “formidabili”, nei quali una “meglio gioventù” ghettizzava altra gioventù. Erano anni di innumerevoli morti. Vittime spesso dimenticate, morti di una rivoluzione soffocata con la violenza e il sangue, delle quali oggi nessuno più se la sente di parlare. Perché, invece, è giusto oggi parlare e ricordare quei morti? Perché i giovani devono conoscere un passato così recente dell’Italia, durante il quale migliaia di giovani bollati come fascisti, o di poliziotti visti come oppositori alla rivoluzione furono vittime dell’odio tramandato da una generazione all’altra e da cattivi maestri che quest’odio fomentavano e insegnavano. Affinché tale odio, oggi, non debba più tornare occorre consegnare per sempre la guerra civile italiana alla storia. Quante furono davvero le vittime degli anni ’70? È una domanda che mi sono posto visto che nessuno lo insegna o ce lo vuole raccontare. Non ne voglio fare un discorso di schieramenti o di freddi numeri, perché penso che ogni morto meriti il rispetto dovuto. Non voglio una statistica… ma almeno vorrei capire di cosa stiamo parlando. Mi è venuto un articolo del “Corriere della Sera” del 28 gennaio 1988 (citato nel libro “Sergio Ramelli, una storia che fa ancora paura” – Sperling & Kupfer 2007) che riporta dati del Ministero dell’Interno e che, personalmente, ho trovato tanto agghiaccianti quanto sbalorditivi: «(…)Nei quindici anni che vanno dal 1969 al 1984 gli attentati (di qualsiasi natura ed entità) sono stati 14.495 di cui 343 con morti e feriti. Pauroso il conto delle vittime accertate in quei 15 anni: 394 morti e 1.033 feriti. (…) Dal 1969 al 1984, i variegati gruppi d’ispirazione comunista hanno massacrato niente meno che 149 persone. I morti causati dall’estremismo di destra sono invece 29 (…)».


Tra tutti questi morti contiamo certo molti attivisti, estremisti, militanti, ma ciò che sconvolge di più sono le vittime innocenti di quell’odio e di quella violenza, la cui unica colpa fu quella di pensarla in modo diverso dai propri assassini; si poteva morire semplicemente perché si passava davanti a una sezione del MSI o perché si indossavano i camperos, piuttosto che l’eskimo, nel posto sbagliato al momento sbagliato. Continuo a chiedermi, cosa abbiano fatto di male questi uomini, questi cittadini, questi servitori dello Stato, questi ragazzi con una vita normale; nessuno di loro probabilmente aspirava a diventare un eroe, ad essere mitizzato dalle generazioni successive; magari da grandi sarebbero diventati dirigenti di partito, magari no, ma a quel tempo di certo non lo erano, volevano semplicemente vivere, vivere davvero.

“Sole d'Occidente che accogli il nostro amico,ritorna a illuminare il nostro mondo antico. Dai colli dell'Eterna ritornino i cavalli, che portano gli eroi di questo mondo stanchi”. Un gruppo musicale di quegli anni dedicava queste parole a Mikis Mantrakas, un giovane militante di destra che si era iscritto da soli due mesi al Fronte Universitario quando fu trafitto in piena fronte da un colpo di calibro 38 sparato da Alvaro Lojacono, militante di Potere Operaio. Sergio Ramelli… un’altra storia che ha dell’incredibile, un ragazzo che fu aggredito sotto casa a colpi di chiavi inglesi sulla nuca solo per aver scritto un tema sulle Brigate Rosse. La sua agonia durò 47 giorni fino alla morte, sopraggiunta il 29 aprile. Mentre Sergio giaceva in coma all’Ospedale Policlinico di Milano, la violenza degli anni di spranga arriva al suo punto culminante. Il 16 aprile, un gruppo del servizio d’ordine del Movimento Studentesco aggredisce con le chiavi inglesi tre “fascisti” sorpresi in un bar di piazza Cavour. Uno di essi si rifugia in macchina, estrae una pistola, spara in aria e uccide un giovane che era sul tetto della sua vettura. Da quel giorno, in tutta Italia si scatena un’autentica guerra civile, che causa altri 3 morti e centinaia di feriti. È il punto più “caldo” della violenza politica, una vera e propria prova generale di insurrezione. È una pagina poco conosciuta dei 150 anni della storia d’Italia, soprattutto dalla mia generazione, e io stesso non pensavo che, si fosse mai arrivati a tanto. Mentre scrivo di questi ragazzi, li sento così vicini e così lontani, quando la vita fu loro troncata avevano la mia età ed ora sono “martiri dell’idea”. Rivedo le loro foto, in bianco e nero un po’ sbiadite, ragazzi come Mantrakas e Ramelli con quei loro capelli lunghi, così simili a quelli “dell’altra parte”, con le stesse passioni per la musica, lo sport, il cinema, separati solo da un pensiero, da una piazza, da una spranga. Oggi siamo nel terzo millennio e anche se non si ripresentano più con così assidua frequenza episodi di violenza, come abbiamo visto prima il rancore e risentimenti sono sempre pronti a ripresentarsi, per questo nonostante le controversie incontrate nell’organizzazione della conferenza, ho deciso di guardare avanti, riorganizzandola e portando "il Caso Magenta" come tema per la borsa di studio, certo che esso sarà apprezzato e compreso, ma soprattutto per dire basta. Basta anni ’70 perché la politica deve essere fede, credo, deve essere amore per la propria terra, per la propria gente, per i propri ideali, e non finalizzata all’odio e all’annientamento del “nemico”.

Voglio concludere con una frase molto significativa pronunciata dalla sorella di Stefano Cecchetti, una ragazzo ucciso nel 1979 quasi per caso, fuori da un locale di Roma, che recita così: «C'è stato un tempo folle, in cui anche un ragazzo che non c'entrava nulla, che non faceva politica, che non aveva altra colpa se non quella di trovarsi per strada, davanti a un bar, poteva morire ucciso come un cane. Ed è così lontano questo tempo che se lo racconto ad un ragazzo d'oggi nemmeno mi crede». Per questo è giusto parlare degli anni ’70, per questo è giusto ricordare i morti che questa guerra ha provocato, non bisogna trincerarsi dietro all’omertà di silenzi che sanno ancora di paura, di coscienze sporche. Perché tutto quel sangue non rimanga una pagina strappata della storia del nostro Paese; perché i protagonisti di questo decennio di orrori oggi devono fare conti con la storia; perché la mia generazione deve gettare per sempre questo “bagaglio” di odio trasmesso dai padri, perché finche non lo farà gli anni ’70 non finiranno mai.


Cognome VIGNATI Nome DILETTA Scuola LICEO PARITARIO “MELZI”, LEGNANO Classe QUINTA MAI PIU’ GIOVANI UCCISI PER UN’IDEA:UNA RIFLESSIONE SUGLI ‘ANNI DI PIOMBO’ “Quasi tutta la Storia non è che una lunga sequenza di inutili atrocità”, scriveva il filosofo e scrittore francese François-Marie Arouet, detto Voltaire, nell’opera ‘Saggio Sui Costumi e lo Spirito delle Nazioni’ pubblicata nel 1756. È possibile contraddire questa sua affermazione senza cadere nell’errore di negare la realtà storica di secoli e millenni di guerre tra popoli diversi o civili? A chi desiderasse ripercorrere rapidamente con la mente la storia dell’uomo fin dalle sue antiche origini, essa apparirebbe indubbiamente illuminata dall’inesorabile processo di sviluppo della scienza e del pensiero, della religione e dell’etica, ma apparirebbe anche dilaniata da ogni genere di violenze ed intolleranze con una frequenza troppo rapida per essere giustificabile. E dovrebbe forse arrendersi di fronte alla violenza dell’ultimo secolo affacciatosi alle porte della Storia, il XX secolo, nel quale la violenza sembra aver superato i limiti dell’umano con lo scoppio delle due guerre mondiali, i Lager nazisti e i Gulag sovietici, le Foibe, gli attentati terroristici in Italia, negli Stati Uniti d’America, in Irlanda, in Spagna, in Germania ecc. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, gli altri come sono?” si chiedeva ancora Voltaire nell’opera ‘Candido o l’Ottimismo’ scritta nel 1759. Le ragioni che hanno portato al sorgere di questa domanda, quindi, sono forse da ricercare nella volontà del filosofo di confutare la propensione all’ottimismo in seguito al drammatico terremoto che nel 1755 distrusse la città di Lisbona. Il suo significato profondo, invece, sembra essere quello di invitare a riflettere sul fatto che il mondo, ovvero la realtà, con le sue ferite, le sue contraddizioni e le sue illusioni, è ciò con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno con coraggio. La fantasia, utile per evadere temporaneamente dai rigidi schemi delle convenzioni sociali, non può sostituirsi alla realtà. La storia recente vissuta dal popolo italiano è stata segnata dal dramma dei cosiddetti ‘anni di piombo’, tra il 1969 ed il 1980 e oltre. Questo nostro mondo, questa nostra storia tanto drammaticamente ricca di violenze e di incomprensioni, non può essere tenuta nascosta dal velo dell’oblio. Altrimenti saremo di nuovo travolti dal giorno in cui esso tornerà ad essere presente, come l’acqua che travolge una valle all’infrangersi di una diga. Sono trascorsi soltanto 31 anni dall’attentato alla Stazione di Bologna, eppure, per tutti coloro che sono nati nei decenni successivi, il decennio degli anni ’70 appartiene ormai alla Storia. È un dato di fatto, non una volontà di oblio da parte di chi ha vissuto quegli anni né da parte di chi ne ha ricevuto soltanto la memoria. Forse, però, a chi è dato di guardare a quel periodo con un certo distacco temporale, senza sentirsi coinvolto ideologicamente nelle vicende, può risultare più facile dare un giudizio di condanna alla violenza di attentati contro innocenti come quello di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 o di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974. E, mantenendo l’atteggiamento di distacco che nulla ha in comune con l’indifferenza ma, al contrario, trasforma la memoria in maestra di vita per il tempo presente, può risultare più facile estendere la condanna a tutti gli atteggiamenti che ostacolano il dialogo fino ad impedirlo. Per esistere, il dialogo necessita di persone che abbiano costruito dentro di sé una diversa visione del mondo, oppure una diversa opinione politica, ma che desiderino che le loro idee si incontrino, per confutarsi o approfondirsi reciprocamente. Il dialogo muore, quindi, se ad una voce, libera e pacifica, viene opposta una bomba, il cui rumore ha come unico risultato il dolore e la paura anziché lo sviluppo della democrazia. Se il dialogo muore, la democrazia si estingue, soffocata dall’intolleranza. Ed è questo ad uccidere l’Uomo nella sua dignità di essere pensante e nella sua libertà di essere comunicatore. È questa la


morte peggiore provocata dalla violenza. A distanza di tre decenni, quindi, è possibile ricordare le azioni commesse dai terroristi di qualsiasi estrazione politica (perché la violenza è soltanto violenza, e in quanto tale elimina ogni possibile differenza originaria) e comprenderne i disagi oggettivi cui si sono sentiti in dovere di rispondere: la presunta insufficienza di risposte da parte del sistema politico per quanto riguarda il disagio denunciato dal terrorismo nero oppure le ingiustizie sociali dovute ad una distribuzione non equa delle risorse economiche, ingiustizie presenti fin dalle origini della Storia dell’uomo ma esplose nella seconda metà del secolo scorso forse a causa della maggior consapevolezza raggiunta nei Paesi occidentali grazie all’innalzamento del livello medio d’istruzione. Attraverso questo sforzo di comprensione, forse, sarà anche possibile imparare la dura lezione impartita dalle stragi degli anni ’70: la violenza non può raggiungere i risultati che si è prefissata, il dialogo sì. Conoscere significa acquisire consapevolezza. Conoscere il decennio degli anni ’70, quindi, significa prendere coscienza del fatto che la mancanza o l’insufficienza di chiarezza e di dialogo all’interno di una società può avere la conseguenza d’indurre qualche persona di natura estremista a sentirsi abbandonata e in urgenza d’agire tanto da abbracciare la concezione di violenza come unica soluzione ai problemi del Paese. La consapevolezza permette una reazione: è possibile rifiutare tale concezione sbagliata dell’impegno civile, così come è possibile contraddire la concezione della storia come lunga sequenza di inutili atrocità espressa da Voltaire, sostenendo con convinzione che una terza alternativa tra imposizione violenta della propria opinione e rassegnazione esiste, ed è l’atteggiamento di fiducia. Fiducia nel proprio Paese, che va considerato non come un’entità astratta ma come un insieme di uomini, donne, bambini, anziani e cittadini stranieri che condividono un territorio , una storia, una lingua ed un patrimonio culturale e che dedicano quotidianamente la loro vita all’impegno per contribuire allo sviluppo nazionale, svolgendo, ad esempio, un lavoro onesto. Fiducia nel sistema politico del Paese che, pur compiendo scelte intorno alle quali è giusto discutere, dal momento che “le divergenze e le espressioni delle divergenze costituiscono la base di ogni democrazia” (Hannah Arendt, ‘Le Origini del Totalitarismo’, 1951), rappresenta la forma più diretta di collegamento tra cittadini e politica attraverso le periodiche elezioni e l’informazione fornita dai mass media. Fiducia, infine, nel processo di sviluppo culturale ed economico mondiale, mantenendo un atteggiamento di ottimismo che si differenzia profondamente dall’incoscienza di chi ragiona seguendo comode illusioni ma, al contrario, è dettato da un affetto irriducibile per il Paese che rende impossibile ogni disperazione. Appare, quindi, particolarmente significativo ricordare le stragi degli anni di piombo nel corso dell’anno durante il quale ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana. Sembra di ricevere un monito: soltanto difendendo l’unità del Paese è possibile trovare un’identità nazionale nella quale riconoscersi e confrontarsi pacificamente. “Voglio vivere in una città/ dove all’ora dell’aperitivo/ non ci siano spargimenti di sangue/ o di detersivo” cantava Fabrizio De Andrè nella canzone ‘La Domenica delle Salme’, inserita nell’album Le Nuvole pubblicato nel 1990. Appare universale, comune all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, questo desiderio di vivere in una società che non sia dominata dalla violenza. Una società nella quale chi si rende colpevole di un qualche tipo di reato viene arrestato ed alle vittime viene restituita quanto meno la verità riguardo la dinamica dei fatti dai quali sono state colpite, senza ipocriti tentativi di cancellare la memoria dell’offesa ricevuta ‘lavandola’dalla cronaca così come si lava un vestito sporco. Ciò appare come un’esigenza quanto mai attuale, considerando che ancora oggi, nonostante i numerosi sforzi da parte della magistratura italiana, non si conoscano con certezza i nomi dei terroristi responsabili di stragi come, ad esempio, quella avvenuta sul treno detto ‘Treno del Sole’ il 22 luglio 1970 presso la stazione di Gioia Tauro a Reggio Calabria. Prioritario rispetto alla necessità di svelare tali incognite, però, è eliminare ogni dubbio di coscienza riguardo gli effetti nefasti dell’intolleranza. Ancora oggi, infatti, con effetti sicuramente minori sulla pubblica sicurezza ma non per questo più tollerabili, la cronaca è abbruttita dal racconto di episodi di violenza tra giovani, nati da divergenze politiche che ancora non si è imparato a gestire attraverso il


dialogo. Ne è un esempio lo scontro avvenuto il 23 settembre 2010 all’ingresso del liceo ‘Manzoni’ a Milano in seguito al volantinaggio di gruppi di destra, esploso in un pestaggio a cui, prima dell’intervento della polizia, è seguito il lancio di un casco e di alcuni sassi, che hanno provocato un trauma cranico ad un ragazzo di 25 anni, membro del partito Forza Nuova. Prioritario, perché la storia del terrorismo che ha oscurato gli anni ’70 non si ripeta mai più, è favorire lo sviluppo di una coscienza nazionale fondata sulla condanna dell’intolleranza, senza eccezioni. Lo sviluppo in tale direzione della coscienza nazionale non è un’utopia: l’uomo è per sua natura portato a cercare l’incontro ed il dialogo con i suoi simili. Il filosofo greco Aristotele, nel III secolo a.C. definì l’Uomo come un ‘animale sociale’, consegnando all’umanità la consapevolezza del fatto che la pace non è una velleità ma una necessità dell’esistenza. Appaiono come un incoraggiamento ed un monito eterni,a seguito di queste considerazioni, i versi conclusivi della canzone del cantautore De Andrè precedentemente citata: “Mentre il cuore d’Italia,/ da Palermo ad Aosta,/ si gonfiava in un coro/ di vibrante protesta”. Si potrebbe,infatti,rileggere questi versi interpretandone l’auspicio di dare vita ad una protesta armata di profonda indignazione, che esplode attraverso l’irrefrenabile determinazione, comune ad ogni cittadino, a considerare la libertà di pensiero e di parola di ciascuno come l’unica reale vittoria per la quale sia opportuno impegnarsi. La storia insegna, inoltre, che l’intolleranza nasce con maggior facilità nell’intimo di persone che, a causa di uno scarso patrimonio culturale personale o di un contesto familiare poco aperto verso le proposte offerte dalla società per ampliare i propri orizzonti (ad esempio la lettura di libri e giornali o l’ascolto di trasmissioni di approfondimento alla televisione), siano poco stimolate ad ascoltare e comprendere modalità diverse dalla propria di concepire la realtà ed a ricercare il ‘Bene comune’ come una meta raggiungibile percorrendo strade diverse. Persone poco stimolate, quindi, a comprendere come il pensiero, politico ma non solo, fondi la propria dignità nella compresenza di varie alternative, tra le quali ogni uomo è chiamato a scegliere secondo la sensibilità individuale. A causa degli stessi limiti che possono favorire la nascita dell’intolleranza, inoltre, può avvenire un’ulteriore degenerazione di tale atteggiamento di chiusura, che sfocia nella paura del diverso e, quindi, nella propensione ad annientare coloro che esprimono valori ed opinioni avvertiti come estranei. Ogni persona corre il rischio di cadere in questa trappola, dal momento che, come sosteneva il filosofo ateniese Socrate nel IV secolo a.C., per quanto sia vasto il patrimonio culturale che si possiede, esso non sarà mai completo. Ogni persona, infatti, è chiamata a sconfiggere nel proprio intimo il demone del pregiudizio a vantaggio di ciò che sente come diverso da sé. In che modo è possibile sconfiggerlo? Sforzandosi di applicare quotidianamente l’insegnamento impartito dal cantautore giamaicano Bob Marley attraverso i versi della canzone Redemption Song, inserita nell’album Uprising pubblicato nel 1980: “Emancipate yourselves from mental slavery/ none but ourselves can free our minds”, ovvero: “Liberatevi dalla schiavitù mentale/ solo noi stessi possiamo liberare le nostre menti”. All’ipotesi secondo la quale la tendenza alla violenza sia favorita da un’insufficienza culturale, però, potrebbe essere obiettato che i terroristi fondatori dei primi nuclei delle Brigate Rosse alla fine degli anni ’60 sono state persone dotate di un’istruzione superiore. Mario Moretti, ad esempio, ha frequentato l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Giangiacomo Feltrinelli, membro di una ricca famiglia dell’alta borghesia veneta, nel 1954 fu fondatore dell’omonima casa editrice, Renato Curcio e la sua futura moglie Mara o Margherita Cagol, hanno frequentato il corso di sociologia presso l’università degli Studi di Trento. Curcio, in particolare, pur avendo brillantemente superato tutti gli esami, scelse di non laurearsi ma nel 1967 formò un gruppo di studio denominato Università Negativa, nel quale veniva svolto un approfondimento riguardo testi di autori ignorati dai corsi universitari, tra i quali Mao Zedong (presidente della Cina per il Partito Comunista Cinese tra il 1943 ed il 1976), Herbert Marcuse (filosofo tedesco vissuto tra il 1898 ed il 1979), Ernesto Che Guevara (guerrigliero argentino, protagonista insieme a Fidel Castro della rivoluzione cubana tra il 1953 ed il 1959), Raniero Panzieri (politico comunista italiano vissuto tra il 1921 ed il 1964), Freud (fondatore della psicanalisi, vissuto tra il 1856 ed il 1939) e Albert Camus (filosofo esistenzialista, romanziere e drammaturgo francese vissuto tra il 1913 ed il 1960), approfondendo con passione anche lo studio del periodo della resistenza partigiana antifascista. È possibile ipotizzare che sia stata proprio la coscienza della condizione umana e dei suoi disagi, acquisita


negli anni di studio, a sviluppare la volontà rivoluzionaria di questi uomini? “Chi volesse scrivere la storia del terrorismo italiano in termini di ragionevolezza e di buon senso può rinunciare in partenza”, scrisse Giorgio Bocca, scrittore e giornalista, ex resistente per la formazione ‘Giustizia e Libertà’ (la stessa in cui operò Enzo Biagi), tra le pagine del primo capitolo di Cattocomunismo del libro Il Terrorismo Italiano. 1970 – 1978, pubblicato nel 1978. Le parole di Bocca sembrano costituire una risposta efficace alla questione precedentemente posta, sostenendo che non sia possibile spiegare seguendo i tradizionali schemi di ‘causa-effetto’ le ragioni che hanno portato i terroristi degli anni di piombo a compiere le azioni di cui si sono macchiati. Appare opportuno, quindi, limitarsi ad affermare che la consapevolezza dei problemi sociali è un obiettivo che ogni cittadino ha il dovere di ricercare, ma essa smette di essere un onesto e nobile impegno civile nel momento in cui ammette come soluzione l’uso della violenza. L’affermazione “Non esistono idee sbagliate, ma soltanto modi sbagliati di esprimere le idee”, scritta dal cardinal Carlo Maria Martini nel capitolo ‘Che Cosa Chiedono I Giovani di Oggi?’ all’interno del libro ‘Liberi di Credere. I Giovani Verso una Fede Consapevole’, pubblicato nel 2009, appare come un’efficace conclusione di tale riflessione. Il cardinale, infatti, evidenzia l’esigenza, urgente tanto nel corso degli Anni di Piombo quanto nel 2011, di creare nella nostra società un’educazione rivolta al valore e alla difesa della libertà di pensiero e di parola, ricordando sempre che essa può essere soffocata, fino ad essere uccisa, dalla violenza. BIBLIOGRAFIA

Hannah Arendt, The origino of totalitarism, 1951 François-Marie Arouet ‘Voltaire’, Essai sur les moeurs et l’esprit des Nations, 1756 François-Marie Arouet ‘Voltaire’, Candide ou l’optimisme, 1759 Giorgio Bocca, Il terrorismo italiano 1970 – 1978, Rizzoli Editore, Milano, 1978 Carlo Maria Martini, Liberi di credere. I giovani verso una Fede consapevole, ediz. In dialogo Cooperativa culturale S.r.l., Milano, 2009 Fabrizio De Andrè, La domenica delle salme, album Le nuvole, 1990 Bob Marley, Redemption song, album Uprising, 1980

Benedetta Argentieri, Scontri fra giovani davanti al Manzoni, Corriere della Sera, Milano, 25 settembre 2010


Cognome VISCARDI Nome BIANCA Scuola LS “ALLENDE”, MILANO Classe QUINTA Al di là del pensiero FALLIMENTO DELLE IDEE.

È la mattina del 17 Maggio 1972. Nell’Aula Magna del liceo Visconti di Roma, 400 studenti riuniti in assemblea esplodono in un applauso entusiasta, colti da un impeto di gioia. Hanno appena ricevuto la notizia della morte del commissario Calabresi, assassinato da un commando di ignoti. L’assassinio di Calabresi rappresentava il terribile apice di una campagna diffamatoria nei confronti del commissario, portata avanti dalla maggioranza della sinistra. Nella lettura dell’opinione pubblica che seguì l’evento, l’attentato doveva vendicare l’arresto e la morte dell’attivista anarchico Pinelli, innocente ritenuto responsabile della strage di Piazza Fontana e trattenuto per l’interrogatorio nel commissariato di Calabresi, dove trovò la morte in circostanze misteriose. Non è certo corretto generalizzare e considerare la reazione gioiosa degli studenti del liceo Visconti come lo specchio delle reazioni di tutte le forze di sinistra: una buona parte di esse, che pure inizialmente si era unita al coro di accuse contro Calabresi, di fronte all’assassinio prese le distanze, indignandosi per la violenza consumata e iniziando a rivalutare i toni esagerati assunti dal conflitto. Tuttavia, leggere la testimonianza di Ferdinando Adornato¹, che era tra quegli studenti e, racconta oggi con orgoglio, non se la sentì di unirsi agli applausi, costringe ad una riflessione. Come è successo che un gruppo di ragazzi liceali sia arrivato ad applaudire un assassinio, considerandolo un atto di giustizia? La situazione sociale e politica nel periodo denominato degli “Anni di piombo” era tale da far apparire, agli occhi di molti, normale e giustificato, se non ammirevole, un atto di violenza che aveva come obiettivo l’eliminazione di un singolo individuo. Episodi come quell’applauso, manifestazioni di solidarietà e addirittura stima nei confronti degli assassini di un servitore dello stato quale era Calabresi, nonché le posizioni espresse da alcuni articoli redatti nei giorni successivi che sciaguratamente giustificavano e appoggiavano l’assassinio, forniscono un chiaro quadro di una situazione che ormai prescindeva da razionalità e umanità. L’atto di violenza era diventato strumento di lotta, adottato dai diversi colori politici che non si scontravano più sul piano delle idee ma cercavano la propria affermazione con la sottomissione dell’altro. La nuova generazione degli anni settanta viveva un periodo di diffuso benessere che ne fece una generazione spesso autoreferenziale, abituata a sopravvalutarsi e a considerare imprescindibili le proprie pretese. La fiducia nelle proprie capacità aveva portato i giovani italiani ad importantissime conquiste nel campo dei diritti, segnando per l’Italia un periodo di progresso che finalmente la risollevavano da una situazione di grave arretratezza. Quella sicurezza, tuttavia, generò in alcuni casi narcisismo, incapacità di riconoscere i propri limiti, nonché odio verso tutte le posizioni differenti dalla propria. Si viveva una certa intolleranza all’autorità, qualunque forma essa assumesse. Ciò determinava forte indisposizione ad ascoltare opinioni, sentenze o consigli pronunciati in nome dell’esperienza o dispensati da una posizione di superiorità. Questo sentimento sfociò nella tendenza ad esaltare l’azione rispetto alla parola. La convinzione che la realtà dovesse essere “agita” fu il primo passo verso la degenerazione violenta, laddove l’azione assunse un’importanza primaria, prescindendo dalla riflessione e dall’approfondimento preliminare.

Le mobilitazioni del ’68 rappresentarono un processo virtuoso di rinnovamento che degenerò tragicamente nel periodo tra il ’69 e l’’80. Questa degenerazione ebbe le sue radici nell’allontanarsi del dibattito dalla realtà storica, sociale e politica e l’arroccarsi dei contendenti su posizioni sempre più astratte ed estreme. Il fallimento della lotta democratica fu determinato dall’indebolirsi del legame fra le rivendicazioni e la realtà.


Gli slogan cominciarono a svuotarsi dei contenuti originari, perché le contestazioni perdevano di vista gli obiettivi concreti da conseguire, concentrandosi solo sulla sopraffazione delle posizioni opposte. Dalla lotta di classe, che portava avanti battaglie sociali per l’abolizione dei privilegi e la garanzia di diritti, si arrivò allo scontro sterile tra fazioni nemiche e minoritarie, non più disposte a confrontarsi sul piano dei contenuti. Sorsero gruppi che si rifacevano alle idee di grandi pensatori della storia moderna e contemporanea, ma che mancavano di approfondimento e di riferimenti alla realtà nella quale si collocavano. In molti casi, i movimenti politici altro non erano che centri di aggregazione che volgevano l’insoddisfazione e le ambizioni di una generazione contro un nemico identificato come il movimento di colore diverso. Questi movimenti proponevano come obiettivo l’eliminazione dell’avversario politico, risultato che pretendeva di coincidere con la soluzione dei problemi. Raccoglievano consensi soprattutto tra i più giovani ed entusiasti ed in generale tra coloro che non si proponevano una riflessione approfondita su quali fossero le soluzioni migliori per affrontare la questione del rispetto reale dei diritti, le disuguaglianze esistenti nella società e l’inadeguatezza della classe politica di fronte alle esigenze dei cittadini. Il desiderio di rinnovamento e l’ambizione di migliorare la società non furono elaborati per dare origine a nuove proposte politiche, nuovi progetti di coesione sociale o di innovazione culturale. Le tensioni positive si tramutarono in malcontento, sfiducia verso le istituzioni, portando moltissime persone ad abbracciare ideali generici che sembravano rispondere ad esigenze comuni ma in conclusione si dimostravano slegati dalla realtà che pretendevano di migliorare. Spesso, gli ideali erano pretestuosi e l’unico fondamento attorno al quale si riunivano i gruppi era l’odio verso un altro gruppo. Si era nemici a prescindere dal confronto sul piano delle idee. La radice dell’inimicizia pretendeva di risiedere nell’incompatibilità dei modelli di società che proponevano di realizzare; in realtà, nella maggior parte dei casi le organizzazioni avevano da tempo smesso di perseguire quell’obiettivo, perché troppo occupati a far valere la propria identità a discapito di altri. L’allontanamento dalla realtà è riconoscibile anche nello spostamento della lotta dalle sedi istituzionali e nell’adozione di metodi antidemocratici. Il campo di azione delle contestazioni divenne estraneo alle istituzioni, agli organi di governo e alla politica, la lotta abbandonò i metodi democratici per tramutarsi in terrorismo. Le nuove organizzazioni extraparlamentari non ambivano ad un’azione all’interno della politica locale o nazionale, non avanzavano richieste agli organi di governo, come era stato per le contestazioni fino ad allora ma si ponevano in netto contrasto con qualsiasi tipo di istituzione, considerata un ostacolo alla realizzazione del progetto rivoluzionario. L’ambizione di cambiare le cose si tramutò così in aggressività verso l’ipotetico nemico. Questo processo è riconoscibile in molti altri esempi forniti dalla storia e sicuramente occorre interrogarsi su alcune manifestazioni che si possono riscontrare ai giorni nostri.

VIOLENZA. La comparsa di fenomeni violenti ascrivibili agli Anni di Piombo si può far risalire alle manifestazioni di piazza del 1969, quando queste degeneravano in guerriglia urbana. La prima vittima degli Anni di Piombo è considerato l’agente di polizia Antonio Annarumma, rimasto ucciso a Milano durante una manifestazione dell’Unione Comunisti Italiani, nel novembre del 1969. Una delle date più significative per questo periodo storico, che segna l’inizio vero e proprio del terrorismo, è il 12 dicembre, giorno durante il quale in Italia avvennero ben cinque attentati, tra i quali l’esplosione della bomba in piazza Fontana a Milano che causò sedici morti. Le stragi, a partire da quel dicembre, si susseguirono con cadenza quasi annuale. Di fianco agli attentati clamorosi e alle stragi di civili, fu portata a compimento una serie continua di atti violenti nei confronti di obiettivi minimi: militanti di partiti e movimenti politici, studenti, manifestanti, sindacalisti, oltre ad agenti delle forze dell’ordine, giornalisti, magistrati e testimoni nei processi contro i responsabili degli attentati. Le violenze consumate nel corso di quegli anni apparivano in molti casi inspiegabili agli occhi dell’opinione pubblica. Esse devono essere considerate alla luce di due meccanismi che animarono l’estremismo negli anni di piombo e ne costituirono il fondamento.


Il primo era il terrorismo, inteso come strategia del terrore. Suscitare paura divenne l’obiettivo principale dei gruppi violenti, perché l’instaurazione di un clima di terrore nel paese era considerata la strada verso la presa del potere. Gli attentati contro gli avversari, le stragi di civili, minacce ed esecuzioni contro chiunque rappresentasse un pericolo o criticasse le organizzazioni, erano tutte azioni condotte con l’obiettivo di creare insicurezza generale, paura, sfiducia e diffidenza tra i cittadini, imporre la propria forza, scoraggiare le forme di pensiero alternative, indebolire le istituzioni democratiche. Il secondo meccanismo in atto nelle organizzazioni violente era la pretesa di fornire un esempio che sarebbe stato colto dalle masse. La convinzione di un futuro appoggio e coinvolgimento della popolazione era caratteristica delle frange estremiste di sinistra, che consideravano se stessi un’avanguardia della futura rivoluzione, che sarebbe stata avviata da tutto il popolo quando esso si fosse risvegliato e fosse divenuto consapevole dell’ingiustizia della propria condizione. Gli atti violenti, così, ottenevano la valenza di esempi, dimostrazioni di forza per risvegliare le coscienze del popolo oppresso, che avrebbe dovuto ribellarsi e unirsi all’avanguardia. Questa convinzione era di una certa ingenuità, considerato che le minoranze estreme furono da subito isolate da tutti i gruppi parlamentari, criticate anche dai movimenti radicali e, soprattutto, non trovarono appoggio nella maggioranza del popolo, che rifiutava l’idea di una rivoluzione da realizzare con la violenza. Tale giudizio è espresso dallo storico Giovanni De Luna, il quale parla dell’ambizione delle organizzazioni come dell’illusione che lo scontro risolutivo con il potere fosse imminente, e aggiunge che quell’illusione era dovuta ad un’interpretazione ingenua di quanto stava avvenendo “nelle pieghe profonde della società Italiana.”

n una lettura particolarmente interessante degli Anni di piombo, lo storico e giornalista Ernesto Galli della Loggia fa risalire l’origine delle violenze consumate in quegli anni a radici sprofondate nella storia precedente del nostro paese. Nell’editoriale per il Corriere della Sera del 21 luglio 2003, egli riconosce nella violenza un elemento di continuità di una “antica tradizione politica nostra di pensiero e di prassi”, della quale gli anni di piombo non sono che l’epilogo e costituiscono “l’ultima, sanguinosa pagina del radicalismo italiano.” Scrive Galli della Loggia, a proposito della tradizione della politica italiana, che essa è da sempre portata “al gesto esemplare e al colpo di mano, al ruolo esorbitante degli intellettuali, al concepimento di grandi quanto azzardati disegni, e all' idea che questi possano alla fin fine giustificare anche la violenza”. In un altro articolo per il Corriere della Sera del 27 aprile 2007, egli riafferma la “presenza storica nella società italiana di un fondo di violenza duro, tenace, che da sempre oppone un ostacolo insormontabile alla diffusione della cultura della legalità”; spiega con queste parole la situazione dalla quale è possibile comprendere i risvolti violenti che ha assunto la lotta politica italiana negli anni di piombo: “La sfera politica italiana è stata segnata profondamente dalla violenza. Sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile, come per l'appunto fu il Risorgimento, l'idea che a certe condizioni la violenza sia ammissibile (addirittura necessaria) ha caratterizzato in modo netto tutte le moderne culture politiche che hanno visto la luce nella penisola, che affondano le radici nella realtà più autentica della nostra storia”. Questo modo di concepire la politica, che l’Italia conosce sin dai tempi del Principe di Machiavelli, secondo Galli della Loggia ha conosciuto il suo fallimento e il suo tramonto negli anni del terrorismo, tanto che afferma che “nei cosiddetti anni di piombo - complice anche una fase acutissima della Guerra fredda - andò in scena precisamente l' ultimo atto di questa lunga vicenda nazionale”.

UNA GUERRA CIVILE? Spesso, gli anni di piombo sono anche stati definiti una guerra civile. Il presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, nel suo libro “Segreto di Stato” usa l’espressione “guerra civile a bassa intensità” per descrivere il terrorismo durante gli Anni di piombo in Italia. Il termine “guerra civile” fu usato per identificare quel periodo storico anche in senso più ampio, come nel caso di Galli della Loggia che si riferisce all’intero dopoguerra italiano chiamandolo “guerra civile strisciante”. Tale definizione ha incontrato diverse critiche, tra le quali quella contenuta nel libro “L’errore storico di Mitterrand”, curato da Marc Lazar, storico e sociologo all’università di Parigi. In un’intervista alla giornalista Anais Ginori (24


aprile 2010), Lazar constata che tale espressione si è diffusa rapidamente in Italia come in Francia, dove tuttavia ha avuto un utilizzo discutibile: “Da noi è servita a chi voleva giustificare i militanti di estrema sinistra che partecipavano alla lotta armata. Ho invece cercato di dimostrare che è un' espressione totalmente fuori luogo, sbagliata e non condivisa dalla schiacciante maggioranza dei protagonisti dei fatti dell' epoca”. Nel tentare di recuperare l’espressione “guerra civile a bassa intensità”, Lazar propone due interpretazioni. La prima è quella di una guerra interna al paese, mirata al controllo politico, come nel caso della guerra Civile Spagnola, Greca o Americana, sottoposta però ad un punto di vista riduttivo. La seconda si riferisce ad una frattura interna che assume le sembianze di una guerra civile, ma solo in senso metaforico.

MEMORIA. Di fronte ad un periodo storico tanto controverso, si pone il problema della memoria: è fondamentale considerare gli avvenimenti di quegli anni nella completezza della loro complessità, tenendo conto di tutti gli aspetti utili alla comprensione dei fenomeni. Nella ricerca di un’eredità lasciata da quella pagina di storia, De Luna affronta la questione del rapporto con le regole e le leggi²: “E' evidente che quel movimento fu autenticamente e profondamente illegale e, a partire dalle occupazioni e dalle forme più innocenti, trasgrediva. Ma quali regole trasgrediva?”. Secondo lo storico Torinese, la trasgressione delle regole si verificò in un sistema di norme e convenzioni ancora legate ad una società arretrata, sottoposto a forti tensioni di rinnovamento, continuamente messo in discussione e per questo magmatico. De Luna propone, inoltre, un recupero dell’affidamento alla politica che caratterizzò quegli anni e della “possibilità di guardare [alla politica] come ad una risorsa, come a qualcosa che serve a tutti e non soltanto ad un ceto politico”. Il problema della memoria è stato recentemente risollevato dal caso del terrorista Cesare Battisti, per il quale il Presidente Brasiliano ha negato l’estradizione in Italia. Il periodo degli Anni di piombo non può essere considerato alla stregua di qualsiasi altra storia d’Italia. A quegli anni risalgono episodi emblematici delle contraddizioni del nostro paese. In quel sanguinoso decennio è riassunto il grande interrogativo dell’identità italiana. Il giusto atteggiamento nello studio degli Anni di piombo è l’approfondimento di tutti gli aspetti della società e della condizione politica dalle quale ebbe origine la violenza, approfondimento che deve superare le posizioni emotive, ideologiche o radicali per agire in modo critico. Scrive Galli della Loggia: “Il Paese deve ricordare questa storia e a questa vicenda della sua identità profonda deve apporre il suggello dell' oblio. Non deve già mettere pace tra sé e i terroristi, bensì deve pacificarsi con se stesso e con la sua memoria. Lo deve al suo passato”. Siamo chiamati ad un’analisi che coinvolge personalmente tutti i cittadini italiani, poiché riguarda un periodo significativo per l’identità stessa della nazione e ancora legato strettamente agli eventi del presente. BIBLIOGRAFIA

¹ Il grande disordine. I nostri indimenticabili anni settanta, Giampiero Mughini

² Liberazione, 31 ottobre 2009 Le ragioni di un decennio.1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Giovanni De Luna

L’errore storico di Mitterrand, Marc Lazar

L’Italie des années de plomb, a cura di Marc Lazar e Marie-Anne Matard Bonucci

Il Corriere della Sera, 21 luglio 2003 e 27 aprile 2007 It.wikipedia.org


Cognome ZECCHINI Nome VLADIMIR Scuola LS “BOTTONI”, MILANO Classe QUINTA MORTI PER I FATTI

Molti pensano che ciò che è successo nei famosi Anni di Piombo sia stato causato esclusivamente da ideologie estremiste, da un gruppo di esaltati che in preda ad una sorta di delirio hanno deciso di combattere una loro personale guerra più o meno riconosciuta. Altri ritengono che i fatti di quegli anni fossero parte di un complotto dello Stato, volto a tenere sotto pressione la popolazione, e che tutti i coinvolti fossero d’accordo con esso. Entrambe mi sembrano sinceramente delle speculazioni semplicistiche e paranoiche, che non tengono conto del contesto sociale in cui si sono svolte. La verità è che lo stato italiano ha dovuto fare i conti con qualcosa che non era in grado di affrontare senza attuare una forte repressione. Il movimento del ’68 ne è la prova: nessuna dichiarazione o misura che il il governo diramasse è mai riuscita a frenare l’impeto ribelle di una generazione che prendeva coscienza di vivere in un mondo che non gli apparteneva, plasmato su idee che non riconosceva come accettabili. Ma per fare un’ananalisi approfondita di questo processo storico, prima di parlare del ’68 bisogna fare riferimento ad alcuni avvenimenti e teorie precedenti, che hanno portato al diffondersi degli estremismi di destra e di sinistra. Prima di tutto l’Italia dopo la seconda guerra mondiale si trovò lacerata da numerosi conflitti intestini: il conflitto ideologico tra comunisti (che avevano avuto un ruolo di primo piano all’interno della Resistenza)e l’alleanza delle forze democristiane e liberal-democratiche si risolse con la vittoria dei secondi, lasciando a bocca asciutta tutti coloro che speravano in una riforma più radicale del paese; inoltre tutti gli ex-fascisti, avendo subito a loro volta una pesante sconfitta (sotto il profilo ideologico e politico), provavano un forte sentimento di rivalsa e, mentre si preoccupavano di insersi nel nuovo ordinamento del paese, pensavano a come riuscire a riportare in auge le loro figure, come tornare protagonisti del panorama politico. Così lo Stato neonato vedeva al suo interno troppi scontenti che cercavano di riprendersi ciò che credevano gli spettasse per riuscire a mantenere un equilibrio a lungo. E questi scontenti riuscirono a sfruttare un momento di scontento generale per attuare le loro strategie di riaffermazione ideologica e politica. La modalità con cui hanno attuato le loro strategie curiosamente è simile, ed è dovuta alle teorie di Gramsci sull’egemonia culturale: egli sosteneva che per riuscire a riorganizzare la società secondo una determinata visione, è necessario riuscire ad ottenere un alto numero di intelletuali che diffondano l’ideologia attraverso l’insegnamento e la scrittura. Esempio rappresentativo è la scuola di Francoforte, che ha generato l’autore del saggio più incisivo di quell’epoca, Herbert Marcuse, che nel suo scritto “One dimensional man” denuncia il processo del consumismo come elemonto con cui il capitalismo ci rende schiavi del superfluo e incapaci di vedere un obbiettivo nella vita che non sia il possedere più cose possibile. Questo libro ha dato un corpo e una forma alla sensazione di disagio sentita dalle generazioni più giovani, che hanno cominciato a cercare un’alternativa di società, ognuno a modo proprio, seguendo anche strade antitetiche rispetto a quella prediletta da Marcuse (in questo il filosofo marxista non è riuscito a perseguire il suo obbiettivo), finendo quindi per seguire la strada del neofascismo. Insomma la scena del ’68 deriva da tutti questi fattori, ma in particolare dal disagio sociale avvertito: e come sempre in una situazione di disagio si inseriscono le ideologie. Da ciò derivano tutti i problemi dello Stato nel controllare i movimenti che si ispirano a queste ideologie: anche se si è preparati ad una reazione non la si può contenere in modo pacifico se essa è causata da una difficoltà a vivere il mondo per come è. Il che ha portato i vari governi ad adottare misure estremamente repressive, ordinando alla polizia di caricare abitualmente sui manifestanti e inserendo infiltrati nelle varie associazioni protagoniste della protesta (come ha dichiarato pubblicamente Cossiga un paio di anni fa). Ovviamente ad un’azione violenta corrisponde una risposta violenta ed i manifestanti l’attuarono presto, comin-


ciando ad organizzarsi per resistere alle cariche della polizia, fino ad avere caratteristiche simili a quelle di un piccolo battaglione. La situazione diventò sempre più tesa, sfociando da protesta popolare a quella che alcuni ritengono una piccola guerra civile, con tanto di scoppio di bombe. Infatti dal 12 dicembre 1969, inizia l’era dello stragismo, o gli Anni di Piombo, un decennio che ha lasciato dietro di sé centinaia di morti, molte di esse senza un colpevole vero o presunto che fosse. Lo stesso attentato del 12 dicembre, avvenuto alla Banca dell’Agricoltura di Milano in piazza Fontana, ha portato a formulare diverse accuse false, tra le quali spicca quella ad Augusto Pinelli. Insomma un velo di nebbia è calato su quelle stragi e difficilmente si giungerà mai ad una verità riconosciuta da tutti: troppe le persone coinvolte, troppi gli scenari teorizzati e troppo teso il contesto. Probabilmente lo Stato ha una responsabilità diretta in diversi attentati, travolto da una situazione che non riusciva a controllare, sconvolto da una protesta che metteva in discussione la sua sovranità e, in generale la società nel suo insieme. E anche se non avesse una responsabilità diretta, ha una colpa di fondo: non essere riuscito a frenare il livello della tensione, non è riuscito ad andare oltre alle apparenze e a capire che per quelle persone protestare non era solo l’esaltazione di un’ideologia, ma una necessità storica e sociale. Se un’intera generazione protesta significa che dietro quest’ansia di ribellione c’è molto di più delle semplici convinzioni ideologiche, perché l’unica cosa che può scatenare un putiferio simile (e molti avvenimenti storici ne sono la prova) può essere un disagio materiale che non permette di vivere a posto con se stessi. Chiaramente alcune frange di questo movimento di protesta sono finite con l’andare oltre e diventare associazioni terroristiche che non prendevano di mira solo personaggi politici importanti, come le Brigate Rosse all’inizio (la qual cosa, anche se non condivisibile, può avere senso), ma causando spargimenti di sangue anche tra la popolazione neutrale ed innocente. Le stesse BR, nel tempo, sono passate dall’evitare di coinvolgere i cittadini comuni ad avere un’atteggiamento simile a quello della RAF (Rote Armee Fraktion, nota anche come banda Baader Meinhof) in Germania; Ordine Nuovo e i NAR (Nuove Armate Rivoluzionarie), associazioni neofasciste dichiarate successivamente illegali per apologia del fascismo, non hanno mai guardato in faccia a niente e nessuno per ottenere i loro scopi. L’atteggiamento di queste associazioni fece sì che venissero accusate di numerose stragi, anche quando non furono trovate prove concrete, soprattutto in occasioni in cui gravavano forti sospetti sullo Stato, quasi fossero prese come capri espiatori, o addirittura ci fosse un accordo tra loro e lo Stato stesso. Al di là delle speculazioni non dimostrabili, vero è che risulta molto difficile credere che il governo e i suoi guardiani (ovvero le forze dell’ordine) fossero impotenti o quasi di fronte ad una simile ondata di violenza. Soprattutto considerando i fondi investiti nell’equipaggiamento di Polizia e simili, il continuo creare unità speciali antiterroristiche come il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei carabinieri e il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia, i mezzi a disposizione di queste unità… Insomma, c’è qualcosa di non chiaro nell’atteggiamento dello Stato in quegli anni. Persino sul rapimento di Aldo Moro ci sono ancora degli elementi non chiariti; tutt’ora non si conosce con precisione i mandanti di quell’ omicidio. Tonando all’origine del problema, come scritto prima, numerosi processi storici dimostrano che sono i disagi materiali più o meno gravi a scatenare le rivolte: le rivoluzioni francese, russa, americana ne sono un esempio, come anche la situazione odierna nel mondo arabo. Per far capire meglio questo paragone è necessario fare un minimo di analisi storica: • La rivoluzione francese è avvenuta grazie alla spinta della borghesia, che essendo la nuova classe sociale economicamente dominante incominciò a reclamare i propri diritti politici, stanca di essere soggetta ai voleri dell’aristocrazia, che continuava a sovratassarla forte del proprio potere. Ma, nonostante la necessità di cambiamento della borghesia, la rivoluzione fu possibile solo grazie al coinvolgimento delle classi meno abbienti, proclamando nuovi ideali di uguaglianza, libertà, fratellanza e democrazia. L’idea del giudicare un uomo per quanto vale e non per nascita fece breccia nella testa dei contadini, che appoggiarono la rivoluzione democratica (che ha portato certo un miglioramento, anche se non quanto promesso al popolo). • La rivoluzione americana differisce da quella francese per una questione di territorialità: mentre la borghesia francese si è rivoltata contro una classe dirigente presente nel paese stesso, quella futura


statunitense è insorta contro la madrepatria inghilterra, che continuava a salassare ingiustamente i coloni. Anche qui, comunque, il coinvolgimento della popolazione è stato determinante (anche se c’è stato un contributo importante da parte della Francia), per questioni numeriche; avere diverse migliaia di soldati pronti a dare la vita è ben diverso rispetto ad averne poche centinaia. • La rivoluzione russa è il caso più emblematico (almeno tra quelli elencati) di insurrezione popolare. Infatti non solo si destituì la società di Ancien Règime guidata dallo zar, ma se durante la prima fase il processo rivoluzionario prese la strada democratico-borghese, successivamente l’organismo costituito dai soviet riuscì a prendere il potere e spodestare il governo provvisorio capeggiato da Kerenskij e prendere il potere. Nel periodo immediatamente successivo, sotto la guida di Lenin, le assemblee popolari continuarono ad avere un ruolo di primissimo piano nel governo del paese, ma dopo la morte del leader, quando salì Stalin venne investito del potere politico, i soviet furono svuotati di ogni responsabilità decisionale, e incominciò il processo che portò all’affermazione del regime stalinista. Anche se le conseguenze sono purtroppo state incredibilmente negative, la società feudale ancora presente in Russia giunse finalmente alla fine, grazie alla rivoluzione. • La guerra civile ni Libia (perché è questo che sta avvenendo nella sostanza) si sta scatenando dopo un quarantennio di dittatura, in cui Gheddafi ha goduto di tutti i vantaggi scaturiti dai pozzi petroliferi del paese, lasciando il resto della popolazione in una situazione di miseria. Anche qui come in russia, se diversi strati della borghesia stanno appoggiando o addirittura partecipando attivamente alla rivolta, la protesta è iniziata spontaneamente dalle frange più umili della società, che hanno preso d’assalto tutti i luoghi del potere possibili, espropriando l’esercito delle armi nei casi in cui è rimasto fedele al colonnello. Tutt’ora dicerse città della Libia sono sotto il controllo dei rivoltosi, compresi anche alcuni giacimenti petroliferi. • Le rivolte egiziana e tunisina nascono da situazioni simili a quella della libia, anche se i dittatori di questi stati erano al governo da meno tempo di Gheddafi e, soprattutto in Egitto, mantenevano una facciata di democrazia. Comunque anche qui il disagio è stato il vero scatenatore del sentimento rivoluzionario. Si potrebbero fare a ltri mille esempi simili (la rivoluzione cinese, quella vietnamita, quella messicana) e in tutti si noterebbe almeno un dato in comune: un limite di sopportazione superato da parte delle masse, che non furono più disposte a subire passivamente ciò che altri decidevano delle loro vite. Così è stato anche per l’Italia, anzi per tutti i paesi con una situazione simile, durante gli anni dal ’68 in poi; e se queste proteste hanno causato, per svariati motivi già elencati, migliaia di morti, hanno anche costretto i vari governi ad acconsentire ad alcune delle richieste della popolazione. Di fronte alla pressione sociale nessuno può avere un comportamento totalmente disinteressato, e questo significa che se anche sono stati fatti dei sacrifici (cosa sicuramente tragica), dopo si è avvertito un sensibile miglioramento delle condizioni di vita, un aumento dei diritti sociali, un aumento delle possibilità di scelta. I metodi, gli obbiettivi, le scelte, tutte queste cose sono condivisibili o meno, ma la ragione di fondo è sempre la stessa: la mancanza di serenità e felicità. E come ha detto woody allen, “se i soldi non fanno la felicità figuriamoci la miseria”. In fondo tutti quanti cerchiamo di cambiare il mondo secondo il nostro credo, chi nel proprio piccolo, chi su ampia scala; a livello assoluto non si può dire chi abbia ragione o chi torto, perché a seconda del punto di vista cambia anche l’opinione. La sola cosa certa è che se c’è un folto numero di persone che cerca di cambiare le cose, anche in maniera violenta significa che ci sono delle falle che vanno chiuse. Il modo va trovato, analizzando ciò che è successo in passato, evitando gli stessi processi storici che porterebbero agli stessi errori. I fatti avvenuti negli Anni di Piombo sono tragici, hanno causato sofferenza e terrore, ma qualche risultato ne è venuto fuori. Non bisogna mai condannare a prescindere i fatti di un periodo, ma vanno analizzati dall’esterno (ovviamente per chi li ha vissuti è più difficile), al fine di ottenere una propria opinione. Le proteste sono qualcosa che fa parte della società, non si scappa, e se assumono una dimensione tanto grande lo Stato ha il dovere di prenderneconto, e cercare di cambiare le cose. Ovviamente non è possibile accontentare tutti quanti, ma è meglio tenere conto di una stretta fascia di privilegiati o ascoltare il lamento di una moltitudine sofferente? Storicamente i governi scelgono la prima opzione, ma


una strada simile alla lunga porta alla rovina. Certo, anche la seconda scelta comporterebbe enormi conseguenze, con i privilegiati che toglierebbero il loro sostegno economico mettendo in guai seri il potere politico, ma l’alternativa di una rivolta violenta è forse meglio? Nessuno ha una soluzione in tasca, l’unica cosa da fare e ripensare a ciò che è successo tentando di migliorare gli avvenimenti passati. Il domani è imperscrutabile, ma i processi economici non mentono, da una determinata azione deriva una determinata conseguenza pratica, che può avere duiverse modalità di espressione ma non cambia nella sostanza. L’unico modo per prevenire qualsiasi tipo di rivolta sarebbe l’ottenere la serenità e stabilità per chiunque, cosa sicuramente non possibile in una struttura come quella capitalista, voltata all’affermazione individuale e ad aumentare la forbice tra classe dominante e classe oppressa. Se è possibile una società che dia la stabilità a tutti non si può sapere. Forse un giorno. Banalmente: ai posteri l’ardua sentenza.


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