Paura, passione, orgoglio, preoccupazione. La grande famiglia della ex Mabro si racconta in uno dei momenti piĂš difďŹ cili degli ultimi anni. Una storica azienda grossetana travolta dalla crisi, oltre duecento persone, prevalentemente donne, in bilico, che però non si arrendono, si stringono insieme e lottano per difendere la loro fabbrica. Esempio del difďŹ cile momento italiano. Le testimonianze, nate inizialmente per essere pubblicate nella sezione Casi Reali del sito internet della Commissione, sono state raccolte da novembre 2010 ad aprile 2011.
HANNO RACCOLTO LE STORIE DALLA MABRO VERONICA TANCREDI Oggi so cosa significa Mabro e ancora di più conosco il rapporto che può nascere con un posto di lavoro. Fino a ieri vedevo una struttura senza guardare dentro. Crescere dentro una fabbrica, in taluni casi invecchiare. Sono le persone che rendono quei muri una fabbrica, sono le loro storie, i loro disagi e le gioie, le loro mani e l’intelligenza. Le donne e gli uomini della Mabro hanno tanto da raccontare e io spero di aver trascritto fedelmente quanto mi hanno consegnato. Per tutti il lavoro è un bene primario per sé e per le proprie famiglie. Senza un lavoro non può esserci certezza per il futuro. Testimoniare tutto questo è stato, per me, un privilegio e anche un grande insegnamento.
FEDERICA DRAGONI La forza delle storie di donne uomini ha in qualche modo mutato i miei punti di vista. Credevo semplicemente di ricevere, mi sono invece accorta che ascoltare gli operai della Mabro mi stava cambiando. Quando tornavo a casa, nel trascrivere fogli di appunti disordinati scritti troppo velocemente, percepivo di avere tra le mani qualcosa di grande: frammenti di vita, legati a volti concreti, singolari e unici. Raccogliere ora in un libro è rinnovare e, in qualche modo, onorare tutte quelle persone, la dignità, il lavoro, e offrire a tutti l’opportunità che ho avuto io: leggere senza superficialità o pregiudizi la realtà che ci circonda.
MABRO. RACCONTI DALLA FABBRICA © Provincia di Grosseto 2012 un progetto di Commissione Pari Opportunità Provincia di Grosseto a cura di Ufficio comunicazione Provincia di Grosseto progetto grafico Michele Guidarini – www.micheleguidarini.com www.provincia.grosseto.it con il contributo della Regione Toscana
Susanna Camusso
Segretaria Generale CGIL Nazionale
La storia della ex Mabro, una sartoria artigianale con carattere industriale, non è solo la storia di una azienda tessile nella globalizzazione. Non racconta solo della “sconfitta” per la scelta di massificazione dei prodotti e la ricerca della concorrenza al minor costo: è anche la denuncia di gestioni dell’impresa non all’altezza delle situazioni. Uno dei tanti esempi per cui investire nella finanza ha determinato profitti a breve, mentre investire sulla produzione, sull’innovazione sui prodotti aveva ed ha i tempi più lunghi della manifattura, del rispetto del lavoro, della distribuzione della ricchezza prodotta. In questi anni, in maniera continua, le operaie della (ex) Mabro hanno difeso con orgoglio, caparbietà e talvolta anche con rabbia gridata tutte insieme, il proprio lavoro e la dignità sociale che da questo deriva. I racconti delle molte lavoratrici e di qualche lavoratore non solo ci parlano del lavoro, quello materiale, di quella lavorazione descritta con orgoglio, di quel passare attraverso le singole lavorazioni e combinarne molte, che ci fa vedere come un pezzo di stoffa diventa un abito che si può vedere “in mostra”. Lavoratrici e lavoratori che parlano del loro lavoro, testimoniano non solo dell’orgoglio del loro saper fare, dello straordinario rispetto del produrre, dell’essere trasformatori e trasformatrici di materia, ma rappresentano anche una dimensione di vita, una identità personale e collettiva. Ci obbligano a riconoscere che il lavoro non è sparito; che operaio non è sinonimo di riserva indiana e che quando il lavoro manuale viene svalorizzato e marginalizzato si impoverisce
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e compromette anche l’impresa. Nei loro racconti emerge una passione per il lavoro, lunga nel tempo, perchè molte operaie hanno iniziato a lavorare da giovanissime (14, 15 anni è l’età più ricorrente). Descrivono una vita dedicata al lavoro e l’ansia, la preoccupazione di fronte alla crisi del “loro” lavoro di essere troppo giovani per la pensione, ma troppo vecchie per trovare un’altra occupazione. Le storie richiamano nella loro brevità e sobrietà, la necessità di ottenere prima di tutto rispetto: rispetto per il loro lavoro, per la loro volontà di continuare a lavorare, di concludere serenamente la loro vita lavorativa. Sono racconti segnati dalla preoccupazione e dalla speranza, in cui emerge il valore dell’unità e della solidarietà fra persone. Una solidarietà che dà loro forza per affrontare la cassa integrazione, l’orario ridotto, il non essere al lavoro. Una lotta vissuta come esperienza collettiva e solidale, che racconta in più testimonianze della preoccupazione per i più giovani, dell’essere disponibili persino a “farsi da parte” se ciò avesse permesso a chi è più giovane o più in difficoltà a rimanere al lavoro. Tutto questo si può cogliere scorrendo gli “appunti” che le operaie ci hanno consegnato: carichi di sentimenti, tra cui la paura per il futuro, l’incertezza e l’insicurezza della loro occupazione, ma anche di speranza e di determinazione. Queste pagine ci danno un esempio di civiltà, di paese reale, di vissuto quotidiano di persone in carne e ossa che merita rispetto, solidarietà ed anche affetto, perché rappresentano il mondo del lavoro che è la vera ricchezza del nostro Paese.
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eana de Simone
Presidente della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto
Nei giorni che hanno preceduto la mia nomina a presidente della Commissione Pari Opportunità mi ero fatta tanti programmi, cercavo idee e abbozzavo progetti. Un minuto dopo la mia elezione le certezze teoriche sono diventate meno forti. Mi sono domandata quanto e come avrei potuto fare nella mia comunità, per donne e uomini che ogni giorno incontravo per strada, al mercato, sul lavoro. La crisi della Mabro (consentitemi di chiamarla ancora così) ha dato tante risposte ai miei dubbi. Le donne e gli uomini protagonisti di un evento hanno offerto una soluzione al mio desiderio di essere utile. C’ero, nella fabbrica alle porte di Grosseto, con tutti i miei limiti e inadeguatezze, con la sicurezza di chi ha un lavoro e contemporaneamente acquisendo la consapevolezza di non avere risposte per una tragedia di vita. Perché è una tragedia perdere il lavoro, non ricevere uno stipendio, è un mondo che crolla. Quella che le donne, e solo le donne, chiamano “sorellanza”, quel desiderio di abbracciarle tutte subito ricacciato dal non senso della compassione, si è trasformato in tante storie. Un rivolo nato da una rispettosa proposta che presto è diventato un fiume di parole. Ecco le storie dalla Mabro, moderno reportage di un’azienda in crisi, oggi carta, fino a ieri spazio nel Web. Non servono introduzioni sono solo Casi Reali.
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testimonianze
«La mia situazione è difficile, ma ce ne sono di più gravi, per questo spero che tutto si risolva e il lavoro riprenda come prima. Perdere il lavoro sarebbe un duro colpo, non saprei da che parte ricominciare».
Barbara Ho sempre lavorato nel tessile. La scuola non mi piaceva. Ho iniziato per gioco a quindici anni in un piccolo laboratorio di pantaloni; poi le cose non andavano bene e ho trovato lavoro in un’azienda che produceva borse. Il mio babbo faceva il vigile del fuoco, conosceva tanta gente e mi portò a parlare con il proprietario della Mabro, il Dott. Manlio Brozzi. Mi fecero fare una prova e fui assunta nel 1988. All’inizio facevo le travette, i passanti ai pantaloni, ma poi, dato che avevo già esperienza, ho girato tutta l’azienda, fino al campionario. Prima che l’azienda si fermasse ero al taglio dei pantaloni. Mi sono trovata bene e ho sempre lavorato con piacere. Ho due bimbe e un compagno che ha una ditta idraulica, ma anche lui ha difficoltà a riscuotere. Una bimba è ancora piccola, ha tre anni, per questo faccio un part time di 4 ore, prendo più o meno 700 euro al mese. Ci pago le spese, le bollette, la mensa per i bimbi a scuola. Se perdo il lavoro non so dove sbattere la testa, dovrei iniziare un lavoro nuovo a 42 anni, non sarebbe facile, ma sarei disposta comunque a fare qualsiasi cosa pur di mantenermi. Siamo in attesa che vengano richiamate 80 persone per finire il lavoro e spero di essere nella lista, ma non sappiamo quali sono i criteri e forse nemmeno ci sono! 13
Sono molto sfiduciata, non mi sono mai trovata in una situazione del genere. Io ci sono cresciuta qui. Ricordo mia vecchia capo reparto, Oriana, mi ha insegnato a lavorare e mi ha dato tanti consigli, poi il signor Manlio, il vecchio proprietario, gli davo del tu, era una persona buona, un giorno a lavoro mi spaccarono un vetro della macchina, lui mi vide un po’ giù, mi chiamò e mi disse: “Mi saluti sempre!”, poi mi fece aggiustare il vetro e me lo pagò. Se ci ripenso ancora mi commuovo. Mi auguro che questa crisi si risolva non solo per me, soprattutto per chi ha situazioni più gravi della mia, spero che si ritorni al tempo di quando sono entrata e soprattutto con la stessa umanità di allora.
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«Il lavoro in Mabro è stato ed è la mia vita, come per i miei colleghi. In questo momento così difficile siamo tutti insieme a lottare per il nostro futuro».
Dina Sono Dina. Sono entrata bimba, appena quindicenne. Per me è stata una grande famiglia, nel bene e nel male. Mi ha permesso di sposarmi con mio marito, di avere dei figli, un maschio di trentacinque anni e una femmina di venticinque: sono tutta la mia vita. Lavorare per me è stato fatica, piacere, pianti, gioia, amicizia...insomma, un condensato di vita. Negli anni Ottanta eravamo quasi in seicento, ma si lottava in settanta. Si facevano i picchettaggi e abbiamo ottenuto molto, il premio di produzione e qualche diritto in più. Chi non lottava con noi, quando passavamo in mezzo ai cordoni, ci buttava addosso cento lire, ma poi tutte hanno usufruito delle nostre battaglie. Ricordo con affetto la Signora Brozzi, addirittura festeggiammo i venticinque anni di Mabro in fabbrica. Io ho sempre lavorato a tempo pieno. È stata tutta una corsa. C’era un collega che mi parcheggiava sempre la macchina al volo per non farmi fare tardi. I rapporti umani fra noi prima erano più forti, c’era amicizia, ora invece si va sempre di corsa, c’è più menefreghismo. Si vede che i tempi sono cambiati per tutti... Trentasette anni di Mabro. È la mia vita. Da quando c’è questa situazione di 15
crisi mi sono accorta di essere in famiglia, siamo veramente tutte insieme. Prima gli scioperi si facevano in settanta, oggi questa battaglia la stiamo facendo tutte quante. È una bella soddisfazione. La mia famiglia è con me in questa lotta. Mia figlia lunedì è venuta in fabbrica. Sono bravi i miei ragazzi, hanno studiato e lavorato e per me ci sono sempre, come mio marito.
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«Il mio futuro lo vedo buio, ma la solidarietà che si è creata tra noi mi dà la forza per non arrendermi. Siamo cresciute tra queste mura e ora siamo davvero una famiglia».
Donatella Com’è la situazione? Lo vorremmo sapere anche noi. Entro il 28 dicembre sembrava dovesse esserci un passaggio di proprietà, ma non c’è stato e tutto è rimandato a febbraio. Al momento non sappiamo come andrà a finire, non si sa di chi siamo, né per chi si lavora. Stiamo lavorando 4 ore al giorno e portiamo avanti il campionario per andare avanti. In certi momenti siamo scoraggiate, c’è la stanchezza mentale, mentre in altri viene fuori la rabbia, la “ribellione” anche se non sai bene cosa fare. Ho iniziato a lavorare a 15 anni, appena finito la terza media. Lavoravo in piccole aziende di artigianato che ormai sono sparite tutte. A giugno del 1985 sono entrata in Mabro e mi sembrava di essere arrivata in America! Ero sposata da poco con un bambino piccolo; per comprare una casa ci serviva il mutuo e il lavoro mi serviva a questo. Mio marito ha sempre fatto il meccanico e alla fine del 2013 probabilmente andrà in pensione. Ho 52 anni, è una vita che lavoro. All’inizio mi pesava perché il lavoro di fabbrica non è gratificante. A volte con le colleghe, per cambiare un po’, ci scambiavamo i lavori ma lo facevamo di nascosto. Ognuno doveva avere la sua mansione e non era permesso neanche interessarsi a come funzionavano le altre cose.
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Poi dal 2000, con la diminuzione del personale, sono aumentate le mansioni e il lavoro è diventato più stimolante, anche se cambiare è stato dura dopo che hai passato anni a fare sempre la solita cosa. Ora il mutuo della casa è finito e potevamo stare benino, invece risiamo punto e da capo! Siamo in due a lavorare e non si riscuote. Mio marito riscuote in ritardo e non ha ancora preso la tredicesima, io attendo un acconto della tredicesima. Mio figlio Manuel ha trent’anni, lavora ma vive sempre con noi perché non può permettersi una casa sua. A Natale? I soldi sono bastati per le spese di casa, non abbiamo comprato niente. I nostri familiari ci hanno invitato per pranzo. Il futuro in questo momento lo vedo nero, vedo un continuo tira e molla. Volevo arrivare a prendere un minimo di pensione ma sarà dura. Mi dispiace soprattutto per mio figlio che in questo momento non possiamo aiutare e forse sarà lui un domani ad aiutare noi... I momenti più belli alla Mabro? Sembra quasi paradossale, ma in 26 anni che sono lì le cose più belle sono uscite in questo periodo buio. Ho sentito la cosa più bella: la solidarietà. Abbiamo ritrovato lo spirito, ci sentiamo unite e affiatate. Qui dentro c’è un mondo...chi non lo vive non può capire.
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«Non so immaginarmi senza lavoro, senza la mia indipendenza. Alla Mabro ci sto bene, ci sono le mie amicizie qui, vorrei che continuassimo tutte a lavorare».
Eleonora Appodia Sono Eleonora Appodia. Sono nata il 14 giugno 1970 a Subiaco, in provincia di Roma. I miei sono di lì. All’età di due anni mio padre, che lavorava nell’aeronautica, fu trasferito a Castiglione della Pescaia e io sono cresciuta lì. Ho una sorella di quattro anni più piccola. Ho continuato gli studi fino alla seconda commerciale e poi ho smesso con grande dispiacere dei miei. A quel punto ho trovato lavoro in una piccola fabbrica che confezionava jeans. Poi a diciotto anni sono entrata alla Mabro. Ero contenta, tutti ne parlavano bene. È stata una bella soddisfazione. Prima avevo l’incertezza dello stipendio mentre lì mi sembrava tutto “rose e fiori” e gli straordinari erano pagati. Avevo finalmente la mia indipendenza economica e non dovevo più chiedere soldi ai miei. I miei primi viaggi, le mie prima soddisfazioni... Sono entrata nel reparto pantaloni, facevo il punto di copertura della tasca. Poi sono passata alle giacche, facevo il full time. Nel 1999 mi sono sposata e nel 2001 ho avuto Nicole. Sono andata in maternità, ma sono rientrata a lavoro senza prendere l’aspettativa perché avevo l’aiuto dei miei e poi avevo necessità di avere lo stipendio pieno per pagare il mutuo della casa.
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Al mio rientro sono passata alla cucitura delle tasche, sempre full time. Nel 2005, quando è iniziata la crisi, iniziarono anche a fare la rotazione e mi insegnarono a stirare le tasche, ora sono ai pantaloni, allo stiro. Per me cambiare mansioni è stato un disagio, non è stato facile. Attualmente ho sempre un full time. Mia figlia fa il tempo pieno a scuola così io esco alle 17,00 da lavoro e posso passare il pomeriggio con lei. Non mi è mai pesato lavorare. Fa parte della mia vita. Il tempo per me lo trovo, in ferie, nel weekend. Mio marito mi aiuta in casa. Perdere il lavoro sarebbe una tragedia, non mi so immaginare senza. Non invidio le amiche che stanno a casa. Una donna deve avere la sua indipendenza. Con lo stipendio di mio marito ci si fa, ma dovremmo rinunciare a tante cose, penso al futuro di mia figlia, a quando sarà grande. Mio marito mi fa coraggio, io mi guardo intorno e penso a cosa potrei fare, penso di dover ripiegare nel lavoro stagionale, come faceva mia mamma. Dopo ventidue anni alla Mabro, mi sono ritrovata a fare la manifestazione a Firenze, a lavorare quattro ore al giorno senza una figura di riferimento tra i dirigenti. Adesso ci affidiamo alle sindacaliste e cerchiamo di andare avanti così. Ho coltivato qui le mie amicizie, mi sono affezionata a diverse colleghe. Mi auguro che si rimanga tutte a lavoro. La Mabro rappresenta la mia professione.
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«In Mabro io ho trovato anche una figlia, una delle gioie più grandi della mia vita, anche lei lavora qui e per questo sono ancora più preoccupata, penso al suo futuro e mi rattristo».
Elisabetta Sono entrata in Mabro nel 1985. Prima, dal 1971 al 1982, abitavo a Castiglione della Pescaia e lavoravo alla Paoletti. Anche lì c’è stata l’occupazione. Con un blitz della finanza sequestrarono tutto e così, dopo tre mesi di lavoro senza stipendio, occupammo la fabbrica. Ero più giovane e affrontai diversamente quell’esperienza, eravamo allo sbaraglio, ma c’era anche più speranza. A quel tempo la crisi non esisteva, gli stipendi erano belli, è stata una cosa diversa. Quando abbiamo occupato abbiamo fatto manifestazioni, lotte, siamo state a Roma e abbiamo ottenuto la cassa integrazione per dieci anni. Nel 1985, dicevo, sono entrata in Mabro. All’inizio è stato un po’ un trauma. Alla Paoletti avevo raggiunto un certo ruolo, aiutavo le ragazze appena entrate. Dover iniziare nuovamente da capo, in Mabro, è stato degradante per me. Per venti anni ho fatto sempre lo stesso lavoro. Poi mi hanno cambiato mansione per una riduzione personale al reparto pantaloni e sono dovuta ripartire da zero al settore giacche. A cinquant’anni mi sono rimessa in gioco: alla fine è stato bello, ho trovato nuove amicizie, appreso nuove cose, ho dovuto imparare a lavorare un’altra volta. Il ricordo più bello di tutti questi anni è stato quando, qui a lavoro, ho
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incontrato una ragazza, aveva diciannove anni a quel tempo, era sola, senza genitori. Io mi sono occupata di lei come se fosse stata mia figlia, io che di figli non ne avevo, ma questa è tutta un’altra storia. Desideravo tanto con mio marito un figlio e questa figlia l’ho trovata in Mabro. Oggi è cresciuta, si è fidanzata, sposata. Io canto nella corale di Castiglione e proprio lì lei ha conosciuto il ragazzo che poi ha sposato. Ed è nata un’altra storia. E ora, nonostante tutta questa situazione, sono felice, sono nonna. Ho una nipotina di dieci anni e mezzo e un nipotino di sei, Anna Maria e Alessandro. Mi mancano due anni alla pensione, non pensavo di ritrovarmi in questa situazione. Il mio cruccio più grande è che mi figlia lavora ancora qui, per questo la mia preoccupazione è doppia, ed è soprattutto per lei che è ancora giovane.
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«Quest’azienda la sento mia, mi hanno accolto tutti benissimo da subito, non mi sono mai sentita un’estranea e il pensiero, oggi, di poter perdere tutto è terribile».
Emanuela La mia vita è abbastanza serena. A casa si vive bene, mio marito mi dà tranquillità, anche economica. Qui invece, sul lavoro, non ho preso bene tutta questa situazione. Sono da ventisei anni in Mabro, compiuti lo scorso 2 gennaio. All’inizio mi è venuto un esaurimento nervoso, me la rifacevo anche con in miei, mi sfogavo con loro. Non è facile, loro cercano di starti vicino, ma non capiscono realmente cosa provi e ti senti dire tutto il giorno “stai tranquilla, tutto si sistema...”, ma se qui chiude sono trent’anni buttati via, non c’è soluzione. La cosa positiva che mi rimane è la famiglia. È quella che in questi momenti ti tiene su, avendo due figli devi pensare a loro, ti distrai e un po’ di tristezza passa. Io comunque riesco a vedere il bello nelle cose, sono positiva. Spero che tutto possa cambiare. E poi per la verità sono un po’ stanca, tutto questo rincorrersi di notizie, ogni giorno qualcosa di nuovo...sono stanca davvero. E la mia vita comunque è fuori di qui e forse, proprio per questo, riesco a rimanere serena, nonostante tutto. E poi devo stare dietro ai figli, il più piccolo va ancora a scuola, è bravo, il grande lavora. Queste sono soddisfazioni, sarei ingorda a volere di più, sarei
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ingiusta rispetto ad altre, penso a tutte le persone che lavorano qui e che sono sole… Qui cerchiamo di aiutarci, non possiamo sdrammatizzare, perché la realtà rimane quella che è, però c’è tanta amicizia. Lavorando insieme otto ore al giorno si parla di tutto, di figli, di suocere, di shopping e, anche se per pochi momenti, i problemi del lavoro si arginano, si mettono da parte. Quando sono arrivata nell’85 avevo paura a entrare, perché la Mabro era vista come una cosa grande che mette soggezione, “chissà che cosa fanno là dentro” mi dicevo, era una realtà che rimaneva avvolta nel mistero. Poi una volta assunta tutto si è svelato e ho trovato in quella fabbrica tante amiche che già conoscevo, per questo non mi sono sentita nemmeno per un attimo un’estranea, mi sono subito inserita senza difficoltà. È stata una bella sorpresa e questo rimane uno dei momenti e dei ricordi più belli di tutti questi anni. E poi i primi scioperi. Io che prima lavoravo nel settore di piccole imprese artigiane non li avevo mai fatti e chiedevo “ma lo posso fare?”. E l’assemblea, che cos’è? Io non avevo mai partecipato a questi momenti. Ho dato il meglio della mia vita a questa fabbrica. E’ stato troppo bello riuscire a raggiungere e ottenere ciò per cui lottavamo, il premio di produzione, il miglioramento dello stipendio… È brutto oggi pensare di poter perdere tutto.
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«Ho paura di rimanere senza lavoro, credo che tutti dovremmo averne, questa volta la situazione è davvero molto grave. Siamo dei precari adesso, chi l’avrebbe mai detto!».
Ezio Ho 48 anni e da ventisei lavoro alla Mabro, a questo punto pensavo di andarci in pensione. Quando sono entrato qui c’erano delle certezze, contributi versati regolarmente, contratto a tempo indeterminato...oggi ti poni tante domande. Quando si vedono in tv i servizi sul precariato non ti rendi conto di cosa sia realmente e soprattutto non ti aspetti di arrivare a viverlo in prima persona. Non pensavo di poter diventare io stesso precario. Ed è una condizione che si accetta male, arrivati a 50 anni, con la prospettiva di rimanere così a vita, cosa faccio se esco di qui? Mi devo abituare alla mancanza di certezze economiche, alla possibilità di fare un periodo di mobilità, sperare di trovare un’altra occupazione. Ma alla mia età siamo carne da macello fuori, per il mondo del lavoro. Tutto questo si ripercuote anche sulla tua stabilità interiore, cambia ogni cosa, perché il lavoro muove tutto, la tua quotidianità, le tue certezze, il tuo futuro. Oggi mi sembra di vivere un sogno negativo, una situazione irreale. Io mi occupo del magazzino. Il problema è che fare il magazziniere non è un vero e proprio mestiere, lo possono imparare facilmente tutti, è un lavoro che non ti lascia una grande professionalità. Insomma, non è un gran 25
biglietto da visita, purtroppo. Cosa mi rimane di tutti questi anni qua dentro, questa è una bella domanda. Io ho sempre tenuto ben diviso il lavoro dalla mia vita personale. Per me il lavoro è il lavoro, ho sempre cercato di lasciarlo libero dalle emozioni personali. Certo, qua dentro sono nate delle relazioni di amicizia e anche due storie importanti, anche se poi non hanno avuto seguito, ma per me i due ambiti sono ben distinti. Certe volte ripenso volentieri a ex colleghi ormai in pensione, alle cene di lavoro, alcune volte uomini e donne insieme, altre volte organizzate solo per noi colleghi maschi. Cene divertenti, un po’ goliardiche, in cui condividevamo risate e commenti sul nostro ambiente di lavoro. Oggi credo sia la prima volta in cui tutti abbiamo veramente paura e capiamo l’effettiva gravità della situazione. Dietro i nostri sorrisi c’è il pensiero di poter rimanere precari.
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«All’inizio odiavo questo lavoro, oggi lo sento parte della mia vita e sono indignata, vorrei vendicarmi con chi mi ha scippato la serenità».
Francesca Mi trovo davanti ad un foglio bianco con la richiesta di parlare della mia vita. Mi presento: mi chiamo Francesca, ho 40 anni, mia figlia Alice ne ha compiuti 18 il 16 ottobre scorso mentre mio marito Antonio va per i 48. La mia famiglia di provenienza è composta da babbo (scomparso nel 2004), mamma ed io; una famiglia molto unita, benestante, con una figlia fortemente desiderata, amata e tenuta nell’ovatta come se volessero difendermi e tutelarmi da tutti i problemi del mondo esterno. Questa mia idilliaca esistenza è andata avanti fino a quando, ormai ventenne, decisero, visto che la mia carriera scolastica era miseramente andata a farsi benedire, di farmi entrare nel mondo del lavoro. Feci il mio ingresso in Mabro il 30 ottobre 1991. Non scorderò mai quel primo giorno di fabbrica, la prima cosa che mi colpì fu il rumore assordante e la vicinanza l’una con l’altra: pensai che non avrei resistito nemmeno un giorno. Mi misero a sedere davanti ad una macchina da cucire, avevo paura di farmi male. La macchina mi intimoriva, ma grazie ai consigli della nostra caporeparto prima e a quelli delle colleghe più anziane dopo, riuscii a controllare quel macchinario che inizialmente mi faceva tanta paura.
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Sono passati tanti anni e questo lavoro, che inizialmente avevo odiato, oggi lo sento come parte della mia esistenza, per non essere solo la mamma di o la moglie di. In questo momento in cui il nostro posto di lavoro è fortemente messo in discussione, sento che mi verrà a mancare parte della mia vita, la serenità rispetto allo stipendio mi permetteva di godere del mio tempo libero, di gioire di piccole cose. La situazione attuale mi ha fatto cambiare, mi reputo una persona pacifica e assolutamente contraria alla violenza; se però mi metto a pensare a quello che è successo negli ultimi anni mi trasformo in Mr. Hyde e l’unico scopo è quello di vendicarmi con chi ritengo responsabile. Responsabile di avermi scippato l’aiuto che avrei voluto dare a mia figlia per gli studi futuri e la serenità e la pace alle quali ogni famiglia ha diritto. Queste righe sono il mio messaggio in una bottiglia gettata nel grande mare della rete. Mi auguro che chi leggerà queste righe possa capire che dietro una fabbrica che chiude ci sono le storie di centinaia di persone, storie che hanno il diritto alla speranza in un lieto fine.
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«In quest’azienda non si investe nella formazione, è difficile vedere un futuro qui, spero di riprendere a lavorare presto, se non mi confermeranno cercherò lavoro altrove».
gionata Ho 36 anni, ho iniziato a lavorare alla Mabro nel settembre 2009. Mi proposero un progetto che poi non è mai andato in porto. Mi occupo di tutto ciò che è inerente al su misura, a partire dalla misurazione ai clienti. Prima di arrivare qui ho lavorato fuori, a Londra per Burberry e a Milano nello Show Room di Armani. Il lavoro alla Mabro mi piaceva, ma l’azienda è vecchia e non è idonea a livello di professionalità. Una singola figura fuori da qui è un numero! Non si investe nella formazione a tutti i livelli del personale, anche dirigenziale. Io vivo da solo, lo stipendio mi serve per andare avanti. Ora sono in cassa integrazione a ore zero. Al momento qui non vedo futuro… Non ho figli né famiglia, né un mutuo da pagare, mentre ci sono persone che hanno situazioni ben più difficili. Preferisco che lavori uno che ha più bisogno di me. Anche se, in questo periodo di transizione momenti di sconforto e di rabbia ci sono stati. Io mi sento già fuori. Mi auguro che Barontini faccia dei colloqui individuali per valutare chi merita di restare. Resterò alla Mabro solo se partirà il progetto che mi fu proposto inizialmente. All’inizio ci credevo, andavo fuori, giravo; abbiamo fatto una manifestazio-
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ne con Confindustria a Santa Margherita Ligure. Poi sono finito in ufficio al su misura, a controllare gli ordini e non mi piaceva. L’augurio è che l’azienda rimanga in piedi. Se perdo questo lavoro cercherò sempre nel settore tessile ma altrove, a Firenze, a Milano.
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«Sono entrata nel sindacato perché volevo qualcosa di più e ora che la Mabro è in difficoltà mi rendo conto di quanto sia importante per me».
giulietta Mi chiamo Giulietta. Da piccola il mio nome non mi piaceva, poi ho conosciuto per caso una bambina con questo nome e da allora mi è piaciuto di più! Sono arrivata in fabbrica quindicenne. Io in realtà volevo fare l’arredatrice o la giornalista. Era il mio sogno. Ma ho preso solo la licenza media e un anno di magistrale, non potevo trovare di meglio. Dopo i primi quindici giorni di lavoro volevo venire via, invece oggi sono trentasei anni che lavoro qui. Mi ha fatto rimanere la necessità di lavorare, poi a quei tempi era un posto sicuro, una vera garanzia. Tante volte avrei voluto mollare tutto, nel tempo ho fatto vari concorsi, non mi piaceva quel lavoro, così ripetitivo. Ti si chiude un mondo, lavori e zitta, meno pensi, meno ragioni e meglio è. Io volevo qualcosa di più. Forse per questo sono entrata nel sindacato, l’ho fatto per vent’anni e in fondo qualcosa mi ha dato... Però alla Mabro ci sono stata anche bene. E forse ora che sto perdendo questo mondo sento quasi un po’ di amore per la fabbrica, per tutto quello che ha rappresentato per me. Tutta la mia famiglia mi appoggia: mio marito, mio figlio Francesco di 28 anni e mia figlia Virginia di 14, che mi hanno detto in questi giorni di protesta: “Mamma, fatti onore”.
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Penso a quando chiuse la Paoletti, un’azienda di biancheria di Castiglione. Erano gli anni Ottanta, le donne scioperavano e ricordo che i mariti non volevano che facessero tutto questo rumore, che occupassero la fabbrica. Invece martedì quando sono arrivati gli ufficiali giudiziari alla Mabro c’erano tanti mariti. I tempi sono cambiati, anche per le donne. Quando siamo andate a Firenze ho avuto un po’ paura, è stato un momento forte, quante ne abbiamo dette... Per mia figlia non spero un lavoro alla Mabro, ma la sua chiusura avrà comunque delle conseguenze su tutta la provincia e sul nostro territorio. Io penso al mio futuro, vorrei tanto viaggiare con mio marito in giro per il mondo.
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«In questo momento siamo più uniti che mai, è tanta la voglia di combattere e non arrenderci. Sappiamo che non sarà facile ma siamo ottimisti, ce la faremo con l’aiuto di tutti».
Jolanda Celestre Mi chiamo Jolanda Celestre, ho 48 anni, un marito che amo e due figli meravigliosi che mi hanno regalato numerose soddisfazioni ricompensandomi di quasi trent’anni di lavoro trascorsi in questa fabbrica, che nonostante le scellerate e disastrose gestioni, la gente continua a chiamare erroneamente “ex Mabro”. Ciò aveva senso solo con Manlio Brozzi, fondatore dell’azienda della quale oggi resta: un fatiscente edificio, servizi inadatti, macchinari vecchi ed obsoleti ed un reparto taglio e stiro che i due “Gazzillori” (come simpaticamente li ha definiti sua Eccellenza il Vescovo) dell’attuale gestione, avevano promesso di rinnovare, cambiare, rimodernare ed il tutto si è risolto con un po’ di distributori di acqua calda e fredda e di tovaglie di pregiatissima plastica, disposte sui tavoli della mensa aziendale! Ed oggi che, come un temporale in un cielo ormai minaccioso, sento il pericolo incombente di un prossimo licenziamento, col medesimo entusiasmo e la stessa intensità che leggo nei vostri occhi quando esulta il “Grifone” vorrei leggere lo sdegno e l’indignazione nelle vostre facce per una situazione di crisi generale, che si va delineando sempre più netta e chiara nella nostra Maremma. Duecentosessanta persone che, pur vivendo ognuna sotto il proprio tetto, in questi giorni si sentono unite sotto lo stesso cielo. Il tempo passa, mi scopro più ansiosa e insicura, interrogo con gli occhi e non solo, superiori, colleghi e la nostra Rsu in cerca di una notizia positiva. 33
A questo proposito vorrei spendere due parole per complimentarmi con i nostri sindacalisti interni: disponibili, agguerriti e trasparenti, che sono riusciti a infondere nuovamente fiducia nel sindacato, visto l’aumento di adesioni alla Cgil. Inoltre i miei complimenti vanno anche al Dottor Milanesio, che con grande spirito di abnegazione sta conducendo un’impresa da vero Caronte cercando di traghettarci da un mare di guai all’isola della speranza, ricca di lavoro e soddisfazioni per tutti! È alla luce di tutto ciò che cerco e voglio essere ottimista, ribadendo però che, come il senso del dovere che è radicato in ognuno di noi e non ci lascerà mai, allo stesso modo non ci abbandonerà per nessun motivo l’idea di combattere di non arrenderci. Siamo stanchi di parole rassicuranti e di sentirci dire che va tutto bene, è diventato ormai il nostro tormentone. Vogliamo i fatti. E se qualcuno pensa che basti il passare del tempo a far spegnere i riflettori su di noi si sbaglia! Mai prima d’ora, infatti, ci siamo sentiti così uniti, come anelli di una catena umana che niente e nessuno potrà sciogliere, anche a costo di gesti eclatanti che non gioverebbero ad alcun individuo. Ricordo a tutti, ma mi rivolgo soprattutto alle istituzioni, che le feste sono alle porte e l’auspicio più grande è quello di passarle serenamente, immaginando un futuro migliore per ognuno di noi.
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«I momenti belli e i momenti brutti, la mia vita l’ho vissuta tutta qui. La Mabro non deve chiudere, se potessi la comprerei io!»
Laura
galli
Mi chiamo Laura Galli Tosi e vengo da Caldana. Sono entrata in fabbrica nel 1973. Ho passato la mia vita nella Mabro, avevo 14 anni, a 15 sono stata assunta. Fino ai 18 anni andavo a lavoro con il pullman, a quei tempi eravamo più di cinquecento operaie. Io, venendo da un paesino, mi sentivo sperduta. Avevamo tutte, specie le più giovani, paura del datore di lavoro, era temuto, ogni cosa doveva essere fatta alla perfezione. Poi, negli anni, il personale è diminuito e le cose sono cambiate. Tutti gli avvenimenti della mia vita, quelli belli e quelli meno belli, l’ho vissuti lì, la morte del mio babbo dopo otto anni di malattia, ma anche il matrimonio. Ho condiviso tutto con le mie colleghe, anche per i miei diciotto anni feci una bella festa, le mie amiche sono sempre state con me. Sono cresciuta alla Mabro, professionalmente ma non solo. Anche la morte del primo padrone l’abbiamo vissuta insieme, è stato un momento triste. Avevamo lottato, c’eravamo scontrate per tante cose, per la mensa, tante battaglie, ma alla fine c’eravamo affezionate, abbiamo pianto per la sua morte. In fabbrica era severo, rigido, ma i risultati si vedevano, il lavoro migliorava. Con questi nuovi padroni invece è stato diverso, è mancata l’attenzione al lavoro. Ricordo che con il primo padrone si stava attente a tutto, pure a spegnere le luci! Io spero ancora che questa fabbrica possa non chiudere mai. La sua storia è in fondo anche parte della storia di Grosseto.
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Ormai sono arrivata quasi alla pensione, però oggi, a un passo dalla chiusura, non me ne rendo conto. Ho trentasette anni di contributi, potrei finirla qui, ma vorrei chiudere in bellezza. Noi chiediamo solo di poter lavorare, vogliamo solo poter andare avanti. Lasciare che le cose si perdano così è triste, questa fabbrica ha un valore inestimabile, abbiamo dei clienti prestigiosi. In tutti questi anni abbiamo creato qualità. I macchinari sono ancora quelli di una volta, il nostro è un lavoro di alta sartoria e ci lavorano delle professionalità rare. È quasi un lavoro artigianale, è come fare la sarta. Ci sono delle ditte che vogliono ancora le asole fatte a mano. Questa fabbrica non deve finire. Se potessi, la comprerei io. La vicenda Mabro ha coinvolto anche il mio paese, ci conosciamo tutti a Caldana, io faccio volontariato, guido le ambulanze per la Croce Rossa. Siamo come una grande famiglia e tutti mi chiedono come andrà a finire. Speriamo che questo Natale faccia un grande miracolo, che tutte possiamo tenere il lavoro, tutte quante!
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«Questo lavoro è il mio lavoro ed è per me molto di più dello stipendio mensile. È la possibilità di realizzarmi e di essere indipendente, è passione».
Laura Dobbiamo lavorare. E con più tranquillità. Ora non ce n’è, né da parte del personale né da parte dell’azienda. C’è una tensione fuori dal normale. A me piace il mio lavoro. Spero di continuare, non solo per il lato economico, ma anche per me stessa. Ho una bambina di 8 anni, seguirla e farla crescere è impegnativo. Cerco di essere il più possibile tranquilla per mia figlia, ma spesso non ci riesco, sono impulsiva. Ma devo andare avanti, non è facile con questo clima, ogni ora una nuova notizia, siamo sempre con il fiato sospeso. Rispetto a novembre, quando è scoppiato tutto, cerco di vivere questa situazione in un modo diverso: tanto non posso cambiare nulla, sarà quel che sarà. Ora viviamo in una tale tensione che arriviamo ad attaccarci le une con le altre, ma è una guerra fra poveri. Mi sono separata che la bimba aveva solo un anno. Da Talamone mi sono trasferita a Grosseto, ero da sola a dover gestire tutto. Ora per fortuna le cose sono diverse, non sono più sola e questa è la mia forza, il mio punto positivo. Nonostante ogni mattina mi prefigga l’obiettivo di restare calma, spesso non rispetto i miei buoni propositi...viviamo nell’oscurità più totale. Se mi manca questo lavoro salta tutta una serie d’incastri, la casa, il mutuo, la
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figlia, dovrei ripartire da capo. E poi mi piace il mio lavoro. Sono caposezione. Sono cresciuta in questo ambiente, mia mamma faceva la sarta, mi ha trasmesso questa passione. Dover rinunciare al mio lavoro sarebbe doloroso, perché per me non è solo una questione di stipendio, è molto di più: è passione, possibilità di realizzarmi, di essere indipendente. Anche il fatto di mettere insieme famiglia e lavoro per me non è impossibile, basta saper trovare un equilibrio. Certo, con un part-time è più facile, però in fondo lavoriamo dalle 8 alle 17...penso sempre a chi sta peggio, le commesse ad esempio, come fanno con gli orari del negozio? Ho imparato ad organizzarmi quando mia figlia aveva un anno, riesco a farlo anche adesso. Il mio desiderio oggi è quello di mantenere la mia tranquillità familiare, tutto quello che non ho avuto nel periodo della separazione, e al contempo poter mantenere un lavoro capace di farmi sentire realizzata e soddisfatta.
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«Il lavoro non mi fa paura, ho dovuto imparare a usare il computer a 45 anni, c’ho messo tutta la mia voglia di fare e ci sono riuscita. Mi piace pensare positivo e credo che finché si lavora si può migliorare».
Lauretta Mi chiamo Lauretta. Un nome particolare, siamo soltanto in due a Grosseto. Per me il passato è del passato, ormai è andato, non si può cambiare. Sono entrata alla Mabro a 19 anni e non è stato il mio primo lavoro, ho iniziato a 15 anni in piccoli laboratori, poi sono arrivata nella grande fabbrica. Ci sono stati tempi in cui eravamo cinquecentocinquanta dipendenti. Ora mi trovo in una situazione particolare, con trent’anni alle spalle di lavoro in fabbrica e 48 di età, troppo pochi per andare in pensione. La mia è prevista per il 2017. Ho lavorato per tanti anni come operaia, facevo il sottogamba dei pantaloni. L’ho fatto dall’81 all’87. Per sei anni sempre la solita cosa. È alienante ma ti abitui, ti abitui al lavoro e io il mio l’ho sempre fatto con volontà e passione. Quando lavoravo nei laboratori più piccoli, facevo più cose, c’era più varietà di mansioni. È stato in questo primo contesto che ho imparato a lavorare a tutto tondo, facendo un po’ di tutto. Entrata alla Mabro, invece, la prima sensazione è stata quella di non trovare la via d’uscita. Niente sembrava alla mia portata. E iniziando a lavorarci mi sono sentita penalizzata: io sapevo fare molto di più. Lì invece fai sempre la solita cosa, per tante ore. Però ti abitui e il tempo passa. Nel 1988 è nato mio figlio, ora studia all’università. 39
Io ho fatto parte per tanti anni della RSU, negli anni in cui avevamo stabilito il “contratto di disponibilità” per cui una persona poteva essere impiegata per più mansioni, a me il tempo passava meglio, facevo più cose, il lavoro era diversificato. Sono diventata “disponibile” di reparto, ho lavorato al taglio, allo stiro, alla produzione. Fino al 2004, quando mi è stato proposto di passare impiegata. Ho fatto carriera, anche se la mia prima percezione è stata: dove mi vogliono fregare? Ero da poco uscita dalla RSU, dal mondo della rappresentanza sindacale, un mondo che ho vissuto e sentito intensamente, questo passaggio di ruolo avevo paura fosse un tentativo per farmi fuori. Ricordo che passai un fine settimana d’angoscia, mi dissero che cercavano una persona che si interfacciasse con il settore spedizioni, ed io, infondo, sono sempre stata brava a comunicare con la gente, ma il computer, fui chiara, non lo so nemmeno accendere! Sono rimasta lì solo tre giorni, poi sono tornata in produzione, un altro spostamento e, alla fine, oggi faccio un po’ di magazzino e un po’ di spedizioni, anche se negli ultimi tempi ce ne sono state davvero poche... Però la Mabro mi ha dato tanto, l’opportunità di costruirmi una famiglia, di comprare una casa. Il mio compleanno alla Mabro sarà il 6 giugno 2011, saranno trent’anni. Io lavoro sempre volentieri e se chiudiamo, il mio problema non sarà tanto cosa faccio, quanto il fatto che mi mancherà uno stipendio, proprio in questi anni in cui mio figlio ha bisogno di essere mantenuto per continuare gli studi. Da un’altra parte mi sento, però, anche privilegiata, perché mio marito uno stipendio ce l’ha. Forse la cosa che sento veramente in questo momento è la mancanza della “fine” della mia carriera lavorativa. Manca il capitolo finale. Chiude la Mabro, in fondo per me era un po’ una famiglia. Noi saremo unite finché lavoreremo, altrimenti lo so, ci perderemo velocemente tutte, una volta che ciascuna sarà a casa propria.
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Mi è dispiaciuto perdere qualche amicizia una volta passata al ruolo di impiegata. Avrei voluto dire: sono sempre Lauretta Valdambrini, in qualsiasi posto mi mettiate! Il fatto di rimanere senza stipendio a settembre c’è piombato così, tra capo e collo. Ci siamo rimaste male. E mi fa stare ancora più male vedere tante donne, colleghe, amiche, in situazioni peggiori della mia. Sarei disposta a non prendere lo stipendio per uno, due, tre mesi, pur di vedere le cose andare avanti, riprendersi. Il lavoro non mi fa paura, ho dovuto imparare a usare il computer a 45 anni, c’ho messo tutta la mia voglia di fare e ci sono riuscita. Finché si lavora ci si può migliorare. Se penso ora alla Mabro mi viene in mente un’immagine di tristezza. Uscire da un’azienda così in questo modo mi porta a dire: ma allora ho sbagliato anch’io. Ho perso anch’io. Ho fallito anch’io. Mi mancherà, la mia macchina ormai va da sola per quella strada dopo tanti anni.
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«In questa fabbrica ho vissuto i momenti più importanti della mia vita, ho stretto rapporti importanti di amicizia. Ora viviamo un momento di grande incertezza e la speranza è quella di poter continuare a lavorare, tutte».
Lucia Sono Lucia. Ho 36 anni. Sono felicemente sposata e ho un bambino di 4 anni, Leonardo. Lavoro da ventuno anni e da diciannove sono alla Mabro. Ho iniziato in una piccola fabbrica tessile, eravamo una quindicina di operai. Poi nel 1992 sono arrivata qui e ho scoperto una realtà completamente diversa. Nonostante l’impatto mi sono trovata subito bene, anche se avevo solo 17 anni. Qui dentro c’è tutta la mia vita, ci ho festeggiato i 18 anni, il matrimonio, la nascita di mio figlio, questa fabbrica è testimone di buona parte del mio percorso di vita. Fin dall’inizio sono stata assegnata al reparto pantaloni, all’attaccatura cintura, un lavoro particolarmente complicato, ho impiegato un bel po’ di tempo per imparare a farlo. Dopo la maternità sono stata alle giacche, ma erano tutti lavori saltuari. Il rientro è stato duro, mi ritrovavo a fare cose nuove, in un reparto nuovo con nuove colleghe. In quel periodo ho cambiato diverse mansioni, quando si torna è così per un po’, perché quando si va in maternità qualcun’altra prende il nostro posto. Devo molto alle colleghe più anziane, ricordo soprattutto la capo reparto
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di allora, mi ha insegnato tanto. In questo momento sento molto la preoccupazione per il futuro. Crollano tanti progetti, diventa tutto incerto. La mia famiglia, comunque, mi stimola ad andare avanti. Sono un po’ delusa dal mondo del lavoro: quando ho iniziato a lavorare mi aspettavo uno stipendio sicuro che mi permettesse di costruire qualcosa. Appena entrata in Mabro avevo un contratto a termine per un anno, passato quello mi sono sentita tranquilla. Il primo anno è come una prova, è il momento dell’attesa...ed ora mi ritrovo nella solita situazione, è come se rivivessi l’incertezza dell’inizio. Prima però era un’incertezza individuale, ora invece ci riguarda tutte, la viviamo tutte insieme e forse questo ci dà più coraggio. La speranza per me e per tutte oggi è quella di continuare con il nostro lavoro.
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«Sono arrivata alla Mabro molto presto, ho iniziato a lavorare a 15 anni e non ho mai smesso. La speranza più grande ora è quella di poter andare avanti con l’attività per me, ma soprattutto per le operaie più giovani perché Grosseto ormai non offre più niente».
Luciana Sono entrata qui nel 1971. Ho lavorato fino all’81, poi ho aperto un laboratorio con altri sei soci a Pancole. È andato avanti per dieci anni, facevamo jeans e pantaloni da caccia. Poi mi sono separata e sono dovuta tornare qui, fortuna che mi hanno ripresa! Sono di nuovo in Mabro dal 1994. Rientrare è stato bello, ho ritrovato le vecchie amiche, un ambiente conosciuto e poi avevo con me tanta esperienza in più. E ora...ora mi manca poco per andare in pensione e non so come fare, mi mancano cinque anni. Qui siamo una grande famiglia, ho sempre legato con tutte. Nell’altro laboratorio eravamo solo in sei, unite come sorelle, la sera spesso organizzavamo cene tutte insieme con i mariti...ma eravamo più giovani. Oggi ho un compagno, anche lui in cassa integrazione e tutto è ancora più difficile. I ricordi che ho del mio lavoro sono tutti belli, anche i momenti più duri sono stati in qualche modo belli. Ho iniziato a lavorare a 15 anni, li ho compiuti a novembre e a dicembre già lavoravo! Cominciare così presto è dura.
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Nel 1965 sono andata a Torino con la mia famiglia: mio fratello aveva appena preso il diploma di tornitore e al Nord c’era più lavoro per lui, così ci trasferimmo tutti quanti. Ma ci siamo rimasti per poco, mio padre non stava bene. A Torino io lavoravo in casa, montavo le penne biro, l’azienda ci dava i pezzi e noi le dovevamo assemblare insieme. Siamo tornati a Grosseto subito dopo l’alluvione, io non vedevo l’ora di rientrare. Ho sempre continuato a lavorare, prima come shampista da una parrucchiera, poi come sarta, infine sono approdata qui. Per un periodo ho pure colto l’uva. In tutta la mia vita non mi sono mai fermata, mi è sempre piaciuto essere indipendente. La speranza è quella di poter andare avanti. Non tanto per me, quanto per le ragazze più giovani, Grosseto ormai non offre più niente, infondo noi eravamo più fortunati, la fatica c’è stata, ma il lavoro non è mai mancato.
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«Ventisei anni in azienda. L’azienda è mia e le persone che ci sono, sono di casa. Io ho la mente di operaia della Mabro. Se finisce la Mabro, per me finisce tutto».
Manola Mengozzi Mi chiamo Manola Mengozzi e lavoro da ventisei anni alla Mabro. Ho iniziato a lavorare a 15 anni, in una fabbrica piccola, poi a 18 anni, nel 1985, sono arrivata alla Mabro e mi sembrava di aver vinto un terno al lotto. Era un lavoro sicuro. Ho iniziato nel reparto maniche e facevo lavori diversi ed è questa la cosa che mi ha fatto andare avanti. Poi ho avuto due gravidanze e sono passata a fare gli spacchi alle giacche. Il lavoro era alienante e ripetitivo. Non mi piaceva ma era il mio lavoro. Io ho la terza media, non potevo ambire a un lavoro d’ufficio. Questo è il lavoro che so fare e l’ho fatto con tranquillità. Dopo esser diventata mamma ho scelto il part time perché c’erano i bambini e i genitori anziani, da allora faccio un giorno a lavoro e uno a casa. Io però ho sempre lavorato, devo e voglio lavorare. Il giorno che rimango a casa e faccio le mie cose, so che il giorno dopo sono a lavoro. L’idea di non lavorare più. Sono in una condizione tale per cui non sono né troppo giovane per ripartire né troppo vecchia per avere qualche ammortizzatore sociale. Ma mi sembra di non ripartire, forse perché è un momento che ci sentiamo giù. Sono stanca. 47
Ventiseianni in azienda. L’azienda è mia e le persone che ci sono, sono di casa. Con il fatto di essere nel sindacato mi sento anche di essere responsabile della situazione. Se riescono ad avere il lavoro quelle che hanno più bisogno e io no, sarei contenta lo stesso. Non vedo via d’uscita. È il momento. Le crisi ci sono state, abbiamo già avuto la cassa integrazione, ma questa volta è diverso. Quando siamo a lavoro non si può parlare tra di noi e non fare produzione. Però il modo di parlare si trova. Le partacce me le hanno fatte perché parlo, mai per il lavoro. S’è riso tante volte. A volte torno a casa e penso abbiamo passato la giornata e abbiamo riso da morire. Una delle cose che mi fa più piacere è che sono sempre andata d’accordo con tutti. Io ho la mente di operaia della Mabro. Se finisce la Mabro, finisce tutto.
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«Ho sempre lavorato qui, la Mabro mi ha dato da vivere. Spero di arrivare alla pensione tranquillamente poi farò la nonna e mi dedicherò al volontariato».
Margherita Sono qui dal 1974. Sono entrata alla Mabro che avevo quasi 16 anni. All’inizio ero a disagio perché non ero abituata alla realtà della fabbrica, facevo più che altro la preparazione spalla, imbastivo la fodera, ora sono al puntino giacche, cioè alla rifinitura. Mi sono sposata giovane, a 17 anni avevo già un figlio. Ogni dieci del mese avevo il mio stipendio per vivere. Poi ho divorziato. Adesso mio figlio ha 35 anni e vive con la sua famiglia. Io vivo da sola a Montorgiali. Posso contare solo sul mio stipendio, devo pagare l’affitto e fare su e giù con la macchina. Da settembre a ora ci sono andata in rimessa, aspettiamo un acconto da dicembre scorso. Sono andata avanti con qualche soldino messo da parte, però anche quelli finiscono. E purtroppo ho anche dei problemi di salute. Qui in azienda siamo tesi. Lottiamo per ottenere l’obiettivo. Ho 52 anni, mi auguro che mi diano gli ammortizzatori sociali per agganciarmi alla pensione, dato che mi mancherebbero solo cinque anni. La Mabro mi ha dato da vivere. Forse non era quello che avrei voluto, una donna non si sente realizzata in una fabbrica, ma era un lavoro sicuro. Quello che mi auguro ora è di mantenere il posto lavoro, ma soprattutto che i dipendenti più giovani possano continuare a lavorare qui, perché non ci sono altre possibilità.
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I ricordi piÚ belli sono sicuramente le amicizie, le lotte che abbiamo fatto insieme per il premio di produzione o per la mensa aziendale. Per il futuro spero almeno di avere la pensione per vivere tranquilla e di avere la salute. Farò la nonna e magari anche del volontariato. Sono stata sempre abituata a fare qualcosa, a lavorare.
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«Io sono una persona positiva, non voglio vedere la fine. Questa fabbrica per me è un punto fermo, non saprei immaginare la mia vita lontano da queste mura».
Marica Mi chiamo Marica. Sono nata il 5 settembre 1967 a Milano, a 4 anni sono venuta a Grosseto, a 16 sono entrata alla Mabro, la sorella di mio marito, che ci lavorava, mi ha informato che stavano cercando personale da assumere e sono andata. Il primo febbraio 2011 saranno ventisette anni in fabbrica! Per ventitré anni sono stata alla macchina automatica, al sopraggitto. Ma ho cambiato anche tante mansioni e tante colleghe. Ho sempre lavorato a tempo pieno e non è stato facile. Ho una figlia di 23 anni e per lei, per la famiglia, mi sono sempre ritagliata le mille cose da fare nelle pause pranzo. Mi sono arrangiata perché mi serviva uno stipendio. Il mio lavoro mi è sempre piaciuto e con gli anni mi sono attaccata all’azienda, alle persone e anche al luogo fisico. Non voglio nemmeno pensare all’idea di non lavorare più qui, per me è ormai un punto fermo. Quest’ultimo periodo è una tensione continua, penso alla mia famiglia e alla necessità di mantenere il mio stipendio. Mio marito è andato via a luglio dalla fornace perché non pagavano, ora è alle cave di marmo di Saturnia, con la speranza che lì le cose vadano meglio. In famiglia ora dobbiamo riuscire a far quadrare il bilancio, altrimenti dovremo tagliare le spese. Io e mio marito siamo sempre stati soli e anche ora possiamo contare solo sulle nostre forze, le nostre famiglie
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di origine non ci hanno mai aiutato, figurarsi che ci siamo pagati da soli anche il pranzo del matrimonio! Per noi, la nostra indipendenza è motivo di orgoglio, sapere che non dobbiamo niente a nessuno ci fa sentire bene. Dopo ventitré anni di matrimonio stiamo sempre insieme, perché abbiamo affrontato tutto insieme. Questo ci ha reso forti, ci ha reso una famiglia, orgogliosa e unita. Sono una persona positiva, anche in fabbrica io sono stata tra le poche a non voler vedere la fine. A me interessa solo lavorare. Io ci spero davvero che qualcuno possa risollevare l’azienda.
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«Le amicizie nate in fabbrica sono una delle cose più belle di questi trentasei anni in Mabro, siamo molto unite, ci facciamo forza soprattutto ora che la situazione è davvero grave».
Marzia Ho 52 anni e sono di Grosseto. Ho iniziato a lavorare a 14 anni, per un po’ ho fatto la parrucchiera e poi nel 1974 sono arrivata alla Mabro. I primi anni si lavorava a cottimo ma si guadagnava benino. Mi sono trovata bene, ho costruito tante amicizie. Ho sempre fatto il sopraggitto ai pantaloni (che sarebbe la parte davanti); il lavoro non si poteva cambiare sennò erano partacce! Dopo ho avuto due figlie, nell’86 e nel ‘90, e quando sono rientrata a lavoro è stata dura: mia suocera stava male, dovevo guardare le bambine e una, per di più, non voleva mai mangiare! È stato un periodo difficile, volevo licenziarmi, ma fortunatamente nel gennaio dell’88 sono stata sorteggiata per il part time e così ho potuto mantenere il mio posto di lavoro. Mio marito ha fatto per una vita il meccanico per la Fiat, ma poi anche lì le cose hanno cominciato ad andar male, ora porta ricambi per auto e fortunatamente ha uno stipendio sicuro. Ho due figlie femmine di 24 e 21 anni: una lavora come parrucchiera, l’altra ha iniziato da poco come commessa alla Conad con un contratto a tempo determinato, ma entrambe vivono ancora con noi. Se perdo il lavoro io, peserebbe tutto su mio marito e i soldi sicuramente non basterebbero...è una situazione davvero umiliante!
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In azienda io avevo già fatto delle lotte nel 1980 per la mensa e il premio di produzione. Allora eravamo molto unite ed ora siamo tornate a lottare! C’è gente che non ha nemmeno i soldi della benzina per venire a lavoro, sentendo i racconti di queste realtà ti butti giù, è molto triste. Spero nella pensione perché mi mancano cinque anni, ma vorrei che l’azienda andasse avanti soprattutto per quelle più giovani che la pensione non sanno nemmeno se la prenderanno! In crisi ci sono 250 persone. La cosa più bella in tutti questi anni alla Mabro sono state le amicizie fatte lì dentro, con alcune ci vediamo anche fuori dal lavoro. Negli anni passati, facendo sacrifici e racimolando qualche soldo, abbiamo fatto insieme anche le vacanze, ma adesso, purtroppo, quella prospettiva non c’è più! Trentasei anni di lavoro...e ora arriva il meglio!
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«Questa fabbrica è davvero la mia famiglia, qui ho conosciuto la mia compagna, condivido tutto con lei e il pensiero di cambiare lavoro per me è ancora più triste perché non avrei più lei accanto».
Maurizio
giuliarini
Mi chiamo Maurizio Giuliarini, alias “Russel” come un giocatore di baseball che venne a Grosseto anni fa, dicono che gli somiglio. Lavoro in Mabro da ventuno anni ormai, all’inizio eravamo tanti, più di cinquecento persone. Io facevo il tagliatore ai pantaloni, si faceva tutto a mano mentre ora è tutto computerizzato, solo nel mio reparto eravamo quarantaquattro/quarantasei persone, era tutta un’altra realtà! Il lavoro mi piaceva, si stava bene. Ai tempi di Manlio Brozzi la Mabro viveva il suo massimo splendore. C’era la certezza dello stipendio, il premio di produzione, era come entrare a lavorare in un ente pubblico. E anche il direttore Favilli riusciva a tenere testa a seicento persone. Ho avuto la fortuna di conoscere qui la mia attuale compagna. Lei lavora alla catena dei pantaloni e sa fare più mansioni. Viviamo insieme da 14 anni e abbiamo una bellissima bambina, si chiama Aurora. Lei è stata richiamata a lavoro per 6 ore al giorno, mentre io sono rimasto a casa. Ormai siamo talmente abituati a fare le cose insieme che rimanere a casa da solo mi ha fatto uno strano effetto, mi sono sentito vuoto. Il pensiero di cambiare lavoro m’intristisce anche perché non avrei più lei accanto. Negli ultimi due anni sono passato al magazzino delle materie prime, dove arrivano le stoffe, gli accessori ecc. Mi sono trovato benissimo, siamo in quattro e il capo magazzino è un amico di vecchia data. Poi sono diventato
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anche commesso-fattorino: vado in giro per pagare le bollette, per le fatture, per andare a prendere i clienti. Il 22 novembre 2010 è stata decretata la messa in liquidazione dell’azienda. Eravamo tutti a Firenze, in attesa, davanti alla sede di Fidi Toscana. Me lo ricorderò sempre, c’era anche mia figlia, tanti di noi avevano portato le famiglie. Poi la rabbia, un momento di sfogo, alcune operaie hanno tirato le vestaglie in faccia ai proprietari della Movies spa. Io sono in cassa integrazione straordinaria e la mia compagna lavora sei ore al giorno (più due ore di cassa integrazione). Ci auguriamo che la Banca della Maremma ci anticipi la cassa integrazione, ci danno 700,00 euro mensili, sono pochi ma meglio di niente! Aspettiamo, al momento lo stipendio non c’è. Abbiamo una bambina piccola e un mutuo da pagare, la situazione è critica, per fortuna genitori e suoceri ci danno una mano. Spero che tutti presto potremo rientrare a lavoro e che l’azienda sia gestita da persone serie, competenti e leali. Sono Rsu della Cisl da due anni. Ho iniziato per fare piacere a un amico, poi mi sono appassionato. Ho conosciuto tanta gente, ho avuto anche i voti di tanti colleghi, è stata una bella esperienza, ma dopo tutto questo stress, una volta scaduto il mandato, non so se continuerò.
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«Non riesco a pensare che la Mabro possa chiudere, la qualità dei nostri prodotti e il nostro modo di lavorare dovrebbero essere garanzie di sopravvivenza».
Milena Sono qui dal 1992. Potrei dire tante cose e niente, sicuramente che questo è un momento drammatico. Non mi sarei mai aspettata di arrivare a tanto proprio qui, in questa azienda in cui ho sempre creduto. Io rifilo con le forbici, detto così non sembra niente, ma in realtà è un lavoro che mi piace. Questa situazione la vivo malissimo, come tutte le altre, siamo coinvolte totalmente, perché praticamente passiamo più tempo a lavoro che a casa. Queste macchine da cucire, questi tavoli della mensa, queste mattonelle, se potessero parlare racconterebbero molto, racconterebbero tutta la storia di questa azienda e delle persone che l’hanno abitata e vissuta... Anche con le colleghe ti ritrovi a condividere molto, ognuna di noi, poi, ha anche i propri problemi a casa, in famiglia e se anche lì ci sono delle gravi difficoltà allora la situazione si fa tragica. Io non posso pensare di rimanere senza lavoro. Il lavoro è dignità. Sono arrivata alla Mabro perché ho smesso di studiare. Facevo il liceo classico, fui rimandata in una materia e ci rimasi malissimo, decisi di non andare più a scuola. Però sono sempre stata bravissima con lo studio, infatti lo scorso anno ho tentato di fare il serale, ma con questa situazione critica a lavoro non ce l’ho fatta. Alla fine sono entrata in Mabro il 14 dicembre 1992. L’impatto è stato vio-
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lento, io ragazzina mi sono ritrovata davanti tutte quelle donne che lavoravano insieme. È stato un trauma. Infatti, entrata in fabbrica a dicembre, a maggio dell’anno seguente ero a casa con un esaurimento nervoso. Ma è passata, mi hanno aiutato donne più grandi di me, colleghe, amiche che pian piano sono diventate come una seconda famiglia, con cui ho imparato a condividere tutto. Certe cose non si possono spiegare, ripenso al giorno in cui è venuto in fabbrica l’ufficiale giudiziario, mi viene ancora la pelle d’oca. Mi sono detta, qui è finita. Siamo andati tutti di là, in magazzino, io mi sono sentita male. È impensabile che questa azienda possa morire...il prodotto che facciamo, come lavoriamo, non è possibile che tutto finisca. Non ci credo. Sono attaccata a tutto. Per quanto la fabbrica in sé sia triste, questo è il mio lavoro. Il mio pane.
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«La situazione ora è molto difficile ma il desiderio di venire a lavoro c’è comunque. La Mabro fa parte di me, io sono battagliera e non voglio arrendermi, voglio credere che tutto posso tornare come prima».
Miria Sono entrata alla Mabro nel ‘76. Poi, dopo 8 anni, mi sono licenziata per problemi familiari (mia madre invalida). Nel frattempo ho avuto una bimba e ho iniziato a fare dei lavoretti domestici per arrangiarmi. Nel 2000, quando anche mio marito ha perso il lavoro, ho ribussato qui e mi hanno ripreso, il Favilli m’ha detto di sì. Ho lavorato in diversi settori, ora sono al taglio e mi ci trovo benissimo. La Mabro è una famiglia e come in tutte le famiglie ogni tanto ci sono scontri, è normale. È uno stress vivere in quest’incertezza, ma nonostante questo ho il desiderio di venire qui a lavorare, perché ormai fa parte della mia vita quotidiana. La mia bimba ha 27 anni e si è laureata in scienze infermieristiche, la famiglia mi sostiene negli impegni di questi giorni. Mancando lo stipendio, ho dovuto fare dei tagli, quest’anno il natale l’abbiamo festeggiato, ma sotto l’albero i doni erano ridotti. Sono battagliera e sono una persona semplice: avere il quotidiano mi soddisfa. Il male, che nella mia famiglia c’è entrato, è l’unica cosa alla quale veramente non c’è rimedio.
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«Perdere il lavoro sarebbe come perdere una parte di me, della mia dignità di donna. Sono una dirigente sindacale, ma mi mancherebbero comunque gli impegni dell’azienda, mi mancherebbero le relazioni sociali, gli stimoli».
Nadia Sono Nadia, ho 50 anni, sono sposata e ho un figlio che va all’università, studia scienze politiche e internazionali a Pisa, è la luce dei miei occhi, si chiama Giacomo. Ho iniziato a lavorare a 17 anni nelle aziende di pantaloni e dopo sono arrivata alla Mabro. Entrare in Mabro voleva dire avere il futuro assicurato, a quei tempi c’erano cinquecentocinquanta dipendenti. Mio marito lavorava come me. E’ un dipendente regionale dell’ente parco. Il giorno del funerale del mio babbo avevo il colloquio di lavoro. Lo rinviai. In quel giorno buio, vuoto, pieno d’angoscia c’era una notizia positiva. Era un misto di emozioni e sensazioni che non si può spiegare. Alla Mabro ho iniziato nella catena dei pantaloni, appena arrivata mi sembrava un mondo nuovo rispetto a dove lavoravo prima, un’azienda piccola con dodici dipendenti dove si lavorava a testa bassa. Appena arrivata ricordo che tenevo un ritmo alto e una collega, che poi è diventata una delle mie migliori amiche, mi bussò sulla spalla e mi disse: “ne devi fare 35 all’ora”. La produzione era quella e quindi se facevo di più, dovevo diminuire il ritmo. Io facevo i modelli speciali, cioè uno diverso dall’altro. Questo fino all’87 quando è nato Giacomo. Dopo la maternità ho cambiato mansione, un po’ più noiosa ma la facevo volentieri. Chiesi il part-time e me lo accet-
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tarono quando Giacomo aveva 14 anni, mi chiesi come avevo fatto a stare tutti i giorni lì per così tanto tempo...con il part-time ho scoperto il mondo! Avevo del tempo da dedicare a me stessa e alle mie cose, finalmente, perché io mi sono sposata giovane e ho sempre lavorato. Ora sono alle giacche da 7 anni. Intorno al 2000, avendo più tempo libero, ho avuto l’opportunità di dedicarmi al sindacato, lo faccio col cuore. Le mie colleghe della RSU mi fecero questa proposta e oggi sono una rappresentante sindacale e sono nel direttivo regionale e nazionale del sindacato di categoria. Nel mio tempo libero vado anche in palestra, in piscina, mi piace fare passeggiate in centro per negozi. Questa era la mia vita tranquilla, guardavo verso il futuro, potevo fare progetti, pensare ad un viaggio. Alla fine della giornata, se ci penso, mi sento una persona affabile, non ho mai litigato con nessuno, davvero con nessuno. Sono predisposta al dialogo. L’amicizia è fondamentale per me ed ho investito molto nelle amicizie con le colleghe della Mabro. Abbiamo condiviso momenti difficili, ci siamo aiutate. Perdere lo stipendio è perdere dignità personale, perdere il mio ruolo, il mio potere economico. Mi sentirei dipendente da mio marito, dai miei genitori...significherebbe perdere la prospettiva di progettare, di sognare. Quando non devi più andare a lavoro, ti alzi la mattina e perdi anche l’attenzione verso te stessa e la tua immagine, io mi infilerei la tuta e rimarrei a casa tutto il giorno...che faccio? Sono una dirigente sindacale, ma mi mancherebbero comunque gli impegni dell’azienda, mi mancherebbero le relazioni sociali, gli stimoli. La paura di perdere tutto quello che ho conquistato è forte. C’ho messo del mio, ho iniziato a leggere, anche i quotidiani…ho paura di perdere interesse, di perdere il mio spazio come donna e essere umano. Se oggi sono quello che sono lo devo anche alla Mabro. 62
«Anche ora che lo stipendio è ridotto io spero che l’azienda possa andare avanti, ho imparato molte cose qui e il lavoro mi serve, per la famiglia, ma soprattutto per me stessa».
Paola Ho 47 anni e sono da ventiquattro in Mabro. Mio marito lavora e non ho figli, ma questo momento così difficile per l’azienda mi tocca, perché per me è importante avere il lavoro, è la sicurezza per la famiglia, ma anche per me. Ho bisogno di lavorare per me stessa, senza non saprei starci! Quando sono arrivata io in Mabro, era come entrare lavorare per lo Stato. Ho lasciato l’Istituto professionale e sono andata a lavorare in un asilo dove facevo le pulizie. Poi a 24 anni ho fatto un colloquio con il Favilli, ero orfana di madre e lui era sensibile ai casi umani, mi disse di sì. Ci parlai in primavera e, all’inizio dell’estate, per il giorno del mio compleanno a giugno iniziai a lavorare. Ricordo che fuori c’era una fila di donne che speravano di essere assunte. Eravamo tanti, cinquecento dipendenti e lui, il Favilli, mi portò da Franco, il mio capo sezione, e mi misero a fare l’imbastitura ai giri, cioè al giro manica. Ora faccio qualcosa a mano, cucio, stiro. Mi auguro che questa fabbrica vada avanti. Anche ora che prendiamo solo 500 euro al mese ci spero. Si entra qui dentro ogni mattina e si percepisce il dispiacere, lo sconforto. Siamo tutti una grande famiglia. Mio marito è molto preso da questa situazione perché anche lui lavora in fabbrica. E’ venuto alle manifestazioni, c’era quando l’ufficiale giudiziario è venuto per portare via la roba, c’era alla cena. Ma le donne hanno una sensibilità in più nelle cose di tutti i giorni... 63
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«L’aspetto più duro di questa situazione è il vivere sempre nell’incertezza di cosa potrà succedere, lavoro in Mabro da quando avevo 15 anni, quest’azienda per me è sempre stata una certezza».
Patrizia A 15 anni ero già qui dentro a combattere come una matta. Lavorare in fabbrica non è facile, stare insieme a tante persone e andarci d’accordo nemmeno, ma ci sto bene. Mi piace il mio lavoro. Anche a 15 anni mi piaceva, non avevo voglia di studiare e lavorare qui era una certezza. Ho due figli e i sacrifici per stare dietro ai turni di lavoro sono stati molti, per fortuna ho avuto l’aiuto di mamma. I miei figli ora hanno 34 e 30 anni, due maschi. Sono dei lavoratori. Io sono separata da 10 anni con tanti problemi. Mio marito è sempre stato molto assente e la soddisfazione di vivere questi due figli così è tutta mia. Vivere nell’incertezza, chiedendosi ogni giorno cosa succederà è davvero dura. Avevo finalmente tirato un sospiro di sollievo, ma questo problema è stato la ciliegina sulla torta. Potevo finalmente rilassarmi un po’ e invece… Stare tranquilla, per me, è avere il lavoro e la mia vita di tutti i giorni. Natale, anche quest’anno, è stato Natale. La famiglia non la puoi precipitare nel buio. Sono io il punto di riferimento. Spero che i miei figli lavorino, che abbiano questa certezza. Alle mie compagne ho voglia di dire che stiano più tranquille perché andare fuori di testa non serve. Le capisco, ma si rischia di perdere il controllo.
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«C’è bisogno di più sostegno per le donne, perché possano vivere serenamente il lavoro e la famiglia, oggi io ho la percezione che tutto quello che ho dato non sia servito a nulla e in questo momento i miei figli sono il pensiero maggiore».
Patrizia Sono Patrizia, nata e vissuta a Grosseto. Ho 37 anni, orgogliosa della mia famiglia e dei miei figli, un bambino di 7 anni e una bambina di 4. Oggi sento tutta la difficoltà di questa situazione lavorativa, così priva di certezze. Stanno crollando tutti i miei progetti e le prospettive per il futuro. Quello che mi preoccupa è la mia età: come mi ricolloco nel mondo del lavoro? E’ vero, ho un diploma di analista contabile e una qualifica professionale come confezionista, ma forse le uniche possibilità per me sarebbero fuori Grosseto e se penso al futuro, non considero nemmeno l’idea di prendere la mia famiglia e iniziare tutto di nuovo da un’altra parte! Non ho mai amato Grosseto, ma oggi che ho dei figli piccoli ho rivaluto la sua tranquillità. Alla fine mi sono attaccata alla mia città, al territorio e al lavoro. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per la famiglia, per i figli...forse sarebbe stato più facile con un’altra carriera lavorativa, ma con la posizione che ricopro in azienda, non potevo pensare ad un part time. Non si può lavorare otto ore al giorno e gestire i figli, ma si fa, con tanta fatica e con tanti sensi di colpa. A lavoro cerchi di dare il massimo ma alla fine, con quali risultati? Oggi ho la percezione che tutto quello che ho dato non sia servito a nulla e in questo momento i miei figli sono il pensiero maggiore. 67
Ripenso al mio arrivo in Mabro. Sono stata catapultata nella fabbrica dopo un corso di formazione. L’impatto è stato grosso. La maggior parte delle donne sono cresciute, si sono formate lì dentro, arrivando in fabbrica giovanissime, a 15, 16 anni. Per questo all’inizio mi sono sentita un pesce fuor d’acqua. Ho iniziato a lavorarci per passione, mi piace il lavoro manuale, l’idea di creare qualcosa mi dà soddisfazione. Proprio per questo quando seppi di un corso di formazione in questo settore decisi di iscrivermi. Il corso è stato bello, con tante ore di modellistica e di cucito pratico. Ricordo ancora le parole che ci disse il primo giorno di corso il docente, che lavorava in Mabro: “Speravo i candidati fossero uomini”, sempre la solita storia, le solite motivazioni, le donne sono troppo legate alla famiglia ecc...ma va bene lo stesso. Alla fine i corsisti uomini erano solo due. Mi assunsero nel ‘98. Fu un momento di soddisfazione per me, avevo realizzato il desiderio di trovare un lavoro con cui contribuire concretamente alla costruzione della mia famiglia. E poi non ho mai visto la mia vita come casalinga, anche se conciliare tutto è difficile. Questa società ti porta a trascurare l’ambito familiare, portiamo via tanto tempo ai figli e credo che ne risentano molto e ne risentiranno anche in futuro. E il lavoro diventa sempre più importante e ti assorbe completamente. Anche mancare per la maternità è stata un’esperienza difficile, una volta tornata non ho subito ripreso le mie mansioni, mi hanno spostata e solo successivamente sono tornata a ricoprire il mio ruolo. Un desiderio per il futuro: se proprio dovesse andare male tutto, il mio desiderio è quello di ritrovare un lavoro, un lavoro che mi possa dare soddisfazione come quello alla Mabro. E poi spero davvero che lo Stato possa cambiare, supportare di più le donne, darci una mano concreta per riuscire ad essere più serene nel lavoro e nella gestione della famiglia.
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«Abbiamo fatto bene ad occupare la fabbrica, altrimenti avrebbero davvero chiuso i cancelli. A me mancano solo 3 anni alla pensione ma voglio lottare per tutte, perché la “mia” fabbrica resti aperta».
Pellegra Ho 52 anni, ho iniziato a lavorare che non ne avevo neanche 15, prima come segretaria in una ditta idraulica poi in un laboratorio di pantaloni e da lì ho girato varie fabbrichette. Poi feci domanda alla Mabro e dopo soli 20 giorni mi chiamarono. E’ stato drammatico passare da una piccola fabbrica a quest’azienda enorme, non trovavo nemmeno il bagno! Lavoravo alla copertura delle tasche dei pantaloni, poi sono rimasta incinta del secondo figlio, ne ho due uno di 22 e uno di 32 anni, e una volta rientrata mi hanno messo all’attaccatura delle cinture e avevo una capo sezione molto brava. A un certo punto dopo vent’anni nella catena dei pantaloni mi hanno spostato alle giacche, ormai da cinque anni. Ho dovuto imparare tutto di nuovo. Ero entrata in depressione, non riuscivo a integrarmi col gruppo e mi sono dovuta curare. Adesso mi rendo conto che i miei problemi erano una stupidaggine in confronto a quello che sta accadendo. In questo momento siamo riuscite a ritrovarci e a venirci più incontro. Adesso partecipo a tutto e lotto insieme alle altre. Mi mancano 3 anni alla pensione e spero di avere gli ammortizzatori sociali, ma voglio lasciare in piedi l’azienda. E’ giusto che lotti per gli altri, per i più giovani e perché
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questa fabbrica abbia un futuro. Abbiamo tutti lo stesso obiettivo. Ho avuto e ho ancora tanti amici qui, ogni tanto ricordiamo delle cose passate. Prima con alcune colleghe mangiavamo in giardino sotto i noci, ognuno nella sua macchina e ci parlavamo dal finestrino... L’occupazione è stata un passo giusto sennò avrebbero chiuso i cancelli. La prima notte abbiamo chiacchierato e ricordato i vecchi tempi; poi qualche battuta e barzelletta per tirarci su ma è triste! Per dormire ci siamo sistemati negli uffici della segretaria; abbiamo due stufette elettriche perché la notte fa freddo. Poi la mattina ti alzi e vedi lo stabile vuoto, tutto buio... è come una casa abbandonata: è la sensazione più brutta.
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«Quello che conta nel mondo del lavoro oggi è solo il guadagno, dobbiamo tornare a dare valore al lavoro artigianale e di qualità. Spero che l’azienda possa ripartire per me, ma soprattutto per i più giovani».
Roberto È poco che sono qui. Non è nemmeno un anno. Sono uno di quei ragazzi entrati con Royal Tuscany. Quello che mi colpisce è il legame e l’affiatamento di queste donne, il loro attaccamento a questa fabbrica, al lavoro, la loro organizzazione. Arrivato qua l’integrazione è stata immediata, non ho trovato alcuna difficoltà ad inserirmi in questo ambiente. Ora si vive abbastanza male, ma nonostante tutto siamo uniti. Io mi occupo del magazzino, prima di arrivare alla ex Mabro lavoravo nel campo della vetroresina. Rispetto ad anni fa credo oggi sia cambiato il senso del lavoro, si pensa molto di più ai soldi. E’ con l’apertura delle frontiere del mercato, con l’utilizzo di manodopera estera a basso costo che siamo arrivati alla crisi odierna. E il lavoro, soprattutto quello artigianale come quello della Mabro, è diventato faticoso e difficile da portare avanti, da mantenere in vita quando all’estero trovi una manodopera che costa la metà. Certo, la qualità è più bassa, ma oggi conta solo il guadagno. E poi non c’è ricambio generazionale, non ci sono più giovani disposti ad imparare questi mestieri artigianali. A livello familiare questa situazione pesa. Mia moglie sta cercando lavoro 71
da quattro mesi e non trova niente, poi c’è il mutuo da pagare, le bollette... Il lavoratore si sente inerme, privo di armi per contrastare questo momento di crisi. La speranza è che in qualche modo riesca a ripartire tutto, poter dare un futuro alle famiglie che sono qui dentro. La chiusura della Mabro sarebbe una perdita grandissima per Grosseto. Questa è la speranza per me e per tutti, soprattutto per i giovani che entrano oggi nel mondo del lavoro.
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«Questo lavoro ormai fa parte di me, non saprei immaginare la mia vita senza. In questo momento difficile la cosa più bella è il rapporto che c’è tra noi, siamo cresciute insieme, siamo una famiglia».
Rosina Sono nata e vissuta a Batignano. Studiavo all’Istituto magistrale ma per motivi familiari all’età di 17 anni scelsi di andare a lavorare. Grazie a delle conoscenze, e in particolare a quella del Favilli, nell’85 sono entrata in Mabro. Dalla scuola alla Mabro a stirare...beh, all’inizio volevo smettere. Ora sono disponibile allo stiro. Dopo ventisei anni questo lavoro mi piace, è parte di me, è il mio lavoro. Ho i miei ritmi, ho amicizie e legami forti. Il lavoro è una delle poche certezze della vita e se riesci a farlo bene ti dà soddisfazione. Questo è l’attaccamento al lavoro. Poi il fallimento dell’azienda...il primo mese sono andata nel panico. Il mio stipendio è mille e cento euro. Benché sia poco mi da tranquillità, posso fare dei piccoli progetti come comprarmi una macchina. Senza il mio stipendio, ho dovuto riorganizzare la mia quotidianità. Ho rinunciato ai viaggi con la mia macchina per spostarmi da Batignano a Grosseto, ho rinunciato alla palestra, alle uscite. Sono divorziata. Ho una figlia di vent’anni, Martina. Non ho aiuto dai genitori e non posso perdere il lavoro. Già ora per andare avanti faccio dei lavori extra. Martina sa che il momento è difficile. Anche lei si è dovuta adeguare: quello che c’è si divide, è una collaborazione familiare. Vive con me questa esperienza, le spiego le cose, ne parliamo. Non è preoccupata perché comunque vede che sono una donna che ha tante risorse. 73
Alla Mabro, tra noi, si è creato un legame confidenziale, siamo una comunità. La cosa bella che ti rimane è che sei cresciuta insieme alle altre. C’è stato uno scambio di esperienza. 26 anni della mia vita, sono diventata una donna qui. Sono cresciuta e mi sono formata qui.
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«Io sto vivendo questa situazione tragicamente, ho paura soprattutto per il futuro di mia figlia. È dura, ma siamo molto unite vogliamo ottenere condizioni migliori per tutti».
Simonetta Moschini Sono Simonetta Moschini, ho 48 anni e sono di Grosseto. Nella mia famiglia lavorava solo mio padre, io sono la seconda di tre figlie. Ero brava a scuola, mi piaceva e mi ero iscritta al commerciale. Nel frattempo vedevo mio padre che si sacrificava per noi, faceva due lavori: pescava e poi girava tutto il giorno in giro col camion per vendere il pesce. Decisi di non andare a scuola e di iniziare a lavorare in una piccola fabbrica di scarpe poi passai in una ditta di pantaloni. Poi tramite raccomandazioni (allora ci volevano) sono arrivata alla Mabro. Mi sembrava di aver fatto tredici al totocalcio! Da fuori, te la descrivevano come una cosa sicura. Questo lavoro mi è sempre piaciuto, lo sento mio, appartiene a me e ho sempre dato il massimo. Quando ero più giovane non ho mai saltato un giorno, anche quando avevo dolori alle ossa o mi sanguinavano le mani per l’allergia. Io facevo fermatura-paramontura (cioè le reverse delle giacche) e l’orlo delle giacche. Da quando è diminuito il personale e la produzione, le fasi sono state smistate; ora faccio tre, quattro lavori, quello che capita. Sono sposata con una figlia di quasi 14 anni. Mio marito è artigiano e il suo stipendio non basta. Il lavoro mi serve. Io mi sono sacrificata per la famiglia rinunciando a studiare, ma vorrei che mia figlia avesse più di me, che potesse andare all’università. Vorrei poterla aiutare, noi viviamo per lei.
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Sono pronta a fare di tutto, il lavoro non mi pesa. Ho 32 anni di contributi, con altri 8 potrei arrivare alla pensione. Se perdo il lavoro, senza il diploma, ho le gambe spezzate. Adesso rischio di non avere più la certezza per il futuro e la serenità per la vecchiaia. Tra noi siamo solidali, ci aiutiamo. Io sto vivendo tutto questo tragicamente, è quasi come un lutto. L’azienda occupata: non credevo che saremmo mai arrivati a questo. È una dura lotta ma speriamo di ottenere cose migliori per tutti.
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«Mi sono operata agli occhi e sono tornata a vedere. Con questi occhi nuovi voglio vedere un futuro diverso, sono fiduciosa».
Sonia Sono Sonia. In questo momento sono molto stanca. Ero un po’ dubbiosa rispetto a questa intervista...stanchezza, preoccupazione per tutto quello che sta accadendo, non trovo le parole per spiegare come mi sento. Vorrei dimenticare tutto e chiudere questo capitolo. Sono abituata a stare con i piedi per terra. Sono monoreddito e le difficoltà per me sono maggiori. Devo contare solo su me stessa. Ho sempre fatto così. Sono vent’anni che vado avanti in questo modo, facendo leva solo sulle mie forze. La paura per il futuro è tanta. A quarant’anni, chi ti prende? È tutto un insieme di cose che ti avvilisce e ti rende triste. Però in questo groviglio di tensione, di buio e di stanchezza un conforto c’è: ho fatto due interventi agli occhi, uno a giugno e uno a settembre, ho una malattia rara ma grazie a queste operazioni ho finalmente tolto gli occhiali, spessissimi, mi si è aperto un nuovo mondo. Questo è stato un dono bellissimo, mi ha permesso di ridare il giusto valore ad ogni cosa. Anche per il lavoro, mi ha cambiato tutto. Forse, con questi occhi nuovi potrei fare qualcosa di diverso...penso ad un lavoro come commessa. Prima della Mabro lavoravo nei campeggi, mi piace il contatto con la gente. Questo in fabbrica un po’ mi è mancato, lì ci vuole tanta attenzione. Io lavoro a mano, quindi qualche parola la posso fare, ma per chi lavora a macchina è diverso.
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Non avrei problemi a iniziare qualcosa di nuovo, mi aiuterebbe anche a motivarmi. Poi ci sta che faccia un buco nell’acqua, che non riesca a trovare nulla, ma questo pensiero oggi mi incoraggia e mi stimola. Dopo un periodo nero c’è sempre la luce. Come la fenice che risorge dalle ceneri. Forse alla fine tutto questo significherà un’opportunità per me. Tante volte l’ho provato nella mia vita, come per la vista, appena levata la benda dall’occhio mi si è aperto un altro mondo. Una luce in mezzo a tutto questo buio. Mi sento più sicura. Ho degli occhi nuovi. Ho la possibilità di leggere diversamente il mio futuro. Anche con più speranza.
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«Sono un’ottimista, vivo giorno per giorno. Ho paura di perdere il lavoro, senza non saprei come fare, ma voglio credere che tutto possa ricominciare».
Stefania Vignoli Mi chiamo Stefania Vignoli. Ho 43 anni. Lavoro alla Mabro dall’88, decisi di provare per curiosità, avevo fatto dei corsi come sarta. Sono entrata a vent’anni anche se i miei genitori preferivano che studiassi. A ventidue anni sono andata via di casa. Volevo viaggiare e per viaggiare dovevo lavorare. Mi facevo due viaggi all’anno. Era il mio scopo principale. Ho girato mezzo mondo, sono stata in Thailandia, Indonesia, ho girato l’Europa. A lavoro ci sono stati momenti di crisi ma ho avuto la fortuna di cambiare spesso mansioni: dalle giacche ai pantaloni, al taglio, al magazzino finito. Ora faccio i canapin, tele di interno giacca. Ho una bambina di 9 anni, Beatrice, e sono attualmente sola. Adesso mi trovo male. Non ci sono altre aziende simili nella zona e ho una bambina a carico. La mia è un’esigenza economica. Il padre di Beatrice mi aiuta per la bambina al 50 per cento (500 euro mensili), ma ci sono le spese per mangiare, per la casa, per mia figlia. A Grosseto vivo sola, io e mia figlia. Mio padre è morto e mia mamma ha quasi ottant’anni, vive sola a Roccastrada e non può aiutarmi. Questa è la mia giornata. La mattina porto mia figlia a scuola e vado a lavoro. Poi all’una esco e la vado a riprendere. Il pomeriggio devo stare con lei, quindi ho necessità di fare un lavoro part time. Se devo pagare una baby sitter preferisco fare il part time e stare con mia figlia per seguirla nella crescita.
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Senza questo lavoro è un disastro. Se penso al futuro mi vengono le crisi, ma vado avanti giorno per giorno, sono un’ottimista! Mi piacerebbe continuare a lavorare alla Mabro, ci sono legata dopo ventidue anni. Il rapporto con le colleghe è davvero sereno, adesso siamo molto coalizzate. A volte quasi mi manca la terra sotto i piedi...non lasci per la pensione, ma perché sei obbligata. Tra i più bei ricordi ci sono sicuramente le giornate in mensa, quando ci ritroviamo a parlare, a raccontarci. Poi il ricordo dei compleanni, delle nascite, dei matrimoni. Ma anche la soddisfazione di vedere un capo finito e esposto a Pitti Uomo a Firenze! Mi auguro di lavorare perché ne ho bisogno. Il mio futuro lo vedo alla Mabro. Con Beatrice, viviamo insieme questo disagio. Guardiamo il telegiornale e le faccio vedere cosa organizziamo. Ieri abbiamo messo in atto una forma di protesta davanti al nuovo centro commerciale col nostro slogan “Ex mabro: elegantemente vestire, elegantemente fallire” e Beatrice l’ho portata con me. Io e lei abbiamo un patto: io accontento un po’ lei, ma quando mamma deve fare una cosa lei mi segue. Adesso è preoccupata. Mi dice: “Mamma, ma noi diventiamo poveri?” oppure “Se fai un altro lavoro, non lavorare la notte”. Un domani che Beatrice sarà grande, spero anche di continuare a viaggiare… se avrò sempre un lavoro!
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«Ho paura di perdere tutto, non posso credere che un’azienda così grande possa chiudere.»
Stefania Ho 47 anni, vivo a Campagnatico da tanti anni. Ho iniziato a lavorare a 16 anni in una piccola fabbrica di Grosseto in Via Brigate Partigiane, lì ho passato dieci anni meravigliosi lavorando con altre ragazze che poi ho ritrovato tutte in Mabro. Alla Mabro sono arrivata nell’88. Per entrare qui ci sono volute spinte e conoscenze, a quei tempi era come entrare in Comune o in Provincia. L’impatto è stato forte, era troppo grande! Una fabbrica che non finiva mai, tanta gente, tanto rumore. Io sono la prima di quattro figli e dovevo aiutare la famiglia. Con le altre ho legato subito, bei ricordi, s’è riso tanto...Io facevo il giro maniche, ora sono sempre alle maniche, ma allo stiro. Sono separata e ho un figlio di 16 anni. Posso contare solo sul mio stipendio, anche se c’è il mantenimento per lui. Perdere il lavoro, per me, è come morire. Ci pago l’affitto, la macchina, le cose a mio figlio. Dove vado a 46 anni? Lui non mi chiede più i soldi per comprargli le cose, mi sta vicino. Quando noi dipendenti Mabro siamo andate col pullman a Firenze sono stata male e ancora di più quando è arrivato l’ufficiale giudiziario, era come se portassero via una parte di noi. Ho pianto tanto e mi viene da piangere anche ora...è stato traumatico. In questo momento non so cosa pensare...c’è la paura di perdere tutto. Sto aspettando, finché non vedo la fine cerco di andare avanti. Mi sembra impossibile che un’azienda così grande non ci sia più. Mi piace il mio lavoro e stare in mazzo alla gente. Mi auguro che la situazione si sistemi per tutte noi. 81
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«Mi piace molto il mio lavoro, mi ha dato la possibilità di realizzarmi come donna e come mamma per questo voglio pensare positivo e credere che torneremo a lavorare serenamente».
Stefania Sono impiegata presso l’ufficio commerciale. Lavoro in Mabro da sei anni, in questo momento sono in cassa integrazione come la maggior parte dei miei colleghi. Mi occupo dei rapporti con agenti e clienti italiani. Mi piace il mio lavoro, sono cresciuta professionalmente in questi anni, ho contatti con i clienti, c’è un forte interscambio con loro, è bello poter fare un lavoro in cui le relazioni sono importanti. Con il tempo si impara a conoscere i clienti, le persone che sono, nascono dei rapporti umani anche dalle semplici telefonate di tutti i giorni. E’ un lavoro dinamico che mi ha dato la possibilità di migliorare, di crescere, di realizzarmi anche fuori dall’ufficio con la possibilità di metter su famiglia, di sposarmi, di avere un figlio, di comprare una casa, su questo lavoro ho costruito la mia vita. Sono figlia di due operai della Mabro, per questo, quando sono entrata, l’impatto è stato tranquillo, l’ambiente mi era familiare. Il mio babbo lo conoscevano tutti, con la gestione Brozzi ufficio e produzione erano una sola cosa, la fabbrica era un tutt’uno. Sono state soprattutto le colleghe più anziane che mi hanno aiutata a crescere, passandomi il loro sapere; ricordo, in particolare, una collega, oggi in pensione, che agli inizi mi ha supportata e mi ha insegnato a lavorare bene. Il ricordo più bello di questi anni è sicuramente la maternità. L’ho vissuta
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in una fase critica per l’azienda, quattro anni fa. Ma forse proprio in quella crisi la mia forza è stata l’esperienza dell’attesa di mio figlio. È stato un momento particolarmente bello e insieme difficile della mia vita, dove ho sentito la vicinanza di tutta l’azienda. Ora spero. L’unica cosa da fare adesso, secondo me, è sperare. Dobbiamo dare spazio ai nuovi proprietari, dargli la possibilità di iniziare un lavoro serio per l’azienda, per gli impiegati e insieme per gli operai, perché oggi siamo una forza unica. Vogliamo iniziare a lavorare serenamente, se c’è la serenità si affronta tutto diversamente. C’è da operare con calma per arginare tutti i problemi. Sono stati mesi nervosi. Anche la famiglia ne ha risentito, nonostante mi sia sforzata di mantenere distinti i due ambiti. Ma siamo umani, le situazioni si intrecciano e si ripercuotono su ogni sfera della nostra vita. In generale, io cerco sempre di prendere il positivo delle cose. E ora mi godo mio figlio, questo in fondo prima non me lo potevo permettere…
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«Ho vissuto una vita difficile tra lavoro e figli, i problemi di salute e le bugie di mio marito non mi hanno certo aiutata, ma la fede nella Provvidenza mi ha dato la forza».
Testimonianza anonima Lavoro qui alla Mabro da trentuno anni e ho bisogno di questo lavoro per respirare. Ne ho bisogno per me e per i miei due figli di 25 e 18 anni. Sono due ragazzi meravigliosi, senza pretese, che mi hanno aiutata in una vita difficile, di lotte con mio marito. Un uomo dolce, a cui voglio bene ma che mi ha abbandonata dopo una vita di bugie e debiti; lui non è nato per la famiglia, da quando ci siamo lasciati, respiro. Il lavoro per me è importante e devo lavorare! Avere quelle mille euro al mese per gestirle; avere poco ma poterci contare. E soprattutto non avere debiti e debitori che ti aspettano sotto casa. Sono cattolica ed anche per questo la famiglia per me è tutto. Vivo per i miei figli e nel forte dolore di questa famiglia spezzata ho trovato un messaggio della Provvidenza, che mi ha messo alla prova. Sono contenta anche di questo. Come donna sono finita anche a causa dei problemi di salute, ma nel bisogno trovi la forza dentro di te. Chi regge la situazione? Mia madre, la nonna dei miei figli. Su di lei ci contiamo tutti, io, i miei figli ed una bisnonna. Quando i miei figli hanno bisogno della “cura ricostituente”, cioè di mangiare bene, li mando da lei e sto tranquilla. Nonostante tutto ho fiducia nella vita e spero in un mondo migliore specialmente per i miei ragazzi. Un futuro di valore. 85
«Dopo un po’ tutto diventa una routine, ti abitui ad un ritmo che ora non c’è più. È stato stravolto tutto, spero solo che l’azienda possa tornare quella che era». Testimonianza anonima Lavoro qui dal 2002, ormai sono otto anni. Questo è stato per me un lavoro collettivo diciamo, prima di venire qui ho fatto solo lavori individuali e sempre precari. Adesso inizio a essere un po’ scoraggiata da questa situazione. Gli anni in Mabro sono stati semplicemente otto anni di lavoro, una normale routine che adesso non c’è più. Sono entrata con un contratto a termine, la sicurezza è venuta dopo. Ti abitui ad un lavoro, prendi un ritmo e poi tutto viene stravolto, non rimane più nulla. Si doveva arrivare alla conclusione della vicenda un mese fa, invece si va avanti con questa tiritera senza sapere come andrà a finire. Il mio desiderio è che l’azienda si riprenda, che ogni cosa riparta come prima. E questo è tutto quello che mi sento di dire in questo momento.
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DOPO IL PASSAGGIO ALLA NUOVA PROPRIETÀ
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«In questa situazione ho cambiato le mie priorità, ora mi dedico molto di più alla mia famiglia, alle amicizie, ai miei interessi personali, perché la vita non inizia e finisce alla Mabro».
Francesca Sono a casa da lunedì. Da settembre 2010 l’azienda non c’è più stata. Adesso abbiamo ripreso un andamento normale con delle regole anche se è tutto apparente. Il lavoro non c’è, non ci sono commesse e siamo a casa. Ho imparato a rapportarmi con le persone, a capire le leggi. Mi do più possibilità perché mi sono resa conto che potrei fare qualsiasi cosa. Mi sento cambiata in meglio, sono più propositiva. La stima di noi stesse c’è a prescindere dal risultato. Ho scoperto una capacità di resistenza che non sapevo di avere, la vita non inizia e finisce alla Mabro! Mi è costato tanto, ho trascurato la famiglia. Le persone importanti, per me, sono mio marito e mia figlia e mi rendo conto che in questi mesi ho dedicato loro poco tempo. Il lavoro è importante ma io sono anche altro, una mamma, una moglie. Sono anche una responsabile Rsu della CGIL. Ognuno di noi ha tante sfaccettature da portare avanti. Adesso la priorità non è più la Mabro, le priorità sono la famiglia, le amicizie, gli interessi personali. Voglio ritrovare la voglia di divertirmi! Per il futuro non faccio grandi progetti, vivo giorno per giorno. Stamani ho messo l’insalata e i pomodori, ho curato i fiori. Mi dedico a quello che mi fa stare bene per avere serenità e tenere la mente sgombra dai pensieri. Poi se 89
mi chiamano tornerò a lavoro, o magari me ne inventerò un altro… Non conoscevo la Commissione Pari Opportunità, né sapevo che ci fosse la possibilità di chiedere aiuto, anche solo per parlare o per avere sostegno morale. Condividere i problemi ti aiuta a focalizzarli meglio e a sentirne meno il peso. Siete state preziose, presenti e disponibili. Cosa che non tutti hanno fatto. Sentirsi soli è brutto.
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«Quello che provo in questo momento è un senso forte di incertezza, di insicurezza per il futuro, ho paura di restare senza lavoro a 45 anni, spero solo che possa riprendere la produzione appieno».
Manola Sono rientrata a lavoro da cinque giorni. In questi mesi è cambiato tantissimo il modo di lavorare. Otto mesi fa c’era la disperazione ora c’è una consapevolezza diversa. Dopo tutto quello che abbiamo fatto non ci sembra di aver risolto le cose. Tante persone sono a casa e stare a casa è devastante, è una brutta sensazione. Poi un giorno ti richiamano e torni a lavoro, ma anche per quelle che sono rientrate non è più la stessa cosa. Lottare insieme ha voluto dire tanto: ci siamo unite e ci sentiamo parte del solito problema. Sono nel sindacato dal ’91. Noi Rsu in questi mesi abbiamo fatto un corso accelerato di dieci anni! Ha voluto dire tanto anche a livello culturale, capire le cose, parlare in pubblico e con le persone. Sono più sicura di me stessa. Però questa onnipotenza è nel bene e nel male. La responsabilità verso i miei colleghi è tanta. La paura di fare male, di sbagliare…e se sbagli la gente rimane a casa! E’ una responsabilità forte e pesante. Ho dovuto mettere da parte la famiglia con due bambini piccoli e per fortuna mio marito non me l’ha fatto pesare. Insicurezza, incertezza, la paura di perdere il lavoro a 45 anni. Dove vado?
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Prevedo tanta cassa integrazione: da ora a settembre dobbiamo fare duemila capi ma noi ci mettiamo 8 giorni! Speriamo che arrivino altri ordini per la prossima stagione per poter tornare a lavorare Il rapporto che si è instaurato con la Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto per noi è stato importantissimo. Non sapevamo nemmeno che esistesse una commissione per le pari opportunità. Sapere che, se abbiamo bisogno, possiamo chiamarvi e voi potete darci una mano in qualche modo è stato importante. Ci siamo sentite abbandonate da persone e enti pubblici che non ti aspetti…ma non da voi!
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«Stando a casa mi sono riappropriata del mio tempo, ma non è stato semplice, non ti liberi mai del tutto dalla preoccupazione. Vorrei tornare a lavorare per ricominciare a fare progetti con la mia famiglia».
Laura Quando feci la prima intervista lo scorso novembre la situazione era brutta. Poi c’è stato il momento della confusione, delle tensioni, l’occupazione in fabbrica. Ancora oggi niente è risolto, sono a casa, in cassa integrazione. Siamo ancora nell’incertezza. Questi mesi sono stati all’inizio particolarmente duri. Trovarsi improvvisamente a casa e confrontarsi con una realtà difficile da accettare non è stato semplice. Sei a casa ma non fai niente, hai la testa sempre occupata dai pensieri sul futuro. Con il tempo però ho imparato a sfruttare questo momento, mi sono dedicata alla mia persona, alla famiglia. Ho dovuto fare un cammino per riuscire a riappropriarmi del mio tempo, non ci sono riuscita da subito…c’era troppa tensione, gli incontri, le assemblee, la testa non riusciva mai a svuotarsi di tutta l’ansia della situazione. Dal futuro mi aspetto che il lavoro riparta. Vorrei sentirmi più scura, iniziare nuovamente a fare dei progetti. Con la mia famiglia vorremmo cambiare casa… Quest’esperienza di raccontare le nostre storie mi è piaciuta molto, è stata una valvola di sfogo per tutte noi. E’ stato un modo semplice ed immediato per far capire meglio al mondo esterno cosa concretamente stiamo vivendo. Ci siete state davvero di supporto. Anche durante l’occupazione, ricordo quando siete venute a trovarci con una cassetta di frutta… 93
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«Il sostegno e l’attenzione che la Commissione ha dedicato alle nostre storie sono stati importanti, hanno fatto sì che tutti conoscessero la grave situazione che stiamo vivendo. Io penso al domani con fatica, ma spero ancora in un raggio di sole».
Maurizio La situazione oggi è ancora da tenere sotto controllo. Mabro è come un malato da monitorare costantemente. Vengo ora da una riunione sindacale dove ho visto dei dati non troppo confortanti, il futuro è ancora molto incerto. Sì, ad oggi ci sono centocinquanta persone a lavoro, ma la strada è tutta in salita. Dal futuro ci si aspetta sempre le cose belle. Come quando, arrivando al 31 dicembre, si spera in un anno migliore di quello appena concluso, ma spesso la realtà è diversa. Oggi è difficile per tutti pensare al futuro, basta guardare alla situazione nazionale e internazionale, con fatica penso al domani…ma io in un raggio di sole ci spero, soprattutto per chi sta peggio di noi, senza lavoro e senza ammortizzatori sociali. Questa esperienza ha significato l’inizio di un rapporto importante con la Commissione Pari Opportunità, ha permesso di farci conoscere all’esterno, di dare visibilità a quello che stavamo vivendo, mettendo sul web le nostre storie. Quest’attenzione ci fa piacere; speriamo che questo percorso iniziato insieme possa continuare.
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«È un momento difficile per tutti, non c’è mercato, non c’è lavoro, ma la voglia di guardare al domani, di credere nel futuro c’è ancora. Io non mi scoraggio».
Catia La mancanza del lavoro ti toglie dignità, ti senti improvvisamente come svuotata. Dopo trentuno anni in fabbrica questa situazione mi ha tolto le forze: senza lavoro ti trovi senza tutto, sei privata della possibilità di pensare al domani, al futuro. Poi c’è il problema di arrivare a 47 anni e scoprirsi senza prospettive. Non si può andare avanti senza stipendio, si deve contare sul supporto dei figli, che per fortuna sono già grandi…se tutto questo fosse accaduto qualche anno fa sarebbe stato un disastro. Ancora oggi stiamo vivendo una fase difficile. A gennaio quando è iniziata questa nuova gestione mi sono detta: cerchiamo di non attaccare subito, di dare una possibilità e avere un po’ di pazienza, però ad oggi non c’è vendita, non c’è mercato. È vero che questo è un momento difficile per tutti, però sono già passati alcuni mesi e non è cambiato molto… Al momento lavoro la mattina, dalle 4 alle 6 ore, oggi dovevo staccare alle 12.00, ma alle 11.00 mi hanno detto che potevo andare a casa perché non c’era più lavoro. È brutto, perché in queste situazioni ti viene a mancare il valore e il senso di quello che fai. Io però non mi scoraggio.
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Anche il sindacato è stato importante in un’azienda come la nostra. Tra di noi il clima a tratti è conflittuale, c’è chi lavora e chi è ancora a casa…per questo ci sono degli screzi, ma è una guerra tra poveri. La tensione c’è, non esasperata, ma c’è, come è inevitabile che sia... Al momento è tutto stazionario, purtroppo non ci sono grandi novità. La speranza è che si riapra il mercato, il campionario presentato a Pitti ha avuto un buon successo, ma ora questo prodotto va venduto. Se si vende c’è anche lavoro per noi. Ormai del passato e dei suoi errori è inutile parlarne, questo è il momento di credere nel futuro.
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Don Enzo Capitani Presidente della Fondazione L’Altra Città
Ho letto con molta attenzione le interviste ai dipendenti della Mabro raccolte negli ultimi mesi da alcuni membri della Commissione per le Pari Opportunità e sul momento ho pensato che non vi fossero molte differenze con le storie che, venendo a contatto con numerose persone, ho la fortuna (o la sfortuna) di ascoltare nel corso delle mie giornate. Si tratta di storie di precarietà, di sofferenza, di impotenza, di fragilità, di rabbia, di disperazione che si susseguono una dietro l’altra, le une simili alle altre, come fossero fabbricate in serie, specie in questa particolare congiuntura economica in cui la crisi ha sgretolato molte delle certezze su cui le persone credevano di poter fare affidamento per realizzare i propri progetti di vita. Poi, in un secondo momento, ho lasciato che le emozioni suscitate da una prima lettura di queste storie si decantassero nella mia mente, permettendogli di ritrovare la propria individualità rispetto alle altre che quotidianamente ascolto, ed ho iniziato a capire. Ho capito che la Mabro non è non stata un’azienda qualunque per i grossetani. Ho capito che la precarietà, la sofferenza, l’impotenza, la fragilità, la rabbia e la disperazione nascondevano tra le righe anche altri sentimenti quali l’orgoglio, la gioia, la perseveranza, la forza di volontà e la determinazione di un gruppo di persone che hanno fatto della Mabro un luogo di identità comune dove si cresce, si condividono i momenti essenziali della vita, si impara a rivendicare i propri diritti e ad alimentare le proprie aspirazioni.
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Ma ho anche capito che si trattava per lo più di storie di donne. Donne per cui il lavoro ed in particolare l’arrivo alla grande azienda hanno rappresentato un momento fondamentale della propria vita. Figlie, mogli, madri che, grazie al lavoro alla Mabro, sono riuscite a realizzare le diverse aspettative che avevano maturato sia sul piano personale che su quello familiare. Una fabbrica (o forse sarebbe meglio dire la Grande fabbrica), la Mabro, in cui molte sono approdate giovanissime, in cui sono cresciute e divenute donne grazie alla condivisione e al confronto reciproco nella quotidianità. Un luogo che ha permesso a molte di loro, attraverso i diritti conquistati e l’applicazione delle norme a tutela del lavoro femminile, di poter coniugare lavoro e famiglia e realizzare in concreto quello che ancora oggi per molte altre donne rimane un diritto “di carta”. Ed è proprio per questo che le storie raccolte in questa pubblicazione lasciano in bocca un sapore molto amaro. Amarezza al pensiero che luoghi di lavoro come la Mabro, che molto hanno consentito alle donne e molto da esse hanno preso ed appreso, vengano meno sotto la scure di un economia sempre più distorta e votata al profitto dove l’orgoglio, la forza di volontà, la coesione e la rivendicazione dei propri diritti sembrano destinati a non trovare cittadinanza. Amarezza al pensiero che le nuove generazioni, soprattutto di donne, rischiano di non conoscere la bellezza della coesione tra colleghe sul luogo di lavoro come accaduto a Rosina: “[…] alla Mabro, tra noi operaie, si è creato un legame confidenziale, siamo una comunità. La cosa bella che ti rimane è che sei cresciuta insieme alle altre. C’è stato uno scambio di esperienza. 26 anni della mia vita, sono diventata una donna qui. Sono cresciuta e mi sono formata qui”;
o dare per scontati i propri diritti ed il riconoscimento della dignità anche professionale di una donna, ignorando i percorsi anche di sofferenza che vi hanno portato, come ricorda Emanuela:
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“e poi i primi scioperi. Io, che prima lavoravo nel settore di piccole imprese artigiane, non l’avevo mai fatto e chiedevo “ma lo posso fare?”. E l’assemblea, che cos’è? Io non avevo mai partecipato a questi momenti. Ho dato il meglio della mia vita a questa fabbrica. E’ stato troppo bello riuscire a raggiungere e ottenere ciò per cui lottavamo, il premio di produzione, il miglioramento dello stipendio […]”;
o non avere la consapevolezza che sono state le donne, unite tra loro, a cambiare la vita delle donne ma non solo come ci ricorda Giulietta […] tutta la famiglia, compreso mio marito, è con me. Penso a quando chiuse la Paoletti, un’azienda di biancheria di Castiglione. Erano gli anni Ottanta, le donne scioperavano e ricordo che i mariti non volevano che facessero tutto questo rumore, che occupassero la fabbrica. Invece martedì quando sono arrivati gli ufficiali giudiziari alla Mabro c’erano tanti mariti. I tempi sono cambiati ... anche per le donne [...]
Prendendo a prestito le parole di Francesca mi auguro che “chi leggerà questa raccolta possa capire che dietro una fabbrica che chiude ci sono le storie di centinaia di persone, storie che hanno il diritto alla speranza in un lieto fine”.
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Provincia di Grosseto Questo volume è stato stampato presso Grafiche Vieri srl / Roccastrada (GR) Stampato in Italia - Printed in Italy nel mese di febbraio 2012
Parole, storie, testimonianze da un’azienda in crisi. Dalla Commissione Pari Opportunità un reportage a sostegno delle donne e degli uomini della ex Mabro.
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