Leggere, scrivere, far di conto

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Egidio Guidolin

Egidio Guidolin nato a Rosà, in provincia di Vicenza, antiquario, restauratore, collezionista, ha messo insieme oltre a quella sulla scuola, una ricca raccolta di stampe oleografiche e cromolitografiche di soggetto religioso e profano, vendute da venditori ambulanti tesini (Trento) in tutto il mondo.

“Non è bello esser bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini”

Un secolo della nostra storia sui banchi dopo l’Unità negli arredi e oggetti d’epoca

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

«Abitavo in una borgata di campagna, distante dal centro del paese e dalla scuola elementare un paio di chilometri. Quando si partiva al mattino, a piedi naturalmente, sia con il bello sia con il brutto tempo, eravamo una bella squadretta e mano a mano che ci si avvicinava alla scuola il gruppo s’ingrossava con l’arrivo dei bambini delle altre borgate. All’andata non ci si distraeva molto perchè bisognava arrivare puntuali al suono della campanella. La scuola era un edificio degli anni ’30. L’ora della ricreazione era la più attesa, la merenda povera, ma era più importante fare capannello e confrontarsi con le figurine per gli scambi. Al termine delle lezioni, appena poco dopo il cancello, sul marciapiede sterrato c’era il cerchio disegnato per terra, dove si giocavano delle partite a biglie di vetro colorate, uno dei miei giochi preferiti. Il ritorno a casa serbava sempre novità e sorprese, e una delle cose che amavamo di più erano le “battaglie” a sassi tra contrade diverse, con le cartelle usate come scudi. Si davano e si prendevano, ma mai nessuno si lamentava, anzi. La strada che si percorreva era costeggiata da due belle siepi che nascondevano molti nidi d’uccelli, che noi non mancavamo di cercare... Eravamo davvero felici. Forse è per recuperare quei giorni che da tanto tempo raccolgo questi oggetti, questi ricordi, questi pezzetti di felicità». Egidio Guidolin

ISBN 978-1-56592-479-6

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con la prefazione di

Gian Antonio Stella 9 781565 924796

In copertina, acqurello di Antonio Veronesi del 10 luglio 1931 realizzato su un piccolo album ricordo per una sua amica di classe delle scuole superiori. Sicuramente inspirato allo stile di Aurelio Bertiglia, famoso illustratore di cartoline per bambini.


© 2013 Egidio Guidolin 4

Ricerca storica, foto e testi a cura di Egidio Guidolin

Impaginazione e progetto editoriale: Publileo s.r.l. - Mira (VE) Stampa: Europrint s.r.l. - Quinto di Treviso (TV)

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Sommario

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Prefazione di Gian Antonio Stella Un secolo di Scuola Elementare 1859-1959 Palazzetti e catapecchie, gli edifici scolastici Povere scuole, poveri maestri Bacchettate si o no? I dubbi sulla disciplina Il mondo in una stanza Ragazzi, tutti fuori! Le lezioni all’aperto Scolari di città Scolari di campagna I patronati scolastici Le campagne contro la Tbc e le malattie infettive Bella Italia, bella scrittura Più sani, più belli. Per essere patrioti Pittori in erba Piccole donne crescono Un’unica Patria ma tanti dialetti Lettura espressiva e lavori donneschi: che fatica il pezzo di carta... Compendi, antologie e sussidiari Italina, Somarino e i libri di lettura Buone vacanze! (ma fate gli esercizi...) I quaderni, biografia di un Paese “Il Fascismo ama la Religione e ammira e venera i Santi...” “L’occhio del Duce brilla / vivo nei suoi Balilla” L’alunno Said, a lezione di italiano: i sussidiari delle colonie Katakombenschulen. La scuola delle Catacombe Che bontà la cioccolata di Mister Marshall E ogni papà s’inventava una cartella L’astuccio, lo scrigno dei piccoli tesori Occhio alla macchia: le cannucce e i pennini La stilografica, piacere elegante La scelta della praticità: tutti con la “biro” e “bic” In principio fu la reclame L’arte di arrangiarsi o del fai da te Berretti, maglie della salute, gilet: il mito della lana Noci, fionde e figurine nelle tasche dei bambini E dopo la scuola, Corrierino e Vittorioso Caro papà, adesso che so scrivere... Soldino su soldino: la giornata del risparmio È analfabeta, non può votare Tema di osservazione: le donne lavano al torrente

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Storie di maestri, scolari, zoccoli e mosconi

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Il maestro di scuola Giovanni Mosca si impossessò degli alunni della sua prima classe abbattendo con la fionda un insetto. Sarebbe diventato un formidabile cronista, vignettista e scrittore ma in quel 1928 aveva solo vent’anni, ne dimostrava sedici e dopo essere stato accolto dal direttore con un brontolio di esasperazione («Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta, baffi e barba da Mangiafoco...») era stato gettato dentro la sua aula come un gladiatore nell’arena. Dalla porta «si udivano grida, crepitii di pallini di piombo sulla lavagna, spari di pistole a cento colpi, canti, rumore di banchi smossi e tascinati». Appena" entrò", un Lucignolo di nome Guerreschi, subito imitato da tutti gli altri 39 alunni, gli puntò addosso una fionda caricata a pallini. Lo trasse d’impaccio, improvviso, un ronzio: «Un moscone era entrato nella classe, e quel moscone fu la mia salvezza. Vidi Guerreschi con un occhio guardare sempre me, ma con l’altro cercare il moscone, e gli altri fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono, e io capii la lotta che si combatteva in quei cuori: il maestro o l’insetto? Tanto può la vista di un moscone sui ragazzi delle scuole elementari. Lo conoscevo bene il fascino di questo insetto: ero fresco di studi e neanch’io riuscivo ancora a rimanere completamente insensibile alla vista di un moscone». «Improvvisamente dissi: “Guerreschi” (il ragazzo sobbalzò, meravigliato che io conoscessi il suo cognome), “ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?”. “È il mio mestiere”, rispose Guerreschi, con un sorriso. Un mormorio corse tra i compagni. Le fionde puntate contro di me si abbassarono, e tutti gli occhi furono per Guerreschi che, uscito dal banco, prese di mira il moscone, lo seguì, la pallina di carta fece: den! contro una lampadina, e il moscone, tranquillo, continuò a ronzare come un aeroplano». «“A me la fionda!”, dissi. Masticai a lungo un pezzo di car-

ta, ne feci una palla e, con la fionda di Guerreschi, presi, a mia volta, di mira il moscone. La mia salvezza, il mio futuro prestigio erano completamente affidati a quel colpo. Indugiai a lungo, prima di tirare: “Ricordati”, dissi a me stesso, “di quando eri scolaro e nessuno ti superava nell’arte di colpire i mosconi”. Poi, con mano ferma, lasciai andare l’elastico: il ronzio cessò di colpo e il moscone cadde morto ai miei piedi. «“La fionda di Guerreschi”, dissi, tornando immediatamente sulla cattedra e mostrando l’elastico rosso, “è qui, nelle mie mani. Ora aspetto le altre”. Si levò un mormorio, ma più d’ammirazione che d’ostilità: e uno per uno, a capo chino, senza il coraggio di sostenere il mio sguardo, i ragazzi sfilarono davanti alla cattedra, sulla quale, in breve, quaranta fionde si trovarono ammonticchiate. Non commisi la debolezza di far vedere che assaporavo il trionfo. Calmo calmo, come se nulla fosse avvenuto: “Cominciamo coi verbi”, dissi. “Guerreschi, alla lavagna”». L’aula in cui si svolse quella piccola grande avventura umana e didattica era uguale nei banchi, nella lavagna, nel calamaio e la carta geografica e il mappamondo e proprio tutto compresa quella specie di «trinità fascista» rappresentata nei ritratti alla parete con il Papa Pio XI, il re Vittorio Emanuele III e al centro il Duce, a quella esposta nella mostra «Leggere, scrivere, far di conto...» sulla storia della scuola italiana. Un’esposizione straordinaria. Dovuta all’amore di un antiquario, Egidio Guidolin, che da decenni raccoglie pezzo su pezzo le memorie delle nostre Elementari dall’inizio dell’800 ma in particolare dall’Unità d’Italia al Secondo dopoguerra. Un secolo e mezzo di vicende patrie, di lotta all’analfabetismo che al censimento del 1861 era intorno al 78%, di conquiste coloniali, di rapporti con i Savoia, di indottrinamento fascista pianificato in ogni dettaglio perfino


nei primi elementi di fisica («Il passo romano di parata è un esempio di moto uniforme») e nei compitini di aritmetica: «In una scuola ci sono 112 Figli della Lupa, 385 Piccole Italiane e 412 Balilla. Quanti sono gli iscritti alla gioventù italiana del Littorio, in quella scuola?». C’è un quaderno, esposto, con una casetta tra i campi sotto un sole giallo e una contro-copertina firmata da Margherita Sarfatti, la scrittrice veneziana che prima di dover pagare un prezzo carissimo al suo essere ebrea, fu l’entusiasta biografa («Romano nell’anima e nel volto, Benito Mussolini è una resurrezione del puro tipo italico, che torna ad affiorare oltre i secoli...») e l’amante del Duce. «C’era una volta un paesino piccolo piccolo, in mezzo a una campagna grande grande, che la fatica dell’uomo rendeva verde di erba e biondo di grano. In mezzo al paesino stava un casone...», narra quella favoletta tenera tenera. E ricostruisce, come una nuova Natività littoria, la vita di un bravo fabbro che batte l’incudine e della sua brava moglie maestra finché un bel giorno «Dio mandò in dono il primo bambino. Era Mezzogiorno e tutte le campane dicevano che andava bene. E le erbe dei prati sussurravano al vento: “C’è una novità”. E le pietre della Torre delle Camminate, sulla collinetta del villaggio, sorridevano al sole: “abbiamo visto tanta gente e tanti anni, ma adesso viene più bello”. Il fabbro aveva nome Alessandro e la maestra Rosa, il più dolce fiore; ed erano gente nata da quei contadini che di papà in figliolo fecero la nostra Italia bella come un giardino. E il bimbo, nato all’Italia quella domenica di sole del 1883, si chiamava Benito Mussolini». Anche il futuro dittatore aveva cominciato facendo il maestro ma dopo una prima esperienza a Gualtieri Emilia («Lasciai le mie fidanzate e partii...») e una seconda a Tolmezzo, decise di lasciar perdere a causa di un motivo inimmaginabile per un uomo che a suon di manganella-

te si sarebbe impadronito dell’Italia: «Sin dai primi giorni m’avvidi che la professione del maestro non era la più indicata per me. Avevo la seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali anche incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo. Appena settantacinque lire mensili. Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin da principio il problema disciplinare». Non c’è un solo pezzo, nella collezione preziosa ed emozionante di Guidolin, che non aiuti a ricostruire l’intera nostra storia. Ed ecco la mappa geografica in cui l’Italia si allunga da Trieste nell’Istria e giù giù lungo la costa dalmata fino a Sebenico. Ecco la circolare del Prefetto del dipartimento del Bacchiglione del Regno d’Italia napoleonico che nel 1811 raccomanda che «sia proscritto il riprovevole abuso di percuotere i fanciulli». Ecco il diario di una maestra che racconta dei suoi scolari che non vengono a scuola perché già piccolissimi devono aiutare i genitori: «Oggi due che erano stati assenti da molti giorni si sono presentati, stanchi assonnati perché dalle due del mattino erano stati nei campi a lavorare». Ecco le cartelle per i libri e i quaderni costruite da poveri ma industriosi papà con assicelle di legno. Ecco il cartellone che spiega come i bambini «non» devono stare seduti sui banchi di scuola. Ecco un quaderno per la Bella Copia che ricorda come «l’Italia sopprime catene, procura civiltà». Una teoria presa dalle tesi schiettamente colonialiste e intrise di razzismo del cardinale milanese Ildefonso Schuster che, del tutto indifferente al fatto che la Chiesa cristiana etiope fosse stata fondata da San Frumenzio ai tempi di Costantino il Grande nel quarto secolo d.C., invitava i cattolici a collaborare con le truppe fasciste e «con Dio in questa missione nazionale e cattolica di bene, soprat-

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tutto in questo momento in cui sui campi di Etiopia il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana le strade ai Missionari del Vangelo... Pace e protezione all’esercito valoroso, che in ubbidienza e intrepido al comando della Patria, a prezzo di sangue apre le porte di Etiopia alla Fede Cattolica ed alla civiltà romana».

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E poi le scarpine e gli zoccoli che ricordano la povertà dei nostri nonni. E gli astucci intagliati a mano nel legno di ciliegio. E l’Alfabetiere mobile figurato dove la «A» era abbinata all’aquilone e non all’aereo e la «C» alla ciliegia e non al computer. E poi il rarissimo «Verso la vita», un «sillabario fonico» bilingue edito a Tripoli e scritto a quattro mani da Scek Mohammed Kamel El Hammali e Baldassarre Indelicato dove ai bambini arabi della Libia italianizzata viene mostrato ad esempio come tenere la bocca per pronunciare la «O» oppure la «E». E ancora lo «scalda-mani» da riempire di braci ardenti per affrontare con qualche consolazione certe giornate d’inverno che nelle scuole di montagna dovevano essere tremende, come ricorda nel suo diario il maestro Emilio Alchini di Vallada Agordina, che girò per diversi anni nelle più remote contrade: «Oggi pochi gli assenti ma il freddo e la mancanza di legna non mi permisero di fare le mie lezioni regolari perciò (...) feci ginnastica, canto, calcolo orale...» Angoscianti le annotazioni di un’altra mattinata di gelo: «Non è possibile tenere la penna in mano. I ragazzi piangono dal freddo...» È la biografia di una nazione, quella esposta nella mostra «Leggere, scrivere, far di conto...» Una biografia dove si susseguono gli anni risorgimentali e quelli della destra storica, gli anni giolittiani e quelli fascisti, gli anni della guerra (terribile il volantino «Attenzione alla bomba-farfalla: In questi giorni aerei nemici hanno lanciato, in di-

verse località della nostra provincia, parecchie centinaia di piccole bombe...») e i primi anni della ricostruzione. Una cosa emerge netta. E cioè che in un secolo e mezzo siamo diventati più ricchi e anche se le angosce di questi anni oscurano il resto non va dimenticato che (lo ricorda Luca Paolazzi in «Libertà e benessere in Italia») dall’Unità al 2007 prima che scoppiasse la crisi, «il reddito medio degli italiani è salito di otto volte e mezzo (il Pil per abitante è passato dall’equivalente di 2.500 a 21.700 euro, in potere di acquisto del 2000), la vita si è allungata da trenta a ottant’anni, l’analfabetismo in senso stretto è stato sradicato...» Eppure nella povertà e nel benessere e di nuovo nella crisi c’è un filo rosso che unisce tutto: la perenne avarizia verso la scuola. L’unica consolazione, per i maestri di oggi, è che almeno non sono più chiamati a eroismi come quelli richiesti ai loro predecessori. Spiega ad esempio una ricerca di Daniela Belluschi che verso il 1880, nell’Italia del «Cuore» in cui la mamma incitava Enrico a pensare «alle tante maestre che son morte giovani, intisichite dalle fatiche della scuola, per amore dei bambini, da cui non ebbero cuore di separarsi», una giovane maestra guadagnava appena 450 lire l’anno e un maestro 550, quando muratori o fabbri ne prendevano dalle 650 alle 800. Una sproporzione che la dice lunga. Poveri loro, poveri gli alunni. Lo stesso Mussolini ricordava che a Tolmezzo si ritrovò con bimbi che arrivavano in classe a piedi nudi e coi vestitini laceri e le mani sporche al punto di fargli scrivere che «non si può pretendere un foglietto pulito da un bambino che fa il compito nella stalla». Diversi anni dopo il giovane maestro Leonardo Sciascia, che viveva alla scuola con «lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie», annotava turbato: «La distribuzione delle scarpe ai più bisognosi (due nella


mia classe), ha riempito gli altri di recriminante invidia». E Don Milani tuonava tutta la sua indignazione per la vita che facevano i suoi ragazzi per raggiungere la sua scuola di Barbiana: «Luciano camminava nel bosco quasi due ore per venire e altrettanto per tornare». Placido Cerri fu spedito come primo incarico a Bivona, provincia di Agrigento, dove arrivò dopo un viaggio interminabile a dorso di mulo lasciando la padrona della pensioncina stupefatta perché era senza scorta: «Ma vi sono briganti per queste montagne?», chiese. «Oh, briganti veramente no, ma vi sono tanti malviventi». La maestrina Tecla Guadagnin, nel diario esposto nella mostra curata da Guidolin, racconta di come ci mise cinque giorni a raggiungere, a dorso di mulo, la «sua» misera scuola alle sorgenti dell’Isonzo, oltre Caporetto. Una camera sopra l’ovile, il tetto rotto, «per letto un lurido saccone di fieno con coperta tolta al mulo della guardia di frontiera». E lei che sospirava sul ritornello di una canzone: «O maestrina della montagna / non ci badar se la neve ti bagna / cuore temprato, pieno d’ardor / tu sei del confine il solo bel fior». Era tutto, per quei maestri, la scuola. Erano pagati una miseria, certo, ma il loro non era un lavoro come tanti, e tanto meno svalutato agli occhi della società come oggi. La grande poetessa Ada Negri, che aveva scelto quel mestiere per non «logorarsi in un opificio come la madre, o divenir serva di signori in gioventù e portinaia in vecchiezza, come la nonna», scrisse di essere costretta a fare i conti con «ottanta o novanta diavoli scatenati, che m’irrompevano nell’aula, in gran parte sporchi, puzzolenti di concio e di stalla, pieni di pidocchi e di monellerie». Ma assicurò di sentire al suo fianco i genitori che, cosa adesso inimmaginabile, l’incitavano ad essere dura: «Certe povere mamme col giallore della pellagra in faccia, incontrandomi per via, mi gridavano a bruciapelo:

“Giù botte, sa, sciôra maàstra. Non abbia paura: non c’è altro da fare con quel barabba del mio ragazzo: l’è a fin de ben.”» Ma non si capisce fino a che punto la scuola potesse essere una missione se non si legge «Il maestro di Vigevano» di Lucio Mastronardi: «Ho il figlio malato, potrei andare a casa mezz’ora? - domandai. Il direttore mi guardò scuotendo la testa. - Le voglio raccontare un aneddoto, signor maestro Mombelli. Quando noi eravamo ancora maestro, capitò che mio padre stava morendo. Noi andammo a scuola e ci dimenticammo che nostro padre stava morendo. Questo perché? Perché, signor maestro, le preoccupazioni personali non si devono portare nell’aula scolastica. Ma pensi, signor maestro Mombelli, ai missionari, pensi che la nostra è una missione. Mi faccia vedere il registro, signor maestro! Sfogliò il registro e si portò le mani nei capelli. - Signor maestro, stia attento alle anellate! La elle deve toccare la riga superiore; la effe deve toccare quella superiore e quella inferiore; la di invece è l’unica anellata che non deve toccare la riga superiore ma deve fermarsi poco sotto, alla stessa altezza della t... Ah! Non c’è un’anellata che sia ben anellata, signor maestro! Vede qui: la bi è più alta della elle; la g è più bassa della effe. Ma, signor maestro, il registro è un documento ufficiale! Io guardavo per terra le sue scarpe pensando: “Ha le dita ai piedi!”»

Gian Antonio Stella

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Bacchettate si o no? I dubbi sulla disciplina Cara maestra Negri, lo picchi quel barabba di mio figlio! «Certe povere mamme col giallore della pellagra in faccia, incontrandomi per via, mi gridavano a bruciapelo: “Giù botte, sa, sciôra maàstra. Non abbia paura: non c’è altro da fare con quel barabba del mio ragazzo: l’è a fin de ben”». (Ada Negri, «Sorelle», 1929)

“Non riesco a imporre l’ordine”, firmato Mussolini

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«Sin dai primi giorni m’avvidi che la professione del maestro non era la più indicata per me. Avevo la seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali anche incorreggibili e pericolosi monelli. (...) Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin da principio il problema disciplinare». (Benito Mussolini, «Opera omnia», Firenze 1951-1963) Da sinistra: “Della educazione”, di Raffaello Lambruschini, Paravia, Torino, 1916. “Regole per gli alunni”, del Collegio Vescovile Graziani di Bassano del Grappa, Bassano, 1936. “Pensieri su l’educazione”, di Giovanni Loche, Luigi Trevisini Editore, Milano, 1918.


“Percuotere li fanciulli riprovevole abuso” Interessante manifesto della prima metà dell’800 nel quale fra l’altro viene “proscritto il riprovevole abuso di percuotere li fanciulli” perché “si usano dei modi di correggerli molto irragionevoli e di pregiudizio massimo alla loro età”.


Il mondo in una stanza

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Conoscendo la situazione degli edifici scolastici nell’Ottocento e nel primo Novecento, possiamo immaginare quali potessero essere gli arredi, soprattutto nelle scuole rurali e di montagna: pochi, spesso fatiscenti o non idonei. Solo gli scolari di città avevano arredi e materiali didattici adatti alla loro funzione, e il divario tra campagna e città era enorme. Spesso erano i maestri o le maestre che sopperivano personalmente a queste carenze, con la fantasia ma anche e soprattutto con il “fai da te”. I Comuni, cui spettava questa competenza, per mancanza di fondi o anche per noncuranza e disinteresse, non hanno mai investito nella scuola, soprattutto nelle elementari. Fu dopo gli anni Venti del Novecento che l’interesse per la scuola portò alla costruzione di nuovi edifici con criteri più moderni e nuovi materiali. I maestri dovevano presentare ogni anno l’inventario degli arredi dell’aula nella quale insegnavano. Molte ditte fornitrici di materiale scolastico predisponevano uno stampato nel quale erano elencati gli oggetti necessari. Curiosità interessante: al primo posto, sia negli inventari sia nei stampati pubblicitari, veniva elencato il crocifisso e poi via via tutto il resto. A metà dell’Ottocento i banchi erano a posti multipli con panche indipendenti e potevano ospitare fino a dieci alunni, erano scomodi, pesanti e non tenevano in considerazione gli aspetti ergonomici. Nel 1860 diventarono da sei a dieci posti sul modello di un prototipo tedesco adattabile a lezioni sia diurne sia serali. Nel 1880 una Commissione di igiene scolastica suggerì la progettazione di un banco a due posti. Nel 1877 si costruirono nuovi sedili con leggio scorrevole e seduta mobile individuale. Il problema rimaneva quello dell’adattabilità degli alunni delle scuole sia diurne, sia serali. Era previsto l’utilizzo del legno di noce per le parti principali e legno di pioppo per quelle secondarie, il sedile era leggermente concavo e il poggiapiedi


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Bellissime tavole numeriche da appendere in aula, disegnate e dipinte a mano dalla maestra Luigina Mazzarolo di S. Zenone degli Ezzelini (TV).



A sinistra, radio utilizzata nelle scuole elementari italiane. La più comune e venduta agli istituti o altri enti pubblici era la “radio rurale” e anni dopo la “radio balilla”. A destra, raccontino propagandistico fascista: l’indottrinamento degli scolari era per il regime importante quanto l’insegnamento della lingua o della aritmetica.

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Mensola a terra costruita come indicato nel libro dell’Agazzi, con sopra lavoretti di educazione civica fatti dagli alunni della scuola di Formegan (BL).


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Cartellone murale delle malattie infettive più comuni dell’epoca. L’impatto visivo era molto intenso ed aiutava gli insegnanti nella loro giornaliera battaglia alla pulizia e all’ordine.

Sulla copertina di questo libretto illustrativo è raffigurato l’automezzo attrezzato appositamente per la campagna antitubercolare che girava principalmente nelle zone rurali.


Bella Italia, bella scrittura

Testo scolastico per bella scrittura. Esempio di bella scrittura dell’educanda Angelina Rossi, del 1870. 62

Un tempo la bella scrittura era una materia scolastica e il suo insegnamento era affidato ai maestri nella scuola elementare e ai docenti abilitati alla discipina nelle scuole superiori. Inizialmente era argomento della Lingua italiana, poi la materia fu associata al disegno come Calligrafia, nel 1923 diventò Bella scrittura, nel 1945 Disegno e Bella scrittura e infine Disegno e Scrittura. L’obiettivo era quello di “Far acquistare agli alunni l’abitudine di una scrittura chiara e snella che è di tanta utilità negli usi della vita” e “la mira indiretta di educare all’attenzione, alla precisione, alla pazienza e all’amore dell’ordine”. Gli esercizi di “scrittura per imitazione” si facevano su “modelli” detti anche “esemplari”. Il maestro non controllava solo la corrispondenza con il modello imitato, ma anche la postura del corpo, l’impugnatura del pennino, la provenienza della luce. Il mancinismo non era tollerato, quindi si scriveva solo con la mano destra.


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Testi per insegnare la bella scrittura. Ne esistono molti perchÊ la bella scrittura era un’importante materia scolastica, soprattutto nell’800.


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Amatissimi genitori vi faccio sapere che noi stiamo tutti bene così speriamo sia di voi tutti, e la mia mamma che penso sempre il giorno e la notte la sogno, che mi sembra di parlarti una notte mi sognai che eri venuta trovarmi, mi dicevi che hai fatto presto venirmi trovare e io non mi sentivo degna di averti vicino, ma poi restai delusa, ma coraggio che ormai gennaio non ci fa più paura e poi se cambia l’aria chissà che puoi alzarti ancora. Volete sapere se sono stati aperti i pacchi, si i pacchi li hanno scuciti da una parte, eppoi li hanno dato quattro cuciture lunghe, e la cassa mi è arrivata senza lucchetto hanno tolto i ganci ma hanno guardato solo sopra, solo dove c’erano la macchina e paiolo non hanno neanche guardato non mi è mancato niente. Io invece mi hanno fatto aprire solo che la cassettina, e i pacchi non li hanno neanche guardati mi hanno chiesto se c’è roba nuova e ho risposto di no. Vi faccio saper che vanno

Quattro facciate della lettera scritta dalla giovane emigrante in Francia che si firma Eufrasia di Laghi di Cittadella (PD). La possiamo vedere nella foto di famiglia nella pagina seguente. È curioso leggere lo scritto in dialetto italianizzato che fa capire il livello di alfabetizzazione degli anni ’20.

a scuola a Lagorce sono tre chilometri di strada ma vanno volentieri tutti e due per il mezzogiorno si portano pane e cioccolata una bottiglietta di latte hanno imparato tante parole francesi, hanno fatto amicizia con i Francesi, e vogliono loro bene, hanno dato loro delle palle di gomma e così imparano anche a parlare, vanno a scuola anche due figli di quello della Rosa una bambina e un’altro da otto anni ma sono tanto cattivi che nemmeno la maestra non può vederli li mettono sempre in castigo, di casa abitano un quarto d’ora da noi abbiamo della terra vicino alla sua, anche ieri siamo andati a lavorare nel bosco vicino a casa sua, abbiamo raccolto legna per l’anno venturo, dodici mucchi di fascine e inoltre i pali, qui c’è sempre da lavorare, vedessi i nostri padroni dal mattino fino alla sera sempre fuori nei campi o nei boschi, qui si rastrella il frumento dall’erba con i rastrelli di ferro, hanno 5 denti larghi, io pensavo si sradicasse tutto ma invece no fanno i solchi alti e per rastrellarli si va in giù per mezzo e in su per l’altro mezzo portando la terra in mezzo a tutto il solco un riga di terra non si fa molta fatica perché qui non ci sono sassi ma ci vuole tempo ne abbiamo ancora un poco l’ultimo che hanno arato, qui se vedessi come seminano largo dicono che viene più alto io dico se fosse più fitto si riempirebbero più sacchi ma vedremo, e le viti bisognerà sedersi per terra vedessi che basse e le potano tutti i rami ne lasciano un pezzettino


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Alla festa Giovanni mi dice guarda che feste che passiamo ti sembra possibile di essere qui io gli ho detto che non mi sembra una cosa nuova perché divertimenti non ne ho mai conosciuti neanche ai Laghi sono stata sempre a casa mia come in clausura in mezzo agli stracci. A Cittadella andavo una volta all’anno per me sto meglio qui sebbene ci sia più da lavorare, mi ha detto oggi è lunedì mercato a Cittadella ma sei esonerato d’andare ora deve pensare altro che a lavorare, ed è sempre lui davanti che incoraggia gli altri, al mattino accudisce gli animali, munge, libera il vitello quando ha finito mangia poi parte per i campi, per me è meglio così perché pensa al mangiare. Ho sentito la triste novità della povera Angela, se non veniva quella neve almeno andava a darle l’ultimo saluto poverina mi è proprio dispiaciuto è andata all’ospedale per poco e cosa diranno le sue figlie. Noi la ricorderemo alla sera nelle nostre preghiere delle requiem ho fatto un bell’altarino qui in cucina e alla sera diciamo tutti uniti le nostre preghiere e vi ricordiamo anche tutti voi Mario e Alfredo vi chiamano tutti per nome prima di recitare la preghiera ma alla mattina hanno troppa fretta e le dicono per strada alla sera quando tornano mi saluta “monsieur madama” e invece di dire si, uì. Mario ha imparato le parole piccole e i numeri fino a dieci a contarli e anche a scriverli.


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La stilografica, piacere elegante 148

Alcuni esempi di penne stilografiche che vanno dai primi del ’900 agli anni ’50.

Le prime penne stilografiche “parzialmente funzionanti” si datano intorno a metà ’800, ma solo a fine secolo nasce un prodotto affidabile. In piena rivoluzione industriale, la ricerca era finalizzata a dotare le penne di serbatoio (da cui il termine fountain pen). Nel 1883 Lewis Edson Waterman, con l’invenzione dell’alimentatore multicanale, avrebbe iniziato la produzione di una penna stilografica più efficiente. Da allora la “stilo” ha avuto un grande sviluppo, con un particolare momento d’oro fra gli anni ’20 e ’50. Con l’introduzione della penna a sfera negli anni ’60 e l’odierna cultura dell’usa e getta, l’uso della stilografica è sempre più raro. Rimane il fascino di questo oggetto prezioso ed elegante, un tocco personale in grado di dare unicità e distinzione alla scrittura.


Manopole, calzini e calzettoni fatti a ferri in casa.

Nel Ventennio fascista si invitava la popolazione all’autosufficienza. C’erano anche le pianelle da fare in casa con foglie di granoturco e pezzi di straccio.


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“Ciaspole” per camminare sulla neve e slittini da bambino. Molti erano i bambini che dalle borgate sparse in alta montagna dovevano scendere a valle per andare a scuola. Il mezzo più usato e veloce era un piccolo slittino, con l’inconveniente di doverlo riportare in spalla al ritorno.


Tema di osservazione: le donne lavano al torrente

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Appunti di una maestra con le tracce per i temi da assegnare ai ragazzi negli anni ’40. Oggi sarebbero improponibili.


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