Inferno

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Dante Alighieri LA DIVINA COMMEDIA

Inferno Illustrazioni di G. DorĂŠ


Dante Alighieri La Divina Commedia Illustrata da Gustave Dorè __________________ La Divina Commedia, poema di Dante Alighieri, è la maggiore espressione letteraria della cultura medievale ed è da molti ritenuta il più grande capolavoro della letteratura di tutti i tempi. Il poema narra di un viaggio, attraverso i tre regni ultraterreni (Inferno, Purgatorio, e Paradiso), durante il quale Dante descrive lo stato delle anime umane dopo la morte. I protagonisti del viaggio sono tre: - lo stesso Dante, simbolo dell'umanità intera; - il poeta Virgilio, simbolo della ragione umana, che guida Dante attraverso l'Inferno e il Purgatorio; - Beatrice, simbolo dell'amore divino, che guida Dante attraverso il Paradiso. Il poema è diviso in tre libri o cantiche: Inferno (34 canti), Purgatorio (33 canti) e Paradiso (33 canti), per un totale di 100 canti. L'opera ebbe subito grandissima diffusione e contribuì al consolidamento del dialetto toscano come lingua italiana. Oggi è una delle letture obbligate del sistema scolastico italiano.


Le illustrazioni, del pittore e incisore francese Gustave DorÊ, sono opere di grande virtuosismo tecnico, che raffigurano le scene dantesche con un gusto romantico, accostato ad una visione epica e drammatica. La raccolta delle incisioni è completa.


Canto I 1. 1 Nel mezzo del cammin di nostra vita 1. 2 mi ritrovai per una selva oscura 1. 3 ché la diritta via era smarrita.

1. 4 Ahi quanto a dir qual era è cosa dura 1. 5 esta selva selvaggia e aspra e forte 1. 6 che nel pensier rinova la paura!

1. 7 Tant'è amara che poco è più morte; 1. 8 ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, 1. 9 dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

1. 10 Io non so ben ridir com'i' v'intrai, 1. 11 tant'era pien di sonno a quel punto 1. 12 che la verace via abbandonai.

1. 13 1. 14 1. 15

Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto,

1. 16 guardai in alto, e vidi le sue spalle 1. 17 vestite già de' raggi del pianeta 1. 18 che mena dritto altrui per ogne calle.


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1. 19 Allor fu la paura un poco queta 1. 20 che nel lago del cor m'era durata 1. 21 la notte ch'i' passai con tanta pieta.

1. 22 E come quei che con lena affannata 1. 23 uscito fuor del pelago a la riva 1. 24 si volge a l'acqua perigliosa e guata,

1. 25 1. 26 1. 27

così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.

1. 28 Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso, 1. 29 ripresi via per la piaggia diserta, 1. 30 sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

1. 31 Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, 1. 32 una lonza leggiera e presta molto, 1. 33 che di pel macolato era coverta;

1. 34 1. 35 1. 36

e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.


34

1. 37 1. 38 1. 39

Temp'era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n sĂš con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino

1. 40 mosse di prima quelle cose belle; 1. 41 sĂŹ ch'a bene sperar m'era cagione 1. 42 di quella fiera a la gaetta pelle


1. 43 1. 44 1. 45

l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone.

1. 46 Questi parea che contra me venisse 1. 47 con la test'alta e con rabbiosa fame, 1. 48 sì che parea che l'aere ne tremesse.

1 49 1. 50 1. 51

Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,

1. 52 questa mi porse tanto di gravezza 1. 53 con la paura ch'uscia di sua vista, 1. 54 ch'io perdei la speranza de l'altezza.

1. 55 1. 56 1. 57

E qual è quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

1. 58 1. 59 1. 60

tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove 'l sol tace.


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1. 61 Mentre ch'i' rovinava in basso loco, 1. 62 dinanzi a li occhi mi si fu offerto 1. 63 chi per lungo silenzio parea fioco.

1. 64 Quando vidi costui nel gran diserto, 1. 65 «*Miserere* di me», gridai a lui, 1. 66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

1. 67 1. 68 1. 69

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patria ambedui.

1. 70 Nacqui *sub Iulio*, ancor che fosse tardi, 1. 71 e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto 1. 72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

1. 73 Poeta fui, e cantai di quel giusto 1. 74 figliuol d'Anchise che venne di Troia, 1. 75 poi che 'l superbo Ilion fu combusto.

1. 76 Ma tu perché ritorni a tanta noia? 1. 77 perché non sali il dilettoso monte 1. 78 ch'è principio e cagion di tutta gioia?».


1. 79 «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte 1. 80 che spandi di parlar sì largo fiume?», 1. 81 rispuos'io lui con vergognosa fronte.

1. 82 «O de li altri poeti onore e lume 1. 83 vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore 1. 84 che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

1. 85 1. 86 1. 87

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore; tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore.

1. 88 Vedi la bestia per cu' io mi volsi: 1. 89 aiutami da lei, famoso saggio, 1. 90 ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

1. 91 «A te convien tenere altro viaggio», 1. 92 rispuose, poi che lagrimar mi vide, 1. 93 «se vuo' campar d'esto loco selvaggio:

1. 94 ché questa bestia, per la qual tu gride, 1. 95 non lascia altrui passar per la sua via, 1. 96 ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;


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1. 97 1. 98 1. 99

e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

1.100 Molti son li animali a cui s'ammoglia, 1.101 e più saranno ancora, infin che 'l veltro 1.102 verrà, che la farà morir con doglia.

1.103 Questi non ciberà terra né peltro, 1.104 ma sapienza, amore e virtute, 1.105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

1.106 Di quella umile Italia fia salute 1.107 per cui morì la vergine Cammilla, 1.108 Eurialo e Turno e Niso di ferute.

1.109 Questi la caccerà per ogne villa, 1.110 fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno, 1.111 là onde 'nvidia prima dipartilla.

1.112 Ond'io per lo tuo me' penso e discerno 1.113 che tu mi segui, e io sarò tua guida, 1.114 e trarrotti di qui per loco etterno;


1.115 ove udirai le disperate strida, 1.116 vedrai li antichi spiriti dolenti, 1.117 ch'a la seconda morte ciascun grida;

1.118 e vederai color che son contenti 1.119 nel foco, perché speran di venire 1.120 quando che sia a le beate genti.

1.121 A le quai poi se tu vorrai salire, 1.122 anima fia a ciò più di me degna: 1.123 con lei ti lascerò nel mio partire;

1.124 ché quello imperador che là sù regna, 1.125 perch'i' fu' ribellante a la sua legge, 1.126 non vuol che 'n sua città per me si vegna.

1.127 In tutte parti impera e quivi regge; 1.128 quivi è la sua città e l'alto seggio: 1.129 oh felice colui cu' ivi elegge!».

1.130 E io a lui: «Poeta, io ti richeggio 1.131 per quello Dio che tu non conoscesti, 1.132 acciò ch'io fugga questo male e peggio,


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1.133 1.134 1.135 1.136

che tu mi meni lĂ dov'or dicesti, sĂŹ ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mestiÂť. Allor si mosse, e io li tenni dietro.


Canto II 2. 1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno 2. 2 toglieva li animai che sono in terra 2. 3 da le fatiche loro; e io sol uno

2. 4 2. 5 2. 6

m'apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate, che ritrarrà la mente che non erra.

2. 7 O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; 2. 8 o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, 2. 9 qui si parrà la tua nobilitate.

2. 10 Io cominciai: «Poeta che mi guidi, 2. 11 guarda la mia virtù s'ell'è possente, 2. 12 prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

2. 13 2. 14 2. 15

Tu dici che di Silvio il parente, corruttibile ancora, ad immortale secolo andò, e fu sensibilmente

. 2. 16 Però, se l'avversario d'ogne male 2. 17 cortese i fu, pensando l'alto effetto 2. 18 ch'uscir dovea di lui e 'l chi e 'l quale,


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2. 19 non pare indegno ad omo d'intelletto; 2. 20 ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero 2. 21 ne l'empireo ciel per padre eletto:

2. 22 la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, 2. 23 fu stabilita per lo loco santo 2. 24 u' siede il successor del maggior Piero.

2. 25 Per quest'andata onde li dai tu vanto, 2. 26 intese cose che furon cagione 2. 27 di sua vittoria e del papale ammanto.

2. 28 Andovvi poi lo Vas d'elezione, 2. 29 per recarne conforto a quella fede 2. 30 ch'è principio a la via di salvazione.

2. 31 Ma io perché venirvi? o chi 'l concede? 2. 32 Io non Enea, io non Paulo sono: 2. 33 me degno a ciò né io né altri 'l crede.

2. 34 Per che, se del venire io m'abbandono, 2. 35 temo che la venuta non sia folle. 2. 36 Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».


2. 37 2. 38 2. 39

E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta, sì che dal cominciar tutto si tolle,

2. 40 tal mi fec'io 'n quella oscura costa, 2. 41 perché, pensando, consumai la 'mpresa 2. 42 che fu nel cominciar cotanto tosta.

2. 43 «S'i' ho ben la parola tua intesa», 2. 44 rispuose del magnanimo quell'ombra; 2. 45 «l'anima tua è da viltade offesa;

2. 46 2. 47 2. 48

la qual molte fiate l'omo ingombra sì che d'onrata impresa lo rivolve, come falso veder bestia quand'ombra.

2. 49 Da questa tema acciò che tu ti solve, 2. 50 dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi 2. 51 nel primo punto che di te mi dolve.

2. 52 Io era tra color che son sospesi, 2. 53 e donna mi chiamò beata e bella, 2. 54 tal che di comandare io la richiesi.


2. 55 2. 56 2. 57

Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella:

2. 58 "O anima cortese mantoana, 2. 59 di cui la fama ancor nel mondo dura, 2. 60 e durerà quanto 'l mondo lontana,

2. 61 l'amico mio, e non de la ventura, 2. 62 ne la diserta piaggia è impedito 2. 63 sì nel cammin, che volt'è per paura;

2. 64 e temo che non sia già sì smarrito, 2. 65 ch'io mi sia tardi al soccorso levata, 2. 66 per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

2. 67 Or movi, e con la tua parola ornata 2. 68 e con ciò c'ha mestieri al suo campare 2. 69 l'aiuta, sì ch'i' ne sia consolata.

2. 70 I' son Beatrice che ti faccio andare; 2. 71 vegno del loco ove tornar disio; 2. 72 amor mi mosse, che mi fa parlare.


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2. 73 Quando sarò dinanzi al segnor mio, 2. 74 di te mi loderò sovente a lui". 2. 75 Tacette allora, e poi comincia' io:

2. 76 "O donna di virtù, sola per cui 2. 77 l'umana spezie eccede ogne contento 2. 78 di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

2. 79 tanto m'aggrada il tuo comandamento, 2. 80 che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi; 2. 81 più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.

2. 82 Ma dimmi la cagion che non ti guardi 2. 83 de lo scender qua giuso in questo centro 2. 84 de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

2. 85 "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, 2. 86 dirotti brievemente", mi rispuose, 2. 87 "perch'io non temo di venir qua entro.

2. 88 Temer si dee di sole quelle cose 2. 89 c'hanno potenza di fare altrui male; 2. 90 de l'altre no, ché non son paurose.


2. 91 I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, 2. 92 che la vostra miseria non mi tange, 2. 93 né fiamma d'esto incendio non m'assale.

2. 94 Donna è gentil nel ciel che si compiange 2. 95 di questo 'mpedimento ov'io ti mando, 2. 96 sì che duro giudicio là sù frange.

2. 97 Questa chiese Lucia in suo dimando 2. 98 e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele 2. 99 di te, e io a te lo raccomando -.

2.100 Lucia, nimica di ciascun crudele, 2.101 si mosse, e venne al loco dov'i' era, 2.102 che mi sedea con l'antica Rachele.

2.103 Disse: - Beatrice, loda di Dio vera, 2.104 ché non soccorri quei che t'amò tanto, 2.105 ch'uscì per te de la volgare schiera?

2.106 non odi tu la pieta del suo pianto? 2.107 non vedi tu la morte che 'l combatte 2.108 su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? –


2.109 Al mondo non fur mai persone ratte 2.110 a far lor pro o a fuggir lor danno, 2.111 com'io, dopo cotai parole fatte,

2.112 venni qua giù del mio beato scanno, 2.113 fidandomi del tuo parlare onesto, 2.114 ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

2.115 Poscia che m'ebbe ragionato questo, 2.116 li occhi lucenti lagrimando volse; 2.117 per che mi fece del venir più presto;

2.118 e venni a te così com'ella volse; 2.119 d'inanzi a quella fiera ti levai 2.120 che del bel monte il corto andar ti tolse.

2.121 Dunque: che è? perché, perché restai? 2.122 perché tanta viltà nel core allette? 2.123 perché ardire e franchezza non hai?

2.124 poscia che tai tre donne benedette 2.125 curan di te ne la corte del cielo, 2.126 e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».


2.127 Quali fioretti dal notturno gelo 2.128 chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca 2.129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,

2.130 tal mi fec'io di mia virtude stanca, 2.131 e tanto buono ardire al cor mi corse, 2.132 ch'i' cominciai come persona franca:

2.133 «Oh pietosa colei che mi soccorse! 2.134 e te cortese ch'ubidisti tosto 2.135 a le vere parole che ti porse!

2.136 Tu m'hai con disiderio il cor disposto 2.137 sì al venir con le parole tue, 2.138 ch'i' son tornato nel primo proposto.

2.139 2.140 2.141 2.142

Or va, ch'un sol volere è d'ambedue: tu duca, tu segnore, e tu maestro». Così li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro.


Canto III 3. 1 "Per me si va ne la città dolente, 3. 2 per me si va ne l'etterno dolore, 3. 3 per me si va tra la perduta gente.

3. 4 Giustizia mosse il mio alto fattore: 3. 5 fecemi la divina podestate, 3. 6 la somma sapienza e 'l primo amore.

3. 7 Dinanzi a me non fuor cose create 3. 8 se non etterne, e io etterno duro. 3. 9 Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".

3. 10 Queste parole di colore oscuro 3. 11 vid'io scritte al sommo d'una porta; 3. 12 per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».

3. 13 Ed elli a me, come persona accorta: 3. 14 «Qui si convien lasciare ogne sospetto; 3. 15 ogne viltà convien che qui sia morta.

3. 16 Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto 3. 17 che tu vedrai le genti dolorose 3. 18 c'hanno perduto il ben de l'intelletto».


9

3. 19 3. 20 3. 21

E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond'io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose.

3. 22 Quivi sospiri, pianti e alti guai 3. 23 risonavan per l'aere sanza stelle, 3. 24 per ch'io al cominciar ne lagrimai.


3. 25 Diverse lingue, orribili favelle, 3. 26 parole di dolore, accenti d'ira, 3. 27 voci alte e fioche, e suon di man con elle

3. 28 facevano un tumulto, il qual s'aggira 3. 29 sempre in quell'aura sanza tempo tinta, 3. 30 come la rena quando turbo spira.

3. 31 E io ch'avea d'error la testa cinta, 3. 32 dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo? 3. 33 e che gent'è che par nel duol sì vinta?».

3. 34 3. 35 3. 36

Ed elli a me: «Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

3. 37 Mischiate sono a quel cattivo coro 3. 38 de li angeli che non furon ribelli 3. 39 né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

3. 40 Caccianli i ciel per non esser men belli, 3. 41 né lo profondo inferno li riceve, 3. 42 ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».


3. 43 3. 44 3. 45

E io: «Maestro, che è tanto greve a lor, che lamentar li fa sì forte?». Rispuose: «Dicerolti molto breve.

3. 46 Questi non hanno speranza di morte 3. 47 e la lor cieca vita è tanto bassa, 3. 48 che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.

3. 49 Fama di loro il mondo esser non lassa; 3. 50 misericordia e giustizia li sdegna: 3. 51 non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

3. 52 3. 53 3. 54

E io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta, che d'ogne posa mi parea indegna;

3. 55 e dietro le venìa sì lunga tratta 3. 56 di gente, ch'i' non averei creduto 3. 57 che morte tanta n'avesse disfatta.

3. 58 Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, 3. 59 vidi e conobbi l'ombra di colui 3. 60 che fece per viltade il gran rifiuto.


3. 61 Incontanente intesi e certo fui 3. 62 che questa era la setta d'i cattivi, 3. 63 a Dio spiacenti e a' nemici sui.

3. 64 Questi sciaurati, che mai non fur vivi, 3. 65 erano ignudi e stimolati molto 3. 66 da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

3. 67 Elle rigavan lor di sangue il volto, 3. 68 che, mischiato di lagrime, a' lor piedi 3. 69 da fastidiosi vermi era ricolto.

3. 70 E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, 3. 71 vidi genti a la riva d'un gran fiume; 3. 72 per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi

3. 73 3. 74 3. 75

ch'i' sappia quali sono, e qual costume le fa di trapassar parer sì pronte, com'io discerno per lo fioco lume».

3. 76 Ed elli a me: «Le cose ti fier conte 3. 77 quando noi fermerem li nostri passi 3. 78 su la trista riviera d'Acheronte».


3. 79 Allor con li occhi vergognosi e bassi, 3. 80 temendo no 'l mio dir li fosse grave, 3. 81 infino al fiume del parlar mi trassi.

3. 82 Ed ecco verso noi venir per nave 3. 83 un vecchio, bianco per antico pelo, 3. 84 gridando: «Guai a voi, anime prave!

3. 85 Non isperate mai veder lo cielo: 3. 86 i' vegno per menarvi a l'altra riva 3. 87 ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

3. 88 E tu che se' costì, anima viva, 3. 89 pàrtiti da cotesti che son morti». 3. 90 Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

3. 91 disse: «Per altra via, per altri porti 3. 92 verrai a piaggia, non qui, per passare: 3. 93 più lieve legno convien che ti porti».

3. 94 E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare: 3. 95 vuolsi così colà dove si puote 3. 96 ciò che si vuole, e più non dimandare».


82-84


3. 97 Quinci fuor quete le lanose gote 3. 98 al nocchier de la livida palude, 3. 99 che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

3.100 Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude, 3.101 cangiar colore e dibattero i denti, 3.102 ratto che 'nteser le parole crude.

3.103 Bestemmiavano Dio e lor parenti, 3.104 l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme 3.105 di lor semenza e di lor nascimenti.

3.106 Poi si ritrasser tutte quante insieme, 3.107 forte piangendo, a la riva malvagia 3.108 ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

3.109 Caron dimonio, con occhi di bragia, 3.110 loro accennando, tutte le raccoglie; 3.111 batte col remo qualunque s'adagia.

3.112 Come d'autunno si levan le foglie 3.113 l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo 3.114 vede a la terra tutte le sue spoglie,


115-116

3.115 similemente il mal seme d'Adamo 3.116 gittansi di quel lito ad una ad una, 3.117 per cenni come augel per suo richiamo.

3.118 CosĂŹ sen vanno su per l'onda bruna, 3.119 e avanti che sien di lĂ discese, 3.120 anche di qua nuova schiera s'auna.


3.121 «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese, 3.122 «quelli che muoion ne l'ira di Dio 3.123 tutti convegnon qui d'ogne paese:

3.124 e pronti sono a trapassar lo rio, 3.125 ché la divina giustizia li sprona, 3.126 sì che la tema si volve in disio.

3.127 Quinci non passa mai anima buona; 3.128 e però, se Caron di te si lagna, 3.129 ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

3.130 Finito questo, la buia campagna 3.131 tremò sì forte, che de lo spavento 3.132 la mente di sudore ancor mi bagna.

3.133 3.134 3.135 3.136

La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento e caddi come l'uom cui sonno piglia.


Canto IV 4. 1 Ruppemi l'alto sonno ne la testa 4. 2 un greve truono, sì ch'io mi riscossi 4. 3 come persona ch'è per forza desta;

4. 4 e l'occhio riposato intorno mossi, 4. 5 dritto levato, e fiso riguardai 4. 6 per conoscer lo loco dov'io fossi.

4. 7 Vero è che 'n su la proda mi trovai 4. 8 de la valle d'abisso dolorosa 4. 9 che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

4. 10 Oscura e profonda era e nebulosa 4. 11 tanto che, per ficcar lo viso a fondo, 4. 12 io non vi discernea alcuna cosa.

4. 13 4. 14 4. 15

«Or discendiam qua giù nel cieco mondo», cominciò il poeta tutto smorto. «Io sarò primo, e tu sarai secondo».

4. 16 E io, che del color mi fui accorto, 4. 17 dissi: «Come verrò, se tu paventi 4. 18 che suoli al mio dubbiare esser conforto?».


4. 19 Ed elli a me: «L'angoscia de le genti 4. 20 che son qua giù, nel viso mi dipigne 4. 21 quella pietà che tu per tema senti.

4. 22 Andiam, ché la via lunga ne sospigne». 4. 23 Così si mise e così mi fé intrare 4. 24 nel primo cerchio che l'abisso cigne.

4. 25 Quivi, secondo che per ascoltare, 4. 26 non avea pianto mai che di sospiri, 4. 27 che l'aura etterna facevan tremare;

4. 28 ciò avvenia di duol sanza martìri 4. 29 ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, 4. 30 d'infanti e di femmine e di viri.

4. 31 Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi 4. 32 che spiriti son questi che tu vedi? 4. 33 Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

4. 34 ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, 4. 35 non basta, perché non ebber battesmo, 4. 36 ch'è porta de la fede che tu credi;


4. 37 e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, 4. 38 non adorar debitamente a Dio: 4. 39 e di questi cotai son io medesmo.

4. 40 Per tai difetti, non per altro rio, 4. 41 semo perduti, e sol di tanto offesi, 4. 42 che sanza speme vivemo in disio».

4. 43 Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, 4. 44 però che gente di molto valore 4. 45 conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

4. 46 «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», 4. 47 comincia' io per voler esser certo 4. 48 di quella fede che vince ogne errore:

4. 49 «uscicci mai alcuno, o per suo merto 4. 50 o per altrui, che poi fosse beato?». 4. 51 E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

4. 52 rispuose: «Io era nuovo in questo stato, 4. 53 quando ci vidi venire un Possente, 4. 54 con segno di vittoria coronato.


41-42

4. 55 Trasseci l'ombra del primo parente, 4. 56 d'Abèl suo figlio e quella di Noè, 4. 57 di Moisè legista e ubidente;

4. 58 Abraàm patriarca e Davìd re, 4. 59 Israèl con lo padre e co' suoi nati 4. 60 e con Rachele, per cui tanto fé;


4. 61 4. 62 4. 63

e altri molti, e feceli beati. E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati».

4. 64 Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi, 4. 65 ma passavam la selva tuttavia, 4. 66 la selva, dico, di spiriti spessi.

4. 67 Non era lunga ancor la nostra via 4. 68 di qua dal sonno, quand'io vidi un foco 4. 69 ch'emisperio di tenebre vincia.

4. 70 Di lungi n'eravamo ancora un poco, 4. 71 ma non sì ch'io non discernessi in parte 4. 72 ch'orrevol gente possedea quel loco.

4. 73 «O tu ch'onori scienzia e arte, 4. 74 questi chi son c'hanno cotanta onranza, 4. 75 che dal modo de li altri li diparte?».

4. 76 E quelli a me: «L'onrata nominanza 4. 77 che di lor suona sù ne la tua vita, 4. 78 grazia acquista in ciel che sì li avanza».


4. 79 Intanto voce fu per me udita: 4. 80 «Onorate l'altissimo poeta: 4. 81 l'ombra sua torna, ch'era dipartita».

4. 82 Poi che la voce fu restata e queta, 4. 83 vidi quattro grand'ombre a noi venire: 4. 84 sembianz'avevan né trista né lieta.

4. 85 4. 86 4. 87

Lo buon maestro cominciò a dire: «Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire:

4. 88 quelli è Omero poeta sovrano; 4. 89 l'altro è Orazio satiro che vene; 4. 90 Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

4. 91 Però che ciascun meco si convene 4. 92 nel nome che sonò la voce sola, 4. 93 fannomi onore, e di ciò fanno bene».

4. 94 Così vid'i' adunar la bella scola 4. 95 di quel segnor de l'altissimo canto 4. 96 che sovra li altri com'aquila vola.


94-96


4. 97 Da ch'ebber ragionato insieme alquanto, 4. 98 volsersi a me con salutevol cenno, 4. 99 e 'l mio maestro sorrise di tanto;

4.100 e più d'onore ancora assai mi fenno, 4.101 ch'e' sì mi fecer de la loro schiera, 4.102 sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

4.103 Così andammo infino a la lumera, 4.104 parlando cose che 'l tacere è bello, 4.105 sì com'era 'l parlar colà dov'era.

4.106 Venimmo al piè d'un nobile castello, 4.107 sette volte cerchiato d'alte mura, 4.108 difeso intorno d'un bel fiumicello.

4.109 Questo passammo come terra dura; 4.110 per sette porte intrai con questi savi: 4.111 giugnemmo in prato di fresca verdura.

4.112 Genti v'eran con occhi tardi e gravi, 4.113 di grande autorità ne' lor sembianti: 4.114 parlavan rado, con voci soavi.


4.115 Traemmoci così da l'un de' canti, 4.116 in loco aperto, luminoso e alto, 4.117 sì che veder si potien tutti quanti.

4.118 Colà diritto, sovra 'l verde smalto, 4.119 mi fuor mostrati li spiriti magni, 4.120 che del vedere in me stesso m'essalto.

4.121 I' vidi Eletra con molti compagni, 4.122 tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea, 4.123 Cesare armato con li occhi grifagni.

4.124 Vidi Cammilla e la Pantasilea; 4.125 da l'altra parte, vidi 'l re Latino 4.126 che con Lavina sua figlia sedea.

4.127 Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, 4.128 Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; 4.129 e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

4.130 Poi ch'innalzai un poco più le ciglia, 4.131 vidi 'l maestro di color che sanno 4.132 seder tra filosofica famiglia.


4.133 Tutti lo miran, tutti onor li fanno: 4.134 quivi vid'io Socrate e Platone, 4.135 che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

4.136 Democrito, che 'l mondo a caso pone, 4.137 Diogenés, Anassagora e Tale, 4.138 Empedoclès, Eraclito e Zenone;

4.139 e vidi il buono accoglitor del quale, 4.140 Diascoride dico; e vidi Orfeo, 4.141 Tulio e Lino e Seneca morale;

4.142 Euclide geomètra e Tolomeo, 4.143 Ipocràte, Avicenna e Galieno, 4.144 Averoìs, che 'l gran comento feo.

4.145 Io non posso ritrar di tutti a pieno, 4.146 però che sì mi caccia il lungo tema, 4.147 che molte volte al fatto il dir vien meno.

4.148 4.149 4.150 4.151

La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l'aura che trema. E vegno in parte ove non è che luca.


Canto V 5. 1 Così discesi del cerchio primaio 5. 2 giù nel secondo, che men loco cinghia, 5. 3 e tanto più dolor, che punge a guaio.

5. 4 Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: 5. 5 essamina le colpe ne l'intrata; 5. 6 giudica e manda secondo ch'avvinghia.

5. 7 Dico che quando l'anima mal nata 5. 8 li vien dinanzi, tutta si confessa; 5. 9 e quel conoscitor de le peccata

5. 10 vede qual loco d'inferno è da essa; 5. 11 cignesi con la coda tante volte 5. 12 quantunque gradi vuol che giù sia messa.

5. 13 Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; 5. 14 vanno a vicenda ciascuna al giudizio; 5. 15 dicono e odono, e poi son giù volte.

5. 16 «O tu che vieni al doloroso ospizio», 5. 17 disse Minòs a me quando mi vide, 5. 18 lasciando l'atto di cotanto offizio,


4

5. 19 «guarda com'entri e di cui tu ti fide; 5. 20 non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». 5. 21 E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

5. 22 Non impedir lo suo fatale andare: 5. 23 vuolsi così colà dove si puote 5. 24 ciò che si vuole, e più non dimandare».


5. 25 Or incomincian le dolenti note 5. 26 a farmisi sentire; or son venuto 5. 27 là dove molto pianto mi percuote.

5. 28 Io venni in loco d'ogne luce muto, 5. 29 che mugghia come fa mar per tempesta, 5. 30 se da contrari venti è combattuto.

5. 31 La bufera infernal, che mai non resta, 5. 32 mena li spirti con la sua rapina; 5. 33 voltando e percotendo li molesta.

5. 34 Quando giungon davanti a la ruina, 5. 35 quivi le strida, il compianto, il lamento; 5. 36 bestemmian quivi la virtù divina.

5. 37 Intesi ch'a così fatto tormento 5. 38 enno dannati i peccator carnali, 5. 39 che la ragion sommettono al talento.

5. 40 E come li stornei ne portan l'ali 5. 41 nel freddo tempo, a schiera larga e piena, 5. 42 così quel fiato li spiriti mali


31-32


5. 43 di qua, di là, di giù, di sù li mena; 5. 44 nulla speranza li conforta mai, 5. 45 non che di posa, ma di minor pena.

5. 46 E come i gru van cantando lor lai, 5. 47 faccendo in aere di sé lunga riga, 5. 48 così vid'io venir, traendo guai,

5. 49 ombre portate da la detta briga; 5. 50 per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle 5. 51 genti che l'aura nera sì gastiga?».

5. 52 5. 53 5. 54

«La prima di color di cui novelle tu vuo' saper», mi disse quelli allotta, «fu imperadrice di molte favelle.

5. 55 A vizio di lussuria fu sì rotta, 5. 56 che libito fé licito in sua legge, 5. 57 per tòrre il biasmo in che era condotta.

5. 58 5. 59 5. 60

Ell'è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge.


5. 61 L'altra è colei che s'ancise amorosa, 5. 62 e ruppe fede al cener di Sicheo; 5. 63 poi è Cleopatràs lussuriosa.

5. 64 5. 65 5. 66

Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo.

5. 67 Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille 5. 68 ombre mostrommi e nominommi a dito, 5. 69 ch'amor di nostra vita dipartille.

5. 70 Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito 5. 71 nomar le donne antiche e ' cavalieri, 5. 72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

5. 73 I' cominciai: «Poeta, volontieri 5. 74 parlerei a quei due che 'nsieme vanno, 5. 75 e paion sì al vento esser leggieri».

5. 76 Ed elli a me: «Vedrai quando saranno 5. 77 più presso a noi; e tu allor li priega 5. 78 per quello amor che i mena, ed ei verranno».


73-75


5. 79 Sì tosto come il vento a noi li piega, 5. 80 mossi la voce: «O anime affannate, 5. 81 venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

5. 82 Quali colombe dal disio chiamate 5. 83 con l'ali alzate e ferme al dolce nido 5. 84 vegnon per l'aere, dal voler portate;

5. 85 5. 86 5. 87

cotali uscir de la schiera ov'è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettuoso grido.

5. 88 «O animal grazioso e benigno 5. 89 che visitando vai per l'aere perso 5. 90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

5. 91 se fosse amico il re de l'universo, 5. 92 noi pregheremmo lui de la tua pace, 5. 93 poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

5. 94 Di quel che udire e che parlar vi piace, 5. 95 noi udiremo e parleremo a voi, 5. 96 mentre che 'l vento, come fa, ci tace.


5. 97 Siede la terra dove nata fui 5. 98 su la marina dove 'l Po discende 5. 99 per aver pace co' seguaci sui.

5.100 Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende 5.101 prese costui de la bella persona 5.102 che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

5.103 Amor, ch'a nullo amato amar perdona, 5.104 mi prese del costui piacer sì forte, 5.105 che, come vedi, ancor non m'abbandona.

5.106 Amor condusse noi ad una morte: 5.107 Caina attende chi a vita ci spense». 5.108 Queste parole da lor ci fuor porte.

5.109 Quand'io intesi quell'anime offense, 5.110 china' il viso e tanto il tenni basso, 5.111 fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

5.112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, 5.113 quanti dolci pensier, quanto disio 5.114 menò costoro al doloroso passo!».


106-107

5.115 Poi mi rivolsi a loro e parla' io, 5.116 e cominciai: ÂŤFrancesca, i tuoi martĂŹri 5.117 a lagrimar mi fanno tristo e pio.

5.118 Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri, 5.119 a che e come concedette amore 5.120 che conosceste i dubbiosi disiri?Âť.


5.121 E quella a me: «Nessun maggior dolore 5.122 che ricordarsi del tempo felice 5.123 ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

5.124 Ma s'a conoscer la prima radice 5.125 del nostro amor tu hai cotanto affetto, 5.126 dirò come colui che piange e dice.

5.127 Noi leggiavamo un giorno per diletto 5.128 di Lancialotto come amor lo strinse; 5.129 soli eravamo e sanza alcun sospetto.

5.130 Per più fiate li occhi ci sospinse 5.131 quella lettura, e scolorocci il viso; 5.132 ma solo un punto fu quel che ci vinse.

5.133 Quando leggemmo il disiato riso 5.134 esser basciato da cotanto amante, 5.135 questi, che mai da me non fia diviso,

5.136 la bocca mi basciò tutto tremante. 5.137 Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: 5.138 quel giorno più non vi leggemmo avante».


138


142


5.139 5.140 5.141 5.142

Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangea; sĂŹ che di pietade io venni men cosĂŹ com'io morisse. E caddi come corpo morto cade.


Canto VI 6. 1 Al tornar de la mente, che si chiuse 6. 2 dinanzi a la pietĂ de'due cognati, 6. 3 che di trestizia tutto mi confuse,

6. 4 novi tormenti e novi tormentati 6. 5 mi veggio intorno, come ch'io mi mova 6. 6 e ch'io mi volga, e come che io guati.

6. 7 6. 8 6. 9

Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l'è nova.

6. 10 Grandine grossa, acqua tinta e neve 6. 11 per l'aere tenebroso si riversa; 6. 12 pute la terra che questo riceve.

6. 13 6. 14 6. 15

Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa.

6. 16 Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, 6. 17 e 'l ventre largo, e unghiate le mani; 6. 18 graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.


6. 19 Urlar li fa la pioggia come cani; 6. 20 de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; 6. 21 volgonsi spesso i miseri profani.

6. 22 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, 6. 23 le bocche aperse e mostrocci le sanne; 6. 24 non avea membro che tenesse fermo.

6. 25 E 'l duca mio distese le sue spanne, 6. 26 prese la terra, e con piene le pugna 6. 27 la gittò dentro a le bramose canne.

6. 28 Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, 6. 29 e si racqueta poi che 'l pasto morde, 6. 30 ché solo a divorarlo intende e pugna,

6. 31 cotai si fecer quelle facce lorde 6. 32 de lo demonio Cerbero, che 'ntrona 6. 33 l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.

6. 34 Noi passavam su per l'ombre che adona 6. 35 la greve pioggia, e ponavam le piante 6. 36 sovra lor vanità che par persona.


25-27

6. 37 Elle giacean per terra tutte quante, 6. 38 fuor d'una ch'a seder si levò, ratto 6. 39 ch'ella ci vide passarsi davante.

6. 40 6. 41 6. 42

«O tu che se' per questo 'nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».


6. 43 E io a lui: «L'angoscia che tu hai 6. 44 forse ti tira fuor de la mia mente, 6. 45 sì che non par ch'i' ti vedessi mai.

6. 46 6. 47 6. 48

Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente loco se' messo e hai sì fatta pena, che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente».

6. 49 Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena 6. 50 d'invidia sì che già trabocca il sacco, 6. 51 seco mi tenne in la vita serena.

6. 52 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: 6. 53 per la dannosa colpa de la gola, 6. 54 come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

6. 55 E io anima trista non son sola, 6. 56 ché tutte queste a simil pena stanno 6. 57 per simil colpa». E più non fé parola.

6. 58 Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno 6. 59 mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita; 6. 60 ma dimmi, se tu sai, a che verranno


49-52

6. 61 li cittadin de la città partita; 6. 62 s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione 6. 63 per che l'ha tanta discordia assalita».

6. 64 E quelli a me: «Dopo lunga tencione 6. 65 verranno al sangue, e la parte selvaggia 6. 66 caccerà l'altra con molta offensione.


6. 67 Poi appresso convien che questa caggia 6. 68 infra tre soli, e che l'altra sormonti 6. 69 con la forza di tal che testé piaggia.

6. 70 Alte terrà lungo tempo le fronti, 6. 71 tenendo l'altra sotto gravi pesi, 6. 72 come che di ciò pianga o che n'aonti.

6. 73 Giusti son due, e non vi sono intesi; 6. 74 superbia, invidia e avarizia sono 6. 75 le tre faville c'hanno i cuori accesi».

6. 76 Qui puose fine al lagrimabil suono. 6. 77 E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni, 6. 78 e che di più parlar mi facci dono.

6. 79 Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni, 6. 80 Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca 6. 81 e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,

6. 82 dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; 6. 83 ché gran disio mi stringe di savere 6. 84 se 'l ciel li addolcia, o lo 'nferno li attosca».


6. 85 E quelli: «Ei son tra l'anime più nere: 6. 86 diverse colpe giù li grava al fondo: 6. 87 se tanto scendi, là i potrai vedere.

6. 88 Ma quando tu sarai nel dolce mondo, 6. 89 priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: 6. 90 più non ti dico e più non ti rispondo».

6. 91 Li diritti occhi torse allora in biechi; 6. 92 guardommi un poco, e poi chinò la testa: 6. 93 cadde con essa a par de li altri ciechi.

6. 94 E 'l duca disse a me: «Più non si desta 6. 95 di qua dal suon de l'angelica tromba, 6. 96 quando verrà la nimica podesta:

6. 97 ciascun rivederà la trista tomba, 6. 98 ripiglierà sua carne e sua figura, 6. 99 udirà quel ch'in etterno rimbomba».

6.100 Sì trapassammo per sozza mistura 6.101 de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, 6.102 toccando un poco la vita futura;


6.103 per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti 6.104 crescerann'ei dopo la gran sentenza, 6.105 o fier minori, o saran sì cocenti?».

6.106 Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza, 6.107 che vuol, quanto la cosa è più perfetta, 6.108 più senta il bene, e così la doglienza.

6.109 Tutto che questa gente maladetta 6.110 in vera perfezion già mai non vada, 6.111 di là più che di qua essere aspetta».

6.112 6.113 6.114 6.115

Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada: quivi trovammo Pluto, il gran nemico.


Canto VII 7. 1 7. 2 7. 3

«*Papé Satàn, pape Satàn aleppe!*», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe,

7. 4 disse per confortarmi: «Non ti noccia 7. 5 la tua paura; ché, poder ch'elli abbia, 7. 6 non ci torrà lo scender questa roccia».

7. 7 7. 8 7. 9

Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia.

7. 10 Non è sanza cagion l'andare al cupo: 7. 11 vuolsi ne l'alto, là dove Michele 7. 12 fé la vendetta del superbo strupo».

7. 13 Quali dal vento le gonfiate vele 7. 14 caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, 7. 15 tal cadde a terra la fiera crudele.

7. 16 Così scendemmo ne la quarta lacca 7. 17 pigliando più de la dolente ripa 7. 18 che 'l mal de l'universo tutto insacca.


8-9

7. 19 Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa 7. 20 nove travaglie e pene quant'io viddi? 7. 21 e perché nostra colpa sì ne scipa?

7. 22 7. 23 7. 24

Come fa l'onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s'intoppa, così convien che qui la gente riddi.


7. 25 Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa, 7. 26 e d'una parte e d'altra, con grand'urli, 7. 27 voltando pesi per forza di poppa.

7. 28 Percoteansi 'ncontro; e poscia pur lì 7. 29 si rivolgea ciascun, voltando a retro, 7. 30 gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

7. 31 Così tornavan per lo cerchio tetro 7. 32 da ogne mano a l'opposito punto, 7. 33 gridandosi anche loro ontoso metro;

7. 34 poi si volgea ciascun, quand'era giunto, 7. 35 per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. 7. 36 E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

7. 37 dissi: «Maestro mio, or mi dimostra 7. 38 che gente è questa, e se tutti fuor cherci 7. 39 questi chercuti a la sinistra nostra».

7. 40 7. 41 7. 42

Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci.


7. 43 Assai la voce lor chiaro l'abbaia 7. 44 quando vegnono a' due punti del cerchio 7. 45 dove colpa contraria li dispaia.

7. 46 Questi fuor cherci, che non han coperchio 7. 47 piloso al capo, e papi e cardinali, 7. 48 in cui usa avarizia il suo soperchio».

7. 49 E io: «Maestro, tra questi cotali 7. 50 dovre' io ben riconoscere alcuni 7. 51 che furo immondi di cotesti mali».

7. 52 7. 53 7. 54

Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi ad ogne conoscenza or li fa bruni.

7. 55 In etterno verranno a li due cozzi: 7. 56 questi resurgeranno del sepulcro 7. 57 col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

7. 58 Mal dare e mal tener lo mondo pulcro 7. 59 ha tolto loro, e posti a questa zuffa: 7. 60 qual ella sia, parole non ci appulcro.


7. 61 Or puoi, figliuol, veder la corta buffa 7. 62 d'i ben che son commessi a la fortuna, 7. 63 per che l'umana gente si rabbuffa;

7. 64 ché tutto l'oro ch'è sotto la luna 7. 65 e che già fu, di quest'anime stanche 7. 66 non poterebbe farne posare una».

7. 67 «Maestro mio», diss'io, «or mi dì anche: 7. 68 questa fortuna di che tu mi tocche, 7. 69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

7. 70 E quelli a me: «Oh creature sciocche, 7. 71 quanta ignoranza è quella che v'offende! 7. 72 Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

7. 73 Colui lo cui saver tutto trascende, 7. 74 fece li cieli e diè lor chi conduce 7. 75 sì ch'ogne parte ad ogne parte splende,

7. 76 distribuendo igualmente la luce. 7. 77 Similemente a li splendor mondani 7. 78 ordinò general ministra e duce


64-66

7. 79 che permutasse a tempo li ben vani 7. 80 di gente in gente e d'uno in altro sangue, 7. 81 oltre la difension d'i senni umani;

7. 82 per ch'una gente impera e l'altra langue, 7. 83 seguendo lo giudicio di costei, 7. 84 che è occulto come in erba l'angue.


7. 85 Vostro saver non ha contasto a lei: 7. 86 questa provede, giudica, e persegue 7. 87 suo regno come il loro li altri dèi.

7. 88 Le sue permutazion non hanno triegue; 7. 89 necessità la fa esser veloce; 7. 90 sì spesso vien chi vicenda consegue.

7. 91 Quest'è colei ch'è tanto posta in croce 7. 92 pur da color che le dovrien dar lode, 7. 93 dandole biasmo a torto e mala voce;

7. 94 ma ella s'è beata e ciò non ode: 7. 95 con l'altre prime creature lieta 7. 96 volve sua spera e beata si gode.

7. 97 Or discendiamo omai a maggior pieta; 7. 98 già ogne stella cade che saliva 7. 99 quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».

7.100 Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva 7.101 sovr'una fonte che bolle e riversa 7.102 per un fossato che da lei deriva.


7.103 L'acqua era buia assai più che persa; 7.104 e noi, in compagnia de l'onde bige, 7.105 intrammo giù per una via diversa.

7.106 In la palude va c'ha nome Stige 7.107 questo tristo ruscel, quand'è disceso 7.108 al piè de le maligne piagge grige.

7.109 E io, che di mirare stava inteso, 7.110 vidi genti fangose in quel pantano, 7.111 ignude tutte, con sembiante offeso.

7.112 Queste si percotean non pur con mano, 7.113 ma con la testa e col petto e coi piedi, 7.114 troncandosi co' denti a brano a brano.

7.115 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi 7.116 l'anime di color cui vinse l'ira; 7.117 e anche vo' che tu per certo credi

7.118 che sotto l'acqua è gente che sospira, 7.119 e fanno pullular quest'acqua al summo, 7.120 come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.


115-116

7.121 Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo 7.122 ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, 7.123 portando dentro accidioso fummo:

7.124 or ci attristiam ne la belletta negra". 7.125 Quest'inno si gorgoglian ne la strozza, 7.126 chĂŠ dir nol posson con parola integraÂť.


7.127 7.128 7.129 7.130

Così girammo de la lorda pozza grand'arco tra la ripa secca e 'l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.


Canto VIII 8. 1 8. 2 8. 3

Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al piè de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima

8. 4 per due fiammette che i vedemmo porre 8. 5 e un'altra da lungi render cenno 8. 6 tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.

8. 7 E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; 8. 8 dissi: «Questo che dice? e che risponde 8. 9 quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».

8. 10 Ed elli a me: «Su per le sucide onde 8. 11 già scorgere puoi quello che s'aspetta, 8. 12 se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».

8. 13 8. 14 8. 15

Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l'aere snella, com'io vidi una nave piccoletta

8. 16 venir per l'acqua verso noi in quella, 8. 17 sotto 'l governo d'un sol galeoto, 8. 18 che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».


8. 19 «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto», 8. 20 disse lo mio segnore «a questa volta: 8. 21 più non ci avrai che sol passando il loto».

8. 22 Qual è colui che grande inganno ascolta 8. 23 che li sia fatto, e poi se ne rammarca, 8. 24 fecesi Flegiàs ne l'ira accolta.

8. 25 8. 26 8. 27

Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand'io fui dentro parve carca.

8. 28 Tosto che 'l duca e io nel legno fui, 8. 29 segando se ne va l'antica prora 8. 30 de l'acqua più che non suol con altrui.

8. 31 Mentre noi corravam la morta gora, 8. 32 dinanzi mi si fece un pien di fango, 8. 33 e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».

8. 34 8. 35 8. 36

E io a lui: «S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?». Rispuose: «Vedi che son un che piango».


29-30

8. 37 8. 38 8. 39

E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».

8. 40 Allor distese al legno ambo le mani; 8. 41 per che 'l maestro accorto lo sospinse, 8. 42 dicendo: «Via costà con li altri cani!».


41-42


8. 43 Lo collo poi con le braccia mi cinse; 8. 44 basciommi 'l volto, e disse: «Alma sdegnosa, 8. 45 benedetta colei che 'n te s'incinse!

8. 46 Quei fu al mondo persona orgogliosa; 8. 47 bontà non è che sua memoria fregi: 8. 48 così s'è l'ombra sua qui furiosa.

8. 49 Quanti si tegnon or là sù gran regi 8. 50 che qui staranno come porci in brago, 8. 51 di sé lasciando orribili dispregi!».

8. 52 E io: «Maestro, molto sarei vago 8. 53 di vederlo attuffare in questa broda 8. 54 prima che noi uscissimo del lago».

8. 55 Ed elli a me: «Avante che la proda 8. 56 ti si lasci veder, tu sarai sazio: 8. 57 di tal disio convien che tu goda».

8. 58 Dopo ciò poco vid'io quello strazio 8. 59 far di costui a le fangose genti, 8. 60 che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.


8. 61 8. 62 8. 63

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e 'l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co' denti.

8. 64 Quivi il lasciammo, che più non ne narro; 8. 65 ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, 8. 66 per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

8. 67 8. 68 8. 69

Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s'appressa la città c'ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo».

8. 70 E io: «Maestro, già le sue meschite 8. 71 là entro certe ne la valle cerno, 8. 72 vermiglie come se di foco uscite

8. 73 fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno 8. 74 ch'entro l'affoca le dimostra rosse, 8. 75 come tu vedi in questo basso inferno».

8. 76 Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse 8. 77 che vallan quella terra sconsolata: 8. 78 le mura mi parean che ferro fosse.


8. 79 Non sanza prima far grande aggirata, 8. 80 venimmo in parte dove il nocchier forte 8. 81 «Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».

8. 82 Io vidi più di mille in su le porte 8. 83 da ciel piovuti, che stizzosamente 8. 84 dicean: «Chi è costui che sanza morte

8. 85 va per lo regno de la morta gente?». 8. 86 E 'l savio mio maestro fece segno 8. 87 di voler lor parlar segretamente.

8. 88 Allor chiusero un poco il gran disdegno, 8. 89 e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada, 8. 90 che sì ardito intrò per questo regno.

8. 91 Sol si ritorni per la folle strada: 8. 92 pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai 8. 93 che li ha' iscorta sì buia contrada».

8. 94 Pensa, lettor, se io mi sconfortai 8. 95 nel suon de le parole maladette, 8. 96 ché non credetti ritornarci mai.


8. 97 «O caro duca mio, che più di sette 8. 98 volte m'hai sicurtà renduta e tratto 8. 99 d'alto periglio che 'ncontra mi stette,

8.100 non mi lasciar», diss'io, «così disfatto; 8.101 e se 'l passar più oltre ci è negato, 8.102 ritroviam l'orme nostre insieme ratto».

8.103 E quel segnor che lì m'avea menato, 8.104 mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo 8.105 non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.

8.106 Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso 8.107 conforta e ciba di speranza buona, 8.108 ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».

8.109 Così sen va, e quivi m'abbandona 8.110 lo dolce padre, e io rimagno in forse, 8.111 che sì e no nel capo mi tenciona.

8.112 Udir non potti quello ch'a lor porse; 8.113 ma ei non stette là con essi guari, 8.114 che ciascun dentro a pruova si ricorse.


112

8.115 Chiuser le porte que' nostri avversari 8.116 nel petto al mio segnor, che fuor rimase, 8.117 e rivolsesi a me con passi rari.

8.118 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase 8.119 d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri: 8.120 ÂŤChi m'ha negate le dolenti case!Âť.


8.121 E a me disse: «Tu, perch'io m'adiri, 8.122 non sbigottir, ch'io vincerò la prova, 8.123 qual ch'a la difension dentro s'aggiri.

8.124 Questa lor tracotanza non è nova; 8.125 ché già l'usaro a men segreta porta, 8.126 la qual sanza serrame ancor si trova.

8.127 8.128 8.129 8.130

Sovr'essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l'erta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta».


Canto IX 9. 1 Quel color che viltà di fuor mi pinse 9. 2 veggendo il duca mio tornare in volta, 9. 3 più tosto dentro il suo novo ristrinse.

9. 4 Attento si fermò com'uom ch'ascolta; 9. 5 ché l'occhio nol potea menare a lunga 9. 6 per l'aere nero e per la nebbia folta.

9. 7 «Pur a noi converrà vincer la punga», 9. 8 cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse. 9. 9 Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».

9. 10 I' vidi ben sì com'ei ricoperse 9. 11 lo cominciar con l'altro che poi venne, 9. 12 che fur parole a le prime diverse;

9. 13 ma nondimen paura il suo dir dienne, 9. 14 perch'io traeva la parola tronca 9. 15 forse a peggior sentenzia che non tenne.

9. 16 «In questo fondo de la trista conca 9. 17 discende mai alcun del primo grado, 9. 18 che sol per pena ha la speranza cionca?».


9. 19 Questa question fec'io; e quei «Di rado 9. 20 incontra», mi rispuose, «che di noi 9. 21 faccia il cammino alcun per qual io vado.

9. 22 Ver è ch'altra fiata qua giù fui, 9. 23 congiurato da quella Eritón cruda 9. 24 che richiamava l'ombre a' corpi sui.

9. 25 Di poco era di me la carne nuda, 9. 26 ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro, 9. 27 per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

9. 28 Quell'è 'l più basso loco e 'l più oscuro, 9. 29 e 'l più lontan dal ciel che tutto gira: 9. 30 ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.

9. 31 Questa palude che 'l gran puzzo spira 9. 32 cigne dintorno la città dolente, 9. 33 u' non potemo intrare omai sanz'ira».

9. 34 E altro disse, ma non l'ho a mente; 9. 35 però che l'occhio m'avea tutto tratto 9. 36 ver' l'alta torre a la cima rovente,


9. 37 dove in un punto furon dritte ratto 9. 38 tre furie infernal di sangue tinte, 9. 39 che membra feminine avieno e atto,

9. 40 e con idre verdissime eran cinte; 9. 41 serpentelli e ceraste avien per crine, 9. 42 onde le fiere tempie erano avvinte.

9. 43 E quei, che ben conobbe le meschine 9. 44 de la regina de l'etterno pianto, 9. 45 «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

9. 46 Quest'è Megera dal sinistro canto; 9. 47 quella che piange dal destro è Aletto; 9. 48 Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

9. 49 Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; 9. 50 battiensi a palme, e gridavan sì alto, 9. 51 ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

9. 52 «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», 9. 53 dicevan tutte riguardando in giuso; 9. 54 «mal non vengiammo in Teseo l'assalto».


45


9. 55 «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; 9. 56 ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, 9. 57 nulla sarebbe di tornar mai suso».

9. 58 9. 59 9. 60

Così disse 'l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi.

9. 61 O voi ch'avete li 'ntelletti sani, 9. 62 mirate la dottrina che s'asconde 9. 63 sotto 'l velame de li versi strani.

9. 64 E già venia su per le torbide onde 9. 65 un fracasso d'un suon, pien di spavento, 9. 66 per cui tremavano amendue le sponde,

9. 67 non altrimenti fatto che d'un vento 9. 68 impetuoso per li avversi ardori, 9. 69 che fier la selva e sanz'alcun rattento

9. 70 li rami schianta, abbatte e porta fori; 9. 71 dinanzi polveroso va superbo, 9. 72 e fa fuggir le fiere e li pastori.


9. 73 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo 9. 74 del viso su per quella schiuma antica 9. 75 per indi ove quel fummo è più acerbo».

9. 76 Come le rane innanzi a la nimica 9. 77 biscia per l'acqua si dileguan tutte, 9. 78 fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,

9. 79 vid'io più di mille anime distrutte 9. 80 fuggir così dinanzi ad un ch'al passo 9. 81 passava Stige con le piante asciutte.

9. 82 Dal volto rimovea quell'aere grasso, 9. 83 menando la sinistra innanzi spesso; 9. 84 e sol di quell'angoscia parea lasso.

9. 85 9. 86 9. 87

Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

9. 88 Ahi quanto mi parea pien di disdegno! 9. 89 Venne a la porta, e con una verghetta 9. 90 l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.


89-90

9. 91 9. 92 9. 93

«O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l'orribil soglia, «ond'esta oltracotanza in voi s'alletta?

9. 94 Perché recalcitrate a quella voglia 9. 95 a cui non puote il fin mai esser mozzo, 9. 96 e che più volte v'ha cresciuta doglia?


9. 97 Che giova ne le fata dar di cozzo? 9. 98 Cerbero vostro, se ben vi ricorda, 9. 99 ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».

9.100 Poi si rivolse per la strada lorda, 9.101 e non fé motto a noi, ma fé sembiante 9.102 d'omo cui altra cura stringa e morda

9.103 che quella di colui che li è davante; 9.104 e noi movemmo i piedi inver' la terra, 9.105 sicuri appresso le parole sante.

9.106 Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra; 9.107 e io, ch'avea di riguardar disio 9.108 la condizion che tal fortezza serra,

9.109 com'io fui dentro, l'occhio intorno invio; 9.110 e veggio ad ogne man grande campagna 9.111 piena di duolo e di tormento rio.

9.112 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, 9.113 sì com'a Pola, presso del Carnaro 9.114 ch'Italia chiude e suoi termini bagna,


9.115 fanno i sepulcri tutt'il loco varo, 9.116 così facevan quivi d'ogne parte, 9.117 salvo che 'l modo v'era più amaro;

9.118 ché tra gli avelli fiamme erano sparte, 9.119 per le quali eran sì del tutto accesi, 9.120 che ferro più non chiede verun'arte.

9.121 Tutti li lor coperchi eran sospesi, 9.122 e fuor n'uscivan sì duri lamenti, 9.123 che ben parean di miseri e d'offesi.

9.124 E io: «Maestro, quai son quelle genti 9.125 che, seppellite dentro da quell'arche, 9.126 si fan sentir coi sospiri dolenti?».

9.127 Ed elli a me: «Qui son li eresiarche 9.128 con lor seguaci, d'ogne setta, e molto 9.129 più che non credi son le tombe carche.

9.130 9.131 9.132 9.133

Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi ch'a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martiri e li alti spaldi.


127-128


Canto X 10. 1 Ora sen va per un secreto calle, 10. 2 tra 'l muro de la terra e li martìri, 10. 3 lo mio maestro, e io dopo le spalle . 10. 4 «O virtù somma, che per li empi giri 10. 5 mi volvi», cominciai, «com'a te piace, 10. 6 parlami, e sodisfammi a' miei disiri.

10. 7 La gente che per li sepolcri giace 10. 8 potrebbesi veder? già son levati 10. 9 tutt'i coperchi, e nessun guardia face».

10. 10 E quelli a me: «Tutti saran serrati 10. 11 quando di Iosafàt qui torneranno 10. 12 coi corpi che là sù hanno lasciati.

10. 13 10. 14 10. 15

Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno.

10. 16 Però a la dimanda che mi faci 10. 17 quinc'entro satisfatto sarà tosto, 10. 18 e al disio ancor che tu mi taci».


10. 19 10. 20 10. 21

E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».

10. 22 «O Tosco che per la città del foco 10. 23 vivo ten vai così parlando onesto, 10. 24 piacciati di restare in questo loco.

10. 25 La tua loquela ti fa manifesto 10. 26 di quella nobil patria natio 10. 27 a la qual forse fui troppo molesto».

10. 28 Subitamente questo suono uscìo 10. 29 d'una de l'arche; però m'accostai, 10. 30 temendo, un poco più al duca mio.

10. 31 Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? 10. 32 Vedi là Farinata che s'è dritto: 10. 33 da la cintola in sù tutto 'l vedrai».

10. 34 10. 35 10. 36

Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte com'avesse l'inferno a gran dispitto.


10. 37 E l'animose man del duca e pronte 10. 38 mi pinser tra le sepulture a lui, 10. 39 dicendo: «Le parole tue sien conte».

10. 40 Com'io al piè de la sua tomba fui, 10. 41 guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, 10. 42 mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

10. 43 Io ch'era d'ubidir disideroso, 10. 44 non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; 10. 45 ond'ei levò le ciglia un poco in suso;

10. 46 poi disse: «Fieramente furo avversi 10. 47 a me e a miei primi e a mia parte, 10. 48 sì che per due fiate li dispersi».

10. 49 10. 50 10. 51

«S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte», rispuos'io lui, «l'una e l'altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell'arte».

10. 52 Allor surse a la vista scoperchiata 10. 53 un'ombra, lungo questa, infino al mento: 10. 54 credo che s'era in ginocchie levata.


41-42


10. 55 Dintorno mi guardò, come talento 10. 56 avesse di veder s'altri era meco; 10. 57 e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,

10. 58 piangendo disse: «Se per questo cieco 10. 59 carcere vai per altezza d'ingegno, 10. 60 mio figlio ov'è? e perché non è teco?».

10. 61 10. 62 10. 63

E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

10. 64 Le sue parole e 'l modo de la pena 10. 65 m'avean di costui già letto il nome; 10. 66 però fu la risposta così piena.

10. 67 Di subito drizzato gridò: «Come? 10. 68 dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? 10. 69 non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».

10. 70 Quando s'accorse d'alcuna dimora 10. 71 ch'io facea dinanzi a la risposta, 10. 72 supin ricadde e più non parve fora.


10. 73 Ma quell'altro magnanimo, a cui posta 10. 74 restato m'era, non mutò aspetto, 10. 75 né mosse collo, né piegò sua costa:

10. 76 10. 77 10. 78

e sé continuando al primo detto, «S'elli han quell'arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.

10. 79 10. 80 10. 81

Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa.

10. 82 E se tu mai nel dolce mondo regge, 10. 83 dimmi: perché quel popolo è sì empio 10. 84 incontr'a' miei in ciascuna sua legge?».

10. 85 Ond'io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio 10. 86 che fece l'Arbia colorata in rosso, 10. 87 tal orazion fa far nel nostro tempio».

10. 88 10. 89 10. 90

Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu' io sol», disse, «né certo sanza cagion con li altri sarei mosso.


10. 91 10. 92 10. 93

Ma fu' io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto».

10. 94 «Deh, se riposi mai vostra semenza», 10. 95 prega' io lui, «solvetemi quel nodo 10. 96 che qui ha 'nviluppata mia sentenza.

10. 97 El par che voi veggiate, se ben odo, 10. 98 dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, 10. 99 e nel presente tenete altro modo».

10.100 10.101 10.102

«Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce.

10.103 Quando s'appressano o son, tutto è vano 10.104 nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, 10.105 nulla sapem di vostro stato umano.

10.106 Però comprender puoi che tutta morta 10.107 fia nostra conoscenza da quel punto 10.108 che del futuro fia chiusa la porta».


10.109 Allor, come di mia colpa compunto, 10.110 dissi: «Or direte dunque a quel caduto 10.111 che 'l suo nato è co'vivi ancor congiunto;

10.112 e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto, 10.113 fate i saper che 'l fei perché pensava 10.114 già ne l'error che m'avete soluto».

10.115 E già 'l maestro mio mi richiamava; 10.116 per ch'i' pregai lo spirto più avaccio 10.117 che mi dicesse chi con lu' istava.

10.118 Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: 10.119 qua dentro è 'l secondo Federico, 10.120 e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».

10.121 Indi s'ascose; e io inver' l'antico 10.122 poeta volsi i passi, ripensando 10.123 a quel parlar che mi parea nemico.

10.124 10.125 10.126

Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?». E io li sodisfeci al suo dimando.


10.127 «La mente tua conservi quel ch'udito 10.128 hai contra te», mi comandò quel saggio. 10.129 «E ora attendi qui», e drizzò 'l dito:

10.130 «quando sarai dinanzi al dolce raggio 10.131 di quella il cui bell'occhio tutto vede, 10.132 da lei saprai di tua vita il viaggio».

10.133 Appresso mosse a man sinistra il piede: 10.134 lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo 10.135 per un sentier ch'a una valle fiede, 10.136 che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.


Canto XI 11. 1 In su l'estremità d'un'alta ripa 11. 2 che facevan gran pietre rotte in cerchio 11. 3 venimmo sopra più crudele stipa;

11. 4 e quivi, per l'orribile soperchio 11. 5 del puzzo che 'l profondo abisso gitta, 11. 6 ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

11. 7 d'un grand'avello, ov'io vidi una scritta 11. 8 che dicea: "Anastasio papa guardo, 11. 9 lo qual trasse Fotin de la via dritta".

11. 10 11. 11 11. 12

«Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».

11. 13 Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», 11. 14 dissi lui, «trova che 'l tempo non passi 11. 15 perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».

11. 16 «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», 11. 17 cominciò poi a dir, «son tre cerchietti 11. 18 di grado in grado, come que' che lassi.


6-7


11. 19 11. 20 11. 21

Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti.

11. 22 D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, 11. 23 ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale 11. 24 o con forza o con frode altrui contrista.

11. 25 Ma perché frode è de l'uom proprio male, 11. 26 più spiace a Dio; e però stan di sotto 11. 27 li frodolenti, e più dolor li assale.

11. 28 Di violenti il primo cerchio è tutto; 11. 29 ma perché si fa forza a tre persone, 11. 30 in tre gironi è distinto e costrutto.

11. 31 A Dio, a sé, al prossimo si pòne 11. 32 far forza, dico in loro e in lor cose, 11. 33 come udirai con aperta ragione.

11. 34 Morte per forza e ferute dogliose 11. 35 nel prossimo si danno, e nel suo avere 11. 36 ruine, incendi e tollette dannose;


11. 37 onde omicide e ciascun che mal fiere, 11. 38 guastatori e predon, tutti tormenta 11. 39 lo giron primo per diverse schiere.

11. 40 Puote omo avere in sé man violenta 11. 41 e ne' suoi beni; e però nel secondo 11. 42 giron convien che sanza pro si penta

11. 43 qualunque priva sé del vostro mondo, 11. 44 biscazza e fonde la sua facultade, 11. 45 e piange là dov'esser de' giocondo.

11. 46 11. 47 11. 48

Puossi far forza nella deitade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade;

11. 49 e però lo minor giron suggella 11. 50 del segno suo e Soddoma e Caorsa 11. 51 e chi, spregiando Dio col cor, favella.

11. 52 La frode, ond'ogne coscienza è morsa, 11. 53 può l'omo usare in colui che 'n lui fida 11. 54 e in quel che fidanza non imborsa.


11. 55 Questo modo di retro par ch'incida 11. 56 pur lo vinco d'amor che fa natura; 11. 57 onde nel cerchio secondo s'annida

11. 58 11. 59 11. 60

ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura.

11. 61 Per l'altro modo quell'amor s'oblia 11. 62 che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, 11. 63 di che la fede spezial si cria;

11. 64 onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto 11. 65 de l'universo in su che Dite siede, 11. 66 qualunque trade in etterno è consunto».

11. 67 E io: «Maestro, assai chiara procede 11. 68 la tua ragione, e assai ben distingue 11. 69 questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede.

11. 70 11. 71 11. 72

Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con sì aspre lingue,


11. 73 perché non dentro da la città roggia 11. 74 sono ei puniti, se Dio li ha in ira? 11. 75 e se non li ha, perché sono a tal foggia?».

11. 76 Ed elli a me «Perché tanto delira», 11. 77 disse «lo 'ngegno tuo da quel che sòle? 11. 78 o ver la mente dove altrove mira?

11. 79 Non ti rimembra di quelle parole 11. 80 con le quai la tua Etica pertratta 11. 81 le tre disposizion che 'l ciel non vole,

11. 82 incontenenza, malizia e la matta 11. 83 bestialitade? e come incontenenza 11. 84 men Dio offende e men biasimo accatta?

11. 85 11. 86 11. 87

Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza,

11. 88 11. 89 11. 90

tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli».


11. 91 11. 92 11. 93

«O sol che sani ogni vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.

11. 94 Ancora in dietro un poco ti rivolvi», 11. 95 diss'io, «là dove di' ch'usura offende 11. 96 la divina bontade, e 'l groppo solvi».

11. 97 «Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, 11. 98 nota, non pure in una sola parte, 11. 99 come natura lo suo corso prende

11.100 dal divino 'ntelletto e da sua arte; 11.101 e se tu ben la tua Fisica note, 11.102 tu troverai, non dopo molte carte,

11.103 11.104 11.105

che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; sì che vostr'arte a Dio quasi è nepote.

11.106 Da queste due, se tu ti rechi a mente 11.107 lo Genesi dal principio, convene 11.108 prender sua vita e avanzar la gente;


11.109 e perché l'usuriere altra via tene, 11.110 per sé natura e per la sua seguace 11.111 dispregia, poi ch'in altro pon la spene.

11.112 11.113 11.114 11.115

Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via là oltra si dismonta».


Canto XII 12. 1 Era lo loco ov'a scender la riva 12. 2 venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco, 12. 3 tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.

12. 4 Qual è quella ruina che nel fianco 12. 5 di qua da Trento l'Adice percosse, 12. 6 o per tremoto o per sostegno manco,

12. 7 che da cima del monte, onde si mosse, 12. 8 al piano è sì la roccia discoscesa, 12. 9 ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:

12. 10 12. 11 12. 12

cotal di quel burrato era la scesa; e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamia di Creti era distesa

12. 13 12. 14 12. 15

che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l'ira dentro fiacca.

12. 16 12. 17 12. 18

Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che sù nel mondo la morte ti porse?


11-12


12. 19 12. 20 12. 21

Pàrtiti, bestia: ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene».

12. 22 Qual è quel toro che si slaccia in quella 12. 23 c'ha ricevuto già 'l colpo mortale, 12. 24 che gir non sa, ma qua e là saltella,

12. 25 vid'io lo Minotauro far cotale; 12. 26 e quello accorto gridò: «Corri al varco: 12. 27 mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».

12. 28 Così prendemmo via giù per lo scarco 12. 29 di quelle pietre, che spesso moviensi 12. 30 sotto i miei piedi per lo novo carco.

12. 31 Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi 12. 32 forse a questa ruina ch'è guardata 12. 33 da quell'ira bestial ch'i' ora spensi.

12. 34 Or vo' che sappi che l'altra fiata 12. 35 ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, 12. 36 questa roccia non era ancor cascata.


12. 37 12. 38 12. 39

Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno,

12. 40 da tutte parti l'alta valle feda 12. 41 tremò sì, ch'i' pensai che l'universo 12. 42 sentisse amor, per lo qual è chi creda

12. 43 più volte il mondo in caòsso converso; 12. 44 e in quel punto questa vecchia roccia 12. 45 qui e altrove, tal fece riverso.

12. 46 Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia 12. 47 la riviera del sangue in la qual bolle 12. 48 qual che per violenza in altrui noccia».

12. 49 Oh cieca cupidigia e ira folle, 12. 50 che sì ci sproni ne la vita corta, 12. 51 e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!

12. 52 12. 53 12. 54

Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta;


12. 55 12. 56 12. 57

e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia.

12. 58 Veggendoci calar, ciascun ristette, 12. 59 e de la schiera tre si dipartiro 12. 60 con archi e asticciuole prima elette;

12. 61 e l'un gridò da lungi: «A qual martiro 12. 62 venite voi che scendete la costa? 12. 63 Ditel costinci; se non, l'arco tiro».

12. 64 12. 65 12. 66

Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta».

12. 67 12. 68 12. 69

Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira e fé di sé la vendetta elli stesso.

12. 70 E quel di mezzo, ch'al petto si mira, 12. 71 è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; 12. 72 quell'altro è Folo, che fu sì pien d'ira.


61-62

12. 73 Dintorno al fosso vanno a mille a mille, 12. 74 saettando qual anima si svelle 12. 75 del sangue piĂš che sua colpa sortilleÂť.

12. 76 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: 12. 77 ChirĂłn prese uno strale, e con la cocca 12. 78 fece la barba in dietro a le mascelle.


76

12. 79 Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, 12. 80 disse a' compagni: «Siete voi accorti 12. 81 che quel di retro move ciò ch'el tocca?

12. 82 Così non soglion far li piè d'i morti». 12. 83 E 'l mio buon duca, che già li er'al petto, 12. 84 dove le due nature son consorti,


12. 85 rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto 12. 86 mostrar li mi convien la valle buia; 12. 87 necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.

12. 88 Tal si partì da cantare alleluia 12. 89 che mi commise quest'officio novo: 12. 90 non è ladron, né io anima fuia.

12. 91 Ma per quella virtù per cu' io movo 12. 92 li passi miei per sì selvaggia strada, 12. 93 danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,

12. 94 12. 95 12. 96

e che ne mostri là dove si guada e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l'aere vada».

12. 97 12. 98 12. 99

Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».

12.100 Or ci movemmo con la scorta fida 12.101 lungo la proda del bollor vermiglio, 12.102 dove i bolliti facieno alte strida.


12.103 Io vidi gente sotto infino al ciglio; 12.104 e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni 12.105 che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.

12.106 Quivi si piangon li spietati danni; 12.107 quivi è Alessandro, e Dionisio fero, 12.108 che fé Cicilia aver dolorosi anni.

12.109 12.110 12.111

E quella fronte c'ha 'l pel così nero, è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero

12.112 fu spento dal figliastro sù nel mondo». 12.113 Allor mi volsi al poeta, e quei disse: 12.114 «Questi ti sia or primo, e io secondo».

12.115 Poco più oltre il centauro s'affisse 12.116 sovr'una gente che 'nfino a la gola 12.117 parea che di quel bulicame uscisse.

12.118 Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, 12.119 dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio 12.120 lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».


12.121 Poi vidi gente che di fuor del rio 12.122 tenean la testa e ancor tutto 'l casso; 12.123 e di costoro assai riconobb'io.

12.124 Così a più a più si facea basso 12.125 quel sangue, sì che cocea pur li piedi; 12.126 e quindi fu del fosso il nostro passo.

12.127 «Sì come tu da questa parte vedi 12.128 lo bulicame che sempre si scema», 12.129 disse 'l centauro, «voglio che tu credi

12.130 che da quest'altra a più a più giù prema 12.131 lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge 12.132 ove la tirannia convien che gema.

12.133 La divina giustizia di qua punge 12.134 quell'Attila che fu flagello in terra 12.135 e Pirro e Sesto; e in etterno munge

12.136 le lagrime, che col bollor diserra, 12.137 a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, 12.138 che fecero a le strade tanta guerra». 12.139 Poi si rivolse, e ripassossi 'l guazzo.


Canto XIII 13. 1 Non era ancor di là Nesso arrivato, 13. 2 quando noi ci mettemmo per un bosco 13. 3 che da neun sentiero era segnato.

13. 4 Non fronda verde, ma di color fosco; 13. 5 non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; 13. 6 non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco:

13. 7 non han sì aspri sterpi né sì folti 13. 8 quelle fiere selvagge che 'n odio hanno 13. 9 tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

13. 10 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, 13. 11 che cacciar de le Strofade i Troiani 13. 12 con tristo annunzio di futuro danno.

13. 13 Ali hanno late, e colli e visi umani, 13. 14 piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; 13. 15 fanno lamenti in su li alberi strani.

13. 16 13. 17 13. 18

E 'l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone», mi cominciò a dire, «e sarai mentre


10


13. 19 13. 20 13. 21

che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone».

13. 22 Io sentia d'ogne parte trarre guai, 13. 23 e non vedea persona che 'l facesse; 13. 24 per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

13. 25 Cred'io ch'ei credette ch'io credesse 13. 26 che tante voci uscisser, tra quei bronchi 13. 27 da gente che per noi si nascondesse.

13. 28 Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi 13. 29 qualche fraschetta d'una d'este piante, 13. 30 li pensier c'hai si faran tutti monchi».

13. 31 Allor porsi la mano un poco avante, 13. 32 e colsi un ramicel da un gran pruno; 13. 33 e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

13. 34 Da che fatto fu poi di sangue bruno, 13. 35 ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? 13. 36 non hai tu spirto di pietade alcuno?


33

13. 37 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: 13. 38 ben dovrebb'esser la tua man piĂš pia, 13. 39 se state fossimo anime di serpiÂť.

13. 40 Come d'un stizzo verde ch'arso sia 13. 41 da l'un de'capi, che da l'altro geme 13. 42 e cigola per vento che va via,


13. 43 sì de la scheggia rotta usciva insieme 13. 44 parole e sangue; ond'io lasciai la cima 13. 45 cadere, e stetti come l'uom che teme.

13. 46 13. 47 13. 48

«S'elli avesse potuto creder prima», rispuose 'l savio mio, «anima lesa, ciò c'ha veduto pur con la mia rima,

13. 49 non averebbe in te la man distesa; 13. 50 ma la cosa incredibile mi fece 13. 51 indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.

13. 52 Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece 13. 53 d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi 13. 54 nel mondo sù, dove tornar li lece».

13. 55 E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, 13. 56 ch'i' non posso tacere; e voi non gravi 13. 57 perch'io un poco a ragionar m'inveschi.

13. 58 Io son colui che tenni ambo le chiavi 13. 59 del cor di Federigo, e che le volsi, 13. 60 serrando e diserrando, sì soavi,


13. 61 13. 62 13. 63

che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.

13. 64 La meretrice che mai da l'ospizio 13. 65 di Cesare non torse li occhi putti, 13. 66 morte comune e de le corti vizio,

13. 67 13. 68 13. 69

infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.

13. 70 13. 71 13. 72

L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto.

13. 73 Per le nove radici d'esto legno 13. 74 vi giuro che già mai non ruppi fede 13. 75 al mio segnor, che fu d'onor sì degno.

13. 76 13. 77 13. 78

E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede».


13. 79 Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», 13. 80 disse 'l poeta a me, «non perder l'ora; 13. 81 ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

13. 82 Ond'io a lui: «Domandal tu ancora 13. 83 di quel che credi ch'a me satisfaccia; 13. 84 ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».

13. 85 13. 86 13. 87

Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia

13. 88 di dirne come l'anima si lega 13. 89 in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, 13. 90 s'alcuna mai di tai membra si spiega».

13. 91 Allor soffiò il tronco forte, e poi 13. 92 si convertì quel vento in cotal voce: 13. 93 «Brievemente sarà risposto a voi.

13. 94 Quando si parte l'anima feroce 13. 95 dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, 13. 96 Minòs la manda a la settima foce.


13. 97 Cade in la selva, e non l'è parte scelta; 13. 98 ma là dove fortuna la balestra, 13. 99 quivi germoglia come gran di spelta.

13.100 Surge in vermena e in pianta silvestra: 13.101 l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, 13.102 fanno dolore, e al dolor fenestra.

13.103 13.104 13.105

Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.

13.106 Qui le trascineremo, e per la mesta 13.107 selva saranno i nostri corpi appesi, 13.108 ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».

13.109 Noi eravamo ancora al tronco attesi, 13.110 credendo ch'altro ne volesse dire, 13.111 quando noi fummo d'un romor sorpresi,

13.112 13.113 13.114

similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire.


13.115 Ed ecco due da la sinistra costa, 13.116 nudi e graffiati, fuggendo sì forte, 13.117 che de la selva rompieno ogni rosta.

13.118 Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». 13.119 E l'altro, cui pareva tardar troppo, 13.120 gridava: «Lano, sì non furo accorte

13.121 le gambe tue a le giostre dal Toppo!». 13.122 E poi che forse li fallia la lena, 13.123 di sé e d'un cespuglio fece un groppo.

13.124 Di rietro a loro era la selva piena 13.125 di nere cagne, bramose e correnti 13.126 come veltri ch'uscisser di catena.

13.127 In quel che s'appiattò miser li denti, 13.128 e quel dilaceraro a brano a brano; 13.129 poi sen portar quelle membra dolenti.

13.130 Presemi allor la mia scorta per mano, 13.131 e menommi al cespuglio che piangea, 13.132 per le rotture sanguinenti in vano.


118

13.133 13.134 13.135

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?».

13.136 Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, 13.137 disse «Chi fosti, che per tante punte 13.138 soffi con sangue doloroso sermo?».


13.139 13.140 13.141

Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,

13.142 raccoglietele al piè del tristo cesto. 13.143 I' fui de la città che nel Batista 13.144 mutò il primo padrone; ond'ei per questo

13.145 sempre con l'arte sua la farà trista; 13.146 e se non fosse che 'n sul passo d'Arno 13.147 rimane ancor di lui alcuna vista,

13.148 que' cittadin che poi la rifondarno 13.149 sovra 'l cener che d'Attila rimase, 13.150 avrebber fatto lavorare indarno. 13.151 Io fei gibetto a me de le mie case».


Canto XIV 14. 1 Poi che la carità del natio loco 14. 2 mi strinse, raunai le fronde sparte, 14. 3 e rende'le a colui, ch'era già fioco.

14. 4 Indi venimmo al fine ove si parte 14. 5 lo secondo giron dal terzo, e dove 14. 6 si vede di giustizia orribil arte.

14. 7 A ben manifestar le cose nove, 14. 8 dico che arrivammo ad una landa 14. 9 che dal suo letto ogne pianta rimove.

14. 10 La dolorosa selva l'è ghirlanda 14. 11 intorno, come 'l fosso tristo ad essa: 14. 12 quivi fermammo i passi a randa a randa.

14. 13 Lo spazzo era una rena arida e spessa, 14. 14 non d'altra foggia fatta che colei 14. 15 che fu da' piè di Caton già soppressa.

14. 16 O vendetta di Dio, quanto tu dei 14. 17 esser temuta da ciascun che legge 14. 18 ciò che fu manifesto a li occhi miei!


14. 19 D'anime nude vidi molte gregge 14. 20 che piangean tutte assai miseramente, 14. 21 e parea posta lor diversa legge.

14. 22 14. 23 14. 24

Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente.

14. 25 Quella che giva intorno era piĂš molta, 14. 26 e quella men che giacea al tormento, 14. 27 ma piĂš al duolo avea la lingua sciolta.

14. 28 Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, 14. 29 piovean di foco dilatate falde, 14. 30 come di neve in alpe sanza vento.

14. 31 Quali Alessandro in quelle parti calde 14. 32 d'India vide sopra 'l suo stuolo 14. 33 fiamme cadere infino a terra salde,

14. 34 per ch'ei provide a scalpitar lo suolo 14. 35 con le sue schiere, acciò che lo vapore 14. 36 mei si stingueva mentre ch'era solo:


14. 37 tale scendeva l'etternale ardore; 14. 38 onde la rena s'accendea, com'esca 14. 39 sotto focile, a doppiar lo dolore . 14. 40 Sanza riposo mai era la tresca 14. 41 de le misere mani, or quindi or quinci 14. 42 escotendo da sé l'arsura fresca.

14. 43 14. 44 14. 45

I' cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,

14. 46 14. 47 14. 48

chi è quel grande che non par che curi lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che 'l marturi?».

14. 49 E quel medesmo, che si fu accorto 14. 50 ch'io domandava il mio duca di lui, 14. 51 gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.

14. 52 Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui 14. 53 crucciato prese la folgore aguta 14. 54 onde l'ultimo dì percosso fui;


40-42

14. 55 o s'elli stanchi li altri a muta a muta 14. 56 in Mongibello a la focina negra, 14. 57 chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!",

14. 58 sĂŹ com'el fece a la pugna di Flegra, 14. 59 e me saetti con tutta sua forza, 14. 60 non ne potrebbe aver vendetta allegraÂť.


14. 61 Allora il duca mio parlò di forza 14. 62 tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito: 14. 63 «O Capaneo, in ciò che non s'ammorza

14. 64 la tua superbia, se' tu più punito: 14. 65 nullo martiro, fuor che la tua rabbia, 14. 66 sarebbe al tuo furor dolor compito».

14. 67 Poi si rivolse a me con miglior labbia 14. 68 dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi 14. 69 ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia

14. 70 Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; 14. 71 ma, com'io dissi lui, li suoi dispetti 14. 72 sono al suo petto assai debiti fregi.

14. 73 Or mi vien dietro, e guarda che non metti, 14. 74 ancor, li piedi ne la rena arsiccia; 14. 75 ma sempre al bosco tien li piedi stretti».

14. 76 14. 77 14. 78

Tacendo divenimmo là 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia.


14. 79 Quale del Bulicame esce ruscello 14. 80 che parton poi tra lor le peccatrici, 14. 81 tal per la rena giù sen giva quello.

14. 82 Lo fondo suo e ambo le pendici 14. 83 fatt'era 'n pietra, e ' margini dallato; 14. 84 per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.

14. 85 «Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, 14. 86 poscia che noi intrammo per la porta 14. 87 lo cui sogliare a nessuno è negato,

14. 88 cosa non fu da li tuoi occhi scorta 14. 89 notabile com'è 'l presente rio, 14. 90 che sovra sé tutte fiammelle ammorta».

14. 91 Queste parole fuor del duca mio; 14. 92 per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto 14. 93 di cui largito m'avea il disio.

14. 94 «In mezzo mar siede un paese guasto», 14. 95 diss'elli allora, «che s'appella Creta, 14. 96 sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.


14. 97 Una montagna v'è che già fu lieta 14. 98 d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida: 14. 99 or è diserta come cosa vieta.

14.100 Rea la scelse già per cuna fida 14.101 del suo figliuolo, e per celarlo meglio, 14.102 quando piangea, vi facea far le grida.

14.103 Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, 14.104 che tien volte le spalle inver' Dammiata 14.105 e Roma guarda come suo speglio.

14.106 La sua testa è di fin oro formata, 14.107 e puro argento son le braccia e 'l petto, 14.108 poi è di rame infino a la forcata;

14.109 da indi in giuso è tutto ferro eletto, 14.110 salvo che 'l destro piede è terra cotta; 14.111 e sta 'n su quel più che 'n su l'altro, eretto.

14.112 Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta 14.113 d'una fessura che lagrime goccia, 14.114 le quali, accolte, foran quella grotta.


14.115 Lor corso in questa valle si diroccia: 14.116 fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; 14.117 poi sen van giù per questa stretta doccia

14.118 infin, là ove più non si dismonta 14.119 fanno Cocito; e qual sia quello stagno 14.120 tu lo vedrai, però qui non si conta».

14.121 E io a lui: «Se 'l presente rigagno 14.122 si diriva così dal nostro mondo, 14.123 perché ci appar pur a questo vivagno?».

14.124 Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; 14.125 e tutto che tu sie venuto molto, 14.126 pur a sinistra, giù calando al fondo,

14.127 non se' ancor per tutto il cerchio vòlto: 14.128 per che, se cosa n'apparisce nova, 14.129 non de' addur maraviglia al tuo volto».

14.130 E io ancor: «Maestro, ove si trova 14.131 Flegetonta e Letè? ché de l'un taci, 14.132 e l'altro di' che si fa d'esta piova».


14.133 «In tutte tue question certo mi piaci», 14.134 rispuose; «ma 'l bollor de l'acqua rossa 14.135 dovea ben solver l'una che tu faci.

14.136 Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, 14.137 là dove vanno l'anime a lavarsi 14.138 quando la colpa pentuta è rimossa».

14.139 Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi 14.140 dal bosco; fa che di retro a me vegne: 14.141 li margini fan via, che non son arsi, 14.142 e sopra loro ogne vapor si spegne».


Canto XV 15. 1 Ora cen porta l'un de' duri margini; 15. 2 e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, 15. 3 sì che dal foco salva l'acqua e li argini.

15. 4 Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, 15. 5 temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa, 15. 6 fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;

15. 7 e quali Padoan lungo la Brenta, 15. 8 per difender lor ville e lor castelli, 15. 9 anzi che Carentana il caldo senta:

15. 10 a tale imagine eran fatti quelli, 15. 11 tutto che né sì alti né sì grossi, 15. 12 qual che si fosse, lo maestro felli.

15. 13 Già eravam da la selva rimossi 15. 14 tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, 15. 15 perch'io in dietro rivolto mi fossi,

15. 16 quando incontrammo d'anime una schiera 15. 17 che venìan lungo l'argine, e ciascuna 15. 18 ci riguardava come suol da sera


15. 19 guardare uno altro sotto nuova luna; 15. 20 e sì ver' noi aguzzavan le ciglia 15. 21 come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

15. 22 Così adocchiato da cotal famiglia, 15. 23 fui conosciuto da un, che mi prese 15. 24 per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

15. 25 15. 26 15. 27

E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, sì che 'l viso abbrusciato non difese

15. 28 15. 29 15. 30

la conoscenza sua al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

15. 31 15. 32 15. 33

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco c e lascia andar la traccia».

15. 34 15. 35 15. 36

I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m'asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco».


30

15. 37 15. 38 15. 39

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent'anni sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia.

15. 40 15. 41 15. 42

Però va oltre: i' ti verrò a' panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni».


15. 43 I' non osava scender de la strada 15. 44 per andar par di lui; ma 'l capo chino 15. 45 tenea com'uom che reverente vada.

15. 46 15. 47 15. 48

El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra 'l cammino?».

15. 49 15. 50 15. 51

«Là sù di sopra, in la vita serena», rispuos'io lui, «mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena.

15. 52 Pur ier mattina le volsi le spalle: 15. 53 questi m'apparve, tornand'io in quella, 15. 54 e reducemi a ca per questo calle».

15. 55 Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, 15. 56 non puoi fallire a glorioso porto, 15. 57 se ben m'accorsi ne la vita bella;

15. 58 e s'io non fossi sì per tempo morto, 15. 59 veggendo il cielo a te così benigno, 15. 60 dato t'avrei a l'opera conforto.


15. 61 15. 62 15. 63

Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole *ab* antico, e tiene ancor del monte e del macigno,

15. 64 15. 65 15. 66

ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.

15. 67 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; 15. 68 gent'è avara, invidiosa e superba: 15. 69 dai lor costumi fa che tu ti forbi.

15. 70 La tua fortuna tanto onor ti serba, 15. 71 che l'una parte e l'altra avranno fame 15. 72 di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

15. 73 Faccian le bestie fiesolane strame 15. 74 di lor medesme, e non tocchin la pianta, 15. 75 s'alcuna surge ancora in lor letame,

15. 76 in cui riviva la sementa santa 15. 77 di que' Roman che vi rimaser quando 15. 78 fu fatto il nido di malizia tanta».


15. 79 «Se fosse tutto pieno il mio dimando», 15. 80 rispuos'io lui, «voi non sareste ancora 15. 81 de l'umana natura posto in bando;

15. 82 ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, 15. 83 la cara e buona imagine paterna 15. 84 di voi quando nel mondo ad ora ad ora

15. 85 15. 86 15. 87

m'insegnavate come l'uom s'etterna: e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.

15. 88 15. 89 15. 90

Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s'a lei arrivo.

15. 91 Tanto vogl'io che vi sia manifesto, 15. 92 pur che mia coscienza non mi garra, 15. 93 che a la Fortuna, come vuol, son presto.

15. 94 Non è nuova a li orecchi miei tal arra: 15. 95 però giri Fortuna la sua rota 15. 96 come le piace, e 'l villan la sua marra».


15. 97 Lo mio maestro allora in su la gota 15. 98 destra si volse in dietro, e riguardommi; 15. 99 poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

15.100 Né per tanto di men parlando vommi 15.101 con ser Brunetto, e dimando chi sono 15.102 li suoi compagni più noti e più sommi.

15.103 Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; 15.104 de li altri fia laudabile tacerci, 15.105 ché 'l tempo sarìa corto a tanto suono.

15.106 In somma sappi che tutti fur cherci 15.107 e litterati grandi e di gran fama, 15.108 d'un peccato medesmo al mondo lerci.

15.109 Priscian sen va con quella turba grama, 15.110 e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, 15.111 s'avessi avuto di tal tigna brama,

15.112 colui potei che dal servo de' servi 15.113 fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, 15.114 dove lasciò li mal protesi nervi.


15.115 Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone 15.116 più lungo esser non può, però ch'i' veggio 15.117 là surger nuovo fummo del sabbione.

15.118 Gente vien con la quale esser non deggio. 15.119 Sieti raccomandato il mio Tesoro 15.120 nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

15.121 Poi si rivolse, e parve di coloro 15.122 che corrono a Verona il drappo verde 15.123 per la campagna; e parve di costoro 15.124 quelli che vince, non colui che perde.


Canto XVI 16. 1 Già era in loco onde s'udìa 'l rimbombo 16. 2 de l'acqua che cadea ne l'altro giro, 16. 3 simile a quel che l'arnie fanno rombo,

16. 4 quando tre ombre insieme si partiro, 16. 5 correndo, d'una torma che passava 16. 6 sotto la pioggia de l'aspro martiro.

16. 7 Venian ver noi, e ciascuna gridava: 16. 8 «Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri 16. 9 esser alcun di nostra terra prava».

16. 10 Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri 16. 11 ricenti e vecchie, da le fiamme incese! 16. 12 Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.

16. 13 A le lor grida il mio dottor s'attese; 16. 14 volse 'l viso ver me, e: «Or aspetta», 16. 15 disse «a costor si vuole esser cortese.

16. 16 16. 17 16. 18

E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta».


16. 19 16. 20 16. 21

Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei.

16. 22 Qual sogliono i campion far nudi e unti, 16. 23 avvisando lor presa e lor vantaggio, 16. 24 prima che sien tra lor battuti e punti,

16. 25 così rotando, ciascuno il visaggio 16. 26 drizzava a me, sì che 'n contraro il collo 16. 27 faceva ai piè continuo viaggio.

16. 28 16. 29 16. 30

E «Se miseria d'esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò l'uno «e 'l tinto aspetto e brollo,

16. 31 16. 32 16. 33

la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se', che i vivi piedi così sicuro per lo 'nferno freghi.

16. 34 Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, 16. 35 tutto che nudo e dipelato vada, 16. 36 fu di grado maggior che tu non credi:


16. 37 nepote fu de la buona Gualdrada; 16. 38 Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita 16. 39 fece col senno assai e con la spada.

16. 40 L'altro, ch'appresso me la rena trita, 16. 41 è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce 16. 42 nel mondo sù dovrìa esser gradita.

16. 43 16. 44 16. 45

E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie più ch'altro mi nuoce».

16. 46 S'i' fossi stato dal foco coperto, 16. 47 gittato mi sarei tra lor di sotto, 16. 48 e credo che 'l dottor l'avria sofferto;

16. 49 ma perch'io mi sarei brusciato e cotto, 16. 50 vinse paura la mia buona voglia 16. 51 che di loro abbracciar mi facea ghiotto.

16. 52 16. 53 16. 54

Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia,


16. 55 tosto che questo mio segnor mi disse 16. 56 parole per le quali i' mi pensai 16. 57 che qual voi siete, tal gente venisse.

16. 58 Di vostra terra sono, e sempre mai 16. 59 l'ovra di voi e li onorati nomi 16. 60 con affezion ritrassi e ascoltai.

16. 61 Lascio lo fele e vo per dolci pomi 16. 62 promessi a me per lo verace duca; 16. 63 ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».

16. 64 16. 65 16. 66

«Se lungamente l'anima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, «e se la fama tua dopo te luca,

16. 67 cortesia e valor dì se dimora 16. 68 ne la nostra città sì come suole, 16. 69 o se del tutto se n'è gita fora;

16. 70 16. 71 16. 72

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole».


16. 73 «La gente nuova e i sùbiti guadagni 16. 74 orgoglio e dismisura han generata, 16. 75 Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

16. 76 Così gridai con la faccia levata; 16. 77 e i tre, che ciò inteser per risposta, 16. 78 guardar l'un l'altro com'al ver si guata.

16. 79 16. 80 16. 81

«Se l'altre volte sì poco ti costa», rispuoser tutti «il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta!

16. 82 Però, se campi d'esti luoghi bui 16. 83 e torni a riveder le belle stelle, 16. 84 quando ti gioverà dicere "I' fui",

16. 85 16. 86 16. 87

fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle.

16. 88 Un amen non saria potuto dirsi 16. 89 tosto così com'e' fuoro spariti; 16. 90 per ch'al maestro parve di partirsi.


16. 91 16. 92 16. 93

Io lo seguiva, e poco eravam iti, che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.

16. 94 Come quel fiume c'ha proprio cammino 16. 95 prima dal Monte Viso 'nver' levante, 16. 96 da la sinistra costa d'Apennino,

16. 97 16. 98 16. 99

che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante,

16.100 rimbomba là sovra San Benedetto 16.101 de l'Alpe per cadere ad una scesa 16.102 ove dovea per mille esser recetto;

16.103 16.104 16.105

così, giù d'una ripa discoscesa, trovammo risonar quell'acqua tinta, sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa.

16.106 Io avea una corda intorno cinta, 16.107 e con essa pensai alcuna volta 16.108 prender la lonza a la pelle dipinta.


16.109 Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, 16.110 sì come 'l duca m'avea comandato, 16.111 porsila a lui aggroppata e ravvolta.

16.112 Ond'ei si volse inver' lo destro lato, 16.113 e alquanto di lunge da la sponda 16.114 la gittò giuso in quell'alto burrato.

16.115 "E' pur convien che novità risponda" 16.116 dicea fra me medesmo "al novo cenno 16.117 che 'l maestro con l'occhio sì seconda".

16.118 Ahi quanto cauti li uomini esser dienno 16.119 presso a color che non veggion pur l'ovra, 16.120 ma per entro i pensier miran col senno!

16.121 16.122 16.123

El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien ch'al tuo viso si scovra».

16.124 Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna 16.125 de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, 16.126 però che sanza colpa fa vergogna;


16.127 ma qui tacer nol posso; e per le note 16.128 di questa comedìa, lettor, ti giuro, 16.129 s'elle non sien di lunga grazia vòte,

16.130 ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro 16.131 venir notando una figura in suso, 16.132 maravigliosa ad ogne cor sicuro,

16.133 sì come torna colui che va giuso 16.134 talora a solver l'àncora ch'aggrappa 16.135 o scoglio o altro che nel mare è chiuso, 16.136 che 'n sù si stende, e da piè si rattrappa.


Canto XVII 17. 1 «Ecco la fiera con la coda aguzza, 17. 2 che passa i monti, e rompe i muri e l'armi! 17. 3 Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!».

17. 4 Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; 17. 5 e accennolle che venisse a proda 17. 6 vicino al fin d'i passeggiati marmi.

17. 7 E quella sozza imagine di froda 17. 8 sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, 17. 9 ma 'n su la riva non trasse la coda.

17. 10 17. 11 17. 12

La faccia sua era faccia d'uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d'un serpente tutto l'altro fusto;

17. 13 due branche avea pilose insin l'ascelle; 17. 14 lo dosso e 'l petto e ambedue le coste 17. 15 dipinti avea di nodi e di rotelle.

17. 16 Con più color, sommesse e sovraposte 17. 17 non fer mai drappi Tartari né Turchi, 17. 18 né fuor tai tele per Aragne imposte.


7-8


17. 19 17. 20 17. 21

Come tal volta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi

17. 22 17. 23 17. 24

lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.

17. 25 Nel vano tutta sua coda guizzava, 17. 26 torcendo in sù la venenosa forca 17. 27 ch'a guisa di scorpion la punta armava.

17. 28 Lo duca disse: «Or convien che si torca 17. 29 la nostra via un poco insino a quella 17. 30 bestia malvagia che colà si corca».

17. 31 Però scendemmo a la destra mammella, 17. 32 e diece passi femmo in su lo stremo, 17. 33 per ben cessar la rena e la fiammella.

17. 34 E quando noi a lei venuti semo, 17. 35 poco più oltre veggio in su la rena 17. 36 gente seder propinqua al loco scemo.


17. 37 Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena 17. 38 esperienza d'esto giron porti», 17. 39 mi disse, «va, e vedi la lor mena.

17. 40 17. 41 17. 42

Li tuoi ragionamenti sian là corti: mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti».

17. 43 Così ancor su per la strema testa 17. 44 di quel settimo cerchio tutto solo 17. 45 andai, dove sedea la gente mesta.

17. 46 Per li occhi fora scoppiava lor duolo; 17. 47 è di qua, di là soccorrien con le mani 17. 48 quando a' vapori, e quando al caldo suolo:

17. 49 non altrimenti fan di state i cani 17. 50 or col ceffo, or col piè, quando son morsi 17. 51 o da pulci o da mosche o da tafani.

17. 52 Poi che nel viso a certi li occhi porsi, 17. 53 ne' quali 'l doloroso foco casca, 17. 54 non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi


17. 55 17. 56 17. 57

che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno, e quindi par che 'l loro occhio si pasca.

17. 58 17. 59 17. 60

E com'io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d'un leone avea faccia e contegno

17. 61 Poi, procedendo di mio sguardo il curro, 17. 62 vidine un'altra come sangue rossa, 17. 63 mostrando un'oca bianca più che burro.

17. 64 17. 65 17. 66

E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: «Che fai tu in questa fossa?

17. 67 Or te ne va; e perché se' vivo anco, 17. 68 sappi che 'l mio vicin Vitaliano 17. 69 sederà qui dal mio sinistro fianco.

17. 70 Con questi Fiorentin son padoano: 17. 71 spesse fiate mi 'ntronan li orecchi 17. 72 gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,


17. 73 che recherà la tasca con tre becchi!"». 17. 74 Qui distorse la bocca e di fuor trasse 17. 75 la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

17. 76 17. 77 17. 78

E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse.

17. 79 Trova' il duca mio ch'era salito 17. 80 già su la groppa del fiero animale, 17. 81 e disse a me: «Or sie forte e ardito.

17. 82 Omai si scende per sì fatte scale: 17. 83 monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, 17. 84 sì che la coda non possa far male».

17. 85 Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo 17. 86 de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, 17. 87 e triema tutto pur guardando 'l rezzo,

17. 88 17. 89 17. 90

tal divenn'io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte.


17. 91 17. 92 17. 93

I' m'assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com'io credetti: "Fa che tu m'abbracce".

17. 94 17. 95 17. 96

Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai con le braccia m'avvinse e mi sostenne;

17. 97 e disse: «Gerion, moviti omai: 17. 98 le rote larghe e lo scender sia poco: 17. 99 pensa la nova soma che tu hai».

17.100 17.101 17.102

Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco,

17.103 17.104 17.105

là 'v'era 'l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse.

17.106 Maggior paura non credo che fosse 17.107 quando Fetonte abbandonò li freni, 17.108 per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;


17.109 né quando Icaro misero le reni 17.110 sentì spennar per la scaldata cera, 17.111 gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

17.112 che fu la mia, quando vidi ch'i' era 17.113 ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta 17.114 ogne veduta fuor che de la fera.

17.115 Ella sen va notando lenta lenta: 17.116 rota e discende, ma non me n'accorgo 17.117 se non che al viso e di sotto mi venta.

17.118 Io sentia già da la man destra il gorgo 17.119 far sotto noi un orribile scroscio, 17.120 per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.

17.121 Allor fu' io più timido a lo stoscio, 17.122 però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; 17.123 ond'io tremando tutto mi raccoscio.

17.124 17.125 17.126

E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti.


121


17.127 Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, 17.128 che sanza veder logoro o uccello 17.129 fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,

17.130 discende lasso onde si move isnello, 17.131 per cento rote, e da lunge si pone 17.132 dal suo maestro, disdegnoso e fello;

17.133 17.134 17.135 17.136

così ne puose al fondo Gerione al piè al piè de la stagliata rocca e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca.


Canto XVIII 18. 1 Luogo è in inferno detto Malebolge, 18. 2 tutto di pietra di color ferrigno, 18. 3 come la cerchia che dintorno il volge.

18. 4 Nel dritto mezzo del campo maligno 18. 5 vaneggia un pozzo assai largo e profondo, 18. 6 di cui *suo loco* dicerò l'ordigno.

18. 7 Quel cinghio che rimane adunque è tondo 18. 8 tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, 18. 9 e ha distinto in dieci valli il fondo.

18. 10 Quale, dove per guardia de le mura 18. 11 più e più fossi cingon li castelli, 18. 12 la parte dove son rende figura,

18. 13 18. 14 18. 15

tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli,

18. 16 18. 17 18. 18

così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli.


18. 19 In questo luogo, de la schiena scossi 18. 20 di Gerion, trovammoci; e 'l poeta 18. 21 tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

18. 22 A la man destra vidi nova pieta, 18. 23 novo tormento e novi frustatori, 18. 24 di che la prima bolgia era repleta.

18. 25 Nel fondo erano ignudi i peccatori; 18. 26 dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, 18. 27 di lĂ con noi, ma con passi maggiori,

18. 28 come i Roman per l'essercito molto, 18. 29 l'anno del giubileo, su per lo ponte 18. 30 hanno a passar la gente modo colto,

18. 31 che da l'un lato tutti hanno la fronte 18. 32 verso 'l castello e vanno a Santo Pietro; 18. 33 da l'altra sponda vanno verso 'l monte.

18. 34 Di qua, di lĂ , su per lo sasso tetro 18. 35 vidi demon cornuti con gran ferze, 18. 36 che li battien crudelmente di retro.


37-38

18. 37 Ahi come facean lor levar le berze 18. 38 a le prime percosse! già nessuno 18. 39 le seconde aspettava né le terze.

18. 40 18. 41 18. 42

Mentr'io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: «Già di veder costui non son digiuno».


18. 43 18. 44 18. 45

Per ch'io a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette, e assentio ch'alquanto in dietro gissi.

18. 46 E quel frustato celar si credette 18. 47 bassando 'l viso; ma poco li valse, 18. 48 ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette,

18. 49 se le fazion che porti non son false, 18. 50 Venedico se' tu Caccianemico. 18. 51 Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

18. 52 18. 53 18. 54

Ed elli a me: «Mal volentier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico.

18. 55 18. 56 18. 57

I' fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.

18. 58 18. 59 18. 60

E non pur io qui piango bolognese; anzi n'è questo luogo tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese


18. 61 18. 62 18. 63

a dicer "sipa" tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno».

18. 64 Così parlando il percosse un demonio 18. 65 de la sua scuriada, e disse: «Via, 18. 66 ruffian! qui non son femmine da conio».

18. 67 I' mi raggiunsi con la scorta mia; 18. 68 poscia con pochi passi divenimmo 18. 69 là 'v'uno scoglio de la ripa uscia.

18. 70 Assai leggeramente quel salimmo; 18. 71 e vòlti a destra su per la sua scheggia, 18. 72 da quelle cerchie etterne ci partimmo.

18. 73 Quando noi fummo là dov'el vaneggia 18. 74 di sotto per dar passo a li sferzati, 18. 75 lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

18. 76 lo viso in te di quest'altri mal nati, 18. 77 ai quali ancor non vedesti la faccia 18. 78 però che son con noi insieme andati».


18. 79 Del vecchio ponte guardavam la traccia 18. 80 che venìa verso noi da l'altra banda, 18. 81 e che la ferza similmente scaccia.

18. 82 18. 83 18. 84

E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: «Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda:

18. 85 quanto aspetto reale ancor ritene! 18. 86 Quelli è Iasón, che per cuore e per senno 18. 87 li Colchi del monton privati féne.

18. 88 Ello passò per l'isola di Lenno, 18. 89 poi che l'ardite femmine spietate 18. 90 tutti li maschi loro a morte dienno.

18. 91 18. 92 18. 93

Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l'altre ingannate.

18. 94 18. 95 18. 96

Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.


18. 97 18. 98 18. 99

Con lui sen va chi da tal parte inganna: e questo basti de la prima valle sapere e di color che 'n sé assanna».

18.100 Già eravam là 've lo stretto calle 18.101 con l'argine secondo s'incrocicchia, 18.102 e fa di quello ad un altr'arco spalle.

18.103 Quindi sentimmo gente che si nicchia 18.104 ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, 18.105 e sé medesma con le palme picchia.

18.106 Le ripe eran grommate d'una muffa, 18.107 per l'alito di giù che vi s'appasta, 18.108 che con li occhi e col naso facea zuffa.

18.109 Lo fondo è cupo sì, che non ci basta 18.110 loco a veder sanza montare al dosso 18.111 de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.

18.112 Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso 18.113 vidi gente attuffata in uno sterco 18.114 che da li uman privadi parea mosso.


118-119


18.115 E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, 18.116 vidi un col capo sì di merda lordo, 18.117 che non parea s'era laico o cherco.

18.118 Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo 18.119 di riguardar più me che li altri brutti?». 18.120 E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

18.121 già t'ho veduto coi capelli asciutti, 18.122 e se' Alessio Interminei da Lucca: 18.123 però t'adocchio più che li altri tutti».

18.124 Ed elli allor, battendosi la zucca: 18.125 «Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe 18.126 ond'io non ebbi mai la lingua stucca».

18.127 Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», 18.128 mi disse «il viso un poco più avante, 18.129 sì che la faccia ben con l'occhio attinghe

18.130 di quella sozza e scapigliata fante 18.131 che là si graffia con l'unghie merdose, 18.132 e or s'accoscia e ora è in piedi stante.


133-135


18.133 Taide è, la puttana che rispuose 18.134 al drudo suo quando disse "Ho io grazie 18.135 grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". 18.136 E quinci sien le nostre viste sazie.


Canto XIX 19. 1 O Simon mago, o miseri seguaci 19. 2 che le cose di Dio, che di bontate 19. 3 deon essere spose, e voi rapaci

19. 4 per oro e per argento avolterate, 19. 5 or convien che per voi suoni la tromba, 19. 6 però che ne la terza bolgia state.

19. 7 Già eravamo, a la seguente tomba, 19. 8 montati de lo scoglio in quella parte 19. 9 ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.

19. 10 O somma sapienza, quanta è l'arte 19. 11 che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, 19. 12 e quanto giusto tua virtù comparte!

19. 13 Io vidi per le coste e per lo fondo 19. 14 piena la pietra livida di fóri, 19. 15 d'un largo tutti e ciascun era tondo.

19. 16 Non mi parean men ampi né maggiori 19. 17 che que' che son nel mio bel San Giovanni, 19. 18 fatti per loco d'i battezzatori;


19. 19 19. 20 19. 21

l'un de li quali, ancor non è molt'anni, rupp'io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.

19. 22 Fuor de la bocca a ciascun soperchiava 19. 23 d'un peccator li piedi e de le gambe 19. 24 infino al grosso, e l'altro dentro stava.

19. 25 Le piante erano a tutti accese intrambe; 19. 26 per che sì forte guizzavan le giunte, 19. 27 che spezzate averien ritorte e strambe.

19. 28 Qual suole il fiammeggiar de le cose unte 19. 29 muoversi pur su per la strema buccia, 19. 30 tal era lì dai calcagni a le punte.

19. 31 «Chi è colui, maestro, che si cruccia 19. 32 guizzando più che li altri suoi consorti», 19. 33 diss'io, «e cui più roggia fiamma succia?».

19. 34 Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti 19. 35 là giù per quella ripa che più giace, 19. 36 da lui saprai di sé e de' suoi torti».


19. 37 E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace: 19. 38 tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto 19. 39 dal tuo volere, e sai quel che si tace».

19. 40 Allor venimmo in su l'argine quarto: 19. 41 volgemmo e discendemmo a mano stanca 19. 42 là giù nel fondo foracchiato e arto.

19. 43 Lo buon maestro ancor de la sua anca 19. 44 non mi dipuose, sì mi giunse al rotto 19. 45 di quel che si piangeva con la zanca.

19. 46 19. 47 19. 48

«O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa», comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».

19. 49 19. 50 19. 51

Io stava come 'l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto, richiama lui, per che la morte cessa.

19. 52 Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto, 19. 53 se' tu già costì ritto, Bonifazio? 19. 54 Di parecchi anni mi mentì lo scritto.


49-50


19. 55 Se' tu sì tosto di quell'aver sazio 19. 56 per lo qual non temesti tòrre a 'nganno 19. 57 la bella donna, e poi di farne strazio?».

19. 58 Tal mi fec'io, quai son color che stanno, 19. 59 per non intender ciò ch'è lor risposto, 19. 60 quasi scornati, e risponder non sanno.

19. 61 Allor Virgilio disse: «Dilli tosto: 19. 62 "Non son colui, non son colui che credi"»; 19. 63 e io rispuosi come a me fu imposto.

19. 64 Per che lo spirto tutti storse i piedi; 19. 65 poi, sospirando e con voce di pianto, 19. 66 mi disse: «Dunque che a me richiedi?

19. 67 19. 68 19. 69

Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch'i' fui vestito del gran manto;

19. 70 19. 71 19. 72

e veramente fui figliuol de l'orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l'avere e qui me misi in borsa.


19. 73 Di sotto al capo mio son li altri tratti 19. 74 che precedetter me simoneggiando, 19. 75 per le fessure de la pietra piatti.

19. 76 Là giù cascherò io altresì quando 19. 77 verrà colui ch'i' credea che tu fossi 19. 78 allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.

19. 79 19. 80 19. 81

Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi e ch'i' son stato così sottosopra, ch'el non starà piantato coi piè rossi:

19. 82 ché dopo lui verrà di più laida opra 19. 83 di ver' ponente, un pastor sanza legge, 19. 84 tal che convien che lui e me ricuopra.

19. 85 Novo Iasón sarà, di cui si legge 19. 86 ne' Maccabei; e come a quel fu molle 19. 87 suo re, così fia lui chi Francia regge».

19. 88 19. 89 19. 90

Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro: «Deh, or mi dì : quanto tesoro volle


19. 91 Nostro Segnore in prima da san Pietro 19. 92 ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa? 19. 93 Certo non chiese se non "Viemmi retro".

19. 94 Né Pier né li altri tolsero a Matia 19. 95 oro od argento, quando fu sortito 19. 96 al loco che perdé l'anima ria.

19. 97 19. 98 19. 99

Però ti sta, ché tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch'esser ti fece contra Carlo ardito.

19.100 19.101 19.102

E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza delle somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta,

19.103 19.104 19.105

io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi.

19.106 Di voi pastor s'accorse il Vangelista, 19.107 quando colei che siede sopra l'acque 19.108 puttaneggiar coi regi a lui fu vista;


19.109 quella che con le sette teste nacque, 19.110 e da le diece corna ebbe argomento, 19.111 fin che virtute al suo marito piacque.

19.112 Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento; 19.113 e che altro è da voi a l'idolatre, 19.114 se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?

19.115 Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, 19.116 non la tua conversion, ma quella dote 19.117 che da te prese il primo ricco patre!».

19.118 E mentr'io li cantava cotai note, 19.119 o ira o coscienza che 'l mordesse, 19.120 forte spingava con ambo le piote.

19.121 I' credo ben ch'al mio duca piacesse, 19.122 con sì contenta labbia sempre attese 19.123 lo suon de le parole vere espresse.

19.124 Però con ambo le braccia mi prese; 19.125 e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, 19.126 rimontò per la via onde discese.


19.127 Né si stancò d'avermi a sé distretto, 19.128 sì men portò sovra 'l colmo de l'arco 19.129 che dal quarto al quinto argine è tragetto.

19.130 Quivi soavemente spuose il carco, 19.131 soave per lo scoglio sconcio ed erto 19.132 che sarebbe a le capre duro varco. 19.133 Indi un altro vallon mi fu scoperto.


Canto XX 20. 1 Di nova pena mi conven far versi 20. 2 e dar matera al ventesimo canto 20. 3 de la prima canzon ch'è d'i sommersi.

20. 4 Io era già disposto tutto quanto 20. 5 a riguardar ne lo scoperto fondo, 20. 6 che si bagnava d'angoscioso pianto;

20. 7 e vidi gente per lo vallon tondo 20. 8 venir, tacendo e lagrimando, al passo 20. 9 che fanno le letane in questo mondo.

20. 10 20. 11 20. 12

Come 'l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso;

20. 13 ché da le reni era tornato 'l volto 20. 14 e in dietro venir li convenia, 20. 15 perché 'l veder dinanzi era lor tolto.

20. 16 20. 17 20. 18

Forse per forza già di parlasia si travolse così alcun del tutto; ma io nol vidi, né credo che sia.


20. 19 Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto 20. 20 di tua lezione, or pensa per te stesso 20. 21 com'io potea tener lo viso asciutto,

20. 22 quando la nostra imagine di presso 20. 23 vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi 20. 24 le natiche bagnava per lo fesso.

20. 25 Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi 20. 26 del duro scoglio, sì che la mia scorta 20. 27 mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?

20. 28 Qui vive la pietà quand'è ben morta; 20. 29 chi è più scellerato che colui 20. 30 che al giudicio divin passion comporta?

20. 31 Drizza la testa, drizza, e vedi a cui 20. 32 s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; 20. 33 per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui,

20. 34 Anfiarao? perché lasci la guerra?". 20. 35 E non restò di ruinare a valle 20. 36 fino a Minòs che ciascheduno afferra.


20. 37 Mira c'ha fatto petto de le spalle: 20. 38 perchĂŠ volle veder troppo davante, 20. 39 di retro guarda e fa retroso calle.

20. 40 Vedi Tiresia, che mutò sembiante 20. 41 quando di maschio femmina divenne 20. 42 cangiandosi le membra tutte quante;

20. 43 20. 44 20. 45

e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che riavesse le maschili penne.

20. 46 Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga, 20. 47 che ne' monti di Luni, dove ronca 20. 48 lo Carrarese che di sotto alberga,

20. 49 ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca 20. 50 per sua dimora; onde a guardar le stelle 20. 51 e 'l mar no li era la veduta tronca.

20. 52 20. 53 20. 54

E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di lĂ ogne pilosa pelle,


20. 55 Manto fu, che cercò per terre molte; 20. 56 poscia si puose là dove nacqu'io; 20. 57 onde un poco mi piace che m'ascolte.

20. 58 Poscia che 'l padre suo di vita uscìo, 20. 59 e venne serva la città di Baco, 20. 60 questa gran tempo per lo mondo gio.

20. 61 20. 62 20. 63

Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l'Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.

20. 64 Per mille fonti, credo, e più si bagna 20. 65 tra Garda e Val Camonica e Pennino 20. 66 de l'acqua che nel detto laco stagna.

20. 67 Loco è nel mezzo là dove 'l trentino 20. 68 pastore e quel di Brescia e 'l veronese 20. 69 segnar poria, s'e' fesse quel cammino.

20. 70 Siede Peschiera, bello e forte arnese 20. 71 da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, 20. 72 ove la riva 'ntorno più discese.


20. 73 20. 74 20. 75

Ivi convien che tutto quanto caschi ciò che 'n grembo a Benaco star non può, e fassi fiume giù per verdi paschi.

20. 76 Tosto che l'acqua a correr mette co, 20. 77 non più Benaco, ma Mencio si chiama 20. 78 fino a Governol, dove cade in Po.

20. 79 Non molto ha corso, ch'el trova una lama, 20. 80 ne la qual si distende e la 'mpaluda; 20. 81 e suol di state talor essere grama.

20. 82 Quindi passando la vergine cruda 20. 83 vide terra, nel mezzo del pantano, 20. 84 sanza coltura e d'abitanti nuda.

20. 85 20. 86 20. 87

Lì, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

20. 88 Li uomini poi che 'ntorno erano sparti 20. 89 s'accolsero a quel loco, ch'era forte 20. 90 per lo pantan ch'avea da tutte parti.


20. 91 20. 92 20. 93

Fer la città sovra quell'ossa morte; e per colei che 'l loco prima elesse, Mantua l'appellar sanz'altra sorte.

20. 94 Già fuor le genti sue dentro più spesse, 20. 95 prima che la mattia da Casalodi 20. 96 da Pinamonte inganno ricevesse.

20. 97 Però t'assenno che, se tu mai odi 20. 98 originar la mia terra altrimenti, 20. 99 la verità nulla menzogna frodi».

20.100 20.101 20.102

E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti mi son sì certi e prendon sì mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti.

20.103 20.104 20.105

Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ché solo a ciò la mia mente rifiede».

20.106 Allor mi disse: «Quel che da la gota 20.107 porge la barba in su le spalle brune, 20.108 fu - quando Grecia fu di maschi vòta,


20.109 20.110 20.111

sì ch'a pena rimaser per le cune augure, e diede 'l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune.

20.112 Euripilo ebbe nome, e così 'l canta 20.113 l'alta mia tragedìa in alcun loco: 20.114 ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

20.115 Quell'altro che ne' fianchi è così poco, 20.116 Michele Scotto fu, che veramente 20.117 de le magiche frode seppe 'l gioco.

20.118 Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, 20.119 ch'avere inteso al cuoio e a lo spago 20.120 ora vorrebbe, ma tardi si pente.

20.121 Vedi le triste che lasciaron l'ago, 20.122 la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; 20.123 fecer malie con erbe e con imago.

20.124 Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine 20.125 d'amendue li emisperi e tocca l'onda 20.126 sotto Sobilia Caino e le spine;


20.127 e già iernotte fu la luna tonda: 20.128 ben ten de' ricordar, ché non ti nocque 20.129 alcuna volta per la selva fonda». 20.130 Sì mi parlava, e andavamo introcque.


Canto XXI 21. 1 Così di ponte in ponte, altro parlando 21. 2 che la mia comedìa cantar non cura, 21. 3 venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando

21. 4 restammo per veder l'altra fessura 21. 5 di Malebolge e li altri pianti vani; 21. 6 e vidila mirabilmente oscura.

21. 7 Quale ne l'arzanà de' Viniziani 21. 8 bolle l'inverno la tenace pece 21. 9 a rimpalmare i legni lor non sani,

21. 10 21. 11 21. 12

ché navicar non ponno - in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che più viaggi fece;

21. 13 21. 14 21. 15

chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -;

21. 16 tal, non per foco, ma per divin'arte, 21. 17 bollia là giuso una pegola spessa, 21. 18 che 'nviscava la ripa d'ogne parte.


21. 19 21. 20 21. 21

I' vedea lei, ma non vedea in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa.

21. 22 21. 23 21. 24

Mentr'io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!», mi trasse a sé del loco dov'io stava.

21. 25 Allor mi volsi come l'uom cui tarda 21. 26 di veder quel che li convien fuggire 21. 27 e cui paura sùbita sgagliarda,

21. 28 21. 29 21. 30

che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire.

21. 31 Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero! 21. 32 e quanto mi parea ne l'atto acerbo, 21. 33 con l'ali aperte e sovra i piè leggero!

21. 34 21. 35 21. 36

L'omero suo, ch'era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.


21. 37 Del nostro ponte disse: «O Malebranche, 21. 38 ecco un de li anzian di Santa Zita! 21. 39 Mettetel sotto, ch'i' torno per anche

21. 40 a quella terra che n'è ben fornita: 21. 41 ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo; 21. 42 del no, per li denar vi si fa *ita*».

21. 43 21. 44 21. 45

Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.

21. 46 Quel s'attuffò, e tornò sù convolto; 21. 47 ma i demon che del ponte avean coperchio, 21. 48 gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto:

21. 49 qui si nuota altrimenti che nel Serchio! 21. 50 Però, se tu non vuo' di nostri graffi, 21. 51 non far sopra la pegola soverchio».

21. 52 Poi l'addentar con più di cento raffi, 21. 53 disser: «Coverto convien che qui balli, 21. 54 sì che, se puoi, nascosamente accaffi».


52

21. 55 Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli 21. 56 fanno attuffare in mezzo la caldaia 21. 57 la carne con li uncin, perché non galli.

21. 58 Lo buon maestro «Acciò che non si paia 21. 59 che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta 21. 60 dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;


21. 61 e per nulla offension che mi sia fatta, 21. 62 non temer tu, ch'i' ho le cose conte, 21. 63 perch'altra volta fui a tal baratta».

21. 64 21. 65 21. 66

Poscia passò di là dal co del ponte; e com'el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte.

21. 67 21. 68 21. 69

Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s'arresta,

21. 70 usciron quei di sotto al ponticello, 21. 71 e volser contra lui tutt'i runcigli; 21. 72 ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!

21. 73 21. 74 21. 75

Innanzi che l'uncin vostro mi pigli, traggasi avante l'un di voi che m'oda, e poi d'arruncigliarmi si consigli».

21. 76 Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»; 21. 77 per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -, 21. 78 e venne a lui dicendo: «Che li approda?».


72

21. 79 21. 80 21. 81

«Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto», disse 'l mio maestro, «sicuro già da tutti vostri schermi,

21. 82 21. 83 21. 84

sanza voler divino e fato destro? Lascian'andar, ché nel cielo è voluto ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro».


21. 85 Allor li fu l'orgoglio sì caduto, 21. 86 ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi, 21. 87 e disse a li altri: «Omai non sia feruto».

21. 88 21. 89 21. 90

E 'l duca mio a me: «O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi».

21. 91 21. 92 21. 93

Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;

21. 94 così vid'io già temer li fanti 21. 95 ch'uscivan patteggiati di Caprona, 21. 96 veggendo sé tra nemici cotanti.

21. 97 I' m'accostai con tutta la persona 21. 98 lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi 21. 99 da la sembianza lor ch'era non buona.

21.100 Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», 21.101 diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?». 21.102 E rispondien: «Sì, fa che gliel'accocchi!».


21.103 21.104 21.105

Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto, e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».

21.106 Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo 21.107 iscoglio non si può, però che giace 21.108 tutto spezzato al fondo l'arco sesto.

21.109 E se l'andare avante pur vi piace, 21.110 andatevene su per questa grotta; 21.111 presso è un altro scoglio che via face.

21.112 Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta, 21.113 mille dugento con sessanta sei 21.114 anni compié che qui la via fu rotta.

21.115 Io mando verso là di questi miei 21.116 a riguardar s'alcun se ne sciorina; 21.117 gite con lor, che non saranno rei».

21.118 21.119 21.120

«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.


21.121 21.122 21.123

Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo, Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo.

21.124 21.125 21.126

Cercate 'ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane».

21.127 «Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?», 21.128 diss'io, «deh, sanza scorta andianci soli, 21.129 se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.

21.130 Se tu se' sì accorto come suoli, 21.131 non vedi tu ch'e' digrignan li denti, 21.132 e con le ciglia ne minaccian duoli?».

21.133 21.134 21.135

Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».

21.136 Per l'argine sinistro volta dienno; 21.137 ma prima avea ciascun la lingua stretta 21.138 coi denti, verso lor duca, per cenno; 21.139 ed elli avea del cul fatto trombetta.


Canto XXII 22. 1 Io vidi già cavalier muover campo, 22. 2 e cominciare stormo e far lor mostra, 22. 3 e talvolta partir per loro scampo;

22. 4 corridor vidi per la terra vostra, 22. 5 o Aretini, e vidi gir gualdane, 22. 6 fedir torneamenti e correr giostra;

22. 7 quando con trombe, e quando con campane, 22. 8 con tamburi e con cenni di castella, 22. 9 e con cose nostrali e con istrane;

22. 10 né già con sì diversa cennamella 22. 11 cavalier vidi muover né pedoni, 22. 12 né nave a segno di terra o di stella.

22. 13 Noi andavam con li diece demoni. 22. 14 Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa 22. 15 coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

22. 16 Pur a la pegola era la mia 'ntesa, 22. 17 per veder de la bolgia ogne contegno 22. 18 e de la gente ch'entro v'era incesa.


22. 19 22. 20 22. 21

Come i dalfini, quando fanno segno a' marinar con l'arco de la schiena, che s'argomentin di campar lor legno,

22. 22 22. 23 22. 24

talor così, ad alleggiar la pena, mostrav'alcun de' peccatori il dosso e nascondea in men che non balena.

22. 25 22. 26 22. 27

E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l'altro grosso,

22. 28 22. 29 22. 30

sì stavan d'ogne parte i peccatori; ma come s'appressava Barbariccia, così si ritraén sotto i bollori.

22. 31 I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, 22. 32 uno aspettar così, com'elli 'ncontra 22. 33 ch'una rana rimane e l'altra spiccia;

22. 34 22. 35 22. 36

e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le 'mpegolate chiome e trassel sù, che mi parve una lontra.


22. 37 22. 38 22. 39

I' sapea già di tutti quanti 'l nome, sì li notai quando fuorono eletti, e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.

22. 40 «O Rubicante, fa che tu li metti 22. 41 li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!», 22. 42 gridavan tutti insieme i maladetti.

22. 43 E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, 22. 44 che tu sappi chi è lo sciagurato 22. 45 venuto a man de li avversari suoi».

22. 46 Lo duca mio li s'accostò allato; 22. 47 domandollo ond'ei fosse, e quei rispuose: 22. 48 «I' fui del regno di Navarra nato.

22. 49 Mia madre a servo d'un segnor mi puose, 22. 50 che m'avea generato d'un ribaldo, 22. 51 distruggitor di sé e di sue cose.

22. 52 Poi fui famiglia del buon re Tebaldo: 22. 53 quivi mi misi a far baratteria; 22. 54 di ch'io rendo ragione in questo caldo».


22. 55 E Ciriatto, a cui di bocca uscia 22. 56 d'ogne parte una sanna come a porco, 22. 57 li fé sentir come l'una sdrucia.

22. 58 22. 59 22. 60

Tra male gatte era venuto 'l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia, e disse: «State in là, mentr'io lo 'nforco».

22. 61 22. 62 22. 63

E al maestro mio volse la faccia: «Domanda», disse, «ancor, se più disii saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia».

22. 64 22. 65 22. 66

Lo duca dunque: «Or dì : de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii,

22. 67 poco è, da un che fu di là vicino. 22. 68 Così foss'io ancor con lui coperto, 22. 69 ch'i' non temerei unghia né uncino!».

22. 70 E Libicocco «Troppo avem sofferto», 22. 71 disse; e preseli 'l braccio col runciglio, 22. 72 sì che, stracciando, ne portò un lacerto.


22. 73 Draghignazzo anco i volle dar di piglio 22. 74 giuso a le gambe; onde 'l decurio loro 22. 75 si volse intorno intorno con mal piglio.

22. 76 Quand'elli un poco rappaciati fuoro, 22. 77 a lui, ch'ancor mirava sua ferita, 22. 78 domandò 'l duca mio sanza dimoro:

22. 79 «Chi fu colui da cui mala partita 22. 80 di' che facesti per venire a proda?». 22. 81 Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,

22. 82 quel di Gallura, vasel d'ogne froda, 22. 83 ch'ebbe i nemici di suo donno in mano, 22. 84 e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

22. 85 Danar si tolse, e lasciolli di piano, 22. 86 sì com'e' dice; e ne li altri offici anche 22. 87 barattier fu non picciol, ma sovrano.

22. 88 Usa con esso donno Michel Zanche 22. 89 di Logodoro; e a dir di Sardigna 22. 90 le lingue lor non si sentono stanche.


22. 91 Omè, vedete l'altro che digrigna: 22. 92 i' direi anche, ma i' temo ch'ello 22. 93 non s'apparecchi a grattarmi la tigna».

22. 94 E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello 22. 95 che stralunava li occhi per fedire, 22. 96 disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!».

22. 97 22. 98 22. 99

«Se voi volete vedere o udire», ricominciò lo spaurato appresso «Toschi o Lombardi, io ne farò venire;

22.100 22.101 22.102

ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch'ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso,

22.103 per un ch'io son, ne farò venir sette 22.104 quand'io suffolerò, com'è nostro uso 22.105 di fare allor che fori alcun si mette».

22.106 22.107 22.108

Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!».


22.109 Ond'ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, 22.110 rispuose: «Malizioso son io troppo, 22.111 quand'io procuro a' mia maggior trestizia».

22.112 Alichin non si tenne e, di rintoppo 22.113 a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, 22.114 io non ti verrò dietro di gualoppo,

22.115 22.116 22.117

ma batterò sovra la pece l'ali. Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali».

22.118 O tu che leggi, udirai nuovo ludo: 22.119 ciascun da l'altra costa li occhi volse; 22.120 quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.

22.121 Lo Navarrese ben suo tempo colse; 22.122 fermò le piante a terra, e in un punto 22.123 saltò e dal proposto lor si sciolse.

22.124 Di che ciascun di colpa fu compunto, 22.125 ma quei più che cagion fu del difetto; 22.126 però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!».


126

22.127 Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto 22.128 non potero avanzar: quelli andò sotto, 22.129 e quei drizzò volando suso il petto:

22.130 non altrimenti l'anitra di botto, 22.131 quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa, 22.132 ed ei ritorna sù crucciato e rotto.


22.133 Irato Calcabrina de la buffa, 22.134 volando dietro li tenne, invaghito 22.135 che quei campasse per aver la zuffa;

22.136 22.137 22.138

e come 'l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.

22.139 22.140 22.141

Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.

22.142 22.143 22.144

Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l'ali sue.

22.145 Barbariccia, con li altri suoi dolente, 22.146 quattro ne fé volar da l'altra costa 22.147 con tutt'i raffi, e assai prestamente

22.148 di qua, di là discesero a la posta; 22.149 porser li uncini verso li 'mpaniati, 22.150 ch'eran già cotti dentro da la crosta; 22.151 e noi lasciammo lor così 'mpacciati.


139-140


Canto XXIII 23. 1 Taciti, soli, sanza compagnia 23. 2 n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, 23. 3 come frati minor vanno per via.

23. 4 Vòlt'era in su la favola d'Isopo 23. 5 lo mio pensier per la presente rissa, 23. 6 dov'el parlò de la rana e del topo;

23. 7 ché più non si pareggia "mo" e "issa" 23. 8 che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia 23. 9 principio e fine con la mente fissa.

23. 10 23. 11 23. 12

E come l'un pensier de l'altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia.

23. 13 23. 14 23. 15

Io pensava così: <<Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch'assai credo che lor nòi.

23. 16 23. 17 23. 18

Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa>>.


23. 19 Già mi sentia tutti arricciar li peli 23. 20 de la paura e stava in dietro intento, 23. 21 quand'io dissi: <<Maestro, se non celi

23. 22 te e me tostamente, i' ho pavento 23. 23 de Malebranche. Noi li avem già dietro; 23. 24 io li 'magino sì, che già li sento>>.

23. 25 E quei: <<S'i' fossi di piombato vetro, 23. 26 l'imagine di fuor tua non trarrei 23. 27 più tosto a me, che quella dentro 'mpetro.

23. 28 23. 29 23. 30

Pur mo venieno i tuo' pensier tra' miei con simile atto e con simile faccia, sì che d'intrambi un sol consiglio fei.

23. 31 S'elli è che sì la destra costa giaccia, 23. 32 che noi possiam ne l'altra bolgia scendere 23. 33 noi fuggirem l'maginata caccia>>.

23. 34 Già non compié di tal consiglio rendere 23. 35 ch'io li vidi venir con l'ali tese 23. 36 non molto lungi, per volerne prendere.


23. 37 23. 38 23. 39

Lo duca mio di sùbito mi prese come la madre ch'al romore è desta e vede presso a sè le fiamme accese

23. 40 23. 41 23. 42

che prende il figlio e fugge e non s'arresta avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camicia vesta;

23. 43 23. 44 23. 45

e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.

23. 46 Non corse mai sì tosto acqua per doccia 23. 47 a volger ruota di molin terragno, 23. 48 quand'ella più verso le pale approccia,

23. 49 come 'l maestro mio per quel vivagno, 23. 50 portandosene me sovra 'l suo petto, 23. 51 come suo figlio, non come compagno.

23. 52 A pena fuoro i piè suoi giunti al letto 23. 53 del fondo giù, ch'e' furon in sul colle 23. 54 sovresso noi; ma non lì era sospetto;


52-54


23. 55 ché l'alta provedenza che lor volle 23. 56 porre ministri de la fossa quinta, 23. 57 poder di partirs'indi a tutti tolle.

23. 58 Là giù trovammo una gente dipinta 23. 59 che giva intorno assai con lenti passi, 23. 60 piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

23. 61 Elli avean cappe con cappucci bassi 23. 62 dinanzi a li occhi, fatte de la taglia 23. 63 che in Clugnì per li monaci fassi.

23. 64 Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia; 23. 65 ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, 23. 66 che Federigo le mettea di paglia.

23. 67 Oh in etterno faticoso manto! 23. 68 Noi ci volgemmo ancor pur a man manca 23. 69 con loro insieme, intenti al tristo pianto;

23. 70 ma per lo peso quella gente stanca 23. 71 venìa sì pian, che noi eravam nuovi 23. 72 di compagnia ad ogne mover d'anca.


23. 73 23. 74 23. 75

Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi».

23. 76 E un che 'ntese la parola tosca, 23. 77 di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, 23. 78 voi che correte sì per l'aura fosca!

23. 79 Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi». 23. 80 Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta 23. 81 e poi secondo il suo passo procedi».

23. 82 Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta 23. 83 de l'animo, col viso, d'esser meco; 23. 84 ma tardavali 'l carco e la via stretta.

23. 85 Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco 23. 86 mi rimiraron sanza far parola; 23. 87 poi si volsero in sé, e dicean seco:

23. 88 «Costui par vivo a l'atto de la gola; 23. 89 e s'e' son morti, per qual privilegio 23. 90 vanno scoperti de la grave stola?».


91-93

23. 91 Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegio 23. 92 de l'ipocriti tristi se' venuto, 23. 93 dir chi tu se' non avere in dispregio».

23. 94 23. 95 23. 96

E io a loro: «I' fui nato e cresciuto sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.


23. 97 Ma voi chi siete, a cui tanto distilla 23. 98 quant'i' veggio dolor giù per le guance? 23. 99 e che pena è in voi che sì sfavilla?».

23.100 E l'un rispuose a me: «Le cappe rance 23.101 son di piombo sì grosse, che li pesi 23.102 fan così cigolar le lor bilance.

23.103 Frati godenti fummo, e bolognesi; 23.104 io Catalano e questi Loderingo 23.105 nomati, e da tua terra insieme presi,

23.106 come suole esser tolto un uom solingo, 23.107 per conservar sua pace; e fummo tali, 23.108 ch'ancor si pare intorno dal Gardingo».

23.109 Io cominciai: «O frati, i vostri mali...»; 23.110 ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse 23.111 un, crucifisso in terra con tre pali.

23.112 Quando mi vide, tutto si distorse, 23.113 soffiando ne la barba con sospiri; 23.114 e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse,


115-117


23.115 mi disse: «Quel confitto che tu miri, 23.116 consigliò i Farisei che convenia 23.117 porre un uom per lo popolo a' martìri.

23.118 Attraversato è, nudo, ne la via, 23.119 come tu vedi, ed è mestier ch'el senta 23.120 qualunque passa, come pesa, pria.

23.121 23.122 23.123

E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa».

23.124 Allor vid'io maravigliar Virgilio 23.125 sovra colui ch'era disteso in croce 23.126 tanto vilmente ne l'etterno essilio.

23.127 Poscia drizzò al frate cotal voce: 23.128 «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci 23.129 s'a la man destra giace alcuna foce

23.130 onde noi amendue possiamo uscirci, 23.131 sanza costrigner de li angeli neri 23.132 che vegnan d'esto fondo a dipartirci».


23.133 23.134 23.135

Rispuose adunque: «Più che tu non speri s'appressa un sasso che de la gran cerchia si move e varca tutt'i vallon feri,

23.136 23.137 23.138

salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia: montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia».

23.139 Lo duca stette un poco a testa china; 23.140 poi disse: «Mal contava la bisogna 23.141 colui che i peccator di qua uncina».

23.142 E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna 23.143 del diavol vizi assai, tra ' quali udi' 23.144 ch'elli è bugiardo, e padre di menzogna».

23.145 Appresso il duca a gran passi sen gì, 23.146 turbato un poco d'ira nel sembiante; 23.147 ond'io da li 'ncarcati mi parti' 23.148 dietro a le poste de le care piante.


Canto XXIV 24. 1 In quella parte del giovanetto anno 24. 2 che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra 24. 3 e già le notti al mezzo dì sen vanno,

24. 4 quando la brina in su la terra assempra 24. 5 l'imagine di sua sorella bianca, 24. 6 ma poco dura a la sua penna tempra,

24. 7 lo villanello a cui la roba manca, 24. 8 si leva, e guarda, e vede la campagna 24. 9 biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,

24. 10 ritorna in casa, e qua e là si lagna, 24. 11 come 'l tapin che non sa che si faccia; 24. 12 poi riede, e la speranza ringavagna,

24. 13 veggendo 'l mondo aver cangiata faccia 24. 14 in poco d'ora, e prende suo vincastro, 24. 15 e fuor le pecorelle a pascer caccia.

24. 16 Così mi fece sbigottir lo mastro 24. 17 quand'io li vidi sì turbar la fronte, 24. 18 e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro;


24. 19 ché, come noi venimmo al guasto ponte, 24. 20 lo duca a me si volse con quel piglio 24. 21 dolce ch'io vidi prima a piè del monte.

24. 22 Le braccia aperse, dopo alcun consiglio 24. 23 eletto seco riguardando prima 24. 24 ben la ruina, e diedemi di piglio.

24. 25 24. 26 24. 27

E come quei ch'adopera ed estima, che sempre par che 'nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver la cima

24. 28 d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia 24. 29 dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa; 24. 30 ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia».

24. 31 Non era via da vestito di cappa, 24. 32 ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, 24. 33 potavam sù montar di chiappa in chiappa.

24. 34 E se non fosse che da quel precinto 24. 35 più che da l'altro era la costa corta, 24. 36 non so di lui, ma io sarei ben vinto.


24. 37 Ma perché Malebolge inver' la porta 24. 38 del bassissimo pozzo tutta pende, 24. 39 lo sito di ciascuna valle porta

24. 40 che l'una costa surge e l'altra scende; 24. 41 noi pur venimmo al fine in su la punta 24. 42 onde l'ultima pietra si scoscende.

24. 43 La lena m'era del polmon sì munta 24. 44 quand'io fui sù, ch'i' non potea più oltre, 24. 45 anzi m'assisi ne la prima giunta.

24. 46 «Omai convien che tu così ti spoltre», 24. 47 disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma, 24. 48 in fama non si vien, né sotto coltre;

24. 49 sanza la qual chi sua vita consuma, 24. 50 cotal vestigio in terra di sé lascia, 24. 51 qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

24. 52 24. 53 24. 54

E però leva sù: vinci l'ambascia con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia.


24. 55 Più lunga scala convien che si saglia; 24. 56 non basta da costoro esser partito. 24. 57 Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia».

24. 58 24. 59 24. 60

Leva'mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentìa; e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».

24. 61 24. 62 24. 63

Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.

24. 64 Parlando andava per non parer fievole; 24. 65 onde una voce uscì de l'altro fosso, 24. 66 a parole formar disconvenevole.

24. 67 Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso 24. 68 fossi de l'arco già che varca quivi; 24. 69 ma chi parlava ad ire parea mosso.

24. 70 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi 24. 71 non poteano ire al fondo per lo scuro; 24. 72 per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi


24. 73 da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; 24. 74 ché, com'i' odo quinci e non intendo, 24. 75 così giù veggio e neente affiguro».

24. 76 24. 77 24. 78

«Altra risposta», disse, «non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de' seguir con l'opera tacendo».

24. 79 Noi discendemmo il ponte da la testa 24. 80 dove s'aggiugne con l'ottava ripa, 24. 81 e poi mi fu la bolgia manifesta:

24. 82 e vidivi entro terribile stipa 24. 83 di serpenti, e di sì diversa mena 24. 84 che la memoria il sangue ancor mi scipa.

24. 85 Più non si vanti Libia con sua rena; 24. 86 ché se chelidri, iaculi e faree 24. 87 produce, e cencri con anfisibena,

24. 88 né tante pestilenzie né sì ree 24. 89 mostrò già mai con tutta l'Etiopia 24. 90 né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.


91-93

24. 91 24. 92 24. 93

Tra questa cruda e tristissima copia correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia:

24. 94 con serpi le man dietro avean legate; 24. 95 quelle ficcavan per le ren la coda 24. 96 e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.


24. 97 24. 98 24. 99

Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avventò un serpente che 'l trafisse là dove 'l collo a le spalle s'annoda.

24.100 Né O sì tosto mai né I si scrisse, 24.101 com'el s'accese e arse, e cener tutto 24.102 convenne che cascando divenisse;

24.103 24.104 24.105

e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa, e 'n quel medesmo ritornò di butto.

24.106 Così per li gran savi si confessa 24.107 che la fenice more e poi rinasce, 24.108 quando al cinquecentesimo anno appressa;

24.109 24.110 24.111

erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce.

24.112 E qual è quel che cade, e non sa como, 24.113 per forza di demon ch'a terra il tira, 24.114 o d'altra oppilazion che lega l'omo,


24.115 quando si leva, che 'ntorno si mira 24.116 tutto smarrito de la grande angoscia 24.117 ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:

24.118 tal era il peccator levato poscia. 24.119 Oh potenza di Dio, quant'è severa, 24.120 che cotai colpi per vendetta croscia!

24.121 Lo duca il domandò poi chi ello era; 24.122 per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, 24.123 poco tempo è, in questa gola fiera.

24.124 Vita bestial mi piacque e non umana, 24.125 sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci 24.126 bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

24.127 24.128 24.129

E io al duca: «Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù 'l pinse; ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci».

24.130 24.131 24.132

E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzò verso me l'animo e 'l volto, e di trista vergogna si dipinse;


24.133 poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto 24.134 ne la miseria dove tu mi vedi, 24.135 che quando fui de l'altra vita tolto.

24.136 Io non posso negar quel che tu chiedi; 24.137 in giù son messo tanto perch'io fui 24.138 ladro a la sagrestia d'i belli arredi,

24.139 24.140 24.141

e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui,

24.142 apri li orecchi al mio annunzio, e odi: 24.143 Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; 24.144 poi Fiorenza rinova gente e modi.

24.145 24.146 24.147

Tragge Marte vapor di Val di Magra ch'è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetuosa e agra

24.148 sovra Campo Picen fia combattuto; 24.149 ond'ei repente spezzerà la nebbia, 24.150 sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto. 24.151 E detto l'ho perché doler ti debbia!».


Canto XXV 25. 1 Al fine de le sue parole il ladro 25. 2 le mani alzò con amendue le fiche, 25. 3 gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».

25. 4 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, 25. 5 perch'una li s'avvolse allora al collo, 25. 6 come dicesse "Non vo' che più diche";

25. 7 e un'altra a le braccia, e rilegollo, 25. 8 ribadendo sé stessa sì dinanzi, 25. 9 che non potea con esse dare un crollo.

25. 10 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi 25. 11 d'incenerarti sì che più non duri, 25. 12 poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?

25. 13 Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri 25. 14 non vidi spirto in Dio tanto superbo, 25. 15 non quel che cadde a Tebe giù da' muri.

25. 16 El si fuggì che non parlò più verbo; 25. 17 e io vidi un centauro pien di rabbia 25. 18 venir chiamando: «Ov'è, ov'è l'acerbo?».


25. 19 Maremma non cred'io che tante n'abbia, 25. 20 quante bisce elli avea su per la groppa 25. 21 infin ove comincia nostra labbia.

25. 22 25. 23 25. 24

Sovra le spalle, dietro de la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s'intoppa.

25. 25 Lo mio maestro disse: <<Questi è Caco, 25. 26 che, sotto 'l sasso di monte Aventino, 25. 27 di sangue fece spesse volte laco.

25. 28 Non va co' suoi fratei per un cammino 25. 29 per lo furto che frodolente fece 25. 30 del grande armento ch'elli ebbe a vicino;

25. 31 onde cessar le sue opere biece 25. 32 sotto la mazza d'Ercule, che forse 25. 33 gliene diè cento, e non sentì le diece>>.

25. 34 25. 35 25. 36

Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de' quai né io né 'l duca mio s'accorse,


25. 37 25. 38 25. 39

se non quando gridar: <<Chi siete voi?>>; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi.

25. 40 25. 41 25. 42

Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette,

25. 43 dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; 25. 44 per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento, 25. 45 mi puosi 'l dito su dal mento al naso.

25. 46 25. 47 25. 48

Se tu se' or, lettore, a creder lento ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia, ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.

25. 49 Com'io tenea levate in lor le ciglia, 25. 50 e un serpente con sei piè si lancia 25. 51 dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

25. 52 Co' piè di mezzo li avvinse la pancia, 25. 53 e con li anterior le braccia prese; 25. 54 poi li addentò e l'una e l'altra guancia;


25. 55 25. 56 25. 57

li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra 'mbedue, e dietro per le ren sù la ritese.

25. 58 Ellera abbarbicata mai non fue 25. 59 ad alber sì, come l'orribil fiera 25. 60 per l'altrui membra avviticchiò le sue.

25. 61 Poi s'appiccar, come di calda cera 25. 62 fossero stati, e mischiar lor colore, 25. 63 né l'un né l'altro già parea quel ch'era:

25. 64 come procede innanzi da l'ardore, 25. 65 per lo papiro suso, un color bruno 25. 66 che non è nero ancora e 'l bianco more.

25. 67 Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno 25. 68 gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! 25. 69 Vedi che già non se' né due né uno».

25. 70 Già eran li due capi un divenuti, 25. 71 quando n'apparver due figure miste 25. 72 in una faccia, ov'eran due perduti.


67-68


25. 73 Fersi le braccia due di quattro liste; 25. 74 le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso 25. 75 divenner membra che non fuor mai viste.

25. 76 Ogne primaio aspetto ivi era casso: 25. 77 due e nessun l'imagine perversa 25. 78 parea; e tal sen gio con lento passo.

25. 79 Come 'l ramarro sotto la gran fersa 25. 80 dei dì canicular, cangiando sepe, 25. 81 folgore par se la via attraversa,

25. 82 sì pareva, venendo verso c 25. 83 de li altri due, un serpentello acceso, 25. 84 livido e nero come gran di pepe;

25. 85 e quella parte onde prima è preso 25. 86 nostro alimento, a l'un di lor trafisse; 25. 87 poi cadde giuso innanzi lui disteso.

25. 88 Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; 25. 89 anzi, co' piè fermati, sbadigliava 25. 90 pur come sonno o febbre l'assalisse.


25. 91 25. 92 25. 93

Elli 'l serpente, e quei lui riguardava; l'un per la piaga, e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.

25. 94 Taccia Lucano ormai là dove tocca 25. 95 del misero Sabello e di Nasidio, 25. 96 e attenda a udir quel ch'or si scocca.

25. 97 25. 98 25. 99

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio; ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio;

25.100 ché due nature mai a fronte a fronte 25.101 non trasmutò sì ch'amendue le forme 25.102 a cambiar lor matera fosser pronte.

25.103 Insieme si rispuosero a tai norme, 25.104 che 'l serpente la coda in forca fesse, 25.105 e il feruto ristrinse insieme l'orme.

25.106 Le gambe con le cosce seco stesse 25.107 s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura 25.108 non facea segno alcun che si paresse.


25.109 25.110 25.111

Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura.

25.112 Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, 25.113 e i due piè de la fiera, ch'eran corti, 25.114 tanto allungar quanto accorciavan quelle.

25.115 Poscia li piè di retro, insieme attorti, 25.116 diventaron lo membro che l'uom cela, 25.117 e 'l misero del suo n'avea due porti.

25.118 Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela 25.119 di color novo, e genera 'l pel suso 25.120 per l'una parte e da l'altra il dipela,

25.121 l'un si levò e l'altro cadde giuso, 25.122 non torcendo però le lucerne empie, 25.123 sotto le quai ciascun cambiava muso.

25.124 Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, 25.125 e di troppa matera ch'in là venne 25.126 uscir li orecchi de le gote scempie;


25.127 ciò che non corse in dietro e si ritenne 25.128 di quel soverchio, fé naso a la faccia 25.129 e le labbra ingrossò quanto convenne.

25.130 Quel che giacea, il muso innanzi caccia, 25.131 e li orecchi ritira per la testa 25.132 come face le corna la lumaccia;

25.133 e la lingua, ch'avea unita e presta 25.134 prima a parlar, si fende, e la forcuta 25.135 ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.

25.136 25.137 25.138

L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa.

25.139 Poscia li volse le novelle spalle, 25.140 e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra, 25.141 com'ho fatt'io, carpon per questo calle».

25.142 25.143 25.144

Così vid'io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.


25.145 E avvegna che li occhi miei confusi 25.146 fossero alquanto e l'animo smagato, 25.147 non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

25.148 25.149 25.150 25.151

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.


Canto XXVI 26. 1 Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande, 26. 2 che per mare e per terra batti l'ali, 26. 3 e per lo 'nferno tuo nome si spande!

26. 4 Tra li ladron trovai cinque cotali 26. 5 tuoi cittadini onde mi ven vergogna, 26. 6 e tu in grande orranza non ne sali.

26. 7 Ma se presso al mattin del ver si sogna, 26. 8 tu sentirai di qua da picciol tempo 26. 9 di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.

26. 10 26. 11 26. 12

E se già fosse, non saria per tempo. Così foss'ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com'più m'attempo.

26. 13 Noi ci partimmo, e su per le scalee 26. 14 che n'avea fatto iborni a scender pria, 26. 15 rimontò 'l duca mio e trasse mee;

26. 16 26. 17 26. 18

e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.


26. 19 Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio 26. 20 quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi, 26. 21 e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,

26. 22 perché non corra che virtù nol guidi; 26. 23 sì che, se stella bona o miglior cosa 26. 24 m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.

26. 25 Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, 26. 26 nel tempo che colui che 'l mondo schiara 26. 27 la faccia sua a noi tien meno ascosa,

26. 28 come la mosca cede alla zanzara, 26. 29 vede lucciole giù per la vallea, 26. 30 forse colà dov'e' vendemmia e ara:

26. 31 di tante fiamme tutta risplendea 26. 32 l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi 26. 33 tosto che fui là 've 'l fondo parea.

26. 34 E qual colui che si vengiò con li orsi 26. 35 vide 'l carro d'Elia al dipartire, 26. 36 quando i cavalli al cielo erti levorsi,


26. 37 26. 38 26. 39

che nol potea sì con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:

26. 40 tal si move ciascuna per la gola 26. 41 del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, 26. 42 e ogne fiamma un peccatore invola.

26. 43 26. 44 26. 45

Io stava sovra 'l ponte a veder surto, sì che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz'esser urto.

26. 46 E 'l duca che mi vide tanto atteso, 26. 47 disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; 26. 48 catun si fascia di quel ch'elli è inceso».

26. 49 26. 50 26. 51

«Maestro mio», rispuos'io, «per udirti son io più certo; ma già m'era avviso che così fosse, e già voleva dirti:

26. 52 chi è 'n quel foco che vien sì diviso 26. 53 di sopra, che par surger de la pira 26. 54 dov'Eteòcle col fratel fu miso?».


46-48


26. 55 Rispuose a me: «Là dentro si martira 26. 56 Ulisse e Diomede, e così insieme 26. 57 a la vendetta vanno come a l'ira;

26. 58 e dentro da la lor fiamma si geme 26. 59 l'agguato del caval che fé la porta 26. 60 onde uscì de' Romani il gentil seme.

26. 61 Piangevisi entro l'arte per che, morta, 26. 62 Deidamìa ancor si duol d'Achille, 26. 63 e del Palladio pena vi si porta».

26. 64 «S'ei posson dentro da quelle faville 26. 65 parlar», diss'io, «maestro, assai ten priego 26. 66 e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

26. 67 che non mi facci de l'attender niego 26. 68 fin che la fiamma cornuta qua vegna; 26. 69 vedi che del disio ver' lei mi piego!».

26. 70 Ed elli a me: «La tua preghiera è degna 26. 71 di molta loda, e io però l'accetto; 26. 72 ma fa che la tua lingua si sostegna.


26. 73 Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto 26. 74 ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, 26. 75 perch'e' fuor greci, forse del tuo detto».

26. 76 Poi che la fiamma fu venuta quivi 26. 77 dove parve al mio duca tempo e loco, 26. 78 in questa forma lui parlare audivi:

26. 79 26. 80 26. 81

«O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco

26. 82 quando nel mondo li alti versi scrissi, 26. 83 non vi movete; ma l'un di voi dica 26. 84 dove, per lui, perduto a morir gissi».

26. 85 Lo maggior corno de la fiamma antica 26. 86 cominciò a crollarsi mormorando 26. 87 pur come quella cui vento affatica;

26. 88 indi la cima qua e là menando, 26. 89 come fosse la lingua che parlasse, 26. 90 gittò voce di fuori, e disse: «Quando


26. 91 mi diparti' da Circe, che sottrasse 26. 92 me più d'un anno là presso a Gaeta, 26. 93 prima che sì Enea la nomasse,

26. 94 né dolcezza di figlio, né la pieta 26. 95 del vecchio padre, né 'l debito amore 26. 96 lo qual dovea Penelopé far lieta,

26. 97 vincer potero dentro a me l'ardore 26. 98 ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto, 26. 99 e de li vizi umani e del valore;

26.100 ma misi me per l'alto mare aperto 26.101 sol con un legno e con quella compagna 26.102 picciola da la qual non fui diserto.

26.103 L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, 26.104 fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, 26.105 e l'altre che quel mare intorno bagna.

26.106 Io e ' compagni eravam vecchi e tardi 26.107 quando venimmo a quella foce stretta 26.108 dov'Ercule segnò li suoi riguardi,


26.109 acciò che l'uom più oltre non si metta: 26.110 da la man destra mi lasciai Sibilia, 26.111 da l'altra già m'avea lasciata Setta.

26.112 "O frati", dissi "che per cento milia 26.113 perigli siete giunti a l'occidente, 26.114 a questa tanto picciola vigilia

26.115 d'i nostri sensi ch'è del rimanente, 26.116 non vogliate negar l'esperienza, 26.117 di retro al sol, del mondo sanza gente.

26.118 Considerate la vostra semenza: 26.119 fatti non foste a viver come bruti, 26.120 ma per seguir virtute e canoscenza''.

26.121 26.122 26.123

Li miei compagni fec'io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;

26.124 e volta nostra poppa nel mattino, 26.125 de' remi facemmo ali al folle volo, 26.126 sempre acquistando dal lato mancino.


26.127 Tutte le stelle già de l'altro polo 26.128 vedea la notte e 'l nostro tanto basso, 26.129 che non surgea fuor del marin suolo.

26.130 Cinque volte racceso e tante casso 26.131 lo lume era di sotto da la luna, 26.132 poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

26.133 quando n'apparve una montagna, bruna 26.134 per la distanza, e parvemi alta tanto 26.135 quanto veduta non avea alcuna.

26.136 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, 26.137 ché de la nova terra un turbo nacque, 26.138 e percosse del legno il primo canto.

26.139 26.140 26.141 26.142

Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com'altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».


Canto XXVII 27. 1 Già era dritta in sù la fiamma e queta 27. 2 per non dir più, e già da noi sen gia 27. 3 con la licenza del dolce poeta,

27. 4 quand'un'altra, che dietro a lei venia, 27. 5 ne fece volger li occhi a la sua cima 27. 6 per un confuso suon che fuor n'uscia.

27. 7 Come 'l bue cicilian che mugghiò prima 27. 8 col pianto di colui, e ciò fu dritto, 27. 9 che l'avea temperato con sua lima,

27. 10 mugghiava con la voce de l'afflitto, 27. 11 sì che, con tutto che fosse di rame, 27. 12 pur el pareva dal dolor trafitto;

27. 13 così, per non aver via né forame 27. 14 dal principio nel foco, in suo linguaggio 27. 15 si convertian le parole grame.

27. 16 27. 17 27. 18

Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio,


27. 19 udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo 27. 20 la voce e che parlavi mo lombardo, 27. 21 dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo",

27. 22 perch'io sia giunto forse alquanto tardo, 27. 23 non t'incresca restare a parlar meco; 27. 24 vedi che non incresce a me, e ardo!

27. 25 27. 26 27. 27

Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra latina ond'io mia colpa tutta reco,

27. 28 dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; 27. 29 ch'io fui de' monti là intra Orbino 27. 30 e 'l giogo di che Tever si diserra».

27. 31 Io era in giuso ancora attento e chino, 27. 32 quando il mio duca mi tentò di costa, 27. 33 dicendo: «Parla tu; questi è latino».

27. 34 27. 35 27. 36

E io, ch'avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se' là giù nascosta,


27. 37 27. 38 27. 39

Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai.

27. 40 27. 41 27. 42

Ravenna sta come stata è molt'anni: l'aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.

27. 43 27. 44 27. 45

La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.

27. 46 27. 47 27. 48

E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d'i denti succhio.

27. 49 27. 50 27. 51

Le città di Lamone e di Santerno conduce il lioncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.

27. 52 27. 53 27. 54

E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte tra tirannia si vive e stato franco.


27. 55 Ora chi se', ti priego che ne conte; 27. 56 non esser duro più ch'altri sia stato, 27. 57 se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».

27. 58 Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato 27. 59 al modo suo, l'aguta punta mosse 27. 60 di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

27. 61 «S'i' credesse che mia risposta fosse 27. 62 a persona che mai tornasse al mondo, 27. 63 questa fiamma staria sanza più scosse;

27. 64 ma però che già mai di questo fondo 27. 65 non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, 27. 66 sanza tema d'infamia ti rispondo.

27. 67 27. 68 27. 69

Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero,

27. 70 27. 71 27. 72

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e *quare*, voglio che m'intenda.


27. 73 Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe 27. 74 che la madre mi diè, l'opere mie 27. 75 non furon leonine, ma di volpe.

27. 76 27. 77 27. 78

Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch'al fine de la terra il suono uscie.

27. 79 Quando mi vidi giunto in quella parte 27. 80 di mia etade ove ciascun dovrebbe 27. 81 calar le vele e raccoglier le sarte,

27. 82 27. 83 27. 84

ciò che pria mi piacea, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

27. 85 27. 86 27. 87

Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei,

27. 88 ché ciascun suo nimico era cristiano, 27. 89 e nessun era stato a vincer Acri 27. 90 né mercatante in terra di Soldano;


27. 91 né sommo officio né ordini sacri 27. 92 guardò in sé, né in me quel capestro 27. 93 che solea fare i suoi cinti più macri.

27. 94 Ma come Costantin chiese Silvestro 27. 95 d'entro Siratti a guerir de la lebbre; 27. 96 così mi chiese questi per maestro

27. 97 a guerir de la sua superba febbre: 27. 98 domandommi consiglio, e io tacetti 27. 99 perché le sue parole parver ebbre.

27.100 E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; 27.101 finor t'assolvo, e tu m'insegna fare 27.102 sì come Penestrino in terra getti.

27.103 27.104 27.105

Lo ciel poss'io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che 'l mio antecessor non ebbe care".

27.106 Allor mi pinser li argomenti gravi 27.107 là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, 27.108 e dissi: "Padre, da che tu mi lavi


27.109 di quel peccato ov'io mo cader deggio, 27.110 lunga promessa con l'attender corto 27.111 ti farà triunfar ne l'alto seggio".

27.112 Francesco venne poi com'io fu' morto, 27.113 per me; ma un d'i neri cherubini 27.114 li disse: "Non portar: non mi far torto.

27.115 Venir se ne dee giù tra ' miei meschini 27.116 perché diede 'l consiglio frodolente, 27.117 dal quale in qua stato li sono a' crini;

27.118 ch'assolver non si può chi non si pente, 27.119 né pentere e volere insieme puossi 27.120 per la contradizion che nol consente".

27.121 Oh me dolente! come mi riscossi 27.122 quando mi prese dicendomi: "Forse 27.123 tu non pensavi ch'io loico fossi!".

27.124 A Minòs mi portò; e quelli attorse 27.125 otto volte la coda al dosso duro; 27.126 e poi che per gran rabbia la si morse,


27.127 disse: "Questi è d'i rei del foco furo"; 27.128 per ch'io là dove vedi son perduto, 27.129 e sì vestito, andando, mi rancuro».

27.130 Quand'elli ebbe 'l suo dir così compiuto, 27.131 la fiamma dolorando si partio, 27.132 torcendo e dibattendo 'l corno aguto.

27.133 Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio, 27.134 su per lo scoglio infino in su l'altr'arco 27.135 che cuopre 'l fosso in che si paga il fio 27.136 a quei che scommettendo acquistan carco.


Canto XXVIII 28. 1 Chi poria mai pur con parole sciolte 28. 2 dicer del sangue e de le piaghe a pieno 28. 3 ch'i' ora vidi, per narrar più volte?

28. 4 Ogne lingua per certo verria meno 28. 5 per lo nostro sermone e per la mente 28. 6 c'hanno a tanto comprender poco seno.

28. 7 S'el s'aunasse ancor tutta la gente 28. 8 che già in su la fortunata terra 28. 9 di Puglia, fu del suo sangue dolente

28. 10 per li Troiani e per la lunga guerra 28. 11 che de l'anella fé sì alte spoglie, 28. 12 come Livio scrive, che non erra,

28. 13 con quella che sentio di colpi doglie 28. 14 per contastare a Ruberto Guiscardo; 28. 15 e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie

28. 16 a Ceperan, là dove fu bugiardo 28. 17 ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, 28. 18 dove sanz'arme vinse il vecchio Alardo;


28. 19 28. 20 28. 21

e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.

28. 22 Già veggia, per mezzul perdere o lulla, 28. 23 com'io vidi un, così non si pertugia, 28. 24 rotto dal mento infin dove si trulla.

28. 25 28. 26 28. 27

Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.

28. 28 Mentre che tutto in lui veder m'attacco, 28. 29 guardommi, e con le man s'aperse il petto, 28. 30 dicendo: «Or vedi com'io mi dilacco!

28. 31 vedi come storpiato è Maometto! 28. 32 Dinanzi a me sen va piangendo Alì, 28. 33 fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

28. 34 28. 35 28. 36

E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.


30-31


28. 37 Un diavolo è qua dietro che n'accisma 28. 38 sì crudelmente, al taglio de la spada 28. 39 rimettendo ciascun di questa risma,

28. 40 quand'avem volta la dolente strada; 28. 41 però che le ferite son richiuse 28. 42 prima ch'altri dinanzi li rivada.

28. 43 28. 44 28. 45

Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, forse per indugiar d'ire a la pena ch'è giudicata in su le tue accuse?».

28. 46 28. 47 28. 48

«Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena», rispuose 'l mio maestro «a tormentarlo; ma per dar lui esperienza piena,

28. 49 a me, che morto son, convien menarlo 28. 50 per lo 'nferno qua giù di giro in giro; 28. 51 e quest'è ver così com'io ti parlo».

28. 52 Più fuor di cento che, quando l'udiro, 28. 53 s'arrestaron nel fosso a riguardarmi 28. 54 per maraviglia obliando il martiro.


28. 55 28. 56 28. 57

«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,

28. 58 sì di vivanda, che stretta di neve 28. 59 non rechi la vittoria al Noarese, 28. 60 ch'altrimenti acquistar non sarìa leve».

28. 61 28. 62 28. 63

Poi che l'un piè per girsene sospese, Maometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.

28. 64 Un altro, che forata avea la gola 28. 65 e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, 28. 66 e non avea mai ch'una orecchia sola,

28. 67 28. 68 28. 69

ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia,

28. 70 28. 71 28. 72

e disse: «O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi su in terra latina, se troppa simiglianza non m'inganna,


73-75

28. 73 28. 74 28. 75

rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina.

28. 76 28. 77 28. 78

E fa saper a' due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l'antiveder qui non è vano,


28. 79 gittati saran fuor di lor vasello 28. 80 e mazzerati presso a la Cattolica 28. 81 per tradimento d'un tiranno fello.

28. 82 Tra l'isola di Cipri e di Maiolica 28. 83 non vide mai sì gran fallo Nettuno, 28. 84 non da pirate, non da gente argolica.

28. 85 Quel traditor che vede pur con l'uno, 28. 86 e tien la terra che tale qui meco 28. 87 vorrebbe di vedere esser digiuno,

28. 88 farà venirli a parlamento seco; 28. 89 poi farà sì, ch'al vento di Focara 28. 90 non sarà lor mestier voto né preco».

28. 91 28. 92 28. 93

E io a lui: «Dimostrami e dichiara, se vuo' ch'i' porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara».

28. 94 Allor puose la mano a la mascella 28. 95 d'un suo compagno e la bocca li aperse, 28. 96 gridando: «Questi è desso, e non favella.


28. 97 Questi, scacciato, il dubitar sommerse 28. 98 in Cesare, affermando che 'l fornito 28. 99 sempre con danno l'attender sofferse».

28.100 Oh quanto mi pareva sbigottito 28.101 con la lingua tagliata ne la strozza 28.102 Curio, ch'a dir fu così ardito!

28.103 28.104 28.105

E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca, sì che 'l sangue facea la faccia sozza,

28.106 gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca, 28.107 che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", 28.108 che fu mal seme per la gente tosca».

28.109 E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; 28.110 per ch'elli, accumulando duol con duolo, 28.111 sen gio come persona trista e matta.

28.112 28.113 28.114

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa, ch'io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo;


28.115 28.116 28.117

se non che coscienza m'assicura, la buona compagnia che l'uom francheggia sotto l'asbergo del sentirsi pura.

28.118 Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, 28.119 un busto sanza capo andar sì come 28.120 andavan li altri de la trista greggia;

28.121 e 'l capo tronco tenea per le chiome, 28.122 pesol con mano a guisa di lanterna; 28.123 e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».

28.124 Di sé facea a sé stesso lucerna, 28.125 ed eran due in uno e uno in due: 28.126 com'esser può, quei sa che sì governa.

28.127 Quando diritto al piè del ponte fue, 28.128 levò 'l braccio alto con tutta la testa, 28.129 per appressarne le parole sue,

28.130 che fuoro: «Or vedi la pena molesta 28.131 tu che, spirando, vai veggendo i morti: 28.132 vedi s'alcuna è grande come questa.


123


28.133 28.134 28.135

E perché tu di me novella porti, sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma' conforti.

28.136 Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli: 28.137 Achitofèl non fé più d'Absalone 28.138 e di Davìd coi malvagi punzelli.

28.139 Perch'io parti' così giunte persone, 28.140 partito porto il mio cerebro, lasso!, 28.141 dal suo principio ch'è in questo troncone. 28.142 Così s'osserva in me lo contrapasso».


Canto XXIX 29. 1 La molta gente e le diverse piaghe 29. 2 avean le luci mie sì inebriate, 29. 3 che de lo stare a piangere eran vaghe.

29. 4 Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? 29. 5 perché la vista tua pur si soffolge 29. 6 là giù tra l'ombre triste smozzicate?

29. 7 Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; 29. 8 pensa, se tu annoverar le credi, 29. 9 che miglia ventidue la valle volge.

29. 10 29. 11 29. 12

E già la luna è sotto i nostri piedi: lo tempo è poco omai che n'è concesso, e altro è da veder che tu non vedi».

29. 13 29. 14 29. 15

«Se tu avessi», rispuos'io appresso, «atteso a la cagion perch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso».

29. 16 29. 17 29. 18

Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava


4-6


29. 19 dov'io tenea or li occhi sì a posta, 29. 20 credo ch'un spirto del mio sangue pianga 29. 21 la colpa che là giù cotanto costa».

29. 22 Allor disse 'l maestro: «Non si franga 29. 23 lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello. 29. 24 Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

29. 25 29. 26 29. 27

ch'io vidi lui a piè del ponticello mostrarti, e minacciar forte, col dito, e udi' 'l nominar Geri del Bello.

29. 28 29. 29 29. 30

Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito».

29. 31 29. 32 29. 33

«O duca mio, la violenta morte che non li è vendicata ancor», diss'io, «per alcun che de l'onta sia consorte,

29. 34 29. 35 29. 36

fece lui disdegnoso; ond'el sen gio sanza parlarmi, sì com'io estimo: e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».


29. 37 29. 38 29. 39

Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo.

29. 40 Quando noi fummo sor l'ultima chiostra 29. 41 di Malebolge, sì che i suoi conversi 29. 42 potean parere a la veduta nostra,

29. 43 lamenti saettaron me diversi, 29. 44 che di pietà ferrati avean li strali; 29. 45 ond'io li orecchi con le man copersi.

29. 46 Qual dolor fora, se de li spedali, 29. 47 di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre 29. 48 e di Maremma e di Sardigna i mali

29. 49 fossero in una fossa tutti 'nsembre, 29. 50 tal era quivi, e tal puzzo n'usciva 29. 51 qual suol venir de le marcite membre.

29. 52 Noi discendemmo in su l'ultima riva 29. 53 del lungo scoglio, pur da man sinistra; 29. 54 e allor fu la mia vista più viva


54-57


29. 55 giĂš ver lo fondo, la 've la ministra 29. 56 de l'alto Sire infallibil giustizia 29. 57 punisce i falsador che qui registra.

29. 58 Non credo ch'a veder maggior tristizia 29. 59 fosse in Egina il popol tutto infermo, 29. 60 quando fu l'aere sĂŹ pien di malizia,

29. 61 29. 62 29. 63

che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,

29. 64 29. 65 29. 66

si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.

29. 67 Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spalle 29. 68 l'un de l'altro giacea, e qual carpone 29. 69 si trasmutava per lo tristo calle.

29. 70 Passo passo andavam sanza sermone, 29. 71 guardando e ascoltando li ammalati, 29. 72 che non potean levar le lor persone.


29. 73 Io vidi due sedere a sé poggiati, 29. 74 com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia, 29. 75 dal capo al piè di schianze macolati;

29. 76 e non vidi già mai menare stregghia 29. 77 a ragazzo aspettato dal segnorso, 29. 78 né a colui che mal volontier vegghia,

29. 79 come ciascun menava spesso il morso 29. 80 de l'unghie sopra sé per la gran rabbia 29. 81 del pizzicor, che non ha più soccorso;

29. 82 e sì traevan giù l'unghie la scabbia, 29. 83 come coltel di scardova le scaglie 29. 84 o d'altro pesce che più larghe l'abbia.

29. 85 29. 86 29. 87

«O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò 'l duca mio a l'un di loro, «e che fai d'esse talvolta tanaglie,

29. 88 dinne s'alcun Latino è tra costoro 29. 89 che son quinc'entro, se l'unghia ti basti 29. 90 etternalmente a cotesto lavoro».


82-83

29. 91 «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti 29. 92 qui ambedue», rispuose l'un piangendo; 29. 93 «ma tu chi se' che di noi dimandasti?».

29. 94 29. 95 29. 96

E 'l duca disse: «I' son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».


29. 97 Allor si ruppe lo comun rincalzo; 29. 98 e tremando ciascuno a me si volse 29. 99 con altri che l'udiron di rimbalzo.

29.100 Lo buon maestro a me tutto s'accolse, 29.101 dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; 29.102 e io incominciai, poscia ch'ei volse:

29.103 «Se la vostra memoria non s'imboli 29.104 nel primo mondo da l'umane menti, 29.105 ma s'ella viva sotto molti soli,

29.106 ditemi chi voi siete e di che genti; 29.107 la vostra sconcia e fastidiosa pena 29.108 di palesarvi a me non vi spaventi».

29.109 «Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena», 29.110 rispuose l'un, «mi fé mettere al foco; 29.111 ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.

29.112 Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: 29.113 I' mi saprei levar per l'aere a volo; 29.114 e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,


29.115 volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo 29.116 perch'io nol feci Dedalo, mi fece 29.117 ardere a tal che l'avea per figliuolo.

29.118 Ma nell 'ultima bolgia de le diece 29.119 me per l'alchìmia che nel mondo usai 29.120 dannò Minòs, a cui fallar non lece».

29.121 E io dissi al poeta: «Or fu già mai 29.122 gente sì vana come la sanese? 29.123 Certo non la francesca sì d'assai!».

29.124 Onde l'altro lebbroso, che m'intese, 29.125 rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca 29.126 che seppe far le temperate spese,

29.127 e Niccolò che la costuma ricca 29.128 del garofano prima discoverse 29.129 ne l'orto dove tal seme s'appicca;

29.130 29.131 29.132

e tra'ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse.


29.133 29.134 29.135

Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver me l'occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda:

29.136 29.137 29.138 29.139

sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchìmia; e te dee ricordar, se ben t'adocchio, com'io fui di natura buona scimia».


Canto XXX 30. 1 Nel tempo che Iunone era crucciata 30. 2 per Semelè contra 'l sangue tebano, 30. 3 come mostrò una e altra fiata,

30. 4 Atamante divenne tanto insano, 30. 5 che veggendo la moglie con due figli 30. 6 andar carcata da ciascuna mano,

30. 7 gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli 30. 8 la leonessa e ' leoncini al varco»; 30. 9 e poi distese i dispietati artigli,

30. 10 prendendo l'un ch'avea nome Learco, 30. 11 e rotollo e percosselo ad un sasso; 30. 12 e quella s'annegò con l'altro carco.

30. 13 30. 14 30. 15

E quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva, sì che 'nsieme col regno il re fu casso,

30. 16 Ecuba trista, misera e cattiva, 30. 17 poscia che vide Polissena morta, 30. 18 e del suo Polidoro in su la riva


30. 19 del mar si fu la dolorosa accorta, 30. 20 forsennata latrò sì come cane; 30. 21 tanto il dolor le fé la mente torta.

30. 22 Ma né di Tebe furie né troiane 30. 23 si vider mai in alcun tanto crude, 30. 24 non punger bestie, nonché membra umane,

30. 25 quant'io vidi in due ombre smorte e nude, 30. 26 che mordendo correvan di quel modo 30. 27 che 'l porco quando del porcil si schiude.

30. 28 L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo 30. 29 del collo l'assannò, sì che, tirando, 30. 30 grattar li fece il ventre al fondo sodo.

30. 31 30. 32 30. 33

E l'Aretin che rimase, tremando mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando».

30. 34 30. 35 30. 36

«Oh!», diss'io lui, «se l'altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi».


32-33

30. 37 Ed elli a me: «Quell'è l'anima antica 30. 38 di Mirra scellerata, che divenne 30. 39 al padre fuor del dritto amore amica.

30. 40 Questa a peccar con esso così venne, 30. 41 falsificando sé in altrui forma, 30. 42 come l'altro che là sen va, sostenne,


37-39


30. 43 per guadagnar la donna de la torma, 30. 44 falsificare in sé Buoso Donati, 30. 45 testando e dando al testamento norma».

30. 46 30. 47 30. 48

E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati.

30. 49 Io vidi un, fatto a guisa di leuto, 30. 50 pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia 30. 51 tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.

30. 52 30. 53 30. 54

La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia,

30. 55 30. 56 30. 57

facea lui tener le labbra aperte come l'etico fa, che per la sete l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.

30. 58 «O voi che sanz'alcuna pena siete, 30. 59 e non so io perché, nel mondo gramo», 30. 60 diss'elli a noi, «guardate e attendete


30. 61 30. 62 30. 63

a la miseria del maestro Adamo: io ebbi vivo assai di quel ch'i' volli, e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.

30. 64 Li ruscelletti che d'i verdi colli 30. 65 del Casentin discendon giuso in Arno, 30. 66 faccendo i lor canali freddi e molli,

30. 67 30. 68 30. 69

sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l'imagine lor vie più m'asciuga che 'l male ond'io nel volto mi discarno.

30. 70 30. 71 30. 72

La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov'io peccai a metter più li miei sospiri in fuga.

30. 73 Ivi è Romena, là dov'io falsai 30. 74 la lega suggellata del Batista; 30. 75 per ch'io il corpo sù arso lasciai.

30. 76 Ma s'io vedessi qui l'anima trista 30. 77 di Guido o d'Alessandro o di lor frate, 30. 78 per Fonte Branda non darei la vista.


30. 79 Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate 30. 80 ombre che vanno intorno dicon vero; 30. 81 ma che mi val, c'ho le membra legate?

30. 82 30. 83 30. 84

S'io fossi pur di tanto ancor leggero ch'i' potessi in cent'anni andare un'oncia, io sarei messo già per lo sentiero,

30. 85 30. 86 30. 87

cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia, e men d'un mezzo di traverso non ci ha.

30. 88 30. 89 30. 90

Io son per lor tra sì fatta famiglia: e' m'indussero a batter li fiorini ch'avevan tre carati di mondiglia».

30. 91 E io a lui: «Chi son li due tapini 30. 92 che fumman come man bagnate 'l verno, 30. 93 giacendo stretti a' tuoi destri confini?».

30. 94 30. 95 30. 96

«Qui li trovai - e poi volta non dierno - », rispuose, «quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.


30. 97 L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; 30. 98 l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia: 30. 99 per febbre aguta gittan tanto leppo».

30.100 E l'un di lor, che si recò a noia 30.101 forse d'esser nomato sì oscuro, 30.102 col pugno li percosse l'epa croia.

30.103 Quella sonò come fosse un tamburo; 30.104 e mastro Adamo li percosse il volto 30.105 col braccio suo, che non parve men duro,

30.106 dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto 30.107 lo muover per le membra che son gravi, 30.108 ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

30.109 Ond'ei rispuose: «Quando tu andavi 30.110 al fuoco, non l'avei tu così presto; 30.111 ma sì e più l'avei quando coniavi».

30.112 30.113 30.114

E l'idropico: «Tu di' ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là 've del ver fosti a Troia richesto».


30.115 «S'io dissi falso, e tu falsasti il conio», 30.116 disse Sinon; «e son qui per un fallo, 30.117 e tu per più ch'alcun altro demonio!».

30.118 «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», 30.119 rispuose quel ch'avea infiata l'epa; 30.120 «e sieti reo che tutto il mondo sallo!».

30.121 «E te sia rea la sete onde ti crepa», 30.122 disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia 30.123 che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!».

30.124 Allora il monetier: «Così si squarcia 30.125 la bocca tua per tuo mal come suole; 30.126 ché s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,

30.127 tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, 30.128 e per leccar lo specchio di Narcisso, 30.129 non vorresti a 'nvitar molte parole».

30.130 Ad ascoltarli er'io del tutto fisso, 30.131 quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira, 30.132 che per poco che teco non mi risso!».


30.133 Quand'io 'l senti' a me parlar con ira, 30.134 volsimi verso lui con tal vergogna, 30.135 ch'ancor per la memoria mi si gira.

30.136 Qual è colui che suo dannaggio sogna, 30.137 che sognando desidera sognare, 30.138 sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,

30.139 30.140 30.141

tal mi fec'io, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare.

30.142 «Maggior difetto men vergogna lava», 30.143 disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato; 30.144 però d'ogne trestizia ti disgrava.

30.145 E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, 30.146 se più avvien che fortuna t'accoglia 30.147 dove sien genti in simigliante piato: 30.148 ché voler ciò udire è bassa voglia».


Canto XXXI 31. 1 Una medesma lingua pria mi morse, 31. 2 sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, 31. 3 e poi la medicina mi riporse;

31. 4 così od'io che solea far la lancia 31. 5 d'Achille e del suo padre esser cagione 31. 6 prima di trista e poi di buona mancia.

31. 7 Noi demmo il dosso al misero vallone 31. 8 su per la ripa che 'l cinge dintorno, 31. 9 attraversando sanza alcun sermone.

31. 10 Quiv'era men che notte e men che giorno, 31. 11 sì che 'l viso m'andava innanzi poco; 31. 12 ma io senti' sonare un alto corno,

31. 13 tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, 31. 14 che, contra sé la sua via seguitando, 31. 15 dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.

31. 16 Dopo la dolorosa rotta, quando 31. 17 Carlo Magno perdé la santa gesta, 31. 18 non sonò sì terribilmente Orlando.


31. 19 Poco portai in là volta la testa, 31. 20 che me parve veder molte alte torri; 31. 21 ond'io: «Maestro, di', che terra è questa?».

31. 22 Ed elli a me: «Però che tu trascorri 31. 23 per le tenebre troppo da la lungi, 31. 24 avvien che poi nel maginare abborri.

31. 25 Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, 31. 26 quanto 'l senso s'inganna di lontano; 31. 27 però alquanto più te stesso pungi».

31. 28 31. 29 31. 30

Poi caramente mi prese per mano, e disse: «Pria che noi siamo più avanti, acciò che 'l fatto men ti paia strano,

31. 31 sappi che non son torri, ma giganti, 31. 32 e son nel pozzo intorno da la ripa 31. 33 da l'umbilico in giuso tutti quanti».

31. 34 31. 35 31. 36

Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa,


31. 37 così forando l'aura grossa e scura, 31. 38 più e più appressando ver' la sponda, 31. 39 fuggiemi errore e cresciemi paura;

31. 40 però che come su la cerchia tonda 31. 41 Montereggion di torri si corona, 31. 42 così la proda che 'l pozzo circonda

31. 43 torreggiavan di mezza la persona 31. 44 li orribili giganti, cui minaccia 31. 45 Giove del cielo ancora quando tuona.

31. 46 31. 47 31. 48

E io scorgeva già d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia.

31. 49 Natura certo, quando lasciò l'arte 31. 50 di sì fatti animali, assai fé bene 31. 51 per tòrre tali essecutori a Marte.

31. 52 E s'ella d'elefanti e di balene 31. 53 non si pente, chi guarda sottilmente, 31. 54 più giusta e più discreta la ne tene;


31. 55 ché dove l'argomento de la mente 31. 56 s'aggiugne al mal volere e a la possa, 31. 57 nessun riparo vi può far la gente.

31. 58 31. 59 31. 60

La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa;

31. 61 sì che la ripa, ch'era perizoma 31. 62 dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto 31. 63 di sovra, che di giugnere a la chioma

31. 64 tre Frison s'averien dato mal vanto; 31. 65 però ch'i' ne vedea trenta gran palmi 31. 66 dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto.

31. 67 31. 68 31. 69

«*Raphèl maì amècche zabì almi*», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi.

31. 70 E 'l duca mio ver lui: «Anima sciocca, 31. 71 tienti col corno, e con quel ti disfoga 31. 72 quand'ira o altra passion ti tocca!


70-71


31. 73 31. 74 31. 75

Cércati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga».

31. 76 Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; 31. 77 questi è Nembrotto per lo cui mal coto 31. 78 pur un linguaggio nel mondo non s'usa.

31. 79 31. 80 31. 81

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».

31. 82 Facemmo adunque più lungo viaggio, 31. 83 vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro, 31. 84 trovammo l'altro assai più fero e maggio.

31. 85 A cigner lui qual che fosse 'l maestro, 31. 86 non so io dir, ma el tenea soccinto 31. 87 dinanzi l'altro e dietro il braccio destro

31. 88 d'una catena che 'l tenea avvinto 31. 89 dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto 31. 90 si ravvolgea infino al giro quinto.


91-93

31. 91 «Questo superbo volle esser esperto 31. 92 di sua potenza contra 'l sommo Giove», 31. 93 disse 'l mio duca, «ond'elli ha cotal merto.

31. 94 Fialte ha nome, e fece le gran prove 31. 95 quando i giganti fer paura a' dèi; 31. 96 le braccia ch'el menò, già mai non move».


31. 97 31. 98 31. 99

E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Briareo esperienza avesser li occhi miei».

31.100 Ond'ei rispuose: «Tu vedrai Anteo 31.101 presso di qui che parla ed è disciolto, 31.102 che ne porrà nel fondo d'ogne reo.

31.103 Quel che tu vuo' veder, più là è molto, 31.104 ed è legato e fatto come questo, 31.105 salvo che più feroce par nel volto».

31.106 Non fu tremoto già tanto rubesto, 31.107 che scotesse una torre così forte, 31.108 come Fialte a scuotersi fu presto.

31.109 Allor temett'io più che mai la morte, 31.110 e non v'era mestier più che la dotta, 31.111 s'io non avessi viste le ritorte.

31.112 Noi procedemmo più avante allotta, 31.113 e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, 31.114 sanza la testa, uscia fuor de la grotta.


31.115 «O tu che ne la fortunata valle 31.116 che fece Scipion di gloria reda, 31.117 quand'Anibàl co' suoi diede le spalle,

31.118 recasti già mille leon per preda, 31.119 e che, se fossi stato a l'alta guerra 31.120 de'tuoi fratelli, ancor par che si creda

31.121 ch'avrebber vinto i figli de la terra; 31.122 mettine giù, e non ten vegna schifo, 31.123 dove Cocito la freddura serra.

31.124 Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: 31.125 questi può dar di quel che qui si brama; 31.126 però ti china, e non torcer lo grifo.

31.127 Ancor ti può nel mondo render fama, 31.128 ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta 31.129 se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».

31.130 Così disse 'l maestro; e quelli in fretta 31.131 le man distese, e prese 'l duca mio, 31.132 ond'Ercule sentì già grande stretta.


142-143


31.133 Virgilio, quando prender si sentio, 31.134 disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»; 31.135 poi fece sì ch'un fascio era elli e io.

31.136 Qual pare a riguardar la Carisenda 31.137 sotto 'l chinato, quando un nuvol vada 31.138 sovr'essa sì, ched ella incontro penda;

31.139 tal parve Anteo a me che stava a bada 31.140 di vederlo chinare, e fu tal ora 31.141 ch'i' avrei voluto ir per altra strada.

31.142 Ma lievemente al fondo che divora 31.143 Lucifero con Giuda, ci sposò; 31.144 né sì chinato, lì fece dimora, 31.145 e come albero in nave si levò.


Canto XXXII 32. 1 S'io avessi le rime aspre e chiocce, 32. 2 come si converrebbe al tristo buco 32. 3 sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,

32. 4 io premerei di mio concetto il suco 32. 5 più pienamente; ma perch'io non l'abbo, 32. 6 non sanza tema a dicer mi conduco;

32. 7 ché non è impresa da pigliare a gabbo 32. 8 discriver fondo a tutto l'universo, 32. 9 né da lingua che chiami mamma o babbo.

32. 10 32. 11 32. 12

Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso.

32. 13 Oh sovra tutte mal creata plebe 32. 14 che stai nel loco onde parlare è duro, 32. 15 mei foste state qui pecore o zebe!

32. 16 32. 17 32. 18

Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l'alto muro,


19

32. 19 dicere udi'mi: ÂŤGuarda come passi: 32. 20 va sĂŹ, che tu non calchi con le piante 32. 21 le teste de' fratei miseri lassiÂť.

32. 22 32. 23 32. 24

Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante.


32. 25 Non fece al corso suo sì grosso velo 32. 26 di verno la Danoia in Osterlicchi, 32. 27 né Tanai là sotto 'l freddo cielo,

32. 28 com'era quivi; che se Tambernicchi 32. 29 vi fosse sù caduto, o Pietrapana, 32. 30 non avria pur da l'orlo fatto cricchi.

32. 31 E come a gracidar si sta la rana 32. 32 col muso fuor de l'acqua, quando sogna 32. 33 di spigolar sovente la villana;

32. 34 32. 35 32. 36

livide, insin là dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.

32. 37 Ognuna in giù tenea volta la faccia; 32. 38 da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo 32. 39 tra lor testimonianza si procaccia.

32. 40 Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto, 32. 41 volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti, 32. 42 che 'l pel del capo avieno insieme misto.


32. 43 «Ditemi, voi che sì strignete i petti», 32. 44 diss'io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; 32. 45 e poi ch'ebber li visi a me eretti,

32. 46 li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, 32. 47 gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse 32. 48 le lagrime tra essi e riserrolli.

32. 49 32. 50 32. 51

Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond'ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

32. 52 E un ch'avea perduti ambo li orecchi 32. 53 per la freddura, pur col viso in giùe, 32. 54 disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?

32. 55 Se vuoi saper chi son cotesti due, 32. 56 la valle onde Bisenzo si dichina 32. 57 del padre loro Alberto e di lor fue.

32. 58 D'un corpo usciro; e tutta la Caina 32. 59 potrai cercare, e non troverai ombra 32. 60 degna più d'esser fitta in gelatina;


32. 61 non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra 32. 62 con esso un colpo per la man d'Artù; 32. 63 non Focaccia; non questi che m'ingombra

32. 64 32. 65 32. 66

col capo sì, ch'i' non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se', ben sai omai chi fu.

32. 67 32. 68 32. 69

E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch'i' fu' il Camicion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni».

32. 70 32. 71 32. 72

Poscia vid'io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de' gelati guazzi.

32. 73 32. 74 32. 75

E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l'etterno rezzo;

32. 76 se voler fu o destino o fortuna, 32. 77 non so; ma, passeggiando tra le teste, 32. 78 forte percossi 'l piè nel viso ad una.


32. 79 Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? 32. 80 se tu non vieni a crescer la vendetta 32. 81 di Montaperti, perché mi moleste?».

32. 82 E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta, 32. 83 si ch'io esca d'un dubbio per costui; 32. 84 poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».

32. 85 32. 86 32. 87

Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: «Qual se' tu che così rampogni altrui?».

32. 88 «Or tu chi se' che vai per l'Antenora, 32. 89 percotendo», rispuose, «altrui le gote, 32. 90 sì che, se fossi vivo, troppo fora?».

32. 91 32. 92 32. 93

«Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».

32. 94 32. 95 32. 96

Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!».


98-99

32. 97 Allor lo presi per la cuticagna, 32. 98 e dissi: «El converrà che tu ti nomi, 32. 99 o che capel qui sù non ti rimagna».

32.100 Ond'elli a me: «Perché tu mi dischiomi, 32.101 né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti, 32.102 se mille fiate in sul capo mi tomi».


32.103 Io avea già i capelli in mano avvolti, 32.104 e tratto glien'avea più d'una ciocca, 32.105 latrando lui con li occhi in giù raccolti,

32.106 quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? 32.107 non ti basta sonar con le mascelle, 32.108 se tu non latri? qual diavol ti tocca?».

32.109 32.110 32.111

«Omai», diss'io, «non vo' che più favelle, malvagio traditor; ch'a la tua onta io porterò di te vere novelle».

32.112 «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; 32.113 ma non tacer, se tu di qua entro eschi, 32.114 di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.

32.115 32.116 32.117

El piange qui l'argento de' Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera là dove i peccatori stanno freschi".

32.118 Se fossi domandato "Altri chi v'era?", 32.119 tu hai dallato quel di Beccheria 32.120 di cui segò Fiorenza la gorgiera.


130-132

32.121 Gianni de' Soldanier credo che sia 32.122 più là con Ganellone e Tebaldello, 32.123 ch'aprì Faenza quando si dormia».

32.124 Noi eravam partiti già da ello, 32.125 ch'io vidi due ghiacciati in una buca, 32.126 sì che l'un capo a l'altro era cappello;


32.127 32.128 32.129

e come 'l pan per fame si manduca, così 'l sovran li denti a l'altro pose là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:

32.130 non altrimenti Tideo si rose 32.131 le tempie a Menalippo per disdegno, 32.132 che quei faceva il teschio e l'altre cose.

32.133 «O tu che mostri per sì bestial segno 32.134 odio sovra colui che tu ti mangi, 32.135 dimmi 'l perché», diss'io, «per tal convegno,

32.136 che se tu a ragion di lui ti piangi, 32.137 sappiendo chi voi siete e la sua pecca, 32.138 nel mondo suso ancora io te ne cangi, 32.139 se quella con ch'io parlo non si secca».


Canto XXXIII 33. 1 La bocca sollevò dal fiero pasto 33. 2 quel peccator, forbendola a' capelli 33. 3 del capo ch'elli avea di retro guasto.

33. 4 Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli 33. 5 disperato dolor che 'l cor mi preme 33. 6 già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

33. 7 Ma se le mie parole esser dien seme 33. 8 che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, 33. 9 parlar e lagrimar vedrai insieme.

33. 10 Io non so chi tu se' né per che modo 33. 11 venuto se' qua giù; ma fiorentino 33. 12 mi sembri veramente quand'io t'odo.

33. 13 Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, 33. 14 e questi è l'arcivescovo Ruggieri: 33. 15 or ti dirò perché i son tal vicino.

33. 16 33. 17 33. 18

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri;


33. 19 però quel che non puoi avere inteso, 33. 20 cioè come la morte mia fu cruda, 33. 21 udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

33. 22 33. 23 33. 24

Breve pertugio dentro da la Muda la qual per me ha 'l titol de la fame, e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

33. 25 m'avea mostrato per lo suo forame 33. 26 più lune già, quand'io feci 'l mal sonno 33. 27 che del futuro mi squarciò 'l velame.

33. 28 Questi pareva a me maestro e donno, 33. 29 cacciando il lupo e ' lupicini al monte 33. 30 per che i Pisan veder Lucca non ponno.

33. 31 Con cagne magre, studiose e conte 33. 32 Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi 33. 33 s'avea messi dinanzi da la fronte.

33. 34 33. 35 33. 36

In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.


33. 37 Quando fui desto innanzi la dimane, 33. 38 pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli 33. 39 ch'eran con meco, e dimandar del pane.

33. 40 Ben se' crudel, se tu già non ti duoli 33. 41 pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; 33. 42 e se non piangi, di che pianger suoli?

33. 43 Già eran desti, e l'ora s'appressava 33. 44 che 'l cibo ne solea essere addotto, 33. 45 e per suo sogno ciascun dubitava;

33. 46 e io senti' chiavar l'uscio di sotto 33. 47 a l'orribile torre; ond'io guardai 33. 48 nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

33. 49 Io non piangea, sì dentro impetrai: 33. 50 piangevan elli; e Anselmuccio mio 33. 51 disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

33. 52 33. 53 33. 54

Perciò non lacrimai né rispuos'io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscìo.


64

33. 55 Come un poco di raggio si fu messo 33. 56 nel doloroso carcere, e io scorsi 33. 57 per quattro visi il mio aspetto stesso,

33. 58 ambo le man per lo dolor mi morsi; 33. 59 ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia 33. 60 di manicar, di subito levorsi


69-70

33. 61 e disser: "Padre, assai ci fia men doglia 33. 62 se tu mangi di noi: tu ne vestisti 33. 63 queste misere carni, e tu le spoglia".

33. 64 Queta'mi allor per non farli piĂš tristi; 33. 65 lo dĂŹ e l'altro stemmo tutti muti; 33. 66 ahi dura terra, perchĂŠ non t'apristi?


74

33. 67 Poscia che fummo al quarto dì venuti, 33. 68 Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, 33. 69 dicendo: ``Padre mio, ché non mi aiuti?''.

33. 70 Quivi morì; e come tu mi vedi, 33. 71 vid'io cascar li tre ad uno ad uno 33. 72 tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,


33. 73 già cieco, a brancolar sovra ciascuno, 33. 74 e due dì li chiamai, poi che fur morti. 33. 75 Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».

33. 76 Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti 33. 77 riprese 'l teschio misero co'denti, 33. 78 che furo a l'osso, come d'un can, forti.

33. 79 Ahi Pisa, vituperio de le genti 33. 80 del bel paese là dove 'l sì suona, 33. 81 poi che i vicini a te punir son lenti,

33. 82 33. 83 33. 84

muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

33. 85 Ché se 'l conte Ugolino aveva voce 33. 86 d'aver tradita te de le castella, 33. 87 non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

33. 88 Innocenti facea l'età novella, 33. 89 novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata 33. 90 e li altri due che 'l canto suso appella.


33. 91 Noi passammo oltre, là 've la gelata 33. 92 ruvidamente un'altra gente fascia, 33. 93 non volta in giù, ma tutta riversata.

33. 94 33. 95 33. 96

Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia;

33. 97 33. 98 33. 99

ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

33.100 E avvegna che, sì come d'un callo, 33.101 per la freddura ciascun sentimento 33.102 cessato avesse del mio viso stallo,

33.103 già mi parea sentire alquanto vento: 33.104 per ch'io: «Maestro mio, questo chi move? 33.105 non è qua giù ogne vapore spento?».

33.106 Ond'elli a me: «Avaccio sarai dove 33.107 di ciò ti farà l'occhio la risposta, 33.108 veggendo la cagion che 'l fiato piove».


33.109 E un de' tristi de la fredda crosta 33.110 gridò a noi: «O anime crudeli, 33.111 tanto che data v'è l'ultima posta,

33.112 levatemi dal viso i duri veli, 33.113 sì ch'io sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, 33.114 un poco, pria che 'l pianto si raggeli».

33.115 Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna, 33.116 dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo, 33.117 al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

33.118 33.119 33.120

Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo».

33.121 «Oh!», diss'io lui, «or se' tu ancor morto?». 33.122 Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea 33.123 nel mondo sù, nulla scienza porto.

33.124 33.125 33.126

Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade innanzi ch'Atropòs mossa le dea.


33.127 33.128 33.129

E perché tu più volentier mi rade le 'nvetriate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l'anima trade

33.130 come fec'io, il corpo suo l'è tolto 33.131 da un demonio, che poscia il governa 33.132 mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

33.133 Ella ruina in sì fatta cisterna; 33.134 e forse pare ancor lo corpo suso 33.135 de l'ombra che di qua dietro mi verna.

33.136 Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: 33.137 elli è ser Branca Doria, e son più anni 33.138 poscia passati ch'el fu sì racchiuso».

33.139 33.140 33.141

«Io credo», diss'io lui, «che tu m'inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni».

33.142 «Nel fosso sù», diss'el, «de' Malebranche, 33.143 là dove bolle la tenace pece, 33.144 non era ancor giunto Michel Zanche,


33.145 che questi lasciò il diavolo in sua vece 33.146 nel corpo suo, ed un suo prossimano 33.147 che 'l tradimento insieme con lui fece.

33.148 33.149 33.150

Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non gliel'apersi; e cortesia fu lui esser villano.

33.151 Ahi Genovesi, uomini diversi 33.152 d'ogne costume e pien d'ogne magagna, 33.153 perché non siete voi del mondo spersi?

33.154 33.155 33.156 33.157

Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra.


Canto XXXIV 34. 1 «*Vexilla regis prodeunt inferni* 34. 2 verso di noi; però dinanzi mira», 34. 3 disse 'l maestro mio «se tu 'l discerni».

34. 4 Come quando una grossa nebbia spira, 34. 5 o quando l'emisperio nostro annotta, 34. 6 par di lungi un molin che 'l vento gira,

34. 7 veder mi parve un tal dificio allotta; 34. 8 poi per lo vento mi ristrinsi retro 34. 9 al duca mio; ché non lì era altra grotta.

34. 10 Già era, e con paura il metto in metro, 34. 11 là dove l'ombre tutte eran coperte, 34. 12 e trasparien come festuca in vetro.

34. 13 Altre sono a giacere; altre stanno erte, 34. 14 quella col capo e quella con le piante; 34. 15 altra, com'arco, il volto a' piè rinverte.

34. 16 Quando noi fummo fatti tanto avante, 34. 17 ch'al mio maestro piacque di mostrarmi 34. 18 la creatura ch'ebbe il bel sembiante,


20-21

34. 19 d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, 34. 20 «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco 34. 21 ove convien che di fortezza t'armi».

34. 22 Com'io divenni allor gelato e fioco, 34. 23 nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, 34. 24 però ch'ogne parlar sarebbe poco.


34. 25 Io non mori' e non rimasi vivo: 34. 26 pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, 34. 27 qual io divenni, d'uno e d'altro privo.

34. 28 Lo 'mperador del doloroso regno 34. 29 da mezzo 'l petto uscìa fuor de la ghiaccia; 34. 30 e più con un gigante io mi convegno,

34. 31 che i giganti non fan con le sue braccia: 34. 32 vedi oggimai quant'esser dee quel tutto 34. 33 ch'a così fatta parte si confaccia.

34. 34 S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, 34. 35 e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, 34. 36 ben dee da lui proceder ogne lutto.

34. 37 Oh quanto parve a me gran maraviglia 34. 38 quand'io vidi tre facce a la sua testa! 34. 39 L'una dinanzi, e quella era vermiglia;

34. 40 34. 41 34. 42

l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta:


34. 43 e la destra parea tra bianca e gialla; 34. 44 la sinistra a vedere era tal, quali 34. 45 vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.

34. 46 Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, 34. 47 quanto si convenia a tanto uccello: 34. 48 vele di mar non vid'io mai cotali.

34. 49 Non avean penne, ma di vispistrello 34. 50 era lor modo; e quelle svolazzava, 34. 51 sì che tre venti si movean da ello:

34. 52 quindi Cocito tutto s'aggelava. 34. 53 Con sei occhi piangea, e per tre menti 34. 54 gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.

34. 55 Da ogne bocca dirompea co' denti 34. 56 un peccatore, a guisa di maciulla, 34. 57 sì che tre ne facea così dolenti.

34. 58 A quel dinanzi il mordere era nulla 34. 59 verso 'l graffiar, che talvolta la schiena 34. 60 rimanea de la pelle tutta brulla.


34. 61 «Quell'anima là sù c'ha maggior pena», 34. 62 disse 'l maestro, «è Giuda Scariotto, 34. 63 che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

34. 64 De li altri due c'hanno il capo di sotto, 34. 65 quel che pende dal nero ceffo è Bruto: 34. 66 vedi come si storce, e non fa motto!;

34. 67 34. 68 34. 69

e l'altro è Cassio che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto».

34. 70 34. 71 34. 72

Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai,

34. 73 appigliò sé a le vellute coste; 34. 74 di vello in vello giù discese poscia 34. 75 tra 'l folto pelo e le gelate croste.

34. 76 Quando noi fummo là dove la coscia 34. 77 si volge, a punto in sul grosso de l'anche, 34. 78 lo duca, con fatica e con angoscia,


34. 79 volse la testa ov'elli avea le zanche, 34. 80 e aggrappossi al pel com'om che sale, 34. 81 sì che 'n inferno i' credea tornar anche.

34. 82 «Attienti ben, ché per cotali scale», 34. 83 disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, 34. 84 «conviensi dipartir da tanto male».

34. 85 34. 86 34. 87

Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso, e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo.

34. 88 34. 89 34. 90

Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere;

34. 91 e s'io divenni allora travagliato, 34. 92 la gente grossa il pensi, che non vede 34. 93 qual è quel punto ch'io avea passato.

34. 94 34. 95 34. 96

«Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede».


34. 97 Non era camminata di palagio 34. 98 là 'v'eravam, ma natural burella 34. 99 ch'avea mal suolo e di lume disagio.

34.100 34.101 34.102

«Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss'io quando fui dritto, «a trarmi d'erro un poco mi favella:

34.103 ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto 34.104 sì sottosopra? e come, in sì poc'ora, 34.105 da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».

34.106 Ed elli a me: «Tu imagini ancora 34.107 d'esser di là dal centro, ov'io mi presi 34.108 al pel del vermo reo che 'l mondo fóra.

34.109 Di là fosti cotanto quant'io scesi; 34.110 quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto 34.111 al qual si traggon d'ogne parte i pesi.

34.112 34.113 34.114

E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto


34.115 fu l'uom che nacque e visse sanza pecca: 34.116 tu hai i piedi in su picciola spera 34.117 che l'altra faccia fa de la Giudecca.

34.118 Qui è da man, quando di là è sera; 34.119 e questi, che ne fé scala col pelo, 34.120 fitto è ancora sì come prim'era.

34.121 Da questa parte cadde giù dal cielo; 34.122 e la terra, che pria di qua si sporse, 34.123 per paura di lui fé del mar velo,

34.124 e venne a l'emisperio nostro; e forse 34.125 per fuggir lui lasciò qui loco vòto 34.126 quella ch'appar di qua, e sù ricorse».

34.127 34.128 34.129

Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto

34.130 d'un ruscelletto che quivi discende 34.131 per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, 34.132 col corso ch'elli avvolge, e poco pende.


133-134


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34.133 34.134 34.135

Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo,

34.136 34.137 34.138 34.139

salimmo s첫, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle.


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