Anno XIII n. 67- gennaio-marzo 1985
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queste istituzioni Sindacati, Ministri, Amministrazioni Giornale api첫 voci Giuseppe Berta Le relazioni industriali tra deregolazione e partecipazione Luigi Giampaolino e Giorgio Pagano La legge sul pubblico impiego: due interventi Carlo Chimenti Senato: mozioni di sfiducia individuali Piero Calandra Il riassetto per Ministeri
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MAGGIOLI EDITORE
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queste istituzioni 1985/10 trimestre Direttore:
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Le relazioni industriali tra deregolazione e partecipazione di Gùiseppe Berta
Nella storia sindacale di questi ultimi anni, la Federmeccanica ha senza dubbio costituito il soggetto che con più regolarità e metodo si è impegnato in un'opera di recupero e di ricostruzione dell'identità imprenditoriale. Come molto spesso avviene in casi del genere, il.ruolo di punta nel dibattito sulle relazioni industriali che ha assunto la Federmeccanica è dipeso, oltre che dalla centralità da sempre detenuta dal settore metalmeccanico nella contrattazione collettiva, dalla continuità e dal piglio risoluto con cui il suo responsabile organizzativo è intervenuto in ogni sede pubblica nella quale fossero in discussione le prerogative imprenditoriali. Il professor Felice Mortillaro, assommando in sé le funzioni di consigliere delegato e di direttore della Federmeccanica, ciò che dà a un funzionario quale egli è un insolita influenza nella gestione diretta di un organismo di rappresentanza degli imprenditori, ha il merito di avere utilizzato ogni tribuna messagli a disposizione per parlare all'opinione pubblica con un linguaggio così chiaro, sebbene non per questo scevro di riferimenti culturali che sfiorano talvolta la ridondanza e di una singolare propensione aneddotica, da conquistarsi rapidamente una fama indiscussa come capofila dei "falchi" dello schieramento confindustriale.
Diversamente da quanto avveniva nel passato di certo costume imprenditoriale, egli non ha mai perso l'occasione per affermare perentoriamente le ragioni dell'impresa, polemizzando vigorosamente contro tutti coloro si tratti di sindacalisti dell'FLM o del cardinale Martini, senza distinzione - che ai motivi dell'economicità di gestione antepongono i doveri della solidarietà sociale. Per di più in un'epoca in cui tutti, più o meno, cercano di tenersi ben lontani, almeno negli atteggiamenti dichiarati o nelle intenzioni esibite, dai rischi dell'ideologia, Mortillaro non ha mai avuto esitazioni nel fare un'aperta e ideologica professione di fede nel profitto, come categoria ordinativa generale del sistema economico (e dunque non come semplice elemento produttore di richezza sociale). Con il declino dell'iniziativa sindacale e con tutto quanto è avvenuto nel sistema di relazioni industriali dopo i celebri "trentacinque" giorni della FIAT nell'autunno 1980, l'azione di convincimento "culturale", se vogliamo chiamarla cosi promossa dalla Federmeccanica ha cominciato a fruttificare, dando a Mortillaro un solido ruolo di opinion - maker in ogni materia che concerne le relazioni di lavoro. Ora, per conoscere il pensiero ufficiale dell'organizzazione degli in293/3
dustriali metalmeccanici non è certo il caso di attendere le scadenze contrattuali o che si profilino vertenze importanti: a diffondere le sue idee—cardine ci pensano regolarmente la stampa quotidiana, i settimanali, economici e no, o addirittura la stessa pubblicistica delle confederazioni dei lavoratori, che non mancherà di riportare il parere di Mortillaro su ogni questione rilevante, anche se tale parere si confermerà invariabilmente contrapposto a quello del sindacato. Ma la Federmeccanica ha anche cura di riservare un occhio di riguardo all'opinione più colta, meno impressionabile dai messaggi lanciati attraverso le comunicazioni di massa e formata dagli studiosi che si interessano professionalmente dei problemi sindacali: di qui la scelta di 'pubblicare una rivista semestrale "Relazioni industriali", edita da Le Monnier e ovviamente diretta da Mortillaro, alla quale come è specificato nel risvolto di copertina - "si collabora solo su invito", e, ultimamente, anche un libro - intitolato, con una significativa ascendenza vittoriniana, Sindacati e no - presso la nuova editoriale del "Sole-24 ore" (Milano 1984). Già il titolo di quest'ultima pubblicazione dovrebbe bastare al lettore affinché non cada nell'equivoco di scambiarla per la presentazione dei risultati di un sondaggio patrocinato dalla Federmeccanica sugli atteggiamenti e i comportamenti degli imprenditori del settore in materia di rapporti di lavoro (sondaggio che, a dire il vero, non sembra aggiungere 4/294
moltissimo a quanto già non si sapesse in proposito). E infatti evidente che i tabulati che corredano il volume non fanno che da supporto alle tesi esposte nello scritto di Mortillaro che li precede, e che costituisce una sorta di riflessione ragionata sulle tendenze delle relazioni industriali, ove i dati della ricerca servono da spunto, assieme, però, a una serie di altri elementi, da essi sicuramente indipendenti.
IL "MODELLO" MORTILLARO
Nelle pagine del saggio di Mortillaro troviamo la completa delineazione di un nuovo modello di relazioni industriali, verso il quale la realtà italiana andrebbe silenziosamente indirizzandosi, contraddicendo palesemente le numerose dichiarazioni che ancora punteggiano le cronache sindacali: è dunque in esse che vanno cercate la logica e le argomentazioni sulle quali si reggono le recenti, clamorose sortite della Federmeccanica, giustamente interp retate come il più diretto tentativo di delegittimare la contrattazione collettiva nell'industria. Anche per Mortillaro e la Federmeccanica gli anni recenti sono quelli della svolta, della riscoperta dell'impresa e del mercato, quando di fatto le relazioni industriali hanno cessato di essere il problema cruciale per il management. L'impresa metalmeccanica non è più "una sorta di Fort Apache circondato da sindacalisti, pretori, delegati, assemblee, sociologi, femministe, con-
sulenti e dirigenti progressisti, deputati, segretari di partito", tutti accomunati dalla convinzione che il soggetto imprenditore fosse un ostacolo ai loro piani sociali. Ora, l'assedio è stato rotto, e pare definitivamente. Il merito va ascritto all'azione aziendale della FIAT dell'ottobre 1980, che con i suoi successi ha cambiato alla radice i rapporti imprese—lavoro in Italia. Ciò che è avvenuto a Torino avrebbe fatto cadere il velo che nascondeva l'effettiva natura delle relazioni industriali: esse appaiono oggi come "una derivata dei rapporti di produzione", pertanto "soggette a mutare in rapporto ai modi, ai mezzi e all'organizzazione del produrre e ancora agli orientamenti del mercato che riceve i beni così realizzati". Ne consegue che è il calcolo economico a dover guidare le relazioni e le politiche contrattuali, depurandole delle valenze sociali generali delle quali erano state caricate nel passato. Lo stesso conflitto di lavoro può così esere ricondotto a ciò che è effettivamente, vale a dire "un mero conflitto di interessi", privo di valori universali e scisso dalle contrapposizioni e dalle tendenze che dividono la società politica. Sarà chiaro, a questo punto, che il processo di mutamento sul quale si sofferma diffusamente Mortillaro, si adatta perfettamente a un'etichetta tra quelle oggi più in voga, l'etichetta della deregulation, della liberazione dell'attività economica privata dagli impacci e dalle limitazioni, di natura istituzionale, pubblica o sociale, che l'a-
vrebbero vincolata per il passàto. Nelle relazioni industriali deregulation si traduce, ci spiega l'ideologo della Federmeccanica, con "meno iniziativa sindacale, intesa come controllo improprio e vincolo burocratico alla libera circolazione di energie". E che l'iniziativa sindacale si sia fortemente contratta nel periodo attuale, non sembra proprio in dubbio, pure se il ruolo pubblico esercitato dalle confederazioni dei lavoratori si mantiene elevato. Di qui lo stato di schizofrenia che, a giudizio di Mortillaro, caratterizza al presente lo stato delle relazioni industriali. Nel senso che si è andato notevolemente consolidando il "processo di graduale allontanamento fra relazioni industriali ufficiali e relazioni industriali reali". Mentre con il protocollo del 22 gennaio 1983 e con la sua poco fortunata "replica" del 14 febbraio 1984, i tre attori formali che agiscono al macrolivello della contrattazione collettiva - sindacati, Confindustria e sistema politico hanno cercato di congelare lo status quo, nella prassi quotidiana imprese e rappresentanze dei lavoratori perseguivano accordi pragmatici e flessibili, a misura delle concrete condizioni economiche, a livello delle unità produttive come i metalmeccanici o a livello di categoria - come i tessili. Si è già detto in precedenza che non è certo la chiarezza a fare difetto ai documenti ufficiali e alle prese di posizione "culturali" della Federmeccanica e se ne ha pronta la conferma in affermazioni di questo tipo. Mortilla295/5
è rimasta confinata" e fatta accettare anche ai sindacati. Se un robusto pragmatismo orienterà le relazioni industriali nei prossimi tempi, come molti indicatori dovrebbero farci pensare, la parte vitale della contrattazione sarà solamente quella che si innesta sui rapporti di produzione e non invece quella che si svolge in sedi esterne (si legga: politiche) all'unico scopo di giustificare le burocrazie esistenti. Tale tendenza dovrebbe fare giustizia degli stessi equivoci tecnologici che hanno inquinato la visione di una corretta gestione dei rapporti contrattuali, a partire dall'equazione tra relazioni industriali e relazioni sindacali, tra relazioni industriali e contrattazione collettiva. Ma per Mortillaro dovebbe essere palese che la complessità delle IL FUTURO DELLE RELAZIONI INDUSTRIA- relazioni di lavoro non può esaurirsi né nei rapporti fra sindacati e imprenLI SECONDO LA FEDERMECCANICA ditori, né, ancor meno, nella contratEcco la conclusione originale a cui tazione collettiva. Ciò taglierebbe giunge il rapporto della Federmecca- fuori tutti quei fenomeni di regolazionica: la contrattazione di lavoro indi- ne individuale e personalizzata delle viduale sarà la questione delle relazio- condizioni di lavoro che il rapporto ni industriali dei prossimi anni, 1"ele- della Federmeccanica ci presenta comento politico" del loro futuro. La crisi me il tratto più nuovo della realtà atdella strategia sindacale di fronte ai tuale delle fabbriche e il segno più problemi della rappresentanza dei la- manifesto della riscoperta di un prinvoratori di professionalità più elevata, cipio di razionalità economica. Poil'incapacità di correggere la rotta per ché, a conclusione di questo ragionaadeguarla ai gruppi professionali e- mento (che incorpora anche una storimergenti, sono dati che, secondo cizzazione delle fasi delle relazioni inMortillaro, autorizzano a dare credito dustriali), troviamo la dichiarazione alla contrattazione individuale come dello stato di obsolescenza in cui, già corrente pratica imprenditoriale. Per- ora, verserebbe la funzione sindacale, ciò deve essere riscattata cd a11incubo resa inadeguata dal cambiamento deldi reticenza e clandestinità a cui finora le condizioni produttive e dal declino
ro non esita a riserbare qualche punzecchiatura alla stessa Confindustria, pur di mettere in rilievo il principio che gli sta a cuore: non esiste per lui un problema politico delle relazioni industriali, ma è reale soltanto la loro dimensione economica. Così, non ha più senso inseguire grandi accordi nazionali che finiscono col rinsaldare i caratteri politici del sistema della contrattazione collettiva; questa ci viene descritta come una tendenza conservatrice, condannata dallo sviluppo che vanno prendendo, in un proliferare di casi aziendali, le pattuizioni in merito alle condizioni di lavoro, sempre più diversificate e sempre più ricalcate sulle esigenze del singolo lavoratore.
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di un clima politico. Scrive Mortillaro: "Probabilmente siamo maturi, in Italia, per affermare, senza pericolo di essere accusati di comportamento antisindacale, che per determinate categorie professionali l'intervento sindacale, in questa fase dello sviluppo economico e tecnologico, è inutile, se non contraiio agli stessi interessi dei lavoratori". I lettori a cui piacciono i saggi a tesi, che sono cioè disposti a pagare la forza propositiva e interpretativa al caro prezzo dell'unilateralità, potranno probabilmente apprezzare lo scritto di Mortillaro. Lo apprezzeranno anche perché l'autore non nasconde il suo pensiero proprio su nulla, e arriva a delle considerazioni anticonformjste anche là dove forse ci si attenderebbe che il suo interesse di parte lo spingesse a qualche cautela. Così come nel capitoletto dedicato al problema dei "quadri", nel quale ci viene fatto capire che il sindacalismo dei quadri serve a ben poco, giacché la sua origine è estranea all'attività professionale di questi lavoratori, e tende ormai a qualificarsi come un "segmento di mercato politico artificialmente coltivato ed enfatizzato dai partiti con il proposito di trarne risorse elettorali". L'assoluta mancanza di reticenza che è peculiare della prosa di Mortillaro, gli fa aggiungere che i "quadri", nonostante l'opinione corrente, continuano ad essere quelli del passato, elementi di trasmissione gerarchica e direzionale, posti sostanzialmente al di fuori della sfera di decision—making d'impresa. E che dire di come viene liquidata in una
battuta la tanto discussa questione del "neocorporativismo", a proposito della quale si afferma che una forte presenza sindacale ha condotto sempre a un'intensificazione della conflittualità e mai a una collaborazione or ganica con le imprese? Reso l'omaggio che è dovuto alla chiarezza delle formulazioni e all'onestà con cui sono espresse le tesi, corre comunque l'obbligo di ribadire quello che si osservava all'inizio, e constatare dunque che anche questo rapporto della Federmeccanjca è non soltanto un documento di parte, che offre una verità di parte (ciò che è scontato), ma anche un manifesto ideologico. E costruito su un abile (abile perché tradizionale) artificio retorico, l'opposizione tra una condizione formale e legale, che non corrisponde allo stato delle cose, e una situazione economica e sociale la quale tende a dotarsi da se stessa di norme proprie, dando forma ad un'extralegalità silenziosa quanto efficace. Un secondo artificio retorico e argomentativo è costituito dall'attribuzione alle relazioni industriali reali - in contrasto al sistema formale delle relazioni industriali la cui codificazione avverrebbe per opera del sistema politico - di un unico significato, di una valenza esclusiva. La deregolazione, appunto. Quella che viene evocata, piuttosto che descritta, nelle pagine del rapporto della Federmeccanica è una realtà delle relazioni di lavoro irriducibile all'identificazione di alcune tendenze contrattuali di fondo, che può essere rappresentata soltanto attraverso 297/7
l'immagine di una frammentazione e una diversificazione totale, quali possono essere richiamate dall'esistenza di una miriade di accordi sindacali siglati nelle più varie condizioni produttive. Anche qui nulla di particolarmente nuovo: è l'immagine di una società civile pulsante di attività e di iniziative che fa risaltare la staticità delle grandi organizzazioni e degli interessi consolidati. Ma, oltre a questo, ci vengono offerti troppi pochi dati (certamente non bastano le risultanze di un sondaggio) perché si possa avallare la tesi che nuove relazioni industriali decentrate debbano essere considerate solo come una rottura dirompente col precedente quadro normativo, senza per questo trovare qualche denominatore comune, senza che emerga il nucleo di una tendenza innovativa della contrattazione collettiva. E noto che bisogna diffidare dalle rappresentazioni che si affidano esclusivamente agli effetti - affascinanti forse, ma semplicistici del chiaroscuro, costruite su una logica binaria di contrapposizioni che si negano a vicenda. E sarà forse anche il tempo di dubitare dell'opinione di chi vede solo l'alternativa secca tra una normativa rigida e una delegificazione assoluta, o si affida alle dicotomie più elementari, opponendo automaticamente individuale e collettivo. Proprio perché siamo tutti convinti - o almeno tali ci dichiariamo che la realtà è oggetto di grandi rivolgimenti, dovremmo tenerci accuratamente lontani, se davvero sia8/298
mo guidati dal gusto pragmatico per ciò che è empiricamente verificabile, dai giochi di specchi lessicali che si limitano a un ribaltamento meccanico dell'esperienza appena superata.
UNA DIFFERENTE IPOTESI Così, ad esempio, se prendiamo in considerazione una ricerca originale e documentata come quella che Giuseppe Della Rocca ha recentemente condotto per conto della Fondazione Adriano Olivetti (apparsa con il titolo Le relar<ioni industriali e l'innovar<ione tecnologica in Italia, nel quinto dei "Quaderni" della Pondazione), possiamo constatare che la rapida marcia delle nuove tecnologie all'interno dell'industria italiana non ha recato con sé soltanto il declino delle vecchie forme dell'iniziativa sindacale o la crisi degli organismi di rappresentanza del sindacato, ma ha portato anche a un significativo proliferare di esperienze contrattuali di base, con uno sviluppo parallelo a quello di nuovi assetti organizzativi, che certamente non può essere ricompreso tutto sotto un'unica classificazione, tanto meno se di segno ideologico come la deregulation. E vero: è caduto il modello della rigidità normativa, come si usa dire, cioè non funziona più una stretta azione di tutela sindacale centrata sulle mansioni lavorative. Ma non si può ragionevolmente scambiare il declino di una fase dell'azione sindacale con la fine della contrattazione collettiva, così come nulla autorizza a confondere u-
na stagione contrattuale quella dell'inizio degli anni settanta - con il metodo e il valore della negoziazione sindacale. La ricerca di Della Rocca è una conferma utilissima del fatto che, in una fase complessa di ristrutturazione industriale e di creazione di nuovi sistemi di produzione, il tipo di regolazione normativa dei tempi e delle modalità del cambiamento serve a fissare delle linee di condotta e a orientare l'azione di tutti gli attori coinvolti nel mutamento organizzativo, e non solo a fornire garanzie ai lavoratori che vengono penalizzati dalle trasformazioni. Tanto più che la negoziazione sulle nuove tecnologie sta facendo venire a galla gli skills più autentici insiti nel processo contrattuale, spostando l'attenzione sempre più sugli elementi procedurali di esso, piuttosto che su precisi - e limitati - obiettivi rivendicativi, come avveniva invece nel passato. I caratteri partecipativi delle relazioni industriali, e dunque di conoscenza, di interazione e - perché no? - di sinergia fra gli attori del sistema industriale, a lungo occultati nella precedente stagione sindacale, Stanno acquistando peso, intrecciandosi sempre più con gli aspetti tradizionali dell'azione sindacale, contrattuali e rivendicativi. A questo punto, se volessimo rintracciare un modello di relazioni industriali alternativo a quello che è evocato nella prosa metaforica e ironica del portavoce della Federmeccanica, e invece più in linea con esiti di ricerche simili a quella appena citata, potremmo facilmente identificarlo nel cosid-
detto "protocollo d'intesa" siglato dall'IRI con le confederazioni sindacali negli ultimi giorni dell'anno scorso e che ha indubbiamente il proprio centro nella proposta di una gestione consensuale perciò fondata sulla partecipazione - delle relazioni industriali. Anche di questo documento sindacale si è già discusso molto e si sono letti commenti in cui lo si è contrapposto alle posizioni confindustriali predominanti. La storia stessa della politica sindacale delle partecipazioni statali va nella direzione di favorire una lettura "ideologica" del protocollo, con la conseguente sottolineatura del ruolo delle imprese pubbliche come importante fattore di ammortizzazione del conflitto industriale. Così come si inscrivono nella tradizione del management pubblico l'enfatizzazione dei caratteri pluralistici e l'atteggiamento "persuasivo" nei confronti del sindacato, quale emerge dalle posizioni di principio assunte da autorevoli dirigenti IRI che hanno avuto una parte importante nella definizione dello schema d'intesa (si vedano in tal senso i materiali e l'intervista pubblicati sul n. 1, 1985, della rivista dell'Intersind, "Industria e Sindacato", interamente dedicato al protocollo). Ma probabilmente non è, questa della contrapposizione tra affermazioni di valore, la chiave più adatta per interpretare l'attuale tortuosa vicenda delle relazioni industriali. E ovvio che il prossimo futuro si incaricherà di dimostrare l'avventatezza eventuale delle previsioni di Mortillaro o la 299/9
scommessa sul raffreddamento via me-. todo nego<iale del conflitto su cui sta puntando l'impresa pubblica. Certo, però, si può cominciare a scegliere tra le perentorie asserzioni di chi apprezza il nuovo soltanto, o soprattutto, perché sembra sopprimere gli impacci e i vincoli che ostavano all'iniziativa imprenditoriale e chi pensa che i tempi aprono delle possibilità di sperimentazione le quali sono anch'esse, o possono divenire, in qualche misura "innovazioni". Nella logica consultiva che informa il protocollo è interessante notare l'accentuazione che vengono ad avere le procedure di informazione e di controllo come strumenti di verifica del rapporto tra le parti impegnate nella gestione di situazioni di lavoro in corso di rapido mutamento. In questo caso, l'innovazione tecnologica cessa comunque di essere la metafora di una deregolazione che riversa i suoi effetti sostanzialmente su di uno solo degli attori in gioco. Conseguentemente, il criterio che gli artefici del protocollo IRI sembrano aver tratto dagli esperimenti contrattuali di questi anni, è che la negoziazione decentrata dei nuovi assetti tecnologici non si risolve in un puro e semplice annullamento della normativa sindacale, ma tende a produrre una diversa e più fluida regolazione, ancor molto informale, forse, ma non per questo irriconoscibile. Accanto quindi alle "filosofie" manageriali e ai fini politici che avviluppano come di consueto i documenti sin10/300
dacali dell'industria di Stato, si può rinvenire qualche traccia interessante derivata dall'osservazione del processo di mutamento in atto nelle relazioni industriali e dalla scoperta di un'attitudine partecipativa, per quanto informale ed esibita (com'è bene che sia) al livello decentrato, che indica la necessità di ripensare le categorie di giudizio dell'esperienza sindacale italiana al di fuori degli schemi, ormai bioccati, il cui uso è invalso in questi anni. Sono tracce che fanno altresì avvertire l'opportunità di riprendere a riflettere, in termini non convenzionali, anche sui temi cruciali della negoziazione, dallo scambio al contratto. Ma questa volta varrebbe la pena di riconsiderarli dalla prospettiva decentrata dell'impresa e non più da quella accentrata dello Stato, come ci ha da tempo abituati la discussione sul neocorporativismo. Tra le cose cui si dovrebbe prestare attenzione vi è sicuramente anche la dimensione delle conseguenze derivanti dai giochi dello scambio e inerenti al rafforzamento dei caratteri fondamentali dei soggetti che vi hanno parte: un processo transazionale, insegna la new institutional economics americana, è un processo di consolidamento delle caratteristiche idiosincratiche degli attori della contrattazione, che serve anzitutto a potenziarne le risorse di identità. Ecco perché impegnarsi nel tentativo di dare vita a nuove procedure contrattuali, all'altezza dei problemi posti dall'innovazione tecnologica e organizzativa, potrebbe essere un buon affare
per impresa e sindacato, una volta che nessuno dei due concepisca il confronto come un gioco a somma zero. D'altronde, la stessa iniziativa sindacale non è forse valsa, nel recente pas-
sato, a rinvigorire la capacitĂ di decisione del management, il suo ruolo sociale? E, per chiudere con una battuta, se non ci fosse stato il `68", il professor Mortillaro avrebbe davvero una cosĂŹ rilevante presenza pubblica?
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La legge sul pubblico impiego: due interventi 1. Affinché non sia una "tigre di carta" di Luzgi Giampaolino Vige, da qualche anno, nel nostro ordinamento un'importante legge, la n. 93 del 29 maggio 1983, intitolata "legge quadro sul pubblico impiego", che deve ritenersi di portata fondamentale nella materia. La convinzione del rilievo centrale di una tale legge nasce non da una giustificazione meramente formale derivante dall'intitolazione della legge o dalla portata, quanto meno dichiarata, di talune sue norme, bensì da talune approfondite motivazioni che dalla legge derivano e che, specie da altri e da più recenti, avvertite, dottrine autorevolmente si sono fatte derivare. Infatti, la legge quadro sul pubblico impiego, anzitutto, come anche recentemente è stato notato su "Politica del diritto" (1983, n. 4, p. 549) da un uomo autorevole come scienziato e come già Ministro della funzione pubblica, il Giannini, è il terzo fondamentale intervento nella storia del nostro Paese in materia di pubblico impiego. In epoca fascista, com'è noto, vi fu la riforma De Stefani del 1923. Dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana vi sono state le riforme del '54 - '57, con il T.U. n. 3 sullo "statuto degli impiegati civili dello Stato", il quale, come è stato da più parti detto, conserva le linee portanti della riforma De Stefani; poi vi è stato 12/302
il c.d. riassetto degli anni '70 - '72 con l'introduzione del parametro retributivo e della funzione dirigenziale nell'organizzazione dello Stato e, quindi, secondo i più autorevoli osservatori, questa legge quadro della quale qui si vuol parlare. Quest'ultima, com'è anche noto, fu preceduta e sollecitata da una Commissione parlamentare d'inchiesta (la c.d. Commissione Coppo) a sua volta occasionata da talune manifestazioni della giungla retributiva. E talune norme della legge quadro, specie nel suo disegno originario, non furono che la canonizzazione di talune conclusioni di quella Commissione. La legge quadro, comunque, anche dal solo punto di vista formale, si segnala o meglio, direi, s'impone per i seguenti rilevantissimi profili: 1) E la prima legge che, per quanto consta, si applica quasi a tutti i pubblici soggetti. Essa, infatti, si applica allo Stato, alle regioni, sia a statuto ordinario che a statuto speciale, alle province, ai comuni, a tutti gli enti pubblici istituzionali nazionali, regionali e locali, alle aziende e alle amministrazioni autonome dello Stato. Ne restano fuori, pertanto, soltanto gli enti pubblici economici e le aziende auto-i nome comunali o regionali (se sussistenti).
Essa fissa il riparto della competenza normativa tra la legge o altro atto normativo autoritativo unilaterale (regolamento, atto amministrativo generale, ecc.) e i cosidetti accordi sindacali, gli atti paritetici, vale a dire, di contrattazione collettiva. In tal modo, la legge quadro si pone come una delle poche se non l'unica - legge del nostro ordinamento che disciplini le fonti, per di più normative, in materia di regolamentazione di tutto il pubblico impiego. Essa regolamenta in modo dettagliato e, per la prima volta, in modo uniforme - la contrattazione tra i sindacati e le autorità degli enti pubblici. Una tale regolamentazione procedimentalizza con notevoli novità e rilevanti effetti la contrattazione tra le parti, giungendo alla configurazione di fasi del procedimento e di provvedimenti concludenti di peculiare significato, sul quale sarebbe fuor di luogo qui trattenersi. Nell'ambito, o meglio, nel corso di una tale procedimentalizzazione, si disciplina altresì la presenza dei sindacati dei quali, soprattutto, sono fissati connotati di qualificazione giuridica (organizzazioni confederazioni; base nazionale - base locale; maggiore rappresentatività; ecc.), dandosi in tal modo luogo, secondo alcuni, ad un'attuazione, ovvero, secondo altri, ponendosi in essere una violazione dellart. 39 della Costituzione. E prevista, per la prima volta, in una legge la necessità - per meglio per i sindacati di adotdire l'onere tare, ai finì di una loro legittimazione,
codici di regolamentazione dello sciopero, dei quali è fissato il contenuto minimo necessario. E disciplinata anche. una contrattazione di più vasta portata per gli accordi interprocedimentali ed una, di portata più limitata, per gli accordi decentrati. Per la prima volta sono fissati fondamentali principi generali e comuni i c.d. principi di omogeneità per tutti i rapporti di pubblico impiego. Sono previste norme di tutela sindacale in materia di pubblico impiego, colmandosi in tal modo talune lacune particolarmente avvertite. È stato istituito e normativamente disciplinato il Dipartimento della funzione pubblica, una delle più incisive riforme - se attuate nella organizzazione dei tradizionali apparati (trasferimento di talune competenze già del Tesoro) della nostra pubblica amministrazione e della Presidenza del Consiglio in particolare. Come si vede, basterebbe l'enumerazione, sia pure sommaria, di tutte queste innovazioni per affidare la legge quadro sul pubblico impiego ad una rilevante funzione e portata e per ritenerla punto centrale in ogni futuro sviluppo in questa materia. Ma, -a ben vedere, la legge quadro si evidenzia ancor più, a nostro giudizio, per i valori che, a parere di molti autorevoli commentatori, ad essa sono sottesi. I quali sono, schematicamente, i seguenti: A) Essa, secondo l'originaria motivazione, esplicitata pure nella relazione che accompagnava il ddl dal quale 303/13
scaturisce, ha l'intento di attuare in metodo consensualistico nell'acquisizione di una disciplina del pubblico impiego. Gli "accordi" altro non sarebbero che lo strumento a mezzo del quale l'autorità, che deve disporre una regolamentazione, acquisisce il consenso delle parti nei confronti delle quali la regolamentazione deve valere. B) Secondo un'altra penetrante interpretazione, con la disciplina della legge quadro i sindacati, e per essi le forze sociali che rappresentano, entrano nella gestione della cosa pubblica, o, per meglio dire, della pubblica amministrazione. Con la legge quadro, si è affermato, la pubblica amministrazione si apre al sociale: essa, nella sua configurazione di alcuni anni or sono, relegava in posizione subalterna taluni ceti sociali, mentre altri ceti ne detenevano il comando. Con il venir meno o il tramonto di questi ultimi ceti, la pubblica amministrazione era, in questi ultimi anni, rimasta priva di legittimazione sociale. Da qui l'importanza della legge quadro che porta, secondo una tale interpretazione, taluni ceti al governo o comunque alla co—gestione dei pubblici apparati e fornisce, quindi, la pubblica amministrazione di una legittimazione sociale della quale essa era carente. 6) In una tale ottica, però, da altri, in senso critico, si è osservato che, con la legge quadro (ovvero con la contrattazione collettiva della quale la legge quadro è stata la canoùizzazione più completa ed ufficiale) la pubblica amministrazione rinunciava alla sua posizione di superiorità, ad essa tradizio14/304
nalmente riconosciuta in quanto rappresentante del pubblico interesse, per mettersi in posizione di parità con i sindacati, preposti, invece, alla cura degli interessi dei singoli e dei gruppi. In una tale ottica l'organizzazione dello Stato sempre più accoglierà e rappresenterà gli interessi dei sindacati. In tal modo esso riprenderà la sua autorità, perché gli interessi dei gruppi e, soprattutto, quelli dei lavoratori non saranno dissociabili dal pubblico interesse, ma ci si troverà di fronte ad uno Stato accentratore, nel quale la cura del pubblico interesse, degli interessi dei singoli saranno unitariamente controllati. D) Gli studiosi più moderni e più giovani, invece, si sono richiamati alla teoria dei pluriordinamenti, ravvisandosi nella contrattazione collettiva del pubblico impiego la manifestazione, l'emergere, a livello formale, della realtà delle varie collettività ed organizzazioni esistenti nella nostra società, tra le quali quella dello Stato è soltanto una. Plurisoggettività, quindi, organizzate talvolta in veri ordinamenti con loro organi, loro norme, loro rimedi di risoluzione di conflitti. Tra queste collettività e soggettività vi sarebbero i sindacati, che darebbero, pertanto, luogo ad un autonomo ordinamento, l'ordinamento plurisindacale, con i propri organi, le proprie norme (i contratti collettivi), le proprie procedure di risoluzione delle controversie (lo sciopero, le procedure, ecc.). Un tale ordinamento sarebbe distinto, se non contrapposto, a quello dello Stato e gli accordi sindacali
altro non sarebbero che la sede d'incontri tra questi due ordinamenti, laddove il DPR che, come dice la legge, li recepisce ed emana la relativa disciplina altro non sarebbe che uno strumento di ratifica, ovvero, secondo una variante di queste teoria, di adattamento dell'ordinamento dello Stato ad altro ordinamento. In una tale prospettiva ben si comprende il rilievo che la legge quadro assume: essa, con la sua disciplina sulla contrattazione, regolamenta, secondo la detta ottica, l'incontro tra due ordinamenti, l'ordinamento dello Stato e l'ordinamento dei sindacati, su di un campo, per di più, particolarmente delicato e vitale per il primo, vale a dire la sua stessa struttura organizzativa. E, di una tale interpretazione, gli autori che l'hanno propugnata (Orsi Battaglini, Perlini) offrono una dimostrazione ampia ed articolata, suffragata anche da qualche argomento testuale offerto propriamente dalla legge quadro. Orbene, se questi elencati sono i valori e le motivazioni sostanziali della legge quadro, essi ne costituiscono altresì i suoi caratteri peculiari: sono, cioè, l'incontro tra l'autorità ed il consenso; l'introduzione di talune categorie o ceti sociali alla gestione della pubblica amministrazione; il reciproco adattamento tra due ordinamenti di originaria urgenza e primaria importanza, vale a dire l'ordinamento dello Stato e l'ordinamento dei sindacati. Se tutto ciò è vero, ben si comprende il significato ed il rilievo che, nel nostro ordinamento, assume la legge quadro
e come non può non meravigliare, se non preoccupare, un silenzio sulla stessa, ovvero una sua eventuale disapplicazione. Relegarla nel dimenticatoio, infatti, significa non dare importanza o ritenere irrilevanti o insussistenti quei valori dei quali essa è stata manifestazione e realizzazione e, sostanzialmente, non riconoscerli. Ciò è stato, proprio di recente, già detto da parte dell'autore che, nel modo più approfondito, ha studiato il fenomeno della contrattazione collettiva nel pubblico impiego (Orsi Battaglini, in "Politica del diritto", 1983, n. 4, p. 549, ma, soprattutto, ancor prima, nei suoi due libri su Gli accordi sindacali nel pnbblico impiego, Giuffré, Milano 1983 e 1984). Infatti, a proposito di questa legge, è stato detto che trattasi di una "tigre di carta": così, infatti, il detto autore intitolava il citato ultimo suo saggio, su "Politica del diritto", in un contesto, peraltro, di saggi dedicati allo stesso argomento e significativamente intitolato, nel suo complesso, "la quadratura del cerchio". Tuttavia, a nostro giudizio, il rifiuto (e una conseguente sostanziale disapplicazione di questa legge) sarebbe errato, oltre che inammissibile, da parte di pubblici apparati. La legge, infatti, pur con le sue inevitabili pecche, regolamenta delle realtà (la delegificazione della materia del pubblico impiego; l'assunzione di questa, per molta parte, nella disciplina degli accordi sindacali; la contrattazione collettiva in vari campi e in vari 305/15
settori; la necessità di una tutela sindacale anche nel pubblico impiego; l'autoregolamentazione del diritto di sciopero; l'esistenza e il ruolo di un dipartimento della funzione pubblica, ecc. ecc.), realtà che, piaccia o non piaccia, sussistono e che non sarebbe stato bene ignorare se si ha a cuore il dominio della legge ed i valori che con questa si esprimono (riconoscimento della superiorifà dell'ordinamento dello Stato o meglio, della Repubblica; regole chiare e certe; ricognizione e delimitazione di poteri ed oneri e, quindi, di responsabilità; principi di legalità e, pertanto, possibilità di tutela contro gli abusi, ecc.).
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In conclusione, pertanto, in questa prima fase di vigenza della legge; ove questa sia da ritenersi una tigre di carta, da parte nostra, se è consentito, un auspicio verrebbe di formulare: l'auspicio è che la tigre non sia di carta e che, invece, la sua realtà abbia il significato che ad una legge si conviene. L'affermazione, vale a dire, dei valori, quasi tutti di rango costituzionale che con essa si son voluti fare valere: uguaglianza (art. 3); retribuzione equa e giusta e proporzionata alle prestazioni (art. 36); disciplina dei sindacati (art. 39); legalità, buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97).
2. Protagonisti e comprimari: un'ipotesi di sceneggiatura di Giorgio Pagano Sono trascorsi ormai più di due anni dall'entrata in vigore della legge quadro sul pubblico impiego ed è già possibile tirare i primi fili della sua attuazione (sua utilitì, sua efficacia) o, almeno, le tendenze derivanti dalla sua applicazione. Il discorso che qui interessa riguarda alcuni punti particolari della legge che, anche se non rappresentano il suo fulcro principale, rivestono enorme importanza in materia di organizzazione dei pubblici poteri. La nostra attenzione quindi si incentrerà sullo schema (sceneggiatura) riportato alla pagina seguente. È questa una lettura combinata della norma e dei soggetti che applicano e gestiscono la norma stessa, che si propone di dare una visione organica di un settore in cui soggetti ben determinati (o determinabili immediatamente), superando vecchie ed obsolete forme comportamentali, possono assumersi a pieno titolo la gestione della materia pubblico impiego. I punti salienti comunque vanno ricercati nella connessione tra momento normativo e momento contrattuale del rapporto di pubblico impiego, indirizzando l'azione verso una sostanziale delegificazione e dando forte impulso al momento contrattuale. Ci si trova di fronte uno scenario immagi-
nano nel quale vengono disciplinati momenti esterni (art. 2) e momenti interni dell'azione della pubblica amministrazione (art. 3). È certamente questa una interpretazione dinamica della legge quadro in quanto il momento esterno vede nella norma la fonte primaria dell'organizzazione degli enti e del loro coordinamento, mentre il momento dell'organizzazione interna (art. 3) vede nell'azione negoziale la fonte dell'organizzazione del lavoro dell'ente stesso. A ciò va aggiunta la considerazione che entrambi i momenti devono mirare alla omogeneizzazione del trattamento economico e giuridico del personale nonché alla sua trasparenza. Momento rafforzativo del tentativo di omogeneizzazione è la costituzione dei comparti che sono stati così individuati: a) Ministeri; b) enti pubblici non economici; c) Regioni, Comuni, Province; d) Aziende autonome; e) Servizio sanitario nazionale;J) enti di, ricerca; g) Scuola; h) Università, e la previsione di varie forme e livelli di contrattazione. I comparti dovrebbero• eliminare le 15 aree negoziali fino ad oggi esistenti e, tramite livelli contrattuali quali quelli intercompartimentali, di comparto e decentrati, tendere a quella uniformità di trattamento prima esposta. 307/17
art. 2 discipline per legge
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art. 3 discipline in base ad accordi
art. 4 principi di omogeneizzazione
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art. 5 comparti
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art. 14 accordi decentrati
art. 27 istituzione del Dipartii della funzione pubbli
amministrazioni
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dirigenza
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DPR n. 536 del 20.6.11 regolamento del Dipartimento della funzione pubblica
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organizzazioni sindacali
funzionaento della macchina statale
A I! conoscenza della realtĂ
> contrattazione
conoscenza della realtĂ
Il momento della contrattazione decentrata (art. 14) sancisce poi quella deleg/icaione dell'organizzazione del lavoro demandando a singole branche ed a singoli enti della pubblica amministrazione il momento negoziale con le organizzazioni sindacali, per cui materie quali la formazione professionale, la mobilità, la produttività, etc. (circolare 2/4/84 del Dipartimento della funzione pubblica) potranno essere negoziate laddove il lavoro si organizza e si svolge. Nel discorso finora condotto riveste notevole potere di incisività la identificazione del Dipartimento della funzione pubblica (art. 27) quale organo preposto alla impostazione e gestione della politica del personale delle pubbliche amministrazioni. Quindi, struttura di supporto con compiti di coordinamento, di gestione e di controllo sull'intero assetto (giuridico/economico/organizzatorio) del pubblico impiego. In questa logica il Dipartimento dovrebbe costituire, essendo punto portante della legge quadro, un unico centro di riferimento, a livello politico ed amministrativo, per le materie afferenti il personale pubblico: e quindi essere momento di raccordo della pubblica amministrazione, centro propulsore di innovazioni, strutturali ed organizzatorie, per rendere agevole ed efficace l'azione dei pubblici poteri. A tal fine l'organizzazione strutturale che gli è stata data divide il Dipartimento motto servizi di attività (che attualmente dispongono di 263 unità
così ripartite: 14 magistrati; 45 dirigenti; 62 della ex carriera direttiva; 142 delle restanti qualifiche funzionali) più una commissione per il "coordinamento normativo e funzionale dell'informatica nelle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici" (DPR n. 536/1984, art. 2, commi 40 e 5°). Come si può capire, le funzioni che è chiamato ad assolvere il Dipartimento attraversano trasversalmente alcuni campi di vitale importanza per l'azione dei pubblici poteri. Dalla contrattazione collettiva per i diversi comparti in cui si articola il pubblico impiego al problema estremamente delicato dell'informatica nella pubblica amministrazione; dalla relazione al Parlamento sullo stato della pubblica amministrazione ai problemi degli indicatori di produttività o ai problemi di riforma istituzionale o di delegificazione dell'agire pubblico. Lo schema/sceneggiatura scritto fin qui ha bisogno di attori, a cui affidare i singoli ruoli, di una scenografia e di un regista. I ruoli: a) esiste già in effetti una scenografia (rapporti sui Ministeri; indagini di produttività; snellimento di procedure; etc.) che va assemblata e quindi studiata. Il ruolo sarà quello del primo attore che oltre ad interpretare la parte che gli compete dovrà coordinare le singole scene e parti assegnate agli altri attori tenendo presenti i possibili vincoli (la legge, le singole autonomie, etc.); b) ruolo di estrema importanza. Gli attori dovranno immedesimarsi pienamente 3 09/19
nella parte loro affidata. Dovranno viverla con visceralità anche se non saranno premiati come primi attori. Opereranno all'interno delle singole scene (comparti, Ministeri, enti, uffici) tendendo all'armonizzazione dell'intera scenografia; c) è il ruolo della "spalla", del caratterista che per un verso offrirà la battuta agli attori principali e dall'altro avrà compiti di pungolo e di controllo affinché le singole scene, nella loro autonomia ed all'interno dell'intera sceneggiatura, si costruiscano nel modo migliore. Gli attori: lo attore (interpreterà il ruolo a), il Dipartimento della funzione pubblica; 20 attore (interpreterà il ruolo b), la burocrazia; caratterista (interpreterà il ruolo c), il sindacato (N.B.: gli interpreti saranno spesso comprimari). Sceneggiatore: il Parlamento. Regista: sarà un film autodiretto dagli attori. Critici: i dipendenti delle pubbliche amministrazioni e l'intera collettività. Come è possibile notare, la figura del regista vero e proprio manca ma la storia del cinema è piena di esempi di attori che da un lato recitano e dall'altro sono dietro la macchina da presa. Ed è questo il risultato/quesito che si propone per la fattibilità della pellicola stessa: fumare una sceneggiatura composta nelle sue linee fondamentali da quattro scene, dove le prime tre sono ben distinte e separate tra loro, mentre la quarta, il finale, è il momento di assemblaggio armonico e corale
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dell'intero film e dove non esiste il regista ma tutti sono registi dell'intera sceneggiatura e delle singole parti di essa. Ciò sarà possibile se gli attori saranno dotati di un alto grado di immedesimazione nel ruolo affidatogli e, se elasticità e senso del compito da svolgere prevarranno nei loro comportamenti. La legge quadro non ha da diventare "tigre di carta", il cerchio lo si può far quadrare e ciò non è moralismo: è, forse, l'incanto del vivere ministerialmente. Lo schema di interpretazione che si è fornito all'inizio è valido se applicato con quella dinamicità a cui prima ci si riferiva e che vede il Dipartimento quale centro propulsore di innovazione e di coordinamento; gli articoli 2 e 3 come ripartizione delle materie tra momento normativo e momento contrattuale; una burocrazia capace e responsabile del suo agire; le organizzazioni sindacali con il compito di interpretare la singola realtà e quindi porsi non solo come controparte di chi gestisce la cosa pubblica ma essere, anche, ideatori ed innovatori. In questo modo è possibile capire e non aver terrore (come sta attualmente accadendo) dell'importanza del momento di delegificazione del rapporto di pubblico impiego, che passa e vive non solo tramite la legge ma nella sua reale applicazione, dov'è prevedibile una convinzione dell'importanza che essa riveste nello svolgere il proprio ruolo.
Senato: mozioni di sfiducia individuali di Carlo Chimenti
Sul piano giuridico, la vicenda delle mozioni presentate al Senato sul caso Andreotti—Sindona, ridotta all'osso, può sintetizzarsi così: il Presidente del Senato, confortato da un parere della Giunta del Regolamento, nell'affermare che mozioni di sfiducia nei confronti di singoli Ministri sono ammissibili, ha disposto che esse debbano ricevere lo stesso trattamento procedurale della mozione di sfiducia nei confronti del Governo ed ha interpretato di autorità le mozioni sul caso Andreotti come mozione di sfiducia al Ministro. Sul piano politico altrettanto sinteticamente si può dire che la vicenda è consistita nell'ottenere la votazione per appello nominale delle mozioni in questione ad iniziativa del Presidente del Senato e non del Governo, grazie cioè ad un'iniziativa politicamente asettica in luogo di altra politicamente impegnativa che avrebbe spaccato la maggioranza (repubblicani e liberali non volevano infatti che il Governo si esponesse nel solidarizzare col Ministro degli esteri). Non è questa la sede per discutere di contenuti politici, anche se è arduo capire come un Governo possa continuare a tenere al suo posto un Ministro degli esteri con cui non intende solidarizzare e come la maggioranza governativa possa sentirsi meno coin-
volta da una fiducia espressa a seguito di un'iniziativa presidenziale invece che governativa. Ciò che interessa qui sono gli aspetti costituzionali e regolamentari della vicenda. I quali sono quelli già accennati: a) viene risolta l'annosa questione circa l'inammissibilità di mozioni di sfiducia al singolo Ministro; b) viene risolta la questione, che emerge subito dopo avere riconosciuto quella ammissibilità, relativa al trattamento procedurale di tali mozioni; c) viene rimesso al Presidente di assemblea il potere di interpretare le mozioni che chiamino in causa l'operato di un singolo Ministro onde ricondurle o meno nell'alveo di quelle di sfiducia.
L'AMMIsSIBILITÀ DELLA MOZIONE DI SFIDUCIA
Nonostante le apparenze, il punto a) è il meno sconvolgente di tutti. E noto infatti che l'interpretazione della Costituzione, secondo la quale dalla espressa previsione costituzionalé della fiducia/sfiducia nei confronti del solo Governo nel suo complesso si ricaverebbe il divieto di sfiducia al singolo Ministro, non è unanime. E lecito infatti argomentare in senso opposto dalla formula costituzionale che rico3 11/21
nosce la responsabilità individuale dei singoli Ministri per gli atti dei loro dicasteri. Il vero è che mentre la Costituzione si è preoccupata dal versante parlamentare del rapporto Parlamento/Governo, articolando la fiducia/ sfiducia fra le due Camere e rendendo chiaro che solo l'istaurazione della relazione fiduciaria abbisogna del consenso di entrambe mentre per la cessazione di essa basta la volontà di una Camera, per quanto riguarda il versante governativo la Costituzione serba il silenzio. Probabilmente intendendo rimettersi in proposito alla legge sulla Presidenza del Consiglio o alla prassi. Poiché però la legge sulla Presidenza del Consiglio continua a latitare e la prassi formatasi è stata contestata da alcuni gruppi parlamentari, il problema si è posto. E l'orientamento più plausibile per risolverlo in astratto era verosimilmente quello di far discendere la soluzione dalla risposta data ad un altro quesito: se cioè, di fatto, nell'organo complesso Governo la figura del singolo Ministro si disciolga in quella del Consiglio dei Ministri e/o si appiattisca sotto la direzione del Presidente del Consiglio, ovvero si stagli con autonomo rilievo rispetto al Consiglio e al Presidente. Nel primo caso la sfiducia al singolo Ministro non sarebbe ammissibile, nel secondo sarebbe invece necessaria per evitare di trovarsi di fronte ad un potere sprovvisto del contrappeso della responsabilità sul piano parlamentare. E se sono corrette le analisi dell'organo complesso Governo che portano ad indi22/312
viduare nei singoli Ministri, e specie in alcuni di essi, la figure che veramente contano agli effetti della politica governativa, allora il riconoscimento dell'ammissibilità della sfiducia individuale non risulta altro che il corretto coronamento di tale dato di fatto. Non vale obiettare che è inutile contemplare la possibilità che il Parlamento presenti una mozione di sfiducia nei confronti di un singolo Ministro dal momento che il Governo, ponendo la questione di fiducia sulla reiezione di un'eventuale mozione ordinaria (di critiche ad un Ministro), è in grado di ricondurre nell'alveo del rapporto fiduciario qualunque problema che insorga fra il Parlamento e il Ministro stesso. Nell'ottica del Parlamento c'è infatti grande differenza fra essere titolare del potere di mettere in gioco la responsabilità politica di un Ministro (come accade se al Parlamento viene riconosciuto il potere di presentare mozioni di sfiducia individuali) o non esserlo (come accade se solo l'iniziativa governativa, nelle forme della questione di fiducia, è in grado di trasformare delle ordinarie critiche parlamentari ad atti o comportamenti di un Ministro in sfiducia nei confronti del Ministro stesso). Né, una volta ammessa, per le ragioni di cui sopra, la configurabilità costituzionale di una specifica responsabilità politica del Ministro, si vedono ragioni di opportunità capaci di escludere che il Parlamento possa dotarsi di un apposito strumento regolamentare per far valere tali responsabilità.
LA PROCEDURA DELLA MOZIONE
Anche il punto b), in verità, non appare sconvolgente perché che la sfiducia nei confronti del singolo Ministro debba ricevere lo stesso trattamento procedurale di quella al Governo, nonostante la diversità dei bersagli, è abbastanza ragionevole. In proposito sembra infatti che, a fronte della innegabile differenza che passa fra il revocare la fiducia all'intero Governo e revocarla ad un singolo Ministro, sia piuttosto da valorizzare - quando è in causa la procedura da seguire in Parlamento per la revoca la sostanziale affinità fra le due situazioni consistente in ciò, che in entrambe il voto del Parlamento impone ad un soggetto esterno al Parlamento stesso l'obbligo giuridico di dimettersi. Nella realtà delle cose, la distinzione che si fa e che va fatta in ossequio alla Costituzione (la quale espressamente stabilisce che il voto contrario ad una proposta del Governo non implica per esso l'obbligo delle dimissioni) è tra voto contrario nei confronti- del Governo (o di un Ministro) e voto di sfiducia, secondo che appunto non segua o invece segua l'obbligo giuridico delle dimissioni. Sotto il profilo della procedura parlamentare occorrente per esprimere voti del genere è certamente questo l'aspetto più rilevante, nel senso che sarebbe del tutto incongrua per le due situazioni una identica - disciplina. Non si vuole affatto sostenere, con ciò, che una differente disciplina procedurale anche per le altre due situa-
zioni, e cioè per il caso di sfiducia al Governo e di sfiducia al Ministro sarebbe, de jzire condendo, inopportuna. Poiché è esatto che colpire un intero Governo è cosa differente dal colpirne un singolo componente, un procedimento parlamentare differenziato per le due ipotesi sarebbe tutt'altro che deprecabile. Ma qui si sta parlando non dijus condendum, ma di jus conditum e il Presidente del Senato, nel momento in cui riconosceva l'ammissibilità della sfiducia al singolo Ministro, non poteva che, da un lato, constatare la mancanza nel Regolamento di un'apposita disciplina e, dall'altro, disporsi a colmare la lacuna in via interpretativa. Ora, è vero che in questa operazione il Presidente doveva tener conto della norma regolamentare (art. 113) che prescrive lo scrutinio segreto per ogni votazione concernente persone, la quale a prima vista potrebbe sembrare applicabile anche al caso in questione. Ma il dubbio che così non sia, dubbio che si affaccia non appena si riflette che l'art. 113 è dettato in un contesto regolamentare che ignora la sfiducia al singolo Ministro, acquista la consistenza corposa di una quasi certezza quando si considera che per disposto costituzionale (che il Regolamento recepisce) la sfiducia al Governo va votata per appello nominale. Cosa conta di più: l'analogia formale della fattispecie con le votazioni concernenti persone, ovvero quella sostanziale con le votazioni che impongono al Governo l'obbligo di dimettersi? Quale ragionevolezza potrebbe suf3 13/23
fragare il diverso trattamento (scrutinio segreto/appello nominale) della medesima sostanza (obbligo di dimissioni)? E come non considerare invece ragionevole il voto segreto per le semplici censure ad un atto o comportamento del Ministro ed il voto nominale per la sfiducia ad esso? Tutto ciò dà per scontata l'ammissibilità di mozioni di censura nei confronti di un singolo Ministro. Di ciò, in verità, non si può dubitare, poiché non si tratta che della estensione al singolo Ministro della previsione costituzionale relativa al voto contrario al Governo. Sarebbe, in effetti, illogico opinare sulla base del testo dell'art. 94 che il Parlamento possa sanzionare con voto contrario (senza obbligo di dimissioni) l'operato del Governo e non anche (analogamente) quello di un componente di esso. E la realtà delle cose lo conferma, mostrando in abbondanza sia casi di critiche parlamentari mosse al Governo nel suo complesso, sia critiche parlamentari mosse a singoli Ministri. Quando queste critiche si coagulino in un voto contrario ad un atto o comportamento di un singolo Ministro, sarebbe assurdo che avessero effetti diversi (e maggiori) di quelli posseduti dal voto contrario ad un atto o comportamento dell'intero Governo. Mozione di censura, dunque, è quella che esprime un giudizio negativo su un Ministro, accompagnata o meno dall'auspicio che egli sia allontanato o si allontani dal Governo, ma che comunque lascia al Ministro stesso ed al Governo di valutare l'opportunità delle dimissioni, senza cioè creare 24/3 14
l'obbligo giuridico delle dimissioni stesse che è conseguenza peculiare della sfiducia. Ed è pertanto naturale che a tale differenza debba conseguire un diverso trattamento procedurale, nel senso che alle mozioni di censura non sarà applicabile la speciale disciplina delle mozioni di sfiducia, ivi compresa la votazione per appello nominale. Certo, si pone a questo punto il problema di stabilire, nei singoli casi concreti, se ci si trovi di fronte a mozioni di censura o a mozioni di sfiducia; problema la cui importanza si accentua proprio in ragione del diverso trattamento procedurale configurabile nelle due ipotesi. E può anche trattarsi di un problema delicato di interpretazione dei testi perché in fin dei conti le risorse del linguaggio non sono poi tantissime ed è abbastanza facile che un ragionamento critico nei confronti di un Ministro abbia a concludersi, direttamente o indirettamente, specie se fatto dai banchi di opposizione, con la richiesta di dimissioni. Ma ciò non significa, automaticamente, che si voglia obbligare il Ministro a dimettersi perché può significare appunto rimettersi a lui o al Governo circa le dimissioni. In questo senso, dunque, mentre sarebbe irragionevole una disciplina procedurale delle mozioni di censura che le assimili a quelle di sfiducia, non appare affatto irragionevole che la sfiducia al singolo Ministro sia trattata alla stessa stregua della sfiducia al Governo, almeno fino a quando nei Regolamenti parlamentari non sia introdotta una normativa apposita per tale fattispecie.
I POTERI DI INTERPRETAZIONE DEL PRESIDENTE DELL'ASSEMBLEA
Resta da considerare il punto c), vale a dire il potere rimesso al Presidente di assemblea di interpretare le mozioni che chiamino in causa l'operato di un singolo Ministro per stabilire se si tratti di censura o di sfiducia e applicare di conseguenza la disciplina procedurale appropriata. E qui in verità qualcosa di sconvolgente è accaduto, nella vicenda in discorso, ma non per il riconoscimento del potere presidenziale in sé e per sé, quanto per il modo con cui esso è stato esercitato. E infatti certamente possibile che una mozione sia redatta in termini tali da lasciare in dubbio circa la sua natura di mozione di censura o di sfiducia. Ma in tal caso, quella di riconoscere al Presidente dell'assemblea il potere di ascriverla d'autorità nell'una o nell'altra categoria appare sicuramente come via da percorrere soltanto dopo che gli stessi presentatori, interpellati, non abbiano voluto dare una risposta circa i loro effettivi intendimenti. Diversamente, si finisce con l'attribuire al Presidente d'assemblea la potestà di sostituire alla volontà dei presentatori la propria. E questo è quanto, in apparenza almeno, sembra essere avvenuto nel caso di specie, giacché nessuna delle tre mozioni presentate era mequivoca sul punto fondamentale dell'obbligo delle dimissioni, mentre era appariscente in esse la mancanza di un requisito formale essenziale alle mozioni di sfiducia, consistente nella sottoscrizione da parte di un decimo dei componenti l'assemblea: ogni mozio-
ne era invece firmata da un esiguo numero di senatori. Lungi dal trarre da quest'ultima circostanza motivo per interpretare nel senso della censura e non della sfiducia gli equivoci testi delle mozioni, il Presidente di assemblea - constatando che esse erano state motivate (come devono essere quelle di sfiducia), ma senza porsi la domanda se motivate non possano essere anche quelle di censura - ha "ritenuto e disposto" di prescindere nel caso concreto dal requisito delle firme e le ha tutte considerate mozioni di sfiducia. Anzi, imboccata questa strada, l'ha percorsa fino in fondo e, in ossequio ad un altro requisito formale delle mozioni di sfiducia (il termine di tre giorni dalla presentazione prima di poterle discutere), ha rinviato l'inizio del dibattito per poter rispettare tale termine. E tuttavia strano che, una volta entrato nell'ordine di idee di far corrispondere alla pretesa natura di mozione di sfiducia il trattamento formale delle tre mozioni, il Presidente di assemblea non abbia sentito il bisogno di chiedere presentatori l'integrazione del Thumero delle firme. Ciò avrebbe posto il gruppo della Sinistra indipendente e il gruppo MSI nell'impossibilità di compiere tale adempimento e quindi nella necessità di rinunciare ad una mozione di sfiducia e di ripiegare su una semplice mozione di censura, poiché nessuno dei due gruppi raggiunge un decimo dei componenti del Senato. Il gruppo del PCI invece sarebbe stato posto nella necessità di scegliere fra integrazione delle firme 3 15/25
(per il PCI possibile) e degradazione della mozione a mozione di censura. Particolarmente curioso è poi che il Presidente non ha ignorato il problema del numero delle firme, ma ha dichiarato che ccper ragioni di principio e di equità" le relative disposizioni in considerazione della novità del caso per questa volta non sarebbero state applicate. Soluzione evidentemente diretta a non penalizzare (con l'inammissibilità delle loro mozioni) i gruppi della Sinistra indipendente e del MSI, se questi avessero inteso dare alle proprie mozioni il carattere di sfiducia, ma del tutto ingiustificata se tali gruppi non avessero avuto simile intenzione. E quindi da adottare, semmai, dopo aver accertato la reale volontà dei presentatori. Ancora più strano è, d'altronde, che sul punto delle firme, implicante necessariamente un chiarimento delle intenzioni dei gruppi in ordine all'obbligatorietà o meno delle dimissioni del Ministro in caso di approvazione delle loro mozioni, i rappresentanti dei gruppi interessati abbiano osservato il più assoluto silenzio. Pur protestando vivamente contro la decisione del Presidente, pur invitandolo a rimangiarsela, pur cogliendo - anche - il problema del numero delle firme in calce alle mozioni (ma in termini meramente estrinseci: i senatori Perna e Mar chio criticano infatti la circostanza che delle mozioni di sfiducia non siano sottoscritte dal prescritto numero di senatori), nessuno ha voluto collegare la questione formale delle firme a quella, sostanziale, dell'obbligatorietà 26/3 16
o meno della dimissione del Ministro. Né è pensabile che a parlamentari navigati ed esperti come quelli che hanno interlo1uito sulla vicenda simile collegamento sia potuto sfuggire, e sia sfuggita l'efficacia che essa avrebbe avuto per controbattere e porre in crisi l'argomentazione del Presidente. Tutte queste stranezze fanno allora pensare che la decisione del Presidente dell'assemblea di considerare d'ufficio come mozioni di sfiducia le mozioni in questione nonostante le apparenze non sia stata affatto presa d'autorità, ma d'intesa coi presentatori. Non abbia cioè portato che in apparenza a sostituire la volontà del Presidente a quella dei presentatori, ma abbia in realtà portato ad una concordanza di volontà, suggerita da convenienze politiche di vario genere e presumibilmente differenti a seconda dei vari gruppi interessati. Quali siano tali convenienze è ignoto, ma non è difficile supporle, almeno per il PCI. Se il PCI avesse voluto far considerare la propria mozione come mozione di censura, e quindi sottrarla all'appello nominale, avrebbe dovuto dichiararlo ufficialmente, smentendo il Presidente dell'assemblea che dalla lettura del testo voleva evincere la natura fiduciaria di essa. Ma così facendo avrebbe smentito anche l'immagine che i vertici del partito (più ancora che i firmatari della mozione) avevano voluto dare alla loro azione nei confronti del Ministro Andreotti, ossia la loro volontà di costringerlo a dimettersi, dopo che la loro astensione alla Camera nei confronti della mozione
guarda l'atteggiarsi concreto della responsabilità politica nel nostro sistema all'interno di una disciplina costituzionale che, come è noto, è piuttosto sommaria. Il nuovo è dato dall'arricchimento procedurale determinatosi in ordine ai modi con cui far valere la responsabilità politica dei governanti che ormai comprende la sfiducia ai Ministri accanto a quella al Governo, senza cancellare la censura nei confronti degli uni e dell'altro. Né toglie qualcosa alla positività di questo arricchimento il fatto che, in pratica, un Ministro si sentirà davvero costretto a dimettersi soltanto quando venga "mollato" dal Governo e dal partito di appartenenza. Ciò che conta è che, in via di principio, la responsabilità politica del singolo Ministro possa essere fatta valere e che lo possa con una strumentazione abbastanza ricca e variata da non mettere necessariamente in discussione, quando un Ministro ne venga colpito, né la sopravvivenza dell'intero Governo né la permanenza in carica dello stesso Ministro, che talvolta possono essere conseguenze sproporzionate per eccesso rispetto al giudizio parlamentare. Semmai, c'è da dire che non è tutto oro quello che riluce in questo arricchimento perché, di fatto, il momento cruciale della scelta fra le diverse procedure per far valere la responsabilità del Ministro, è affidato - sulLA RESPONSABILITÀ POLITICA NEI CONla scorta del precedente costituito dal FRONTI DEL PARLAMENTO caso Andreotti al Presidente dell'assemblea e non ai parlamentari che Le conclusioni che si possono trarre dalla vicenda hanno ad un tempo sa- quella responsabilità intendono chiapori nuovi ed antichi per quanto ri- mare in causa.
radicale che quelle dimissioni chiedeva era stata determinante della reiezione della mozione stessa. La paura di contraddirsi (o meglio, di sembrare in contraddizione perché a rigore un atteggiamento al Senato diverso da quello assunto alla Camera avrebbe potuto essere giustificato proprio da quanto era accaduto alla Camera) ha evidentemente indotto il PCI a rinunciare a fare quella dichiarazione. Ed anche a fare una cosa ancora più semplice che, nell'assecondare l'impostazione data al problema procedurale dal Presidente, avrebbe fatto crollare di un attimo il disegno maggioritario di evitare lo scrutinio segreto. E cioè autoemendare la mozione, eliminandovi ogni accenno, anche indiretto, alle dimissioni del Ministro, per accentuare invece gli aspetti di condanna del suo comportamento. Cosa avrebbe potuto fare, dinanzi a mozioni così emendate, il Presidente in base allo stesso parere della giunta del Regolamento (che considera mozioni di sfiducia individuale quelle che chiedono o sono dirette a ottenere le dimissioni di un Ministro, ma non quelle che si limitano a stigmatizzare un suo atto o comportamento), se non ammetterle senza ulteriore indugio al voto segreto?
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Va inoltre sottolineato come, mai Un'ulteriore osservazione che va fatta quanto in questo caso, è apparso chia- riguarda la conferma, ricavabile dalro che la responsabilità politica del l'episodio in esame, della sostanziale Ministro nei confronti del Governo di scomparsa della responsabilità politicui fa parte è circoscritta rigidamente ca del Ministro nei confronti del Par agli atti e comportamenti da lui com- lamento, malamente compensata dalpiuti durante la vita di tale Governo. l'accentuarsi di quella nei confronti Il motivo ufficiale per cui il Governo del partito. Può sembrare paradossale non ha voluto porre la questione di un'affermazione di questo genere nel fiducia sulle mozioni di condanna ad momento in cui gli strumenti parlaAndreotti (cosa che avrebbe ottenuto mentari per far valere la prima responde piano quella votazione palese che era sabilità si arricchiscono nel modo che nelle irrefrenabili aspirazioni della si è detto. Ma l'affermazione si giustimaggioranza) è che la mozione stessa fica se si riflette che un momento crusi riferiva ad atti e comportamenti te- ciale delle vicende di responsabilità nuti dal Ministro nel corso di sue in- quello in cui si stabilisce se adottare la carnazioni governative precedenti a procedura della sfiducia o quella della quella attuale. Ora una simile delimi- censura, con i conseguenti riflessi in tazione della responsabilità solo su- ordine al modo di votazione - è sotperficialmente può considerarsi ov- tratto alla discrezionalità dei parlavia, poiché in realtà un Ministro entra mentari e rimesso a quella del Presia far parte di una compagine governa- dente dell'assemblea. Né c'è bisogno tiva con tutto il suo passato e quindi di sospettare dell'imparzialità dei Preanche coi suoi eventuali "carichi pen- sidenti delle assemblee per ammettere denti", nei quali pertanto tale compa- che, di per sé, questo spostamento dei gine non dovrebbe potersi sentire non poteri impoverisce coloro che istitucoinvolta. Se questo invece può acca- zionalmente sono chiamati a far valere dere ed è accaduto, dipende dal fatto se, come e quando credono - la che, in pratica, la composizione del responsabilità politica dei Ministri e Governo esorbita dalle competenze cioè i parlamentari. E il depauperaeffettive del Presidente del Consiglio mento resta, nei suoi termini oggettiincaricato e rientra invece in quelle dei vi, anche se come nell'episodio in partiti della coalizione. Per cui, se un discorso - sia ragionevole supporre partito impone la presenza al Goverche, soggettivamente, la soluzione ano di un personaggio dal passato di- dottata dal Presidente dell'assemblea scutibile, nel momento in cui i nodi di sia stata tale da non scontentare tropquel passato vengono al pettine il Go- po i presentatori delle mozioni nel verno, e segnatamente il Presidente mentre accontentava la maggioranza del Consiglio, ha buon gioco a chia- governativa. marsi fuori, sostenendo che si tratta di In sostanza, pertanto, l'unica responquestione che riguarda solo i partiti. sabilità politica che resta in capo ai 28/318
nessuna sorta di ne bis in Ministri è quella nei confronti dei ri- vigente spettivi partiti (oltre a quella diffusa, idem può essere normativamente sanma più difficilmente azionabile, nei cito fra due Camere che hanno le stesse funzioni, ciò non toglie che ben confronti dell'elettorato). Ma qui siamo in pieno nel campo delle confer- potrebbe utilmente affermarsi la prasme, perché che così si atteggi la nostra si secondo cui una Camera non ritorna Costituzione vivente è un fatto ampia- sui temi già affrontati dall'altra, salvo mente riconosciuto e che già era stato che si tratti di materia legislativa. Né messo in luce poco tempo fa da Resci- va trascurato che, almeno fino a quangno in uno studio dedicato alla prassi. do la Camera non recepisca la stessa Un fatto riconosciuto e deprecabile, in soluzione adottata per la vicenda Anquanto è uno dei più significativi se- dreotti, fra Camera e Senato, oltre a gnali di quella distorsione partitocra- quelle già esistenti e poco giustificate tica del regime parlamentare che rien- (computo degli astenuti, ad esempio, tra fra i connotati salienti della nostra e questione di fiducia), vi sarebbe una forma di governo. Distorsione che ulteriore differenza procedurale di rinon consiste già nel fatto che i partiti lievo relativa alla sfiducia al singolo abbiano spazio nelle istituzioni, ma Ministro (che il Senato ammette e la che essi non tengano a freno la ten- Camera ignora). denza, forse naturale ma (se volessero) Sul secondo punto, va rilevato che resistibile, ad occupare in proprio spal'accordo politico in base al quale ai zi che andrebbero riservati alle istitu- vertici delle due Camere vengono ezioni, a meno di non volerle vedere letti esponenti di forze politiche diverridotte a gusci vuoti. se e contrapposte può risolversi in una Mette peraltro conto di aggiungere un minore libertà d'azione di tali forze in altro paio di considerazioni in margi- Parlamento. Nella misura in cui l'acne alla vicenda de qzia, la prima che cenno del Presidente del Senato all'iconcerne il bicameralismo, la seconda potesi di proprie dimissioni può ricolche riguarda il legame fra le Presiden- legarsi alle critiche mosse dal PCI al ze delle due assemblee. suo operato, esso appare infatti in graSul primo punto non si può infatti do di concorrere a spiegare come mai tacere che con la ripetizione al Senato quelle critiche non siano state "affondi un dibattito già svolto alla Camera, date" quanto avrebbero potuto. Se ine soprattutto con la preventivata pros- fatti un simile affondo avesse, ad esima reiterazione dello stesso dibattito sempio, indotto la maggioranza a in quest'ultimo ramo del Parlamento, mettere in causa, per ritorsione, la è andata perduta una nuova occasione propria "fiducia" nel Presidente della per dimostrare che le due assemblee Camera, ciò avrebbe potuto costituire non sono un inutile doppione. Se è sostenibile (anche se non indiscutibi- - accanto alla convenienza politica le) che - a meno di una sostanziosa già rilevata - per il PCI una ragione in più per non compiere l'affondo riforma dell'istituto parlamentare rispetto al disegno della Costituzione stesso. 3 19/29
Il riassetto per Ministeri di Piero Calandra
Tramontata l'ipotesi o meglio il mito di una riforma generale dell'amministrazione, che si è potuto alimentare sul criterio del decentramento autonomista come superamento della semplice deconcentrazione burocratica, esaurita la fase della regionalizzazione dirompente del DPR 616/1977, il fronte delle amministrazioni statali si è rimesso in movimento in ordine sparso per tornare in parte a consumare i suoi riti di aggiustamenti di organico e di guerricciole sulle competenze di frontiera, in parte per individuare e perseguire le nuove finalità che l'amministrazione deve assumere come proprie in questo momento storico. I più attivi nel primo senso sono apparsi fin dall'inizio gli apparati che erano stati maggiormente terremotati dall'operazione decentramento: in particolare i lavori pubblici che, nonostante avessero subito un ritaglio di competenze per submaterie (lavori pubblici di interesse regionale), oltre che per la materia principale dell'assetto territoriale, si trovavano già esangui proprio sulle grandi infrastrutture per una differenziata organizzazione di operatori funzionali gravitanti sul versante privatistico (Italstat) che ne avevano ulteriormente indebolito le potenzialità. Da ciò la ricerca 30/320
più che di reintegrazione di competenze amputate, di una nuova legittimazione sul terreno dell'individuazione, evidenziamento ed incapsulamento di nuove finalità pubbliche. L'oggetto del desiderio veniva presto identificato (1978) nella materia della difesa del territorio, sulla quale da tempo si erano avviati studi di una certa consistenza, ma che nell'ottica dicasteriale si immaginava come un'operazione che trasfigurava interventi per alcuni tipi di opere infrastrutturali in complesse costruzioni di bacini idrografici, con un normale dimensionamento a carattere interregionale, come tale tendenzialmente elusivo del confronto con gli organismi regionali, quando non addirittura apertamente prevaricatorio. Si notava tuttavia una politica tutt'altro che aggressiva, che, anzi, metteva le mani avanti, precisandosi che la ristrutturazione cui si mirava non intendeva interferire con la più generale riforma e quindi avveniva a legislazione invariata; questo anche per evitare l'impatto con la tutela ambientale, che avrebbe aperto inevitabilmente un contenzioso paralizzante con le forze che spingevano per la sistemazione di una apposita struttura per l'ambiente e con quelle che avrebbero difeso gli esistenti frammenti di competenza da loro gestiti (agricoltu-
ra, marina mercantile, sanità). Questa idea della difesa del suolo, dunque, da un punto di vista organizzativo si voleva concretare inizialmente in una semplice trasformazione della direzione generale delle acque ed impianti elettrici in direzione generale anche della difesa del suolo, con un Comitato ristretto che avrebbe dovuto però svolgere anche le istruttorie del comitato interministeriale della legge Merli sulla tutela dell'inquinamento (1. 319/1976). Inoltre, in funzione di ammortizzatore preventivo di possibili resistenze sul versante della protezione civile, sia derivanti dalle tradizionali prerogative del Ministero dell'interno che dai nuovi indirizzi di riorganizzazione con un Ministro gravitante nell'ambito della Presidenza del Consiglio, si prevedeva di porre a disposizione di quest'ultimo le risultanze dell'attività di alcuni servizi tecnici, quali quello geologico (da trasferire dall'industria, ove viveva reietto), sismico, idrografico e mareografico. Nelle versioni successive (1984) ci si sforzava di adottare il criterio di area idrografica caratterizzata da una maggiore attenzione per le implicazioni della competenza regionale, in quanto per il piano di bacino regionale venivano riconosciute competenti le Regioni e per quello interregionale il Ministero, sentite le Regioni. Si adombrava invece, sul piano degli strumenti programmatori, un duplicato chiamato piano nazionale delle coste, da adottare di concerto con la marina mercantile, lasciando intatto il piano generale di difesa del mare e delle co-
ste marine dall'inquinamento e di tutela dell'ambiente marino (legge 978/1982) elaborato da quel dicastero. Si manifestavano non di meno, sempre all'insegna della difesa del suolo, tendenze alla appropriazione di sub-materie ecologiche, affidando ai comitati di coordinamento per l'area idrografica dei quali erano chiamati a far parte rappresentanti delle Regioni - il coordinamento dei piani di risanamento delle acque e dei piani di bacino. Il tentativo appariva quello di aggregare difesa dell'ambiente e del territorio utilizzando le capacità espansive del concetto di assetto del territorio ben oltre le esigenze di localizzazione urbanistica, sia in senso abitativo che produttivo, ed anzi insinuando una tematica antagonista, benché da incardinare in una stessa struttura dicasteriale. A livello di accordo tra soggetti il rapporto Stato—Regioni veniva più in generale assicurato anche da un comitato nazionale per la difesa del suolo, con una composizione comunque più sfavorevole per le Regioni rispetto al comparto sanitario a causa di una assenta più intensa concorrenza di funzioni. I ruoli rispettivi di Stato e Regioni nei bacini venivano tuttavia trattati in modo alquanto aggrovigliato: infatti al criterio discriminante di Fondo nazionale—regionale si univa un rinvio a successivi decreti delegati per individuare sia bacini di particolare interesse nazionale, secondo il consueto schema a ritaglio, sia il ruolo concorrente di Stato e Regioni in bacini a carattere interregionale, anche 321/31
se questa esplicitazione della concorrenza a quel livello appariva meno ambigua di quanto escogitato in altre versioni. Nei confronti del profilo ecologico restavano ferme le competenze in tema di piano di risanamento delle acque. La direzione generale delle acque non restava comunque più la precedente direzione trasformata ma aspirava a proporsi come un segretariato generale per la difesa del suolo. Nel complesso permaneva la vecchia impostazione di immaginare grandi disegni di programmazione affidandoli però anziché a meccanismi apertamente protesi a favorire intese su obiettivi comuni, secondo lo schema dell'articolo 11 del DPR 616, a compartimentazioni di competenze abbastanza rigide, da cercare poi eventualmente di armonizzare con meccanismi affidati innanzitutto a disposti normativi privi di chiare scelte previamente adottate. L'aggancio della tutela ambientale da parte dei Lavori pubblici doveva costituire il presupposto per incardinare la procedura di valutazione di impatto ambientale innestata sulle procedure per le opere pubbliche suscettibili di influenzare gli equilibri ambientali. Ora l'arrivo del dicastero per l'ambiente disloca diversamente questa valutazione nonostante l'ultima, importante commissione governativa (Piga) avesse proposto nell'81 in un quadro di riaccorpamenti tendenti a ridurre a non più di 15 il numero dei Ministeri - l'istituzione del Ministero del territorio e dell'ambiente, sot32/322
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traendo ai lavori pubblici la viabilità ed affidandola ai trasporti. Per l'ecologia, tuttavia, l'approccio è apparso notevolmente complicato dovendosi innanzitutto scegliere tra un dicastero di coordinamento orizzontale di altrui competenze, che restasse sostanzialmente una sorta di maxiministro senza portafoglio ed un Ministro invece con competenze operative. La discussione parlamentare alla Camera sul Ministero dell'ambiente ha avuto tra i suoi pregi quello di evitare di partire da grandi definizioni espansive a danno di etichettature ambite da altri dicasteri - tipo difesa del territorio anche se non sono mancate sollecitazioni per non separare la tutela delle acque da quella del territorio. In linea di massima la battaglia principale è stata quella connessa all'esigenza di una ricognizione interstiziale per individuare alcune nuove funzioni coniugata con una operazione di ablazione di varie competenze già incardinate in altri dicasteri. E stata avocata la valutazione di impatto ambientale - i cui criteri generali sono determinati dal Ministro per l'ambiente per i progetti delle opere da eseguirsi da parte delle amministrazioni statali. Il concerto del Ministro viene inoltre dichiarato necessario in sede di predisposizione dei piani di settore a carattere nazionale che abbiano rilevanza ad impatto ambientale. Le funzioni di tutela dell'ambiente vengono coordinate ad ogni livello di pianificazione con gli interventi per la difesa del suolo e per la tutela ed utilizzazione delle acque. Con la nuova
amministrazione che si va a creare si è soprattutto aperta la battaglia sugli standards che rappresenta una delle frontiere del rapporto tra sviluppo economico e utenza dei beni collettivi e che già si lascia prefigurare nelle deroghe contenute nel recente decreto-legge del maggio 1985 sulle acque di balneazione, espressione di quella normazione compromissoria e rinegoziabile che già caratterizza paesi più avanzati. L'assegnazione all'ambiente dei parchi naturali bloccava un'altra proiezione, tentata a sua volta dal dicastero dell'agricoltura, che si era lanciato nela tutela ambientale sotto il profilo della protezione della natura, mentre la marina mercantile, che con la legge sulla protezione del mare del 1982 aveva insediato una nuova direzione generale per la pianificazione costiera, doveva ora concertarsi con il nuovo dicastero per l'ambiente. Nelle ultime versioni (1985) il dicastero dell'agricoltura si mostrava invece ormai consapevole di ricostruire la propria identità non più su una dimensione che continuasse ad inseguire la vecchia logica di rappresentante esclusivo degli interessi agricoli in competizione anche con le Regioni con ritagli di competenze, ma adottando il criterio di collegare la sua rifondazione ad una ipotesi programmatoria quale quella legata al piano agricolo alimentare, che imponesse una logica di orizzontalità e di interconnessione con un più vasto sistema. Altri Ministeri fortemente "regionalizzati", ma più chiusi nelle potenziali-
tà di rifondazione, in quanto più caratterizzati in senso settoriale, hanno invece preso spunto da una legge-quadro, come quella del turismo (legge 217/1983), per proporre un'adeguamento del dicastero con cui pur affermandosi l'abbandono di qualunque concezione di amministrazione diretta per potenziare la funzione di indirizzo e coordinamento e di supporto tecnico alla politica turistica si è riproposta un'apposita direzione generale per il coordinamento dello sviluppo turistico (dopo che la direzione generale del turismo era stata soppressa) allo scopo di elaborare un piano turistico nazionale, inteso poi come lo studio della struttura della domanda e dell'offerta che può essere svolto da un ufficio studi. L'interesse del nuovo dicastero dell'ambiente è dato anche dal fatto di non costituire solo un complesso organizzatorio ma un attivatore di nuove norme di relazione: di particolare rilievo va considerata quella che prevede la risarcibilità da parte dell'autore del danno pubblico per lesione dell'interesse della collettività alla tutela ed alla salvaguardia dell'ambiente. In questo modo il Ministero si trova affiancato da un vero organo sanzionatono indipendente, quale la Corte dei conti, non solo vindice dell'omissione di sorveglianza da parte di funzionari e di amministratori, ma anche del fatto commesso dai diretti responsabili, con un ampliamento sistematico, in un certo senso abnorme, della nozione di danno erariale tale da provocare notevoli discussioni. 323/33
Sembra quindi assai problematico che una norma del genere possa approdare ad una definitiva consacrazione legislativa. La discussione relativa al dicastero dell'ambiente ha visto anche manifestato il timore del rischio in cui si può incorrere nel considerare l'ecologia come la "materia" di un Ministero: ma la preoccupazione è forse eccessiva perché pensare ad un modello di coordinamento orizzontale "esterno" di competenze altrui appare assai poco funzionale in Italia, ove Ministri del genere hanno potuto al più svolgere un ruolo di mediazione politica, ma non di effettivo coordinamento, come dimostra la fiacca esperienza del Ministro per la ricerca scientifica, al quale si è infatti sbarrato l'accesso per costituire il relativo Ministero. Del resto, quando una funzione è intersettoriale se ci si acquieta all'idea che non può essere esercitata da un unico centro ci si condanna a non evidenziarla e tutelarla più adeguatamente. Deve quindi ritenersi complessivamente positivo uno schema che vede un nucleo di competenze in proprio ed un altro nucleo in concertazione con altri titolari. Da parte dell'amministrazione dei beni culturali si è pure temuto che il trasferimento delle competenze ambientali possa frantumare la concezione unitaria del patrimonio storico e di quello paesaggistico, tanto che, anche in base al DPR 616, il Ministro per i beni culturali e ambientali può appunto sospendere la realizzazione di opere che turbino l'ambiente. Ma, invero, anche se la dizione "beni culturali e 34/3 24
ambientali" autorizzava quanto meno iniziative e ricerche in materia di parchi e riserve naturali non si vede di quale particolare tutela ambientale sia in realtà riuscito a farsi paladino quel Ministero: del resto all'atto della sua istituzione la materia dell'ambiente venne stralciata proprio in vista di costituire un diverso, apposito dicastero per l'ambiente. La posizione di partenza di quest'ultimo era apparsa molto debole tanto che il Governo si era presentato al Parlamento con una richiesta di una serie di deleghe per rimandare ad una fase successiva la risoluzione dei conflitti interministeriali; ma poiché questo avrebbe fatto venire meno proprio la logica di una scelta netta di tutela di questi interessi, che si sarebbe attestata soltanto sulle classiche linee di minor resistenza, la Camera ha trasformato queste originarie previsioni in norma di disciplina diretta. Uno sforzo di notevole consapevolezza programmatoria intesa come capacità di intervento sorretta da una adeguata previsione sembra invece caratterizzare la progressiva costruzione del sistema della protezione civile, che si vuole organizzare in servizio nazionale, come quello sanitario, senza farsi confinare nella semplice gestione dell'emergenza. Il servizio mira a promuovere e coordinare le attività di vari centri pubblici e privati ciascuno secondo il proprio ordinamento, mirando a coinvolgere il cittadino nell'organizzazione e nell'attività di protezione civile facendole assumere un respiro partecipativo e c1uindi comu-
nitario, aspetto questo emergente anche nei collegamento tra dicastero dell'ambiente e scuola nel determinare l'insorgere di una coscienza ecologica nella collettività. Anche quando il Ministro incaricato di assicurare una direzione unitaria al servizio ha necessità di avvalersi di strutture burocratiche stabili, si preferisce fargli utilizzare quelle esistenti, che vengono assoggettate a dipendenza funzionale ma
lasciate incardinate nel dicastero di pertinenza, come è previsto per la direzione generale della protezione civile del Ministero'dell'interno. E questo costituisce un esempio, probabilmente da riprendere, a livello infragovernativo, in cui il tradizionale criterio di chiusa settorialità delle competenze verticali recede di fronte alle esigenze della collegialità di governo.
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