uett ili1uiioui Anno XXXVIII n. 162 Redazion
Direttore: SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO Dl MAJ0 Vice Direttore., GIOVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: CARLA BAssu, FABIO BISCOTTI, ROSALBA Com, ELINA DE SIMONE, FRANCESCO i MAJO, ALESSANDRO HINNA, CLAUDIA LOPEDOTE, GIOlGIO PAGANO, PIER LUIGI PETRILLO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, VALERIA VALISERRA, FRANC ESCO VELO, DONAT1;LLA VISC0GL10SI, STEFANIA ZUCCOLOTTO. Collaboratori ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BETTIN LATTES, ENRICO CANIGLIA, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, CARLO CHIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA Di GREGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRIN1, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FR0SINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILvI0 GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERI'O LA CAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIEL1, WALTER NOCITO, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, OLIVIERO PESCE, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETEI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RiortA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, FRANCESCO SIDOTI, ALESSANDRO SILJ, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAWD SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, GIANLUIGI TOSATO, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA ZOPPINI Hanno collaborato: UMBERTO SERAFINI, FEDERICO SPANTIGATI, TIZIANO TERZANI
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Editore: QUES.I.RE srl QJESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: Arti Grafiche sri - Pomezia (Roma) Chiuso in tipografia: 21 giugno 2012 Foto di copertina: Illustrazione di Tom Toles, giugno 2012, copyrights del Washington Post Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana
queste Istituzioni
n. 162 luglio-settembre 2011
indice III
Europa: iniziare un ciclo fuori dal deserto politico
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Un Lord Beveridge per il XXII secolo
t1CCUÌllO i
Perché l'euro rimanga Franco Bruni
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"Unfinished business": la riforma dell'economia finanziaria Sergio Ristuccia
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Stato, cittadini e social norms. Come la BehavioralEconomics può salvarci dalla crisi Alessandro Del Ponte
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Educazione, capitale umano e nuove tecnologie Saveria Addotta
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Non è un Paese per giovani. La "bolla" demograflca italiana e il suo forte impaeto socio-economico E Saverio Ambesi Impiombato
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Una qualita desiderata non un attestato Francesca Moccia
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Servizio sanitario: pregiudizio e orgoglio Vittorio Mapelli
Dibattito e azione politica alla prova della Grande €rii europea 43
Il fardello delle idee dominanti. La crisi e i limiti della sinistra europea Giuseppe Berta
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Discorso di Helmut Schmidt alla conferenza nazionale della SPD
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Ancora su PD e dintorni Adolfo Battaglia, Emilio Carnevali, Giulio Ercolessi, Pierfranco Pellizzetti
Tormire a govertiare i territori 83
Per una vera innovazione del sistema di governo del territorio Guido Martinotti Fondazioni e strategie dei territori Sergio Ristuccia
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Ripartire dalle cittĂ . Per politiche a misura dei luoghi Il declino del decentramento comunale Ignazio Porte/li
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editoriale
uropa: illiziare un ciclo hiori dal deserto politico
1 punto in cui si trova la crisi europea è difficile pensare che le cose, a lla fine, "si aggiustino" alla vecchia maniera come in molte occasioni A awenuto nella storia europea degli ultimi cinquant'anni (l"'Europa felix", come l'abbiamo chiamata). Al di là delle condizioni dell'Europa come ce le descrivono i dati di borsa e quelli, di per sé più sconvolgenti, sull'economia reale sotto la pressione delle ondate successive della grande crisi economica, è chiaro che il meccanismo istituzionale su cui l'Unione è basata può anche continuare a mostrare qualche residua forza per "fare la faccia feroce" ma solo, in definitiva, per aggravare le diseguaglianze e le fratture fra Stati membri. Una Commissione debole prepara documenti ma non ha l'energia sufficiente per porli e tenerli efficacemente sul tavolo negoziale quando non ha la spinta, o quanto meno, l'avallo della Germania. Il Parlamento Europeo fa tentativi importanti di autonomia e di progressiva presa del potere ma ha limiti insuperabili nella logica istituzionale attuale che è ancora quella del "diritto internazionale" (malgrado i passi avanti del Trattato di Lisbona) e nella logica perdurante e debole delle rappresentanze per Paese senza armonizzazione delle leggi elettorali. Leuro probabilmente sopravvivrà. Se non altro per la difficoltà e la costosità dell'operazione di ritorno alle monete nazionali e per timore delle conseguenze ancor più imprevedibili della crisi dei debiti sovrani come oggi si presenta. Ma si tratterà di tutta un'altra storia, giocata in difensiva. Certo, non sopravvivrà l'euro come fattore di spinta di una reale unione politica che superi quella mancanza di potere politico o addirittura, per maggior precisione, di identità politica e di connessa dotazione democratica che è propria dell'Unione Europea. Chi aveva contato sulla capacità dell'euro di tirarsi dietro, per necessità, una significativa maggiore unificazione politica fiori dalle invocazioni retoriche ed un vero coordinamento propulsivo delle politiche economiche nazionali e non una supervisione meramente regolatoria di tali politiche, ebbene chi pensava così - e noi eravamo fra questi - devono prendere atto del fallimento politico dell'euro. Nulla è stato fatto nel periodo di affermazione dell'euro, quando per esempio si parlava III
di euro "moneta di riserva" come sembrava che cominciasse ad essere. Ed una moneta di riserva ha bisogno di incardinarsi in un potere statuale forte. D'altra parte, la storia dell'euro è andata in parallelo con una diffusione ampia di euroscetticismo che ha attraversato gli stessi Paesi fondatori della Comunità e poi delllJnione Europea (quanti i referendum finiti con il no, a cominciare da quelli che si sono svolti in Paesi fondatori come Paesi Bassi e Francia?). Qualcuno dice che i disagi del passaggio alla moneta unica abbiano accentuato un euroscetticismo strisciante che già traeva le sue ragioni dalla percezione diffusa che l'Europa fosse una costruzione piovuta dall'alto. In un particolare contesto storico, assai condizionante, come è stato quello della "guerra fredda" fra Paesi occidentali a guida americana e Paesi dell'URSS, il "ciclo europeo" del primo dopoguerra fu dettato dalla lungimiranza di alcuni padri fondatori e sostenuto dall'America del Piano Marshall e, nello stesso tempo, trovò in Stalin (e nei suoi successori) un gran federatore, come si disse. Il "ciclo" fu ispirato dalla necessità storica cli dare all'Europa coesione per contrastare il blocco sovietico ma insieme una sua propria identità dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Un'identità che, dunque, risultasse distinta da quella degli Alleati che avevano vinto la guerra. In questo senso va visto il grande ruolo storico della dirigenza politica della nuova Germania, quella di Konrad Adenauer. Con la fine della guerra fredda e la caduta dell'URSS rappresentata plasticamente dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, si chiude definitivamente il primo ciclo europeo. Lo ha visto e descritto con grande lucidità Tony Judt (si vedano i capitoli XXEI, La vecchia Europa e la nuova, e XXIII, La molteplicità europea, della poderosa ricostruzione storica intitolata Postwar, pubblicata nel 2005 e tradotta in italiano nel 2007). Il muro cade nell'epoca in cui più insistentemente si pone, in Europa, la questione delle rivendicazioni di autonomia regionale a scapito dell'assetto degli Stati nazionali membri della Comunità. In quel periodo si ebbe qualche significativo incoraggiamento delle stesse istituzioni europee verso il processo di regionalizzazione nei Paesi dell'Europa occidentale, ma nello stesso tempo fu proprio il passaggio verso forme di integrazione più impegnative sul piano economico (Trattato di Maastricht e Trattato di Amsterdam) a rafforzare la centralità degli Stati nazionali. Riconfermari nel ruolo di agenti responsabili del processo di integrazione, e per questo agenti di una progressiva cessione di sovranità soprattutto in materia di politiche di bilando. Nel contesto, definito "schizofrenico" da Judt, dell'allargamento della Comunità e poi deWUnione: riconoscimento a tutti i Paesi dell'Europa dell'Est del diritto di chiedere l'ammissione all'Unione, ma forti vincoli per l'esito positivo del processo di ammissione. Con l'effetto finale di ingigantire sentimenti, già diffusi, di insofferenza verso le istituzioni di Bruxelles, percepite come "burocratiche" o "tecnocratiche"(al punto da essere assimilate talvolta, con grossolana disinvoltura, con quelle dell'epoca dell'impero sovietico), andando così ad ingrossare le fila dell'euroscetticismo storico di matrice britannica che in realtà è ben disseminato in tutta Europa. Un fenomeno complesso che ha visto la ripresa di sentimenti nazional-nazionalisti, sostanziati magari da reminiscenze nostalgiche, sicuramente deboli e tuttavia capaci di affievolire lo spirito costruttivo necessario all'integrazione europea. Iv
D'altra parte, l'alibi dell"unità nella diversità" è stato fin troppo accarezzato - a scapito sempre dell'unità (che non fosse quella delle regole economiche) - come Jean Monnet aveva cominciato ad avvertire chiaramente nei suoi ultimi anni quando disse "Si c'était à refaire,je commenceraispar la culture' La domanda che si impone è: c'é la possibilità di aprire un nuovo e diverso "ciclo europeo" che necessariamente rimetta in questione molti percorsi consolidati? E consolidati soprattutto nel senso di considerare il processo di integrazione istituzionale come neutrale confronto al vero e sostanziale confronto politico. Ormai lontanissima la stagione dei grandi padri fondatori dalla quale si è ereditato il dibattito sul grado e sul modo di federare l'Europa, non ancora superato, ma di certo profondamente usurato, il pensiero unico monetarista e liberista consegnato finora all'Unione come silloge di principi guida, l'Europa è di fronte alla grande crisi economica e su questa deve misurare l'idea che ha di sé e del proprio destino. E' la questione delle questioni che aspetta di essere intesa e risolta da qùella visione delle cose che si chiama politica. Sta innanzitutto alle forze politiche affrontarla. Senza deleghe e senza intermediazioni. In questo senso costituisce un passo positivo il cd. "manifesto di Parigi" firmato da varie forze politiche socialiste e democratiche. Ma è appena un segno, dato il contesto delle elezioni presidenziali francesi che certo l'hanno suggerito ma anche in qualche modo condizionato. Occorre andare molto al di là costruendo un dibattito politico realmente europeo con l'ambizione di forzare lo stesso tavolo negoziale di tipo istituzionale. Bisogna cominciare a vedere assai presto cosa sono nella difficile temperie storica attuale o cosa possono essere i partiti europei. Quelli soprattutto che avvertono più decisamente l'urgenza di uscire dal deserto politico a cui ci siamo abituati. I partiti sono messi drasticamente in discussione, oggi più che in altri momenti, in Italia più che in molte altre parti d'Europa. Ma in queste altre parti d'Europa i partiti non hanno perso lo spessore di attori politici di rilievo cruciale. Come avviene in Germania, per esempio. La crisi ha infranto la logica stringente del pensiero unico che per aver dominato molto a lungo ha creato un vero deserto del pensiero e dell'azione politica. Le linee d'azione della socialdemocrazia tedesca, della SPD, sulla crisi europea (si veda il documento firmato nel maggio scorso da S. Gabriel, F.W. Steimeier e P. Steinbruck, cioè dai tre maggiori esponenti del partito) avvertono ormai pienamente l'urgenza di uscirne. Da questa urgenza bisogna partire creando alla svelta realtà politiche realmente transnazionali. Lo stesso assetto istituzionale varato a Lisbona offre qualche strumento. E' da poco completamente vigente la disposizione del Trattato che consente ai cittadini dell'Unione "in numero di almeno un milione" e che "abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri" di prendere l'iniziativa di invitare la Commissione a presentare proposte in determinate materie. Non è granché, apparentemente. Ma è una strada che, una volta aperta, può condurre a traguardi importanti.
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Uil Lord Beveridge per il xxi secolo
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ll'inizio dell'anno c'è stato, sulle pagine di The Guardian, uno scambio di battute polemiche a proposito dell'invocazione di Liam Byrne (membro del governo ombra laburista) di un Beveridge per questo nuovo secolo (A Wiiiam Beveridgefor this century's we/fare, 2 gennaio 2012). Ha senso questa invocazione almeno nel senso che egli fu, negli anni quaranta del secolo scorso e nel mezzo della seconda guerra mondiale, il maggiore promotore, convinto e appassionato, di quello che chiamava "the Social Service State" (non amava invece l'espressione "the 'VVelfare State"). Che egli contribuì a presentare - anche sul piano della propaganda politica di guerra - come la grande promessa per le popolazioni europee che uscivano dalla grande tragedia della guerra totale. Egli fu consapevole della necessità di una teoria sociale che fosse basata su metodi induttivi ed empirici, avendo ben presenti tre questioni fondamentali: come conciliare sicurezza economica con efficienza economica; come affrontare i conflitti sociali creati dal sistema economico competitivo; come determinare la misura ottima di intervento dello Stato per assicurare un accettabile equilibrio economico. Poi, nel suo percorso di teorico e di politico le posizioni che gli assunse nel tempo furono diverse ma sempre legate all'ideale del pieno impiego come capacità del sistema economico di offrire alle persone ampie possibilità di lavoro fra cui scegliere. Rifarsi a Beveridge oggi significa rifarsi ad un grande esempio di riformatore liberai-socialista in un contesto culturale e operativo che vedeva, come spazio d'azione necessario e unico, lo Stato nazionale. Rifarsi, oggi, alla suggestione di Beveridge, autore del Report Social Insurance and Aiied Services (1942) significa però, consapevolmente, avvertire che la globalizzazione economica ha trasformato tutte le condizioni per pensare ed operare in termini di "Social Service State". Rimanendo in ogni caso fondamentale pensare ed operare in questa prospettiva. Quel che progressivamente è avvenuto nel dopoguerra è la declinazione del "Social Service State" in tanti diversi modelli entro i Paesi dell'Europa Occi-
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dentale che, incrociandosi con l"economia sociale di mercato" alla Ludwig Erhard, ha consentito di parlare di un modello sociale europeo. Che in senso stretto in realtà non è mai esistito, tanto che la Comunità europea prima e l'Unione poi non hanno mai amato affrontare il campo (con l'eccezione forse della Commissione Prodi che commissionò il Rapporto Supiot). Riandare alla storia del "VVelfare State" negli ultimi settant'anni significa porsi innanzitutto due questioni. La prima. in quale misura il welfare è scoppiato in ragione del crescere dei diritti sociali sostanziali, fenomeno legato non solo alle ragioni nobili della democrazia sociale ma anche alla logica del consenso elettorale. Facile da conquistare quando non siano percepiti come vincolanti i limiti di bilancio. La seconda: in quale misura il welfare sia stato messo alle corde, anche quando ragionevole ed equo, dal contesto sfrenato del capitalismo finanziario che ha scatenato la grande crisi economica che imperversa da quasi un quinquennio. Far pagare i costi della crisi alle conquiste di un sobrio e giusto welfare non è accettabile. Non significa affatto rientrare nei limiti di un benessere fondato su criteri di realtà. Affrontare le due questioni è la premessa necessaria per chiedersi poi quali principi riprendere o adottare per ridefinire le linee di un aggiornato "Social Service State". E stato molto contestato il principio della "conditionality", cioè del legame che deve esserci fra servizi di welfare erogati e condizioni contributive o comportarnentali a cui essi devono essere legati. Certo, se il legame costituisse l'unico principio su cui fondare il welfare la qualificazione di un principio thatcherite o alla Thatcher sarebbe del tutto appropriata. Ma Beveridge, in qualche modo, lo aveva previsto nel quadro di un servizio sociale tendenzialmente universale ma ben definito entro il fabbisogno sociale dell'epoca. Che è il fabbisogno sociale da ridefinire in momenti di crisi economica generale. Quanto allo spirito "authoritarian" della gestione del welfare, certo esso dipendeva, in Beveridge, da quanto egli condividesse lo spirito di un antico "civil service" oggi profondamente minato o addirittura negato. Ma che certamente è anche un elemento costitutivo del "Welfare State" che vuole o vorrebbe una grande amministrazione. L!evoluzione in direzione mercatista del pubblico impiego, soprattutto al livello della dirigenza ovvero l'effetto sulle pubbliche amministrazioni di un federalismo poco costruito e aggressivamente fiscale impongono profonde ricostruzioni delle basi del welfare. Che dovranno impedire, per esempio, che si perdano le potenzialità del terzo settore che sono fondamentali in termini di sussidiarietà ma che vengono progressivamente negate dal crescente corporativismo in cui tendono a rinchiudersi le organizzazioni del terzo settore. Insomma, per concludere, c'è sicuramente un grande bisogno di un pensiero forte che ripercorra e rilanci, in Europa e nei vari Paesi, le ragioni di un Welfare State o di un "Social Service State" nell'epoca attuale. Anche i tempi duri ben suggeriscono in realtà un richiamo a Wiliiam Beveridge e alla sua opera teorica e pratica. VII
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Perché l'euro rimallga* di Franco Bruni
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a sopravvivenza dell'euro è davvero condizionata alla realizzazione di un'unificazione politica, probabilmente prematura? Se l'unione politica stenta, non è detto che spezzare l'unità monetaria accresca il benessere dell'area. I problemi di competitività di alcuni Paesi hanno cause che non dipendono dal cambio. Essenziale è invece l'unione della finanza e delle sue regole. E il sistema finanziario europeo dovrebbe essere meno banco-centrico. Mentre servirebbe una procedura comunitaria ufficiale per gestire eventuali ristrutturazioni ordinate dei debiti pubblici. Tutti dicono che l'esistenza dell'euro è in pericolo se non cresce l'unità fiscale e politica dell'Unione Europea. Tutti pensano che l'euro soffra di un peccato originale: l'Unione Economica e Monetaria (UEM) è stata troppo poco economica, la "E" è sottosviluppata. Lo è perché una "E"
forte diventa una "P", cioè implica un accentramento di poteri politici che gli Stati membri non vogliono. Proprio i nemici dell'euro sono i più solleciti nell'affermare che la sua sopravvivenza è condizionata alla realizzazione di un'unificazione politica che è facile presentare come almeno prematura. Che l'euro sia fragile se l'UE non si approfondisce, anche sul fronte politico, è vero, sia in base al buon senso che alla teoria monetaria più sofisticata. Non serve ribadirlo. E più utile spargere un p0' di senso critico perché la tesi venga assorbita con più consapevolezza del suo significato e dei suoi limiti. Provo a farlo con qualche argomentazione inusuale e un filo provocatoria. I costi dei cambi variabili Innanzitutto:l'euro è stato adottato per tante ragioni; almeno una di esse regge anche se non si approfon-
L'autore è professore ordinario di Teoria e politica monetaria internazionale, presso l'Università Bocconi di Milano.
disce l'unione economico-politica: l'Europa ha voluto smettere di cercar di rimediare a problemi reali con art,fici monetari. In particolare: ha voluto smettere di usare la flessibilità dei cambi nominali per rimediare a divergenze strutturali fra le competitività e fra i comportamenti di fondo delle politiche economiche nazionali. Ha capito, per esperienza, che la variabilità dei cambi nominali, pur dando aiuto - poco, precario e foriero di distorsioni intersettoriali - nel gestire shock asimmetrici di domanda esogeni e temporanei, è un guaio per tutto il resto; che l'uso dell'arma valutana, mentre disincentiva gli aggiustamenti reali, incentiva il disordine monetario e le svalutazioni competitive e rende l'arma stessa sempre più spuntata, con effetti reali di sempre più breve durata. Ha capito che l'aumento inarrestabile della mobilità inter-europea dei capitali fa diventare i cambi flessibili fonte di instabilità; fa sì che trasmettano internazionalmente più perturbazioni di quante ne possa assorbire il "potere isolante" che caratterizza la flessibilità dei cambi solo se i capitali si muovono poco. Dopodiché l'Europa ha provato a organizzare un sistema di cambi fissi mantenendo le monete nazionali, ha constatato che non era credibile e sostenibile ed è corsa più svelta verso la moneta unica. E vero che approfondire l'unione economico-politica aiuta a eliminare le divergenze che non conviene combattere variando i cambi nominali. Ma non è detto che, se l'approfondimento stenta, spezzare l'unità monetaria accresca il benessere 2
dell'area. I problemi di competitività dell'Italia o della Grecia hanno radici che non c'entrano col cambio, il cui uso non farebbe che allontanare il loro sradicamento, creando subito una confusione monetaria dove i problemi reali diverrebbero persino difficili da misurare. La debolezza della E di UEM rende fragile la "M", ma non per questo la rende sconveniente, né per i singoli Paesi membri, né per larea delleuro nel suo insieme. Perche leuro rimanga ciò andrebbe ricordato più spesso. L'unione più essenziale è quella della finanza e delle sue regole
In un certo senso è scorretto chiamare crisi dell'euro la crisi dei debiti sovrani di alcuni Paesi dell'area dell'euro. Il valore interno ed esterno dell'euro non sembra in sofferenza. Ma l'analisi degli spread sui debiti sovrani fa pensare che contengano anche premi per il rischio di ritorno alle monete nazionali. Oltre che compensi per le probabilità di default, gli investitori vogliono anche quelli per possibili svalutazioni, come prima dell'euro. Se si riuscisse a convincere del tutto i mercati che l'euro non può spezzarsi, gli spread sarebbero minori. Si può tentare di convincerli approfondendo subito molto l'unione finanziaria europea. Non è di moda dirlo, ma per la salute dell'euro questa unione è più importante di quella fiscale e politica. Purtroppo sta succedendo il contrario: i flussi interbancari si congelano ai confini nazionali, perché mancano vere banche sovrana-
zionali e le banche tedesche diventano più tedesche, quelle francesi più francesi, quelle greche più greche. La banca di un Paese teme la crisi di quella di un altro. Perché sono regolate e vigilate in modo diverso e perché se una entra in crisi ne risponde il suo governo, non un meccanismo di stabilità bancaria europeo, un'assicurazione dei depositi europea, un processo sovranazionale europeo di gestione della riorganizzazione o dissoluzione della banca. Non solo: le banche di ogni Paese sono sempre più spinte dal loro management e dalle pressioni politiche a comprare titoli di Stato del loro governo. Così il rischio sovrano diviene rischio del sistema bancario nazionale, blocca la circolazione dell'euro verso quel Paese, diventa una sorta di rischio monetario. Se invece prevalgono banche "europee", regolate e tutelate comunitariamente, la circolazione interbancaria è influenzata solo dai rischi specifici che una banca avverte nella gestione di un'altra. La natura molto nazionale dei sistemi bancari scoraggia lo sforzo di distinguere banche buone da banche cattive: è il rischio Paese che conta, compreso quello di abbandono dell'euro. Risultato: i flussi interbancari verso i Paesi più a rischio dell'area, hanno subìto un vero sudden stop. La prova è che la regolazione dei pagamenti nel sistema europeo delle banche centrali, il cosiddetto Target 2, vede crescere lo squilibrio fra persistenti saldi attivi del "nord Europa" e passivi del "Mediterraneo". E un fenomeno che dà qualche concretezza al pericolo che l'euro si spezzi e che sa-
rebbe molto più contenuto se i problemi fossero solo i titoli di Stato mediterranei divenuti indigesti all'estero o i disavanzi correnti delle bilance dei pagamenti mediterranee. Invece c'è anche il problema di un sistema bancario che blocca la circolazione dell'euro verso certi Paesi. Il rimedio è accelerare la messa in comune completa delle regole bancarie e delle relative autorità neli area aeueuro, ravorenao ia rormazione di banche multinazionali e predisponendo in sede comunitaria risorse, procedure e sistemi assicurativi tali da costituire un meccanismo sovranazionale per la gestione delle banche in crisi. L'unificazione monetaria diventa allora più irreversibile, nei fatti e nelle aspettative. E lecito pensare che ciò richieda più unità "politica" di quanta gli Stati siano disposti a concedere. Ma si tratta di un'unità e di una messa in comune di risorse orientate a una precisa finalità: un'unità diversa e più limitata dell'apparato istituzionale che occorrerebbe per federare quote rilevanti dei bilanci e dei debiti pubblici nazionali. Temo che il vero ostacolo all'europeizzazione dei sistemi bancari non sia la scarsa disponibilità di unità politica, ma il fatto che richiederebbe la rottura della complice amicizia di banchieri e politici nazionali i quali, al riparo dei loro confini, amano scambiarsi favori. E la crisi globale, purtroppo, fa apparire erroneamente il riparo dei confini sotto una luce positiva. 1,
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Default e securitisation
Propongo altre due affermazioni provocatorie e controcorrente circa 3
ciò che serve perché l'euro rimanga integro. La prima è che se si mettesse a punto una procedura comunitaria pubblica, ufficiale, obbligatoria, tempestiva, per gestire ristrutturazion i ordinate dei debiti pubblici dei governi in difficoltà, diminuirebbe la percezione del rischio che la moneta comune possa spezzarsi. E l'opposto di quello che si è pensato finora, soprattutto per l'insistenza della BcE, fiera avversaria di ogni cenno a procedure di default. Se il governo di un Paese, in caso di necessità, può ristrutturare tempestivamente e ordinatamente il suo debito, i mercati incorporano il rischio nello spread sui suoi titoli, ma non fermano i flussi interbancari al suo confine. Soffocare il default significa diffondere il rischio dalla finanza pubblica all'intero sistema monetario e creditizio di un Paese, fino a far intravedere l'abbandono dell'euro.
La seconda è che l'euro starebbe meglio se il sistema finanziario europeo fosse meno banco-centrico; se le banche, oltre a essere meno "nazionali", lasciassero più spazio a flussi di credito diretti, a titoli acquistati da fondi e portafogli non bancari. La crisi ha demonizzato la securitisation e la finanza di mercato e valorizzato l'intermediazione più tradizionale e, addirittura, più piccola e locale. Ma basarsi troppo sulle banche significa convogliare i flussi monetari e creditizi in vasi sanguigni interbancari che divengono troppo spessi, importanti e critici: se si ingolfano, è l'infarto per l'economia. Se l'ingolfo è ai confini nazionali è a rischio l'unità monetaria. Se il credito si disperde in titoli, i rischi-Paese si diversificano più facilmente, la circolazione del denaro è meno canalizzata, meno passibile di interruzioni motivate dal pericolo che si spezzi la moneta unica.
Già pubblicato su lavoce.info il 13.04.2012. 'Su ciò è illuminante MERJiR e P1SAN1-FERRY, Sudden stops in the euro area, Bruegel Policy Contribution, March
2012. Giorgio Ragazzi, su lavoce.info del 26.3.2012 discute lo squilibrio dei saldi Target, ma lo collega solo agli squilibri delle partite correnti delle bilance dei pagamenti.
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queste istituzioni n. 162 luglio-settembre 2011
"IJHiuihed busilless": la riEorma dell'ecollomia fillanziaria di Sergio Ristuccia
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ovrebbe essere chiaro - ci ricorda Paul A. Volcker, presidente della Federal Reserve che fra le cause della recente crisi finanziaria c'è stata una ingiustificata fede nelle aspettative razionali, nelle efficienze del mercato e nelle tecniche della finanza moderna. Tale fede è stata alimentata in parte dagli immensi guadagni finanziari che sono stati consentiti per lungo tempo dalle pratiche estreme del prendere e dare in prestito, dagli squilibri economici e dalle pretese ed assicurazioni delle agenzie di rating del credito. "Un approccio rilassato dei regolatori e dei legislatori è stato il riflesso del nuovo zeitgeist finanziario, del nuovo sentire generalizzato in questa materia. Tutta l'apparente precisione matematica che è stata apportata all'investimento, tutti i complicati nuovi prodotti, compresa l'esplosione dei derivati, che erano intesi a diffondere e minimizzare il rischio, non hanno funzionato come era stato proclamato. Al contrario, la vantata efficienza ha aiutato a giustificare un'esplosione di credito
debole e un'enfasi sul trading con compensi eccessivamente ampi per i traders". Così inizia l'articolo di Voicker sul The New York Review ofBooks del 24 novembre 2011 dedicato a spiegare lo stato dell'incompiuta riforma del mercato finanziario. La "Grande Delusione" Dopo il 2007-2008 era molto diffusa la convinzione che non si potesse andare avanti con la fede ingiustificata nei mercati finanziari deregolati e che nuove forme di regolazione fossero necessarie. Tre, quattro anni dopo non torna, certo, lo zeitgeist dell'euforia finanziaria ma sì quello della delusione riguardo alla possibilità di rimettere in ordine le cose. Volcker si sofferma sulla crisi europea che sintetizza efficacemente con poche parole. Essa ha sì le sue radici in anni di crescenti squilibri fra i Paesi dell'eurozona, ma quando anche per un po' - l'abilità di prestare a tassi bassi spinge alcuni Paesi, già a ciò procivi, a spendere ed importare
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oltre i propri mezzi, tutti gli squilibri si rinforzano. I problemi fondamentali sono di politica pubblica e in questi termini vanno affrontati. "But neither can we ignore the fact that financial practises helped sustain such imbalances. In the end, the build-up in leverage, the failure of credit discipline and the opaqueness of new kinds of securities and derivatives such as credit default swaps helped facilitate, to a truly dangerous extent, accommodation to the underlying imbalances end to the eventual bubbles". Tanto più che questi sviluppi derivano dal cosiddetto "shadow banking system" composto da tutti quei soggetti, dalle banche non di deposito agli hedge funds e ad altre componenti di questo sistema che è sfuggito ad ogni intervento regolatorio. Una difesa efficace Malgrado il successo del movimento Occupy Wall Street che, quantomeno, attesta una diffusa consapevolezza sociale delle ragioni e dei fattori principali della nuova Grande Crisi, i passi avanti verso un qualche nuovo governo dei mercati finanziari sono incompleti e insufficienti. La complessità della situazione, i punti di forza di cui godono i grandi protagonisti di tali mercati e la loro capacità di fuoco sono quelli che sono. Ha vinto, per ora, la loro capacità di giocare sulla difensiva. Volcker, d'altra parte, non nasconde nel suo articolo dell'ottobre 2011,le difficoltà di intervento a fronte di una realtà neppur chiaramente conosciuta e comunque
di dimensioni mondiali, cioè tale da non poter efficacemente essere affrontata se non con un alto grado di collaborazione internazionale. In ogni caso, la legge Dodd-Frank passata al Congresso USA nel 2010 riguardante la determinazione dei "credit standards" e varie altre regole generali del sistema bancario costituisce, secondo Volcker, un buon passo in avanti. Ma da completare. L'elenco delle cose che restano da fare è consistente. Innanzitutto vanno ricordate due questioni tipicamente americane. Quella dei "money market mutual fiinds" (MMMFS) che hanno avuto un peso determinante nel caso Lehman Brothers, una sorta di opaco mercato interbancario deregolato che continua ad avere "structural importance" nel deviare fondi lontano dalle banche regolate con forte potenziale destabilizzante e quella dei mutui immobiliari che costituiscono "one very large part ofAmerican capital markets - indeed the dominant part". Questioni di cui si ha piena consapevolezza ma che rimangono sostanzialmente irrisolte. Con la conseguenza di un persistente forte coinvolgimento delle finanze federali come supporto finale. Too Big to Fail Il problema fondamentale, the key issue, è quello denominato "Too Big to Fail' Il problema delle grandi istituzioni finanziarie che in ragione della loro stessa dimensione non possono essere fatte fallire per non creare fenomeni di collasso catastrofico del sistema con conseguenze intollerabili
sull'economia reale. Di qui gli interventi di sostegno da parte dei Governi. Per quanto giustificati, tali interventi tuttavia consolidano comportamenti errati come quello di spingere ad assumere sempre maggiori rischi nell'assunto che le eventuali perdite saranno comunque coperte con fondi pubblici (talvolta assicurando anche ai privati dei guadagni). Il "moral hazard" viene così gravemente incentivato. La materia è difficile. Secondo Volcker la legge Dodd-Frank ha preso la giusta direzione fissando dei limiti alla crescita dimensionale di banche ed altre istituzioni finanziarie ma gran parte delle regole amministrative devono essere ancora scritte. In un campo sottoposto alle più forti e diverse pressioni. La debolezza della volontà politica Pur senza pensare ad un mondo della finanza dove ogni faffimento sia evitato (insieme, inevitabilmente, ad innovazioni e assunzioni ragionevoli di rischio), è importante che intorno al nucleo fondamentale delle regole e dei metodi di controllo ci sia un adeguato e stringente consenso internazionale. Ma mettere d'accordo le tante "jurisdictions" che già esistono e contano, compresi i sistemi privati (il mercato dei CDS è governato da un'associazione dei gestori e intermediari), nazionali e internazionali ispira un diffuso scetticismo, secondo Volcker. E soprattutto marca, vale ag-
giungere, un'indebolimento ulteriore del potere e della volontà politica a tutti i livelli. Sforzi vengono fatti per disboscare il terreno delle procedure tecniche di intervento così come per aumentare lo scambio di informazioni, quelle per esempio necessarie per una "sorveglianza sistemica" (o broad market oversight; a Volcker non piace tuttavia parlare di sorveglianza "macro-prudential" perché la ritiene un'espressione oscura). Senza dire che fa da ostacolo a questo consenso la controversia sulla banca universale Volcker nota al riguardo che "some jurisdictions seem content with what is termed universal banks - i.e. banks engaging in commercial banking and the full range of investment banking and even commercial trade - whatever the conflicting risks and clash of cuItures involved". Al di là delle misure che vengono prese per distinguere le attività se non i soggetti, temi sui quali Volcker si sofferma a discutere, le sue conclusioni sono nette: "we have passed beyond the stage in which we can expert the officials of central banks, regulatory authorities, and treasuries to rely on ad hoc responses in dealing with what become increasingly frequent, complex, and dangerous financial breakdowns. Structural change is necessary. As it stands, the reform effort is incomplete. I challenge governments and central banks to take up the unfinished agenda".
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queste istituzioni n. 162 luglio-settembre 2011
Stato, cittadini e social llOffflS. Come la Behavioral Ecollomics può salvarci dalla crisi di Alessandro Del Ponte A man ought tobe afriend to bis friend andrepaygftwithgft. People should meet smiles with smiles and lies with treachery. Edda, sec. XIII You are atyour mother-in-law's housefor Thanksgiving dinner, and what a sumptuous spread she hasput on the tableforyou! 1 'Mom, for all the love you've put into this, how much do I owe you?"you say sincerely. As silence descends on the gathering, you wave a handful ofbills. "Do you think three hundred dollars will do it? No, wait, I should giveyoufour hundred!" A glass of winefalls over; your mother-in-law stands up red-faced; your sister-in-law shootsyou an angry look; andyour niece bursts into tears. Nextyear's Thanksgiving celebration, it seems, may be afrozen dinner infront of the television set. [. . .
Dan Ariely, Predictably Irrational
L
e crisi economiche mettono in discussione il rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Nel caso italiano, in particolare, la crisi rischia di mettere a repentaglio un rapporto per molti versi già compromesso, che mina le basi per il rinnovamento del sistema-Paese e rende problematico un ritorno duraturo a
sviluppo e crescita. In questo paper si individua nel distacco cronico tra Stato e cittadini la causa principale della situazione corrente e si propone di sfruttare alcuni concetti di economia comportamentale (Behavioral Economics) per disegnare le riforme del futuro e, più in generale, per impostare il rapporto tra Stato e citta-
L'autore è Graduate Scholar presso la New York State Assembly e studente double degree di Economia e Management delle Amministrazioni Pubbliche e delle Istituzioni Internazionali all'Università Bocconi e del Master of Public Administration al Rockefeller College of Public Affairs and Policy a Suny, Albany. 1
dini. Riconoscere l'importanza degli aspetti psicologici nel comportamento degli agenti economici e incorporarli nelle decisioni di politica economica può accrescere la coesione sociale e ridurre il rischio di implementation gaps delle politiche pubbliche. In particolare, la struttura dell'intervento è la seguente: dapprima si analizza il concetto di reciprocità con riferimento ai publicgoods experiments, evidenziandone l'utilità per un efficace publicpolicy design; poi si considera ilframework proposto da Ostrom per la gestione dei commons (i Design Principles of Cooperative Regimes); quindi si evidenziano gli scostamenti più significativi dal modello di Ostrom; di seguito si suggerisce un mutamento di paradigma, da market norms a social norms, nell'impostare il rapporto tra Stato e cittadini; infine si presenta un'applicazione di policy sul tema dell'evasione fiscale. Reciprocità: un asset inesplorato per il successo della politica economica La teoria economica tradizionale sostiene che i beni pubblici spesso non riescono ad essere forniti per via del fenomeno chiamato free-riding. Gli individui sarebbero perfettamente ràzionali, massimizzatori della loro singola utilità e, pertanto, coglierebbero l'occasione, non appena gliene venga lasciata la possibilità, di sottrarsi dal contribuire al bene pubblico. In realtà, la tipologia dell'homo ceconomicus è decisamente meno diffusa di quanto l'economia mainstream affermi. In numerose situazioni le per-
sone non si comportano seguendo il loro egoistico interesse, ma esibiscono spiccata prosocialità. Se gli individui si comportassero davvero egoisticamente come i modelli economici tradizionali prevedono, ad esempio, si registrerebbero tassi di evasione fiscale ben più elevati (vedi infra, parte V); il volontariato sarebbe un fenomeno del tutto marginale (chi accetterebbe di sacrificare risorse proprie per aumentare quelle altrui?); le elezioni verrebbero disertate (l'utilità attesa del voto del singolo individuo tende a zero); il fenomeno dei software opensource sarebbe inspiegabile (Meier 2006). E evidente che l'agire delle persone non è dettato esclusivamente da interessi personali, ma è mosso (anche) da altre motivazioni. I filoni principali sono tre: le teorie delle preferenze pro-sociali, in cui l'utilità del singolo è funzione delle utilità altrui; l'approccio che sottolinea l'importanza della propria identità e dell'immagine di sé, secondo cui gli individui accrescono la propria utilità nel vedersi sotto una luce positiva grazie alle proprie buone azioni; infine, le teorie della reciprocità, secondo cui gli individui agiscono in un determinato modo in risposta alle azioni altrui. In questo articolo mi soffermerò su quest'ultimo punto, particolarmente rilevante per la strutturazione della politica economica. La reciprocità può essere di due tipi: positiva o negativa. Nel primo caso, gli individui rispondono pro-socialmente al comportamento amichevole altrui, a prescindere dalla conve-
nienza economica; nel secondo, essi diventano vendicativi in risposta ad azioni percepite come lesive nei loro confronti, e tendono a punire colui che ha commesso l'offesa, anche a costo di sopportare una perdita in senso strettamente economico. Inoltre, secondo le norme della reciprocità, le intenzioni percepite contano quanto le azioni effettivamente compiute. La nozione di reciprocità non entra nella sfera del calcolo economico puramente razionale: in altri termini, esula dal mondo delle norme di mercato (market norms), ma rientra in quello delle norme sociali (social norms) (Fehr e Gàchter 2000). La reciprocità costituisce la base per la creazione e il mantenimento del capitale e delle norme sociali, che contribuiscono alla formazione del tessuto sociale. Essa, infatti, permette il mantenimento di regolarità comportamentali ampiamente accettate e condivise dalla comunità, operando con meccanismi premianti e sanzionatori (Bruni 2006). Tale concetto risulta un ingrecliente rilevante per un publicpolicy design efficace: ciò appare chiaro considerando l'evidenza empirica raccolta nei vari public goods experiments condotti, tra gli altri, da Fehr e Gàchter (2000). Public Goods Experiment Prendiamo un gruppo con quattro persone, e diamo a ciascuno 20 gettoni. Per ogni gettone non speso dal soggetto, egli guadagna un altro gettone. Per ogni gettone impiegato in beni pubblici, tutti i soggetti del 10
gruppo ricevono 0,4 gettoni. Qual è la strategia massimizzante? Per il singolo, ilfree-riding se egli tiene per sé tutti i gettoni, guadagnerà altri venti gettoni, più 0,4*X gettoni che verranno investiti dagli altri nel bene pubblico. Per la collettività, tuttavia, il benessere è massimizzato se tutti i soggetti investono tutti i gettoni nel bene pubblico. Il ritorno per ciascuno, infatti, sarà di 0,4*(20*4)=32 gettoni, cosicché la collettività disporrà di 32*4=128 gettoni. Secondo la teoria economica neoclassica, il risultato finale del gioco dovrebbe essere l'impossibilità di fornitura del bene pubblico, causata dall'egoismo razionale degli individui; in realtà, gli esperimenti condotti sul campo mostrano ben altri risultati. I partecipanti, innanzitutto, tendono a mostrare reciprocità positiva nel decidere quanto investire nel bene comune: se i giocatori vedono che gli altri contribuiscono, essi a loro volta fanno la loro parte. Quando ciò non accade, gli altri partecipanti puniscono il recalcitrante, ove sia data loro la possibilità, anche a costo di rimetterci dei gettoni (Fehr e Giichter 2000). Inoltre, ove la comunicazione tra i partecipanti è permessa, i livelli di contribuzione al bene pubblico aumentano considerevolmente, e la collaborazione dura più a lungo, riducendo drasticamente il free-riding (Isaac e 'V\Talker 1988). I risultati dei public goods experiments sono applicabili alla politica economica e, più in generale, all'impostazione del delicato rapporto tra comunità dei cittadini e Stato. Incor-
zione dei beni collettivi, e devono sapere con chi collaborare e a chi rivolgersi per lo sfruttamento di tali beni. In altri termini, la comunità deve dotarsi di un sistema giuridico limpido, comprensibile a tutti e a misura di cittadino, senza opacità e aree d'ombra. Le regole devono essere userfriendly. Un set di regole equo e rispettoso Principi per la governance dei beni delle specficità locali. Tali regole concollettivi: i Design Principles ofCoo- sentono l'accesso alle risorse comuni a perative Regimes tutti i cittadini, poiché ne limitano le quantità, i tempi e la tecnologia amSecondo il premio Nobel Elinor missibili per la loro appropriazione. I Ostrom (2000), la legge dello Stato cittadini, inoltre, ottengono benefici non si applica con la forza dei con- dallo sfruttamento delle risorse in protrolli a tappeto e di costrizioni dalporzione al contributo offerto per la l'alto; la civile convivenza e la condi- fornitura del bene collettivo (i costi visione dei beni collettivi si ottiene efd'uso sono proporzionati ai benefici). ficacemente, invece, sfruttando alcuni Infine, tali regole si adattano alle speaspetti della psicologia umana. I pre- cifiche caratteristiche regionali, prevesupposti per governare i commons con dendo opportune modifiche qualora in successo sono norme di reciprocità, un determinato luogo la risorsa sia parcredibilità e fiducia nei leader della ticolarmente scarsa o abbondante. In comunità: risorse e fattori intangibili, altre parole, equità, sostenibilità e rima critici per la prosperità e la soprav spetto della diversità devono informare vivenza a lungo termine dello Stato. il sistema giuridico vigente. In particolare, ogni regime indipenIVieccanismi inclusivi di partecidente di gestione delle risorse collet- pazione democratica. La maggioranza tive, per avere successo, ha bisogno di degli individui interessati da tale repoggiare su otto principi costitutivi, gime di governo dei beni collettivi chiamati Design Principles ofCoopera- deve poter stabilire le norme che lo tive Regimes (Ostrom 1990). costituiscono e, se necessario, proporre di apportarvi delle modifiche. E Iprincipi costitutivi dimostrato che le comunità che ri1)Un set di regole chiare e confini spettano questa condizione sono in ben delineati. I partecipanti allo sfrut- grado di disegnare sistemi regolatori tamento delle risorse comuni (i cit- più efficaci e duraturi nel tempo. La tadini) devono poter avere un'idea partecipazione democratica a tale chiara dei propri diritti e dei propri processo deve essere la più ampia possibile: diversi studi condotti in vari doveri con riferimento all'appropriaporare tali concetti nell'architettura della governance dello Stato e delle singole politiche può costituire il fattore critico di successo per instaurare quei regimi cooperativi di governo dei beni collettivi descritti da Ostrom (1990) come la forma di governo della cosa pubblica di maggior efficacia e longevità.
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Paesi mostrano che l'efficacia del sistema giuridico è inferiore quando la popolazione ha la percezione che le regole siano imposte dall'alto da un'élite dominante. Famoso il caso di un sistema di irrigazione in India, in cui Bardhan (2000) ha rilevato come la qualità della manutenzione dei canali fosse sensibilmente inferiore quando i contadini ritenevano che le regole fossero state decise da una élite al potere. Inoltre, le violazioni delle regole erano più frequenti, e i contributi per la manutenzione tendevano ad essere inferiori. Contro//ori legittimati dalla comunità afar rispettare le regole. I cittadini selezionano i loro controllori, deputati a far rispettare le regole e l'accountable nei loro confronti. A volte, tali controllori possono essere gruppi di cittadini che sfruttano le risorse comuni in prima persona e si impegnano a partecipare all'enforcement delle regole. Talora, inoltre, il ruolo di controllore è a rotazione, cosicché ogni utilizzatore della risorsa ha la possibilità di diventare controllore a sua volta. Si tratta di un altro esempio di meccanismo inclusivo che caratterizza i governi delle risorse collettive di maggior successo e durata. Uso di sanzioni progressive. Le sanzioni nei confronti di chi infrange la legge sono graduali e dipendono dalla serietà e dal contesto della violazione. In particolare, la sanzione iniziale è molto blanda, ed è ascrivibile a una semplice informazione nei confronti del cittadino sanzionato e della comunità nel suo insieme. Infrazioni 12
ripetute, tuttavia, innescano una rapida escalation della gravità delle sanzioni, fino all'extrema ratio, costituita dal bando del soggetto dalla comunità. Tale architettura sanzionatoria permette di distinguere tra violazione occasionale e violazione sistematica, in grado di minare le basi di fiducia e reciprocità tra gli utiizzatori. Risoluzione delle controversie rapida e a basso costo. Istituzioni credibili e affidabili deputate al dispute settiemeni' tra cittadini e controllori permettono di mantenere e corroborare la fiducia degli utilizzatori delle risorse nel sistema giuridico e nell'architettura sociale cui essi stessi contribuiscono in prima persona. Tali istituzioni, inoltre, fanno luce su possibili ambiguità e difficoltà interpretative della legge, agendo con il ruolo di facilitatori della convivenza civile e non di impositori dall'alto del controllo. Possibilità di modi(icare le regole in base alle necessità locali. Il settimo principio, informato a criteri di sussidiarietà e autodeterminazione, prevede che le comunità locali abbiano il diritto di innovare le regole nel loro territorio, rendendole ancora più rispondenti alle loro esigenze. Per poter fare ciò, è necessario il placet del governo centrale. Per sistemi più estesi e complessi, una struttura di governance a più livelli. Qualora le risorse collettive siano molteplici e il loro sfruttamento complesso e su vasta scala, si rende necessaria una governance appropriata, basata sui criteri precedentemente richiamati di sussidiarietà e autodeterminazione.
Minacce alla sopravvivenza dello Stato Ostrom (2000) passa in rassegna le minacce identificate empiricamente in letteratura ai regimi di governo dei commons che fondano il loro successo su norme di reciprocità e fiducia. Innanzitutto, la premessa per mantenere tale capitale sociale inalterato consiste nella coesione sociale, che secondo Ostrom è messa a repentaglio quando i flussi migratori in uscita e in entrata sono talmente significativi da far evaporare la fiducia reciproca tra i membri della collettività, che si riflette nella ricerca del proprio "particulare", a discapito dell'edificio comune di governo dei commons. Per dirlo con Putnam (2000), c'è il rischio che i membri della comunità inizino a giocare a bowling da soli. In tal modo, i regimi di governo delle risorse collettive si disintegrano in breve tempo. Altre cause - endogene ed esogene - del dissolvimento del capitale sociale e che minacciano il fallimento del governo delle risorse collettive (e quindi dello Stato) includono: 1) un governo nazionale accentratore, che non tiene conto dei principi di sussidiarietà e di autodeterminazione, scatenando reazioni centrifughe da parte delle comunità locali. Ciò porta allo sfaldamento dello Stato, percepito come un nemico; 2) rapidi cambiamenti nella tecnologia e nella disponibilità dei fattori; 3) scomparsa del civismo e del rinnovamento generazionale, che si declinano in: a) scarso turnover tra anziani e giovani; b) sclerosi della trasmissione da una generazione all'altra dei prin-
cipi alla base del governo delle risorse collettive; 4) la ricerca troppo frequente di aiuti provenienti dall'esterno, che si traduce in sostanziale perdita di autonomia nel definire e rispettare il set di regole di governo; 5) aiuti internazionali di natura topdown, che non tengono conto delle esigenze e delle specificità locali, trascurando know-how e istituzioni locali; 6) il prosperare di corruzione e pratiche opportunistiche come l'evasione fiscale; 7) l'assenza di istituzioni che assicurino una risoluzione delle controversie autorevole, rapida e a basso costo. Aggiungo un ulteriore punto, 8) una Pubblica Amministrazione inefficace e inefficiente, con rappresentanti inadeguati e poco accountable nei confronti dei cittadini, utilizzatori delle risorse collettive. Zero Contribution Thesis Conseguenza del dissolvimento di fiducia e reciprocità è il raggiungimento dello stadio che Olson (1965) chiama zero contribution thesis. Gli individui si comportano dafree riders, facendo diminuire a zero il loro contributo al bene pubblico, pur continuando a goderne i benefici, dato che esso è, per definizione, non rivale e non escludibile nel consumo. E chiaro che se ciascun individuo persegue questo corso d'azione, la fornitura del bene pubblico diviene ben presto impossibile. Per Olson, pertanto, l'azione collettiva diviene problematica, e gli individui, egoisti e razionali, devono essere influenzati tramite la predisposizione di incentivi monetari e benefici adeguati. 13
Come uscire dall'impasse? Il passaggio dalle market norms alle social norms In realtà, l'approccio di Olson è stato superato dalle acquisizioni recenti della Behavioral Economics. I meccanismi di mercato (market norms), caratterizzati da scambi monetari, non sono adeguati per impostare il delicato rapporto tra Stato e cittadini. I comportamenti e i processi cognitivi e decisionali delle persone, infatti, sono contraddistinti da una buona dose di irrazionalità e, con buona pace della saggezza convenzionale, spesso le considerazioni non monetarie prevalgono sul resto (Ariely 2010a). Il nostro mondo è modellato in gran parte dalle norme sociali (social norms), che si fondano su reciprocità e scambi gratuiti. Il nostro universo interpersonale si basa su questi presupposti, sia nella vita privata che in quella lavorativa. Ogni manager di successo conosce bene l'importanza di mantenere e sviluppare eccellenti reti informali di relazioni con colleghi e clienti; allo stesso modo, il negoziatore geniale sa che la riuscita di un negoziato dipende dalla capacità di ampliare la torta della contrattazione, creando valore per sé e la controparte, in modo da acquisirne la fiducia anche per il futuro. Secondo Bazerman e Malhotra (2007), "[y]our goal should not simply be to get the best possible deal while preserving the relationship, but to get the best deal while strengthening the relationship and your reputation". Se il mondo in cui viviamo è questo, perché il policy making dovrebbefunzionare diversamente? 14
L'errore nel quale i policy makers perseverano troppo spesso è quello di cedere alla tentazione di creare distacco tra governo e cittadini, nel tentativo (fallace) di rimarcare i rapporti di potere in gioco. Ne consegue una deriva paternalistica distorta, che mal si concilia con l'obiettivo di migliorare la vita dei cittadini e rappresentarne gli interessi. Chi governa imposta una relazione con i cittadini basata su market norms. Si registra, di conseguenza, un arido appiattimento su diritti e doveri; la sottoposizione ad un regime fiscale oscuro (e percepito come ingiusto in quanto tale) e ad una giustizia non meno aliena ai cittadini; l'evaporazione del capitale sociale e del senso civico; la riduzione dell'impegno civile. Riassumendo, il sistema si ripiega su stesso, poiché i cittadini, invece che formare un network la cui massima espressione è lo Stato, si disperdono in un arcipelago di isole non comunicanti. Il collante tra i cittadini si dissolve e lo Stato viene percepito come estraneo, un "intruso" nel proprio microcosmo. Questa condizione, pur rappresentando un problema, non è sufficiente a minare le basi del governo delle risorse comuni. Finché le market norms vengono rispettate, il sistema funziona. Il problema, tuttavia, risiede nel fatto che, senza social norms forti e consolidate e meccanismi di reciprocità e fiducia, anche le market norms iniziano a rivelarsi insufficienti e a non essere più rispettate. Quando ciò accade, la crisi è manifesta e sia l'opinione pubblica
sia i policy makers sono consci della serietà della situazione. L'errore ancor più grave, a questo punto, consiste nel tentare di risolvere la condizione di cortocircuito delle market norms portando avanti soluzioni imperniate su queste ultime. Tale corso d'azione, infatti, porterebbe ad una spirale perversa in cui i cittadini si sentono sudditi, invece che partecipanti alla costruzione dell'edificio collettivo, con conseguenze nefaste e potenzialmente drammatiche. Levi, nel suo saggio A State ofTrust (2003), descrive la fiducia reciproca tra Stato e cittadini come una conditio sine qua non per ottenere il consenso contingente (contingent consent) dei cittadini. In altri termini, solo se i cittadini hanno fiducia nello Stato e lo ritengono equo e accountable sono disposti alla collaborazione, ricreando il tessuto sociale necessario alla sopravvivenza e alla prosperità del regime di governo dei beni collettivi, che agisce attraverso lo Stato stesso. Pertanto, un policy making efficace non può prescindere dall'affidarsi alle social norms per impostare il rapporto tra Stato e cittadini. Accountability, partecipazione collettiva, inclusione sociale nei processi decisionali, mobilità sociale, equità e soprattutto comunicazione trasparente ed immediata dell'azione di governo devono essere i pilastri su cui fondare l'agire pubblico. Tali principi devono essere tuttavia corroborati da un sistema educativo appropriato nella trasmissione da una generazione all'altra dei principi alla base del governo delle risorse
collettive. Il termine "educazione civica" appare limitante: non si tratta semplicemente di insegnare i principi costituzionali o di fornire delle pur minime basi del vivere civile. Si tratta, invece, di disegnare un sistema educativo che, nel suo complesso, metta in condizione i cittadini del futuro di comprendere l'architettura della società, partecipando attivamente al governo della comunità. Gli ultimi decenni hanno visto l'affievolirsi dell'attenzione per le social norms, che ha avuto come contraltare l'ossessione per l'applicazione universale delle market norms a tutti gli aspetti delle nostre vite. Si sono snaturate le relazioni tra cittadini e tra cittadini e Stato. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Parafrasando Ariely (2010a), provate a pagare vostra suocera dopo che vi ha cucinato il pranzo di Natale. Ne subirete le conseguenze! Social norms in azione: il caso dell'evasione fiscale
Un esempio di area di policy in cui il cambiamento di paradigma da market norms a social norms potrebbe rivelarsi fruttuoso è quello della tassazione. In un Paese come l'Italia, in particolare, il problema dell'evasione fiscale è una spada di Damocle per l'economia, avendo raggiunto dimensioni talmente vaste (secondo il rapporto 2010 della GdF, i redditi non dichiarati ammontano a 50 miliardi) da tarpare le ali alla crescita del Paese e da minare le basi della coesione nazionale. Che fare dunque?
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Secondo i modelli economici tradizionali, fondati su meccanismi di deterrenza, gli individui valutano se evadere o meno in base a un calcolo puramente razionale. La decisione dipende strettamente dalla probabilità di essere scoperti e dalle sanzioni pecuniarie previste. Tuttavia, come mostra una vasta letteratura di BehavioralEconomics, se il modello di deterrenza rappresentasse fedelmente la realtà, l'evasione fiscale costituirebbe un fenomeno ancor più diffuso di quanto non accada (Feld e Frey 2003, Slemrod 2007, Congdon, Kling e Mullainathan 2009). La probabilità di essere scoperti, infatti, è in tutti i Paesi troppo bassa per essere considerata un deterrente efficace. Del resto gli accertamenti fiscali, da soli, non saranno mai in grado di conseguire una totale tax compliance. I modelli di deterrenza, infatti, sono riconducibii esclusivamente al mondo delle market norms. Come sappiamo, tuttavia, le social norms sono almeno altrettanto importanti nel modellare il comportamento degli agenti economici. Il settore della tassazione non fa eccezione. Slemrod (2007) spiega l'importanza del ruolo del contingent consent nel pagamento dei tributi. I cittadini, infatti, pagano quanto dovuto allo Stato non solo perché sono obbligati a farlo (come abbiamo visto, potrebbero facilmente sfuggirvi), ma anche e soprattutto per una "morale fiscale" (tax morale) intrinseca. Feld e Frey (2003) giungono ad affermare che la tassazione è un fenomeno "quasi volontario". E proprio la morale fiscale a scendere ai livelli 16
più bassi quando le market norms prendono il sopravvento sulle social In particolare, essa cala sotto il livello di guardia quando i cittadini nutrono profonda sfiducia nello Stato, che percepiscono come ingiusto e recalcitrante nel perseguire i loro interessi. Ariely (2010a) elenca numerosi altri principi psicologici alla base di fenomeni dell'evasione fiscale o della corruzione: 1) l'assenza di una normativa chiara e comprensibile; 2) la percezione di ingiustizia del tributo (si tratta di un esempio di self-serving bias); 3) la percezione che non sia un "peccato grave"; 4) il fatto che non implichi fisicamente l'atto del furto (evasori anche milionari sono spesso individui che non ruberebbero mai nulla in un supermercato, perché si tratterebbe di un furto diretto); 5) la percezione che il fenomeno sia diffuso; 6) la mancanza di identificazione con le "vittime" del fenomeno (i cittadini onesti o quelli disagiati, che ricevono meno sussidi dallo Stato a causa dell'evasione) (Ariely 2010b). Come, dunque, ottenere il contingent consent da parte dei cittadini? Levi (2003) sottolinea l'importanza della fiducia nello Stato, che si consegue attraverso meccanismi di partecipazione inclusiva dei cittadini e procedure eque. Tale fiducia è reciproca: i cittadini non sono guardati con sospetto. Congdon, Cling e Mullainathan (2009) suggeriscono di pubblicizzare le cosiddette benefit tax, tasse che finanziano un beneficio saliente e direttamente visibile dai cittadini. E possibile, inoltre, sfruttare concetti di BehavioralEconomics quali drop-in the
bucket effect, identfiable victim effect e il principio di socialproof. Il primo, discusso da Ariely (2010b), attiene al fenomeno per il quale le persone sono riluttanti a contribuire ad una causa per la quale essi percepiscono di non essere in grado di fare la differenza. Nel campo dell'evasione fiscale,.possiamo osservare che molti cittadini evadono perché pensano che le loro tasse verranno impiegate male, o andranno a finire nel nulla, non traducendosi in servizi concreti e miglioramento del benessere pubblico. Conoscendo questo pattern comportamentale, possiamo porvi rimedio sfruttando l'identfiable victim effect, descritto anch'esso in Ariely (2010b). Si tratta del fenomeno per cui le persone tendono a contribuire alle cause in cui riescono a identificare in maniera circostanziata il destinatario della loro buona azione. Le ONLus usano regolarmente questa strategia per assicurarsi donazioni, preferendo mostrare le foto di un singolo bambino bisognoso (facile da aiutare con poco) invece che far riferimento alle masse di disperati per le quali sarebbero necessari miliardi di euro. Lo Stato dovrebbe sfruttare questi aspetti psicologici per aumentare la tax morale e il contingent consent. Non meno importante è il principio di socialproofi descritto da Cialdini (2009): le persone determinano ciò che è giusto e sbagliato in base alle convinzioni altrui. In altri termini, il principio di social proof sta alla base dell'effetto gregge: tendiamo a osservare il comportamento altrui e, di solito, ci uniformiamo. Nel caso del-
l'evasione fiscale, la convinzione che si tratti di un malcostume dilagante gioca un ruolo significativo nel determinare il comportamento dei cittadini. Il fatto che personaggi famosi del mondo dello sport, dello spettacolo e della politica siano conclamati evasori fiscali o diano prova di una condotta non esemplare nei confronti delle istituzioni contribuisce a rinforzare questo meccanismo. Bisogna quindi sfruttare il principio di social proofa favore della tax compliance, fornendo modelli positivi ai cittadini e pubblicizzando il comportamento di chi rispetta la legge ed è un cittadino onesto per innescare fenomeni virtuosi di imitazione. Considerazioni conclusive Il takeaway principale di questo contributo è che la politica economica deve mostrarsi vitale e innovativa per fronteggiare le sfide complesse del mondo odierno. La crisi economica e finanziaria internazionale ha messo a nudo l'obsolescenza dei vecchi modelli dell'economia mainstream, che ha dominato gli ultimi decenni del Novecento. La Bebavioral Economics si candida ad essere determinante nellbffrire spunti per una politica economica creativa ed efficace per gli anni a venire, e i governi dovrebbero aprirsi all'adozione di strumenti e paradigmi nuovi per impostare la propria azione. E necessario un ritorno alla centralità della persona in quanto combinazione di razionalità e irrazionalità, di mente e cuore, ed è urgente riconoscere che l'homo oeconomicus con17
getturato nell'ultimo secolo non esiste. Basandosi su tale assioma, in questi decenni sono stati commessi errori notevoli di politica economica, che hanno condotto al ridimensionamento delle social norms e al dissolvimento del collante sociale, in favore di market norms dettate da un economicismo perverso, distante dalla realtĂ e dai cittadini. Il predominio della finanza sull'economia reale costituisce un aspetto di questa deriva, che ha prodotto le ben note dolorose conseguenze.
LE
Ăˆ tempo di ricostruire il rapporto tra Stato e cittadini basandosi sui principi ispirati a reciprocitĂ , fiducia e inclusione suggeriti da Ostrom e scoprendo forme di democrazia realmente rappresentativa. Incorporare i bias, gli errori e i pattern comportamentali delle persone nelle analisi economiche significa dimostrare onestĂ intellettuale, ingrediente indispensabile per riuscire in questo non facile compito.
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queste Istituzioni n.
162 luglio-settembre 2011
EdnOaiolle, capitale ornano e nuove tedilologie di Saveria Addotta «No man is an is/and, entire of itse(/ every man is a piece of the continent, a part of the main. If a clod be washed away by the sea, Europe is the less, as well as a promontory were, as well as a manor ofthyfriend's or ofthine own were: any man death diminishes me, because I am involved in mankind..." (Meditation 17, John Donne)
Nella sua introduzione al recente volume di Martha C. Nussbaum (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino), Tullio De Mauro, - a sostegno della tesi della filosofa americana sull'importanza del recupero dello studio della classicità come fattore fondamentale nella formazione dei giovani - ci ricorda che "due lingue sovrastano le altre in fatto di accoglimento dell'eredità latina nella compagine del loro vocabolario anche più usuale", la prima è l'italiana ma la seconda lingua è quella che "gli oltranzisti della modernità tecnico scientistica considerano un antilatino, la lingua da studiare in sostituzione del latino... l'inglese"! Il cui 70% del vocabolario "viene direttamente dal latino classico e medievale, dal latino moderno, dalle maggiori lingue neolatine". De Mauro ricorda un altro dato fonda20
mentale: che "in altre aree oggi tra le più dinamiche del mondo, il ruolo dello studio delle rispettive lingue antiche che sono le loro radici classiche, il loro greco e latino, continua a essere fondante nell'organizzazione scolastica e culturale. Il riferimento è più direttamente al Giappone, alla Cina, ad Israele ma anche, con alcuni distinguo, all'India e al mondo arabofono". Non possiamo non dirci "umanisti" De Mauro cita anche Albert Einstein quando nella sua autobiografia "ricorda a noi tutti, scientisti compresi, che quasi tutto quel che sappiamo e pensiamo lo dobbiamo alle parole che abbiamo appreso da altri, da una tradizione", e sottolinea l'analisi di Nussbaum, dove mostra, ad esempio, come "nell'India di Tagore
da una base solidamente ancorata alla classicità del subcontinente, al sanscrito, nasce la formazione di grandi tecnici e matematici, di grandi economisti come Sen". Fermo rimanendo il collegamento tra istruzione e sviluppo economico, De Mauro sottolinea che "non di sola scuola vive lo sviluppo economico, ma di più complicate politiche di investimento che migliorino le condizioni in cui le scuole operano", proprio perché "la storia recente del mondo, il mondo che intreccia... le vicende di terre e popoli lontani, se offre ai paperoni della finanza uno spazio senza confini per le imprese piratesche della speculazione più irresponsabile, obbliga i sistemi educativi che vogliano formare cittadini responsabili e non sudditi e vittime... a mettere in conto come asse portante delle scuole la conoscenza e comprensione dell'altro, del lontano nello spazio e nel tempo". Pensiero critico e "innovazione" Nussbaum aggiunge all'importanza di una formazione geostorica, ("né erudita o soltanto cronachistica") e alla conoscenza dei classici, l'educazione al pensiero creativo, inventivo, a quello critico e rigoroso, ovvero a quegli aspetti umanistici che pure costituiscono parte fondamentale della scienza e che si stanno perdendo poiché i decisori politici "inseguono più il profitto a breve termine dato dai saperi tecnici". La filosofa americana, che ha collaborato a lungo con l'economista indiano Amartya Sen, con il quale ha promosso il cosiddetto
approccio secondo le capacità, "capability approach", per lo sviluppo economico e sociale - non nega l'importanza dell'istruzione tecnicoscientifica ma teme che anche questa finisca per essere privata di quelle componenti, che si potrebbero definire umanistiche, che sono vitali anche per esse: appunto "la ricerca del pensiero critico, la sfida dell'immaginazione, la vicinanza empatica alle esperienze umane più varie, nonché la complessità del mondo nel quale viviamo". Il paradigma dello "sviluppo umano" che la Nussbaum ha promosso sostiene l'importanza per una crescita, che non sia soltanto economica, il "modello delle opportunità", ovvero della possibilità per ogni persona di poter sviluppare capacità in ambiti fondamentali quali la salute, l'integrità corporea, l'istruzione e la partecipazione politica. Per questo modello di sviluppo tutte le persone hanno pari dignità e i loro diritti devono essere rispettati dai decisori politici che sono tenuti anche a praticare soluzioni che portino ogni cittadino a livelli di opportunità accettabili. Un Paese che intende garantire ai propri cittadini le giuste opportunità "di vita, libertà e ricerca della felicità" deve consentire ad essi di sviluppare delle capacità quali: a) ragionare sui problemi politici, esaminare, riflettere, discutere e giungere a conclusioni senza delegare alla tradizione o all'autorità; b) riconoscere nei concittadini persone con pari diritti, per quanto possano essere diversi per razza, religione, genere e orientamento sessuale; c) preoccuparsi per la vita degli 21
altri, cogliere quali politiche siano significative per promuovere le opportunità; d) raffigurarsi la varietà dei problemi della vita umana dall'infanzia: i rapporti familiari, sociali, la malattia, la vecchiaia, la morte, tenendo in considerazione, più che nozioni statistiche, storie personali; e) giudicare gli uomini politici criticamente ma in base a precise informazioni anche delle reali possibilità a loro disposizione; f) di non pensare soltanto al bene del gruppo di appartenenza ma al bene più generale, del proprio Paese ma visto nella sua collocazione in un ordine mondiale complesso. Gli individui, però, possono diventare capaci di pensiero critico, di rispetto e di uguaglianza democratica a partire dal riconoscimento di alcune "forze" che in primo luogo, giocano in ogni persona: Nussbaum, a proposito, ricorda il Mahatma Gandhi per il quale la lotta politica per la libertà e l'uguaglianza era innanzitutto, una lotta in seno ad ognuno "dove compassione e rispetto si misurano contro paura, avidità e aggressività narcisistica". Il "pensiero posizionale" e l'immaginazione Per tradurre tale necessità in un'azione educativa, la filosofa americana suggerisce che i sistemi scolastici tendano a: sviluppare le capacità empatiche, insegnare a confrontarsi con le inadeguatezze e le fragilità umane, incoraggiare la responsabilità e, soprattutto, promuovere il pensiero critico. 22
Su questo aspetto Nussbaum si sofferma più a lungo, dedicando un capitolo alla pedagogia socratica. Quando il ragionamento non prevale, le persone sono facilmente ingannate dalla fama o dal prestigio di un'autorità o anche da ciò che la cultura dei pari impone. Un problema comune alle società umane è proprio l'incapacità di prendere decisioni autonome per la pressione di autorità o dei pari. Pensiero indipendente e capacità di immaginazione garantiscono, quindi, successo anche nel campo dell'innovazione: indagare, giudicare i dati ottenuti, riuscire a scrivere resoconti con ragionamenti strutturati e valutare quelli proposti da altri stimola anche il pensiero creativo. Il metodo di Socrate, con la sua importanza all'introspezione, alla responsabilità personale e l'attività intellettiva individuale è fondamentale per l'educazione: l'esame critico socratico, radicalmente antiautoritario, pone le condizioni per una ricerca continua e può essere la base anche per la messa in discussione dei saperi raggiunti, per aprire nuove possibilità di conoscenza. Le questioni da affrontare nella nostra epoca, economiche, politiche, ambientali, ecc., sono di portata mondiale: siamo, a prescindere dalla consapevolezza di ciascuno, cittadini del mondo e ciò comporta un'educazione complessa, che implichi, ad esempio, la capacità di valutare i dati storici, utilizzare e pensare criticamene i principi economici, di riconoscere la giustizia sociale e apprezzare le complessità delle grandi religioni mondali.
Per relazionarsi alla complessità del mondo, i cittadini hanno bisogno, oltre che della logica e del sapere fattuale, anche dell"immaginazione narrativa": l'immaginazione è necessaria per affrontare qualsiasi cosa sia, come sosteneva Dewey, "fuori dalla portata di un'esperienza fisica diretta"; ovvero la maggior parte delle esperienze umane, dalla conversazione con un amico, allo studio sulle transazioni economiche fino anche ad un esperimento scientifico. Per coltivare l'immaginazione, i sistemi educativi dovrebbero dare uno spazio di rilievo alla letteratura e alle arti ma sempre in modo da stimolare l'attiva partecipazione, lo sperimentare diretto piuttosto che la mera ricezione di nozioni utile soltanto a sostenere di dotte citazioni le nostre "chiacchiere". Antiscientisti e scientisti Nella difesa dell'istruzione umanistica non si tratta di contrapporre una visione antiscientista ad una scientista, tanto più che, come ci ha accuratamente spiegato Massimiano Bucchi nel suo bel volume "Scientisti e antiscientisti" (edito da il Mulino nel 2010), si tratta di una contrapposizione fittizia, un vero e proprio gioco delle parti. Non a caso, nel suo prologo al testo, Bucchi immagina una scena in cui Scienza e Società sono le protagoniste di un dialogo, che diventa presto a più voci, in cui ciascuna parte si lamenta di non essere sufficientemente capita o considerata: da un lato gli scientisti, i sostenitori della libertà della ricerca scientifica e tec-
nologica, senza ingerenze politiche e religiose; dall'altro, gli antiscientisti, che credono che debba essere posto un limite alle sfide della scienza come se questa fosse tendenzialmente non umanistica I due fronti sono sostanzialmente simili: entrambi condividono l'idea errata che la scienza sia "un blocco monolitico impermeabile a qualsiasi discorso che non sia quello della razionalità scientifica". In realtà, la scienza si confronta proprio con i grandi temi che vengono considerati centrali dalla cultura umanistica, a partire dalla domanda fondamentale su che cosa significa essere umani e soprattutto se "è possibile dare una risposta che valga per tutti e in tutte le situazioni". La scienza affronta macrodilemmi come questi, ponendosi il problema di una natura umana universale, di ciò che può essere oggettivamente condiviso, ma facendolo in modo critico, non dogmatico come i suoi presunti sostenitori (gli scientisti appunto) vorrebbero. La Scienza, questa si con la maiuscola, fa parte della cultura umanistica proprio perché si pone domande e cerca risposte per l'uomo e il suo cammino incessante è dovuto proprio alla messa in discussione dei saperi raggiunti: del dibattito scientifico sono propri provvisorietà e incertezza, soltanto l'esigenza "divulgativa" lo costringe a una stabilizzazione che non gli appartiene. Ecco perché scienza e società, come sostiene Bucchi, finiscono per non comprendersi. 23
Il capitale umano Nussbaum centra la sua analisi in particolare sugli Stati Uniti, lamentando per questo Paese un progressivo disinvestimento per l'istruzione, in generale, e in particolare in campo umanistico. Eppure, - come ci ricorda Ignazio Visco nel suo interessante volume Investire in conoscenza (il Mulino, 2009), una sorta di appello a difesa dell'istruzione anche in prospettiva di crescita economica, - negli Stati Uniti il complesso della spesa pubblica e privata (e Nussbaum ci aveva ribadito che quest'ultima ha un peso importante!) a scopo di istruzione era (nel 2004) il 7.4% del PIL, mentre in Italia era il 4,9 (in Francia il 5,2 e in Germania il 6,1). Visco concentra la sua analisi su quanto viene valorizzato in Italia il "merito", ovvero l'accumulazione di "capitale umano", che nell'attuale contesto tecnologico è costituito dal "patrimonio di conoscenze, cioè dal bagaglio culturale, dalla specializzazione, dalla capacità di eseguire compiti complessi e di lavorare con tecnologie sofisticate". In particolare, tra le fondamentali dimensioni della conoscenza attuale Visco propone come primaria (in quanto precede la capacità di operare con particolari tecnologie e la conoscenza scientifica), il possesso delle elementari competenze linguistiche, più in generale, della capacità di elaborare informazioni e di riutilizzarle. "I lavoratori con capacità di analisi e soluzione dei problemi risultano più produttivi rispetto agli altri in tutte quelle mansioni che im24
plicano attività più complesse della semplice routine". Il capitale umano, lo spiegano diverse analisi, accresce il prodotto pro capite "sia direttamente sia attraverso miglioramenti organizzativi, gestionali e un più alto tasso di innovazione tali da innalzare il trend di crescita della produttività del complesso dei fattori utilizzati nella produzione". L'attuale Governatore della Banca d'Italia ci ricorda quindi "che un Paese che voglia aumentare la produttività deve continuare ad accrescere il proprio capitale umano". Purtroppo l'Italia, in confronto con gli altri Paesi OCSE ne ha un basso livello, come dimostrano i dati sull'istruzione: nel 2004 la quota della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni con almeno un titolo di scuola secondaria superiore era pari al 48%, 20 punti percentuali in meno rispetto alla media OcsE. Valorizzare il merito, ovvero remunerare adeguatamente gli investimenti in istruzione, comunque, non significa soltanto far aumentare lo studio ma la sua qualità. Quindi, se l'attuale mondo del lavoro richiede lavoratori con "elevate capacità di adattamento, rapidi nell'imparare nuove procedure e tecniche produttive" la scuola dovrebbe più che insegnare competenze specifiche "allenare i suoi studenti soprattutto alla capacità di imparare". Visco cita l'indagine PIsA (Program for International Student Assessment) 2004 sulla qualità della scuola italiana, sottolineando che l'aspetto più drammatico (più del ritardo nelle competenze matematiche)
è la scarsa capacità di leggere degli studenti italiani ovvero dello "strumento principale con cui le persone alimentano nel tempo la propria conoscenza e formazione". L'investimento in conoscenza
Accrescere la capacità di apprendere "e di essere parte attiva di un sistema di relazioni sempre più complesse" sono, insieme alla capacità di utilizzare la tecnologia prevalente, le nuove competenze "necessarie per innalzare il tasso di innovazione dell'economia e affrontare con successo le sfide poste dall'invecchiamento della popolazione, dal continuo cambiamento degli apparati e dei processi produttivi, della competizione dei Paesi emergenti". Per sviluppare una economia fondata sulla conoscenza è fondamentale che questa passi da "informazione" a "sapere". In ogni caso, il nostro Paese deve aumentare il suo investimento in conoscenza ovvero "le spese correnti, quali quelle in istru-, zione e in R&S, e spese in conto capitale, quali l'acquisto di software e la costruzione di edifici scolastici". L'Italia, anche qui, a confronto degli altri Paesi OCSE, si trova agli ultimi posti con una spesa complessiva inferiore al 2,5 per cento del PIL, a fronte di una spesa media circa doppia nel complesso dell'area. La scuola e l'università italiana sono un work in progress, con riforme continue di cui Visco condivide alcune linee di fondo su cui ritiene, però, che bisogna impegnarsi ulteriormente: a) i tentativi di ridare impor-
tanza centrale alla valutazione degli apprendimenti e di dare un peso crescente, nel finanziamento pubblico, alla valutazione della qualità della ricerca; b) la ricerca di forme di finanziamento più efficienti; c) la rimozione dei vincoli che impediscono un'effettiva uguaglianza di accesso degli studenti. Investire in conoscenza, ricorda in conclusione al suo volume Visco, è importante anche "oltre l'economia", per il capitale sociale del Paese: investire nel capitale umano "potrà contribuire a rafforzare il senso civico, il rispetto delle regole, l'affermazione 'del diritto.., contro la corruzione, l'abuso e la criminalità, freno essi stessi allo sviluppo equilibrato dell'economia". Il ruolo delle nuove tecnologie
L'investimento in conoscenza dovrebbe tenere conto anche del cambiamento epocale rappresentato dal ruolo delle nuove tecnologie nella trasmissione del sapere: al di là dei sistemi scolastici ma anche al loro interno. Al tema è stata dedicata una Conferenza internazionale, promossa a Torino dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo nel marzo 2009 su cui è stato pubblicato un volume, "Un giorno di scuola nel 2020" (il Mulino, 2010), curato da Norberto Bottani, Claudia Mandrile e Anna Maria Poggi. Nell'iniziativa promossa dalla Fondazione torinese si sono analizzati i cambiamenti nelle modalità di apprendimento che si sono verificati a partire dall'inven25
zione delle Tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Queste rappresentano infatti, ricordano i curatori del volume citando Raffaele Simone ("La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo", Laterza, 2006), "la 'terza fase' dei cambiamenti su vasta scala delle tecniche di trasmissione delle conoscenze che è uno dei compiti, ma non il soio, assegnato alle scuole di qualsiasi tipo". Un cambiamento epocale se si considera che le altre due fasi si riferiscono all'invenzione della scrittura e a quella dell'invenzione della stampa. Quindi, "l'istituzione scolastica, che è rimasta immutata per secoli, sembra essere entrata in una fase molto tormentata di trasformazioni accelerate... Da una decina d'anni, le cose che si sanno non sono state necessariamente apprese dalla carta stampata, ma dallo schermo di una televisione o di un computer". L'impostazione, l'organizzazione, l'architettura dell istituzione scolastica saranno trasformarti radicalmente da due fattori: 1) la diffusione del capitale di conoscenze sul ftinzionamento della mente e le modalità di apprendimento accumulate dalle scienze sociali, dalla psicologia genetica, dalle scienze cognitive, dalle scoperte delle neuroscienze che spinge a modificare totalmente il binomio "insegnamento-apprendimento"; 2) lo sviluppo delle nuove tecnologie dell'informazione e l'arrivo nelle scuole di generazioni di allievi cresciuti in un mondo modellato da queste tecnologie, i cosiddetti "Digital Natives". Le prossime riforme del sistema scolastico, quindi, dovranno tenere 26
nella dovuta considerazione le trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie di trattamento e distribuzione dell'informazione: "le ripercussioni sui comportamenti sociali, le pratiche culturali, i consumi mediatici e soprattutto sulle modalità d'apprendimento e d'accesso all'informazione sono, per quanto se ne possa sapere, oggi giorno più radicali e profondi di quanto non sia mai successo nel corso del secolo scorso. E il modo d'imparare e quello che si impara a scuola che è messo in discussione". New Millennium Learners
I curatori del volume ricordano un progetto (New Millennium Learners) del CERI (Centre for Educational Research and Innovation)-OCSE finalizzato a dimostrare che "l'emergenza di un nuovo tipo di discenti la cui lingua madre, in un certo senso, è il linguaggio numerico, ha un'influenza sull'educazione". Nella stessa direzione vanno anche gli studi delle neuroscienze sulle ripercussioni mentali, psichiche, neuronali, connesse alla difftisione dei media digitali. Altri tipi di studi svolti negli Stati Uniti si sono focalizzati sui comportamenti dei giovani che utilizzano i media digitali in contesti informali per analizzarne le implicazioni che se ne possono trarre dal punto di vista dell'apprendimento. Ne è emerso un aspetto significativo: "il passaggio da un atteggiamento prevalentemente 'consumistico' (come quello che prevale nella maggioranza delle scuole) ad uno partecipativo o costruttivi-
stico". Una ricerca svolta al JVlassachusetts Institute of Technology (MIT) mostra come almeno un terzo degli adolescenti che usa Internet condivide con altri il contenuto di quanto producono. Pur non incontrandosi mai fisicamente, questi ragazzi si conoscono bene e, soprattutto, danno peso ai loro prodotti che mettono in comune: "in questo modo si sta imponendo una concezione del tutto diversa della perizia, della competenza, del sapere e del modo d'apprendere. Colui che sa non è l'insegnante, il professore, ma il migliore tra i pari.., quel che cambia è il concetto di proprietà della conoscenza... Questa situazione obbliga a concepire modifiche sostanziali del modello vigente di produzione e diffusione delle conoscenze e quindi anche dell'istituzione scolastica che è una delle istituzioni che finora ha detenuto il monopolio dell'accesso al sapere, almeno a determinati tipi di sapere". Un insegnamento per la scuola In "Un giorno di scuola nel 2020" viene ricordato anche uno studio condotto dalla National Science Foundation (NsF) degli Stati Uniti da cui è emerso che se le nuove tecnologie fossero usate in modo appropriato "potrebbero potenziare le opportunità educative e diversificare metodi e strategie d'apprendimento, 'personalizzandoli". Per questo potrebbe essere necessario "costruire un'infrastruttura cibernetica per l'apprendimento e la ricerca... Internet è ormai ad un livello
sufficientemente avanzato per offrire strumenti inediti d'apprendimento e di lavoro non solo per la comunità scientifica ma per tutta la popolazione, di qualsiasi età e classe sociale Comprendere e indagare gli sviluppi di questa 'evoluzione' è fondamentale per la scuola". Non a caso negli Stati Uniti si stanno sviluppando le virtual schools: gli allievi, da casa, sono seguiti da insegnanti, da scuola o da casa anche loro, che elaborano programmi in formato elettronico; nell'anno scolastico 2009-2010 i ragazzi erano aumentati di un milione rispetto all'anno precedente. Mentre in Italia si sono sperimentate, sull'esempio delle "Teacher training schools" presenti nel sistema scolastico finlandese, le "scuole laboratorio", sempre con io scopo di promuovere dal basso la cultura dell'innovazione grazie alle nuove tecnologie, proprio perché "consentono di strutturare i processi discorsivi-cognitivi superando le barriere spazio-temporali". Il cambiamento epocaie inaugurato dalle Tic, se ben compreso, può agevolare la connessione anche tra tutti coloro che sono coinvolti nel processo educativo, con una modalità democratica che valorizza le competenze di ciascuno, come in un grande social network. E, comunque, al di là dei sistemi scolastici, si tratta della possibilità per ciascuno di poter utilizzare la tecnica come strumento per l'intersoggettività: poiché nessun uomo, come giustamente ci ricorda Donne, è un'isola. 27
queste istituzioni n. 162 luglio-settembre 2011
1011 è 1111 Paese per giovalli. La "bolla" demografìca italiava o il suo forte impatto socio-economico di F Saverio Ambesi Impiombato
n dall'antichità, ancor prima che iniziasse la Storia, la cre scita della popolazione umana è stata progressiva ma lenta, anche perché periodicamente decurtata da calamità di grandi proporzioni come epidemie, carestie e guerre. La Specie umana ha saputo comunque adattarsi a convivere con queste catastrofi storiche, come pure a vivere nei territori e climi più estremi, da quelli freddi oltre il circolo polare artico a quelli torridi dell'equatore. In ogni ambiente, in pianura o al mare, in montagna o su altipiani di oltre 3000 metri di altezza, l'Uomo ha preso il sopravvento su tutte le altre Specie viventi, dalle più piccole (batteri e virus, contro cui ha saputo sviluppare difese immunitarie spesso molto efficaci) alle più grandi e feroci.
La Storia dell'Umanità, una crescita espansiva Gli elementi determinanti per tutti questi successi sono probabilmente stati: - l'acquisizione della stazione eretta, che ha consentito di dedicare i soli due arti inferiori alla deambulazione e quindi di sviluppare altre e più importanti attitudini in quelli superiori; - l'opposizione del pollice, che ha consentito di sviluppare mani prensili e quindi lo sviluppo di strumenti per combattere e lavorare; - lo sviluppo del cervello, causa o forse conseguenza degli elementi precedenti; - l'acquisizione del linguaggio e poi della scrittura, che hanno permesso la comunicazione e la trasmissione di conoscenze ed esperienze;
L'autore è Ordinario di Patologia Generale presso l'Università di Udine.
- lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento, che hanno consentito il passaggio dal nomadismo alla residenzialità; - lo sviluppo della navigazione, che ha permesso lo sviluppo delle comunicazioni, del commercio e delle esplorazioni, anche a grande distanza. Le conoscenze scientifiche, dall'Astronomia alla Matematica, alla Medicina e alle altre branche del Sapere, hanno fatto il resto. Si è innescata una crescita esponenziale di scoperte e di eventi conseguenti, che ancora oggi è ben lungi dall'esaurirsi. Tutto ciò ha avuto e sta avendo un profondo impatto sulla crescita demografica e sul nostro stile di vita. Saltando direttamente ai tempi recenti, negli ultimi duecento anni, nonostante le due Guerre mondiali e numerose altre minori, nonostante che i vaccini, gli antibiotici ed altre scoperte siano state disponibili solo nella seconda metà del 1900, la popolazione mondiale ha avuto una crescita imponente. Il primo miliardo è stato raggiunto "soltanto" nel 1804, ma poi con intervalli sempre più brevi (rispettivamente di 123, 32, 15, 13 e 11 anni) si è passati a 2, 3, 4, 5 e 6 miliardi. Quest'ultimo risultato è stato raggiunto non molto tempo fa, nel 1987. Oggi, probabilmente un'inversione di tendenza Da quel momento, dal picco del 1987, sembra che, per la prima volta nella Storia, la velocità di crescita della popolazione umana abbia iniziato a rallentare. Ci sono voluti in-
fatti "ben" 13 anni per farci arrivare, nel 2011, a 7 miliardi. I motivi di questa inversione di tendenza sembrano essere molteplici, ma certo in questo hanno pesato significativamente la diffusione mondiale dei metodi di contraccezione e la decisione politica presa dalla Cina - il Paese attualmente più popoloso al mondo con una popolazione di 1,3 miliardi, corrispondente a circa il 19% della popolazione mondiale - di limitare obbligatoriamente il numero dei figli ad uno per coppia di genitori. Considerando tutte le variabili in gioco, i Demografi prevedono che dopo altri 14 anni raggiungeremo, nel 2025, gli 8 miliardi. E dopo altri 18 anni raggiungeremo, nel 2043, i 9 miliardi. Un bivio È oggi sempre più evidente che questa pur sempre imponente crescita della popolazione umana è soprattutto alimentata dalle regioni più povere del globo, come risulta evidente dall'esame dei differenti "Indici di Fertilità", ricavati dagli ultimi censimenti dei vari Paesi del mondo (Figura 1). L'Indice di Fertilità (IF) rappresenta il tasso di crescita di una popolazione, e corrisponde al rapporto tra il numero dei nati e quello delle donne nella stessa popolazione. Dal momento che occorrono due individui per generare la prole, per contribuire cioè alla successiva generazione questo rapporto deve essere almeno pari a 2,0 per assicurare una "Crescita 29
Zero", ovvero il mantenimento dello stesso numero di individui nel passaggio alle successive generazioni. Anzi il numero reale dovrebbe essere superiore a 2,0 di qualche decimale (es.: 2,01 o 2,02) in quanto alcuni individui, a causa della mortalità infantile e giovanile, non arrivano a loro volta all'età riproduttiva.
in estrema povertà nei Paesi meno sviluppati, e b) della popolazione anziana nei Paesi sviluppati. La criticità Italiana Questi cambiamenti demografici hanno già portato a conseguenze significative in Italia. Ma altri e più profondi
Fig. i - La crescita della popolazione mondiale, oggi.
Mentre in numerosi Paesi africani si raggiungono ancora oggi IF superiori anche a 7,0, nei Paesi europei e in altri Paesi sviluppati si riscontrano IF tipicamente vicini a 1,3 che indicano una significativa "decrescita" demografica. L'umanità sembra quindi essere oggi ad un bivio. La strada intrapresa dai Paesi sviluppati sembra divergere significativamente da quella dei Paesi più poveri. E stato previsto che questa forbice, destinata ad allargarsi nel tempo, porterà ad un aumento significativo: a) delle persone che vivranno 30
cambiamenti avverranno nei prossimi anni, probabilmente prima e maggiormente nel nostro Paese proprio per alcune nostre peculiarità demografiche. Tutto ciò potrebbe rapidamente portare a rilevanti, se non devastanti, conseguenze sociali ed economiche. Stranamente, la Stampa non sembra occuparsene, né la Politica preoccuparsene. Una diffusa conoscenza di questi fenomeni potrebbe invece portare a sviluppare per tempo opportune ed efficaci contromisure. La criticità italiana dipende soprattutto da due ordini di problemi,
da noi particolarmente rilevanti: la Bassa Fertilità e l'elevata Aspettativa di Vita. La Bassa Fertilità: il nostro attuale IF, di 1,3, è in leggera risalita dall'1,2 di qualche anno fa grazie soprattutto agli immigrati, che rappresentano attualmente il 10% della popolazione totale. Inoltre l'IF di diverse Regioni italiane, tipicamente nel Nord, è inferiore a 0,90. In molte di queste Regioni, questo fa prevedere che in assenza di altre variabili la popolazione autoctona sarà soppiantata nei prossimi 150 anni. L'elevata Aspettativa di Vita: le nuove conoscenze in ambito Biomedico, unite ad un'assistenza sanitaria generalmente di buon livello e socialmente ben distribuita, ha portato la popolazione italiana ai primi posti nel mondo per quanto riguarda questa variabile. Grazie soprattutto ad una drastica diminuzione della mortalità neonatale ed infantile, alle migliorate condizioni igieniche, ad una migliore alimentazione a partire dall'infanzia e alla Medicina Preventiva (vaccinazioni, diagnosi precoci, screening), nel corso dell'ultimo secolo la durata media della vita è aumentata da poco più di 40 anni agli attuali 83 anni per le donne e 78 anni per gli uomini. Questi valori sono tra i più elevati a livello mondiale. In questo caso, contrariamene all'IF, manca una stretta correlazione con lo sviluppo economico. Altri Paesi, oggi considerati ancor più avanzati rispetto all'Italia, come ad esempio gli Stati Uniti d'America,
hanno valori più bassi a causa di una minore socializzazione e distribuzione delle cure mediche, e forse anche per differenze genetiche. Per l'Aspettativa di Vita molti si attendono, specificatamente in Italia, un'inversione di tendenza dopo questo picco, soprattutto causata dall'aumento dellbesità infantile, un nostro attuale record europeo, maturato negli ultimi anni e dovuto a cause diverse, sia alimentari ("merendine" e altri alimenti ricchi di grassi e calorie) che attitudinali (poco movimento, pochi giochi all'aperto, troppa televisione e troppi videogiochi). Secondo la moderna Diabetologia, molti degli obesi infantili di oggi saranno destinati a diventare pazienti diabetici domani. L'aumento di patologie dell'anziano Oltre alla patologia diabetica molte altre patologie tipiche dell'anziano, in primis le patologie tumorali, sono destinate ad aumentare in maniera esponenziale con l'aumento dell'età media della popolazione italiana. Alcune di queste patologie (di nuovo le patologie oncologiche rappresentano l'esempio migliore ma non unico), sono oggi efficacemente curabili con diversi farmaci salvavita di nuova generazione, che però posseggono 3 caratteristiche che è necessario considerare con attenzione, per le loro rilevanti implicazioni sociali ed economiche: 1. sono farmaci molto efficaci in quanto, contrariamente alle terapie "classiche", consentono di recuperare non soltanto anni di vita, ma anche 31
un'ottima "Qualità di Vita", grazie all'assenza di importanti effetti collaterali; non eliminano la malattia, ma soltanto ne bloccano la progressione, peraltro con estrema efficacia, fintanto che vengono assunti nei dosaggi e con la frequenza giusti. Questo impone la necessità di continuare la terapia per sempre nei pazienti in cui essa si è dimostrata efficace, pena la ripresa della malattia poco dopo la sua eventuale sospensione; sono farmaci molto costosi (migliaia di Euro per ogni singola dose) in quanto frutto di ricerche avanzate e di sperimentazioni cliniche molto onerose per le Ditte farmaceutiche. Conseguentemente, la spesa annua supera spesso i 100.000 Euro per paziente. Già attualmente la spesa sanitaria assorbe oltre il 50% del budget totale su base regionale, e nella maggior parte dei casi questi nuovi farmaci non fanno parte del paniere "storico" delle spese sanitarie, quindi essi rappresentano un carico addizionale difficilmente gestibile. Per le loro caratteristiche salvavita ed in assenza di terapie sostitutive anche lontanamente paragonabili come efficacia clinica, la gestione di questi farmaci sta già creando problemi di forte impatto bioetico nella priorità di allocazione delle risorse pubbliche. E importante inoltre considerare che un aumento nell'Aspettativa di Vita comporta un forte aumento delle richieste, da parte della popolazione anziana in forte espansione demografica, tendenti ad aumentare la Qua32
lità della Vita. Gli anziani non desiderano soltanto sopravvivere, ma vogliono anche mantenere un ritmo di vita e di relazioni umane e sociali, nonché di attività sportive e ludiche, spesso ostacolate dagli acciacchi tipici dell'età. In questo scenario, le richieste di spese sanitarie da parte di individui in buone condizioni di salute, relativamente all'età, e i conseguenti costi sociali ed economici, sono destinati a crescere esponenzialmente. Ulteriori cambiamenti Infine in Italia la combinazione di queste due variabili, a) la fertilità particolarmente bassa e b) l'aspettativa di vita notevolmente elevata, provocherà notevoli variazioni nella distribuzione della popolazione italiana nelle varie fasce d'età. Oltre all'aumento di circa 3 volte degli ultraottantenni, questo porterà ad una drastica diminuzione del rapporto tra occupati e pensionati, che si sposterà dall'attuale 12:1 a circa 3:1 nel 2050. Anche un notevole aumento dell'età pensionabile non potrà controbilanciare un cambiamento di tale entità. Inoltre, un'eventuale significativa diminuzione della nostra popolazione totale, un fatto nuovo nella Storia e inatteso in quanto non previsto né preparato a livello politico e sociale, comporterà una significativa diminuzione della domanda, dei consumi e dei fabbisogni in termine di case, scuole, università, ecc. Una recente indagine dell'Università di Udine ha evidenziato che la popolazione dei diciottenni nel territorio, ovvero la po-
tenziale "domanda" di istruzione universitaria, risulterà dimezzata tra 20 anni, a meno che non intervengano altre variabili (aumento delle immigrazioni, dell'IF, della richiesta di istruzione superiore, ecc.). Altri scenari possibili Dopo aver dominato su tutte le altre Specie viventi, le ultime e le prossime, probabili conquiste della Scienza ci metteranno in grado, tra pochi anni, di determinare noi stessi le successive tappe dell'Evoluzione e delle tendenze sin qui considerate. Innegabilmente, siamo gli unici esseri viventi a conoscere come siamo fatti a livello microscopico, cellullare, molecolare e genetico. Dopo aver osservato e studiato, siamo già oggi in grado di intervenire. Sarà difficile, e secondo alcuni addirittura impossibile, lasciare alla Natura i tempi necessari per i processi evolutivi e per la selezione darwiniana, processi molto lenti ma anche molto sicuri. Addirittura, considerando che nella storia degli organismi viventi il destino finale di ogni Specie è sempre stata l'estinzione, potremmo essere chiamati a contrastare la Natura per salvaguardare la sopravvivenza dell'Homo Sapiens. Con le tecnologie della Genetica e del DNA ricombinante, tra pochi anni potremo operare anche nell'uomo quei cambiamenti che oggi già provochiamo negli animali "transgenici" e nella loro discendenza. Con i mezzi attualmente a disposizione, e ancor più con queffi prevedibilmente dispo-
nibili in tempi brevi (Terapie Geniche, Miglioramenti Genetici, Interazioni Uomo-Macchina, Clonazione Umana, manipolazioni dell'Orologio Biologico, ecc.), "Potere" non può più automaticamente significare anche "Volere". Questo però è un altro discorso, qui se ne accenna soltanto per non sconfinare nella Bioetica. Questa nuova Scienza ci potrà forse salvare dalla catastrofe, portandoci a riflettere per prevenire quelle manipolazioni che potrebbero, invece che salvare, provocare esse stesse la scomparsa della Specie umana in pochi anni. Se le applicazioni dei risultati scientifici saranno incontrollate, e saranno portate a modificare anche le cellule della linea germinale umana, cambiando quindi geneticamente la discendenza, è possibile che non vi sia una prossima generazione di esseri "Umani" come li conosciamo oggi. In questo scenario, che alcuni Futurologi anglosassoni indicano come "Hell Scenario" (hell = inferno), tutti i nostri problemi demografici sin qui considerati sarebbero drasticamente ma anche drammaticamente risolti. In un'altra ipotesi, che gli stessi autori chiamano "Heaven Scenario" (heaven = paradiso) tutto questo non avverrà, in quanto tutto andrà per il meglio e la Ragione prevarrà sempre. Nello scenario intermedio, il "Prevail Scenario", il buon senso "prevale". Per un maggiore approfondimento sulle possibili conseguenze dei più recenti risultati delle scienze Biomediche e su queste diverse possibilità, si rimanda al libro: "Radical Evolution" di Joel 33
Garreau, pubblicato in Italia da Sperling nel 2007. Il futuro è già iniziato Esaminando la Storia, la realtà attuale e i possibili scenari, emerge chiaramente che il futuro è già iniziato. Molte cose nella nostra Società stanno già cambiando in conseguenza dei significativi cambiamenti demografici in atto. Per una serie di circostanze, questi cambiamenti stanno avvenendo in maniera più rapida e più ampia in Italia, rispetto al resto del mondo e anche del resto dell'Europa. E grave che l'Opinione pubblica, la Stampa e la Politica sembrino oggi indifferenti, incapaci di prevedere e di prevenire accadimenti di così rilevante impatto sociale ed economico. Ancora più grave appare il fatto che oggi in Italia molte delle scelte sociali e politiche sembrano anzi destinate ad aggravare, piuttosto che a risolvere questi problemi. Preoccupa la scarsa attenzione ai problemi dell'occupazione giovanile, agli asili nido, ad un sistema bancario che non considera il precariato, alla liberalizzazione delle professioni, all'eradicazione del secondo lavoro troppo spesso in nero. Poche azioni in questo settore, anche se costose, potrebbero spostare di nuovo verso il basso l'età dei matrimoni e delle primipare, queste ultime oggi pericolosamente vicine alla menopausa.
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Preoccupa particolarmente lo scarso impegno ad investire in Cultura, settore che ha permesso al nostro Paese di dominare il mondo per molti secoli. Sulla Cultura è ancor oggi fondato l'avvenire, lo sviluppo e la stessa sopravvivenza di Paesi che, come l'Italia, mancano invece di materie prime e di altre risorse. Preoccupa ancor più la volontà apparentemente sistematica di erodere il sistema universitario italiano, oggi in agonia a) per la mancanza di risorse finanziarie per la Ricerca; b) per l'invecchiamento del corpo docente, già oggi di 15 anni più vecchio della media europea. L'Università, la più alta forma di Istruzione, Ricerca e (per tradizione millenaria) Innovazione, detentrice quindi del potenziale di Crescita e Sviluppo di un Paese, è in Italia già oggi un "posto per vecchi". E anche la base di partenza della "fuga dei cervelli". Un flusso a senso unico dagli elevatissimi costi sociali ed economici, dal momento che noi sosteniamo i costi dell'Istruzione, mentre altri ne godono i benefici. Solo ricominciando dalla Cultura l'Italia può ridiventare un Paese per giovani, e quindi avere un futuro. L'Università e i Giovani sono rispettivamente il Fulcro e la Leva per risollevare il nostro mondo. E non solo il nostro. Ma qui il discorso si fa lungo, p0tenzialmente oggetto di un'altra puntata.
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Una qualità desiderata 80111111 attestato di Francesca Moccia
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eggendo l'articolo di Ignazio Portelli "La mala qualità attestata o certificata" pubblicato nel numero 160-161 di queste istituzioni ho fatto diverse riflessioni che vorrei condividere con i lettori, essendo l'organizzazione a cui appartengo la promotrice della Carta della qualità in chirurgia alla quale nell'articolo si fa riferimento. La Carta nasce qualche anno fa come documento scritto a più mani e condiviso tra diversi soggetti (Cittadinanzattiva, Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani e Federazione delle Azienda sanitarie e Ospedaliere), per mettere insieme i "desiderata" di tutti in tema di sicurezza e qualità delle cure ospedaliere in ambito chirurgico. L'idea era di chiedere ai reparti di chirurgia di impegnarsi volontariamente a un miglioramento dell'assistenza, avendo come parametri i contenuti della Carta della qualità in chirurgia, intesa sia come atto
simbolico di alleanza tra cittadini, medici e aziende e strumento di lavoro per chi volesse migliorare il livello dell'assistenza. Un elenco di impegni La Carta, contrariamente a quanto si afferma nell'articolo, non è un riconoscimento per nessuno né una certificazione di qualità dei reparti, ma un elenco di impegni che la struttura ha deciso di prendérsi, anche solo in parte, nei confronti dei cittadini pur di stimolare all'interno un processo virtuoso di cambiamento, coinvolgendo il personale e riorganizzando percorsi. Ma la Carta permette anche alle persone ricoverate negli ospedali di avere un ruolo "attivo" durante la degenza in ospedale, di farsi ascoltare, di chiedere informazioni sapendo di averne diritto senza i timori che si hanno in queste situazioni, di segnalare a medici e dirigenti disservizi, di-
L'autrice è coordinatrice nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva.
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sattenzioni del personale, utili a tutti poiché un rischio ben governato evita un errore, ed è un bene per tutti che ciò avvenga. Uno strumento per i cittadini Cittadinanzattiva, attraverso l'impegno del Tribunale per i diritti del malato, opera in questo ambito da trent'anni e oggi vuole fornire sempre di più ai cittadini strumenti di empowerment per essere più capaci di interagire con i servizi sanitari in modo costruttivo, ma anche di chiedere, di protestare quando serve e di avere giustizia se qualcosa non ha funzionato davvero. Lo fa con gli strumenti che ha a disposizione una organizzazione che fonda sul volontariato buona parte dell'assistenza ai cittadini e che raccoglie fondi, come tutte le organizzazioni, per fare campagne e progetti coerenti con la sua mission.
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In particolare, le varie campagne promosse negli anni per la sicurezza e la qualità delle cure hanno portato a cambiare molte cose negli ospedali e nei reparti, anche il livello di percezione dei cittadini rispetto a problemi che altrimenti sarebbero rimasti per addetti ai lavori, così come era anni fa per tutto il tema della qualità e della sicurezza delle cure. Per maggiori informazioni si rimanda al sito wwwcittadinanzattiva.it . In fondo, tranne qualche passaggio di inaccettabile accusa nei nostri riguardi, la segnalazione del dott. Porteli dimostra che la Carta della qualità funziona davvero con i cittadini, che ha raggiunto uno dei suoi scopi, che è ancora attuale e che resta ancora da fare, per continuare a pungolare strutture e personale sanitario e per tenere alta la guardia sul governo della sicurezza e sulla prevenzione dei rischi sempre presenti.
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Servizio sallitario: pregill4izio e orgoglio* di Vittorio IVIapelli
ul Taccuino dello scorso numero, il 160-161, abbiamo pubblicato un intervento del nostro amico e collaboratore Ignazio Portelli perché con la sua consueta capacità di analisi e di coinvolgente narrazione ha voluto testimoniare un'esperienza personale di «malasanità' denunciando la presenza di attestazioni di qualità tutte da dimostrare. La risposta di Cittadinanzattiva-Tribunale dei diritti del malato precisa che ciò che Portelli ha presentato come un attestato è in realtà una Carta di intenti, un modello di qualità che i servizi - che dichiarano di aderirvi -, si impegnano a rispettare. Si tratta di due esempi emblematici della situazione del nostro Servizio sanitario nazionale su cui ci sembra opportuno ricordare, comunque, quanto di seguitd sottolinea Vittorio It/Iapelli.
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La sanità secondo gli italiani Gli italiani non amano il servizio sanitario nazionale per l'eccesso di burocrazia, la disorganizzazione endemica dei servizi, le lunghe liste d'attesa, le code in ambulatorio, la mancanza di informazioni. Se si guardano i dati si scopre invece che il SsN è un sistema che garantisce una speranza di vita tra le più alte al mondo e un tasso di mortalità standardizzato tra
i più bassi in assoluto. Anche sulla disabilità abbiamo ottimi risultati. Eliminare sprechi, inefficienze e tangenti è sacrosanto. Ma dobbiamo imparare ad apprezzare le nostre eccellenze. Pronti soccorsi affollati, sprechi, tangenti ai politici, liste d'attesa lunghissime. E questa la sanità italiana? Nell'immaginario collettivo è senza dubbio questa, ma la sanità vera per fortuna è altra cosa. Gli italiani danno un giudizio severo sul Servizio sani-
Vittorio Mapelli è professore associato di economia sanitaria presso l'Università degli studi di Milano. E' stato Presidente dell'Associazione Italiana di Economia Sanitaria.
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tario nazionale e da sempre ne hanno un'immagine negativa. Ma conoscono solo mezza verità.
servizi sanitari pubblici è molto alta (61 per cento), in particolare per i tempi di attesa e la qualità dell'assistenza ospedaliera3 Eppure, tra le persone che hanno fatto esperienza diretta dei servizi, la percentuale di chi è soddisfatto è molto elevata: 88 per cento per l'assistenza medica e infermieristica ricevuta durante il ricovero, 68 per cento per il vitto, 78 per cento per i servizi igienici4. E, nonostante tutto, l'85 per cento degli italiani oggi dopo trent'anni - non vorrebbe un sistema diverso dal SsN5 Gli italiani non amano il lòro servizio sanitario per l'eccesso di burocrazia, la disorganizzazione endemica dei servizi, le lunghe liste d'attesa, le code in ambulatorio, la mancanza di informazioni. Sul servizio sanitario pubblico pesa ancora l'ombra della "malasanità", delle truffe antiche e recenti che'periodicamente emergono, degli episodi di "maipratica" medica, fino a pochi anni fa tenuti nascosti, ma oggi denunciati al Tribunale dei diritti del malato. Non amano la doppia morale dei medici e degli ospedali, che a pagamento permettono di aggirare le code e ottenere all'istante una prenotazione che richiedeva mesi. Non amano l'ingerenza dei partiti nella nomina dei direttori e nella gestione della sanità. .
Un sondaggio europeo Secondo un sondaggio dell'Unione Europea, gli italiani soddisfatti per la qualità dei servizi sanitari sono appena il 54 per cento, rispetto all'87 per cento degli inglesi e al 91 per cento dei francesi 1 . Solo in Portogallo, Grecia (25 per cento) e nei Paesi dell'Est europeo si riscontrano percentuali più basse. Secondo un altro sondaggio della Gailup tra i Paesi OcsE, solo il 53 per cento degli italiani ha fiducia nel sistema sanitario, peggio che in Turchia (67 per cento ) e Messico (74 per cento), e ben lontano da Francia (83 per cento) e Regno Unito (73 per cento). La disistima degli italiani è tale che solo il 15 per cento giudica il proprio servizio sanitario migliore di quello altrui, contro il 55 per cento dei francesi e il 53 per cento dei tedeschi. Anzi, il 37 per cento ritiene che sia peggiore di quello di altri Paesi. Gli italiani non sembrano entusiasti della qualità dei servizi pubblici, anche se li promuovono. Solo il 34 per cento giudica di buona qualità lbspedale e il pronto soccorso, il 43 per cento il medico di famiglia, il 32 per cento gli ambulatori e consultori 2. Le percentuali superano il 90 per cento includendo i giudizi di sufficienza. L'indagine Eurispes Secondo un'indagine Eurispes, l'insoddisfazione degli italiani per i
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I dati oggettivi Il quadro cambia radicalmente, però, se si guarda ai dati oggettivi del sistema, non alle percezioni degli intervistati. Il SsN è un sistema che garantisce una speranza di vita tra le più
alte al mondo (81,8 anni nel 2009, al terzo posto dopo Giappone e Svizzera) e un tasso di mortalità standardizzato tra i più bassi in assoluto (483,3 per lOmila abitanti, al quarto posto) 6. La speranza di vita aggiustata per la disabilità (Hale) è la terza al mondo (74 anni nel 2008) e gli anni persi per morte prematura o svalutati per la disabilità (Daly) sono i più bassi (8.985 per lOOmila abitanti), dopo il Giappone 7. Anche se i più perfidi possono insinuare che sia merito della geografia, del clima e della dieta mediterranea, la mortalità attribuibile (amenable) al sistema sanitario smentisce questa tesi, confermando che l'Italia ha un sistema sanitario di eccellenza, collocato al terzo posto al mondo, dopo Francia e Islanda, secondo i criteri di Nolte e McKee (65 decessi evitabili per lOOmila abitanti) 8 La Germania figura al sedicesimo posto, il Regno Unito al dician-
novesimo e gli Stati Uniti al ventiquattresimo posto. L'Italia è sempre ai primi posti nelle classifiche internazionali. E dunque, di che cosa si lamentano gli italiani? Pochi conoscono queste statistiche, che ci dovrebbero rendere orgogliosi e fare amare il nostro servizio sanitario pubblico. Una grande conquista di civiltà e un crogiolo di identità nazionale. Certo, c'è la sanità del Nord e del Sud, ma ogni Paese ha il suo Mezzogiorno. E ogni Paese ha i suoi scandali, i suoi sprechi, la sua malasanità. Compresi gli Stati Uniti, dove tutto è anche più grande (da 500 a 800 miliardi di sprechi all'anno) 9. Eliminare sprechi, inefficienze e tangenti è sacrosanto e va fatto subito. Ma forse è il momento che ci riconciliamo con noi stessi e impariamo ad apprezzare le nostre eccellenze.
*Ajcolo pubblicato su lavoce.info il 03.05.2012
'European Commission, Patient safety and quality of healthcare, Special Eurobarometer, 327, Brussels 2010. 2 Ministero della Salute, Cittadini e salute. La soddisfazione degli italiani per la sanità (Indagine del CENSIS), Quaderni del Ministero della Salute, n. 5,2010. 3 EuRJSPES, Rapporto Italia 2010, Roma 2011. ISTAT, La Vita quotidiana nel2009, Roma 2010. Sondaggio effettuato da Salute-La Repubblica,11 dicembre 2008.
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OECD, OECD Health Data, 2011, Paris 2011. Rispettivamente, OECD, Family Database, Paris 2011; e World Health Organization, The global burden ofdisease: 2004 updafe, Geneva 2008. 8 GAYJ.G., Pius V., DEVAUX M., de LOOPER M. Mortality amenable to health care in 31 OECD countries, OECD Health Working Papers, n. 55,2011. M. Fox, Healthcare rystem wastes up to 8 800 biiion ayear, Health and Science Editor, Washington, Oct 26,2009.
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Dibattito e azioue politica alla prova della Grailde €risi enropea
uesto dossier nasce nel contesto più ampio dell'esigenza, sempre più pressante, di riflessione sulle caratteristiche della Grande Crisi che sta vivendo l'Europa. Alla ricerca delle sue cause, ma soprattutto, per comp renderne gliffetee/ineare le soluzioni per evitarne almeno quelli più disastrosi. Il ruolo delle classi dirigenti politiche europee diviene quanto mai rilevante. Per questo abbiamo scelto di ripresentare degli articoli di Giuseppe Berta già pubblicati - "Ilfardello delle idee dominanti" e "La crisi e i limiti della sinistra europee"che condividiamo e che crediamo esprimano ragioni in corso di affermazione dffusa. Con lo stesso spirito ci piace dare eco al discorso, tenuto alla conferenza nazionale della SPD il 4 dicembre 2011 da Helmut Schmidt, il Cancelliere di un'epoca storica ormai lontana che dopo decenni ha sentito il dovere di far risentire la sua voce nell'arena socialdemocratica. E riprendiamo a parlare di Partito Democratico italiano, anche se ad affrontare certe questioni, come lo stato presente efuturo de/più grande partito di centrosinistra del nostro Paese, facendo propri i criteri suggeriti dal giorno per giorno, dovremmo provvedere ad aggiornare molti degli scritti che presentiamo. O dovremmo considerarli superati. lt/la se i criteri de/quotidiano enfatizzato stucchevo/mente da giornali e blog non sono quelli giusti, come a noi sembra, la prosecuzione di un dibattito come quello sul PD, - iniziato sul n. 155 (ottobre-dicembre 2009) eproseguito sul n. 160-161 (gennaio-giugno 2011) - va presa per ciò che signjfica: la questione è grossa, non può essere lasciata alla deriva delle battute e controbattute. Quel che tuttavia servirebbe a tutti è estrarre dalle varie opinioni le indicazioni dei punti di approfondimento ritenuti importanti. Pur quando si discute con intenzioni di giungere a qualche chiarezza di proposizioni analitiche epropositive, la tentazione è quella di parlare esponendo una propria linea più che criticare quella proposta per sopravanzarla. Sono d'accordo, non sono d'accordo su questo punto
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o su quest'altro. Alcuni nuovi interventi seguono questa linea, altri meno. Dovremmo allora proseguire noi ad elaborare un documento utile per andare avanti. Ci penseremo. Intanto quel che la prosecuzione degli interventi sul PD testimonia è, ru1petiamo, l'importanza della questione: come mantenere vitale in Italia un soggetto politico di centrosinistra che rappresenti una rilevante percentuale della popolazione che vota. Tanto piÚ oggi che il momento storico sta chiamando imperi osamente le forze politiche ad una politica europea realmente transnazionale.
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dosier
Il hirdelle delle idee domillailti * di Giuseppe Berta
Le ricette anti-crisi finora presentate ripropongono lo stesso modello economico astratto e "globale" in augeda decenni, e puntano su misure per la ripresa atemporali e decontestualizzate. E tempo di riconsiderare le troppe idee che abbiamo ereditato; è tempo di recuperare la storia. la pagina finale della "Teoria generale"? "Le idee degli ecoTì icordate nomisti e dei filosofi politici ( ... ) sono più potenti di quanto comuemente si ritenga. Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato, in confronto con l'affermazione progressiva delle idee". E concludeva Keynes: "Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia nel bene che nel male Qieste parole, scritte quando la crisi degli anni trenta ancora imperversava, suonano o no attuali oggi? Probabilmente sì, a giudicare dalla povertà delle ricette che sentiamo consigliare ogni giorno come rimedio alla crisi attuale. Un rapido raffronto sarebbe sufficiente a confermare che le terapie suggerite quando i nostri sistemi economici sembravano ancora funzionare al meglio non differiscono, nel loro nucleo profondo, da quelle che sentiamo ricapitolare continuamente e che sarebbero utili, dunque, a riacquistare la virtù economica perduta. Sembrerebbe che un set fondamentalmente inalteL'autore è Docente Associato presso il Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico, Università Bocconi, Milano. sGià pubblicato in "il Mulino" n. 6/11 43
rabile di precetti sia sopravvissuto indenne ai rivolgimenti della crisi, tanto che, applicato oggi, varrebbe a curare i mali delle nostre economie esattamente come, prima che la crisi deflagrasse, appariva idoneo a garantire il miglior funzionamento possibile della macchina della crescita. Al suo centro permane il postulato che l'interesse privato sia in quanto tale più lungimirante dell'interesse pubblico, come se si trattasse di una sua dote naturale. E che perciò una politica di restituzione o di passaggio al mercato di quanto in precedenza era stato affidato alla mano pubblica debba automaticamente produrre risultati migliori e assetti organizzativi più efficienti e trasparenti. I costi di transazione sono, per definizione, sempre migliori e più vantaggiosi rispetto ai costi di coordinamento. Una lettura semplificata di Hayek suggerisce poi, allora come adesso, che i meccanismi di mercato incorporino un grado più alto di conoscenza rispetto ad altre forme e altri processi di regolazione. Non sembra che i tre lunghi anni della crisi attuale abbiano inciso significativamente su queste convinzioni, che, non a caso, ritroviamo intatte nelle prescrizioni delle riforme da porre in atto, là dove si sia prodotto un inceppo grave dei meccanismi economici e si sia arrestata la capacità di generare ricchezza. Nemmeno desta stupore il fatto che, di fronte all'ampiezza dei problemi odierni, i correttivi che vengono invocati siano, in fondo, così semplici. Basta davvero una serie di misure di liberalizzazione e di privatizzazione a creare una dinamica concorrenziale così intensa da sbloccare società in cui si registra un pesante deficit di mobilità? O non si dovrebbe guardare piuttosto a una distribuzione del reddito troppo squilibrata e ineguale che corrode i processi di ricambio sociale? Secondo la precettistica che ancora domina, sappiamo già la risposta: è vero che la distribuzione del reddito frena il cambiamento sociale, ma il modo migliore per intervenire su di essa è far agire la concorrenza, lo strumento principe per ricreare un equilibrio e per far sì che esso non si cristallizzi in un assetto difficile da modificare in seguito. Ciò che colpisce di più in questa precettistica economica è che essa non nega affatto la consistenza dei problemi che abbiamo di fronte e la loro portata, ma pretende di risolverli attraverso strumenti e pratiche troppo limitati rispetto alla realtà che dovrebbero modificare. Eppure, sono di questo genere le idee dominanti del nostro tempo, quelle che vengono ripetute nei consessi internazionali dedicati ai maggiori problemi economici e che riscuotono consenso tanto presso le banche centrali quanto presso gli opinion makers più influenti. Non a caso, si ha spesso l'impressione che le risposte e le possibili soluzioni a questioni enormi siano estremamente semplici o come tali possano essere rappresentate. Da che cosa dipende la fortuna di quello che costituisce, a tutti gli effetti, un grappolo limitato di idee? Forse proprio, per un verso, dalla sua intima semplicità e, per l'altro, dalla sua atemporalità e dalla sua decontestualizzazione. La storia, la geografia, la varietà delle tradizioni culturali vengono con-
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siderate, in questa logica, come degli accessori poco importanti. Ciò che ha risalto, invece, fino al punto di essere considerata come una garanzia di efficacia di questi principi, è la loro astratta universalità. Ogni determinazione conta poco, alla fin fine, se tutto si riduce a un postulato semplificato della natura umana, dei suoi abiti di condotta razionale e della capacità di calcolo e di valutazione degli interessi. Paradossalmente (ma non troppo, forse), il carattere globale della crisi che stiamo vivendo convalida l'impressione d'efficacia delle idee dominanti. Era così anche prima, beninteso, quando della globalizzazione si coglievano soltanto i frutti positivi. Ma uno degli elementi di novità maggiore della crisi odierna sta proprio nel non aver contraddetto la dimensione globale dei processi economici. A differenza di quanto avvenuto in passato, alla crisi non si è reagito con una riduzione del grado di apertura dei mercati. Da questo punto di vista, ciò che si è temuto all'inizio non si è verificato: quasi nessuno ha invocato la chiusura protezionistica come un antidoto alla crisi. Tuttavia, ciò ha fatto sì che restasse in piedi, senza alcuna revisione effettiva, il nucleo di principi affermatosi e diffusosi proprio con l'allargamento dei confini dell'economia internazionale. Un corpus di idee indifferente alle realtà specifiche dei contesti che pure prendeva e prende come riferimento. In concreto, ne è derivata una cancellazione pratica della storia. Come se il passato e la specificità dei modelli nazionali di sviluppo non contassero nulla e, raggiunto un certo grado di crescita, dovessero valere gli stessi criteri per tutti. Così, dinanzi alla constatazione che l'Italia cresce meno da vent'anni a nessuno viene in mente di considerare che questo possa discendere da un abbandono dei caratteri su cui si è eretto il suo sistema economico. A distanza di vent'anni dalla crisi di Tangentopoli, non ci siamo ancora decisi a esplorare il percorso che ha portato a estinguere il sistema politico emerso dopo la seconda guerra mondiale, in simultanea con la decadenza dell'assetto economico e imprenditoriale che ne aveva guidato lo sviluppo. In concomitanza con la caduta di quel sistema politico, si veriflcarono anche lbbsolescenza e il declino di una struttura economica su cui si era fondato il modello italiano. Dell'una e dell'altro si decretò il superamento, bollando entrambi di inadeguatezza. Il sistema politico italiano è stato rappresentato come anomalo perché non contemplava la condizione dell'alternanza e non permetteva una concorrenzialità fra i partiti maggiori; la struttura economica appariva poco evoluta perché fondata su un controllo gerarchico dei mercati che la portava a preferire le protezioni interne invece che l'apertura e la proiezione internazionali. E fin troppo ovvio che la critica coglie nel segno e pone in evidenza uno scarto dell'esperienza italiana rispetto ai modelli occidentali. E meno scontato, forse, che la correzione delle anomalie dovesse passare di necessità attra45
verso la soppressione dei caratteri fondamentali della storia italiana, quale ad esempio una forma di economia mista fondatasi dallrigine sull'intreccio fra pubblico e privato, fra intervento statale e imprenditorialità privata. Eppure, la gran parte della vicenda dell'Italia unita si era svolta all'insegna di questo paradigma, che aveva evidentemente bisogno di continui aggiustamenti e di un'occhiuta vigilanza affinché non degenerasse, ma che non di meno aveva orientato la crescita del nostro Paese. Per un decennio e più, inoltre, il modello italiano aveva segnato il passato e si era anche reclinato su se stesso. Non c'è dubbio infatti che dalla fine degli anni settanta ai primi anni novanta avesse mostrato crepe e lacerazioni tali da alimentare serie perplessità sulla sua tenuta. Ma è altrettanto vero che, abbandonato quel profilo, non ne è emerso nessun altro capace di rimpiazzarlo. Il risultato è la mancata o carente crescita degli ultimi yent'anni. Un periodo trascorso all'insegna delle esortazioni virtuose a fare come gli altri, perciò a seguire una traccia e un'ispirazione di matrice anglosassone, indicate approssimativamente e per sommi capi. Non c'è da stupirsi che non ne sia scaturito, alla fin fine, granché di buono. Fin qui la crisi non ha sospinto a riflettere sulla storia delle nazioni che ora si trovano, per così dire, in bilico, con un destino sospeso, in un vuoto di programmi che testimonia soltanto della scarsa efficacia del ricorso alle idee astratte. Tutto questo, naturalmente, non conduce affatto a sostenere che non sia necessario, urgente e doveroso riformare il mercato del lavoro italiano o che non si debba intervenire sulle distorsioni e sui ritardi del nostro sistema previdenziale e assistenziale. Tutt'altro. Ma le cosiddette "riforme" avrebbero probabilmente un ben diverso grado di efficacia se muovessero da una ricognizione preliminare del percorso di sviluppo dell'Italia unita. Che non si può leggere soltanto come una deviazione rispetto a un corso idealmente corretto, cui d'ora in avanti ci si deve attenere.
Rivedere le idee dominanti Se il paradigma con cui interpretiamo i fatti e le tendenze economiche non è mutato rispetto a prima della crisi, molto dipende dalla sua refrattarietà a misurarsi con la storia. In precedenza, esso si limitava a indicare come la performance economica di una nazione potesse essere incrementata grazie al riferimento a criteri di evoluzione validi per tutti. Dopo la crisi, si sono presi in considerazione soltanto gli anni più recenti, mettendone in luce inadeguatezze e vizi presunti, ma prescindendo totalmente dalle specificità dei percorsi nazionali. Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna sono così progressivamente finiti sul banco degli imputati, incolpati tutti di essersi discostati da modelli di condotta economica razionale. Ma la loro storia è tutto fuorché omogenea, così come il loro presente differisce in maniera radicale. Per recu46
perarne il ruolo servirebbe agire sui loro caratteri fondamentali, sulle specifiche leve di sviluppo, senza pretendere di assoggettarle tutte a una disciplina omogeneizzante che ne farebbe smarrire le specificità e i punti di forza. Allo stesso modo, è fin troppo evidente che la soluzione di impartire delle severe regole di disciplina accentua lo scollamento rispetto alla pratica della democrazia. In passato, l'adesione all'area dell'euro è stata sicuramente vista come una condizione di status, un po' come nella globalizzazione di fine Ottocento lo era l'ingresso fra i Paesi del gold standard. La moneta è diventata così un fine in sé, invece di ciò che doveva originariamente essere: un mezzo per l'integrazione istituzionale dell'Europa. Ma oggi non si può raddrizzare questo difetto facendo ancor più della moneta unica un obiettivo finale, che prescinde totalmente dalla costituzione di una federazione europea, in cui ogni Stato dovrebbe trovare le risorse e le potenzialità per il proprio sviluppo. Il pericolo più serio è quindi che la storia, così trascurata e relegata ai margini, finisca per vendicarsi, stimolando una rivolta dagli esiti distruttivi contro una disciplina europea avvertita come astratta, astorica, deterritorializzata. La cancellazione progressiva di ogni ispirazione federalistica rischierebbe di provocare una reazione tale da mettere in mora per molto tempo ogni progetto di costruzione europea, ostacolando per giunta i tentativi di trovare una via d'uscita condivisa dalla crisi. Un rischio tale da suggerire di per sé una revisione delle troppe idee consolidate che abbiamo ereditato dal passato. LA CRISI E I LIMITI DELLA SINISTRA EUROPEA**
Uno degli effetti più visibili della crisi sta nell'aver paralizzato la capacità d'azione della sinistra europea, stingendone ulteriormente i già labili programmi e svuotando i suoi propositi di riforma. La sinistra appare risucchiata entro le catene di un'ortodossia economica che spesso non sembra nemmeno scaffita da una situazione economica sfuggita di mano. Anzi, mentre negli Stati Uniti non si è rinunciato alla prospettiva di dare corso a politiche espansive, in Europa continua a prevalere la linea del rigore ispirata in primo luogo dalla Bundesbank e dalla Germania. Quando i vincoli tendono ad allentarsi, non è certo perché sia subentrata una qualche volontà di riprendere la costruzione europea, ma soltanto perché le grandi banche rischiano di essere pregiudicate dai titoli dei debiti sovrani che hanno accumulato. Allora, ma solo allora, traspare un po' di resipiscenza di fronte al mantenimento di un'intransigenza alimentata e dispiegata per intero quando si profila la possibilità di default per le nazioni più deboli dal punto di vista finanziario.
Già pubblicato in "Italianieuropei", 22 Novembre 2011 47
In questa cornice, la sinistra risulta singolarmente incapace di distinguersi dalle politiche predominanti, scegliendo al massimo la via della reticenza. A tutt'oggi, in campo economico e sociale, la sinistra europea o costituisce una semplice variante, affidata a elementi non sostanziali, del paradigma economico vigente o si attiene a una sorta di prudente e preoccupante silenzio, come a volersi defilare (è questo il caso del PD, che ha rinunciato ad affermare una posizione alternativa a quella del governo, anche nei momenti peggiori e di più grave sbandamento di quest'ultimo). E evidente che la credibilità di una proposta di riforma è minata alla base da un'incertezza tale da togliere credibilità politica alle forze di alternativa. Che non si tratti affatto, tuttavia, di un problema italiano e che l'impasse riguardi il complesso delle forze progressiste continentali è facilmente verificabile. Si consideri emblematicamente ciò che è avvenuto alla Conferenza annuale del Labour Party, svoltasi a Liverpool fra il 25 e il 29 settembre: unccasione mancata, a detta di molti commentatori, per Ed Miliband, che non è riuscito ad accreditarsi come leader di governo, pur in presenza delle grandi difficoltà dell'esecutivo di coalizione fra conservatori e liberali guidato da David Cameron. Proprio nella settimana della Conferenza laburista, un sondaggio rivelava che il partito di Miliband regrediva nei consensi rispetto al governo, tornato in testa alle preferenze degli elettori, seppure di poco (la rilevazione indicava un rapporto di 37 a 36). Un segnale esplicito, che indicava come il Labour Party non abbia fin qui saputo trarre vantaggio dalle insufficienze mostrate dalla coalizione al potere, punteggiata da elementi di contrasto fra Cameron e il suo vice Nick Clegg, leader dei liberali. Dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair e il declino vissuto con Gordon Brown, i laburisti non sono riusciti a ritrovare un'identità. Se il New labour blairiano è morto, come in tante occasioni ha ricordato Ed Miliband, non ha ancora preso forma un modo di far politica in grado di sostituirsi efficacemente a quello che è tramontato. Basta leggere la relazione che Miliband ha presentato a Liverpool il 27 settembre per rendersene conto. L'impegno a favore della giustizia sociale e all'eguaglianza, richiamato più volte nel discorso, non si lega ad alcuna definita riforma economica. Miliband si è preoccupato soprattutto di scuotersi di dosso la fama di inaffidabilità, che era stata gettata addosso al suo partito nel passato, antico e recente. I laburisti soffrono ancora perché i loro governi sono stati consegnati alla memoria per la tendenza alla spesa facile, al punto che Miliband ha badato a sottolineare che in futuro ogni sterlina che verrà spesa lo sarà nella maniera più saggia. E ha messo le mani avanti, anticipando che un eventuale governo laburista non potrebbe rovesciare i tagli introdotti dai conservatori e reintrodurre i provvedimenti da loro cancellati. Ma allora, dove far valere le differenze per conquistare il voto di un elettorato di sicuro turbato dalle misure di riduzione della spesa pubblica imposte dal governo di conservatori e liberali? ED
Quale ricetta per lo sviluppo? La prima risposta è - purtroppo! - di tipo retorico, la stessa che si sente evocare spesso, in questi giorni, dai partiti di opposizione un po' ovunque: non si può affrontare il problema del debito senza prendere di petto quello della crescita economica. Un giusto principio, che presenta tuttavia il difetto di stentare a trovare i mezzi per potersi tradurre in pratica. Nemmeno Ed Muliband, naturalmente, ha una ricetta precisa per rilanciare lo sviluppo della Gran Bretagna. La sua è stata un'esortazione singolarmente priva del riferimento a un nucleo di politiche concrete, che le potrebbero conferire sostanza. Il cuore della relazione di Miliband è costituito dall'idea di un new bargain, un nuovo contratto, fondato sullo scambio tra l'impegno a lavorare sodo e la giusta ricompensa che ciò deve procurare. Contiene una critica piuttosto esplicita non solo ai tempi passati, quando si è spezzato il rapporto fra gli sforzi compiuti e il guadagno con cui essi vengono remunerati, ma agli stessi esecutivi laburisti, che hanno permesso, per esempio, che la finanza si accaparrasse una quota troppo elevata della ricchezza nazionale, a scapito dell'industria. C'è dunque un principio di giustizia sociale che è andato smarrito e che bisogna restaurare. Occorre rovesciare, dice Miliband, "il trionfo della finanza sull'industria" e "la vittoria degli interessi consolidati sull'interesse pubblico". Si deve recuperare, in primo luogo, il criterio secondo cui vanno remunerate di più le attività che creano ricchezza per coloro che vivono nel Paese e restano radicate nelle comunità, che operano con senso di responsabilità nei confronti dei dipendenti, che creano valore effettivo e durevole (non quello volatile della finanza). Perciò il Labour Party vuol essere, sostiene il suo leader, un partito a favore del business (e del resto, aggiunge, non c'è partito che oggi non dichiari una simile propensione), ma occorre saper discernere fra il business che crea ricchezza e la diffonde e quello che invece si appropria della quota maggiore, incurante delle conseguenze. La scelta sarebbe per i soggetti economici che formano lavoratori più specializzati, che investono e inventano prodotti, processi e servizi nuovi per venderli poi in tutto il mondo. Nelle fila dei produttori, lVliliband colloca sia la manifattura di alta qualità sia le piccole imprese che stentano ad avere accesso al credito. Ma vi rientrano altresì le imprese che subiscono la concorrenza internazionale di altre imprese supportate dai loro governi, mentre lo Stato inglese preserva la propria condizione di neutralità. Così il Labour Party riscopre le sue radici nel lavoro, nel senso di rappresentare tutti i soggetti che sono attivi nel processo di creazione della ricchezza. Con l'ovvia conseguenza di postulare "la cooperazione e non il conflitto nei luoghi di lavoro". Miliband si spinge oltre su questa strada, fino a riconoscere che gli interventi nell'ambito della politica del lavoro dell'età di Margaret Thatcher erano giusti e motivati, sicché non andranno modificati: il closedshop (cioè la sin-
dacalizzazione obbligatoria come effetto del contratto collettivo) era un istituto sbagliato, così come errati erano gli scioperi dichiarati senza referendum preventivo. Simili misure di modernizzazione, ereditate dall'epoca Thatcher e lasciate intatte da Blair, non sono quindi in discussione. Ma su che cosa si fonda, allora, la spinta all'eguaglianza sociale continuamente rivendicata come missione specifica del Labour Party? Su un grappolo di valori egualitari, sembrerebbe, che sono più o meno queffi già ricordati: dal senso di responsabilità al commitment sul lavoro e nell'impresa, fino al principio della ricompensa ottenuta in cambio di un duro sforzo (un modo per rilanciare e attualizzare l'antica rivendicazione di un equo salario per un'equa giornata di lavoro, risalente all'origine lontana del movimento operaio inglese). Ma si tratta soltanto di parole, in fondo retoriche, come la difesa del valore del servizio sanitario nazionale, la più importante delle creazioni del laburismo nell'ambito del Welfare State. Poco, quasi nulla viene detto circa i mezzi che dovranno essere impiegati per conseguire quel cambiamento della società indicato come necessario. E soprattutto: si possono raggiungere obiettivi come questi operando nella rigida cornice di politiche del rigore come quelle cui esortano a uniformarsi le istituzioni europee? Si può fare quanto asserisce Miiiband con i vincoli di spesa pubblica che sono stati fissati? Infine: concedere più spazio al mercato nella determinazione delle politiche economiche e sociali non entra in contraddizione con gli scopi di giustizia sociale, se non si ricorre a nuovi istituti di regolazione, pur diversi da quelli del passato? Su tutti questi aspetti, che racchiudono altrettante domande fondamentali, Miliband è assolutamente silente. Così, da una parte, non smentisce l'idea che il laburismo, una volta tornato al governo, possa configurarsi come il partito della spesa pubblica; mentre, dall'altra, non assegna una praticabilità concreta ai valori che ostenta di professare. Si ha l'impressione che Miliband abbia compiuto un viaggio a senso unico dalla politica - la politica economica, in special modo - ai valori, lasciando un senso di indeterminatezza che è di scarso ausilio al rilancio laburista. La genericità della sua relazione - accentuata dalla tecnica di far seguire le une alle altre frasi brevissime, scandite come slogan - va messa probabilmente in relazione alla scelta di parlare soltanto dei problemi inglesi. In un'epoca di interdipendenze, quando lbrizzonte internazionale sovrasta completamente gli scenari nazionali, l'errore di Miliband è di parlare ai suoi concittadini come se quello che sta capitando nel mondo non avesse potere condizionante sulla politica britannica. Non cita, nel suo testo, né gli Stati Uniti né l'Unione europea. Quel che avviene al di là della Manica è evocato soltanto indirettamente, in particolare per le conseguenze dannose che può scatenare (come nel caso dell'immigrazione). Non c respiro né visione internazionale: un deficit capitale per un politico che si candida alla testa di un Paese da sempre coinvolto nelle questioni diplomatiche e militari del mondo. Il termine "socialdemocrazia" non ricorre mai fra le parole usate da 50
IVliliband (che si pone per questo riguardo su un asse di continuità con i suoi recenti predecessori). Ma nòn c dubbio che qui e là affiori il desiderio di non recidere i legami con la storia, come testimonia l'insistenza sul tema dell'eguaglianza e della giustizia sociale. Che rimane confinato, tuttavia, nell'ambito delle scelte di valore, senza nesso con politiche di intervento mai specificate. Invece, se Miliband raggiunge un fine, è proprio quello di dimostrare che la prospettiva socialdemocratica, affidata al solo universo dei valori e declinata nella cornice di una nazione sola, è completamente isterilita, fino a smarrire qualsiasi significato. Sono troppi e troppo grandi i vincoli e i condizionamenti cui l'azione riformatrice deve soggiacere per sperare di poter recuperare un qualche margine reale di autonomia politica. Semplicemente, a quest'ultima non è concesso di esistere, se si resta all'interno del contesto attuale. Così attento a differenziarsi da Blair e da Gordon Brown, Miliband dimentica un aspetto come quello della presenza internazionale del Regno Unito che era per loro decisivo. Lasciamo pure stare, qui, come Blair declinò la special relationship con gli Usa ai tempi dell'amministrazione Bush. Ma il nuovo leader laburista non avrebbe dovuto dimenticarsi di Gordon Brown e della sua azione di governo nella prima parte della crisi globale. Almeno per questo aspetto, avrebbe fatto bene a tener presente il libro che Brown ha dedicato alla gestione della crisi (Oltre il crollo. Come superare la crisi della globalizzazione, Rizzoli-Etas, 2011), cui almeno un merito si dovrà riconoscere: quello di non pensare mai alla politica nazionale indipendentemente dalla sfera delle relazioni internazionali, particolarmente per quanto attiene alla strategia di intervento e di regolazione dell'economia. Una delle differenze fondamentali che dividono la crisi odierna da quella degli anni trenta, la stagione della rifondazione delle moderne socialdemocrazie, sta nel fatto che oggi, diversamente da allora, non si può nemmeno concepire e proporre una politica di riforma al di fuori della sua collocazione nella cornice internazionale. Gli anni trenta furono, al contrario, un periodo di duro ripiegamento protezionistico, in cui gli interventi nazionali venivano effettuati al riparo di un'alta barriera tariffaria, eretta a difesa del mercato interno. Ciò permetteva una possibilità di sperimentazione, a livello dei singoli Stati, che non è più stata possibile dopo la seconda guerra mondiale. La crisi attuale non ha inciso sulla globalizzazione e sul vasto sistema di interdipendenze continentali, ancor prima che nazionali, che essa ha prodotto. Semmai, sta rendendo ancora più cogente la gabbia dei vincoli e dei condizionamenti che incapsula la politica economica di molti Paesi. Per giunta, non ha scosso la fiducia delle istituzioni in un set di politiche - dal rigore finanziario alle privatizzazioni, all'incremento della flessibilità del mercato del lavoro - che era già pienamente in azione prima della crisi e che non è stato modificato nei suoi caratteri portanti. Le terapie invocate dall'Unione euro51
pea per risanare le economie più indebitate vanno esattamente nel senso delle prescrizioni più ortodosse, applicando una serie di vincoli ai comportamenti delle varie nazioni, incessantemente pressate perché non se ne allontanino. La politica economica sta dunque assumendo la forma di una gabbia d'acciaio, che non concede possibilità sostanziali di scostamento. E ciò vale tanto per i Paesi che devono essere assoggettati a una forte disciplina con lbiettivo di riportarne i conti in ordine, quanto per i Paesi dotati di una maggiore forza economica, per i quali l'imperativo diviene il mantenimento del loro status. E fin troppo facile accorgersi come, costretto entro i limiti fissati dal corpo di regole dell'ortodossia economica, lo spazio di autonomia decisionale tenda quasi ad annullarsi. Col risultato, infatti, che la politica economica è diventata una sorta di tabù, sul quale ben di rado si finiscono col registrare delle reali distinzioni. Lesempio della relazione di Ed Miliband all'ultima Conferenza laburista è eloquente. Prima ancora (si pensi al caso del governo Zapatero, la cui adesione ai cardini dell'ortodossia economica non ha certo risparmiato alla Spagna i travagli della crisi), la sinistra aveva scelto talvolta di rifugiarsi nel campo dei diritti civili, obbligata a tacere sul versante della politica economica e sociale. La lettura del discorso di Miliband conferma come non ci sia l'intenzione di allontanarsi dal paradigma dominante neppure quando ci si vuole distaccare dalla storia politica degli ultimi anni e si pronunciano dei giudizi critici sui suoi esiti. L'insistenza sui valori dell'eguaglianza e della giustizia sociale, sulla necessità di essere forza di cambiamento nella Gran Bretagna di oggi, sottintende naturalmente che debbano essere corrette distorsioni vistose verificatesi durante i dodici anni ininterrotti di governi laburisti. Al momento della sua elezione alla leadership del partito, Miliband aveva detto con chiarezza che occorreva marcare una discontinuità e recuperare una capacità di intervenire sull'assetto sociale e sull'economia. Ora, se è vero che il Labour Party parla dell'esigenza di spostare dei pesi all'interno dell'economia e della società a favore di alcuni settori rispetto ad altri (verso la manifattura intelligente e di alta qualità e a svantaggio delle attività meramente finanziarie), situa peraltro questa operazione all'interno di un'agenda improntata alle regole dell'ortodossia. La fragilità di questa posizione non sta tanto nel dover soggiacere alle imposizioni del presente, quanto nella rinuncia a rimuoverne le cause. E le cause stanno, anzitutto, nella politica internazionale e nei meccanismi di governance che oggi la informano. In altre parole: sarà pur vero che le regole odierne sono troppo forti perché le si possa modificare o trasformare nei differenti contesti nazionali. Ma appunto per questo occorre che la sinistra europea elabori una propria visione dell'Europa e della governance mondiale tale da consentire, in prospettiva, una ridefinizione delle regole della politica economica. In concreto, ciò implica un'azione condotta lungo due direttrici. La prima passa per il rilancio del processo di integrazione europea, con un riequilibrio fra politica ed eco52
nomia tale da sottrarre progressivamente il sistema continentale alla subordinazione ai princìpi del rigore finanziario. Non si uscirà dalla situazione attuale fintanto che la costruzione europea verrà contenuta entro le angustie attuali, che lasciano margine soltanto per una politica della moneta unica ispirata alla più rigida (e molto spesso miope) ortodossia. Occorrerebbe piuttosto spingere affinché si configuri una piena articolazione istituzionale europea, affiancando agli enti che già esistono, il Parlamento (da rivitalizzare e rafforzare nei suoi poteri) e la Banca centrale, quelli che continuano a mancare, cioè il debito pubblico e il fisco. Quando sarà stata completata questa costruzione, i problemi non saranno di sicuro stati risolti, ma almeno saranno state poste le basi per una svolta profonda negli indirizzi di politica economica, per la quale la sinistra dovrà mobilitarsi e raccogliere il consenso dei cittadini europei. La seconda direttrice riguarda la governance mondiale, che deve reggersi su un nuovo ordine monetario. Lo stato di caos sistemico in cui si rischia continuamente di precipitare dipende dalla mancata esistenza di una moneta mondiale in cui tutte le economie, quelle nuove al pari di quelle consolidate, possano riconoscersi. Senza un nuovo ordine mondiale, non più fondato sul primato del dollaro ma retto da un nuovo criterio inclusivo, con una moneta rappresentativa di tutti gli assetti economici, il sistema globale, oltre a subire perennemente il ricatto delle idee dominanti, corre dei gravi pericoli di instabilità. Secondo queste premesse, la lista delle priorità della sinistra europea dovrebbe indurla a spendere le sue migliori energie sul fronte della politica internazionale. Soltanto modificando la governance continentale e globale, innovandola e irrobustendola, si riapriranno degli spazi importanti per le politiche di riforma. Altrimenti si rimarrà ovunque congelati in uno status qua ormai incapace di produrre stabilità effettiva. Ciò pone la sinistra dinanzi alla responsabilità di una visione riformatrice che assuma quale compito primario la definizione di un nuovo ordine europeo e mondiale, requisito preliminare e necessario per ogni progetto di trasformazione economica e sociale. Essa dovrebbe riuscire a parlare in nome degli interessi nuovi, contro quelli esistenti, cercando di guadagnarsi la sponda dei Paesi emergenti. Ripiegando entro le frontiere nazionali, al contrario, la sinistra finirebbe con l'apporre anche il proprio sigillo alle condizioni per il suo annichilimento, con la conseguenza di smarrire definitivamente la funzione trasformatrice e di sviluppo che è stata peculiare della socialdemocrazia storica, dagli anni trenta in avanti.
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queste Istituzioni n. 162 luglio-settembre 2011
Discorso di llelmut Schmidt alla conferenza ilaziollale della SD Berlino 4 dicembre 2011 *
A
nche se in alcuni dei 40 Stati d'Europa, la coscienza nazionale si è sviluppata tardi - come in Italia, Grecia e Germania - ci sono sempre state guerre sanguinose. E qui, nel cuore del continente, questa tragica storia, questa infinita serie di scontri fra centro e periferia è sempre stato il campo di battaglia decisivo. E la memoria va alle due guerre mondiali del Ventesimo secolo, perché l'occupazione tedesca gioca ancora un ruolo dominante, anche se latente. Quasi tutti i vicini della Germania - e anche quasi tutti gli ebrei di tutto il mondo - ricordano l'Olocausto e le atrocità che sono avvenute durante lccupazione tedesca nei Paesi periferici. Noi tedeschi non siamo sufficientemente consapevoli del fatto che probabilmente quasi tutti i nostri vicini hanno ancora sfiducia nei tedeschi: un fardello storico con il quale dovranno convivere le nostre generazioni. E non dimentichiamo che c'era sospetto circa lo sviluppo futuro della Germania anche quando nel 1950 ha avuto inizio l'integrazione europea. Del resto questa si è realizzata in una visione realistica di sviluppo ritenuta possibile e allo stesso tempo per il timore di una futura forza tedesca. Non si trattava dell'idealismo di Victor Hugo che pensava all'unificazione dell'Europa nel 1849. Gli statisti poi leader in Europa e in America (George Marshall, Eisenhower, Kennedy, Churchill, Jean Monnet, Adenauer, De Gaulle, De Gasperi e Henri Spaak) non hanno agito in base ad un idealismo europeo, ma sono stati spinti dalla conoscenza della storia del continente. Hanno agito in una visione realistica, nella necessità di evitare la continuazione della lotta tra la periferia e il centro. Tutto questo è ancora un elemento portante per l'integrazione europea e chi non lo ha compreso manca di un presupposto essenziale per la soluzione della crisi attuale in Europa. 54
Quanto più nel corso dagli anni sessanta agli ottanta, l'allora Repubblica Federale aumentava il proprio peso economico e politico, tanto più agli occhi degli statisti dell'Europa occidentale l'integrazione europea è apparsa come una polizza assicurativa. La resistenza iniziale di Margaret Thatcher, Mitterand o Andreotti - era il 1989/90 - contro l'unificazione tedesca era chiaramente giustificata dal timore di una forte Germania, al centro del piccolo continente europeo. L'UNIONE EUROPEA È NECESSARLk
De Gaulle e Pompidou negli anni sessanta e fino ai primi anni settanta hanno continuato l'integrazione europea, per integrare la Germania ma hanno anche voluto incorporare il proprio Stato in meglio o in peggio. Dopo di che, la buona intesa tra me e Giscard d'Estaing ha portato ad un periodo di cooperazione franco-tedesca e il proseguimento dell'integrazione europea, un periodo che è continuato con successo dopo la primavera del 1990 tra Mitterrand e Kohl. Allo stesso tempo, la Comunità europea è gradualmente aumentata raggiungendo nel 1991 i 12 Stati membri. Grazie al lavoro di preparazione svolto da Jacques Delors (allora presidente della Commissione europea), Mitterrand e Kohl a Maastricht hanno dato vita all'euro. La preoccupazione di fondo era, di nuovo sul fronte francese, di una potente Germania e - più precisamente - di un marco super potente. Da quegli anni l'euro è diventato la seconda valuta più importante nell'economia mondiale. Questa moneta europea, sia internamente che nelle relazioni esterne è di gran lunga più stabile rispetto al dollaro americano ed è stato più stabile del marco nei suoi ultimi 10 anni. Tutti parlano e straparlano di una presunta "crisi dell'euro", ma è un futile chiacchiericcio di giornalisti e politici. A partire da Maastricht il mondo è cambiato enormemente. Siamo stati testimoni della liberazione delle nazioni dell'Europa orientale e dell'implosione dell'Unione Sovietica. Stiamo assistendo allo sviluppo prodigioso della Cina, India, Brasile e altri "mercati emergenti" che sono stati precedentemente chiamati "terzo mondo". Allo stesso tempo, la parte reale delle maggiori economie della terra, si è "globalizzata: quasi tutti i Paesi del mondo dipendono l'uno dall'altro. E soprattutto è accaduto che gli attori sui mercati finanziari globali abbiano acquisito un potere del tutto incontrollato. Ma, al tempo stesso - e quasi inosservata - la razza umana si è moltiplicata e ha superato i 7 miliardi di persone. Quando sono nato, ce n'erano appena 2 miliardi. Tutti questi cambiamenti hanno un impatto enorme sui popoli d'Europa, sui loro Stati e le loro ricchezze. D'altra parte, tutte le nazioni europee stanno riducendo i loro cittadini. A metà del XXII secolo sarà probabile che vivano anche 9 miliardi di persone
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sulla Terra, mentre le nazioni europee insieme costituiranno solo il 7% della popolazione mondiale. 7% di 9 miliardi. Per due secoli e fino al 1950, gli europei hanno rappresentato più del 20% della popolazione mondiale. Analogamente, l'Europa vedrà scendere il proprio prodotto globale al 10% dal 30 che era nel 1950. Ognuna delle nazioni europee rappresenterà nel 2050 solo una frazione pari all'l% della popolazione mondiale. Vale a dire: se vogliamo sperare di avere un ruolo nel mondo, lo possiamo avere solo congiuntamente. Quindi gli interessi strategici a lungo termine degli Stati-nazione europei è nella loro fusione. Questo interesse strategico nella costruzione europea assume sempre maggiore importanza. Anche se la maggior parte degli abitanti non ne è ancora consapevole e i governi non ne parlano. Quindi se non si farà una vera Unione europea nei prossimi decenni ciò significherebbe un'auto marginalizzazione dei singoli Stati del continente e della civiltà europea nel suo complesso. Potrebbe anche accadere. Né si può escludere che in questa situazione riemerga la concorrenza e la lotta per il prestigio tra i diversi Paesi. Il vecchio gioco tra centro e periferia potrebbe tornare ad essere una realtà. Il processo di educazione globale, la diffusione dei diritti individuali e della dignità umana, lo stato di diritto e la costituzione della democratizzazione dell'Europa non potrebbe avere uno stimolo più efficace. Sotto questi aspetti, la Comunità europea è una necessità vitale per gli Stati del nostro vecchio continente. Questa esigenza si estende oltre le ragioni di Churchill e de Gaulle. Si estende ben oltre le motivazioni di Monnet e Adenauer. Io aggiungo: certo ma occorre una reale integrazione della Germania. Quindi dobbiamo chiarirci le idee circa la nostra missione tedesca, il nostro ruolo nel contesto dell'integrazione europea. LA GERMANIA HA LA CONTINUITÀ E L'AFFIDABILITÀ NECESSARIE
Se alla fine del 2011 si guarda dal di fuori della Germania attraverso gli occhi dei nostri vicini diretti e indiretti, emergono notevoli dubbi e si dissolve l'immagine di una Germania dal cammino sicuro: emergono ombre sulla continuità della politica tedesca. E la fiducia nella affidabilità della politica del Paese è sempre meno netta. Qui i dubbi e i timori sono basati sugli errori della politica estera e dei goverai. Essi si basano in parte sulla forza sorprendente del mondo economico della Repubblica federale unita. La nostra economia è tecnologicamente e socialmente una delle più potenti del mondo. La nostra forza economica e la nostra pace sociale relativamente stabile, hanno anche innescato invidia - soprattutto per il tasso di disoccupazione inferiore e il rapporto tra debito e PIL tra i migliori. Tuttavia, politici e cittadini non sono sufficientemente consapevoli del fatto che la nostra economia è altamente integrata sia con il mercato comune
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europeo e sia con l'economia globalizzata. Al tempo stesso, però, questo può portare a un grave squilibrio: il nostro surplus commerciale è enorme, per anni le eccedenze hanno costituito circa il 5% del PIL. Sono cifre simili a quelle della Cina, anche se la cosa non emerge con chiarezza per via della sostituzione del marco con l'euro. Ma sembra che i nostri politici non siano a conoscenza di questo fatto. Le nostre eccedenze sono in realtà i deficit di altri. Le affermazioni che abbiamo sentito sugli altri, sui loro debiti sono fastidiose violazioni di un ideale equilibrio esterno. Non solo questo disturba i nostri partner, ma solleva sospetti ed evoca brutti ricordi. In questa crisi economica nella reazione delle istituzioni dell'Unione europea, la Germania ha avuto ancora una volta un ruolo centrale. Insieme con il presidente francese, il Cancelliere ha accettato volentieri questo ruolo. Ma ci sono molte capitali europee in cui sta crescendo la preoccupazione per una dominazione tedesca che per ora si esprime nei media. Questa volta non si tratta di potenza militare e politica, ma economica. A questo punto, è necessario un promemoria per i politici tedeschi, per i media e la nostra opinione pubblica. Noi tedeschi di sinistra non dobbiamo farci prendere da illusioni o farci confondere da cortine fiimogene: se la Germania tenterà di essere il primus inter pares nella politica europea, una crescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversi difendere efficacemente da questo tentativo di primato. Tornerebbe la preoccupazione della periferia per un centro troppo forte. E le probabili conseguenze di un tale sviluppo sarebbero paralizzanti per l'UE, mentre la Germania cadrebbe nell'isolamento. In fondo abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi. Quindi nel processo di integrazione europea bisogna partire dall'articolo 23 della Costituzione che impone di partecipare allo sviluppo dell'Unione europea. E nell'articolo 23 ci si impegna anche al "principio di sussidiarietà". L'attuale crisi del funzionamento delle istituzioni dell'UE non cambia questi principi. La nostra posizione geopolitica centrale, in fondo una sfortuna fino alla metà del XX secolo, richiede un alto grado di empatia per gli interessi dei nostri partner europei. E la nostra volontà di aiuto sarà fondamentale. Noi tedeschi abbiamo ricostruito la nostra grande potenza, lo abbiamo fatto, certo da soli, ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'aiuto delle potenze occidentali, senza la nostra integrazione nella Comunità europea, senza l'aiuto dei nostri vicini, senza gli sconvolgimenti politici in Europa centro-orientale seguiti alla dissoluzione dell'Urss. Abbiamo molti motivi di essere grati. E abbiamo il dovere di dimostrarci degni della solidarietà ricevuta. Al contrario, la ricerca di un esclusivo ruolo e prestigio nella politica mondiale sarebbe inutile e probabilmente anche dannoso. Sono convinto che è
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negli interessi strategici a lungo termine della Germania, non isolarsi. Un isolamento all'interno dell'Occidente sarebbe pericoloso. Un isolamento all'interno dell'Unione europea o della zona euro sarebbe catastrofico. I politici e i media tedeschi hanno il dovere e lbbligo di difendere questo punto di vista e di sostenerlo presso l'opinione pubblica. Ma se qualcuno ci dice o ci fa capire che il futuro d'Europa parla tedesco. Se un ministro degli esteri tedesco ritiene che le apparizioni in Tv mentre è a Tripoli, al Cairo o a Kabul siano più importanti dei contatti politici con Lisbona, Madrid e Varsavia o Praga, con Dublino, L'Aia, Copenaghen ed Helsinki e se un altro pensa di dover impedire trasferimenti di un po ' di sovranità all'Unione, beh tutto questo è solo dannoso. In realtà, la Germania è stata un contributore netto per molti decenni fin dal tempo di Adenauer. E, naturalmente, Grecia, Portogallo e Irlanda sono sempre stati beneficiari netti. Lo abbiamo fatto a lungo e possiamo permettercelo. Il principio di sussidiarietà, anche contrattualmente richiesto da Lisbona prevede che l'Unione faccia ciò che uno Stato da solo non può fare. Konrad Adenauer, a partire dal Piano Schumann, ha tentato di correggere istinti politici e resistenze perché sapeva che l'interesse strategico a lungo termine era questo, anche nel quadro della divisione permanente della Germania. E tutti i successori - compreso Brandt, io stesso, Kohl e Schròder hanno continuato la politica di integrazione concepita da Adenauer. LA SITUAZIONE ATTUALE RICHIEDE L'ENERGIA DELL'UE
Non possiamo in questo momento anticipare un futuro lontano. Correzioni a Maastricht potrebbero solo in parte eliminare errori ed omissioni, così come mi sembrano inutili le proposte di modificare l'attuale trattato di Lisbona che, comunque, dovrebbe passare attraverso il vaglio di referendum nazionali. Sono quindi d'accordo con il Presidente della Repubblica Italiana, Napolitano, quando ha detto alla fine di ottobre, in un discorso straordinario, che oggi abbiamo bisogno di concentrarci su ciò che è necessario fare oggi. E che abbiamo bisogno di sfruttare le opportunità che l'attuale trattato UE ci dà, in particolare, il rafforzamento delle regole di bilancio e politiche economiche nell'area dell'euro. Con l'eccezione della Banca centrale europea, le istituzioni - il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, la Commissione di Bruxelles e il Consiglio dei ministri - hanno concluso poco nel superare la grave crisi bancaria del 2008 e, soprattutto, l'attuale crisi del debito. Per superare l'attuale crisi di leadership dell'Unione europea, non esiste una panacea. Si richiedono diversi passaggi, a volte contemporanei a volte successivi e ciò richiederà energia e pazienza. E il contributo tedesco non potrà essere limitato a uno slogan per il mercato televisivo.
In un punto importante sono d'accordo con Jurgen Habermas, che ha recentemente affermato - cito testualmente - "Abbiamo fatto l'esperienza per la prima volta nella storia dell'Unione europea di un degrado della democrazia". Infatti: non solo il Consiglio europeo, compreso il suo presidente, proprio come la Commissione europea, compreso il suo presidente e i vari Consigli dei ministri e tutta la burocrazia di Bruxelles hanno congiuntamente messo da parte il principio democratico. Perciò mi appello a Martin Schulz: E ora che voi e i vostri democristiani, i vostri omologhi socialisti, liberali e verdi, insieme, portiate all'attenzione del pubblico i problemi veri e drammatici. Mostrare che alcune migliaia di persone che operano nella finanza negli Stati Uniti e in Europa, più alcune agenzie di rating hanno preso in ostaggio i governi d'Europa. E improbabile che Barack Obama farà molto. Lo stesso vale per il governo britannico. I governi del mondo nel 2008/2009, hanno salvato le banche, ma dal 2010 il branco di finanzieri ha ripreso a svolgere il vecchio gioco di nuovo con profitti e bonus. Una scommessa a spese di tutti i non-giocatori. Se nessun altro vuole agire, allora l'eurozona deve agire. Questo è il modo di interpretare l'articolo 20 del trattato UE di Lisbona. Vi è espressamente previsto che uno o più Stati membri dell'Unione europea "instaurino una cooperazione rafforzata tra di loro". In ogni caso, i Paesi della zona euro devono mettere in atto regolamenti finanziari comuni. Dalla separazione tra normali banche commerciali e di banche di investimento, al divieto di effettuare vendite allo scoperto di titoli in una data futura, dall'impedire il commercio di prodotti derivati, se non sono approvati ufficialmente dalla Securities and Exchange Commission, fino a un sistema di ritenute efficaci su determinate operazioni finanziarie. Non voglio infastidirvi, onorevoli deputati, con ulteriori dettagli. Naturalmente, la lobby bancaria globalizzata, si è già messa in moto per ostacolare tutto questo ed evitare regolamentazioni comuni. I governi europei sono stati costretti a dover inventare nuovi "paracadute". E ora di difendersi contro di essa. Quando gli europei avranno il coraggio di applicare una nuova regolamentazione ai mercati finanziari, allora potremo essere in una zona di stabilità. Almeno a medio termine. Ma se falliamo qui, allora il peso dell'Europa continuerà a diminuire mentre il mondo si sta evolvendo verso un diumvirato tra Washington e Pechino. Per l'immediato futuro della zona euro continuano ad essere necessari sicuramente tutti i passi precedentemente annunciati. Questi includono il fondo di salvataggio, i limiti del debito e il loro controllo, una politica economica e fiscale comune per avere una estensione di ogni politica fiscale nazionale, la politica della spesa, politiche sociali e le riforme del mercato del lavoro. Ma un debito comune sarà inevitabile. Noi tedeschi non possiamo rifugiarci in una posizione nazional egoistica. 59
Ma non dobbiamo propagare in tutta Europa una politica di deflazione estrema. Occorre avviare progetti per finanziare la crescita e il miglioramento. Senza crescita, senza lavoro, nessuno Stato può ristrutturare il proprio bilancio. Chi crede che l'Europa possa essere maestra solo nel risparmio, dovrebbe leggere qualcosa sull'impatto fatale della politica deflazionista attuata da Heinrich Brùning nel 1930/32. Ha innescato una depressione e un livello intollerabile di disoccupazione e pertanto avviato alla caduta la prima democrazia tedesca. Ai
MIEI AMICI
Infine, cari amici. La socialdemocrazia tedesca è stata per mezzo secolo internazionalista, abbiamo lottato per mantenere la libertà e la dignità di ogni essere umano. Abbiamo inoltre creduto nella rappresentanza della democrazia parlamentare. Questi valori ci impegnano oggi per la solidarietà europea. Certamente l'Europa è formata anche nel )OU secolo da Stati-nazione, ognuno con una propria lingua e con la propria storia. Pertanto, non è certamente facile trasformare l'Europa in un Unione federale. Ma l'UE non deve degenerare in una semplice confederazione di Stati, deve rimanere una rete che si evolve in modo dinamico. Noi socialdemocratici dobbiamo contribuire al dispiegamento graduale di questo progetto. Più si invecchia, più si pensa a lunghissimo termine. Anche da vecchio ho ancora stretti fra le mani i tre valori fondamentali del Programma Godesberg: libertà, giustizia, solidarietà. E credo che la giustizia richieda oggi pari opportunità per le nuove generazioni. Quando mi trovo a guardare indietro, agli anni bui dal 1933 al 1945, i progressi che abbiamo realizzato sembrano quasi incredibili. Cerchiamo quindi di lavorare e di combattere, perché l'Unione europea che storicamente è senza precedenti, esca dalla sua attuale debolezza. Dobbiamo essere chiari e fiduciosi. (Traduzione a cura di Paolo Borioni)
Tenuto a Berlino il 4 dicembre 2011. Documento tratto da wwme1ogranorosso.eu
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queste Istituzioni n.
162 luglio-settembre 2011
Ailcora SII Pv e dintorilì-
1.ADOLFO BATTAGLIA. Per una politica della durata
aro Sergio, l'aforisma di Flaiano si è dimostrato giustissimo: l'articolo di conclusione del dibattito sul Partito Democratico è eccellente e spero non troverai sorprendente che anch'io lo condivida, diciamo al 95%. Ho avuto anche gran piacere che contenga una rivalutazione delle forze minoritarie, in particolare dell'esperienza lamaffiana, certamente attigua a quella olivettiana (nel '63, quando organizzai la campagna elettorale in Piemonte per La Malfa, Olivetti era già scomparso: ma l'intero movimento di Comunità aiutò la campagna in tutti i modi - a cominciare da una bellissima borsa di cuoio regalatami da Roberto O.). Sul tema del PD anch'io scrissi un articolo su "L'Acropoli" di cui Marini mi disse tempo fa che l'aveva riletto e lo trovava molto giusto. Probabilmente la prima condizione necessaria perché una classe politica esca dalla "Contingenza", in favore della "Durata", è che avverta la priorità del fatto politico e programmatico rispetto ad ogni altro tipo di problema (ideologico, di potere, di schieramento, di convenienza di ambizione personale, ecc.). Ciò sembra richiedere in via preliminare una cultura fondata essenzialmente sull'analisi critica: di carattere storico-politico, "scientifica" o "laica" nel senso ampio del termine. Occorrerebbe altresì, una struttura del partito capace di sentire quella priorità. In tutto ciò ha certamente una funzione traente e decisiva la leadership, che nel tuo scritto è forse un po' trascurata ma è oggi più che mai indispensabile: e tale, anzi, che se non è sorretta da una cultura seria, il partito va a fondo, come la triste storia del Berlusca puntualmente dimostra. La "chiamata alla partecipazione" naturalmente è fondamentale: ma dovrebbe essere una two way street, avere cioè anche una funzione di informazione e formazione dei quadri e dei simpatizzanti del partito e diventare uno strumento di quella pedagogia politica che fu momento felice dei partiti di massa del Novecento ed oggi è invece praticamente dimenticata.
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Sul "Manifesto" del partito - da intendere come scrivi: periodica piattaforma per l'azione politica - aggiungerei che la variabile internazionale peserà sempre di più sui problemi di politica interna. Il che rende più difficili ma non meno necessari quei due nessi "olivettiani" di cui parli: la progettazione e la sollecitazione delle volontà sociali. Si pone però una questione. Se il "manifesto" deve essere visto come piattaforma per l'azione politica, o di governo, o in vista di elezioni politiche ecc., esso dovrebbe essere basato non su immaginose fabbriche del programma né su estemporanee posizioni rispetto a nuovi problemi insorti; ma invece su "indirizzi programmatici" di fondo, a carattere permanente, adattati di volta in volta alla condizione interna, a quella internazionale, ecc. In senso più generale, ogni manifesto non può che avere come base ciò che gli illustri sociologi cui presiedi chiamano la "meta-narrazione". I partiti del Novecento avevano sostituito la "meta-narrazione" con l'ideologia. Finite l'era delle ideologie è nato il problema della "meta-narrazione": di cui la sinistra in Italia è totalmente sprovvista, perché le due più massicce basi culturali su cui il partito si è costruito o erano crollate e dovevano essere sepolte (invece di essere ancora qua e là rivangate) o non erano risultate sufficienti; mentre in Europa si stenta assai a definire una nuova narrazione pur nella totale revisione dei programmi socialdemocratici. La questione si lega col punto sollevato da Cristiano Antonelli, il quale dice una cosa molto giusta, seppure non nuovissima. E capisco naturalmente che se deve trovare una formula, il passato non gli consente "comunista", non gli consente "socialista", non gli consente "socialdemocratica", non gli consente neppure (forse questo è anche eccessivo) "di sinistra", e deve arrivare necessariamente alla formula "liberalsocialista". Capisco anche che, dal punto di vista pratico, il termine liberalsocialista abbia una qualche utilità e infatti Veltroni lo lanciò (poi morì) al Congresso di Torino. A me tuttavia (e immagino anche a molti altri) fa l'impressione non di una cosa nuova ma vecchia, culturalmente legata ad una fase italiana breve e superata, poco capace di sollecitare nuovi pensieri e riscaldare freddi cuori. La verità è che tutti noi, con tutte le diverse sfumature di ciascuno, siamo parte di ciò che chiami "un ricco filone di pensiero più politico ed umanistico, del quale fanno parte, dall'Ottocento in poi molti politici, studiosi e pensatori", "un filone che ha dato contributi fondamentali alla concezione della democrazia". E così. Dall'Ottocento in poi c'è un pensiero puramente "democratico" (in Europa tutte le rivoluzioni dell'800 sono democratiche) di cui lo storico migliore del liberalismo europeo, Guido De Ruggiero, chiariva molto bene la collocazione già negli anni quaranta, come risultato e quasi sintesi delle opposte esigenze delle altre due grandi correnti dell'Otto-Novecento, liberalismo e socialismo. Il liberalsocialismo è una cosa diversa. Fu la formula (filosofica) di Guido Calogero: che da Croce, sul terreno filosofico, fu fatta giustamente a pezzi. 62
Quando poi La Malfa e Tino fondarono il Partito d'Azione gli si pose appunto il problema di chiamarlo o no liberalsocialista, come il nuovo movimento chiedeva. E Tino, che era un uomo molto intelligente, e politicamente pratico, liquidò la questione dicendo che a lui più che altro gli faceva l'impressione di una formula farmaceutica. Più pregnante (non filosofica) era la formula di Rosselli sul socialismo liberale, che era allora una gran novità, ma che ad usarla adesso metterebbe in ftiga anche i migliori. Il fatto è che le politiche volta a volta denominate liberalsocialiste, socialiste-liberali, liberali riformiste, ecc. non sono appunto nient'altro che le politiche "democratiche": quelle tentate in Italia dopo la Liberazione e talvolta realizzate, nella concreta battaglia politica, da forze di minoranza di diversa estrazione e provenienza: diciamo dall'ala "democratica" del Partito d'Azione; dalla sinistra cattolico "laica" del filone SvIMEz, Vanoni, Saraceno, di cui non a caso Tino e La Malfa erano amici fin dagli anni trenta; dal neo-repubblicanesimo del PRI egemonizzato da La Malfa; dall'ambiente liberale di sinistra del "Mondo"; dal circolo socialista che va da Garosci a Riccardo Lombardi ad Amato; da personaggi singoli come Salvemini, Ruini, Spinelli, Rossi-Doria, Valiani, Ciampi, ecc. Sono, queste, come altre, forze collegate al filone democratico occidentale, perché Beveridge si chiamava liberale ma a rigore non lo era e né Keynes né Schumpeter è possibile chiamarli socialdemocratici o liberalsocialisti; mentre il New Deal americano con l'immenso movimento culturale che lo produsse e salvò l'America dal fascismo era appunto di cultura e d'impronta "democratica". Terrei presente inoltre che la sinistra moderata dei Paesi emergenti, a sua volta, non può essere definita altro che "democratica", perché in quei Paesi le tradizioni politiche europee non esistono. Insomma mi parrebbe più corretto parlare sempre di "sinistra democratica". E non a caso la lotta interna nel PD è tra "democratici", fra i quali io annovererei anche Bersani per quanto ti possa sembrare sorprendente, e altri che sono talmente sciagurati che non si sa nemmeno come definirli. Nel tuo articolo ho apprezzato infine anche la gentile gomitata a De Rita, dopo il suo aggiornamento del "piccolo" in "contingente". Esprimo marginalmente una perpiessità per quanto dici sul governo ombra, perché il problema è in verità più grosso e la formula certamente non lo esprime. Vivissima protesta ti mando invece perché citi un mucchio di buoni libri ma non quell'egregio volume che si chiama "Fra crisi e trasformazione, il partito politico nell'età globale", pubblicato nel 2000 dagli Editori Riuniti, del quale l'autore è esattamente il sottoscritto. Io non sostengo naturalmente che sia un libro buono (certo è sempre attuale). Ma rilevo che è impostato su quanto traspare dal tuo articolo; nel senso che una nuova struttura partitica dovrebbe avere per base qualcosa di anche più largo delle scienze sociali, direi il complesso della scienza moderna, che ha dato un contributo al miglioramento della vita umana molto superiore a quello di qualsiasi rivoluzione o riforma; e che con63
sente poi alla politica felici soluzioni di carattere tecnico, generalmente ignote alla cultura dei partiti. Tale egregio volume, tra l'altro, contiene una lunga prefazione di Tony Giddens il quale, come Blair, secondo me non diceva esattamente ciò che gli attribuisci nel tuo articolo.
2.EMILIo CARNEVALI. Primi passi di un aggiornamento necessario
Uno fra i pochissimi punti condivisi nel caotico dibattito interno alla sinistra italiana - i confini della quale sono essi stessi sottratti all'esiguo insieme della materia condivisa - riguarda l"indeterminatezza" del profilo politico e ideale del Partito democratico. "Il fenomeno sociale 'Partito democratico", ha scritto Sergio Ristuccia nel saggio pubblicato sul n. 160-161 di queste istituzioni, "rimane molto in divenire. Il PD sembra essere in progress". Quali sono le ragioni di questa indeterminatezza? Molti osservatori le riconducono alla faticosa transizione intrapresa dal "non più" Partito comunista italiano verso qualcosa di "oltre", non riconducibile semplicemente all'esperienza della socialdemocrazia europea (di cui si erano denunciate per anni le inadeguatezze). Ma si tratta di una tesi che non convince. In realtà le forze del progressismo europeo - incluso quel PDs-Ds che costituisce ancora oggi la vera ossatura politico-organizzativa del Partito democratico - sono state protagoniste nella seconda metà degli anni novanta di un ciclo riformista caratterizzato da un progetto strategico preciso. "La socialdemocrazia classica", scriveva allora Antony Giddens nel suo celebre manifesto La Terza Via, "concepiva la creazione di ricchezza come quasi secondaria rispetto ai propri interessi fondamentali per la sicurezza economica e la redistribuzione". Ora il centro della scena doveva essere occupato dalla crescita, anche alla luce dell'assai discutibile assunto teorico del trade off fra crescita ed equità (una relazione inversa che molti recenti studi empirici hanno dimostrato non sussistere: i livelli di disuguaglianza si combinano con i diversi vettori della crescita l'accumulo di capitale fisico, di capitale umano, ecc. - in modo non univoco e coerente). Inoltre la globalizzazione portava con sé l'inevitabile accrescimento di disuguaglianze fra lavoratori skilled (qualificati) e unskilled (non qualificati) a causa della concorrenza di economie emergenti caratterizzate da industrie ad alta intensità di lavoro e del conseguente tentativo di riposizionamento dei Paesi occidentali nella divisione internazionale dei settori produttivi. In tale contesto il ruolo fondamentale delle politiche pubbliche, sempre secondo i teorici della Terza Via, era quello di assecondare e cavalcare la rivoluzione modernizzatrice in corso. Le uniche pratiche di intervento consentite riguardavano l'investimento nel capitale umano quale strumento privilegiato di inclusione e riequilibrio delle opportunità sociali. 64
Si trattava di un disegno che, anche là dove è stato concretamente implementato, ha rivelato limiti enormi. Alla situazione italiana si è aggiunta l'aggravante che spesso questo riformismo si è fermato a pure declamazioni retoriche di principio, come testimonia la mancanza di una netta scelta strategica sull'istruzione e la ricerca quando si ebbe la possibilità di passare dalle parole ai fatti. L'incremento della disuguaglianza che si è registrato in modo particolarmente grave e pronunciato nel nostro Paese non ha significativi legami con il premio all'accumulazione di capitale umano, come invece suggerivano tante teorie sugli effetti della globalizzazione e dell'innovazione tecnologica molto in voga anche nel campo progressista. Va bensì ricondotto a fattori come il dilagare della precarietà fra i più giovani o il venir meno del ruolo redistributivo della politica fiscale, rispetto ai quali la teoria e la pratica della sinistra riformista sono state per lungo tempo subalterne alle ideologie e alle politiche delle destre continentali e d'oltreoceano; pensiamo solo al fatto che l'aliquota marginale sui redditi da lavoro è scesa di 17 punti percentuali dal 62 al 45 - fra il 1988 e gli inizi del nuovo millennio, cioè all'interno di un ciclo politico non certo caratterizzato dall'egemonia berlusconiana (su questi temi segnaliamo l'interessante libro di Maurizio Franzini Ricchi e Poveri. L'Italia e le disuguaglianze inaccettabili, Università Bocconi Editore). Il Partito democratico tenuto a battesimo da Walter Veltroni incarnava il tentativo di saldare un blairismo rivisitato e corretto - di cui non si era evidentemente compreso l'esaurimento di "spinta propulsiva", per riprendere un'espressione forse cara ai vecchi ragazzi della FIGC - con un riassetto complessivo del sistema politico all'insegna della "vocazione maggioritaria" del nuovo contenitore. Il tutto accompagnato da un strategia comunicativa che intendeva sottrarre alla destra il primato a lungo detenuto nell'evocazione di immagini ottimistiche e dinamiche (quest'ultimo punto, nonostante la facile ironia con la quale è stato spesso trattato l'universo simbolico-retorico del cosiddetto "nuovismo veltroniano", meriterebbe in realtà un serio approfondimento: rimanda infatti al dibattito cruciale, evocato anche da Ristuccia nel suo saggio, sulla sussistente validità della distinzione fra destra e sinistra improntata alla contrapposizione fra "spirito di conservazione" e "spirito di progresso"). Con la crisi economica globale scoppiata nel 2007-2008 sono venuti al pettine molti dei nodi irrisolti lasciati in eredità da quella stagione. La Terza Via e la golden age del cintonismo sono state guardate con un'ottica più equilibrata, a partire dai forti elementi di instabilità che hanno contribuito a depositare nel ventre profondo delle società occidentali. A proposito di degenerazioni del sistema finanziario, ricordiamo en passant che fu proprio l'amministrazione del presidente democratico Bili Clinton, uno dei protagonisti di quello che fu chiamato allora l"Ulivo mondiale", ad abolire nel 1999 il Glass-Steagal Act, la legge introdotta nel 1933 da Franklin D. Roosvelt allo
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scopo di vietare alle banche commerciali di operare come banche di investimento. Sappiamo cosa è successo qualche anno dopo... Ora anche all'interno del PD si sta avviando un interessante esame autocritico - per quanto ancora parziale e dagli esiti incerti - di quelle vicende e impostazioni. La scelta di Pierluigi Bersani di costruire il "marchio" della propria segreteria con una rinnovata centralità della "questione del lavoro" può essere letta come un segnale incoraggiante e positivo. Alcune iniziative di carattere teorico, come il recente documento "Europa-Italia. Un progetto alternativo per la crescita. Contributo del PD al Programma Nazionale di Riforme", si sono distinte per prese di posizione originali e in netta controtendenza rispetto al passato, come ad esempio: a) la proposta di uno "standard retributivo europeo" - sulla scorta di una tesi dell'economista eterodosso Emiliano Brancaccio - capace di coinvolgere i Paesi in surplus nel processo di aggiustamento delle bilance commerciali tramite una crescita delle retribuzioni in linea con la dinamica della produttività; b) l'attenzione dedicata al riavvio di un "motore autonomo della domanda interna" in Europa alimentato dalle risorse raccolte tramite l'emissione di Eurobonds e misure fiscali come la Financial Transation Tax; c) la presa d'atto che nessuno studio ha "dimostrato un'automatica relazione positiva fra deregolamentazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale. Al contrario, non si può trascurare l'eventualità che le modalità con cui si è flessibilizzato il mercato del lavoro italiano possano aver contribuito al rallentamento della dinamica della produttività". Sono solo dei primi passi. Ma la direzione ci pare molto più promettente delle alternative esistenti all'interno del perimetro del Partito democratico, ammesso e non concesso che l'alternativa migliore vada per forza ricercata al suo interno. L'illusione di poter riproporre le vecchie ricette del riformismo anni novanta - magari ammodernate da una buona retorica antipolitica e anticasta condita da (sacrosanti) riferimenti all'enorme questione generazionale che affligge il Paese - è una prospettiva irta di pericoli, contenente, a nostro avviso, più difetti che pregi. Volendo ricorrere alla semplificazione della logica delle primarie: fra il placido Bersani e il pirotecnico Renzi non abbiamo dubbi nel preferire il primo. E visti i tempi che corrono non è detto che, perfino dal punto di vista dell"immagine", la nostra scelta sia meno popolare anche fra gli elettori in passato attratti da colori ben più sgargianti.
GIULIO ERCOLESSI. Prendere le misure della crisi in Europa
È possibile riformare in corso d'opera, e profondamente, un partito, e soprattutto un grande partito? E questo l'interrogativo che suscita l'articolo di Sergio Ristuccia. Forse il pessimismo e l'ottimismo hanno a che fare più con la biochimica del cervello che con le analisi, le interpretazioni e le culture politiche, ma a chi scrive l'ipo-
tesi di ristrutturare il PD cammin facendo sembra impresa alquanto improba, e fa venire in mente i tentativi dell'ultima ora di mantenere in vita il nesso statuale austro-ungarico alla fine della Grande Guerra, cambiandone in corsa la ragion d'essere, da ultimo impero plurinazionale di fondazione premoderna a nucleo di un'unione federale democratica europea: c'è ancor oggi qualcuno che pensa che si sia trattato di una grande occasione mancata, e che enfatizza la presunta tolleranza di quell'impero - come pure di quello ottomano, e anche di quello romano - come il suo nucleo valoriale ed etico-politico identitano preminente, e ne immagina e descrive dilapidate virtualità progressive o postmoderne (già all'epoca vanamente ipotizzate). E anche vero che la storia ha sempre più fantasia di chi pensa di poterla prevedere, nel bene come nel male, e che quindi non bisogna mai dare nulla per definitivamente scontato, ma, a quattro anni dalla fondazione del PD, il suo imprinting sembra davvero difficile da rideterminare. Per certi versi il PD è stato in realtà un successo sorprendente, magari non un successo politico, ma un successo se valutato con i criteri della sociologia dei gruppi dirigenti: i vecchi gruppi dirigenti delle sue due componenti fondative - il PcI/PDs/Ds e la sinistra Dc - hanno saputo sopravvvivere brillantemente alla catastrofe che ha travolto i loro partiti. Se i dirigenti e le burocrazie degli altri due partiti "eurocomunisti", francese e spagnolo, o gran parte di queffi del Miw francese, o dell'abortito tentativo di dar vita a una Dc spagnola di modello italiano nell'immediato dopo-Franco, hanno dovuto ricidarsi in altre attività, i due gruppi fondanti del PD, i loro network, le loro famiglie, sono pur sempre rimasti in affari (rectius, in politica), un po' come ha saputo fare buona parte delle nomenclature dei vecchi partiti comunisti dell'Est, per lo più riciclatisi socialdemocratici. A ormai vent'anni dalla catastrofe dei primi anni novanta, i dirigenti del PD gestiscono pur sempre uno dei due maggiori partiti di uno dei quattro più grandi Paesi europei. Le ragioni del successo professionale sembrano però coincidere con le ragioni dell'insuccesso politico. Questo gruppo dirigente sembra ancora, e sempre più, quello fotografato dalla celebre invettiva di Nanni Moretti a piazza Navona qualche anno fa. Non è capace di suscitare grandi aspettative neppure di fronte al crollo verticale di credibilità dell'avversario e allo sfaldamento della sua coalizione politica e sociale. Il PD è votato, anche da gran parte degli stessi elettori dello "zoccolo duro", faute de mieux, e preferibilmente quando presenta candidati emersi in alternativa a quelli suggeriti o inizialmente proposti dai gruppi dirigenti, i soli, pare, capaci di suscitare qualche mobilitazione. Il PD sembra quasi lo spezzone sopravvissuto di un passato illustre quanto controverso, che ha però perso per strada le ragioni, le culture politiche, gli interessi e le ispirazioni ideali che lo avevano prodotto. La Dc, piuttosto che altre forze altrettanto antistaliniste ma più laiche e modernizzanti, era diven67
tata il partito di maggioranza relativa, perché nel 1946 l'Italia era essenzialmente un paese contadino e cattolico; il Pci era diventato il principale partito di opposizione perché il comunismo, e il socialismo in senso forte, erano il grande protagonista alternativo della storia del Novecento e della nascente società industriale, e comunista era stata buona parte dell'antifascismo militante. Non sarebbero state queste, verosimilmente, le due forze principali della politica italiana, se la democrazia fosse stata instaurata qualche decennio più tardi. Ma in politica il valore dell'avviamento è più determinante che nella vita economica. Con questo non si vuole affatto negare, come afferma un populismo antiparlamentare di destra e di sinistra in minacciosa ascesa che ricorda quello degli anni Dieci del Novecento, che una democrazia possa fare a meno di una classe politica professionale, e neppure che disporre di un establishment politico robusto costituisca per una forza politica un asset fondamentale. Ma è a causa dell'impronta ricevuta dalle due obsolete componenti della sua classe politica, che non appare minimamente disposta ad accettare contaminazioni forti e tali da rimetterne in discussione significativi elementi, che il PD sembra irrimediabilmente inadeguato alle sfide della contemporaneità di questo inizio di secolo e che non sembra in nessun modo in grado di rappresentare l'intero centrosinistra di una democrazia contemporanea, e forse neppure il suo naturale baricentro. Ed è probabilmente a causa di quell'impronta che il PD non ha saputo riconoscere in questi anni la natura dell'avversario, come hanno invece per lo più saputo fare quelle componenti della società italiana che erano maggiormente radicate nelle "esperienze messe ai margini nella seconda metà del Novecento": le esperienze, e le culture politiche, che non potevano riconoscersi in un PD nato dall'incontro fra i due gruppi dirigenti del Pci e della Dc. Non solo Olivetti e Ugo La Malfa - e neppure tanto De Martino, la cui politica degli "equilibri più avanzati" ridusse quasi il Psi al ruolo di pronubo dell'incontro fra comunisti e democristiani, facendolo così poi finire nelle mani dello spregiudicato avventurismo autodistruttivo di Craxi. E l'intera democrazia laica, è tutta la variegata eredità di quella che veniva detta la "sinistra democratica" che non riesce a ritrovarsi a casa in un PD che le appare mevitabilmente erede di un'antica strategia di democrazia consociativa, fondata sulla cogestione della Repubblica da parte dei rappresentanti delle "grandi masse cattoliche, socialiste e comuniste" (dove le non sterminate "masse socialiste" venivano interposte solo per attenuare l'effetto), su continue riproposizioni dell'esperienza dei governi ciellenistici, intesi non come un momento di passaggio necessario alla restaurazione della democrazia e alla ridefinizione delle sue regole, ma quasi come l'esplicitazione politica dell'identità civile più profonda dell'Italia; e da ultimo nella strategia del compromesso storico e nei governi delle "larghe intese", visti come il più alto momento di
avvicinamento alla «democrazia compiuta», o almeno all'attuazione del disegno costituzionale, e interpretati come il punto apicale dell'incontro fra la tradizione del cattolicesimo popolare, più di ogni altra quella genuinamente italiana e che il Risorgimento aveva umiliato, e i rappresentanti del nuovo proletariato industriale. Non a caso l'eroe eponimo di questo PD è ancor oggi Aldo Moro, venerato non solo come simbolo della Repubblica lacerata dal terrorismo negli anni di piombo, ma anche come statista di ineguagliata levatura nazionale e internazionale. In quella visione il ruolo delle minoranze politiche non poteva essere quello di vitale contrappeso e controllo, e in prospettiva di alternativa democratica, ma quello di chi sceglieva di autoisolarsi dalla storia, di chi "non comprendeva" di essere chiamato a partecipare al Grande Disegno Progressivo. A questo PD è soprattutto mancato quel che manca ai suoi due ingredienti politici principali - e che sarebbe stato vitale per lpposizione al populismo berlusconiano: la cultura delle regole, il rispetto per l'autodeterminazione degli individui, il rapporto positivo con la modernità e la laicità. Cultura delle regole è ben più che lsservanza o il culto delle regole dell'etica pubblica nella vita politica. In un paese appena normale questo dovrebbe essere scontato. E invece, a dispetto delle reiterate professioni di "diversità", neppure in questo campo il PD ha saputo essere all'altezza della sfida. Dal caso Penati in giù, e a prescindere dagli esiti giudiziari, sembra spesso che il venir meno delle fedi politiche abbracciate in gioventù abbia significato per molti che ora "tutto è permesso". Mentre un partito che si proponga di far uscire il paese dagli "anni di fango" del diciottennio berlusconiano certi comportamenti se li sarebbe potuti permettere ancor meno di qualunque altro. Ma cultura delle regole significa anche capire che il conflitto di interesse di Berlusconi non era una bazzecola, non era sovrastruttura, era l'essenza del berlusconismo e lo costituiva fin dall'inizio un veleno per la democrazia costituzionale. Era la premessa di tutte le leggi eversive e adpersonam. Una diversa cultura delle regole avrebbe dovuto suggerire di alzare il ponte levatoio rispetto a ogni ipotesi di riscrivere con una maggioranza berlusconiana le regole costituzionali. E avrebbe dovuto comportare una ben diversa intransigenza nei confronti della continua eversione di ogni regola, di ogni prassi consolidata, di ogni consuetudine costituzionale e di decenza. Come è possibile essere credibili nella denuncia della degenerazione della democrazia in campagna elettorale, quando con un tale avversario ci si è proposti addirittura di riscrivere insieme le regole del patto costituzionale? Quando, in nome di una concezione sostanzialistica della democrazia, si è sempre disposti a passare sopra a enormità come la falsificazione industriale delle firme di presentazione delle liste di candidati alle elezioni? Quando non si ricorre allbstruzionismo contro la legge-porcata, e addirittura si concorre con i berlusconidi, alla vigilia stessa delle elezioni, a campagna praticamente già iniziata, all'ap-
provazione di una riforma della legge elettorale europea che ha la sola funzione di diserbante, che non ha la minima giustificazione in ragioni di "governabilità", che serve solo a tentare di assicurarsi coattivamente una rendita elettorale artificiosa, annientando preventivamente con un espediente "tecnico" i competitori che non si è riusciti a convincere politicamente della bontà del progetto comune? Purtroppo, l'idea che il diritto è solo sovrastruttura, pura e semplice registrazione di rapporti di forza, che non ha capacità di incivilimento e di imbrigliamento della natura ferma della politica e dello scontro sociale, è radicata in una componente del ceto politico del PD, quanto nell'altra è forte l'idea della superiorità dello "spirito" sulla "legge" - qualunque sia poi lo strumento esegetico da applicare al principio e a tutte sue possibili e sinistre conseguenze mondane. Alla fine, per entrambi, questa noncuranza per la forma della democrazia si traduce nell'idea che la democrazia è sempre meglio tutelata non se si rispettano le sue regole, ma se il partito o chi lo rappresenta, o la corrente, o la frazione, ha, in qualunque modo, voce in capitolo e mani in pasta. Da molti anni i siti Internet che si offrono di misurare l'orientamento politico dei loro utenti devono utilizzare almeno due parametri combinati, uno fondato sulle scelte di politica economica, più o meno dirigiste e solidariste ovvero liberiste e antistataliste, e l'altro sull'atteggiamento etico-politico, più o meno tradizionalista-autoritario ovvero liberale-individualista in materia di libertà e diritti individuali. Il PD ha ritenuto fin dall'inizio che questa seconda dimensione fosse ininfluente a segnare i confini della politica. Ha invocato l'esempio americano, l'unico esistente e invocabile al mondo, ignorando però che il fenomeno della compresenza di tradizionalisti-autoritari e liberali-individualisti in entrambi i partiti americani, in materia di diritti civili legati alla secolarizzazione, esiste solo a livello federale, e non nei singoli Stati dell'Unione, ed è mera conseguenza delle profonde differenze nella cultura politica diffusa nei diversi contesti territoriali in cui si svolge la contesa politica americana. Ha preteso, quindi, di includere nello stesso partito ampie rappresentanze di clericali estremisti, assieme a sparute pattuglie di laici libertari e a un gran corpaccione più o meno disponibile a seguire, qualunque fosse, la convenienza o la diagonale delle forze interne. Ma, se le questioni relative ai diritti civili non sono materia su cui gli elettori possono esprimersi al momento di eleggere i propri rappresentanti, dato che si ritiene che non siano materia in base a cui qualificare i partiti concorrenti, in base a quali criteri quelle questioni dovrebbero poi essere decise da parte degli eletti? La sola risposta possibile sono compromessi verbalistici o al ribasso, sulla falsariga del voto in Costituente a favore dell'articolo 7 da parte del Pci, o del fallito tentativo di accomodamento, patrocinato sempre dal Pci, con cui i partiti divorzisti avrebbero dovuto rimangiarsi da sé la legge Fortuna in Parlamento, limitandone gli effetti ai matrimoni non concordata70
ri, per evitare di vincere il referendum "lacerando" il paese (o, più esattamente, lacerando la strategia del compromesso storico). Inevitabile scontentare tutti, tranne il vacuo autocompiacimento intellettuale dei chierici e degli esperti chiamati a elaborare cervellotici "compromessi alti", soprattutto in materia di bioetica, destinati a compiacere per quanto possibile le gerarchie, concedendo il minimo indispensabile all'autodeterminazione dei soggetti interessati. Inutilmente, tra l'altro: perché, in fatto di clericalismo, dileggi negatrici di diritti e di pari dignità sociale e in fatto di fiumi di risorse materiali e pecuniarie graziosamente elargite a spese dei contribuenti, l'avversario senza principi sarà sempre in grado di offrire di più alle gerarchie. Così tutte e ciascuna le posizioni ufficiali, o mediane e prevalenti, del PD in materia di social issues, o, come si dice da noi, di "questioni etiche controverse", sono - e sarebbe fadiissimo e incontrovertibile dimostrarlo caso per caso - non solo enormemente più conservatrici di quelle di tutte le forze del centrosinistra nell'Europa occidentale, ma anche di quelle di tutte o quasi tutte le forze delle destre mainstream e di governo (mentre le posizioni di ciò che da noi viene corrivamente definito "centrodestra" altrove si ritrovano solo in frange estremiste e lunatiche con cui la destra ufficiale evita finché possibile di intrecciare rapporti). Ma è possibile proporsi di modernizzare le strutture e l'economia di un paese, isolandolo da tutto il resto dell'Europa occidentale in materia di diritti di autodeterminazione dell'individuo moderno? Non è possibile. Non è solo Richard Florida a capirlo, ma tutto il "popolo di sinistra" e i "celi medi riflessivi" che sono il naturale target di riferimento del PD. Del resto, nella crisi, è proprio la modernità ad essere sotto accusa. E l'intera fabbrica della civiltà liberale e illuministica a essere posta sotto processo, più che mai prima dra negli ultimi settant'anni, con argomenti talvolta contrapposti e talvolta convergenti, da parte di reazionari ed entusiasti naif della società multiculturale in senso forte, di integralisti e fondamentalisti di ogni confessione, di padani e neoborbonici, di razzisti ed ecopacifisti estremi, di Teaparty e teorici della decrescita, di spregiatori dello "scientismo" e di nostalgici dei mulini bianchi, di entusiasti dello chador e di sospettosi delle vaccinazioni. La sinistra italiana ed europea, non meno che la destra raziocinante, può far propria anche solo parte di questa paccottiglia? La risposta, come minimo, non giunge chiara e forte. Il PD, come e più di altri, sembra incapace di una vera riflessione sulla politica, e si affida, come l'avversario ma senza essere capace di eguagliarlo, all'immagine; e, nei momenti di lungimiranza, pensa al più alla scadenza elettorale immediatamente successiva. Invece di aprire il partito alle componenti della società italiana portatrici di culture politiche diverse, forse più adeguate alle sfide del presente, ma forse anche portatrici di novità destabilizzanti o difficili da metabolizzare per il ceto politico di discendenza democristiana o 71
comunista, preferisce mettere in lista il volto famoso della televisione, la blogger di successo, l'imprenditore veneto sottratto alla candidatura a destra per poi restituirlo inevitabilmente agli ambienti di provenienza a elezione avvenuta e a voti sottratti. Tutto questo mentre l'Italia sprofonda nel fango e mentre la crisi richiederebbe non dall'Italia soltanto, ma dall'Europa intera, risposte che la politica non sembra più capace di articolare. Forse soprattutto perché le qualità richieste per vincere le elezioni hanno ormai poco o nulla a che fare con le qualità necessarie a governare. Dovrebbe essere evidente che, se in Italia sarà innanzitutto necessario riparare i danni del diciottennio di fango, economici e forse ancor più immateriali, a livello globale si dovrebbe rispondere alla crisi ripensando i paradigmi affermatisi nell'ultimo trentennio. Se la democrazia occidentale ha smesso di funzionare come poderosa benché lenta macchina di inclusione e di emancipazione (credito facile e crescita indotta dalla rivoluzione tecnologica hanno soltanto posticipato fino allo scoppiare della crisi il redde rationem che si preparava da trent'anni), se la crisi è innanzitutto crisi della domanda, principalmente causata dall'aumento delle diseguaglianze e dall'impoverimento relativo di larghe fasce di popolazione, sarebbe necessario ripensare i paradigmi che hanno presieduto alla ricostruzione del sistema politico ed economico internazionale dopo il crollo del comunismo. E farlo senza però cedere alla facile tentazione populista di illudere e illudersi che sia possibile tornare a comportarsi come se vivessimo ancora nella società industriale di trenta o quarant'anni fa, con le sue certezze, con le sue tecnologie, con i suoi metodi di produzione, con la sua composizione demografica, con la libertà dell'intervento pubblico assicurata dalla mancanza di libertà di circolazione di merci e persone; e come se potessimo ritornare agli stessi sistemi di protezione sociale e di welfare, e agli stessi strumenti per il loro finanziamento, che quelle tecnologie, quel sistema produttivo, quella demografia e quel controllo sulla libertà di circolazione fra gli Stati erano in grado di garantire; o come se fosse desiderabile rinunciare, insieme agli svantaggi, anche alle opportunità potenzialmente offerte da un'organizzazione sociale meno gerarchica e meno uniformemente pianificata di un tempo. La via verso una riduzione delle diseguaglianze capace di rilanciare la domanda deve oggi necessariamente essere diversa, e inevitabilmente più complicata, delle ricette di allora; e la redistribuzione del costo e dei vantaggi del welfare fra le generazioni, e fra uomini e donne, non può non comportare anche svantaggi, e spesso svantaggi non irrilevanti, anche a carico di chi oggi è solo relativamente più garantito rispetto agli altri. Più in generale, tanto la sinistra di matrice variamente socialista quanto il liberalismo progressista, o quel che proviene da questi due filoni del progressismo occidentale, non possono non proporsi di "correggere" in varia misura 72
le dinamiche spontanee del capitalismo (che del resto, senza quelle correzioni, ha sempre dimostrato un grande talento spontaneo anche per l'autodistruzione); non credo invece che potrebbe realisticamente aspirare a un ruolo maggioritario e di governo delle nostre società una sinistra che si ripromettesse di escogitare nuove vere e proprie "alternative" desiderabili all'economia capitalistica in quanto tale (ruolo cui, peraltro, il PD sembra in ogni caso il candidato meno adatto). A chi non coltivi un'idea davvero fortemente utopistica della democrazia è molto difficile pensare che alternative del genere non conducano ad assetti sociali fortemente autoritari, in quanto inevitabilmente privi di quei forti caratteri di poliarchia diffusa che sono necessari alla soprav vivenza di una società aperta: caratteri che fin qui non sono mai stati presenti in nessuna società in cui anche la vita economica non sia stata fondamentalmente libera. (Per non dire che, nel degradato contesto civile italiano, gravato già prima della catastrofe etica di questi anni da pesanti e peculiari deficienze profondamente radicate nell"autobiografia della nazione", qualunque riflessione generale o di principio sul ruolo dell'intervento pubblico in economia deve poi fare i conti all'atto pratico con il peso della corruzione endemica, del clientelismo e del familismo amorale e con l'influenza della criminalità organizzata, che rendono ancor più decisiva la necessità di una forte struttura poliarchica della società, non solo al fine di garantire le libertà pubbliche dagli abusi sempre probabili della politica, ma anche di non avvantaggiare ulteriormente ladrocinio e razzie su scala industriale). In ogni caso, dovrebbe essere evidente a tutti che nessuno dei vecchi Statinazione europei, presi singolarmente, ha la stazza indispensabile neppure per proporre seriamente al resto del mondo un mutamento significativo dei paradigmi instauratisi nei decenni del Washington consensus e pretendere di essere ascoltato e preso davvero sul serio. I vecchi Stati-nazione europei hanno tutti, nel mondo globale, una possibilità di far valere i propri interessi e le proprie proposte paragonabile a quella che aveva il Belgio nell'Europa-mondo della prima metà del ventesimo secolo a fronte di un vicino prepotente. Proposte che sarebbero indispensabili, perché in un mondo interdipendente credere di poter cambiare unilateralmente e profondamente le regole acquisite, per quanto queste possano essere ritenute sbagliate e dannose, adottando politiche controcorrente rispetto a quelle dei propri partner politici e commerciali sarebbe come pretendere di giocare a bridge con le regole del poker senza finir male. E d'altronde non bisognerebbe neppure mai mancare di opporre ai critici della globalizzazione che è proprio all'interdipendenza economica globale che dobbiamo la fine del rischio di una guerra nucleare globale che ci ha accompagnato come una concreta e reale possibilità per quarant'anni nel secolo scorso e che più di una volta abbiamo sfiorato molto da vicino, in qualche caso senza neppure accorgercene: è sorprendente quanto 73
poco si rifletta sul fatto che è grazie all'interdipendenza economica globale che probabilmente l'umanità può oggi ritenere superato il più alto rischio di autoannientamento sperimentato nell'intera sua storia, e anche in presenza di dislocazioni enormi di potere, di ricchezza e di influenza verso parti del mondo che ne erano escluse fino a ieri. E però, se la catastrofe civile dell'Italia ha costituito in questi anni un caso estremo di decadimento non solo economico, l'Europa è comunque la parte del mondo che nello stesso periodo ha collettivamente subito la più rilevante retrocessione almeno relativa, che ha subito la maggiore perdita di influenza globale, e che sta soffrendo il più rilevante contraccolpo sulle aspettative e sul sistema di vita dei propri cittadini. Ed è quindi la parte del mondo che avrebbe più interesse alla ridefinizione dei paradigmi dell'economia globale. Se i singoli Stati-nazione europei sono ormai irrilevanti, un'Unione Europea capace di autonoma soggettività e iniziativa politica non lo sarebbe affatto, e avrebbe ampiamente le dimensioni necessarie per pretendere di far valere ancora, o di nuovo, il proprio punto di vista fra le grandi potenze del ventunesimo secolo. Tutte le considerazioni di Ristuccia sul ripensamento della politica democratica andrebbero forse rivolte non solo e non tanto al PD, quanto alle "famiglie" politiche europee, come vengono spesso bonariamente definiti i "partiti" politici europei e le loro organizzazioni collaterali. I "partiti" europei - anche quelli che hanno da poco introdotto la possibilità dell'iscrizione individuale - sono però, a tuttggi, poco più che cordate di partiti statali che a livello statale elaborano le loro strategie politiche, economiche, sociali, comunicative, e ricevono la loro legittimazione. A livello europeo, finora, le cordate si sono formate avendo di mira soprattutto la spartizione delle risorse disponibili, e solo in seguito hanno tentato di raggiungere di volta in volta, in genere sempre facendo uso dell'innocuo strumento del consensus, una qualche omogeneità politica sulle questioni al momento in discussione - e quasi mai sulle prospettive di medio periodo. E stato imbarcando il partito italiano di Berlusconi - e partiti nazionalpopulisti dell'Est decisamente altrettanto poco raccomandabili - che anni fa il Partito Popolare Europeo si è assicurato con relativa tranquillità lo stabile ruolo di partito di maggioranza relativa nel Parlamento Europeo - con tutte le conseguenze relative, che certamente non olent. I socialisti del PsE non hanno avuto molti problemi ad avallare il riciclo in veste di socialdemocratici dei rampolli delle nomenklature comuniste dei nuovi Stati membri. Appena un po' più schizzinosi, i liberali hanno pensato di aggregare nel solo gruppo parlamentare le forze politiche ritenute non abbastanza omogenee per essere cooptate anche nel partito ELDR o che non intendevano esse stesse legarsi troppo strettamente (inaugurando così il modello ora seguito dal gruppo socialista per accogliere nelle sole file del gruppo parlamentare il PD, che 74
non può aderire anche al partito per il dissenso degli ex democristiani); non senza qualche clamoroso infortunio in cui pure i liberali sono incorsi nel passato, avendo inizialmente accolto nel loro gruppo, su pressante insistenza di Giorgio La Malfa, la Lega Nord (uscitane poco dopo alla vigilia dell'espulsione) e il partito ungherese di Viktor Orban, che sembrava destinato dopo l'89 a restaurare la democrazia liberale in quel paese anziché ad affossarla nuovamente. E però molto difficile attendersi che i partiti europei prendano davvero forma e divengano il luogo dell'elaborazione politica che i partiti statali non possono più essere, se e finché in sede europea non si eleggerà un governo europeo direttamente legittimato dal Parlamento Europeo - con il Consiglio in veste, magari, di Senato o di Bundesrat anziché di organo politico intergovernativo dirigente, legiferante e protagonista esclusivo o quasi di tutte le scelte politiche di maggior rilievo, al termine di negoziati che devono concludersi con l'accordo unanime di 27 delegazioni statali. La situazione cambierà quando almeno gli attori principali si renderanno conto che l'alternativa è solo la catastrofe comune - sperando che la resipiscenza non intervenga, come è purtroppo possibile, fuori tempo massimo. Fino ad allora sarà ben difficile che i partiti europei assumano un ruolo guida nell'elaborazione e nella determinazione delle scelte di fondo. Ma solo allora i partiti europei saranno obbligati a ricercare un'unità non solo, come oggi, di facciata e di cassa, o nella migliore delle ipotesi limitata all'orientamento ideologico o ai principi ispiratori, ma anche politica e operativa. Anche le fondazioni politiche europee, che da qualche anno sono state costituite per riunire, coordinare e far collaborare fra loro le fondazioni e i think tanks delle diverse "famiglie" politiche, e che il Parlamento Europeo ha deciso di sostenere e finanziare per contribuire all'elaborazione di politiche realmente europee, sono finora, come i rispettivi "partiti", organizzazioni che riuniscono essenzialmente i think tanks, le fondazioni e i centri studi che fanno capo ai rispettivi partiti statali, con gradi di autonomia o di dipendenza molto variabili da caso a caso, ma che certamente non riescono a fungere da centri di elaborazione delle nuove scelte di fondo di cui ci sarebbe bisogno. E vero che già oggi gran parte delle scelte politiche fondamentali viene assunta a livello europeo, ma i governi statali si guardano bene dal rischio di sostituire i loro poteri di codecisione con un meccanismo di legittimazione democratica. Dal loro punto di vista, è più conveniente sottoporre ex post ai Parlamenti statali i compromessi faticosamente raggiunti in seno al Consiglio dai governi e farglieli trangugiare così come sono, inemendabili, adombrando irreparabili catastrofi geopolitiche in caso di rigetto. Avviene in pratica lpposto di quel che predica la demagogia antieuropea: il mancato trasferimento alla sovranità europea delle decisioni che richiedono decisioni europee si traduce non in un maggior controllo democratico su tali decisioni, ma nella 75
sostanziale abolizione di ogni meccanismo di formazione democratica delle scelte politiche, salvo quello della ratifica estorta con minacce di sfracelli ai Parlamenti statali e talvolta al Parlamento Europeo. Da questo punto di vista, le polemiche degli euroscettici sul "deficit democratico" delle procedure europee sono senz'altro ben fondate, ma il deficit dipende dal mancato o insufficiente conferimento di sovranità alle istituzioni comuni, non dallo spossessamento di sovranità statali ormai svuotate e patetiche. Resta che, finché questo nodo non sarà sciolto, finché cioè non si troverà una classe politica europea capace di trattare gli elettori da adulti e non da bambini undicenni (come espressamente raccomandato da Berlusconi ai suoi candidati, perché così stabiliscono le regole della pubblicità commerciale), sarà difficile che gli attuali partiti europei e i loro centri studi e fondazioni assumano, come sarebbe necessario, il ruolo di effettivi luoghi di elaborazione di nuove strategie politiche dell'Europa, capaci anche di tradursi in proposte di riforma o di rimessa in discussione dei paradigmi consolidatisi nell'economia globale. Non è un caso che la carriera europea sia per lo più ancora considerata dalla maggior parte dei politici del continente come una seconda scelta, in mancanza di migliori opportunità da percorrere a livello statale, e che i risultati delle elezioni europee, non potendo per ora determinare l'orientamento di un "governo" europeo, siano interpretati soprattutto come giganteschi sondaggi nazionali, o come registrazione dei rapporti di forza interni, in previsione delle scadenze che davvero contano agli occhi delle classi politiche statali. Si torna così, mi pare, al centro del dibattito riaperto da Ristuccia: con quali strumenti ritrovare un luogo per l'elaborazione delle scelte politiche e per recuperare la "vista lunga" che l'Occidente sembra avere ovunque smarrito. E proprio a partire dall'impasse in cui si dibatte qualunque tentativo di trovare una soluzione statale a problemi che, avendo scala globale, possono essere affrontati solo a partire almeno dalla dimensione europea, che, a voler essere molto ottimisti e a voler proprio sperare contra spem, anche il PD potrebbe ritrovare un ruolo significativo. Se si paralizzano reciprocamente su molte altre questioni, le diverse componenti che convivono nel PD dovrebbero poter trovare proprio nel rilancio del progetto europeo il terreno su cui riaffermare la propria più decisa caratterizzazione comune. A patto di non lasciarsi mettere nell'angolo dalla demagogia che ha certamente fatto breccia anche nel proprio elettorato, e a patto di saper affrontare senza corrività la sfida della ciarlataneria populista antieuropea, il PD potrebbe forse riprendere, nel dialogo fra partiti e "famiglie" di partiti europei, e assieme agli altri soggetti orientati nella stessa direzione, quell'iniziativa federalista che, fino all'avvento dell'infausto diciottennio berlusconiano, aveva sempre contraddistinto la politica estera italiana, finendo per accomunare tutte le forze politiche maggiori. 76
Su questo terreno, forse, potrebbe perfino trovare il modo di farsi finalmente contaminare dalle culture politiche di cui ha creduto fin qui di poter fare a meno o che ha vanamente creduto di poter rappresentare da solo con il suo personale di ascendenza democristiana o comunista. Non di rado gli italiani hanno cercato di risolvere i propri stessi problemi interni attraverso l'Europa, facendosi forti della scusa dei virtuosi "vincoli esterni" che sarebbero stati imposti dall'Europa, quasi che quei criteri non fossero sempre stati il risultato di decisioni unanimi che avevano sempre visto coinvolti anche i governi italiani. Forse un meccanismo del genere potrebbe essere oggi il mezzo per uscire, rilanciando la posta, dall'incapacità evidente di assolvere l'ambizioso ruolo che il PD si era assegnato di protagonista unico dell'alternativa democratica interna alla rovina e alla corruzione populista degli anni di fango del berlusconismo. Contribuire a costruire lo strumento europeo indispensabile per poter concepire politiche nuove è un compito che, per quanto poderoso, è forse meno impossibile che pretendere di farsi interamente carico da solo della ricostruzione civile dell'Italia, senza vedersene riconosciuta dal paese la capacità. Meno impossibile, forse, il compito di concorrere a rilanciare lo strumento europeo, perché la costruzione della federazione europea è per l'Europa la sola risposta, alternativa al suicidio politico collettivo, alla sfida posta dalla storia e resa più incalzante dalla crisi: una risposta di cui già molti fra i più avvertiti colgono la necessità inderogabile, ma che attende ancora di essere fatta propria da parti davvero consistenti dell'establishment politico europeo. E il PD potrebbe avere il peso e anche la collocazione politica necessari per concorrere in modo determinante, assieme ad altri, a dare corpo e a interpretare questa risposta. Quanto però ai modeffi, alla capacità di combinare l'apporto delle scienze sociali con la maturazione di un intero gruppo dirigente, questo non è solo o essenzialmente un problema del PD, o delle famiglie politiche europee. C'è un deficit generalizzato e crescente di educazione alla cittadinanza, una perdita della memoria storica comune dell'Occidente e dell'Europa, che nel nostro continente non è neppure controbilanciata, come negli Strati Uniti, dal patriottismo costituzionale e dalla consapevolezza diffusa dei valori etico-politici che ne caratterizzano l'esperienza democratica - per quanto anche li questi possano poi essere semplificati, mitizzati, volgarizzati e spesso manipolati. E anche il venir meno di questa educazione alla cittadinanza che inaridisce l'humus necessario alla vita della democrazia rappresentativa e che produce ovunque populismi, e a catena i conseguenti imbarbarimenti e mostruosità. Ed è il trionfo della "barbarie dello specialismo" proposta nei percorsi di formazione che spesso rende indifesi di fronte alla ciarlataneria politica anche i giovani migliori e più brillanti, spesso anche vanificando le potenzialità democratiche della rete. E la personalizzazione estrema della politica che 77
comporta inevitabilmente la sua riduzione a infotainment, quando non a macchina del fango, a industria del dossieraggio e del ricatto, allontanandone le energie migliori e rischiando di convertire in un nuovo incubo l'auspicato "ricambio generazionale", che alla fine rischierà di rivelarsi, quando finalmente arriverà, come quello del 1994 in Italia, solo generazionale e non anche politico e civile. La crisi della democrazia europea è così profonda che difficilmente potrà essere affrontata solo approntando migliori strumenti di partecipazione politica - che pure è certamente indispensabile ripensare e che non possono essere semplicemente quelli della vecchia forma partito, tanto meno nella versione sperimentata in Italia ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, per quanto infinitamente peggiore sia quel che poi l'ha sostituita. Sono le classi dirigenti, non solo, e forse neppure soprattutto, le classi politiche, che non sembrano avere ancora davvero preso le misure dell'entità della crisi che attraversa ovunque la democrazia occidentale. Neppure nell'ambito dell'alta cultura. Nell'attuale situazione, una tale presa di coscienza è forse la premessa più urgente, necessaria e determinante di ogni rinnovamento. Come notava qualche anno fa Tommaso Padoa-Schioppa, "in una democrazia non vi sono solo compiti e diritti del popolo; vi sono anche compiti e doveri delle élites, senza il cui corretto esercizio la democrazia stessa non produce buongoverno e forse neppure sopravvive".
PIERFRANCO PELLIZZETTI. Né opposizione né "riappropriazione de/futuro", con il rimpianto de/buon tempo antico Riflettendo su "PD e dintorni" Sergio Ristuccia si chiede se e come le scienze sociali possano contribuire al consolidamento di un partito dpposizione che faccia al meglio il proprio mestiere nell'attuale contesto italiano. Mi sembra la domanda pregiudiziale. Con le necessarie avvertenze per l'esploratore del Sociale e del Politico, sintetizzabili anch'esse in altre tre "D". Prima di tutto il Distacco, in base alla sempre attuale lezione di Raymond Aron: "mi sono tenuto a uguale distanza da Marx e da Machiavelli, non ho mai voluto essere il confidente della Provvidenza, non ho mai trovato un Principe che mi volesse come consigliere" (L'etica della libertà, Mondadori, Milano 1982 pag. Vili). Perché c'è una sacrosanta divisione del lavoro che va rispettata: i militanti militino, gli analisti analizzino; senza indebiti scambi di ruolo che producono solo confusioni, assunzioni indebite di responsabilità (a fronte dell'assenza di un effettivo potere decisionale, nella fenomenologia antica degli "utili idioti") e magari alibi (talvolta non propriamente involontari). Poi - di seguito - il Dubbio, ovviamente sistemico, convenendo con Pierre Bourdieu e Roger
Chartier che, per il nostro esploratore/analista, l'essenza del lavoro consiste nel "distruggere gli automatismi verbali, dunque rendere problematico ciò che appare scontato nel mondo sociale... nel mostrare come l'evidente sia sempre costruito, a partire da poste in palio e rapporti di forza" (Il sociologo e lo storico, Dedalo, Bari 2011 pag. 44). Sicché il nostro distaccato dubbioso finirà per dover imboccare lo stretto canale, irto di insidie, chiamato Dissenso. Ossia l'atteggiamento dell'àpote, quello che non se la beve, anche se l'inventore della formula Giuseppe Prezzolini - può non essere il suo massimo. Un atteggiamento destinato a evolvere in rifiuto (contestazione) delle logiche smascherate. A questo punto addentriamoci in medias res con abito mentale da distaccati dubbiosi, tendenzialmente dissenzienti: il PD partito dpposizione? Certo, partito è, nel senso che concorre a determinare gli organigrammi pubblici. Quanto certo non è attiene alla vocazione oppositiva. Visto che i suoi comportamenti tendono costantemente non tanto a salvare il premier Silvio Berlusconi, quanto a tutelare gli assetti berlusconiani; ossia gli equilibri e le pratiche che garantiscono da decenni il controllo sociale. In uno dei suoi rarissimi momenti di sincerità, ne dà conferma proprio il diretto interessato: "la mia più grossa opposizione non è la sinistra, che non vale niente" (Berlusconi dixit, «Il Fatto Quotidiano» del 17 settembre). Perché tutto questo? Un malinteso strategico? Una forma di pavidità caratteriale? Un cortocircuito culturale? Magari anche di tutto questo un p0' . In particolare lafurbata di breve respiro del non volersi fare carico delle scelte dolorose necessarie per arrestare la catastrofe economica, sociale e morale figliata da decenni di sgoverno. Ma all'origine della solidarietà di fondo, che spiega tutte le titubanze nellbpporsi, c'è una ragione - come dire? - antropologica: l'avvenuta omologazione del ceto politico in un'indifferenziata corporazione del Potere cinica e spartitoria. Il cui obiettivo vitale, di pura sopravvivenza, diventa - appunto un sempre più attento e stretto controllo delle spinte sociali; che vanno radicalizzandosi nella crescente consapevolezza degli indignati che la Protesta non trova una qualsivoglia sponde nelle istituzioni rappresentative, nel pasoliniano "Palazzo". Se ne ha l'ennesima riprova ascoltando Andrea Orlando, responsabile giustizia del PD, quando sbraca dicendo che "la cosa importante è impedire le fughe di notizie" («11 Messaggero», 16 settembre): retropensiero rivolto a Penati? Del resto, ilpanopticon disciplinare - in età berlusconiana o, più in generale, al tempo della democrazia del pubblico (del politainment a reality) - si realizza grazie alla titanica creazione del cosiddetto "regno del falso". Ossia, la sistematica produzione di un "apparente", pacificato e rassicurante, che diventa "realtà reale" grazie alla colonizzazione dei tradizionali spazi mediatici. In particolare il "medium sovrano" del secondo Novecento: la televisione generalista commerciale. 79
A prescindere dal fatto che ormai stiamo registrando l'indebolimento della presa televisiva sugli immaginari (in particolare delle nuove generazioni, dedite a informarsi navigando altrove), che senso ha porsi il problema di superare la collusione sistemica di una parte della corporazione del Potere con i restanti omologhi, solo scommettendo sullrmai remoto momento natale di tale parte, in quanto avvenuto in contesti che si richiamavano a parole d'ordine "di sinistra" o genericamente progressiste? Il Ponentino romano e i mille altri venticelli che soffiano sui campanili d'Italia hanno definitivamente prosciugato quegli antichi umori generosi (disinteressati). Comunque, quale ragionevolezza vi è nel riproporre ricette che funzionavano al tempo della democrazia rappresentativa (e parzialmente competitiva), quando ormai siamo finiti in quella dello spettacolo, in cui i cittadini si riducono a semplici spettatori di una messa in scena recitata da "personaggi"? Si può risolvere la faccenda cruciale con tecnicalità d'antan, come i Manifesti o gli screditatissimi Programmi (le Summe Theologiche onnicomprensive, destinate a far polvere sugli scaffali che raccolgono i materiali elettorali un istante dopo l'avvenuta consultazione)? Il Liberalsocialismo, nato come risposta sincretica alle sfide della Modernità industrialista, mantiene significati e ricette spendibili nel passaggio postindustriale (o è soltanto modernariato)? A chi ci crede (e talora si tratta di persone stimabili), il compito di salvare questa forma partito. Alla riflessione sulla crisi della politica e sulle trasformazioni del sociale, l'impegno ben più impellente (e gravoso) di scandagliare le possibili modalità di rifondazione della Democrazia. Segnali deboli compresi. In conclusione del ragionamento, tutto giocato sulla pars destruens, ci si limita a dire che il punto critico per una nuova politica democratica (e - dunque - "di sinistra") sembra essere la "riappropriazione del futuro", intesa come grande discriminante su cui costruire schieramenti contrapposti al "presente immobile" in cui attualmente siamo intrappolati. Da cui deriva la presa conservatrice sulla società da parte della corporazione partitica e l'egemonia reazionaria del privilegio; funzionale al mantenimento - tendenzialmente sub specie aeternitatis - ditale presa. Esploratori àpoti e militanti perbene ne discutano con passione, ma per costruire il "dopo". Non per ipotetiche quanto velleitarie restaurazioni di un non rimpianto buon tempo antico.
queste IstItuzionI
n. 162 luglio-settembre 2011
Torilare a governare i territori
/ dossier dedicato alle città si inserisce in un contesto difermento attorno ai temi ed ai problemi de/governo del territorio. In ragione dell'interesse - di 1lunga data, ma oggi, finalmente, non marginale e istituzionalmente irrilevante come nel passato recente - degli studiosi di molte discipline (urbanistica, giuridico-amministrativa, architettura, sociologia, geografia ed economia) che hanno dedicato r,fZessioni e critiche approfondite a quello che è stato fatto —più spesso non è stato fatto —per dare applicazione al/e norme e risposta a/le specficità ed a//a domanda di territori e realtà assai differenti tra loro. Norme che, come scrive Guido IVlartinotti nel suo contributo, nascono già obsolete e già incapaci di rispondere a quel/e domande, difare evoluzione normativa. E il caso de/le metropoli. E delle tante a/tre istituzioni, persone,flussi che compaiono nel dibattito che il Consiglio italiano per le Scienze Sociali ha promosso sul tema, a Milano, con politici, amministratori e studiosi (di cui pubblichiamo la trascrizione). Norme come quel/e sul decentramento comunale del cui "declino" ci parla Ignazio Porte/li nel suo contributo. Un fermento che nel maggio 2009 ha interessato anche le sedi legislative, con l'avvio in Parlamento (Commissione Affari Costituzionali e Assemblea) dell'esame di alcune proposte di legge di modifica costituzionale intese a sopprimere l'ente Provincia, espungendolo da/l'ordinamento territoriale della Repubblica. Bocciate dall'Assemblea. Nel 2012, la Commissione Affari costituzionali ha quindi iniziato l'esame di nuove proposte di legge che trasferiscono alle Regioni le competenze in materia di istituzione e soppressione del/e Province. La rilevanza del dibattito - dentro efuori le sedi parlamentari e governative è evidente, tanto più se si leggono le analisi, ancora una volta, di Guido lVlartinotti e, uscendo da questo fascicolo, di Franco Farinelli: continuità, omogeneità e isotropismo sono le qualità degli Stati nazionali moderni, perché tali sono le mappe logiche della costruzione de/la territorialità, e solo lì esistono. Ecco allora che le questioni del territorio sono la crisi dello spazio e la fine del modello del luogo. Il/la 1.39
anche, ottimisticamente, il ritorno de/problema del funzionamento dei territori, irriducibili ad ogni mappa che non contempli l'intelligenza, il pensiero di e su ciascun territorio. Il Consiglio italiano per le Scienze Sociali porta avanti l'analisi su/governo del territorio nell'ambito di un Tavolo di lavoro per l'Agenda urbana nazionale a supporto del Dzpartimento per la coesione territoriale, insieme ad altri think tank, nonchĂŠ attraverso l'attivitĂ seminariale che coinvolge gli stakeholder e i soggetti attivi, sui temi rilevanti (energia, innovazione, suolo ed edilizia, governance, debito e crisi).
queste istituzioni
n. 162 luglio-settembre 2011
Per una vera iuuovaioue del sistema di goveruo del territorio di Guido Martinotti
I
n Italia, dal 1957 si biatera diffusamente di "governo metropolitano", arrivando a produrre poco o niente (al di là di qualche legge di riforma, incluse due modifiche costituzionali, rimaste largamente inapplicate) salvo ossimorici scherzi di parole come la "città metropolitana" (qualcosa come il "quadrupede alato" o il "rampicante d'alto fusto") oppure riuscendo nell'impresa eccelsa di far coincidere il più recente sistema insediativo, la metropoli, con il più antico e obsoleto, la provincia, definita, in origine, dal territorio che si poteva percorrere in una giornata a cavallo. Non è casuale perciò che le diverse leggi siano rimaste, fortunatamente, inapplicate. Sarebbe un guaio vero se pretendessimo di far volare migliaia di lanterne nei prati. Purtroppo però la mancanza delle categorie appropriate produce sempre danni. Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo - i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l'espansione urbana non si è mai arrestata - la cultura pubblica del nostro Paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardoromantica, sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (Comunità) vs Gesellschafi (Società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima. Forse il dott. Konrad Adenauer, sindaco di Colonia negli anni venti, riflettendo un sentimento molto forte e molto diffuso nel mondo tedesco, tanto da essere poi sfruttato dal nazismo, poteva ancora dire sconsolato "noi siamo la
L'autore è professore di Sociologia urbana all'Università degli studi di Milano-Bicocca e socio emerito del
Css.
prima generazione di tedeschi ad aver realmente vissuto la vita delle metropoli. Il risultato lo conoscete tutti" (Mitscherlisch, 1968, p. 21), ma oggi la critica alla città dal punto di vista di una supposta migliore vita comunitaria altrove, non è più così facilmente sostenibile, anche perché abbiamo visto come le ideologie autoritarie, con le politiche antiurbane e la retorica ruralista del fascismo, le mitologie naziste delle origini, le politiche antinurbamento di Unione Sovietica e Cina fino ad arrivare al luddismo parossistico antiurbano di Pol Pot, hanno dato ben povera prova storica nel XX secolo. Ma tutto questo non ha frenato la cultura pubblica italiana dall'aver interpretato la più radicale trasformazione del territorio del Paese con la creazione di un vasto periurbano, come un "ritorno alla campagna", tema che ha ampiamente dominato la pubblicistica degli ultimi decenni del XX secolo. I risultati si vedono ogni autunno con regolarità impressionante e la collettività sembra del tutto imbelle di fronte a questi fenomeni Come è avvenuto con la suburbanizzazione negli Stati Uniti (Beauregard, 2006) e la formazione del periurbain francese (Martinotti, 2006; Lagrange e Oberti, 2006) nonché in numerose altre parti del mondo, la trasformazione morfologica della città-oltre, o meta-città, è connessa con mutamenti sistemici complessivi nella struttura sociale e nei rapporti politici. Nel caso italiano si è verificata una deriva localistica che ha sopravvalutato e persino mitizzato la comunità locale inventandosi il "territorio", termine la cui ambiguità analitica è tanto evidente da un punto di vista teorico, quanto potente è la sua confusa evocatività nel linguaggio pubblico. Infatti si parla indifferentemente, e direi a casaccio, di "territorio" come area fisica ("la pianificazione territoriale", consultare vastissima bibliografia), come unità politica decentrata ("il territorio pugliese", Poli-Bortone, Tribuna politica, 9 Marzo 2010), come società civile locale indistinta ("occorre ascoltare il territorio": qualsiasi candidato promette di farlo). La lingua italiana è molto tollerante degli abusi, ma oltre un certo punto si vendica trasformando il pensiero e le sue capacità di comprensione, in quella babele gelatinosa che è diventato il linguaggio pubblico italiano, tanto più quando si parla di ambiente, costruito o meno. E quando, invece di saper cogliere e controllare il nuovo, lo si nasconde dietro a vaghe reminiscenze di un passato che la più parte degli italiani di oggi ha vissuto soio nelle canzonette ("C'è una chiesetta amor, nascosta in mezzo ai fior"). Queste dinamiche fanno parte di un più generale processo di sottrazione della modernità dall'orizzonte di speranze degli italiani, coccolati in un localismo di maniera che non ha alcuna relazione con la realtà. Nella presentazione del rapporto Censis del 2011, De Rita, uno dei massimi sacerdoti di questo localismo di maniera, ha affermato che l'Italia per riprendersi deve far ricorso al suo "scheletro contadino". Quegli scheletri li sono morti di artrite una generazione fa. L'Italia contadina vive solo nella
testa degli intellettuali e nelle canzoni di Apicella e Berlusconi, che non per nulla ricorda a memoria Rio Bo. I contadini reali marginali rimasti sono i Pacciani, il Michele Misseri o i pastori sardi disastrati perché i soldi per sostenere settori critici dell'agricoltura sono stati dati ai ladri delle quote latte. L'unico scheletro che manca all'Italia è una seria dorsale digitale che è stata spazzata via dal digitale terrestre. LA SUSSIDIARIETÀ ALJ]ITALIANA
Oggi anche il territorio si vendica, con le mafie locali ad aspirazione nazionale ed europea, con l'inefficienza assoluta della capacità di regolazione ambientale a livello locale, con la proposta di riesumare i dialetti (che peraltro, in modo barbaro e degradato, sono già entrati nel linguaggio mediatico) e con tutte le tendenze antiunitarie che stanno esplodendo in diverse direzioni. Alla funzione fondamentale di uno Stato unitario che dovrebbe accompagnare le competenze locali per soddisfare nel modo migliore le relative esigenze, si è sostituita una malintesa sussidiarietà all'italiana per cui la ftinzione pubblica, progressivamente depauperata, dovrebbe intervenire solo in sostituzione di evidenti deficienze. Che è un po' come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, e occorre anche sostenere i costi dell'andare a cercarli. Al supposto paternalismo bonario dello Stato sociale, si è sostituito il paternalismo autoritario della sussidiarietà rimediale. Forse in nessun campo come in quello ambientale e del governo degli spazi periurbani questo fenomeno appare in tutta la sua drammatica incapacità di produrre sostenibilità ambientale e sociale. L'indebolimento e la distruzione di tecnostrutture capaci di impedire i disastri, ha dato luogo alla creazione di macchine tendenzialmente verticistiche e autoritarie: piuttosto che cercare di prevenire ci si è abbandonati agli imperativi dell'emergenza: si noti lo scivolamento impercettibile, ma stravolgente, da "prevenzione", che deve essere inevitabilmente realizzata con il concorso di tutti, a "protezione", una attività che cala immancabilmente dall'alto e che di solito non protegge per nulla perché viene attivata dopo il disastro. E completamente sfuggito alla cultura pubblica del momento l'insegnamento di Amartya Sen sulla maggiore efficienza dell'organizzazione democratica nei confronti di quella autoritaria, nel prevenire crisi come epidemie o carestie, oppure l'insegnamento di Robert Putnam sull'importanza del capitale sociale, che va formato e mantenuto, non dissipato, sia pure solo con la retorica. Per esempio, la vicenda del terremoto dell'Aquila con una ricostruzione che ha imposto una corona suburbana di abitazioni sul modello, non delle New Towns inglesi (come viene detto con rozza improprietà), ma di una versione povera, però non a poco prezzo, della "singie family home" americana,
mentre il grosso della popolazione con le chiavi delle proprie abitazioni e con le carriole richiede disperatamente la ricostruzione della città-città. Per non parlare degli smottamenti di terreno su cui erano state costruite abitazioni autorizzate da amministrazioni non in grado di fermare l'espansione del periurbano, neppure in aree a elevato rischio oppure il conffitto tra l'alta velocità e reti locali degradate al punto da incoraggiare, invece che scoraggiare, l'uso dissipativo dell'automobile. Per non parlare del problema dei rifiuti a Napoli (ma non solo a Napoli) momentaneamente messo sotto il tappeto e via dicendo per un elenco che potrebbe essere molto lungo. Quasi nessuno di questi problemi si può risolvere a un livello puramente locale: nessuno però può essere risolto da una autorità verticalizzata senza cooperazione locale. Forse occorre ripensare a fondo la filosofia dell'interesse comune per cercare di regolare le condizioni ambientali nelle vaste aree dove la campagna si indurisce nella città. UNA PROPOSTA Dietro a questa grondante retorica si nasconde una profonda ignoranza degli aspetti geocodificabili dei fenomeni sociali ed economici. Basti pensare alla disinvoltura con cui uno dei maggiori quotidiani del Paese (e d'Europa), anno dopo anno, pubblica molto risonanti classifiche della qualità della vita nelle città italiane, usando però i punteggi delle province. Ora in Italia ci sono casi in cui la provincia quasi coincide con il capoluogo (Trieste ha l'86% della popolazione provinciale) mentre altre in cui il grosso della popolazione sta in periferia (Salerno ha solo il 12.6% della popolazione della sua provincia). Mutatis mutandis sarebbe come se in un supermarket io vendessi allo stesso prezzo bottiglie di latte piene per 9/10 e altre vuote per 9/10. E tutte le volte che si pensa a una riorganizzazione degli enti locali, che sarebbe veramente da fare, il che darebbe una spinta enorme alla crescita, si ragiona in termini di entità "atomistiche" (i comuni con meno di enne abitanti, le provincie con meno di 300 mila) senza la minima preoccupazione per le considerazioni "contestuali": dove sono questi comuni e queste provincie, quali relazioni economiche, sociali, di semplici spostamenti con le aree circostanti? Oggi è possibile mettere a punto uno strumento Gis (Geographic-al Information System), in grado di simulare rapidamente molteplici conseguenze di diversi tipi di aggregazioni di enti locali, in funzione dei compiti che dovrebbero svolgere e anche di simulare quanti di questi compiti possano essere svolti online superando anche il problema degli accorpamenti o scorpori fisici. Quando si parla di crescita, si pensa sempre quasi unicamente a due cose: aiuti alle imprese, ma il 95% delle imprese italiane è di piccole unità, a conduzione familiare e viaggiano sotto lo schermo radar del fisco e non vogliono affatto crescere (dichiarazione di Giovannini, presidente dell'ISTAT
alla trasmissione 8 e 1/2); oppure a grandi investimenti strutturali, largamente soggetti a corruzione, sprechi, ritardi. Quasi mai si pensa al risparmio e alle potenzialitĂ per la crescita di una forte innovazione nel sistema di governo del territorio. IlCss ha le competenze teoriche per progettare e realizzare uno strumento di questo genere, i dati ci sono e le tecnologie necessarie a disposizione in uno dei vari centri collegati con il Css. Si tratta di partire con uno studio difattibilitĂ che con una spesa modesta, non piĂš di qualche mese uomo di ricercatore senior oltre alle spese generali, stenda un progetto dettagliato difattibilitĂ .
queste Istituzioni n.
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Foildaziolli e strategie dei territori di Sergio Ristuccia
iamo, dunque, secondo l'espressione usata da Guido Martinotti, alle meta-città. Nel volume Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre (a cura di Giuseppe Dematteis) che contiene i saggi redatti dai membri della Commissione di studio del Consiglio italiano per le Scienze Sociali incaricata di rivisitare approfonditamente la questione delle grandi città, oggi, in Italia e che si conclude con la pubblicazione del Libro Bianco già in rete da tempo, egli illustra l'evoluzione del fenomeno dell'espansione urbana che porta a parlare non soltanto di "aree metropolitane" ma appunto di meta-città. Da tempo siamo in una morfologia urbana profondamente diversa da quella del passato anche non lontano, che si può chiamare come meta-città. In un triplice senso: perché l'entità urbana è andata al di là (meta) e persino molto al di là: "della classica morfologia fisica della 'metropoli di prima generazione' che ha dominato il XX secolo con il suo core e i suoi rings (polo e fasce concentriche); al di là del controllo amministrativo tradizionale degli enti locali sul territorio e al di là del tradizionale riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle 'metropoli di seconda (e terza generazione)' sempre più dipendenti da popolazioni transeunti e mobili". Quel che la complessità dei fenomeni connessi alla meta-città comporta è un'interpretazione dei medesimi che prescinde dalla logica delle competenze istituzionali che persistono nel tempo e con le quali siamo abituati ad interfacciarci. Il venir meno dei confini che non possono essere colti immaginandoli come rappresentativi degli enti territoriali esistenti (è il fenomeno appunto della recessione dei confini) conduce a impostare qualsiasi governo del territorio a prescindere dalla difesa dei confini tradizionali. La sostanziale inutilità degli statuti comunali voluti dalla legislazione di fine secolo scorso dipende anche dal venir meno di questi confini. Naturalmente, avverte Martinotti, "questo mutamento ha dato luogo a notevoli fraintendimenti, non
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solo da parte della pubblicistica popolare, sempre pronta a impadronirsi anche del minimo sospetto di un'apocalisse, ma anche della letteratura scientifica che dagli anni Ottanta del XX secolo in poi non ha perso occasione per decretare la fine della città". D'altra parte, i fenomeni che compongono l'ampia casistica in cui si declina la questione urbana in alcune ampie zone del Paese e soprattutto del Nord vuole una ricognizione costante che sia in grado di distinguere processi sociali diversi, non sempre connessi fra loro, da identificare e interpretare attraverso metodiche sofisticate; quella - per esempio - della doppia ermeneutica che parte dal fatto della forte interattività tra conoscenze e comportamenti, come spesso è dimostrato nel campo dei sondaggi. I risultati di questi, anche riferiti alle questioni di governo urbano, cambiano la realtà dei comportamenti. Questione di non poco conto per la stessa democrazia partecipativa. Rimane il problema del governo del territorio come governo che è sì delle città, allargate e non, ma anche di quel territorio che si sottrae all'inglobante uso urbano. Come lo si organizza o regola nella necessità, via via acquisita, che il sistema di governo debba essere pensato e realizzato partendo dai liveffi bassi delle esigenze espresse dalle popolazioni residenti? Come si imposta un crinale di ragioni a cui ispirare tale governo nell'assunto della pluralità degli obiettivi da perseguire, innanzitutto attraverso il coordinamento pragmatico dei centri decisionali quali esistono e quali via via possono essere riconfigurati sul piano degli ordinamenti? La dinamica dei fenomeni sociali urbani più difficili da identificare e ricomporre in una visione d'insieme quando si tratta soprattutto di una dinamica di flussi relativi ai cosiddetti "city users" non residenti deve essere considerata accanto ad una dinamica dei fenomeni fisici che per le specificità geologiche delle varie parti del Paese hanno bisogno di valutazioni penetranti a sé data l'incombenza, per esempio, del pericolo difftiso di danni idrogeologici. La preoccupazione che recentemente era emersa in sede di Protezione Civile di accompagnare e sovrapporre alla mappa delle faglie sotterranee per identificare le zone di maggior rischio sismico (a cui si dovrebbe aggiungere quella dei rischi idrogeologici) la mappa delle condizioni di geografia economica, sociale e amministrativa in superficie pareva molto ragionevole. Monitorare la prima significa mettersi in grado di fronteggiare meglio gli eventi catastrofici, monitorare la seconda significa rendere più agevole la fase ricostruttiva che immediatamente segue gli eventi. Da questi primi accenni ai vari aspetti del "ricomporre società e territori" deriva l'esigenza di elaborare strategie del governo delle città e del territorio. Tema di cui questa rivista si è più volte occupata. A questo proposito, però, sorge una domanda: data la situazione non ricomposta dei territori urbani chi può esercitare la flinzione di strategia che sembra imporsi? Probabilmente bisogna distinguere fra fase di ricognizione dei fenomeni, di elaborazione dei dati raccolti e di preparazione delle alternative e/o della pluralità delle linee
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strategiche e fase più propriamente decisionale preceduta, in ogni caso, da procedure bottom-up di ampia partecipazione. Se la fase ultima della decisione e dell'implementazione non può spettare altro che agli enti territoriali come si spera saranno riconfigurati dopo, per esempio, la "Carta delle autonomie" ovvero comunque cooperanti con metodi pragmatici di "conferenze" ed intese, la funzione di volano della funzione di strategia va immaginata in capo ad altri soggetti. Fondamentale può essere a questo proposito il ruolo delle fondazioni di origine bancaria. Le Fondazioni hanno certamente un baricentro territoriale sempre fortemente percepito nel ventennio lungo il quale si è dipanata la loro vicenda. In quanto enti filantropici le Fondazioni hanno spesso sviluppato un'azione sistemica di mobilitazione della filantropia locale di base attraverso le cosiddette "fondazioni di comunità" (vedi il quaderno n. 7 della collana "I Manuali AcRI" redatto dal gruppo redazionale di questa rivista uscito con il titolo Rapporto sulle Community Foundations e, da ultimo, l'articolo di M. Franzon e E. Pezzi sulle fondazioni di comunità pubblicato nel n. 158-159). Ma le Fondazioni non possono essere mantenute entro l'ambito della filantropia istituzionale. Nel tempo le Fondazioni, attraverso percorsi non del tutto previsti all'inizio, sono divenute organismi che rimanendo senza fini di lucro, non possono semplicisticamente identificarsi in compiti di mera filantropia. In realtà il loro ruolo sul territorio va oltre, come si può in particolare osservare nella funzione di sostegno alla ricerca scientifica. In ogni caso si tratta di un compito estraneo alla logica degli enti territoriali rappresentativi. Per questo sono soggetti più adeguati - nella loro indipendenza - a percorrere strade ricognitive scevre da condizionamenti pregiudiziali. Muoversi, a più liveffi, per intendere motivi e possibili linee strategiche per il governo strategico di territori dove i confini tradizionali recedono e vengono sostituiti da altri di carattere non più generale ma specifici dei diversi fenomeni sociali che si realizzano nei territori sembra dunque una possibilità concreta per le Fondazioni. Se non ci ripugnasse la retorica, diremmo che essere volano di azioni strategiche sul territorio potrebbe essere una "sfida" per esse. Elaborare congetture a medio-lungo termine, creare le premesse per un dialogo allargato a vaste coalizioni senza tenere conto di confini tracimati. Una funzione strategica che potrebbe essere coerente con criteri di sussidiarietà, allontanando se non respingendo funzioni di mera supplenza come, nell'ampia crisi attuale, può sempre più essere richiesta. Senza ragionevole possibilità di risposta.
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queste Istituzioni n. 162 luglio-settembre 2011
"Itipartire dalle citti. Per politiche a misura dei luoghi"
opo i saluti del Presidente del Css, Sergio Ristuccia, il Presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, ha aperto e presieduto i lavori, dando la parola al Ministro Francesco Profumo, il quale ha illustrato dettagliatamente le azioni concrete del Governo di valorizzazione ed uso efficiente del patrimonio del Paese. Partendo dalla capacità di coniugare al meglio cultura, innovazione e ricerca quali condizioni di base per migliorare. Il Ministro Profumo si è concentrato su due aspetti, indicati nel Libro bianco del Css: recuperare una dimensione di sistema; stabilire nuovi modeffi di governance territoriale a favore delle città. Città nelle quali oggi vive l'80% della popolazione. Il Ministro Profumo ha quindi sottolineato l'importanza di canalizzare risorse ed energie nella direzione prevalente di una innovazione di tipo sociale. Le città e le comunità intelligenti, le smart city sono, in tal senso, il campo di applicazione dell'innovazione, laddove sarebbe sbagliato porre la tecnologia al centro della riflessione, trascurando invece l'altro termine, la città, tema fondamentale da cui partire per cogliere le domande dei cittadini. Le risposte dovranno essere in grado di fornire architetture che, indipendentemente dalla tecnologia che muta e avanza, siano in grado di tracciare un percorso con continuità. Su questo tema l'Europa prevede di mettere a disposizione, tra il 2014 e il 2010, risorse per circa 11 miliardi di euro. Dopo i tre bandi degli anni scorsi, oggi l'Italia ha avviato una sorta di laboratorio partito, questa volta, al Sud, per essere in grado di cogliere al meglio questa importante sfida europea.
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Lunedì 23 aprile 2011, a Milano, il Consiglio italiano per le Scienze Sociali ha invitato studiosi, politici ed amministratori a discutere di città, nell'ambito dell'iniziativa "Idee per l'Italia. Il contributo del Consiglio italiano per le Scienze Sociali per capire e rilanciare l'Italia". 91
IlMinistro Profumo ha poi individuato i punti di debolezza italiani in termini di perdite di investimenti nel campo della ricerca, e i rimedi individuati dal Governo attraverso un Bando per le Regioni della convergenza, che mette a disposizione 200 milioni di euro di base, 40 milioni per progetti di giovani ricercatori (su domande socialmente rilevanti), e 80 milioni messi dalle Regioni. Si tratta di un bando a sostegno della ricerca industriale per la domanda di miglioramento della qualità di vita dei cittadini di tali Regioni. Coniugato ad un secondo strumento finanziario di capitale di rischio per cercare di irrobustire il processo di conversione della ricerca tecnologica dei laboratori universitari - pure di alto livello - in imprenditorialità, spesso micro aziende che non riescono a compiere il passaggio da prototipo a prodotto industriale, con anche la capacità di commercializzazione. Il Governo mette quindi in gioco risorse e competenze per aiutare i singoli territori ad identificare una priorità funzionale. Diventare prototipo e progetto-Paese. Una sfida raccolta dalle Regioni, con un rilevante cambio di impostazione, cambiamento culturale. C'è bisogno di vitalità, di trasformare ogni euro di investimento tecnologico in un euro di innovazione sociale. Il Presidente Guzzetti ha apprezzato l'approccio del Libro bianco del Css, che sta nello spirito di chi opera, nel pubblico e nel privato, nelle città, a Milano. Ovvero, l'identificazione di sei punti di forza o potenzialità delle nostre città: l'eccezionale patrimonio di beni culturali con i loro effetti positivi sulla qualità della vita e sull'immagine della città e del Paese, il turismo culturale. Una visione che sposta l'asse di visione, con i beni culturali quale risorsa e non certo costo. Visione, questa, propria della Fondazione Cariplo, perseguita attivamente con i distretti culturali ed una serie di iniziative che fanno della cultura un filo rosso dell'azione della Fondazione nei quattro settori di intervento. Fattore, cioè, di rivitalizzazione delle città e delle periferie dove è in gioco la coesione sociale. La presenza di grandi istituzioni culturali (musei, teatri, biblioteche, etc.) con i loro effetti positivi per la formazione ed i rapporti con l'impresa e l'innovazione. A tali istituzioni dovrebbero rivolgersi anche i cosiddetti consumatori della città, che usufruiscono di servizi pubblici, una popolazione crescente. Resta il problema dell'accessibiità, non esclusivamente fisica ma di fruizione, a tali istituzioni produttrici di cultura, con l'esigenza di ampliare l'offerta e le iniziative di queste istituzioni, rendendole accessibili a tutti. L'ingente capitale fisso in edifici, impianti e infrastrutture che nelle città, spesso, finisce con l'essere un onere di gestione e manutenzione, con costi altissimi. Occorre quindi lavorare ad un incrocio tra strutture esistenti per rispondere alla domanda esistente. Le più solide capacità tecnico-amministrative dei propri apparati e delle agenzie locali. Le città dispongono di risorse e competenze per rispondere alle domande dei cittadini, ma le tecnologie dovrebbero andare in aiuto delle burocrazie. 92
Il buon livello complessivo di internazionalizzazione delle imprese e delle istituzioni, come avviene anche per il non profit. Le fondazioni come Fondazione Cariplo sono sempre più spesso chiamate a confrontarsi con le esperienze positive che vengono dall'estero. Guzzetti ricorda, tra le altre occasioni, l'incontro che ogni quattro mesi avviene in Fondazione Cariplo con alcune fondazioni europee, tramite l'EFc, quale momento di scambio di esperienze e conoscenze, sul piano formativo e del metodo della filantropia moderna e delle sue buone pratiche che diventano così fattore comune. La presenza di capitale sociale, espresso soprattutto dall'associazionismo e dal terzo settore in generale. Troppo spesso, secondo Guzzetti, questo aspetto - reso così evidente nello studio del Css - è lasciato sullo sfondo, pur con la consapevolezza che la crisi dello Stato sociale è drammatica e solo il volontariato è in grado di dare ossigeno al Paese. Il ruolo svolto da tali realtà è irrinunciabile, ma il rischio già realizzato è che proprio la consapevolezza del non profit come terzo pilastro risulti nella tentazione di affidargli compiti non suoi, facendone il soggetto supplente di attività ed iniziative che dovrebbero essere del pubblico. Senza neanche mettere a disposizione di questi attori gli strumenti e le risorse, anzi tagliate progressivamente, quindi una sorta di outsourcing non in termini di sussidiarietà ma di supplenza. Quindi, lo Stato non soltanto carica il terzo settore di un pesante fardello, ma poi "ci si siede anche sopra". Con due risultati negativi: servizi che non sono più erogati da nessuno, né dal pubblico ormai ritiratosi né dal volontariato che non ce la fa più; portare molte associazioni di volontariato sulla via della chiusura, con sempre meno o nessun servizio per la collettività. Guzzetti ha molto apprezzato l'importanza (nel contributo di Martinotti) data alle relazioni ed i rapporti interpersonali prima delle telecomunicazioni e dei moderni sistemi di comunicazione, quindi contro ogni previsione di disgregazione sociale indotta. In tal senso, anche quanto detto sul tema della sicurezza da Piero Ameno merita, nella riflessione di Guzzetti, molta attenzione, poiché l'ordine pubblico è una parte minimale della questione, che distoglie lo sguardo dal bisogno di essere e sentirsi parte del sistema sociale, competenza delle istituzioni cittadine ma anche campo di esercizio dell'educazione civica e del rispetto tra individui. Infine, un altro tema caro alla Fondazione Cariplo è l'edilizia e come questa organizza la città e ne integra le popolazioni, nei termini dell'ho using sociale, come risposta importante di creazione di comunità sociali contro gli alveari nei quali "piazzare" chi non è in grado di comprare sul mercato né di accedere allbramai ridottissima offerta pubblica di abitazione: giovani, immigrati che lavorano, giovani coppie, anziani. L'esempio di via Padova a Milano è anche questo. Trattata come esempio di violenza e degrado, sta diventando esempio positivo attraverso due iniziative di questo tipo: quello delle Rane volanti (per la vivibilità) e quello della Maison du Monde (per le abitazioni). 93
E qui Guzzetti ha fatto una parentesi sulla mistificazione giornalistica in tema di IMU e Fondazioni, chiarendo nel dettaglio come funziona il sistema, con le fondazioni che pagano eccome, secondo le norme valide per tutti i contribuenti, con le esenzioni previste per usi specifici sociali e senza alcun privilegio. Il dibattito disinformato fin qui svoltosi e tendente a porre le Fondazioni come soggetto di eccezione rispetto alla norma va quindi nel senso sbagliato, anche perché non si è compreso il funzionamento semplice delle Fondazioni, tale che i soldi ad esse sottratti non sono soldi in meno per i patrimoni, ma soldi in meno per le erogazioni, per il sociale. Giuseppe Dematteis, Guido Martinotti e Gabriele Pasqui - coautori del volume Css - hanno brevemente indicato le linee di analisi e le proposte elaborate dalla Commissione di studio. Dematteis ha ricordato che le città sono centri propulsori di sviluppo regionale, nazionale ed europeo, concentrano l'80% della popolazione e, ciò nonostante, in Italia, non sono state al centro di un intervento coerente e coordinato di politiche pubbliche locali. Con il risultato che le città sono viste sempre più come problemi e sempre meno come risorse. La Commissione di studio del Consiglio ha lavorato per due anni ed è pervenuta ad un risultato composito, pubblicato nel volume Css. Dematteis ha aggiunto che a mancare è stata l'esigenza di un regime differenziato delle realtà locali, in base alle dimensioni delle città e alla varietà di contesti. Ed un'esigenza di unificazione di indirizzo, coordinamento, stimolo e sostegno dal centro a favore di politiche locali urbane. Il motivo di tutto ciò è avere pensato dal 1861 ai tentativi di federalismo oggi che un assetto centralista garantisse l'unità nazionale, ma con un centro poi troppo debole per riconoscere alle città il diritto di differenziarsi e coordinare le differenze rendendole conformi all'interesse generale e nazionale (una politica urbana nazionale). Ecco, allora, che le differenze non riconosciute esplicitamente lo sono diventate surrettiziamente attraverso regimi speciali in deroga e tolleranza di condotte illegali quali l'abusivismo edilizio. Portando a differenze - si pensi a quanto pesano le città nel divario Nord-Sud - ben più nocive per l'unità nazionale. Le città, intanto, sono cambiate. E l'incapacità ad agire come sistema urbano porta ad una loro scomposizione, orizzontale (la città non corrisponde più ad un'unità municipale, ma ad un insieme di Comuni, un sistema urbano metropolitano che spesso procede nel contrasto tra le parti) e verticale (reti, imprese, gestori di servizi, gruppi immobiliari e altri soggetti che seguono logiche di settore e non gli interessi generali, costituendo un governo privato dei servizi e dell'urbanistica per i quali il territorio è oggetto di scambio impari con la debolezza negoziale degli enti locali, privilegiando la rendita e la speculazione edilizia. V. Bellicini). 94
Guido Martinotti ha approfondito il punto cardinale dell'incapacità di definire in modo consensuale la natura delle città quale oggetto di riflessione. Il benchmark più importante per l'area di Milano è databile al 1957 col Convegno di Limbiate, dove per la prima volta un centinaio di sindaci di Milano e dintorni si sono trovati per discutere di governo metropolitano. Per ragioni politiche ed elettorali il tentativo è stato bloccato. Da allora, si è continuato a parlare, sono state fatte tre leggi con scadenze precise per l'obbligo di individuare le aree metropolitane, due leggi di riforma costituzionale, ma niente è accaduto. O meglio, è stato messo l'abito dell'entità più obsoleta (che si vuole infatti abolire), la Provincia, addosso all'entità più nuova, la città metropolitana, non ancora definita. In tali condizioni, non è possibile governare un processo che non si sa che cosa è e dove si trova. Nel precedente Rapporto del Css, "La dimensione metropolitana", del 2000, coordinato da Martinotti, si parlava di questo, con un saggio ancora attuale di Ettore Rotelli. L'errore di fondo è stato fare coincidere una unità funzionale con un ambito/territorio elettorale, di governo. Negli Stati Uniti ciò non è avvenuto e tutto funziona al meglio, senza interessi elettorali collegati a quella definizione che ne ostacolino le azioni perché chi è dentro vuole stare fuori e viceversa. Il suggerimento di Martinotti è stato quello di slegare i due concetti, lavorando con l'IsTAT a partire dai bacini di utenza e dalla struttura dei flussi della mobilità (compreso quello aeroportuale), che è come il sangue per la città. La geografia non è un fatto marginale rispetto al sistema politico. Lo si vede nel cambiamento del sistema politico rispetto alle novità insediative (il fenomeno della Lega), e all'enorme frammentazione sociale di chi abita quei luoghi. Gabriele Pas qui ha posto la questione dell'esaurimento della crescita urbana in atto nel nostro Paese come non congiunturale, ma radicale. Senza fare riferimento alle retoriche della decrescita, visto che la crisi morde troppo per cose simili. Va ridiscusso il nesso tra sviluppo economico urbano e crescita urbana edilizia. Ponendo nuovi problemi alle città, dove ancora avviene gran parte dell'innovazione sociale, ma convertendo le politiche urbane a riuso, riqualificazione, conversione. Si pensi al tema delle dismissioni, molto diverso da quello del passato, dalla dismissione industriale, laddove a Milano, nelle valli della bergamasca e della bresciana si assiste ad una massiccia dismissione del terziario costruito negli anni ottanta. Il tema del mercato urbano è qui cruciale, con competenze tecniche del tutto inedite richieste all'amministrazione. Il nesso tra spazio, sviluppo, città è cambiato. L'organizzazione spaziale dei cluster (università, ospedali, eccellenze) ha logiche del tutto differenti dal passato. Il nesso glocal influenza le esperienze di vita quotidiana, non solo i grandi flussi, in maniera significativa. Con processi irriducibili ai confini amministrativi tradizionali. La crisi del welfare materiale, prima di quello immateriale, fatto di scuole, 95
piscine, parchi, ha fermato la crescita delle nostre città e la loro capacità di affrontare i cambiamenti e le sfide urbane, insieme ai fenomeni di mutamento demografico e insediativo già detti. La mobilità, infine, pone in questione la capacità stessa di cittadinanza e diritti sociali. Alcuni studiosi parlano di motility come capacitazione. La crisi di governabilità è allora problema di risorse, di oneri di urbanizzazione usati impropriamente per finanziare la spesa pubblica, con le città che si sono trovate all'angolo. Ma anche di inerzia delle agende pubbliche urbane, attardatesi su temi superati, di modernizzazione degli anni ottanta, senza sapersi ridefinire, o con logiche assai riduttive come nel caso della sicurezza urbana affrontata in maniera perversa con le forze di Polizia. O nel caso del commissariamento. Serve una fase propulsiva nuova che si dispieghi appieno. Il tema urbano deve potere informare le politiche nazionali, settoriali, in una logica territoriale. Dematteis ha chiuso l'introduzione con le priorità individuate dal Css: assetto istituzionale e normativo di adeguamento del centro alle politiche delle città, per una politica urbana nazionale sotto forma di semplice coordinamento interministeriale delle politiche pubbliche settoriali; creazione di un'architettura di governance che permetta il dialogo tra il centro e le città; regime differenziato legittimato - non tollerato - per le città, che ne rifletta la diversità di sistemi locali (Cammelli propone Statuti delle città da negoziare con lo Stato centrale); politica di reti di città per priorità, specializzazioni e funzioni per fare rete a livello nazionale, come si è fatto in Francia (grazie alla centralizzazione forte delle città); forme di intercomunalità; controllo del consumo del suolo e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, evitando poi la cattura delle plusvalenze da parte dei soggetti privati. Sergio Chiamparino ha invitato il Css a proseguire il lavoro con maggiore flessibilità temporale, attraverso workshop e brevi aggiornamenti di studio. Non c'è dubbio che serva una politica urbana nazionale, perché i luoghi di concertazione - quali le Conferenze e gli altri tavoli di raccordo - sono cosa ben distinta e differente dall'idea di una politica nazionale che, infatti, comporta prendere coscienza che da tempo le città avrebbero dovuto essere il luogo dove si concentrano le risorse per la crescita sostenibile e le contraddizioni di quella crescita. Chiamparino ha condiviso l'osservazione degli autori che nelle politiche fatte vi sono spesso solo sprazzi che guardano oltre la modernizzazione degli anni ottanta. Come il caso dell'environment park di Torino, che nella zona Dora ha recuperato suolo e innovato guardando ben oltre. Il problema è che se la modernizzazione non è stata fatta prima, poi qualcuno deve pur farlo. Si pensi alla metropolitana. Evidentemente, si scontano gli effetti di fasi passate, la sedimentazione positiva e negativa. Il tema caro a Chiamparino è l'esistenza di un problema di rapporto tra centro e real96
tà locali, appesantito e rigido, che non sarà risolto neanche dall'eventuale abolizione delle Province. L'ANcI, è noto, preferirebbe avere come interlocutore il Ministero degli Interni - e non quello della Coesione territoriale o ogni altro - in quanto si sente così più garantito, dal Comune più piccolo a quello di medie dimensioni. Avremmo bisogno, dato lo stallo del federalismo, di trovare venti-venticinque entità a livello nazionale che siano in grado di porre sullo stesso piano alcune Città metropolitane, non tutte, alcune Regioni, e alcune Province che equivalgono alle Regioni e che già esistono, dove ci sia il confronto con lo Stato per la ripartizione dei fondi sui capitoli fondamentali delle politiche per le città, una sede politica, con funzioni amministrative e legislative differenziate. E poi ognuna di queste entità avrà sotto di sé le altre realtà locali cui garantire le risorse necessarie. C'è poi il tema della programmazione locale, dove è evidente che i dispositivi prevalenti nelle dinamiche di pianificazione regionale e nello strumento del piano regolatore sono sì figli della modernizzazione degli anni ottanta. Dove viene fuori una società delle procedure e non una società delle persone. Piero Rassetti si è soffermato sul fatto che parlare di città, polis, è parlare di Politica, ovvero di ritrovare un senso di indirizzo - non di controllo - della polis. Il problema è che oggi non sappiamo che cos'è la città e chi vi comanda. La storia della città in Italia è in gran parte la storia dei Prìncipi. Salvo casi di città come storia di società, come a Milano. Il testo del Css è importante perché consente di spiegare ai Prìncipi nazionali che il rapporto tra città e Stato nazionale in Italia è nato male nel 1861 e continua ad essere concepito in maniera errata. Nel frattempo, anche peggio del malgoverno, si è passati ad un non governo delle città da parte del centro. Lasciando così che a governarle siano i flussi, gli interessi e gli intrecci di convenienze che sono profondamente mutati rispetto agli anni ottanta. Basti pensare a come il rapporto finanza e immobiliarismo ha cambiato il concetto della rendita fondiaria che è diventata l'origine dei mali della città, come previsto dalla sinistra cinquant'anni fa, in assenza di un sistema di prelievo delle sopravvalenze immobiliari a vantaggio delle città. Disastri che tutti conosciamo. Comprendere quale sia il rapporto tra creatività nella società e il potere nelle sue manifestazioni è quindi essenziale. Il Ministro Profumo ha detto come fare ad entrare nel discorso sulla cloud, il vero ambito delle relazioni sociali nel futuro prossimo, sbaraccando le città. La glocalizzazione ha già sovrapposto l'organizzazione dei flussi come evento reale della morfologia della città, delle sue relazioni. Un sistema che privilegia il potere dal basso nella costruzione della città e poi l'affida alla geografia elettorale porta problemi enormi. Cui si aggiunge il grande potere di rappresentazione della nostra vita che hanno i media sottratti a qualunque responsabilità. La glocalizzazione sta trasformando radicalmente il ruolo delle città, ha mutato la geografia del potere con 97
cui la creatività sociale delle città deve relazionarsi. In tal senso è impensabile che la crisi dello Stato nazionale e della geografia dell'internazionalità non tocchino l'urbanistica del nord, di Milano. Manca un assunto di geografia dell'Italia quando si parla di città. La geografia dei flussi così intesa ha mutato anche i termini della questione meridionale, non più pensabile in termini di solidarietà nazionale. Oggi sono le reti e i poteri che le organizzano (city life, finanza, ma anche le ferrovie di Moretti, l'aeroporto di Malpensa che è in provincia di Varese), non il territorio, a riferirsi all'organizzazione delle città, alla loro dimensione urbana, e a fare la geografia del Paese. Dobbiamo imparare dai nuovi geografi (il discorso di Franco Farineili sulla fine delle mappe in favore dei charter fiows, il rapporto tra geografia e geografia urbana oggi. La chart delle funzioni è un discorso che gli Stati Uniti fanno da trent'anni. Le città non possono essere governate come territori senza attori - è questa la democrazia - ma neppure come aggregati di attori senza territorio, come detto da Dematteis. Così come le strutture di potere che regolano le città non sono le leggi, messe in forse dalla glocalizzazione. Il mondo è governato dalla costruzione di sistemi di interessi, dietro i quali la gente cambia i comportamenti e la legge arriva soltanto dopo, culturalmente arretrata appena pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Milano è centrale per la comprensione del problema, ma dobbiamo capire che cos'è Milano prima. La glocal city non è limitabile al concetto di city come usato negli ultimi vent'anni. Seguire i flussi immateriali, quali quelli della logistica di Milano, ci porta a Piacenza e a Novara. Geografia urbana e sistema di potere, quindi, per ritrovare la strada di un federalismo delle grandi regioni. E non essere in ritardo. Occorrerà allora discutere di come è avvenuta la trasformazione su scala gbcal dell'organizzazione dello spazio politico, modificato dal software, dalle app, come ricordato dal Ministro Profumo. Con morfobogie irreversibilmente mutate. La classe politica, secondo Bassetti, deve pensarci, e il lavoro del Css è assai utile in tal senso.
Walter Vitali ha sottolineato l'importanza del lavoro del Css, che ha l'ambizione di andare oltre lo studio compiuto e pubblicato, ed il merito di avere già fatto qualcosa in tale direzione. Al punto che, nel dibattito pubblico e in alcune importanti iniziative di cui Vitali dirà, a quattro livelli, coloro che hanno continuato ad occuparsi di politiche urbane in Italia oggi possono dirsi meno soli. In primo luogo, l'Europa chiede oggi che la ripartizione dei fondi strutturali 2014-20 avvenga nell'ambito di una agenda urbana nazionale, con una programmazione incentrata sulle città. In secondo luogo, a proposito della normativa legislativa, si sta concludendo finalmente un'importante novità per le città metropolitane. Quale membro della Commissione Affari Costituzionali del Senato e della Commissione parlamentare per le questioni regionali, Vitali ha illustrato il programma concretamente perseguito sul tema
delle città, a livello parlamentare, per la prima significativa rottura dell'uniformità amministrativa (si è sempre parlato di Comuni e mai di città), sulla base di principi dell'autogoverno e della volontarietà. Se Milano, Torino, Bologna vorranno istituire la città metropolitana potranno farlo (senza necessariamente farla coincidere con il territorio provinciale), altrimenti non lo faranno. Entro l'estate sarà completata la Carta delle autonomie, insieme alla nuova norma elettorale. Starà quindi alle città usare la flessibilità legislativa per realizzare anche i rapporti globali e glocali di cui si è parlato. In terzo luogo, in Parlamento, Vitali - insieme a Tabacci e La Loggia - si sono fatti promotori di un Intergruppo per l'Agenda urbana di 57 parlamentari, che già collabora con il Ministro Barca, presso il cui Dipartimento si è costituito un Tavolo di lavoro di supporto al quale partecipa il Consiglio italiano per le Scienze Sociali insieme ad altri think tank dedicati ai temi urbani. L'idea è lavorare con le componenti illuminate che hanno sensibilità per queste sollecitazioni: i Ministri Barca, Ornaghi, Profumo, ma anche alcune componenti dell'imprenditoria quale ANCE che ha compreso che è finito il tempo dell'espansione, dello sviluppo e della rendita, in quanto oggi si deve lavorare sulla riqualificazione, sull'efficientamento energetico, su nuove grandi opportunità imprenditoriali. Oggi l'Italia consuma suolo quanto la Germania dieci anni fa. La Germania si è posta allora vincoli stringenti attraverso la legislazione, per arrivare a consumo di suolo pari a zero nel 2050. Dobbiamo anche noi porci in prospettiva europea. Bisogna partire dai problemi, non dalle procedure. Le premesse ci sono, non serve una legge ma anche una norma di accordo interistituzionale, per incominciare a misurare il fenomeno del consumo di suolo, ad esempio, per sbloccare la banda larga in Italia e potere parlare di smart city, di innovazione ed infrastrutture di comunicazione e di mobilità, sbloccando risorse che la Cassa Depositi e Prestiti ha messo a disposizione per gli attori pubblici e privati che vorranno impegnarsi. Le politiche urbane sono politiche che devono agire in tutti i campi e che vanno coordinate. Va predisposta un'Agenda urbana nazionale come chiede l'Europa, cercando anche di rimediare alla sua assenza nel PNR. Poi si tratta di dare vita ad un coordinamento interministeriale per le politiche urbane, che semplicemente funzioni da momento di raccordo tra tutte le entità che operano su queste tematiche. Il Sindaco Pisapia è intervenuto a rimarcare con forza che sui temi che riguardano strettamente il territorio è necessario coinvolgere i cittadini, promuovere la cittadinanza attiva. E, in tema di città metropolitana, illustra gli enormi passi avanti compiuti a Milano, mentre il dibattito si è fermato principalmente sul piano politico. Trascurando l'importanza di fare comprendere anche i vantaggi derivanti dalla concretizzazione della città metropolitana in termini di qualità della vita, per l'aria, la mobilità, la cultura: "E
importante uscire dalla logica del municipio, piccolo o grande esso sia, ma pensare in un'ottica di area vasta, non necessariamente coincidente con il confine geopolitico o geo-elettorale. E importante anche cercare il più possibile di stringere accordi con altre istituzioni, altri territori su temi rilevanti, è in questo modo che i cittadini si sentono parte integrante del governo della città". Il Ministro Fabrizio Barca ha molto apprezzato la ricchezza di temi e l'analisi del lavoro del Css. Si tratta di temi di grande complessità, sui quali il Ministro pensa che, per ritirarsi dal baratro, occorra pensare con qualche semplificazione, ovvero scegliendo con coraggio le strade da percorrere. Compito, questo, della politica. Questa capacità dipenderà da due cose: in misura ridotta ma non irrilevante, da questo Governo, per il tempo che gli sarà dato di governare, per marcare il segno con alcuni interventi prototipali che rimettano al centro i luoghi - tutt'altro che non messi in discussione dalla modernità in termini di valori e opportunità di radicamento delle persone - in una maniera che non sia aggiomerazionista (dominato cioè dai flussi naturali di mercato, di interessi, che non sono assecondati, favoriti o bloccati dall'azione pubblica) né comunitaristica (ovvero l'affidamento esclusivo a valori, competenze, interessi e preferenze locali che non si tengono più insieme nel mondo del cloud e possono determinare fenomeni apparentemente impensabili che, accanto alla modernità, creano autosegregazione, impoverimento, marginalizzazione). Bisogna allora prendere il meglio dell'agglomerazionismo che coglie il valore dell'esternalità, e il meglio del comunitarismo che valorizza le reti locali: un'impostazione rivolta ai luoghi come punto di incontro di competenze, conoscenze e valori interni - che si scontrano tra di loro nelle forme del conflitto - e competenze, valori, conoscenze esterni, continuamente rimessi in discussione. Il conflitto è un concetto che va rivalutato, su un terreno di ragionevolezza, non di razionalità. Come ci ricorda Amartya Sen, la ragionevolezza va oltre la razionalità, mira ad argomentazioni comprese e condivisibili, convincenti per l'altro, ed è quindi collettività, diversamente dalla razionalità che si sofferma sui percorsi e le conoscenze del singolo individuo. In secondo luogo, molto più di quanto potrà fare questo Governo, ha detto il Ministro, è possibile su un terreno politico esterno, ridefinendo una strategia per il governo successivo attorno a questi temi. E questo deve venire da partiti riformati, per i quali le sei-sette tematiche emerse nel corso del seminario costituiscono un bel test per le riaggregazioni in corso: che cosa hanno da dire, che cosa intendono fare? Tornando ai limitati ambiti del Governo in carica, il Ministro Barca ha posto quattro questioni, nell'ambito delle sue funzioni legate al governo di fondi speciali (anche per le aree metropolitane legati all'art. 119 Cost., e di fondi comunitari destinati allo sviluppo 100
armonico dell'Unione europea, non a caso rafforzati da Delors nella fase storica europea di intensificazione dei flussi. Prima questione, l'accento sulla qualità e la valutazione dei progetti nella competizione per i Fondi, nuovi progetti messi al centro. Non soltanto per il Sud, dove arrivano per il 25-30%, ma per l'Italia tutta. Quindi, rimettere al centro i Comuni e le loro aggregazioni, dove nascono questi progetti. Ed è già il secondo punto. Il sistema futuro privilegerà infatti le alleanze di ogni tipo, cose già provate con la possibilità di correggere gli errori. Questa logica rompe con la programmazione indicativa, per macroaree, macroeconomica, che l'Italia si porta dietro dalla prima programmazione del centrosinistra, che resta sempre macro, a livello nazionale, regionale, senza mai diventare operativa, azione. Ci sono casi di piccoli Comuni che non seguono le sorti di quelli limitrofi: è il caso di Pompei, riguardo alla criminalità organizzata in quanto ha due importanti risorse di internazionalizzazione, gli scavi archeologici e il sacrario militare e di Auletta, in Irpinia, in fase di abbandono demografico, altamente ruralizzata, luogo meraviglioso; entrambi si ritrovano in grossi agglomerati urbani con cui c'entrano poco e nulla. In questi luoghi, associazioni di volontari stanno lavorando con bandi internazionali che, nel caso di Auletta, è costato appena ventimila euro, attirando esperti da Londra per la valorizzazione dell'area. Progettare significa cambiare il terreno dove avviene lo scontro, il conflitto, il confronto. La parte hard rimane lì, ma la parte soft circola, è replicabile in altrettanti luoghi, con gli opportuni adattamenti. Un esempio è l'esperienza della Fondazione con il Sud. Misurare, porre criteri, progettare, aiuta il volontariato e porta il conflitto su un terreno di ragionevolezza. Il secondo punto dopo la progettazione è portare le reti di attori pubblici e privati degli enti locali attorno ai servizi essenziali. La questione dei servizi essenziali - a molti l'ha insegnato Claudio Napoleoni, a qualcun altro Ugo La Malfa - negli anni sessanta significava che, quando si impone una politica di austerità, bisogna fare una politica dei redditi, ovvero migliorare dappertutto la qualità dei servizi collettivi per affrontare le misure dure che si sono rese necessarie. L'operazione fatta sul Sud - dove c'erano risorse da liberare - è stata la riprogrammazione della spesa, un miliardo di euro per le scuole già disponibili e mezzo miliardo a breve per servizi destinati alla cura degli anziani e dell'infanzia. Convincendo le Regioni a farlo, ovviamente. L'aspetto metodologico interessante nel modo in cui queste risorse saranno liberate è che ci saranno dei criteri, una metrica di spesa, un partenariato attivo di collegamento tra le fihiere pubbliche di attivazione e le filiere di volontariato che possono favorire le aggregazioni, le reti della classe dirigente. Terza cosa, la ricostruzione de L'Aquila, dove le cose dette nel seminario possono essere realizzate, dopo avere garantito trasparenza, certezza e rigore della ricostruzione con un'ordinanza importante approvata venti giorni fa. Anche in que101
sto caso, le condizioni si sono realizzate grazie ad un partenariato (CGIL, UIL e Confindustria che hanno chiamato, un anno fa, l'Università di Groningen e 1'OcsE a ragionare su una visione della città e dei suoi Comuni). Qiiarto ed ultimo esempio è il terreno strategico evocato da Vitali: un cantiere, un laboratorio, per costruire filiere attuative di attori pubblici e privati e cercare di affrontare la complessità. Il Ministro ha apprezzato il lavoro del Parlamento, in particolare con riferimento al problema del consumo del suolo, anche perché il ciclo potrebbe ripartire ancora una volta con le ricostruzioni, ma quali? L'ammodernamento del patrimonio esistente, anche in riferimento al cambiamento di dimensione delle nostre famiglie, ad esempio. Sul piano strategico, la programmazione 2014-20, ci sono quattro cose che si possono fare: ridisegno degli strumenti di attuazione della programmazione; superare la frammentazione regionale di questi fondi per disegnare in modo interregionale gli interventi, la rintelaiatura del dorso del nostro Paese come dice Piero Bevilacqua; ragionare sulle macro regioni, dove serve tuttavia una grossa competenza nazionale, oggi inesistente; rilanciare alleanze di città, pattizie, laddove il Regolamento già ci aiuta a farlo.
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queste Istituzioni a. 162 luglio-settembre 2011
Il decliuo del deceiltralileilto comuilale di Ignazio Porte/li
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partire dagli anni sessanta in Italia si sono avviate 1 e moltiplicate le esperienze di decentramento comunale, caratterizzate da varietà terminologiche e modelli organizzativi. Ai "quartieri", alle "circoscrizioni" e alle "zone" (erano alcuni dei termini più diffusi) si aggiungevano le figure di "aggiunto", "delegato del sindaco" e del "Consiglio nominato dal sindaco" che costituivano, in un qualche modo, forme di decentramento burocratico e dei servizi, nonché timide modalità di partecipazione popolare. La legge comunale e provinciale del 1915 (TULCP 1915) disponeva che "i comuni superiori a sessantamila abitanti 2, anche quando non siano divisi in borgate o frazioni, possono deliberare di essere ripartiti in quartieri, nel qual caso compete al Sindaco la facoltà di delegare le sue funzioni di ufficiale di Governo, a senso degli artt. 152, 153 e 154, e di associarsi degli aggiunti presi tra gli eleggibili, sempre con l'approvazione del Prefetto" (art. 155). Si tratta di una disposizione ben circoscritta da quattro concomitanti requisiti: a) la popolazione di sessantamila abitanti (nel 1915, neanche tutti i capoluoghi); b) la facoltà del sindaco di delegare; c) la nomina degli "aggiunti" quali associati al sindaco; d) la approvazione (tutoria) del prefetto 3 La diffusione del decentramento comunale richiedeva la necessità di una forte volontà delle amministrazioni locali e la condiscendenza dei prefetti, prima, e dei comitati regionali di controllo, dopo. Quindi una pulsione vitale, che si realizzerà alla metà degli anni sessanta del secolo scorso con l'inizio della stagione del centro-sinistra, densa di grandi aspettative. .
GLI ANNI SESSANTA E L'ESEMPIO DI BOLOGNA
L'esperienza di Bologna 4 prende avvio nel 1964 e viene considerata per lungo tempo come quella di un laboratorio politico da emulare in altre realtà 103
del nostro Paese. Il clima favorevole per il decentramento derivava principalmente dagli orientamenti dei due principali partiti politici maggiormente presenti in quel territorio: il Partito comunista e la Democrazia cristiana. Il primo, al governo nel capoluogo emiliano, aveva mutato gli indirizzi strategici 5 inizialmente rivolti ad un forte centralismo, ma poi avviati verso le autonomie in modo sempre più chiaro e deciso. Il secondo era all'opposizione, ma possedeva una tradizione autonomistica e popolare, alimentata dalla presenza di Giuseppe Dossetti. Nel Libro bianco su Bologna la Democrazia cristiana già propugnava l'introduzione dei quartieri in base a questa direttrice di pensiero: "Non si può continuare ad amministrare le città ormai di grande tradizione riducendo la partecipazione popolare ad un solo atto quadriennale politicizzato al massimo e continuando, poi, con dibattiti in Consiglio comunale, di cui la popolazione ben poco si interessa, e con una organizzazione municipale divisa per settori male coordinati nel suo cammino. Quanto più si espande l'area della responsabilità civile, tanto più in profondità deve ristabilirsi il colloquio fra comune e cittadini, tanto più all'intervento comunale per ripartizioni deve aggiungersi ed integrarsi un'organizzazione di interventi per gruppi sociali territoriali, per quartieri." 6 Per Achille Ardigò, l'innovazione dei consigli di quartiere, almeno a Bologna, rispondeva "a tre criteri fondamentali: a) la necessità di dare risposta a bisogni emergenti di integrazione sociale soprattutto nelle nuove periferie urbane in formazione; b) la creazione di canali di partecipazione popolare oltre il sistema dei partiti, come supplemento di legittimazione per il governo democratico della città; c) il miglioramento della efficacia dell'azione amministrativa come contributo alla migliore governabilità complessiva" 7 Da queste convinzioni vengono istituiti i diciotto quartieri bolognesi, muniti del "Consiglio di quartiere" (nominato dal Consiglio comunale in proporzione alla rappresentanza dei vari gruppi politici, con funzioni propositive e consultive sull'adozione di atti comunali di maggior rilievo in materia di bilancio, programmazione e piano regolatore nonché degli atti di diretto interesse della popolazione del quartiere) e dell'"aggiunto de/Sindaco" ( contemporaneamente presidente del Consiglio di quartiere e direttore degli uffici comunali decentrati). L'iniziativa si espande in altre città (Cesena e Milano, rispettivamente 23 e 24 zone; Roma 20 circoscrizioni), ma accade pure che la giustizia amministrativa sentenzi l'inesistenza dei regolamenti comunali istitutivi dei quartieri o zone (esempio, a Torino) per carenza assoluta di potere, trattandosi di materia coperta da riserva di legge. Mentre per il Consiglio di Stato non era "ammissibile la creazione di speciali organi di decentramento non previsti dalla legge titolari di rilevanza esterna e di competenza, che incidono su procedure amministrative normativamente disciplinate." 8 :
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Era accaduto che progressivamente: a) veniva costantemente ampliata la tipologia dei pareri obbiigatori da rendere al consiglio comunale; b) venivano assegnate competenze non più consultive ma veri e propri ambiti di autonomia decisionale; c) venivano indette elezioni per la diretta legittimazione popolare; d) venivano affidati compiti di diretta gestione dei servizi. Quindi, le iniziative di decentramento comunale, avvenute senza un quadro normativo definito (il TULCP 1915 era molto limitato), rappresentavano una manifestazione della autonomia comunale, quasi una anticipazione della autonomia statutaria riconosciuta decenni dopo. LA LEGGE DEL 1976
La legge 8 aprile 1976, n. 278, costituì la conferma del modello di Stato, ora incentrato sul coinvolgimento, sulla collegialità delle scelte e sulla compartecipazione. Un fenomeno, che già, ad esempio, aveva interessato la scuola e che ora veniva esteso alle amministrazioni locali 9 Significative erano, all'articolo 1, le espressioni programmatiche "fino all'entrata in vigore del nuovo ordinamento delle autonomie locali" e "allo scopo di promuovere la partecipazione popolare alla gestione amministrativa della comunità locale e in attuazione del principio di autonomia sancito dall'articolo 12810 della Costituzione." Il modello legislativo scelto' 1 fu la riproduzione quasi identica di quello comunale: elezione a suffragio diretto del consiglio circoscrizionale (solo nei comuni con popolazione superiore a quarantamila abitanti e nelle frazioni) con coincidenza della durata del mandato con quello del consiglio comunale, con il compito di eleggere il presidente e con il riconoscimento di almeno un nucleo di ipotesi di parere obbligatorio non vincolante (bilancio preventivo, piano regolatore ed altri atti amministrativi generali, regolamenti comunali). In più, la legge consentiva di individuare ulteriormente compiti e funzioni attraverso lo strumento regolamentare. In questo modo, il decentramento comunale diventava parte integrante del governo della città, traendo, peraltro, legittimazione dal voto per le elezioni amministrative. Sembrò che questa costituisse la soluzione migliore per dare una risposta precisa e coerente al movimento sviluppatosi nell'ultimo decennio. Ambigua, però, si presentava' 2 la interpretazione della natura giuridica e dei poteri del consiglio circoscrizionale ad iniziare dal possesso o meno di autonoma personalità e dalla configurazione come ente locale. In merito a questa ultima questione, si ricorda che la Corte costituzionale dichiarò la illegittimità della legge Regione Sicilia 21 maggio 1975, istitutiva dei consigli di quartiere, in quanto la forma di elezione a suffragio diretto, che si intendeva adottare, venne considerata idonea a far loro assumere la qualificazione di enti locali territoriali in contrasto con l'elenco costituzionale dell'articolo 114 13. .
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I risultati furono inferiori alle attese 14. Istituti quali le assemblee pubbliche del consiglio circoscrizionale, le petizioni e le proposte di deliberazioni erano delle novità nell'immobile ordinamento locale, rendendo più intensa l'attività istituzionale del comune. Però la configurazione del consiglio circoscrizionale come organo esterno (e quindi con capacità di agire) e i regolamenti comunali, nella maggioranza dei casi, erano molto prudenti e minimi; in modo diffuso prevalse l'orientamento di strutture strumentali o consultive agli organi comunali. Inoltre, gravava l'unicità del paradigma legislativo, pesante costante caratteristica dellrdinamento degli enti locali, che rendeva impossibile l'avvio di esperienze differenti rispetto ai convalidati e tradizionali canali di rappresentanza e di intermediazione tra società civile ed istituzioni. LA LEGGE DEL 1992 E IL TUEL
La riforma Gava (legge 13 giugno 1990, n. 142) ha aperto alcuni spazi alla possibilità di differenziazione delle "Circoscrizioni di decentramento comunale" (art. 13), in quanto esse vengono configurate come "organismi dipartecipazione", di consultazione, di gestione di servizi di base e di esercizio delle funzioni delegate dal comune (art. 13, comma 1)15. Il decentramento municipale 16 viene indirizzato maggiormente verso lo svolgimento dei servizi di base e delle eventuali funzioni delegate (art. 38, comma 6), mentre la novità più rilevante è costituita dalla possibilità nello statuto di configurare le circoscrizioni come organi esterni, consentendo, quindi, alle stesse di dare immediata efficacia ai propri atti, liberandole da imposizioni tutorie. Questo assetto, abbandonate le dichiarazioni di principio della legge 1976, è stato ulteriormente rafforzato - in senso autonomistico - con la riforma Napolitano-Vigneri (art. 8, commi 1 e 2, della legge 3 agosto 1999, n. 265) di modifica dell'articolo 13 ult. cii'. poi trasfuso nell'articolo 17 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TuEL, approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267). Vengono tipizzate tre fattispecie di decentramento, le cui prime due risalgono al testo iniziale della riforma Gava: l'obbligo di istituire le circoscrizioni nei comuni con oltre centomila abitanti; la facoltà di istituire le circoscrizioni nei comuni con abitanti ricompresi tra i trentamila e i centomila; la possibilità nei comuni con popolazione superiore a trecentomila abitanti, di prevedere "particolari epiù accentrateforme di decentramento difunzioni e di autonomia organizzativa e funzionale" e di scegliere gli organi, lo status dei componenti e le relative modalità di elezione, nomina oppure mista (nomina o designazione).
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Questa ultima fattispecie, ricollegabile alla Carta europea delle autonomie locali (in particolare art. 4, comma 2, della legge 30 dicembre 1989, n. 439) e ai principi generali di riforma degli assetti istituzionali tramite il conferimento (art. 1 della legge 15 marzo 1997, n. 59), lascia ai comuni ampia libertà di scelta (elezione o designazione) dei rappresentanti 17 parallelamente alla disciplina dei municipi (cfr. art. 12, comma 2, della legge n. 142 cit. e, ora, art. 16, comma 2, TUEL) e, al contempo, suggerisce "il rinvio alla normativa applicabile ai comuni avente uguale popolazione" (cfr. artt. 16, comma 2, e 17, comma 5, TuEL), considerando i "componenti degli organi di decentramento" amministratori locali (art. 77, comma 2, TuEL), a cui poter applicare anche le misure di rigore (art. 40, comma 1, della legge n. 142 cii'. e artt. 142 - 143 TuEL). I COSTI DELLA POLITICA E LE RAGIONI DEL DECENTRAMENTO COMUNALE Dal 1990 nel nostro ordinamento è previsto che il consiglio comunale può deliberare la revisione delle delimitazioni delle circoscrizioni esistenti e la conseguente istituzione delle nuove forme di decentramento (art. 13, comma 5, della legge 142 cit. e, ora, art. 17, comma 5,TuEL). Si tratta di una norma essenzialmente superflua, ma la sua approvazione doveva costituire un chiaro invito del legislatore agli amministratori locali per la razionalizzazione dell'organizzazione territoriale. Dunque, un indirizzo programmatico di rilievo sempre maggiore nel mutato contesto politico-istituzionale ormai più attento ai profili finanziari delle scelte e delle attività. La questione del decentramento locale è, però, oggi diventata una tematica assai poco frequentata 18 E, infatti, accaduto che nell'ultimo ventennio si sono progressivamente consunte le consolidate forme e modalità della partecipazione popolare alla vita pubblica, mancando al contempo scelte innovative e differenziate per il governo delle città. Invece del miglioramento del decentramento comunale si è realizzata la burocratizzazione dello stesso e l'affermazione di un ceto politico di "quartiere", munito di privilegi e prebende 19 proprio quando l'applicazione del principio di sussidiarietà nella allocazione delle funzioni pubbliche poteva rendere le circoscrizioni (comunque denominate) il livello di base delle attività e dei servizi attinenti al sistema delle autonomie. Nel corso delle due ultime legislature, prima è stata disposta l'abolizione delle circoscrizioni nei comuni con popolazione inferiore a centomila abitanti (art. 2, comma 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244)20 e poi è stata disposta l'abolizione nei comuni con popolazione compresa tra i cento ed i duecentomila abitanti (art. 2, comma 186, della legge 23 dicembre 2009, n. 191) a decorrere dal rinnovo delle amministrazioni locali 2011 (art. 1, comma .
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2, del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 marzo 2010, n. 42). Recentemente, invece, sono state fatte salve le indennità dei consiglieri circoscrizionali, comunque denominati, dei capoluoghi possibili sedi di città metropolitane (art. 5, comma 6, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni e norma interpretativa) e cioè: Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Reggio Calabria, Roma Capitale, Torino e Venezia (artt. 23 e 24 della legge 5 maggio 2009, n. 42). I costi della politica e quali siano le ragioni del decentramento comunale costituiscono, oggi, gli estremi di oscillazione della questione. Ciò è emerso in modo chiaro durante i lavori parlamentari in merito alla discussione di una specifica risoluzione 21 , infruttuosamente finalizzata a far maturare un orientamento favorevole almeno ad ampliare l'ultimo limite posto dal legislatore alla dimensione minima comunale per poter istituire le circoscrizioni. Tuttavia, nel dibattito vi è stato chi ha cercato di dare una diversa prospettazione del tema, ritenendo che "( ... ) si possano trovare soluzioni diverse, che non richiedano complesse procedure amministrative e una struttura apposita. ( ... ) Occorre distinguere tra partecipazione popolare, sussidiarietà e articolazione amministrativa. Nelle grandi realtà territoriali il decentramento delle funzioni amministrative è opportuno. Vi sono molte città con più di 250 mila abitanti nelle quali le circoscrizioni di decentramento sono di fatto inutili perché i consigli comunali non delegano loro nessuna funzione concreta di gestione del territorio. La legge dovrebbe quindi definire un modello di decentramento amministrativo nel quale sia prevista una riserva di funzioni per i consigli decentrati e lasciare nel contempo libero il comune di organizzare in autonomia le forme di partecipazione dei cittadini alla vita collettiva comunale, senza che questa partecipazione debba necessariamente avvenire mediante le strutture di decentramento amministrativo."22
1l dibattito sul decentramento ha riguardato, fin dagli inizi dell'Unità, principalmente la forma di Stato e la distribuzione delle competenze tra centro e periferia. In tal senso, un punto di riferimento storico-giuridico è il saggio di G. ALASSIA, Lettere sul decentramento, Firenze, 1861.1 primi due paragrafi di queste note sono la nelaborazione della mia relazione riguardante La nuova struttura organizzativa delle Circoscrizioni al convegno Autonomia e decentramento amministrativo, organizzato dall'Amministrazione comunale di Lecce (21-22 gennaio 2000). 2 In base ai censimenti Ufficiali del 1911 e del 1921, i comuni con popolazione superiore a sessantamila abitanti erano rispettivamente trentacinque e trentotto. Tra questi anche comuni non capoluogo (quali Alcamo, Marsala e Modica). Sulla natura tutoria del controllo dei prefetti: I. P0RTELLI, Ordinamento delle autonomie locali e ruolo delle regioni, in «Nuove autonomie», n. 4-5, 2000, pp. 734736. Più in generale: I. P0RTEw, Alcuni aspetti della trama dei controlli degli enti locali, in «Nuove autonomie, n. 5-6, 1996, pp. 753-771. A. ARDIGÒ, Giuseppe Dossetti e il Libro bianco su Bologna, Bologna, 2003. Cfr. E. ROTELU, L'avvento della regione in Italia, Milano, 1967, pp. 295 ss.. 6 Democrazia Cristiana, Libro bianco su Bologna, 1956, pp. 11 SS.. 7 W. VITALI, Dai consigli di quartiere all'area metropolitano, in Centro studi per la riforma dello Stato, materiali/atti, n. 2,1984, p. 137. Lo studio analizza l'esperienza del Comune di Bologna. Parere della Sezione I, n. 2242/1975, reso al Ministero dell'interno. Per G. VImI.E si trattava di "partecipazione sociale' alle scelte (Razionalità e ristrutturazione nell'ente locale, in La voce dei segretari e dei dsjsendenti degli enti locali, n. 1-6, 1978, p. 79). 10 Poi abrogato dall'articolo 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Il G. STADEIOJNT, Diritto degli enti locali, Padova, 1991, pp. 292-302; S. Bartole, F. MASTRAGOSTINO, L. VANDELLI, Le autonomie territoriali, Bologna, 1984, pp. 285-289. 12 G. STADERJNI, op. cit., pp. 297-298. 13 Sentenza 23 aprile 1976, n. 107. Inoltre, con successiva sentenza (7 luglio 1988, n. 876) per gli stessi motivi fu dichiarata incostituzionale la legge della Provincia di Trento istitutiva di comprensori con organi rappresentativi eletti a suffragio diretto. 14 Ad esempio, sul caso di Bologna, W. VITAU, op. cit., p.
139: "Ciò che colpisce maggiormente, e che è parte della esperienza quotidiana dei consigli di quartiere, è la mancanza di corrispondenza tra le forme "istituzionalizzate" della partecipazione e i modi anche molto ricchi in cui i cittadini si organizzano autonomamente ed entrano in rapporto con l'amministrazione." Si veda, anche, G. STADERJNI, op. cit., p. 300. Ministero dell'interno - Gabinetto, circolare n. 17102/127/1/Uff. 3" del 7 giugno 1990, emanata prima della pubblicazione della riforma Gava, di cui costituisce un "primo commento", ed intitolata Nuovo ordinamento delle autonomie locali: "I compiti attribuiti alle circoscnizioni istituite a seguito di decentramento sia obbligatorio che facoltativo, sono quelli di partecipazione, consultazione e gestione dei servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune; tali funzioni, insieme alle regole di organizzazione, sono disciplinate dallo statuto comunale e da un apposito regolamento." 16 Cfn. A. MARZANATI, Art. 13, in V. ITALIA, M. BASSANI, Le autonomie locali, Milano, 1990, pp. 298-322. L. VANDELU (Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2007, p. 63) commenta che in questo modo si è "inteso sopprimere il carattere necessariamente elettivo dei consigli di circoscrizione, rinviando allo statuto e al regolamento ogni scelta. ( ... ) In questi termini, gli organi di decentramento potranno essere eletti direttamente dai cittadini, secondo i più diversi sistemi, oppure essere espressi, in via indiretta, da organi comunali, o, ancora, formarsi in base a designazioni di soggetti esterni." 18 Cfr., ad esempio, L. VANDELLI, op. cit., pp. 61-63, e G. VESPERJNI, La legge sulle autonomie locali venti anni dopo, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 4,2010, p. 953 ss.. 19 Cfr. S. Rizzo, G. A.STELLA, La casta, Milano, 2007, pp. 244-245. 20 La previsione era contenuta già nel programma di governo tra quelle in materia di "Misure per la riduzione dei costi politico-amministrativi e per la promozione della trasparenza" (2006 e 2007, XV legislatura). 21 Camera dei deputati, Risoluzione 7-00506 Bressa, I Commissione permanente, Resoconti sommari delle sedute del 24 marzo e del 19 aprile 2011, nel corso di quest'ultima il Governo si è dichiarato indisponibile all'accoglimento della risoluzione. Inoltre, il 13 aprile 2011, la Commissione aveva proceduto alle audizioni informali del Comitato nazionale delle circoscrizioni di decentramento e della Legautonomie. 12 Camera dei deputati, Risoluzione 7-00506 Bressa, cit., Resoconto sommario del 19 aprile 2011, intervento dell'on.le L. Lanzillotta.
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IL CONSIGLIO ITALIANO PER LE SCIENZE SocIALI
Il Css è un'associazione con personalità giuridica. Fondata nel dicembre 1973, con 1' appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Sociali (Co .S .Po .S.) che svolse a suo tempo, negli anni settanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: - contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; - incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; - sensibilizzre i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il Css rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il Css associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 3 commissioni di studio sui seguenti temi: le fondazioni in Italia; governo delle città e territorio; valutazione degli effetti delle politiche pubbliche. Vi è attualmente un gruppo di lavoro sul tema della produzione e trasformazione della conoscenza scientifica e tecnologica. Vi sono anche due progetti speciali pluriennali sui temi del ceto medio e della politica dell'innovazione e dei trasferimenti tecnologici. Da ricordare infine, l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche d'Europa.
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