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ALLA FINE DELL'ETÀ DELLA COSTITUZIONE ASCEA E (RAPIDO) DECLINO DEI NEOCONSERVATORI LAICITA E MULTICULTURALISMO: UNA PARTITA APERTA RICERCA SPAZIALE E TRASFERIMENTO TECNOLOGICO e FONDAZIONI COME ORGANIZZAZIONI DELLE LIBERTÀ SOCIALI (E POLITICHE) e SPESA PUBBLICA, POVERTA ED ESCLUSIONE SOCIALE LA VALUTAZIONE ECONOMICA DEL BENE CULTURALE


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132-

Direttore: Sicio

inverno

2003/2004

RISTUCcIA

Condirettore: ANTONIO DI MAJO, GIOVANNI VErRrrrO

Redattore Capo: SAVERIA ADDOTrA Comitato di redazione: FABIO BIscorrI, ROSALBA Colo,

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DI

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Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE

ISSN 1121-3353 Stampa: Spedalgraf - Roma Chiuso in tipografia il 10luglio 2004 Foto di copertina: elaborazione al computer a cura di lnrealma sr.l

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


N. 132 - inverno 200312004

Indice

III

Editoriale

Taccuino Ascesa e (rapido) declino dei neoconservatori Massimo Ribaudo 11

La fine dell'ideologia politicamente scorretta Barbara Spinelli

14

LaicitĂ e multiculturalismo: una partita aperta Paolo Sassi

23

Ricerca spaziale e trasferimento tecnologico Fabio Biscotti

Fondazioni come organizzazioni delle libertĂ sociali (e politiche) 39

Le fondazioni di origine bancaria: il quadro di riferimento comparativo Sergio Ristuccia

53

Le fondazioni politiche tedesche Elisabetta Pezzi


Spesa pubblica, povertĂ ed esclusione sociale 67

Una garanzia dei diritti di cittadinanza Eleonora Pittari La spesa pubblica nel contrasto alla povertĂ Chiara Nanni

Il bene culturale come risorsa economica 105

La valutazione economica del bene culturale Amedeo Di Maio

Rubriche 125

I'

Segnalazioni


editoriale -:

Alla fine della "età della costituzione"

Il dibattito che si è sviluppato, in questo primo scorcio d'anno, in merito alle proposte di riforma della Il parte della Costituzione, in discussione in Parlamento, per quanto estremamente interessante nel merito, rappresenta anche l'occasione per qualche riflessione di carattere più generale. Riflessione che non riguarda, dunque, il contenuto del testo in discussione, quanto piuttosto le ragioni profonde per le quali da anni ormai la classe politica italiana può affaticarsi attorno a proposte di modifica della nostra Carta fondamentale tanto mal rabberciate; per giungere, magari, a formulare qualche ipotesi sulle responsabilità della situazione, che probabilmente ricadono, a ben giudicare, anche sulla testa di qualcuno che oggi si straccia le vesti per gli imminenti errori (ed orrori) legislativi. Quello del maltrattamento dei concetti e delle regole generali che stanno alla base del costituzionalismo è, per l'Italia, un fenomeno non recente. Pochi ricordi sparsi. Negli anni '80 del '900 si discettò con grande serietà, e per diverse settimane, in Parlamento, della opportunità di usare uno "sbrego" alla Carta, per venire incontro a una certa esigenza della forza politica emergente del momento; vi sono stati poi, negli ultimi dieci anni, ripetuti tentativi di "interpretare" una locuzione solare come il "senza oneri per lo Stato" dell'art. 33; si è assistito alla fine ingloriosa dei lavori di tante bicamerali per la riforma costituzionale, le cui proposte, peraltro, davano adito a molte perplessità; infine, nel 2001, vi è stata la scelta di approvare, allo spirare della legislatura e "a colpi di maggioranza" (risicata, per di più), la modifica di una parte estremamente significativa della Costituzione, con soluzioni, oltretutto, che non hanno certo convinto. Ora se, per fare un solo esempio, in Gran Bretagna si riesce a rispettare una Costituzione senza neanche averla scritta (o forse, proprio per questo), mentre da noi si può verificare questo perenne gioco al ribasso sulla qualità del nostro patto fondante, qualche responsabilità potrà pur essere ipotizzata. La prima responsabilità, ovviamente, ricade sulla classe dirigente del Paese. D'altra parte, quello della mancanza di una élite politica di qualità è uno dei III


nodi irrisolti della nostra storia unitaria, segnalato, sin dall'800, da tutte le menti più lucide e da tutte le coscienze più cristalline. Con ciò, però, si è detto, da una parte, troppo e, da un'altra, troppo poco. La situazione nel nostro Paese non avrebbe potuto giungere tanto avanti senza la corresponsabilità (o correità) di molti giuristi ed in special modo, ovviamente, di tanti costituzionalisti. Seppure, in alcuni meritori casi, attivi a titolo individuale, negli studi e nell'insegnamento, sui temi della riforma costituzionale; seppure a volte capaci, ma soprattutto in convegni "di nicchia" e in consessi specialistici, di animate discussioni, gli studiosi di diritto costituzionale non sono riusciti, ormai da tempo ed ancor più nella fase più recente, a levare, come categoria, la loro voce nel dibattito pubblico, a costruire, nella percezione dei cittadini che seguono l'attualità delle istituzioni, un argine tecnico e specialistico alle soluzioni arronzate e tutte politiche (ma in un senso deteriore) sulle quali, man mano, si veniva formando l'accordo in Parlamento. Gli ultimi due convegni annuali della Associazione dei Costituzionalisti hanno affrontato temi di spessore e di prospettiva, ma lontani dalle proposte concretamente in discussione; come se nel Paese in cui le riunioni stesse si tenevano non fosse in atto una riforma costituzionale. Più volte, nell'ultimo anno, i costituzionalisti (meglio, di volta in volta alcuni costituzionalisti) sono riusciti a guadagnare le pagine di politica sui quotidiani, per appelli su singole questioni: la giustizia, l'informazione. Altrettanto non è accaduto, invece, per un progetto di riforma costituzionale che rischia di dare il colpo di grazia ad un testo cui già la riforma del 2001 e la successiva giurisprudenza della Corte non paiono aver reso un buon servigio. L'unico approfondito dibattito sul testo già approvato, in prima lettura dal Senato, si è sviluppato, diverse settimane orsono, sotto gli auspici di una fondazione politico-culturale dichiaratamente espressione del maggior partito dell'opposizione. Fatto, questo, che può essere salutato con soddisfazione sul piano della volontà di alcuni settori della classe politica di stabilire (almeno dall'opposizione, perché quando si è al governo la musica è tutt'altra) un contatto con il mondo della riflessione scientifica; ma che non stempera (anzi, semmai aggrava) il giudizio critico sull'atteggiamento degli studiosi del ramo, in quanto autonoma componente del dibattito pubblico. Soprattutto, desta amarezza la capacità che i docenti universitari (ed anche alcuni costituzionalisti e politologi) hanno avuto di monopolizzare la riflessione "colta" sui quotidiani su un tema di loro immediato interesse, quale la riforma dell'università, e la inadeguatezza (ma, forse, il disinteresse; il che è peggio) a fare altrettanto per la riforma della costituzione. Iv


Le ragioni di tutto ciò si ritrovano, probabilmente, in atteggiamenti diffusi nella nostra accademia. Due derive di segno diverso ma convergente hanno infatti caratterizzato, in generale, il contributo di troppi intellettuali di formazione giuridica al dibattito pubblico sulla Costituzione, che, progressivamente, si imbarbariva (con poche, nobili eccezioni). In primo luogo, si è riconfermata sempre più tra gli intellettuali (ed anche tra i giuristi) la tendenza, tipica di un Paese di cultura controriformista, a farsi strumento del potere, a sposare una parte politica difendendone acriticamente ogni proposta (per quanto errata o strumentale), abbandonando coerenza e coscienza del proprio ruolo. Si tratta di una distorsione tutta italiana della tradizione dell'intellettuale engagé (che, viceversa, ha luminosi esempi in Europa); anche questi si schiera apertamente con una parte politica, per partecipare alla formulazione degli indirizzi e delle proposte, ma all'occorrenza anche per fare da coscienza critica; mai, comunque, abbandonando il suo senso di discernimento, mai facendosi cantore dell'ultimo stratagemma elettoralistico.

Gli albori di un vero dibattito Anche in Italia, negli anni della rinascita costituzionale, ma ancora per decenni in seguito, non sono mancati intellettuali capaci di alimentare il dibattito pubblico sui temi della Costituzione, alla luce di una dichiarata appartenenza culturale: il cattolicesimo democratico di Costantino Mortati, l'azionismo di Piero Calamandrei, il socialismo di Carlo Lavagna, il liberalismo di Carlo Esposito, il radicalismo eretico di Giuseppe Maranini. Alcuni di loro ebbero anche un impegno nei partiti (che fu, anzi, anche significativo); ma la loro produzione scientifica ed il loro impegno pubblicistico e di partecipazione al dibattito pubblico erano tanto cospicui e coerenti, che furono semmai i partiti a farsi portatori delle loro proposte (e non viceversa). Oggi, nonostante i generosi sforzi dei soliti happyfew, l'approccio maggiormente diffuso non è più quello. Al contrario, si è sviluppata una sorta di "disciplina di partito" degli intellettuali, che spesso, paradossalmente, supera quella degli stessi parlamentari. Con il che, il ruolo dell'intellettuale, più che inutile, diviene dannoso. Tutto all'opposto di questa tendenza, si è sempre più imposto, negli ultimi anni, e tanto più tra i giuristi, il tipo dell'intellettuale perso nel suo tecnicismo, dello studioso appassionato di un metodo e di un ordine astratto, ma del tutto distaccato dalla realtà. Tipo molto comune in qualsiasi disciplina, in un Paese intriso di una

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sorta di idealismo inconscio di massa, ma ancor più frequente nelle scienze giuridiche, ed in quelle pubblicistiche in maggior grado, per via dell'impronta avuta per quasi un secolo dalla scuola italiana di diritto pubblico, da Orlando in poi. Un simile abito mentale deriva dall'assurda idea che il lavoro intellettuale debba rispondere soltanto a certe sue leggi teoriche e che l'armonia della costruzione e la purezza dei concetti debbano essere le uniche preoccupazioni; laddove, pur riconoscendo alla correttezza di metodo e di forma del lavoro intellettuale un valore fondante, è evidente che ogni sforzo di concettualizzazione merita di esser fatto se serve ad interpretare o criticare la realtà, quando non a fornire gli strumenti per plasmarla. Questo secondo tipo di giurista è forse ancor più diffuso del primo. Innamorato del suo astratto sillogizzare, attratto solo dalla armonia della sua costruzione intellettuale e dalla rispondenza a certi canoni ideali, è del tutto disinteressato alla idoneità o meno delle sue teorie ad applicarsi alla realtà e forgiarla. Uno studioso in grado di sistemare quintali di giurisprudenza della Corte, magari di dettaglio, ma del tutto incapace di far passare nel dibattito pubblico pochi meludibili concetti di costume costituzionale; che infligge ai suoi studenti centinaia di pagine di una manualistica certosina e pedante, ma non sa lasciare loro le poche coordinate che dovrebbero segnare i confini non superabili di una pur vivace disputa istituzionale.

L'ideologia del 900 Denunziando, in tal modo, di essere ancora vittima di quella che Norberto Bobbio, in una pagina indimenticabile, ha definito la "ideologia italiana del '900", questo genere di costituzionalista, nel mentre rendeva ferree e coerenti (e, magari, un po' astruse) le sue categorie concettuali, lasciava, in pratica, libero il campo alla politica, nel concreto dibattito sulla riforma costituzionale, per sottomettere le ragioni del diritto a quelle del potere. Proprio quel potere per frenare il quale le costituzioni, un paio di secoli fa, sono nate. La costituzione, infatti, (val forse la pena di ricordano, anche se dovrebbe essere banale) non è una parte originaria e necessaria del sistema giuridico occidentale di ascendenza romanistica. L'antica Roma non aveva nulla di simile ad una costituzione (pur avendo lasciato il più notevole corpus normativo dell'antichità) e per secoli, nell'area geografica che un po' all'ingrosso possiamo definire occidentale, si sono sviluppati raffinati e completi sistemi giuridici, cui in gran parte siamo ancora oggi debitori, senza che esistessero testi costituzionali. È solo con il giusliberalismo che la costituzione diviene il cardine dei sistemi

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giuridici occidentali; meglio, è con il liberalismo politico che ciò avviene, perché la costituzione è la risposta all'imperativo fondante di quella cultura politica: "limitare il sovrano". Risposta che si muove su due aree: il plan ofgovernment (ovvero, chi e in che modo può legittimamente esercitare il potere pubblico) ed il bili of rights (ovvero, cosa è comunque obbligato a fare o a non fare, chi esercita il potere pubblico, rispetto ai liberi individui ed ai corpi sociali). Nell'aspirazione a creare, in entrambi i sensi, limiti invalicabili all'esercizio del potere. La fortuna intellettuale e politica di questa costruzione ne ha però, un po' mopinatamente, segnato nel tempo la progressiva sclerotizzazione. In altre parole, quando ha iniziato a divenire indifferente il contenuto minimo delle costituzioni, quando anche regimi dichiaratamente illiberali hanno iniziato a sentire il bisogno di darsi delle costituzioni, è stato evidente che per le ragioni profonde del costituzionalismo il futuro sarebbe stato in chiaroscuro.

Un elemento del galateo istituzionale Da pietra angolare dei sistemi politici e giuridici, la costituzione è divenuta man mano un dovuto elemento di bon ton istituzionale, nei casi peggiori poco più di un pezzo di carta, privo di un suo ineliminabile dover essere e buono, semmai, a dimostrare di saper "stare a tavola" nei contesti decisionali più importanti della comunità internazionale. Con il che è divenuto evidente il declino della cultura liberale (e non a caso, in seguito, degli stessi partiti liberali). A questo declino, in molte realtà, ha fatto ancora argine una dignitosa "politica costituzionale", grazie a quel tanto che del liberalismo aveva germogliato in terreni più o meno distanti: il cattolicesimo democratico, il socialismo riformista, un certo libertarismo radicale, quella recente (e per la nostra cultura un po' schizofrenica) destra che in America va sotto il nome di anarcocapitalismo. Queste culture hanno cercato, bene o male, di tenere ferme quelle due o tre idee guida senza le quali il costituzionalismo diviene, da questione centrale della cittadinanza (e, quindi, del dibattito pubblico), una sterile (e un p0' noiosa, occorre riconoscerlo) esercitazione per soli laureati in giurisprudenza. Gli ultimi mesi, per la verità, hanno mostrato i segni esteriori di una nuova vitalità del "problema della costituzione"; segni cui tutti noi, speranzosi, tendiamo ad appigliarci e che, però, si prestano legittimamente ad interpretazioni di segno non univoco. Il dibattito sulla nuova "Costituzione europea". I1esperimento di una Carta fondamentale nell'Afghanistan del dopo occupazione. La tensione verso un vero processo costituente nel drammatico "falso dopoguerra" irakeno, in bilico tra conflitti armati striscianti e aperture ad un nuovo ruolo per l'ONu. La discussioVII


ne parlamentare, in Gran Bretagna, su un constitutional reform bill teso a dare completezza alla separazione dei poteri, esaltando la funzione politica della Camera dei Lords (già riformata, quanto ai criteri di elezione, nel 1999) ed eliminandone la funzione giurisdizionale, mediante l'introduzione di una vera Corte Suprema modellata su quella statunitense; atto, quest'ultimo, che pare sin dalla terminologia dell'intestazione una assoluta novità, per un Paese che, come detto, non ha mai inteso metter per iscritto in maniera organica quella congerie di principi, regole e prassi che, a partire dall'habeas corpus del 1679, rappresenta per tutto l'occidente un esempio di cultura (prima che di tecnica) delle istituzioni. Tutto ciò può lasciar intendere che, almeno in alcune realtà e ad alcune condizioni il dibattito sulla costituzione può essere ancora vivo e vitale. È a segnali di questa natura che occorre guardare, mantenendo desta la riflessione e l'attenzione civile. Anche su questi segnali, però, guardando le cose da un'altra angolazione si giustificano, purtroppo, qualche preoccupazione ed un dubbio di fondo. Se quanto dianzi ricordato, in merito al "dover essere" delle costituzioni nella storia degli Stati moderni, corrisponde a verità, ognuno dei casi appena menzionati alimenta una speranza ma lascia, per così dire, con l'amaro in bocca. L'empasse nella quale è caduto per tanti mesi il progetto (Dio sa quanto indispensabile) di ridisegno delle istituzioni e della cittadinanza europee (anche per il maldestro contributo dell'ultima Presidenza italiana) è stato forse proprio il segnale di quanto sopra si ricordava: un progetto di questa natura non smuove più i grandi schieramenti politici e di opinione, perché il costituzionalismo sta diventando, purtroppo, sempre più una esangue esercitazione tecnica, quando non un balletto formale nella dialettica del potere e dei poteri. E ciò, in Europa, perfino su un testo della cui natura compiutamente costituzionale (nel senso qui più volte ricordato) molti giurano, ma non senza che ad altri sia consentito restare di ben diversa opinione. Lo stesso compromesso che, mentre queste note vanno in stampa, sembra aver consentito di superare lo stallo, proprio in chiusura del semestre di presidenza irlandese, nel Consiglio Europeo del 18 giugno scorso, potrà essere compiutamente giudicato solo in prospettiva, ma ad una prima impressione sembra piuttosto lontano da un sentito "spirito costituente". Perplessità ancora maggiori restano, poi, sulla questione afgana ed irakena, che pare impantanata in una "grande transizione" nella quale sembrano di là da venire ristabilimento della sovranità, riorganizzazione autonoma della società civile, ricostruzione della rappresentanza politica, libere elezioni; in una parola, quella democrazia che USA ed alleati hanno sempre dichiarato di voler esportare in Paesi troppo a lungo devastati da fondamentalismi religiosi e dittature sanguinarie. 04111


In un simile contesto, per stare al caso di maggiore attualità, non si sa bene come e da dove dovrebbe nascere la presunta costituzione irakena (esito e complemento di quella provvisoria da poco varata); essa rischia di dimostrarsi proprio il prototipo di quei doverosi, sbandierati, ma in definitiva inutili "pezzi di carta" che in determinate situazioni non fa fino non adottare, ma che sono molto lontani dall'essere il punto di arrivo di una maturazione politica collettiva in termini di limitazione del potere e di garanzia dei diritti.

Una primavera Costituzionale? Se, dunque, questa nuova "primavera della costituzione" si riduce al solito caso della beneamata e mai abbastanza invidiata Gran Bretagna, il dubbio sulla effettiva natura dei segnali, che da ottimisti ci piace affiancare per trovare le ragioni di una speranza, si fa ancora più forte. D'altra parte, dopo un paio di decenni di svalutazione della portata "formale", "illuministica" e "velleitaria" del diritto, portata avanti dai sostenitori di un pensiero unico economicistico, fondato su di una assenta precedenza assiologia dei meccanismi dell'economia e su di una presunta "naturalità" delle leggi del mercato, la questione del ruolo del diritto nella organizzazione delle istituzioni e della società è ad un punto cruciale. Il diritto è stato, per più di due secoli, il "grande regolatore" della vita delle istituzioni, ma in questo senso oggi rischia di avviarsi alla stagione del tramonto. Esso sembra dover lasciare sempre più il passo, nella medesima funzione di orientamento e legittimazione delle scelte, all'economia, con la sua razionalità utilitaristica, con i suoi criteri di efficacia, efficienza ed economicità, con i suoi canoni di decisione, con le sue dinamiche e le sue leggi. Un simile trapasso, se davvero dovesse verificarsi, non sarebbe indolore per nessun sistema istituzionale. Esso, però, sarebbe tanto più arduo per un Paese come il nostro, che ha abbandonato troppo presto la cultura delle regole e dimostra quotidianamente, per di più, di essere ancora lontanissimo da una moderna cultura del mercato. Il panorama non è ancora abbastanza definito da poter azzardare una ipotesi sugli esiti; la questione, però, è ormai sul tappeto. Per gli studiosi seri e gli intellettuali appassionati c'è una battaglia di idee da condurre, mantenendo vivo in ogni Paese lo spirito originario del costituzionalismo contro l'imbarbarimento delle idee e le smanie del potere. Battaglia ardua, si dirà; ma proprio per questo, degna di essere combattuta, se del caso anche da posizioni di minoranza. Wefew, we happyfew...

G.V Ix


taccuino

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Ascesa e (rapido) declino dei Neoconservatori di Massimo Ribaudo

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n questi ultimi mesi il quadro di riferimento post-bellico in Iraq sta dimostrando il suo reale livello di complessità. Analisti e commentatori tacciati di catastrofismo e aperta ostilità nei confronti della partnership anglo-americana ora riescono finalmente a far ascoltare le proprie opinioni. t a tutti chiaro, infatti, come la gestione delle operazioni per deporre Saddam Hussein e per gestire la creazione di un nuovo governo irakeno si sia dimostrata, alla forza dei fatti, fortemente inadeguata. Il tutto ha poi, inevitabilmente, fomentato maggiormente la furia terroristica. Nella presente sintesi si tenterà di illustrare sommariamente alcuni elementi dello scenario culturale che ci troviamo di fronte nell'affrontare il tema del terrorismo. Scenario nel quale i neoconservatori rivestono, come si vedrà, una posizione non marginale. Attualmente vi è un conflitto ideologico molto forte nell'area "imti occidentale: la contrapposizione fra la classe dirigente statuni- americanismo tense e gran parte delle opinioni pubbliche e delle élite culturali all'interno degli stessi Stati Uniti e in tutto l'Occidente. Anche se in parte alimentato strumentalmente da un'area di qualunquismo ideologico e da nostalgici della Guerra Fredda che anelano a delegittimare e rovesciare la leadership geostrategica Stati Uniti, la questione presenta delle valenze culturali e di diritto internazionale di non scarso valore. Ci piace ricordare una provocazione di Arundhaty Roy sul tema di quello che viene definito "antiamericanismo". i


"Cosa significa il termine 'anti-americano? Vuoi dire essere contro il jazz? O contro la libertà di parola? Vuoi dire che non si apprezzano Toni Morrison o John Updike? Che si ha qualcosa da ridire sulle sequoie giganti? Signfica che non si ammirano le centinaia di migliaia di cittadini americani che hanno manifistato contro le armi nucleari, o le migliaia che si opposero alla guerra e costrinsero il proprio governo a ritirarsi dal Vietnam? Significa odiare tutti gli americani? Questa ingegnosa sovrapposizione di cultura, musica, letteratura americane, della bellezza fisica mozzafiato del paesaggio, dei piaceri ordinari della gente comune, con le critiche alla politica estera del governo Usa (della quale, grazie alla 'libera stampa' americana, la maggioranza degli americani purtroppo conosce assai poco) costituisce una strategia premeditata ed estremamente efficace. Somiglia a un esercito in ritirata che si rifugia in una città densamente popolata, sperando che l'eventualità di colpire obiettivi civili distolga ilfiioco nemico" Dimostrare, alla luce delle norme scritte e consuetudinarie, che gli Stati Uniti, successivamente agli eventi del 1989, (e, quindi, all'acquisizione di una non controvertibile posizione di preminenza nello scenario internazionale), abbiano promosso e perpetrato politiche e azioni militari fortemente lesive dei principi di diritto internazionale, dei trattati e della stessa indipendenza e ruolo dell'Onu, tutelando in primo luogo i propri interessi nazionali e quelli dello Stato d'Israele, è prendere atto di responsabilità giuridiche e politiche di uno Stato sovrano nei confronti della comunità internazionale, ove questa consista ancora di rapporti tra pari. Approfondire la dinamica delle strategie mediatiche americane per comunicare che gli accordi di Durban sul razzismo e l'intolleranza religiosa erano falliti (agosto-settembre 2001, si noti bene) significa tentare di definire un possibile framework interpretativo all'esplosione della furia terroristica, non certo a giustificarla. Ci si interroga quotidianamente su come sconfiggere l'ondata Le questioni terroristica islamica mentre continuiamo a dimenticare la ten- di fondo sione esistente all'interno degli Stati arabi - soprattutto in Arabia Saudita - tra frenetico processo di modernizzazione e fonda2


mentalismo religioso. Un tema lasciato cadere senza alcun tentativo di approfondimento e intervento della comunità internazionale. Affermare, poi, una realtà palese quale quella che la causa prima del dilagare del terrorismo islamico consista nell'irrisolta questione dei territori palestinesi, suona invece come manifesta professione di antisemitismo. L'unico conflitto reale sembra invece concretarsi in quello tra terroristi e pacifisti, (catalogati tra gli alleati del terrorismo internazionale), da una parte, e gli Stati Uniti con Israele, ed i governi alleati dall'altra. Questa fuorviante percezione del quadro strategico sta generando uno stato di sempre più alta conflittualità e tantissime vittime civili. Uno spostamento dell'ottica di analisi che appare in gran parte dovuto all'influenza politica, culturale e mediatica del movimento neoconservatore, principale teorico della "guerra preventiva". Fu il segretario di Stato Madeline Albright a parlare degli Stati Uniti come "nazione indispensabile". In tutte le dichiarazioni ufficiali, le diverse amministrazioni succedut.isi a Reagan hanno presentato il ruolo degli Stati Uniti come ultima istanza della sicurezza mondiale. E in questo riprendendo gli echi dell'affermazione orgogliosa di Herman Melville che nel 1850 affermava che gli americani "sono Io speciale popoio eletto, l'Israele dei nostri tempi. Noi portiamo l'arca delle libertà universa1i' Questo però le presidenze Clinton e Bush Jr. Io interpretano come un compito da adempiere depauperando di poteri e responsabilità diverse organizzazioni internazionali, prima fra tutte L'ONU. Vi è quindi stato il ritiro dal trattato sui missili ABM e la ripresa del progetto di Reagan di scudo spaziale, il ritiro dal Protocollo di Kyoto, il disconoscimento del Tribunale Penale Internazionale e il ritiro dagli Accordi di Durban sul razzismo e l'intolleranza religiosa. Nel suo discorso alla nazione successivo ai fatti dell'il Settembre 2001, il Presidente George W. Bush ha deliberatamente affermato come la ricerca dei colpevoli sia per gli Stati Uniti d'America un "atto di volontà e non un atto di autorità".

Come è iniziata la guerra

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Il giurista che dovesse aver consigliato questa frase doveva conoscere bene il diritto pubblico romano. Soltanto l'auctoritas era legittima. Soltanto l'azione pubblica che si basava sull'autorità aveva valore per tutti. Siamo, invece, tornati alla decisione volontaria singola. Al modello unilaterale di risoluzione dei conflitti. Alla possibilità di attacco "preventivo" secondo un modello di responsabilità oggettiva internazionale che non trova riscontro in nessun trattato stipulato fino ad oggi, ed anzi, si pone in totale contraddizione con i principi contenuti nei principali atti di diritto internazionale che ancora si dicono "vigenti" Questo nuovo approccio ripudia l'idea centrale della Carta delle Nazioni Unite (rafforzata dalle decisioni della Corte internazionale dell'Aia), che proibisce ogni uso della forza in campo internazionale se non per autodifesa dopo un attacco armato che travolga un confine nazionale,.o per decisione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Quando l'Iraq ha invaso e annesso il Kuwait nel 1990, quest'ultimo era legittimato all'autodifesa per recuperare la sovranità anche senza l'autorizzazione dell'Onu. Gli Stati Uniti e altri Paesi poterono unirsi al Kuwait appoggiando le sue esigenze, secondo ciò che la legge internazionale definisce "autodifesa collettiva L"attacco preventivo" invece è una dottrina che non riconosce alcun limite, priva di qualsiasi considerazione della legge internazionale dell'Onu, del tutto indipendente dal giudizio collettivo di governi responsabili e, cosa ancora peggiore, slegata da qualsiasi dimostrazione convincente di una necessità concreta. Sono evidenti i notevoli rischi che la dottrina dell'attacco preventivo, peraltro tradotta in norme giuridiche con il Patriot Act, comporta sul piano della legalità internazionale: appare infatti chiaro in tutta la sua portata il tentativo della attuale Amministrazione americana di ridisegnare l'ordine mondiale attraverso azioni coercitive che il diritto internazionale considera illecite. In effetti, la pretesa americana di apprezzare unilateralmente le circostanze la cui sussistenza legittima un impiego della forza armata appare difficilmente compatibile non solo con l'art. 2, 4 ma anche con altre disposizioni della Carta.

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La "guerra preventiva"


Rilevano, a tale proposito, gli artt. 24 e 39 dello Statuto. In base all'art. 24 i Membri delle Nazioni Unite convengono di conferire al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Quanto all'art. 39, è noto che questa disposizione conferisce al Consiglio di sicurezza un potere, ampiamente discrezionale, di accertare l'esistenza di una "minaccia alla pace" e di decidere le misure idonee a farvi fronte ex cap. VII: ne consegue che la dottrina della "guerra preventiva" confligge pure con la prassi consiliare di "autorizzare" Stati membri a fare ricorso "a tutti i mezzi necessari" ove la pace risulti violata. La configurazione di una "guerra preventiva" non potrebbe arnmettersi neanche alla luce del diritto di legittima difesa il cui esercizio, previsto dal diritto internazionale, presuppone l'esistenza di un "attacco armato" in atto da parte di uno Stato. Come è noto, l'art. 51 della Carta che disciplina il diritto in questione qualificandolo come "naturale", è una disposizione riproduttiva del diritto consuetudinario preesistente. Si è affermato, da parte di Cesare Pinelli, che tale norma avrebbe potuto forse essere invocata se fossero risultati provati i legami tra AI-Quaeda e il regime di Baghdad: ma l'assenza di prove certe sui presunti vincoli tra Al Quaeda e l'Iraq ha impedito di richiamare validamente il precedente della ris. 1368 del 12 settembre 2001, con cui si riconosceva agli Stati Uniti il diritto di legittima difesa dopo l'attacco alle due torri. Pertanto, risulta inammissibile qualunque ricostruzione che assimili, in assenza di prove inconfutabili, i terroristi internazionali ad organi "di fatto" dello Stato iracheno. Vige quindi uno stadio di anarchia istituzionale a livello di diritto internazionale che, unitamente alla colpevole sottovalutazione delle crisi interne agli Stati di religione islamica e del conflitto arabo-israeliano, concede spazi di manovra preoccupanti alla rete acefala e, quindi ancor più pericolosa, denominata Al Qaida e ai suoi adepti. La dottrina dei neoconservatori è di una disarmante sempli- Una costante nella storia cità: la leadership americana fa bene al mondo. Nelle parole di Thomas Donnelly, autore principale di Rebuil- statunitense dingAmerica's Defenses, "secondo qualunque metro politico, eco5


nomico, militare, culturale, ideologico, di potere nazionale, gli Stati Uniti non hanno rivali, non soio oggi nel mondo ma, si potrebbe sostenere, nella storia umana". Secondo i neoconservatori, l'America ha pertanto la responsabilità morale di mantenere la pace nel mondo ed espandere il dominio dei "valori americani" (libertà individuale e democrazia), se necessario attraverso una serie di interventi militari mirati a sradicare il male e a promuovere "cambiamenti di regime" prima che gli "Stati canaglia" minaccino l'America, i suoi amici e alleati. Questo senso di una missione civilizzatrice degli Stati Uniti non è certamente una novità del pensiero neoconservatore; si tratta, piuttosto, di una caratteristica persistente della storia americana, da quando i primi pellegrini posero piede nel Nuovo mondo. Si considerino, per esempio, le parole di John L. O'Sullivan in Manf'st Destiny (1839): "Siamo la nazione del progresso umano, e chi vorrà, cosa potrà, porre limiti alla nostra marcia in avanti? ... Dobbiamo avanzare fino al compimento della nostra missione ( ... ). Libertà della coscienza, libertà della persona, libertà del commercio e degli affari, universalità della libertà e dell'uguaglianza. Questo è il nostro destino". Da questo credo in una missione redentrice, animato dal senso di superiorità morale degli Stati Uniti, (molto vicina alla dottrina ebraica della "nazione eletta"), sono emerse due opposte tendenze che hanno caratterizzato il dibattito sulla politica estera statunitense fino ai giorni nostri: da una parte una tendenza internazionalista che predilige l'intervento degli Stati Uniti negli affari del mondo, per esportare, anche con la forza, la democrazia e la libertà a Paesi terzi; e una tendenza più isolazionista, che vede negli Usa un esempio che altre nazioni possano seguire. I neoconservatori appartengono sicuramente alla prima corren- "L'internate, inserendosi nella tradizione dell"internazionalismo conserva- zionalismo tore" di Theodore Roosevelt di cui i neoconservatori riconoscono conservatore esplicitamente l'influenza ideologica. Roosevelt, che aveva condotto gli Stati Uniti alla vittoria nella Guerra ispano-americana del 1898, contribuendo a fare degli Usa la potenza dominante nell'emisfero occidentale, "arrogava agli Stati Uniti il diritto 6


esclusivo a intervenire in America Latina". Roosevelt immaginava un mondo in cui "le nazioni civilizzate" si sarebbero assunte l'onere di impedire "illeciti cronici" che allentassero "i legami della societa civilizzata ; e sosteneva che nell emisfero occidentale l'adesione degli Stati Uniti alla Dottrina di Monroe potrebbe costringerli, sebbene controvoglia, a esercitare una forza di polizia internazionale in casi flagranti di tali illeciti o impotenza". I neoconservatori, ben prima dell'il settembre, si spingono più in là, sostenendo l'importanza di interventi volti a prevenire possibili minacce alla sicurezza degli Stati Uniti o dei loro alleati, anche e soprattutto prima che queste si siano manifestate. Tali minacce proverrebbero non solo dalle reti terroristiche internazionali, ma anche e soprattutto da regimi tirannici che danno rifugio o appoggiano i terroristi, perché nutrono ambizioni di dominio regionale o perché spinti da profondi sentimenti antiamericani. Questi regimi, che si reggono sull'oppressione, sulla repressione e sulla violenza, non possono non sentire, secondo i neoconservatori, la loro legittimità minacciata dai valori "americani" di libertà politica individuale e democrazia. Per restare credibili agli occhi delle proprie popolazioni, i regimi tirannici devono quindi dimostrare che il nemico è in realtà vulnerabile: da qui il loro desiderio di nuocere agli Stati Uniti o ai loro alleati. Per impedire che ciò avvenga, gli Stati Uniti devono intervenire con decisione affrontando il problema alla radice: promuovere "cambiamenti di regime" (attraverso azioni militari o appoggiando insurrezioni interne) e favorire l'instaurazione di governi democratici che, per loro stessa natura, avrebbero un atteggiamento più benevolo nei confronti degli Stati Uniti e dei valori di cui sono portatori. Molti osservatori ritengono che in questo i neoconservatori L'influenza siano influenzati dagli insegnamenti di Leo Strauss, filosofo te- di Leo Strauss desco di origini ebraiche emigrato negli Stati Uniti alla vigilia dell'ascesa al potere di Hitler, professore all'Università di Chicago fino al 1973, anno in cui morì. Avendo vissuto in prima persona come i nazisti avessero assunto il controllo della Repubblica di Weimar, Strauss aveva concluso che "la democrazia non 7


aveva alcuna speranza di imporsi qualora fosse rimasta debole ( ... ). Espansionista per natura, si potrebbe dover affrontare la tirannia facendo ricorso all'uso della forza", perché "l'unico contenimento in cui l'Occidente può riporre qualche fiducia è la paura che nutre il tiranno nei confronti dell'immenso potere militare occidentale". L'obiettivo ultimo, secondo Strauss, dev'essere "esportare" la democrazia, perché "per rendere il mondo sicuro per le democrazie occidentali, bisogna rendere l'intero mondo democratico, all'interno di ciascun Paese così come la società delle nazioni". Il modello di democrazia cui Strauss faceva riferimento era influenzato dalla filosofia politica classica, in modo particolare "la concezione aristotelica dell'uomo come politico per natura ( ... ). Se l'uomo è naturalmente politico, il bene della politica esiste anch'esso per natura ( ... ). Se ci sono beni naturali c'è una gerarchia naturale di beni, e perciò una gerarchia naturale di uomini, poiché differenti uomini perseguono differenti beni". Quel che è certo è che, come per Strauss, anche per i neoconservatori l'evento storico che pii'i di ogni altro ne ha condizionato la visione della politica estera è stato l'Olocausto: "Per coloro di noi che oggi sono impegnati nella politica estera e nella difesa", ha detto Richard Perle, "per la mia generazione, l'evento che ha segnato la nostra storia è stato sicuramente l'Olocausto. È stata la distruzione, il genocidio di un intero popolo, ed è stato causato dal non aver risposto in tempo a una minaccia che stava montando. Non vogliamo che accada di nuovo, quando abbiamo la capacità di fermare i regimi totalitaristici dobbiamo farlo, perché se non lo facciamo i risultati saranno catastrofici". Va dato merito ad Alessandro Spaventa e Fabrizio Saulini (Di- Il nuovo vide et impera, la strategia dei neoconservatori per spaccare l'Euro- secolo pa, Fazi Editore, Roma, 2004) di aver saputo costruire, con nt- americano? mo incalzante e completezza di documentazione, un interessante quadro delle strategie del gruppo dirigente neoconservatore vicino all'amministrazione Bush. Il tutto, comprendendo con chiarezza che l'obiettivo dell'azione militare in Iraq non è mai stato la semplice destituzione del rais Hussein, e neppure la lotta al terrorismo internazionale, ma soprattutto l'indebolimento del


ruolo giuridico e politico dell'Onu e la spaccatura geostrategica dell'Unione Europea. Ora, secondo i due Autori, assistiamo però alla fase discendente della parabola dell'influenza Neocon, soprattutto in seguito agli evidenti errori ed alle palesi mistificazioni perpetrate da coloro che sono da tempo all'interno dell'amministrazione Bush. Nel numero di Maggio 2004 di Limes, Massimo Franco parla apertamente di "tramonto dei Neocon". L'Autore ci ricorda come Richard Perle si sia dimesso dal Pentagono a fine febbraio. E ormai all'interno dei commentatori americani più moderati trapela la volontà di buttare a mare il pensiero neo-fondamentalista perché, come ha accusato G. John Ikenberry della Georgetown University gli stessi neoconservatori "hanno dissipato quello che era il patrimonio più importante della politica estera americana: la sua autorità morale". Il crepuscolo dell'approccio neoconservatore è, soprattutto dopo l'evidenza degli atti contro i diritti umani perpetrati ai danni dei prigionieri e dei civili irakeni, un fatto evidente. Ma non bisogna dimenticare come le idee del "think thank" americano abbiano comunque provocato un vulnus al diritto internazionale che per il momento è ben lontano da essere in qualche modo sanato. La fitta rete di rapporti economici e politici intessuta dalle élite neoconservatrici ha posto in essere un meccanismo che comunica quelle volontà di interventismo unilateralista che provocano e provocheranno uno stato di tensione mondiale sempre meno gestibile. Secondo Spaventa e Saulini, il progetto del nuovo secolo americano è destinato a rinviarsi a nuova data. La momentanea perdita di visibilità dei neoconservatori, oltreché alle crescenti difficoltà statunitensi in Iraq, potrebbe però essere la logica conseguenza dell'anno elettorale. In campagna elettorale, è noto, i falchi non appaiono, e se possibile, i protagonisti se ne discostano con fastidio. È bene chiedersi quale tipo di strategia politica e militare vorrà La necessità adottare George Bush Jr. una volta rieletto e al suo secondo di una nuova mandato che, come gli studiosi di politologia sanno, è un man- strategia dato "senza responsabilità", perché non prevede la rielezione.

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Come ha scritto su The Nation Richard FaIk "le novità proposte da Bush non risolvono la minaccia specifica del terrorismo globale, e scatenano una serie di forze pericolose. È necessario un nuovo modo di pensare che guardi agli Stati Uniti come a un membro della comunità globale che cerca il modo giusto per recuperare fiducia e sicurezza, ma che lo faccia a partire dalle strutture di formazione internazionale e lavori per un'Organizzazione delle Nazioni Unite più forte; che non si investa di un ruolo imperiale per manipolare in corso d'opera le regole della politica mondiale. Poiché una cappa bipartisan ha soffocato il Paese dopo l'il settembre, nuove idee positive possono venire quasi certamente, se verranno, dalle pressioni esercitate dalla società civile fuori del Palazzo. Noi come cittadini non abbiamo mai avuto un dovere più urgente". Il risultato delle elezioni spagnole dimostrano che gli elettori sanno raccogliere tale messaggio.

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La fine dell'ideologia politicamente scorretta * di Barbara Spine/li

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a scorsa settimana è stata dura, per quel gruppo di neoconservatori che ha messo radici nella cultura americana e che a partire dall'li settembre 2001 s'è identificato con le guerre di Bush per l'esportazione della democrazia. Il politicamente scorretto era stata la loro forza, per anni. Non c'era legge che essi non mettessero in forse, con spavaldo compiacimento. Non c'era capitolo storico, non c'era mito, non c'era regola, che essi non contestassero, come rimasugli di un'era tramontata. In principio l'offensiva parve salutare, perché mise fine a tanti dispotismi del politicamente corretto: dispotismi che avevano sottoposto le società a un carico esagerato di diritti, come spiega Federico Rampini nel suo libro sul neoconservatorismo in America (Tutti gli Uomini del Presidente, Carocci). Dispotismi che avevano visto le sinistre lungamente egemoni, in Europa occidentale e America: è il motivo per cui tanti intellettuali furono affascinati dalla veemenza iconoclasta della controffensiva Usa, e dalla sua traduzione militare. Ma il politicamente scorretto ha finito col generare mostri, in questi giorni. Le fotografie sulle torture di prigionieri iracheni a Abu Ghraib sono l'amaro frutto d'una battaglia che voleva produrre anticonformismo trasgressivo e ha invece generato indecenza, incompetenza, e - per le democrazie - perdita d'influenza mondiale. La cultura del politicamente scorretto aveva preso il potere, Warfare nell'America di Busli, e trionfalmente era partita in guerra con contro l'idea di esportare la democrazia nel mondo arabo-musulmano. lawfare Lo avrebbe fatto «togliendosi i guanti», disse un ex agente Cia dopo l'il settembre. La guerra contro il terrorismo avrebbe sospeso tutte le regole escogitate dopo due conflitti mondiali: le convenzioni di Ginevra sui diritti dei prigionieri o le leggi incarnate dall'Onu. E questo senza porsi scadenze, visto che la guerra 11


era infinita. I torturatori Usa non avevano forse ricevuto istruzioni del ministero della Difesa ma sapevano che quel che facevano non era inviso ai vertici: non avrebbero altrimenti scattato centinaia di foto. Lo scontro fra europei e Casa Bianca avvenne su questi punti, quando Bush teorizzò le guerre preventive e respinse il Tribunale penale internazionale. L'Europa e le organizzazioni umanitarie furono viste come ostacoli all'offensiva contro il terrore. La riluttanza che esse esprimevano venne considerata alla stregua di una bellicosa operazione legalista e antiamericana: un lawfare, dissero i neoconservatori, contrapponendo le passioni legalitarie alla passione di chi s'occupa del warfare, delle azioni di guerra. Questa cultura giace in frantumi, sotto i nostri occhi. Non solo a causa delle foto sulle torture, o perché a queste foto è stata data un'eccessiva, preponderante importanza. Ma perché il terrorismo ha risposto con un'intensificazione di violenza inaudita, e politicamente soppesata. La decapitazione dell'ebreo americano Nicholas Berg, diffusa su Internet, o i combattenti palestinesi che brandiscono lembi di corpi israeliani a Gaza: sono un avvertimento chiaro, lanciato dai terroristi. Nel politicamente scorretto le democrazie saranno comunque perdenti: questo il messaggio che è dietro la testa mozzata di Nicholas Berg. La scorrettezza e l'indecenza sono qualcosa che si paga, in democrazia: prima o poi si ribellano la stampa, i parlamentari. Prima o poi si copre di ridicolo, chi come Bush elogia il "superbo lavoro" svolto dal proprio ministro della Difesa, o chi come Rumsfeld afferma che lui, da quando si parla di torture, "ha smesso di leggere i giornali". I terroristi e i totalitari questi problemi non li hanno. Non conoscono lo spazio democratico, dove cittadini e dirigenti rimuginano i propri errori. Non devono fronteggiare rivolte dell'opinione pubblica. Rivaleggiare in orrore con l'avversario è enorme errore, e ogni guerra d'immagini in questo campo è veleno per la democrazia. La foto della testa mozzata non diminuisce lo scandalo delle torture, ma le fa impallidire e le rende piìi mani ancora, confermando la totale inefficacia d'un modo d'iniziare e condurre le guerre. Non solo un uomo torturato dirà verità opinabili negli 12

Una sconfitta per

la democrazia


interrogatori, ma la visione delle sevizie creerà più odio, più antiamericanismo, più desiderio di veder riprodotte sulle prime pagine dei nostri giornali le immagini di vendette sempre più feroci. I primi a pagare saranno Israele e gli ebrei nel mondo, che di Bush si fidavano e da Bush vengono trasformati in capri espiatori d'una colossale sconfitta democratica. Le umiliazioni cui son stati sottoposti i prigionieri iracheni sono la materia di cui è fatta tale sconfitta. Esse spingono i terroristi a mostrare che nelle gare di crudeltà spudoratamente esibita saranno loro, i vincenti. Bush ha mentito sulle armi di distruzione di massa, su Saddam e Al Qaeda, e infine sulla promessa dei diritti dell'uomo. Facendo questo ha indebolito la base del potere americano, mettendo in mostra incompetenze abissali. Questa guerra delle idee l'intero occidente rischia di perderla, se non ripensa la difesa della propria civiltà, la dipendenza dal petrolio arabo, l'opportunità di un'alternanza a Washington. I danni sono talmente grandi che non basta all'Europa la ricetta delle sinistre: il semplice ritiro delle truppe dall'Iraq. Bisogna forzare l'America a ripensare la lotta al terrore, e indurla a difendere nel mondo quell'imperio della legge e della decenza che i cultori del politicamente scorretto avevano creduto di poter gettare nella spazzatura.

Già pubblicato su «La Stampa)> del 16 maggio 2004.

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Laicità e multiculturalismo: una partita aperta di Paolo Sassi

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ll'incirca negli stessi giorni in cui le prime pagine dei nostri quotidiani raccontavano una certa inquietudine italica per la "clamorosa" ordinanza di un magistrato del tribunale dell'Aquila - che aveva ordinato la rimozione del crocifisso dall'aula scolastica di un piccolo centro dell'Abruzzo in applicazione del "principio supremo costituzionale" di laicità dello Stato' - la Francia (un tempo ritenuta "figlia prediletta della Chiesa") discuteva il rapporto presentato da Bernard Stas1 2, mediatore della Repubblica, sui temi della società multiculturale. Per la verità, diverse cose di quel rapporto trapelavano anche in casa nostra: la vulgata dell'informazione, infatti, apparentava nella medesima area tematica le reazioni suscitate dalla prima ordinanza sui crocifisso di Ofena 3 alla proposta - formulata in conclusione al rapporto francese - di vietare che gli studenti frequentassero la scuola pubblica "ostentando" i simboli dell'appartenenza religiosa. Una proposta - come sappiamo - che è stata rapidamente tradotta in articoli di legge ed ha ottenuto il voto favorevole sia dell'Assemblea nazionale 4 che del Senato 5, e sarà applicata a partire dal prossimo anno scolastico.

Qualcuno ha sostenuto che la discussione avvenuta in Fran- Un rapporto cia riguardasse in realtà - principalmente se non unicamente - controverso la questione delle "studentesse velate": una contesa non nuova, sottoposta all'attenzione del Conseil d'Etat fin dal 19896 e da questi affrontata in varie altre occasioni, con esiti discordanti 7 . Questa volta, volendo applicare una sorta di par condicio alle questioni religiose, la commissione dei saggi prima ed il legislatore poi sembrerebbe abbiano dovuto (o voluto) censurare in eguale misura croci cristiane "esagerate", kippà ebraiche e

L'Autore è incaricato di ricerca per il diritto ecclesiastico presso la Facoltà di Giurisprudenza della LUISS «G. Carli» di Roma. 14


veli islamici. È questa, ad esempio, la lettura offerta dall'unico "perpiesso" tra i membri della Commission Stasi, Jean Baubérot, sociologo protestante, titolare della cattedra di storia e sociologia della laicità alla Sorbona: questi, al voto finale in commissione - pur sottoscrivendo lo spirito generale del rapporto è stato il solo tra i 20 membri ad astenersi nella parte che riguardava nello specifico la proposta del divieto dei segni religiosi nelle scuole pubbliche. Il dissidente Baubérot ha poi affermato come su questo punto a suo avviso si volesse in realtà "creare uno pseudo equilibrio tra le grandi confessioni religiose. È chiaro che con questa legge in primo luogo si punta il dito sulle minoranze religiose, e prima tra queste sull'Islàm" 8 -

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Queste osservazioni "eterodosse", svolte da un autorevole membro della commissione dei saggi voluta dal presidente Chirac, ci offrono più di qualche spunto di riflessione. Come ha infatti sostenuto uno degli osservatori italiani più attenti alle vicende del rapporto tra diritto e religioni in Europa, "il dibattito sulla legge sui simboli religiosi non è soltanto una questione interna francese: esso interessa tutti i Paesi europei, che debbono far fronte allo stesso problema di trovare idealità, speranze, valori capaci di unire comunità di persone diverse per cultura, lingua, religione" 9 In primo luogo, mi sembra vada compreso e sottolineato lo stesso rilievo che la Francia ha dato all'intera vicenda, proprio a partire dal lavoro svolto dalla commissione Stasi: rilievo evidente non solo per l'articolazione del testo presentato - più di 30 pagine al mio elaboratore di testo, per un totale di 22.286 parole e 146.773 caratteri - ma anche per il prestigio delle personalità chiamate a redigerlo, davvero un campione dei saggi di Francia: da Régis Debray - l'intellettuale già compagno di Castro e Che Guevara, poi consigliere di Franois Mitterrand, fondatore della mediologia ed ora attento scrutatore del mondo delle religionilø - a GilIes Kepel, brillante autore, all'inizio degli anni Novanta, di un veggente e fortunato saggio dal titolo La rivincita di Dio11 per non dirne che alcuni, la cui notorietà supera di gran lunga i confini nazionali.

Un problema europeo

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Come non bastasse, dopo l'approvazione alla Assemblée natio- Le passioni nal del progetto di legge scaturito dalle proposte dei saggi guida- di fondo ti da Bernard Stasi, prima del dibattito e del voto finale al Senato, la Francia ha ritenuto di dover ulteriormente e debitamente approfondire la questione: riunendo una nuova consulta - questa volta guidata dal senatore Jacques Valade, presidente della commissione per gli affari culturali - che ha prodotto un secondo "rapporto", ancora più poderoso del primo: 105 pagine nell'originale pubblicato a cura della seconda Camera 12 Legge fatta, capo ha, potremmo dire: ma se anche l'approvazione di un testo normativo rende forse meno "utile" scandagliare i due elaborati e compierne attenta esegesi - e non si. tratta certo di testi per facili lettori o giornalisti frettolosi - ciò non di meno essi mi paiono assai eloquenti delle preoccupazioni che agitano buona parte delle coscienze illuminate di Francia (e non solo loro). Che cosa, dunque, inquieta e preoccupa davvero i nostri cugini d'oltralpe? La questione che si è aperta è evidentemente solo un momento di quella transizione variamente conflittuale aperta dalla trasformazione in senso multiculturale delle civiltà europee; come la querelle casalinga sul crocifisso nelle scuole, questo passaggio così almeno ha affermato uno tra gli intellettuali italiani più accreditati - resterebbe tuttavia perlopiù legato al gioco "delle pulsioni passionali, sulle quali né si legifera, né si discute ( ... ) Sulle questioni passionali non si ragiona7 13 . Anzi: proprio perché si tratta di passioni, sarebbe piuttosto "inutile fare esercizi di giurisprudenza o di diritto ecclesiastico su ciò che appartiene all'antropologia culturale. Bisogna rispettare anche le zone d'ombra, per moltissimi confortanti e accoglienti, che sfuggono ai riflettori della ragione" 4 Ma col solo rispetto - quando non invece con l'intangibilità delle passioni non si va molto lontano: varrà forse la pena tentare di decifrarne qualcuna, di queste passioni - e di guidarla per il meglio, se possibile. .

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Il contrasto attuale, alla radice dell'inquietudine francese (ma Il principio non solo francese), verte evidentemente intorno alla difesa del di laicità 16


principio di laicità (o di neutralità, direbbe qualcuno) dei poteri pubblici di fronte alla religione al momento presunta antagonista dell'occidente, l'Islàm. La "laicità" conosciuta in Francia, invero, è tutta particolare: fin dall'inizio del secolo scorso, per non andare troppo indietro, con la legge di separazione del 1905 essa afferma una sistemazione ben precisa dei rapporti tra poteri pubblici e religioni, formalmente riconosciuta nel testo costituzionale - dapprima in quello del 1946, infine in quello vigente del 1958 - secondo il quale "la Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale".

Niente a che vedere con le vicende d'Italia: è stata la revisione Il caso concordataria siglata a Villa Madama vent'anni or sono, nel italiano 1984, a liberare il cattolicesimo nostrano dall'ingombrante ruolo di "religione dello Stato"; e solo dopo l'intervento della suprema corte, con la sentenza n. 203 del 198915, i giudici costituzionali hanno affermato la vigenza anche nell'ordinamento italiano di un "principio supremo" costituzionale di laicità dello Stato 16 Il "principio supremo" di laicità - di sapore vagamente orwelliano: tutti i principi sono "eguali", ma alcuni sono piìt "eguali" degli altri - sarebbe anzi, nelle argomentate parole della Corte, "uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica", inteso quale principio che implica "non già indifferenza dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale" 17 Si tratta della stessa idea di laicità, inculturata con le variazioni del caso in due contesti - quello italiano e quello francese prossimi eppure sostanzialmente diversi? A me non pare: basterebbe scrutare gli articolati pareri che corroborano i due rapporti francesi e confrontarli col dibattito appena avviato, mi sembra - che giuristi e studiosi di casa nostra cominciarono all'indomani della pronuncia del giudice costituzionale, in alcuni casi per concludere che la nostra Repubblica è certamente liberale, è certamente pluralista, ma è ben lontana dall'essere laica 18 .

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Per i francesi, la laicità è una sorta di religione civile: "principio universale, valore repubblicano", intitola il rapporto Stasi. Essa - prosegue il testo dei saggi - è "al cuore del patto repubblicano. ( ... ) attenta alle sensibilità nuove ed alle eredità della storia, è capace ai momenti cruciali di trovare gli equilibri e di incarnare le speranza della nostra società" 19 . La scuola, poi, dove essa è "fondamento", deve diventare "il luogo principale per la riaffermazione del principi di laicità", che costituisce per tutti "ardente obbligo repubblicano" 20 Parole forti per noi, italiche genti abituate da secoli a convivere e discutere soprattutto colla presenza del papato romano, alle quali la laicità pare più un vezzo intellettuale da evocare con moderazione in ambienti particolarmente illuminati per mostrarsi sensibili. Ma l'inquietudine di fondo, quella sì, a me pare la stessa, tanto al di qua che al di là delle Alpi: la sensazione d'un "attacco" islamico al cuore dell'occidente, lo scontro di civiltà di huntingtoniana evocazione tanto scongiurato da sembrare quasi ineluttabile. Perché è vero che gran parte delle questioni aperte (e dolenti) rammentate dal primo Rapport riguardano le manifestazioni di appartenenza all'Islàm: nella scuola soprattutto (dal velo delle studentesse, appunto, al rifiuto della promiscuità sessuale od alle assenze nei giorni di festa o di digiuno), ma anche negli ospedali (con l'opposizione alle cure e manipolazioni offerte da personale di sesso diverso) od in altri luoghi e situazioni della vita sociale. Parrebbe quasi di giungere alla quadratura del cerchio osservando come l'attacco ai simboli religiosi cristiani in Italia sia cominciato per opera di un intransigente fedele islamico che ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle aule d'una scuola; eppure...

Laicità come religione civile

Eppure a me sembra che ad una analisi così condotta manchi proprio il fondamento se non della "laicità" - variamente (o vagamente?) intesa - quantomeno del pluralismo: non dovremo infatti considerare come - visto che in tutti i mondi religiosi le declinazioni della fede sono da sempre innumerevoli e tanto diverse fra di loro - anche l'Islàm è tutt'altro che un monolite indecifrabile? Ai cugini francesi sarebbe bastato solo - oltre che

E il pluralismo?

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applicare il buon senso - ascoltare ad esempio con attenzione Dalil Boubakeur, presidente del consiglio dei musulmani francesi e rettore della moschea di Parigi, che ha ricordato ai senatori del suo Paese - da musulmano - come bisogna tenere in debito conto "le diversità delle correnti che attraversano l'Islàm" e che sono rappresentate all'interno stesso di quello francese, dove pure schematicamente - esistono sia i rigoristi che i liberali, mentre la componente "littéraliste" - fondamentalista, direbbe un "laico" intransigente - risulta di gran lunga minoritaria. C'è il timore - ha proseguito Boubakeur - "di vedere stigmatizzati i musulmani della Francia nel loro insieme", di assistere all"incitamento ad una interdizione brutale"2 I Ma un vero e proprio coro di critiche alla legge - certo quasi Le critiche sempre educate e sommesse, come si addice a persone ragione- alla legge voli, ma pur sempre critiche - è stato espresso dai religiosi non musulmani: il pastore Marcel Manòel, presidente del Consiglio nazionale della Chiesa Riformata, ha espresso i suoi "timori verso un testo preparato a fronte di una emergenza e suscettibile di essere considerato discriminatorio verso la religione musulmana", dispiacendosi inoltre "che l'applicazione del principio di laicità si manifesti in misure di esclusione, un risultato all'opposto agli assenti obiettivi di integrazione ed uguaglianza7 22. Monsignor Oliveir de Berranger, in rappresentanza della conferenza episcopale cattolica francese, ha poi manifestato il "timore" che la nuova legge - radicalizzando posizioni estreme faccia considerare la laicità non quale veicolo di libertà bensì piuttosto come "principio di esclusione" 23. Seguito - o preceduto - dal suo presidente, Jean-Pierre Ricard, che si è recato personalmente dal presidente Chirac per esprimergli le "riserve" della Chiesa cattolica ad un provvedimento la cui applicazione ben potrebbe "stigmatizzare una religione, l'Islàm, che potrebbe sentirsi attaccata" 24. Per non dire delle dichiarazioni rilasciate dal cardinale arcivescovo di Parigi, Jean-Marie Lustiger, che ha sarcasticamente notato come "lo Stato si schiacci le dita negli ingranaggi ( ... ) confondendo lo statuto delle religioni col mantenimento dell'ordine pubblico" 25 . Il presidente della federazione delle Chiese protestanti di Fran19


cia, Jean-Arnold De Clermont, ha elegantemente "ostentato" la propria opposizione: dopo il faticoso travaglio della commissione Stasi - ha dichiarato - "la montagna sembra partorire un topolino, un progetto di legge - manifestazione pedissequa della volontà presidenziale - che non risolve niente, così precipitoso da contraddire la pur manifesta volontà di dialogo e concertazione". Se negli spazi pubblici bisogna nascondere le proprie convinzioni religiose, "vuol dire che non esiste né la democrazia né quel suo corollario che chiamiamo laicità" 26 . Ha commentato il pastore Jacques Trujillo, presidente dell'unione delle federazioni delle Chiese avventiste di Francia: "la separazione delle Chiese dallo Stato è una cosa buona. Ma la laicità non può ( ... ) stigmatizzare solo una particolare categoria di cittadini - e quanto meno dei giovani o delle ragazze - con il rischio di escluderli. ( ... ) i principi laici e repubblicani ( ... ) non si impongono. Si comunicano, si apprendono, si vivono. [...] Vietare per liberare! È una scelta assai curiosa!" 27 . Curioso anche - a me pare - che i timori dei politici siano stati così scavalcati dalla perspicacia degli uomini di religione, memori tanto dei principi del secolo dei lumi che dell'antico monito "reddite ( ... ) qu& sunt C&saris, Cesari, et qu& sunt Dei, Deo» (Mt. 22, 21).

I

L'ordinanza del 22 ottobre 2003, a firma del giudice Alberto Montanaro, è pubblicata in «Guida al diritto», 2003, n. 44, p. 44, con nota di ALFONSO CELOTTO, Un dftìcile bilanciamento di interessi contrapposti tra ricerca di integrazione e tradizione culturale, ivi, p. 54. 2 Il rapporto è stato pubblicato per intero da «Le Monde» ed è consultabile in internet all'indirizzo http:l/medias.lemonde.fr/mediaslpdf_obj/rapport_stasi_1 11 203.pdf, ultimo accesso il 10 marzo 2004. 3 È noto come alla prima decisione abbia fatto seguito una seconda ordinanza di segno esattamente contrario, con la quale si è ritenuto di dover eccepire il difetto di giurisdizione del magistrato ordinario nella questione, devolvendo tutto al giudice amministrativo; anche questa seconda ordinanza è pubblicata in ((Guida al diritto((, 2003, n. 49, p. 37, con nota di SALVATORE MEZZACAPO, "Se l'azione proposta non ha carattere risarcitorio la controversia compete al giudice amministrativo", ivi, p. 43. 4 Dove il progetto di legge è stato approvato il 10 febbraio 2004; qui di seguito l'arti-

colo 1: "Il est inséré, dans le code de l'éducation, après l'artideL. 141-5, un artide L. 141-520


i ainsi rédigé: Dans les écoles, lei collèges et lei lycées publics, leport de signes ou tenues par lesquels lei élèves maniftstent ostensiblement une appartenance religieuse est interdit. / Le règlement intérieur rappelle que la mise en a'uvre d'une procédure disciplinaire est précédée d'un dialogue avec l'élève". Il testo è disponibile in internet, http://www.assembleenat.fr112/pdf/ta/ta0253.pdf, ultimo accesso il 10 marzo 2004. 5 113 marzo il Senato ha approvato in prima lettura e senza modifiche il testo a suo tempo già approvato dall'Assemblea nazionale; in internet all'indirizzo hrtp://www.senat.fr/Ieg/tasø3066.htrnl, ultimo accesso il 10 marzo 2004. 6 Cfr. ad esempio l'avis dell'Assemblée généraleplénière del Conseil d'Etat del 27 novembre 1989, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica» (199011), Padova, Cedam, 1992, p. 5 10-5, con una nota di GIUSEPPE CAPUTO, La questione del velo islamico, ivi, p. 507-9. ' Cfr. ad esempio Conseild'Etat del 2 novembre 1992, 4e et 1" sous-sect., Kherouaa et a. c. Collège Jean-Jaurès de Montfermeil, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1993, n. 3, p. 812, od anche - del medesimo organo - la decisione del 10 marzo 1995, Fatima et Fouzia Aokili c. Collège Xavier Bichat de Natua, ivi, 1995, n. 3, p. 902. 8 Questa la dichiarazione dello stesso JEAN BAUBROT all'agenzia NEV, in http://www.fedevangelica.it/nev/nevi.asp.

Così SILvI0 FERRARI, Le ragioni del velo, in «Il Regno», 2004, n. 4, 89. Cfr. ad esempio - di RÉGIS DEDRAY - Dieu, un itinéraire, Paris, Éditions Odile Jacob, 2001, (in italiano Dio, un itinerario. Per una storia dell'Eterno in occidente, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002). " GILLES KEPEL, La Revanche de Dieu. Chrétiens, juifi et musulmani à la reconquete du monde, Paris, SEUIL, 1991 (in italiano La rivincita di Dio, Milano, Rizzoli, 1991). 12 Sénat, session ordinaire de 2003 -2004, Annexe au procès -verbal de la séance du 25février 2004, ora anche in internet all'indirizzo http://www.senat.fr/rap/103-219/l03219_mono.htlm, ultimo accesso in data 13 marzo 2004. 0 Cfr. UMBERTO Eco, Essere laici in un mondo multiculturale, in »La Repubblica», 29 ottobre 2003, p. I. 14 Ivi, 47. 15 In Diritto di famiglia e delle persone, 1989, p. 443, in »Foro italiano», 1989, I, c. 1333, in »Giurisprudenza costituzionale», 1989, I, 890, oltre che in internet all'indirizzo http://www.giurcost.org/decisioni/index.html, ultimo accesso in data 10 marzo 2003. 6 Considerazioni sulla categoria dei cosiddetti "principi supremi" nell'ordinamento italiano, in specie quello di laicità, confrontati con la situazione francese in FINcEsco MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell'Unione Europea, in Io., CESARE MIRABELLI e FRANCESCO ONIDA, Religioni e sistemi giuridici. Introduzione al diritto ecclesiastico comparato, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 127-8. 17 Critico sulla possibilità che questa versione o forma attuale del principio di laicità rischi di convertire lo Stato a strumento delle opzioni religiose o ideologiche socialmente più forti, cioè a dire delle istanze maggioritarie della coscienza religiosa e civile è LUCIANO GUERZONI, Problemi della laicità nell'esperienza giuridica positiva: il diritto ecclesiastico, in Ripensare la laicità. Il problema della laicità nell'esperienza giuridica contemporanea, a cura di GIUSEPPE DALLA TORRE, Torino, Giappichelli, 1993, p. 120. Secondo GUERZONI, la deconsiderazione del problema dell'eguaglianza (formale e sostanziale) potrebbe facilmente 9

O

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far sì che "il 'regime di pluralismo' (ed ha un qualche significato - credo - anche l'uso del termine "regime" da parte dell'Alta Corte) degeneri nell'opposta forma del 'pluralismo di regime", ivi, 129. Considerazioni ulteriori nel volume Il principio di laicità nello Stato democratico, a cura di MARIO TEDESCHI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996. 8 Così l'originale riflessione sul punto di FRANCESCO FINOCCHIARO, La Repubblica italiana non è uno Stato laico, in «Il diritto ecclesiastico», 1997, I, pp. 11-24.

Rapport au Président de la Re'publique, Commission de rejlexion sur l'application du principe de laicité dans la Republique, 11 décembre 2003. 20 Queste le espressioni del Rappore presentato al Sénat da JACQUES VALADE il 25 febbraio 2004, pp. 9, 25 e 29 (passim). 19

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Ivi, p. 77. Ivi, p. 86. 23 Ivi, p. 90. 24 La dichiarazione, riferita da varie agenzie, è riportata in internet all'indirizzo http://www.toscanaoggi.it/news.asp?IDNews=1951&IDCategoria=210, ultimo accesso l'li marzo 2004. 25 Cfr. le affermazioni di JEAN-MARIE LUSTIGER, in internet all'indirizzo http://www.lacroix.com/article/index.jsp?docld= 1 204465&rubld=4076. 26 Così le dichiarazioni di JEAN-ARNOLD DE CLERMONT a EEMNI Eglise Evangélique Méthodiste, 20 gennaio 2004, in internet all'indirizzo http://eemnews.umc-europe.org/2004/janvier/20-05.php, ultimo accesso in data 11 marzo 2004. 27 Ibidem. 22

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Ricerca spaziale e trasferimento tecnologico. Un contributo alFeconomia europea di Fabio Biscotti

I

l Consiglio Europeo tenuto a Lisbona il 23 e 24 marzo 2000 ha prefissato per l'Unione un obiettivo strategico per il nuovo decennio: quello di fare dell'Unione Europea la società basata sulla conoscenza più avanzata del mondo al fine di sostenere l'occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale. Per perseguire questa ambiziosa sfida l'Unione si è data alcune linee strategiche. Tra queste, ad esempio: la creazione di una società dell'informazione, favorendo un accesso più semplice ed economico all'infrastruttura delle comunicazioni ed un ampliamento della gamma dei servizi; la definizione di uno spazio europeo della ricerca e dell'innovazione integrando e coordinando meglio le attività di ricerca a livello nazionale e dell'Unione per renderle quanto più possibile efficaci ed innovative; la creazione di un ambiente favorevole all'avviamento e allo sviluppo di imprese innovative, specialmente di PMI (cercando di diminuire i costi relativi al "doing business" e rimuovere l'onere burocratico inutile); il perseguimento di riforme economiche per un mercato interno attraverso iniziative di liberalizzazione, semplificazione ed integrazione dei mercati (dei servizi locali, degli appalti, dei mercati finanziari, ecc ... ); ed altre, di carattere molto generale e quasi generico. In questo quadro l'UE ha successivamente formalizzato il tema della "Politica Spaziale", specificando il contributo delle attività spaziali e del trasferimento tecnologico in termini di sostegno di altre politiche pubbliche, quali la promozione dell'innovazione tecnologica e della competitività industriale. Dunque, si ipotizza che lo "Spazio" sia una delle possibili leve per il perseguimento degli obiettivi generali dell'UE e dei singoli Stati Membri.

L'Autore è esperto di valutazione delle politiche pubbliche per la Ristuccia Advisors. 23


Limportanza della politica spaziale ha trovato conferma, se mai ce ne fosse bisogno, attraverso l'inserimento di un articolo (il JJI. 155) sull'European Space Policy nella bozza di Trattato per l'adozione della Costituzione Europea che, se adottato nella versione definitiva, darebbe formalmente alla materia un riconoscimento stabile rafforzando l'esigenza di una programmazione di lungo periodo che già nella prassi viene sostanzialmente perseguita. In linea generale, l'interesse a sostenere in modo coordinato e continuativo la politica spaziale ha alcune buone ragioni. Citiamo: i risultati raggiunti: nel corso degli anni, la politica spaziale europea, definita ed attuata dall'Unione Europea di concerto con l'European Space Agency (EsA), ha permesso di raggiungere obiettivi scientifici importanti nei programmi di osservazione della Terra, nello studio ed esplorazione dell'Universo con l'avvicinamento, l'osservazione e lo studio, da ultimo, di Marte. Tali risultati contribuiscono a dare all'Europa piena autorevolezza e dignità internazionale sul piano della ricerca scientifica e tecnologica; - le caratteristiche intrinseche delle attività spaziali: queste sono infatti ad elevata specializzazione, complesse, costose ed i volumi di mercato ristretti. Per tali motivi la Politica Spaziale, oltre ad essere sostenuta dalla mano pubblica, è per definizione "transnazionale", secondo quanto riporta il Libro Bianco sulla Politica Spaziale;' - lafi4nzione "orizzontale" della Politica Spaziale. Il Libro Bianco considera la politica spaziale come orizzontale a tutte le politiche dell'Unione: "Eu to establish the European Space Policy as a horizontalpolicy (serving all other Union policies) "2 Le ricerche e le tecnologie in ambito spaziale, oltre ad essere un canale di conoscenza per l'Uomo sull'Universo, possono essere anche uno strategico e potenziale motore per lo sviluppo economico, sociale e industriale per via delle loro ampie possibilità di utilizzo "non spaziale".

La politica spaziale e la sua dimensione necessariamente europea

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La Politica Spaziale risponde tipicamente ad una logica di sus- Politica sidiarietà nelle fasi di programmazione e di finanziamento ma spaziale vuole anche una forte integrazione di competenze tra i vari attori europea e - pubblici e privati - del sistema spaziale (tra i principali sogget- industria spaziale ti: Agenzie spaziali, Università, Centri di ricerca, società di engi24


neering, ecc..). si profila sullo sfondo la necessarietà del partenanato pubblico privato tipico della gestione di operazioni complesse. La gestione dei programmi della Stazione Spaziale Internazionale e di Galileo esigerà un pii consistente partenariato pubblico privato. Il Libro Bianco riconosce, nel settore spaziale, il ruolo il partenariato pubblico privato quale modus operandi che, in generale, può far da volano all'innovazione e alla competitività, favorendo l'attrazione di capitali privati grazie a iniziative di promozione che partano dalla mano pubblica 3 . Per favorire ciò occorre valorizzare al meglio le esperienze industriali in un'ottica globale. LEuropa, ad esempio, attualmente vanta una notevole expertise tecnologica nel settore dei lanciatori e dei satelliti raggiunta anche grazie ai precedenti programmi istituzionali, agli sforzi delle aziende del settore e beneficiando del precedente ciclo di crescita economica generale. Per essere ancora competitiva e credibile, l'Europa spaziale deve mantenere e rafforzare una base industriale forte e di qualità su tutta la filiera e disporre di un accesso alle tecnologie chiave sul piano mondiale. Pur partendo da buone basi, l'industria spaziale europea deve essere sostenuta da interventi coordinati e ben mirati. t necessario, quindi, consolidare gli approcci istituzionali ed industriali nell'ottica: a) della riduzione delle restrizioni normative, b) della riorganizzazione delle imprese dovuta all'attuale situazione del mercato e alla conseguente diminuzione di risorse finanziarie a disposizione, c) della creazione di un "mercato istituzionale" in cui operino partenariati pubblici privati per strutturare, in modo integrato, gli investimenti e per valorizzare le competenze. Questo è vero sia per i big del settore spaziale, che sono in grado di investire anche consistenti risorse, sia per le piccole e medie imprese. Per queste ultime, in particolare, maggiormente esposte alle incertezze del mercato, dovrebbe essere perseguita una politica ad hòc per sviluppare opportunità di business. L'approccio avviato dall'UE e dall'ESA, in questo senso, è quello di valorizzare piccole realtà imprenditoriali - anche di nicchia -

Strategie per il consolidamento della base industriale e tecnologica spaziale

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del settore spaziale tramite la creazione di un sistema europeo di incubatori spaziali che mira a promuovere specifiche iniziative di trasferimento tecnologico (iniziative analoghe sono attive per il trasferimento tecnologico in generale e per la diffusione dell'innovazione, specie quella legata all'ICT). Le iniziative avviate sono importanti, ma per garantire competitività, l'industria europea ha bisogno, oltre che di una base tecnologica ampia ed efficace, anche di meccanismi di identificazione precoce delle necessità tecnologiche dei prossimi decenni. In questo senso, l'Unione europea, l'EsA, l'industria hanno predisposto un ventaglio di azioni per sostenere lo sviluppo tecnologico. Tra queste: a) il piano direttivo della tecnologia spaziale sviluppato dall'EsA fornisce il quadro nel quale tutti i soggetti dello spazio in Europa, pubblici e privati, sono invitati ad individuare le esigenze europee e a partecipare ad azioni congiunte. LESA svolge molti programmi di ricerca e dimostrazione tecnologica; b) il Sesto programma quadro di ricerca dell'Unione concentra, per la parte spaziale, i suoi sforzi sulle applicazioni in materia di telerilevamento, navigazione e comunicazioni; c) i programmi nazionali di R&S e le iniziative autofinanziate dall'industria completano il paesaggio europeo della tecnologia spaziale. Negli USA i sistemi spaziali sono da sempre strumenti per garantire una leadership strategica, politica, scientifica ed economica, impostata sui concetti di space dominance e di information dominance. Da qualche anno l'Unione ha preso coscienza dell'importanza dello spazio e interviene progressivamente come soggetto attivo, in funzione soprattutto delle applicazioni utili al perseguimento delle sùe politiche (come il progetto GiILEo di posizionamento e navigazione via satellite e l'iniziativa GMES Global Monitoring for Environment and Security - di sorveglianza per l'ambiente e la sicurezza). Il Libro Verde, preparato dall'UE in cooperazione con l'Agenzia Spaziale Europea, si sofferma sulle potenzialità della Politica Spaziale in termini di trasferimento tecnologico a beneficio della collettività e dell'innovazione d'impresa. Afferma, infatti, che "la tecnologia spaziale può offiire crescenti opportunità di impieghi 26

Lo spazio al

servizio dei cittadini e delle imprese


multzpli, che permettono di elaborare soluzioni in risposta a diverse necessità"4 , dovendo tuttavia soddisfare le aspettative degli utenti in materia di costo delle soluzioni. Una maggiore apertura verso i cittadini e gli interessi dell'Unione "permette di allargare il campo ad altri soggetti, diversi da quelli dell'industria spaziale classica arricchendo considerevolmente il potenziale del settore spaziald'. Di qui la conclusione che "si tratta di accordare una priorità importante al processo di trasferimento tecnologico dal settore della ricerca verso il settore commerciale (ad esempio, incoraggiando l'in vestimento privato tramite impegni a lungo termine delle autorità pubbliche concernenti il loro fabbisogno)"5. Lo sviluppo delle applicazioni spaziali, in particolare per l'osservazione della Terra, ha permesso di ampliarne il campo di interesse. Lo spazio rappresenta uno strumento con caratteristiche uniche che può ormai essere messo al servizio di numerosi obiettivi e politiche, come i trasporti e la mobilità, la società dell'informazione e la competitività industriale, la tutela dell'ambiente, l'assetto del territorio, l'agricoltura e la pesca, la protezione civile, lo sviluppo sostenibile, ed altri ancora. È, in ogni caso, essenziale favorire il passaggio delle azioni di Identificare ricerca verso applicazioni industriali e servizi a valore aggiunto la domanda che vanno al di là della filiera spaziale stricto sensu. Qui ci si imbatte nella questione cruciale: come aumentare l'influenza della domanda degli utenti sulla fornitura e la struttura del settore spaziale offerente. Il Libro Bianco della politica spaziale europea, il Piano d'Azione dell'Europa in materia di Spazio 6 se da un lato suggerisce linee d'azione per orientare l'offerta spaziale verso applicazioni multzpurpose, esorta esplicitamente a mettere in pratica azioni coordinate di stimolo della domanda, così da identificare le concrete opportunità di sfruttamento in termini commerciali e sociali di competenze e tecnologie originate per scopi spaziali. Non è tuttavia chiara a questo proposito la forte problematicità dell'azione da metter in campo. Il Libro Bianco prende la via di descrivere alcuni programmi spaziali considerabili come strumenti a disposizione della Politica Spaziale per sostenere in modo "orizzontale" le altre politiche dell'Unione, attraverso trasferimenti di conoscenze e tecnologie. ,

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Galileo è attualmente il maggiore progetto spaziale europeo che garantirà, entro il 2008, un sistema di navigazione satellitare indipendente dallo statunitense Gps, operante attraverso una costellazione di 30 satelliti e ground stations per fornire un set molto variegato di servizi. Le previsioni di mercato sono notevoli: la domanda di servizi per la navigazione satellitare a livello mondiale sta crescendo del 25% l'anno e può raggiungere, secondo le previsioni del Libro Bianco, un valore di circa 275 miliardi di euro entro il 2020. Circa cento mila posti di lavoro specializzati potrebbero essere garantiti. Il costo del programma è di circa 3,3 miliardi di euro. Le applicazioni individuate spaziano tra numerosi campi: trasporti, energia, finanza, assicurazioni, pesca, agricoltura, ambiente, geologia, scienze, lavori pubblici, sicurezza, telecomunicazioni, sanità, protezione civile, tempo libero, ecc... Le potenzialità di Galileo potrebbero essere ulteriormente aumentate se continuassero i negoziati, tra Unione Europea e Stati Uniti, per la cooperazione tra Galileo ed il sistema Gs statunitense. L'incontro di Bruxelles del 24 e 25febbraio 2004 tra i delegati UE e USA ha confermato il raggiungimento di intese per un utilizzo complementare dei due sistemi.

Gli strumenti: Galileo

Il Global monitoring for the Environment Security (GMES) è il programma europeo gestito dalla Commissione Europea e dell'EsA volto all'utilizzo dei dati provenienti dallo spazio per l'implementazione di politiche di sviluppo sostenibile con particolare riguardo alla protezione ambientale, al monitoraggio dell'atmosfera, degli oceani, alla gestione delle risorse naturali, alla qualità della vita e alla sicurezza dei cittadini. L'osservazione della Terra potrà avere impatto diretto a beneficio di soggetti, pubblici e privati, operanti nel settore marittimo, dei trasporti, dell'agricoltura, e dell'ambiente. Specifico riguardo viene dedicato all'importante utilizzo della tecnologia per il monitoraggio satellitare per le possibili ricadute in campo di sicurezza e difesa. I sistemi spaziali, infatti, possono garantire utilizzi multipourpouse che ben si adattano alle elevate esigenze in termini di sicurezza dei cittadini, sorveglianza delle frontiere e di aree critiche, prevenzione di conflitti e politiche di

e il

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GMES


peace keeping che l'Unione Europea ed i suoi Stati Membri devono garantire. Il sistema dovrebbe essere operativo dal 2008. L'utilizzo delle informazioni satellitari può offrire una efficace Internet e la ricaduta in termini di costituzione della rete di servizi di comu- banda larga nicazione elettronica e delle relative infrastrutture per qualsiasi tipo di operatore di mercato e per favorire l'integrazione nella global information society anche delle zone "tecnologicamente arretrate", così da creare maggiori economie di scala, anche in un'ottica dell'allargamento ad altri Stati Membri. Il programma di ricerca spaziale europeo è in gran parte imLa Stazione plementato nell'ambito delle attività scientifiche della Interna- Spaziale tional Space Station (Iss), la cooperazione internazionale di origi- Internane europea piu importante che vede coinvolti, insieme agli stati zionale membri ESA, anche Stati Uniti, Russia e Giappone. Lo scambio di tecnologie e competenze in un luogo di esplorazione e ricerca permanente permetterà sicuramente di facilitare le opportunità di trasferimento a beneficio'di applicazioni non spaziali. Le possibilità di commercializzazione delle tecnologie impiegate all'interno della Stazione riguardano almeno 6 campi di ricerca: 1) Salute, con applicazioni in strumentazione medica, farmaceutica; 2) Biotecnologie, con applicazioni in farmaceutica, prodotti biomedici; 3) Nuovi materiali, con applicazioni in aerospazio, automotive, beni di consumo, strumentazione medica; 4) Miglioramento dei processi con applicazioni in metalli ed elettronica; 5) Fisica dei fluidi con applicazioni nel settore alimentare; 6) Combustione, con applicazioni in carburanti, automotive, aerospazio. Lo spazio, insomma, è considerato una vera e propria "riserva" Possibili di risorse tecnologiche e di soluzioni molto importanti per il mi- canali per il glioramento della vita dell'uomo sulla Terra. In realtà, la "spinta trasferimento tecnologica o technology push piu autorevole origina in primo tecnologico luogo dall'esperienza dell'Agenzia Spaziale Europea che, dal 1990, opera anche come agente promotore del trasferimento tecnologico spaziale tramite un Programma appositamente dedicato, il Technology Transfer Programme. 29


Dunque, la tecnologia da trasferire non manca. Ed il potenziale tecnologico è di prim'ordine. Tale patrimonio non deve però indurre ad una convinzione semplicistica che può essere espressa "abbiamo le tecnologie, ora le vendiamo" ma deve fare i conti con la complessità del mercato del trasferimento tecnologico. È stato rilevato che "once the product is designed and deveioped up io a prototype and enjoys some protection, over-emphasis on technological side ... may not iead to success. (..) The business must evolve from a primariiy inward orientation focused upon technical inventiveness toward an outward orientation where managementientrepreneur increasingiy devotes its attention io the neeeds ofcustomers and the market piace"7 . Questa avvertenza riguarda il business creato dalla tecnologia e si applica, quindi, anche al trasferimento. In altri termini, da un certo punto in poi il trasferimento tecnologico non riguarda piì, prevalentemente, i gestori della tecnologia ma le forze del mercato. Ecco, quindi, che la creazione di canali di collegamento tra tali forze diventa prioritaria, una volta ereditato il patrimonio tecnologico. In questo senso l'EsA Si sta facendo promotrice di alcune iniziative. Tra queste, quella ufficialmente avviata nel luglio 2002, è la costituzione di un sistema europeo di incubatori (E5INET) per start-up che vogliano commercializzare tecnologie e risultati della ricerca spaziale. Sono attualmente 30 gli incubatori dislocati nei vari Paesi europei coordinati da un headquarter (Esi), situato in Olanda. Insieme a questo, l'EsA ha promosso la costituzione di un portale internet per lo scambio di informazioni sulle tecnologie trasferibili, il " Technoiogy Forum". Altri esempi di iniziative market oriented, anche se non pensate ad hoc per il settore spaziale ma che comunque non lo escludono a priori, sono: il portale virtuale "Cordis Marketplace", altro esempio di piazza per lo scambio di tecnologie e la rete di Innovation Relay Centers che assistono le imprese segnalando le opportunità di business nel campo dell'innovazione tecnologica. Queste iniziative sono importanti, anche se non del tutto coordinate tra di loro e prevalentemente focalizzate sulla pubbiicizzazione dell'offerta tecnologia esistente. Sono, quindi, iniziative necessarie ma forse non bastano per commercializzare e fare profitti. Molto spesso, infatti, pur essendo trasferibile, una tec30


nologia può imboccare un percorso tortuoso. Un recente studio della Società Spazio Venture Capital sui trasferimento della tecnologia spaziale ha messo in luce che, oltre ai problemi rilevanti ma "fisiologici" quali la "gestione" della proprietà intellettuale o le difficoltà nell'adattamento tecnologico in filiere di produzione già collaudate, l'innovazione - per passare dalla fase del trasferimento a quella della commercializzazione - deve avere ben chiaro a chi rivolgersi e come deve essere finanziata. Senza queste condizioni, il trasferimento tecnologico rischia di non sfruttare le proprie potenzialità applicative e di rimanere un concetto teorico. Lo studio, esaminando le varie fasi che compongono la filiera di casi concreti di trasferimento, ha proposto un impegno più organico - che pare utile segnalare - per operare sistematicamente nella ricerca, in primo luogo, di soggetti idonei a ricevere ed applicare la tecnologia e, successivamente, a finanziare l'operazione di trasferimento. Si tratta di costituire un database, propedeutico alla creazione di un market-place, che dia rapido accesso non solo delle tecnologie - inutili sono le repliche delle iniziative europee - ma degli attori della filiera del trasferimento tecnologico. In questa prospettiva, fonte per le sorgenti tecnologiche rimarrebbero principalmente le Agenzie Spaziali e le società di engineering, già censite dai portali specialistici. Un lavoro ad hoc dovrebbe essere effettuato per individuare, di volta in volta, la domanda di innovazione e trasferimento tecnologico con un sistema informativo, magari collegato alle Camere di Commercio e che abbia portata almeno europea. In questo modo si potrebbe agevolare il matching tra domanda ed offerta tecnologica. Il marketplace così costituito dovrebbe poi essere completato con opportuni link o canali di accesso privilegiato per i soggetti finanziari di vario tipo - sia dell'area capitali di debito che di rischio - che siano interessati a sostenere opportunità di nuovi business. L'Unione europea si trova dinanzi a una svolta epocale risul- La nuova tante dalla globalizzazione e dalle sfide presentate da una nuova sfida economia basata sulla conoscenza. Questi cambiamenti interessano ogni aspetto della vita delle persone e richiedono una trasformazione radicale dell'economia europea. L'Unione deve mo31


dellare tali cambiamenti in modo coerente con i propri valori e concetti di società, anche in vista del prossimo allargamento. Ciò è stato interpretato nell'ottica di sostenere la Comunità con un ampio programma di investimenti in ricerca e nel miglioramento dell'innovazione e della competitività imprenditoriale. C'è in ogni caso da dire che l'EsA Si trova al centro di una fucina che elabora o rielabora un ampio ventaglio di tecnologie e le sottopone a test e verifiche in profondità. In questo senso non c'è esperienza comparabile in Europa. L'esperienza che fa da benchmark può essere ovviamente quella della NASA negli Stati Uniti, ma non necessariamente i percorsi fatti dall'agenzia americana costituiscono modelli di riferimento per il contesto europeo. Per quanto importanti siano altri centri, pubblici o privati, di ricerca scientifica e tecnologica nessuno pare dotato della funzione di integrazione di sistema che di fatto è attribuita all'Agenzia Spaziale Europea in ragione dei suoi stessi compiti istituzionali. La disponibilità di capacità europee in determinati settori è indispensabile affinché l'Europa e i suoi vari soggetti possano continuare a garantire le condizioni di tale successo, sia in concorrenza che in cooperazione con le altre potenze spaziali mondiali. La prima di queste, gli Stati Uniti, si serve dei sistemi spaziali come di uno strumento per garantirsi una leadership strategica, politica, scientifica ed economica, impostata sui concetti di "space dominance" e di "information dominancd'. Questa volontà politica si traduce in un livello di investimento senza eguali: la spesa spaziale americana rappresenta circa l'80% di quella mondiale (civile + difesa). L'Europa da parte sua ha scelto una via originale, finora contraddistinta da alcune specificità: - un'ambizione politica: l'acquisizione e il mantenimento di un accesso autonomo allo spazio garantito dallo sviluppo di lanciatori indipendenti e di satelliti; - un impegno sostenuto per lo sviluppo della scienza, delle applicazioni e delle infrastrutture associate; - una politica industriale orientata allo sviluppo di una base 32


industriale competitiva e innovativa e alla ripartizione geografica delle attività; - la priorità data agli aspetti civili e commerciali, in particolare nel settore dei servizi di lancio e dei satelliti; - la scelta della cooperazione internazionale con le grandi potenze spaziali per la realizzazione di grandi strumenti e missioni rilevanti, in particolare per i voli con persone a bordo. Lanciatori e infrastrutture di lancio costituiscono elementi di base per ogni progetto spaziale. Dal 1980 l'Europa dispone, con Ariane e il Centro spaziale della Guyana (che costituisce un'infrastruttura di interesse europeo), di un accesso indipendente e affidabile allo spazio che le garantisce un'ampia libertà di iniziativa nella realizzazione delle sue ambizioni spaziali. La prima caratteristica del technology push derivante dall'EsA è la vastità delle aree verso le quali si indirizza. I dati raccolti nella Matrice dei Casi e in quèlla dei Bisogni esaminati nel Capitolo 2 stanno a dimostrare l'ampiezza degli sbocchi ai quali giunge il trasferimento tecnologico che ha l'ESA come agente. Altra caratteristica fondamentale è la capacità di integrazione delle tecnologie. A parte alcuni settori come quello dei sensori e, in misura minore, dei materiali lo Spazio non richiede sempre e comunque prodotti del tutto nuovi, ma adattamenti e trasformazioni di prodotti e tecnologie esistenti. È stato osservato che le esigenze dello Spazio non sono quelle della Terra, nel senso che certi gradi di sofisticazione possono rivelarsi contrari ad una facile utilizzazione nell'industria ordinaria delle tecnologie elaborate in termini di esigenze spaziali. Questa sembra, tuttavia, un'osservazione critica che non tiene conto del fatto che i livelli di eccellenza meglio garantiscono una padronanza tecnologica che è poi tramite di adattamenti ulteriori a casi di minore rilievo in termini di sofisticazione Nell'attuale contesto economico generale, in particolare, il ruo- Il modello lo del privato deve essere valorizzato a livello di "promotore" di della Pùblic progetti più che semplice "esecutore" di commesse pubbliche.. Private Nello specifico caso il privato sarebbe un promotore di progetti Partnership spaziali in senso stretto (attività core) e di eventuali iniziative bu33


siness-oriented (derivanti dallo sfruttamento di conoscenze e tecnologie spaziali in altri campi) e considerare che, l'industria spaziale, in generale, è al tempo stesso: - strategica, in quanto garantisce all'Europa l'indipendenza nei principali settori spaziali; - duale, in quanto opera allo stesso tempo sui mercati civili e della difesa; -. catalizzatrice in quanto agisce al di là del settore spaziale vero e proprio e opera per l'industria delle apparecchiature elettroniche di massa e della distribuzione televisiva. Nonostante questa buona posizione sia minacciata dalla flessione generale del mercato, le imprese spaziali europee, secondo il Libro Bianco, sembrano resistere ancora alle difficoltà dovute ad un mercato internazionale fortemente competitivo e che vede le imprese europee in ogni caso ancora indietro rispetto a quelle americane. Essa risente tuttavia della crisi di crescita nel settore delle telecomunicazioni e del conseguente sensibile crollo della domanda di questo tipo di satelliti da parte degli operatori. Il ruolo propulsivo è demandato all'Agenzia Spaziale Europea e alle Agenzie nazionali così come ai centri di ricerca e all'industria spaziale all'interno di Programma Spaziale pluriennale che determinerà le priorità, gli obiettivi, l'allocazione di risorse e responsabilità. Su questo le varie iniziative - a parte le opportunità dei finanziamento pubblici per l'innovazione ed il trasferimento tecnologico - non sembrano dare delle risposte adeguate.

Space: a new European frontierfor an expanding Union - An action plan far implementing the European Spacepolicy. White Paper, dicembre 2003, p. 41. 2 Space: a new European frontier for an expanding Union. An action plan for implementing the European Space Policy. White Paper, dicembre 2003, pp. 39. 3 Le raccomandazioni de! Libro Bianco: "Public investments in space have been pro ven capable to induce a leverageffect mobilising resources by the other Eu actors. This is why the Union should, in the context of itsJiaure Financial Perspectives, consic1er devoting additional resources to supplement existing ones '.."These extra resources would have to be allocated above all in response to users' demandi, as defined by the needs of the diffrent Eupolicies. The logica1 consequence is that an "Eu space budget line"should be a virtual one, with the actual re34


sources being made availabie to the reievant Eupolicies and oniy afraction remaining at horizontal leveifor activities ofgenerai interest" esplicitamente suggeriscono all'Unione di incrementare i propri investimenti per far leva sugli investimenti dei privati nei vari settori del sistema economico. 4 Libro Verde, Politica spaziale europea, p. 20. 5 Ibidem 6 A seguito delle questioni sollevate dal Libro Verde, La Commissione Europea, con la COM (2003) 673, ha individuato possibili risposte nel Libro Bianco sulla politica spaziale Europea - il piano di azione per l'implementazione della politica spaziale europea, pubblicato alla fine del 2003. Il Piano d'azione sarà attuato in due fasi: la prima (2004 2007) consisterà nell'implementazione delle attività previste nell'ambito dell'Accordo Quadro tra l'UE e lEsA; la seconda (dal 2007 in poi) partirà subito dopo l'approvazione della Costituzione Europea ed il riconoscimento dello "Spazio" quale materia di competenza "concorrente" tra l'Unione e i suoi Stati Membri. 7 M. Kakati, Success criteria in high-tech new ventures, in «Technovation» 2003, 447.

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_I

dossier

Fondazioni come organizzazioni delle libertà sociali (e politiche)

Nel Libro Bianco sulle Fondazioni in Italia del Consiglio italiano per le Scienze Sociali che abbiamo pubblicato sul n. 127si rileva: "La storia delle fondazioni è complessa e di lungo periodo. Nel corso di questa storia si possono rintracciare, attraverso le fondazioni e i loro tratti fisiognomici, le stesse caratteristiche strutturali delle società che ne costituiscono matrice e contesto " Negli ultimi due decenni, la fondazione" è tornata progressivamente sulla scena in Italia come in Europa. Al di là delle diverse ragioni che, storicamente, sono alla base di questo risveglio - che, per molti aspetti, è una rinascita con caratteristiche molto diverse dal passato - un fatto emerge con chiarezza: il legame stretto fra fondazioni e società civile". In realtà nella tipologia assai variegata che è propria dei soggetti denominati fondazioni" rientrano anche organismi di cui, almeno parzialmente, si può discutere il legame stretto con la "società civile' mentre più evidente risulta quello con la "società politica" costituendo un' articolazione importante dello stesso sistema politico al cui funzionamento esse contribuiscono. È il caso delle fondazioni politiche tedesche di cui si occupa il saggio di Elisabetta Pezzi. Esse mantengono caratteristiche che non sono lontane da quelle proprie di organismi di tipo pubblicistico, piena rimanen37


do tuttavia l'autonomia riconducibile come espressione di una cittadinanza libera e attiva. Il secondo contributo pubblicato nel dossier offie un quadro comparativo relativo agli elementi fondamentali che caratterizzano l'istituto fondazione nel diritto e nell'esperienza contemporanea. Un quadro d'insieme che è stato scritto aifini del dibattimento in Corte Costituzionale sulle questioni di costituzionalità sollevate nello scorso 2003 dal Tribunale Amministrati vo Regionale del Lazio e poi decise a fine anno con due importanti sentenze. Al di là di quanto riguarda le fondazioni di origine bancaria queste sentenze danno un contributo importante allo stesso sistema concettuale e normativo concernente le fondazioni in generale.

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Le fondazioni di origine bancaria: il quadro di riferimento comparativo (una memoria nel giudizio innanzi alla Corte Costituzionale) di Sergio Ristuccia

I giudizio costituzionale che si è concluso con la sentenza n. 301 del 2003 ha sancito che alle cosiddette 'findazioni bancarie" va riconosciuto il carattere pieno di 'fondazioni" Queste sono da annoverare fra i "soggetti dell'organizzazione delle libertà sociali, non delle finzioni pubbliche", dopo aver progressi vamente perso il carattere di soggetti operanti nell'ordinamento bancario. Diviene, perciò, improprio continuare a parlare di 'fondazioni bancarie» La Corte fa - al riguardo - un richiamo severo e adotta, quindi, l'espressione flndazioni di origine bancaria" Il giudizio si è instaurato con i ricorsi al Tar del Lazio delle Fondazioni contro il regolamento applicati vo della rìfòrma del sistema legislativo del 1 998-99 contenuta nell'art. 11 della Legge 28 dicembre 2001 n. 448, Legge Finanziaria 2002. (Su tale rfrma rinvio a quanto ho scritto sul numero 127 di "queste istituzioni '). Al ricorsi delle Fondazioni si è aggiunto il ricorso, a titolo personale, nella qualità di membro del Consiglio Generale della Compagnia di San Paolo. Ritengo opportuno pubblicare integralmente la memoria depositata in Corte Costituzionale prima dell'udienza del 3 giugno 2003. Una memoria che aveva per scopo la definizione del quadro di rifi'rimento comparativo, di diritto e di prassi, entro il quale le fondazioni di origine bancaria vanno collocate. SULLA LEGITTIMAZIONE DEL RICORRENTE

L'Atto di intervento dell'Avvocatura dello Stato in data 31 marzo 2003 giustamente si apre con un "quadro d'insieme". Ad esso - a parere della stessa - il giudice rimettente avrebbe dovuto rapportare le proprie argomentazioni. Tale quadro è, tuttavia, discutibile. Nello stesso Atto l'Avvocatura mette in dubbio la legittimazione ad agire del sottoscritto ricorrente. Ribadita la propria legittimazione ad agire, il sottoscritto con la presente memoria discute il "quadro d'insieme" al fine di evitare equivoci di fondo su questioni che sono a monte del processo di valutazione della costituzionalità dell'art. 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448. La memoria non entra, invece, nelle molteplici questioni di costituzionalità sollevate dal TAR Lazio non soltanto per la chiarezza dell'ordinanza di rimessione, ma anche per non

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aggiungere note inevitabilmente ripetitive alle argomentazioni che le numerose ed autorevoli difese delle Fondazioni hanno già presentato. L'Avvocatura dello Stato osserva che il giudice rimettente non si sarebbe soffermato sulla legittimazione del sottoscritto ricorrente. Quest'ultimo "appare legittimato soltanto per quanto concerne la sua permanenza nella carica malgrado l'insediamento del nuovo organo di indirizzo". Ma, a parere dell'Avvocatura, "su questo specifico punto non pare dispongano le norme primarie della cui legittimità costituzionale il rimettente ha dubitato". Va precisato, innanzitutto, che il sottoscritto ricorrente, o!treché difendere il diritto alla permanenza nella carica fino alla scadenza al momento prevista, difende anche il diritto ad essere membro del Consiglio Generale della Compagnia di San Paolo a titolo di cooptazione. Le norme primarie di diretto e particolare interesse del ricorrente che sono contenute nell'art.l 1 della legge 28 dicembre 2001, n.448 - oggetto del presente giudizio - sono: - il comma 8 del citato art. 11 che sopprime il primo periodo del comma 5 de!l'art.4 del decreto legislativo 17 maggio 1999 n.153 che prevedeva e regolava il sistema della cooptazione, poi adottato con molta sobrietà dallo Statuto della Compagnia di San Paolo; - il comma 14 dell'an. 11 che prevede, fra l'altro, la "ricostituzione degli orgaii, conseguentemente alle modifiche statutarie" imposte dal medesimo articolo. I tempi ditale ricostituzione sono facilmente ricavabili dalla stessa norma primaria. Deve aggiungersi che le norme appena ricordate sono strettamente consequenziali all'impianto e alla ratio del!' articolo li. È anche attraverso la critica di quest'ultimo che si difende il diritto del ricorrente. L'obiezione dell'Avvocatura non ha fondamento.

SUL "QUADRO D'INSIEME"

L'Atto di intervento dell'Avvocatura dello Stato disegna, nelle prime quattro pagine, un "quadro d'insieme" al quale le argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione dovrebbero - si dice - essere rapportate. Si tratta di un quadro d'insieme discutibile e in alcuni punti inattendibile. I. Si dice: "Per le speciali fondazioni in esame non vi è stato un 'fondatore' (queste ultime parole vengono sottolineate nell'Atto) e non vi è stata attribuzione ad esse di un patrimonio dedicato allo 'scopo' per volontà ed 'a spese' di un fondatore conferente cespiti propri e privati. Soltanto il legislatore ordinario - cioè lo Stato - ha provveduto, e non alla costituzione di soggetti nuovi bensì unicamente alla trasformazione (parola usata in senso lato) di preesistenti enti, ed in larga misura anche lo scopo ad esse assegnato è rimasto invariato. Il legislatore ordinario ha ritenuto di denominarle fondazioni soltanto per la mancanza, nell'ordinamento normativo, di un 'nomen' specificamente appropriato". 40


È un p0' singolare quest'ultima affermazione: il legislatore alla ricerca di un nome appropriato! Come se, in diritto, la scelta di un nome fosse una scelta di tipo estetico o comunicativo e non una qualificazione giuridica con effetti in termini di diritti-doveri, di rapporti con altri soggetti dell'ordinamento e così via. In realtà, il legislatore si è trovato di fronte ad una questione certamente non nominalistica ma sostanziale: riportare i soggetti giuridici nati dalla riforma del sistema bancario pubblico come iniziali proprietari delle azioni delle neo-costituite società per azioni bancarie alla figura iuris che meglio rispondesse alle caratteristiche degli enti medesimi. Tale figura è stata appunto individuata nella fondazione. In altri termini, il modello della fondazione è apparso l'unico rispondente alla natura degli enti, una volta che è andato decrescendo il peso del loro ruolo come proprietari delle azioni delle banche. Vediamo perché. Elemento caratteristico e qualificante della fondazione è l'esistenza di un patrimonio dedicato a scopi non di lucro e di interesse sociale. In diritto civile quando ricorrono questi elementi si è di fronte ad una fondazione. E ciò sia nell'ordinamento italiano che nell'esperienza giuridica europea e di altri paesi secondo quel che consente di affermare l'analisi comparativa e una attenta osservazione dello sviluppo delle fondazioni. Elementi essenziali della fondazione sono stati sempre considerati il patrimonio e lo scopo, a cui si può aggiungere la cosiddetta volontà del fondatore quando abbia inizialmente influenza sulla determinazione dello scopo. Tale volontà va tuttavia "intesa come qualcosa di obiettivato, affidato alle tavole di fondazione e destinato a fornire il criterio di giudizio dell'attività svolta e della conformità allo scopo. Il fondatore rimane estraneo all'ente che è nato in virtù del riconoscimento" (Rescigno, nella voce Fondazione dell'Enciclopedia del Diritto, Giuffrè ed.). In ogni caso, come scrisse già a metà Ottocento un autorevole giurista tedesco, Roth (Uber Stifrungen), - lo ricorda Rescigno nella stessa voce citata "nelle fondazioni la persona giuridica è vincolata al patrimonio". Con ciò il citato A. contribuì a formulare il principio che una fondazione non esiste senza patrimonio. Dunque, è soltanto frutto di una nozione approssimativa la sottolineatura che si fa nel brano surriportato dell'Atto di intervento dell'Avvocatura dello Stato circa la mancanza di un fondatore nelle fondazioni di origine bancaria. Qui si ripete un'affermazione poco fondata perché considera soltanto un tipo storico di fondazione, o meglio una stagione di fondazioni (quelle - per rimanere a fondazioni comparabili per dimensioni - create nel tempo da gran41


di capitalisti o uomini di finanza) quasi reputandole un prototipo senza valutare la varietà dei percorsi che hanno portato, nella storia, e possono portare, nella prassi attuale, alla costituzione di patrimoni di significativa consistenza destinati a uno o più scopi non lucrativi di tipo filantropico. Basti pensare a patrimoni a formazione progressiva costituiti con elargizioni di più soggetti. In ogni caso, una volta costituito un patrimonio a sé stante e definiti gli scopi che deve servire, il fondatore - va ribadito - esce di scena. Si usa ripetere nella letteratura anglosassone che "a foundation has no owners", una fondazione non ha proprietari. Il patrimonio, una volta costituito come base della fondazione, non fa più parte della ricchezza del fondatore. Del resto, la definizione di fondazione che l'European Foundation Centre propone, dopo un'ampia analisi comparativa compiuta nei 15 Paesi Membri dell'Unione Europea, e che tiene conto di una certa tendenza alla notevole espansione del fenomeno fondazioni nei paesi Europei non tiene affatto conto dell'elemento "fondatore". Rimane invece centrale l'elemento patrimoniale inteso come fonte autonoma, stabilita e affidabile di reddito. Secondo questa definizione, le fondazioni sono organismi indipendenti, costituiti separatamente come non-profit con una propria stabilita e affidabile fonte di reddito, normalmente ma non esclusivamente derivante da un patrimonio, e con un proprio organo di governo avendo come fine obiettivi di pubblico interesse. Questa definizione conferma quella che nel periodo del secondo dopoguerra - che vide la ripresa del fenomeno di costituzione e crescita di nuove fondazioni soprattutto negli Stati Uniti - ha fatto da riferimento ad ogni considerazione di carattere legale. Per tutti, può essere citata la definizione di E Emerson Andrews nel libro Philanthropic Foundations del 1956: "A foundation may be defined as a nongovernmental, nonprofit organization having a principal fund of its own, managed by its own trustees or directors, and established to maintain or aid social, educational, charitable, religious, or other activities serving the common welfare". Vale segnalare tutto ciò, al fine di contestualizzare quanto più possibile il discorso sulle fondazioni anche nella realtà contemporanea delle fondazioni e soprattutto in quella dello spazio giuridico europeo, di cui il nostro Paese fa parte ed entro il quale si stanno anche elaborando iniziative relative alla promozione e definizione di un profilo di "fondazione europea". 2. Dunque, il fatto che non vi sia stata, nel caso delle fondazioni di origine bancaria, una attribuzione ad esse di un patrimonio da parte di singoli fonda42


tori, ma che questa attribuzione derivi da una vicenda economica e legislativa particolare, appartiene alla casistica dei modi di formazione in concreto delle fondazioni e nulla ha a che vedere con la natura delle medesime. Natura che dipende - vale ribadire - dai due elementi essenziali: esistenza di un patrimonio e finalità non lucrative. Né la mancanza di un fondatore tocca minimamente la questione della legittimazione ad agire sollevata dall' Avvocatura dello Stato nei confronti degli amministratori pro-tempore delle fondazioni. Innanzitutto, le fondazioni sono persone giuridiche e la volontà di una persona giuridica altro non può essere espressa che dai propri amministratori o trustees. Il fondatore rileva come soggetto capace d'agire soltanto durante il procedimento di formazione della fondazione e di riconoscimento della personalità giuridica. Una volta costituita la fondazione, la capacità d'agire è soltanto quella degli organi di governo e di amministrazione della fondazione, secondo gli statuti. Il fondatore avrà tale legittimazione solo se sarà divenuto, nel frattempo, amministratore e nella misura dei poteri statutariamente attribuiti, ovvero eccezionalmente - di quelli che si fosse eventualmente riservati pur non essendo amministratore. Tutto ciò, ovviamente, nell'arco della vita del fondatore e magari dei suoi eredi diretti. Dopo 100-150 anni è proprio inimmaginabile vedere il fondatore (nei. casi molteplici di fondazioni durature) agire a salvaguardia della propria volontà. Dunque, anche le controversie sugli scopi della fondazione non possono vedere come attori altre persone che non siano gli amministratori o i membri degli organi della fondazione. Del tutto improprio è poi il richiamo alle società per azioni: i soci, infatti, sono i proprietari della società per azioni, mentre "foundation has no owners". Si tratta di situazioni giuridiche non comparabili e, dunque, non utili per riferimenti analogici. C'è da aggiungere che la possibilità del fondatore di mutare i fini di una fondazione è assai dubbia. Certo da escludersi quando io scopo sia stato ben determinato. Esistono margini di aggiustamento quando si tratti di adeguare nel tempo l'indicazione di uno scopo soprattutto quando si tratti di fondazioni cosiddette "generaliste" che cioè comprendono un arco di fini abbastanza ampio, per lo più lasciato alle specificazioni dei trustees attraverso le procedure interne indicate dagli statuti. Quando si ipotizza che il Parlamento, nel caso delle fondazioni di origine bancaria, sia intervenuto a mo' di fondatore che modifica gli scopi delle fondazioni, si dice qualcosa che non trova riscontro nel diritto e nella prassi delle fondazioni. 43


Nel tipo di osservazioni contenute nell'atto di intervento è da notare insomma una scarsa conoscenza della realtà delle fondazioni. Il che è del tutto spiegabile in un Paese dove le fondazioni non hanno mai costituito una realtà giuridica e sociale consistente almeno fino a 15-20 anni fa (come fa rilevare il capitolo primo del Libro Bianco del Consiglio italiano per le Scienze Sociali su "Le Fondazioni in Italia", pubblicato lo scorso anno). D'altra parte, nelle stesse osservazioni dell'Avvocatura, si esprime con chiarezza l'idea vera che sottende alla novella del regime delle fondazioni di origine bancaria: che queste, nella loro cosiddetta specialita , siano puramente e semplicemente ispirate alla natura di enti pubblici.

Una trasformazione nel contesto di una riforma 3. Il Parlamento, precedentemente alla legge di cui qui si discute, era arrivato ad una importante definizione della materia delle fondazioni di origine bancaria dopo una serie di interventi legislativi. Il riconoscimento legislativo della natura di fondazioni propria degli "enti conferenti" ha chiuso un processo durato anni e caratterizzato da notevoli incertezze relativamente ai punti di approdo della trasformazione delle banche pubbliche in imprese private capaci di operare in regime di concorrenza sul mercato nazionale ed europeo. Nell'incertezza dei tempi e dei modi del percorso l'emergere della natura degli enti come fondazioni è stato progressivo, pur essendo stata fatta, fin dall'inizio, la scelta di abbandonare il regime pubblicistico. In ogni caso, è nel disegno stesso della scissione delle Casse di risparmio e degli Istituti di credito di diritto pubblico in due soggetti, l'azienda bancaria s.p.a. e l'ente proprietario delle azioni, che è contenuto il principio normativo fondamentale: l'assetto finale anche degli enti detti "conferenti" dovesse essere trovato nel diritto privato. Non soltanto per il progressivo affermarsi della logica della privatizzazione, ma anche perché - scartata l'ipotesi, pur ventilata e discussa, di una proprietà accentrata nelle mani del Tesoro ai fini della successiva cessione al mercato - vennero ad imporsi le ragioni della storia delle istituzioni cì-editizie interessate. Queste sono nate sul territorio per iniziativa di liberi cittadini e sono centri di accumulazione patrimoniale sulla base delle transazioni che videro i medesimi cittadini come soggetti principali, senza apporti provenienti dai bilanci pubblici. Alla vicenda, ben nota anche negli atti di questo giudizio, non deve farsi qui altro che un cenno. Per notare come non meraviglia il fatto che la qualificazione degli enti "conferenti" medesimi come fondazioni cominciasse ad avvenire, innanzitut44


to, nella prassi per poi trovare conferma attraverso un finale e preciso intervento del legislatore. Il punto di partenza da cui muove il legislatore del 1998-1999 è il seguente. Gli enti conferenti, cominciando a dismettere le azioni delle banche si ritrovano con patrimoni di più consistente entità, progressivamente diversificato e quindi più capace di dare frutti di quanto fossero nell'originaria composizione, costituita dalle sole azioni delle banche. I frutti degli impieghi pattimoniali vengono destinati agli scopi della "beneficenza" già presenti nella vecchia configurazione delle Casse e degli Istituti di credito di diritto pubblico e che certo, dopo la scissione, non potevano più essere propri delle aziende bancarie costituite in società per azioni e chiamate non soltanto a fare profitto, ma a farlo in un mercato fortemente competitivo. Scissi in due gli Istituti e le Casse, si scindono dunque le funzioni: da una parte, profit e, dall'altra, non profit. La politica legislativa vuole comunque una più consistente dismissione delle azioni delle banche, la perdita del controllo da parte delle fondazioni, il maggior possibile allontanamento delle fondazioni dalla gestione delle banche. Dire che il patrimonio è rimasto quello degli enti preesistenti è di fatto del tutto inesatto (anche e soprattutto in termini quantitativi). Altrettanto se non più inesatto è dire che lo scopo assegnato alle fondazioni è rimasto invariato in confronto a quello degli enti preesistenti. Basta considerare che una cosa è la "beneficenza" come scopo che si aggiunge a quello della cura del risparmio e della gestione del credito, altra cosa - ben altra cosa (in termini, per esempio, di professionalità richieste) - sono gli scopi filantropici come unici e soli scopi da perseguire attraverso i redditi di un patrimonio che ha sempre meno come fonte le partecipazioni bancarie. La vicenda non è nuova nella storia delle fondazioni. E il caso di quelle fondazioni titolari d'impresa, cioè titolari di una partecipazione di controllo di società profit, che poi dismettono la partecipazione e realizzano un patrimonio di tipo nuovo i cui redditi non dipendono dall'andamento e dai dividendi delle imprese di cui erano titolari, ma da altri investimenti patrimoniali di tipo prevalentemente finanziario. È il caso, per esempio, del Welcome Trust quando ha venduto la partecipazione detenuta nell'omonima industria farmaceutica.

La mancanza di una legislazione ad hoc Il legislatore del 1998-1999 si è trovato, dunque, di fronte all'esigenza di dare un assetto finale all'evoluzione degli enti conferenti, consacrando la loro 45


qualificazione come fondazioni e regolando il loro modo di essere. E qui è emerso il problema della mancanza, nel Codice Civile, di una normativa adeguata alle caratteristiche proprie delle fondazioni di grandi dimensioni. Il Codice del 1942, che pure è un codice di grande valore, dedica alle persone giuridiche non lucrative una disciplina che, soprattutto per le fondazioni, si riferisce ad un istituto giuridico poco apprezzato ed usato nei decenni precedenti al codice, sostanzialmente avversato, comunque mai realizzato se non in dimensioni molto limitate, per non dire piccole o piccine. Il fenomeno della ripresa dell'istituto della fondazione in Italia, quale si è verificato negli ultimi tempi, trova obiettivamente un freno nella disciplina molto elementare offerta dal Codice e, comunque, inadeguata quando si tratta di fondazioni di grandi dimensioni (si veda quanto afferma al riguardo il citato Libro Bianco del Consiglio italiano per le Scienze Sociali). Di qui, la necessità di dettare norme primarie adeguate alle nuove fondazioni. In questo senso si deve parlare di una legislazione ad hoc, data l'insufficienza della normativa civilistica di base, mai pensata - si ripete - per fondazioni di una certa dimensione. In questo senso, ancora, non è corretto parlare di "speciali fondazioni" come se si contrapponessero a quelle comuni, perché di tratterebbe di una specialità che si contrappone al nulla. Il legislatore del 1998-1999 ha ben presente tutto ciò e, anzi, considera la legislazione sulle fondazioni di origine bancaria un vero e proprio anticipo, almeno ovviamente per quanto riguarda la parte ordinamentale civilistica, della riforma del Codice civile. Si può anzi ben dire che nella legislazione del 1998-1999 è contenuto un programma legislativo in questa direzione. Le indicazioni sono chiare e vanno ricordate. Le norme chiave sono, da una parte, la qualificazione delle fondazioni come "persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale" (art. 2, comma i del D.Lgs. n.153 del 1999) e, dall'altra, la norma contenuta nel comma i dell'art. 10 del citato D.Lgs. 153/99, che esordisce con l'affermazione "fino all'entrata in vigore della nuova disciplina dell'autorità di controllo sulle persone giuridiche di cui al Titolo Il del Libro primo del Codice civile", nonché la disposizione finale di cui all'art.29 che rinvia, "per quanto non previsto" al Codice civile. Le norme ricordate sanciscono il radicamento delle fondazioni nel diritto privato, definiscono lo statuto come lo strumento principale attraverso il quale si esprime la "piena autonomia" delle fondazioni, contengono indicazioni di un programma legislativo da realizzare appena possibile (la riforma del Libro primo del Codice civile). 46


In realtà, la portata della legislazione 1998-1999 travalica la stessa materia delle fondazioni di origine bancaria, almeno per quanto riguarda le norme civilistiche. Essa costituisce il primo passo di un più ampio aggiornamento del sistema normativo civilistico delle fondazioni e così è stato inteso. Tanto che le norme sugli organi e sul sistema di governo (la distinzione fra un organo di indirizzo e un organo di gestione) hanno spesso costituito un modello al quale la prassi ha fatto ampiamente ricorso.

"AUTOREFERENZIALITÀ" E AUTONOMIA

6. La questione centrale rimane il significato e la portata dell'autonomia delle fondazioni che la legge qualifica come "piena" facendo sì che lo statuto ne sia l'espressione. Come vuole l'esperienza delle fondazioni, come vuole il diritto delle fondazioni che è un diritto degli statuti. A questo riguardo l'Atto di intervento dell'Avvocatura dello Stato afferma "Proprio la eccessiva autoreferenzialità nella individuazione degli scopi delle fondazioni, prevista dall'originario art. 2, comma 2 del d.lgs 17 maggio 1999 n. 153 ("lo statuto individua i settori ai quali ciascuna fondazione indirizza la propria attività, comprendendo fra questi almeno uno dei settori rilevanti"), ha formato oggetto di sollecita riconsiderazione da parte del Parlamento con l'art. 11 comma 3 della legge 28 dicembre 2001 n 448". Occorrerebbe innanzitutto chiedersi che cosa sia 1 eccessiva autoreferenzialita , espressione che non si presta ad una precisa concettualizzazione. Se essa, come fa l'Avvocatura, si riferisce alla norma richiamata, secondo la quale lo statuto - come è ovvio in presenza di "piena autonomia" - individua i settori ai quali ciascuna fondazione indirizza la propria attività, il problema è nella qualificazione data alle fondazioni dal legislatore del 1998-1999, qualificazione che pure si dice di voler mantenere. Come fa la "piena autonomia" a trasformarsi in "eccessiva autoreferenzialità" soltanto a causa di una ovvia (e per certi aspetti pleonastica) specificazione dei contenuti della medesima autonomia? Siamo al tema centrale di questo giudizio: la novella del 2001 è coerente con il mantenimento della natura di "persone giuridiche private" con quel che segue? Ovvero, fa venire meno i presupposti di quella qualificazione facendo retrocedere le fondazioni allo status di enti pubblici? E ciò è possibile in termini di costituzionalità? Essendo questo il tema centrale del giudizio qui non si vogliono aggiungere parole - come si è detto all'inizio di questa memoria - a tutti gli atti che sono 47


all'esame della Corte. Vale soltanto chiedersi se questa "eccessiva autoreferenzialità", che viene poi anche detta "asistematica", sia un'evidenza da trarre da qualche indagine sugli statuti, peraltro tutti approvati dall'Autorità di vigilanza e tutti, dunque, agli atti della medesima. Non pare che un'indagine del genere ci sia stata. Rimane confermato che la valutazione di "eccessiva autoreferenzialità" deriva soltanto dalla lettura che il Legislatore della xiv Legislatura ha dato della norma surriportata e chiaramente denota il puro e semplice rifiuto dell'autonomia delle fondazioni.

Sulla cooptazione 7. A questa cd. autoreferenzialità di diritto si aggiunge - secondo quanto si legge nell'Atto di intervento - "una sorta di autoreferenzialità di fatto, essa pure eccessiva e per di più priva di giustificazione e di fondamento costituzionale, nella determinazione delle modalità di 'provvista' dei componenti l'organo di indirizzo delle fondazioni". Ciò perché "l'originaria lettera c) dell'art. 4 comma i (unitamente al successivo comma 5 dello stesso articolo) del d.lgs. n. 153 del 1999 si limitava a pretendere una "adeguata e qualificata rappresentanza del territorio" e a vietare la "maggioritaria rappresentanza di ciascuno dei soggetti che partecipano alla formazione dell'organo", e lasciava agli statuti la facoltà di tratteggiare "identikit" idonei a perpetuare l'esplicitamente menzionato "sistema della cooptazione". Di conseguenza, afferma l'Avvocatura, "in concreto, gruppi abbastanza ristretti di persone fisiche non direttamente legittimate da investitura popolare e neppure accreditate da apporti di danaro proprio avrebbero potuto continuare a gestire ingenti patrimoni accumulatisi (il che è stato positivo) nel corso di mediamente circa due secoli, e non certo conferiti o prodotti da quelle persone. Dunque, delle mega-curatele per patrimoni considerati "adespoti". Qui si parla di "autoreferenzialità di fatto" e, dunque, sarebbe ragionevole aspettarsi che ciò risulti da qualche indagine. Non c'è traccia di una dimostrazione del fenomeno deprecato. Sarebbe stato interessante vedere se la cd. autoreferenzialità c'è stata in generale o in casi particolari, se c'è stata continuità nel personale dirigente delle fondazioni e così via. Assenta in termini generali tale autoreferenzialità è priva di riscontri fattuali adeguati. Inoltre, si dice che l'autoreferenzialità riguardante le modalità di nomina dei membri dell'organo di indirizzo, oltre che eccessiva, sarebbe - come già riportato - "priva di giustificazione e di fondamento costituzionale". Il vizio denunciato è veramente singolare. Considerare degli enti privati (di nuovo, il 48


legislatore del 2001 non ha cancellato la nota qualificazione delle fondazioni come persone giuridiche private) come rilevanti sui piano costituzionale nei termini appena riportati non ha alcun senso. Qualche senso (ma non troppo) può averlo soltanto se si tratta di enti pubblici. Né ha molto senso dire che la legge modificata "si limitava a pretendere". La pretesa è, infatti, una prescrizione forte, che pone ragionevoli limiti al potere statutario che l'Autorità di vigilanza avrebbe controllato. Andare oltre quei iimiti pone alcuni dei problemi di maggior rilievo che sono all'esame di questa Corte. 8. Dove, tuttavia, l'Atto di intervento rischia di stravolgere la realtà è nell'affermazione che lasciare agli statuti la facoltà di tratteggiare gli identikit servisse "a perpetuare l'esplicitamente menzionato 'sistema della cooptazione". Agli statuti è stato demandato di precisare i requisiti che devono avere i membri degli organi di governo e di amministrazione delle fondazioni, tutti i membri cioè anche quelli designati dagli enti territoriali e da altri organismi. Per quanto riguarda il sistema di cooptazione, questo era consentito dal D.Lgs. n. 153 del 1999 non - come fa intendere l'Atto di intervento - quale sistema principale, se non esclusivo, di nomina dei membri dell'organo di indirizzo, ma soltanto come sistema complementare e residuale e, comunque, tale da non inficiare l'equilibrio delle designazioni e delle presenze nell'organo. Dunque, con la cooptazione si andava a coprire soltanto una minoranza dei posti dell'organo di indirizzo. E ciò non soltanto per agevolare una presenza di competenze e professionalità, che attraverso le designazioni non fossero adeguatamente assicurate, ma anche per utilizzare uno strumento che nell'esperienza delle fondazioni si è sempre rivelato di notevole utilità e, comunque, peculiare del modo di essere delle fondazioni stesse. Come operi la cooptazione nell'esperienza delle fondazioni, quali siano i tipi di cooptazione, quali siano i poteri di voto dei cooptati che possono essere anche soltanto consultivi, quali insomma debbano essere i criteri per un giusto uso della cooptazione entro i limiti suggeriti dall'esperienza e nella misura indicata, per le fondazioni di origine bancaria, dal D.Lgs.n.153 del 1999 è materia su cui vale soffermarsi. Vale ricordare che l'istituto della cooptazione è tipico del mondo delle fondazioni come può ben dimostrare l'analisi comparativa del diritto e della prassi in diversi Paesi. Possono darsi tipi diversi di cooptazione: quella che ha per oggetto la ricostituzione stessa dell'organo che si ha quando la nomina di nuovi membri di49


penda dall'organo di cui fanno parte i membri uscenti (ciò avviene, quasi esclusivamente, nel caso di scadenze differenziate dei componenti degli organi); quella che ha per oggetto solo una parte dei membri dell'organo; quella ancora - che riguarda membri che non hanno pieno potere di voto ma funzioni consultive (è la differenza che corre, in molti casi, fra "full members" e corresponding members). Si possono poi ipotizzare procedure particolari che facciano capo ad alcune componenti degli organi o dei soggetti che hanno il compito di designare i membri. Vale ricordare, al proposito, quanto segnalano gli autori di un'analisi degli statuti di alcune fondazioni europee che fanno parte - attraverso i propri direttori - del Club dell'Aja: "Cette cooptation ne se fait uniquement au sein de l'organe directeur de la foundation mais, au besoin, en faisant appel à de grands electeurs exterieurs agissant eux-mèmes soit directement, soit en comitè ad hoc, soit en venant s'adjoindre, pour l'occasion, au conseil" (Marina e Pierre Schneider, Les Fondations Culturelles en Europe, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, n. 17, 1989). Si tratta delle varie possibili scelte proprie dell'autonomia statutaria privata. La ratio della cooptazione è stata, storicamente, quella di fare in modo che persone chiamate a governare e gestire le fondazioni fossero in consonanza con la volontà del/dei fondatori ovvero che fossero scelte - anche soltanto ad integrare un collegio - persone di maggior competenza e più motivate (soprattutto quando il sistema prevedesse il carattere volontario e gratuito delle cariche). Si è molto discusso sui vantaggi e sui rischi del sistema. Anche in ragione di questo dibattito si può ragionevolmente ritenere utile, se non necessario, fissare bene criteri e limiti della cooptazione. Invece, imporre un divieto di cooptazione non è in alcun modo ragionevole.

Il tema della gestione 10. Quanto poi all'affermazione dell'Avvocatura, secondo la quale gruppi ristretti di persone fisiche potrebbero, senza la novella del 2001, continuare a gestire gli ingenti patrimoni delle fondazioni c'è da dire che, quali che siano i sistemi di nomina e i soggetti nominanti, capiterà sempre che siano ristretti gruppi a gestire. Così avviene generalmente nel mondo profit e non profit e così avviene anche nel mondo delle istituzioni. Quindi, la questione non è se si tratti di gruppi ristretti o no, ma quale sia la fonte della loro investitura. E qui 1' Atto di intervento esplicita con chiarezza quale sia il pensiero dellegislatore del 2001: che tali gruppi ristretti debbano ripetere la loro legittima02


zione dall' "investitura popolare", in altri termini siano i rappresentanti in senso stretto degli enti territoriali rappresentativi. Quanto questa concezione possa essere affermata rispetto a persone giuridiche private come le fondazioni è parte del thema decidendum di questo giudizio e gli ampi atti dello stesso lo affrontano senza dover spendere qui altre parole. C'è soltanto da aggiungere che l'affermazione che segue nell'Atto circa le poche persone che gestirebbero i patrimoni non essendo neppur accreditate da apporti di danaro proprio è pressoché priva di senso. A parte il caso di fondatori che per un certo periodo possano riservarsi ruoli operativi e necessariamente limitati nel tempo, non si conoscono casi di managers o trustees di fondazioni che le gestiscano a seguito dell'apporto di denaro proprio. Il problema del governo delle fondazioni e della gestione dei patrimoni è certamente cruciale e se ne discute cercando le soluzioni migliori in termini di reclutamento e professionalità dei membri dei boards e dei managers esecutivi. Ma il problema non è stato mai posto, a conoscenza di chi scrive, nei termini surriportati. SISTEMA DI GOVERNO E ACCOUNTABILITY

11. Il vero problema è quello della responsabilità dei membri degli organi delle fondazioni, cioè di quella che si usa chiamare nella letteratura internazionale la loro accountability. È questo il problema al quale la legislazione del 1998-1999 ha dato una risposta che occorre ricordare. Da una parte, l'Autorità di vigilanza è stata dotata di molti poteri (fin troppi nell'opinione di molti), dall'altra, è stato disegnato per le fondazioni di origine bancaria - il che può valere per tutte le fondazioni che superino una certa dimensione patrimoniale - il sistema di governo duale a cui già si è fatto cenno. Su questo punto vale soffermarsi. Il sistema di governo delle grandi fondazioni, quelle per esempio che negli Stati Uniti d'America sono qualificate Public Foundations in quanto, pur essendo di origini private hanno finalità di interesse collettivo e, in ragione di questo, ricevono agevolazioni fiscali, è stato oggetto di vivace dibattito al fine di dare voce al contesto di riferimento, al grande pubblico, al mondo della cultura e della scienza e così via. Il Council on Foundations, organismo associativo delle fondazioni, fece al riguardo insistenti campagne ottenendo risultati importanti. Più di recente, nel 1996, in Francia, il Conseil d'Etat nel Rapporto che poi fu pubblicato con il titolo Rendreplus attractf le droit desfondations segnalò l'importanza di un sistema di governo bicefalo delle fondazioni che rendesse più forte la dialettica decisionale e più efficace il controllo interno. 51


Il legislatore del 1998-1999 prende atto, soprattutto attraverso il lavoro preparatorio svolto in sede tecnica, dell'evoluzione del dibattito internazionale in materia e appresta un sistema di governo duale delle fondazioni (al quale l'organo di revisione si aggiunge con funzioni proprie di controllo) che dia risposta a due esigenze: dare la pi첫 ampia voce, nell'organo di indirizzo, al mondo esterno facendo di questo un organo "aperto", creare le premesse nella distinzione netta fra organo di indirizzo e organo di gestione - per una forte dialettica nelle procedure di decisione e per un efficace controllo interno. Si ha l'impressione che il legislatore del 2001 non si preoccupi tanto del funzionamento di questo sistema di governo, quanto soprattutto di una sola funzione assegnata all'organo di indirizzo: quella di nominare l'organo di gestione.

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Le fondazioni politiche tedesche di Elisabetta Pezzi

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entre in Italia le fondazioni cosiddette politiche sono normali fondazioni aventi quale scopo istituzionale quello di diffondere un preciso pensiero politico, in Germania con tale espressione si fa riferimento ad enti aventi questo stesso fine ultimo, ma il cui funzionamento si basa su un complesso sistema di finanziamenti pubblici. Le fondazioni politiche tedesche, infatti, sono strutture formalmente private finanziate, tuttavia, quasi per intero con denaro pubblico e attive nel campo dell'educazione ai principi e ai valori democratici. Ogni fondazione politica è "vicina" ad un determinato partito politico, rispetto al quale è tenuta a mantenere, peraltro, un'autonomia giuridica. Storicamente la loro nascita è da ricondurre all'esperienza della Repubblica di Weimar e alla conseguente dissoluzione della prima democrazia tedesca ad opera del nazionalsocialismo, cui seguì, dopo la seconda guerra mondiale, la necessità di provvedere ad una rieducazione della società tedesca ai principi ed alle regole fondamentali di un sistema democratico. Più precisamente esse sono: la Friedrich-Ebert-Stiftung, vicina al Sozialdemokratische Partei Deuschlands (SPD); la Konrad-Adenauer-Stiftung, vicina alla Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDu); la Friedrich-Naumann-Stiftung, vicina al Freien Demokratische Partei (FDP); la Hanns-SeidelStifrung, vicina alla Christlich Sozialen Union in Bayern (Csu); la HeinrichBòll-Stiftung, vicina al Bundespartei Biindnis 90/Die Griinen; la RosaLuxemburg-Stifrung vicina al Partei flir Demokratischen Sozialismus (PDs). Le fondazioni politiche hanno operato, sino ad oggi, in assenza di una specifica disciplina normativa, sulla base di una prassi statale ormai consolidata. Unico fondamento giuridico in materia è dato dalla giurisprudenza della "Bundesverfassungsgericht" (Corte Costituzionale) ed, in particolare, dalla sentenza del 14 luglio 1986, nota anche come "Stiftungsurteil" (sentenza sulle fondazioni), che ha formalmente sancito la loro nascita. J2Autrice è esperta di Politica delle fondazioni per la Ristuccia Advisors.

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A ciò hanno fatto seguito, nell'estate del 1992, le raccomandazioni di una Commissione di esperti indipendenti sul finanziamento dei partiti politici, nominata dal Presidente Weizsàcker ("Empfehlungen der Kommission unabhngiger Sachverstindiger zur Parteienfinanzierung") che si è occupata, fra le altre cose, anche delle fondazioni politiche. Infine, nel novembre 1998, di fronte alla persistente inerzia del legislatore, cinque delle sei fondazioni politiche tedesche hanno elaborato e sottoscritto una "gemeinsame Erklrung" (Dichiarazione congiunta) con cui si sono fornite di una sorta di autoregolamentazione. IL FINANZIAMENTO PUBBLICO DELLE FONDAZIONI POLITICHE TEDESCHE.

Come già detto, alla base dell'attività delle fondazioni politiche tedesche vi è un articolato meccanismo di finanziamento pubblico delle stesse. Non è possibile, dunque, comprendere il funzionamento di questi enti senza affrontare il tema del loro finanziamento pubblico, che, d'altra parte, è strettamente connesso all'evoluzione del finanziamento pubblico dei partiti politici in Germania. Infatti, al fine di garantire la libertà del processo di formazione della volontà politica ed evitare un'eccessiva ingerenza dello Stato, la Corte Costituzionale si è espressa a favore del finanziamento statale della campagna elettorale ma non anche delle altre attività svolte dai partiti. Di conseguenza, i mezzi finanziari statali prima concessi ai partiti politici per lo svolgimento di tali altre attività, sono stati devoluti alle fondazioni politiche vicine ai partiti rappresentati nel "Bundestag". Nel 1967 le quattro fondazioni politiche esistenti hanno ottenuto 14 milioni di DM dal bilancio federale. Tuttavia, è soio con la già citata sentenza della Bundesverfassungsgericht del 14 luglio 1986, che viene sancita la legittimità costituzionale del finanziamento pubblico delle fondazioni politiche, qualora siano rispettate determinate condizioni. La Corte ha, infatti, statuito che la fondazione politica deve essere un'istituzione giuridicamente e concretamente indipendente, tale da mantenere, anche nella prassi, una certa distanza dal vicino partito politico. Essa deve occuparsi del lavoro di formazione politica in modo autonomo, sotto la propria responsabilità e con apertura di vedute. Le fondazioni politiche non possono, ad esempio, fare credito ai vicini partiti politici, acquistare e distribuire riviste dei membri del partito; diffondere 54


e cedere materiale pubblicitario adatto alla campagna elettorale; finanziare annunci o contributi a giornali; inserire personale delle fondazioni fra i volontari attivi nella campagna elettorale; tenere corsi di formazione riservati ad attivisti della campagna elettorale. Anche nell'attività di ricerca, per quanto concerne, ad esempio, la scelta delle tematiche da indagare, le fondazioni politiche devono operare in modo autonomo rispetto al relativo partito. Si consideri, inoltre, che proprio per evitare che le fondazioni politiche diventino i destinatari formali di donazioni volute e pensate a favore dei partiti politici e che, quindi, i privilegi fiscali previsti per le donazioni a favore delle fondazioni si risolvano, indirettamente, in vantaggi per i partiti stessi, quest'ultimi non possono accettare donazioni da parte delle fondazioni politiche. L'ATTIVITÀ DELLE FONDAZIONI POLITICHE

a) L'attività di formazione politica La formazione politica è la principale attività svolta dalle fondazioni politiche tedesche in ambito nazionale, con il fine di "stimolare La parteczpazione dei cittadini alle questioni politiche, nonchè incentivare e rendere più approfondito il loro impegno"!. Concretamente l'attività di formazione svolta dalle fondazioni politiche comporta l'organizzazione di iniziative di vario genere (seminari della durata di uno o più giorni, conferenze, congressi, dibattiti, nonché pubblicazione di riviste e libri). Quanto alle tematiche scelte dalle varie fondazioni, senza dubbio, esiste una stretta relazione fra le stesse e gli orientamenti del vicino partito politico, come emerge anche dall'analisi dei rapporti annuali (Jahresberichte) 2 . Ciò nonostante, la Bundesverfassungsgericht ha rigettato l'accusa secondo cui l'attività di formazione politica si ridurrebbe ad una sorta di "addestramento" per gli "adepti" del vicino partito politico. La Corte, infatti, ha affermato che "l'attività di formazione politica delle fondazioni è divenuta progressivamente più autonoma e ha raggiunto un alto grado di trasparenza"3 pur riconoscendo che "il loro lavoro in particolare nel campo della ricerca, della preparazione e raccolta di materiale, delle pubblicazioni, della cura dei rapporti internazionali, ma anche della formazione politica in senso stretto va a favore, in una determinata misura, del vicino partito politico"4 Ciò che conta, in definitiva, è che a prescindere dal legame con il programma ideologico del vicino partito, la fondazione politica non si rivolga esclusivamente ai sostenitori del relativo partito, ma garantisca l'accesso alle manifestazioni organizzate alla totalità dei cittadini. ,

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b) Il lavoro a livello internazionale. Le fondazioni politiche hanno sviluppato, al loro interno, appositi settori specificamente competenti per il lavoro internazionale. Questo consta non solo dell'impegno nei Paesi in via di sviluppo, ma comprende anche la presenza delle fondazioni in Europa e in Nordamerica. Si tratta, infatti, di due distinte attività: la cooperazione allo sviluppo e le relazioni internazionali. La cooperazione allo sviluppo. Nel 1973 il "Bundesministerium flir wirtschaftliche Zusammenarbeit" (Ministero per la cooperazione economica) ha stabilito i principi per la cooperazione politica allo sviluppo tra il governo federale e le fondazioni politiche. In tale documento i compiti delle fondazioni politiche sono definiti chiaramente: "Le fondazioni politiche sostengono nei Paesi in via di sviluppo partner, che nell'ambito degli scopi stabiliti con la dichiarazione sui diritti umani delle Nazioni Unite, contribuiscono efficacemente alla realizzazione di una giustizia sociale, alla diffusione della cooperazione politica e al rafforzamento dell'autonomia economica del 1aese" 5 Il governo federale tedesco mira, soprattutto, alla "formazione di dirigenti» e alla "ricerca e documentazione". L'attività dev'essere diretta ad un "aumento delle possibilità di partecipazione di gruppi e singoli alle decisioni sociali". Si tratta, sostanzialmente, di progetti di carattere socio-politico, ideati in collaborazione o spesso dietro richiesta di partner locali. Questi sono organizzazioni e associazioni di vario tipo (sindacati, organizzazioni di imprenditori, associazioni studentesche) del medesimo orientamento politico della fondazione, mentre non vengono contattati direttamente i partiti politici. .

Le relazioni internazionali. Allo scopo di incentivare il dialogo a livello internazionale, le fondazioni politiche tedesche si sono dotate di varie sedi in Europa o in Nordamerica, attraverso cui instaurare e mantenere specifiche relazioni con organizzazioni e associazioni impegnate su temi affini ai loro. L'attività consiste nella realizzazione di manifestazioni, conferenze, incontri internazionali sulle questioni di volta in volta considerate di maggiore interesse. c) La ricerca scientifica, borse di studio, archivi e biblioteche. Tutte le fondazioni politiche effettuano attività di ricerca in vari ambiti, spesso affrontando le tematiche più discusse dal partito politico di riferimento, offrendo così una forma di consulenza politica. 56


Al riguardo la Bundesverfassungsgericht ha sancito che "La promozione statale della consul.enza politica eseguita scientflcamente, come accade attraverso la concessione dei finanziamenti istituzionali alle fondazioni, è nell'interesse generale e non contrasta essenzialmente con la Costituzione"6 Inoltre, numerose borse di studio sono messe a disposizione di studenti e dottori di ricerca particolarmente meritevoli. Ogni fondazione politica possiede un archivio dotato di materiale concernente il vicino partito politico e una biblioteca fornita di testi di carattere socio-politico. .

d) L'amministrazione. Ogni fondazione politica ha, naturalmente, un apparato amministrativo. Tutte le fondazioni fanno ricorso esclusivamente a personale pagato e non si avvalgono di volontari. Quanto al trattamento economico del personale, vale il cosiddetto "Besserstellungsverbot", ossia il divieto per chiunque riceva finanziamenti pubblici di trattare il suo personale meglio di quello della pubblica amministrazione. IL SISTEMA DI FINANZIAMENTO

Esistono due tipi di finanziamento erogati annualmente dal Bundestag (Parlamento federale) con la legge di bilancio: i cd. Globalzuschiisse e iprojektbezogene Zuschiisse 7 Nel primo caso si tratta di finanziamenti concessi tout court ad ogni fondazione politica vicina ad un partito rappresentato nel Bundestag, soltanto per il fatto di esistere e svolgere le sue attivitĂ . Nel secondo caso i finanziamenti sono erogati sempre alle fondazioni politiche vicine ai partiti rappresentati nel Bundestag, dietro presentazione di uno specifico progetto che dev'essere approvato dal Ministero competente. In effetti, mentre i Globalzuschusse o finanziamenti istituzionali sono concessi dal Bundesministerium des Inneren (Ministero degli Interni), i finanziamenti sui vari progetti sono erogati dal Bundesministerium fĂšr wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung (Ministero per la cooperazione economica e lo sviluppo) o dall'Auswrtiges Amt (Ministero degli Affari Esteri). I finanziamenti istituzionali sono utilizzati per coprire le spese amministrative, per il mantenimento delle strutture, nonchĂŠ per l'espletamento dell'atti.

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vità di formazione politica, per la ricerca scientifica, le borse di studio, le biblioteche e gli archivi. Le fondazioni politiche tedesche ricevono finanziamenti anche a livello regionale, nonché da parte dell'Unione Europea (quest'ultimi di difficile individuazione poiché nei rapporti annuali ricadono normalmente sotto la classificazione "altri finanziamenti3 8 Ulteriori entrate sono costituite da donazioni, da contributi dei parteczpanti per le varie manifestazioni cui prendono parte, nonché da attività quali la gestione di loro edifici, ristoranti, e così via9. .

Prssi

SEGUITA Al FINI DELL'EROGAZIONE DEL FINANZIAMENTO

Il finanziamento pubblico delle fondazioni politiche non è regolato da alcuna legge specifica, né a livello federale, né a livello regionale. L'unica base giuridica può riscontrarsi nelle leggi di bilancio con cui annualmente vengono stabiliti i finanziamenti per le singole fondazioni nel loro ammontare. Si tratta, infatti, di un sistema che si fonda esclusivamente su una prassi statale ormai consolidata. Come già sottolineato, il finanziamento pubblico riguarda soltanto le fondazioni politiche vicine ai partiti politici rappresentati nel Bundestag. La determinazione del finanziamento e della sua entità a favore delle varie fondazioni avviene in base ad un complesso procedimento informale, che precede la sua deliberazione ufficiale con la legge di bilancio. Piui precisamente, in una prima fase, i rappresentanti delle varie fondazioni politiche si riuniscono per discutere e decidere la suddivisione dei finanziamenti. In un secondo tempo, si tiene un incontro fra i dirigenti delle fondazioni politiche e i relatori dei gruppi parlamentari, alla presenza di rappresentanti del Bundesministerium des Inneren. Quanto stabilito in tale sede, dovrà poi essere confermato nei cosiddetti "Berichterstatter-Gesprche" (colloqui dei relatori) a livello dei gruppi parlamentari ed, infine, dalla Commissione di bilancio. Quest'ultima si limita, normalmente, ad accogliere senza discussione le decisioni assunte in precedenza. Tale procedimento viene seguito per entrambi i tipi di finanziamento, sia quelli istituzionali, sia quelli legati a specifici progetti e consente, evidentemente, alle fondazioni politiche di giocare un ruolo fondamentale nella decisione sull'erogazione di mezzi finanziari pubblici in loro favore. 58


LA QUESTIONE DELLA TRASPARENZA

L'assenza di una disciplina espressa riguardo al finanziamento pubblico delle fondazioni politiche ha suscitato varie perplessità e critiche. Da un lato, il problema concerne la violazione del principio di uguaglianza, in considerazione del fatto che il finanziamento pubblico è a favore esclusivamente delle fondazioni vicine a partiti rappresentati nel Bundestag. D'altro canto, si è sospettato che si trattasse di una forma di finanziamento indiretto dei relativi partiti politici, ai quali spetta, in definitiva, la competenza a decidere in merito. Si tratterebbe, dunque, di un tipico caso di decisione "in eigener Saché (decisione in cosa propria) da parte del Bundestag. Pur non essendo ad oggi intervenuta alcuna legge in materia, si è preso atto ufficialmente della questione della trasparenza dei finanziamenti pubblici alle fondazioni politiche e si è giunti, infine, ad una autoregolamentazione da parte delle fondazioni politiche stesse. Nell'estate del 1992 il Presidente della Repubblica Federale Weizsicker ha istituito una Commissione di esperti indipendenti competente in materia di finanziamento ai partiti politici, con l'incarico di elaborare delle proposte per una futura regolamentazione della materia. La Commissione ha consegnato il suo rapporto il 17 febbraio 1993, esprimendosi anche in merito al finanziamento delle fondazioni politiche. In proposito la Commissione ha criticato il procedimento informale che conduce alla distribuzione dei mezzi finanziari pubblici per l'assoluta assenza di trasparenza. Riconosciuta l'utilità del lavoro svolto dalle fondazioni politiche ed in considerazione della notevole entità del finanziamento pubblico, la Commissione ha espressamente raccomandato di "disczplinare con una legge iprincipi del finanziamento statale delle fondazioni vicine aipartitf'. Più precisamente essa ha affermato che "La concessione di mezzi finanziari dev'essere strutturata in modo più trasparente, e deve essere condotto un costante controllo circa il loro buon utilizzo. In caso di aumento dei finanziamenti non si deve superare il tasso di incremento del bilancio federale totale"bO. Inoltre, secondo la Commissione, la legge dovrebbe prevedere l'obbligo di pubblicazione dei piani economici e dei rapporti del revisore dei conti così come della Corte dei Conti federale, non essendo sufficiente che le fondazioni politiche pubblichino saltuariamente e di loro volontà i dati relativi alle loro entrate ed uscite. L'ente erogatore dovrebbe richiedere la restituzione dei finanziamenti utilizzati in modo non regolare. 59


LA "GEMEINSAME ERKLXRUNG"

In assenza di un intervento del legislatore, nel novembre del 1998, le cinque fondazioni politiche allora esistenti hanno provveduto a stendere una 'gemeinsame Erklàrung" (Dichiarazione congiunta). Con tale documento le fondazioni politiche hanno accolto le raccomandazioni della Commissione di esperti indipendenti nominata dal Presidente Weizscker, tenendo anche presente quanto statuito dalla Bundesverfassungsgericht nella sentenza del 14 luglio 1986, più volte menzionata. Partendo da una descrizione generale del loro ruolo, le fondazioni politiche si sono definite come "organizzazioni giuridicamente private, che forniscono prestazioni, che [..] sono nell'interesse pubblico, ma non possono essere sostenute dallo Stato stesso"11. Lo Stato, infatti, finanziando il lavoro di formazione delle fondazioni politiche "adempie in modo più efficace al suo compito costituzionale di formazione, [...], che non agendo per mezzo di sue proprie autorità. La vita politica e culturale necessita diflessibilità e creatività"12• Ciò che conta è che lo Stato rispetti il suo dovere costituzionale di neutralità, e quindi, che nella concessione dei mezzi finanziari pubblici tenga conto dei principali orientamenti politici presenti sul territorio nazionale. Al fine di valutare la consistenza e l'importanza di una corrente politica, le fondazioni politiche hanno proposto di far riferimento ai rapporti di forza sussistenti a seguito di quattro elezioni a livello federale. 13 Spetterà, poi, ad una decisione del Bundestag stabilire le regole in base alle quali le fondazioni politiche ottengono i finanziamenti per la prima volta. Le fondazioni politiche hanno indicato, quale criterio da utilizzare a tal fine, la ripetuta rappresentanza nel Bundestag del partito politico vicino alla fondazione. Qualora un partito politico dovesse perdere la rappresentanza nel Bundestag, la fondazione politica manterrà, comunque, il diritto ai finanziamenti pubblici per almeno una legislatura. 6

IL SISTEMA DI CONTROLLI VIGENTE SULIt'UTILIZZO DEI MEZZI FINANZIARI

L'utilizzo dei finanziamenti pubblici da parte delle fondazioni politiche è sottoposto a diverse istanze di controllo, al fine di garantire una trasparenza del sistema quantomeno ex post. Una prima verifica è svolta dagli stessi enti erogatori, talvolta ancora in fase di esecuzione del progetto, al fine di assicurarsi che i mezzi finanziari concessi 60


siano utilizzati in modo regolare e secondo le indicazioni contenute nelle loro direttive. Il bilancio e la gestione economica delle fondazioni politiche sono controllate dalla Corte dei Conti federale e da quelle regionali, mentre il Fisco verifica che i fondi siano effettivamente utilizzati per fini di pubblica utilità. Le fondazioni politiche, a prescindere dall'esistenza di un obbligo giuridico in questo senso, hanno assunto l'onere di presentare annualmente al Bundesministerium dei Inneren un piano economico redatto in forma di un prospetto generale con l'indicazione di tutte le entrate e le uscite previste (per il personale, l'amministrazione e le strutture) e la giustificazione di quest'ultime. Si sono impegnate, inoltre, a far esaminare annualmente, a proprie spese, la loro gestione economica da parte di un revisore dei conti e a provare al Bundesministerium des Inneren l'utilizzo dei finanziamenti istituzionali ogni anno entro otto mesi dalla chiusura dell'anno di bilancio 14, nonché a presentare al Bundesministerium dei Inneren il bilancio di fine anno con le entrate e le uscite. Infine, le fondazioni politiche, concordemente a quanto raccomandato dalla Commissione di esperti indipendenti e ritenendo fondamentale informare la collettività circa la loro attività, si sono impegnate a pubblicare la loro pianificazione economica sotto forma di un prospetto generale. UN PARTICOLARE INCONTRO FRA PUBBLICO E PRIVATO

Se formalmente si tratta di enti di diritto privato, dal punto di vista dei finanziamenti e delle attività svolte, le fondazioni politiche tedesche sono strutture a rilevanza pubblica con un'ulteriore particolarità dovuta alla "vicinanza" ad un determinato partito politico. Le maggiori perplessità in merito derivano proprio dalla relazione sussistente tra la fondazione politica ed il partito di riferimento, nonché dal fatto che l'intero sistema difetta di una base normativa. Quanto al primo aspetto, un legame espresso tra la fondazione politica ed il vicino partito convive con una necessaria autonomia formale e materiale della fondazione rispetto allo stesso. Da un lato, infatti, la fondazione politica non ha remore a lasciar trasparire la sua vicinanza ad un determinato orientamento politico e quindi ad un partito ed, anzi, si legittima in tal modo ad ottenere i finanziamenti pubblici. D'altro canto è tenuta a mantenere una posizione di indipendenza rispetto al partito e ad agire in modo trasparente ed autonomo, affinché non si prospetti un'ipotesi di illegittimo finanziamento pubblico dei partiti politici. 61


A tal fine con la gemeinsame E41drung le fondazioni politiche si sono impegnate a finanziare esclusivamente altre organizzazioni che operano per fini di utilità generale e non quindi i partiti politici e ad evitare che i dirigenti della fondazione esercitino funzioni analoghe nel vicino partito politico 15 In definitiva, le fondazioni politiche devono stare sempre bene attente a mantenere un delicato equilibrio nello svolgimento del loro lavoro ed avendo come unico punto di riferimento quanto statuito in proposito dalla Bundesverfassungsgericht, nonchè gli impegni da loro assunti, con la gemeinsame Erkliirung. Viene, così, in considerazione la seconda questione prospettata ossia l'assenza di una specifica legge in materia. Tale vuoto legislativo può aver consentito una maggiore libertà e flessibilità d'azione alle fondazioni politiche, che non vedono ristretta la loro attività entro una definizione ben precisa, ma determina contemporaneamente una situazione di incertezza. Le fondazioni politiche, infatti, non hanno un diritto vero e proprio ad ottenere i finanziamenti pubblici e la collettività non ha realmente modo di appurare che i finanziamenti siano stati concessi secondo criteri di imparzialità. L'intero sistema dei controlli, sopra delineato, si limita ad accertare che i mezzi finanziari concessi siano stati utilizzati in modo regolare e costituisce, perciò, una forma di verifica ex post. D'altra parte, l'assenza di una legge che preveda un procedimento chiaro e certo per la suddivisione dei finanziamenti pubblici rende impossibile un controllo ex ante.

Gemeinsame Erkldrung, DIE STIFTUNGEN Infatti, se la Konrad-Adenauer-Stiftung ha affrontato più spesso temi quali il Cristianesimo e i valori cristiani, la cooperazione con rappresentanti delle chiese, la tutela e il sostegno della famiglia, la Priedrich-Ebert-Stiftung si è occupata perlopiù di xenofobia, dialogo tra i popoli, problemi ecologici, coesione sociale. Questioni quali il federalismo, la decentralizzazione, il liberalismo e la responsabilità sociale sono stati approfonditi soprattutto dalla Friedrich-Naumann-Stiftung, mentre la HeinrichBòll-Stiftung si è concentrata su argomenti quali lo sviluppo sostenibile e la politica ambientale I

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internazionale, la democrazia dei sessi e il femminismo. La Hanns-Seidel-Stiftung ha indagato, ad esempio, la questione del rapporto fra lo Stato e la Chiesa dopo cinquant'anni di Costituzione e la Rosa-Luxemburg-Stiftung propone l'approfondimento, fra gli altri, dei seguenti temi: critica a capitalismo e marxismo, antifascismo, rapporto tra i sessi, 3 2 BVE 5183 - pag. 40. 2 BVE 5183 - pag. 48, 49. BUNDESMINISTERIUM FUR WIRTSCHAFTLICHE ZUSAMMENARBEIT, 1973: Bericht der Bundesregie-

rung und Grundsàtze der Zusammenarbeit zwi-


schen Bundesregierung und politischen Stzftungen. Anhang des Protokolls der Sitzung des Ausschiisses fir wirtschafihiche Zusammenarbeit des Deutschen Bundestages am 3.10.1973. (Rapporto del governo federale e principi di cooperazione tra il governo federale e le fondazioni politiche. Allegato del verbale della riunione della Commissione per la cooperazione economica del governo federale tedesco del 3.10.73) 6 2 BVE 5/83 - pag. 49. 7 Ii totale dei finanziamenti statali erogati alle fondazioni politiche tedesche nel 1992 è stato di 644.022.000 di DM, nel 1994 di 596.239.000 di DM, nel 1996 di 627.966.000 di DM e nel 1998 di 670.000.000 di DM. 8 Ad esempio a livello regionale la Konrad Adenauer-Stiftung nel 2000 ha ottenuto 5.637.000 di DM; alla Friedrich-Ebert-Stiftung nel 1999 sono stati concessi 6.538.000 di DM; alla Friedrich-Naumann-Stiftung sono stati erogati nel 2000 1.700.000 di DM; la Hanns-Seidel-Stiftung nel 1999 ha ottenuto 3.350.000 di DM dal Land Bayern. Così, la Konrad-Adenauer-Stiftung ha ricevuto, nel 2000, 1.950.000 di DM in donazioni e 2.893.000 di DM di contributi di partecipazione, mentre la Friedrich-Ebert-Stiftung ha ottenuto, nel 1999, 3.901.000 di DM di donazioni e 1.859.000 di DM di contributi dei partecipanti, mentre nel 2000 alla Friedrich-Naumann-Stiftung sono stati conferiti 200.000 DM in donazioni.

La Hanns-Seidel-Stiftung nel 1999 ha ricevuto 60.000 DM in donazioni e 1.240.000 di DM in contributi dei partecipanti. 10

"Empfehlungen der Kommission unabhdngiger Sachverstdndiger zur Parteienfinanzierung", p. 121, 122. 1 Gemeinsame Erkldrung, Zweiter Abschnitt, i. 12 Gemeinsame Erkliirung, ErsterAbschnitt, 3. 13 J base a dati raccolti nel luglio 2001, i mezzi fìnanziari erano suddivisi fra le fondazioni politiche secondo le seguenti percentuali: circa il 33, 2% a testa per la Friedrich-Ebert-Stiftung e la Konrad-Adenauer-Stiftung; circa il 14, 2% a testa per la Friedrich-Naumann-Stiftung e la Hanns-Seidel-Stiftung; il 5, 2% per la Heinrich-Bòll-Stiftung. L'assegnazione di finanziamenti statali alla Rosa-Luxemburg-Stiftung è prevista soltanto dall'autunno del 1999 e per percentuali ancora non rilevanti. 14 Tale prova consiste in un rapporto, una dimostrazione numerica e nel rapporto del revisore dei conti sull'utilizzo dei finanziamenti istituzionali. Ciò vale anche per i mezzi finanziari con cui si sono sostenute altre organizzazioni operanti per l'interesse collettivo nell'ambito della formazione. Lo stesso vale anche per il piano economico e il bilancio di fine anno delle organizzazioni operanti per l'interesse generale nell'ambito della formazione politica e finanziate dalle fondazioni politiche. 15 Si tratta di disposizioni analoghe a quelle contenute nella Parteiengesetz.

63


dossier

4;. Spesa pubblica, povertà ed esclusione sociale

La riduzione del disagio sociale rappresenta senza dubbio uno degli obiettivi fondamentali a cui sono rivolte le spese pubbliche del Welfare State. Accanto all'analisi del benessere economico è, tuttavia, opportuno tenere presente anche la rilevazione di altre componenti specflche del disagio sociale, volte a permettere une5èttiva opportunità di partecipazione alla vita associata (alloggio decoroso, accesso ai servizi sanitari e servizi per l'infanzia). Dfiztti, sebbene una delle componenti fondamentali del di sagio sociale sia senza dubbio rappresentata dalla povertà economica, la mera presenza di benessere economico "relativo" non può essere considerata sufficiente laddove esi stono altri fattori che, comunque, ostacolano la piena inclusione dei cittadino nella vita civile. Il descritto quadro di princzpi si realizza in Italia con un'articolazione dei programmi assistenziali articolata su due livelli: uno centrale ed uno locale, il che richiede la presenza di forti capacità di programmazione e pianificazione da parte dei soggetti responsabili, nonché di una strutturata azione di coordinamento dei diversi attori coinvolti nel sistema. A ciò deve aggiungersi che, sebbene a seguito della rifi9rma costituzionale del 2001 la competenza legislativa esclusiva in materia di servizi sociali sia stata affidata alle regioni, che in molti casi hanno già provveduto ad adottare proprie norme di settore, a tutt'oggi lo Stato non ha ancora determinato i livelli 65


essenziali delle prestazioni afferenti ai diritti civili e sociali, ossia quei livelli che sono finalizzati a scongiurare il rischio di un degeneramento dell'autonomia regionale in eventuali discriminazioni nell'esercizio concreto dei medesimi diritti fondamentali. Il contesto richiamato è al centro dei due articoli che compongono il Dossier. In particolare, il tema dell' intervento della Pittari, circoscrivendo l'analisi al settore sanitario ed a quello dei servizi sociali, insiste proprio sulla necessità di evitare che dalla valorizzazione del ruolo degli enti locali, derivante dal progressivo decentramento amministrativo, possa scaturire una discriminazione in ordine all'esercizio dei diritti di cittadinanza. Alfine di conservare la "cittadinanza unitaria" e renderla effettiva è, infatti, opportuno che lo Stato detenga lafinzione di definire i livelli essenziali delle prestazioni, in modo da garantire nelle forme di erogazione dffèrenziate in ragione delle diverse aree territoriali, la medesima intensità ai diritti sociali in tutte le aree del Paese. Nel secondo articolo (Chiara Nanni), invece, l'approfondimento si sposta sul piano più strettamente legato ai fattori politico-economici e, dopo una breve analisi sui divari territoriali riguardanti ilfenomeno della povertà in Italia, ci si sofferma sulle caratteristiche della spesa assistenziale e sugli strumenti volti a contrastare il disagio sociale, analizzando in dettaglio le politiche per la famiglia, le politiche abitati ve e le politiche a sostegno del reddito. Tra queste ultime, si segnala, in particolare, lo strumento del Reddito Minimo di Inserimento, introdotto in Italia in via sperimentale dalla legge 267198 e poi in via ordinaria dalla legge quadro n. 328100. La peculiarità di questo programma di spesa consiste nel prevedere, insieme al consueto trasferimento monetario alle famiglie indigenti, una serie di attività di inserimento sociale, il che rende il medesimo programma uno strumento innovativo nonché di efficace lotta alla povertà, in quanto volto a superare l'ottica meramente assistenziale che caratterizza le altre misure attuate. Entrambi gli articoli, infine, trovano come punto di incontro il riconoscimento della validità dell'approccio concertativo tra parti istituzionali e parti sociali, nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale. L'importanza di valorizzare la dimensione concertata emerge sia nella fase relativa alla definizione di accordi specifici, per l'individuazione di linee comuni e condivisi tra Stato e Regioni, sia sul piano operativo, nell'ottica della sperimentazione di nuove politiche volte ad arginare il disagio sociale, la cui efficacia è decisamente maggiore in contesti ove è stata riscontrata collaborazione e coinvolgimento tra diversi enti. Questo profilo si pone in piena coerenza anche con gli ultimi orientamenti della Corte Costituzionale che, impegnata nel difficile compito di sciogliere i nodi applicativi delle nuove disposizioni ex Titolo V, nella sentenza n.303103 ha sottolineato con decisione il fondamentale ruolo dell'intesa istituzionale quale fattore propedeutico all'esercizio delle funzioni sia legislative, sia amministrative secondo il riformato assetto delle competenze. 66


Una garanzia dei diritti di cittadinanza. I livelli essenziali delle prestazioni socio-sanitarie di Eleonora Pittari

J

diritti di cittadinanza consistono nell'insieme delle situazioni giuridiche che consentono alla persona di tutelare la propria sfera di autonomia e di realizzare, partecipando alla vita della comunità, la propria personalità. Pur reclamando un comportamento non meramente passivo da parte dei cittadini, sollecitati ad inserirsi in modo responsabile e attivo nella vita del Paese, i diritti di cittadinanza rendono obbligatoria da parte della Repubblica, nell'accezione plurima che si ricava dall'art. 114 Cost., l'assunzione di compiti quali, l'assistenza sanitaria, l'assistenza sociale e le prestazioni previdenziali per le persone e le famiglie, riconducibili al dovere della Repubblica "di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 Cost.)'. La trasformazione della Repubblica in senso quasi "federale" valorizzando il ruolo degli enti di governo territoriale, coinvolti maggiormente nella gestione dei servizi alla persona, ha portato in primo piano la necessità di evitare che dall'applicazione di differenti standard di erogazione dei servizi possa scaturire una discriminazione in ordine all'esercizio dei diritti; mentre alle Regioni compete assicurare l'erogazione delle prestazioni in autonomia, modellando l'offerta alla specificità del proprio territorio e alle caratteristiche della popolazione, allo Stato è rimesso il compito di delineare i caratteri della "cittadinanza unitaria" e renderla effettiva. I livelli essenziali rappresentano lo strumento per dare un profilo omogeneo alle prestazioni, per garantire a tutti i cittadini una risposta congrua alle loro esigenze, indipendentemente dal loro luogo di nascita ovvero di residenza.

Master in "Organizzazione e funzionamento della Pubblica Amministrazione", Università degli Studi di Roma "La Sapienza". 67


I LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI IN SANITÀ E NEI SERVIZI SOCIALI I due settori in cui i livelli delle prestazioni hanno trovato applicazione già prima della riforma costituzionale del 2001 sono quello sanitario e dei servizi sociali e proprio a questi due settori sarà circoscritta la mia riflessione. Nel settore sanitario, fin dall'istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978), la previsione di livelli uniformi delle prestazioni ha risposto all'esigenza di mantenere al centro, in un servizio sanitario articolato su base territoriale, la "regia" della tutela della salute (l'assistenza sanitaria ed ospedaliera erano ricompresse tra le materie di competenza concorrente) anche attraverso uno stretto controllo sulle risorse finanziarie 2 L'esigenza di definire e attuare i livelli di assistenza, rimasta a lungo disattesa, è divenuta prioritaria negli anni Novanta, quando l'applicazione progressiva del principio di sussidiarietà e la necessità di contenere la spesa pubblica hanno imposto il rispetto di standard validi su tutto il territorio nazionale 3 La legge delega n. 42 1/92, che teorizza alcuni interessanti principi finalizzati ad equilibrare il diritto primario dei cittadini a ricevere prestazioni indispensabili per il loro stato di salute, con la disponibilità limitata di risorse finanziarie destinate al settore sanitario, ha affidato al Governo il compito di determinare i principi relativi ai livelli di assistenza, definiti uniformi ed obbligatori ed espressi in termini di prestazioni, in coerenza con le risorse destinate; il d. lgs. n. 502192, in attuazione della legge delega, ha sancito il superamento dell'universale gratuità delle prestazioni sanitarie, dando rilievo, nel riordino del servizio sanitario, ai criteri di ottimale utilizzazione delle risorse, di adeguatezza delle prestazioni e, soprattutto, di selettività nell'accesso (ad esempio secondo parametri reddituali). Il d. lgs. n. 229199 ha rimarcato la tendenza dell"universalismo selettivo", che assicura a tutti le prestazioni possibili in base alle risorse disponibili, operando poi scelte prioritarie di salvaguardia dei più deboli. Questa impostazione riflette inoltre l'inquadramento della tutela della salute tra i servizi alla persona, promossa dalla legge Bassanini n. 59197 e dai successivi decreti di attuazione, in particolare il d. lgs. n. 112198, nonché l'orientamento comunitario sancito dalla Carta di Lubiana, sottoscritta il 18 giugno 1996, concernente la riforma dei sistemi sanitari europei 4 Il concetto di livelli di assistenza, non più imbrigliati nel retaggio di posizioni centralistiche, viene ancorato ad un nuovo parametro, di non facile individuazione: l'essenzialità delle prestazioni e tipologie di assistenza, intese come efficaci, appropriate, efficienti ed i cui benefici siano mostrati da evi.

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68


denze scientifiche. Il decreto legislativo n. 229/99 contempla tra i compiti affidati allo Stato la determinazione di livelli di assistenza, definiti esseniiali ed uniformi e, in conseguenza di quanto già stabilito Piano sanitario 19982000, esclude dalla tipologia di livelli essenziali le prestazioni che non rispondono a necessità assistenziali, che non sono efficaci ed appropriate o la cui efficacia non è ancora dimostrabile in base all'evidenza clinica, cui corrispondono altre prestazioni in grado di soddisfare le stesse esigenze.

Tab. i Ricostruzione semantica dell'espressione Lep nella normativa Anno

Norma di riferimento

Definizione

Ambito

1978

art. 3, legge n. 833178

sanità

1992

legge n. 421192

"livelli di assistenza e condizioni di .unfònnità" su tutto il territorio nazionale" "livelli di assistenza, uniformi e obbligatori',

stabilendo comunque l'individuazione di una soglia minima di riferimento, da garantire a tutti i cittadini" art. 1, I, co., art. 4 lett. b " i livelli di assistenza €Lz assicurare in condiziod. lgs. n. 502192 ni di unfrmità sul territorio nazionale" (art.

sanità

1992

1, I co.); "Livelli unf,rini di assistenza sanitaria"da individuare sulla base anche di dati

1998 1999

2000 2000

2001

epidemiologici e cimici ,con la specificazione delle prestazioni da garantire a tutti, rapportati al volume delle risorse a disposizione" (art. 4, lett. b Piano sanitario nazionale Livelli di assistenza , essenziali, efficaci, appro1998-2001 Dpr 23/7/98 priati ed uniformi" d. lgs. n. 229199 "livelli essenziali ed un/irmi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della persona umana, del bisogno di salute, dell'equità nell'accesso all'assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo a specifiche esigenze, nonché dell'economicità nell'impiego delle risorse" art. 9, I co., lett. b, "individuazione dei livelli essenziali ed unif,rlegge quadro n. 328100 mi delle prestazioni' art. 22, Il co., legge ) gli interventi di seguito indicati costiquadro n. 328100 tuiscono il livello essenziale delle prestazioni" legge cost. n. 3101 "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i "( ....

2001

d.p.c.m. 29 novembre 2001

2002

art. 26 legge n. 289102

sanità sanità

sanità servizi sociali servizi sociali

diritti civili e sociali' "livelli essenziali di assistenza" (LEA)

sanità

"livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali"

servizi sociali 69


Il settore sanitario, con il d.p.cm. 29 novembre 2001 5 , ha ottemperato al dettato ex art. 117, Il lett. m del nuovo titolo V della Costituzione indicando, attraverso un elenco di prestazioni, i livelli essenziali. Nel settore dei servizi sociali 6 in cui per molto tempo è mancata una disciplina quadro nazionale, la legge n. 328/00 7 , ha previsto lo strumento dei livelli essenziali delle prestazioni, sebbene la disciplina (art. 22) si risolva in una mera elencazione di prestazioni 8, che rinvia al Piano sociale nazionale per la puntuale indicazione dei livelli essenziali. Il Piano sociale nazionale 20012003 si è limitato a definire le modalità per la definizione dei livelli, senza operare la concreta individuazione degli stessi. Nel frattempo, la costituzionalizzazione dei livelli essenziali delle prestazioni, realizzata dalla legge n. 3/01, ed il contestuale affidamento alle Regioni della competenza esclusiva in materia di servizi sociali ha complicato il percorso che, ad oggi, non ha ancora dato alla luce i livelli essenziali delle prestazioni. La legge n. 289/02 all'art. 46 ha disposto che la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni per il settore dei servizi sociali deve avvenire con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il ministro dell'Economia e delle Finanze, d'intesa con la Conferenza unificata; inoltre è sottolineata la necessità di rispettare le compatibilità finanziarie definite nel Documento di programmazione economico-finanziario e i limiti delle risorse ripartibili del Fondo nazionale per politiche sociali, tenendo conto inoltre delle risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle Regioni e dagli Enti locali. ,

LA FUNZIONE DEI LIVELLI ESSENZIALI NELLA GESTIONE SUSSIDIARIA DEI SERVIZI ALLA PERSONA

L'evoluzione tracciata con riferimento alla tutela della salute e ai servizi sociali può essere letta trasversalmente come riflesso del passaggio dal Welfare State alla cosiddetta Welfare Community, che coinvolge maggiormente famiglie, il volontariato, l'associazionismo ed il privato sociale e profit nella gestione e nell'erogazione dei servizi. Lo sviluppo della Welfare Community è ricollegato alla garanzia del principio di sussidiarietà, nella sua duplice realizzazione verticale (tra istituzioni) ed orizzontale (tra istituzioni, famiglie e cittadini singoli ovvero associati), che propone una diversa lettura dei bisogni, contestualizzati in ambiti territoriali e rilevabili sia per i profili epidemiologici di fasce di popolazione, sia per le variabili di natura locale. È la comunità, in70


tesa come soggettività del territorio, che emerge e che influisce sulla natura della programmazione nazionale, chiamata a trovare nuovi strumenti che possano fungere da ponte fra le realtà locali e le esigenze di unitarietà, emerse con l'accentuato processo di decentramento istituzionale che ha coinvolto il nostro Paese. Un ruolo centrale nella ricerca di strumenti attraverso cui superare l'impasse tra logiche della differenziazione e le esigenze di unitarietà è certamente rivestito dalla determinazione dei livelli essenziali, finalizzati a scongiurare che l'autonomia regionale possa generale eventuali discriminazioni in ordine all'esercizio dei diritti ad opera dell'autonomia regionale 9 . Con la riforma del Titolo V si è affievolita la gerarchia fra enti a favore di un "pluralismo paritario" 10 , di una nuova "pari dignità" istituzionale fra gli enti che non si traduce però in un'autonomia incondizionata, in quanto ciascun ente territoriale deve conformarsi a standard che garantiscono i segni distintivi della Repubblica 11 . Questo perché la riforma del titolo V, pur innovando l'assetto istituzionale, risulta in collegamento con altre norme costituzionali che, estranee alla riforma, hanno rafforzato la propria ratio; è il caso dell'art. 5 Cost., "catalizzatore del dialogo autonomistico" 2 , che esalta l'autonomia degli enti territoriali, ma tutela la stessa unità della Repubblica, giustificando in questo modo ingerenze da parte dello Stato. La legislazione esclusiva, rimessa allo Stato ex art. 117, 11 co., lett. m è una competenza intensa, quasi una "meta-materia" 13 , il cui esercizio sarà risultato del legislatore statale a seguito ad un'attenta e delicata valutazione politica. La determinazione dei livelli essenziali nel nuovo titolo V della Costituzione è considerata una competenza trasversa le 14 che, esulando dallo stretto riferimento al contenuto oggettivo della materia, si presenta piuttosto come una competenza di sistema in grado di condizionare le diverse potenzialità regionali, in nome del riequilibrio in chiave unitaria. Tra le competenze "trasversali" la determinazione dei livelli essenziali si presenta come uno strumento in grado di potenziare il ruolo statale cui sono associati, nel bilanciamento del nuovo assetto dei poteri legislativi, amministrativi e finanziari degli enti territoriali, i meccanismi di perequazione e di sostegno finanziario 15 (art. 119) e l'esercizio di poteri sostitutivi da parte del governo nei confronti degli organi degli enti territoriali inadempienti (art. 120). L'espressione utilizzata dal legislatore per definire la competenza esclusiva in tema di livelli essenziali contiene però degli elementi ancora indeterminati, in quanto il significato di livello essenziale è soggetto a possibili evoluzioni; ad incrementare la confusione concorre la non chiara distinzione tra il con71


cetto di livello essenziale e quello delle prestazioni riconducibili ai livelli stessi: i primi, strumenti di definizione del diritto, di cui le seconde sono il contenuto, la concretizzazione quindi del livello essenziale stesso. Se il livello essenziale viene così a costituire il nucleo del diritto, sembra dover prevalere anche sulle compatibilità finanziarie, mentre invece la prestazione è individuata sulla base di evidenze che ne garantiscono l'appropriatezza e può quindi subire condizionamenti dalle compatibilità finanziarie 16 . All'interpretazione dell'art. 117, lI co., lett. m, occorre aggiungere che il processo di definizione dei livelli sconta una diversa allocazione della competenza legislativa tra la tutela della salute (concorrente) e servizi sociali (esclusiva). La differenza nella potestà legislativa tra i due settori determina ricadute importanti in termini di titolarità dell'organizzazione di servizi. Il processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni è fortemente collegato all'accesso alla dimensione organizzativa dei sistemi di protezione sociale: il presidio della dimensione organizzativa nel processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni discrimina l'effettività dell'uguaglianza nell'esercizio dei diritti? I LIVELLI ESSENZIALI NELLA REALIZZAZIONE DELI'UGUAGLIANZA SOSTANZIALE

La riforma del titolo V intervenendo - senza modificarlo - nel quadro del costituzionalismo sociale sancito nella prima parte della Costituzione, necessita di un coordinamento del principio di autonomia politico-organizzativa con il principio unitario ed il principio di uguaglianza, che si riflette sulla modalità di tutela dei diritti sociali. Il binomio autonomia-eguaglianza è ricompreso nel pit ampio concetto di unità dell'ordinamento costituzionale, di cui l'uguaglianza è elemento sostanziale pi1 frequentemente esposto a "violazioni", soprattutto ad opera del principio di autonomia politico_territoriale 16 . Il legislatore costituzionale ha dovuto affrontare il problema della garanzia dell'uguaglianza sia nella dimensione interpersonale, sia in quella interregionale. L'eguaglianza interpersonale, tra i cittadini all'interno della stessa Regione, è di certo garantita dalla previsione dell'art. 3, I co., Cost; l'eguaglianza interregionale, o interterritoriale, che può essere "violata" a causa di eventuali differenze nelle realtà socio-politiche dei territori, è assicurata dalla determinazione dei livelli essenziali 17 . In questo ambito emerge come il potere della legislazione statale ex art. 117, lI co., lett. m, non si limita a determinare i livelli essenziali delle prestazioni ma, considerata la funzione di garantire un uniforme livello alle prestazioni legate ai diritti sociali, armonizza la garanzia 72


di essenzialità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale 8 con la ripartizione della competenza legislativa ex art. 117 Cost. In questo senso sembra operare la sentenza TAR Lazio n. 6252/2002, che sottolinea come la potestà statale ex art. 117, lI co., lett. m sia finalizzata a dare effettività al principio fondamentale all'art. 3, lI co., Cost., all'uguaglianza sostanziale dunque. La sentenza specifica come il diritto alla tutela della salute è "garantito ad ogni persona come diritto costituzionalmente condizionato all'attuazione che il legislatore ne dà attraverso il bilanciamento dell'interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui l'apparato dispone"; ancora "la tutela costituzionale della salute si attua mediante l'identificazione prima dell'an e del quid più efficace ed appropriato per tutti gli assistiti del SSN e successivamente del quando e del quomodo in ciascuna realtà territoriale". Si comprende, quindi, come la ricerca dell'equilibrio tra il principio dell'autonomia territoriale ed il principio-base del costituzionalismo sociale, l'uguaglianza sostanziale, passi attraverso una suddivisione dei compiti tra Stato e Regioni. La garanzia del principio di solidarietà nonché dell'uguaglianza generale, quali fondamenta assiologiche dell'ordinamento, sono esercitate attraverso la definizione dei livelli essenziali, mentre alla Regione è affidata la potestà di provvedere alle misure di attualizzazione del diritto, tenendo conto delle peculiarità territoriali, sussunte sul nucleo irrinunciabile del diritto. Questo schema, come già sottolineato sopra, si applica a prescindere dalla titolarità della competenza, proprio in funzione della tutela dell'eguaglianza sostanziale che, come tale, si realizza nella dimensione nazionale. La prospettiva dalla quale osservare i meccanismi predisposti per equilibrare le due esigenze di autonomia e uguaglianza è quella dei diritti: il soddisfacimento dei diritti secondo schemi di sussidiarietà che avvicinano i servizi al territorio e al cittadino, espande l'autonomia, giustifica la richiesta di ulteriori spazi da parte delle Regioni; allo stesso tempo i diritti sono il limite, secondo il criterio della ragionevolezza, alle forme di autonomia, alla differenziazione in sede territorial& 9 : i diritti possono considerarsi "il fine ed il confine "20 della differenziazione territoriale. I diritti, a loro volta, ineriscono al tessuto sociale che si presenta variegato nelle diverse realtà regionali, caratterizzato da profonde differenze economiche e sociali; l'unificazione delle condizioni di vita non può passare attraverso la stretta applicazione dell'uniformità, poiché questa non realizza la reale uguaglianza, quanto piuttosto egualitarismo. Piuttosto, nel rispetto dei livelli essenziali dei diritti di cittadinanza, lungi dal predisporre 73


una situazione di livellamento "verso il basso", le Regioni possono determinare livelli ulteriori, aggiuntivi delle prestazioni, in conformità ai bisogni diversificati, della collettività di cui sono esponenti. Accanto alla scelta circa le modalità di erogazione delle prestazioni quindi, possono essere previste quote ulteriori di servizi 21 la cui diversificazione potrebbe stimolare l'ottimizzazione dei fattori produttivi in seguito all'avvio della concorrenza 22 Tra i vantaggi di una gestione decentrata, che spaziano dalla vicinanza governanti-governati, al monitoraggio del rapporto costi-benefici e alla maggiore responsabilizzazione degli amministratori locali, si profila la necessità di valorizzare il legame con il pluralismo sociale. Nel passaggio dal Welfare State alla Welfare Communiiy, infatti, l'espansione del privato sociale rende sempre più necessaria la promozione e la sponsorizzazione di nuove forme di risposta ai bisogni, più efficaci di quelle apprestate attraverso una politica nazionale uniforme. Laccresciuta autonomia sembra così funzionale alla realtà sociale, alle nuove forme di sussidiarietà orizzontale che incidono sui diritti senza comunque attentare all'eguaglianza interregionale, garantita dalla previsione di strumenti normativi ed amministrativi. In ogni caso, al fine di giungere ad un equilibrio in cui sia garantito l'effettivo esercizio dei diritti, i meccanismi di differenziazione territoriale devono essere accompagnati da attività di monitoraggio e valutazione nazionale, in modo da valutare i risultati della "gestione" locale e fornire le informazioni necessarie, sulle quali poi strutturare interventi di sussidiarietà verticale, in termini sia normativi - determinazione dei livelli essenziali - sia amministrativi, con l'esercizio dei poteri sostitutivi. È necessario quindi strutturare l'autonomia, tanto più differenziata, sulla scorta di norme generali da applicare poi nei casi concreti, riponendo nei giudici il compito di individuare vuoti, quanto poi la normativa atta a colmarl1 23 ,

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SPUNTI DI RIFLESSIONE

La contestualizzazione del nuovo Titolo V nel quadro dei principi del costituzionalismo sociale ha accentuato la tensione tra le esigenze di unità e differenziazione territoriale. A fronte di questa situazione sono stati contemplati alcuni strumenti finalizzati a garantire la solidarietà interregionale: la determinazione dei livelli essenziali, la perequazione finanziaria e l'esercizio di poteri sostitutivi. Il nuovo assetto finanziario rileva come luogo di verifica degli strumenti finalizzati a realizzare il nuovo riparto di competenze tra i diversi livelli di go74


verno; l'art. 119 Cost. prefigura un modello di autonomia finanziaria che si sviluppa sulla base di due principi fondamentali: l'autodeterminazione degli enti territoriali e la perequazione delle risorse. Lautonomia finanziaria, articolazione di quella politica, non è estranea alle problematiche legate all'esistenza di differenze, secondo il principio per cui la "differenziazione è corollario dell'autonomia" 24 proprio per evitare che le differenti disponibilità di risorse finanziarie superino una certa soglia, dando luogo a squilibri inaccettabili, è necessario che queste siano attenuate, guardandosi ovviamente da qualsiasi operazione di "livellamento", che genererebbe effetti opposti ma ugualmente inaccettabili. Il fondamento dell'intervento statale sulle differenze, a seconda che sia rivolto alle comunità territoriali o ai cittadini, si rinviene nel principio di unità della Repubblica, nel principio di uguaglianza ovvero nello status di cittadino. Dalla lettura combinata degli articoli 117 e 119 Cost. emerge che il riconoscimento dell'autonomia finanziaria degli enti territoriali è temperato sia dall'istituzione del fondo perequativo nazionale sia dall'esistenza di risorse aggiuntive ed interventi speciali. Proprio nell'attribuzione alla competenza esclusiva dello Stato della perequazione delle risorse finanziarie (art. 117, Il co., lett. e), si sostanzia il"federalismo solidale", finalizzato a superare gli squilibri territoriali e a garantire la tutela del contenuto essenziale dei diritti di cittadinanza, in nome dell'unità della Repubblica e del principio di uguaglianza. Lo Stato, inoltre, mediante la competenza esclusiva di determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti di cittadinanza, esercita un potere conformativo che condiziona le politiche di settore, ponendo per gli enti territoriali il problema della disponibilità delle risorse e della loro sufficienza, in quanto ciascun ente territoriale presenta un fabbisogno finanziario differente, costi (rectius, spese necessarie all'esercizio delle funzioni) diversi per garantire il medesimo tipo di prestazione in conformità ai livelli essenziali stabiliti dallo Stato. Nella tensione tra l'autonomia territoriale e le esigenze connesse all'unitarietà, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni non deve ricondurre i sistemi di erogazione dei servizi all'uniformazione, in quanto la Costituzione stessa riconosce il valore e funzionalità alle diversità 25 . Il perseguimento dello sviluppo della persona nei diversi contesti può realizzarsi attraverso percorsi specifici con obiettivi non necessariamente uguali, ma comunque equivalenti. Per garantire, quindi, la soddisfazione dei bisogni occorre che i livelli essenziali siano sostenibili e praticabili, ed inoltre che siano accompagnati da sistemi informativi e procedure di controllo sullo stato di tutela. ;

75


Lo strumento dei livelli essenziali nel conseguire alcune priorità inderogabili dell'ordinamento costituzionale, indirizza l'azione dei diversi attori istituzionali sia sotto il profilo normativo ed amministrativo che di distribuzione delle risorse. Il passaggio dall'equazione eguaglianza-uniformità organizzativa a quella uniformità dei livelli essenziali-differenziazione organizzativa è fondato sulla necessità di ancorare l'obiettivo dell'eguaglianza a modelli organizzativi strutturati sulla dimensione territoriale locale, per la realizzazione del contenuto essenziale dei singoli diritti, sulla scorta delle applicazioni sussidiane e del retaggio solidaristico. Il nuovo scenario politico-istituzionale impone, per un'ottimale realizzazione degli obiettivi sottesi alla determinazione dei livelli essenziali, l'azione coordinata dei diversi livelli di governo che, esponenti di interessi in scala, apportano in sede unificata il loro contributo. In campo sanitario la determinazione dei livelli essenziali è scaturita da un accordo siglato dalla Conferenza Stato-Regioni che dimostra come la strategia del raccordo e del mutuo "riconoscimento", come anche la convinzione di operare per un obiettivo comune, non comporta il sacrificio di nessuna identità ma anzi le rafforza in un nuovo contesto unificato. È emersa l'importanza di favorire la concertazione ed il coordinamento delle azioni, per la realizzazione di programmi specifici che impegnano diversamente gli attori istituzionali occupati, con le loro funzioni, a promuovere e tutelare lo stato di salute. Il ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano hanno stipulato un accordo in sede di Conferenza permanente il 24 luglio 2003 per garantire il coordinamento tra Stato e Regioni nella tutela della salute nel nuovo quadro istituzionale, in modo da precisare obiettivi specifici ed implementare politiche di intervento di comune interesse. A tale scopo sono state individuate quattro dimensioni collaborative che riguardano sia l'opportunità di accordi specifici, relativi a funzioni e compiti statali regionali, per avviare un'azione concertata, sia l'individuazione di linee comuni a più Regioni, per la trattazione di tematiche attraverso la condivisione di alcuni aspetti regolatori; la definizione di aree di sperimentazione organizzativa di modelli che, una volta collaudati, possono essere messi a disposizione di tutte le realtà regionali. Inoltre, è accentuata la dimensione comunitaria, sia in riferimento al recepimento delle direttive comunitarie, che alla tendenza alla mobilità dei pazienti tra i diversi Stati, che aumenta il confronto e la competizione del sistema italiano con i sistemi sanitari degli altri Paesi. L'importanza di valorizzare la dimensione concertata è condivisa dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha improntato il progetto di definizione dei livelli essenziali ad un approccio "incrementale, partecipato e 76


condiviso"26 , nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, con le Regioni, gli Enti locali, le organizzazioni private rappresentative del non profit, categorie di utenti dei servizi e dei cittadini. Il quadro delle azioni attivato in sede ministeriale è ispirato alla partecipazione, progressività e sperimentazione; la partecipazione dei diversi attori che esprimono, nei vari contesti territoriali, azioni di politica sociale, è necessaria al fine di evitare la riduzione della definizione dei livelli essenziali ad un atto astratto e formale 27, adempimento di un compito istituzionale. Si auspica la promozione di una "comunicazione orizzontale" 28, di un dialogo costruttivo che consenta la convergenza dei diversi "patrimoni di politiche sociali" che compongono il quadro nazionale. Il progetto di definizione dei livelli essenziali è inserito in un orizzonte temporale progressivo per garantire agli stessi lo svolgimento dell'importante funzione che sono chiamati a svolgere, senza però mettere in crisi i sistemi di protezione sociali già attivi. Inoltre, a garanzia dell'ambizioso obiettivo di rendere i diritti sociali esigibili, dovranno essere introdotti meccanismi azionabili dai cittadini, nonché meccanismi di sostituzione, che il Titolo V attribuisce al Governo. L'obiettivo prefissato dal Ministero è l'individuazione di livelli essenziali come "carta delle èertezze" per i cittadini, in modo da garantire nelle forme di erogazione differenziate in ragione delle diverse aree territoriali, la stessa intensità ai diritti sociali in tutte le aree del Paese: "i livelli essenziali sono lo strumento attraverso cui i diritti sociali accedono al rango dei diritti soggettivi, alla stregua dei diritti di libertà e di proprietà" 29 I due settori che hanno costituito il filo conduttore di questa riflessione sui livelli essenziali bene si prestano a mostrare le molteplici problematiche che da questi si espandono fino allo Stato sociale nella sua globalità. A fronte della progressiva collocazione del potere in dimensioni diverse da quella statale e dell'accentuazione dei caratteri della società del benessere, i livelli essenziali si ricollegano alla necessità che, nella gestione sussidiaria dei servizi (verticale quanto orizzontale), siano valorizzate nuove responsabilità della governance, affinché si apra un confronto tra doveri di solidarietà, sussidiarietà, autonomia organizzativa, professionale e la libertà di scelta. Soprattutto in campo sanitario è necessario che l'organizzazione decentrata del servizio sia accompagnata dal constante dialogo tra i diversi soggetti titolari di tre differenti responsabilità: politica, concernente l'organizzazione del sistema; professionale, titolare di responsabilità tecniche, e quella degli utenti 30 .

.

77


I "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle

lgs. n. 112198, e che si sostanziano in misure contro

Province, dalle Città mecropolitane, dalle Regioni e

la povertà, interventi a favore dei disabili, dei mino-

dallo Stato" art. 114 Cost. 2 La sanità costituisce un settore molto esposto

ri, degli anziani, delle donne e dei tossicodipendenti. La stessa legge n. 328100 prevede altri strumenti per

all'opinione pubblica, da sempre aperto al confronto

individuare specifiche prestazioni erogate comunque

fra pubblico e privato e fra i diversi livelli di governo

sul territorio: l'art. 22, IV co. elenca le prestazioni

in molti ordinamenti soprattutto a base "composta",

che, in relazione ai livelli essenziali, le Regioni devo-

sul punto A. D'ALoIA,

Diritti e Stato autonomistico. Il modello dei livelli essenziali, in corso di pubblica-

no erogare secondo i modelli organizzativi adottati.

zione.

zione, in «Prospettive sociali e sanitarie», XXXII,

3

Sulla problematica conciliazione tra le esigenze

dei cittadini in ordine alla tutela della salute e le

La I. n. 419 del 1998 recante delega per la razionalizzazione del servizio sanitario nazionale, in «Sanità pubbli-

congiunture macroeconomiche, R. BALDUZZI,

ca>, 1999, 1120, Ss; F. ROVERSI MONACO (a cura di),

E. FERIOLI,

Servizi sociali e revisione della Costitu-

(2002), 2. IO L. CuoCoLo,

La Jinzione di indirizzo e coordi-

namento, in BALDUZZI R., DI GASPARE G. (a cura di),

Sanità ed assistenza dopo la riforma del titolo 17,

Mila-

no, Giuffrè, 2002, 335. Il

Ivi, parla della vigenza nel "pluralismo parita-

Il nuovo sistema sanitario nazionale, 2000, 175 ss.; G.

rio" del principio della "diversità accettabile"

Ruolo efinzioni della regione nel servizio sanitario nazionale, in «Sanità pubblica», 1999, 1137 Ss.; N. DIRINDIN, Diritto alla salute e livelli essenziali di assistenza, in Sanità pubblica, 2000, 1013-1029.

(espressione che l'A. conia da CAÌ>IMELLI M.,

MOR,

Ammi nistrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in »Le Regioni», XXIX, (2001), 1273, in base al quale "ogni Ente può muoversi en-

La carta di Lubiana indica i criteri cui confor-

tro i limiti di uno sviluppo sostenibile", tenuto con-

marsi per la riforma dei sistemi sanitari: centralità

to della necessaria omogeneità di base, che garantisce

della persona umana e determinazione della politica

il permanere stesso dell'identità della Repubblica,

sanitaria in considerazione anche delle scelte e delle

"come in un franchising istituzionale".

opinioni dei cittadini, quali referenti dei servizi. 5

Alla definizione dei livelli essenziali di assistenza

12 L. CuoCoLo,

La Jinzione di indirizzo e coordi-

namento, in BALDUZZI R., DI GASPARE G. (a cura di),

si è provveduto con il d.p.c.m. del 29 novembre

Sanità ed assistenza dopo la riforma del titolo l'

2001, risultato dei lavori del tavolo istituito tra il

no, Giuffrè, 2002, 347.

ministero della Salute, quello dell'Economia e Fi-

3 1bidem, 348.

nanze e le Regioni con la collaborazione dell'Agenzia

4

Mila-

Sent. C. Cost. 19-26/6/2002 n. 282 "Quanto

per i servizi sanitari regionali.

poi ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i

6 E. FERRARI, Lo Stato sussidiario: il caso dei servizi sociali, in «Diritto pubblico», 2002, 99ss.; ID., Idiritti sociali, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale,

diritti civili e sociali, non si tratta di una materia in

torno I, Milano, 2000, 597 ss. 7 R. FINOCCHI,

dei servizi sociali,

L'istituzione del sistema integrato

in «Giornale di diritto amministra-

tivo», 2001, 113-123. 8 L'art. 22 della legge n. 328100 definisce i livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni attraverso un

senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, il godimento di prestazioni garantite come contenuto essenziale dei diritti civili e sociali, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle". 5 Sul punto M. LUCIANI,

Stato e Regioni,

Idiritti costituzionali tra

in corso di pubblicazione, 2003, che

elenco di interventi a favore di determinate situazio-

sottolinea come pur affermando l'autonomia finan-

ni di difficoltà e disagio in cui può trovarsi la perso-

ziaria degli enti territoriali il testo costituzionale pre-

na umana, in linea con quanto già disposto dal d.

veda alcuni meccanismi, quali il potere perequativo

78


cx art. 117, Il co, lett. e, ovvero la possibilità di destinare risorse aggiuntive o effettuare interventi ad hoc per favorire l'effettivo esercizio dei diritti (art. 119, V co.) come strumenti che salvaguardano le condizioni di cittadinanza eguale. 6 È necessario precisare che l'autonomia, come strutturata nella Costituzione italiana, non ha valore se intesa in senso autoreferenziale, nella tensione verso la realizzazione dei bisogni della comunità locale, ma piuttosto "in chiave assiologico-oggettivo, intesa come strumento al servizio della comunità e dei valori di cui questa si fa complessivamente portatrice" 17 Del resto a favore della cittadinanza sociale operano diversi strumenti riconducibili al principio di solidarietà e di coesione sociale, patrimonio costituzionale non disponibile al legislatore di revisione costituzionale. La Repubblica deve far valere questo retroterra assiologico, fornendo tutte le garanzie che, con il principio di eguaglianza, operino a favore del superamento delle disuguaglianze provocate dal sistema economico e sociale; nel sistema dei principi di unità dell'ordinamento la disposizione di cui all'art. 117, lI co., lett. m, sottolinea come nel novellato sistema regionale e locale, i principi fondamentali non hanno (e non devono in futuro) registrato modifiche

sostanziali, cfr. S. GAMBINO, Cittadinanza e diritti sociali tra neoregionalismo e integrazione comunitaria, in

no, in giornata di studio su Le garanzie di effettività dei diritti nei sistemi policentrici, promossa dal Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche "Vittorio Bachelet" della Luiss Guido Carli e dal CNEL, Roma, 9 giugno 2003. 22

lvi.

Neo-regionalismo e tecniche di regolazione dei diritti sociali, in «Diritto e società», 2, 23 RUGGERI A.,

(2001), 231. 24 G. DELLA CANANEA, Autonomie e responsabilità nell'articolo 119 della Costituzione, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, V, (2002), 75. 25 NATALINI A.,

Livelli essenziali e poteri sostituti vi,

in www.astrid-on!ine.it. 26 Così il ministero del Lavoro e delle Politiche

Sociali, Il processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, in ((Prospettive sociali e sanitarie», )OOUII, (2003), 23. 27 " livelli essenziali non costituiscono un mero auspicio o un orientamento programmatico, ma pongono vincoli precisi che circoscrivono l'ambito d'azione dei soggetti deputati alla fornitura dei servizi a fronte dei quali stanno diritti immediatamente

azionabili". Così F. GIGLI0NI, La tutela dei diritti di assistenza sociale e sanitaria dopo l'introduzione in Costituzione dei livelli essenziali, in www.asrridonline.it . 28

Il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,

«Quaderni costituzionali», )OUII, (2003), 82. 8 Cfr. S. GAMBINO, Cittadinanza e diritti sociali tra neoregionalismo e integrazione comunitaria, in «Quaderni costituzionali», )OUII, (2003), 83.

Il processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, in ((Prospettive sociali e sanitarie», )OOUII,

9 RUGGERI A., Neo-regionalismo e tecniche di regolazione dei diritti sociali, in ((Diritto e società((, 2,

Il processo di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, in ((Prospettive sociali e sanitarie», )OO(1II,

(2001), 231.

(2003), 25. 30 B. CARAVITA, Riflessioni sul mondo della sanità tra riforme ed istanze di autonomia, editoriale 412004 in www.federalismi.ir .

20

Ivi.

21 CHIEFFI L., L'eftèttività del principio di uguaglianza negli ordinamenti multilevel: il sistema italia-

(2003), 23. 29 lI ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,

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La spesa pubblica nel contrasto alla povertà di Chiara Nanni

IL FENOMENO POVERTÀ NEL NOSTRO PAESE

Nell'ambito delle spese di Welfare State la categoria che si prefigge il contrasto della povertà è costituita da quella assistenziale; lo stesso termine, dal latino "adsisto": stare accanto, configura l'aiuto rivolto a coloro che non dispongono dei mezzi necessari al proprio sostentamento'. Prima di entrare nel merito degli istituti che possono essere individuati, è necessario, a mio avviso, soffermarsi sull'incidenza del fenomeno povertà nel nostro paese. Definire la povertà non è un compito facile: si tratta, infatti, di un fenomeno composito, caratterizzato da una pluralità di dimensioni; con essa non si intende soltanto la mancanza di reddito per consumare beni e servizi, ma anche l'impossibilità da parte dell'individuo ad essere coinvolto nelle relazioni personali e sociali 2 .

Per semplicità di analisi si tende a preferire un concetto di povertà che rifletta la posizione economica o il "benessere economico" della famiglia o dell'individuo. Nella letteratura si trovano tre definizioni: assoluta, relativa e soggettiva. La linea di povertà assoluta indica il valore monetario di un paniere di beni e servizi indispensabili, affinché una famiglia di data ampiezza possa raggiungere un livello di vita accettabile 3 Da questa impostazione segue che i poveri, in senso assoluto, sono tutti coloro che non dispongono del reddito necessario per soddisfare i bisogni essenziali. Questo procedimento pur essendo sostanzialmente oggettivo, dal momento che prende come riferimento una soglia, presenta elementi di arbitrarietà connessi al meccanismo di scelta dei beni e dei servizi che costituiscono il paniere minimo. .

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La necessità di disporre di uno strumento, che si possa adattare ai cambiamenti che avvengono sui territorio e nel corso del tempo, ha portato alla formulazione di un concetto "relativo" di povertà, che implica una comparazione del tenore di vita degli individui poveri con il resto della popolazione di una certa società in un tempo stabilito. La linea di povertà relativa di un Paese è definita come funzione della media o della mediana del reddito o della spesa per consumi; per convenzione internazionale essa viene frequentemente determinata come il 50% della media o della mediana del reddito familiare equivalente del Paese. Le famiglie o gli individui che hanno un reddito/consumo equivalente al di sotto della linea di povertà relativa sono definite povere. La linea di povertà relativa ha il vantaggio che, essendo fissata come un punto nella distribuzione del reddito o della spesa, si aggiorna automaticamente nel tempo in seguito a cambiamenti negli standard di vita. Un terzo modo di definire la povertà, di recente introduzione, è costituito dal metodo della povertà soggettiva, che consiste nel chiedere agli individui di valutare il proprio benessere e di stimare il livello minimo di reddito o consumo tale da consentire uno stile di vita adeguat0 4 . La Commissione di indagine sull'esclusione sociale (CIEs), che ha il compito di compiere studi sulla povertà e sull'esclusione sociale, si serve dei dati desunti dall'indagine ISTAT sui consumi delle famiglie italiane. L'indagine coinvolge un campione di oltre 27.000 famiglie, estratte in modo casuale dalle liste anagrafiche dei Comuni italiani; la rilevazione è limitata a due periodi di riferimento di sette giorni per ogni mese, uno per le famiglie dell'elenco base e uno per quelle dell'elenco suppletivo, da utilizzare in caso di impossibilità a collaborare con la "famiglia base". Per tenere conto dell'errore campionario che si commette osservando solo una parte della popolazione, viene costruito un intervallo di confidenza intorno al valore stimato dal campione, che comprende, con una probabilità del 95%, il valore che si otterrebbe osservando l'intera popolazione. L'ISTAT ha stimato che nel 2002 la spesa media mensile pro capite nel Paese è risultata pari a 823,45 euro (rispetto a 814,55 euro dell'anno precedente); tale valore costituisce la linea di povertà relativa per una famiglia di due componenti; la linea di povertà assoluta è stata invece fissata, per una famiglia di due componenti, in 573,63 euro correnti al mese 5 . L'impiego di certi indicatori ci permette, inoltre, una migliore comprensione del fenomeno e una più precisa analisi delle differenze che si possono rilevare tra i vari Paesi. 81


Il più semplice e anche il più diffuso è l'indice di diffusione; esso rappresenta la frequenza relativa dei poveri e si ottiene dal rapporto tra il numero di famiglie con spesa mensile per consumi pari o al di sotto della soglia di povertà e il totale delle famiglie residenti. Questo indicatore ha il vantaggio di permettere una veloce valutazione dei progressi conseguiti nella riduzione della povertà, tuttavia non riesce a cogliere quanto i poveri siano distanti dalla soglia di povertà. L'indice di intensità, invece, è particolarmente adatto qualora si voglia fornire una misura della gravità della povertà; viene calcolato, infatti, come media degli scarti dei consumi delle famiglie povere dalla soglia di povertà. Secondo i procedimenti appena illustrati, è emerso che nel 2002 circa 2 milioni e 456 mila famiglie, pari al 11% del totale delle famiglie residenti, vivevano in condizioni di povertà relativa, per un totale di 7 milioni e 140 mila individui, il 12,4% della popolazione. È inoltre importante sottolineare che l'unità di rilevazione è rappresentata dalla famiglia, dal momento che ci consente di effettuare alcune considerazioni sulle caratteristiche più ricorrenti nei nuclei che sono definiti poveri. Una prima analisi può riguardare la numerosità del nucleo familiare, da cui emerge che la condizione di povertà relativa è concentrata tra le famiglie numerose, in particolar modo quelle con tre o più figli. In Italia nel 2002 circa il 23,4% delle famiglie con 5 o più componenti era povero. L'analisi della condizione delle famiglie al variare del numero di componenti può essere arricchita evidenziando alcune composizioni familiari significative, per esempio i nuclei che comprendono minori e anziani. La povertà relativa risulta essere maggiormente diffusa tra le famiglie numerose, tra quelle con tre o più figli e tra le famiglie di anziani. È stato stimato che nel 2002 quasi un quarto delle famiglie con 5 o più componenti risultava essere povero; quasi il 25% delle famiglie costituite da coppie con tre o più figli era povera, la percentuale sale al 25,9% quando i tre figli sono minori. Gli anziani soli mostrano un'incidenza della povertà pari al 13,3%. Inoltre è stato osservato che la presenza di anziani all'interno del nucleo familiare ha ripercussioni negative sul benessere della famiglia: all'aumentare del numero degli anziani all'interno del nucleo familiare aumenta l'incidenza di povertà; il 17,4% delle famiglie con 2 o più anziani è povero. Un altro aspetto che incide molto sulla condizione delle famiglie è rappresentato dal livello di istruzione della persona di riferimento (l'intestatario del-


la scheda demografica); più il titolo di studio è elevato, minore è l'incidenza della povertà. Risulta povero soltanto il 3,7% delle famiglie con a capo una persona in possesso almeno della licenza media superiore, contro il 17,8% delle famiglie con a capo una persona senza titolo di studio o con la sola licenza elementare. Riguardo alla condizione professionale, l'incidenza maggiore della povertà si verifica per le famiglie nelle quali la persona di riferimento è in cerca di occupazione e cresce all'aumentare del numero di componenti che all'interno del nucleo familiare stanno cercando un impiego. Per quanto concerne la distribuzione territoriale del fenomeno nel nostro Paese, occorre mettere in evidenza che il valore rilevato per il 2002 pari all' 11% è la risultante di condizioni differenziate nelle tre ripartizioni territoriali: nord, centro e sud-isole; il fenomeno, infatti, non risulta essere equamente distribuito in tutto il territorio nazionale. La povertà risulta essere concentrata soprattutto nelle Regioni meridionali e nelle isole, dove il fenomeno mostra un'incidenza pari al 22,4%, mentre nelle regioni settentrionali e centrali l'incidenza è pari rispettivamente al 5% e al 6,7%. Rispetto all'anno precedente (2001) si è assistito ad una attenuazione del fenomeno a livello nazionale, l'incidenza della povertà relativa è passata, infatti, dal 12% all'il %; questa diminuzione, statisticamente significativa, è concentrata nelle Regioni centrali (si passa dall'8,4% al 6,7%) e meridionali (dal 24,3% al 22,4%), mentre nel nord la situazione è stabile. LE CARATTERISTICHE DELLA SPESA ASSISTENZIALE IN ITALIA

L'assistenza rappresenta uno dei settori in cui si articolano le spese di welfare; questa categoria, come è stato precedentemente osservato, dovrebbe comprendere tutte le misure che si prefiggono il contrasto della povertà. Tuttavia, da un esame attento delle caratteristiche degli istituti in essa inclusi, emerge che in molti di essi è ravvisabile una commistione di caratteristiche previdenziali e assistenziali da cui segue che alcune misure risultano, di fatto, snaturate dalle finalità originarie di contrasto delle situazioni di indigenza. La circostanza, secondo la quale molti interventi sono connessi alla storia contributiva del beneficiano, fa sì che una quota molto elevata di soggetti che versano in condizioni economiche svantaggiate è automaticamente esclusa da queste prestazioni; ciò produce conseguenze per certi aspetti paradossali, dal momento che il fenomeno della povertà non è svincolato da quello dell'instabilità occupazionale6 .

83


La spesa per assistenza offre un quadro estremamente frammentato: prevalgono i trasferimenti monetari rispetto a quelli in natura e soltanto raramente essi sono combinati con politiche attive, inoltre essi presentano, spesso, un'impronta categoriale che porta a privilegiare solo alcuni segmenti della popolazione come gli invalidi e gli anziani. Per comprendere, quindi, quale siano le risposte che vengono date nel nostro Paese al problema povertà, è necessario effettuare una cernita all'interno della categoria di spesa per l'assistenza, individuando quelle misure rivolte ai "poveri in quanto poveri" libere, in altre parole, da qualsiasi connotazione previdenziale e categoriale, come l'assegno di maternità, l'assegno ai nuclei con piui di tre figli minori, il fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione, l'assegno sociale e il Reddito Minimo di Inserimento. Un altro limite è rappresentato dal fatto che il sistema di erogazione dei sussidi assistenziali si basa sull'autocertificazione, da cui discende che la capacità distributiva di questi trasferimenti si basa in modo cruciale sul grado di attendibilità di quanto dichiarato dalle famiglie. In un Paese come il nostro, in cui l'evasione fiscale presenta alti tassi di diffusione, l'inclusione nella platea dei beneficiari di "sedicenti" poveri diventa piui la regola che l'eccezione, e gli istituti in questione perdono, quindi, in questi casi, la loro connotazione assistenziale, per configurarsi invece come fonti aggiuntive di reddito. Nel nostro Paese, inoltre, i programmi assistenziali sono articolati su due livelli: uno centrale e uno locale. Lo Stato, con il d.PR n. 616 del 1977, ha trasferito alle Regioni e ai Comuni le competenze in materia di beneficenza pubblica; al momento del passaggio, però, non ci sono state indicazioni unitarie capaci di ricondurre le differenziazioni e le articolazioni locali in un sistema unitario per quello che concerne la garanzia dei diritti sociali minimi. Con la legge n. 328 del 2000, che ha introdotto elementi innovatori nel settore, il legislatore aveva perseguito proprio l'intento di disciplinare i rapporti tra i vari enti territoriali in modo da realizzare una certa uniformità di trattamento in tutto il Paese. Il provvedimento, tuttavia, per il momento non ha conseguito tale obiettivo, ampliando in alcuni casi le differenze tra i vari contesti territoriali 7 I Comuni italiani presentano ingenti disomogeneità che spesso si traducono in interventi assistenziali molto differenziati. Si riscontra, infatti, un'elevata discrezionalità dell'amministrazione locale sia nella valutazione della condizione di bisogno sia nella determinazione del.

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la somma da erogare, molte volte limitata dal vincolo di bilancio che ne comporta la fissazione entro tetti massimi. Inoltre, l'estrema libertà che viene concessaall'Ente locale nell'organizzazione dei servizi stessi, fa sì che soltanto i contesti più evoluti possano offrire valide soluzioni a quanti si trovano in condizioni di precarietà economica. LE POLITICHE PER LA FAMIGLIA

All'interno di questo gruppo si trovano gli istituti che mirano ad alleviare o prevenire le condizioni di povertà delle famiglie esposte maggiormente, per tipologia e struttura, al rischio di povertà. Da un confronto con altri Paesi europei, sulle voci di cui si compone la spesa sociale, emerge che in Italia le quote di spesa destinate alla famiglia e alla maternità risultano essere significativamente inferiori rispetto agli altri, mentre sono più elevate quelle destinate ad intervenire sulla condizione della popolazione anziana e dei superstiti 8 .

I]assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori Questa misura è stata istituita nel 1999 ed è destinata alle famiglie composte da cittadini italiani con tre o più figli di età inferiore ai 18 anni. La determinazione della soglia che consente l'accesso alla prestazione è effettuata per mezzo dell'Indicatore della situazione economica (IsE), introdotto con la legge 449/1997, che prevede nella valutazione del bisogno economico una correlazione tra la componente patrimoniale e quella reddituale. Al momento dell'istituzione del programma l'importo massimo dell'assegno era pari a 200.000 lire, veniva erogato per 13 mensilità con possibilità di rinnovo ed era concesso in corrispondenza di un IsE fino a L. 30.800.000; l'ammontare dell'assegno si riduceva progressivamente al crescere della situazione economica familiare fino ad annullarsi al raggiungimento del tetto di L.

36.000.000. L'assegno viene concesso dai Comuni ed è erogato dall'Inps sulla base dei dati forniti dai Comuni. La domanda deve essere presentata entro il 31 gennaio dell'anno successivo a quello per il quale è richiesta la prestazione. L'assegno non costituisce reddito a fini fiscali e previdenziali e non può essere cumulato con analoghe provvidenze erogate dagli enti locali e dall'Inps. Con il comunicato del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali pub85


bucato sulla Gazzetta Ufficiale del 11 marzo 2003 si è provveduto a rivalutare, sulla base dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo, sia l'ammontare degli assegni, sia i requisiti economici necessari per poterne beneficiare. L'importo massimo dell'assegno alle famiglie con almeno tre figli minori, da corrispondere agli aventi diritto per l'anno 2003, è stato fissato nella misura intera di € 113,23. Per le domande relative al medesimo anno, il valore dell'indicatore della situazione economica, con riferimento ai nuclei familiari composti da cinque componenti, di cui almeno tre minorenni, è pari a 20.382,05 euro 9 . Un'analisi di carattere quantitativo, relativa al primo biennio di attuazione della misura, mostra un aumento del numero delle domande presentate e soddisfatte; l'incremento del numero di assegni corrisposti è stimabile nell'ordine del 10%: nel 1999 hanno usufruito dell'assegno al terzo figlio 223 mila famiglie, nell'anno successivo i beneficiari sono saliti a 244 mila. Da un punto di vista geografico si può osservare una diffusione dei benefici relativamente piii intensa nelle Regioni meridionali: nel primo biennio quasi l'85% degli assegni per le famiglie numerose è stato attribuito nelle Regioni meridionali e in particolare in Campania.

L4ssegno di maternità Con la legge 448 del 23 dicembre 1998 è stato istituto anche l'assegno di maternità, corrisposto, inizialmente, solo alle madri cittadine italiane residenti che non beneficiavano del trattamento previdenziale dell'indennità di maternità. Un successivo provvedimento ha esteso sia la platea delle beneficiarie, includendo le cittadine comunitarie ed extra comunitarie in possesso della carta di soggiorno e prive di tutela economica della maternità, sia i casi in cui l'assegno poteva essere concesso: oltre che alla nascita di un figlio anche all'adozione di un minore o all'affidamento preadottivobo. In principio era prevista una somma mensile di L. 200.000, per cinque mensilità, da corrispondere alle madri, il cui nucleo familiare disponesse di un ISE inferiore a L. 50.000.000 con riferimento ad una famiglia di tre componenti; l'importo dell'assegno è stato incrementato prima a L. 300.000 per i parti successivi al 10 luglio 2000 e successivamente, con la legge 388/2000, è stato portato a L. 500.000. La rivalutazione condotta sulla base dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo ha fissato l'importo dell'assegno mensile, per le nascite, gli affidamenti prea86


dottivi e le adozioni senza affidamento, avvenute dal 1/1/2003 al 31/12/2003, in 271,56 euro, attribuendone il diritto alle madri appartenenti a nuclei familiari con un IsE inferiore a 28.308,42 euro con riferimento ad una famiglia di tre componenti. Anche per questa prestazione si è riscontrato un incremento nel numero delle domande presentate e soddisfatte, e una maggiore concentrazione dei beneficiari nelle Regioni meridionali, sebbene in modo meno accentuato rispetto a quanto era stato riscontrato per l'assegno alle famiglie con almeno tre figli minori. Le politiche locali, a sostegno delle responsabilità familiari, si concretizzano in prevalenza in una serie di erogazioni monetarie a favore dei nuclei che versano in condizioni di indigenza. Esaminando i progetti di contrasto della povertà dei principali Comuni toscani emerge che in quasi tutti i piani viene espressa preoccupazione per la fragilità familiare e un'attenzione particolare viene rivolta al sostegno delle situazioni di bisogno. Il Comune di Siena, con il progetto "Rete di Solidarietà ' si propone di fornire un aiuto alle famiglie meno abbienti attraverso la predisposizione di percorsi individuali di integrazione, che si sostanziano in una serie di attività di inserimento culturale e formazione funzionale e professionale. Con il progetto "Tutela degli emarginati sociali"l'aiuto alle famiglie indigenti si concretizza in trasferimenti monetari mensili e straordinari, volti a finanziare l'acquisto di mobili e accessori per l'abitazione e per far fronte alle spese sanitarie. Il Comune di Firenze ha realizzato il progetto "Essere Fondo d'aiuto Sociale" che promuove l'impegno solidaristico delle realtà locali del volontariato per sostegni economici volti ad alimentare un fondo destinato alla concessione di prestiti di solidarietà non ripetibili, del massimo importo di 5000 euro, senza interessi né scadenza di restituzione, per famiglie in gravi difficoltà economiche". In tutti i Comuni è inoltre prevista la concessione di trasferimenti di cui, pur non avendo come principale finalità il sostegno ai carichi familiari, usufruiscono molte famiglie in stato di indigenza. Occorre in primo luogo citare il Minimo Vitale, che si sostanzia in un trasferimento monetario determinato, teoricamente, dalla differenza tra la soglia di reddito corrispondente alla pensione minima INP5 e il reddito effettivo del nucleo. Questo istituto, regolato da leggi regionali attuate a livello comunale, presenta caratteristiche differenti a seconda del Comune in cui esso è erogato; le 87


delibere istitutive ed attuative a livello locale stabiliscono, infatti, criteri e vincoli che trasformano l'intervento e fissano in maniera differenziata il diritto dei soggetti in condizioni di bisogno 12 .

LE POLITICHE PER LA CASA

All'interno di questa categoria ci sono tutti quegli istituti che coprono il rischio di esclusione abitativa facilitando 1 accesso all abitazione. Alcuni di essi, come il sistema di detrazioni Irpef per i titolari di contratti di locazione e quelli di incentivazione all'acquisto della prima casa, tuttavia, non possono essere presi in considerazione dal momento che non possono configurarsi come politiche di contrasto alla povertà, dato che presuppongono una significativa disponibilità economica oppure l'esistenza di un imponibile, condizioni che non si verificano in presenza di nuclei familiari caratterizzati da estrema indigenza. La spesa pubblica per le politiche abitative è irrisoria ed è molto limitata l'ampiezza del settore residenziale sociale in affitto, che presenta il 5% dello stock abitativo contro il 16% dell'Europa. Il disagio abitativo costituisce un problema considerevole; un'indagine condotta dal SUNIA nel 1999 (Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari) ha documentato che quasi mezzo milione di famiglie con un reddito netto inferiore ai 25 milioni di lire annui devono rivolgersi al mercato per reperire un alloggio, sostenendo una spesa che supera il 35% del proprio reddito.

Il Fondo Nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazio-

ne La legge n. 431 del 1998 all'articolo 11 ha previsto l'istituzione di un fondo nazionale destinato ad integrare la situazione economica dei nuclei familiari che risiedono in affitto e dispongono di un reddito basso. Le risorse necessarie per il finanziamento di tale prestazione provengono dal Fondo Nazionale per il Sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione, che è istituito presso il Ministero dei Lavori Pubblici. Esso dispone di una dotazione annua, che per i primi tre anni dall'istituzione (1999-2001) era pari a L. 600.000.000.000 (per ciascun anno), da suddividere tra le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, secondo


misure stabilite anno per anno; con la possibilità per i Comuni e per le regioni di incrementare con risorse proprie i fondi attribuiti a livello nazionale. La concessione del contributo è condizionata dalla esistenza nel nucleo familiare del richiedente dei seguenti requisiti: reddito annuo imponibile complessivo non superiore a due pensioni minime INPS, rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulta non inferiore al 14%; reddito annuo imponibile complessivo non superiore a quello determinato dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulta non inferiore al 24%. Per quanto concerne l'importo della prestazione, si stabilisce che, con una situazione reddituale come contemplata al punto n. 1, il contributo non deve superare L. 6.000.000 annui, mentre per i nuclei familiari con reddito non superiore a quello determinato dalla Regione o dalle Province autonome (punto n.2) il contributo non deve superare L. 4.500.000 all'anno. Non viene data alcuna indicazione su quello che si deve intendere per nucleo familiare e non è previsto alcun meccanismo di adeguamento della situazione reddituale in base alla dimensione e alla composizione dello stesso. Si prevede soltanto una maggiorazione del 25% del contributo assegnato oppure una riduzione nella stessa percentuale del livello di reddito, che determina il diritto al contributo, qualora all'interno del nucleo familiare siano presenti soggetti ultrasessantacinquenni, disabili oppure si riscontri una situazione di "particolare debolezza sociale". Alcuni studi sono stati condotti per analizzare l'effetto di questa misura sul reddito dei beneficiari ed è risultato che il contributo in questione rappresenta uno strumento piuttosto efficace nel realizzare un incremento del reddito disponibile delle famiglie che si trovano in condizioni di vuinerabilità economica13 . Il contributo possiede, infatti, una buona efficacia redistributiva, dal momento che risulta essere perlopiù appannaggio delle famiglie in condizioni di povertà relativa. Un limite di questo istituto può essere ravvisato nel fatto che la concessione del contributo è subordinata non solo ad un rapporto affitto/reddito al di sopra di una certa soglia, ma anche alla presenza di redditi particolarmente bassi (due pensioni minime INPS oppure reddito annuo imponibile non superiore a quello fissato per la concessione di alloggi di edilizia residenziale pubblica). 89


Sarebbe, infatti, preferibile considerare soltanto il primo aspetto, dal momento che molti contesti sono caratterizzati da affitti particolarmente alti, per cui il canone di locazione potrebbe avere un incidenza molto elevata e, quindi, ripercuotersi negativamente sulla situazione economica dei soggetti anche in presenza di redditi non particolarmente esigui. A livello locale le politiche abitative si sostanziano principalmente in interventi per affrontare l'emergenza abitativa di chi è senza casa e non dispone dei mezzi economici per averla. Le risposte, tuttavia, si differenziano in base alla tipologia della persona portatrice del bisogno. Per far fronte ai bisogni abitativi di persone marginali o appartenenti a gruppi particolarmente deboli, le amministrazioni mettono in atto una pluralità di interventi che spaziano dalla prima e pronta accoglienza a carattere temporaneo, all'accoglienza residenziale "a progetto", all'emergenza freddo nei mesi invernali a favore dei senza dimora. Per adattarsi a queste esigenze si ricorre soprattutto ai dormitori pubblici, strutture ereditate dal passato che sono state oggetto negli ultimi anni di profondi processi riorganizzativi. L'assistenza fornita non si riduce piÚ soltanto all'offerta di un posto letto; prendendo in esame i centri operanti nel territorio toscano, è possibile rilevare che all'interno della stessa struttura esiste quasi sempre una mensa e vi operano assistenti sociali, medici e psicologi. Il centro "Tempi Moderni" del Comune di Camaiore, oltre a prevedere una risposta all'emergenza abitativa, si impegna all'elaborazione di progetti di reinserimento attraverso percorsi individualizzati con interventi di educativa territoriale. Nei confronti delle persone che si trovano, invece, in una situazione di emergenza abitativa in seguito a sfratti ed ordinanze di sgombero le amministrazioni pubbliche hanno, in base a leggi nazionali di edilizia pubblica residenziale e alle leggi regionali di attuazione, la possibilità di: - emanare bandi di concorso per l'accesso all'Eiu; - erogare un contributo per l'affitto di alloggi privati; - ricorrere ad alberghi e affitta camere cittadini, attraverso la stipula di convenzioni. Il ricorso a quest'ultima soluzione comporta costi elevatissimi per le amministrazioni comunali. Il Comune di Firenze stima che il costo mensile di questo intervento am90


monta a L. 1.500.000 per il singolo individuo, L. 3.000.000 per il nucleo familiare. LE POLITICHE A SOSTEGNO DEL REDDITO

L.4ssegno Sociale Questo istituto ha sostituito, a partire dal 1996, la pensione sociale, che rimane in vigore per gli anziani che avevano presentato domanda prima del 31/12/1995. L'assegno sociale si sostanzia di un trasferimento monetario in tredici mensilità che spetta a tutti i cittadini ultrasessantacinquenni, con redditi inferiori a determinate soglie, che non possono richiedere altre prestazioni pensionistiche, in quanto non hanno sufficienti diritti previdenziali. Possono accedere a tale misura, oltre ai cittadini italiani, gli abitanti di San Marino, i rifugiati politici e i cittadini comunitari che abbiano lavorato in Italia. È necessaria la residenza abituale ed effettiva nel territorio italiano. Per avere diritto all'assegno si deve tenere conto dei redditi del richiedente e del coniuge relativamente all'anno in cui si fa domanda. Dal momento che non è possibile sapere a priori quale sarà il redditto dell'intero anno, l'interessato deve presentare all'INPs una dichiarazione del reddito presunto sulla base di quello realizzato nell'anno precedente; quindi, l'assegno viene pagato provvisoriamente. Nell'anno successivo, in base alla denuncia dei redditi dell'anno precedente, 1'INPS provvede al conguaglio di quanto pagato rispetto alla somma dovuta. Per un solo pensionato la soglia di reddito al di sotto della quale si ha diritto alla prestazione è pari a 5457,41 euro, mentre per il pensionato con coniuge ammonta a 9114,82 euro. Alla formazione del reddito concorrono alcuni elementi tra i quali figurano: - i redditi soggetti all'IluEF al netto dell'imposizione fiscale e contributiva come gli stipendi, le pensioni, i redditi di terreni e fabbricati, i redditi da impresa e da lavoro autonomo; - i redditi esenti da imposta come le prestazioni assistenziali in denaro pagate con carattere di continuità dallo Stato; - le pensioni ed assegni pagati dal Ministero dell'Interno ai ciechi civili, invalidi civili e sordomuti; - le rendite vitalizie pagate dall'INML; 91


- i redditi soggetti a imposta sostitutiva come gli interessi bancari e postali, gli interessi dei B0T, CCT e di ogni altro titolo di Stato. Non costituiscono invece reddito né i trattamenti di fine rapporto e le competenze arretrate soggette a tassazione separata, né la casa di proprietà in cui si abita, l'indennità di comunicazione per i sordomuti e i trattamenti di famiglia. La misura mensile dell'assegno per il 2002 è pari a 350,57 euro, per un importo complessivo di 4557,41 euro e non è reversibile.

Il Reddito Minimo di Inserimento Si tratta di un istituto, introdotto con la legge 237/98, che è stato sperimentato in Italia per circa cinque anni. Esso ha di fatto rappresentato una misura innovativa di contrasto alla povertà dal momento che ad un trasferimento monetario, a carico dello Stato, combinava un intervento di inserimento sociale e occupazionale, la cui organizzazione era a spese dell'amministrazione comunale. La prima fase di sperimentazione, terminata il 31 / 12/2000, ha interessato 39 Comuni italiani, prevalentemente meridionali, selezionati con il decreto del Ministro per la solidarietà sociale del 5 agosto 1998, facendo riferimento a precisi indicatori stabiliti dall'IsTAT, come il tasso di disoccupazione, il livello dei reati commessi e il numero di minori in essi coinvolti, il livello di scolarizzazione, la condizione di abitabilità delle case, i livelli di povertà e la disponibilità del Comune a partecipare alla sperimentazione 14 Una seconda fase, avviata con la legge finanziaria del 2001, ha ampliato il numero di Comuni interessati, arrivando a coinvolgere altri 258, individuati in base alla loro associazione a Patti Territoriali dove fosse presente almeno uno degli originari 39. La sperimentazione è stata conclusa senza una successiva messa a regime dell'istituto del Rìii, dal momento che è stato ritenuto "impraticabile individuare attraverso la legge dello Stato soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di sicurezza sociale"1 5 La legge finanziaria 2003 non ha, infatti, previsto ulteriori finanziamenti per proseguire la sperimentazione. Il decreto 237/98 specifica quali siano i criteri per individuare i potenziali beneficiari e stabilisce che - i destinatari dell'intervento devono essere privi di reddito o, comunque, devono disporre di un reddito non superiore alla soglia di povertà, fissata per il 1999 in termini di L. 510.000 mensili per un nucleo composto da un solo componente, e maggiorate secondo la scala di equiva.

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lenza prevista dal decreto stesso, per le famiglie costituite da un numero maggiore di componenti.. Nel caso dei redditi da lavoro è prevista una franchigia del 25% per evitare il verificarsi del fenomeno conosciuto con il nome di "trappola della povertà", tipico di istituti selettivi, secondo il quale il beneficiario potrebbe essere indotto a rinunciare ad un'occupazione per non perdere il diritto al sussidio; - essere legalmente residenti presso uno dei Comuni, che effettua la sperimentazione, da almeno un anno, se cittadini italiani, o da tre anni se extra comunitari o apolidi; - essere privi di patrimonio mobiliare sotto forma di titoli di Stato, obbligazioni, azioni, quote di fondi comuni di investimento, depositi bancari; - essere privi di patrimonio immobiliare, fatta eccezione per l'unità adibita ad abitazione principale. Il sistema di valutazione della situazione economica presenta molte incompatibilità con i criteri indicati nella normativa IsE. Secondo il criterio istitutivo della sperimentazione, la situazione reddituale è definita da qualsiasi emolumento a qualunque titolo percepito dal nucleo familiare composto dal richiedente, dalle persone con le quali convive e da quelle considerate a suo carico ai fini IIUEF. Lammontare del trasferimento è pari alla differenza tra la soglia Rìvii, corrispondente alla composizione del nucleo familiare in questione, e il reddito a qualunque titolo percepito. Alla scala di equivalenza prevista dalla normativa, la stessa applicata dall'IsE, sono previsti, per particolari tipologie di utenza, alcuni incrementi: - 0,35 per ogni componente in più, oltre 16, nel nucleo familiare; - 0,2 per assenza del coniuge e presenza di figli minori; - 0,5 per ogni componente con handicap psicofisico permanente o invalidità superiore al 66%; - 0,2 per i nuclei familiari con figli minori in cui entrambi i genitori svolgono attività di lavoro e/o impresa. Le amministrazioni comunali coinvolte nella sperimentazione hanno attuato alcune modifiche su quanto regolato a livello statale; in circa metà dei Comuni sperimentatori la titolarità di un patrimonio mobiliare di modesta entità non ha costituito motivo di esclusione e nemmeno la proprietà di un immobile ad uso abitativo, purché di valore inferiore a soglie stabilite dalle amministrazioni comunali stesse. Nel primo biennio di sperimentazione sono state presentate 55.522 domande di RMI; ne sono state accolte 34.730, per complessive 85.000 persone 93


circa, pari all' 1,5% della popolazione dei 39 Comuni, con oscillazioni che vanno dallo 0,4% di Cologno Monzese al 15,1% di Orta di Atella. A fine dicembre 2000 erano in carico 25.591 nuclei familiari: oltre tre quarti avevano membri effettivamente inseriti in programmi, per un totale di oltre 37.087 individu1 16 La maggiore incidenza del fenomeno povertà nelle Regioni meridionali spiega sia perché è stato scelto per la sperimentazione un maggior numero di Comuni collocati nel mezzogiorno, dei 39 Comuni ben 24 sono situati nel meridione, 10 nel centro e 5 nel settentrione, sia il maggior numero di domande presentate e accolte nei suddetti Comuni. L'analisi sulle caratteristiche dei beneficiari della misura mostra che essa ha interessato soprattutto le famiglie numerose con figli e quelle monogenitore. I tre quarti delle famiglie, che beneficiavano del programma durante il primo biennio di sperimentazione, vedono la presenza di almeno due diverse generazioni, sebbene l'incidenza di questa caratteristica mostri una distribuzione non omogenea su tutti i Comuni interessati; in quelli settentrionali, infatti, è rilevante la presenza di persone sole, che rappresentano in media 3 casi su 10, mentre nei Comuni del sud la percentuale è intorno al 12%. Per ogni famiglia che beneficia del programma vi è sempre una persona di "riferimento" a cui l'assegno viene intestato; essa viene ad assumere un ruolo molto importante, dal momento che costituisce il referente per l'amministrazione comunale, nonostante non coincida sempre con la persona portatrice del bisogno principale. Gli intestatari degli assegni risultano essere in prevalenza donne nei Comuni settentrionali, mentre in quelli del sud sono più numerosi i maschi; i referenti sono più anziani nel nord e diventano progressivamente più giovani al sud: l'incidenza degli intestatari, appartenenti alla fascia di età compresa tra i 18 e 124 anni, risulta essere al sud 12 volte maggiore che nel settentrione. Come è stato precedentemente osservato, la peculiarità di questo programma di spesa è quella di prevedere, insieme al trasferimento monetario, una serie di attività di inserimento sociale. La previsione di queste attività non deve comunque trarre in inganno sulla natura dell'istituto, che non deve essere concepito come un sostituto dell'indennità di disoccupazione. A conclusione del primo biennio di sperimentazione, la percentuale di individui inclusi in programmi di inserimento variava molto da Comune a Comune: dall'8,4% di Caserta al 100% di Monterosi. Sono stati predisposti dai Comuni che hanno sperimentato il RMI diverse .

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tipologie di programmi: attività di recupero scolastico, piani di sostegno delle responsabilità genitoriali e familiari, programmi di integrazione socio-relazionale, percorsi terapeutici di riabilitazione, progetti lavorativi, programmi di pubblica utilità e di formazionè professionale con attestato. La tipologia più diffusa è quella di integrazione socio-relazionale, con cui si persegue la finalità di promuovere l'inserimento sociale e il senso di appartenenza alla comunità dei beneficiari, offrendo loro la possibilità di servirsi di una serie di risorse presenti nel territorio. A Napoli i programmi di cura e sostegno alle responsabilità familiari hanno coperto più della metà dei programmi complessivamente realizzati dal Comune. Essi si sono concretizzati in attività di educazione e incoraggiamento all'igiene personale, cura dei ritmi familiari e della vita scolastica dei minori; importanti sono state le iniziative volte a promuovere un rientro nella legalità tramite il pagamento di morosità esistenti. Le attività di inserimento lavorativo non hanno costituito affatto la tipologia predominante nell'insieme dei 39 Comuni, raramente sono presenti nei Comuni del sud, mentre lo sono sempre in quelli del nord. Questo deve essere collegato al fatto che l'attuazione di politiche di inserimento lavorativo, essendo strettamente connessa alle condizioni del mercato del lavoro locale, può risultare estremamente difficoltosa nei Comuni meridionali caratterizzati da scarse opportunità provenienti sia dal contesto pubblico sia da quello privato. In questi Comuni, quindi, sono prevalsi i programmi di pubblica utilità, che hanno consentito anche di garantire una certa visibilità pubblica alle mansioni effettuate dai beneficiari del Rìvii, in modo da mostrare pubblicamente il buon utilizzo delle erogazioni. I programmi di inserimento, in quanto strumenti di politica sociale innovativi e complessi, hanno fatto incontrare ai Comuni sperimentatori ingenti difficoltà gestionali, che sono state superate in quei contesti in cui vi è stata una collaborazione e un coinvolgimento nella sperimentazione di altri enti tra cui la Regione, la Provincia, il terzo settore e le realtà produttive locali. Laddove questo non si è potuto realizzare, le amministrazioni comunali non sono riuscite a predisporre dei veri e propri programmi di inserimento, ma è stato semplicemente richiesto alle famiglie beneficiarie l'assolvimento degli obblighi di cittadinanza, come il pagamento delle utenze, del canone di locazione e l'invio dei figli a scuola. In molti Comuni, quindi, è stata data una sommaria attuazione di quanto 95


previsto nel dettato legislativo, con la conseguenza che l'istituto in questione è stato di fatto snaturato dalle finalità che esso si era posto; è proprio la predisposizione di attività di inserimento, infatti, che rende il Rìvti una misura innovativa rispetto alle altre che si limitano ad effettuare un trasferimento monetario. Le risorse complessivamente erogate nei primi due anni di sperimentazione ammontano a circa 426 miliardi di lire, di cui una quota di oltre il 90%, pari a più di 390 miliardi di lire, è stata destinata ai Comuni del sud e delle isole. Dei fondi stanziati oltre i 97% sono stati erogati dal governo centrale, il restante 3% proviene dalle amministrazioni locali; il coinvolgimento dei Comuni, per un massimo del 10% delle risorse complessivamente erogate, stabilito nel decreto 237/98, era stato previsto per realizzare una maggiore responsabilizzazione dell'ente locale nell'attuazione della misura. Il decreto prevedeva, inoltre, che sul budget del Comune dovessero ricadere interamente i costi di gestione relativi all'organizzazione del servizio, quindi le spese per il personale, per l'acquisto delle attrezzature necessarie, per l'organizzazione dei programmi di inserimento, per la copertura assicurativa degli utenti inseriti nelle attività. Le amministrazioni comunali, che hanno effettuato una stima dei costi di gestione, sono 32, ed hanno indicato tali spese intorno ai 10 miliardi e mezzo di lire, di cui quasi 6 miliardi sono stati destinati alla retribuzione del personale. Deve essere in ogni modo precisato che i Comuni, prevalentemente settentrionali e centrali, che avevano già un sistema articolato di assistenza, hanno potuto contare su risorse sia tecniche sia di personale già esistenti, con un conseguente risparmio sui costi di impianto, che nei Comuni con scarsa tradizione nelle politiche assistenziali sono stati, invece, molto elevati. Da quanto osservato, nel primo biennio di sperimentazione è stato stimato che un'estensione del Rìvii all'intero territorio nazionale implicherebbe un esborso finanziario annuo di circa 2.200.000.000 euro, cifra che, nel caso in cui si introducesse l'ipotesi di deducibilità dell'affitto, diverrebbe leggermente superiore ai 3 miliardi di euro' 7 . Si deve precisare che l'introduzione a livello nazionale di questo istituto, pur rappresentando una cospicua fonte di spesa, verrebbe comunque a configurarsi come una misura sostitutiva di altre forme di assistenza; l'art. 23 della legge 328/2000 stabilisce infatti che il Rivii a regime dovrebbe assimilare le pensioni e gli assegni sociali. 010


Un elemento che potrebbe distorcere la stima è rappresentato dal fatto che il campione su cui essa si basa, i 39 Comuni sperimentatori, non è pienamente rappresentativo dell'intero contesto nazionale, essendo costituito prevalentemente da Comuni meridionali, che per le caratteristiche precedentemente indicate possono aver concorso ad una lievitazione dell'importo medio stimato per famiglia e quindi del fabbisogno finanziario complessivo. Una serie di elementi, sia di carattere qualitativo sia quantitativo, concorre nel far ritenere che il Reddito Minimo di Inserimento rappresenti un efficace strumento nella lotta alla povertà. Le percentuali di fuoriuscita dal programma di aiuto a conclusione dei primi due anni di sperimentazione costituiscono un valido elemento per analizzare l'efficacia della misura. La quota di uscite sfiora il 10% dei casi complessivamente presi in carico. Questa percentuale, tuttavia, deve essere attribuita non soltanto al superamento della condizione di bisogno, ma anche all'abbandono dei programmi di inserimento e ad altri motivi come il cambio di residenza o il decesso del beneficiano; si stima, comunque, che il 54,1% delle uscite si realizza a seguito di un miglioramento della situazione reddituale. Il lasso temporale, un biennio, a cui si riferiscono queste valutazioni, potrebbe essere troppo breve per cogliere in pieno i benefici prodotti dalla misura; la condizione di grave indigenza in cui versano le famiglie beneficiarie del RMI potrebbe richiedere un periodo di tempo piui lungo per risolvere lo stato di disagio. Una ricerca comparativa condotta su alcuni Paesi europei ha dimostrato che la durata di permanenza in una misura assistenziale è strettamente connessa alla gravità della situazione di partenza 18 . Nonostante il breve lasso temporale di riferimento, quasi 900 individui, in prevalenza residenti nei Comuni settentrionali, hanno trovato un'occupazione: circa il 16% di coloro che hanno seguito programmi di inserimento occupazionale. Un altro importante risultato prodotto dalla misura è rappresentato dall'alto numero di individui che hanno conseguito diplomi, nonostante questo non comporti di per sé il raggiungimento dell'autonomia economica. Questo fenomeno ha interessato prevalentemente coloro che hanno seguito programmi di tipo formativo: 2344 beneficiari, che non avevano completato la scuola dell'obbligo, hanno conseguito il diploma di licenza elementare/media e 3588 hanno ottenuto un diploma/attestato formativo di base professionale. 97


Altre conseguenze positive di carattere qualitativo sono emerse dalle considerazioni delle famiglie beneficiarie e dagli operatori coinvolti, che hanno sottolineato come la misura in questione ha consentito un miglioramento delle condizioni di vita, un recupero della dignità e dell'autostima da parte dei destinatari: processi benefici di cui ha tratto vantaggio l'intera comunità. Giudizi molto positivi sono stati espressi dalle amministrazioni coinvolte nella sperimentazione; la dirigente del settore dei servizi sociali del Comune di Massa ha rilevato che il Rìii ha costituito un superamento dell'ottica semplicemente assistenziale che caratterizzava le misure precedentemente attuate. La predisposizione di un progetto individualizzato, concordato non soltanto con l'interessato, ma con tutto il suo nucleo familiare, ha consentito di dare centralità ai bisogni e alle potenzialità della persona, rendendo il soggetto artefice e fautore del proprio progetto, e per questo ha permesso di ridurre i rischi di cronicizzazione insiti in interventi su queste problematiche.

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8 SARACENO C., Social assistence dynamics in Europe: national and local poversy regimes, Policy Press,

rocci, 2002.

Bristol, 2002.

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saggio

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Il bene culturale come risorsa economica

Il saggio di Amedeo Di Maio pubblicato su questo numero rappresenta un'importante e compiuta critica delle vari modelli proposti dalla teoria economica per definire il valore di un bene culturale. Argomento quanto mai di attualitĂ dopo l'approvazione della legge di conversione del decreto legge n. 63 del 2002 (legge sul "Patrimonio dello Stato S.p.a.). Vogliamo ricordare l'appello, firmato da oltre 2000 studiosi di fama internazionale che si poneva contro la legge stessa. In esso si afferma: "La recente approvazione della legge di conversione del decreto legge n. 63 del 2002 (legge sui "Patrimonio dello Stato S.p.a.) desta vive preoccupazioni in quanti, a vario titolo, si occupano della conoscenza e della conservazione del patrimonio culturale dello Stato (ambientalisti, storici, storici dell'arte, archeologi, archivisti, bibliotecari ecc.). La mancata distinzione fra concetti diversi, quali "valorizzazione", "gestione" ed "alienazione" ingenera confusione ed apre la strada a gravi pericoli, contro i quali poco sembrano valere le deboli garanzie previste nel testo di legge, nonchĂŠ gli impegni della maggioranza ad ampliarle ed a precisarle. La sensazione che la legge nasconda la volontĂ di trasformare un patrimonio comune, di tutti, in un 101


patrimonio privato, di pochi, è fortissima. Sin dalla sua fondazione ed anche nei momenti economicamente ed istituzionalmente più difficili, lo Stato non ha mai voluto rinunciare al pieno possesso di quel patrimonio. Ora invece sembra passare l'idea che il valore venale contingente sia l'unico che conta e che ad esso possano essere sacrificati i più alti e duraturi valori simbolici nei quali si sono riconosciute, si riconoscono e, speriamo, si riconosceranno in futuro generazioni di italiani. Non bastano assicurazioni che il Colosseo o la Fontana di Trevi non saranno venduti. Deve continuare a valere il principio che la configurazione naturale e storica delle varie realtà italiane costituisce una ricchezza di tutti, che deve essere ovviamente gestita e valorizzata, anche con la collaborazione dei privati, ma mai in nessun modo alienata. La risoluzione oggi di un particolare problema economico può creare una povertà, non solo economica, domani. Facendo nostre le preoccupazioni espresse dal Presidente della Repubblica nella lettera inviata al Presidente del Consiglio all'atto della promulgazione della legge e alla luce dell'articolo 9 della Costituzione, invitiamo il Governo a sospendere ogni applicazione della legge ed auspichiamo che si apra su questi problemi un ampio dibattito cui partecipino tutti gli interessati ed in particolare gli esperti italiani e non italiani, con la richiesta che gli esiti della discussione vengano recepiti a livello legislativo." Poi è arrivato il dibattito sull'approvazione del Codice dei Beni culturali in vigore dal Primo Maggio 2004. Il tema non è nuovo: di economia della cultura si parla da anni. Il modello di sviluppo di varie zone del Paese si sposta verso un'economia fortemente incentrata sull'appeal del turismo culturale. IVIa ormai da molti settori, accademici, imprenditoriali, istituzionali, si levano perplessità sulla capacità del bene culturale, anche nell'ottica della sua opportuna valorizzazione, di sanare per magia i bilanci degli enti locali. Anche perchè le valutazioni sulla ricaduta economica di mostre-evento e progetti di valorizzazione sostenuti dalla giunte locali sono sembrate, alla prova dei fatti, sovrastimate. Roberto La Galla, presidente del Consorzio Universitario della provincia di Agrigento che sta fortemente promuovendo la creazione di un polo culturale siciliano, sul Sole 24 ore del 2 luglio è chiarissimo. Lo sviluppo di nuovi modelli difruizione culturale sono anche un volano economico a patto che i progetti di valorizzazione siano coerenti "con un tessuto infrastrutturale e un'offerta alberghiera efficienti. Altrimenti, qualunque progetto risulterà poco credibile ed efficace" Il saggio di Amedeo Di Maio non si occupa di queste polemiche, ma la sua lettura 102


può sicuramente aiutare il policy maker a utilizzare meglio teorie e metodologie di valutazione basati sull'analisi scientifica anzichÊ su presunti trend di marketing territo riale poi smentiti alla prova dei fatti. Anche nell'ottica di una dismissione da non demonizzare aprioristicamente, ma valutabile come opportunità di una migliore fruizione per determinati e ben identificabili beni, altrimenti destinati all'incuria di una tutela pubblica deficitaria.

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La valutazione economica del bene culturale. Una rassegna critica di Amedeo Di M aio *

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olti programmi di sviluppo locale prevedono investimenti nella tutela, conservazione e, soprattutto, valorizzazione dei beni culturali. Si ritiene la cultura una risorsa anche economica e, quindi, deve essere impiegata in modo efficiente, come un qualsiasi altro fattore produttivo: non a caso, c'è stato in Italia qualcuno che ha definito i beni culturali giacimenti, utilizzando il termine prima indicante esclusivamente le materie prime (il petrolio, il carbone, i diamanti, ecc.). Iltermine cultura è tanto vasto quanto, di conseguenza, ambiguo. Nell'evoluzione linguistica credo siano stati pochi i termini che negli ultimi tempi si sono diffusi quanto questo, snaturandone il, pur vasto, significato originario; e ciò anche nel linguaggio economico comune: ad esempio adoperato come sostantivo per la "cultura" di impresa o come aggettivo per il distretto culturale. Leconomista si interessa da sempre di "cultura" di impresa, intesa come analisi delle strategie dell'imprenditore, così come, fin dai famosi contributi di Marshall, è suo oggetto di indagine quel particolare sistema produttivo territoriale definito distretto. Con una piccola dose di voluta provocazione, che il lettore spero mi vorrà perdonare, è possibile osservare il tentativo di ingerenza dell'economia nel settore dei beni culturali come spinta, da un lato, all'inserimento di una "cultura" di impresa nella gestione di questi beni e, dall'altro, come individuazione, il più delle volte forzata, di sistemi locali di sviluppo che si basano sul settore culturale, diversamente inteso': in alcuni casi è considerato l'insieme, ad esempio, dei musei, parchi archeologici, palazzi storici, ecc.; in alL'Autore è ordinario di Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". 105


tn, la produzione di un bene che necessita della conoscenza e tradizione produttiva presente solo in un dato territorio (un particolare tipo di vino, ceramica, vetro, ecc.). Ho impressione che questo modo di procedere capovolga il criterio originariamente adoperato dagli economist1 2 che per primi si sono occupati di beni culturali (e attività culturali) e che ritengo preferibile anche perché ha consentito di individuare problemi interessanti, alcuni dei quali ancora irrisolti. In breve, il criterio originario consiste nell'individuare le caratteristiche tecniche del bene culturale (e dell'attività artistica, che in questa sede non considero) e studiarle attraverso gli strumenti analitici in possesso dell'economista. Ad esempio, l'Arco di Costantino è un bene materiale, rappresenta una importante testimonianza storica con una sua precisa datazione. E, quindi, per l'economista un bene non riproducibile (il che significa che le scelte delle tecniche di restauro possono considerarsi irreversibili, quindi tragiche, per usare il noto termine coniato da Calabresi, qualora il restauro risultasse sbagliato); è, il caso in esempio, un bene pubblico perché non è a consumo individuale; la sua caratteristica storica ed architettonica appare maggiormente comprensibile se si connette al patrimonio culturale circostante e, quindi, si individua un valore di contesto3 che riveste importanza non solo politica e culturale (il ritorno della stele di Axum in Etiopia, da Roma dove fu portata nel 1937 come simbolo delle conquiste coloniali italiane, rappresenta il caso più recente di monumento il cui valore si fa discendere dal contesto in cui si colloca). La maggior parte dei beni culturali non è scambiabile nel mercato (senz'altro per motivi giuridici che riflettono il riconoscimento di un valore di comunità4, visto che un mercato illegale esiste) e da ciò può discendere l'esistenza di un valore in sé (valore non uso) 5 che costituisce una vera sfida intellettuale per l'economista che si occupa di valutazione. Inoltre, se non ci si lascia fuorviare dai casi, invero limitati, di elevato afflusso di visitatori, è possibile individuare un effetto dipendenza 6 nel senso che il reale apprezzamento della fruizione dipende dall'esperienza maturata nella precedente fruizione e dal costo (investimento) destinato ad apprendere le modalità che permettono una fruizione realmente godibile. Il lettore ha compreso che in questo lavoro non mi riferirò, ad esempio, alla valutazione della gestione di un museo o alla valutazione dell'impatto occupazionale di una filiera enogastronomica. Farò esclusivo riferimento ai beni culturali intesi come beni materiali che testimoniano la storia di un luogo e sono irriproducibili, con il fine di illustrare pregi e limiti dei più diffusi criteri di stima del valore. Questa scelta discende anche dalla convinzione che questi beni culturali sono i più frequenti nel nostro paese, ma anche i meno considerati dalla letteratura economica. ,

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IL BENE CULTURALE INTESO COME BENE PUBBLICO

Se riflettessimo sulla "moda" dei Grand Tours seguita dalla colta aristocrazia europea, a iniziare da quello più famoso compiuto dal Goethe, scopriremmo che la maggior parte dei beni culturali descritti nei loro diari di viaggio sono beni pubblici: dalla facciata della Certosa di Pavia fino al Tempio della Concordia di Agrigento, passando per il Duomo di Firenze, il Foro della Roma imperiale e tantissimi altri luoghi meno noti ma diffusissimi, oltre, naturalmente, il paesaggio e il clima (bellezze di insieme) 7 della terra dove crescono i limoni. Sia pure con modalità diverse, anche il viaggiatore di oggi (il turista) fruisce degli stessi beni e, pertanto, trattando di economia dei beni culturali, non si può non far riferimento a quelli che hanno la caratteristica, appunto, di bene pubblico. La definizione di bene pubblico è teoricamente consolidata ed è rigorosa 8 Essa si basa, come è noto, su due caratteristiche. La prima è la non escludibilità. Ciò significa che è tecnicamente impossibile ed economicamente non vantaggioso consentire una fruizione escludente del bene. Non è il caso, ovviamente, di un'opera d'arte esposta all'interno di un museo, perché l'esclusione è tecnicamente ed economicamente alquanto agevole, basta infatti stabilire un prezzo di ingresso. Appare invece impossibile, o altamente oneroso, escludere qualcuno dal passeggio nelle strade di un centro storico (si pensi al caso dei temporanei summit dei "grandi della terra"). Tra queste situazioni estreme, può individuarsi un intervallo di casi intermedi che contiene beni misti, alcuni dei quali si approssimano alle caratteristiche del bene privato (escludente) altri al bene pubblico puro. La caratteristica di non escludibilità è estremamente importante, perché non consente ai privati di farsi remunerare i benefici che diffondono indiscriminatamente con l'offerta di beni pubblici. Ne discende che se si volesse puntare sull'iniziativa privata per tutelare, preservare e valorizzare i nostri beni culturali, essa si rivolgerebbe inevitabilmente solo verso quei beni che osservano una domanda di mercato, effettiva e potenziale, almeno sufficiente a garantire i livelli minimi di profitto atteso che possono derivare solo dalla escludibilità, ossia dalla gestione di beni che hanno natura privata. Per questo motivo, come è noto, il bene pubblico è considerato un caso di fallimento del mercato. A proposito di fallimenti del mercato è bene ricordare che l'esistenza del bene pubblico si associa solitamente all'esistenza delle esternalità che, a loro volta costituiscono, anche isolatamente considerate, un altro caso di fallimento. Nel settore dei beni culturali la combinazione di bene pubblico ed esternalità è molto diffusa, anche con rife.

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rimento alla proprietà privata. È sufficiente immaginare un qualsiasi percorso turistico tra le colline della campagna toscana o in Borgogna. Si immagini il proprietario di una villa di campagna di epoca rinascimentale. Egli è consapevole che il costo per la conservazione della fattoria determina benefici che non può farsi pagare dal turista viandante e se la fonte del finanziamento della conservazione non fosse l'attività agricola, allora potrebbe fallire e non garantire la tutela di questo bene culturale privato. Può accadere che il proprietario intraprenda una attività collaterale a quella principale e consistente nella organizzazione di visite guidate alla sua villa. Anche in questo caso possiamo osservare che esistono condizioni di fallimento perché il prezzo della visita non rappresenta tutti i benefici generati dalla villa e consistenti nelle esternalità. Naturalmente, il ragionamento può ripetersi anche con esempi di proprietà pubblica. E interessante notare come il concetto di esternalità non sia, in alcuni casi, molto distante da quello di bene di merito, soprattutto nel significato che Musgrave dà del valore di comunità. Infatti, per restare nell'esempio, il beneficio della conservazione della villa rinascimentale può anche scorgersi nel valore di esistenza che, per esempio, vi attribuisce il lontano emigrante, consapevole di non poter pi1 tornare al suo luogo di origine. Appare evidente che il proprietario non riesce a catturare, attraverso il prezzo, il beneficio a questi arrecato. La seconda caratteristica del bene pubblico, conseguente la prima, è la non rivalità nel consumo. Ciò significa che due consumatori fruiscono del bene pubblico nello stesso momento e della medesima quantità, senza che l'uno interferisca sulla fruizione dell'altro e di qualunque altro sopravvenga nella fruizione, almeno fino ai limiti della congestione. Un esempio perfettamente calzante è fornito dalla visione di un monumento (statua, facciata di un palazzo, resti archeologici, ecc.) situato in una piazza pubblica (spesso, la piazza stessa, interamente considerata, è un pregevolissimo bene culturale). Fino a quando non si determinano situazioni di affollamento che modificano la qualità della fruizione del luogo pubblico avente caratteristiche notevoli di bene culturale (vengono in mente le tante famose piazze italiane: piazza S. Marco a Venezia, piazza del Campo a Siena, piazza Navona a Roma, ecc.) non si verificheranno situazioni di rivalità nella fruizione perché la visita di un turista non pregiudica quella di qualunque altro. A proposito dell'affollamento, in molti casi di beni culturali si individuano condizioni di rivalità, ma nel contempo si riduce inevitabilmente il grado di escludibilità. Ci sono momenti in cui la Basilica di San Pietro a Roma è così affollata che il piacere di osservare la Pietà del Michelangelo viene considere108


volmente ridotto. Inoltre, l'affollamento può portare nocumento alla conservazione del bene e, quindi, può risultare favorevole limitare il numero delle visite nell'unità di tempo, anche attraverso l'adozione di tariffe. L'esistenza di un prezzo di ingresso consente di finanziare, sia pure parzialmente, i costi della tutela e della conservazione, oltre che limitare gli accessi e, quindi, consentire una maggiore qualità della visita. Torno a ragionare in termini di beni culturali intesi come beni pubblici puri. Un importante quesito, che discende da una vasta letteratura, riguarda la determinazione della quantità ottima di bene pubblico, quindi, nel nostro caso, di bene culturale. La questione è reale, quanto complessa. Non sono rari i casi in cui il policy maker deve decidere le sue azioni in presenza di obiettivi alternativi, anche all'interno del medesimo settore e nel vincolo delle risorse finanziarie. Con riferimento all'approccio neoclassico, la quantità ottimale si determina lì dove il costo marginale eguaglia il beneficio marginale. Questa nota conclusione ha condotto alcun1 9 a erroneamente considerare un insieme di beni culturali in un dato luogo come costituito da elementi omogenei, indistinti. Con questa inaccettabile ipotesi implicita, si suppone l'esistenza di 100 beni e, dato il vincolo di bilancio, si interviene nella conservazione di quel bene culturale che al margine eguaglia i benefici marginali con il costo marginale della conservazione o del restauro. Appare evidente che il problema diviene più complesso quando realisticamente si elimina l'ipotesi di omogeneità del bene. Infatti, nel caso di 100 beni culturali diversi (la chiesa gotica, il palazzo rinascimentale, la chiesa barocca, il tempio romano, ecc.) occorre disporre di un ordinamento dei progetti di salvaguardia che si basa sulla funzione di preferenza della collettività. Questo ordinamento discende, per esempio dall'utilizzo di pesi attribuiti alle caratteristiche di ciascun progetto'°. Solo noto l'ordinamento è possibile individuare fino a quale progetto di restauro conviene spingersi, in modo da ottimizzare la scelta collettiva. Inoltre, nella letteratura riguardante l'approccio neoclassico, si esclude il caso più frequente dell'ordinamento fissato da una élite culturale (professionale) o significativamente influenzato dalle preferenze di questa. Indipendentemente dalla tecnica adoperata per l'ordinamento, al fine della selezione, si devono necessariamente stimare i benefici che ciascun bene culturale produce. Si devono, quindi, ora considerare i diversi criteri di stima dei valori generati dalla presenza dei beni culturali. Spesso per traslato dalla letteratura sull'economia dell'ambiente, si individuano diversi criteri di stima del valore dei beni culturali che tengono conto della loro natura pubblica. Come ho già ricordato proprio all'inizio di questo articolo, questi criteri so109


no adoperati come ausilio alle scelte di selezione dei progetti che compongono programmi pubblici di sostegno e sviluppo. t sempre più frequente l'idea che i beni culturali possano significativamente contribuire allo sviluppo economico di un territorio. Evitando di considerare in questa sede' 1 gli aspetti concernenti la relazione tra valorizzazione dei beni culturali e Io sviluppo economico locale, mi limito ad osservare che sempre più spesso nei programmi (P0R: programmi operativi regionali) delle regioni europee che servono per accedere ai fondi per il riequilibrio infrastrutturale (Quadro Comunitario di Sostegno) un asse è dedicato ai beni culturali. Ne discende che appare sempre più urgente individuare i criteri di stima dei benefici prodotti nel settore dei beni culturali, al fine di inserirli negli studi di fattibilità dei progetti che il policy maker deve selezionare per il finanziamento. Questi criteri tendono, almeno a prima vista, a ridimensionare il ruolo degli esperti nella scelta dei progetti, benché loro legittimamente contribuiscono alla definizione dei programmi. E, inoltre, significativo che nelle linee guida elaborate dall'Unione Europea, non si diano indicazioni di criteri di determinazione dei benefici, proprio nel settore dei beni culturali, pur presente nel manuale 12 Bisogna pertanto individuare i criteri attraverso i quali si stimano i benefici e i costi sociali che devono potersi inserire negli studi di fattibilità (analisi costi-benefici) con il fine di valutare la convenienza ad intervenire, con un determinato progetto, nella conservazione di uno specifico bene culturale. Per soddisfare questa esigenza, diviene necessario chiedersi in cosa può consistere il valore del bene culturale, inteso come bene pubblico, e ricordare che esso non può essere stimato attraverso i soli meccanismi che operano nel mercato dei beni privati. Inoltre, non è detto che il prezzo di mercato di un bene privato coincida con il suo valore. Non sono rari i casi in cui il prezzo sovrastima o sottostima il valore, per via, ad esempio dell'inclusione nel prezzo di imposte distorsive, o per via di contingentamenti nelle quantità richieste o in quelle offerte, oltre all'esistenza di prezzi amministrati, tariffe che sono fissate ad un livello diverso dal costo marginale. Con riferimento all'approccio più adoperato, il beneficio che un consumatore ottiene dall'acquisto di un bene di mercato è rappresentato dal maggiore ammontare di moneta che sarebbe disposto a pagare rispetto al prezzo effettivo. Anche per il bene pubblico è possibile adottare la medesima definizione. Quindi, il valore che una persona attribuisce alla possibilità di fruire di un bene culturale è definibile come il maggiore ammontare di moneta che è disposta a pagare per avere l'opportunità della visita, rispetto all'ammontare di moneta effettivo che deve sborsare. Da ciò si fa discendere che il valore di uso complessivo del bene è pari alla .

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somma della disponibilità a pagare di tutti i visitatori. Tuttavia, un bene culturale può generare benefici anche se non c'è visita al bene. Il valore non uso considera i benefici che la collettività avverte nel sapere, con una certa dose di sicurezza, che il bene culturale è ben conservato e tutelato. Il valore non uso nasce da funzioni di utilità altruistiche che esprimono il desiderio che il bene culturale possa essere fruito da altri; dalla volontà che sia preservato per le future generazioni; dal valore di opzione del potenziale visitatore; o più semplicemente dal desiderio che il bene possa essere preservato, indipendentemente dalla fruizione, attuale e futura, il cosiddetto valore di esistenza. Questa ultima tipologia di beneficio derivante dal non uso può spiegare, ad esempio, perché si è disposti ad utilizzare risorse per proteggere un bene culturale che è considerato così fragile da non poter essere aperto alla fruizione. Gli esempi sono comunque più frequenti nel settore dell'ambiente; per l'Italia, si pensi al caso dell'isola di Montecristo, nell'arcipelago toscano, ma non è impensabile l'ipotesi che si ritenga preferibile vietare l'ingresso agli Scavi di Pompei per evitare i danni che il visitatore produce con comportamenti colposi e dolosi. In assenza di una diretta fruizione, il problema principale per la stima di questo valore è dato dai possibili comportamenti di free riding. Tuttavia, la principale sfida per l'economista consiste proprio nel tentativo di catturare il valore non uso. Nelle pagine che seguono viene indicato il sentiero che nella letteratura di riferimento si è percorso, giusto nel tentativo di individuare stime appropriate di detto valore. LA STIMA DEL VALORE

Senza entrare nel secolare dibattito concernente la teoria del valore ed evitando il formalismo matematico, ricorrendo ad una sintesi intuitiva ricordo che il valore di un bene è definibile come l'ammontare di moneta che il potenziale consumatore è disposto a pagare per avere quel bene (disponibilità a pagare, DAP), ovvero l'ammontare di moneta che il proprietario del bene è disposto ad accettare per cederne la proprietà (disponibilità ad accettare D). Nel caso dei beni che si scambiano nel mercato, il consumatore confronta la sua DAP con il prezzo di mercato e decide, quindi, se acquistare o meno il bene. Se il consumatore acquista il bene, si può allora congetturare che la DAP è maggiore, al limite eguale, al prezzo di mercato. Parimenti, il proprietario del bene confronta il suo valore (D) con il prezzo di mercato e decide se vendere o meno. Se decide di vendere, vuol dire che la D& è minore, al limite eguale, al prezzo di mercato. Come è noto, in una situazione di equili111


brio il consumatore marginale e il produttore marginale avranno una DAP e una DAA entrambi eguali al prezzo di mercato. Pertanto, può affermarsi che il prezzo di mercato riflette il valore marginale del bene, sia per il produttore, sia per il consumatore. Quando applichiamo questa struttura concettuale nella "produzione" (conservazione) dei beni culturali, immediatamente sorgono due problemi. Il primo è che il bene culturale (il monumento, l'edificio storico di pregio, lo scavo archeologico, ecc.) molto frequentemente è inalienabile, per motivi compresi nel concetto di bene di merito, che mi sembra la principale ragione che giustifica le funzioni di conservazione e tutela. Ne discende che oggetto della valutazione è la modifica qualitativa che il bene può subire in conseguenza di un intervento, per esempio di restauro. Se si è in grado di rappresentare una descrizione esaustiva dell'attuale condizione del bene culturale (situazione "senza" intervento), e anche del nuovo stato conseguente l'intervento di restauro (situazione "con" intervento), allora possiamo dire che la stima del valore si riferisce alla differenza tra lo stato del mondo "con" e quello "senza". Per esempio, se noi siamo interessati allo stato di conservazione del Marco Aurelio, "senza" indica l'effetto negativo prodotto dagli agenti atmosferici in passato o, più correttamente, l'effetto fisico-chimico che prevedibilmente si è prodotto ad una data futura prescelta, mentre la situazione "con" rappresenta lo stato del mondo derivante dall'intervento di restauro, alla medesima data. Il secondo problema, quando si esclude il caso di inalienabilità, è che raramente vengono adoperati prezzi di mercato nello scambio di beni e servizi culturali. L'ho ricordato più volte, i beni culturali sono spesso beni pubblici, il che significa che i benefici generati dalla loro offerta risultano a consumo congiunto e la domanda corrispondente è non rivale. Nei casi di beni pubblici puri, il prezzo dell'individuale fruitore è nullo (il turista che ammira l'architettura di Piazza di Spagna a Roma). Anche dove la fruizione può essere regolata attraverso una tariffa, raramente è fissata all'ipotetico prezzo di mercato e comunque può accadere che i benefici dei non fruitori risultino superiori a quelli goduti dai visitatori. Nel caso, più frequente, di assenza del prezzo, non è possibile stimare direttamente il valore del bene culturale. Bisogna far riferimento a criteri di stima indiretti. A tal fine, si possono individuare due principali tipologie concernenti i meccanismi di rilevazione delle preferenze: la tipologia delle preferenze rivelate (revealedpreference) e quella delle preferenze enunciate (statedpreference). La tipologia delle preferenze rivelate per essere attuata richiede la ricerca di indicatori che riflettono il comportamento passato, osservabile, del decisore. 112


L'indicatore cui pRi frequentemente si fa ricorso è costituito dall'acquisto di beni di mercato che, sia pure parzialmente (proxy) riflettono il prezzo del bene non di mercato culturale, non scambiato e non scambiabile nel mercato. Il criterio dei prezzi edonici utilizza questo meccanismo. Un secondo esempio di indicatore che può essere stimato attraverso l'osservazione del comportamento passato concerne l'utilizzo del tempo libero. Il criterio del costo del viaggio consiste nella stima di questo indicatore. Se la tipologia delle preferenze rivelate sfrutta il comportamento passato, quella delle preferenze enunciate usa il potenziale comportamento futuro prospettando al decisore uno stato del mondo congetturato, diverso da quello attuale. La valutazione contingente utilizza questa tipologia. IL CRITERIO DEI PREZZI EDONICI

Questo criterio è stato formulato negli anni Settanta del secolo appena trascorso 13 con l'intento di valutare beni del settore dell'ambiente non scambiabili nel mercato. Lestensione di questo criterio al settore dei beni culturali è apparsa naturale, per un insieme di caratteristiche economiche simili al settore dell'ambiente. Lidea base di questo criterio è di individuare, e quindi osservare, quelle situazioni nelle quali l'acquisto di un bene di mercato include il beneficio derivante da un bene non di mercato. In sintesi, per un identico bene di mercato si considerano due situazioni: quella dove non c'è relazione alcuna con uno specifico bene non di mercato e quella dove la relazione appare evidente. Si misurano i prezzi delle due situazioni e l'eventuale differenza, positiva, si attribuisce al bene non di mercato. Nel settore dei beni culturali, l'esempio pRi immediato è quello della possibile relazione tra il valore degli immobili e la presenza dei beni culturali 14 . Se consideriamo una qualunque città che ha un centro storico e diverse altre aree residenziali, è opinione comune (salvo particolari situazioni di degrado urbanistico, che tuttavia non inficiano il criterio) che il prezzo delle case in una data area residenziale dipenderà sì dalle caratteristiche fisiche dell'alloggio ma anche dalle caratteristiche dell'area stessa. Una di queste caratteristiche, che incide positivamente sul valore della casa, potrebbe essere la quantità e la qualità dei beni culturali. È bene usare il condizionale, perché non può ipotizzarsi l'esistenza di una regola generale che associa positivamente il valore di una casa alla vista, ad esempio, dalla stessa di un bene culturale. Mi sovviene la scena di un film ("Caro diario" di N. Moretti) nel quale il protagonista chiede incredulo le ragioni dell'abbandono del cen113


tro storico di Roma in cambio di una casa nei sobborghi "con verde e aria migliore". Ciò significa, semplicemente, che il valore stimato con il criterio del prezzo edonico, discende crucialmente dalle mode prevalenti nel momento della valutazione. Comunque, se il mercato immobiliare, a parità di condizioni interne dell'alloggio ed esterne (accessibilità a servizi pubblici e privati), valuta positivamente il vivere in prossimità di edifici storici, allora il differenziale di prezzo potrebbe dipendere dalla presenza del bene culturale e riflettere il valore dello stesso. L'applicazione di questo criterio è meno agevole di quanto a prima vista si possa ritenere. Solitamente le fasi di implementazione di questo criterio sono le seguenti: a) il valutatore cerca informazioni su di un numero congruo di unità abitative, che riguardano gli effettivi prezzi di vendita o i canoni di locazione, le caratteristiche fisiche (superficie, anno di costruzione) e la localizzazione (servizi pubblici, ambiente sociale, salubrità ecc.). Tra gli attributi della località si estrapolano quelli relativi alla presenza dei beni culturali; b) occorre utilizzare una funzione di regressione per stimare il modello predisposto per tentare di spiegare le differenze di prezzo delle unità abitative diversamente localizzate. Il modello si riferisce, solitamente, ad una funzione implicita del prezzo 15 . Perché questo criterio risulti teoricamente corretto dobbiamo assumere un comportamento consapevole e razionale del singolo decisore (acquirente della casa). Se un individuo vive in un appartamento localizzato in una bella piazza rinascimentale italiana si deve assumere che egli avrebbe potuto scegliere tra diverse possibili combinazioni di attributi degli immobili e che ha valutato i benefici e i costi derivanti dal vivere in aree residenziali diverse. Per arrivare alla conclusione di scegliere l'appartamento nella piazza storica, egli deve aver stimato che il relativo costo addizionale è almeno uguale al beneficio addizionale. Naturalmente, l'utilizzo del criterio del prezzo edonico per valutare i beni culturali sarà limitato a quelle situazioni nelle quali la fruizione dei beni culturali è strettamente connessa al consumo di beni che si scambiano nel mercato, come nell'esempio degli immobili. Inoltre, questo criterio catturerà il valore del bene culturale solo se il beneficio dovuto alla sua esistenza ricade solo e solamente su chi vive in quello specifico luogo. Al contrario, sappiamo che i beni culturali assumono valori di uso, ma anche valori non uso, assolutamente non catturabili attraverso l'analisi del prezzo delle case. Per apprezzare Notre Dame non bisogna necessariamente abitarci, sia pure di nascosto, come fa Quasimodo, è sufficiente essere un turista a Parigi. Il valore del bene culturale può dipendere anche dalla possibilità che venga fruito dalle genera114


zioni future. Insomma, mai il valore della fontana del Bernini potrà coincidere con il prezzo edonico derivante dalla vista quotidiana dalle finestre che si affacciano su Piazza Navona. I motivi sono tanti, tra questi anche il fatto che il bene citato ha una valenza di carattere internazionale. Se ci riferiamo ad una piazza storica che assume un valore solo per la collettività locale, allora il prezzo edonico si potrebbe allontanare di meno dal valore effettivo. Questo criterio del prezzo edonico è stato applicato numerose volte 16; tuttavia, esso incontra numerosi problemi, sia applicativi, sia concettuali. Infatti, questo criterio assume che il mercato operi perfettamente, in modo tale, cioè, che i prezzi riflettono esattamente la disponibilità a pagare per tutte le differenti caratteristiche dei rispettivi beni. Naturalmente, nulla garantisce che ciò sia sempre vero. In alcuni casi, non è possibile evitare di considerare che mercati che hanno direttamente o indirettamente a che fare con l'oggetto di valutazione operano simultaneamente e in modo dipendente l'uno dall'altro. Ne discende che il criterio in questione deve essere applicato simultaneamente in entrambe i mercati, impostando correttamente la relazione intercorrente tra essi, al fine di evitare una misura evidentemente errata del valore. Inoltre, la misura specifica del grado di interrelazione non può sempre essere chiaramente distinta. Mentre le caratteristiche fisiche sono solitamente facili da osservare e misurare e possono, quindi, essere usate facilmente come variabili esplicative, ciò è raramente vero delle differenze tra attributi meno tangibili. Alcuni attributi, come la localizzazione, possono essere osservati ed inseriti all'interno delle stime statistiche come variabili esplicative, ma sono spesso di per sé un insieme di attributi. Ancora, aspetti come la qualità estetica appaiono altamente soggettivi e non hanno una scala di misurazione oggettiva che cohsenta una comparazione quantitativa. In molti casi, quindi, tutto ciò che è impossibile misurare direttamente, è misurato come "residuale". Ascrivere questo "residuale" solamente al valore culturale, richiede di assumere che tutti gli altri attributi rilevanti siano stati correttamente contabilizzati. IL CRITERIO DEL COSTO DEL VIAGGIO

E forse il criterio pii utilizzato nelle analisi costi benefici che riguardano progetti appartenenti al settore dei beni cultural1 17. Si basa sul costo associato alla visita ricreativa al bene culturale. Le prime applicazioni riguardarono il costo opportunità dell'attività di ricreazione, del tempo libero, misurato soprattutto stimando il costo del trasporto e quindi presupponeva la necessità, per la 115


fruizione, di effettuare un viaggio. Inoltre, il riferimento esclusivo alla attività di ricreazione conduce alla evidente osservazione che questo criterio non è utilizzabile in tutti quei casi dove si dimostra non esserci domanda turistica. Questo criterio porta a considerare l'effetto che un progetto ha in termini di abbassamento del prezzo del bene, assunto coincidente con il costo del viaggio e con tutti gli altri costi connessi con la visita. Per la determinazione di tutti questi costi, spesso, si ricorre ad indagini dirette tramite interviste agli effettivi visitatori. Ci sono due impostazioni di stima del costo del viaggio. La prima impostazione prende in considerazione i visitatori di un determinato bene cultura1 e 18. La seconda si riferisce al visitatore che deve scegliere tra più siti culturali, quello da visitare in una determinata occasione di svago. Con riferimento alla prima impostazione, viene esaminato un numero consistente di visitatori che provengono da luoghi diversi e diversamente distanti dal sito oggetto di valutazione. Tra le domande che si rivolgono al visitatore effettivo, una riguarda la frequenza delle visite nell'unità di tempo considerata, l'altra il costo sostenuto per il viaggio. Il prezzo totale della visita al sito è calcolato, per ciascun visitatore, semplicemente moltiplicando la distanza per il costo medio del viaggio (€Ikm) e aggiungendo l'eventuale prezzo di ingresso. Il numero delle visite si stima, quindi, funzione del costo totale della visita e delle altre possibili variabili stimate (per es. il reddito). La seconda impostazione si basa sul fatto che il potenziale visitatore considera tutte le caratteristiche dei siti candidati (con la stessa puntigliosità del comitato che valuta le sedi candidate per la Coppa America!), e sceglie quel sito che offre la migliore combinazione di caratteristiche e prezzo. Per l'applicazione bisogna individuare un opportuno campione di visitatori potenziali e un. insieme di siti culturali ugualmente accessibili dal luogo di origine prescelto. Al campione si chiede quale sito è stato visitato in un dato periodo di tempo. Vengono considerate le caratteristiche di ciascun sito e correlate al costo della visita che ogni individuo ha dichiarato. Attraverso l'utilizzo di funzioni di regressione vengono stimati i coefficienti per valutare la disponibilità a pagare per la visita ad un sito specifico e confrontarla tra i siti prescelti. Questa impostazione serve per confrontare l'attrattività di alcuni siti culturali, tuttavia non consente di prevedere la visita totale in ciascun sito. Per questo motivo la prima impostazione appare più efficace. In sintesi, il criterio del costo del viaggio dipende da numerose assunzioni, molte delle quali sono irrealistiche in contesti di turismo internazionale. Il 116


criterio base assume generalmente che il costo del viaggio sia proporzionale alla distanza dal sito e che la gente che vive alla stessa distanza dal sito abbia preferenze identiche. Nessuna di queste assunzioni è plausibile nel caso del turismo internazionale ed è difficile che sia realistica anche per le classiche gite fuoriporta. La tecnica, inoltre, assume una gita con un solo scopo e incontra difficoltà quando la gita, il viaggio, ha scopi molteplici. Infine, se la conservazione, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali possono farsi appartenere a quelle "regole sociali alle quali si attribuisce il compito di impedire l'eguaglianza al margine delle soddisfazioni derivanti dalle nostre diverse attività"19, allora questo criterio diviene del tutto inapplicabile. LA VALUTAZIONE CONTINGENTE

Questo criterio è tra i pii adoperati per la valutazione dei beni culturali 20 . Lo scopo è di catturare il valore del bene che si verrebbe a determinare se esistesse un mercato reale del bene medesimo. Ne discende che il mercato ipotizzato, che si compone dell'analista, del questionario e dell'intervistato, deve approssimarsi a quello reale. Ciò significa che l'intervistato deve conoscere perfettamente il bene da valutare, deve conoscere le modalità di pagamento ipotetiche che sono, nel linguaggio specifico, definite veicolo di pagamento. Il meccanismo della valutazione contingente è il seguente. L'analista propone il prezzo di domanda iniziale (bid) e l'intervistato risponde della sua eventuale disponibilità a pagare. La procedura alternativa consiste nell'aumentare il prezzo di partenza per verificare fino a quando l'intervistato è disposto a pagare; l'ultimo prezzo accettato rappresenta la massima disponibilità a pagare. Un problema rilevante è ovviamente quello di verificare la bontà del risultato, visto che la ragione del criterio è data dall'inesistenza del mercato. In letteratura 21 Si conviene che la bontà del risultato si verifica analizzando: a) che il prezzo determinato sia simile a quello ottenuto con altre tecniche basate sui mercati surrogati; b) che il prezzo sia simile a quello ottenuto introducendo incentivi esistenti nei mercati reali, al fine di rilevare le effettive preferenze. Si è consapevoli che ci si può trovare in situazioni di distorsione strategica derivante dalla difficoltà di catturare le effettive preferenze degli individui nelle situazioni che assicurano un maggior beneficio se le preferenze non sono onestamente rivelate (free rider). A tal proposito c'è chi ritiene 22 che se il valore che gli individui attribuiscono ad un determinato programma, per esempio di conservazione, eccede le loro aspettative sui costi, allora: a) il voto per il pro117


gramma è ottimale; b) è ottimale quanto risulta dall'intervista. Non risulta vantaggiosa una strategia volta a rispondere il falso e, quindi, le risposte possono essere ritenute realistici indicatori del valore espresso dall'intervistato. Altre distorsioni possono derivare dalla struttura dell'intervista, per esempio dal livello prescelto del prezzo iniziale o dal tipo di veicolo. Per esempio, non sempre c'è indifferenza tra la proposta di pagare un euro di tariffa di ingresso o un euro di tassa locale. Ancora, essa può dipendere dall'informazione, dalla natura stessa, ipotetica, dell'intervista e dal grado di approssimazione delle condizioni operative a quelle del mercato reale. Comunque sia, la maggiore attrattiva di questo metodo è che dovrebbe essere tecnicamente applicabile in ogni situazione nella quale non esiste il mercato. In alcuni casi si rivela l'unica tecnica di stima possibile dei benefici. Come abbiamo già riferito, in letteratura si è molto discusso sulla precisione di questo metodo. Per la natura stessa del criterio della valutazione contingente, la stima della sua validità si poggia, inevitabilmente, su quesiti inerenti il contenuto, il costrutto e il criterio, con la stessa metodologia adoperata in psicologia23. I tre elementi dovrebbero costituire la base di determinazione di un corretto protocollo. Com'è intuitivo, il contenuto concerne la struttura del questionario, soprattutto la sua capacità di correttamente informare l'intervistato circa la descrizione del bene, il mezzo di pagamento e il contesto della valutazione. La verifica della validità del costrutto riguarda il grado di coerenza tra impostazione dell'indagine specifica e la teoria economica. Riguardo al criterio bisogna tener conto della relazione tra lo stato attuale della risorsa e quello futuro prevedibile dall'intervistato. Proprio le affinità con i criteri adoperati in Psicologia, ha consentito ad Hanemann 24 di applicare l'approccio dell'utilità stocastica alla valutazione contingente. Comunque, indipendentemente dalla complessità della tecnica, l'obiettivo che si vuble raggiungere con il criterio della valutazione contingente è di ricavare valori "reali" e l'offerta sarà precisa se coincide con quella che si verificherebbe se esistesse un mercato effettivo. Tuttavia, i mercati effettivi non esistono e quindi la verifica non esiste, salvo che non si consideri tale il confronto tra il risultato ottenuto con questo criterio e quelli ottenuti con altri criteri, per esempio basati sui mercati succedanei. Ne discende che conviene da subito far riferimento a questi altri criteri. Inoltre, è banale osservare che non si deve confondere il protocollo con il risultato. Frey25, richiamandosi ad un contributo di Sen26, critica radicalmente il metodo della valutazione contingente, adoperando anche altri argomenti oltre quelli più sopra richiamati. In sintesi, Sen si pone le seguenti due questioni. Con la prima si domanda se il metodo della 118


valutazione contingente richiede necessariamente preferenze date. Con la seconda si chiede quali sono le assunzioni implicite riguardanti le scelte sociali. Con riferimento al primo quesito, Sen ritiene che è il processo stesso di valutazione che crea i valori che invece si dovrebbero solo individuare tramite il criterio della valutazione contingente. In altre parole, Sen mette in discussione il protocollo. La procedura di valutazione risulta, pertanto, inutile dato che essa non individua le preferenze indipendenti e non garantisce che la soluzione individuata sia quella effettivamente desiderata. Per il secondo quesito si fa il seguente ragionamento. Il metodo della valutazione contingente simula l'acquisto e il consumo di un bene privato da parte di un potenziale acquirente che decide in piena autonomia, sulla base delle proprie preferenze e disponibilità a pagare. In questo criterio di valutazione si suppone che i benefici derivanti dal progetto in questione possano essere goduti individualmente. Frey ipotizza il caso in cui si chiede all'intervistato quanto sarebbe disposto a pagare per salvare gli uccelli, che altrimenti morirebbero a causa di un mancato intervento ecologico. Se l'intervistato risponde una certa cifra, ciò dovrebbe significare o che egli ha effettivamente pagato quella cifra, e le perdite dovute agli uccelli periti risultano, sulla base delle preferenze individuali, del tutto risanate, o che egli è pronto ad effettuare immediatamente il pagamento dichiarato.. Scrive Sen che "è duro immaginare che questa domanda e la risposta possono essere prese seriamente in considerazione, poiché lo stato che la persona è invitata ad immaginare potrebbe risultare non vero". Verosimilmente, se la persona ha realmente ritenuto che quella cifra avrebbe potuto eliminare il danno individuale (per esempio sulla sua proprietà privata), allora la sua dichiarazione potrebbe non rappresentare una scelta irrazionale. Ma se ariche solo un intervistato sceglie in modo irrazionale (perché non percepisce lo stato immaginario che si propone), allora l'intero approccio di risposte individuali per valutare un bene potrebbe risultare sbagliato. Secondo Frey, il criterio della valutazione contingente potrebbe aver senso solo quando è applicato alla salvaguardia, per esempio di un bene culturale, che si ottiene tramite uno sforzo congiunto, e il pagamento individuale è il contributo a quel fine. Secondo Sen tre assunzioni appaiono necessarie affinché questo criterio sia congruente: a) coloro che rispondono all'indagine pagano immediatamente ciò che hanno dichiarato; b) il totale dei contributi individuali sono utilizzati esclusivamente per il progetto oggetto di valutazione; c) gli intervistati non badano se versano i propri contributi insieme agli altri oppure pagano sulla base di una stima del proprio individuale beneficio. Se quest'ultima assunzione apparisse necessaria, allora, il criterio della valu119


tazione contingente sarebbe inidoneo per tutti quei progetti che non prevedono benefici individuali. Se la stessa assunzione, al contrario, potesse essere rimossa, gli intervistati sarebbero interessati a sapere la disponibilità a pagare degli altri e sorgerebbe il noto problema del già citato free rider. CONCLUSIONI

Sebbene in modo estremamente sintetico, abbiamo illustrato i principali criteri di determinazione del valore dei beni culturali. Siamo partiti da quello più antico, il prezzo edonico, e abbiamo poi descritto quello più diffuso del costo del viaggio per terminare con quello più ambizioso, la valutazione contingente, tendente a catturare il valore di esistenza del bene. Abbiamo constatato l'esistenza di molte limitazioni alla validità di questi criteri, comprensivi del metodo della valutazione contingente. Si potrebbe continuare. Per esempio, affinché possa ritenersi giustificata l'intervista, bisogna accertarsi che l'intervistato non si trovi in condizioni di asimmetrie informative. Se, ad esempio, oggetto dell'intervista è il progetto di conservazione di una antica statua romana soggetta agli agenti atmosferici inquinanti (come è stato il caso della statua equestre del Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio a Roma), l'intervistato non solo deve essere consapevole di come l'intervento di tutela modifica lo stato attuale della statua (o lo lascia nelle condizioni date) ma anche della modifica in assenza dell'intervento. Sembrerebbero conoscenze possedute solo da esperti. Per esempio, nel caso della Cappella Sistina una cosciente valutazione presuppone una conoscenza di storia dell'arte con specifica specializzazione nelle opere del Michelangelo, che è difficile supporre possieda il normale intervistato (sono state molte le polemiche sulla tecnica del restauro, sul recupero del colore originario, se lasciare qualche "braca" come testimonianza del senso del pudore di un epoca, ecc.). Come abbiamo già riferito, l'intervistato deve inoltre essere consapevole del beneficio individuale che può derivare dall'intervento. Questo beneficio individuale può anche essere di tipo altruista o dettato dalla convinzione dell'intervistato del valore di esistenza del bene, che poi costituisce l'obiettivo del criterio della valutazione contingente. Tuttavia, se è possibile immaginare che numerosi intervistati, italiani e stranieri, siano a conoscenza del Giudizio Universale e della sua valenza artistica e storica è difficile immaginare altrettanto se l'intervista riguarda la conservazione e la tutela del Mausoleo di Giulio 11 pur realizzato dallo stesso Michelangelo. Ancor più complesso se oggetto dell'intervista fosse la conservazione di un bene culturale poco noto ma di 120


elevata rilevanza storica ed artistica come potrebbe esserla uno smalto del Della Robbia in una chiesa sperduta nella campagna toscana. L'Europa è piena di esempi. Lintervista dovrebbe rivolgersi al raro visitatore e il risultato generalizzato, inserendolo nei benefici dell'eventuale studio di fattibilità o, in una situazione un po' astratta, utilizzato come base di calcolo del contributo che si intende richiedere ad una popolazione più vasta del campione casuale intervistato, anche perché solitamente i contributi individuali degli intervistati non sono sufficienti a coprire i costi dell'intervento progettato. Ne discende che per coloro che pagano il contributo senza essere stati intervistati, la nuova situazione si caratterizza per l'esistenza di una nuova imposta, coercitiva. Non si comprende, quindi, la legittimità della presunzione che la dichiarazione degli intervistati coincida con il meccanismo di scelta pubblica. Sarebbe allora più opportuno un referendum, riguardante lo specifico progetto. Ma qui torniamo al problema delle asimmetrie informative, oltre al ricordato free rider e ad un altro che possiamo definire effetto di spiiover. Infatti, affinché la decisione del referendum possa definirsi efficiente, oltre la solita assunzione di piena informazione degli elettori, v'è da assumere che i benefici del progetto ricadano unicamente nella località specifica. E difficile accettare l'idea che i beni culturali non rappresentino un patrimonio per l'umanità (Unesco) e che la nostra scelta non produca effetti sulle generazioni future. Se la scelta pubblica rischia di essere determinata da un casuale campione di intervistati, con il fine di stabilire un valore virtuale di un bene culturale, allora appare preferibile che la scelta venga effettuata dai policy makers con l'ausilio delle informazioni tecniche fornite dagli esperti di settore. Certo, quest'ultimo meccanismo è coerente con la sovranità del consumatore (preferenze individuali) solo se si può assumere che i cittadini ritengano che il meccanismo di scelta pubblica sia giusto e quindi accettano, singolarmente, la eventualità che programmi pubblici siano contrari ai loro interessi, perché è questo il prezzo da pagare per ottenere in cambio, dagli altri, programmi che li avvantaggian0 27 Questo meccanismo richiama il concetto di bene di merito e non è privo di difetti, soprattutto per il rischio che le decisioni pubbliche discendano dalle preferenze di gruppi di pressione che svolgono il ruolo ufficiale di tecnici esperti. In conclusione è forse il caso di ricordare Joan Robinson, la grande economista di Cambridge nata giusto un secolo fa. Anche sugli argomenti qui sinteticamente trattati ci avrebbe probabilmente suggerito di fare le pulizie di primavera, "buttar via tutte le proposizioni contraddittorie, le quantità non misurabili e i concetti indefinibili e ricostruire una base logica per l'analisi con quello che, se esiste, rimane" 28 .

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I Si veda l'ultimo numero monografico della «Rivista di Politica Economica», interamente dedicato a Il ruolo delle imprese nella cultura, VoI. V-VI 2003. 2 Penso a Baumol, Blaug, Peacock dei quali si può citare a mò di esempio: BAUMOL WJ., Eco-

nomics of the Athenian Drama, Its Relevance for the Arts in Smail Cities Today, «Quarterly Journal of Economic.s», 1971; BLAUC M., The Economic of the Arts, Robertson, London 1976; PEACOCK A., Pubiic Patronage and Music: An Economist's View, «Three anks Review»x, 1968. 3 BATOR P.M., The Internationai Trade in Art, University of Chicago press, Chicago 1982. ' MUSGRAVE R.A., Meriti Goods, in EATWELL J., MILGATE M., NEWMEN P. (eds.), The New Palgrave's Dictionary ofEconomics, 1987. Definito per la prima volta da Krutilla J.V., Conservation Reco nsidered, «American Economic Review», 57, Sept. 1967. 6 STIGLER G.J., BECKER G.S., De Gustibus non est Disputandum, «Americ Economic Review», 68, may 1978 È la dizione che si legge nella più nota e importante legge italiana emanata nel '900, riguardante la tutela e la conservazione dei beni culturali (L. 1497 del 1939). 8 11 riferimento più diffuso è a SAMUELSON P., "The pure theory of public expenditure", «Review of Economics and Statistics», 1954. READY RC., NAVRUD S., Methodsfor vaiuing cultural heritage, in Ready R.C., Navrud S.(edited by), Valuing Cultura! Heritage, Edward EIgar, Cheltenham, 2002. IO Mi sia consentito tralasciare questo punto e rinviare a Di MAI0 A., ROSTIROLLA P., Tecniche e supporti per la selezione dei progetti di investimento, Nuval, Roma, 2002. I Ho scritto altrove che il più delle volte non è condivisibile l'enfasi con la quale viene evidenziata la positiva relazione tra valorizzazione dei beni culturali e sviluppo economico. Cfr. A. Di MAio, Una interpretazione economica della deregolazione della PA. Il caso dei beni culturali, in IANNOTTA L., Economia, diritto e politica 122

nell'amministrazione di risultato, G. Giappichelli, Torino, 2003, pp. 125.138. 12 Guida all'analisi costi-benefici dei grandi progetti, nel contesto delle politiche regionali della CE, Edizione 1997. 13 GRILICHES Z. (ed. by), Price Indexes and Quality Change, Harvard Un iv. Press, 1971; RoSEN S., Hedonic Prices and Implicit Markets: Products Differentiation in Perfect Competition, «Journal of Politica! Economy», 1974. 4 Le prime applicazioni, hanno riguardato giustappunto la valutazione delle abitazioni. Dilmore prima e Shenkel poi, hanno tentato di scomporre il prezzo delle abitazioni nelle sue componenti implicite, senza tuttavia associare questa scomposizione alla stima della disponibilità a pagare. Cfr. DILMORE G., Multiple Regression Analysis as an approach to Value, in «The Appraisal Journal», July 1972; SHENKEL W.M., Property Tax Assessment by Computer: Agricuiturai Land Valuation, in «Assessors Journal», Apri! 1974. 15 Ai fini del presente lavoro, non credo occorra citare e descrivere i particolari analitici dei diversi criteri di applicazione. Basta forse ricordare che il modello di stima più noto e diffuso è stato quello suggerito da Rosen (Hedonic Prices and Implicit Markets: Product Differentiation in Pure Competition, in «Journal of Politica! Economy», 82, 1974) che si basa sull'ipotesi che ciascun attributo che incide sulla determinazione del prezzo è rappresentato da una variabile continua. L'ipotesi è, per evidenti motivi (ad esempio, variazione nel continuo del numero di vani o di balconi!) irrealistica e si sono adoperati, pertanto, modelli a scelta discreta. 16 Per una rassegna si veda GRAVES PE,, AESTET1CS, in Braden J.B., Kolstad C.D. (eds.), Measuring the demandfor environmental qualiiy, North-Holland, Amsterdam 1991. 17 Questo criterio è stato adoperato per la prima volta da CLAWSON M., Methods ofMeasuring the Demand for and Values of Outdoor Recreation, "Resources for the Future Reprint", 1959, prendendo spunto dell'idea oroginale


espressa da HOTELLING H., The Economics ofPublic Recreation, National Park Service, Washington (Dc), Us Dept. oflnterior, 1949. 18 Anche con riferimento al criterio del costo del viaggio, la letteratura, soprattutto empirica, è numerosa. Con riferimento alla prima impostazione, cito per tutti, Bp,owN W.G., NAVAS E,

Impact ofaggregation on the estimation ofoutdoor recreation demandJisnctions, in «American Journal of Agricultural Economics», n. 55, 1973 mentre per la seconda impostazione mi limito a citare Mov E.R., Two Rums uncloacked: nested logit models ofsite choice and nested logit models ofpartecipation and site choice, in HERR!GES J.A., KLING C.L. (eds.), Valuing the environment using recreation demand models, Edwar Elgar, Aldershot. 19 HIRSCHMAN AO., Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2003, p: 38. 20 Il settore iniziale di riferimento è quello dell'ambiente. Il primo contributo è da attribuire a CIRIACY-WANTRUP S.W., Capital Returns from Soil Conservation Practices, in «Journal of Farm Economics», 1947. I primi esperimenti sono dovuti a DAvis R., The Value ofBid Game Hunting in a Private Forest, Transactions of Twentyninth North American Wildlife Natural Resources Conference, 1964. 21 Cfr. Per tutti, CARSON R.T., FLORES NE., MARTIN K.M., WRIGHT J.L., Contingent Valua-

tion ana' revealed preference methodologies: comparing the estimates for quasi-public goods, in «Land Economics», february 1996. 22 HOEHN J.P, RANDALL A., A Satisfactory Benejìt Cost Indicator from Contingent Valuation, Journal ofEnvironmental Economics and Management, 1987 23 BISHOP R.C., CHAMP RA., MULLARKEY D.J., Contingent Valuation, in BROMLEY D.B. (ed.), The Handbook of Environmental Economics, Blackwell, Cambridge (Ma), 1995. 24 HANEMANN W.M., Welfare Evaluations in Contingent Valuations Experiments with Discrete Responses, «American Journal of Agricultural Economics», 66, 1984. 25 Fiuy B.S., The Evaluation of Cultural Heritage: Some Critical Issues, in HUUER M., Rizzo I. (ed.), Economics Perspectives on Cultural Heritage, St. Martin Press, New York, 1997. 26 SEN A.K., Environmental Evaluation and Social Choice: Contingent Valuation and Market Analogy, «The Japanese Economic Review», 1995. 27 LITTLECH!LD S.C. e WISEMAN J., The Political Economy ofRestriction of Choice, «Public Choice», 2, 1986. 28 ROBINSON J.V., Spring Cleaning, in Feiwel G.R., Issues in Contemporary Ivlicroeconomics and Welfare, London, McMillan, 1985, p. 393 dell'edizione italiana.

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rubriche

Segnalazioni CD-Rom,

QUESTE ISTITUZIONI -

30 anni

Questa volta non si può far finta di nulla. Anche se il direttore, i redattori e i tanti e diversi collaboratori sono accomunati dal medesimo distacco per ogni tipo di retorica, il traguardo dei trent'anni deve essere ben considerato. Il numero zero di queste istituzioni veniva pubblicato infatti nell'autunno del '73, per poi uscire con [varia] periodicità dal 1974. Una rivista di cultura e dibattito istituzionale volutamente "altra" rispetto alle sue "vicine" di scaffale. Il linguaggio, innanzitutto. Per quanto possibile. Non il saggio accademico per addetti ai lavori, ma neppure la scelta atecnica e semplicistica di tante sintesi giornalistiche. Il linguaggio e lo stile di un "sapere per fare": di articoli e saggi pensati e scritti per un dibattito in corso, per ipotesi di lavoro e di intervento. Un linguaggio orientato, quindi, alla ricerca come proposta e supporto all'azione, di cui Sergio Ristuccia è promotore e imprenditore. I temi. Le istituzioni, certo: ma non soltanto quelle pubbliche, poiché l'analisi ha sempre più maggiormente toccato le istituzioni economiche, produttive e del non proLit, nel senso della institutionals ecorlomics.

Le politiche pubbliche: della ricerca, dell'energia, dei servizi per la comunità e il territorio, del welfare, del decentramento. Gli scenari: l'Europa innanzitutto. Ma non quella dei dibattiti dottrinari, l'Europa che deve avvenire. Queste istituzioni ha sempre voluto parlare dell'Unione che c'è, dei suoi concreti sviluppi, delle sue criticità: credendo nell'Europa quale costruzione paziente. E i rapporti tra questa Europa e gli Stati Uniti, il demos occidentale e le sue trasformazioni. Tutti gli articoli apparsi in 30 anni sono inseriti nel Cd-Rom "Queste Istituzioni 30 anni) che è al tempo stesso, un momento di celebrazione e uno strumento di lavoro. Il CD - Rom realizzato grazie alla collaborazione del CSS - Consiglio italiano per le Scienze Sociali viene inviato gratuitamente a tutti gli abbonati e a chi effettuerà un nuovo abbonamento, mentre chi lo richiederà separatamente pagherà un prezzo di 20 euro. Non vogliamo negano: è una grande soddisfazione aver superato la linea dei 30 anni. E con questo CD vogliamo ringraziare i moltissimi Autori che sono intervenuti sulla rivista. Ma vogliamo pensare che questo supporto multimediale potrà anche costituire un 125


importante mezzo di documentazione. Ancora più utile nella persistenza di un vuoto di dibattito istituzionale così ben evidenziato da Vincenzo Spaziante - con la consueta lucidità e con un forte spirito partecipativo quale "storico" collaboratore della rivista nella sua testimonianza scritta nel "Festschrift" per Sergio Ristuccia. "In realtà, di dibattiti politici che abbiano ad oggetto strategie reali, fatti concreti, opzioni tra diverse direzioni da prendere, si è persa da noi anche la memoria. Il confronto politico e culturale o si accende su questioni che più hanno a vedere con la psicologia, personale o sociale, che con questioni di qualche concretezza, o divampa con modalità da spettacolo truculento e gladiatorio, più simile alla plateale e fittizia brutalità del wrestling che alla nobile arte della boxe. È questo forse il dato che mi colpisce maggiormente della situazione italiana di oggi, e che maggiormente mi preoccupa, perché la chiusura degli spazi e delle possibilità di confronto, di approfondimento, di discussione anche accesa, ma costruita su una condivisa consapevolezza dell'importanza delle soluzioni migliori, nelle scelte che riguardano tutti, e su un comune senso di responsabilità, si è fatta via via più grave, sino ad arrivare oggi ad una atrofia di pensiero costruttivo mai sperimentata nella nostra storia precedente. Il processo decisionale, il percorso cioè di costruzione delle scelte che riguardano la collettività, le sue modalità di convivenza, i modi del suo trasformarsi, del suo mutare organizzazione ed assetti, intervenendo sui problemi e i nodi di oggi per disegnare percorsi futuri condivisibili, sembra essersi ridotto ad un passivo adeguamento a condi126

zioni esterne, a vincoli di varia natura imposti dall'esterno, dal mercato, dalle istituzioni sovranazionali, individuati ed insieme confusi, a mo' di giustificazione, con l'elastica ed eterogenea categoria degli effetti della globalizzazione. Ciò che resta alla politica nazionale sembra essere vissuto con la sola logica della spartizione di quanto rimane a disposizione, di ciò che la globalizzazione non ha sottratto. Ovvio che un tale orientamento sembri terreno privilegiato più per la disputa tra gruppi e fazioni che per il confronto tra progetti politici diversi. Diventata spettacolo la politica, resi spettatori i cittadini e gli elettori, divisi tra pochi veramente appassionati al genere ed una quantità crescente di delusi, annoiati e distratti, le "alte scuole" si sciolgono, scompaiono i maestri ed anche i critici si ritrovano sempre più spesso a parlare da soli, o a confrontarsi più con gruppi di amici sempre più ristretti che con un pubblico ampio. Le istituzioni, gli apparati pubblici patiscono di riflesso queste trasformazioni. Meccanismi, procedure, istituzioni, criteri di validazione e di giudizio sembrano rimasti quegli stessi che si basavano su un sapere politico-amministrativo tramandato, appreso con fatica, migliorato in un lavoro continuo, collettivo, paziente; ma i fatti si svolgono in modo diverso, i funzionamenti si son fatti aleatori ed ambigui, fino a compromettere la possibilità stessa di un tale sapere. Le soluzioni non sono più costruite ed affinate in un costante gioco di squadra, ma inventate di volta in volta o magari crossate all'improvviso tra i piedi dei giocatori da una qualche società di consulenza esterna, o da qualche corpo estraneo troppo precipitosamente calato in una realtà difficile e difficile da capire, che come prima


cosa si mette a riscrivere formule di gioco nulla conoscendo delle squadre in campo e poco sapendo dello stesso campo di gioco, dell'aria e della polvere che vi si respirano, della terra che c'è da mangiare per acquistare riconosciuta autorevolezza. Chi lavora nelle istituzioni finisce, in questo contesto, o per alzare bandiera bianca ed arrendersi, cercando di convincersi di aver pagato il suo debito verso se stesso con quanto già fatto, oppure si intigna, opera dove si trova come da una trincea, vietandosi di pensare se e come il suo operato, il suo studio, la sua coerenza possano far parte di un progetto condiviso o almeno condivisibile. Il numero degli interlocutori si restringe, ci si abitua alla scarsità del confronto, del dibattito, della collaborazione come all'aria pesante di una metropoli in-

quinata, che non impedisce di vivere ma costringe ad una maggior fatica ad ogni respiro". Il messaggio è chiaro: le ragioni ideali che stavano e stanno dietro l'avventura di Queste Istituzioni costituiscono ancora oggi una parte necessaria del patrimonio, sia pure terremotato e sconnesso, della cultura pubblica del nostro Paese e mantengono inalterata la capacità di convincere e reclutare, per motivazioni e con spinte forse ancora più forti che all'inizio, altre persone, nuove generazioni, nuove leve.

Il gruppo dei curatori del CD

Massimo Ribaudo Francesco Di Majo Emanuele Maria Lanfranchi

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Francesco Perrini.' Emanuele Teti

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Innovazione, strategie, organizzazione, tecnologie, comunicazione per la Pubblica Amministraz

N° 7/8

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Servizi ObbOCI, localí e cOoperative sOciali 2-:

Manuale per lavorare insieme Cosaè Una guida basata su casi reali, completa di nominativi e indirizzari per sviluppare nuové opportunità di lavoro e di risparmio Cosa contiene I risultati di una indagine sul campo, riflessioni di studiosi, tstmonianze di operatori. . su come stabilire collaborazioni di successo

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A chi serve Amministratori e direttòri di imprese pubbliche locali .Presidenti responsabili e soci di cooperative; a chi è interessato a promuovere la collaborazione tra mercato. e solidarietà sociale. . Péfàzio ødi Chicco Testa Introduzione di Renato Strada.

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Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali Il CSS è un'associazione con personalità giuridica - ONLUS. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, negli anni Sessanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finaiizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più effìcci. Il CSS rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il CSS associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 4 commissioni di studio sui seguenti temi: fondazioni italiane; sviluppo locale in Italia; relazioni intergenerazionali; valutazione dell'attività di ricerca. Da ricordare l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche in Europa. Presidente: SERGIO RISTUCCIA Vice Presidente: ARNALDO BAG NASCO Comitato Direttivo: SERGIO RISTUCCIA (Presidente),

PIERO AMERIO, PIERO BASSET-

TI, GIOVANNI BECHELLONI, MARIO CACIAGLI, ANTONIO DI MAJO, CLOTILDE PONTECORVO, GUIDO MARIO REY, CARLA ROSSI, UGO TRIVELLATO.

Collegio dei Revisori:

BRUNO GIMPEL

(Presidente),

MARCO COLANTONIO, ALBERTO

MAZZE!.

Segretario generale: ALESSANDRO SILJ Vice Segretario generale: NICOLA CREPAx

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LA COLLANA MAGGIOLI - QUESTE ISTITUZIONI Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, € 15,50 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, € 21,70 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. Siof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, € 19,63 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'Unità ai nostri giorni, pp. 455, 1995, € 30,00 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, € 19,63 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit, pp. 324, 1996, € 24,80.

LA COLLANA MARSILIO - RISTUCCIA ADVISORS Daniele Archibugi, Giuseppe Ciccarone, Mauro Maré, Bernardo Pizzetti, Flaminia Violati - Advisory Commission on Intergovernmental Relations Il triangolo dei servizi pubblici, pp. 235, 2000, € 19,63 Sergio Ristuccia Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle fondazioni, pp. 181, 2000, € 12,91 Antonio Saenz de Miera L'azzurro del puzzle. Fondazioni e terzo settore in Spagna, pp. 289, 2003, € 23,00 Giancarlo Salvemini (a cura di) I guardiani del bilancio. Una norma importante ma di difficile applicazione: l'articolo 81 della Costituzione, pp. 161, 2003, € 12,91


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