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iueste istittiziotii Anno )OO(Vll n. 158-159

Redazione Direttore: S1:Rc;IO RisTuccIA Condirettore: AN'I'oNIo DI MAJO Vice Direttore: GIOVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVERIA ADD0TTA Comitato di redazione: CARLA BAssu, FABIO BIscoTTI, ROSALBA CoRI, ELINA DE SIMONE, FwkNcEsco DI MAJO, ALESSANDRO HINNA, CLAUDIA LOPEDOTE, GIorGIO PAGANO, PIER LUiGI PETRILLO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAIJDO, CLAUDIA SENSI, LUIGI TRETOLA, V\LERIA VALISERRA, FRANCESCO VELO, DONATELLA VI5cOGLIOSI, STEFANIA ZUCCOLOTTO.

Collaboratori ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GLkNFRANCO BETTIN LATTES, ENRiCO CANIGLIA, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVIII B0GI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARTO CACIAGLI, CARLO CHIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO Dl: FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARI,o D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILVIO GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LA CAVA, SIMoN LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ArL1: MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, WALTER N0CIT0, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, OLIVIERO PESCE, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIIO MARIO REY, GIANNI RIOITA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, EIrn1zIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, FRANCESCO SIDOTI, ALESSANDRO SILJ, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, GIANLUIGI TOSATO, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA ZOPPINI Hanno collaborato: UMBERTO SERAFINI, FEDERICO SPANTIG,VFI, TIZIANO TERZANI

Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00193 Roma Tel. 06.68136085 - Fax 06.68134167 E-mail: quesire@quesire.ir - www.questeistituzioni.it Periodico iscritto al registro della stampa dei Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972)

Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: Arti Grafiche sri - Pomezia (Roma) Chiuso in tipografia: 20 gennaio 2011 Foto di copertina: "Istanbul 2011" di Mario Di Carlo Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

indice III VII

Avant-garde Sud La politica ai tempi della trasparenza 2.0.

taccuino 1

Dalla pubblicità elettorale al diritto alle armi. Dove va la Corte Suprema USA? Carla Bassu

10

Statistiche come e perché. Come decidere per il futuro? A proposito di un volume di Alberto Zuliani .TVlassimo De Felice

Urai

Il Terzo settore in epoca di grande crisi Saveria Addotta

26

La finanza pubblica italiana di fronte alla riforma del Patto di stabilità e crescita Giuseppe Pisauro

Iiu'agenda di "atteilziolle e consapevolezza" per il futuro prossimo 37

42

58

La crisi, il futuro, e i "giovani" Laura Balbo Contro la politica della paura: deliberazione, inclusione ed economia politica della fiducia Albena Azmanova Campi disorganizzati. Cùltura, creatività, nuove professioni, social welfare Paolo Perulli


La buona organizzazione pubblica 69

Così è se vi pare: a proposito di pubblica amministrazione Gilberto Capano

78

Eventi straordinari e governo ordinario delle città. Ricordando il Giubileo del 2000 Luigi Zanda

85

Continuare i commissariamenti delle aree archeologiche? Gioia Chilini

iliviste e dibattito politico (parlando di noi) 93

Consumo culturale ed evoluzione neo-tribale delle società di massa Roberto Basso

98

Ipertelia tecnica e riviste culturali. Brevi note semiologiche Claudia Lopedote

103

Le riviste politico-culturali/o SHs (Social and Human Sciences) e la "coda lunga" della comunicazione Rosario Garra

Fondazioni: conio produrre, sul serio, beni sociali 121

Frnanziamenti istituzionali o finanziamenti a progetto? A proposito del Rapporto della GE0 Alessandro Silj

125

Fondazioni di origine pubblica Ilaria Lucaroni

136

Le Fondazioni Comunitarie in Italia: sviluppo e tendenze Mariana Fra nzon ed Elisabetta Pezzi

on c,e Sud senza Nord. Non c,'e Nord senza Sud '

161

La liberazione del Mezzogiorno e l'Unità nazionale di Rosario Villari

182

Conversazione sul Sud Italia a 150 anni dall'Unità nazionale. Sette domande a Francesco Pigliaru Gianfranco Viesti (A cura di Claudia Lopedote)


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queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

e(IitOIiale

vnt-grde Sud

on c'è interesse per il Mezzogiorno. Nord e Sud si fronteggiano in un dibattito nazionale divenuto ormai miserabile, con i suoi "giudizi sommari e pregiudizi volgari". Trattato come un aggregato geografico e umano a sé, il Sud è muto. Nell'impasse di decidere se parlare per difendersi dalla pubblicistica antimeridionalista (con rilanci grotteschi e contributi stanchi al revisionismo storico) o per reagire contro lo stato immobile delle cose, si consolida l'arretramento del dibattito nazionale sulle politiche di sviluppo. La mistificazione della percezione del Mezzogiorno, che poi è espulsione radicale di questioni che invece sono nazionali, costituisce un grave fattore di ritardo nella messa a punto di azioni, politiche e strategie di sviluppo per il Paese. Con l'aggravante della crisi. I cittadini delle Regioni del Sud sono spesso chiamati ad una coscrizione obbligatoria nella lotta alla criminalità organizzata, alla mala sanità, alle clientele, al malgoverno, invocando diritti e doveri di fatto inesistenti perché non più e non già esigibili. Mentre i pubblici poteri, a tutti i livelli, stanno a guardare. A parte la delega - a fasi alterne - alle forze dellbrdine ed ai magistrati della DIA nella lotta alla criminalità organizzata, la mancanza di anticorpi istituzionali in grado di sostenere i processi sociali dal basso è totale o quasi.

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Le radici classiste della subordinazione Nord-Sud nel discorso pubblico costruito ad hoc da fonti male assortite e, come sempre, bene accreditate presso le pubbliche suggestioni - in assenza di pubbliche opinioni vigili - sono quelle che già Gramsci aveva individuato dietro la sovrapposizione della questione del brigantaggio con l'intera questione meridionale. Ieri i briganti, oggi la criminalità organizzata e i rifiuti di Napoli. Il silenzio della politica nel fragore della stampa e dei discorsi da bar smarrisce il senso e l'urgenza delle risposte necessarie e degli strumenti da predisporre, anche ai fini delle riforme in senso federale. III


E il tema dello sviluppo economico e civile italiano. In quanti hanno capito che la questione meridionale è il fronte avanzato nella lettura e nella lotta contro quelle che Tonino Perna (il manifesto, 7 ottobre 2010) chiama "le borghesie mafiose", sedute nei Consigli di amministrazione, in Parlamento, nelle istituzioni e nelle Banche, capaci di essere locali e globali? "Perché chi pensa che i/problema del Sud sia la spazzatura di Napoli non ha capito che i rifiuti sono la punta dell'iceberg grande quanto l'intero Paese, ovvero l'esito - evidente - di una trama di relazioni, poteri, crimini che si muove in continuità da Napoli a Milano, da Reggio Calabria a Padova." Sono questi i temi ed i problemi del Paese, dei quali il Sud è avanguardia suo malgrado, lasciato a presidiare e difendere un territorio assente nelle scelte di politiche pubbliche e strategie nazionali. E avanguardia in primo luogo nella coscienza dei suoi cittadini che "lavorano quotidianamente per costruire una coscienza civile, una alternativa di mercato, una lotta senza quartiere a questa nuova classe dominante... Perché di questo si tratta: 'ndrangheta, mafia e camorra non costituiscono il cancro di un sistema sano, ma il braccio armato di una classe sociale emergente che sta conquistando tutto il Paese." Ed è avanguardia nel disegno di nuovo sviluppo nazionale attraverso ed oltre la crisi. A patto che ci si convinca che per uscirne con nuove punte di avanzamento non basta difendere (e come?) le ormai deboli rendite di posizione in settori sempre più esposti alla competizione globale ed all'innovazione (è il caso delle industrie automobilistica e manifatturiera). Occorre investire in nuovi settori, nuove risorse, nuovi territori. In primo luogo, come più volte affermato da Adriano Giannola (Presidente SvIMEz), significa fare delle aree ai margini dell'economia e del lavoro attrattori di risorse. Quindi, scelte strategiche come quelle che negli anni cinquanta ponevano il Sud al centro di riforme di struttura. Nel 1952, con Alcide De Gasperi al Governo, ci fu la prima legge sui Sassi di Matera e fu un uomo politico ed imprenditore sui generis come Adriano Olivetti a farsi interprete del cambiamento. Olivetti che, non a caso, nella prima metà degli anni cinquanta portò la fabbrica a Pozzuoli. Il suo discorso inaugurale ai lavoratori (23 aprile 1955) è un programma straordinario per "un periodo nuovo nella restaurazione del Mezzogiorno" e per l"unità morale e materiale tra Nord e Sud". Oggi restano soltanto compromessi istituzionali mediocri ed estemporanei. Senza respiro. Gli amministratori e i politici locali che l'hanno compreso sono riusciti ad intervenire, seppure con esiti parziali, declinando i problemi in termini di welfare, servizi, diritti, infrastrutture. Occupandosi di lavoro e investimenti. Che competano con quelli della malavita e dell'illegalità. Servono soprattutto classi dirigenti capaci e lungimiranti, resistenti ai discorsi nei quali Franco Cassano vede ormai i sintomi di un male italiano, "la sindrome di MarchionIV


ne": quello che non funziona e non piace più si getta via. Così il Mezzogior no oggi non interessa perché è cambiato il suo rapporto con il Nord, con lo sviluppo industriale del Paese. Sono cambiate le convenienze. O la capacità di intenderle e leggerle in prospettiva. Questa dislessia del contesto si riflette pesantemente anche sui discorsi in materia di federalismo. Occorre essere cauti e schietti. Senza demagogismo e senza censurare i fattori di contesto che sono le condizioni reali e immateriali di realizzazione delle politiche territoriali. I dati vanno letti in filigrana, nelle pieghe delle leggi e delle misure, dal federalismo demaniale ai criteri di compartecipazione all'IVA, dall'attuazione della competizione fiscale all'IRAP e gli indici di sopravvivenza delle industrie, fino ai diritti sociali ed ai livelli essenziali dei servizi. Altrimenti, è difficile vedere realizzarsi le condizioni affermate - correttamente - da chi confida nelle virtù del ciclo risorse-governo-responsabilità-outcome. Perché, se anche politici e amministratori locali massimizzassero ed accorciassero il ciclo dell'apprendimento e della messa in opera di un tale processo, e gli output assoluti fossero buoni (difficile, viste le esigenze di recupero e ripristino), non avrebbero margini di legittimazione in termini di outcome. In un panorama politico di folle volubilità in cui è ragionevole cercare una continuità di presenza e di azione. Cassano, richiamando il saggio di James O'Connor "La crisifiscale dello Stato", sottolinea che, quando non dispongono allo stesso tempo di risorse per l'accumulazione e di risorse per la legittimazione, le classi dirigenti - soprattutto locali - si trovano di fronte ad un dilemma tragico. E devono scegliere. Che cosa sceglieranno? Consenso o sviluppo? Dipenderà dai margini di azione che saranno dati loro, non soltanto in termini di risorse - si badi attentamente - ma anche e soprattutto in termini di sostenibilità e sviluppo dei territori che si governano. Come sempre, è difficile valutare le risorse e le capacità. Ma ancora di più le potenzialità, quando ci si preoccupa del baratto per il consenso quotidiano. Converrebbe riandare alla lezione di Gaetano Salvemini sull'importanza del federalismo per responsabilizzare le classi dirigenti meridionali. Ma la fatica di studiare e verificare la consistenza delle soluzioni è rifuggita a priori. Meglio la propaganda degli slogan. Occorre allora capovolgere la logica delle politiche di sviluppo territoriali, facendole convergere attorno ad un'ampia strategia nazionale, per liberare risorse e riavviare i processi. E quello che dice Banca d'Italia e che non si lasciano sfuggire anche le dieci proposte del Rapporto 2010 di Italiadecide ("L'Italia che c'è. Le reti territoriali per l'unità e per la crescita"). L'unità nazionale, quindi, come condizione cruciale e chance per la competitività e la crescita del Paese. Il che non significa, pare ovvio, smarrire l'orizzonte dell'Europa, punto e parametro di riferimento che attraversa ormai tutti i territori. O del Mediter-

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raneo, della Cina, di ogni altro possibile interlocutore e partner (geopolitico, economico, culturale). E come sarebbe possibile? C'è anche quello. Anche. Non a prescindere. Ma non ha senso ancorare - con la falsa testimonianza della globalizzazione - un qualunque territorio nazionale all'Europa, illudendosi di saltare il fosso a piè pari. Ogni comunità locale, ogni territorio circoscritto si definisce relazionalmente ad altri. Quello che il glocalismo dice ai meno inesperti è che in queste relazioni (non soltanto spaziali, ma primariamente tali) esiste una progressività piuttosto lineare, magari non gerarchica è questa la novità, non certo nuove categorie cui si applica tutt'al più un'accelerazione - ma in qualche modo propedeutica di una parte rispetto all'altra e rispetto al tutto, un contesto che non è mai inerte o insignificante. E questione di geografia che è scalare come la politica che la governa ed amministra. La questione della rappresentazione politica è un campo di riflessione ed esercitazione che dovrebbe bastare a tenere queste opinioniimpressioni impegnate per un po'. Alain Touraine rovescia la prospettiva dipingendo uno Stato nazionale sempre più "debole su/piano delle relazioni transnazionali, e sempre più presente e determinante quanto a ruolo politico, vale a dire non rivolto verso l'economia globale ma verso il proprio interno. Cosa produrre, come distribuire, che scuola promuovere, come curare, che ricerca fare. Stiamo assistendo all'agonia di trent'anni di neoliberismo puro e duro: che si vuole di più per convincerci del ruolo positivo dello Stato ?" (Alfabeta2). L'Europa come progetto è essa stessa in difficoltà in gran parte per questa immutabilità della materia dei territori dei suoi Stati membri. Attenti, quindi, a non fare dell'Europa un campo radiale verso il quale si indirizzerebbero istanze e relazioni di parti che non fanno sistema tra di loro, con uno Stato che dovrebbe cedere la responsabilità dello sviluppo all'interno del suo territorio. Che cos'è, l'evoluzione della delocalizzazione civile e sociale? E infatti, le suggestioni di quanti pensano costruzioni di vario tipo (politicoistituzionali, economico-commerciali, antropologiche e sociali finanche!) di decomposizione nazionale oggi non sono più solo frutto di visioni localistiche ideologiche, ma soprattutto di una spinta a salvare il salvabile, ciascuno il proprio. E la difesa di interessi e aspirazioni locali che fa "tana libera tutti". F'ingendosi multinazionali delle cittadinanze multiple sì ma selezionate, vincenti in quanto - dice Eric Hobsbawm - slegate dalla costrizione delle istanze plurime e casuali che affollano il campo di azione: è "l'egoismo collettivo" come metodo di trattazione dei confini e dei conflitti. A corto di soluzioni, ma non di fantasia. Sempre nella versione rodata - talvolta inconsapevole - dei (più) ricchi contro i (più) poveri. Salvo poi scoprire che l'asfissia dei vicini è la propria, quella ad esempio - dei mercati di sbocco delle merci e dei capitali che si volevano attrarre. La glocalizzazione qui c'è, eccome. Se Sparta piange Atene non ride.

C.L. 'j1


La politica ai teMpi della traspareilza 2.0

ikiLeaks sta per fuga di notizie planetaria e massiva. In tre anni, sono stati pubblicati più documenti di quanti ne abbiano mai prodottiitutte le agenzie ed i mass media mondiali messi insieme. Non è finita qui. Già nel nome, la piattaforma 'VVeb incensurabile riprende esplicitamente un modello celeberrimo, quello di Wikipedia. E questo l'aspetto - organizzativo prima che tecnologico - così macroscopico e determinante, che i tanti commentatori e detrattori di WikiLeaks spesso mancano di considerare. Quando cercano l'uomo, la faccia dietro l'impresa. Quando si meravigliano del supporto entusiasta e trasversale che questa stessa incontra nel mondo. Quando si interrogano, con studiata malizia, su chi paga i conti. Un aspetto, quest'ultimo, certamente capitale e delicato - non soltanto nel campo dei media tradizionali e della stampa in particolare - per il quale il modello 'Wikipedia è la risposta. E di questi giorni la notizia che l'enciclopedia Web, a dieci anni dalla sua fondazione, ha raccolto in soli cinquanta giorni oltre sedici milioni di euro, con (piccole) sottoscrizioni di massa provenienti da cinquecentomila sostenitori di 140 Paesi nel mondo, garantendosi ancora piena autonomia e indipendenza da inserzionisti e altre sponsorizzazioni. E da censura ed autocensura diligente. Così anche WikiLeaks, che nel solo 2007 ha raccolto oltre duecentomila dollari: "New funding model for journalism: try doing it for a change" (J. Assange,Twitter, 7 aprile 2006). Soltanto che WikiLeaks non è - mutatis mutandis - l'equivalente di Wikipedia nel campo giornalistico, poiché qui vi è, rispetto al giornalismo tradizionale, un'operazione qualitativamente assai differente, un salto radicale nel modo di intendere e praticare il mestiere. Un salto che fortemente interpella l'idea di democrazia. Perché fa affidamento sulle intelligenze, la curiosità e le potenzialità delle comunità di cittadini. Che ricambiano la fiducia con donazioni piccole e grandi (George Soros e il suo Open Institute). Coesistono senza dubbio aspetti complessi e variegati di matrice ideologica e finanche carismatica, - questi ultimi legati alla figura del fondatore Julian Assange - ma WikiLeaks è in primo luogo un'impresa mediale. "A power factor in the new media landscape", ha detto qualcuno. Non tradizionale per gli aspetti tecnici e tecnologici, e per la tipologia di finanziamento (si tratta, in breve, di una innovativa piattaforma tecnologicamente trasparente per il cd. whistleblowing: il Sito Web riceve i leak attraverso una dropbox, una casella VII


di posta onhine che garantisce l'anonimato. E pubblica direttamente il materiale selezionato). Ma, soprattutto, per la capacità di gestione ed organizzazione dei flussi di informazione, non episodici bensì programmati, strutturati e sapientemente strutturati quanto a tempi, fonti, canali. Ad ogni modo, non è certamente un unicum, né il primo nel suo genere. Certamente non è differente dai media tradizionali nell'attività svolta. Soltanto la fa bene. Non siamo ancora giunti al giudizio di valore. Guardiamo ai risultati: capacità di raccolta di informazioni e di costruzione dello scoop, coinvolgimento degli altri media (la stampa cartacea tradizionale) per amplificare l'effetto della notizia (The Guardian, The New York Times, Der Spiegel, Ei Pais e, a cascata, tutta la stampa mondiale), pubblici raggiunti e mobilitazione - formazione - delle opinioni pubbliche mondiali, definizione delle agende pubbliche. I risultati conseguiti lungo le dimensioni di efficienza ed efficacia esterna sono inediti e strabilianti. Massimo impatto per un'impresa di incomparabile successo. Quanti sanno che, al di là delle ultime rivelazioni sulla guerra in Afghanistan e sulla diplomazia mondiale (conosciuti anch'essi superficialmente e indirettamente, nelle trascrizioni parziali, selezionate, della stampa nazionale), WikiLeaks ha realizzato scoop e importanti servizi letti poi sulle pagine dei quotidiani di tutto il mondo? Tutti targati WikiLeaks: Collateral Murder, dove i soldati americani a Baghdad sparano da un elicottero Apache sui civili ed uccidono dieci persone, tra cui un giornalista Reuters e il padre di famiglia fermatosi a prestare soccorso, con i due figli in auto, feriti gravemente dai colpi (mitragliatori usati per perforare i mezzi blindati); i segreti di Scientology; le torture a Guantanamo; le responsabilità nel fallimento delle banche islandesi; i massacri in Kenya. Ilprogetto di WikiLeaks è ambizioso. Si rifà alla tradizione del giornalismo "watchdog" americano (la cui altra faccia è l'advocacy su istanza dei cittadini), secondo il quale l'occhio vigile della stampa sulle azioni di chi esercita un potere (economico, politico, istituzionale, etc.) innesca un circolo virtuoso, per il quale l'alto livello di attenzione funziona da deterrente a comportamenti opportunistici ed illegali, alla corruzione, con un progressivo miglioramento dell'etica pubblica e privata, in un processo di apprendimento che si completa con l'interiorizzazione di norme e valori. E attraverso attente investigazioni e adeguate riforme sistemiche. Un portentoso fenomeno di coscienza civile grandangolare. Siamo di fronte ad una lezione e ad una pratica di democrazia, quella che esige dibattito informato e non soltanto pulsioni propagandistiche. E per chi non se ne fosse accorto, gli sconfitti non sono soltanto i protagonisti dei documenti resi pubblici, ma anche i colpevoli assenti: i giornalisti ed i media taciti o distratti. Il messaggio è forte e chiaro. E tornato il Quarto Potere, lungamente celebrato soltanto al cinema. A sorprendere e inquietare i poteri costituiti è la non abitudine ad una prossimità dei media vitale ed avversariale, incontrollabile ed VIII


incensurabile. E spiace che anche l'arguto e spiritoso Jacques Sèguela sia caduto nel tranello di archiviare 'VVikiLeaks alla voce "Julian Assange, l'avatar della nostra cyber società". Perché non sono le agiografie a spiegare il fenomeno WikiLeaks. Non si tratta di ostilità strutturale verso la politica ed il potere come qualcuno ha cercato di liquidare la faccenda parlando con grande superficialità di sintomo dell'antipolitica. Se poi il disvelamento della malapolitica, delle derive dell'economia, degli abusi in generale - quello che Assange definisce "the ecosystem of corruption" - è fattore di indebolimento della legittimazione tradizionale di governi ed altre istituzioni, ciò dipende dalle cose non dal fatto di disvelarle. A parte l'accertamento sempre doveroso della fondatezza delle informazioni. La colpa è dunque di WikiLeaks? Così pensa il Congresso americano che sta esaminando lo Shield bill per emendare l'Espionage Act del 1917 perché, in violazione del Primo Emendamento, sia punito chiunque pubblichi ("in any manner prejudicial to the safety or interest of the United States") informazioni coperte da segreto ma non più segrete, a seguito di fughe di notizie delle quali egli/ella non è responsabile. Suona familiare? Geoffrey R. Stone ("Hearing on the Espionage Act and the Legal and Constitutional Issues Raised by WikiLeaks". Committee on the Judiciary, United States House of Representatives. December 16, 2010) - seguendo la giurisprudenza della Corte Suprema americana dal 1919 (Schenk v. United States; Whitney v. California, 1927) al 2001 (Bartnicki v. Vopper) - ha dedicato parole avvedute al fraintendimento di fondo nel bilanciamento nella tutela di beni garantiti: l'interesse della nazione, l'interesse della collettività, la libertà di espressione. "First, the merefact that such information might'prejudice the interest ofthe United States' does not mean that harm outweighs the benefit ofpublication. The disclosure ofsome classfied information may be extremely valuable to public debate... Second, the reasons why government officials want secrecy,for example, are many and varied. They rangefrom the truly compeiing to the patently illegitimate." E sulla libertà di espressione: "What it (the First Amendment) does not do is allow the government to suppress the free speech of others when it has fai/ed to keep its own secrets... the need for a simple ruleforpublic employees has nothing to do with the rights of others who wouldpublish the information or the needs ofthepublicfor an informedpublic discourse. And under ordinary First Amendment standards, those who wish to disseminate such information have the right to do so... In the entire history of the United States, the government has neverprosecuted anyone (other than a government employee)forpublicly disseminating such information" Non siamo di fronte alla distopia di Lumet, il cinico e indifferente Quinto Potere. E più utile, se si vuole comprendere, guardare ad esempi affini di Ix


buon giornalismo civico, fatto da professionisti in grado di usare ed interpellare le fonti, che spesso mostrano quanto è già noto (o ampiamente sospettato). WikiLeaks costruisce giorno per giorno, e ormai da cinque anni, un archivio sterminato di documenti, informazioni e testimonianze che qualcuno studierà o sta già studiando. La storiografia ha nuove fonti, fumate, virgolettate e certificate (sulle pagine di The Australian, Assange l'ha chiamato "Scientific journalism": it allows you to read a news story, then to click onune to the original document it is based on. That way you can judge for yourself. Is the story true? Did the journalist report it accurate?"). Un caso di successo di una visione del mondo che ha influenza diretta sui fatti e sulle cose. Senza il Premio Time "Person of the Year" al suo fondatore Julian Assange, WikiLeaks ha comunque segnato la differenza. E non soltanto nel 2010.

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queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

taccuillo

Dalla pubblicità elettorale al diritto alle armi. Dove va la torte Snprema USO di Carla Bassu

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a sempre ago della bilancia nella dinamica costituzionale degli Stati Uniti, recentemente Sua Maestà la Corte Suprema si è espressa con pronunciamenti che hanno acceso il dibattito, facendo marcare sopracciglia bipartisan. In un momento di delicato assestamento politico, segnato dal difficile avvio della presidenza Obama e dalla risposta elettorale delle votazioni di mid-term appena concluse, il ruolo dei magnifici nove Justices di Washingthon si rivela più che mai determinante. In particolare, si registra il considerevole peso politico di alcune decisioni assunte nel 2010, riguardanti aspetti cruciali per l'impianto dei diritti e delle prerogative individuali. Il clamore con cui tali sentenze sono state accolte è proporzionale al tasso di innovatività delle determinazioni e talora anche alla sorpresa di fronte a prese di posizione inattese.

Dapprima, una controversa pronuncia che rimuove i limiti alla possibilità di finanziamento elettorale da parte dei grandi attori economici scuote la scena politica e dà origine a un dibattito in ordine alle priorità dellrdinamento rispetto ai diritti di opinione e ai rischi di un'eccessiva ingerenza dell'economia nel processo di legittimazione istituzionale. La Corte di Washington conquista poi la ribalta mediatica internazionale quando decide di estendere a tutto il territorio nazionale il diritto a possedere e portare con sé armi, in ottemperanza a un'interpretazione letterale del secondo emendamento. Ancora con riferimento al rapporto tra colossi imprenditoriali e diritti dei singoli si registra una sentenza che penalizza i piccoli azionisti (.Tt/Iorrison v. NationalAustralian Bank) ed è destinata a far discutere perché coinvolge, per esempio, anche la British Petro-

L'autrice è ricercatore di Diritto Pubblico nell'Università di Sassari.


leum favorendola nel contenzioso prodotto in seguito alle responsabilità acclarate nel disastro ecologico nel Golfo del Messico. Da ultimo, si segnala una decisione che interviene in senso restrittivo sul dettato del primo emendamento, sancendo il primato delle esigenze di pubblica sicurezza legate alla minaccia del terrorismo rispetto alle libertà di manifestazione del pensiero (Humanitarian Law Project v. Ho/der). Una vecchia storia, evidentemente sempre attuale. Non è facile interpretare in senso univoco le scelte intraprese dai giudici della Corte in ambiti tanto diversi eppure accomunati dalla rilevanza politica. In questa sede si intende analizzare la ratio e le conseguenze di sentenze destinate a fare scuola e a esercitare un impatto significativo nella vita pubblica e privata degli americani. Il fine è quello di cogliere le ragioni dei giudici supremi, indagando in ordine al significato profondo di pronunce che esprimono lo spirito dei tempi nel primo anno dell'era Obama. Poteri economici e garanzie elettorali Con la decisione del caso United Citizens v. Federal Election Commission (FEc), del 21 gennaio 2010, la Corte Suprema ha posto una pietra miliare nella determinazione del rapporto tra potere economico e realtà istituzionale. Una pietra miliare, intendiamo, in senso negativo. Ronald Dworkin, "professor of Law and Philosophy" nell'Università di New York ha parlato di "decisione MO

devastante" che "minaccia la democrazia degli Stati Uniti" (v. "The New York Review of Books", n. 25, febbraio-10 marzo 2010 e n. 13-26 maggio 2010). Quella tra economia e politica è una relazione complessa e fondata su un fragile assetto di equilibri che rende particolarmente sottile la linea che separa un legame legittimo da uno illecito. Specialmente negli Stati Uniti, la pressione esercitata dall'establishment economico sul decisore pubblico costituisce una realtà evidente che si associa all'influenza delle rappresentanze sindacali, dell'associazionismo civile e delle organizzazioni non governative. L'intervento della Corte ha rimosso i limiti dalla normativa statunitense rispetto alla possibilità in capo alle corporazioni di finanziare in modo diretto o per vie traverse l'elezione di un ufficiale pubblico. Con cinque voti contro quattro i giudici supremi esprimono la volontà di rimuovere tale preclusione, dando luce a uno scenario in cui la commistione tra c» orporazioni e politica avviene alla luce del sole e costituisce la regola più che l'eccezione. La Corte, cambiando la propria giurisprudenza anche recente, argomenta la propria decisione basandosi su un ragionamento che prevede l'assimilazione delle mulfinazionali e delle potenze economiche in genere con i privati cittadini, titolari del diritto di supportare anche economicamente la formazione politica o il candidato di fiducia. "Dal momento che il primo emendamento stabilisce che il Congresso


non può adottare leggi che prevedano restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero", si legge nella sentenza, i limiti posti alla possibilità di finanziamento di campagne politiche da parte di imprese od organizzazioni indipendenti rappresenta una violazione indebita della libertà di parola, perseguibile penalmente. Secondo la Corte dunque i diritti di opinione, rappresentando un meccanismo essenziale per l'affermazione della democrazia, devono sempre essere considerati prevalenti rispetto alla normativa che intende impedirne la piena espressione, sia con previsioni esplicite che indirettamente. Con riferimento al sistema di finanziamento della politica negli Stati Uniti vige una tradizionale distinzione tra i fondi erogati a favore di un partito politico e finalizzati alla realizzazione di un evento specifico o a sostenere una determinata proposta di legge (soft money) e quelli destinati a un candidato specifico per sponsorizzarne, nel vero senso della parola, l'elezione (hard money). I vincoli previsti dalla normativa riguardavano in realtà soltanto questa seconda prospettiva, almeno fino al 2001 quando lo scandalo seguito alla bancarotta della multinazionale dell'energia Enron (tra i più munifici finanziatori del partito repubblicano) spinge il Congresso a occuparsi della questione. Nel 2002, su proposta trasversale presentata dal democratico Feingold e dal futuro sfidante repubblicano di Obama, McCain, viene adottato il Bzpartisan Campaign Finance Act, che prevede un irrigidi-

mento dei vincoli previsti per la soft money, escludendo sostanzialmente l'erogazione di hard money e limitando in questo modo significativamente l'attività dei gruppi di pressione. La genesi della nuova normativa è stata fortemente influenzata dalla condizione emotiva determinata dal caso Enron, che ha scosso la cittadinanza attirando l'attenzione sul peso effettivo esercitato dai poteri forti sulle decisioni politiche. L'intenzione è dunque quella di circoscrivere lo spazio di influenza delle lobbies, favorendo un ripristino del potere di scelta agli elettori. Tale obiettivo viene però vanificato dall'intervento della Corte Suprema che sancisce l'incostituzionalità del Bipartisan Campaign Finance Act, giudicato lesivo del primo emendamento. Per la maggioranza (repubblicana) della Corte, dunque, i finanziamenti privati ai partiti (a prescindere dall'entità) non costituiscono in minima misura una forma di distorsione del processo democratico ma, al contrario, rappresentano un elemento propulsore della libertà politica. Di tutt'altro parere è il Presidente Obama, che non esita a definire la sentenza un colpo alla democrazia, rivendicando con orgoglio la propria azione anticorporativa, che ha trovato forma concreta nel divieto di assunzione di ex lobbisti tra le fila del governo e nella pubblicazione dell'elenco di tutti i visitatori della Casa Bianca. Nel marzo 2010, la Corte d'appello del distretto di Columbia stabilisce che, sulla base di quanto determinato nella sentenza United Citizens, non 3


è più possibile imporre limiti all'importo dei contributi versati ai comitati indipendenti istituiti al fine di sostenere un candidato o, d'altra parte, a osteggiare l'elezione di un altro. Prima dell'intervento della Corte, era previsto un tetto di spesa, pari a 69.900 dollari che potevano essere versati ogni due anni; tale limite oggi non è più contemplato e sia i singoli individui che le imprese potranno versare somme illimitate in campagna elettorale e non solo. Si apre così un fronte che vede schierati su parte avverse il potere esecutivo, forte della legittimazione popolare diretta e artefice determinante l'indirizzo politico del paese, e un asse - transitorio ma estremamente potente - composto dai colossi della scena economica e dalla maggioranza dei giudici della Corte Suprema. La questione, dunque, da giuridica diventa squisitamente politica e il perno delle argomentazioni delle parti in causa diventa la concezione della dimensione democratica, l'individuazione del limite oltre il quale l'influsso delle forze economiche sui processi decisionali da legittima perorazione di interessi deriva in plutocrazia. In che modo la figura classica del self made man, elemento cardinale nell'iconografia dell'America delle opportunità, può conciliarsi con lo strapotere del denaro e della forza corporativa nell'ottenere tutela dei propri interessi in un contesto ad armi pari? Quale deve essere il ruolo dello Stato rispetto a tali forze in tensione tra loro?

la

Per evitare che i magnati del big business acquistino un'influenza tale da penalizzare gli interessi dei common men and women è necessario prima di tutto un intervento di matrice culturale. Occorre spazzare via lo spettro del socialismo che ha appannato l'aura di Barak Obama durante la campagna elettorale e che ancora aleggia, destando i sospetti dell'America più profonda e tradizionalista che teme ancora l'avvento di un'onda rossa che metta a repentaglio il capitalismo. Si dovrebbe insomma immettere nel sistema un'iniezione di costituzionalismo ricordando alla cittadinanza il valore prioritario dei principi di uguaglianza e non discriminazione, le libertà civili e i diritti politici che hanno ispirato i padri fondatori della grande democrazia statunitense. Davide non deve arrendersi a Golia bensì far valere nei confronti del gigante il testo della Costituzione del 1787 che contiene lo spirito egualitario e garantista del popoio americano. Se il Congresso raccogliesse l'input di Obama, intervenendo per ripristinare i vincoli ai finanziamenti alla politica rimossi con sentenza, si produrrebbe un conflitto tra potere esecutivo e giudiziario che, storicamente, si è risolto più spesso a favore della Corte Suprema. Peraltro, l'esito delle elezioni di midterm (favorevole ai Repubblicani) fa presumere quanto arduo sarà il compito presidenziale di vedere accolta l'istanza di riconsiderare un argomento già liquidato dalla Corte con soddisfazione delle forze più conservatrici


giustificano una ponderazione della disciplina legale sull'acquisto e la detenzione di armi da parte degli Stati. Sono questi ultimi, infatti, i Il diritto costituzionale a essere armati soggetti impegnati in prima istanza Secondo quanto prescritto dal secon- nel controllo del possesso e dell'uso do emendamento alla Costituzione delle armi da fuoco sul territorio. La americana "una milizia ben organiz- Corte Suprema chiude il caso, accozata" è funzionale alla sicurezza di gliendo le istanze dell'appellante e uno Stato libero e sulla base di questi negando dunque agli Stati la possibilità di regolare in modo autonomo il presupposti si fonda il diritto a detepossesso delle armi nell'ambito delle nere e portare con sé armi. Con la sentenza nel caso McDonald giurisdizioni di riferimento. v. Chicago del giugno 20101, la Corte La motivazione della sentenza è chiaSuprema ha stabilito che tale prero- rita dal giudice relatore Samuel Alito, gativa debba ritenersi applicabile non che richiama il precedente District of Columbia v. Heller, affermando che il solo agli organi di governo federale secondo emendamento tutela il diritbensì anche ai singoli Stati. to di possedere un'arma in casa a Anche questa volta si tratta di una scopo di difesa personale e una norma decisione presa a maggioranza in un caso riguardante l'impugnazione di del Bill of Rights che garantisce un diritto ritenuto fondamentale alla luce unbrdinanza della città di Chicago, in Iffinois, che sanciva il divieto del del dettato della Costituzione federale deve essere applicata analogamente possesso delle armi da fuoco. La preal governo centrale e agli Stati. clusione è stata dapprima confermaIn risposta alla pronuncia della Corte, ta dalla Corte d'Appello del Settimo Circuito che aveva riscontrato il il 2 luglio 2010, la città di Chicago mancato intervento chiarificatore approva con voto unanime un'altra della Corte Suprema rispetto all'in- ordinanza che stabilisce una nuova disciplina del possesso delle armi da corporazione del secondo emendamento nella clausola del due process of fuoco sul territorio cittadino. In ragione della rinnovata normativa, chiunque law di cui al quattordicesimo emendamento e, dunque, in merito all'ap- sia in possesso di un'arma da fuoco è obbligato a tenerla all'interno delle plicabiità in ambito statale. mura della propria abitazione: è fatto Secondo quando sostenuto dal ricordivieto portare le armi anche solo in rente, il diritto a essere armati si qualifica come fondamentale per ogni giardino, nel garage o nel patio di casa. singolo individuo e non può per que- Vengono inoltre introdotti obblighi sto essere leso né limitato dagli Stati. burocratici e limiti in virtù dei quali D'altra parte, a parere della Città di non è possibile immatricolare più di Chicago le esigenze locali legate alla un'arma al mese e la registrazione deve salvaguardia della pubblica sicurezza essere rinnovata ogni tre anni.

che oggi incontrano il consenso della maggioranza degli elettori americani.

5


Come visto in relazione a United Citizens v. Federal Elecrion Commission, anche questa causa vede una netta contrapposizione tra giudici di tendenza liberale e conservatori, che rende esplicito e di tutta evidenza la valenza politica sottostante la decisione. Iltema è scottante: le stime rivelano che negli Stati Uniti muoiono quotidianamente ottantaquattro persone, trentaquattro delle quali per omicidio e in questo dato non può trascurarsi la facilità nel reperimento delle armi favorita da legislazioni permissive. Eventi di cronaca eclatanti come quello raccontato da Michael Moore nel documentario Bow/ing ai' Columbine evidenziano inoltre la spinosa questione dell'accesso alle armi da parte dei minori, considerata dalle istanze territoriali come elemento determinante la decisione di applicare discipline restrittive. I dati rivelano che gli USA sono il Paese che presenta il maggior numero di detentori di armi da fuoco nel mondo: ben novanta milioni di persone sono in possesso di più di duecento milioni di armi. Aspre critiche sono state rivolte alla sentenza da parte delle compagini sociali più sensibili al tema della violenza nella realtà statunitense; tra tutte spicca la dichiarazione di Kristen Rand, direttore del Violence Policy Center, secondo la quale "morirà altra gente per colpa di questa decisione". Del tutto diversa è stata l'accoglienza riservata alla pronuncia dalle potenti lobbies delle armi, che hanno espresso piena soddisfazione rispetto a una decisione

r.

che - secondo un comunicato della National RfZe Association - rappresenta "un grande momento nella storia americana Anche qui non si può fare a meno di notare che sono i portatori di interessi economici a trarre i maggiori vantaggi da una decisione del massimo grado di giustizia USA. Corte Suprema: stili the ieast dangerous branch? In un sistema democratico, la possibilità di manifestare interessi individuali e collettivi e di presentare istanze alla politica per ottenerne la tutela deve essere assicurata e garantita come un diritto fondamentale, funzionale a una sana e corretta dinamica democratica. Legittime sono, dunque, le richieste di considerazione da parte dei portatori di interessi specifici che attirano l'attenzione del decisore pubblico ma la capacità di pressione esercitabile da gruppi organizzati e sostenuti dalla forza del denaro può determinare la penalizzazione di voci meno allettanti per la politica sempre bisognosa di risorse, ma non per questo meno meritevoli di credito. Assimilando le grandi lobbies ai privati cittadini, considerati alla pari titolari del diritto di sostenere anche con mezzi finanziari i propri candidati, la Corte Suprema non vede o fa finta di non vedere l'enorme distanza che separa le due categorie di soggetti, nemmeno paragonabili per quanto riguarda la possibilità di esercitare la propria influenza sui meccanismi decisionali.


Un duro colpo al principio di trasparenza è stato poi assestato alcuni mesi fa dalla bocciatura, in Senato, della proposta di legge relativa al "Disclose Ad' che prevedeva lbbbligo in capo agli sponsor industriali di campagne pubblicitarie di rendere pubblica la propria identità non nascondendosi più dietro a realtà associative dalla denominazione solo apparentemente inoffensiva quali "Americansfor America Se avesse sortito buon esito, la proposta di cui sopra avrebbe inoltre vietato il finanziamento di spot politici da parte di filiali statunitensi di società straniere impedendo, per esempio, a colossi industriali quali la British Petroleum di agire direttamente sul fronte americano. Il riferimento alla BP non è casuale dal momento che, nonostante il disastro causato nel Golfo del Messico dalla marea nera riversata in mare da uno dei pozzi della società, questa continua a esercitare una forte influenza sugli attori politici americani destinatari di ingenti flussi di finanziamento provenienti dalle casse della multinazionale del petrolio. In virtù della giurisprudenza della Corte Suprema, da ora in poi, la BP - al pari degli altri colossi dell'economia mondiale - è libera di spendere somme illimitate per sovvenzionare can-didature di soggetti che saranno presumibilmente gravati da un debito di riconoscenza. Si tratta di un'evidenza che non può essere messa in discussione in quanto tale, ma che si presta a una riflessione più ampia, riguardante il concetto

profondo di democrazia e gli strumenti di tutela ammissibili per la salvaguardia della stessa. In una società complessa quale quella contemporanea non è possibile escludere forme di dialogo e comunicazione tra portatori di interessi particolari e rappresentanti politici, tuttavia non si può transigere in ordine alla necessità di impedire la prevaricazione degli interessi di alcuni sul bene collettivo. Le attività dei gruppi di pressione e le commistioni tra economia e politica non presuppongono necessariamente situazioni patologiche e per evitare che l'influenza del potere della borsa pesi eccessivamente sui processi decisionali di un ordinamento è indispensabile definire percorsi trasparenti, lungo i quali far correre le relazioni tra istanze economiche e politiche. L'articolato assetto di checks and ba/ances cratterizzante la struttura costituzionale americana fa ben sperare in ordine a una risoluzione equilibrata di un conflitto tra poteri derivante da una opposta visione del ruolo dello Stato nella vita dei singoli e della politica in generale. Non sarà facile però trovare un punto di incontro in una materia così delicata, che tocca nel vivo interessi estremamente importanti per entrambe le parti. Solo un intervento neutrale, tarato dalle influenze di coinvolgimento diretto può servire a regolare con obiettiva misura un campo minato quale quello dei gruppi di pressione. La difficoltà aumenta esponenzialmente quando i soggetti chiamati a decidere sono anche parti in causa e lo sforzo di astrarre la propria 7


condizione personale dagli interessi contingenti rende il compito improbo. Nel caso specifico la posta in gioco è data dalla salvaguardia dei meccanismi democratici messi a repentaglio da un eccessiva ingerenza dei poteri forti; il valore sul piatto è troppo alto perchè si possa cedere a valutazioni legate al proprio tornaconto. Per quanto ardua sia la prova, gli esponenti dei tre poteri fondamentali sono chiamati ad affrontarla, perché i principi della democrazia non possono essere lasciati in balia delle regole del mercato. Detto questo, restano gli interrogativi sulle linee di tendenza di una Corte Suprema che, almeno da quanto si evince dalla lettura combinata delle ultime sentenze, esprime un orientamento conservatore che cozza con il programma politico delineato dalla attuale Presidenza. Gli scenari che potranno affermarsi nel futuro sono diversi e dipendono anche da aspetti concreti quali la eventuale nomina da parte del democratico Obama di nuovi giudici supremi. Questa possibilità determinerebbe un cambiamento negli equilibri della Corte spostando, presumibilmente, l'ago della bilancia a favore di un approccio liberal aljudicial review. Se invece l'assetto politico della Corte dovesse rimanere immutato anche nei prossimi anni e se la maggioranza dei giudici confermasse il favor al modello dei repubblicani lo scontro sarà inevitabile.

V. CORTE SUPREMA USA, McDonald v. Chicago, 28

giugno 2010

Allo stato dei fatti, non è possibile dare una risposta certa al quesito che rappresenta il presupposto di questo lavoro, ovvero: dove va la Corte Suprema USA? Tuttavia, pur in mancanza di una premonitrice sfera di cristallo, si può intuire che l'azione della Corte non renderà più facile l'avanzamento del tragitto della politica Obama ma, al contrario contribuirà a far sorgere ostacoli che si aggiungeranno a quelli posti da un Congresso non più conforme ai colori presidenziali. Prendendo in prestito la felice intuizione del Chief Justice Rehnquist si può concludere che, se la Corte Suprema resta senz'altro il meno pericoloso tra i titolari dei tre poteri dello Stato, è tutt'altro che una forza innocua e solo un bilancio compiuto alla fine del mandato Obama consentirà di valutare il peso effettivo dei nove di Washington.

Ne/prossimo numero della rivista sarà pubblicata la traduzione della "dissenting opinion" del Justice Stevens, il decano liberal della Corte Suprema che, novantenne, ha recentemente lasciato la Corte. La sua opinione dissenziente costituisce il legato principale che lascia nel contesto di una democrazia sottoposta aforti tensioni.


Note bibliografiche S. L. BLOCH, V. C. JACKSON, T. G. K1TTENMAKER, Inside the Supreme Court: the

institution and its procedures, St. Paul (Mmnesota), 2008. S. G. BREYER, L'interpretazione costituzionale della Corte Suprema degli Stati Uniti, Editoriale scientifica, Napoli 2007. P. L. PETRILLO, N. Di Paio, Gruppi dipressione e ambiente, ovvero come i gruppi di pres-

sione incidono sulle decisioni in materia ambientale nell'Unione Europea e negli Stati Uniti d'America, in M. Carli, M. Cecchetti, T. Groppi, G. Carpani (a cura di), Governance ambientale e politiche normative. L'attuazione de/Protocollo di Kyoto, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 65 1-700. W. H. REHNQUIST, The Supreme Court, New York 2002.


queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

Statistiche come e perché. Come decidereer il futuro? proposito di 1111 volume di Agerto Zuliani di Massimo De Felice

I

l libro di Alberto Zuliani su "Statistiche come e perché. A cosa servono, come si usano" (Donzelli editore, 2010) è un libro pratico. Evoca nell'impostazione e nello stile i manuali Hoepli, che ebbero successo all'inizio del '900 come strumenti per imparare e per fare, scritti "in forma del tutto spedita ed atta a un pubblico [ ... ] vasto", come guida alla conoscenza curiosa. Insegna il "saper leggere" i dati statistici, fornisce qualche direttiva e qualche indicazione per la saggia lettura di numeri, tabelle e grafici, suggerisce qualche diffidenza, qualche precauzione.

Avvertenze per l'uso personale Si inizia con 6 "avvertenze per l'uso personale" delle statistiche, con gli antidoti per fronteggiare le ambiguità nei numeri e per non cadere nei tranelli dell'informazione bugiarda: non dare troppa fiducia alle rappre-

sentazioni grafiche (se non si può guardare ai dati che le hanno generate); leggere sempre le note che dicono come i dati sono stati rilevati e calcolati; avere in mente altri dati di riferimento (per verificare col buon senso la ragionevolezza dell'informazione proposta); non accettare diagnosi su problemi complessi basate su un solo dato (per capire la realtà non si possono prendere scorciatoie); di fronte a un dato porsi domande e cercare quadrature; diffidare di dati che sostengono la pubblicità (di prodotti). Segue una guida ai sistemi delle informazioni pubbliche (sul come i dati vengono raccolti, quali requisiti di qualità debbono soddisfare, a quali indirizzi web puntare per navigare tra i "database" delle statistiche ufficiali). Sul resto del libro il lettore può costruire itinerari di lettura non sequenziale ; si guardano e si discutono i dati, "per problemi": l'invecchiamento della popolazione; il

L'autore è professore ordinario di Matematica Finanziaria, Facoltà di Scienze Statistiche, dell'Università di Roma "La Sapienza".

iEs


lavoro, la disoccupazione e la povertà (assoluta e relativa); l'inflazione (effettiva e percepita); come si misura il Prodotto interno lordo; l'economia sommersa e l'evasione fiscale; i limiti dell'Auditel, le stime di ascolto e gli spazi pubblicitari; pensioni e rendimenti della previdenza complementare; la spesa pro-capite per la "febbre del gioco"; immigrazione e criminalità; matrimoni e divorzi; il problema del parto cesareo; propensione alla lettura di libri e quotidiani; capacità matematiche degli studenti e graduatorie sui "doing business indicators"; e anche gli indici di benessere, qualità della vita, felicità. Tecniche, fonti, teoria e storia

Le note e i "box ftiori testo" forniscono rimandi alle tecniche e alle fonti, alla teoria e alla storia; conferiscono spessore alle argomentazioni: i pareri di Goffredo Achenwall e Cesare Correnti sulle finalità della statistica (strumento per descrivere come gli Stati "sono realmente", "arma meno logora e spuntata delle lamentazioni storiche e degli anatemi poetici" contro il potere); l"appetito" di Napoleone per i dati del suo Bureau de statistique, e le attenzioni di Churchill; le basi statistiche e l'apparato tecnologico e organizzativo dell'ISTAT (per acquisire, elaborare e rendere disponibili le informazioni); il lavoro di Stiglitz sulla "Knowledge as a Global Public Good"; le critiche al PIL di Robert Kennedy, con i richiami a Kuznets e allo studio recente di Siiglitz, Amartya Sen e Fitoussi ("On

the Measurement of Economic Performance and Social Progress"); il riferimento al bell'articolo sul Corriere della Sera con cui Zuliani rispondeva tecnicamente all"attacco politico" alle stime del PIL e chiedeva che l'indipendenza dell'ISTAT (di cui allora era presidente) "fosse sancita costituzionalmente, perché è un fondamento delle democrazie moderne"; il malvezzo di confondere sondaggi d'opinione e statistiche; i riferimenti tecnici alla metodologia worldmapper (che mostra l'Italia "come non si vede"); il glossario in tema di radiazioni per orientarsi in qualche "statistica ambientale"; la critica d'epoca ai "giochi d'azzardo pubblici , rievocanao ii caso aen ( i-wanti. che (a fine '800) non pubblicava i risultati delle estrazioni del lotto, e che quando finì per farlo titolò la pagina "tassa sugli imbecilli". Il lettore resta coinvolto; scopre che la statistica fornisce modi nuovi e spesso inattesi per comprendere catalogare e "dimensionare" molti fatti di tutti i giorni; si riconosce attore imprevisto di fenomeni che considerava estranei (molti di quei numeri parlano anche di lui, e della sua famiglia e del suo collocamento nel "gruppo"). Ma alla fine della lettura, pur avendo molto imparato, si rimane - positivamente insoddisfatti - con una domanda. Fotografato con le statistiche il presente (e il passato), come decidere per il fttturo? i1

i iiA

Conoscere per deliberare

"Conoscere per deliberare" è il titolo 11


di una (famosa) predica inutile di Luigi Einaudi1 . Vi si segnala l'importanza delle "narrazioni e statistiche atte a spiegare acconciamente la situazione odierna", l'importanza di rendere "pubblici, in documenti ufficiali, i dati fondamentali di quella che dovrebbe essere 1 invocata soluzione ; e quindi il pericolo del ragionare "al punto di vista", considerando principi lontani dai dati di fatto, i pericoli dellbttimismo (se infondato) sull'esito delle soluzioni o del pessimismo (se infondato) di "altri [che] pronostica spaventevoli accadimenti". Il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha ripreso il "conoscere per deliberare" come titolo della Lezione per il conferimento della laurea honoris causa in Statistica2 (Università di Padova, 2009), riaffermando l'importanza delle statistiche ufficiali come precauzione verso «una cultura più incline ad apprezzare i grandi affreschi emotivi che la nudità e la realtà del dato". Ha iniettato sostanze tecniche e moderne nella prescrizione di Einaudi: l'importanza della "quantificazione" della politica economica (obiettivo culturale che fu al centro dell'azione di Guido Carli e di Beniamino Andreatta); il rilievo che ha assunto nel tempo il dialogo metodologico tra Banca d'Italia e ISTAT; l'importanza dei micro-dati - perché "oltre alla media, è essenziale conoscere la distribuzione dei fenomeni"e della conoscenza dei contesti locali. C'è anche il riferimento, ma soltanto un accenno, al fatto che "la discussione politica delle proposte in 12

campo acquista il suo pieno significato se è preceduta da una valutazione in primo luogo quantitativa degli scenari e delle alternative che si prospettano", se si utilizzano adeguati "esperimenti concettuali", magari utilizzando "modelli di microsimulazione". Anche Zuliani col titolo del capitolo quarto - su "statistiche per decidere" evoca la prescrizione di Einaudi. Anche qui ci si ferma però alla conoscenza dei fatti, alla fotografia del presente (e del passato) per l'identifi cazione dei fenomeni. Le domande sul futuro restano incombenti. Emblematiche quelle sulle "diverse forme di previdenza complementare" (a p. 131): conviene orientarsi su un fondo chiuso o aperto? Conviene conferire il Tfr alla previdenza complementare oppure no? Conviene ricorrere a forme assicurative individuali? E anche qui ci si può collegare soltanto a un accenno sul come guardare in avanti; a pagina 44 si parla (a proposito delle previsioni sulla popolazione) del "grado di attendibilità delle proiezioni", e (a p. 46) della stima subordinata a "tre varianti del futuro ammontare della popolazione (bassa, media e alta)". Ma di fronte ai "mali dell'ignoto" (gli "evils of uncertainty" come li definisce Marshall nei Princiiiles) c'è bisogno di direttive e indicazioni più precise. Per l'applicazione completa dei passi "prima conoscere, poi discutere, poi deliberare" (che Einaudi riafferma a pagina 6 della sua predica) , è necessario dilatare il perimetro di quella prima conoscenza.


serie di indagini ha mostrato quanto poco "doctors, lawyers, and other professionals" abbiano dimestichezza con Affermato il valore delle statistiche la probabilità. (dati rilevati) come "bene pubblico", - 3) Per tutelare la responsabilità è importante riconoscere (e gestire) democratica ("democratic accountala responsabilità sociale della previsio- bility") e per consentire ai cittadini di ne. Alla capacità di lettura (con preesercitare l"efficient citizenship" è cauzioni) dei dati statistici costruiti essenziale costruire informazioni sulle "storie" va aggiunto lo statistical "trasparenti e oneste" sui rischi (come thinking, il pensare probabilistico. parte fondante del processo di deciPer discutere e deliberare, alla conosion-making, della giustificazione e scenza dei fatti vanno aggiunte infordella credibilità delle decisioni). mazioni "trasparenti e oneste" sulle Le argomentazioni più efficaci che aspettative. Mervyn King propone - su come La tesi è sviluppata nella Lecture di comunicare al pubblico informazioni un altro Governatore di banca cen- sui rischi - riguardano i problemi trale - Mervyn King, Governor of cruciali del sistema pensionistico the Bank of England -, tenuta alla (longevità e inflazione). Il pubblico British Academy nel 2004, che già va abituato a vedere le grandezze del nel titolo scespiriano: "VVhat Fates futuro (che condizioneranno il suo Impose: Facing up to Uncertainty", futuro) rappresentate non da un solo evoca (dall'Henry VT) insidie e inevi- numero, ma da una distribuzione di tabilità del caso. La tesi si può sinte- probabilità, per avere la percezione di tizzare in 3 punti. quanto potranno variare i valori - 1) La discussione consapevole intorno al valore "più probabile", e in ("informed and useful") delle scelte questo modo - con la "variabilità pubbliche richiederebbe di conside- potenziale" - percepire il rischio; i rare in modo adeguato l'incertezza grafici "a ventaglio" (a pagina 29 della per comunicare al pubblico e gestire i Lecture) ripresi dall'Inflation Report rischi (potenziali); invece, nei dibatdella Bank of England - col profilo titi politici (sulla "public policy") "la delle distribuzioni dell'inflazione probabilità è raramente al centro futura - sono un esempio efficace 4 della scena" e i policy-maker non Sono tutte considerazioni che potenresistono alla tentazione di comuni- ziano il ruolo della statistica come care un 'falso senso di certezza". strumento di cittadinanza, cui Zuliani —2) La ritrosia a considerare e comunidedica il primo paragrafo del capitocare adeguatamente i rischi rifiette il lo ottavo (introdotto da un"affermafatto che "molti di noi si sentono a disa- zione piuttosto impegnativa: [ ... ] gio col linguaggio formale della proba- ogni studente che esce dal liceo bilità"; lo statistical thinking rimane dovrebbe conoscere la statistica e il estraneo, o "prono alla confusione"; una calcolo delle probabilità"). "Statistical thinking" e responsabilità sociale della previsione

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Informazioni "trasparenti e oneste" sul futuro

Lesigenza di informazioni "trasparenti e oneste" sui rischi rende anwra più arduo il compito di produrre dati "ufficiali", di riferimento. Non basta tutelare la qualità dei dati di base, è necessario definire e rendere pubbliche e comprensibili "convenzioni efficaci" (le tecniche) che servono per rappresentare le cose ne/futuro. L'impegno è già nei piani di lavoro delle Autorità di vigilanza di settore. La Covip richiede ai fondi pensione di "illustrare all'iscritto l'evoluzione prevista della posizione individuale [ ... ] e l'importo della prestazione attesa al momento del pensionamento", per dare all'aderente ausilio nell"adozione o modifica delle scelte relative al piano pensionistico" 5. Il "Regolamento emittenti" della CONSOB6 richiede che i prospetti informativi sui prodotti finanziari forniscano "la rappresentazione degli scenari probabilistici" del rendimento dell'investimento, per l"illustrazione del rischio di performance". La definizione degli standard di calcolo da seguire non è agevole, per il delicato equilibrio che deve esserci tra semplicità (realizzativa e interpretativa di formule e risultati) e rigore metodologico; lo strumento della "pubblica consultazione" (che assoggetta le proposte di regolamento allo scrutinio degli operatori e della comunità scientifica) non sempre garantisce la sperata correttezza tecnica delle norme definitive 7 C'è inoltre il problema dell"alfabetizzazione" del pubblico sui temi .

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specifici, dell'insegnare a leggere i risultati dell'informativa; ed è anche questo problema davvero "piuttosto impegnativo" (come Zuliani scrive per l'insegnamento - nei licei - di statistica e probabilità). I primi passi sono stati troppo brevi, lenti e inefficaci, a giudicare dagli esiti che si verificano persino nelle aule universitarie: il piano dell'OECD finalizzato all"improving financial literacy" 8 e il progetto per definire le "good practices for enhanced risk awareness and education on insurance issues"9 andrebbero potenziati e perseguiti con maggiore tenacia ed entusiasmo. Il "servizio al pubblico" nel sito della Banca d'Italia su "Educazione finanziaria. Conoscere per decidere" (rivolto "ai cittadini [... per] l'acquisizione di una maggiore consapevolezza dei rischi") può dare la spinta per un'accelerazione 10 .

In attesa, con una speranza

La domanda su "come decidere per il futuro?" è quindi davvero carica di implicazioni. Il lettore "positivamente insoddisfatto", ma che ha molto imparato da questo libro di Zuliani resta in attesa, con una speranza. Che segua presto a questo primo volume un secondo moderno manuale Hoepli - come il primo ricco e efficace -: una guida pratica (dedicata agli Stati, alle istituzioni e agli individui), con indicazioni e precauzioni, sul come farsi un'opinione per scelte individuali consapevoli, per giudicare della policy, per agire coerentemente in condizioni di incertezza, con la statistica insieme alla probabilità.


EiNuui, L., Prediche inutili. Dispensa prima, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1956, pagine 1-12. 2 DlGHI, M., Conoscere per deliberare, Università degli Studi di Padova, Padova, dicembre 2009. KING, M., What Fates Impose: Facing up to Uncertainty, The Eighth British Academy Annua! Lecture, London, 2004. Anche la Banca d'Italia ha ripreso lo stile delle rappresentazioni "distribuzionali"; i dettagli sono in MIANI, SIvIER0, A non-parametric model-based approach to uncertainty and risk analysis of macroeconomic forecasts, Tema di discussione n. 758, April 2010. Covip, Istruzioni per la redazione del "Progetto esemplificativo: stima della pensione complementare", deliberazione del 31 gennaio 2008. 6 C0Ns0B, Modficazioni e integrazioni a/regolamento di attuazione del decreto legislativo 24febbraio 1998, n. 58 concernente la disciplina degli emittenti, adottato con delibero n. 11971 dell4 maggio 1999 e successive modifiche e integrazioni, Deibera n. 16840 del 19 marzo 2009. Un esempio si ha in CASTELLANI G., DE FELICE M.,

MOls.sCONI F., ZAFFARONI, P. L'informativo sulle polizze index-linked. Considerazioni sul "Regolamento emittenti 114od?fiche al/e disposizioni in materia di prospetto relativo all bffrrta pubblica o all'ammissione alla negoziazione di strumentifinanziari in un mercato regolamentato" dffuso dalla CoNsofi il 28 dicembre 2007, Working paper presentato dall'ANIA per la pubblica consultazione del documento CONSOB, febbraio 2008. OECD, Improving Financial Literacy. Ana/ysis oflssues and Policies, Paris, 2005. 9 0ECD, OECD recommendation on good practices for enhanced risk awareness and education on insurance issues, Paris, 2008. 1011 "servizio" è uno dei risultati del "protocollo di intesa in materia di educazione finanziaria" sottoscritto (a giugno 2010) da Banca d'Italia, Consob, Covip, Isvap e Autorità Garante della Concorrenza al fine di predisporre "un portale web comune per presentare in forma organica tutti i materiali educativi e i supporti tecnici già esistenti e curarne il successivo sviluppo".

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queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

11 Terzo settore il epoca di grailde crisi di Saveria Addotta

L

a generosità batte la crisi? A questa domanda ha cercato di rispondere la quarta rilevazione semestrale relativa all'andamento delle donazioni nel nostro Paese a seguito della crisi economica, ("La generosità batte la crisi? Le fonti di finanziamento al Terzo Settore. le donazioni da privati) effettuata dall'Istituto Italiano della Donazione (Im) e presentata il 14 settembre presso la sede del CNEL a Roma - in un incontro organizzato con la partecipazione del Forum Nazionale del Terzo Settore e di Csv net. La rilevazione dell'uD L'Istituto Italiano della Donazione è stato creato nel 2004 con lo scopo di "contribuire con ogni opportuna iniziativa a diffondere tra le organizzazioni senza scopo di lucro comportamenti di eccellenza tramite la correttezza gestionale, la trasparenza e la verificabilità dell'utilizzo delle risorse messe a disposizione per finalità 16

sociali da donatori ed erogatori, sia privati sia pubblici". L'Istituto, quindi: "promuove e favorisce l'adozione da parte delle organizzazioni senza scopo di lucro operanti in Italia della 'Carta della donazione', il primo codice italiano di autoregolamentazione della raccolta fondi nel non profit". Rispetto alla Carta l'lTD monitora periodicamente l'attualità delle disposizioni contenutevi; apporta le modifiche e gli adeguamenti ritenuti necessari; riconosce formalmente, controllandone lbperato nel tempo, soggetti terzi indipendenti che abbiano professionalità adeguata a condurre verifiche sulle organizzazioni senza scopo di lucro che la chiedono di adottare, o che già l'hanno adottata; delibera sulle richieste di adozione, e di rinnovo di adozione; supporta le organizzazioni senza scopo di lucro interessate o già impegnate ad adottarla. L'Istituto, infine, svolge attività di studio e ricerca; organizza iniziative di formazione; promuove ogni altra inizia-


tiva per garantire la qualità delle relazioni tra le organizzazioni senza scopo di lucro, i donatori, i beneficiari, e tutti gli altri soggetti pubblici e privati con cui esse si relazionano. Ad esso hanno aderito diverse organizzazioni di Terzo settore - associazioni, fondazioni, cooperative sociali -, che si occupano di emarginazione sociale, salute e ricerca scientifica e cooperazione internazionale. Nel 2009 l'Istituto ha dato vita all" Osservatorio Im di sostegno a/Non Profit sociale per "sistematizzare l'attività di indagine e studio svolta dal 2006". L'Osservatorio mette a disposizione del Terzo settore italiano dati ed informazioni utili per l'elaborazione delle strategie e l'indirizzamento delle attività di gestione, focalizzando l'attenzione su alcune aree di indagine tra cui: 1) le fonti di finanziamento al non profit in generale ed il mondo delle donazioni in particolare; 2) i comportamenti di grandi donatori ed imprese profit, di fondazioni di origine bancaria, di fondazioni corporate e le risorse da questi messe a disposizione; 3) l'analisi di dati di bilancio e di rendicontazione; 4) gli orientamenti di cittadini ed istituzioni verso il Terzo settore; 5) i trend di miglioramento organizzativo dello stesso. La rilevazione dell'lTD è stata realizzata, attraverso un questionario somministrato via e mail e un sondaggio telefonico, a partire dal 30 giugno fino al 19 luglio 2010. Gli interpellati erano responsabili raccolta fondi, direttori generali e presidenti. Le 104 organizzazioni sono state

selezionate dal data base dell'Istituto considerandone il settore di attività (56 organizzazioni si occupano di cooperazione internazionale, 31 di salute, 14 di emarginazione sociale, 3 di beneficenza); la natura giuridica (sono soprattutto associazioni e ONG) e la dimensione economica: tra le organizzazioni il 10% ha un bilancio al di sotto dei 300.000 euro, il 35% tra i 300.000 e 999.000, il 27% è tra 1 milione e 5 milioni, il 28% al di sopra dei 5 milioni. Le donazioni in tempo di crisi

L'indagine ha rilevato l'andamento delle donazioni nel nostro Paese degli ultimi due anni. I dati riguardano i risultati della raccolta fondi 2009, valutati i dati dei bilanci consuntivi, le stime sui risultati della raccolta fondi effettuata nei primi mesi di quest'anno e le previsioni sull'intera attività di raccolta fondi 2010. Dai dati di bilancio 2009, emerge che il 36% delle organizzazioni non profit perdono in termini di raccolta fondi rispetto al 2008 (il 17% ha diminuito il suo ammontare di raccolta fondi del 15%, il 19% del 5%); il 42% migliora la sua raccolta (il 26% aumenta del 15%, il 16% aumenta del 5%) e il 22% conferma i risultati. Quindi, malgrado la crisi, secondo questa rilevazione, una buona percentuale di organizzazioni migliora la propria raccolta rispetto all'anno precedente anche se aumenta il numero di organizzazioni che peggiora i propri risultati (nel 2008 ave17


vano diminuito la raccolta fondi il 23% delle organizzazioni). Dal confronto tra i dati di bilancio emerge come nel 2009 le raccolte fondi delle organizzazioni del campione hanno presentato dati peggiori: sono infatti aumentate del 13% le organizzazioni che segnalano una contrazione rispetto all'anno precedente, passando appunto dal 23% del 2008 al 36% del 2009. Per quanto riguarda l'analisi per settori di attività (Emarginazione sociale, Salute e ricerca scientifica e Cooperazione internazionale) la rilevazione ha evidenziato che a risentire maggiormente della flessione delle donazioni è il settore Salute e ricerca scientifica quello che nel 2009 ha registrato il 21% delle organizzazioni con performance considerevolmente positive e l'll% di organizzazioni con raccolte considerevolmente negative, segue il settore della Cooperazione internazionale, mentre il settore Emarginazione sociale sembra piuttosto stabile (l'indicatore di miglioramento rispetto ai dati di bilancio 2009 vs 2008 segna un +3, confronto a un - 42 del settore Salute e ricerca scientifica e un - 18 per il settore Cooperazione internazionale). Le aspettative Le previsioni rispetto al secondo semestre dell'anno non appaiono ottimistiche: il 36% delle organizzazioni del campione prevede di peggiorare a fine 2010 i risultati del 2009, anche sulla base delle stime del primo semestre 2010, che sembrano

confermare il trend negativo registrato dai dati di bilancio 2009. Riguardo al futuro aumenta decisamente il numero dei pessimisti: il 93% del campione intervistato ritiene che la crisi si farà ancora sentire, soprattutto per quanto riguarda il settore privato (le donazioni da persone fisiche e aziende) che appare quello maggiormente colpito dalla recessione economica, mentre le fondazioni di origine bancaria sono indicate come il soggetto finanziatore che sembra aver risentito meno della crisi. Alla domanda: "Quali sono i finanziatori maggiormente colpiti?", infatti, il campione ha risposto: i privati (per il 37% degli intervistati), le aziende (per il 34%), la pubblica amministrazione (per il 19%), le fondazioni (per il 10%). Altro dato interessante della rilevazione riguarda le entrate totali del 2009 in cui il dato sulle organizzazioni che migliorano i propri risultati aumenta al 55% del campione intervistato, mentre ha peggiorato per il 27%. Fra le entrate è stato rilevato anche il dato del 5x1000 del 2007 che il 90% degli intervistati dichiara di aver ricevuto e che, comunque, incide notevolmente (più del 50% delle entrate) soltanto per una piccola parte del campione intervistato (il 2%), mentre per il 34% incide tra il 5 e il 14% delle entrate; per l'll% tra il 15 e il 29%. Questioni aperte

Dalla rilevazione lTD emerge, quindi, che se anche la generosità non batte


la crisi, sicuramente cerca di "tenerle testa". Se la raccolta fondi, ovvero le entrate da privati, quindi da cittadini e aziende, risente della situazione economica, le entrate totali, quindi quelle derivanti anche da altri soggetti (pubblica amministrazione e fondazioni di origine bancaria), sembrano resistere meglio. Va sottolineato poi, rispetto al calo di donazioni dai privati, che le organizzazioni di volontariato temono molto i risultati negativi che possono derivare dal provvedimento governativo che ha bloccato le agevolazioni postali e su cui ancora non vi è chiarezza: non è stato ancora pubblicato il decreto interministeriale che metterà a disposizione i 30 milioni di euro necessari per chiudere 1 annus horribi/is" delle tariffe postali; a causa delle mancate agevolazioni tariffarie molte associazioni non hanno potuto procedere con le loro campagne. La situazione di crisi del settore rischiava di aggravarsi ulteriormente con la Legge di Stabilità che aveva previsto la riduzione della copertura del 5 per mille - unica norma di sussidiarietà del sistema fiscale italiano -, da 400 milioni a 100 milioni. Il provvedimento ha suscitato una forte protesta da parte degli organismi non profit italiani che hanno chiesto al governo di non ridurre anche questa entrata. Il governo ha poi reperito le risorse necessarie al rifinanziamento del 5 per mille inserendolo nel decreto "mille proroghe". Giustamente, però, Andrea Olivero, portavoce del Forum del Terzo settore ha commentato la decisione del Consiglio " ,

dei ministri affermando che: "riteniamo francamente inaccettabile che, ogni anno, il mondo del volontariato e del terzo settore debba protestare, manifestare e persino scendere in piazza per il 5 x mille che, puntualmente, sarebbe altrimenti dimenticato o tagliato nelle risorse.., il 5 per mille è una norma che deve essere stabiizzata, in quanto concreto esempio di sussidiarietà, apprezzato ogni anno da oltre 16 milioni di contribuenti, volano moltiplicatore di azioni volte al bene comune". Altre rilevazioni La rilevazione dell'Istituto della Donazione offre un interessante contributo alla conoscenza delle conseguenze della crisi sul non profit ma, come riconoscono gli stessi curatori della ricerca, si tratta di una indagine parziale che riguarda un limitato numero di organizzazioni, prevalentemente del settore Cooperazione internazionale, e che ha riguardato soprattutto dati quantitativi piuttosto che qualitativi per la cui rilevazione l'Istituto, - come dichiara Franco Vannini, consigliere delegato uD, che ha illustrato nell'incontro al CNEL la ricerca - non dispone delle risorse necessarie. Anche un'altra indagine svolta di recente, promossa dalla Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario) e condotta dalla Doxa, finalizzata alla conoscenza delle tendenze della società italiana nel campo della cooperazione e della solidarietà interna19


zionale, conferma la generosità degli italiani in questo settore. Secondo i dati del Barometro della solidarietà degli italiani 2010, nonostante la crisi finanziaria ed economica, negli ultimi 12 mesi il 44% della popolazione adulta ha effettuato una donazione, ha versato somme o donato beni a favore di una causa di solidarietà privilegiando tra i potenziali destinatari le associazioni di volontariato e le ONG che, per la prima volta in dieci anni, superano in fiducia riscossa anche le organizzazioni internazionali, da sempre al primo posto in tale graduatoria. Per altre rilevazioni, invece, emerge che la crisi economica sta incidendo in modo rilevante per gli organismi di Terzo settore. Lo si vede, ad esempio, riguardo alle cosidette imprese sociali. Al Workshop Nazionale sull'impresa sociale, organizzato da Iris Network il 16 e 17 settembre a Riva del Garda, - un appuntamento annuale di confronto sulle tendenze dell'impresa sociale in Italia, giunto all'Vili edizione - Carlo Borzaga, Presidente di Iris Network, ha ripreso quanto rilevato nel primo "Rapporto sull'impresa sociale" (pubblicato da Donzelli, 2009), evidenziando le prospettive, i punti di criticità e lo sviluppo di questo fenomeno nel nostro Paese. Nel contesto del Workshop sono stati presentati i dati della quarta edizione dell'Osservatorio ISNET (l'associazione Impresasociale.net ) realizzato con il supporto scientifico di AJCCON (Associazione Italiana per la promozione 20

della Cultura della Cooperazione e del Non Profit). Va precisato, co,, ,( munque, che 1 impresa sociale (ex dlgs 155/2006) non è un nuovo soggetto giuridico ma è una "qualifica" che associazioni, fondazioni, società, cooperative, consorzi possono acquisire se rispettano alcuni requisiti. Secondo i dati di ISNET, le imprese sociali che dichiarano uno stato di difficoltà sono più che raddoppiate negli ultimi 2 anni, con particolare riferimento alle cooperative sociali di tipo B (quelle che si occupano di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati), mentre quelle in crescita risultano dimezzate. Le entrate per questo tipo di imprese sociali vengono in primo luogo dagli enti locali e comunque, dalla pubblica amministrazione, e in questo caso la crisi è più evidente. Un fenomeno proteiforme

La nostra rivista si occupa di Terzo settore da più di vent'anni: il primo articolo, di Francesco Rigano, Le sov venzioni statali all'associazionismo, è del 1989. In questi ultimi anni, in particolare nell'ultimo decennio, diversi sono stati gli studi del fenomeno, secondo vari approcci (sociologico, economico, giuridico, ecc.). Delle tante definizioni terminologiche del fenomeno (in un articolo del 1997 - Saveria Addotta, Non profitle aspettative per una nuova era, queste istituzioni, n. 110 - ne avevamo riportato una dozzina) in Italia è prevalsa quella appunto di Terzo settore (terzo rispetto a Stato e Mercato),


fermo rimanendo che il comune denominatore degli organismi che ne fanno parte sia l'essere non profit, ovvero la non distribuzione di profitti al loro interno. Molte ricerche sono dedicate in particolare al ruolo del Terzo settore nel contesto del welfare soprattutto per quanto riguarda la prestazione di servizi di cura. Ma il cosidetto Terzo settore continua ad apparire di difficile definizione e quindi comprensione. Si tratta, infatti, di un fenomeno complesso, in continua trasformazione proprio perché riguarda il rapporto in movimento tra individui e società, tra singoli e la loro possibilità di riunirsi in gruppi. Un esempio per tutti è la difficoltà nel definire la cosidetta azione civica, e quindi le forme che questa prende nelle società, che può andare dalla semplice aggregazione spontanea di cittadini in comitati, ad esempio quelli di protesta contro i treni ad alta velocità, ad organismi più strutturati quali le associazioni in difesa dei consumatori. Il prossimo censimento Istat

Sicuramente potranno aiutare a comprendere meglio il fenomeno i maggiori dati statistici sul numero, le finalità, le attività, la struttura e il sistema di finanziamento dei diversi organismi che caratterizzano il settore che ci si aspetta dal censimento 2011. La prima rilevazione censuaria sulle istituzioni nonprofit in Italia condotta dall'ISTAT (pubblicata nel 2001) risale al 1999. L'IsTAT aveva censito 221.412 istituzioni attive sul

territorio italiano descrivendone distribuzione territoriale, periodo di costituzione, forma giuridica, settore di attività prevalente, struttura organizzativa, profilo delle risorse umane, dotazione e utilizzo delle risorse finanziarie, tipologia e destinazione dei servizi. Va precisato che la rilevazione ISTAT ha riguardato un ampio numero di tipologie di organismo non profit, che vanno dagli enti ecclesiastici; le istituzioni sanitarie, le università, le istituzioni educative e di formazione non pubbliche alle istituzioni di rappresentanza (partiti e sindacati). Sicuramente più utili sono le rilevazioni ISTAT su sottoinsiemi di istituzioni più specificamente di Terzo settore: la rilevazione biennale sulle organizzazioni di volontariato; la rilevazione sulle cooperative sociali e la prima rilevazione sulle fondazioni attive in Italia al 31 dicembre 2005. Una nuova rilevazione sul settore verrà svolta nel contesto del "9° censimento generale dell'industria e dei servizi" che si svolgerà nel 2011. Il nuovo censimento sarà utile a rilevare le diverse specificità dei soggetti rispetto alla legislazione vigente (ormai si contano almeno 8 diverse figure giuridiche: associazioni riconosciute e non riconosciute -, fondazioni, comitati, organizzazioni non governative, organizzazioni di volontari ato, cooperative sociali, organizzazioni non lucrative di utilità sociale - Onlus -, associazioni di promozione sociale); l'estensione sul territorio; le strutture organizzative; l'impiego di personale, il numero e i 21


profili dei soci, i volontari; la destinazione delle risorse finanziarie; il sistema di relazioni interne e istituzionali; i servizi prodotti, gli ambiti di attività cui si rivolgono e quindi le risposte ai bisogni offerte dal Terzo settore. L'universo di riferimento del nuovo censimento ISTAT continuerà a riguardare ancora altri organismi non profit quali casse mutue, opere pie, enti ospedalieri, enti ed istituti di previdenza e assistenza sociale e istitufi ecclesiastici. Sarà utile capire se la nuova rilevazione confermerà o no i dati emersi in precedenza rispetto, ad esempio, all'aumento del numero delle cooperative sociali e delle fondazioni che risultavano tra le tipologie di organismi di Terzo settore in più rapida crescita: nel 1999 le cooperative sociali erano 4.651 nel 2005 risultavano 7.363; le fondazioni erano 3.008 nel 1999 e 4.720 nel 2005. Sarà interessante anche vedere se e come verranno censite le imprese sociali. Norme e organismi dedicati, capitale sociale e nuovi ruoli La crescita del fenomeno nel nostro Paese è comunque dimostrata anche da importanti cambiamenti formativi quali la trasformazione del Titolo V della Costituzione e del conseguente rafforzamento della potestà legislativa regionale, nell'ottica della cosidetta "sussidiarietà orizzontale" che era stata sancita dalla Legge Quadro per la realizzazione del siste22

ma integrato di interventi e servizi sociali (L. 328/2000). Nell'ultimo decennio, inoltre, sono stati istituiti organismi istituzionali quali l'Osservatorio del volontariato, l'Osservatorio per l'associazionismo sociale e 1' "Agenzia per le ONLus". Non a caso i rappresentanti di quest'ultima, istituita con lo scopo di promuovere, indirizzare, vigilare e controllare gli organismi di Terzo settore chiede da tempo che questo compito sia riconosciuto anche nella sua denominazione che, quindi, dovrebbe cambiare in "Agenzia per il Terzo settore". Ad essa compete anche il compito di promozione delle iniziative di studio e ricerca delle organizzazioni del Terzo settore, quindi la raccolta, l'aggiornamento e il monitoraggio dei dati ma anche questo organismo istituzionale non sembra disporre di risorse sufficienti. Comprendere meglio come il Terzo settore ha inciso sul mercato del lavoro, sia per il numero di operatori che per le iniziative in sostegno alle politiche attive; come il Terzo settore ha acquisito nel corso di quest'ultimo decennio un ruolo rilevante rispetto ai nuovi fenomeni di esclusione sociale e di contenimento della spesa pubblica destinata alla realizzazione del we!fare potrebbe dare una dimensione più concreta al dibattito aperto da tempo sul "capitale sociale" del nostro Paese. Quanto mai utile anche per i nostri policy maker in un momento di crisi globale come quello che stiamo vivendo. Sull'utilità del Terzo settore in tempo di crisi sembra aver puntato il gover-


no inglese con la proposta della cosidetta "Big Society", lanciata nello scorso luglio con un discorso tenuto a Liverpool dal primo ministro David Cameron. L'espressione è stata ideata da Steve Hilton, uno dei migliori amici di Cameron, lo stratega del suo partito, geniale marketeer, (ex pubblicitario della Saatchi & Saatchi). Hilton è l'ideatore delle campagne anti-Brown con parole chiave quali "Conservatorismo progressista", "Conservatorismo Verde", "Conservatorismo Soft", "Crunchy Conservatives", tutte tese a convincere gli elettori che in un partito ancora nostalgico di Margareth Tatcher, la "Terza Via" non è solo laburista. Steve Hilton ha inventato il concetto di "big society" capovolgendo l'affermazione della Thatcher secondo la quale "there is no such thing as society" ma soprattutto per fare da contraltare al "big government" dei laburisti. L'ispirazione iniziale sembra gli sia derivata da Elinor Ostrom, vincitrice del Nobel per l'economia nel 2009 nelle cui teorie lo spin doctor dei conservatori ha trovato un sostegno alla propria visione antistatalista in cui, appunto, al controllo governativo viene contrapposta la responsabilità sociale quale vero motore del progresso. Una "Big Society"? Il governo inglese conta di realizzare la "Big Society" attraverso la decentralizzazione, la trasparenza e il finanziamento di iniziative che partano dalla società stessa. Ad aprile

2011 dovrebbe costituirsi una Big Society Bank, destinata a finanziare imprese sociali e gruppi di volontanato finanziata con i conti correnti dormienti nelle banche d'Inghilterra. Quattro comunità locali in Cumbria, Windsor and Maidenhead, Sutton e Liverpool sperimenteranno per prime alcuni progetti nel settore museale, delle energie rinnovabili, dei trasporti urbani sostenibili e dei bilanci partecipati. L'idea di fondo è quindi quella di fronteggiare la crisi economica contando sulla forza, sulla capacità innovativa, delle organizzazioni civiche e sul coinvolgimento diretto dei cittadini. Questi, infatti, sono stati chiamati intanto "a dire la loro" sui tagli alla spesa pubblica che colpiranno la maggior parte dei ministeri; dal momento che saranno toccati anche i servizi alle famiglie (tra cui asili nido e contributi alla maternità) e gli stipendi dei dipendenti, il governo inglese, il 24 giugno, ha aperto una consultazione on lime con la campagna "Spending Challenge", per raccogliere (prima sono stati consultati gli stessi dipendenti pubblici) le proposte dei cittadini. La consultazione - che ha registrato oltre centomila proposte - si è chiusa alla fine di agosto; tra queste sono state selezionate 45mila idee concrete su come risparmiare, eliminando attività amministrative che risultano superflue. I consigli sono stati passati ai rispettivi ministeri per essere valutati. Intanto, però, lo scorso, 20 ottobre, il governo inglese ha presentato il rigido piano per i tagli alla spesa pubblica che prevede una MI


riduzione di 83 miliardi di sterline. In media, ogni ministero subirà una decurtazione del 25%. I dipendenti pubblici scenderanno di quasi mezzo milione di unità (490.000) ed i loro stipendi saranno congelati per due anni, sarà introdotta una nuova tassa sulle banche e gli affitti sociali saliranno all'80% del valore di mercato. In crescita anche l'età pensionabile, che gradualmente salirà a 66 anni nel 2020.

nostro sistema sociale ... enormi, e in parte non ancora esplorate", a questi non fa altri riferimenti. E nei fatti, i provvedimenti normativi vengono presi non tenendo in considerazione questa "potenzialità", anzi, rischiando di "mettere in mutande" (come titolava l'appello fatto dal Forum del Terzo settore per ripristinare il 5x1000) gli organismi non profit.

E il coinvolgimento della società civile da noi?

È difficile prevedere se la crisi consentirà di instaurare in Gran Bretagna quella sussidiarietà orizzontale che gli organismi di Terzo settore del nostro Paese, - anche sulla base della nostra Costituzione, con quanto stabilito dall'art. 118, ultimo comma hanno tentato di realizzare. Certo, la crisi economica potrebbe essere una "Big Chance" per lo stesso Terzo settore per uscire dalla posizione "assistita" in cui ha finito per cadere negli ultimi anni. Potrebbe essere una grande occasione per un "Patto di sussidiarietà" tra istituzioni locali, il Terzo settore e le realtà associative come quello che stanno cercando di promuovere per il Sud le principali reti nazionali del terzo settore italiano (Forum nazionale del Terzo settore, Consulta del volontariato, ConVol - Conferenza permanente presidenti associazioni e federazioni nazionali di Volontariato e Csvnet Coordinamento nazionale dei Centri di servizio per il volontariato) con il sostegno della Fondazione per il Sud. Patto di sussidiarietà per "i beni comuni del Mezzogiorno da salvare, curare

Potrebbe apparire una soluzione di comodo da parte del governo inglese chiamare i cittadini a immaginarsi soluzioni, a rimboccarsi le maniche; un modo per assicurarsi almeno la legittimità ai duri provvedimenti di diminuzione della spesa pubblica. E probabilmente lo è. Ma almeno sembra un segno di un modo diverso di concepire il ruolo dei cittadini, un po' meno come sudditi del regno e più soggetti di cittadinanza attiva di quanto non concepisca il nostro governo che dà segni, in questo senso, non proprio simili al suo omologo inglese. Ne è testimonianza quanto si legge nello stesso Libro bianco sul ftituro del modello sociale (dal promettente titolo "La vita buona nella società attiva") elaborato dal nostro ministero del Lavoro, (nel 2009 anche) della Salute - e delle Politiche sociali, in cui il ministro Sacconi pur riconoscendo ai cittadini organizzati nel Terzo settore "potenzialità nella rifondazione del 24

Una "Big Chance" per ilTerzo settore?


e riprodurre" intesi come quelle realtà intorno alle quali è possibile favorire la cooperazione fra le organizzazioni della società civile, la mobilitazione dei cittadini per l'interesse generale e la costruzione, appunto, di un "patto di sussidiarietà" fra terzo settore, istituzioni locali ed altre organizzazioni sociali meridionali. La crisi, quindi, può rappresentare lbccasione per questo mondo per trasformarsi "da brutto anatroccolo a cigno", come ha ironicamente auspicato Giovanni Moro (presidente di Fondaca, Fondazione per la cittadi-

nanza attiva) per le organizzazioni civiche in un seminario (tenutosi a Roma lo scorso i ottobre) in cui molte organizzazioni non profit hanno evidenziato la persistenza di un divario vistoso tra la consistenza, il ruolo, le potenzialità del Terzo settore e il peso della sua organizzazione di rappresentanza (il citato Forum nazionale del Terzo settore, la realtà rappresentativa del settore più ampia in Italia). Segnali di una profonda riflessione auto-critica dello stesso settore sulla propria identità e i propri poteri?

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queste istituzioni

n. 158-159 luglio-dicembre 2010

La iilanza pubblica italiana il hllte alla rora del Patto di stabilita e crescita di Giuseppe Pisauro

L

a crisi economica ha reso evidenti i limiti del sistema di sorveglianza e di coordinamento delle politiche fiscali dei Paesi membri dell'Unione europea disegnato dal Patto di stabilità e crescita (Psc). Come sintetizzato in uno studio recente della Commissione europea: 1 1) le disposizioni vigenti in materia di condivisione dei dati di finanza pubblica non ne hanno garantito la qualità per tutti i Paesi; 2) il Patto non contiene disposizioni sufficienti a indurre i vari Paesi a formare, in tempi buoni, margini di manovra nella politica di bilancio sufficienti a intervenire efficacemente in tempi cattivi; 3) il principale presupposto del Patto, secondo cui disciplina fiscale e bassa inflazione sarebbero stati sufficienti a garantire la stabilità macroeconomica, si è rivelato errato; 4) il Patto non consente politiche fiscali espansive a fronte di gravi recessioni; 5) il Patto non con-

tiene un sistema di procedure per intervenire a fronte di crisi di insolvenza di debiti sovrani (come è apparso chiaro nella primavera e nell'autunno del 2010). Necessaria, quindi, una riflessione sul sistema di governo della politica fiscale finalizzata a una sua significativa revisione. Una Task force ad hoc Nel marzo 2010, si insedia una Task force, presieduta dal presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e formata dai ministri finanziari della UE, dal presidente della Banca centrale europea, dal presidente dell'Eurogruppo e dal Commissario agli affari economici e monetari. Le conclusioni del lavoro della Taskforce, pubblicate il 18 ottobre, sono nella sostanza coerenti con il pacchetto di proposte avanzate dalla Commissione il 29 settembre, che rimane allo stato attuale (inizio

J2autore è Professore di Scienza delle Finanze, Facoltà di Economia dell'Università di Roma "La Sapienza".

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dicembre 2010) l'ipotesi di riforma del Psc meglio definita. Si tratta di sei proposte di regolamento o di modifica di regolamento che riguar dano la creazione di una sorveglianza macroeconomica, l'applicazione più rigorosa del Psc e le caratteristiche dei sistemi di bilancio dei Paesi membri. Sull'ultimo punto, era già intervenuta (all'inizio di settembre 2010, in sede di Consiglio europeo) la modifica al Codice di condotta sull'attuazione del Psc che aveva portato all'istituzione del "semestre europeo". 2 Monitoraggio degli indicatori di rischio

In questa nota concentriamo l'attenzione sulla riforma del Psc, tralasciando la questione, pure molto importante, della prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici che dovrebbe concretizzarsi nel monitoraggio di indicatori di rischio macro-finanziario quali il saldo delle partite correnti e il debito del settore privato. Rispetto all'attuale Psc, la Commissione propone di riservare maggiore attenzione alla dinamica della spesa e del debito pubblico. Si parte dalla constatazione di come l'indicatore principale del sistema di sorveglianza fiscale, il saldo di bilancio corretto per il ciclo (CAB, cyclically-adjusted budget balance), sia soggetto a una eccessiva incertezza. Opportuno, quindi, che il monitoraggio guardi anche ad indicatori più semplici e di significato più ovvio. La regola proposta richiede che il tasso di crescita annuo della spesa pubbli-

ca (al netto di misure discrezionali di variazione delle entrate) non sia maggiore di una prudente stima del tasso di crescita di medio periodo dell'economia. In effetti, secondo una nozione semplice di sostenibilità fiscale, la spesa dovrebbe tendenzialmente crescere in linea con le entrate; poiché nel medio e lungo periodo, la dinamica delle entrate segue, a normativa tributaria data, quella del PIL, ciò equivale a richiedere che la spesa cresca in linea con il PIL, ovvero che ogni deviazione sia compensata da modifiche del codice tributario (variazioni discrezionali delle entrate). Sebbene il Trattato metta la regola sul debito sullo stesso piano di quella sul disavanzo, in pratica la procedura di sorveglianza ha sempre riguardato la verifica del rispetto della soglia del 3% per il rapporto tra disavanzo e PIL. La proposta della Commissione mira a dare contenuto operativo alla regola del debito, definendo un criterio numerico per poter considerare "sufficiente" la diminuzione del rapporto debito pubblico/PIL. Nello specifico, secondo la proposta, la distanza tra il rapporto e la soglia del 60% dovrebbe nei tre anni precedenti essersi ridotta a un tasso di un ventesimo l'anno. Il "semestre europeo"

Come accennato, la proposta inter viene anche sulle procedure di bilancio, con l'istituzione del "semestre europeo": l'aspetto più rilevante è l'anticipazione della presentazione dei Piani di stabilità e convergenza 27


ad aprile (attualmente vengono presentati tra ottobre e dicembre). L'obiettivo è assicurare un coordinamento ex ante delle politiche fiscali dei vari Paesi. Per inciso, va detto che per l'Italia ciò implicherà una revisione del processo di bilancio disegnato dalla legge 196 del 2009, che ha posposto a metà settembre la presentazione del principale documento di programmazione di bilancio (la Decisione difinanza pubblica, peraltro nel primo anno di applicazione della riforma presentata il 1° ottobre). Si tratterebbe di una novità positiva: difficile comprendere come l'enfasi sulla programmazione di medio periodo, pure presente nella riforma contabile del 2009, possa conciliarsi con una tempistica angusta come quella li prefigurata e con una realizzazione della manovra di bilancio frammentata in una sequenza di decreti legge come è avvenuto nel biennio 2009-2010. L'Italia e il nuovo Patto: primo scenario

Cosa implicherebbe una riforma del Psc lungo le linee proposte dalla Commissione per la politica di bilancio itaiiana? Sarebbe sostenibile? In altri termini, il percorso di riduzione del debito pubblico delineato dal nuovo Psc implica dinamiche delle entrate e delle spese credibili alla luce dell'esperienza degli ultimi decenni? La regola secondo cui il rapporto tra debito pubblico e PIL dovrà ridursi ogni anno in misura pari a un ventesimo della differenza tra il valore effettivo e la soglia-obiettivo del 60

per cento implica per l'Italia una discesa graduale del rapporto che, partendo da un livello di 115,2 nel 2013 (prendendo per buone le stime ufficiali presentate dal governo nella Decisione di finanza pubblica 20112013, DFP), dovrebbe raggiungere l'80 per cento nel 2033. Messa così, c'è poco da dire: difficile definire come draconiano un programma di rientro dal debito che richiede venti anni per scendere all'80 per cento. L'esperienza di altri Paesi sembra mostrare, poi, come un tale programma sia ampiamente realizzabile. Solo per fare uno tra i vari possibili esempi, il Belgio in dieci anni, dal 1997 al 2007, riuscì a ridurre il debito da 122 a 84. La differenza con la situazione attuale, e non è di poco conto, è che stavolta sforzi dello stesso segno se non della stessa intensità dovrebbero essere compiuti contemporaneamente da tutte le economie avanzate. Ma quali sono le implicazioni sull'avanzo primario e sulla dinamica di spese e entrate? Naturalmente dipende dalle ipotesi che si fanno su crescita del PIL e tasso di interesse. La DFP per il 2012-2013 prevede un tasso di crescita reale del PIL del 2 per cento e una differenza tra tasso di interesse implicito del debito pubblico e tasso di crescita del PIL pari a 0,37 (maggiore è questa differenza, peggiori sono i riflessi per il rapporto debito/PIL). Se un tale scenario si realizzasse e si mantenesse nei successivi vent'anni, occorrerebbe, per rispettare il nuovo Patto, realizzare un avanzo primario del 3,3 per cento nel 2014 (partendo dal 2,6 per cento


programmato dalla DFP per il 2013) che successivamente potrebbe lentamente diminuire fino al 2 per cento nel 2024 e all'1,3 per cento nel 2033 (la linea più bassa nella figura 1). Alla luce dell'esperienza recente sembrano obiettivi non irrealizzabili anche se impegnativi: nel decennio 1993-2002 l'avanzo primario si è sempre mantenuto ben al di sopra del 2 per cento, ma nel periodo 2003-2010 solo in due anni su otto (figura 2). Se poi si considera che il percorso di rientro sopra delineato è coerente con un disavanzo totale (sempre assumendo che il costo del servizio del debito resti costante) dell'1,5-2 per cento del PIL, che rispetterebbe quindi la regola del 3 per cento, ma non quella del pareggio in media sul ciclo previsto dal vecchio Patto, si può concludere che la riforma del Patto non sposta, nella sostanza, l'asticella che l'Italia deve superare.

percorrere, se lo si valuta sulla base di quanto siamo stati capaci di fare negli ultimi vent'anni (Figura 2). Ma, di nuovo, la difficoltà non dipende tanto dalla riforma del Patto quanto dall'andamento dell'economia.

Secondo...

EvivÀvÀI aìw

Ilquadro, tuttavia, cambia radicalmente se si adottano ipotesi meno ottimistiche sull'economia. Se il PIL reale crescesse dell'l% l'anno e la differenza tra tasso di interesse e tasso di crescita fosse pari a 1,37 (maggiore di un punto rispetto a quanto ipotizzato in precedenza), valori più in linea con l'esperienza degli anni 2000, il saldo primario, per rispettare il nuovo Patto di stabilità, dovrebbe salire al 4,4 per cento nel 2014 e scendere gradualmente raggiungendo il 3 per cento solo nel 2023 e il 2,1 nel 2033 (la linea più alta nella Figura 1). Un sentiero molto più arduo da

FIGURA i

FIGURA 2

I

Percorso cli rientro e minore pressione fiscale

È interessante chiedersi se il percorso di rientro sia compatibile con una qualche riduzione della pressione fiscale (uno dei temi ricorrenti della politica italiana). Dipende naturalmente dalla dmamica delle spese. Per dare un'idea, nel periodo 1996-2009 la spesa corrente primaria è cresciuta, in termini reali, a


un tasso medio del 2 per cento l'anno. Negli ultimi quarant'anni, la spesa si è ridotta in termini reali solo nel 1994 e 1995. La DFP, assumendo la piena efficada della manovra realizzata con il decreto legge di fine maggio, prevede una significativa inversione di tendenza: una diminuzione in termini reali nel 2011 e 2012 (-1,3 per cento e -0,5 per cento) e un lieve aumento nel 2013 (+0,6 per cento). Si possono immaginare tre scenari diversi: uno che mantiene le tendenze (stimate) del 2012-13, con una spesa costante in termini reali; uno scenario sfavorevole, per cui dal 2014 la spesa ritorna a crescere al 2 per cento reale l'anno; uno scenario intermedio con la spesa che cresce all'i per cento reale l'anno. Se adottiamo l'ipotesi di crescita economica della DFP - crescita reale del PJL al 2 per cento - nello scenario peggiore la quota della spesa primaria sul PIL rimarrebbe costante al livello del 2013 (43,8 per cento) e tutto ibnere dell'aggiustamento graverebbe sulle entrate, mentre negli altri due scenari la quota della spesa diminuirebbe. La tabella 1 mostra l'andamento delle entrate (complessive) sul PIL nei tre scenari, partendo dal livello del 2013, pari a 46,4 per cento. Come si vede, se la spesa dovesse rimanere sul trend di crescita di lungo periodo, non vi sarebbe alcuno spazio, nei prossimi dieci anni, per ridurre le entrate, mentre margini significativi si aprirebbero qualora si riuscisse a mantenere costante in termini reali la spesa. Cosa è realistico attendersi? Si può immaginare, seguendo la ricetta proposta dal Fondo monetario internazionale, una politica della spesa di grande rigore che si dia 30

ibbiettivo di mantenere costante in termini di quota del PII la spesa per pensioni e sanità (resistendo quindi alla pressione che su queste voci produrrà nei prossimi anni l'invecchiamento della popolazione) e costante in termini reali la spesa restante (costituita in buona parte dagli stipendi dei pubblici dipendenti) Data l'attuale composizione della nostra spesa (dove pensioni e sanità pesano per circa metà del totale), ciò significherebbe grosso modo una crescita reale dell'i per cento l'anno, il nostro scenario intermedio, dove qualche spazio di riduzione delle entrate vi sarebbe anche se solo nel medio periodo. Anche questi modesti margini sparirebbero, tuttavia, se la crescita economica fosse minore (crescita reale del PIL all'l% e differenza tra interesse e crescita a 1,37): contenendo aIl'l% reale la dinamica della spesa, la pressione fiscale potrebbe scendere al di sotto del livello 2013 solo a partire dal 2024. Soltanto un congelamento in termini reali di tutta la spesa primaria (che nelle ipotesi date corrisponderebbe a una diminuzione della quota spesal'PIL di 4,5 punti in dieci anni) consentirebbe, comunque non subito, di ridurre le entrate. Il dettaglio è nella Tabella 2. Insomma il messaggio è quello in realtà già noto: se l'economia italiana riprende a crescere (a un tasso di almeno il 2 per cento l'anno) il compito è molto impegnativo ma non impossibile, se invece l'economia ritornasse sul sentiero di quasi stagnazione del periodo 2000-2007 (prima della crisi), le prospettive sarebbero davvero preoccupanti. .4


Tabella i - Quota delle entrate sul PIL al variare della dinamica della spesa (crescita reale del PIL 2%, r-g=0,37) Crescita reale spesa primaria 2% 1% 0%

Entrate/PIL 2013 2014 2017 2020 46,4 47,1 46,5 46,2 46,4 46,7 44,9 43,3 46,4 46,2 43,2 40,6

Tabella 2 - Quota delle entrate sul PIL al variare della dinamica della spesa (crescita reale del PIL 1%, r-g=1,37) Crescita reale spesa primaria 2% 1% 0%

Entrate/PIL 2013 2014 2017 2020 46,4 48,2 48,9 49,7 46,4 47,8 47,2 46,7 46,4 47,3 45,5 43,8

Sostenibilità di una politica fiscale restrittiva

Quanto abbiamo visto è ciò che si può dire assumendo un punto di vista tutto interno alla finanza pubblica, che trascura completamente gli effetti della politica fiscale sulla domanda e sull'economia. Un punto di vista che, peraltro, è l'unico sensato se il discorso riguarda un singolo Paese come l'Italia. Non è, tuttavia, quello migliore se si guarda all'insieme delle economie avanzate che, secondo questa impostazione, dovrebbero tutte insieme eliminare l'eccesso di debito pubblico formando consistenti avanzi primari di bilancio. E un'ottica che sottovaluta il rischio che la generalizzazione nei prossimi dieci anni di politiche di

bilancio fortemente restrittive produca una grave e persistente deflazione. A dire il vero, è un'assunzione di rischio che sembra consapevole, almeno a giudicare dall'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario dove un intero capitolo è dedicato a illustrare come politiche di consolidamento fiscale abbiano effetti restrittivi, almeno nel breve periodo, e questo tanto più quando i tassi di interesse sono, come adesso, vicini a zero e fare affidamento sull'effetto mitigante di una svalutazione del cambio è semplicemente precluso dal numero di Paesi coinvolti. 5 Varrebbe, invece, davvero la pena di esplorare strade alternative. In particolare, quella di un serio coordinamento della politica fiscale europea che richiede la creazione di istituzioni comuni (che rendano permanente la European Financial Stability Facility, creata nel maggio 2010 per far fronte alla crisi greca) e il rafforzamento del bilancio comunitario. Qualche speranza può venire dall'osservazione che la cessione di quote di sovranità verso entità federali è più facile avvenga sotto la spinta di grandi crisi (l'esempio del rafforamento del ruolo del governo federale negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929 ne è testimonianza). Nel nostro contesto, la discussione che si è sviluppata sulla proposta, nelle sue varie versioni, di trasferire a una European Debt Agency quote del debito sovrano dei vari Paesi, scorporandole dai bilanci nazionali è certamente un passo nella direzione qui auspicata. 6 31


M. LARCH, P. VAN DEN Noolu) e L. JONUNG, The Stability and Growth Pact:Lessons from the Great Recession, «Economic Papers» n. 429, European Commission, DirectorateGenerai for Economic and Financial Affairs, Brussels, dicembre 2010. 2 Un'esauriente illustrazione delle varie proposte qui ricordate è in Servizio del bilancio del Senato, "La riforma della governance economica europea. Una analisi preliminare", Elementi di documentazione, n. 36, Roma, ottobre 2010. In realtà, non sappiamo quando eventualmente si applicherà il nuovo Psc. Ipotizziamo che, poiché i Piani dei singoli Paesi per il 2011-2013 sono stati già approvati dalla Commissione, si inizi dal 2014. ' International Monetary Fund, Navigating the fiscal challenges ahead, «Fiscal Monitor», Washington D.C. maggio 2010. International Monetary Fund, Recovery,

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risk and rebalancing, «World Economic Outlook», Washington D.C., ottobre 2010. 6 La proposta ha un antecedente in quella degli euro-bonds avanzata da Jacques Delors. Negli altimi mesi la discussione è stata ospitata principalmente sulla stampa quotidiana (P. SAVONA, Il Messaggero 19 maggio 2010; V. Visco, Corriere della sera, 13 luglio e RepubbliCa, 9 dicembre, M. MONTI, Corriere della Sera, 2 dicembre; J.C. JUNCKER e G. TREMaNTI, Financial Times, 6 dicembre). Alla base della versione proposta da Monti, Juncker e Tremonti è il paper di J. DELPLA e J. VON WEIzSÀCKER, The blue bondproposal, «Bruegel Policy Brie$>, n. 3, Brussels, maggio 2010. Nella proposta di Visco, diversamente dalle altre, il servizio del debito "comune" sarebbe garantito dall'introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie.


queste istituzioni

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Ull'agellda di "atteilziolle e consapevolezza" per il futuro prossiflio

er stilare un'agenda così impegnativa sono fondamentali analisi approndite e da più punti di vista. Per questo, l'apporto delle scienze sociali tempo di crisi diviene tanto più indispensabile. Lo abbiamo sottolineato più volte su queste pagine (si v. l'editoriale sul n. 156-157, Scienze sociali alla prova della grande crisi), ce lo ricorda ora anche Laura Ba/bo nel contributo che pubblichiamo, una sorta di memorandum per un'agenda di cose da ensare e da fare" da subito, perché i/futuro sicuramente si costruisce ora. E analisi utili sono quel/e che ci forniscono, da angolature diverse, i contributi di Albena Azmanova e Paolo Peruii che pubblichiamo di seguito. La politologa Azmanova analizza l'attuale clima socio-culturale in Europa basandosi su sondaggi deliberativi (effettuati nell ttobre 2007) su un campione di cittadini rappresentanti tutti 127 Stati-membri. Questi si sono riuniti per una settimana presso il Parlamento europeo per deliberare su due argomenti di non poco conto quali la politica sociale ed economica dell'Unione europea e le relazioni di questa con Paesi terzi, inclusi quelli candidati per l'allargamento. Da quanto emerso dai sondaggi, Azmanova ha trovato confermq alla sua tesi. che «un particolare assetto di economia politica proprio delle democrazie complesse, incentrato sulla sicurezza economica - e non su/benessere o sull'uguaglianza - incoraggia una psicologia economica della fiducia che, a sua volta, apre la società alla diversità socioculturale' La globalizzazione ha fatto sì che lapriorità assoluta de/le politiche economiche fosse la competitività piuttosto che le dinamiche di crescita e di occupazione. La produttività indotta dalla competitività non basa la crescita sull'occupazione ma diventa "crescita senza occupazione". Una forma invertita della filosofia economica keynesiana che aveva definito il we/fare state europeo. L'accesso al mercato del lavoro è diventata, così, la principale arena di conflitto sociale. Di conseguenza, diventa centrale la xenofobia, la paura dell'altro, immigrato o no (perché il tuo

f PZn

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lavoro, gli altri, possono rubartelo, e meglio, anche a casa loro!) e soprattutto la connotazione economica della xenofobia. La globalizzazione ha aumentato le opportunità economiche ma a costo della sicurezza economica; l'accresciuta convinzione dell'ineluttabilità della volatilità economica indotta dalla globalizzazione ha aumentato le preoccupazioni circa la governance e, ciò che èpiù importante, le politiche di regolazione della fine del XX secolo hanno spinto alla assunzione di responsabilità del singolo su vari aspetti (stili di vita sani, sostenibilità ambientale, ricerca del lavoro, accantonamento pensionistico, ecc.) caricandolo di un peso enorme. Secondo Azmanova, la responsabilizzazione individuale in un contesto di incertezza come quello attuale crea, in realtà, un'involuzione che favorisce il conservatorismo politico e culturale e l'ostilità al cosmopolitismo: "un'autonomia che seppe/lisce l'individuo di responsabilità porta in fretta alla paura della libertà stessa" Per questo, i cittadini sempre di più "chiedono alle autorità pubbliche compensazioniper le condizioni di insicurezza legate alla globalizzazione, che vanno dai limiti all'immigrazione al maggiore controllo degli spazipubblici,fino alla stretta sull'allargamento europeo... più gli individui accettano di assumersi la responsabilità de/proprio benessere in un contesto di incertezza economica, più cresce la loro avversione verso gli altri, visti come "competitor" e non come soggetti signficanti (partner, compagni di squadra) ". In tempo di crisi diventano urgenti nuovi patti sociali che tolgano, almeno un po', «il macigno" posto sulle spalle dei singoli riportandolo a quei 'pubblici poteri" che se ne erano liberati. IVIa qualipubblici poteri? E in che modo devono "tornare" a regolare l'economia? Nella sua riflessione Perullifa un'analisi dei cosidetti "campi disorganizzati' Di che si tratta? Dei "segmenti che presidiano i campi del sapere cruciali per l'economia della qualità' caratterizzati da "network informali e da unapervasivapresenza di lavoro autonomo creativo e innovativo. Cultura, creatività, nuove professioni, social welfare sono i principali esempi" Il campo culturale "è composto di attori discon nessi (imprese, scuole, media, istituzioni, manfestazioni,fondazioni, associazioni, produttori di contenuti, di circuiti ecc.). Poi vi sono i network creativi, ancora più disorganizzati; le nuove professioni dei servizi di qualità, anch'esse strettamente urbane, dominate da un lavoro autonomo strutturalmente frammentato, disorganizzato e debolmente connesso. I nuovi campi del social welfare, spesso diversi da quello statale, affidati al terzo settore, che si muovono in favore dell'integrazione, si occupano di housing sociale e di multiculturalità, pulviscoli di attori che si muovono in circuiti fluidi il cui ruolo è cruciale per integrare le fasce deboli della 'città per progetti', composta di segmenti sociali sprovvisti di sicurezza sociale» Questi campi sono 'giacimenti di capitale sociale' Gli attori che li animano "rivolgono una permanente domanda di scambio e di coordinamento, che resta, però, spesso senza risposta da parte delle istituzioni come da parte del mercato" Perulli inizia ad esplorare le forme del legame sociale che questi campi disorganizzati esprimono e il loro ruolo per una governance democratica. La vitalità di questa, la 34


sua "sapienza", si basa sulla "democrazia degli interessi giocati l'uno contro l'altro perché nessuno possa prevalere' Questo modello di governance riesce a mobilitare i "campi disorganizzati" La governance democratica è una rete di accordi e di impegni che coinvolge sia gli attori dei pubblici poteri che la società civile. Il vecchio scambio contrattuale tra questi soggetti va ormai sostituito con il 'progetto", che consiste "nella proiezione nel futuro dei comportamenti dei diversi agenti e nell'immaginazione di uno Stato futuro che guidi questi diversi comportamenti". I "campi disorganizzati" sono proprio le arene adatte ad immaginare futuri possibili, a esplorare possibilità che il mercato di per sé non seleziona perché non ci sono gli incentivi economici perfarlo, trattandosi di beni futuri ed eventuali. Si tratta, quindi, di segmenti importanti a cui il Consiglio italiano per le Scienze Sociali intende dedicare attenzione; per questo è stato avviato di recente un gruppo di riflessione dedicato ad uno in particolare di essi, quello che riguarda i campi del social welfare, in cui si giocano partite importanti... a proposito difuturo.

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La crisi, il futuro, e i giovaui di Laura Balbo

scontato che, di questi tempi, nei discorsi dei politici, sui media, si porti l'attenzione sugli effetti della "crisi" e su possibili interventi. In dichiarazioni e dibattiti ricorre anche, con molta enfasi, la parola "ftituro". E si dice, ovviamente, che è soprattutto per i "giovani" che si è preoccupati; e che si pensa a loro. C'è un'espressione inconsueta che ho trovato. Si definiscono i giovani come i "normali del futuro". Dovremmo utilizzarla. Sia perché è ovvio che sapranno viverlo, il loro futuro, in termini - in qualche modo - di normalità. Sia per un altro motivo: che tutto quello che noi (normali del presente? ) pensiamo, che cerchiamo di anticipare, e di cui parliamo e scriviamo, probabilmente non ha alcun senso per come realizzeranno i giovani la loro "normalità futura". Però continuiamo, su queste cose, a parlare e scrivere e fare proposte. Dunque ecco due possibili "pezzi" di un percorso che è stato avviato. Un breve - e parziale - elenco delle questioni che ci riguardano tutti: i meccanismi del sistema economico durante ma anche dopo la fase attuale, e le ricadute sul "lavoro" e la "vita quotidiana"; i flussi migratori e la mobilità a livello globale; applicazioni e innovazioni nel campo delle tecnologie; i trend demografici; le inevitabili e complesse trasformazioni nei contesti territoriali e urbani; gli effetti del cambiamento climatico. E la pluralità e le diversità degli "attori sociali": disuguali, dunque, le aspettative; e anche le norme e i diritti che li riguardano; i percorsi, i risultati. Sono complesse le interconnessioni tra queste dimensioni. Molti potranno essere gli effetti inattesi - e anche quelli "perversi" - dei processi in atto e degli interventi proposti; difficile anticiparli.

E

L'autrice, socio

Css, è Docente di Sociologia all'Università di Padova. 37


E un interrogativo ancora è cruciale: se si riesca ad anticipare le conseguenze dei processi e il ruolo degli "attori emergenti" in una prospettiva non sempre e soltanto "locale", "nazionale" ma a dimensione - se non a livello mondiale - almeno "europea". Aggiungo questa considerazione. Spesso (e certo vale nella fase attuale) i meccanismi del discorso pubblico cercano di bloccare, o almeno di rinviare, le occasioni di attenzione e di consapevolezza. Dunque, importante rendersi conto di quanto pesino silenzi, conffitti, ritardi. E dei rischi di impreparazione ed errori nei modi di affrontarlo, questo ftituro. Questo ci riguarda come "scienziati sociali"; anche, come "cittadini". Una proposta da considerare è questa: impegnarci a maturare una adeguata attenzione rispetto alla complessità della fase storica che viviamo; e a costruire - se ci riusciamo - appunto una agenda di attenzione e consapevolezza. Proviamoci.

UNA AGENDA DIATTENZIONE E CONSAPEVOLEZZA Il primo dei miei due "pezzi" è un progetto avviato nel corso del 2010 presso il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona. Un piccolo gruppo che si definisce concerned citizens of Europe - ha messo a punto una proposta da portare avanti negli "anni che abbiamo davanti" (si è detto, nell'arco di un decennio almeno); e a livello europeo. Ci si può interrogare sulla scelta di riferirsi al medio e al più lungo periodo: suona come un rinviare, rinunciare, tirarsi indietro rispetto all'urgenza dei problemi. Ma c'è il convincimento che, nella situazione attuale, i processi e gli interventi siano da affrontare riconoscendone difficoltà e complessità: aggiustarli, ripensarli; via via monitorarli. Mettersi in un'ottica di percorso. E l'Europa. Può suonare come un riferimento scontato; peggio, un inevitabile passaggio burocratico. Ma dal riferirsi all'Europa non si può prescindere: non per continuare a guardare al "da dove veniamo", all' "identità europea" ma avendo invece chiari i rischi di una prospettiva - e di interessi, anche - in cui prevalga un'ottica "nazionale" (in non pochi casi, anzi, "locale"). Un'Europa che non è quella del passato: è in "corso d'opera" (in inglese, Europe in the making). Da "reinventare" (Beck). Dovrebbe essere, anche, un'Europa capace di imparare. Rimettiamole al centro alcune parole (non nuove, le conosciamo da tempo ma sono attuali): "eurocentrismo"; "diritti (però) segmentati"; e "democrazie (però) complesse". Utili anche altre, più recenti, nella prospettiva appunto di pensare uno spazio europeo con dimensioni e caratteristiche inedite: mettere


in luce la "dimensione reticolare" e i "nuovi campi" di cui parla Paolo Perulli; dirlo, che viviamo nell' "era delle interdipendenze" (Benjamin Barber); tener conto dei processi che porteranno a nuovi "assemblaggi territoriali" e ad "attori locali emergenti" (Saskia Sassen). Ci sono interrogativi che riguardano come si potrà - in società segnate da crescenti disparità economiche e da sempre più visibili differenze culturali e religiose - "vivere nella diversità" (Ash Amin). Ritornano, in molti Paesi europei, manifestazioni di "populismo", e iniziative a sostegno di gruppi di "destra estrema". In questa fase dunque - in cui i problemi del lavoro e delle condizioni di vita sono diventati, per molti, drammatici, e crescenti le disuguaglianze e le gerarchie sociali - si parla di incertezza crescente, di paura, di "xenofobia economica" (Albena Azmanova). Quanto pesano i "messaggi" della politica e i potenti meccanismi di manipolazione dei media, lo sappiamo. Pochissimo viene messo in luce che dicendo "Europa" si parla di un contesto nel quale plurali e diversificate sono le collocazioni, c'è consapevolezza dei molti aspetti e problemi, e si attivano, in molte forme, gli "attori sociali". Chiediamocelo, se l'obbiettivo di realizzare un'Europa che vorremmo decente non sia condiviso da molti, certo con idee e interessi diversificati, anche contraddittori. E perché rimanga del tutto ignorata una possibilità o anche una prospettiva, che potrebbero essere di grande interesse (per tutti). GLI ANNI CHE ABBIAMO DAVANTI

Come muoversi verso gli anni che abbiamo davanti, come comunicare, come costruire obbiettivi comuni: va in questo senso il progetto di Barcellona. E l'ho già anticipato, si è consapevoli che non è di facile realizzazione. Ma il percorso proposto può essere utile. L'aspetto più importante, lavorare a un'agenda comune e a una rete europea di collegamenti e rapporti, da portare avanti per tappe. E altri: mettere in circolo, anche qui uscendo da ambiti "locali" o "nazionali" e rivolgendosi invece a contesti "europei", dati e letture relativi a questo processi, e prospettive comuni. Contribuire a formare, da qui in avanti, studiosi (o semplicemente, persone "informate") che abbiano riferimenti aperti allo scenario internazionale, a interconnessioni, a dinamiche inedite. Passo al secondo "pezzo". Al centro c'è una analoga attenzione a come formare un quadro di riferimento capace di creare consapevolezza degli anni che abbiamo davanti, e alla dimensione che ho chiamato Europa: e a trasmetterli, interrogativi, conoscenze, nuovi suggerimenti. Del tutto diverso però, questo progetto, e pensato con riferimento alla situazione italiana. Potrà sembrare lontano dall'urgenza delle questioni che ci WS


troviamo ad affrontare; addirittura irrilevante; e comunque, per ora almeno, certo irrealizzabile. Anche questo è un progetto che si sta avviando (in un numero limitato di sedi universitarie e in altre occasioni formative). Si tratta di un aspetto delle esperienze dei "giovani" che non abbiamo presente, comunque non è oggetto di adeguata attenzione. Penso sia tempo che di questo ci si occupi (come generazione "adulta" e come studiosi del sociale in particolare). Come punto di partenza questa osservazione. Molto poco si porta l'attenzione, nei licei e nelle scuole superiori (anche nei corsi universitari), su dati e processi sociali della fase in cui viviamo: e su ricadute - possibili, o in qualche modo prevedibili - per il futuro (forse non si applica a tutte le istituzioni della formazione: ma certo a molte). Riguarda la situazione in Italia. Da quella primaria in avanti, nelle nostre scuole molto spazio viene dato all'insegnamento della storia, materia certo fondamentale. Si comincia con il paleolitico e poi il neolitico, e la storia greca e romana e gli etruschi, via via si arriva al Medio Evo e avanti. Certo molto c'è da conoscere delle complicate vicende umane. Il punto però è questo: non si arriva alla contemporaneità. Mancano lo spazio e il tempo per conoscere il "passato prossimo" e il "presente", e portare in qualche modo lo sguardo sugli anni che abbiamo davanti. Quanto alla formazione universitaria: in discipline come le scienze politiche, la storia, le scienze sociali (dunque sociologia, scienze della formazione e scienze politiche, demografia, forse anche economia, statistica) ci potranno in alcuni casi essere occasioni per delinearla, una prospettiva di questo tipo. Ma si lavora prevalentemente, lo sappiamo, per settori e temi separati e specializzati. Difficile che si proponga una lettura, uno sguardo d'insieme, su vicende del passato recente e sugli anni che abbiamo davanti. Quanto ad altri percorsi universitari - dico medicina o scienze o architettura, e molti altri - non è certo previsto che si forniscano strumenti, o che almeno si delinei un qualche riferimento, o interrogativo, in questa prospettiva. Non sono questioni di poco conto se pensiamo al "futuro" e ai "giovani". Avrebbe senso riuscire a renderli più informati e consapevoli, e possibilmente attivi, rispetto a questo futuro. Dunque un "progetto" al quale si potrebbe lavorare. Le scienze sociali in vari modi li descrivono e li analizzano, i dati del nostro "passato prossimo" e la dimensione della contemporaneità. Potremmo anche utilizzarle, nelle varie sedi della formazione, per aprire riflessioni sul passato prossimo e il presente, e forse anche sul "futuro prossimo". Confronti tra situazioni diverse, analisi comparative utilizzando serie statistiche e ricerche qualitative, confronti 40


internazionali. Mettere in luce processi e meccanismi relativi a determinate categorie di persone o in specifiche istituzioni o contesti territoriali. Proiezioni di dati, analisi di trend che aiutano a delineare scenari futuri e arrivare a uno sguardo in qualche misura consapevole (dei processi della globalizzazione, ecc.). Con tutte le cautele necessarie, naturalmente. Insegnare ai "normali del futuro": davvero una sfida di cui cominciare a sentire la responsabilità . Ma è anche di grandissimo interesse.

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€ontro la politica della paura: deliberazione, inclusiolle ed economia politioa della Liducia di AlbenaAzmanova

ome ideale normativa, la nozione di società diversificata ed inclusiva è chiara e semplice. Essa è tale se le sue istituzioni presentano due elementi caratteristici: 1) un'autorità politica che rispetta la diversità (ad esempio, un governo costituzionale liberale); 2) una sfera pubblica attiva che favorisce il dialogo tra le diverse istanze della società. Quando però si passa a considerala come pratica sociale, la diversità culturale di tipo inclusivo diventa più difficile da realizzare, poiché richiede anche un"economia politica della fiducia". Perché mai dovremmo occuparci di economia politica nel dibattito sulla diversità? La ragione principale è che un approccio superficiale al multiculturalismo, che ignora cioè le dinamiche socio-economiche alla base della psicologia collettiva di tipo inclusivo, è destinato a faffire: il cosmopolitismo non tiene senza un'economia politica della fiducia.

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GLI STRANIERI COME PERSONE RILEVANTI

In questa analisi intendo dimostrare che un particolare assetto di economica politica proprio delle democrazie complesse - incentrato quindi sulla sicurezza economica e non sul benessere o sull'uguaglianza - incoraggia una psicologia economica della fiducia che, a sua volta, apre la società alla diversità socio-culturale. Al centro del mio interesse non c'è la ricerca di un tipo di economia politica che faciliti l'inclusione dei gruppi marginali. La risposta ad un simile quesito di solito gira attorno a generose politiche redistributive. Sono invece interessata a conoscere quale modello di economia politica è in grado di attivare comportamenti basati sulla fiducia e sull'accettazione, o L'autrice insegna Teoria politica all'Università del Kent, Brussels School of International Studies. 42


meglio, la capacità degli insiders di percepire gli outsider non come una minaccia, bensì come soggetti rilevanti ("significant" others), più o meno nel senso in cui usiamo il termine per indicare quanti condividono con noi aspetti e momenti della nostra vita, coloro che ci integrano e ci completano. In altre parole, ci chiediamo: quali schemi relazionali tra pubblico e mercato rendono possibile una percezione positiva dell'altro? Il fine più ampio di questa ricerca è riportare l'economia politica nel discorso sulla cultura e sulle accezioni normative di giustizia sociale. Proprio come è avvenuto in passato (seppure per breve tempo), con l'economia politica in primo piano nell'analisi della cultura nel lavoro dei fondatori della teoria critica, nella tradizione della Scuola di Francoforte. Per rispondere a questa domanda, esaminerò l'evoluzione recente degli atteggiamenti dei cittadini comunitari di fronte all'ingresso della Turchia nell'Unione europea. Gli atteggiamenti rispetto all'allargamento dell'Unione sono una buona approssimazione della disposizione verso il prossimo, dal momento che l'accettazione di un nuovo Stato membro presuppone non la neutralità verso l'altro (il nuovo membro), ma un atteggiamento positivo non ambiguo, che veda l'altro come soggetto significativo, importante. L'ingresso di un nuovo Stato nell'Unione europea assomiglia ad un matrimonio: dopo un periodo di corteggiamento (domanda di adesione e negoziazioni), le due parti (Stati-membri e aspiranti tali) iniziano a costruire una vita insieme. Pertanto, le questioni di fondo sono: che cosa ci dicono gli atteggiamenti rilevati tra i cittadini comunitari rispetto all'allargamento alla Turchia in termini di percezione dell'altro in Europa? A quali condizioni la Turchia potrà essere accolta dai cittadini comunitari come un partner, un soggetto rilevante con cui avviare una nuova convivenza? Per prima cosa, dopo avere predisposto un quadro analitico ad hoc, individuerò i parametri di riferimento che descrivono la percezione dell'altro oggi in Europa, basandomi sui dati elaborati nell'ambito del primo sondaggio deliberativo su base europea, realizzato nel 2007 (sezioni i e 2). Quindi, esaminerò le dinamiche socio-politiche sulle quali si fondano i mutamenti recenti degli atteggiamenti pubblici verso la diversità e la differenza (sezioni 4-6).

IL SONDAGGIO DELIBERATIVO EUROPEO: UN MICROCOSMO NELLA SFERA PUBBLICA COMUNITARiA

Al fine di rappresentare l'attuale clima socio-culturale in Europa, farò riferimento ai sondaggi deliberativi effettuati al Parlamento europeo nell'ottobre 20072, quando un campione casuale di 362 cittadini rappresentanti di tutti i 27 Stati-membri si riunirono per una settimana presso il Parlamento europeo per deliberare su due insiemi di argomenti: 1) politica sociale ed economica 43


dell'Unione; 2) Unione europea e relazioni con Paesi terzi, inclusi quelli candidati per l'allargamento 3 . Nella mia analisi, mi concentrerò su quest'ultimo aspetto, soprattutto sull'ingresso della Turchia. Prima di procedere con l'analisi, lasciatemi spiegare la mia scelta di impostazione empirica. Perché considerare queste deliberazioni e non altri affidabili sondaggi presso lbpinione pubblica, come quelli effettuati da Eurobarometer? I sondaggi deliberativi di cui mi avvalgo, così come disegnati da James F'ishkin al Center for Deliberative Democrac? della Stanford University, è probabilmente il migliore strumento istituzionale esistente per realizzare, in qualche misura, l'ideale della democrazia deliberativa, ovvero l'assoggettare i processi di policy-making alla "unforced force of the better argument" (Habermas)5 . Pertanto, considero i sondaggi deliberativi un microcosmo perfetto nel rappresentare la sfera pubblica europea 6. Inoltre, i cambiamenti di opinioni registrati nel corso di queste deliberazioni possono darci un'idea delle tendenze esistenti ed attive nelle società europee, poiché le deliberazioni pubbliche - soprattutto se condotte con le tecnologie appropriate - , consentono ai conffitti sociali esistenti di essere espressi e fanno emergere le tendenze latenti nel confronto sociale 7 Quest'ultimo punto apre al quadro teoretico entro cui ho concettualizzato le deliberazioni pubbliche in termini di microcosmo della sfera pubblica europea. E chiarisce lo status da me conferito alle deliberazioni pubbliche nell'analisi socio-politica. Su questo, ho tre riflessioni ulteriori. Primo, le deliberazioni come pratica sociale non sono isolate da altre pratiche sociali attraverso le quali gli individui interagiscono. Esse condensano in forma dialogica le più ampie dinamiche delle interazioni sociali (di conffitto e di cooperazione, di conffitto nella cooperazione) che si verificano nelle società. In tal senso, se condotte rispettando alcune condizioni procedurali, le deliberazioni pubbliche possono valere come una rappresentazione micro di una società. Nel nostro caso, dell'Unione europea. Secondo, potremmo chiederci come funzionano queste espressioni dialogiche di più ampie interazioni sociali. Le deliberazioni, soprattutto se coinvolgono un pubblico diversificato, non mettono in moto nell'immediato un senso comune condiviso da tutti i partecipanti. Ciò che fanno è invece "making sense in common", cercare e costruire insieme significati. Un processo attraverso il quale - come ho spiegato in un volume sul giudizio critico politico8 le diverse pratiche sociali si rendono evidenti, acquistano visibilità agli occhi dei partecipanti, in quanto elementi rilevanti sui quali si gioca il disaccordo normativo, e quindi rilevanti per il dibattito pubblico. Ciò che le deliberazioni fanno in primo luogo, nel corso del confronto tra argomenti, è strutturare la diversità dei punti di riferimento di ciascun partecipante, organizzandoli all'interno di un structuredfield of references (una sorta di schema del ragionamento pubblico) nel modo seguente: nella discussione, .

-

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i punti di ancoraggio dei diversi ragionamenti iniziano a correlarsi gli uni agli altri, sviluppando connessioni in grado di conferire loro significati particolari. Ad esempio, l'Unione europea come punto di riferimento si articola in relazione ai singoli Stati europei e all'America, e in rapporto alla religione, al benessere economico, al clima. Sono tutti possibili aspetti, ma non ugualmente rilevanti ai fini del dibattito sull'allargamento. Le percezioni condivise da più attori sociali sono individuabili a partire dai punti riconosciuti come salienti per il dibattito. La formulazione di posizioni conffiggenti (ad esempio, "l'allargamento è positivo/negativo per il multiculturalismo") è allo stesso tempo resa possibile da e costretta entro un accordo di base su quali sono gli elementi (resi visibili) politicamente rilevanti; temi salienti di governance attorno ai quali si sviluppano il dibattito normativo e la contesa politica. Queste prime articolazioni della messa in evidenza dei temi hanno a che fare con la conoscenza fattuale (es., l'Unione europea è in Europa), non svolgono una funzione valutativa (es., il cristianesimo è migliore dell'islamismo), ma semplicemente orientano il giudizio disegnando confini, elementi di differenziazione tra punti di riferimento, discriminando tutto ciò che resta fuori dalla nostra attenzione nel vasto mare di conoscenze che, tutti insieme, i partecipanti posseggono. Questo processo di individuazione delle differenze e dei collegamenti tra parametri di conseguenza porta alla formazione di un quadro di articolazioni e significati (framework of articulation and signf1cation), condiviso dai partecipanti indipendentemente dalle discordanze individuali. Esso, anzi, rende possibile l'espressione e la comunicazione a terzi del disaccordo. Se un'analisi quantitativa dei sondaggi deliberativi mappa le posizioni normative degli individui (es., pro o contro l'allargamento), soltanto un'analisi qualitativa delle deliberazioni spiega come sono strutturate le opinioni: quali sono i temi rispetto ai quali il disaccordo normativo acquista significato? Quali connessioni cognitive hanno luogo (es., l'allargamento è percepito in connessione alla diversità culturale o all'insicurezza economica) nella formazione delle opinioni? Terzo, nel disegno del quadro di articolazione e di significazione (uno spazio strutturato di ancoraggio discorsivo), le deliberazioni possono subire dei cambiamenti, trasformandosi in rapporto di legittimazione tra soggetto pubblico e cittadini. Tale rapporto è costituito da ciò che Claus Offe descrive come "key legitimate and legitimacy-conferring state functions" . Sono funzioni (dalla difesa dell'integrità territoriale alla redistribuzione della ricchezza) che i cittadini chiedono all'autorità pubblica di espletare, e dalla cui effettiva realizzazione essi fanno dipendere lbbedienza ai poteri pubblici. Le deliberazioni pubbliche possono alterare il rapporto di legittimazione attribuendo rilevanza politica a pratiche sociali prima non esaminate. Ad esempio, possono stabilire un nesso tra immigrazione e garanzia del posto di lavoro (come ormai capita di vedere spesso nel discorso politico), nesso prima me-

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sistente. Pertanto, una volta che la garanzia del posto di lavoro entra a far parte della lista di funzioni pubbliche sulle quali si giocano i processi di legittimazione da parte dei cittadini, se è stabilito un nesso tra questo e l'immigrazione, accade che anche mettere limiti all'immigrazione entra nella relazione di legittimazione: la domanda di sicurezza occupazionale finisce allora con l'implicare una maggiore chiusura dei confini nazionali.

UN NUOVO UNIVERSO DISCORSIVO EUROPEO Passiamo ad esaminare, nel quadro dell'analisi realizzata, le deliberazioni pubbliche svolte presso il Parlamento europeo nellttobre di tre anni fa. La stampa in quei giorni presentò l'iniziativa come un processo volto a "getting the London cab driver to taik to the Marseilles dockworker" 10. Nel corso delle deliberazioni, fu possibile rilevare significativi cambiamenti degli atteggiamenti dei partecipanti. L'analisi quantitativa dei dati mostra come, dopo le deliberazioni, tra i partecipanti era diminuito il sostegno all'allargamento 11 , mentre era cresciuto il supporto alle riforme economiche di stampo neoliberista 12, così come il senso di appartenenza all'Europa (V. tavola 1.). Questi cambiamenti erano accompagnati da una sostanziale accumulazione di conoscenza (20-22%), il che indica che i partecipanti hanno usato le informazioni acquisite durante la discussione per costruire opinioni informate. I risultati sono interessanti. A sorprendere in questi risultati è la combinazione di posizioni liberiste sulla politica economica con posizioni antiliberali in materia di relazioni dell'Unione europea con i Paesi terzi (atteggiamento verso gli altri). Nella mappatura ideologica europea, è una combinazione medita. Le due principali famiglie politiche nell'Europa del dopoguerra sono state rappresentate dai socialisti contrapposti ai conservatori. I primi favorevoli alla regolazione dei mercati in combinazione con pluralismo culturale e cosmopolitismo; i secondi in favore del libero mercato senza regolamentazione alcuna e con un forte accento sulla sovranità nazionale. La combinazione registrata nelle deliberazioni svolta tra: 1) accresciuta identità europea sopranazionale, 2) ostilità verso il mondo esterno (come mostrato dallo scarso supporto all'allargamento), e 3) liberismo economico, è nuova nel panorama ideologico dell'Europa. Come vanno interpretati questi dati e quali sono le loro implicazioni in termini di pluralismo socio-culturale? I sondaggi deliberativi dicono che, nonostante le differenze culturali e religiose abbiano influito sulle questioni dell'allargamento (v. tavola 2), il diminuito sostegno all'allargamento non è correlato all'avversione per la diversità culturale e religiosa. Così, la convinzione che "i Paesi musulmani stiano trasformando troppo l'Unione europea" perde lentamente consensi (da 42,7 a 46


41,3%), e quella secondo cui "ammettere i Paesi musulmani costituirebbe un problema" è stata menzionata 16 volte, contro 21 volte dell'affermazione contraria: "ammettere i Paesi musulmani non sarebbe un problema". (V. tavola 2.) Ilsostegno all'allargamento come indicatore dell'attitudine verso l'altro non ha acquisito significato in connessione con preoccupazioni relative al pluralismo culturale e religioso, ma si è arricchito di connotazioni nella connessione con le questioni socio-economiche legate alla globalizzazione. Facendo seguire la discussione sull'allargamento al dibattito sui profili socio-economici, quest'ultimo è stato incluso nello stesso quadro interpretativo dell'allargamento. C'è quindi una correlazione tra ostilità verso l'allargamento e supporto alla globalizzazione e alle riforme economiche neoliberiste. (V. sezione 2 della tavola 1) In che modo l'apertura economica può essere compatibile o addirittura aprire la strada alla chiusura politica? Il passaggio tra economia neoliberista e politica dei confini chiusi è la psicologia della paura, dell'insicurezza economica che da un po' di tempo domina l'agenda europea. Vediamo come.

INTEGRAZIONE ECONOMICA, RISCHIO SOCIALE E DIVERSITÀ CULTURALE La produzione di rischi sociali ed economici da parte dell'economia della conoscenza nel contesto dell'abbattimento dei confini ha di recente portato ad un cambiamento nelle condizioni strutturali che definivano le società post industriali. La globalizzazione come integrazione economica trans-nazionale, alla quale spesso è imputata la trasformazione del capitalismo alla fine del XX secolo, ha fatto sì che la competitività, e non soltanto la crescita, nell'economia globale fosse la priorità assoluta delle politiche economiche. A sua volta, la centralità della competitività ha reso la produttività (invece delle dinamiche di crescita ed occupazione) anch'essa prioritaria nelle scelte di policy. In altre parole, la produttività indotta dalla competitività non basa la crescita sullccupazione - come era nella formula dominante dagli anni ottanta - ma diventa crescita senza occupazione. Una forma invertita della filosofia economica keynesiana che aveva definito il welfare state europeo. L'agenda politica del welfare state ridotto e riformato è adesso incentrata non sulla redistribuzione e su politiche macroeconomiche, ma sulla competitività nell'economia globale. La competitività è diventata la parola drdine delle scelte di policy, con i governi di ogni colore che mettono mano alla deregolamentazione e liberalizzazione del mercato del lavoro come parte delle strategie nazionali sul lato deilbiferta per competere a livello internazionale. Con la contrazione delle funzioni statali di redistribuzione e del mercato del lavoro (la creazione dell'occupazione non è più una priorità), il fattore di stratificazione più potente nel nuovo contesto è l'accesso al mercato del lavoro. Da questo nesso dipende se i rischi della globalizzazione si tradurranno in 47


opportunità e nuovi margini di autonomia o invece in debolezza e fragilità. In un contesto di crescita economica senza creazione di posti di lavoro, così come nell'attuale contesto di ripresa economica senza occupazione, il lavoro non è più un elemento di politica economica (come avveniva nel dibattito sulle politiche tradizionali dello Stato sociale in tema di crescita economica ed occupazione). E, invece, un bene raro da distribuire: un elemento di politica sociale. Di conseguenza, l'accesso al mercato del lavoro è diventata la principale arena di conffitto sociale. Il risultato è una nuova agenda pubblica focalizzata sui rischi materiali, economici e politici, della paura di fronte all'impatto sociale (atteso) della globalizzazione, soprattutto il peggioramento degli standard di vita e l'insicurezza fisica. Un'agenda formata da quattro capisaldi: sicurezza fisica, ordine politico, disorientamento culturale, insicurezza economica' 3. Ed un riferimento alle tematiche del lavoro in termini di paura, perdita e marginalizzazione.

L'EMERGERE DELLA POLITICA DI PAURA DELL'ALTRO

L'agenda "sicurezza ed ordine" ha favorito la diffusione della politica della paura dell'altro. Non soltanto la xenofobia ma anche altre pratiche illiberali hanno fatto la loro comparsa in Europa (richiami generali alla legge, all'ordine, alla sicurezza), almeno dalla metà degli anni novanta, quando il sostegno elettorale ai partiti populisti ha segnato picchi preoccupanti. Limiti all'immigrazione, divieti alla costruzione di minareti, restrizioni delle libertà negli spazi pubblici a spese della privacy delle persone. Sono tutti segnali di un clima di emergenza socio-culturale ostile alla diversità, alla sperimentazione, all'apertura all'altro, percepito negativamente e quindi non benvenuto. Alla radice di queste pratiche illiberali c'è un mutamento nello scenario ideologico del nuovo secolo 14, con due elementi significativi: la centralità della xenofobia. L'ostilità nei confronti della diversità non è più territorio dell'estrema destra, ma permea il discorso di partiti di centrosinistra come quelli di centro-destra. Ne sono un esempio gli slogan quale "British jobs for British workers", o lo scarso sostegno all'ingresso della Turchia in Europa tra i leader stessi e i partiti di centro-destra che inizialmente lo sostenevano (in Germania e in Francia). la connotazione economica della xenofobia. In passato, la xenofobia si caratterizzava in termini di sciovinismo nazionalista e di sovranità culturale e politica. Oggi ha un fondamento economico, diretto a contrastare l'insicurezza economica, la paura di perdere il lavoro e il benessere socio-economico per colpa dell'apertura dei confini nel mondo globalizzato. I partiti di estrema destra come il Front National francese stanno abbandonando l'economia liberista per il protezionismo sociale. Una novità assoluta dalla fine degli anni novanta ad oggi. M.


Si inaugura una nuova era della politica europea, in cui le altre culture diventano un facile bersaglio per le ansie sociali legate alla fragilità evidente del modello di benessere economico ormai maggioritario. Un'ostilità che è penetrata a sinistra come a destra. Tra gli operai come tra i professionisti del ceto medio. 15 A farne le spese sono due concetti strettamente legati in passato: la solidarietà sociale (le funzioni redistributive svolte dallo Stato), e la diversità culturale di tipo inclusivo. Vediamoli.

L'ECONOMTA POLITICA DELLA FIDUCIA Un ampio accordo sui diritti sociali (insieme a quelli politici e sociali già concordati) ha reso possibile la riconciliazione tra capitalismo e democrazia nel secondo dopoguerra. Soltanto il consenso tra conservatori e socialisti europei sul valore della solidarietà sociale e sulla responsabilità del soggetto pubblico di renderla effettiva, rese possibile l'economia politica di crescita e redistribuzione che ha caratterizzato lo Stato sociale europeo fino a ieri. A questo si somma il consenso tra vecchia e nuova sinistra (movimenti e partiti ecologisti e libertari) negli anni sessanta. Secondo la ben nota analisi di Ronald Inglehart, basata sulla World Values Survey, la socializzazione in condizioni di benessere e sicurezza economica del secondo dopoguerra incoraggiò le persone a privilegiare valori post materialisti come l'espressione di se stessi, la libertà, la qualità della vita. Producendo, a partire dagli anni settanta, una politica incentrata non sul ceto sociale ma sulla qualità della vita, non della sopravvivenza (salari e casa) ma degli stili di vita, della partecipazione democratica, dei diritti connessi alla persona, dell'ambiente e dell'ecologia. 16 Decretando così il successo della politica di solidarietà sociale e l'attenzione ai temi identitari invece che alla prosperità materiale. Tutto ciò aprì l'agenda pubblica alla diversità e al multiculturalismo nelle democrazie industriali avanzate e così è stato per i quattro decenni dopo il secondo conflitto mondiale. Oggi, le riforme neoliberiste stanno erodendo gli effetti di quel cambiamento, a detrimento dell'agenda sociale e del multicufturalismo. Non è colpa della (mancanza di) prosperità economica, né della disuguaglianza economica, bensì dell'insicurezza economica. Ciò significa che la politica della paura resisterà anche con la ripresa della crescita, in presenza di insicurezza economica. Il crescere del sentire contro gli immigrati cavalcato dai partiti populisti, ad esempio, è emerso nel corso dei pur ricchi anni novanta, con buona crescita economica e bassa disoccupazione. Oilndi oggi il problema non è la crisi economica in atto e i suoi effetti negativi su crescita e salari. Questo smentisce quanto solitamente affermato dai lavori accademici secondo cui il benessere e l'uguaglianza economica sono le garanzie per un 49


contesto multiculturale. Ronald Inglehart ha osservato che gli individui che diventano adulti in periodi di povertà hanno valori materialisti, mentre i più istruiti che hanno valori post materialisti provengono da famiglie benestanti. Inglehart compie l'errore di sovrapporre benessere e sicurezza economica: "the more prosperous and better-educated strata tend to be more secure than the less privileged". 17 Lo stesso può valere quando consideriamo il consenso accordato alle politiche dello Stato sociale per la crescita e la redistribuzione. Ad ogni modo, ricchezza e sicurezza non possono più essere confuse. Ci sono tre parametri chiave in questo cambiamento. Primo, la globalizzazione ha aumentato le opportunità economiche ma a costo della sicurezza economica. Secondo, la accresciuta convinzione dell'ineluttabiità della volatilità economica indotta dalla globalizzazione ha aumentato le preoccupazioni circa la governance. La correlazione tra rassegnazione di fronte alla globalizzazione e ansie sulla capacità di governarne i processi è bene evidenziata nei sondaggi europei (v. domande 4-16, tavola 1; domanda 3, tavola 1 e domanda 10, tavola 2). Il terzo parametro è la "responsabilizzazione individuale'. Le politiche di regolazione della fine del XX secolo hanno spinto alla assunzione di responsabilità del singolo su aspetti quali la salubrità degli stili di vita, la sostenibilità ambientale, la vita attiva, la ricerca di un impiego e l'accantonamento pensionistico. Gli individui non sono più tanto liberi, ma - dice Ulrich Beck "forced to take charge of their own life." 18 Anche questo aspetto è evidente nelle risposte ai sondaggi deliberativi europei del 2007 su, ad esempio, i cambiamenti climatici (l'impegno a guidare auto di piccola cilindrata, a pagare di più per i consumi elettrici, ad usare treni e mezzi non inquinanti) e a lavorare più a lungo. Ulrich Beck parla di un cambiamento positivo di "turning collective requirements into individual opportunities for choice" 19 invece io penso che la responsabilizzazione individuale in un contesto di incertezza come quello della globalizzazione sia una involuzione che favorisce il conservatorismo politico e culturale e lstiità al cosmopolitismo. L'autonomia che seppellisce l'individuo di responsabilità porta in fretta alla paura della libertà stessa. La volatilità economica creata dalla globalizzazione, insieme alla responsabilizzazione individuale, ha reciso la correlazione positiva individuata da Inglehart e Clark tra benessere e valori post-materialisti. L'insicurezza salariale e le minacce fisiche (paura del terrorismo) in un territorio senza confini chiusi riporta indietro ai valori materialisti. Il benessere, così, acquista un diverso valore e un'altra spendibilità, e finisce per rinchiudersi e tutelarsi (risparmi, investimenti nel mattone e nell'istruzione). E sintomatica la crescita dell'accensione di mutui (anche sub-prime) e dell'importanza della questione abitativa nell'agenda politica. E erosa la psicologia della sicurezza economica (non quella della ricchezza o dell'uguaglianza), che le funzioni redi,

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stributive dello Stato avevano prima posto al centro del rapporto tra pubblico e cittadini. Dagli anni novanta, il liberismo economico e la globalizzazione sono diventati scenari obbligati senza alternativa nelle democrazie industriali più avanzate, senza distinzione politica. La regolazione dei mercati non è più una ftinzione statale di legittimazione dei poteri pubblici. 2° I cittadini, adesso, chiedono alle autorità pubbliche compensazioni per le condizioni di insicurezza legate alla globalizzazione, che vanno dai limiti all'immigrazione al maggiore controllo degli spazi pubblici, fino alla stretta sull'allargamento europeo. Tale accettazione delle riforme economiche neoliberiste senza un'alternativa, combinata alla paura sui rischi connessi e sconosciuti, ha generato la politica della paura in Europa. La novità è che la paura degli immigrati prende piede tra i lavoratori, sulla base dei timori per la perdita del lavoro e sulla conseguente rovina sociale. L'elettorato di sinistra ha così iniziato a guardare con interesse a destra. E i partiti di sinistra a spostarsi su posizioni di xenofobia economica. A questo proposito, un nuovo patto tra le forze sociali sta sorgendo attorno al rischio della mobilizzazione politica, dove le parti - capitale e lavoro allineate su politiche di patriottismo economico, una combinazione di liberalizzazione del mercato domestico e di protezionismo, insieme alla sovranità culturale (sentimenti ostili all'immigrazione). Questa alleanza emerge chiaramente nei sondaggi del 2007, trasformando l'asse ideologico destra-sinistra e il conffitto politico in una frattura rischio-opportunità così come definita dalla percezione degli effetti sociali della globalizzazione. 21

RESPONSABILITÀ POLITICA ED EGEMONIA NEO-LIBERALE I mutamenti nella politica economica che evidenziano gli sviluppi prima descritti sono comunemente ascritti all'impatto ineluttabile della globalizzazione, che aumenta le pressioni della competizione sulle economie nazionali. E così che queste politiche sono state spacciate al pubblico, nel discorso egemonico, come bisogno di competere con l'economia globale, per fare ingoiare la pillola amara dei tagli agli ammortizzatori sociali, e per rassegnarsi all'insicurezza occupazionale come condizione senza alternativa. La naturalizzazione del discorso sulla globalizzazione (la sua accettazione come processo naturale e non come fenomeno socialmente prodotto e costruito) è bene rappresentata nei sondaggi deliberativi svolti. Si noti come il sostegno all'affermazione secondo cui "mantenere le previsioni normative per il pensionamento quali sono oggi farà franare l'intero sistema pensionistico" è aumentato dal 48 al 62 %, come anche l'accordo sulla tesi che "aumentare le garanzie occu51


pazionali consentirà una maggiore professionalizzazione dei lavoratori" è diminuita dal 76 al 68%. (Attribuisco queste oscillazioni al ruolo degli esperti, considerati neutrali, che sono un po' la pecca delle tecniche di sondaggio deliberativo). Ad ogni modo, dietro l'ineluttabile (in quanto immaginata oggettiva) liberalizzazione del mercato del lavoro ci sono specifiche politiche comunitarie, concordate con i governi degli Stati membri; politiche economiche che impongono una formula di crescita senza lavoro incentrata sulla produttività. Una formula che genera insicurezza anche quando effettivamente favorisce la crescita. Se mai ci fossero stati dubbi sulla necessità oggettiva di liberalizzare e deregolamentare il mercato del lavoro, comunemente giustificata con il rischio di bancarotta delle finanze pubbliche, a spazzarli via ci hanno pensato gli Stati quando, tra il 2008 e il 2009, nel pieno della crisi finanziaria globale, hanno iniettato miliardi di fondi pubblici nel sistema bancario per salvare il capitale finanziario. Un intervento statale di simili proporzioni e così sistemico ha portato alla luce la natura egemonica del discorso sull'incapacità dichiarata dello Stato di finanziare generose politiche di ammortizzazione sociale e di creazione di occupazione. E il ritiro forzato del welfare state, celato nel discorso egemonico della necessità di procedere a riforme neoliberiste delle politiche economiche e sociali, che ha aperto la via alla politica della paura che sta disgregando le società europee. Né i governi nazionali, né le istituzioni comunitarie sono senza colpa.

CONCLUSIONI Una lettura di tipo quantitativo dei sondaggi deliberativi europei del 2007 suggerisce che l'accresciuta contrarietà all'ingresso della Turchia nell'Unione europea non è basata su questioni culturali o religiose. L'analisi qualitativa e quella da me fatta in questo documento, rivelano che essa dipende, invece, dalla preoccupazione relativa alla sopravvivenza economica nel contesto incerto della globalizzazione. Una certa chiusura rispetto ai confini è basata sulla cultura emergente della responsabilizzazione individuale ai fini della tenuta economica, che ha da ultimo ridisegnato il rapporto di legittimazione che lega l'autorità pubblica ai cittadini. Più gli individui accettano di assumersi la responsabilità del proprio benessere in un contesto di incertezza economica, più cresce la loro avversione verso gli altri, visti come competitor e non come soggetti significanti (partner, compagni di squadra). La globalizzazione ha disattivato alcuni dei meccanismi chiave responsabili della comparsa della "nuova politica" post materialista della diversità, del reciproco riconoscimento, dell'inclusione. Ha eroso la politica della sicurezza economica (non semplicemente del benessere) che incoraggiava atteggia52


menti positivi verso la diversità culturale e religiosa. Questa è andata gradualmente chiudendosi con il ritorno di un'agenda pubblica incentrata sul rischio materiale (economico e politico) legato all'insicurezza economica e sociale/psicologica. Mentre la questione sociale torna nell'XXIE secolo con la minaccia dell'impoverimento dei ceti medi, per la prima volta le agende nazionali sulla sicurezza sociale sono duramente schierate su posizioni contro la solidarietà trans-nazionale e trans-culturale: la globalizzazione le ha scalzate in un gioco a somma zero. Le preoccupazioni cosmopolite proprie della nuova sinistra si scontrano oggi con l'agenda sociale della vecchia sinistra, basata sulla crescita e la ridistribuzione. Ad essere urgenti adesso sono nuovi patti sociali che impongano la responsabilizzazione economica dei pubblici poteri nei confronti dei cittadini. Solo allora potrà essere rivitalizzata - contro la politica della paura che oggi domina l'Europa - l'agenda post materialista del riconoscimento, dell'inclusione, dell'interesse genuino per l'altro, che ha avuto breve vita alla fine del XX secolo.

i.

53


Table 1: European Polli quantitative Analysis Before deliberations

After deliberations

43

41

No: 32 Yes: 41.

No: 35 Yes: 37

52

62

65

75

S. Inceeasing job security allows workers to become more skilled.

76

68

Keeping the retirement rules the way they are will bankrupt the retirement system.

Yes: 48

62

Yes: 13

Yes: 20

Lowering barriers to international trade (support the idea).

27

30

Freer trade leads to more economie and social inequality.

Yes: 18 No: 19

17 20

Questions

Enlargement Adding a Muslim country to the

Eu would make the Eu eoo diverse.

Adding more countries to the Eu would help our economy. Adding more countries to the Eu would make it more diflicult for the Eu to make decisions. Economie policy People and companies should be free to compete economically.

Raising the retirement age (support the idea).

Freer trade makes all the countries involved more prosperous.

Yes: 27

29

Making our economy competitive in the global arena is important to me.

85

89

Earning as much money as possible is imporeant to me.

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Decision making in pensions should be made by the i ndividual member states versus the Eu.

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47

Unanimity (national veto) on issues of social policy at the European Council (support the idea).

47

44

Yes: 77

Yes: 85

Politica! identily (national va Eu)

Do you think of yourself as being European.

54


Table 2: European Polli' qualitative analysis ofdiscussion on enlargement Topic:

Positions and number of statements:

Culture:

The admittance of a Muslim country would be a...

Problem: 16

Not a problem: 21

Influence of Eu in the World would...

Increase: 6

Decrease: i

Relations with Muslim World would... Enlargement would help/hurt Eu's Military/Security...

Improve: 7 Help: 9

Worsen: O Hurt: 1

Eu aid to Eu's current countries would...

Increase: O

Decrease: 3

On economy, enlargement would...

Stimulate Economic Growth: 4

Be an Economic Burden: 4

EU's financial impact of enlargement would be...

Good: 6

Bad: 7

Good: O;

Bad: 2

Good: 1

Bad: i

Easier 5

Harder 9

Too fast 19

Not fast enough: O

Geopolitics:

Economics

Own country's financial impact ofenlargement would be... Personal financial impact ofenlargenientwould be...

Governance:

Eniargemene would make Eu's decision-making capacity... li. Eu is adding countries...

The charrs are adapted from the documentation on the Eu -wide deiberative polls, publicly available at the website of Center for Deliberative democracy, Stanford University (http://cdd.stanford.edu/polls/eul).

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The Istanbul Seminars, 21 maggio 2010. Le deliberazioni, in 23 lingue con traduzione simultanea, sono state strutturate in alcune discussioni moderate in piccoli gruppi, e sessioni plenarie con interrogazioni rivolte ad esperti di policy e politici di spicco. Il campione di 362 partecipanti è stato selezionato a partire da un primo campione casuale di 3.500 individui fornito dagli studi di TNs Sofres in 27 Paesi. I partecipanti alla prima somministrazione sono stati poi selezionati casualmente per Paese di appartenenza, proporzionalmente alla rappresentanza di ciascuno nel Parlamento europeo. V. Robert C. LusKIN,James S. FISHKJN, Stephen BOUCHER, Henri MONCEAU, Considered Opinions on Further Eu Enlargement: Evidencefrom an Eu-Wide Deliberaiive Poli, in http://cdd.stanford.edu/ polls/eul. Gli atteggiamenti dei partecipanti sono stati investigati su 12 dimensioni, dalla membership europea e l'immigrazione, il commercio, alle questioni generali sull'allargamento e, nello specifico, sull'inclusione di Turchia, Ucraina e Croazia. Per i più recenti lavori di sistematizzazione, v. FISHKIN, James. When the People Speak. Deliberative Democracy and Public Consultaiion, Oxford University Press, Oxford 2009; dello stesso autore: Democracy and Deliberation, Yale University Press, 1991.11 formato dei sondaggi dcliberativi è il seguente: un ampio numero di partecipanti selezionati casualmente e sufficientemente informati deliberano su specifici temi in piccoli gruppi; la loro opinione è analizzata prima e dopo ogni deliberazione per registrare eventuali cambiamenti prodotti dalla discussione (Fsshkin 2009, p. 10). Cosicché, la validità del sondaggio si basa sulla creazione di condizioni tali che "results are driven by consideration of the merits of competing arguments and not distorted by some pattern of domination or group psychology" (Fsshkin, 2009 ; p. 95). Jùrgen I-IABERMAS, "Introduction" in RatioJuris 12/4 (1999): 329— 35, p332. 6 In gran parte dovuto alle misure che facilitano la formazione di opinioni informate, come la disponibilità di informazioni equilibrate, e la possibilità che i partecipanti consultino esperti con pareri differenti su uno specifico argomento. E principalmente l'effetto della selezione dei partecipanti a partire da un campionamento casuale e rappresentativo, che assicura la riproduzione nella deliberazione di una porzione rilevante delle diverse istanze socioculturali presenti nell'universo di riferimento. 8 Albena AZMANOVA, The Scandal of Reason. A Theory af Critica! Politica! Judgment (Columbia Universiry Press, 2011). Ha a che vedere con 'the state capacity to manage and distribute societal resources in ways that contribute to the achievement of prevailing notions ofjustice". (Offe, CLAUS, Disorganized Capitalism, MIT Press, Mass. Cambridge 1985, pS.) 2

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'°Andrew BOUNDS, Debate eases acceptance ofEu reform, ',Fsnancial Times'>, October 17,2007. Il sostegno all'ingresso della Turchia, a condizione di rientrare nei parametri richiesti per la membership, crollò dal 55% al 45%; per l'Ucraina dal 69% al 55%. Quindi, meno supporto alla Turchia che ad Ucraina e Croazia, e all'idea generale dell'allargamento. Nel caso della Turchia, la pre-deiberazione indica una media favorevole all'allargamento, ma dopo la deliberazione la media si attesta su posizioni di neutralità. 12 Ad esempio, il favore alla diminuzione delle barriere al commercio è aumentato del 6% (da 54% a 60%). Allo stesso modo, la percentuale che non è d'accordo con la tesi secondo cui• "freer trade puts our industry at a disadvantage" è aumentata del 5% (da 37% a 42%). La percentuale di chi concorda appieno con la tesi secondo cui la sicurezza occupazionale migliora le competenze dei lavoratori cala dal 49,9 al 30,9 %. 13 Cf. Albena AZMANOVA, The Mobi!isation of the European Left in the Ear!y 21st Century, in «European Journal of Sociology, 45, no. 2 (2004): 273-306; p. 284. 14 Cf. A. AZMANOVA, Reorganised Capitalism: SocialJustice after Neo-!iberalism, in «Constellation: An Internationa!Journal of Critica! and Democratic Theory', voI. 17, No. 2 (maggio 2010), Blackwell Publishers. " Le statistiche indicano che gli elementi alla base del voto contrario sul Trattato costituzionale europeo in Francia e in Germania, nel continuum politico destrasinistra, sono stati: paura della delocalizzazione del lavoro; paura dell'immigrazione; eccesso di liberalizzazioni in campo economico. (Commission Européenne, "La Constitution Européenne: Post-Référendum France". Rapport Flash Eurobaromètre 171; Juin 2005. European Commission, "The European Constitution: post-referendum survey in the Netherlands", Flash Eurobarometer 172. June 2005.) L'associazione predominante tra Unione europea e politica di apertura dei confini (globalizzazione ed allargamento) nella percezione pubblica spiega la caduta del sostegno all'integrazione da parte dei socialisti francesi: comparato al voto sul Trattato di Maastricht del 1992, il sostegno all'Unione è diminuito significativamente tra Verdi e Socialisti precedentemente favorevoli alle politiche di integrazione e di allargamento. 6 CLARK, T.N. & INGLEHART, R. "The New Political Culture: Changing Dynamics of Support for the Welfare State and other Policies in Postindustrial Societies", in TN. CLARK, & V. HOFFMANN-MARTINOT (Eds.), The New Politica! Culture (pp. 9-72), Westview Press, Boulder 1998. CE anche INGLEHART, R. The Si!ent Revo!ution: Changing Va!ues and Politica! StylesAmong Western Publics, Princeton University Press, Princeton, NJ 1977. 17 INGLEHART, R., ABRAMSON, PR., Economie Security and Value Change, in «American Political Science Review», 88, 1993, 336-54; p. 805. 8 Ulrich BECK, E. BECK-GERNs!-lEM, Individua!iza-


tion: Institutionalized Individuaiism and its Social and Political Consequences, Sage, London 2002, p. 32. Il BECK, U., Beyond Class andNation: Reframing Socia/ Inequaiities in a Globalizing World, in <'The BritishJournal of Sociology», 58(4), 2007, 679-705; p. 684. 20 In una esaustiva analisi delle elezioni in 75 Paesi, Timothy Hellwig e David Samuels (2007) hanno dimostrato che la globalizzazione ha indebolito la connessione tra economia nazionale e scelta politica da parte dei cittadini-elettori. La liberalizzazione riduce la

possibilità che gli elettori individuino i governanti come responsabili delle performance economiche interne. V. HELLWIG, T., SAIMIJELS, D., Voting in Open Economie5: The Electoral consequences of Globalization. Comparative Politica! Studies, 40 (3), 2007,283-306. 21 Albena AZMANOVA, The Mobilisation of the Europ con Left e 1989 and the European Social Mode! Transition without Emancipation?, in «Phiosophy and Social Criticism«, 35, no. 9,2009, 1019-1037.

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queste istituzioni

n. 158-159 luglio-dicembre 2010

campi disorgllizzati. uItura, cieativitì, nuove proEessioui, social wolfare di Paolo Perulli

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ssenziali per l'uscita dalla grande crisi-trasformazione in corso, che è di governance globale e di posizionamento di economie e società nazionali in un contesto mondiale in cui si moltiplicheranno le pressioni competitive, saranno per l'Italia i segmenti che hanno sin qui garantito l'elevata qualità dei prodotti industriali manifatturieri e la loro capacità di stare sul mercato internazionale. Ma questi aspetti di qualità saranno sempre più sfidati, replicati, copiati e mescolati dai player globali e dai produttori delle economie emergenti concorrenti. Questi ultimi invaderanno (lo stanno già iniziando a fare) nicchie di mercato sin qui presidiate dai nostri prodotti di qualità. Ciò ci costringerà ad innalzare ulteriormente il livello di creatività incorporato nei prodotti. Qui incontriamo un paradosso. A ben vedere, i segmenti che presidiano i campi' del sapere cruciali per l'economia della qualità sono "campi disorganizzati" caratterizzati da network informali e da una pervasiva presenza di lavoro autonomo creativo e innovativo. Cultura, creatività, nuove professioni, social welfare sono i principali esempi. Il campo culturale è composto di attori disconnessi (imprese, scuole, media, istituzioni, manifestazioni, fondazioni, associazioni, produttori di contenuti, di circuiti ecc.) che si addensano localmente soprattutto in ambiti urbani, metropolitani e (non solo) in città globali, che sono i luoghi sia della produzione che del consumo culturale. Così pure i network creativi (figure di artisti, artigiani-artisti, designer, stylist, progettisti, organizzatori di eventi in settori come moda, design, architettura, musica, performing arts, comunicazione su internet, web design, ecc.) L'autore è Professore ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all'Università del Piemonte orientale, Facoltà di scienze politiche.

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sono espressione di interazioni situate ma essenzialmente spontanee che avvengono in contenitori di eventi, luoghi, festiva!, locali di ritrovo delle città. Le nuove professioni dei servizi di qualità, anch'esse strettamente urbane, sono dominate (a differenza dalle vecchie codificate in ordini professionali) da un lavoro autonomo di "seconda generazione" strutturalmente frammentato, disorganizzato e debolmente connesso. I nuovi campi del social we/fare, diversi da quello statale e affidati al terzo settore, che si tratti di integrazione, housing o multiculturalità, sono pulviscoli di attori che si muovono in circuiti fluidi. Il loro ruolo è cruciale per integrare le fasce deboli della "città per progetti", composta di segmenti sociali sprovvisti di sicurezza sociale. L'attributo "disorganizzato" non significa esprimere un giudizio di valore negativo su questi campi. La loro debolezza è anche una forza, una condizione di permanente autonomia. E' l'altra faccia del rischio di una loro sostanziale anomia. Occorre maneggiare con cautela questi campi disorganizzati, senza pretesa di ricondurli alle forme organizzate conosciute. Essi sono giacimenti di capitale sociale. D'altra parte gli attori stessi che affollano questi campi rivolgono una permanente domanda di scambio e di coordinamento, che resta spesso senza risposta da parte delle istituzioni come da parte del mercato. Perciò questo testo inizia ad esplorare le forme del legame sociale che questi campi disorganizzati esprimono. Forme plurime e frammentate, come la società che devono contribuire a tenere insieme.

QUALI LEGAMI socIALI?

Gli attori di questi campi sono evidentemente, in primo luogo, legati da "contratti". Si tratta di contratti di prestazioni, di servizi, di contratti temporanei, di contratti spot, di contratti relazionali, ecc. In larga misura si tratta di contratti incompleti, in cui le parti non sono in grado di specificare molte clausole e aspetti della relazione. Esse si affidano alla buona fede per fronteggiare situazioni di alto rischio e incertezza. Anche il contratto relazionale, che allude a una maggiore durata e intimacy tra i contraenti, non è in grado di scrivere che alcuni aspetti della relazione: gran parte della sua validità deriva da ragioni extra-contrattuali (conoscenza, reputazione, fiducia). Questi fondamenti extra-contrattuaii del contratto sono stati pensati inizialmente come legami simbolici e di status che si sono trasmessi al contratto. Fiducia, conoscenza reciproca, coesione culturale sono stati in seguito indicati come i veri presupposti dell'efficacia del contratto. Nei "campi disorganizzati" il valore di questi legami è maggiore che in quelli organizzati su base formale o burocratica.


Ma proprio tali fondamenti sono oggi messi in discussione dalle logiche del mercato, sia economico che politico, che pretendono di colonizzare ogni campo. Nelle linee di frattura dell'economia globale si scopre la responsabilità di quelli che sono stati chiamati "gli incentivi distorti, l'arroganza, l'invidia, la fiducia infondata e l'istinto del gregge 112 . Sembra emergere nel capitalismo contemporaneo una "curva di decrescenza" del trust, inteso come l'insieme delle dimensioni relazionali in cui sono inseriti gli attori economici. La capacità di creare convenzioni tacite, accordi non normativi e riferimenti condivisi ne esce fortemente scossa. Il capitalismo rischia così di affidarsi solo alle dure leggi del mercato per continuare ad imporsi attraverso stringenti dispositivi "anonimi": e le crisi - come l'attuale - svolgerebbero in primo luogo quelle funzioni "disciplinari" così ben analizzate da Foucault. L'idea che la società sia integrata e regolata da variabili forme di allocazione delle risorse e da diverse miscele, si riferisce alla compresenza di modalità tipiche di diversi ambiti e attori sociali. In anni recenti frequentemente compaiono forme ibride di allocazione in cui lo Stato, anziché ricorrere alla forma del comando e dell'autorità, si affida più al mercato o alla concertazione inter-organizzativa. Lo Stato rinuncia largamente all'uso della forma "dominio" a favore della forma "contratto" o della forma associazione Le conseguenze di questa evoluzione non sono per ora chiare. Le élite del potere si sono in passato riconosciute in missioni di conquista territoriale, e più recentemente nell'estensione delle regole della democrazia e del mercato. Tuttavia, la recente tendenza a sostituire la legge dello Stato col contratto viene rintracciata da alcuni autori in origini più lontane del diritto societario, quando la sovranità del contratto si afferma persino sul potere legislativo 3. Si tratterebbe della tendenza dello Stato ad assumere la logica del contratto come propria, a trasformarsi in un nexus ofcontracts. Il riferimento è alla teoria dei contratti di R. Coase 4 che spiegava l'emergere dellbrganizzazione dell'impresa come alternativa alle relazioni contrattuali di mercato. Secondo la teoria dei costi di transazione inaugurata da Coase, l'impresa emerge come risposta efficiente quando le relazioni contrattuali di mercato sono talmente costose (in termini di rischio, incertezza, opportunismo dei contraenti) da rendere impraticabii le normali transazioni. Nella modernità si impone tra pubblico e privato la richiesta di differenza, che a sua volta impone misure, confini, identità della politica 5. Ma quale differenza resterà alla fine di un percorso che avrà ridotta a mera convenzionecontratto l'azione dello Stato? Si profila una reciproca colonizzazione di politica e mercato, che soffoca la società civile. Non sarebbe allora meglio ripristinare il valore delle regole e le certezze della burocrazia weberiana? Riscoprire la sua capacità di agire in modo blind, impersonale e cieco rispetto agli interessi che si affollano nel mercato 6 ?

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Per rispondere, occorre tornare alle fonti della sovranità del moderno Stato democratico. "Dopo la 'teologia politica', la visione kelseniana ha introdotto un 'relativismo politico' e una scientificità liberata da miracoli e dogmi e fondata sulla comprensione umana e sul dubbio critico" . Una sovranità relativistica, impersonale. Essa ha trovato diverse espressioni a volte più stato-centriche, a volte più articolate come nelle forme del federalismo: un incastro di governi autonomi e persino rivali in permanente tensione tra città, stati, federazione. Nella democrazia degli interessi giocati l'uno contro l'altro perché nessuno possa prevalere sta la sapienza, la permanente vitalità della governance democratica. E' un modello che sa mobilitare i "campi disorganizzati". Si afferma in esso una visione orizzontale della governance come rete di accordi e di impegni che coinvolge sia gli attori del governo che la società civile. I campi disorganizzati si fanno sentire, si organizzano. Il modello si presenta come quello che risponde più efficacemente e flessibilmente alla ricerca di stabilizzare le nostre instabili democrazie.

IL RUOLO DEL "PROGETTO" Per queste ragioni il vecchio scambio contrattuale va ormai rimpiazzato con il "progetto", che consiste nella proiezione nel futuro dei comportamenti dei diversi agenti e nell'immaginazione di uno Stato futuro che guidi questi diversi comportamenti. I "campi disorganizzati" qui funzionano benissimo: sono proprio le arene adatte ad immaginare futuri possibili, a esplorare possibilità che il mercato di per sé non seleziona perché non ci sono gli incentivi economici per farlo, trattandosi di beni futuri ed eventuali. Paradossalmente esiste un mercato finanziario dei future, ma non un mercato delle buone idee (gli stessi venture capital sono più l'eccezione che la regola, e quasi non esistono in Italia). Il "progetto" invece dilata il tempo di realizzazione del contratto e lo connota come un sistema sociale provvisoriamente dotato di identità collettiva. Oltre la durata del progetto quell'identità è destinata a sciogliersi, per ricrearsi continuamente in altre nuove forme. I contratti sono mutue traduzioni di progetti discorsivi, con l'inevitabile fraintendimento tra i linguaggi che entrano in contatto. Di qui la libertà contrattuale che in passato era la tutela del contratto dalla frode o dall'interferenza politica diviene oggi libertà di traduzione dei diversi discorsi coinvolti, che presuppone eterogeneità dei codici e molteplicità dei linguaggi. Esattamente quanto i "campi disorganizzati", le loro arene deliberative provvisorie sanno fornire. Sono arene che mettono in comunicazione diversi significati ed episteme. Se il "contratto" è ormai la forma delle nuove politiche pubblico-private, è nel "progetto" che un nuovo spirito relazionale dovrà rimpiazzare il vecchio 61


diritto amministrativo. I soggetti pubblici e privati, e gli "ibridi" da essi formati, nella progettazione si scambiano promesse e discorsi, logiche di azione, aspettative e razionalità diverse. Solo in parte esse seguono la logica economica privatistica; altre sfere coinvolte sono quelle dell'interesse generale al progetto (public interest), della progettazione integrata da parte di reti di attori, della dimensione temporale entro cui il progetto si modificherà, della valutazione e del monitoraggio degli esiti progettuali. Ciascuna sfera e fase del "progetto" entrano nella relazione tra i partner che assume così una valenza nuova: un contratto di partenariato anziché di scambio, un contratto relazionale ma più variegato di quanto non fosse nello schema precedente del relational contracting8 Gli economisti avevano già visto che il contratto classico, basato sulla natura discreta e sulla riduzione al presente delle prestazioni, era largamente irrealistico. Ma anche il contratto neo-classico che ammetteva l'incertezza e la durata delle transazioni, doveva affidarsi ad arbitrati o ad aggiustamenti in itinere per evitare la rottura delle transazioni. Quindi, il "contratto relazionale" sembra a questi autori la soluzione più avanzata. Esso non si riferisce più all'accordo originario come punto di riferimento per i necessari adattamenti, ma all'intera relazione così come evolve nel tempo ben al di là dell'accordo originario. O. Williamson ha infine sistemato il mondo dei contratti lungo un elegante continuum: ad un estremo stanno le transazioni spot (che avvengono una volta per tutte), ad un altro le transazioni gerarchiche (quelle centrate sull'organizzazione) e in mezzo le transazioni ibride (i nostri "campi disorganizzati" stanno lì). Nel primo polo la cooperazione è minima, nel polo opposto essa è massima, mentre nel mezzo valgono consuetudini e reciproca conoscenza. E così il gioco sembra fatto: nel senso che il contratto, se le transazioni sono ripetute ed idiosincratiche, finisce per integrarsi entro le gerarchie dell' organizzazione. Invece seguendo G. Teubner 9 questa riduzione è impossibile: anzi, il contratto deve assumere tutte le declinazioni autonome della società civile e in questo senso connettere, nella complessa rete sociale odierna, i diversi partecipanti ai processi di governance. Ma la pretesa di autoregolarsi da parte di tutti gli interessi settoriali, sociali e privati non porterà a una disordinata lex mercatoria globale in cui navigheranno frammenti e schegge senza alcun nesso tra loro? Si assisterebbe ad una moltiplicazione delle sfere "privato-sociali": un termine finora pensato solo per il settore not for profit e delle organizzazioni non lucrative, a metà strada tra pubblico e privato. Questo settore, peraltro in forte espansione, diverrebbe il paradigma di tutti i mondi sociali autonomi nelle sfere della famiglia e della scuola, della salute e della ricerca, dell'arte e della cultura. Questi mondi vitali, tipici "campi disorganizzati" non sono più pubblici ma non intendono seguire la (né sono riducibili alla) logica econo.

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mica di mercato. Questi mondi sempre più dovranno trovare sedi di espressione che continuino a rappresentare la società civile: ma si tratta in realtà di qualcosa di più, dal momento che a questi stessi mondi verrebbe affidato un carico regolativo assai maggiore che in passato. La privatizzazione, creando nuove domande di regolazione affidate alle più diverse autorità ed agenzie, farà aumentare i conffitti, anzi farà nascere una nuova conflittualità. Essa si annuncia ben maggiore di quella dei tranquilli anni di diretta produzione amministrativa e totalmente pubblica dei servizi (welfare state) che ha caratterizzato il Novecento. Una conclusione piuttosto sorprendente. L'approccio sistemico alla Luhmann aveva infatti indicato il futuro della società nella conservazione di regimi regolativi largamente automatici, servomeccanismi che garantivano la sopravvivenza degli ordini sociali autonomizzati. Ma ora si scopre che i conflitti aumentano proprio in ragione della diffusione di sfere autonome: occorrerebbe ripensare radicalmente lo stesso modello sistemico. Il nexus of contracts cui la società nell'epoca globale sarebbe ricondotta, non ha una valenza sistemica. I contratti coprono solo parzialmente, e in modo asimmetrico, i diversi attori che affollano la società globale. I rischi che essa riproduce non sembrano gestibili dai soli strumenti del contratto. "Il contratto non può sostituire il diritto come istituto principe del mercato" lO Ma l'intesa intersoggettiva si ricrea con continuità nella vita sociale: abbiamo bisogno di riconfermarci continuamente il nostro essere d'accordo. La società organizzata è una rete di intese che riguardano ciò che è reale e ciò che è illusorio, e riposano su un fondamento che è la validazione consensuale. Una diffusa reinterpretazione di accordi originari, la necessità di rimetterci continuamente d'accordo è costitutiva delle società complesse. Si può concluderne che la forma del "contratto" porta a una democrazia di tipo aggregativo, mentre il "progetto" spinge alla democrazia deliberativa?

VERSO LA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA

In un certo senso è così, perché l'aggregazione richiama il meccanismo automatico del mercato mentre la progettazione si svolge in arene aperte e discontinue quali sono i "campi disorganizzati". Nelle moderne società democratiche, ha spiegato J. Elster, si decide argomentando, negoziando, votando. In teoria si può seguire una sola di queste procedure (ad es. votando nel mercato politico) oppure accoppiarne due (ad es. argomentando e negoziando, come avviene nelle contrattazioni collettive), o infine seguire le tre insieme. Nella pratica le tre modalità sono mescolate, seppur distinte analiticamente. La superiorità della forma deliberativa dell'argomentazione può essere sostenuta in base a molte ragioni, dall'effetto positivo del dialogo sui parteci63


panti alla necessità di mettere in campo e giustificare le diverse posizioni, e così via. Nella pratica però, anche nella democrazia del foro, e non solo in quella del mercato, vi sono rischi di patologie: che vanno dall'uso dei media alla concentrazione di risorse in certi gruppi, dagli effetti della discussione pubblica sulla qualità dei dibattiti e delle decisioni fino ai rischi di una guerra tra le posizioni che porta non alla soluzione ma all'escalation del conflitto. Un'ampia letteratura si è soffermata su questi rischi 11 La necessità di correggere le patologie della stessa democrazia deliberativa induce a riflessioni. Occorre mantenere in competizione le strutture di proprietà dei mezzi di informazione (si pensi all'Italia), aumentare la capacità delle associazioni di cittadini meno dotate di risorse, affermare regole di veridicità (truth-in-labeling) da imporre alle associazioni degli interessi e alle lobbies, permettendo così ai cittadini di conoscere da chi provenga l'informazione da esse sostenuta. Un menu di regole e di procedure che deve valere nei processi deliberativi a tutti i livelli, da quelli locali fino a quello globale. Al livello locale, si tratta di quelle regole che riescono a dar forma a una comunità politica nel senso olivettiano: per nulla confinata alla dimensione localistica, ma efficace cerniera tra politica e amministrazione e campo di esercitazione di una società civile capace di azione pubblica' 2. Ma anche al livello sovranazionale della global community è facile sostenere che le asimmetrie e le patologie nelle arene delle decisioni vanno denunciate e corrette: nei conffitti internazionali è essenziale che le fonti di informazione siano identificate e che gli spazi per una opinione pubblica non manipolata siano allargati. Lo stesso vale per i processi decisionali pacifici relativi alla spartizione di quote di mercato e di influenza, alla fissazione di standard e all'influenza sulle decisioni di organismi internazionali da parte di forti interessi di lobby, tipo business roundtable e inner circles, organizzazioni di imprese che spesso pesano più degli Stati e certamente più delle autonomie locali. Ad essi è utile faccia contrappunto una dimensione reticolare di autonomie locali, città-regioni e autonomie funzionali, di cui esiste in Europa una proliferazione per ora sguarnita di peso politico. E' qui che i nostri fragili "campi disorganizzati" potrebbero trovare sede e dinamica espressione. A scala europea la governance dovrebbe rafforzare il livello locale per essere effettivamente multilivello, per realizzare una congiunta definizione delle policies mediante processi deliberativi che correggano gli effetti della negoziazione tra i governi e diano voce a reti sia locali che transnazionali' 3 .

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'In questo testo il concetto di "campo" è usato nel senso che Pierre Bourdieu ha impresso al termine. 2 R. G. RAJAN, Fault Lines: How Hidden Fractures Stili Threaten the World Economy, Princeton University Press, 2010. G.Rossi, I/mercato d'azzardo, Milano, Adelphi 2008. R.H. C0ASE, The Nature of the Firm, Economica 386, 1937. 5 E. REsTA, La certezza e la speranza, Laterza 2006, p. 108. 6 J. P. OL5EN, Maybe it is time to rediscoverbureaucracy? University of Oslo,Arena Working Paper No.10, March 2005. C. SCHMTVI Le categorie del soliticoIl Mulino, 1972 p. 66. 8 O.E. WILLIAMSON, Le istituzioni economiche del cap italismo, Milano, F. Angeli 1987, p. 156 ss.

G. TEUBNER, Diritto policontesturale. Prospettive giuri diche della pluralizzazione dei mondi sociali, Napoli, La Città del Sole 1999; id, Contracting Worlds. The Many Autonomies of Private Law, in ,Social and Legal Srudies, 2000 ; id. (coed.), Transnational Governance and Constitutionalism, 2004. 10 G. Rossi, cit. p. 90. Il Si vedano i saggi raccolti in J. ELSTER ( a cura di), Deliberative Democracy, Cambridge 1998. 12 S. RI5TUCCiA, Costruire le istituzioni della democrazia, Marsiio, Venezia 2009. ' 1 F. ScHARPF, Verso una teoria della multi-level governance Europa, in «Rivista italiana di politiche pubbliche', 1, 2002.

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La buolla oranizzaziollo pubblica

nella costituzione originaria della rivista l'attenzione alle tematiche della Pubbli ca amministrazione. Non soltanto come funziona, ma che cosa è. In questo dossier Epresentiamo tre contributi differenti: r,f'orma della PA, esperienze di risorse ordinarie gestite con esiti eccedenti, modelli digestione dei beni culturali. Temi distinti eppure non disomogenei rispetto all 'asse della governance territoriale. Gilberto Capano torna sulla necessità di definire un nuovo paradigma di amministrazione (e quindi di riforma) e su come poi realizzarlo. Tematizzando l'analisi e le proposte lungo la linea epistemologica del cambiamento. Cambiamento come ciclicità, come evoluzione, come discontinuità. Sfide interpretative alle quali l'analista, in quanto studioso del cambiamento, non può sottrarsi. Luigi Zanda contribuisce alla verfica di uno dei principali "idola fori" di questi anni: per eventi straordinari o grandi eventi occorrono strumenti ad hoc di gestione ed intervento. Ricordando il Giubileo del 2000, sostiene che il governo ordinario delle città può (deve) essere all 'altezza degli eventi straordinari. Gioia Chilini dedica un approfondimento al modello del commissariamento nella gestione dei beni culturali in Italia. A partire dai recenti fatti di Pompei e non soltanto, emergono una progressiva confusione ed una incauta sovrapposizione tra gestione straordinaria e gestione ordinaria. Di qui la necessità (e l'opportunità) di sviluppare e di migliorare l'intera macchina amministrativa statale e locale, facendo sì che amministrazioni perferiche ed istituzioni centrali dialoghino.

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Così è se vi pare: a proposito di pubblica ailluhiuistraziolle di Gilberto Capano

"Perché io sono realmente come mi vede lei! - Ma ciò non toglie che io sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua, che anche loro non si ingannanoU'atto!" (Cosi' è se vi pare, Luigi Pirandello)

i cosa parliamo quando parliamo di pubblica amministrazione? Con questa provocatoria domanda, e niente affatto banale, Giovanni Vetritto apre e chiude un suo articolo pubblicato nel n.156/2010 di questa rivista. Un articolo con il quale, recensendo due interessanti volumi dedicati ad analizzare gli effetti dell'ultimo ventennio di riforme amministrative1 , Vetritto lancia una sfida agli studiosi delle riforme ed anche agli aspiranti riformatori. Una sfida che è al tempo stesso teorico-concettuale, analitica e normativa. La sfida a cercare di definire un nuovo paradigma di amministrazione (e quindi di riforma) che superi radicalmente il paradigma esistente (prodotto di aggiustamenti incrementali e progressivi ovvero di una certa persistenza a prescindere dai cambiamenti di contesto). Una sfida affascinante che merita di essere presa in seria considerazione, inserendola però nel contesto del più ampio dibattito internazionale sulle riforme amministrative e sul cambiamento delle pubbliche amministrazioni e del loro ruolo. Innanzitutto, però, si deve ricordare i punti salienti del ragionamento di Vetritto che può essere così riassunto: 1.le pubbliche amministrazioni cambiano perché vengono sottoposte a processi di riforma ma anche, soprattutto, perché cambiano radicalmente i contesti sociali, economici e politici in cui esse si trovano ad insistere. E cambia, periodicamente, anche il ruolo dello Stato all'interno dei propri contesti

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L'autore è Professore ordinario di Analisi Comparata delle Politiche Pubbliche, presso l'Università di Bologna.


di riferimento. Insomma, vi sono delle cesure politiche "epocali" che ridisegnano il rapporto tra Stato e società e, quindi, il ruolo e le relazioni della pubblica amministrazione con l'ambiente esterno (e le aspettative che i cittadini nutrono verso gli apparati pubblici); questi cambiamenti strutturali implicherebbero una rifocalizzazione delle lenti analitiche mediante le quali si definisce e si studia la pubblica amministrazione (le sue caratteristiche strutturali e funzionali, il suo ruolo e i suoi nodi gordiani); conseguentemente, e logicamente, verrebbe da sé una ridefinizione del concetto e delle strategie di riforma amministrativa. Insomma, ogni periodo storico ha la sua amministrazione e, quindi, ogni periodo storico dovrebbe avere la sua riforma amministrativa disegnata possibilmente sulla base di paradigmi (valori e teorie causali e, quindi, strategie e strumenti) congruenti con l'intrinseca contemporaneità del fenomeno amministrativo. Una tesi forte sia dal punto di vista analitico che normativo. Una tesi che deve essere presa sul serio soprattutto per il fatto che essa punta il dito su come sono studiate e su come sono perseguite le riforme amministrative nel nostro Paese. Una tesi che merita di essere presa sul serio sia dagli studiosi che dagli aspiranti riformatori. Qui cerco di farlo, per quanto mi è possibile, cercando di evidenziare gli snodi teorici ed analitici più rilevanti che la sfida lanciata da Vetritto ci pone davanti. Si tratta di dilemmi che insistono su almeno due livelli del discorso sulle riforme amministrative. In primo luogo, a livello epistemologico, si pone il problema della concezione del cambiamento. In secondo luogo, a livello analitico, emerge soprattutto il problema dell'analisi della pubblica amministrazione italiana e delle sue riforme (chi la fa, con quale profondità, con quale prospettiva teorico-analitica). Due questioni rilevanti che si intrecciano e che rendono la tematizzazione della pubblica amministrazione e delle riforme amministrative un ambito multiforme, manipolabile, facile da strumentalizzare. Un ambito in cui la pubblica amministrazione è quello che si vuole che sia e in cui qualsiasi intervento di policy su di essa può essere definibile come riforma. Così se vi pare, appunto.

CICLI PERIODICI, EVOLUZIONE, DISCONTINUITÀ?

Vetritto osserva, con ragione, come un ciclo epocale di riforme amministrative stia giungendo al termine. Si tratta di un processo iniziato, con timing diversi nei Paesi del mondo occidentale, circa mezzo secolo fa, che è stato caratterizzato da strategie di intervento che erano informate dalla modulazione operativa di tre principi generali che possono essere così riassunti: meno 70


Stato, più tecniche manageriali, più logiche di intervento micro finalizzate all'ottimizzazione economica dei servizi. Questo ciclo di riforme ha raggiunto il suo acme verso la metà degli anni novanta (l'Italia in questo senso è un Paese "ritardatario" perché proprio in quel periodo iniziava un percorso riformatore basato sui suddetti principi) per poi cominciare a declinare. Oggigiorno è ormai evidente a tutti che il ruolo dello Stato ha trovato nuovo vigore (dalla deregulation alla better regulation) come dimostrato in maniera eclatante e quasi dirompente dalla devastante crisi finanziaria del 2008 (originata anche da un ruolo debole dello Stato) che ha imposto agli Stati di intervenire in modo profondo nel sistema bancario. Il New Public Management sembra aver raggiunto e superato il picco del successo e ha cominciato a declinare2 laddove alcuni reputati studiosi si sono spinti ad affermare che esso è addirittura "morto" anche a causa dei disastri verso i quali ha guidato i riformatori3 . Insomma: lo Stato sta riprendendo un ruolo centrale nei processi di produzione di politica pubblica, assumendo caratteristiche che da tempo molti studiosi definiscono "neo-weberiane 114 . Cioè a dire di un modello che accanto al ripristino di alcune caratteristiche tipiche della burocrazia webenana (il ruolo dello Stato come principale facilitatore per la ricerca di soluzioni a problemi collettivi; il ruolo della democrazia rappresentativa - a tutti i livelli di sistema - come elemento di legittimazione dell'azione amministrativa; il ruolo del diritto amministrativo, modernizzato ed adattato ai tempi; il ruolo del servizio pubblico come qualcosa di diverso dal mondo privato) vede affiancarsi alcuni elementi di modernizzazione (la cultura della qualità, la consultazione partecipata dei cittadini, l'attenzione alla valutazione ex-post). La logica micro-economica che era posta alla base dell'azione amministrativa viene sostituita non solo da un ritorno a forme di programmazione ma, soprattutto, dalla necessità di visioni più ampie, fondate su un ruolo di leader, piuttosto che di manager, la cui azione deve essere carica di valori pubblici 5 . Lo Stato insomma, e quindi la pubblica amministrazione, è tornato a giocare un ruolo pivotale nei processi di produzione ed attuazione delle politiche pubbliche (e forse bisognerebbe chiedersi se e quanto questo ruolo fosse davvero indebolito ovvero se, invece, non stesse semplicemente mutando pelle e forme). Un ciclo è finito quindi ed un altro sta cominciando: di fronte a che tipo di cambiamento siamo? Si tratta di un cambiamento di tipo evolutivo (caratterizzato da una linearità disconnessa), di un cambiamento che si colloca all'interno di una ciclicità dialettica caratterizzata dalla totale discontinuità con il ciclo precedente, oppure siamo in un processo caratterizzato da caotica non-linearità, in cui ciò che emerge non è il semplice opposto di ciò che si lascia ma nemmeno una sua evoluzione incrementale, bensì qualcosa di totalmente nuovo? Domande forse troppo astratte ma che in realtà focalizzano l'attenzione di fronte al problema delle scelta epistemologica che ogni studioso deve fare ,

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quando studia il cambiamento politico e sociale (e quindi anche il cambiamento delle strategie di riforma amministrativa) 6 . Ogni analista ha bisogno di una teoria del cambiamento e la sua scelta (non ci sono possibilità illimitate, anzi sono decisamente ristrette) condiziona fortemente la sua analisi successiva. In questo senso, per capirci, i cambiamenti strutturali nelle caratteristiche dei sistemi amministrativi, e dei loro principi-guida, che Vetritto tratteggia possono essere interpretati in vari modi. Si può assumere che si sia di fronte all'esito di un processo cumulativo, anche se non lineare, per cui la nuova rilevanza dello Stato affianca pratiche di NPM altamente istituzionalizzate (secondo una logica evolutiva); oppure si può assumere che si sia di fronte ad un passaggio dialettico per cui il paradigma non interventista viene sostituito da quello interventista all'interno di un processo di cicicità antitetico; o ancora si può assumere che le nuove forme di amministrare e di gestire le politiche pubbliche costituiscano, seguendo le teorie della complessità, 1' "emergenza" totalmente nuova dell'intrecciarsi di processi, strategie e strumenti vecchi Non esiste una scelta di per sé giusta rispetto alla scelta della logica del cambiamento. Essa è meramente soggettiva ma, una volta operata, sarebbe necessario che l'analisi conseguente sia coerente con essa. Ciascuna scelta implica una specifica declinazione del concetto di pubblica amministrazione e delle sue riforme. Se, ad esempio, si sceglie l'opzione dialettica, è chiaro che l'analista deve muoversi all'interno della diade composta dall'idealtipo webenano di amministrazione e dall'idealtipo privatistico-economicista; se la scelta epistemologica sul cambiamento è di tipo evolutivo, ecco allora che l'analista dovrà ragionare in termini di modificazioni incrementali, assumendo che l'amministrazione cambi parzialmente da una fase storica ad un'altra, mantenendo persistenti alcune caratteristiche genetiche; se, infine, si assume la prospettiva epistemologica del cambiamento caotico, l'analista dovrà necessariamente cercare di costruire definizioni nuove dell'amministrazione, poiché questa prospettiva assume che il cambiamento emergente, pur basandosi su condizioni ed elementi pre-esistenti, produca effetti totalmente nuovi (e quindi la necessità di nuove definizioni di amministrazione). Vista da questo punto di vista, pertanto, la sfida che avanza Vetritto nel suo saggio acquisisce una prospettiva diversa: il grande cambiamento che egli vede nel passaggio dalla fase storica del "meno Stato" alla fase del "ritorno dello Stato", ma nel nuovo contesto strutturale della governance multiivello, è da lui visto perché egli appartiene al novero di coloro i quali assumono una prospettiva radicale del cambiamento. E' una prospettiva su cui concordo pienamente. Il punto da sottolineare è, però, quello che non tutti gli osservatori assumono questa prospettiva del cambiamento. Anzi, molto spesso prevale la posizione evoluzionista oppure quella dialettica (soprattutto tra i decisori politici che sono convinti che la "loro" riforma dell'amministrazione sarà 72


capace di cambiare tutto). Queste differenze nelle scelte epistemologiche rispetto al cambiamento giustificano perché sia difficile per molti vedere il cambiamento epocale, la cesura storica, la necessità di non dare per scontato nulla (dalla definizione di pubblica amministrazione all'uso di determinati strumenti nella gestione del personale): non possono vederlo semplicemente perché le loro mappe analitiche sono impostate in modo selettivo verso la rilevazione del cambiamento come evoluzione, più o meno lenta e più o meno densa, oppure come riproposizione di un paradigma che era stato messo da parte e che ha potuto riemergere dalThblio. E' possibile cambiare questi modi, prevalenti all'interno degli studi amministrativi ma non solo, di vedere il cambiamento? Difficile, perché si tratta di scelte epistemologiche che svolgono quasi una ftinzione identitaria all'interno dei costrutti teorici degli studiosi. Al tempo stesso, però, questo modo di vedere il cambiamento storico-politico e quindi anche quello amministrativo può essere messo in discussione, spinto ad apprendere e quindi a modificarsi almeno parzialmente, attraverso l'evidenza empirica, mostrando cioè come le ipotesi riformatrici che scaturiscono da questo modo di vedere l'amministrazione risultano poco efficaci. Resta comunque il punto fondamentale che per rispondere alla domanda "di cosa parliamo quando parliamo di pubblica amministrazione?" non esiste un'unica, oggettiva premessa epistemologica del significato del cambiamento. Anzi, il problema è che questa premessa è davvero soggettiva, e il cambiamento è come il Lamberto Laudisi di Pirandello, è quello che pare ai suoi osservatori. Lo STUDIO E LA PRATICA DELLA RIFORMA AMMINISTRATIVA IN ITALIA Il riferimento alla questione epistemologica appena proposto aiuta a comprendere anche la realtà dello studio e della pratica della riforma amministrativa in Italia. Nel senso che, guardando come la pubblica amministrazione è studiata e a come essa viene sottoposta a reiterati tentativi di riforma, appare evidente come vi sia una stretta correlazione tra il "come" viene studiata e il "come" viene riformata. Innanzitutto, infatti, appare evidente come la prospettiva del cambiamento radicale sia assolutamente minoritaria sia nei paradigmi di analisi sia nelle strategie di policy adottate. Dal punto di vista analitico, infatti, abbiamo assistito al progressivo ed incrementale modificarsi del paradigma egemonico, quello giuridico, che è stato affiancato e compendiato da quello economico-aziendalista. Un processo evolutivo dal quale è sorto un neo-paradigma caratterizzato da una visione efficientista e proceduralista della pubblica amministrazione. Al vecchio si è aggiunto, cioè, il nuovo, per assemblaggio. L'amministrazione, se prima era solo un insieme di norme, adesso è anche una macchina, intesa come strumento, il cui funzionamento è 73


regolato da norme, che serve a raggiungere alcuni risultati. È molto debole, se non inesistente, un elemento importante per le scienze sociali: il fatto, cioè che la pubblica amministrazione sia un'istituzione, cioè a dire un qualcosa che ha un valore in sé e che per avere senso di sé deve percepire di essere considerata un valore. E come tutte le istituzioni, anche la pubblica amministrazione, è fatta certo di regole ed obbiettivi ma anche di individui che con il loro comportamento quotidiano fanno vivere e danno senso all'istituzione stessa. E come ogni istituzione anche la pubblica amministrazione è cosa spesso diversa a seconda dei contesti, socio-economici e territoriali in cui si trova. Ebbene tutto questo è decisamente minoritario nel modo di studiare l'amministrazione italiana. Il neo-paradigma egemonico fa fatica a considerare la dimensione "istituzionale" dell'amministrazione, ed è anche per questo che risulta particolarmente attrattivo per i potenziali riformatori: se, infatti, la pubblica amministrazione è uno strumento tecnico fondato su basi giuridiche esso è quindi manipolabile e malleabile attraverso soluzioni omogenee e lineari. Così la difficile arte del governare risulta meno onerosa. Si è trattato di strategie che, concependo la pubblica amministrazione come "macchina" alla quale cambiare il motore, hanno introdotto per via legislativa nuovi strumenti (spesso basati su una logica pseudo-privatistica) ritenuti di per sé validi a prescindere dai contesti di riferimento. Ecco allora la retorica della dirigenza manageriale (ma quante differenze ci sono, abissali, tra le competenze professionali che deve avere il capo dell'ufficio legislativo di un ministero e un direttore generale di un comune?); oppure quella della valutazione che risolve tutti i problemi (ma la valutazione non sostituisce il governare, ne è solo uno strumento); o, ancora, quello della contrattualizzazione non come metodo per governare meglio il personale ma come arena di deresponsabilizzante distribuzione: o, infine, il decentramento come ripartizione di competenze e non certo come modo per costruire politiche pubbliche in modo più articolato ed efficace. Senza contare, poi, ed è questo davvero un grave errore, che assai poco è stato seguito il suggerimento del grande Massimo Severo Giannini: guardare innanzitutto alle funzioni. L'analisi e la pratica della riforma amministrativa continuano, troppo spesso, a non considerare la specificità delle funzioni che le diverse pubbliche amministrazioni svolgono. C'è una bella differenza, lo sappiamo, tra le funzioni di un comune di 300.000 abitanti e quelle di un comune di 3.000 per non parlare, poi, di quelle di un ministero. Eppure da noi questo non conta. Le leggi di riforma dell'amministrazione sono pensate per i ministeri ma i loro principi debbono essere applicati anche nelle altre organizzazioni pubbliche. Ha senso? No, non ha senso, eppure l'errore si ripete. E tutto perché la pubblica amministrazione viene considerata una macchina, fuori dal tempo, dalla storia e dal suo contesto. 74


Insomma, l'analisi dell'amministrazione si è focalizzata troppo sulla statica e poco sulla dinamica dei processi, troppo sulle norme e sugli strumenti e poco sul ruolo della pubblica amministrazione come attore essenziale per dare valore, indirizzo e competenze nei processi di produzione delle politiche pubbliche. Lo studio, e quindi la pratica, della riforma amministrativa è stata poi poco attenta ai contesti e ai tempi delle riforme e delle amministrazioni. Si continua a ragionare troppo delle differenze tra le amministrazioni del Sud e quelle del Nord mentre, per meglio comprendere le amministrazioni in azione, si dovrebbe appròfondire l'analisi comparata delle amministrazioni locali che insistono nei medesimi territori. Si continua a ritenere che possano esistere soluzioni omogenee a prescindere dalle caratteristiche ftinzionali e strutturali delle organizzazioni (si pensi, ad esempio, alla recente istituzione degli Organismi indipendenti di Valutazione, aggiornamento dei vecchi Nuclei di valutazione). Importiamo con quindici anni di ritardo soluzioni che in altri Paesi sono già state superate, mentre concetti come quello di amministrazione "neoweberiana", da almeno 10 anni al centro del dibattito della comunità scientifica internazionale, sono patrimonio di una ristrettissima minoranza di studiosi del nostro Paese. Forse questo doppio fenomeno dipende dallo strutturale ritardo italiano: essendo sempre un decennio almeno indietro rispetto al policy development di altri Paesi, sia lo studio che la pratica della riforma amministrativa si posiziona in una situazione di retroguardia. Ma forse c'è dell'altro, forse è davvero una questione di prospettiva analitica: forse lo studio dell'amministrazione è troppo settoriale, troppo poco multidisciplinare, troppo poco orientato a vedere la pubblica amministrazione in azione e in relazione con le altre istituzioni e con il suo ambiente. Si studia l'amministrazione senza specificare che si sta studiando una parte particolare della stessa. La parte diviene il tutto. E allora "pubblica amministrazione" è semplicemente quello che si studia, quello che ci pare.

LA RISPOSTA DA DARE Stando al discorso pubblico sulla nostra amministrazione, la risposta alla domanda di Vetritto sarebbe assai semplice. Osando parliamo di amministrazione parliamo di un peso per il Paese, di un mondo di fannulloni, di qualcosa che è sempre in ritardo e che deve essere sempre riformato, di qualcosa che resiste al cambiamento per definizione. In questo contesto, quando si parla di pubblica amministrazione parliamo di un problema strutturale e davvero dannoso per il Paese. Sappiamo bene che la retorica della riforma amministrativa è un tratto strutturale dei sistemi democratici 7. E sappiamo bene che è facile attrarre l'attenzione del potenziale elettorato sui problemi del75


l'amministrazione. Al tempo stesso, però, non si può non osservare come il discorso pubblico, ed anche l'attenzione dei mass-media, si concentri continuativamente sulle storture, sui difetti, sulle inefficienze e mai sugli esempi positivi. Anche qui si tratta di una questione di percezione. Tutto cambia, ma la pubblica amministrazione resta sempre eguale a sé stessa: anzi, se le cose non cambiano abbastanza la pubblica amministrazione ne è la principale colpevole. La pubblica amministrazione come mondo a se stante, considerata un costo netto per la società. Quando si parla di amministrazione si parla di questo, nel discorso pubblico. E troppo spesso chi deve studiarla e chi deve riformarla parte dallo stesso luogo comune. Eppure il mondo circostante alla pubblica amministrazione è cambiato. Lo Stato è tornato ad essere un attore rilevante, all'interno di un contesto istituzionale assai diversificato, in una fase storica di grandi, epocali, difficoltà economiche e di prospettiva di medio periodo. Continuare a ragionare sulla pubblica amministrazione, e sulla sua riforma, senza tener conto del nuovo contesto globale, delle radicali mutazioni socio-demografiche, della modificazione delle aspettative future dei cittadini appare davvero fuori dal tempo e fuori dal mondo. E allora forse davvero, la sfida di Vetritto andrebbe raccolta. Forse sarebbe il tempo di lasciarsi alle spalle i novelli proverbi amministrativi, le concezioni aziendalistiche, le illusioni manageriali, senza però tornare a vecchie concezioni burocratico-ottocentesche. Forse davvero la pubblica amministrazione sta cambiando, cercando di assecondare i cambiamenti esterni, ed avrebbe bisogno di essere aiutata e supportata in questo processo da studi ed analisi meno ortodosse e routinarie e da riformatori meno pigri intellettualmente e più coraggiosi politicamente. Forse per decidere di cosa parliamo quando parliamo di pubblica amministrazione dovremmo cominciare a studiarla meglio (in molto multidisciplinare, più induttivo e meno vincolati da teorie e modelli pre-disegnati). Forse per rispondere alla domanda iniziale dovremmo guardare in modo diverso il mondo. Forse dovremmo allontanare da noi Lamberto Laudisi e scegliere consapevolmente cosa vogliamo che sia, come oggetto di studio e come oggetto di decisione riformatrice. Finché la pubblica amministrazione sarà quello che a ciascuno pare nessuno potrà davvero sapere di cosa si sta parlando. 'Si tratta di F. BuTERA e B. DENTE, Change management nelle pubbliche amministrazioni: una proposta, Franco Angeli, 2009; M.L. D'AUTILIA, R. RUFFINI, N. ZA1vi&io, Il lavoro pubblico tra cambiamento e inerzie organizzati ve, Bruno Mondadori, 2009. 2 HOOD, C. and G. PETERS, The Middle Aging of New Public Management: Into the

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Age ofParadox?, «Journal of Public Administration Research and Theory», 14, 3, 267-

82, 2004. P., H. MARGErFS, S. BASTOW and J. TINKLER, New Public Management is Dead - Long Live Digital-Era Governance, «Journal of Public Administration Research and Theory», 16, 3, 467-94, 2006. 3 DUNLEAVY,


POLLITT, C. and G. BOUCKAERT, Public Management Reform: A Comparative Analysis, Second Edition, Oxford University Press, Oxford 2004. ST0KER, G., Public Value Management: A New Narrative for a Network Government?, «American Review of Public Administration», 36, 1, 41-57, 2006. 6 Per una riflessione sui problemi epistemologici e metodologici dell'analisi del cambia-

mento mi permetto di rimandare a: CAPANO G., Understanding policy change as an epistemological and theoreticalproblem, «Journal of Comparative Policy Analysis», n.1, 2009, 731. Sul punto si veda il classico: MARcH,J.G., and J.P. OLSEN. O. Organizing PoliticalLfe. What Administrative Reorganization Tells Us About Government, «American Political Science Review» 77(2), 281-297, 1983.

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queste isUtuzioni

n. 158-159 luglio-dicembre 2010

Eveuti straordinari e governo ordivario delle città. Iticordalldo il giubileo del 2000* di Luigi Zanda

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icordare il Grande Giubileo del 2000 a dieci anni di distanza per parare di "eventi straordinari e governo ordinario delle città", è un occaione per affrontare un tema più che mai attuale: i grandi avvenimenti (che non possono che avere durata limitata) e il governo delle città (che invece esige stabilità, "ordinarietà" e continuità). Partiamo da una constatazione: negli ultimi nove anni l'Italia ha trasformato l'eccezionalità in pratica quotidiana. Per la gestione di avvenimenti come i campionati di nuoto, le coppe veliche, le cerimonie religiose molto distanti dalle emergenze, tutti ampiamente prevedibili e niente affatto urgenti, vengono utilizzate le deroghe sugli appalti e sui controlli della Corte dei conti previste dall'ordinamento esclusivamente per situazioni di grave pericolo e di massima urgenza. Questo metodo non è solo un errore grave. E soprattutto inutile e, quindi, sciocco.Lo testimoniano le vicende del Giubileo, che è stato un avvenimento straordinario, ma è stato gestito bene con le regole ordinarie. A proposito del Giubileo, debbo molta riconoscenza a Francesco Ruteffi per avermi consentito di lavorarne alla preparazione. Un'esperienza di grande interesse e, per me, anche intellettualmente molto stimolante. Ma sull'esperienza del Giubileo è calato un velo. Non se ne è più parlato, come se non ci fosse mai stato. COME CI SI PREPARÒ AL GIUBILEO

Oggi, questa lunga rimozione può aiutarci a farne un bilancio più obiettivo e a comprendere meglio quanto del lavoro dell'anno 2000 è rimasto alla città di Roma e quanto invece è andato perso. L'autore è senatore del Pd. È Stato presidente dell'Agenzia per il Giubileo dell'anno Santo 2000.

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Quando nel 1995 iniziò la preparazione di Roma al Giubileo, apparve subito chiaro che anche noi avremmo dovuto fare i conti con alcuni noti vizi italiani. Burocrazia lenta e malmostosa. Fìnanziamenti limitati e in cronico ritardo. Difficoltà di rapporti tra gli organi pubblici. Troppi controlli ma soltanto formali. Sapevamo che queste erano abitudini nazionali, comode o scomode che fossero. Ma a nessuno è venuto in mente di chiedere che una legge ci liberasse dalla Corte dei Conti o dal fastidio di dover fare le gare. Il finanziamento dello Stato arrivò a metà del 1997, a soli due anni dall'inizio delle celebrazioni. Circa 3.000 miliardi di lire, i miliardo e mezzo di euro. Per tutta Italia! Le risorse non erano abbondanti e il tempo rimasto era pochissimo. Ricordo una lunghissima e affollata riunione nello studio del sindaco Rutelli per decidere la strategia. Il dilemma era se fosse utile mantenere nel programma tutte le opere pubbliche che avevamo pensato di realizzare. Fu in quella riunione che si decise di far partire solo gli interventi che con assoluta certezza sarebbero stati completati entro l'autunno del 1999 e spostare parte degli investimenti così recuperati in attività organizzative collegate all'accoglienza. Ho sempre pensato che in quella riunione, scartando le opere che era impossibile terminare, ftirono messe le basi della buona riuscita del Giubileo. Perché una città può anche sopravvivere se ha unpera pubblica in meno. Ma muore se la sicurezza, la sanità, l'igiene urbana e la mobilità non ftinzionano bene tutti i giorni.

ANAUsI DI UN SUCCESSO

Il successo del 2000 ha avuto quindi tre sostanziali punti di forza sui quali oggi vorrei dire qualcosa: la qualità del lavoro organizzativo; la consapevolezza della dimensione internazionale del Giubileo; la scelta delle opere da fare. Partiamo dal primo punto: la qualità del lavoro organizzativo. Il grande lavoro organizzativo mirato all'accoglienza è stato il valore aggiunto che ha permesso a quasi 30 milioni di pellegrini (in realtà 90 milioni visto che la permanenza media di ciascuno è stata di tre giorni) di visitare Roma in condizioni di sicurezza, con buoni servizi pubblici e in un ambiente accogliente. In più, è stata proprio l'efficienza dei servizi e dellrganizzazione della città che ha consentito a tre milioni di romani di continuare a svolgere la loro 79


attività ordinaria per i 12 mesi del Giubileo, con le strade e le piazze stracolme di pellegrini. Non bisogna sottovalutare questo aspetto. Le Olimpiadi, i Campionati mondiali di calcio, le Esposizioni universali durano al massimo qualche mese. Il Giubileo dura più di un anno e la città deve essere messa in grado di non fermarsi mai, i cittadini debbono poter vivere la loro vita normale. Sarebbe stato impensabile chiedere ai romani sacrifici per un anno intero. Nel 2000 questo miracolo è riuscito, nonostante le catastrofi annunciate da Alberto Ronchey e da Guido Ceronetti. La formula vincente è stata quella di combinare il sistema di servizi pubblici per i pellegrini con le quotidiane esigenze dei romani. Sicurezza, sanità, mobilità, igiene urbana, accoglienza hanno funzionato secondo protocolli di lavoro molto studiati e molto dettagliati. L'informazione è stata sempre una priorità. La sala stampa del Giubileo è stato il motore da cui è stata diffusa ai cittadini, ai pellegrini e ai media una massa straordinaria di informazioni che ha reso a tutti più facile programmare il proprio tempo e i propri movimenti. La tecnologia ha molto aiutato. L'accoglienza è stata governata da un'importante banca dati, da un completo sistema informativo territoriale, da un sistema di prenotazioni sulla rete internet, dall'assistenza di 70.000 volontari ciascuno dei quali aveva seguito un corso formativo ed era stato dotato di quel che gli serviva per meglio lavorare. Il tutto coordinato da una modernissima "sala situazione" che l'Agenzia per il Giubileo ha voluto, progettato e allestito per poi affidarne la guida al Prefetto di Roma. I servizi pubblici di una grande città sono troppo integrati tra loro perché il deficit di un settore non si ripercuota sull'efficienza degli altri. Quello che siamo abituati a chiamare "coordinamento" è in realtà il "governo" del sistema urbano. Anche la scelta di non restringere il bacino di accoglienza al solo territorio di Roma, ma ampliano all'intera provincia, coinvolgendo anche larghe parti della Regione Lazio è stata oltre che una felice scelta organizzativa, anche un primo esperimento molto concreto della ftitura città metropolitana. Nel 2000 il "governo" della città di Roma c'è stato. Ebbene, di questa poderosa esperienza organizzativa è rimasto molto poco, forse niente. Chi ha diretto e dirige a Roma non ha capito che nel 2000 era stata fatta un'esperienza straordinaria che poteva essere molto utile per l'ordinario. La "sala situazione" non c'è più. E diventata un ufficio comunale. Gli apparati tecnologici saranno finiti da qualche parte.


I protocolli dei grandi servizi pubblici che favorivano un esercizio integrato sono un lontano ricordo. Il risultato è che Roma era più pulita nel 2000, quando le sue strade erano invase da 30 milioni di pellegrini, di quanto lo sia oggi. Il risultato è che nel 2000 i pullman turistici furono tenuti fuori dal centro storico, mentre oggi lo occupano circolando e sostando "manu militari" proprio in quei punti della città dove il loro ingombro consiglierebbe di tenerli lontani. Se nel 2000 non fosse stata imposta una disciplina severa, i puilman turistici avrebbero paralizzato la città. Il risultato dell'assenza di regole e di controlli è che oggi le operazioni di carico e scarico delle merci a Roma si fanno con grandi camion che si muovono, operano e sostano nelle ore di punta anche nelle strade strette della città barocca e rinascimentale, incuranti di mandare in tilt una città così fragile. I/secondo punto. la consapevolezza della dimensione internazionale

Innanzitutto occorre ricordare la natura spirituale del Giubileo. La storia della Chiesa dirà quale rilievo ecclesiale debba essere assegnato al Giubileo del 2000. Ma sin d'ora sappiamo che ha rappresentato la sintesi dello straordinario pontificato di Giovanni Paolo Il e della sua predicazione. C'è ricordare che le quasi 400 celebrazioni giubilari e le cerimonie religiose dell'anno 2000 si sono svolte secondo un calendario voluto e deciso dalla Santa Sede. Le conseguenze operative di quel calendario, le sue ricadute in termini di impegno dei servizi pubblici, sono state tutte sulle spalle dell'Italia e del Comune di Roma. La meta di tutti i pellegrini era San Pietro. Tutti volevano vedere il Papa o, almeno, fermarsi sotto le sue finestre. Ma per arrivare a Piazza San Pietro tutti hanno transitato, dormito, mangiato, vissuto sul territorio italiano e soprattutto a Roma. Pensate alla difficoltà per l'Italia di pianificare in anticipo i servizi pubblici sulla base di un calendario deciso da un altro Stato secondo i suoi tempi e le sue esigenze. Nel Giubileo del 2000 le cose hanno ftinzionato perché è stato adottato un buon metodo di lavoro e perché quando serviva ci si parlava e riparlava, sempre mettendosi gli uni nei panni degli altri. E così che si stemperavano le difficoltà. Negli anni passati, quando le diverse opinioni sui temi etici provocavano molte incomprensioni, ho spesso ripensato a quello "spirito del Giubileo" che tante volte ci ha aiutato a risolvere problemi anche molto complessi. I problemi sono su piani diversi, evidentemente. Ma forse, negli anni scorsi, nel trattare i temi etici quello "spirito" è mancato e non ci si è parlati abbastanza.

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Venivamo alla scelta delle opere pubbliche. Il tema è delicatissimo. Innazitutto diciamo che quelle realizzate per il 2000 sono ancora tutte li a dimostrare la loro utilità nel tempo. Il sottopasso davanti a via della Conciliazione e il tunnel di Porta Cavaileggeri. La terza corsia della Roma-Fiumicino e di parte del raccordo anulare. L'ampliamento del porto di Civitavecchia. Il riassetto delle aree intorno alle quattro Basiliche giubilari. L'allestimento delle Scuderie del Quirinale. Il rinnovo delle facciate dei palazzi e delle case del centro storico. Si tratta di opere visibili ma tutte delle dimensioni contenute imposte dalle risorse scarse e dai due anni disponibili per la loro realizzazione. Si tratta, tuttavia, di opere mai fini a se stesse. La loro utilità continua ad essere dimostrata quotidianamente.

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COMINCIA DAL PROGETTO

La convinzione forte che voglio esprimere è questa: gli eventi straordinari possono certamente contribuire alla realizzazione di grandi opere pubbliche, ma prima ancora possono aiutare il governo ordinario di una grande città. Per esempio, è da chiedersi se e come possano influire sul suo sviluppo urbanistico. Doveva essere il 1998 quando una sera a cena con Pasqual Maragail, che era stato uno straordinario sindaco di Barcellona, gli chiesi come avesse fatto a trasformare radicalmente la sua città in occasione delle Olimpiadi del 1992. Ecco come mi rispose. Negli ultimi 10 anni del franchismo alcuni giovani professionisti la sera si riunivano per discutere del futuro della città e della sua evoluzione urbanistica. In quei 10 anni di dibattito quel gruppo di giovani affinò le idee e definì un piano per la Barcellona futura, per la valorizzazione del waterfront, per il nuovo sistema dei trasporti, per le nuove direttrici dello sviluppo, per una nuova dimensione culturale urbana. In una parola, fu allora che nacque l'idea della Città nuova. Caduto Francisco Franco, quei giovani professionisti divennero un partito politico e vinsero le elezioni. Maragall fu eletto sindaco di Barcellona. Ma la città non aveva soldi e, quindi, nei primi dieci anni la giunta Maragail concentrò tutte le sue poche risorse in attività progettuali. Fu così che l'idea nuova della città venne tradotta in tanti progetti esecutivi. Progetti esecutivi completi, con tanto di valutazione del costo di ciascuna opera. Era un azzardo, perché poteva darsi che le opere non avrebbero mai visto la luce e i progetti dovessero essere buttati via. Invece, dopo 10 anni di progettazione, Barcellona, proprio grazie a quella importante base progettuale, riuscì a farsi assegnare le Olimpiadi.


A quel punto c'erano altri 10 anni per realizzare le opere progettate e il governo centrale spagnolo fu ben contento di finanziare interventi immediatamente cantierabili, che avrebbero dato lustro al Paese. Così Barcellona è stata trasformata in una delle più belle, più moderne e più vivibili città d'Europa. Qual è la morale della formula Maragall? Le morali sono varie. Si dice che i grandi appuntamenti siano utili sia perché facilitano l'afflusso dei finanziamenti, sia perché pongono un termine inderogabile alla consegna delle opere. E vero. Ma guai a imbarcarsi nell'avventura di un evento straordinario se non si hanno le idee chiare su cosa fare e se i progetti non sono pronti, non sono ancora maturi. E il progetto ad essere la base di ogni impresa. Ma l'esperienza di Barcellona ci ricorda anche che per ideate una grande opera pubblica serve molto tempo. E per progettarla ne serve altrettanto. La fretta porta fatalmente a ridurre i tempi dell'ideazione e della progettazione perché sono gli unici che sembra possano essere compressi. Oppure, peggio ancora, ad iniziare la realizzazione delle opere prima che la progettazione sia finita. E per questa sottovalutazione della rilevanza della fase progettuale che la legge "obiettivo" di Lunardi è stata un faffimento. Ha fallito perché ha affidato la progettazione tutta intera all'impresa costruttrice, così mischiando il progetto con gli interessi economici dei costruttori, in questo modo favorendo la degenerazione del procedimento senza mai riuscire ad abbreviare i tempi, ma aumentando i costi e abolendo i controlli. Quel meccanismo non poteva funzionare e non ha ftinzionato. C'è un caso che interessa Roma più direttamente: la linea C della metropolitana. Se ne cominciò a parlare nel 1995. Doveva partire dalla periferia sud e ter minare a San Pietro. Una linea molto interessante perché collega San Giovanni con San Pietro e prevede fermate al Colosseo, piazza Venezia, piazza Argentina, piazza della Chiesa Nuova, piazza Risorgimento. Oggi il suo costo complessivo presunto è di 3,5 miliardi di euro, ma col tempo certamente questi numeri lieviteranno. Nel 2007 sono iniziati i lavori della prima tratta. Contemporaneamente proseguivano la progettazione e i sondaggi per le tratte successive. Qual è, adesso, la novità? Che andando avanti ci si è accorti delle difficoltà per la realizzazione delle stazioni centrali (Venezia, Argentina, Chiesa Nuova, Risorgimento) che, quindi, potrebbero saltare. Se le difficoltà tecniche lo rendessero necessario, se ne prenderà atto. Quel che è più difficile accettare è che al 19 di novembre del 2010 Roma non conosca, non dico la strategia trasportistica della giunta Alemanno, ma neanche quali siano le sue decisioni sulla linea C.


L'improvvisazione nella gestione dei lavori della linea C è visibile. Solo che la continua improvvisazione costa e costa molto. Dobbiamo sapere che questi costi sono tutti addebitabili alle incertezze progettuali. Ho concluso. Voglio solo sottolineare come oggi io non abbia mai usato l'espressione "grande evento". Non l'ho usata perché il Giubileo è stato un aweninento straordinario, ma non è stato un "grande evento" come lo intende il governo Berlusconi. In Italia abbiamo una legge che sottrae i "grandi eventi" alla legislazione ordinaria dei lavori pubblici e al controllo preventivo della Corte dei conti. E una legge del 2001 e il Giubileo, per fortuna, non l'ha conosciuta. Il Giubileo non ha scelto le scorciatoie. Questa legge è sbagliata e va abrogata. Non solo per ragioni di trasparenza e correttezza amministrativa. Ma anche, e soprattutto perché - da molti punti di vista -, tra eventi straordinari e governabilità ordinaria della città non c'è poi tanta differenza. In tutti e due i casi, per garantire buoni risultati servono due prerequisiti: buoni progetti e rigoroso rispetto della legislazione ordinaria.

* Intervento pronunciato il 19 novembre 2010 nel convegno "Eventi straordinari e ordinario governo delle città. Riflessioni e proposte dieci anni dopo il Giubileo", svolto a Roma, presso l'Auditorium Parco della Musica e promosso da G/ocus, think tank fondato e presieduto da Linda Lanzillotta.


queste istituzioni

n. 158-159 luglio-dicembre 2010

Colltilluwe i uoulllhÌssariatllellti delle aree archeoIogiche di Gioia Chi/in i

I

recenti fatti di cronaca, relativi al crollo di una parte delle mura perimetrali della Casa dei Gladiatori in via dell'Abbondanza a Pompei, riportano l'attenzione su un tema molto dibattuto, ovvero l'uso dello schema dei "commissariamenti" in ambito archeologico. Il ricorso al modello dell'emergenza risulta essere solo una "soluzione tampone", piuttosto che un tentativo di risolvere nel medio e lungo periodo i problemi legati alla tutela, gestione e valorizzazione dei beni culturali. La stessa necessità di ricorrere a tale schema costituisce, da sola, la più chiara denuncia dell'esistenza di un assetto organizzativo inefficiente e mal ftinzionante ma l'utilizzo del modello non offre lbpportunità di sviluppare e di migliorare la macchina amministrativa statale o locale che sia. Per dimostrare la fondatezza dell'affermazione occorre focalizzare l'attenzione su alcuni nodi cruciali relativi all'utilizzo del commissariamento.

IL CONFINE DISCREZIONALE FRA EMERGENZA E INTERVENTO ORDINARIO

Il primo punto di riflessione riguarda l'individuazione del discrimine tra contesto emergenziale e quanto dovrebbe, invece, rientrare nella gestione ordinaria. Sulla realtà risulta, ormai evidente come il ricorso allo schema dell'urgenza sia una scelta assolutamente discrezionale (1. n. 225 del 24.02.1992). Il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza e il Presidente del consiglio, o per sua delega il ministro dell'Interno, nomina e autorizza il Commissario delegato a predisporre ed attuare gli interventi, ma né a livello giuridico, né sul piano giurisprudenziale è possibile individuare un netto confine tra situazione ordinaria ed evento straordinario 1 . Prendiamo degli esempi. L'autrice è Archeologa, collaboratrice della Soprintendenza per i Beni archeologici dell'Etruria meridionale.


Il commissariamento del sito archeologico di Pompei è stato giustificato e motivato dalla criticità delle situazioni che rischiano di paralizzare le attività di tutela2 . La nomina del Commissario delegato per gli interventi necessari nel Palazzo di Brera è funzionale alla organizzazione e gestione degli eventi che si realizzeranno durante lo svolgimento a Milano della Expo 2015. Ancora, i rischi di crolli dovuti ad una particolarmente grave situazione atmosferica e gli interventi strutturali legati ad avanzato stato di dissesto sono motivazioni addotte per proclamare lo stato di emergenza nelle aree archeologiche di Roma ed Ostia antica. Ma si può parlare di emergenza relativamente alla valorizzazione ed alla fruizione? I piani di intervento sembrano dover essere programmati a prescindere da fatti più o meno "catastrofici", cioè nell'ordinarietà di una buona amministrazione. Capace di proseguire nel tempo la sua azione. Ogni progetto di valorizzazione presuppone tutela e apporto di ricerca scientifica con disponibilità di funzionari e personale tecnico specializzato, la cui nomina deve essere pensata e programmata da un apposito piano delle assunzioni.

LA DISTRIBUZIONE DELLE COMPETENZE Vediamo in maniera sommaria come ruoli e competenze sono distribuiti, invece, nel modello delle emergenze e come si struttura l'iter decisionale, prendendo come riferimento l'ordinanza n. 3 747/ 2009 con cui il capo del Dipartimento della Protezione Civile Guido Bertolaso era stato nominato Commissario delegato per la realizzazione degli interventi necessari a fronteggiare la situazione di pericolo in cui versano le aree archeologiche di Roma e di Ostia antica, successivamente sostituito dall'architetto Roberto Cecchi, con l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3774 del 28 maggio 2009, art. 1. Dalla lettura dell'ordinanza si evince che il Commissario delegato ha il compito di predisporre un piano degli interventi, che viene sottoposto alla preventiva approvazione della Commissione generale di indirizzo e coordinamento, per l'espletamento dei quali può avvalersi di uno o più soggetti attuatori nominati dallo stesso Commissario delegato. Deve in ogni caso provvedere d'intesa con i Soprintendenti per i beni archeologici di Roma e di Ostia, poiché ad essi rimangono le competenze in materia di conservazione dei beni. Ha il compito di supportare il Commissario delegato la sopra citata Commissione, presieduta dal Soprintendente per i beni archeologici di Roma e composta da due esperti, la quale esprime parere vincolante sui singoli progetti. Per l'espletamento delle varie attività giuridiche, amministrative e tecniche il Commissario si avvale di una apposita struttura composta da dieci unità di personale, di cui cinque unità con contratto di collaborazione della durata massima dello stato di emergenza, le altre appartenenti alla pubblica


amministrazione civile e militare, e può anche rivolgersi ad un esperto per espletare iniziative di protezione civile (art. 1). Per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza, salvaguardia, consolidamento e manutenzione dei siti il Commissario delegato può utilizzare strutture pubbliche e professionalità interne al Ministero dei beni e delle attività culturali oppure, se insufficienti, rivolgersi a liberi professionisti 4. Per l'approvazione dei progetti, sui quali la Commissione si è già espressa favorevolmente, ricorre, ove necessario, alla conferenza di servizi da indire entro 7 giorni dalla disponibilità dei progetti e procede derogando rispetto agli art. 14, 14 bis, ter e quater della legge 241/'90. Qualora un rappresentante di un'amministrazione invitata risulti assente o non dotato di adeguato potere di rappresentanza la conferenza delibera prescindendo dalla sua partecipazione. Eventuali dissensi manifestati in questa sede, a pena di inammissibilità, devono essere motivati e recare specifiche indicazioni progettuali per poter ottenere parere positivo circa le proposte che devono essere realizzate. Pareri, nulla-osta e visti devono essere resi dalle Amministrazioni entro sette giorni dalla richiesta, oltre questo termine si ritengono concessi con esito positivo. Il Commissario delegato si occupa degli espropri e delle occupazioni di urgenza con i termini ridotti alla metà 5 (art. 2). Per l'attuazione di quanto stabilito nell'ordinanza il Commissario delegato, laddove lo ritenga indispensabile, può avvalersi di altre deroghe, oltre alle succitate, rispetto ad una serie di disposizioni, fermo restando il rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, della direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 ottobre 2004 e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario (art. 3) 6 Al Commissario delegato è intestata una contabilità speciale costituita appositamente per la gestione delle risorse finanziarie destinate alla realizzazione degli interventi previsti nell'ordinanza (art. 4). CHE COS'È, ALLA FINE, IL MODELLO DELJ]EMERGENZA Possiamo osservare come questo schema abbia nella sua conformazione e nei suoi obiettivi una certa ambivalenza, poiché racchiude in sé le caratteristiche di un provvedimento atto a far fronte ad una emergenza - pianificazione dei progetti, stanziamenti di somme ad hoc, abbreviazioni di termini di legge, possibilità di deroghe - ma rivela anche sintomi di un nuovo modello di governance. Gli interventi, infatti, sono pensati nell'ottica del superamento del contesto emergenziale, mirando a consentire e migliorare la fruizione dei luoghi. Lo stesso Cecchi ha riconosciuto la necessità di una "cultura della manutenzione" programmata, con un calendario di interventi generali che sistematicamente tengano sotto controllo il degrado dei siti e ne migliorino e assicurino la piena fruizione pubblica.


L'esempio sopra riportato consente riflessioni più ampie e generali valide ogni qual volta si scelga di avvalersi di tale modello. Gli elementi peculiari del modello sono l'ampia disponibilità di abbreviazioni di termini di legge e la facoltà di deroghe, di cui possono avvalersi i commissari. Il che si risolve in procedure eccezionali rispetto alla normativa ordinaria. Nell'assunto di poter ottenere risultati positivi in tempi brevi. Le ordinanze, formalmente, garantiscono il rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico e, almeno negli intenti, delimitano il potere del commissario delegato, che dovrebbe esplicarsi per tempi e in luoghi prescritti e con modalità predeterminate. Le numerose deroghe, dall'altra parte, consentono all'amministrazione straordinaria di arrivare là dove quella ordinaria non riesce, avallando, però, sovrapposizioni e sostituzioni di poteri e competenze e originando, dunque, situazioni conflittuali, che possono creare condizioni di rischio per il rispetto dei principi di legalità, di uguaglianza, di buon andamento, nonché per la garanzia dei diritti di terzi. Anche se di per sé non è illegale l'impiego di poteri speciali nel rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione 7, un insieme consistente di modifiche e parziali abolizioni rispetto ad un apparato normativo vigente diviene causa di squilibri tra e nelle istituzioni. E soprattutto di sovrapposizioni di apparati.

IN PROSPETTIVA A questo punto è d'obbligo chiedersi se sia istituzionalmente e politicamente corretto ricorrere al modello dell'emergenzialità per realizzare lavori e svolgere attività che potrebbero essere pianificati in luoghi debiti - Ministero, Soprintendenze ed enti locali -, da figure politiche e professionali già esistenti (funzionari, tecnici, attori locali). Certo, il "non-funzionamento" delle amministrazioni ordinarie è spesso un dato di fatto. L'amministrazione emergenziale diviene - dopo un dato periodo - una seconda amministrazione sovrapposta o un alibi per mantenere in stallo l'azione amministrativa. Insomma, le buone politiche devono rientrare nell'ordinario e di ciò si dovrebbe tenere conto quando si decidono modifiche strutturali e nuovi assestamenti o quando si distribuiscono competenze e compiti. Occorre domandarsi, inoltre, per quale motivo si prediliga un sistema con poteri accentrati, creato volta a volta, non venga, invece, messo in condizione anche con provvedimenti non legislativi - di essere efficiente ed efficace un assetto decentrato e più articolato. Le Soprintendenze, ad esempio, grazie all'opportunità di monitorare direttamente e più da vicino le realtà locali e grazie alle sempifficazioni burocratiche che agevolano il regolare contatto con enti territoriali pubblici e privati dovrebbero essere sostenute nella loro attività di tutela e conservazione e non sostituite nella funzione di potenziare la fruizione dei luoghi. lui


È l'ordinaria amministrazione che dovrebbe essere messa in grado di organizzare taskforce di conduzione di eventi particolari relativi alla promozione, rivalutazione e potenziamento della fruizione dei beni, anche avvalendosi, se necessario e se opportuno, dei privati. Tornando alla situazione di Pompei è emerso chiaramente che per tutelare un patrimonio archeologico di tale entità non è stato sufficiente lo schema del commissariamento e le risorse messe in campo. Il ministro Bondi nell'informativa alla Camera, dopo aver spiegato che il crollo riguarda parti restaurate negli anni cinquanta del secolo scorso, ha dichiarato che il problema a Pompei non è la mancanza di fondi "ma quello di assicurare una gestione capace di utilizzare al meglio le risorse esistenti"8 . In un'intervista rilasciata agli inizi del 2010 alla rivista Archeo, il dott. Marcello Fiori, allora Commissario delegato a Pompei, aveva dichiarato e sottolineato che al momento dell'insediamento del suo predecessore professor Profili c'erano 40 milioni di euro non spesi, che insieme ad altri 35 mila sarebbero serviti a mettere in sicurezza il sito attraverso opere di restauro e di manutenzione straordinaria. Fiori, attualmente Dirigente Generale MIBAC, prevedeva che per il 2010/2011 i ricavi della vendita dei biglietti e risorse messe a disposizione dalla Regione Campania avrebbero assicurato la prosecuzione dei recuperi 9. In effetti nel comunicato reso il giorno 11 novembre 2010 ha ribadito che complessivamente il costo del programma degli interventi eseguiti a Pompei in due anni ammonta a 79 milioni di euro, di cui 65 mila sono stati destinati ad operazioni di messa in sicurezza 10 . Insistendo sul singolo episodio - soltanto perché è esemplare - non è ragionevole neanche chiamare a pretesto vecchi restauri né il fatto che la Casa dei Gladiatori non era nell'elenco di quegli edifici "fortunati" restaurati nei due anni di commissariamento - appare comunque evidente che c'è stata - e non poteva non esserci - una discrepanza tra i piani straordinari, di per sé episodici, e gli interventi ordinari, che andavano da tempo pianificati e programmati. E vanno messi a punto, oggi più che mai. Beninteso, la formula dell'urgenza parte dal malfunzionamento. In qualche modo, il ricorso al modello emergenziale ha messo in evidenza le necessità a cui bisogna rispondere. Ma continuare nella prassi dei commissariamenti non sembra la soluzione dei problemi.

Fioiirro A., I commissari straordinari per la gestione dei beni culturali, in 'Aedon, Rivista di arti e diritto» on line, n. 2,2009, pp. 1-9, in part. p. 8. 2 Vedi ordinanza 11 luglio 2008 n. 3692. Vedi ordinanza 30 dicembre 2009 n. 3836. Il Commissario delegato può derogare, se lo ritiene utile, ai Regi decreti 2440/1923 (artt. 3, 8, 11, 19) e 827/1224 (artt. da 37 a 42 e 117, 119) pertinenti le norme di contabilità dello Stato e al Decreto legislativo

163/2006 definito Codice dei Contratti pubblici (arti. da 6 a 10, 13, 14, da 17 a 21, 26, 28, 33, 34, 36, 37, 42, da 48 a 50, 53, da 55 a 57, da 62 a 68, 70, da 75 a 98, 111, 118, da 121 a 125, 128, 130, 132, 141 e 241), contenente norme ed indicazioni che disciplinano le procedure contrattuali. Può avvalersi di deroghe rispetto agli artt. 96 e 97 del Codice dei Beni Culturali ed al Decreto del Presidente della Repubblica 327/2001 e successive modificazioni


ed integrazioni (artt. da 8 a 22 bis) relativo agli espropri per pubblica utilità. 6 Oltre a quanto già citato, è data possibilità di deroga rispetto a: decreto legislativo 42/2004 (artt. 5, 21, 22, 26, 27, 38, 33, 45, 46, 50, 52, 96, 97, 120, 169, 181), Codice dei Beni Culturali; legge 146/1990 e successive modificazioni ed integrazioni (art. 8); Decreto legislativo 267/2000 (artt. 50 e 54) relativamente a poteri e competenze dei sindaci e dei presidenti delle province in materia di sicurezza ed incolumità dei cittadini; Decreto legislativo 165/2001 (art. 7) sulla gestione delle risorse umane; Decreto del Presidente della Repubblica 66/1998; leggi regionali di recepimento ed

dei

applicazione della legislazione statale oggetto di deroga. 7 i Fioiurro A., op. cii'., p. 8 e F1ANcoLA V., L'arcbeologia commissariata, febbraio 2010, pp. 1-6, in part. p. 2, testo tratto dal sito www.astrid-online.it . Vedi Resoconti dell'Assemblea, Informativa urgente del Governo sul crollo del/a Scho/a dei Gladiatori presso gli scavi di Pompei, tratto dal Sito www.camera.it . Vedi ROSSINi O., Pompei: commissariare il mito, in ,>Archeo. Attualità del Passato,>, Febbraio 2010, n. 2, pp. 46-81, in part. pp. 72-80. Vedi Rassegna Stampa, Comunicato 11 novembre 2010, tratto dal Sito www.beniculturali.it .


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Riviste e dibattito politico (parlaildo di

1101)

uesto dossier parla (anche) di noi e di voi. Il mondo delle riviste di cultura e dell'editoria di nicchia si confronta con il Web in una duplice accezione. In primo luogo, per ver,ficare la tenuta e i processi adattivi che il lavoro intellettuae con le sue caratteristiche e le sue routine può e deve garantire rispetto a codici, linguaggi e tecnologie non tradizionali, ma non per questo distorcenti del dna del lavoro stesso. Non necessariamente, quantomeno. Su questi aspetti rflette Roberto Basso a proposito di coda lunga dell'editoria, che ripensa le categorie di spazio e tempo dei prodotti editoriali, al di fuori dallo scaffale - sempre più stretto e conteso - delle librerie e degli altri canali di promozione e distribuzione del mercato tradizionale. In secondo luogo, per decidere chefare con i propri lettori e con le tante altre opinioni individuali, collettive, aggregate, che la Rete è capace di attivare, connettere, scoprire. E forse l'aspetto centrale de/lavoro culturale. Ben prima dell'avvento di Internet. A questo è dedicato l'intervento di Rosario Garra che, con il lavoro del Coordinamento delle Riviste italiane di Cultura, offre un punto di vista apprezzabile sui nuovi circuiti comunicativi a disposizione deifacitori di riviste, confrontandosi con i dati del/a loro attua/e presenza online. Le note di Claudia Lopedote rip rendono entrambe le sfide per sollecitare la parte delle riviste di cultura pratiche di accostamento a/la Rete più coraggiose, che non seguano acriticamente /a strada tracciata da a/tn, ma recuperino e mo/tiplichino /e energie e il senso de/lavoro intellettuale, de/suo va/ore per le pratiche e la vita quotidiana.

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Tratto da La vita agra di Luciano Bianciardi, (Rizzoli, 1962, pp.5.3-S4)

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a trafila era sempre la medesima: lunedì passare gli articoli e contarli, battuta per battuta. Martedì menabò, ma a quello ci pensava il Fernaspe, col righello, la matita e lo spago: qui la fotografia, qui il testo, qui il titolo e il sommario. Giovedì prime bozze da rileggere: Fernaspe le misurava un'altra volta col solito spago e ordinava a noi di tagliare i testi perché entrassero nel suo impaginato. "Titoletto su tre colonne," mi diceva poi "sommario di quattro righe. Giustezza venticinque, fanno cento battute esatte. Senza spezzare parole, mi raccomando. La fotografia va tagliata perché entri qua." E io subito mi mettevo al lavoro, a sillabare la frase del sommario, a contarla e ricontarla, perché con Fernaspe non c'erano storie, dovevano essere cento battute in tutto, fra bianchi e neri. Riunito a Roma il congresso nazionale delle cineteche, già cinquantaquattro battute erano; con le residue quarantasei bisognava dire gli scopi del congresso: per la difesa del nostro patrimonio artistico. Quarantasei battute esatte, però diceva assai poco, era un sommario grigio. Ne preparavo un altro più vivo, poi tanto avrebbe scelto il Fernaspe. Centottanta "pizze" di pefficola andranno perdute se il governo non dà i mezzi per conservarle. Novantaquattro battute, contandoci anche il punto in fondo. Le altre sei per arrivare a cento dove le pescavo? Un "che" dopo pellicola mi guadagnava due spazi (non tre perché la virgola saltava); altri due spazi potevo guadagnarli mutando il dà in darà. Se il governo non darà, che sintatticamente è anche più preciso. Novantaquattro, novantasei, novantotto. Ancora due battute, le solite ultime due battute che non si pescavano mai. Forse la cosa migliore era che in tipografia spaziassero un poco di più. Mostravo i due sommari al Fernaspe, e lui mi diceva che quel pizze era un poco audace, e poi non tutti capiscono cosa sono queste pizze, c'è il pericolo d'un equivoco, nonostante le virgolette. Così finiva per scegliere l'altro sommario, un po' grigio forse, ma più chiaro. Il sabato arrivavano i bozzoni dell'impaginato. In tipografia al solito avevano fatto le spaziature a capocchia, così da una parte avanzavano dodici righe, da un'altra ne mancavano sette, e per tutto il giorno noi bisognava qui tagliare, là aggiungere, e poi rifare daccapo tutti i sommari, sempre per via di quei lavativi di tipografi. Il Fernaspe si attaccava al telefono e lo sentivamo urlare insulti, mentre noi si continuava a tagliare e ad aggiungere. La sera tardi il numero era congedato, e noi avevamo tutti la bocca arsa dal fumo e dal caldo calcinoso della stanza. Il Fernaspe ci offriva l'aperitivo, sostava cinque minuti a rispiegarci il passaggio dal neorealismo al realismo, e poi filava a cena, perché dopo c'era o una conferenza o una prima. Il torracchione di vetro e alluminio intanto era sempre li, immobile in mezzo al traffico. Della missione io per un po' non seppi a chi parlarne, timoroso di sentirmi rispondere o che la notizia era invecchiata, o che stessi attento col pericolo del neorealismo... L'Homo Tipographicus è vivo e vegeto. Lo sanno bene quanti si trovano, pur immersi nell'era di Internet, afare i conti con i processi di scrittura, le norme redazionali e le routine di composizione dei testi (parole, grafici, immagini, tabelle) di un qualunque prodotto editoriale. Paragrafi da limare, righe da aggiungere o cancellare, margini dagiustficare. La scrittura come percezione lineare, anche quando ormai nomadica ed zpertestuale, è la base immutabile del testo tipografico come di quello elettronico. Pur con interessanti novità. L'homo videns èpiù che mai sensibile all'aspetto grafico, alla percezione dell'insieme. E il suo tempo non si è espanso. Non a caso, la sfida dei nuovi supporti digitali per la lettura di e-book e quotidiani si gioca in parte sulla capacità di non fare sentire al lettore la nostalgia delle pagine da sfogliare. 92


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ousumo culturale ed eoluzioue ueo-trihale delle società di massa di Roberto Basso

on la rivoluzione industriale sono nati i mercati di massa. Nel descriverli, gli analisti usano spesso una curva nella quale i volumi sono collocati in ordinata e i prodotti in ascissa, in ordine discendente, dal più venduto a quello che lo è meno. Nei mercati di massa così come li abbiamo sempre conosciuti la distribuzione volumi/prodotti si presenta quindi come una curva che parte da un valore molto elevato e via via scende tendendo a zero. Una curva concava con una testa, a sinistra, e a destra una coda che, sui mercati caratterizzati da abbondanza di prodotti sul lato dell'offerta, risulta abitualmente molto lunga. Gli analisti si sono storicamente concentrati sulla testa di questa distribuzione, ponendo attenzione ai best seller, agli bit. I media fanno altrettanto, favorendo la concentrazione della domanda proprio sui prodotti che - per qualche ragione - attirano l'attenzione dei consumatori. Certo esistono gli evergeen, prodotti che continuano a sollecitare la domanda anche molto tempo dopo la loro prima comparsa sul mercato: prodotti discografici, per esempio, ma anche prodotti automobilistici. Ci sono prodotti che continuano a circolare anche quando non sono più in produzione, prodotti con elevato valore simbolico o affettivo, scambiati tra appassionati e collezionisti. Volumi non più editati, per esempio, ma anche moto e auto d'epoca. Ma si tratta di eccezioni, di bizzarrie alle quali gli studiosi non hanno dedicato troppo tempo. Quindi ci siamo abituati a mercati di massa in cui alcuni prodotti ottengono un successo di vendita in modo sincronizzato. Che cos'è un bit, infatti, se non il consenso commerciale prestato dai consumatori a un prodotto nella stessa unità di tempo? (Per unità di tempo si intende ovviamente un arco temporale

C

L'autore è amministratore delegato di Civicom - Comunicazione di pubblica utilità. 93


significativo per il mercato in cui circola il prodotto stesso: può essere qualche settimana per una canzone, un anno per un libro o un periodo più lungo, anche decenni per un modello di automobile.)

Lo SPAZIO (E IL TEMPO) DI UN LIBRO Quel tipo di distribuzione è da considerarsi ovvia alle condizioni strutturali dei mercati tradizionali, dove sussistono vincoli logistici a loro volta correlati al prezzo: i produttori e i canali (le insegne della Grande Distribuzione Organizzata, per esempio) hanno convenienza a concentrare i propri sforzi (produttivi, logistici, promozionali, distributivi) su pochi item. Facciamo l'esempio di un libro: collocato su uno scaffale, occupa uno spazio lineare che ha un costo (che sarà dato, in proporzione, dal personale che lavora nel punto vendita, dai costi di struttura quale l'affitto, dai consumi, dall'ammortamento dell'investimento resosi necessario per l'acquisto degli arredi e così via); chi gestisce lo scaffale cerca di ottimizzare la stock rotation, cioè la rapida sostituzione di quello specifico volume con un'altra copia dello stesso titolo, in modo che i pochi millimetri occupati da quel titolo corrispondano a più vendite nell'unità di tempo (un'ora, un giorno o un mese). Se un volume rimane troppo a lungo sullo scaffale, il ricavo generato dalla sua vendita sarà depauperato dall'incidenza del costo istantaneo dello spazio occupato, moltiplicato per il tempo di permanenza del volume in quello stesso spazio. Questa organizzazione impone alle librerie di promuovere la vendita (e la selezione nell'esposizione) dei titoli già più venduti o che hanno maggiori probabilità di esserlo, mentre i titoli secondari vengono relegati in poco spazio e per poco tempo. Non è detto che i titoli secondari non abbiano una domanda nel tempo, ma probabilmente il valore di quella domanda è tale da non coprire il costo dell'occupazione dello scaffale. Ma cosa accadrebbe se la presenza del volume sullo scaffale non generasse un costo, o avesse un costo irrilevante? Questa domanda se l'è posta Jeff Bezos, il fondatore di Amazon.com , che deve essersi risposto con un'altra domanda: se il costo di esposizione e il costo di stoccaggio di un titolo sono irrilevanti, perché non tenere quel titolo in esposizione senza limiti di tempo? Anche poche vendite saranno meglio di nessuna vendita, se l'incidenza relativa del costo non è tale da compromettere i margini di vendita. Amazon.com è la conseguenza di questo ragionamento: un negozio online (con costi più bassi di una libreria fisica) e un magazzino da qualche parte in mezzo al deserto, dove il costo delle superfici è tale da non compromettere i margini realizzati anche su titoli venduti in pochi esemplari. Il risultato è che milioni di lettori avranno la possibilità di accedere a titoli altrimenti introvabili nelle librerie, costituendo così un segmento di mercato che occupa la coda lunga della curva di distribuzione delle vendite di titoli edi94


toriali. L'abbattimento dei costi di distribuzione consente alla coda di allungarsi, perché aumenterà la convenienza da parte degli operatori di mercato a continuare a commercializzare prodotti che realizzano piccoli volumi garantendo comunque un margine di profitto. La digitalizzazione dei prodotti culturali (musica, film, libri) contribuisce ad abbattere ulteriormente i costi logistici, aumentando al tempo stesso la convenienza a tenere a catalogo titoli residuali, che venderanno volumi bassissimi negli anni ma saranno comunque in grado di generare un margine, per quanto piccolo. Il confronto tra volumi L'attenzione alla coda lunga della curva di distribuzione nei mercati di massa, che va allungandosi grazie all'evoluzione della logistica e alla dematerializzazione di alcuni prodotti, può riservarci però un'ulteriore considerazione. Se confrontiamo infatti il volume o il valore corrispondente alla testa della distribuzione (il singolo best seller) e quello corrispondente alla coda (il prodotto con la vendita più bassa), non c'è partita. Ma se estendessimo il confronto al - per esempio 20% dei prodotti più venduti tra quelli in commercio su di un mercato e il segmento complementare pari all'80% dei prodotti, quelli singolarmente meno venduti, potremmo avere una sorpresa interessante: che la somma del valore (o del volume) accumulato nella coda lunga (l'80% corrispondente ai prodotti meno venduti) sia solo di poco inferiore, o pari o superiore, alla somma del valore (o del volume) accumulato nella testa (il 20% corrispondente ai prodotti più venduti). In altri termini i prodotti meno venduti, considerati nel/oro insieme, potrebbero costituire un segmento di mercato tutt'altro che irrilevante, se potesse essere gestito a un costo di distribuzione conveniente.

CAMBIAMENTI Quando Chris Anderson ha pubblicato "The Long Tail" (in Italia La coda lungà, Codice Edizioni, 2007) più d'uno ha pensato si trattasse di uno dei tanti libri su Internet destinati ai geek, agli appassionati di tecnologia. Come se un saggio sull'evoluzione dei noli e dei traffici marittimi dovesse interessare gli appassionati di vela. E vero, l'autore è un giornalista scientifico da sempre interessato al web e direttore, dal 2001, dell'edizione americana di Wired, il periodico-bibbia del mondo Internet. Ma "La coda lunga" è una illuminante lezione di economia che ci spiega uno dei modi in cui il mondo sta cambiando. Un testo seminale. Come tutti i concetti rivoluzionari è di estrema semplicità, a dispetto del numero di pagine nelle quali l'autore vi si deve applicare per giustificare un libro e che i commentatori vi dedicano (e questo inciso è evidentemente un meta-commento che non si sottrae alla constatazione). 95


Ilconcetto di coda lunga, così definito, costituisce sicuramente un'innovazione, come attesta il confronto tra le occorrenze dell'espressione rilevabili in una ricerca su Internet prima del 15 settembre 2004 (data corrispondente alla pubblicazione dell'articolo di Wired in cui per la prima volta Chris Anderson elaborava il concetto), pari a 1.570 (secondo quanto riporta lo stesso autore sul suo blog), e quelle rilevabili nel momento in cui scrivo: 587.000. Credo che il successo di questo concetto corrisponda ad un piccolo set di concetti altrettanto interessanti e innovativi che stanno, nel loro insieme, cambiando il paradigma che usiamo per interpretate i mercati, e probabilmente il mondo nel suo insieme, o almeno molti suoi aspetti. Vale la pena di citarne almeno uno: la possibilità che le società di massa siano destinate ad una evoluzione neotribale. Dobbiamo al sociologo francese Michel Maffesoli, tra i teorici del post-moderno, questa ipotesi, poi sviluppata nei termini di una disciplina aziendale come il marketing, ampiamente debitrice alle scienze sociali. Tra i numerosi sostenitori dell'analisi di Maffesoli un sociologo americano molto noto in Italia come Robert Putnam e il sociologo dei consumi Giampaolo Fabris, scomparso pochi mesi fa. Si va affermando tra gli osservatori scientifici e i professionisti del marketing l'ipotesi che il concetto di "consumatore medio" perda rapidamente rilevanza, che i consumatori si aggreghino in piccole comunità dai vincoli relativamente deboli (le "comunità perno" di cui parla anche Bauman) ovvero in tribù dai comportamenti relativamente omogenei - almeno rispetto ad alcuni ambiti di comportamento. L'effetto è una accentuata segmentazione dei gusti dei consumatori, che si suddividono in micro-target "legittimati" dalla capacità dell'offerta di assecondarli con prodotti (o classificazioni degli stessi) sempre più sofisticati. I prodotti culturali possono venirci ancora una volta in soccorso a fini esemplificativi. Prendiamo in considerazione la musica: pop, rock, folk, classica erano generi molto rappresentativi della produzione e dei gusti musicali fino a qualche tempo fa, una classificazione soddisfacente e sufficiente a fini descrittivi e operativi. Attualmente la ricerca di uno stile su di un sito che ospita musica come Last.fm richiede ben altra dimestichezza con una pluralità disarmante di sottogeneri del solo Rock: NuiVietal e Rapcore, Grunge e Thrash, Gothic e Dark, Black e Industrial si aggiungono ai ben noti Heavy Metal, Punk, Glam rock e così via. Amazon.com , che non rappresenta il più aggiornato dei canali giovanili di selezione della musica, articola la propria offerta in ventiquattro generi musicali diversi. Oppure pensiamo a come cambierà il rapporto tra spettatori e televisione, considerando l'evoluzione dell'offerta televisiva che sul mercato italiano è passata in un tempo relativamente breve da sei canali generalisti, cui si affianca un nugolo di emittenti locali, ad alcune centinaia di canali tematici (per appassionati di pesca, di sport, di esplorazioni; per bambini, per adulti che si prendono cura dei bambini, per adulti che si occu-


pano di materie vietate ai bambini e così via) distribuiti su tre diverse piattaforme digitali (Internet, terrestre, satellitare). La combinazione dei due concetti, la crescente importanza economica della coda lunga e la propensione dei consumatori a suddividersi in segmenti piccoli e relativamente omogenei - assecondati dalle rinnovate possibilità logistiche dellfferta, cambia il mondo del consumo, cambia i mercati e quindi - data lrganizzazione sociale del mondo sviluppato - cambia il mondo stesso. L'abbattimento dei costi di produzione e di distribuzione nonché la dematerializzazione di alcuni tra i prodotti più popolari della nostra epoca (i prodotti culturali) sta configurando una economia dell'abbondanza destinata a soddisfare in modo sempre più specifico i desideri puntuali dei consumatori. Che oggi possono stampare a casa propria le proprie fotografie o ricevere a casa volumi fotografici da loro stessi impaginati via Internet con i propri scatti. E domani potranno realizzare a casa propria, con una stampante polimerica 3D, veri e propri manufatti su misura.

Note bibliografiche ANDERSON Chris, La coda lunga, Codice Edizioni, Torino 2007. MAFFESOLI Michel, I/tempo delle tribù. I/declino dell'individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano 2004. FABRIs Giampaolo, Societing, Egea, Milano 2008. PuTNAM Robert D., Democracies in F/ux, Oxford University Press, Oxford 2004.

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Ipertelia tecuioa e riviste culturali Brevi note seìnio1ogiche di Claudia Lopedoz'e

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ibattere della necessità di un ripensamento del ruolo delle riviste e delle iniziative culturali affini è - per quanto comune - un fraintendimento. Oun errore di messa a fuoco. Che è poi trasferito inevitabilmente ai discorsi ed alle stime relative alla presenza delle stesse sul 'VVeb, e ad usi e applicazioni di ogni altra piattaforma tecnologica. Nondimeno, in questo fraintendimento si coglie il disorientamento delle riviste stesse, e si rende evidente una serie di criticità di più ampia gittata. Delle caratteristiche proprie delle riviste culturali si è detto ampiamente su queste pagine (cf. n. 156-7/2010), e Rosario Garra riprende il discorso in un ottimo e documentatissimo articolo in questo numero. Ad esse si sommano i drammatici numeri sui limiti strutturali del mercato nazionale dei lettori, con 1'82% della popolazione (dati Censis 2009) che non legge né giornali né periodici. Ed è da qui che bisogna partire per confutare il fondamento dei dubbi esistenziali delle riviste che, di fronte alle portentose imprese compiute (o millantate) in Rete da altri, si sentono chiamate a nuove sorti e fortune. Puntualmente disattese dalla pratica. Il rilievo sta nell'approccio al Web di chi promuove, realizza e investe in iniziative culturali. Talvolta, infatti, la Rete è concepita non come - certamente potente - strumento, ma come paradigma di trasmutazione del dna del lavoro intellettuale. Non sempre ciò è attuabile o comunque opportuno. Vedremo perché.

IL WEB E LA COGNIZIONE COLLETTIVA Le riviste culturali hanno in realtà due sole ragioni per essere online. Primo, fare pubblicità commerciale, ampliare la propria presenza e visibilità affidandosi all'intertestualità ed al nomadismo dei percorsi della Rete, senza partico-


lari caratterizzazioni rispetto ad altre iniziative culturali o prodotti editoriali. Secondo, disseminare idee e pratiche attraverso nuovi luoghi ed occasioni di interpellazione e verifica delle costruzioni (ideo)logiche che passano per una soggettività espansa. I testi incontrano i contesti. E non è detto che in questa frontalità immediata cerchino adesione; va bene anche l'antagonismo, la dissonanza critica, l'irruzione del quotidiano nella produzione verticale. Il VVeb è quindi fattore di espansione dell'identità e della sintassi delle iniziative culturali, della loro stessa pervasività e persistenza, non di stravolgimento o nipensamento di essa per seguire a ruota identità avulse. Non si tratta neanche di diversificare, ma di fare sinergia, di creare nuove opportunità di diffusione delle intelligenze, assecondando la forza e la rilevanza dell'esistenza rispetto all'episteme. E sapendo scegliere i propri interlocutori. Anche per evitare la cannibalizzazione dei contenuti. Non ha senso che l'editoria media e piccola si confronti con soggetti che non sono i suoi competitor, come i grandi gruppi editoriali. Non ha senso seguirne le orme e riprodurne logiche e strategie. Occorre invece - come dice Goffredo Fofi - usare l'indipendenza delle riviste culturali e i mezzi offerti dalla Rete per innovare, rischiare, con una verifica immediata sul campo, per poi decidere se e quali capitali investire. La provocazione di Oliver Reichenstein di Information architects, prestigiosa società informatica nippo-tedesca - che, per inciso, realizza i siti Web di alcune tra le riviste più importanti al mondo - secondo il quale le riviste possono anche fare a meno di Internet significa questo. Andare online per fingere di essere altro non è remunerativo né strategicamente efficace. Non a caso, iniziano a manifestarsi risoluti ripensamenti nella corsa ad Internet proprio da parte delle riviste culturali. Una certa difficoltà a stare nella Rete per un lavoro intellettuale speso in gran parte sulla dimensione dell'approfondimento, della riflessione e della disamina critica sul lungo periodo, non sugli avvenimenti ma sulle loro decodifiche e sugli effetti, c'è sempre stata. Almeno nella Rete di chi non pensa che il mezzo è il messaggio e quindi non contano i contenuti ma le caratteristiche (supposte) del mezzo. Sui contenuti, infatti, le riviste di cultura non scendono a compromessi. Non sono certo in crisi d'identità. Al contrario, vi è una consapevolezza matura del ruolo e della funzione da assolvere. E, soprattutto, del carattere genetico della crisi, o meglio della difficoltà perenne delle riviste nel mercato, dati i caratteri intrinseci di elitarietà, ma non di marginalità, non di elitismo. Non vi è una resistenza caparbia al cambiamento. Le riviste culturali cambiano eccome, e con più velocità e coraggio di ogni altro prodotto editoriale sul mercato. E lo fanno proprio perché meno dipendenti dai fattori che determinano ampiamente le scelte di altri player dell'editoria sul piano del successo (o della sopravvivenza?) economico: pubblicità e voracità. Che cosa significa in termini identitari? Principalmente che le riviste di cultura sanno di essere per costituzione e per vo-


cazione Strumenti non di massa, quindi evitano di sottoporsi alla tortura dei tempi moderni, con i dogmi della massima diffusione, della massima comprensibilità, della massima convergenza, della massima velocità, del minimo comune denominatore (l'egemonia sottoculturale di cui parla Panarari). Di qui nasce la convinzione da parte di molti direttori e scrittori di riviste di cultura che Internet non rappresenta un totem, una méta obbligata e - soprattutto - un parametro di cambiamento e adattamento cui essi devono conformarsi. Liberate dall'urgenza del quotidiano ma non dalla sua priorità, le riviste ricercano una conoscenza oltre l'eccedenza dell'informazione che è mestiere altrui, con un'offerta ampia e qualificata (spesso gratuita) in Rete che non è possibile replicare.

UN LABORATORIO GRANDANGOLARE DI IDEE E STORIE

Quali sono allora le categorie proprie del lavoro intellettuale nell'era digitale, oltre la mera riproducibilità tecnica? Universo simbolico di straordinaria forza e suggestione, le riviste culturali elaborano in primo luogo sistemi di significazione che costituiscono complesse forme di resistenza intese come disordine semantico, manifestazione di arbitrarietà delle categorie del discorso dominante (Habermas). Non un semplice repertorio, ma una mappa di significati e rappresentazioni del reale, del quotidiano. Senza necessariamente coltivare uno spirito antagonista, le riviste di cultura svolgono una funzione di interferenza rispetto ai codici egemonici (estetici, politici, di scuole e disciplinari, etc.) nel tracciato rettilineo che collega i fenomeni e gli avvenimenti reali con la loro rappresentazione ed intermediazione dominante. Non soltanto. Il mandato del lavoro intellettuale non si ferma alla critica del reale, alla promozione e diffusione di idee e pratiche, ma deve incoraggiare forme di impegno, engagement e partecipazione ampia in grado di agire sulla realtà. Esso consegna strumenti e modelli con cui ciascun soggetto diventa bricoleur (Lévi-Strauss), in grado cioè di assemblare un universo discorsivo organico con i frammenti di vita, l'esperienza, la conoscenza e le competenze che possiede. La cultura opera quindi come leva di conversione dei capitali economico, sociale e simbolico (Bourdieu). Oggi ciò accade sempre meno o con maggiore difficoltà e minori payoffs, perché mancano i necessari investimenti iniziali e perché gli intellettuali hanno volontariamente abdicato a compiti e funzioni più gravose, tornando ai tempi della torre d'avorio. Allora qual è la produttività delle iniziative culturali? E una produttività principalmente a contenuto/valore enunciativo (la messa in discorso) che diventa poi performativa (con la critica, il giudizio, la distinzione) se e soltanto 100


se è in grado di inserire i propri discorsi nei contesti di vita, esercitando una qualche influenza in termini di framing, inquadramento dei fatti e delle narrazioni del mondo. In breve, se sa costruire attorno a sé un circuito culturale. Perché è allora che la cultura è in grado di incorporare nei rapporti di forza, nel lavoro, nelle merci materiali, nei manufatti tangibili, i fattori immateriali, intangibili (culturali, simbolici, linguistici) che crea. L'autonomia del lavoro cognitivo deve rappresentare la possibilità di immaginare relazioni diverse e solidali per la società contemporanea.

APERTURA VS VELOCITÀ

Veniamo alla Rete. In tal senso, essa è opportunità di ricontestualizzazione, espansione della durata e della portata, rifocalizzazione e personalizzazione (le storie di vita, le testimonianze, le critiche) dei contenuti. Potente in quanto capace di incrociare le analisi e verificare che abbiano attinenza con il mondo. Il mezzo, Internet, non rende omogenei i soggetti né i loro contenuti. Il paradigma di Internet applicato alle riviste di cultura è evolutivo, non rivoluzionario. Le riviste non diventano predominanti al contatto miracoloso di Internet. Quello attiene al rapporto col potere. Ma in Rete esse possono definire una propria tattica, azione calcolata in rapporto al luogo dell'altro che è cioè campo strategico, senza averne uno a loro volta. Un'astuzia che agisce con incursioni nei territori non presidiati del sistema (De Certeau), non istituzionalizzati. Il lavoro intellettuale disegna tracciati che agiscono come dilatazioni di senso. Il 'Web consente di essere vitali ed interrogare il presente al fine di suscitare un dibattito quanto più ampio e inclusivo possibile, senza farsi illusioni sui miracoli dell'era informatica. Senza essere naif Le riviste la sanno lunga, sono ben consapevoli di essere strumenti raffinati, non per tutti, e di questa elitarietà come capacità di essere avanguardia sono fiere. Eppure, incappano nel fraintendimento dellbnnipotenza di Internet. Il non luogo dove non si può non essere. Essere altro, però. Le riviste smettono la cifra propria del lavoro di sedimentazione della conoscenza e della riflessione critica, per quotidianizzarsi. Fin qui, se consideriamo le possibilità che la Rete offre alle riviste culturali di potenziare l'impatto sul corpus civile e sociale cui parlano, la risposta è deludente. La presenza in Rete è poco più di un manifesto di intenti, il ritiro a vita tranquilla. Senza riuscire a porre al centro del dibattito alcuni argomenti, a fissare una agenda. Come invece ha dimostrato di potere fare alfabeta2 con il dibattito sul precariato e la gratuità del lavoro intellettuale (giornalismo, ricerca, editoria, università). L'atteggiamento di alcune pratiche intellettuali (erudite, letterarie, militanti) di fronte alle moderne tecnologie mediali è ciò che Gillo Dorfles chiama "ipertelia tecnicizzata e mistificante": l'esagerazione di finzioni e finalità d'uso di 101


una tecnica nuova, oltre le possibilità del soggetto e del mezzo stesso. Come se gli accorgimenti tecnici potessero sopperire ad un'assente carica creativa e politica. Innamorandosi della velocità - la dromologia viriliana del "Chi controlla il territorio lo possiede" - invece che dell'apertura della Rete. Del movimento invece che della circolazione. Smarrendo il senso di Internet per il lavoro culturale, che non costituisce un cambiamento paradigmatico, un salto tecnologico. Non ne stravolge senso e sostanza, che restano tali: la ricerca di comunanza con la parte migliore dell'umanità. Lbbiettivo allora è creare movimento, attenzione, collegamento e sinergie attorno al proprio lavoro. E un compito ambizioso e difficile, per il quale occorre scegliere di essere alternativi all'esistente, al mainstream, con una ftinzione di critica incisiva e insistita, assumendosi il rischio, anche nell'innovazione dei linguaggi, dell'uso dei mezzi. Non c'è momento migliore di questo. Secondo Goffredo Fofi, è un segno dei tempi. Il segno della crisi. E cioè il momento di (ri)lanciare iniziative culturali, perché c'è un ampio mind-share in cerca di voce, espressione, punti di vista. Le riviste culturali possono realizzare online i propri laboratori vitali dove creare legami, dibattito, proposte. E fornire un contributo ideale, culturale e politico al cambiamento sociale ed alla formazione di segmenti di pubblica opinione. La rete non è il messaggio, è lo strumento, straordinario.

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Le riviste politico-culturali/o Siis (Social aud lluivau Scieuces) e la "coda luuga" della comuuicaziolle di Rosario Garra

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n lavoro culturale è valido se s'inserisce o è in grado di costruire un 'circuito culturale', cioè un flusso di scambi tra quanti operano o possono essere chiamati a operare su uno stesso terreno teo-

rico-pratico". La citazione è tratta dall'editoriale di Sergio Ristuccia al n. O di "queste istituzioni". Correva l'anno 1973. Oggi il contesto entro cui avviene la produzione di "valore" del lavoro intellettuale si è radicalmente trasformato. Ed è di questo cambiamento che vogliamo parlare. Negli anni settanta, "formidabili" e controversi, nonché ultima grande stagione di fioritura delle riviste di cultura nel Novecento, l'attuale Internet non era nato e nessuno avrebbe potuto immaginare quali potenzialità innovatrici il web avrebbe creato per la costruzione dei circuiti della comunicazione culturale del nostro tempo. Ancor prima della rivoluzione digitale, movimenti di idee e iniziative editoriali avevano mostrato la loro capacità di impadronirsi prontamente delle invenzioni tecniche, come ad esempio il fax, e di utilizzarli come media comunicativi. "Nel 2004 - scrive ancora Ristuccia - avviene l'incontro di 'queste istituzioni' con il Consiglio italiano per le Scienze Sociali all'insegna della comune attenzione all'interdisciplinarietà ( ... ) e l'intento è più che mai di incidere sulla formulazione delle politiche pubbliche, coinvolgere gli operatori dei settori di indagine, e diffondere ampiamente i propri risultati, per farne oggetto di dibattito e confronto con la società civile". L'epoca di Internet, ormai sopraggiunta, e la costante evoluzione del web continuano a mettere a disposizione del lavoro intellettuale e della ricerca tec-

L'autore è Segretario nazionale del Coordinamento italiano riviste di Cultura. 103


nologie, applicazioni e circuiti comunicativi sempre più ampi e avanzati. I benefici derivanti dalla moltiplicazione dei messaggi, dei loro linguaggi e delle loro sorgenti entrano nella quotidianità di tutti coloro che fruiscono dell'informazione e che la producono, sia nell'ambito accademico che nel dibattito culturale interdisciplinare e della sfera pubblica. Consideriamo la possibile sorte di questo articolo. Le sue vite potranno essere varie, autonome e parallele, dopo essere stato pubblicato su questa rivista e diffuso attraverso i normali canali di distribuzione della rivista cartacea. L'aggiornamento dell'indice del "nuovo numero" nel sito http://www.questeistituzioni.it potrà contenere un link fra il titolo dell'articolo e il documentoftll-text. L'intero numero della rivista inoltre, frazionato in articoli digitalizzati nel formato pdf, sarà accessibile online su "Elo - Editoria Italiana Ordine", per tutti gli utenti autorizzati da Casalini Libri <http://digital.casalini.it/> 1 . La versione digitale dell'articolo (se liberamente accessibile su Internet) ed eventuali citazioni dello stesso testo potranno essere captate dalle ricerche effettuate su Google Scholar <http://scholar.google.it > 2, che come è noto consente di recuperare documenti relativi a varie discipline e fonti della letteratura accademica e professionale. Fra i record ottenuti dalla ricerca comparirà il link a una scheda della rivista nel catalogo dell'Archivio Collettivo Nazionale dei Periodici (ACNP) <http://acnp.cib.unibo.it > 3 e sarà possibile visualizzare l'elenco delle biblioteche in cui il periodico è possedut0 4 . L'insieme dei rimandi e delle citazioni consente insomma di mantenere o rimettere in circolazione l'articolo della rivista, dopo la spedizione del nuovo numero agli abbonati e la sua uscita e permanenza, peraltro sempre più breve e precaria, nelle librerie.

LA MOLTIPLICAZIONE DEI PERCORSI DI DIFFUSIONE Si potrebbe continuare con altri esempi, reali e ipotetici, a prefigurare la "coda lunga"5 della comunicazione che il nostro articolo lascerà nel web. Non è tuttavia nostra intenzione insistere su dispositivi e applicazioni la cui notorietà è ormai crescente, né addentrarci nella trattazione sistematica di una materia su cui esiste una consistente produzione di studi e pubblicazioni 6 . Nel quadro d'insieme offerto dall'ambiente digitale, basti ricordare che qualsiasi utente lettore ha la possibilità di compiere esperienze interattive e di utilizzare tecniche di information retrieval che consentono sia di recuperare le informazioni di carattere bibliografico e relative alla reperibilità dei documenti; sia di accedere al documento stesso attraverso un varietà di sistemi e di funzionalità (dal download al print-on-demand): consultarlo sul proprio computer o sui nuovi dispositivi variamente denominati e-book, e-reader o e-paper (ne è esempio il recentissimo i-Pad della Apple); ordinarne una copia cartacea o digitale e acquistarla ordine con carta di credito su una libreria virtuale (dalla storica 104


Amazon.com all'italiana Ibs.it); condividere le informazioni con altri utenti all'interno di social network, blog e comunità virtuali (facebook, twitter, le varie piattaforme ning, ecc.) La circolazione dell'articolo e/o della rivista sarà insomma moltiplicata e perpetuata da tutti i "luoghi" e le circostanze in cui le tecnologie consentono e consentiranno di acquisire informazioni sull'opera e di venirne in possesso. E ciò avverrà con modalità molto più semplici e rapide rispetto al passato, quando gli studiosi e i lettori potevano soddisfare i loro bisogni rivolgendo le loro richieste esclusivamente ai normali servizi di biblioteca e di distribuzione editoriale. Premesso tutto questo, proveremo ad analizzare il cambiamento digitale e le sue prospettive, costruendo i contenuti dell'articolo intorno ad alcune domande che tengono conto del dibattito che negli ultimi anni si è acceso non soltanto fra gli addetti ai lavori ma anche nella parte dell'opinione pubblica più attenta a questi fenomeni. - I circuiti dei periodici culturali possono essere rafforzati, e mantenere la loro autorevolezza, sfruttando le potenzialità del nuovo ambiente digitale? - A quale stato di avanzamento si trova l'offerta online di riviste elettroniche e quali problematiche si frappongono al suo loro sviluppo? - Quali modelli di diffusione e di accesso, fra quelli che si stanno sperimentando in Italia e nel mondo, offrono opportunità e prospettive per il futuro? - Quali cambiamenti delle modalità cognitive e comunicative stanno introducendo le piattaforme e i dispositivi tecnologici di ultima generazione? Focalizziamo l'attenzione sul posizionamento delle riviste di cultura - specificatamente il campo delle Sciences humaines et sociales, o anche Social and Human Sciences (SH5) - all'interno del mercato editoriale e nel sistema della comunicazione dei saperi in Italia 7, e sul confronto con l'evoluzione internazionale.

I CIRCUITI DEI PERIODICI CULTURALI POSSONO ESSERE RAFFORZATI? Diversamente dalle riviste del settore Scientifico tecnico e medico (STM) il cui target è costituito esclusivamente dalle biblioteche universitarie e da un pubblico di professionisti, le riviste di cultura si rivolgono anche a un pubblico generalista, non necessariamente legato a corpi disciplinari definiti, che è quindi molto differenziato al suo interno. Il pubblico dei lettori, o lettorato, dei periodici culturali si caratterizza per l'interesse verso i temi interdisciplinari e per l'appartenenza ad "aree di valori variamente riferibili a teorie e pratiche di tipo sociale, pedagogico, politico, etico, religioso, letterario, artistico. Nei periodici scientifici, l'articolo costituisce il veicolo attraverso cui lo scienziato comunica i risultati del suo lavoro ai colleghi della sua stessa spe105


cializzazione, che condividono i paradigmi scientifici su cui si basa una tradizione di ricerca. E' nell'ambito della comunicazione scientifica, pertanto, che nasce e si afferma lapeer review, il meccanismo in base al quale l'articolo è sottoposto alla valutazione di esperti di pari rango e che certifica la qualità dell'opera da pubblicare. Ed è sempre nel settore STM che l'Impactfactor - il sistema che misura la frequenza con cui un articolo, una volta pubblicato, è citato da altre pubblicazioni - diventa determinante non soltanto per la validazione dei risultati della ricerca ma anche per il prestigio e l'influenza della rivista che lo ospita. Di fatto, tanto le politiche di acquisizione delle biblioteche e dei consorzi bibliotecari, quanto le strategie commerciali dei principali gruppi editoriali internazionali si concentrano, entrambe, sulle riviste più prestigiose e con un elevato Impactfactor. La comunicazione scientifica incentrata sui periodici ha assunto dunque caratteristiche peculiari e ben definite: la funzione di assoluto rilevo dei meccanismi di valutazione del contenuto sopra ricordata; l'utilizzo generalizzato dell'inglese come lingua veicolare; la concentrazione produttiva e distributiva in capo a gruppi editoriali globali, quali Elsevier, Thomson, Pearson, Springer (che ha acquistato le edizioni Kluwer), Wiley (che ha acquistato Blackwell) 8 l'impiego massiccio dell'informatica e di Internet per la costituzione di archivi, banche dati e portali sui quali i numeri correnti e le annate pregresse dei periodici, vengono messi a disposizione open access o venduti; la creazione di servizi di indicizzazione, abstracting, collaterali o integrati con l'accesso alle risorse digitali. L'accesso flill-text alle pubblicazioni elettroniche è stato nel settore delle riviste STM l'evoluzione logica, oltre che tecnologica ed economica, dei servizi offerti alle biblioteche e alle università dalle case editrici e dalle agenzie di abbonamento. I periodici scientifici si sono dunque in gran parte trasformati in riviste elettroniche o e-journals, privilegiando un'offerta ibrida (versione cartacea + versione elettronica), che costituisce fra l'altro un fondo mercato editoriale. La prima differenza da rimarcare fra i settori STM e SHs è che, nell'area umanistica e delle scienze sociali, i meccanismi di funzionamento e di sviluppo della comunicazione scientifica si sono estesi soltanto in parte e che tale processo continua a essere molto più lento. "Sugli oltre 250.000 periodici esistenti, le riviste scientifiche che comportano un controllo della qualità attraverso il peer reviewing rappresentano circa il 10%; di queste, circa 8.700 sono presenti nella base del Journal Citation dell'IsI, fra cui 5.900 di area scientifica, 1.700 nel campo delle scienze sociali e poco più di 1.100 nelle scienze umane" 9 Nell'area delle scienze umane e sociali la situazione si presenta inoltre molto differenziata fra i vari gruppi disciplinari. Secondo le comparazioni realizzate dall'editore francese NecPlus su 2.500 riviste internazionali incluse e non incluse dall'isi nella lista dell'Impact fattor, le riviste SHs classificate a fattore d'impatto sono il 49% del totale, e nel dettaglio: Economia 67%, Psicologia e ;

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Pedagogia 65%, Scienze politiche 50%, Sociologia 47%, Filosofia e Religione 43%, Storia 42%, Arte 36%, Letteratura 11% (vedi nota 7). Le ragioni di questa diversa evoluzione si trovano nelle peculiarità stesse dello statuto scientifico dei vari gruppi disciplinari, peculiarità che differenziano i periodici scientifici dalle pubblicazioni culturali anche per il ruolo che le seconde hanno nel discorso pubblico. Mentre i membri di una corporazione scientifica matura operano sulla base di un unico paradigma o di un insieme di paradigmi strettamente collegati fra loro, nel campo delle scienze umane e storico-sociali sussistono contemporaneamente paradigmi, spesso incompatibili e in competizione fra loro, nei quali si determinano e si riconoscono scuole di pensiero diverse e, di conseguenza, esiste un minor grado di cumulabilità dei risultati 10 .

CARATTERISTICHE DELLE SCIENZE SOCIALI. IL CASO ITALIANO

La nozione di scienza come sapere affidabile e fondato, che contraddistingue comunque tutti i diversi ambiti della conoscenza, si declina, nel settore umanistico e delle scienze sociali, in una sfera più ampia rispetto a quella della comunità di specialisti delle discipline scientifiche dette "dure ed esatte", presso i quali gli assunti e i risultati della ricerca disciplinare hanno e devono necessariamente trovare legittimazione. Il ruolo culturale delle riviste della area umanistica e delle scienze sociali è accentuato dal carattere interpretativo e interdisciplinare della conoscenza, dalla capacità di produrre giudizi e di conferire senso al loro stesso oggetto. La generazione e il rinnovamento dei "modelli culturali" avvengono, su questo versante del sapere, attraverso la ricerca del consenso nella sfera pubblica e dei valori, e trovano il loro fondamento all'interno di una dimensione tecnico-pratica o di una narrazione della verità, che si determinano all'interno della società e del suo sviluppo storico. Nella discussione sulla valutazione dei prodotti della ricerca del settore SHS, condotta in ambito accademico nella prospettiva della riforma dell'università e della costituzione dell'Agenzia Nazionale per la Valutazione Universitaria (ANVUR), è stata sottolineata la necessità di stimolare le migliori riviste italiane a entrare nelle più importanti banche dati nazionali e internazionali (Isi, J-Stor e Project Muse), acquisendo le caratteristiche rispondenti ai criteri di valutazione del Peer reviewing e dell'Impactfactor. Da parte dei comitati e dei gruppi di lavoro che si sono espressi su questa materia, si è sottolineata tuttavia la minore pregnanza degli indicatori bibliometrici nella validazione delle pubblicazioni e degli studi di tipo umanistico e sociale e, di conseguenza, la necessità di un periodo di sperimentazione dei criteri di valutazione nel settore SHs. Per quel che riguarda infine le riviste presenti solo sulla rete, è stata indicata come opportuna "l'adozione del criterio, peraltro seguito da tutte le prin107


cipali banche dati internazionali, secondo cui possono essere valutate solo quelle a pagamento, per ovvie ragioni di parità rispetto alle tradizionali riviste cartacee, nonché per poter giudicare della loro diffusione (abbonamenti, ecc.) e della loro capacità di attrazione" 11 A maggior ragione, se si pone l'attenzione sulla pubblicistica culturale che circola al di fuori dei circuiti accademici, o che non si rivolge esclusivamente a essi, la prima conclusione che si può trarre è che lo sfruttamento delle potenzialità della rete per rafforzarne la diffusione e favorire lo scambio intellettuale deve avvenire secondo strategie e modalità comunicative differenziate. Ed è ciò che sta accadendo, scontando tuttavia le perduranti debolezze e ritardi, che sono particolarmente accentuati fra le riviste culturali monoprodotto. .

COME SI ORGANIZZA L'OFFERTA ONLINE DI RIVISTE ELETI'RONICHE

Il passaggio verso il digitale è generalmente percepito dagli operatori come urgente e indifferibile, nonostante l'attuale frammentazione delle iniziative e il persistere di difficoltà a confrontarsi con il cambiamento 12 . E' noto che i nodi critici che hanno caratterizzato il settore della stampa periodica tradizionale, nell'ultimo decennio, non si siano risolti ma si sono bensì aggravati: dalla carente e difficoltosa distribuzione nelle librerie, all'aumento dei costi di distribuzione postale, dalla riduzione della spesa pubblica per gli acquisti delle biblioteche al taglio dei contributi per le istituzioni culturali. Il digital divide persiste non soltanto per motivi economici e organizzativi ma anche di cultura professionale e di strategia editoriale. Fra le principali ragioni di preoccupazione e di prudenza degli operatori vi sono infatti la tutela dei diritti d'autore e la salvaguardia dei canali di vendita tradizionali rispetto al rischio di "cannibalizzazione". La digitalizzazione, secondo alcuni editori, potrebbe fagocitare parte del mercato delle riviste o addirittura provocarne la scomparsa. La tutela della proprietà intellettuale in ambiente digitale e in internet è la questione preminente sia all'interno del mondo editoriale sia nell'ambito delle contrastanti trasformazioni che investono tutta la complessa sfera dell'autorialità. Pensiamo ovviamente al fenomeno Google, la cui avanzata continua inarrestabile, e al movimento dell'Open Access, che trova ampio consenso in settori della comunità scientifica, delle università e delle biblioteche. La dinamica emersa in ambito accademico, ad opera delle prime University Press degli atenei italiani e di istituzioni bibliotecarie, ha portato alla creazione di repository istituzionali, archivi aperti e riviste elettroniche ad accesso aperto. Gli archivi aperti, costruiti attraverso la messa ordine di contenuti (articoli, eprint, tesi di laurea) da parte degli stessi autori pone una serie di questioni sullo sfruttamento del copyright, a volte in conflitto con gli interessi degli editori. kw-


Non è escluso però che, nonostante i punti di vista di partenza possano essere legittimamente diversi, nel prossimo futuro si affermino modelli di accesso ai contenuti digitali più ampi e flessibili, che renderanno necessaria e conveniente l'interazione e l'interoperabilità fra sistemi proprietari e sistemi open access, e conseguentemente lo sviluppo di nuovi modelli di gestione del diritto d'autore. Quanto alle politiche pubbliche, le potenzialità dei programmi nazionali di digitalizzazione del patrimonio culturale (Internet Culturale, Biblioteca Digitale italiana) sono state frenate da un deficit di continuità e coerenza del loro sviluppo, soprattutto per quanto riguarda la capacità di realizzare un efficace coordinamento delle iniziative pubbliche e di dare impulso alla cooperazione con gli attori privati per azioni complementari relative alla creazione di archivi di riviste e di progetti di diffusione dei numeri correnti. Il panorama delle attività di digitalizzazione di periodici che fanno capo a università, biblioteche pubbliche statali ed enti pubblici territoriali si presenta pertanto frammentato e caratterizzato da una concezione ancora prevalentemente patrimonialistica delle raccolte, volto alla preservazione e alla conservazione del posseduto cartaceo. L'offerta relativa alle raccolte digitali di periodici appare dunque ristretta sia per la consistenza e il contenuto delle collezioni e serie storiche e locali, sia per i servizi offerti agli utenti 13 Esiste fra le riviste culturali di scienze umane e sociali una propensione a collegarsi con l'area culturale europea e di altri continenti, che attualmente non trova strumenti adeguati, ma è testimoniata dalla percentuale elevata delle esportazioni sul totale dei ricavi per abbonamento, che per i maggiori editori arriva al 40%. La tendenza a superare i confini nazionali è stata ed è una caratteristica intrinseca delle riviste letterarie e culturali, che sono state veicolo per la circolazione di nuove idee fra le élite intellettuali e i movimenti d'avanguardia dei secoli XIX e XX, potrebbe trovare uno sbocco concreto attraverso l'aggregazione fra le riviste italiane e fra queste e i network europei ai quali è possibile partecipare o che si possono costituire a vari livelli 14 Le riviste culturali SHs non possono sottrarsi al compito di esplorare e sperimentare i nuovi paradigmi della comunicazione scientifica e i nuovi modelli economici della rete, proprio per evitare la deriva di marginalizzazione che le minaccia. Ovviamente non è possibile dare impulso o partecipare ad alcun mutamento tecnologico e organizzativo senza l'apporto professionale e di competenze esistenti nelle case editrici e nei gruppi redazionali. Sono necessari progetti e strategie consapevoli, che possano essere condivisi e partecipati, e quindi capaci di aggregare una pluralità di iniziative editoriali. Nell'arcipelago frammentato delle riviste di cultura, una visione chiara delle prospettive e la capacità di esprimere una progettualità sono condizioni preliminari e imprescindibili per lo sviluppo di un'offerta digitale che sia in grado di competere, di convergere o almeno di interagire con gli altri attori che si muovono nello stesso campo. .

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ALLA RICERCA DEI MODELLI DI DIFFUSIONE E DI ACCESSO CHE OFFRONO MAGGIORI OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO

Per approfondire l'analisi sullo stato dell'offerta delle riviste SHS e mettere in luce gli attori che si muovono nel campo della digitalizzazione e della difftisione elettronica dei periodici, i diversi ruoli giocati dagli attori pubblici e privati, le politiche pubbliche e le forme di partenariato, i modelli di pubblicazione e di gestione economica relativa in particolare al copyright, è inevitabile confrontarsi con i fenomeni che dominano lo scenario internazionale. Da un lato vi è il protagonismo di Google che configura la più grande sfida che sia mai esistita su scala planetaria per fare di Internet quell'immensa biblioteca universale vivente, non più soltanto come metafora ma nel concreto, in grado di inglobare al suo interno la galassia di Gutenberg. Google punta a rendere disponibili come documenti digitali non soltanto le opere di pubblico dominio ma anche le opere correnti (sotto forma di citazioni o inserti), quella parte della produzione culturale ancora sotto copyright, suscitando contrastanti posizioni e opposizioni fra gli editori di tutto il mondo 15 Dall'altro lato si muovono, anch'essi su scala globale, i maggiori gruppi editoriali internazionali del settore scientifico, ai quali abbiamo già accennato in precedenza, quelli che distribuiscono direttamente, senza intermediari, la loro produzione su supporto elettronico. Dallo sviluppo dell'offerta in rete, si è originato inoltre il variegato mondo "aggregatori" (Ingenta 16 , Jstor17, Project Muse18, ProQuest19) che, attraverso la costituzione di immense base dati e i loro portali, assicurano la messa online di articoli e riviste elettroniche ftill-text di diverse organizzazioni. Gli aggregatori svolgono la fttnzio.ne di intermediari fra l'editoria accademica e i consorzi di biblioteche e si propongono, su entrambi i fronti, come fornitori di servizi bibliografici e di digitalizzazione. .

L'inserimento in Internet di intere aree del patrimonio culturale dell'umanità, fino ad oggi collegate in modo inseparabile a sistemi linguistico-nazionali definiti e a un altrettanto riconoscibile e organizzato controllo econpmico-industriale dei diritti d'autore, sta suscitando seri interrogativi, soprattutto in Europa, sia a livello delle grandi istituzioni come le biblioteche nazionali, delegate a preservare e tramandare il patrimonio della cultura, sia tra le imprese editoriali e le loro rappresentanze associative. Menzioniamo, a questo proposito, l'idea della Biblioteca digitale europea, lanciata da una Raccomandazione della Commissione Europea nel 2006, che fti interpretata giornalisticamente come la risposta dell'Europa a Google, e che si è inaugurata dal 2008 con il nome Europeana (www.europeana.eu ). Il portale si propone come un unico punto di accesso multilingue al patrimonio culturale e scientifico europeo, che ha dichiarato di voler mettere a disposizione online almeno 10 milioni di documenti digitali, entro il corrente anno. Il com110


pito di alimentare Europeana è affidato alla cooperazione fra gli Stati membri, con iniziative volte a raccogliere i contenuti digitali esistenti e a sostenere progetti di digitalizzazione provenienti sia da biblioteche, musei, archivi e altri enti pubblici, sia dai produttori privati 20. Il progetto della Biblioteca digitale europea, nonostante la recente apertura a Google, appare prevalentemente improntato alla cultura della conservazione del patrimonio, alla quale fanno riferimento anche i progetti nazionali italiani Internet Culturale, BDI, MiCHAEL, Cultura Italia21 Rileviamo dunque che nell'attuale scenario internazionale, lbfferta digitale dei periodici ha una dimensione tendenzialmente globale ma sostanzialmente impiantata sui bacini linguistici angiofoni e sulla veicolarità della lingua inglese. E quindi illuminante l'analisi comparativa fra Italia, Francia e Spagna, Paesi che hanno caratteristiche simili per i'uso prevalente delle lingue nazionali e per la situazione delle rispettive editorie. Lo studio "Etat des lieux comparatf de lffre de revues SHs. France - Espagne - Italie" (2005), coordinato da Marc Minon e Ghislaine Chartron, è stato realizzato in Francia su commissione del Ministero dell'educazione nazionale dell'insegnamento superiore e della ricerca. In primo luogo è interessante segnalare la griglia dell'indagine, che meriterebbe di essere rielaborata e riproposta con una nuova ricognizione, adeguatamente aggiornata, sulla situazione italiana a oltre cinque anni di distanza. Riguardo alla situazione in materia di diffusione elettronica lo studio si proponeva di rilevare: la quantità di riviste di scienze umane e sociali accessibili con testo integrale su Internet, comparando rispettivamente la parte delle riviste "ibride" (su supporto cartaceo e su internet) con quelle esclusivamente elettroniche; le condizioni di accesso al testo integrale per i numeri recenti (accesso libero e gratuito, accesso condizionato all'abbonamento su carta, accesso in pay-per-view, esistenza di "pacchetti", ecc.); le condizioni di accesso al testo integrale per l'archivio delle annate pregresse; lo statuto degli attori che assicurano la diffusione in linea; l'esistenza di portai generalisti o tematici che permettono l'accesso al testo integrale degli articoli. Rileviamo che alcune caratteristiche strutturali e peculiari dell'editoria di periodici nei tre Paesi si ripercuotono sull'offerta digitale. Il ruolo degli editori privati nell'edizione di riviste è prevalente in Italia (58%) è minimo in Spagna (12%) e occupa in Francia una posizione intermedia (20%). Così, mentre in Italia sono gli editori o gli aggregatori multieditoriali (Il Mulino, F. Angeli, LibraWeb, Casalini,) a svolgere un ruolo pioneristico nella diffusione digitale, l'evoluzione verso la rete è più lenta in Spagna dove l'offerta è organizzata prevalentemente da attori pubblici (istituzioni culturali e università). In Spagna, tuttavia, e con maggiore attivismo in Francia, sono le istituzioni pubbliche a svolgere il ruolo più dinamico e trainante. I portali di diffusione delle riviste SHs in ftill-text, emersi in Francia grazie sia a progetti istituzionali come Persée 22 e Revues.org23, sia privati e commerciali come Cairn 24, sono in grado di esprimere un moderno .

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modello di integrazione e partenariato fra il settore pubblico e quello privato. "I dati francesi fanno chiaramente apparire un interesse particolare dei diffusori privati per la messa online dei loro numeri recenti e correnti, allorché le edizioni universitarie e, in misura minore, le istituzioni pubbliche, sono più disposte a proporre sulla rete gli archivi delle loro pubblicazioni" 25 . Il modello francese ha il suo principale punto di forza nella prospettiva della creazione di uno spazio di navigazione che raccolga l'insieme dei documenti scientifici nel campo delle Scienze umane e sociali, attraverso la costruzione di un partenariato fra i diversi attori della ricerca e dell'insegnamento superiore, la digitalizzazione degli archivi e l'edizione digitale delle pubblicazioni periodiche del settore.

QUALI CAMBIAMENTI DELLE MODALITÀ COGNITIVE E COMUNICATWE

In Italia gli scenari della digitalizzazione, nell'ambito umanistico e delle scienze sociali, hanno esiti ancora incerti ma si stanno aprendo a una radicale riconsiderazione del modo di produrre e consumare l'informazione. Nonostante le ricorrenti inchieste giornalistiche che enfatizzano ora la scomparsa del libro, ora quella delle riviste, per effetto della rivoluzione tecnologica, su questi argomenti il dibattito è tuttavia ancora circoscritto agli specialisti. Mancano o sono poco incisivi i contesti nei quali i diversi punti di vista della "filiera" dellfferta digitale possono confrontarsi e interagire. L'analisi condotta in quest'articolo si conclude pertanto sottolineando la necessità di una "Agenda" condivisa riguardo all'avvenire delle riviste culturali nell'universo digitale, che tenga conto di tutte le dimensioni implicate in questa prospettiva. L'intreccio fra l'innovazione tecnologica e la trasformazione dei contenuti, dei linguaggi, delle modalità cognitive e della comunicazione è una delle dimensioni più importanti nel mondo delle riviste di cultura. Il loro ruolo è infatti soprattutto quello di utilizzare i nuovi strumenti per approfondire, argomentare, trasferire e condividere le conoscenze e le idee, verso e oltre la loro comunità di autorillettori. Il passaggio dalla carta al digitale non sarà dunque la mera sostituzione o trasposizione del contenuto fra i due supporti. Assumiamo, come una delle chiavi di interpretazione del "cambiamento qualitativo", consentito dalle piattaforme e dai dispositivi tecnologici di ultima generazione, la distinzione fra due diversi modi di fruizione dei testi scritti: la lettura leanfoward e la lettura lean back (Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione - sei lezioni su/futuro del libro, Laterza 2010) 26• 'La fruizione leanfoward è quella che si ha quando siamo 'protesi in avanti' verso l'informazione, come facciamo studiando un libro seduti alla scrivania o lavorando al computer". La modalità lean back - tipica della lettura di un ro112


manzo o di un giornale - "è invece caratterizzata da una fruizione rilassata, 'appoggiati all'indietro' (ad esempio in poltrona) di un'informazione che ci assorbe ma da cui possiamo lasciarci trasportare senza la necessità di interventi attivi di elaborazione e manipolazione". Alle due principali situazioni di fruizione, secondo Roncaglia, sono da aggiungere la fruizione secondaria (es. leggere il giornale ascoltando la radio) e la fruizione in situazione di mobilità (es. leggere un libro in treno). Le citate modalità di lettura dei testi scritti, intrinseche alla forma tradizionale del libro e della rivista, si stanno ora differenziando e rimodulando, assumendo caratteristiche ancora da esplorare e da definire, eppure concretamente prefigurate nelle interfacce e funzionalità offerte dalle piattaforme e dai dispositivi tecnologici di ultima generazione. Ne sono il riferimento più attuale e concreto le "applicazioni mobili" di tipo tabiet, in particolare l'iPad lanciato nel gennaio 2010 dalla Apple che presto sarà seguito da dispositivi analoghi delle altre grandi aziende informatiche. Non è una mera tecnalità evidenziare che questi dispositivi hanno ormai requisiti in grado di avvicinarli alla perfezione ergonomica dell'oggetto libro/rivista, e che in essi la visualizzazione del testo ha raggiunto un'elevata qualità mimetica rispetto all'impaginazione sulla carta. La visualizzazione del testo su un iPad è supportata dal formato PDF (e la sua evoluzione AriE- Adobe Digital Edition) che è lo stesso formato utilizzato per la stampa tipografica e per la lettura di un ebook sullo schermo del computer. La tecnologia ha dunque raggiunto uno stadio in cui esistono "oggetti informativi", attualmente supportati dal formato PDF, le cui caratteristiche consentono: la possibilità di migrazione dei contenuti da una piattaforma all'altra e la loro fruizione attraverso le funzionalità offerte dalle diverse interfacce, l'aggregazione di cataloghi e collezioni di testi all'interno dei quali i lettori possono effettuare ricerche e aggiungere annotazioni personali, la possibilità di integrare la parte testuale con contenuti maltimediali. La realtà quotidiana sarà sempre più permeata dalle esperienze multimediali e interattive che si realizzano attraverso l'uso delle nuove tecnologie e la moltiplicazione delle risorse informative digitali. Di fatto è già avvenuto un cambiamento spontaneo e radicale dei comportamenti, soprattutto fra le giovani generazioni, rispetto al modo di informarsi, di apprendere, di costruire la conoscenza attraverso relazioni ludiche e collaborative. Le paratie fra le situazioni informali e quelle più formalizzate della ricerca e dell'apprendimento stanno perdendo consistenza nella vita sociale, professionale e intellettuale. All'interno dell'università e della scuola si sta evolvendo altresì la domanda di nuovi contenuti e tecnologie per sostenere l'apprendimento e la ricerca. Il mondo dell'offerta nel suo insieme, come abbiamo cercato di descriverlo nella prima parte dell'articolo, sta interrogandosi su come questa domanda può essere incontrata attraverso lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi che possano 113


avere un impatto positivo per la qualità della didattica e della comunicazione del sapere. "La creazione di una robusta infrastruttura a sostegno della creazione e archiviazione di oggetti multimediali (le piattaforme di e-learning, i repositories), la diffusione dei servizi e degli strumenti (devices) per la "mobilizzazione" delle collezioni (m-collections), il successo di YouTube in ambito accademico, sostengono la tendenza corrente di studiosi e ricercatori a creare e condividere in rete output multimediali a scopo di ricerca, più spesso per scopi didattici" 27

LAVORARE AD UN'AGENDA CONDIVISA

La proposta di una "agenda" che riguardi l'avvenire delle riviste culturali nell'universo digitale dovrebbe e potrebbe dare impulso a una campagna di consultazione e di discussione su alcuni dei seguenti possibili obiettivi. Approfondire la riflessione sul ruolo degli intellettuali riguardo alla coerenza e alla versatilità degli strumenti digitali rispetto ai linguaggi e alle modalità comunicative del lavoro culturale, della ricerca, del pensiero critico e del dibattito delle idee. Verificare qual è il grado di consapevolezza e di disponibilità fra gli operatori rispetto alla possibilità di dar vita a forme di aggregazione fra i soggetti privati, e di partenariato fra questi e le istituzioni pubbliche, che abbiano come scopo l'accelerazione dei processi di cambiamento e il superamento del digital divide. Far emergere, dalle pratiche implementate, le linee di possibile composizione dei conffitti fra i diversi soggetti della "filiera" intorno alle problematiche del diritto d'autore, dell'open access, dei nuovi modelli economici della rete. Analizzare - anche in relazione alle ricadute economiche su abbonamenti, royalties, carriere - l'opportunità di estendere l'applicazione degli strumenti di valutazione quantitativa e qualitativa dei testi (peer reviewing, impactfactor, link analysis, ecc) nell'area delle riviste SHS. Verificare quali piattaforme tecnologiche e modelli economici possono offrire un accesso integrato alle risorse digitali delle riviste, e siano in grado di contemperare l'autonomia culturale e editoriale delle testate con le economie di scala che possono essere rese possibili dall'aggregazione in network dedicati.

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Casalini Libri Digital Library è il principale aggregatore multieditoriale italiano. La Società fornisce, su sottoscrizione annuale, a consorzi universitari e istituzioni bibliotecarie nazionali e internazionali l'accesso online ai suoi database, che raccolgono attualmente oltre 150.000 articoli e-journals e testi e-book nel settore delle scienze umane e sociali. 2 Google Scholar dichiara di "elencare gli articoli in base alla stcssa classificazione adottata dal mondo scientifico, ossia valutando il testo completo di un articolo, l'autore, la pubblicazione in cui è riportato e il numero di volte in cui viene citato in altri documenti accademici". Il Catalogo Italiano dei Periodici Acnp ha avuto origine negli anni settanta su iniziativa dell'ISRDS-CNR per realizzare un Archivio Collettivo Nazionale dei Periodici (da qui la sigla ACNP). Dal 1988 il Centro Inter-Bibliotecario dell'Università di Bologna cura, in collaborazione con il CNR, le procedure gestionali on-line e l'OPAc del catalogo. Il totale dei periodi posseduti sono 898.816, le Biblioteche registrate ACNP sono 2.503. "Nel caso specifico di "queste istituzioni", l'elenco comprende 45 biblioteche (consultazione del 30 agosto 2010). Lespressione allude, non a caso, a 1/le long tail, l'articolo di C. ANDERSON, poi uscito in volume (La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice Edizioni 2007). Anderson ha messo molta enfasi sulla possibilità della rete di superare le logiche dominanti nell'economia del libro, a vantaggio di un ciclo di vita lungo e, spesso, al recupero delle opere uscite dal circuito delle librerie a causa dell'alto indice di rotazione delle novità editoriali. "Quando La coda lunga usci su "Wired", nell'ottobre del 2004, diventò in breve tempo l'articolo più citato mai pubblicato dalla rivista. Le tre osservazioni principali - 1) la coda della varietà disponibile è molto più lunga di quanto pensiamo; 2) oggi è a portata di mano dal punto di vista economico; 3) tutte quelle nicchie, quando aggregate, possono equivalere a un mercato significativo parvero incontestabili" (Anderson, ivi). 6 Per una trattazione attuale e aggiornata dell'argomento si veda il volume di G. RONCAGLIA, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sulfuturo del libro (Laterza 2010). Sul versante del rapporto fra le nuove tecnologie e la didattica, segnaliamo il lavoro più recente di M. ROTTA, con M. BINI e P. ZAMPERLIN, Insegnare e apprendere con gli ebook. Dall'evoluzione della tecnologia ai nuovi scenari educativi (Garamond, 2010). Per il cambiamento nell'ambito della biblioteconomia e sulla nuova nozione di "biblioteca digitale" citiamo almeno R. RIDI, La biblioteca come zpertesta (Editrice Bibliografica, 2007). L'analisi sulla struttura del mercato delle riviste del settore SHs in Italia è stata l'oggetto di due indagini autonome ma entrambe realizzate nell'anno 2004 e pubblicate nel 2005. La prima, Il mercato delle riviste in Scienze e umane e sociali in Italia di G. VITIELLO (pubbli-

cara su «Biblioteche oggi> n. 1-2005) nasce da uno studio, commissionato all'autore dal Ministero della ricerca francese sullo stato a livello comparativo dell'offerta di riviste SHs in Francia, Spagna e Italia. L'altra indagine, il Rapporto sui periodici di cultura in Italia (in Guida all'Itaha delle Riviste di cultura - Quaderni di Libri e riviste d'Italia n. 55/2005), curata dal sottoscritto, è il frutto della collaborazione fra il CRJc (Coordinamento Riviste italiane di Cultura) e l'Istituto per il Libro del Ministero per i beni e le attività culturali. Gli studi citati analizzavano anche lo stato dell'evoluzione dell'offerta in ambito elettronico. Nel 2009 è stato pubblicato in Francia L'édition scientifiquefranfaise en sciences humaines etsociales, uno studio realizzato per il CNRs nell'ambito del progetto ADONIS "Accès unique aux données et aux documents numériques des SHs' dal GF1I un'associazione che raggruppa le industrie dell'informazione. I risultati di questo studio rendono evidente il livello di internazionalizzazione raggiunto daWofferta delle riviste elettroniche anche nel settore Sus. I dati sono rilevati dall'editore francese NecPlus, che li mette a disposizione nel sito http://necplus.eu . L'accesso alla consultazione della versione elettronica completa dei periodici dei principali editori presenti sul mercato internazionale è in remoto sui portali degli stessi editori oppure è gestito sui propri server dai consorzi universitari CILEA e CASPUR, che curano la negoziazione delle licenze con i produttori. Le riviste elettroniche sono consultabili esclusivamente dagli utenti che si collegano da macchine residenti sulle reti degli atenei autorizzati. G. VITIELLO, Il libro contemporaneo (Editrice Bibliografica 2010); sull'argomento trattato in questa parte del nostro articolo, si veda in particolare il Cap. 10 - "La comunicazione editoriale scientifica", che riprende e aggiorna un testo dello stesso autore pubblicato su «Biblioteche oggi, n. 5/2003. Copera offre un panorama molto chiaro sul funzionamento dei meccanismi di valutazione del contenuto dei periodici scientifici e sulla loro evoluzione digitale. Il sistema di misurazione della frequenza delle citazioni trova sistematizzazione negli anni settanta attraverso la creazione del Journal Citation Reparts (jCR), un rapporto annuale prodotto dall'Institutefar Scientfic Information (Isi) del gruppo Thomson, che accorpa lo Scienre Citation Index e il Social Sciences Citation mdcx. IO Ci riferiamo alla nozione di "paradigma scientifico" introdotta dall'episremologo Thomas Kuhn nel celebre volume La struttura delle rivoluzioni scient?fiche ( The University of Chicago, 1962; Einaudi 1969). Un paradigma scientifico è l'insieme dei risultati condivisi dalla comunità scientifica sui quali si basa una tradizione di ricerca. La scienza normale si occupa di estendere la conoscenza all'interno del medesimo paradigma, fino a quando non avviene una rivoluzione scientifica che costringe ad abbandonare il vecchio paradigma e a sosti-

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tuirlo con una nuova teoria scientifica. Mentre le rivoluzioni scientifiche hanno carattere eccezionale nel campo delle scienze esatte, si può dire che esse abbiano carattere permanente nel campo delle scienze sociali. Il Sono stati consultati i documenti di lavoro sui criteri per la valutazione della ricerca nel campo delle scienze umane e sociali, prodotti dal Gruppo di lavoro Cu (18 dicembre 2009), dal Gruppo di lavoro CNR (21 dicembre 2009), dai Comitati di direzione e scientifico di "Studi Storici" (31 ottobre 2009), la bozza di una proposta della rivista "900" (Paolo Rossi, 11 febbraio 2010); nonché il documento su "Valutazione della ricerca" approvato dal Consiglio Universitario nazionale nell'adunanza del 23 marzo 2010. Sull'argomento si veda anche il Libro bianco "Valutazione della ricerca" (Marsilio, 2006), prodotto dalla Commissione di studio del Css coordinata da Alberto Zuliani. La classificazione delle riviste per livelli di qualificazione dovrebbe risultare da un processo interattivo, coordinato dal CUN, nel quale le comunità scientifiche, anche tramite le proprie associazioni, giochino un ruolo determinante, e nel quale i criteri di riferimento, oltre al giudizio di merito sulla scientificità, formulato da valutatori indipendenti e dotati della necessaria competenza disciplinare (peer review), siano l'impatto (nazionale e meglio ancora internazionale) della rivista (eventualmente misurato dall'IF nei settori in cui questo criterio risulti appropriato), la presenza nelle principali banche dati internazionali (tra cui la banca dati IsI per i settori in cui la copertura da essa offerta risulti adeguata), l'autorevolezza della direzione scientifica, l'affidabilità della gestione organizzativa. E' da notare infine che, fra i fattori di classificazione positiva delle riviste, sono menzionati la presenza nelle tre principali banche dati italiane di riviste online (Editoria italiana online, Franco Angeli, Il Mulino) e la presenza di un'indicizzazione nei più importanti repertori internazionali delle singole discipline. 12 Una conferma, fra le altre, dell'accelerazione del passaggio al digitale è venuta dal Forum Riviste di cultura: un'identità alla prova, al quale hanno partecipato i direttori di "Hamelin", "il contesto", "Palomar Italia", "Reset" (Libri e Riviste d'Italia" n. 3/2007). 13 S. BONANNI, E. FIOCCHI, E. MARTELLINI (Biblioteca della Scuola normale superiore di Pisa) Iniziative italiane di digitalizzazione di periodici a stampa (Biblioteche oggi n.10 - dicembre 2009).Tra le collezioni di un certo rilievo per il settore dei periodici, ricordiamo la BiD Biblioteca Braidense di Milano, che fornisce l'accesso a 900 periodici d'interesse per la storia e la cultura d'Italia, il progetto CIRCE dell'Università di Trento, dedicato alle riviste letterarie del )O( secolo. 14 La fisnzione fondamentale che le riviste culturali svolgono per la formazione di un'opinione pubblica europea è all'origine del Progetto Eurozine (www.erurozine.com ), portale che offre uno spazio pubblico transnazionalc di

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approfondimento e discussione attraverso i contenuti di una cinquantina di riviste pubblicate in vari Paesi europei. ' Tutto è iniziato il 14 dicembre 2004, quando Google, il più famoso motore di ricerca su Internet, annunciò di aver stretto un accordo con le università di Oxford, Harvard, Stanford, Michingan e con la New York Public Library, per la creazione di copie digitali dei volumi di pubblico dominio contenuti nei fondi di queste prestigiose istituzioni, con l'obiettivo di rendere ricercabii e consultabili in rete 15 milioni di libri in sei anni. Il servizio Google Book Search fornisce, per ogni libro coperto da copyright, le informazioni bibliografiche principali, la visualizzazione di frammenti, parole, espressioni chiave, riferimenti al libro in pubblicazioni accademiche o altri libri, titoli dei capitoli e un elenco di libri correlati, link che indirizzano alle librerie nelle quali è possibile acquistarlo e alle biblioteche nelle quali prenderlo in prestito. La visualizzazione completa è disponibile se il libro non è soggetto a copyright oppure se l'editore o l'autore ha richiesto di rendere il libro completamente visualizzabile. Sempre su autorizzazione dell'editore, si può visualizzare un numero limitato di pagine del libro sotto forma di anteprima. Non vi è accordo invece sulla pubblicazione delle "opere orfane", quelle su cui non è ancora scaduto il periodo di tutela ma di cui non sono noti i titolari del copyright. 16 lngenta (www.ingentaconnect.com ) offre una delle più complete collezioni di articoli della ricerca accademica e professionale: 4,5 milioni di articoli di 13.500 pubblicazioni, lavorando con Otto dei 10 più grandi editori del mondo. 17 JSTOR -Journal Storage Project (www.jstor.org ) comprende 13 diverse collezioni, per un totale di circa 1.000 titoli di diverso ambito tematico, che spaziano dalla scienza alla letteratura. Partecipano 700 editori di 25 Paesi, fra editori commerciali, university press e altre organizzazioni. Jstor è organizzato come un archivio dove è possibile consultare i numeri dei periodici di 3 o5 anni prima rispetto all'anno in corso. Dal 2011 saranno disponibili sulla stessa piattaforma, sia le collezioni storiche, sia i numeri correnti di 174 riviste di 19 editori. Project MusE (http://muse.jhu.edu ), nato nel 1995 da un'iniziativa della Johns Hopkins University Press, offre attualmente: 188.028 articoli di 461 periodici a testo completo relativi ad arte, scienze umane e scienze sociali pubblicati da 118 editori accademici. Il database è offerto a università e biblioteche di ricerca, su sottoscrizione di una licenza annuale. 19 ProQuest <(www.proquest.com )> è un'ampia base dati a testo completo disponibile nel mercato dell'editoria elettronica che include ad oggi 25 delle basi dati del catalogo ProQuest. Complessivamente offre lo spoglio di circa 14.000 titoli di cui 11.000 periodici a full-text. 20 La Commissione europea ha svolto una consultazione ontine sulle biblioteche digitali intervistando rappresen-


tanti di istituzioni culturali, editori e titolari dei diritti d'autore, dirigenti di dipartimenti universitari e di aziende informatiche, amministratori pubblici e semplici cittadini. I risultati della consultazione, pubblicati nel marzo 2006, esprimono un orientamento generale favorevole riguardo all'enorme opportunità offerta dall'accesso attraverso Internet al patrimonio culturale e scientifico dell'Europa, così come dal suo uso nella scuola e nell'apprendimento. Entrando però nel concreto, le posizioni si fanno più articolate e si nota una diversità d'accento fra il settore pubblico e il settore privato, per quanto riguarda le soluzioni giuridiche relative al copyright sulle opere digitali, ma non soltanto su queste. La diversità dell'approccio al tema della protezione del diritto d'autore si esprime sostanzialmente nel giudizio dato dalle due parti sulla normativa derivante dalla direttiva 2001/29 Ec, che appare adeguata ai titolari dei diritti mentre è troppo restrittiva secondo le istituzioni culturali che rappresentano gli utilizzatori. Queste ultime propongono di introdurre nella legislazione europea alcune novità, come la clausola del "fair use", il diritto per le biblioteche di riprodurre, digitalizzare, indicizzare e mettere a disposizione le loro raccolte sul Web, la riduzione della durata della protezione, compensando alcune di queste eccezioni con un meccanismo di remunerazione per i titolari dei diritti. L'atteggiamento degli editori non e però attestato meramente sulla esclusione dalla BDE di tutte le opere ancora sotto tutela, e sembra aperto, a determinate condizioni, a un coinvolgimento diretto nei programmi di digitalizzazione attraverso partnerships con il settore pubblico e forme di incentivazione degli investimenti. In una fase in cui non è ancora possibile valutare gli sviluppi della nuova economia del libro e il loro impatto sul pubblico, le posizioni di tutti sembrano convergere insomma sulla necessità di un maggior coordinamento degli sforzi a livello europeo e di appropriati livelli di investimento sulla digitalizzazione. 21 Cultura Italia (www.culturaitalia.it ) si propone di coinvolgere i vari attori della produzione e fruizione culturale italiana (musei, archivi, biblioteche e altri enti culturali pubblici e privati) disposti a tendere disponibili i metadati che descrivono le risorse delle proprie basi dati. Il portale è quindi organizzato come un catalogo - articolato per canali tematici e per regione - che raccoglie e indicizza le informazioni fornite dai partner, attraverso i metadati. I dati contenuti originari restano sul sito Web del fornitore, verso i quali l'utente è indirizzato, tramite link, per una completa consultazione.

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Persée (www.persce.fr ) è un programma nazionale landato nel 2003 dal Ministero dell'insegnamento superiore e della ricerca, finalizzato ad accrescere la visibilità dell'attività di ricerca francese nelle scienze umane e sociali. Le collezioni sono ad accesso libero e gratuito, nel rispetto di un tetto variabile, fissato da ciascuna rivista con il suo editore o distributore, allo scopo di garantire la commercializzazione della produzione corrente. Il limite è in generale intorno ai 3-5 anni, fino al raggiungimento del quale la rivista rimane a pagamento. Persée in cifre: 101 riviste presenti nel portale, 45 riviste di prossima diffusione, 301.610 documenti, 123.993 articoli in testo integrale, 14.007 articoli in versione sonora. 23 Revues.org (www.revue.org) è il portale del Centrepaur l'edition électonique ouverte (CLEO) che associa il CNRs, l'Eco/e des hautes études en sciences sociales, l'Université de Provence, l'Universitéd'Avignon. La piattaforma privilegia la messa in linea di articoli in testo integrale e ad accesso aperto. Vi aderiscono più di 200 riviste di scienze umane e sociali, una ventina delle quali beneficiano di un accordo di diffusione commerciale con Cairn. 24 Cairn.info (www.cairn.info) è un portale commerciale che offre 230 riviste correnti in lingua francese di più di 50 strutture editoriali private e pubbliche. Si rivolge alle biblioteche, ai loro utenti e al pubblico interessato al settore SHs, mettendo a disposizione a pagamento il testo integrale dei numeri correnti ed altre risorse gratuite gratuitamente (metadati, archivi, di riviste, introduzioni). Cairn.info realizza soluzioni di interoperabilità con gli archivi dei portali patrimoniali (Persée, Gallica, ecc.) e beneficia del sostegno del Centre national du Livre e dell'appoggio della Biblioteque nationale de France. "Etat des lieux comparatzfde lftre de revues SHs. France - Espagne - Italie" (2005), p. 20 26 Per le considerazioni sulle trasformazioni della "rivista" come medium, all'interno del complesso processo che ci ha portato all'era dell'e-book e dei libri in rete, siamo debitori soprattutto del volume di G. RONCAGLIA La quarta rivoluzione, uscito nel 2010 qualche settimana dopo il lancio dell'iPad, e frutto dei corsi tenuti dall'autore presso l'Università della Tuscia, in "Informatica applicata alle discipline umanistiche e Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze", del master in e-learning e del corso di perfezionamento sul futuro del libro, e-book ed editoria digitale, consultabili in www.ebooklearn.com . 27 M. CASSELLA, Tendenze ed evoluzione dei periodici elettronici nell'era post-Gutenberg - ',Bibliotime', anno XIII, numero 1 (marzo 2010)

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Fondaziolli: come produrre, sul serio, beni sociali

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orniamo sulle fondazioni dopo l'ultimo dossier dedicato al tema nel primo numero de12008 (i1148): "Homo beneficus: ricchezze private e pubbliche virtù", con contributi di Piero Bassetti, iVlarco Cammelli, Piero Castaldo, Olivier Zunz, Dan iel Akst, Judith H. Dobrzynski. Sarebbe lungo l'elenco degli articoli sulle fondazioni ospitati su queste pagine —partirebbe dal 1993 - ma è importante ricordare almeno la pubblicazione del Libro bianco su Le fondazioni in Italia,frutto del lavoro di ricerca della commissione sulle fondazioni del Css; il dossier ospitato nel n. 132 (inverno 2003-2004) "Fondazioni come organizzazioni delle libertà sociali (e politiche)", con contributi di Sergio Ristuccia ed Elisabetta Pezzi e quello dedicato al tema "Gestire i fondi della filantropia", con contributi di Sergio Ristuccia, di Fabio Biscotti e di Vincenzo Spaziante sul n. 138139 (estate-autunno 2005). Nel dossier che segue presentiamo, - insieme alla sintesi (di Alessandro Silj) di un interessante rapporto realizzato ne12008 dall'americana GEO (Grantmakerfor Effective Organization) sul Generai Operationg Support (Gos), in italiano comunemente definito "sostegno istituzionale" da parte difondazioni ad altri organismi non proflt -, due indagini compiute per conto del Consiglio italiano per le Scienze sociali su due tipologie difondazioni: quelle di origine pubblica e le cosidettefondazioni comunitarie. La ricognizione sullefondazioni di origine pubblica, curata da Ilaria Lucaroni, riguarda l'universo delle fondazioni istituite per via non legislativa da Pubbliche amministrazioni edEnti locali nel periodo 199712007. La ricognizione, iniziata nell'aprile 2007, ha analizzato finalità e scopi di questefondazioni su dati del 2006 ed aggiornati al 2008. Nell'indagine sono state inserite anche alcune fondazioni istituite con Legge provinciale e Legge regionale. La curi osità fondamentale è stata quella di capire se ci si trova davanti a fondazioni vere o di facciata. 119


Il contributo di Elisabetta Pezzi e Mariana Franzon è un estratto del rapporto di una ricognizione sullefondazioni di comunità iniziata ne12007 e conclusa ne/fr bbraio del 2008. I dati esposti di seguito fanno rj'èrimento a/periodo indicato mentre, nel frattempo, i/fenomeno dellefondazioni di comunità in Italia ha continuato adespandersi, tanto che si segnalano a/meno undici nuovefondazioni rispetto a quelle indicate ne/ testo: la Fondazione Comunitaria della Valle d4osta Onlus e la Fondazione della Comunità di Mirafiori Onlus promosse dalla Compagnia di San Paolo, la Fondazione Riviera Miranese e la Fondazione Comunitaria Terra dAc qua promosse dalla Fondazione di Venezia, la Fondazione della Comunità Veronese Onlus, la Fondazione Monna/isa Onlus costituita da un'impresa, la Fondazione di Comunità della Sinistra Piave per la Qualità della Vita nata per volontà di 28 amministrazioni comunali, /a Fondazione della Comunità del Territorio di Cerea Onlus e, infine, la Fondazione della Comunità Salernitana On/us, /a Fondazione di Comunità del Centro Storico di Napoli e /a Fondazione di Comunità di Messina - Distretto Sociale Evoluto, tutte e tre promosse dal/a Fondazione per i/Sud. I/modello de//efondazioni di comunità risulta essere in continua espansione anche ne/ resto de/mondo. Secondo il Community Foundation G/obal Status Report,2008 predisposto dal network Wings (ultimo disponibile ad oggi e pubblicato successivamente al/a ricerca in oggetto) dal 2005 sono state costituite 271 nuove fondazioni di comunità in tutto i/mondo, con una crescita del21% da/2005,per un numero totale di 1.441 fondazioni di comunità in 51 Paesi de/Nord e Sud del mondo. Il Paese dove sono presenti i/ maggior numero difondazioni di comunità continua ad essere g/i Stati Uniti (775), mentre a/ secondo posto si è ora posizionata la Germania che con l9ofondazioni di comunità ha superato i/Canada dove sono presenti 163fondazioni di comunità. Per quanto riguarda la realtà del Regno Unito, infine, si segnala che il sito del Community Foundations Network, a ottobre 2010, segnala l'esistenza di 55fondazioni di comunità, per una crescita di circa il 20% rispetto al 2008.

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Fillailziauienti istitnziouali o fivauziauieuti a progetto? A proposito del Itapporto della GEO di Alessandro Silj

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a tendenza, nella dirigenza della maggior parte delle fondazioni, a privilegiare il finanziamento di specifici progetti rispetto a formule di sostegno istituzionale va sempre più rafforzandosi, in assenza di una approfondita riflessione, almeno per quanto riguarda l'Europa, sui benefici e le debolezze delle due strategie, e quindi sui criteri che dovrebbero ispirare la decisione di una fondazione di optare per l'una piuttosto che per l'altra. u tale questione sono stati fatti alcuni studi, tra i quali uno in particolare su1 quale vale soffermarsi, realizzato nel 2008 da GEO, Grantmakerfor Effective Organization (Washington Dc), ricorrendo a focus groups e interviste con dirigenti di fondazioni e rappresentanti di organismi no profit (essendo questi ultimi soprattutto quelli che più di altri possono operare soltanto grazie a un sostegno istituzionale). Il fatto che gli sponsor e finanziatori di GE0 siano quindici fondazioni, ivi incluse alcune tra le maggiori, quali la Ford, rendono particolarmente significative le conclusioni cui la ricerca di è pervenuta. Lo studio cui ci riferiamo è intitolato Generai Operationg Support (Gos), in italiano comunemente definito sostegno istituzionale. Ilrapporto della GE0 si articola in più capitoli, 1) che cosa si intende per sostegno istituzionale, 2) perché i grantmakers dovrebbero fornirlo, 3) quali sono le conseguenze quando non è concesso, 4) perché soltanto pochi lo praticano, 5) perché gli overhead ammessi in un grant a progetti non rappresentano una soluzione adeguata, 6) quali sono i criteri per definire corretta la decisione di optare per il sostegno istituzionale, 7) come misurare il giusto ammontare di un tale sostegno e, 8) valutare se un organismo si qualifica per esso, e infine, 9) ottenere che chi riceve tale sostegno venga tenuto responsabile per il modo in cui viene speso.

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PRO E CONTRO IL Gos

Negli Stati Uniti, circa il 20% dei grants fatti dalle 1.200 maggiori fondazioni (incluse le community foundations) sono destinati a sostegno istituzionale. In anni recenti la tendenza è stata all'aumento, salvo una leggera flessione nel 2004/2005. Qui, senza entrare in dettagli, citeremo dal rapporto della GEO, in sintesi, le principali argomentazioni emerse dalla ricerca in favore o contrarie alla concessione di generai operating support, tenendo presente che gli interlocutori delle fondazioni e beneficiari di questo tipo di sostegno considerati dalla GE0 sono organizzazioni no profit. Secondo il direttore esecutivo di Social Venture Partners questo tipo di sostegno è di importanza critica al fine di ottenere una efficienza operativa ottimale. Questo giudizio non sorprende data la fonte, ma è confermato da numerose altre testimonianze registrate dalla ricerca della GE0, che possono riassumesi in due domande: come può una fondazione pretendere che organismi no profit portino a buon fine le loro rispettive missioni se molti di essi devono battersi per sopravvivere? Come possono tali organismi operare efficacemente se non dispongono di sufficienti risorse per pagare stipendi decenti, e investire in tecnologie e altre infrastrutture? La California Wellness Foundation ha concluso che la propria esperienza in anni recenti l'ha indotta a ritenere che la produttività e la qualità degli organismi no profit dipende dalla loro capacità di far fronte alle loro "basic organizational needs". Secondo il 'Whitman Institute di San Francisco il Gos permette a tali organismi di innovare, anche rischiando, e di adeguarsi via via a ciò che avviene nel contesto sociale nel quale operano. Che cosa può accadere se tale sostegno non è disponibile? La debolezza o l'assenza di infrastrutture, si legge nel rapporto della GE0, è una barriera all'efficienza: infrastrutture inadeguate provocano performance inadeguate. Allora come si spiega che il numero di fondazioni che non concedono sostegno istituzionale è modesto? Secondo uno studio del Centerfor Effective Pbiiantropy, la risposta a tale quesito da parte di molte fondazioni è che finanziare progetti offre maggiore chiarezza in merito alle prospettive di per formance e di impatto dei risultati. Una considerazione fatta da alcune di esse, soprattutto le più grandi, è che il Gos le priverebbe del loro ruolo di promotori del cambiamento sociale.Tale ruolo, il principale per le grandi fondazioni, è l'innovazione. Il sostegno istituzionale può perpetuare lo status quo permettendo agli organismi no profit di continuare a fare ciò che fanno senza inter rogarsi su questioni ben più importanti ed emergenti nel sistema nel quale operano. Il rapporto della GE0 è interessante anche perché evidenzia le differenze di opinione che esistono in merito nel mondo delle grandi fondazioni. Così, alcuni sostengono che innovazione non è sinonimo di efficacia; che l'in122


novazione potrebbe rendersi necessaria per produrre risultati e realizzare gli obiettivi di una fondazione, ma che fondamentalmente obiettivo di una fondazione non deve essere l'innovazione, in se stessa, bensì la creazione di un bene sociale. Un grantmaker deve guardare agli obiettivi della propria azione più che ai mezzi con cui questi possono essere raggiunti. Se investe in organismi no profit, la misura del loro successo non può che essere il prodotto sociale. La questione degli overheads Un altro aspetto che merita attenzione, evidenziato dalla ricerca della GEO, è la questione se gli overheads possano rappresentare una alternativa al sostegno istituzionale. Può sorprendere, ma è plausibile, che una delle realtà riscontrate è la tendenza degli organismi no profit a sottovalutare, nelle loro richieste di finanziamento, tali costi. Contrariamente a una opinione diffusa, che un overhead basso è una virtù, la ricerca conclude che ciò comporta anche risparmiare sulle infrastrutture e pertanto limita l'efficacia della loro azione. Inoltre, i costi del jìindraising vanno considerati un dato reale che deve figurare nel calcolo degli overhead, in quanto quasi sempre occorre "spend money to raise money". Pochissimi organismi sono in grado di funzionare se la misura di questi costi è inferiore al 20 per cento. Purtroppo, si osserva, non esistono standard per calcolare l'overhead. Le fondazioni non dovrebbero trascurare la possibilità di investire per creare o rafforzare il knowhow finanziario di un organismo no profit. Secondo il Centerfar Effective Philantrophy, la maggioranza dei grants sono semplicemente troppo modesti e di breve durata perché la differenza tra un finanziamento a progetti e un Gos possa contare più di tanto. Ma è indubbio, nota il CEP, che un Gos, purché per un ammontare sufficiente e pluriennale, rappresenta un investimento molto più fruttuoso di un sostegno limitato a progetti.

INCORAGGIARE IL LAVORO DEL NO PROFIT IN CONTESTI TRASPARENTI

Il rapporto del GEO conclude osservando che mentre il bisogno per servizi umani e sociali va crescendo, il finanziamento pubblico è diminuito. Gli organismi no profit possono usare i grants istituzionali per affrontare questioni emergenti ed urgenti, rimpolpare le retribuzioni del loro personale, investire nelle tecnologie e altre infrastrutture, rafforzare la loro attività di comunicazione e di ftindraising, nonché altre esigenze operative. Gli scandali che hanno colpito alcuni grandi organismi no profit non devono essere un deterrente per le fondazioni. Un numero crescente di grantmakers e leader del no profit ritengono che la filantropia dovrebbe rompere con la tradizionale pratica di fare affidamento 123


soltanto su finanziamenti limitati a progetti. I tempi sono maturi per dare più potere agli operatori no profit per incoraggiare il loro lavoro, con tutta la dovuta accountability, certamente, ma con il minimo di restrizioni e di red tape. Il rapporto comprende anche diversi inserti che per ogni problema o azione, elencano, confrontandole su due colonne, le opinioni generalmente prevalenti, ritenute superficiali o errate (myths) e quella che l'indagine della GEO ha evidenziato come realtà (reality). Trattasi, in conclusione, di un documento che i presidenti, direttori e consigli di amministrazione di tutte le fondazioni dovrebbero tenere in buona evidenza sulle rispettive scrivanie. Si può ovviamente dissentire da alcune conclusioni e raccomandazioni, ma il rapporto GE0 offre dati originali e nell'insieme una materia molto ampia sulla quale riflettere seriamente. Senza dubbio il campo degli organismi no profit è molto affollato ed occorre diffidare delle generalizzazioni e poter distinguere, ma non sempre si dispone di informazioni e metodi di valutazione adeguati, tra chi merita un sostegno e chi invece vegeta e non produce risultati validi. La conclusione che ne emerge, quali che possano essere la condivisione o la critica che una sua lettura possa ispirare, è che indubbiamente il problema del ruolo degli organismi no profit e il loro impatto sulle nostre società merita molta più attenzione, da parte della maggioranza delle fondazioni, di quanta abbia ricevuto fino ad oggi.

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Foudaiioui di origlue pubblica di Ilaria Lucaroni

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fronte delle molte discussioni che riguardano le fondazioni, da tempo oggetto di interventi sia nella legislazione speciale che nei tentativi di riforme della disciplina civilistica1 , e sulla base degli ultimi dati della rilevazione Istat (2007) che mettono in evidenza un incremento notevole dell'utilizzo del negozio fondazionale, è ormai divenuto imprescindibile un intervento mirato ad una conoscenza più approfondita, nella consapevolezza che il contenitore fondazione ad oggi racchiuda un'eterogeneità di realtà molto spesso difficilmente comparabili tra loro. Pertanto risulta improprio qualunque intervento che non prenda in considerazione le estreme differenze che si celano sotto lo stesso termine. La presente ricognizione ha come oggetto, partendo da una prima rilevazione su scala nazionale, lo studio di quelle che sono state definite fondazioni di origine pubblica, col quale si intende l'universo delle fondazioni istituite per via non legislativa da Pubbliche amministrazioni ed Enti locali nel periodo di riferimento 1997/2007. La ricognizione, iniziata nell'aprile 2007, ha voluto offrire un quadro indicativo in merito a finalità e scopi dell'utilizzo della fondazione da parte delle Pubbliche amministrazioni ed Enti locali su dati del 2006 ed aggiornati al 2008. Si segnala infine che, ai fini di una valutazione generale, si è ritenuto opportuno, in base alle loro caratteristiche presentate, inserire alcune fondazioni istituite con Legge provinciale e Legge regionale. Sono le caratteristiche che, in termini di attività e governance, sono simili a quelle istituite con atto pubblico.

L'autrice collabora al Centro Studi Phasi - Philantropy and Social Innovation - Università di Bologna.

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Scopi DELLA RICERCA Il fine della ricerca è valutare quanto l'Amministrazione pubblica usi lo strumento fondazione per beneficiare realmente delle possibilità offerte dal diritto privato e quanto invece la privatizzazione resti unicamente formale e di facciata. Partendo da una quantificazione numerica, su scala nazionale, di fondazioni di origine pubblica, si è cercato di dare una rappresentazione reale sulla base dei seguenti punti di riferimento: 1) fondazione pubblica (istituita dalla sola Pubblica amministrazione, o più Pubbliche amministrazioni di riferimento); 2) fondazione mista (istituita dalla Pubblica amministrazione in partnership con soggetti privati e/o del privato sociale); 3) fondazione grant-making (svolgono unicamente attività di erogazione fondi); 4) fondazione operativa (gestiscono direttamente una qualche attività); 5) fondazione grant-making ed operativa (svolgono entrambe le attività di erogazione e gestione); 6) fondazione di partecipazione (presenza di un organo assembleare tra gli organi statutari); 7) settore attività (cultura, istruzione, ricerca e sviluppo, ambiente, sociale, sanità e ricerca medica). Sulla base dei risultati emersi in questa prima fase ricognitiva è stato successivamente scelto un campione rappresentativo, pari a circa un quinto del totale delle fondazioni individuate, di cui è stata portata avanti un'analisi più approfondita. L'analisi del campione è stata condotta individuando le seguenti caratteristiche: 1) natura dei soci fondatori; 2) finalità perseguite; 3) attività svolta (grant-making, operativa, grant-making ed operativa); 4) organi previsti e loro composizione; 5) composizione e gestione del patrimo Si è cercato di scegliere un campione che riuscisse ad essere il più rappresentativo possibile dell'universo fondazioni di origine pubblica in Italia in merito alle caratteristiche più peculiari emerse in sede di rilevazione nazionale. Nello specifico, si è voluto affiancare al dato descrittivo delle caratteristiche generali della fondazione (finalità perseguite e attività svolta) una valutazione più approfondita che prendesse in considerazione elementi quali: i sistemi di elezione degli organi, la composizione del patrimonio in termini di fondo di dotazione iniziale, analisi delle voci di entrata del conto economico suddividendo tra entrate derivanti da "ricavi da prestazioni e vendite", "risultati della gestione patrimoniale" e "contributi annuali". In quest'ultimo caso si è trattato di verificare, dai dati di bilancio d'esercizio per il 2006, la capacità della fondazione di saper gestire le proprie risorse con i proventi della gestione del patrimonio e delle attività proprie, o dove invece dipendente, anche per l'incongruità stessa del fondo di dotazione iniziale al perseguimento dello scopo, da contributi annuali provenienti dai soci, in special modo quelli di natura pubblica. Fine ultimo dell'indagine campionaria capire quanto "l'impronta pubblica", sia in termini di governance che di flussi finanziari, sia incisiva nell'operato e nella gestione della Fondazione. 126


Le valutazioni finali hanno come obiettivo, facendo anche riferimento alla definizione comunitaria di ente pubblico, capire se la fondazione di origine pubblica mantiene la struttura di ente privato così come disciplinato dal codice civile "un patrimonio destinato ad uno scopo" o che non si tratti, utilizzando le parole di Giulio Napolitano, "dell'atavico gattopardismo delLegislatore', ossia dell'utilizzo improprio, e abusato, dello strumento fondazione. Nel totale nazionale sono state rilevate 146 fondazioni di origine pubblica. Di queste, 83 sono fondazioni interamente pubbliche, le restanti 63 sono state istituite sia da fondatori pubblici che privati. Nella maggior parte dei casi, esattamente per 83 di queste, svolgono direttamente un'attività operativa, 55 sono fondazioni sia operative che grant-making, solo 8 di queste si occupano esclusivamente dell'erogazione fondi. Infine, quale ultimo dato rilevante, 53 fondazioni sul totale nazionale possono definirsi fondazioni di partecipazione in quanto presente tra gli organi statutari un'assemblea dei soci. Per quanto riguarda i settori più della metà delle fondazioni (58,9%) opera nel settore cultura; secondo settore privilegiato, con notevole distacco dal primo, istruzione con il 13,6 %; segue ricerca e sviluppo con il 12,3%, il settore sociale con l'8,9%, infine le percentuali più basse spettano all'ambiente con il 3,4% e sanità e ricerca medica con il 2,7%. Il 47,6% delle fondazioni operanti nel macro-settore cultura è classificabile nel micro-settore di attività "organizzazione eventi culturali, concorsi e premi, mostre e allestimenti, archivi storici, promozione opera di un artistalscrittore/letterato" (s. vedano figure in appendice). Il quadro complessivo delle 146 fondazioni è composto per il 56,8% da fondazioni istituite dai soli fondatori pubblici; per il 36,3% da fondazioni di par tecipazione. Il 59% opera nel settore cultura; la gran parte di queste opera nel macro-settore cultura, dedicato ad attività di "organizzazione eventi culturali, concorsi e premi, mostre e allestimenti, archivi storici, promozione opera di un artistalscrittore/letterato". L'universo delle fondazioni di origine pubblica risulta eterogeneo sia in termini di grandezza (sotto il nomen "fondazione" vengono comprese fondazioni che gestiscono un patrimonio di milioni di euro così come fondazioni estremamente piccole e locali), che per il settore di riferimento nel quale operano. Le fondazioni rilevate possono essere suddivise secondo tre tipologie: I) fondazioni istituite allo scopo di creare partnership funzionali per porre in essere progetti innovativi sul territorio, o per contribuire alla promozione e diffusione di una qualche ricchezza territoriale; 11) fondazioni istituite con funzioni gestionali precedentemente in capo all'ente pubblico di riferimento, una sorta di estemalizzazione delle funzioni pubbliche; III) fondazioni piccole ed estremamente locali. Nella prima tipologia si ricomprendono le fondazioni che normalmente attraverso l'attivazione di partnership strategiche con soci privati - si occupano di sviluppare, implementare e rendere fruibile servizi innovativi per il 127


territorio. Nella maggior parte dei casi rientrano sotto la categoria dei macro settori attività "ricerca e sviluppo", "ambiente" e "sociale". Il modello è sviluppato soprattutto nel Nord Italia, con particolare riferimento al Piemonte e nella zona del Nord-Ovest. Le partnership vengono attivate sia per garantire ulteriori entrate sia come apporto strategico in termini di know-how e innovazione gestionale; la partecipazione dei privati è regolata statutariamente sia nella forma diretta che vede entrambi i soggetti (pubblici e privati) come "enti fondatori" sia prevedendo altre forme di partecipazione (soci, partecipanti, p05 sibilità di apportare anche lavoro d'opera, comitati scientifici o tecnici). Seppur non si possa parlare di specificità unica del Nord Italia, esempi rilevanti si ritrovano anche in altre Regioni. E sicuramente la tipologia maggiormente caratterizzante il Nord Ovest (Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria). La seconda tipologia di riferimento Il) è senza dubbio quella più utilizzata. In questo caso il fine non è creare partnership che possano dare un valore aggiunto, ma si tratta di una sorta di esternalizzazione posta in essere dalla Pubblica amministrazione che trasferisce alla fondazione funzioni precedentemente svolte dall'Ente locale di riferimento. La tipologia è maggiormente utilizzata nel macro settore attività "cultura" e diffusa principalmente nel Centro Italia dove l'incidenza percentuale è pari al 67,4% (nel Nord Italia non supera il 43%). Come già segnalato, è assai rilevante l'utilizzo dello strumento fondazione soprattutto per l'organizzazione di eventi culturali, concorsi e premi, mostre e allestimenti, archivi storici, promozione opera di un artista o scrittore (spesso il letterato del luogo). Caratteristica ripetuta di questa categoria il passaggio di funzioni dall'ente pubblico alla fondazione dove molto spesso nello statuto viene esplicitamente previsto che essa "risulta soggetto contraente in luogo dei Comuni e degli altri Enti locali, in tutte le convenzioni egli accordi esistenti". In questa categoria rientrano anche quelle fondazioni istituite attraverso Legge regionale o provinciale che presentano caratteristiche che le accomunano al resto del campione. Queste fondazioni, come si vedrà in seguito nell'analisi del campione di riferimento, nonostante nella maggior parte dei casi siano state istituite al fine di rendere meno burocratizzata e più innovativa la gestione, anche attraverso la compartecipazione di partnership private, mantengono una forte connotazione pubblica. La terza tipologia di fondazioni è maggiormente utilizzata per porre in essere attività nel settore cultura, si tratta di fondazioni nella maggior parte dei casi di modeste dimensioni e fortemente locali. Localizzate soprattutto nel Sud Italia. L'Amministrazione pubblica ritiene così di intervenire a sostegno della salvaguardia culturale del territorio o del personaggio che si è distinto nella storia portando prestigio al luogo, si tratta di fondazioni dalla connotazione fortemente pubblica, tanto che in alcuni casi ci si è trovati di fronte a 128


forme di "burocrazia" per la richiesta di notizie o documentazione che molto replicavano i meccanismi della pubblica amministrazione. L'ANAUSI RAVVICINATA DI ALCUNE FONDAZIONI 3 Con le valutazioni espresse in merito alle fondazioni oggetto del campione si sono cercate risposte alle domande che ci si è poste. Per esempio, capire innanzitutto quanto le fondazioni istituite da Amministrazioni pubbliche ed Enti locali siano realmente persone giuridiche private con piena autonomia flinzionale e gestionale. Si è ritenuta utile un'interpretazione dei dati raccolti sulla base di tre punti fondamentali: 1) attività svolta; 2) organi previsti; 3) composizione e gestione del patrimonio (con riferimento a dati del bilancio d'esercizio relativo al 2006). Attività e tipologia fondazioni L'eterogeneità che caratterizza l'insieme delle fondazioni rende difficile una caratterizzazione delle tipologie in merito alle attività svolte. Nella prima tipologia (I), diffusa soprattutto al Nord (fondazioni istituite dalla Amministrazione pubblica allo scopo di portare avanti patnership strategiche per avere dal socio privato un valore aggiunto, sia in termini monetari che di know how), le fondazioni più significative operano nel settore "Ricerca e Sviluppo". Tra queste vanno citate, a titolo di esempio, la Fondazione Biotecnologie di Torino (soci fondatori Regione Piemonte, Regione Valle d'Aosta, FIAT, Banca San Paolo) che promuove e sostiene attività di studio e ricerca nel campo delle biotecnologie al fine di intensificare gli scambi fra i centri studio e contribuire alla formazione di giovani studiosi e la Fondazione Novara sviluppo che costituisce lo strumento operativo col quale la Provincia di Novara (socio fondatore) in partnership con Enti locali, parti sociali, sistema comunale e università (rappresentati nella "Commissione Indirizzo e Vigilanza") attua il cosiddetto "Patto per lo Sviluppo" (progetti relativi allo sviluppo industriale con il passaggio dai distretti industriali ai distretti digitali, innovazione tecnologica, ricerca, formazione e sviluppo di azioni di marketing). Nella seconda tipologia (fondazioni che rappresentano lo strumento per attuare una sorta di esternalizzazione di funzioni precedentemente svolte dall'amministrazione) si ritrovano diffusamente fondazioni del centro Italia e con particolare finalizzazione all'attività di tipo culturale. Particolare spicco ha la Fondazione Musica per Roma (soci fondatori: Comune, Camera di commercio, Provincia di Roma e Regione Lazio), la più grande fondazione in termini patrimoniali di tutto il campione su scala nazionale. Essa gestisce il complesso 129


immobiliare dell'Auditorium, occupandosi inoltre di tutta una serie di attività gestionali connesse e di iniziative varie di valorizzazione economica del patrimonio, quale la costituzione con finanziamento almeno parziale di associazioni e altre forme partecipative che ne sostengano la logica di sistema con attività che la valorizzano presso la collettività (v. dalla stessa "gemmata", Fondazione Cinema per Roma per lrganizzazione del relativo festival cinematografico). Altro interessante esempio, in questo caso nel settore sociale, la Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa, costituita da cinque comuni della Val d'Elsa (Casole d'Elsa, Colle di Val d'Eisa, Poggibonsi, Radicondoli, San Gimignano) che dal gennaio 2006 gestisce i servizi sociali della Val d'Elsa (servizi territoriali, servizi residenziali, progetti per l'integrazione dei migranti stranieri e italiani, monitoraggio estivo della salute degli anziani), operando in integrazione con l'azienda sanitaria locale In questo breve excursus per attività, c'è da ribadire che la terza tipologia è maggiormente rappresentata al Sud Italia. Si tratta di fondazioni di dimensione solitamente medio piccola in termini patrimoniali ed in rapporto molto stretto con l'Amministrazione pubblica di riferimento (in molti casi, chi detiene le cariche pubbliche ricopre ruoli all'interno della fondazione). Si cita la Fondazione Giuseppe Dessì, costituita da Regione Sardegna e Comune di Viilacidro la quale gestisce, oltre le manifestazioni collegate al Premio Letterario Nazionale Giuseppe Dessì, l'istituzione, presso la Fondazione stessa, di una biblioteca propria e di un centro di documentazione. Sistemi di nomina degli organi Nel totale del campione di 30 fondazioni sono 18 quelle che hanno partner privati che prendono parte alla gestione della fondazione. Tra le motivazioni che maggiormente sottendono all'utilizzo dello strumento privato da parte dell'ente pubblico è il ricorso alla possibilità di una gestione snella e flessibile che coinvolga i privati al fine di utilizzare le opportune professionalità necessarie alla realizzazione degli scopi. Se si considerano però la composizione e il sistema di elezione degli organi come disciplinate nello statuto delle fondazioni miste, emerge una realtà ben diversa da una gestione in partnership. Nella maggioranza di queste, 12 fondazioni su 18, la rappresentanza all'interno della fondazione rimane in prevalenza pubblica per due motivazioni: seppur equamente suddivisa la rappresentanza da statuto è maggiore la presenza pubblica tra i soci fondatori rispetto ai privati (presenza di Comune, Provincia, Regione e altri enti pubblici a fronte di un numero inferiore di soci privati); da statuto spetta loro il diritto di eleggere la maggioranza dei membri nel consiglio di amministrazione o nellbrgano preposto alla gestione. In tre casi da segnalare che da statuto è previsto che i consiglieri nominati dal socio pubblico decadono con la fine del mandato dei rispettivi 130


organi pubblici che hanno provveduto alla loro nomina. In un solo caso la nomina dei rappresentanti privati supera quella pubblica, con la previsione statutaria che qualora il fondo di gestione risultasse non adeguato, il socio privato si impegna ad integrarlo mediante contribuzioni volontarie aggiuntive. Altro particolare da segnalare, tra le 14 fondazioni che si definiscono di partecipazione, solo in una di queste emerge un ruolo centrale dell'Assemblea che, come avviene anche per le associazioni disciplinate da codice civile, delibera sugli indirizzi generali dell'attività, approva il bilancio di previsione, il piano annuale di attività, il conto consuntivo annuale ed effettua le modifiche statutane, seppur a questo vada associato, come specificato nello statuto e che differenzia dallo spirito democratico delle assemblee di associazione, che "il voto espresso da ciascuno dei soci ha validità proporzionale alla corrispondente entità della quota di adesione". Gestione patrimonio Nell'analisi dei bilanci d'esercizio delle fondazioni campione sono state prese in considerazione due variabili principali: 1) congruità del fondo di dotazione rispetto allo scopo della fondazione; 2) capacità della fondazione di provvedere alle risorse per la gestione attraverso le attività poste in essere; legame economico che intercorre tra la fondazione e le Pubbliche amministrazioni di riferimento in termini di flussi monetari versati in conto economico o in conto capitale con vincolo di destinazione (spesso anche a copertura del deficit di gestione). C'è da dire che, in alcuni casi, la rilevazione dei flussi monetari pubblici in entrata non è stata sempre possibile visto che non sempre nei bilanci d'esercizio messi a disposizione dalla fondazione, soprattutto quelli redatti in forma abbreviata, era possibile ricavare dalle erogazioni ricevute in conto economico quali di queste fossero di fonte pubblica. In ogni caso, il dato può essere in qualche modo ricavato indirettamente, soprattutto quando la presenza degli enti pubblici è maggioritaria negli organi della fondazione. Viene da sé che in questi casi gli enti pubblici versino contributi almeno relativamente più consistenti. Valutazione congruità fondo di dotazione Il rapporto in percentuale tra il fondo di dotazione originario per la costituzione della fondazione e il valore corrente della voce entrate del conto economico è, in generale, molto variabile. Va dal al 20% per 10 fondazioni al 50% per 5 fondazioni; fino ad arrivare ad un rapporto tra il fondo di dotazione e le entrate in conto economico compreso nell'intervallo tra il 50% e l'85% per 9 fondazioni. 131


ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI

Per riassumere, le variabili più incisive ed i numeri maggiormente rappresentativi emersi sono: - fondazioni pubbliche rilevate su scala nazionale 146; - specializzazione particolare nel settore cultura 58,9%, micro settore "organizzazione eventi culturali, concorsi e premi, mostre e allestimenti, archivi storici, promozione opera di un artistalscrittore/letterato" 47,6%; - maggioranza della rappresentanza pubblica negli organi statutari per almeno 23 fondazioni su 30 del campione esaminato; - forte dipendenza dal flusso dei contributi annuali da parte dei fondatori (pubblici) per 22 fondazioni su 30. Una delle maggiori difficoltà nella lettura di questi dati, come più volte richiamato, è stata ricondurre a determinate tipologie le fondazioni oggetto della ricerca. Numerose sono infatti le tipologie di fondazioni auto-regolate dalle tavole statutarie attraverso sistemi di regolazione (organi e gestione) che variano caso per caso, così come estremamente differente è la grandezza in ter mini patrimoniali delle stesse. Uno degli strumenti formali per giudicare queste realtà nate prevalentemente da ragioni pratiche e non giuridicamente regolate da un modello definito, come ormai la gran parte delle fondazioni in Italia, è la definizione comunitaria di organismo di diritto pubblico nonché le direttive dell'European Foundation Center in merito allo statuto europeo per le fondazioni. Non affrontando in questa sede i vari studi, approfondimenti e dibattiti che da tempo ruotano intorno al concetto di persona giuridica di diritto pubblico e persona giuridica di diritto privato, si tratta di capire quanto le fondazioni prese in esame rientrino effettivamente in una definizione di ente privato o ente pubblico. La definizione comunitaria prevede che, secondo la Direttiva 31-3-2004 n. 2004/18/CE, per "organismo di diritto pubblico" s'intenda qualsiasi organismo: 1) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico; oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi; oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico. Quest'ultimo punto viene ripreso anche nel progetto di riforma della legge in tema di fondazioni elaborato dall'European Foundation Center 4, dove all'articolo 5 comma 1, ammettendo la possibilità che una fondazione possa essere creata da un ente pubblico o amministrazione pubblica, '"public body' inc/udes any entity, wheter or not legallypart of the state, national, regional or local government, or other legaily constitutedpublic authority, wich providespublic ser132


vices or carries outpublicfunctions on a statutory basis" ne sottolinea però la necessità che essa ne sia indipendente "where afoundation has been created by a public body it sbail be managed independently ofit". Quello che emerge dai dati sulle fondazioni rilevate è che l'elemento pubblico, così come specificato dalla definizione comunitaria, resta molto forte, pur se non dominante, dietro il nomen di fondazione. Prendendo le fondazioni campioni vediamo che per la maggior parte dei casi (23 su 30) le nomine degli organi di direzione spettano in percentuali maggioritarie agli enti che le hanno istituite, quindi pubblici. Esiste una forte dipendenza dal flusso dei contributi pubblici per 22 di queste e per 24 fondazioni campione il patrimonio iniziale non è congruo al raggiungimento degli scopi. E' pur vero che la prassi statutaria delle fondazioni in generale ha da tempo abbandonato il modello rigido definito dal Legislatore del '42, un patrimonio destinato ad uno scopo non di lucro, sono ormai elementi comuni alla maggior parte delle fondazioni punti quali: il superamento del distacco del fondatore dall'ente; la posizione sempre più sovrana del consiglio d'amministrazione o la progressiva svalutazione dell'elemento patrimoniale, ad oggi sempre più garantito da flussi monetari annuali versato in conto esercizio da fondatori e soci che non da un fondo patrimoniale iniziale 5 In molti casi la fondazione, indipendetemente che essa si dichiari "di partecipazione" da statuto, ha assunto una forma "ibrida" a metà tra la fondazione e l'associazione, anche se, come si rileva in merito alle funzioni dell'Assemblea, alThrgano assembleare vengono attribuite funzioni differenti caso per caso, e sono poche quelle cui spettano funzioni rilevanti all'interno della fondazione, solitamente si limitano a pareri consultivi o nomina dei rappresentanti di minoranza nel CCIA. Leciti sono i dubbi in merito alla definizione secondo cui le Fondazioni di partecipazione nascono in quanto "abbandonano la dittatorialità propria della fondazione in luogo di una democraticità più tlpica dell'associazione". In ogni caso l'uso ormai indistinto di "forme nuove" di concepire la fondazione non giustifica i problemi che subentrano nel caso di soci fondatori pubblici, quali ad esempio: le procedure di reclutamento del personale, la sottrazione alle norme di contabilità pubblica o la perseguibilità civile degli amministratori "privati" e non penale nel caso di amministratori pubblici. I temi da approfondire sarebbero molti ma si rischia di uscire fuori dallbbiettivo finale di questa ricerca, da sottolineare comunque come questo tipo di rilevazione apra la strada ad altre forme di ricerca molto più specifiche sull'universo fondazioni di origine pubblica (e non solo!) che porti ad un quadro completo delle varie tipicità all'interno della medesima tipologia ormai in uso in Italia. Sarebbe utile effettuare una ulteriore distinzione tra fondazioni miste e fondazioni interamente pubbliche, concentrando l'attenzione proprio su quest'ultime attraverso un'analisi oltre che formale anche sostanziale dellbperato effettivamente svolto con una valutazione dei risultati conseguiti dalle attività svolte che giustifichino .

133


l'utilizzo di questo strumento da parte dell'amministrazione pubblica. L'importanza di individuare e definire le varie categorie utilizzate di tutte le fondazioni è divenuto imprescindibile soprattutto alla luce della riforma del Titolo TI Libro I del Codice civile per evitare il rischio di regolamentare in maniera vuota e poco significativa. Sicuramente fondamentali, e in questo caso funzionali alla tipologia di fondazioni rilevate in questo lavoro, tre punti messi in evidenza da Mario Nuzzo 6 - i rapporti tra legge e autonomia statutaria nella definizione della struttura organizzativa (evitare quindi un'autoregolamentazione "selvaggia" attraverso le tavole statutarie); - vigilanza (sia formale che sostanziale trattandosi di denaro pubblico); - responsabilità degli amministratori e dei revisori (ilproblema del dfferente trattamento giuridico tra l'amministratore pubblico e l'amministratore privato) Da tenere in considerazione anche la distinzione operata in Fondazioni-modello e Fondazioni-strumento proposta da Luisa Torchia 7. Secondo l'Autrice può essere utile partire da una distinzione fondamentale fra i casi e i settori nei quali la fondazione si configura come un vero e proprio modello, con proprie caratteristiche funzionali e strutturali tendenzialmente intangibili e infungibili (come nel caso delle Fondazioni di origine bancaria definite dalla Corte costituzionale come soggetto dellbrdinamento civile, dotato di piena autonomia, sottoposto al controllo, ma non all'indirizzo pubblico e collegato agli interessi e ai soggetti pubblici e privati della comunità di riferimento), e i casi e i settori nei quali la fondazione è utilizzata quale mero strumento, per scopi che potrebbero anche essere perseguiti altrimenti (che molto richiama la tipologia TI sopra richiamata). In quest'ultimo caso le finalità perseguite sono principalmente due: sottrarre un'attività alle regole pubbliche, specie per quel che riguarda contabilità e personale e rendere possibile la collaborazione fra amministrazione e privati. Lo scopo perseguito tramite la fondazione diviene strumentale alle funzioni pubbliche attribuite al fondatore facendo di ogni fondazione una specie a sé. E necessario e doveroso riportare ordine in tema di fondazioni ed evitare che uno strumento utile al perseguimento di scopi altruistici si trasformi in un escamotage per privatizzare (o nel peggiore dei casi "irresponsabilizzare") in maniera del tutto autonoma anche alla luce dei privilegi fiscali concessi agli enti nonproflt. In conclusione, questa ricognizione ha messo in evidenza la natura sostanzialmente pubblica di queste fondazioni che si esplica nel potere di nomina degli amministratori e nella dipendenza economica con i soggetti fondatori pubblici. A questo punto, nella convinzione che si corra il rischio di "far gemmare" da prassi forme sempre più ibride di fondazioni si sottolinea la necessità, ormai urgente, di riformare il sistema-istituto fondazione da codice civile, attraverso una riforma che tenga conto delle varie tipologie ormai in uso e non unicamente una disciplina interessata soprattutto agli aspetti finanziari ed economici riflessi dalla disciplina commerciale. :

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E'in discussione alla commissione giustizia del Senato l'ultima proposta di legge Ac 1090 su iniziativa dell'onorevole Vietti. 2 G. NAPOLITANO, Le Fondazioni di origine pubblica: tipi e regole, in S. RA1MONDI; R.URsI; Fondazioni e attività amministrativa, Atti del Convegno Palermo 2005; Giappichelli Editore, Torino. Le Fondazioni scelte per il campione di riferimento sono: Fondazione Musica per Roma, Fondazione Valore Italia, Fondazione Università di Mantova, Fondazione Scuole Civiche di Milano, Fondazione Sistema Toscana, Fondazione Torino Wireless, Fondazione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa, Fondazione Ignazio Buttitta, Fondazione Italia Cina, Fondazione Flaminia Ravenna, Fondazione Ravello, Fondazione della Camera dei Deputati, Fondazione Emiliano-Romagnola per le vittime dei reati, Fondazione Biotecnologie Torino, Fondazione Istituto sui Trasporti e la Logistica, Fondazione Formoda, Fondazione

per l'Ambiente Teobaldo Fenoglio, Fondazione Odyssea, Fondazione Città Italia, Fondazione Roma Europa Arte e Cultura, Fondazione Apulia Film Commission, Fondazione Novara Sviluppo, Fondazione Ansaldo, Fondazione Giuseppe Dessì, Fondazione Acquario di Genova, Fondazione Rete Civica di Milano, Fondazione Felicita Morandi, Fondazione Umbria Jazz, Fondazione Emanuele Gianturco. European Foundation Center, Model Lawfor Public Benefit Foundations in Europe, Discussion Document, Brussels 2003. G. loRbo, Le Fondazioni, Il Diritto Privato Oggi, Giuffrè Editore 1997. 6 M. Nuzzo, R,f1essioni sulla riforma del titolo IlLibro I del Codice Civile, XX Congresso nazionale ACRI. L. TORCHIA, Prospettive di Diritto Amministrativo in "Per una Riforma del Diritto di associazioni e fondazioni" seminario di studi promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati, Edizioni il Sole 24 Ore.

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queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

Le Fondazioni Coniunitarie in Italia: sviluppo e teildoilze di Mariana Franzon ed Elisabetta Pezzi

J

n linea con la tendenza rilevata in ambito internazionale, nel corso degli ultimi anni, il fenomeno delle fondazioni di comunità (dra innanzi anche Fc) si è notevolmente diffuso anche in Italia. In tutto il mondo sono state identificate circa 1170 fondazioni comunitarie (sparse in 46 Paesi sia del Nord che del Sud) il 46% delle quali è presente al di fuori degli USA, dove il modello si è sviluppato per la prima volta all'inizio del secolo XX (dati del Community Foundation Global Status Report 2005 - ultimo disponibile - predisposto da Wings 1). In Italia, le fondazioni comunitarie hanno iniziato a costituirsi dal 1998. Dopo quasi dieci anni, sono 21 a fine 2007. Altre sono in procinto di nascere. Tra i progetti di maggior rilievo in proposito, vi è quello della Fondazione per il Sud, nata a fine 2006 dall'alleanza tra le fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo settore e del volontariato, con il fine di favorire l'infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno e che, tra le sue linee di intervento, ha la creazione di varie fondazioni di comunità nel Sud Italia. Gli studi sino ad oggi elaborati a livello internazionale hanno evidenziato come il modello delle fondazioni di comunità, in realtà, sia stato applicato in modo diyerso a seconda del contesto socio-economico e culturale di riferimento Tuttavia, organismi internazionali, che studiano e analizzano il settore da tempo, hanno elaborato definizioni precise di cosa si intenda generalmente per fondazione di comunità 2 . In particolare si fa qui riferimento al WINGS (Worldwide Initiatives for Grantmaker Support), secondo cui la fondazione

Mariana Franzon è esperta in Fuiantropia e imprenditorialità socialmente responsabile. Elisabetta Pezzi è Avvocato, esperta del settore non profit e di finanza etica. 136


di comunità è un'organizzazione grantmaking che: 1) mira a migliorare la qualità della vita di tutte le persone presenti in una determinata area geografica; 2) è indipendente da controlli o influenze di altre organizzazioni, governi o donatori; 3) fa donazioni ad altre organizzazioni no profit per soddisfare una varietà di bisogni emergenti nella comunità di riferimento; 4) cerca di costituire delle risorse permanenti per la comunità, molto spesso attraverso la creazione di fondi sovvenzionati da differenti donatori, cittadini, imprese, governi, altre fondazioni e soggetti no profit; 5) fornisce servizi ai donatori per aiutarli a raggiungere i loro fini filantropici; 6) intreccia collaborazioni e agisce quale mediatore per risolvere problemi ed elaborare soluzioni alle questioni più importanti per la comunità; 7) opera con politiche aperte e pratiche trasparenti; 8) informa regolarmente la comunità circa le sue proposte, le attività e la sua situazione finanziaria. L'indagine promossa dal Css si è posta l'obiettivo di verificare e comprendere quali siano le caratteristiche specifiche delle fondazioni comunitarie italiane, anche rispetto agli standard minimi validi a livello internazionale, e se si possa parlare di un modello italiano. I singoli punti della definizione elaborata da WINGS sono stati, dunque, assunti come parametri in base ai quali condurre l'analisi delle fondazioni comunitarie italiane. Si è inoltre ritenuto interessante dedicare un breve approfondimento anche alla realtà delle community foundations anglosassoni. Il Regno Unito è, infatti, uno dei Paesi all'interno dell'Europa, in cui il modello si è diffiìso in modo più massicciO 3 e che, per questo, merita una particolare attenzione.

LA METODOLOGIA DI LAVORO

Si è deciso di svolgere un'indagine di tipo qualitativo, per cui si sono considerate e analizzate approfonditamente un terzo delle fondazioni di comunità esistenti a fine 2007 in Italia (ossia 7). Tuttavia, alcuni dati ritenuti particolarmente significativi sono stati raccolti per la totalità delle fondazioni di comunità e su questi si sono svolte delle riflessioni di carattere quantitativo. Considerato, peraltro, che le fondazioni di comunità italiane sono per la maggior parte promosse da altri enti - in particolare Fondazioni di origine bancaria (d'ora innanzi anche FOB) - si sono incontrati anche tutti i soggetti promotori (ad oggi 4)4, indagando le loro strategie e modalità operative in modo da conseguire un quadro più completo. Le singole fondazioni di comunità sono state visitate presso la loro sede, dove si sono incontrati i loro rappresentanti e/o operatori 5 . I responsabili dei relativi progetti per gli enti promotori si sono incontrati personalmente o sono stati intervistati telefonicamente. Ogni incontro/intervista è stato preceduto da 137


un'accurata analisi delle informazioni e della documentazione reperibile on-line e, seguito, dallo studio dell'ulteriore materiale acquisito durante la visita. La selezione delle 7 fondazioni considerate, è stata fatta secondo precisi criteri. Per comprenderli è opportuno soffermarsi brevemente su quali siano le fondazioni di comunità italiane oggi e come siano nate. Come già detto, complessivamente si tratta di 21 fondazioni. Di queste, quindici sono sorte nell'ambito del progetto promosso dalla Fondazione Cariplo6 . Altre due sono state promosse dalla Fondazione di Venezia 7. Due dalla Compagnia di San Paolo 8 . Una fondazione comunitaria è nata a Treviglio in collegamento con la Bcc9 (Banca di Credito Cooperativo). Altre due sono state promosse da una pluralità di soggetti (pubblici e privati, laici e religiosi) nella Provincia di Vicenza e nella Diocesi di Albenga 10 I criteri di selezione delle fondazioni di comunità sono stati: l'appartenenza o meno ad un progetto di promozione di Fc; l'anzianità e la portata quantitativa del progetto. Si è, dunque, stabilito di considerare sia fondazioni comunitarie sorte all'interno di progetti che altre nate in modo più o meno "spontaneo" sul loro territorio. Di quelle costituitesi all'interno di un progetto, si è scelto di considerarne 3 del progetto della Fondazione Cariplo, 1 di quelle promosse dalla Fondazione di Venezia, 1 di quelle promosse dalla Compagnia di San Paolo. Più nello specifico, delle fondazioni nate sotto il "patrocinio" della Cariplo, si è deciso di considerare una delle prime fondazioni sorte in ordine di tempo, che potesse dunque rappresentare significativamente l'esperienza Cariplo: la Fondazione comunitaria della provincia di Mantova Onlus. Le altre due fondazioni sono state scelte tra quelle relativamente più "giovani" (anche se non fra quelle più recenti) e si sono scelte due fondazioni sorte in città medio-piccole del territorio lombardo e non particolarmente ricche rispetto alla media regionale, seppur è noto che si tratta di una zona che dispone di maggiori risorse economiche rispetto alla media nazionale. Si è selezionata una fondazione che si può definire "un caso di successo" ed una che, invece, presenta ad oggi maggiori difficoltà di sviluppo. Si tratta, rispettivamente, della Fondazione comunitaria della provincia di Lodi Onlus e della Fondazione comunitaria della provincia di Pavia Onlus. Per quanto concerne le fondazioni promosse dalla Fondazione di Venezia, si è scelto di visitare la Fondazione della Comunità Clodiense, in quanto è una realtà più sviluppata dell'altra appartenente allo stesso progetto. Delle fondazioni promosse dalla Compagnia di San Paolo, si è scelto di indagare quella della Riviera dei Fiori Onlus, visto che l'altra è stata sostenuta in partenariato con la Fondazione Cariplo e, dunque, non rispecchia completamente la strategia e le modalità operative della Compagnia. Per quanto riguarda quelle sorte senza la promozione di un ente specifico, sono state oggetto di analisi 11 , due su tre ossia: la Fondazione di Comunità .

138


Vicentina per la Qualità di Vita Onlus e la Fondazione comunitaria del Ponente Savonese Onlus.

ANALISI DEI DATI RACCOLTI IN BASE AI CRITERI WTNGS

1.IVlirare a migliorare la qualità della vita di tutte le persone presenti in una determinata area geografica L'area di intervento delle fondazioni comunitarie intervistate è generalmente ristretta alla Regione in cui sono state create. Il loro nome richiama direttamente la città e/o la Regione diretta beneficiaria del loro intervento 12 Due terzi di tutte le FC italiane sono state costituite come Onlus 13 il che significa che sono attive esclusivamente nei seguenti settori: assistenza sociale e socio sanitaria; assistenza sanitaria; beneficenza; istruzione; formazione; sport dilettantistico; tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse artistico e storico; tutela e valorizzazione dell'ambiente; promozione della cultura e dell'arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica di particolare interesse sociale. Dalle interviste è emerso che quasi tutte le fondazioni comunitarie scelgono, tra tutti i settori d'attività previsti nello statuto, delle aree di intervento prioritarie, per uno o più anni. Una tale individuazione è spesso frutto di consultazioni e sollecitazioni provenienti dal mondo del volontariato e del Terzo settore locale, nonché da altri ambienti della società civile, in modo da soddisfare i bisogni più importanti della comunità di riferimento, tenendo conto anche dell'attività di altri soggetti attivi sullo stesso territorio. La Fondazione Vicentina, ad esempio, ha individuato le sue aree d'intervento prestando attenzione a non operare nei settori in cui è già attivo il Centro di servizi per il Volontariato 14 Le FC intervistate non effettuano, generalmente, attività di monitoraggio e la valutazione dei progetti finanziati si limita, di norma, alla richiesta della documentazione relativa alla rendicontazione delle spese sostenute, salvo alcuni casi in cui sono previste visite in loco (ad esempio, nel caso della Fondazione di Lodi e, talvolta, nel caso della Fondazione di Mantova e di Pavia). .

,

.

2. Indzendenza da controlli o influenze di altre organizzazioni, governi o donatori Per quanto concerne controlli o influenze di altre organizzazioni, a parte i progetti di costituzione di FC promossi da alcune fondazioni di origine bancaria di cui si parlerà più avanti, vale sottolineare il legame, anche piuttosto forte sotto il punto di vista economico, tra il soggetto promotore e le fondazioni comunitane promosse. E abbastanza normale l'elargizione di contributi di vario genere (per l'attività d'erogazione, per coprire le spese di gestione, per incrementare il 139


fondo patrimoniale) nonché la presenza dei rappresentanti del soggetto promotore negli organi direttivi della fondazione comunitaria. Non si sono riscontrati, invece, rapporti o collegamenti con altre realtà organizzate. Discorso diverso vale invece per i rapporti con i "governi", intesi come rapporti con enti del governo sia locale che nazionale. A tal proposito, si è presa in considerazione la presenza di rappresentanti di varie istituzioni pubbliche (dagli Enti locali, a organi di rilevanza comunitaria, alla magistratura) all'interno degli organi della fondazione. Delle 21 Fc esistenti in Italia, soltanto 8 prevedono tali forme di incompatibilità e delle sette Fc intervistate solamente 415• Gli organi di governo delle Fc intervistate sono nominati da un Comitato di nomina, di cui fanno parte personaggi particolarmente rappresentativi del territorio, quali: il vescovo, il sindaco, il rettore dell'università, il presidente dell'associazione di volontariato locale, il direttore dell'ospedale locale, il presidente della Provincia. Soltanto nel caso mantovano vi è anche un Comitato composto dai più grandi donatori dell'anno precedente che ha diritto di nominare 5 degli 11 membri del CIA (ossia il 46% circa del totale). Di tutte le 21 Fc italiane, si è riscontrato che soltanto 2 (quelle promosse dalla Fondazione di Venezia) non hanno nei loro organi di governo né rappresentanti dei soggetti promotori/fondatori né membri nominati dagli stessi. Le Fc intervistate hanno in media 12 consiglieri nel CdA (Lodi costituisce un'eccezione con 18 membri) e, in generale, il Consiglio di amministrazione è l'organo di governo più rappresentativo della comunità e responsabile delle principali decisioni organizzative. Salvo alcuni casi specifici, i membri dei Consigli di amministrazione delle Fc, non sono particolarmente attivi nella promozione della fondazione e nell'esecuzione delle varie mansioni. Oltre al caso particolare di Mantova, sopra citato, l'influenza dei donatori può esplicarsi nella costituzione di fondi con vincolo di destinazione. In base ai dati disponibili, sino a fine 2006, i fondi con vincolo di destinazione da parte dei donatori a Lodi sono 3 (circa 48% del totale del patrimonio), a Mantova sono 30 (circa il 23% del totale del patrimonio), a Pavia sono almeno 2 fondi (circa 57% del totale del patrimonio). Per le altre Fc considerate non si sono invece rinvenuti fondi di tal genere sino a fine 2006. E possibile che i donatori esercitino una certa influenza quando si tratta di donazioni particolarmente cospicue. In questo caso può immaginarsi che coloro che dirigono la fondazione e decidono in merito alle erogazioni siano indotti a tener conto, in linea di fatto, dei desideri dei fondatori.

3. Fa donazioni ad altre organizzazioni noprofitper soddisfare una varietà di bisogni emergenti nella comunità di riferimento L'attività erogativa delle fondazioni intervistate è sintetizzata in cifre nella seguente tabella (i dati fanno riferimento al periodo che va dalla costituzione 140


della fondazione fino al 31.12.2007 e comprendono anche quanto stanziato e non ancora materialmente erogato). Fondazione Totale Erogazione

Lodi

Pavia

3.437.912 7.020.000

Clodiense

Vicentina

Ponente

Mantova

Riviera

2.956.000

154.000

100.000

6.335.943

117.000

• *In questi dati sono inclusi i finanziamenti territoriali Cariplo che, ad esempio, per Lodi ammontano a un totale di 620.000 euro all'anno, per Mantova a un totale di circa 700.000 Euro all'anno.

Tutte le Fc incontrate, salvo una 16, hanno dichiarato di ricevere più richieste di finanziamento di quanto sia possibile accogliere con le risorse disponibili. Tutte le Fc considerate erogano al mondo del no profit locale, tentando di individuare i settori in cui intervenire in base ad un'analisi che sia il più puntale possibile e che rispecchi le esigenze delle realtà locali, come già sopra prospettato. Ogni Fc ha deciso di stabilire le modalità con cui provvedere alle erogazioni. Ad esempio, se erogare solo dietro pubblicazione di un bando o in altro modo. La Fondazione di Mantova utilizza una strategia di erogazione chiamata "erogazione con risultato": i beneficiari di un grant devono prima realizzare il loro progetto e la Fondazione dà il grant (per un massimo del 50% del totale necessario per la realizzazione del progetto) quando gli obiettivi del progetto vengono raggiunti. Secondo la Fondazione, tale strategia di erogazione promuove una maggiore attività da parte del settore del volontariato, favorendo l'integrazione comunitaria anche attraverso un rapporto efficace tra Fondazione e volontariato. Questa modalità presuppone che le organizzazioni abbiano a loro disposizione i mezzi per operare. Anche gli enti ecclesiastici entrano talvolta nel novero dei potenziali beneficiari della fondazione comunitaria, (oltre che fra i suoi sostenitori). Perlopiù si è stabilito un rapporto di collaborazione, mentre sono residuali i casi in cui vi e quaicne rorma ai concorrenza 17 Per quanto concerne l'erogazione a favore di enti pubblici, fra le Fc intervistate soltanto quella del Ponente e di Mantova hanno posto un esplicito divieto all'erogazione agli enti pubblici. Le altre fondazioni fanno questo tipo di erogazioni seppure talvolta a precise condizioni. Lodi non finanzia l'attività istituzionale dell'ente pubblico. La Fondazione Clodiense considera questi interventi a favore del pubblico come forme di azione riduttive per una fondazione comunitaria e tende quindi ad evitarli o farne in misura minima. Nella prassi, però, varie organizzazioni del Terzo settore lavorano per gli enti pubblici e quindi, talvolta, richiedono finanziamenti a favore dei progetti promossi dagli stessi enti che, quindi, beneficiano indirettamente dei contributi. I

I

C

1

141


La Fondazione Vicentina fa erogazione alle scuole e la Riviera dei Fiori ad enti pubblici per lo più territoriali o pubblico-privati. Nessuna delle Fc intervistate realizza progetti propri, salvo quella della Riviera dei Fiori (avvicinandosi al modello delle operating community foundation che è diffuso soprattutto in Germania).

4. Cerca di costituire delle risorse permanenti per la comunità, molto spesso attraverso la creazione di fondi sovvenzionati da differenti donatori, cittadini, imprese, governi, altre fondazioni e soggetti no profit La situazione patrimoniale delle Fc intervistate è qui sintetizzata in una tabella. Fondazione Patrimonio (31.12.2007) Patrimonio iniziale Anno di fondazione

Lodi

Pavia

Clodiense

Vicentina

3.270.000 1.044.788 1.598.000

275.000

95.500 13.822.827 111.649

150.000 2004

95.000 2000

55.000 2002

55.000 2001

516.000 2001

Ponente Mantova

52.000 2000

Riviera

50.000 2006

Le fondazioni nate in modo più spontaneo - come la Vicentina e quella del Ponente Savonese - sembrano avere una certa difficoltà nella loro raccolta territoriale e hanno patrimoni più ristretti rispetto alle altre. Il dato della Riviera non è particolarmente significativo, essendo questa divenuta effettivamente operativa soltanto nel 2007. Le Fc hanno elaborato varie strategie di "raccolta a patrimonio". Uno dei sistemi utilizzati è quello c.d. del "bando con raccolta", promosso in particolare dalla Cariplo, secondo cui la Fc può erogare soltanto il 50% del totale di un progetto pre-selezionato, mentre il restante 50% dovrà essere apportato dallrganizzazione no profit che realizzerà il progetto. Tuttavia, la Fc darà il suo 50% soltanto se la comunità contribuirà al progetto pre-selezionato con un 25%, che verrà destinato ad incrementare il patrimonio della stessa Fc. Si tratta di un nuovo sistema che non tutte le Fc del progetto Cariplo hanno adottato e con cui vengono gestite le "erogazioni sul territorio" annuali della Fondazione Cariplo 18 . Il meccanismo della raccolta su bando è utilizzato anche dalle Fc promosse dalla Fondazione di Venezia, per cui entro un termine prestabilito devono essere raccolte donazioni pari alla metà del contributo richiesto alla Fondazione e la Fondazione di Venezia raddoppia (o più recentemente anche triplica, in caso di progetti più grandi) il valore della raccolta effettuata sul territorio. Per la raccolta a patrimonio, in alcuni casi, ci si è concentrati su soggetti particolarmente ricchi del territorio, quali le banche o altre fondazioni 19 . 142


Fornisce servizi ai donatori per aiutarli a raggiungere i loro finifilantropici Tutte le fondazioni offrono diversi servizi ai donatori idonei ad agevolare la raccolta di risorse rispettosa delle loro intenzioni. Di qui le varie tipologie di fondi. Lodi, ad esempio, li determina nel seguente modo: fondi comunità (destinati a soddisfare i bisogni futuri della comunità), fondi con diritto di utilizzo (in cui il donatore collabora con la fondazione nell'identificazione dei beneficiari), fondi destinati (a specifiche organizzazioni no profit). La Fondazione della Riviera dei Fiori mette a disposizione del donatore le seguenti tipologie di fondi: fondi memoriali, fondi di associazioni, fondi di imprese o enti, fondi destinati, fondi territoriali, fondi settoriali. La Fondazione del Ponente Savonese prevede fondi di impresa, fondi di categoria, fondi con diritto di indirizzo, fondi per area di interesse, fondi nominativi ad accumulo, fondi memoriali, fondi geografici, fondi destinati. Delle fondazioni comunitarie intervistate, Lodi e Mantova sono quelle con più fondi costituiti. Mantova arriva al numero di 44 fondi costituiti, Lodi ne ha 7. La Vicentina e quella del Ponente non risultano avere fondi costituiti, Pavia ne ha 2, la Clodiense 4 e quella della Riviera 7. Oltre ai fondi, Mantova e Pavia hanno adottato l'iniziativa delle c.d. buone azioni, per cui i donatori possono donare cifre più basse a patrimonio della fondazione 20 e ricevere un "certificato" di buona azione, entrando così nel novero dei co-fondatori e venendo iscritti in un apposito albo. Stabilisce collaborazioni e agisce quale mediatore per risolvere problemi ed elaborare soluzioni alle questioni più importanti per la comunità Tutte le Fc intervistate hanno concentrato la loro attività soprattutto sulla raccolta e sull'erogazione. La creazione e articolazione di una rete sociale duratura dipende dalla capacità di leadership da parte delle Fc. Le fondazioni comunitarie intervistate, pur facendo tutte riferimento a qualche attività di coordinamento e all'intenzione di lavorare per creare e/o ampliare la rete dei soggetti sociali presenti nella comunità, nella prassi si trovano ancora indietro nello stabilire una leadership consistente. Vale comunque far riferimento ad alcune esperienze. Ad esempio, la Fondazione Clodiense ha dichiarato di percepirsi e operare non soltanto come un ente erogatore, ma piuttosto come un soggetto che realizza gli interventi in partenariato con le organizzazioni no profit presenti sul territorio. La Fondazione di Mantova ha dichiarato di avere, come soggetto di coordinamento di più attori di un medesimo settore, quello sanitario. Nell'occasione, almeno nell'attività di aiuto e sostegno a pazienti malati di cancro. Visto che tutte le Fc intervistate, tranne una, ricevono più richieste di finanziamento di quelle che possano soddisfare si può dire che ciò è segno di una certa visibiità dentro le loro comunità. La Fondazione di Pavia ha rilevato che i suoi interventi hanno messo in moto altri. La Riviera dei Fiori ritie143


ne di assolvere alla sua ftinzione di leadership nella comunità anche attraverso la realizzazione di propri progetti. Per quanto riguarda l'operatività delle Fc intervistate va rilevato che nessuna investe in personale: tutte hanno, al massimo, un lavoratore retribuito fuil-time per svolgere attività di segretariato e amministrazione. A parte le Fc del progetto Cariplo, che si riuniscono periodicamente al fine di verificare lo sviluppo del progetto e le difficoltà e risultati di ognuna, non risulta esistere ancora una relazione forte tra tutte le Fc 21 , con uno scambio di esperienze o la creazione di una rete nazionale come il CFN (Community Foundations Network) nel Regno Unito. 7. e 8. Opera con politiche aperte epratiche trasparenti; informa regolarmente la comunità circa le sue proposte, le attività e la sua situazione finanziaria Tutte le Fc intervistate hanno lo statuto pubblicato sul loro sito web. Di tutte le 21 Fc italiane, soltanto un terzo non pubblica il bilancio sul sito. Di quelle intervistate, salvo una, tutte hanno il bilancio on-line 22, anche se non si tratta sempre di documenti completi e aggiornati. Oltre a tali informazioni ci sono quelle relative ai fondi costituiti, alle attività sviluppate al momento da ogni fondazione. Alcune rendono pubblici anche i loro donatori e i progetti già realizzati. I SOGGETTI PROMOTORI DELLE FONDAZIONI DI COMUNITA IN ITALTA Come già detto, sino ad oggi la maggior parte delle Fc italiane non è nata spontaneamente sul territorio in cui ha la propria sede ed opera, ma si è sviluppata soprattutto grazie alla promozione di altri enti e, in particolare, di alcune fondazioni di origine bancaria. La prima a promuovere un progetto per la costituzione di fondazioni di comunità in Italia, già nel 1998, fu la Cariplo, seguita dalla Fondazione di Venezia nel 2000, dalla Compagnia di San Paolo nel 2006. Da ultimo, nel 2007, anche la Fondazione per il Sud ha iniziato a sviluppare un proprio progetto per la creazione di fondazioni comunitarie nel Sud Italia. Sebbene nessuna Fc sia stata costituita nel Sud fino alla fine del 2007, le direttrici principali del progetto sono state delineate in linea teorica delineate e si è dunque deciso di includere la Fondazione per il Sud tra i soggetti promotori qui considerati, tenuto conto anche dell'importanza che l'iniziativa potrà assumere, anche in termini quantitativi, nel panorama del nostro Paese. Sono stati contattati e incontrati o intervistati telefonicamente i responsabili di quelli che possiamo considerare i progetti perseguiti dai maggiori promotori. Ne è emersa la concezione propria di ciascun soggetto promotore riguardo a "cosa sia e cosa debba essere una fondazione di comunità", al tipo di rap144


porto che debba essere instaurato con le fondazioni comunitarie promosse, al supporto economico da garantire alle stesse. Il che viene a costituire la strategia di sviluppo del progetto. Quale fondazione di comunità" In proposito, si è riscontrata una certa eterogeneità di approccio tra i vari soggetti-promotori. A fronte della Cariplo, che in conseguenza anche della più lunga esperienza maturata, ha sviluppato un modello ben preciso di Fc, gli altri hanno dichiarato di non avere ancora codificato la loro esperienza e di volere piuttosto rimanere aperti alla ricezione dei differenti stimoli, di volta in volta, provenienti dal territorio. In ogni caso, alcuni principi generali rispetto a cosa sia una fondazione di comunità e a quali siano il suo ruolo e i suoi compiti sono chiari a ciascuno dei soggetti interpellati. La Cariplo ritiene che la fondazione di comunità debba avere come compito principale lo sviluppo della cultura del dono e che debba in tal modo saper creare e gestire relazioni umane nella collettività di riferimento. Ogni altro scopo e attività sono da considerarsi funzionali a questo. Per gli altri soggetti promotori, donatori e comunità - intesa come insieme dei beneficiari diretti e indiretti dell'intervento delle Fc - sono sullo stesso piano di importanza. Sicché le energie e le attività della fondazione di comunità dovranno essere ripartite fra vari compiti. Tutti gli intervistati hanno posto l'accento sul fatto che la fondazione di comunità debba fare forte riferimento alla sua collettività territoriale, la quale deve, a sua volta, avvertire chiaramente che la fondazione è di sua "appartenenza". In linea con ciò, tutti i soggetti promotori coinvolgono normalmente tutti i principali rappresentanti della comunità nella costituzione e nello sviluppo della Fc. L'ambito geografico considerato è sempre ben delimitato, se non ristretto, seppure con delle differenze: provinciale quello della Cariplo, sovracomunale quello della Fondazione di Venezia. La Compagnia di San Paolo, in linea generale, fa riferimento a porzioni di territorio con circa 100.000 abitanti (dove non siano presenti fondazioni di origine bancaria) e la Fondazione per il Sud a contesti con circa 200.000 abitanti. A parte la Compagnia di San Paolo, che sta promuovendo un modello di Fc non solo erogativa ma anche operativa (in particolare nel caso della Fondazione Comunitaria Riviera dei Fiori), tutti gli altri enti intervistati considerano e promuovono Fc che svolgono esclusivamente attività granting. La capitalizzazione delle fondazioni comunitarie è fondamentale e richiede molte energie e mezzi, soprattutto nel modello sviluppato dalla Cariplo. La Fondazione di Venezia, avendo anche riscontrato le difficoltà della raccolta di fondi a patrimonio, dichiara di avere più a cuore l'autonomia identitaria 145


che non quella economico-finanziaria delle Fc e di agire di conseguenza. Così come la Compagnia di San Paolo promuove soprattutto la raccolta di fondi per l'erogazione e anche il progetto ora sviluppato dalla Fondazione per il Sud intende stimolare soprattutto la raccolta per il fondo di gestione. Il rapporto con i promotori Tutti i soggetti promotori incontrati hanno dichiarato pieno favore per l'autonomia e la piena indipendenza delle Fc dall'ente che ne ha promosso e sostenuto la nascita e lo sviluppo. Al di là delle ovvie relazioni di scambio e confronto sull'andamento e l'evoluzione del progetto che normalmente si instaurano in programmi di questo tipo, si ritiene che vi siano in particolare due aspetti che possono caratterizzare il rapporto tra il soggetto promotore e le Fc promosse: l'eventuale sostegno economico, che verrà poi considerato a parte, e la presenza di rappresentanti del soggetto promotore negli organi di governo della Fc, quale strumento di un possibile "collegamento" o "controllo". Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, sia la Cariplo che la Compagnia o sono direttamente presenti all'interno dei CdA delle Fc o ne nominano uno o più membri (facendo parte del Comitato di nomina). La Fondazione di Venezia, invece, dopo la presenza negli organi direttivi delle Fc per il primo mandato, ha stabilito di uscire dagli stessi e sembra intenzionata a seguire tale prassi. La Fondazione per il Sud non ha ancora stabilito nulla in proposito, ma ha dichiarato di considerare la possibile presenza di propri rappresentanti negli organi direttivi delle future fondazioni comunitarie come un utile strumento di collegamento e controllo direzionale. Sostegno economico alle fondazioni di comunità Tutti gli enti promotori intervistati sostengono economicamente le Fc, sia per quanto riguarda l'incremento del patrimonio intangibile, che per il fondo di gestione utilizzato per le erogazioni. Tutti, salvo la Compagnia, utilizzano il metodo del grant-matching, ossia dell'erogazione-sfida, seppur con modalità diverse. In generale, il sistema dell'erogazione-sfida prevede che alla Fc venga assegnata una determinata somma di denaro, a patto che la stessa persegua determinati obiettivi di raccolta entro una certa data. Nel caso della Cariplo 23 , alla Fc neo-costituita viene assegnato un fondo iniziale, dopodiché scatta il sistema dell'erogazione-sfida per la capitalizzazione. Oltre a questo, alla fondazione comunitaria sono assegnati annualmente anche fondi da utilizzare per le erogazioni, una percentuale dei quali può essere utilizzato dalla Fc per coprire le spese di gestione. 146


Rispetto all'inizio del progetto "fondazioni comunitarie" quando dava un capitale iniziale alla Fc appena costituita, la Fondazione di Venezia 24 ora non dà più alcun fondo iniziale, per stimolare una raccolta autonoma. Continua però a utilizzare il meccanismo dell'erogazione-sfida e a contribuire con fondi dedicati alle erogazioni. Contribuisce, inoltre, alle spese di gestione della Fc attraverso il riconoscimento di una percentuale sulle donazioni raccolte su bando. La Compagnia dà un capitale iniziale da mettere a patrimonio e annualmente contribuisce con dei fondi da utilizzare per la gestione e, quindi, per le erogazioni, senza peraltro aver stabilito delle regole fisse in materia, ossia dei quantum da rispettare per il capitale iniziale e per i contributi successivi. Non utilizza il sistema dell'erogazione-sfida, al fine di incentivare la capitalizzazione della Fc. Questo sistema si sarebbe rilevato un metodo che non stimola l'autonomia e l'indipendenza. Il progetto della Fondazione per il Sud 25 prevede un contributo iniziale a patrimonio soltanto qualora la Fc abbia già raccolto una determinata somma a patrimonio. Per il periodo successivo prevede l'adozione del sistema dell'erogazione-sfida per la patrimonializzazione della fondazione, contributi per i fondi da utilizzare nelle erogazioni e la possibilità di contributi a spese di gestione che siano relative a progetti di raccolta fondi. Strategia di sviluppo Tutti i soggetti promotori contattati hanno manifestato l'intenzione di proseguire con l'implementazione dei propri progetti. In più casi, d'altra parte, sono già in cantiere nuove Fc. Si tratta, ad esempio, della promozione di una nuova Fc da parte della Fondazione di Venezia e di varie iniziative sostenute dalla Compagnia: una Fc per il quartiere Mirafiori di Torino, delle Fc per le località di Alba e Pinerolo, nonché dell'appoggio ad un progetto in Val d'Aosta26 Circa le modalità di sviluppo ftiture, mentre la Cariplo intende sostenere il modello che ha già precisamente delineato nel tempo, gli altri soggetti promotori, come accennato, non fanno riferimento a uno schema rigidamente fissato. Tutti concordano sull'importanza che potrebbe avere la creazione di una rete nazionale di Fc o di soggetti «che le promuovono. In tal senso, si sta organizzando un gruppo di lavoro allargato tra tutti i soggetti promotori incontrati. Varie Fc sono già, peraltro, socie di Assifero (Associazione Italiana Fondazioni ed Enti di Erogazione), nata nel 2003 con il compito di promuovere e sostenere la difftisione di tali realtà grantmaking e di offrire una visione moderna della Filantropia istituzionale in Italia. .

147


RiFERIMENTI EUROPEI. L'ESPERIENZA DELLE FONDAZIONI DI COMUNITÀ NEL REGNO UNITO

Il Regno Unito ha sviluppato, nel corso della sua storia, un settore filantropico importante che riflette un forte orientamento al sostegno del we/fare state. La matrice organizzativa-giuridica è la common law. Nelle ultime decadi, grazie a una politica che sostiene e aiuta lo sviluppo del settore del volontariato, il numero di organizzazioni no profit nel Regno Unito è aumentato rapidamente così come il loro ruolo nell'erogazione di servizi pubblici anche con il supporto di finanziamenti pubblici. Sin dalla metà del 1800 il controllo sul settore no profit è stato esercitato dalla Charity Commission 27 La disciplina del settore contenuta nel Preambie of the Charities Act del 1601, a seguito dei cambiamenti sopra accennati, è stata recentemente innovata con il Charities Act 2006, ora in via di implementazione, che, tra le altre cose, ha meglio specificato gli obiettivi sociali perseguibili dalle organizzazioni no profit e preteso la verifica che il loro operato persegua "il bene comune". Le donazioni dei privati a favore delle organizzazioni no profit stanno aumentando e a donare di più sono, in proporzione, le persone meno ricche, anche se la maggioranza delle donazioni sono fatte dai più ricchi. La politica c.d. della "third way" - messa in pratica durante l"Era Blair" tende a dare più autonomia alle autorità locali, che hanno aumentato i finanziamenti pubblici al Terzo settore, incaricato spesso dell'erogazione dei servizi pubblici. Le Fc sono uno dei modelli capace di inserirsi e adattarsi a tale realtà e si è infatti sviluppato rapidamente nelle ultime due decadi, con quasi 50 Fo stabilite in tutto il Regno Unito. Oggi le Fo britanniche hanno dinanzi a loro alcune importanti "sfide": l'acquisizione di un maggior risalto a livello nazionale, la diminuzione della loro dipendenza dai finanziamenti pubblici e il fatto di divenire più responsabili (accountable) sia rispetto ai loro beneficiari che ai loro donatori. .

Un po' di storia Nel Regno Unito la prima FC è stata creata nel 1976 col nome di Dacorum Community Trust. Però, come rilevato da Humphreys 28 il vero sviluppo delle Fo nel Regno Unito è iniziato a metà degli anni ottanta ed è stato portato avanti principalmente dalle persone che lavoravano ed erano coinvolte nel settore del volontariato. Il contesto sociale ed economico di quegli anni era caratterizzato dalla recessione, da un elevato numero di disoccupati e dall'aumento della povertà e della disuguaglianza sociale. Il tutto ha generato il bisogno di trovare nuove fonti di finanziamento per il settore del volontaria,

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to e per le attività delle comunità locali. Quello era il terreno ideale per l'adozione di un nuovo modello: le fondazioni comunitarie. Con la creazione, nel 1991, dell'associazione delle Fc del Regno Unito, l'Association of Community Trusts and Foundations (rinominata Community Foundation Network - CFN29 - nel 2000), il movimento delle Fc si è ingrandito e, negli anni novanta, ha vissuto un'ulteriore forte crescita. Tale crescita è stata determinata anche dall'adozione dei programmi di "endowment challenge". Un esempio è la sfida lanciata dalla Charles Stewart Moti' Foundation, nel 1991, insieme alla AcF (Association of Charitable Foundations), chiamata CAF-Mott Endowment Challenge Grani' Program: tre Fe hanno fatto una campagna di raccolta fondi nel loro territorio al fine di raccogliere il doppio di quanto hanno poi ricevuto dall'ente promotore della sfida ad incremento del loro patrimonio, per un totale di 2 milioni di sterline. Recentemente lo Stato, anziché finanziare direttamente i soggetti che erogano i servizi pubblici, affida i propri fondi a delle organizzazioni no profit, che ftingono da intermediari e provvedono all'erogazione dei fondi in favore di chi eroga il servizio. Le Fe sono alcune delle organizzazioni più considerate a tal fine. Oltre agli incentivi statali, la modernizzazione del sistema di riduzione fiscale è un altro motore per lo sviluppo del settore no profit. Secondo Humphreys, Brooks & Leat30, dopo il Budget 2000 la legislazione fiscale è notevolmente migliorata e lo scenario è cambiato in modo positivo. Una delle misure più "generose" è quella per cui è possibile donare o vendere azioni (shares) alle organizzazioni no profit ed avere il "tax relief" sul valore dell'azione. Nel 2002 gli incentivi fiscali sono migliorati anche per il "gift aid" 31 e u payron giving 32 Secondo i dati trovati sul sito della CFN al momento ci sono 45 Fe nel Regno Unito (membri della rete CFN) e altre 11 sono in fase di sviluppo (associate alla rete CFN). Oltre al 95% della popolazione britannica ha accesso a una fondazione comunitaria. Nel 2007, le Fe del Regno Unito avevano, nel loro complesso, oltre a £158.5 milioni di patrimonio intangibile e hanno erogato oltre a £75 milioni, divenendo uno dei più grandi grant-makers indipendenti per i settori del volontariato e della comunità nel Regno Unito. •1

"

Statistiche Fc 2006-2007 Il patrimonio intangibile delle Fe britanniche è di £158.5 milioni, essendo aumentato del 13% nell'ultimo anno. A ciò si devono sommare altri £24 milioni di crediti e almeno altri £12 milioni di legati. Dal 2002 il patrimonio intangibile si è più che raddoppiato. L'aumento patrimoniale dell'ultimo anno è di £13 milioni ed è dovuto, quasi per la metà, a individui e famiglie. Le ero149


gazioni sono arrivate a un totale di £75 milioni, tre volte l'erogazione dell'anno 2001. Almeno 17.000 gruppi comunitari beneficiano delle erogazioni in tutto il Paese. In media l'erogazione ammonta a £4.408, ma può oscillare dalle £100 a oltre £100.000. Sono più di £340 i milioni erogati in grants dalla rete CFN, a partire dal 1992. Le Fc gestiscono circa 1.350 fondi in tutto il Regno Unito. 43 Fc hanno ottenuto la certificazione di qualità della CFN. Nelle Fc vi sono l'equivalente di 383 lavoratori retribuiti a tempo pieno. I volontari sono 2.774, inclusi 995 "panel members" e 600 "trustees". Oltre £2.5 milioni provengono da piccole donazioni con valore inferiore ai £10.000. Ci sono almeno 12.500 donatori individuali. Sono state erogate £26.6 milioni attraverso il Local Network Fund 34. Hanno utilizzato tale programma 36 Fc del Regno Unito. La CFN ha stabilito un sistema di certificazione della qualità (Quality Accreditation) avvallato dalla Charity Commission for Eng/and and Wales, che ha reso più professionale il movimento e ha anche stimolato l'adozione di best practices. L'obbiettivo è di dare più credibilità alle Fc davanti agli occhi dei donatori e del pubblico in generale e promuovere uno sviluppo più sano, forte e sostenibile. Una delle caratteristiche trovate nella maggioranza delle Fc che crescono con successo sono CdA impegnati e abbastanza attivi nel fundraising. Tuttavia, garantire fondi per i costi di gestione è difficile, il che porta all'insufficienza di investimenti nelle attività di raccolta fondi, marketing e comunicazione. La maggioranza delle Fc nel Regno Unito fa erogazioni di basso importo (tra £2.000 e £3.000). Tale caratteristica è in evoluzione e le Fc più solide sperimentano erogazioni più grandi e pluriennali distribuite in modo strategico, con obbiettivi chiari da raggiungere annualmente. Questo tipo di erogazione concorre a creare capacità organizzativa nel settore del volontariato. Sembra che le organizzazioni finanziate a lungo termine siano poste in condizioni di sviluppare capacità che altrimenti non avrebbero, dovendo ogni anno cercare differenti fonti di finanziamento. Come già detto, lo Stato ha un ruolo essenziale nello sviluppo del Terzo settore, il che però, allo stesso tempo, tende a ingenerare una certa dipendenza dai finanziamenti pubblici e, quindi, determinare la promozione di interessi politici specifici. A tal proposito Helen Moss, Direttrice della Quartet Community Foundation, afferma: "Quartet (e anche le altre Fc) sono organizzazioni indipendenti, quindi non accetteremo l'"interferenza" da parte dello Stato. Non abbiamo mai avuto finanziamenti statali per coprire i nostri costi di gestione, il che potrebbe alcune volte determinare delle influenze. Tuttavia, scegliamo di distribuire fondi statali per contratto con differenti agenzie statali e in questo caso ovviamente distribuiamo i fondi secondo le loro politiche. Direi che proviamo a lavorare accanto alle agenzie statali per150


ché in generale loro si confrontano con gli stessi problemi che preoccupano ancne noi. 1131 Naturalmente il rischio è che i finanziamenti pubblici a disposizione del no profit (e delle stesse fondazioni comunitarie) diminuiscano o addirittura finiscano con le conseguenze prevedibili. Il supporto finanziario alle organizzazioni del volontariato è sempre a rischio. La società britannica ritiene che il controllo statale sull'erogazione dei servizi pubblici sia essenziale e il Charity Act 2006, attraverso la verifica del perseguimento del "bene pubblico", tenta di garantire che l'interesse pubblico sia sempre privilegiato rispetto a quelli privati. Sebbene la popolazione del Regno Unito risulti ancora piuttosto scettica nei confronti delle organizzazioni no profit e della loro capacità di erogare servizi pubblici, tuttavia, tale atteggiamento sta cambiando e ciò si riflette nella crescita dei livelli e della varietà di donazioni private. In ogni caso, il recente sviluppo delle Fc nel Regno Unito mostra il loro potenziale come modello organizzativo del Terzo settore britannico.

CoNsIDE1zIoNI FINALI

Vale a questo punto riferirci brevemente al dibattito sviluppatosi a livello internazionale su quale debba essere il focus di una Fc. Secondo Thompson 36 ci sono attualmente due approcci principali: il "money approach" e il "community approach". Il primo è focalizzato sulla raccolta fondi presso i più ricchi della comunità e la redistribuzione di tali fondi alle organizzazioni no proflt locali. Il secondo approccio si occupa di affrontare le necessità locali attraverso, ad esempio, la creazione di capacità comunitaria ("community capacity") e di leadership, aiutando la comunità a migliorare la capacità di gestire e risolvere i suoi problemi. Sempre secondo l'autore, negli Stati Uniti prevale il "money approach", mentre in Canada e in Europa il "community approach". Un'opinione simile è sostenuta da Barry Gaberman 37, secondo il quale recentemente negli Stati Uniti ad essere percepiti come "stakeholders" delle Fc sono principalmente i donatori piuttosto che la comunità con i suoi bisogni. In Europa, invece, sempre secondo Gaberman, persiste l'idea che la comunità e le sue necessità devono essere il principale focus dei servizi della Fc. In proposito, la Cariplo - promotrice del principale progetto italiano di lancio delle Fc - sembra aderire al "money approach" visto che ha quale suo obiettivo primario la creazione e diffusione della cultura del dono, ponendo un forte accento sulla capitalizzazione delle Fc. E doveroso riferire che durante gli incontri avuti con le singole Fc promosse dalla Cariplo la centralità della cultura del dono non sempre è emersa con uguale risalto e consapevolezza. 151


Riteniamo che l'approccio ideale per una Fc sarebbe la sintesi di entrambe le visioni riportate. Se la diffusione della cultura del dono è certamente importante per migliorare la cultura solidale di una collettività e non si risolve solo nella capitalizzazione della Fc, allo stesso tempo, è fondamentale prestare la medesima attenzione alla comunità e alle dinamiche che ne determinano i bisogni. Solo in questo modo è possibile veicolare adeguatamente le risorse economiche raccolte e perseguire un concreto miglioramento della qualità della vita. Altra questione fondamentale per uno sviluppo positivo del modello delle Fc è certamente quella della trasparenza. Generalmente sul sito di tutte le Fc italiane sono pubblicati lo statuto e notizie relative ai progetti e alle attività realizzate. Per quanto riguarda il bilancio, i 2/3 di tutte le Fc italiane lo pubblicano, ma non sempre si tratta di informazioni complete e aggiornate, compromettendo l'assoluta trasparenza e affidabilità della Fc. Nel Regno Unito, oltre al vaglio iniziale e al monitoraggio costante delle organizzazioni del Terzo settore da parte della Charity Commission, la CFN ha creato un sistema di certificazione della qualità dedicato specificamente alle Fc e avvallato dalla stessa Charity Commission. Si tratta di strumenti senz'altro utili a creare o aumentare la fiducia della popolazione nel settore e in particolare nelle Fc. Anche in Italia sussiste il problema della legittimità sociale delle organizzazioni del Terzo settore, del loro riconoscimento da parte della cittadinanza, spesso scettica e sfiduciata causa anche i frequenti episodi di corruzione verificatisi nel Paese. Di conseguenza l'adozione di strumenti analoghi potrebbe costituire l'inizio di un percorso che porti ad una maggiore fiducia nei confronti del Terzo settore e, nel nostro caso, delle Fc. Un altro aspetto discusso è la possibile erogazione da parte della Fc a favore degli enti pubblici, esplicitamente vietata soltanto da due delle Fc intervistate. Con tale tipo di erogazione le risorse dei privati vengono utilizzate per finanziare servizi pubblici, i cui costi già dovrebbero essere garantiti dal gettito fiscale. A fianco di chi ritiene che tali erogazioni siano riduttive per una Fc, vi è chi reputa comunque indispensabile attivarsi con qualsiasi mezzo di fronte alle carenze strutturali del sistema pubblico. Riteniamo che l'erogazione a favore degli enti pubblici sia coerente e possa essere accettata in un contesto in cui la pressione fiscale non sia eccessiva. E importante rilevare il fatto che nelle quasi 50 Fc del Regno Unito ci siano l'equivalente di 383 lavoratori retribuiti a tempo pieno, il che denota l'alta professionalità dell'ambito. Questo può essere uno dei fattori che contribuisce allo sviluppo del modello delle Fc britanniche. La realtà italiana è nettamente diversa, visto che nelle Fc intervistate, al massimo è presente una persona che svolge attività di segretariato a tempo pieno. Dagli incontri avuti, è emerso che ciò è imputabile talvolta ad una mancanza di risorse per coprire i costi gestionali, ma in altri casi è riferibile ad una cultura - forse anche di 152


origine cattolica - per cui tutto ciò che concerne il Terzo settore dev'essere fatto a titolo volontario. A ciò si aggiunge il timore di dirigenti e promotori delle Fo di contribuire a creare delle strutture che potrebbero divenire o essere percepite come "parassitarie". Un ulteriore spunto che proviene dall'esperienza del Regno Unito è quello relativo al funzionamento di una rete del settore, la CFN. Questa promuove gli interessi e l'immagine delle Fo in ambito nazionale, concorrendo alla diffusione della loro conoscenza da parte della popolazione, delle aziende, degli enti pubblici e quindi, più in generale, al loro radicamento sul territorio. La CFN fornisce consulenza e formazione alle Fo per il miglioramento delle loro prestazioni, favorendo lo scambio di esperienze all'interno della rete. In Italia manca un ente analogo che potrebbe certamente concorrere a sviluppare il modello delle Fo. Ad oggi, si sta lavorando alla costituzione di un gruppo di lavoro tra i soggetti promotori. In base a quanto riportato e discusso, si può affermare che le Fo italiane si stanno lentamente radicando nel loro territorio, riuscendo a rappresentarne gli interessi e concorrendo al miglioramento della qualità della vita. Seppur con modalità e gradi differenti, stanno senz'altro operando sia dal lato della raccolta che da quello dell'erogazione. La loro autonomia ed indipendenza risultano, invece, perlopiù compromesse dal forte appoggio economico dei soggetti promotori, in assenza dei quali la crescita delle Fo appare più difficoltosa. Col tempo, stanno sviluppando i servizi in favore dei donatori e offrendo varie tipologie di fondi. La loro comunicazione con l'esterno è sufficientemente curata, soprattutto attraverso siti internet, anche se le informazioni relative ai bilanci non sono sempre disponibili, complete e aggiornate. Le Fo hanno dinanzi una prospettiva di crescita e radicamento sul territorio, anche se naturalmente questo sarà più rapidamente raggiungibile da parte di quelle che godono di un patrimonio consistente grazie alle elargizioni delle fondazioni di origine bancaria. Si tratta di realtà che si affidano quasi esclusivamente al lavoro volontario, senza investire in professionalità qualificate. Ad oggi è, inoltre, assente una rete capace di svolgere attività di coordinamento e che fornisca, al tempo stesso, servizi di formazione e consulenza. Tutto ciò potrebbe costituire un ostacolo alla crescita delle Fo e, attualmente, in qualche modo ne limita l'efficienza ed efficacia di intervento.

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WINGS (Worldwide Initiatives for Grantmaker Support) è un nerwork mondiale che mira a rafforzare la f'ilantropia e la cultura del dono attraverso un supporto e una formazione reciproca, la condivisione di conoscenze e competenze, lo sviluppo professionale dei suoi partecipanti. Si prefigge di dare voce e visibilità alla fìlantropia a livello globale. Dal 1999 ha un'area dedicata alle fondazioni di comunità, la WINGs-CF, che da alcuni anni elabora un Community Foundation Global Status Rcport. L'ultimo disponibile è quello del 2005. 2 Oltre al WINGs, ad esempio, vi è l'EFc (European Foundation Centre) - un'associazione internazionale di fondazioni e società che studia e lavora per la promozione delle fondazioni - secondo cui la fondazione di comunità è un'organizzazione che: è formalmente costituita come fondazione; sostiene attività dentro a una specifica area geografica; sostiene un ampio raggio di attività no profit volte a migliorare la qualità della vita e dell'ambiente in una determinata area geografica; mantiene un programma volto ad attrarre nuovi fondi attraverso donazioni e lasciti da una ampia gamma di potenziali donatori nella comunità; utilizza fondi di varia provenienza; serve a catalizzare cambiamenti positivi nella comunità; ha una forma di governo indipendente che non è rappresentativa di una singola entità e invece rappresentativa dell'interesse pubblico. Anche in Germania si sono sviluppate numerose fondazioni di comunità, anche se la maggior parte non operano esclusivamente come organizzazioni grantmaking ma sviluppano i loro propri progetti. (Global Status Report Wings 2005). Come riferito da Hoelscher, l'impostazione spesso perseguita in Germania da parte delle FC è quella di "lavorare su progetti operativi propri" il che può comportare meno tempo impiegato per il reperimento di fondi e per "campagne mirate di acquisizione di risorse". Hoelscher, Philipp Le Fondazioni Comunitarie Tedesche in Europa in Hoelscher, Philipp & Casadei, Bernardino Le Fondazioni Comunitane in Italia e Germania Berlin: 2006, Maecenata Verlag, p.22. Si tratta di Fondazione Cariplo, Fondazione di Venezia, Compagnia di San Paolo e Fondazione per il Sud. Soltanto in due casi non è stato possibile organizzare l'incontro presso la sede della fondazione, ma presso altra sede. 6 Si tratta di :1) Fondazione della provincia di Lecco onlus; 2) Fondazione provinciale della Comunità Comasca onlus; 3) Fondazione della Comunità della Provincia di Mantova onlus; 4) Fondazione della Comunità del Novarese onlus; 5) Fondazione della Comunità Bergamasca onlus; 6) Fondazione della comunità di Monza e Brianza onlus; 7) Fondazione comunitaria della Provincia di Cremona onlus; 8) Fondazione della Comunità del Varesotto onlus; 9) Fon-

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dazione della Comunità Bresciana onlus; 10) Fondazione comunitaria della provincia di Pavia onlus; 11) Fondazione comunitaria della provincia di Lodi onlus; 12) Fondazione "ProValtellina" (a Sondrio); 13) Fondazione Comunitaria del Ticino Olona; 14) Fondazione comunitaria del Verbano Cusio Ossola (in partenariato con la Compagnia di San Paolo); 15) Fondazione comunitaria Nord Milano. Si tratta di: 16) Fondazione Santo Stefano (a Portogruaro); 17) Fondazione della Comunità Clodiense; Si tratta di: 18) Fondazione Comunitaria della Riviera dei Fsori onlus e della Fondazione del Verbanio Cusio Ossola (in partenariato con la Fondazione Cariplo). ° È la: 19) Fondazione Cassa Rurale di Treviglio. 10 Si tratta di: 20) Fondazione di Comunità Vicentina per la Qualità di Vita onlus, costituita da una alcune istituzioni ed enti locali. 21) Fondazione comunitaria del Ponente Savonese onlus, costituita da istituzioni religiose, civili e privati. Il Essendo soltanto tre le fondazioni nate al di fuori della promozione di un ente specifico, inizialmente, si era stabilito di analizzarle tutte e 3, ma poiché - nonostante molti sforzi - non è stato possibile organizzare l'incontro con la Fondazione Cassa Rurale di Treviglio, si sono considerate soltanto le due sopra indicate. 12 Ad esempio, la Fondazione Comunità Mantovana Onlus lavora nella comunità di Mantova e provincia, la Fondazione della Comunità Clodiense opera nel territorio di Chioggia e nelle sue proiezioni (Caverzere e Cona). 13 Le Onlus costituiscono una macro-categoria di enti operanti nel non profit, l'appartenenza alla quale garantisce precisi vantaggi di ordine fiscale sia all'organizzazione Onlus che a chi effettua donazioni in suo favore. La normativa di riferimento è il D.Lgs. 460/1997 che elenca gli 11 settori in cui possono operare tassativamente le Onlus. Queste devono inoltre rispettare altri vincoli, tra cui il perseguimento in via esclusiva di finalità di solidarietà sociale e il divieto di distribuzione degli utili. Fra tutte quelle intervistate, solo la Fondazione Clodiense ha deciso di non costituirsi come Onlus per evitare di dover rispettare i vincoli citati relativi ai Settori in cui svolgere le proprie attività. Tuttavia, al fine di agevolare la raccolta, ha costituito un Comitato Onlus, cui è possibile donare per i settori di competenza onlus, beneficiando dei relativi sgravi fiscali. Lo scopo del Comitato è, infatti, la "raccolta di fondi da destinare al finanziamento di progetti ed iniziative, individuati e selezionati dalla Fondazione della Comunità Clodiense nell'esercizio della sue funzioni istituzionali aventi ambito di intervento" nei settori Onlus. ' La Fondazione Vicentina, a seguito di un'attenta osservazione della realtà e anche dietro sollecitazione di


parte dei soggetti finanziati, ha deciso di concentrare la sua attività erogativa su tre temi specifici, ritenendo che ciò dovrebbe riflettersi positivamente anche sulla raccolta. Le tre aree individuate sono: la scuola (che ha sempre meno risorse a sua disposizione), i minori/giovani (cui vengono dedicate sul territorio scarse risorse a confronto di quelle per gli anziani) e il c.d. "dopo di noi" per i disabili (oggetto di una pluralità di interventi che s'intende coordinare fra loro). 1$ È il caso della Fondazione Comunitaria di Lodi, che prevede tale incompatibilità quando il soggetto "ha un rapporto di dipendenza o collaborazione remunerato con la fondazione stessa, il fatto di ricoprire cariche nel Parlamento europeo, Parlamento nazionale, nel Governo, nella Corte costituzionale, in organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, in organi dell'Unione Europea, della magistratura ordinaria o speciale, nel Consiglio regionale della Lombardia, nel Consiglio provinciale della Provincia di Lodi o in giunte regionali, provinciali, comunali o ricoprano cariche di amministratori di altri Enti locali territoriali". Analoghe clausole si riscontrano anche negli statuti delle Fc di Mantova, della Riviera dei Fiori e del Ponente Savonese. La Fondazione comunitaria Clodiense non prevede in statuto tale incompatibilità, ma nella pratica tende ad escludere i personaggi del mondo politico dal CdA. In opposizione a questa tendenza, la Fondazione comunitaria Vicentina ha un forte legame con il mondo politico istituzionale locale. Al momento dell'intervista, pur essendo scaduto il primo mandato triennale del CdA, non si era provveduto al suo rinnovo, poiché a breve si sarebbero tenute le elezioni per il rinnovo del Consiglio provinciale e quindi non si riteneva opportuno nominare dei consiglieri che poi avrebbero potuto non essere rappresentativi del nuovo Consiglio. 16 Si tratta della Fondazione del Ponente Savonese, che al momento dell'incontro nell'ottobre del 2007, non era riuscita a erogare i 100.000 euro disponibili per il 2006. I progetti presentati - dietro pubblicazione del bando della Fondazione - erano pochi e di scarsa qualità. Proprio per mancanza di destinatari e di qualità progettuale hanno dovuto pubblicare tre bandi. A detta del Presidente, la Fondazione si confronta con un Terzo settore ancora poco sviluppato e dinamico, alla cui animazione sta lavorando anche la Fondazione comunitaria stessa. Per raggiungere tale obbiettivo partecipa ad un progetto del EFc denominato Youth Empowerment Partnership Programme (YEPP - www.ycpp.it ), di cui è sostenitrice anche la Compagnia di San Paolo. L'idea è la creazione di centri di aggregazione dei giovani, creati e gestiti da loro. ' La Fondazione Vicentina, ad esempio, non ha particolari rapporti con la Chiesa e la percepisce piuttosto come una concorrente, poiché le sue organizzazioni sono più visibili sul territorio. Mantova, come già accen-

nato, ha descritto invece un rapporto di collaborazione e ritiene che le attività sociali svolte dalla Chiesa debbano essere sostenute dalla Fondazione. 15 Ad utilizzarlo con un certo successo è, ad esempio, la Fondazione di Lodi per le erogazioni sul territorio che ammontano a 620.000 euro messi a disposizione annualmente dalla Cariplo. 19 E il caso della Fondazione Clodiense che ha incrementato il suo patrimonio grazie alle banche e di quella di Pavia che mira invece ad "assorbire" altre fondazioni presenti da tempo sul territorio, ma che di fatto non hanno la capacità operativa di una fondazione di comunità. Pavia, pur essendo consapevole che probabilmente raccoglierebbero di più tramite il bando con raccolta, ha deciso di non farlo perché è molto impegnativo da gestire rispetto ad un bando semplice e la fondazione non dispone delle energie sufficienti per farvi fronte. 20 Nel caso di Mantova si tratta di 500 euro, per Pavia di 250 euro. 2! La Fondazione Clodiense ha poco contatto con l'altra Fc rientrante nel progetto della Fondazione di Venezia, quella di Portoguaro. 22 La Fondazione Clodiense non ha pubblicato il bilancio sul sito, ma lo ha comunque fornito a richiesta durante l'intervista. Il bilancio pubblicato dalla Riviera del Fiore è una versione scarsa e poco dettagliata. Mantova e Vicentina hanno bilanci del 2005 e non risultano pubblicati i bilanci del 2006. 23 La Fondazione Cariplo riconosce alla nuova Fc un fondo di dotazione iniziale di 50.000 Euro. Dopodiché s'innesca il meccanismo della c.d. "erogazione sfida", per cui le singole fondazioni comunitarie hanno l'obiettivo complessivo di raccolta a patrimonio di 10 milioni di Euro in 10 anni (mentre per le prime fondazioni era di 5 milioni in 6 anni) che si traduce in un obiettivo annuale di raccolta di donazioni destinate a patrimonio pari a 516.000 Euro. Più nello specifico la Fc dovrà impegnarsi a raccogliere 5 milioni di Euro che verranno raddoppiati da Fondazione Cariplo. A questo punto, essendo stato raggiunto l'obiettivo dei 10 milioni di Euro di patrimonio, Fondazione Cariplo conferirà alla Fc anche gli ulteriori 5 milioni di euro che avrà accantonato presso di sé nel corso degli anni grazie al meccanismo del raddoppio di ogni donazione ottenuta dalla fondazione comunitaria e raddoppiata da Fondazione Cariplo. In totale si arriverà a 15 milioni di euro. Fondazione Cariplo, inoltre, mette ogni anno a disposizione delle fondazioni comunitarie delle "erogazioni tetritoriali" che dovranno essere gestite dalle singole fondazioni per erogazioni sul loro territorio di riferimento. Fino al 5% delle erogazioni territoriali possono essere utilizzate per le spese di gestione. 24 Inizialmente il progetto della Fondazione di Venezia prevedeva un contributo iniziale a patrimonio di

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516.000 euro e, in seguito, l'adozione del meccanismo della c.d. «erogazione-sfida", sulla falsariga del modello Cariplo, per cui la Fondazione di Venezia raddoppiava le somme raccolte presso la comunità sino al raggiungimento di una entità predeterminata di patrimonio nell'arco di un triennio. Attualmente non vi è più tale conferimento iniziale ma persiste il sistema dell'erogazionesfida. Viene inoltre utilizzato il meccanismo già sopra illustrato della raccolta su bando, per cui ogni anno la Fondazione di Venezia mette a disposizione 150.000 euro. Il meccanismo prevede che entro un termine prestabilito siano raccolte donazioni pari alla metà del contributo richiesto alla Fc e che la Fondazione di Venezia raddoppi (o più recentemente anche triplichi in caso di progetti più grandi) il valore della raccolta effettuata sul territorio. 25 La Fondazione per il Sud si impegna a: 1. corrispondere un ammontare uguale al patrimonio iniziale a condizione che questo sia almeno pari a 100.000 euro, fino a 500.000 euro; 2. costituire presso di sé un fondo patrimoniale pari alle donazioni destinate a patrimonio che verranno raccolte dalla fondazione comunitaria fino a quando avranno raggiunto i 2.500.000 euro in un periodo massimo di 15 anni. Dopodiché il fondo sarà trasferito alla Fc; 3. erogare ogni anno un contributo sino al 4% della somma accumulata nel fondo patrimoniale (in relazione al rendimento) a condizione che la Fc sia in regola con i suoi obiettivi di raccolta annui (da definire). Se ciò non avviene, la Fondazione per il Sud conserva presso di sé tali somme sino al conseguimento dell'obiettivo. Le somme eccedenti saranno considerate valide per il conseguimento dell'obiettivo degli anni successivi; 4. mettere a disposizione della Fc per i primi 3 anni fino a 100.000 euro all'anno (eventualmente rinnovabili) per erogazioni a condizione che la fondazione comunitaria ne raccolga altrettanti per la stessa finalità; S. mettere a disposizione della Fc per le spese di gestione relative a progetti di raccolta fondi, sino a 50.000 euro l'anno per i primi 3 anni a condizione che la Fc ne raccolga altrettanti per la stessa finalità. Ciò sarà deliberato a insindacabile giudizio dal CdA della Fondazione per il Sud, che potrà decidere di estendere il contributo anche oltre il primi tre anni. 26 Si tratta del progetto di costituzione di una Fc legato anche all'Associazione per la fdantropia in Valle d'Aosta, costituita nell'aprile del 2006 per sostenere le organizzazioni di volontariato nel reperimento di fondi e promuovere la donazione in Valle d'Aosta.

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La Charity Commission è l'ente supervisore del settore no profit, che si occupa di registrare le varie organizzazioni ed è preposto al loro monitoraggio. 28 HUMPHREYS, G. The Development of Community Foundations in the UnitedKingdom in Bertelsmann Faundation (ed.) Community Foundations in Civil Society Bertelsmann Foundation Publishers, Goetersloh, 1999. 29 Oltre a svolgere un lavoro di coordinamento, la CFN stessa è una fondazione di comunità. Attualmente le sue priorità sono il supporto alle Fc nella raccolta fondi a patrimonio intangibile, lo stabilimento di rapporti e lo sviluppo di servizi ai donatori, l'incoraggiamento alla crescita di planned giving e l'impegno con la comunità dei consulenti professionali. ° HUMPHREYS, G., BROOKS, C. & LEAT, D. Case studies of organizations supporting community foundations: Community Foundation Net'work WINGs-CF September 2001. Il Gift Aid è un sistema per cui le persone fisiche e le imprese possono donare una sola volta (one-off donation) o regolarmente a un'organizzazione no profit e tale organizzazione può richiedere una deduzione delle tasse riguardo tale donazione. In tal modo sia l'organizzazione che il donatore ricevono agevolazioni fiscali. Non è fissato un valore minimo per tali donazioni. 32 Payroll giving avviene quando la donazione è fatta direttamente dallo stipendio, prima che sullo stesso incidano le tasse, e l'agevolazione fiscale viene quindi data al donatore. Non esiste una donazione minima in tale modalità. 33 http://www.communityfoundations.org.ukiabout_community_foundations/findingukcommunityfoundati ons, gennaio 2008. Local Network Fund è un programma del governo iniziato nel 2001, con fine prevista per marzo del 2008. Lo scopo è quello di dare supporto a piccole organizzazioni locali per migliorare i risultati e opportunità dati a bambini e giovani di età compresa tra O e 19 anni. http://www.everychildmatters.gov.uklstrategy/localnetworkfjjnd/ (febbraio 2008). ° Da un dichiarazione rilasciata il 22 giugno 2007 a Mariana Franzon. 36 THOMPSON A., Can the concept be adapted? «Alliance Magazine>, volume 11, numero 1, marzo 2006. Senior Vice President of the Ford Foundation, in articolo pubblicato nella Alliance Magazine volume 11, numero 1, marzo 2006.


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NIL 1erioni s4e le it7ioniiI7la dejiMjjazia dltSgiRistuccii

pIc

Nel 2008 la Fondazione Adriano Olivetti ha inaugurato la Collana Intangibili, un nuovo impegno editoriale che consente, attraverso i moderni strumenti dell'editoria digitale, una piĂš ampia e tempestiva diffusione delle sue attivitĂ . Il nono volume della Collana Intangibii, realizzato in collaborazione con il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, riporta la trascrizione delle conversazioni che si sono svolte tra maggio e giugno 2009 a Roma, Milano, Torino e Napoli, intorno al volume di Sergio Ristuccia Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica, Marsiio Editori, 2009. Disponibile su www.fondazioneadrianolivetti.it


queste Istituzioni

n. 158-159 luglio-dicembre 2010

ou c'è Sud senza Nord. Non c'è Nord seuza Sud

on questo numero apriamo uno spazio di r,flessione e confronto sul tema dell'Unità nazionale e il Sud ne/pieno dalle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario. Pubblichiamo un discorso di Rosario Villari, pronunciato cinquanta annifa, nel marzo 1960 a Napoli. E due conversazioni, con Gianfranco Viesti e Francesco Pigliaru. Uno storico e due economisti. Non si tratta di due analisi distinte, ma so/o distanti nel tempo. Che discutono, commentano, smontano e decostruiscono molti degli elementi presenti nel dibattito pubblico sull'Unità d'Italia e sui nodi mai sciolti che vedono fronteggiarsi Nord e Sud, che alimentano giudizi epregiudizi, tanti, ma mai politiche e azioni di rforma concrete. E sono questa distanza nel tempo e la contemporanea persistenza di tracce di grossolano strumentalismo politico e clima culturale fosco la chiave di lettura angusta della questione meridionale, diventata "il teorema 11/Iezzogiorno" Una questione italiana ma non dell'Italia.

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queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

La liberaziolle del lleZZ0iOtll0 O l'fluit1 ilaziollalo di Rosario Vi//ari *

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i sembra infondata e ispirata ad un grosso/ano strumenta/ismo po/itico /'idea che pregiudizi ideo/ogici e vecchi risentimenti impedirono ne/ primo centenario de//o stato ita/iano di affrontare, anche a/ /ive//o de//a sintesi e de//a divu/gazione, i prob/emi storici de/ Risorgimento. La pubb/icazione di un discorso tenuto ne/giugno de/1960 può forse offrire qua/che e/emento di confronto tra i/ c/ima cu/tura/e e po/itico di a//ora e que//o di oggi. Ho /asciato quindi ina/terata /'interpretazione deg/i avvenimenti storici data in que//a occasione, /imitando il mio intervento a qua/che abbreviazione e a qua/che tentativo di chiarimento forma/e de//'analisi. Di tutti gli avvenimenti che condussero all'unificazione del nostro Paese, la liberazione e l'annessione del Mezzogiorno, per il modo in cui si sono realizzate, indicano più chiaramente la natura, la consistenza e gli orientamenti delle forze che hanno contribuito al conseguimento dell'unità nazionale; mettono in rilievo i più gravi problemi connessi alla formazione del nuovo Stato e le difficoltà che presenta la fusione di regioni profondamente diverse l'una dall'altra; anticipano e determinano, infine, le linee di svolgimento della vita politica e istituzionale italiana dopo il 1860. Negli anni più recenti, anche indipendentemente dalle occasioni e dagli stimoli che sono stati dati dalla ricorrenza del centenario dell'unità nazionale, l'attenzione degli studiosi si è rivolta nel modo più vivo alle vicende dell'impresa garibaldina e della liberazione del Mezzogiorno. L'epopea garibal-

* Discorso pronunciato nel Teatro Mercadante di Napoli l'li giugno 1960. 161


dma può oggi apparire, anche a coloro che non fanno professione di studi storici, non soltanto come un episodio glorioso della lotta tra la libertà e la tirannide, ma anche come il momento in cui le alterne vicende del conflitto tra democratici e liberali moderati decisero sia il compimento e la tappa più importante del processo unitario, sia il futuro assetto del nuovo Stato. Le premesse della liberazione del Regno delle Due Sidiie devono essere ricercate in due ordini di fatti: le insurrezioni delle regioni dell'Italia centrale che, tra l'aprile e il giugno del 1859, liberarono la Toscana, i Ducati di Parma e di Modena e le Romagne dai vecchi governi; e, dall'altra parte, i moti che si verificarono un anno più tardi in Sicilia e il profondo fermento antiborbonico diffuso nell'isola alla vigilia dello sbarco dei Mille a Marsala. La conclusione della guerra del '59 tra i franco-piemontesi e gli austriaci rivelò le contraddizioni esistenti tra una politica di accordi e compromessi diplomatici tra gli Stati europei ed il conseguimento dellbbiettivo unitario. Il trattato di Villafranca - che prevedeva il ritorno delle regioni insorte sotto i vecchi governi - veniva ad interrompere lo sviluppo del moto di unificazione nazionale proprio nel momento in cui esso aveva ripreso ad affermarsi con uno slancio nuovo. Il rifiuto dei governi provvisori della Toscana e delle Romagne di accettare le clausole del trattato che li riguardavano fu, come è noto, la condizione fondamentale che permise la soluzione del problema dell'Italia centrale. Cavour, tornato al potere il 20 gennaio 1860, poté far leva su questa resistenza per risolvere il problema, cedendo alla Francia Nizza e Savoia come compenso per l'annessione delle regioni centrali al Piemonte. Condotta tra flpposizione degli elementi più conservatori del regno sabaudo e dei democratici, che la consideravano come un atto di ulteriore asservimento dello Stato piemontese alla Francia, questa operazione fu l'ultima possibilità che si offriva sul piano diplomatico per venire incontro alle esigenze unitarie che dal 1848 in poi si erano venute affermando nel Paese. Ma il modo in cui le vicende dell'Italia centrale si erano svolte, se chiudeva un capitolo importante del processo di unificazione nazionale, contribuiva a riaprire o a mantenere aperto il problema italiano nel suo complesso. Per tutto il periodo dall'aprile del 1859 al marzo 1860, fino al momento, cioè, in cui la questione dell'Italia centrale fu portata a conclusione, il partito liberale moderato mantenne saldamente la direzione del movimento unitario, pur accogliendo sollecitazioni e spinte che venivano dai democratici. Appunto nel quadro della politica generale moderata, uno dei caposaldi della linea dei governi provvisori fu la lotta contro ogni tentativo di fare dell'Italia centrale la base per una operazione unitaria di più vasto respiro, che comprendesse l'Umbria, le Marche e le Due Sicilie. Garibaldi, che in un primo momento era stato chiamato a far parte del comando della lega militare delle regioni centrali, fu costretto a dimettersi per la ferma opposizione che incontrava nel governo piemontese il suo desiderio 162


di portare l'iniziativa oltre i confini delle Romagne e di appoggiare un eventuale moto rivoluzionario nell'Umbria e nelle Marche. I capi dei governi provvisori di Bologna e di Firenze, Cipriani e Ricasoli, misero a punto, nell'agosto del 1859, la decisione di arrestare Mazzini, tornato clandestinamente a Firenze dall'Inghilterra. I motivi che li spingevano non erano soltanto quelli della lotta contro il repubblicanesimo, ma più particolarmente la preoccupazione che suscitava la sua insistente campagna e le sue sollecitazioni per una iniziativa rivoluzionaria verso lo Stato pontificio. Ma una volta realizzati i plebisciti del marzo 1860, la linea di resistenza del partito moderato si rivelò priva di sviluppi. Tutti gli elementi di sollecitazione popolare e democratica che i governi provvisori avevano tenuto a freno durante il periodo della resistenza contro le decisioni francesi e austriache sulla sorte dell'Italia cominciarono, invece, ad acquistare un peso determinante sulla scena politica italiana. La direzione del movimento unitario si avviava ora a passare nelle mani dei democratici. Il movimento democratico elaborò allora un concreto programma di azione corrispondente alle prospettive che la situazione politica aveva fatto maturare. Ancora tra l'agosto e il settembre del '59, Mazzini propose a Ricasoli prima e poi direttamente a Vittorio Emanuele la ripresa dell'azione unitaria: suscitare un movimento insurrezionale in Sicilia e contemporaneamente inviare diecimila uomini, sotto il comando di Garibaldi, verso gli Abruzzi: "La rivoluzione non si difende localizzandola - egli scrisse. Non è col guadagnar tempo che potete ottenere l'intento. I dieci, i venti, i trentamila uomini che potrete aggiungere al vostro esercito son nulla a petto di ciò che perdete, indugiando. L'Italia si sfibra nello scetticismo e nello sconforto: l'entusiasmo si spegne; la diplomazia diffonde i germi del dissolvimento; le questioni si localizzano; il moto perde il suo carattere nazionale". La proposta non fti presa in considerazione ed anzi accentuò, se era possibile, l'allarme dei moderati e del governo piemontese per la prospettiva che venisse messo in atto in modo indipendente il piano enunciato da Mazzini. A determinare una opposizione così rigida non erano certamente le resistenze che la politica nazionale di Cavour poteva ancora incontrare nei sostenitori del vecchio Stato sabaudo. La cessione di Nizza e della Savoia segnò veramente la fine del vecchio Piemonte, come tristemente lamentavano i più tenaci conservatori subalpini, e l'abbandono di una politica a carattere regionale. Sia pure con cautela, Cavour e la monarchia avevano appoggiato i movimenti insurrezionali dell'Italia centrale; si erano legati ai governi provvisori della Toscana e dell'Emilia, che basavano la loro azione proprio sul rifiuto degli accordi realizzati in sede di trattative diplomatiche. Ma si trattava di un movimento che, pur accogliendo alcune sollecitazioni che venivano dai rivoluzionari (come riconosceva esplicitamente il Massari quando affermava che purtroppo i conservatori erano costretti, finché c'era in Italia un austriaco, 163


all'alleanza coi rivoluzionari "per non lasciare a questi il monopolio dei sentimenti generosi") era sotto il controllo del partito moderato. La linea di azione indicata dai democratici aveva, invece, un orientamento e un contenuto assai diversi: essa traeva il suo valore ed il suo significato dal fatto di essere il risultato di una lunga opera preparatoria ideale e pratica che andava dalla missione dei fratelli Bandiera alla Repubblica romana, dalla spedizione di Pisacane alla propaganda democratica nelle province meridionali, allo sforzo di creare organismi e trame rivoluzionarie che dovevano far leva sulla partecipazione popolare. Questa preparazione dava dunque, inequivocabilmente, al progetto di spedizione nel Sud un carattere diverso da quello che aveva assunto il moto unitario nell'Italia centrale. Inserendo un elemento democratico nella prospettiva di formazione del nuovo Stato. Ma questo motivo doveva rivelarsi in tutta la sua pienezza soltanto quando quella impresa, che al principio sembrava a molti un'avventura destinata al fallimento, avrebbe acquistato le dimensioni e la consistenza di una vera ed entusiasmante guerra rivoluzionaria, il valore ed il significato di un avvenimento decisivo per l'avvenire e le sorti del Paese. Per il momento, a prescindere dal contenuto e dall'indirizzo di una eventuale azione nei confronti dello Stato pontificio e del Regno delle Due Sicilie, l'attenzione di Cavour e di tutto il liberalismo italiano era concentrata sul consolidamento dei risultati raggiunti nell'Italia centrale e sul rafforzamento dell'alleanza con la Francia. Su questa, appunto, si basavano le prospettive di ripresa del moto unitario; ma erano prospettive vaghe ed incerte, che non si traducevano in una concreta linea di azione. Ancora nei primi mesi del '60 la maggior parte deimoderati era lontana dalla convinzione che il compimento dell'unità nazionale potesse realizzarsi a breve scadenza. La preoccupazione più viva era di non fare passi falsi, di non compromettere i risultati già ottenuti, di impedire ogni movimento che potesse turbare l'equilibrio raggiunto. Nei confronti del Mezzogiorno, sembrava ancora opportuno e sufficiente insistere nel tentativo di attirare Francesco Il "in una alleanza nazionale con il Piemonte contro l'Austria, sulla base di riforme interne liberali moderate", secondo le istruzioni date all'ambasciatore piemontese a Napoli nel gennaio del 1860. Il secondo ordine di fatti cui si deve fare riferimento nell'esame delle premesse dell'impresa dei Mille è in rapporto con la situazione politica e sociale dell'Italia meridionale e della Sicilia. Specialmente in Sicilia, lpposizione contro la monarchia borbonica aveva messo radici profonde nelle città e nelle campagne. La sconfitta della rivoluzione del 1848 e la dispersione dei suoi capi non avevano potuto attenuarla; dopo il 1849, anzi, il fermento rivoluzionario aveva continuato ad estendersi, anche per reazione al regime sempre più nettamente poliziesco che era stato instaurato nell'isola ed all'indirizzo accentratore del governo napoletano. 164


Figure di ftinzionari di polizia come quelle del famoso Maniscalco, di spie ed agenti locali, che erano disseminati dappertutto, avevano attirato su di sé un odio profondo da parte di un numero di persone ben più grande che non i piccoli nuclei politicamente sospetti; mentre il secolare malcontento dei contadini, che fino allora era stato represso in un sistema feudale di violenti e di oppressione, restava inalterato e minaccioso in tutta l'isola. Rivolte e tentativi insurrezionali esplosero, quindi, ripetutamente in questa situazione: nel gennaio del 1850 tredici rivoltosi furono fucilati a Palermo nella piazza della Fieravecchia; nel 1856 venne soffocata l'insurrezione capeggiata dal mazziniano Francesco Bentivegna a Mezzoiuso; nel 1857 un tentativo insurrezionale stroncato a Cefalù; due anni dopo, una rivolta scoppiò a Santa Flavia e Villabate; ancora il 27 novembre del '59 il direttore di polizia, Maniscalco, venne pugnalato a Palermo. Anche se non erano riusciti ad acquistare un ampio respiro ed erano di volta in volta rapidamente soffocati, questi tentativi erano appunto l'espressione di uno stato d'animo e atteggiamento cui partecipavano, per diversi motivi, larghi strati della popolazione siciliana. I termini politici di questo fermento furono, da un lato, l'unitarismo e, dall'altro, l'autonomismo, il quale aveva le sue radici in una antica tradizione politica isolana, ma che aveva ormai perduto i suoi originari caratteri aristocratici ed acquistato un contenuto nuovo in cui il problema dei rapporti tra Napoli e Sicilia e tra questa e il futuro Stato nazionale era connesso al problema del rinnovamento delle istituzioni e del sistema di governo in senso liberale o democratico. Ma al di là e al di sotto delle formulazioni politiche più mature, era un fatto di grandissima importanza che lo scontento ed il risentimento esistenti nelle classi più numerose della popolazione e derivanti dalla profonda crisi economica, sociale e politica che travagliava l'isola confluissero comunque in questa opposizione, si colorassero di anti-borbonismo. Occorre sottolineare con forza il carattere e la larghezza di questa opposizione popolare che esisteva in Sicilia prima del 1860 e che aveva finito col costituire una barriera insuperabile tra governo e popolazione. Essa fu un elemento fondamentale sia nel determinare la convinzione, l'entusiasmo e la fiducia che furono necessari per avviare un'opera che a molti poteva apparire disperata e sulla quale pesava il doloroso ricordo del tragico tentativo di Pisacane, sia nel creare le condizioni che portarono al successo la spedizione. Non molti degli stessi protagonisti della spedizione dei Mille si resero conto, all'inizio, dell'importanza di questo fattore. Molti volontari si aspettavano di trovare, al loro arrivo a Marsala, ordinate schiere di insorti pronte ad unirsi a loro; e restarono delusi quando queste rosee previsioni non si verificarono. "Dove son mai quelle falangi d'insorti che magnificavi tanto a Genova, dove sono le città ribellate?": questa domanda rivolgeva uno dei Mille, il gior165


nalista toscano Giuseppe Bandi, il giorno dello sbarco, al siciliano Giuseppe La Masa. Oel tanto di schematico che era nella loro formazione politica, l'interesse degli emigrati siciliani a far apparire gli avvenimenti insurrezionali più vasti e meglio organizzati di quel che erano in realtà, la diffidenza verso popolazioni quasi completamente sconosciute e diverse per costumi e livello di vita dalle popolazioni delle province da cui proveniva la maggioranza dei volontari, tutti questi fatti erano alla radice della delusione che molti garibaldini ebbero nei primi giorni della marcia da Marsala verso Palermo e di cui rimangono non poche tracce nella ricca letteratura garibaldina, nelle memorie e nei diari della spedizione. Diversamente da Garibaldi, essi non riuscivano a vedere in che cosa consistesse quella "situazione favorevole", quella attitudine insurrezionale dei siciliani, su cui tanto avevano fatto leva i sostenitori dell'impresa. Gli avvenimenti successivi dovevano però dimostrare che gli esuli siciliani avevano buoni motivi per guardare al di là del faffimento di singole iniziative e delle difficoltà che presentava lbrganizzazione di un moto insurrezionale. Già prima, infatti, mentre si concludevano con lo sfortunato combattimento al convento della Gancia i moti palermitani del 4 aprile, capeggiati dall'artigiano Francesco Riso, l'equilibrio incerto su cui poggiava il governo poteva dirsi spezzato. Una guerriglia più insidiosa si allargava nelle campagne, senza dar luogo ad episodi clamorosi, dispersa e disorganizzata, ma non per questo meno travolgente e inesorabile. Rosolino Pilo (una delle figure più interessanti ed elevate del movimento mazziniano meridionale) e Giovanni Corrao, sbarcati clandestinamente nell'isola nel mese di marzo, non riuscivano ad afferrare il filo di questa rivolta, a darle unità e guida politica e organizzativa; ma essa stava già creando quell'atmosfera in cui l'audacia dei Mille avrebbe potuto dare i suoi frutti. "Ho trovato questa gente migliore ancora dell'idea che me n'ero fatta" così scrisse Garibaldi al repubblicano milanese Agostino due giorni dopo lo sbarco. Certo, egli non aveva ancora potuto rendersi conto del nuovo ambiente in cui si trovava, della disposizione reale dei siciliani; consapevole della necessità dell'appoggio della popolazione per il successo dell'impresa, egli indicava, con queste parole, la linea di azione che avrebbe seguito. Meno di tre mesi dopo, da Messina, in un appello ai siciliani, egli poteva dichiarare: "Questa guerra di emancipazione, da voi così eroicamente iniziata, deve la somma dei suoi successi allo slancio ed alle simpatie delle popolazioni". In seguito, al momento di abbandonare definitivamente il Mezzogiorno, nel famoso proclama diretto a Vittorio Emanuele: "Voi troverete in queste contrade un popolo docile quanto intelligente, amico dellrdine quanto desideroso di libertà, pronto ai maggiori sacrifici, qualora gli sono richiesti nell'interesse della patria, e di un governo nazionale. Nei sei mesi ch'io ne ho tenuto la suprema direzione, non ebbi che a lodarmi dell'indole e del buon volere di 166


questo popoio, che ho la fortuna - io coi miei compagni - di rendere all'halia, dalla quale i nostri tiranni l'avevano disgiunto". Ho accennato alle ragioni che spingevano il governo piemontese a respingere l'idea di una estensione del movimento rivoluzionario nelle province pontificie e nel Mezzogiorno: ragionìi di principio e, insieme, considerazioni connesse alla situazione politica internazionale e all'atteggiamento della Francia. Quando quella idea cominciò ad essere tradotta nella realtà, le preoccupazioni prevalenti riguardavano il pericolo che l'equilibrio raggiunto nell'Italia centrale potesse in qualche modo venire turbato da un gesto intempestivo e controproducente. Nessuno pensava che l'azione di Garibaldi potesse ottenere il successo che in breve tempo riuscì a raggiungere; quel che si temeva soprattutto era che la spedizione si indirizzasse verso lo Stato pontificio, ciò che, dal punto di vista dei rapporti diplomatici, avrebbe avuto le più gravi conseguenze. L'opposizione di Cavour era quindi netta, specialmente in considerazione di questa seconda ipotesi, che corrispondeva, del resto, alla formulazione originaria del piano mazziniano. Poco dopo la partenza da Quarto, egli ordinò all'ammiraglio Persano, al governatore di Cagliari ed al luogotenente in Toscana di fermare la spedizione. Ma i preparativi per la partenza si erano svolti nei giorni precedenti a Genova, sotto gli occhi, si può dire, del governo, il quale non aveva fatto nulla per interrompere o per aiutare queste operazioni. Cavour spiega a Nigra, in una lettera del 12 maggio, questa contraddizione, sostenendo che non aveva impedito a Garibaldi di realizzare il suo progetto perché avrebbe dovuto usare la forza per raggiungere lo scopo. Il governo non era in grado di sfidare "l'immensa impopolarità" che lo avrebbe colpito. "Nell'imminenza delle elezioni - continuava Cavour - e dovendo contare su tutte le sftimature del partito liberale moderato per fare fallire gli intrighi dellpposizione e fare approvare il trattato [per la cessione di Nizza e Savoia], non ho potuto prendere misure vigorose per impedire l'invio di aiuti destinati alla Sicilia". Pochi giorni dopo, tuttavia, il corso degli avvenimenti doveva costringere Cavour a cambiare atteggiamento e ad affrontare con urgenza la questione siciliana che la spedizione garibaldina, al di là di tutte le previsioni, aveva aperto. La storia del nostro Risorgimento si avviava così a raggiungere il suo momento più alto e drammatico, a qualche settimana di distanza dalla partenza semiclandestina di un gruppo di uomini male equipaggiati, malissimo armati, contro quello che fino a pochi mesi prima era il maggiore degli Stati italiani. L'incontro tra il volontarismo del Nord, e particolarmente delle due regioni in cui il movimento democratico ebbe durante il Risorgimento più grande sviluppo, la Lombardia e la Liguria, e la rivoluzione siciliana aveva compiuto il miracolo. Un fattore nuovo, più importante di quello puramente 167


territoriale, acquistava evidenza e forza determinante nel processo unitario: l'affermazione, cioè, di una coscienza unitaria popolare e rivoluzionaria, alla quale Garibaldi aveva fatto appello in nome di Vittorio Emanuele e che aveva risposto con entusiasmo e con decisione al Nord e al Sud. In tutta l'Italia settentrionale e centrale l'impresa riceveva il sostegno di una parte sempre più larga dellpinione pubblica; in Sicilia, un contributo fondamentale era venuto dalle popolazioni insorte. Senza immergersi spiritualmente nell'ardente atmosfera di quella rivoluzione, sarebbe assai difficile spiegarsi l'abbandono di Palermo da parte dell'esercito borbonico forte, bene armato, numeroso. Tumuhuando, combattendo, resistendo al cannoneggiamento ed al saccheggio dei borbonici, Palermo aveva contribuito in modo decisivo a creare quel turbamento profondo, quel senso di insicurezza e di sfiducia che determinarono l'armistizio e l'imbarco delle truppe napoletane. Con la vittoria di Palermo, "la rivoluzione diventava Stato" (Omodeo); uno Stato che sembrava poggiare su un largo consenso che le popolazioni dell'isola, ivi compresa una parte importante del clero, esprimevano per Garibaldi, e sulla profonda simpatia che la rivoluzione e il suo capo suscitavano nellpinione pubblica europea. Da questo momento, il problema della influenza che la rivoluzione garibaldina poteva avere sui caratteri del ftituro Stato unitario si pose con chiarezza a Cavour: le preoccupazioni diplomatiche si intrecciarono ora più strettamente con quelle di carattere, per cosi dire, interno e cedettero rapidamente il posto a queste ultime. Cominciò, appunto, il vero urto tra democrazia e moderatismo che doveva aggravarsi sempre più fino a giungere alle soglie della guerra civile. Per spiegare l'azione che da questo momento Cavour comincia a svolgere nei confronti del movimento garibaldino, è stato detto che la ragione più profonda di allarme per il governo piemontese era il pericolo che la rivoluzione assumesse un orientamento repubblicano, per l'influenza che Mazzini, attraverso Crispi e Bertani, aveva nel movimento rivoluzionario. L'incapacità dei democratici di amministrare e governare il Mezzogiorno, la mancanza di un vero rinnovamento politico della classe dirigente e lo sfacelo morale e politico dell'ex Regno borbonico avrebbero poi costretto il governo piemontese e i moderati, per potere realizzare e conservare l'unità nazionale, a liquidare ogni velleità di autogoverno e di autonomia, ad imporre una rapida annessione e un governo accentratore e a realizzare l'unione del Mezzogiorno al resto d'Italia sotto il segno della forza e di una politica autoritaria e repressiva. Indubbiamente le ragioni da cui Cavour fti mosso nella sua azione non erano soltanto in funzione del prestigio della monarchia; dietro il lealismo monarchico cavouriano c'era tutta una concezione dello Stato, con uno specifico contenuto ideale e concreto: quello Stato liberale di cui già il Piemonte rappresentava il modello. E non c'è dubbio che nel piemontesismo di Cavour, w]


a differenza che in quello di altri suoi collaboratori, fosse contenuta piuttosto questa affermazione di un ideale liberale di governo e di Stato che non la difesa di interessi grettamente regionali, che anzi Cavour aveva combattuto e vinto. TI problema, dunque, è di vedere in che misura questa linea politica - che a quella concezione dello Stato era strettamente legata - poteva, in questa fase, dopo che l'iniziativa democratica aveva riaperto la strada al moto unitario, contribuire al compimento dell'unità nazionale; e, dall'altro lato, costituire in concreto il valido fondamento per l'inserimento effettivo delle regioni liberate nella nuova compagine statale. Non c'è dubbio che, ad un certo momento, l'azione del governo piemontese rese più difficile lo svolgimento vittorioso della guerra rivoluzionaria. La violenta campagna per l'annessione immediata della Sicilia al Piemonte, condotta quando l'esercito rivoluzionario non aveva ancora liberato tutta l'isola, aveva lo scopo preciso di limitare alla Sicilia l'impresa garibaldina e di impedire lo sviluppo della guerra sul continente; inoltre, essa incrinava di fatto quella solidarietà che la rivoluzione aveva creato e sulla quale poggiava la dittatura di Garibaldi e la prospettiva di successo per l'ulteriore svolgimento delle operazioni. Probabilmente, Giuseppe La Farina - inviato da Cavour in Sicilia per sollecitare l'annessione - andò, nell'eseguire la missione che gli era stata affidata, oltre le intenzioni di Cavour, che non erano quelle di provocare una rottura con Garibaldi. Comunque, il fallimento del tentativo di impedire a Garibaldi di passare sul continente apparve chiaro dopo la vittoria di Milazzo, che fece ancora aumentare grandemente il prestigio di Garibaldi e del suo esercito, rafforzato per l'arrivo di nuovi volontari e di armi moderne ed efficienti dall'Italia centro-settentrionale e per l'afflusso di forze locali, la cui utilizzazione diventava ora più regolare. Cavour accolse con entusiasmo la notizia della vittoria, che innalzava di fronte al mondo il nome degli italiani; ma il problema di togliere l'iniziativa a Garibaldi e ai democratici si poneva ora con più forza: la rivoluzione aveva creato o stava creando in Italia le condizioni in cui lo stesso indirizzo moderato del governo centro-settentrionale poteva essere messo in pericolo. Consapevole che era ormai impossibile impedire a Garibaldi di passare sul continente, il lO agosto Cavour scrisse a Nigra esponendo il suo piano: "Benché il nostro partito sia già preso, nell'ipotesi di un successo completo dell'impresa di Garibaldi sul Regno di Napoli, credo che sia nostro dovere di fronte al Re e all'Italia fare tutto quello che dipende da noi perché essa non si realizzi. C'è un solo modo per raggiungere questo obiettivo: far cadere il governo di Napoli prima che Garibaldi passi sul continente o se ne impadronisca. Una volta partito il Re da Napoli, prendere il governo nelle nostre mani in nome dellrdine e dell'umanità, togliendo dalle mani di Garibaldi la direzio169


ne suprema del movimento italiano. Questa operazione ardita o, se volete, audace farà lanciare alte grida in Europa, creerà serie complicazioni diplomatiche, ci spingerà forse, in un futuro più o meno lontano, a batterci con l'Austria. Ma ci salva dalla rivoluzione, conserva al movimento italiano il carattere che fa la sua gloria e la sua forza: il carattere nazionale e monarchico". Questa linea era dettata dalla necessità di impedire lo sviluppo in senso rivoluzionario del movimento di unificazione ma anche dall'impossibilità di mettersi in aperto contrasto con Garibaldi e dal riconoscimento ormai inevitabile del contributo importantissimo che era venuto dalla sua impresa alla causa italiana: "Garibaldi - egli scrisse ancora a Nigra il 9 agosto - ha un grande potere morale e un immenso prestigio non solo in Italia ma soprattutto in Europa. Voi avete torto, a mio avviso, quando dite che noi siamo collocati tra Garibaldi e l'Europa. Se domani io mi mettessi in lotta con Garibaldi, avrei probabilmente dalla mia parte la maggioranza di vecchi diplomatici, ma lbpinione pubblica sarebbe contro di me, e lpinione pubblica avrebbe ragione, perché Garibaldi ha reso all'Italia i più grandi servigi che un uomo potesse rendere: ha dato agli italiani fiducia in se stessi; ha provato all'Europa che gli italiani sanno combattere e morire sui campi di battaglia e per riconquistare una patria". Importante e sincero riconoscimento: ciò non impediva, però, che il contrasto restasse aperto in tutta la sua portata: anzi, proprio la considerazione della inevitabilità e della imminenza del crollo borbonico e del rafforzamento della guerra rivoluzionaria spingevano Cavour ad un impegno più diretto, ad una iniziativa più efficace nei confronti del Mezzogiorno. Ilpiano cavouriano di una insurrezione moderata a Napoli venne elaborato d'accordo con l'ambasciatore Villamarina e con l'ammiraglio Persano. Aveva le caratteristiche piuttosto di una congiura che di una vera e propria insurrezione; gli attori principali dovevano essere il ministro dell'Interno del nuovo governo costituzionale borbonico Liborio Romano e il generale Nunziante; più tardi, anche un membro della famiglia reale, il Conte di Siracusa, che aveva manifestato tendenze liberali, fu associato all'iniziativa. Naturalmente, le probabilità di successo erano minime, pur essendo tornati a Napoli, dopo la concessione della Costituzione, molti liberali emigrati in Piemonte dopo il '48; erano minime anche per la qualità dei protagonisti; su uno dei quali, il generale Nunziante, lo stesso Cavour diceva dì poter contare soltanto perché aveva dato ai piemontesi tanto in mano da farlo impiccare all'occorrenza. lI 16 agosto, Cavour cominciò ad avere qualche dubbio sulla riuscita, malgrado l'invio di denaro, armi, soldati e consigli, e, anticipando un atteggiamento che sarebbe stato più generale nei mesi successivi, cominciò ad attribuire alle pessime qualità dei meridionali i motivi dell'insuccesso; "Se poi la materia del Regno è talmente infracidata da non essere più suscettibile di fermento, io non 170


so che farci, e bisogna rassegnarsi al trionfo di Garibaldi o della reazione"; questi napoletani, scriveva ancora, sono abbrutiti, senza sangue nelle vene. Intanto, tra il 18 e il 19 agosto, l'esercito garibaldino attraversò lo Stretto di Messina e sbarcò in Calabria: anche qui, una popolazione lungamente oppressa insorse in armi e nuovi, grossi contingenti e i volontari si unirono alle schiere garibaldine. Il disfacimento dell'esercito borbonico fu rapidissimo: migliaia di disertori si sbandarono nella regione, i poteri locali crollarono, l'avanzata dell'esercito meridionale si svolse fulminea. Il crollo del regime era così evidente che il 7 settembre, lasciando indietro le sue truppe, Garibaldi poteva entrare quasi solo a Napoli. Così Pasquale Villari descrive la situazione della città alla vigilia dell'ingresso di Garibaldi: "La città di Napoli era ancora occupata da un numeroso esercito borbonico, diviso nei quartieri e nelle fortezze. Pure, Garibaldi era già moralmente padrone assoluto. Si vedeva dappertutto il suo ritratto. Nei vicoli di Mercato, Porto, Pendino... le mura erano letteralmente coperte di bandiere tricolori che uscivano da ogni finestra... La polizia guardava stupefatta e taceva. Le più singolari leggende si formavano sotto i nostri occhi... I giovani delle scuole secondarie andavano in giro distribuendo nei quartieri dei soldati proclami che li incitavano ad unirsi alla bandiera di Vittorio Emanuele, portata da Garibaldi". L'iniziativa presa ora da Cavour di fronte a questi avvenimenti con l'invio dell'esercito piemontese verso il Mezzogiorno è troppo complessa e ricca di significato perché la si possa considerare, come recentemente è stato fatto, soltanto come una pura e semplice controffensiva all'incalzare della rivoluzione. Essa permise di raggiungere due risultati: far compiere all'unificazione nazionale un ulteriore passo avanti con l'annessione dell'Umbria, delle Marche e del Lazio e riaffermare l'egemonia dei liberali moderati sul movimento nazionale e nel nuovo Stato che allora sorgeva. Sotto il primo aspetto, essa portò a compimento lpera di Garibaldi e servi anche a dare alle nuove conquiste maggiore solidità e definitiva sistemazione; per l'altro aspetto, essa spinse fino alle ultime conseguenze la lotta tra liberali e democratici ed eliminò, con l'annessione immediata, il governo garibaldino nell'Italia meridionale. La resistenza del movimento garibaldino all'annessione non era dettata soltanto dalla volontà di non interrompere un'opera che si considerava conclusa soltanto a Roma; ma anche e soprattutto dalla necessità per il movimento democratico di conservare le basi della propria forza, costituite nel Mezzogiorno attraverso la guerra rivoluzionaria. Se i democratici sostenevano la necessità di convocare delle assemblee nel Mezzogiorno e di decidere attraverso queste il modo dell'annessione, essi erano convinti che ciò avrebbe consentito loro di poter condurre su questa base una più energica azione per dare al nuovo Stato un'impronta diversa da quella che aveva il Regno Sardo. E certamente, il contraccolpo della rivoluzione meridionale, la profondità del 171


suo successo avevano ridato vigore a tutta la democrazia italiana, in Lombardia, in Toscana, in Emilia; nello stesso Piemonte alla minoranza democratica in lotta contro la maggioranza cavouriana nel Parlamento di Torino si aprivano per la prima volta (come è stato notato dal Passerin d'Entrèves) possibilità di gettare forti radici nel Paese. Tutto il movimento democratico nazionale, e non soltanto quello meridionale, era evidentemente impegnato in questa lotta: ed è significativo l'accorrere a Napoli dei suoi capi e dei maggiori esponenti del pensiero radicale italiano. Tuttavia il Mezzogiorno non era soltanto il terreno di manovra sul quale il movimento democratico occasionalmente combatteva l'ultima sua grande battaglia politica nazionale. A mano a mano che la rivoluzione meridionale si sviluppava, il movimento garibaldino intrecciava legami con le forze politiche unitarie e liberali esistenti nel Paese e con le popolazioni, ed in una certa misura riusciva a farsi interprete delle esigenze che queste forze esprimevano e a rendersi conto delle condizioni di fatto del Mezzogiorno assai meglio di quanto non facessero gli cx esuli o gli emissari cavouriani che con la rivoluzione non avevano contatti se non più o meno apertamente ostili. Probabilmente il frutto più maturo di questo sforzo di avvicinamento del movimento garibaldino alle esigenze del Mezzogiorno si ebbe in Sicilia con la politica di Mordini di alleanza tra democratici e autonomisti; ma in generale questo più diretto contatto con la realtà meridionale fu uno degli elementi che determinarono l'accettazione di posizioni autonomistiche da parte degli esponenti democratici che fino allora erano stati, per influenza di Mazzini, rigidamente unitari. Un rapporto nuovo si era stabilito tra governo e popolo nell'Italia meridionale: per la prima volta nella sua storia il governo aveva in Sicilia e nel Mezzogiorno l'adesione della grande maggioranza delle popolazioni. Con la sua azione personale, e con quella del suo stato maggiore politico e militare, Garibaldi aveva dato un contenuto e un indirizzo politico al loro malcontento: la bandiera dell'unità nazionale sotto Vittorio Emanuele, che egli aveva sollevata, era stata accolta dal popolo meridionale; ciò che aveva consentito di operare fin dal primo momento un taglio netto col vecchio regime. Né questo taglio netto era smentito dall'accordo con Liborio Romano al momento dell'ingresso a Napoli: l'accordo ebbe il limitato obiettivo di evitare combattimenti a Napoli, che il re aveva già abbandonato, e durò troppo poco per poter essere considerato come un vero patto politico e come l'accettazione del programma conservatore dell'ex ministro costituzionale di Francesco TI. A parte l'inconciliabiità tra governo liberale e movimento democratico, altre contraddizioni del movimento garibaldino erano inevitabili e, per il momento, insuperabili. Sbarcando in Sicilia, Garibaldi aveva emanato decreti per l'abolizione del macinato, la riduzione di alcuni dazi di consumo e la divisione dei demani; in Calabria aveva preso provvedimenti analoghi per le terre silane. L'importanza di questi provvedimenti non deve essere sopravva172


lutata; né in quanto prime manifestazioni di un programma di trasformazione della struttura economica e sociale del Mezzogiorno e di soluzione del problema della terra, né come base esclusiva della partecipazione dei contadini alla lotta antiborbonica. Non mancano gli elementi per poter affermare che, specialmente in Sicilia, sulla base dell'autonomismo si realizzò un legame politico tra una parte delle masse popolari ed il movimento liberale, e che i moti dei contadini ebbero talvolta, in virtù di questo legame, un contenuto più propriamente politico. Comunque, proprio intorno al problema della terra doveva scoppiare la contraddizione latente nella insurrezione: e quando i contadini cominciarono a dirigere contro i proprietari terrieri il loro impeto insurrezionale, il movimento garibaldino non diede una risposta diversa da quella che in seguito avrebbe dato il governo piemontese. L'episodio della repressione di Bronte non è isolato, in Sicilia o sul continente. Di fronte ai moti di questo tipo non si ebbe in genere che un atteggiamento repressivo: dalla missione di Bixio in Sicilia alla repressione dei moti di Matera del 2 settembre, alle sanguinose vendette della guardia nazionale contro i contadini del distretto di Lagonegro, ai numerosi proclami minaccianti la pena di morte contro i promotori di occupazione di terre, le manifestazioni di questo atteggiamento sono numerose e costanti. Una frattura era quindi inevitabile, era già in atto nell'estate; e però, malgrado gli episodi a cui si è fatto cenno, essa non giunse alle sue ultime conseguenze durante tutto il periodo garibaldino; cioè non giunse ad aprire una falla attraverso la quale potessero infiltrarsi, sfruttando il malcontento sociale dei contadini, ritorni di fiamma di borbonismo. La conseguenza più importante che essa ebbe fu quella di accentuare l'opposizione dei moderati napoletani e siciliani contro il governo garibaldino e favorire la loro conversione alla linea dell'annessione immediata e incondizionata. Ma, dal punto di vista generale, l'intransigente offensiva moderata contro il movimento garibaldino non era motivata soltanto - specialmente nel suo centro motore, che era Torino - dalle preoccupazioni suscitate dai moti sociali contadini e dal timore che la politica democratica potesse favorire la ripresa del fermento sociale nelle campagne: i fatti dimostravano che l'esercito meridionale e, in genere i comitati di governo creati nel Mezzogiorno, erano orientati verso la più decisa repressione di ogni moto insurrezionistico popolare che tendesse ad esorbitare dal quadro della guerra antiborbonica. Sarebbe errato, inoltre, giudicare soltanto alla luce dell'inevitabile contrasto tra contadini e proprietari sulla questione della terra e della incapacità del movimento garibaldino di elaborare un programma in base al quale si potesse in qualche modo cominciare ad affrontare il problema agrario, la possibilità che il governo garibaldino aveva di esercitare la sua influenza politica sulla più larga massa delle popolazioni meridionali e di cointeressarle in qualche misura al nuovo regime. Intanto, anche dopo le repressioni dei moti contadini in Sicilia, 173


l'adesione dei contadini alla rivoluzione continuò sia in Sicilia che nel Mezzogiorno continentale; e il fenomeno del brigantaggio, tranne qualche sporadico episodio precedente, si verificò in Puglia, in Calabria e in Basilicata soltanto dopo che il governo garibaldino fu completamente liquidato. Indubbiamente, il rapporto tra Garibaldi e le popolazioni meridionali non avrebbe potuto restare a lungo inalterato di fronte agli enormi problemi che l'amministrazione di quelle zone arretrate presentava; ma esso costituiva un punto di partenza effettivo e concreto per stabilire un legame tra il Mezzogiorno e il nuovo Stato, un patrimonio prezioso che, se non poteva cancellare le difficoltà che comportava l'instaurazione del nuovo regime, poteva tuttavia servire ad attenuarle. Senza esaminare minutamente le vicende che portarono Garibaldi ad abbandonare la resistenza alla richiesta di indire subito il plebiscito nelle due parti dell'ex Regno, si può dire che era questo il logico svolgimento e la conclusione inevitabile, dellperazione intrapresa da Cavour con l'invio dell'esercito piemontese verso il Sud. Nello stesso giorno in cui l'esercito comandato dal generale Fanti varcava i nuovi confini dello Stato pontificio, l'il settembre, Garibaldi chiedeva da Napoli al re di allontanare Cavour dal governo; Cavour a sua volta scriveva a Nigra il 22 dello stesso mese di comunicare nettamente all'imperatore che, se Garibaldi avesse perseverato sulla funesta strada che aveva imboccato, il governo sabaudo avrebbe ristabilito lrdine a Napoli e a Palermo, a costo di gettare a mare tutti i garibaldini. "I soldati di Fanti e di Gialdini - scrisse non chiedono di meglio che sbarazzare il Paese dalle camicie rosse". E più tardi a Villamarina: "L'immensa maggioranza desidera che Napoli e la Sicilia cessino di essere il ritrovo di tutti i banditi d'Europa". Ed ancora al Farmi: se i garibaldini non riconoscono senza riserve l'autorità reale, "sterminateli sino all'ultimo, buttateli tutti in mare". Il tre ottobre, subito dopo l'ultimatum lanciato dal Parlamento di Torino, Cavour scrisse al re, che attraverso le province pontificie si dirigeva verso Napoli: "Garibaldi non è più da temere, esso ha perduto ogni forza morale, e le sue forze materiali sono assai scemate... Villamarina mi ha spedito un corriere per farmi conoscere l'impotenza militare a cui egli è ridotto". Questa considerazione non corrispondeva alla realtà: nei due giorni precedenti, infatti, quelle che ora Cavour chiamava le "orde garibaldine" avevano ottenuto la più grande vittoria militare di tutta la campagna meridionale. Era vero, però, che i democratici avevano ormai perduto la loro battaglia politica. Il 21 ottobre ebbero luogo le votazioni plebiscitarie; poco dopo fu affidata al Farini la luogotenenza di Napoli ed a Montezemolo quella di Palermo ed il 9 novembre, alle due dopo mezzanotte, Garibaldi partì da Napoli, con un gruppo di amici, alla volta di Caprera: "Vidi Garibaldi - scrisse il Bandi - pochi momenti prima che partisse: era calmo e sorridente secondo il solito, ma qual174


che suo detto rivelò ciò che ognuno di noi sentiva in cuor suo... In quellbra memoranda, egli m'apparve più grande che mai: Garibaldi, tornato povero e privo dbgni autorità, simile ai grandi del tempo antico, umili dopo i trionfi e contenti della propria gloria, era più nobile e più ammirando del capo d'un esercito... Lo vedemmo imbarcare e rimanemmo a contemplano con gli occhi pieni dì lacrime: ritto sulla barca, ed agitante il fazzoletto per salutarci ancora, mentre la robusta voga di sei marinai lo allontanava dalla spiaggia... Il piroscafo che lo accolse per trasportarlo a Caprera... fu salutato dalla salve del naviglio da guerra inglese ancorato nel golfo; ma le navi regie italiane non fecero mostra di accorgersi della partenza dell'uomo che aveva liberata mezza Italia". Nel momento in cui era stata avviata in Sicilia la campagna per l'annessione incondizionata, Cavour e i rappresentanti del governo piemontese avevano sottolineato la necessità di tener conto, una volta realizzata l'unità, delle esigenze autonomistiche dell'isola e delle altre regioni italiane. Il 30 agosto era stata diffusa in Sicilia una dichiarazione ufficiale di Farmi, ministro dell'Interno del Regno sardo, in cui era enunciato esplicitamente il proposito di dare alle regioni alcuni poteri amministrativi e di non adottare per l'Italia il sistema di amministrazione accentrata in vigore nel Regno subalpino. Questo programma fu il terreno d'incontro tra gli autonomisti siciliani e il governo piemontese ed ebbe non piccola influenza nel determinare la conversione di numerosi autonomisti alla linea politica che Cavour indicava. Emerico Amari, uno dei più autorevoli autonomisti siciliani, "fondò la sua campagna per il plebiscito - scrive il Mack Smith - sull'ipotesi che il progetto di Farmi per organizzare distinte e autonome regioni in Italia fosse ormai una acquisizione sicura". Ancora alcuni mesi dopo, quando Cavour aveva già conseguito il completo dominio della situazione ed i suoi rappresentanti erano impegnati nell'amministrazione delle nuove province, Farmi ripeteva di ritenere necessario un sistema di largo decentramento e di autonomia amministrativa: "questa libertà sopra ogni altra cosa cara ai popoli è al nostro strettamente necessaria per servire di esca e di sfogo e di compenso allbperosità italiana solita ad esercitarsi in tanti separati Stati, e per affezionarli in questo modo al governo centrale". E ancora il 15 gennaio 1861 lo stesso Cavour scrisse al luogotenente di Palermo: "Io non ho il menomo dubbio che quando siano sedati i sommovimenti che alcuni mestatori s'ingegnano di suscitare rinfocolando le ire personali, sarà facilissimo di mettersi d'accordo sopra uno schema dbrganizzazione che lasci al potere centrale la forza necessaria per dar termine alla grande opera del riscatto nazionale, e conceda un vero self-government alle regioni e alle province". Autonomia amministrativa delle regioni nel quadro dell'unità politica e legislativa dello Stato e rispetto del sistema liberale e costituzionale: sono questi i cardini del programma cavouriano di fronte al problema dell'unità 175


nazionale. A Vincenzo Salvagnoli che alla fine di settembre suggeriva la via della dittatura regia da contrapporre a quella di Garibaldi, Cavour rispondeva di ritenere titolo di gloria per l'Italia di "aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà all'indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali di un Cromwell, ma svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario". Evidentemente queste dichiarazioni corrispondevano all'ispirazione ideale del liberalismo cavouriano, il cui modello era lbrdinamento politico ed amministrativo inglese, fondato su larghe autonomie locali. Ma, nei fatti, gli incitamenti all'uso della forza, alla repressione, all'accentramento si fanno sempre più frequenti da parte del governo e del partito moderato; nessuna transazione, né con gli autonomisti napoletani, né con quelli siciliani, ai quali ultimi non si potevano certo rimproverare simpatie per il regime borbonico: "Si griderà molto meno contro di voi - consiglia Cavour al luogotenente di Napoli - quando vi si vedrà armato di un frustino menando botte a destra e a manca": la maggior parte degli esuli napoletani in Piemonte insiste sulla necessità di reprimere e di accentrare. Una logica inesorabile sembra trascinare il governo sulla strada del centralismo. Il Farmi tenta di avviare una politica di compromesso con forze ed aspirazioni locali, in base alla considerazione che "non si può tagliar corto e profondo nella piaga in un giorno" e mantenendo ferma, naturalmente, l'intransigenza antidemocratica; ma il tentativo viene aspramente liquidato dalla pressione dei liberali moderati di Torino e di Napoli. Un contrasto si delinea perfino tra Cavour e Vittorio Emanuele, perché questi è disposto ad accogliere alcune richieste dei democratici (come quella di lasciare Mordini al governo della Sicilia e di concedere l'amnistia a Mazzini): Cavour lo considera vittima degli intrighi dei garibaldini e minaccia ripetutamente le dimissioni. Ai primi di gennaio del '61, Farmi annuncia "razzie", come egli le chiama, contro i borbonici recalcitranti e contro i democratici e chiede ripetutamente truppe per prevenire o per reprimere; ma ciò non impedisce che anche questa affermazione di severità e di intransigenza sbocchi in compromessi con gli elementi più servili del passato regime che trovano modo di inserirsi nella trama del nuovo potere. Questa contraddizione tra indirizzo programmatico e concreta costruzione politica fu anche la conseguenza della lotta a fondo condotta contro il governo garibaldino e il partito d'azione. Una volta strappata l'iniziativa al movimento rivoluzionario, il governo non poté più contare sull'embrionale sistema di rapporti che il democratismo garibaldino aveva creato tra il movimento nazionale unitario e l'Italia meridionale. L'atteggiamento del governo verso l'esercito dei volontari - che suscitò poi uno dei più violenti e drammatici dibattiti della nostra storia parlamentare - non fu che un aspetto di quest'opera distruttiva. "Spazzate senza pietà quelle stalle ripiene del letame ber176


taniano, confortiano e simili" scrisse Cavour a Farmi ai primi di novembre del '60. Il pericolo garibaldino e mazziniano fu sentito e fatto sentire, nei mesi successivi alla liberazione, finché il brigantaggio non dilagò nelle province, assai più che non il pericolo di un tentativo di rivincita dei Borboni. Anche l'ostilità verso i municipalisti conservatori e nostalgici fu assai minore che non quella contro i democratici: ciò che costituì un elemento tutt'altro che secondario nel fare acquistare ai primi, ai municipalisti, l'influenza che essi ebbero e nell'agevolare di fatto la loro campagna antipiemontese, nella quale non mancavano motivi ed obiettivi sostanzialmente reazionari e antiunitari. L'ultimo tentativo di ripresa delle tradizioni ideali e politiche del liberalismo italiano di fronte alla questione dell'ordinamento istituzionale del nuovo Stato fu il progetto di legge sul decentramento amministrativo presentato dal Minghetti alla Camera dei deputati il 13 marzo 1861. Anche il progetto del Minghetti fu respinto: esso non corrispondeva più al concreto orientamento delle forze che dirigevano il Paese. La lotta contro il decentramento giunse paradossalmente ad identificarsi con la lotta contro il movimento democratico: i più accesi sostenitori della campagna antiregionalista, come il La Farina e il Paternostro, evocavano con veemenza lo spettro del disordine e dell'anarchia democratica di fronte alla prospettiva del decentramento. Questi "abbaiatori" - come li chiamò il Petruccelli - erano la punta più avanzata e provocatoria di quella corrente antiautonomistica che era ormai divenuta dominante nella Destra; l'indirizzo accentratore si è affermato, nel momento della nascita dello Stato italiano, anche in opposizione alle correnti democratiche. I fermenti autocritici che sorgeranno poi in seno alla Destra dopo il '60 e gli orientamenti riformistici di alcuni gruppi conservatori - che costituiranno un fenomeno caratteristico dei primi decenni della vita unitaria - hanno in parte la loro origine nel rovesciamento che subì nel 1860 il programma politico dei liberali, a contatto con i problemi dell'unificazione. Si spiega anche cosi perché, negli anni posteriori al '60, la polemica meridionalista sia stata aperta ed avviata da un gruppo di conservatori, ideologicamente e politicamente legati alla Destra; e perché questo gruppo, muovendo da una posizione critica nei confronti del "formalismo liberale" delle istituzioni statali, abbia rivolto la sua attenzione alla realtà storica, politica e sociale del Mezzogiorno: proprio l'incontro con questa realtà aveva, infatti, rivelato nel '60 i nodi più complessi e difficili del processo di rinnovamento della vita nazionale e i punti di maggiore debolezza del nuovo Stato e della sua classe dirigente. Si pensi alle famose pagine conclusive dell'inchiesta di Sonnino sulla Sicilia; probabilmente in questa luce è possibile comprendere come mai un conservatore - il quale, del resto, possedeva un metodo di indagine e di osservazione sperimentale e positiva che mancava alla generazione dei moderati del 1948 - possa essere giunto a quella forza di denuncia: "In Sicilia colle nostre istituzioni, model177


late sopra un formalismo liberale anziché ispirate a un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe dirigente opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione di fatto che già prima esisteva, coll'accaparrarsi tutti i poteri mediante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla, che, a qualunque eccesso spinga noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poiché la legalità l'ha in mano la classe che domina". Le enormi difficoltà incontrate di fronte ai problemi dell'Italia meridionale contribuirono ad allontanare i moderati da quei principi di libertà e di governo parlamentare la cui adozione aveva reso possibile la loro egemonia nell'Italia settentrionale e centrale. Difficoltà impreviste, per la quasi nessuna conoscenza che il governo piemontese e i suoi rappresentanti avevano del Mezzogiorno, ma in parte anche provocate dalla stessa politica piemontese. Cavour era convinto che, una volta sconfitto il pericolo di una ripresa del repubblicanesimo mazziniano, il metodo della libertà avrebbe finito col ricomporre, su basi nuove, il tessuto politico lacerato e col sanare le ferite che l'anno conclusivo del Risorgimento aveva aperto. I mali del Mezzogiorno erano, però, più profondi di quelli che apparivano attraverso la diagnosi che ne avevano data gli stessi esuli meridionali in Piemonte: tanto più tragiche ed insanabili dovevano essere quindi le conseguenze negative della violenta liquidazione e rottura dei rapporti che il movimento garibaldino aveva istituito con le popolazioni meridionali. I moderati napoletani esuli in Piemonte dopo la rivoluzione del '48 avevano concentrato la loro attenzione e quella dell'opinione pubblica liberale sullo sfacelo morale e politico della classe dirigente borbonica, ma, tranne qualche eccezione (come quella rappresentata dalla prime Lettere meridionali di Pasquale Villari) erano rimasti assai lontani dalla analisi della realtà meridionale nel suo complesso, dei rapporti sociali e civili esistenti nel Mezzogiorno, delle sue condizioni ed esigenze economiche. Il ritorno degli esuli dal Piemonte non fece quindi avanzare di molto la conoscenza delle reali condizioni del Mezzogiorno. Una valutazione più concreta dei caratteri specifici della situazione meridionale cominciò ad essere fatta soltanto qualche anno più tardi; intanto, al momento dell'unificazione, non solo non si ebbe la consapevolezza della realtà naturale ed economica dell'Italia meridionale e si continuò per tanto tempo a favoleggiare, com'è noto, della sua grande ricchezza naturale, ma neanche si ebbe una chiara visione delle caratteristiche e possibilità di sviluppo della sua vita politica e si oscillò tra la fiducia ingenua nell'influenza che un gruppo di liberali napoletani aveva o poteva acquistare nel Paese (gruppo che invece tendeva a rinchiudersi in un aristocratico isolamento ed a formare quel piccolo, ristretto e diffidente partito di governo a cui fu dato il nome di "consorteria") e la negazione della capacità del Mezzogiorno di portarsi ad un più elevato e moderno livello di coscienza politica. 178


L'adesione data al Piemonte con il plebiscito aveva avuto un carattere tutto particolare e intimamente contraddittorio: era stata determinata, in grandissima parte, proprio da quelle forze radicali alle quali il governo toglieva ora ogni potere e possibilità di esprimersi e di far sentire le proprie esigenze ed aspirazioni. Quella che il Farmi chiamava "la superstizione garibaldina delle moltitudini" era stata un elemento importante di avvicinamento del Mezzogiorno all'idea nazionale. Proprio alla vigilia del plebiscito, un conservatore come Ruggero Bonghi riconosceva che se il Mezzogiorno aveva cominciato a farsi un concetto dell'Italia e dell'indipendenza nazionale era meritò esclusivo di Garibaldi e del suo immenso prestigio. E più puntualmente Pasquale Stanislao Mancini: "Se ora il popoio accetta l'unione col Piemonte, è perché Garibaldi ha voluto cosi". Si confronti, dunque, la situazione dell'Italia centrale al momento dell'annessione, con quella del Mezzogiorno e si vedrà subito che le differenze profonde che esse presentano non riguardano soltanto il grado di maggiore o minore maturità di forze politiche o il carattere più o meno arretrato ed elementare dei contrasti sociali, ma riguardano anche la continuità tra le forze che promuovono l'unione nazionale e quelle che poi governano o determinano l'indirizzo di governo; si vedrà che nel Mezzogiorno il fatto più rilevante è proprio la mancanza di questa continuità. Era quindi inevitabile che la validità del plebiscito venisse rimessa quasi subito in discussione e non già per l'atmosfera di intimidazione in cui si votò o per la mancata libertà reale di scelta tra Vittorio Emanuele o Francesco TI, ma perché, ponendosi il dilemma appunto in questi termini, si era lasciata fuori la parte veramente importante dei problemi intorno ai quali si era accesa la lotta politica nel Mezzogiorno e si erano messi a tacere partiti e correnti che erano a più stretto contatto con la realtà meridionale. In queste condizioni, il governo liberale moderato a Napoli ed a Palermo era condannato all'isolamento, che doveva rendere estremamente difficile la ricerca di una via per amministrare le regioni liberate; certo assai più difficile di quanto non era stata alcuni mesi prima per il governo garibaldino. Ed era quasi naturale, allora, che si tendesse a riportare esclusivamente all'arretratezza, alla corruzione, all'ignoranza delle popolazioni meridionali la causa prima della impossibilità di far funzionare in modo normale le leve del governo e di applicare il sistema della libertà. "Altro, che Italia - scriveva Farmi al Cavour - questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile". E più tardi, da Napoli: "Questa moltitudine brulica come i vermi nel corpo marcio dello Stato; che Italia, che libertà! Ozio e maccheroni... Se il parlamento nazionale non instaura con la sua grande autorità morale un poco di autorità effettiva, qua, credete a me, l'annessione di Napoli diviene la cancrena del rimanente Stato". Era una opinione tutt'altro che isolata, tranne che per l'appello al Parlamento che diventava sempre meno attuale per lo stesso Farmi: al contrario, 179


non c'era una voce, tra i moderati piemontesi o napoletani, che fosse discordante da questa e che non tendesse ad affermare a tutte lettere la ingovernabilità delle province meridionali. D'Azeglio giungeva ad affermare che l'unione col Mezzogiorno gli dava l'impressione di "andare a letto con un vaioloso"; l'atteggiamento del re e dei suoi ufficiali che, secondo la testimonianza del Visconti Venosta, "non riuscivano a comportarsi e a parlare diversamente dal manico di uno scudiscio", contribuiva ad aggravare le già drammatiche difficoltà. La frattura tra rivoluzione meridionale e moderatismo rese assai più problematico l'avvicinamento del Mezzogiorno allo Stato nazionale ed alle nuove istituzioni. Ed a questa frattura contribuirono lrientamento oligarchico del liberalismo italiano (che poi, sul piano storico, metterà in rilievo la scarsa partecipazione popolare al Risorgimento dopo avere operato con ogni mezzo per impedirla e per tenere in posizione subalterna non solo le masse contadine ma anche strati importanti di piccola e media borghesia), le contraddizioni del movimento garibaldino e l'arretratezza politico sociale delle regioni liberate che rendeva assai difficile far convergere verso un comune obiettivo di fondo, tra inevitabili e necessarie differenze politiche, forze sociali così nettamente contrastanti come quelle dei contadini esasperati dalla miseria e della borghesia incapace di sottrarsi radicalmente alla pressione politica e sociale della aristocrazia terriera. Un problema complesso è quello del rapporto tra il nuovo governo e le correnti autonomistiche napoletane, che si fecero ad un certo momento portavoce del malcontento antipiemontese; certamente esse, come è stato rilevato dal Passerin d'Entrèves, con le formule del gran dualismo, delrispetto delle tradizioni, delle leggi e degli istituti locali esprimevano la tendenza a lasciare sostanzialmente le cose come erano, a non rinnovare nulla, a conservare il borbonismo senza i Borboni; soprattutto poi, il limite dell'autonomismo napoletano era la sua incapacità di guardare al di là degli interessi, delle tradizioni e dei vecchi privilegi dell'ex capitale; il loro autonomismo era in gran parte municipale, napoletanistico è proprio in questo modo, attraverso questa caratteristica, esse si rivelano espressione di quel vecchio ceto politico napoletano che era sempre stato a mezza strada tra borbonismo e liberalismo. Al nuovo governo, dunque, non era più possibile in queste condizioni, fare appello al Mezzogiorno affinché i bisogni e le speranze da cui era nata la ribellione contro i Borbonici chiarissero ed acquistassero consistenza sul piano politico; lo impediva la lotta contro ì democratici, l'isolamento dei liberali "piemontesizzati", la tendenza degli autonomisti napoletani a confondere la propria voce con quella dei nemici dello Stato unitario; e intanto, nelle province, tornava a sollevarsi la bandiera dei Borboni e si riapriva, non più nel quadro di una rivoluzione democratica ma con un significato politico implicitamente o esplicitamente reazionario, una guerra sociale.

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Un compito, dunque, ingrato, difficile, doloroso spettava ora al nuovo governo nazionale ed a Cavour, che indicava una rlinea precisa e senza equivoci; "imporre l'unità alla parte più corrotta e più debole dell'Italia. Sui mezzi, non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e, se questa non basta, la fisica". Governo e moderati ebbero la precisa consapevolezza che Napoli ormai costituiva il banco di prova della unità nazionale e che il superamento delle difficoltà che la situazione meridionale presentava avrebbe dato la misura della forza ideale e politica del nuovo Stato. Ma ormai non si trattava più soltanto di imporre, com'era nelle intenzioni e nella visione dì Cavour, una rivoluzione dall'alto, un nuovo e più moderno sistema politico e amministrativo e di adeguare il Mezzogiorno al resto del Paese vincendo con qualunque mezzo le resistenze che la società meridionale poteva opporre. Ben presto, il fondamento stesso di questa opera apparve in pericolo. Una nuova guerra di riconquista si doveva aprire contro il brigantaggio e i focolai di reazione che si erano riaccesi nelle province e che furono spenti con gli stati d'assedio, violenze, esecuzioni sommarie, soppressioni di garanzie e di libertà costituzionali. Il peso più grave e diretto di questa operazione ricadeva sulle regioni meridionali, le quali dovevano pagare a caro prezzo la conquista storica dell'unità nazionale; ma il carattere che aveva avuto la soluzione della questione napoletana finì col gravare su tutta la vita politica nazionale e col rendere più incerto il processo di avvicinamento tra governo e Paese, più difficile e drammatico il cammino del popoio italiano verso la democrazia, cammino al quale il Risorgimento aveva dato il primo avvio. A conclusione di queste vicende, che liquidavano per sempre nell'Italia meridionale le velleità di rinascita di un regime sul quale ricadeva in parte la responsabilità dell'arretratezza di queste regioni, il problema del Mezzogiorno restava ancora aperto e si riproponeva in termini nuovi. Quella che allora si definiva la "questione napoletana" e che, nell'anno conclusivo del Risorgimento, i moderati identificavano con problemi di "risanamento" politico e morale - che era, poi, un modo particolare di avvertire le difficoltà di unificazione di regioni a diverso livello economico e civile - doveva ripresentarsi con un significato assai più ampio e svolgersi, nel corso della storia unitaria, anche come contrasto tra le esigenze di rinnovamento del Mezzogiorno e la linea generale di sviluppo sulla quale concretamente si indirizzava la vita economica e politica.

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queste istituzioni n. 158-159 luglio-dicembre 2010

ollversaziolle sul Sud Italia a 10 auui dall'Unità ilaziollale. Sette domande a Francesco Pigliaril e Gianfranoo Viesti A cura di Claudia Lopedote

1. Il teorema Mezzogiorno La realtà produttiva del Mezzogiorno è più differenziata che in passato. Soprattutto, è stata evidenziata una economia a macchia di leopardo, con distretti industriali in piena espansione (Abruzzo, Molise e Puglia, Basilicata e aree della Campania e della Calabria, ad esempio). Cui si sommano consistenti dfferenze regionali nei livelli del PIL pro capite. Lo stesso discorso vale per le emergenze variamente rappresentate dalla stampa come prioritarie (r,fiuti, criminalità, etc.). Ragione per non considerare più la questione meridionale un tema omogeneo che richiede risposte e strumenti comuni? Per abolire "il teorema Mezzogiorno" e pensare a nuove "narrazioni del Sud"? Oppure esistono "connotati permanenti"? GV: La questione omogeneitIdisomogeneità è un falso conffitto. È stato opportuno da un punto di vista culturale quello che è avvenuto negli ultimi 20 anni, ovvero la capacità di analizzare non soltanto il Mezzogiorno nel suo insieme, ma anche le parti che lo compongono. Questa opportunità non deve trascurare l'esigenza di avere uno sguardo d'insieme. Bisogna fare l'uno e l'altro, perché ci sono molti aspetti rispetto ai quali prevale nettamente la categoria delln'iogeneità. Questi sono, volendo schematizzare, prevalentemente gli aspetti problematici. E cioè: tutte le Regioni del Mezzogiorno sono caratterizzate da una condizione comune, simile, per quanto riguarda i livelli di redditi e di sviluppo (non vi sono grandi differenze), la condizione molto difficile del mercato del lavoro, e dunque la mancanza di occupazione che poi è la vera causa della differenza di reddito, una condizione insufficiente e carente sul piano quantitativo e su quello qualitativo dei servizi pubblici; sono accomunate da una peggiore condizione di contesto in termini di dotazione di infrastrutture immateriali e materiali rispetto alle altre Regioni del Paese. 182


Tutti questi elementi di omogeneità sono importanti per una diagnosi comune di quel territorio al quale guardare come un insieme. Ci sono tuttavia elementi di diversità. Volendo anche qui schematizzare, le diversità attengono alle potenzialità. Se le Regioni e i territori del Sud condividono per molti versi problemi simili, hanno però potenzialità assai diverse, nel senso che ci sono tanti Mezzogiorni, quello urbano e quello interno, c'è un Mezzogiorno con segni di industrializzazione ed un Mezzogiorno non industrializzato, quello fortemente occupato dalla criminalità organizzata e quello che non ne è afffitto, c'è un Mezzogiorno che ha avuto un fortissimo sviluppo del turismo e del terziario ed un Mezzogiorno nel quale tale sviluppo non c'è stato. Allora, guardare alle somiglianze tra territori è tanto importante quanto guardare alle differenze, perché è da qui che possono nascere percorsi di sviluppo differenziati. La mia convinzione è che, se la diagnosi è per molti versi simile, la ricetta è per molti versi diversa, e ci sono da immaginare strade molto differenziate tra le diverse aree. Un conto è Napoli che conserva una capacità industriale e di ricerca molto forte, un conto è la Sicilia. Un conto sono le zone adriatiche ad imprenditorialità diffusa, un conto è il basso livello di imprenditorialità siciliano. Bisogna avere la capacità di guardare contemporaneamente questa situazione con il macroscopio e con il microscopio. FP: Esistono eccome "connotati permanenti". Sarebbe assurdo pretendere che in un'area così vasta tutto sia omogeneo. Non lo è. Ci sono Regioni con enormi problemi di criminalità organizzata, e Regioni in cui le cose vanno molto meglio. Questa differenza è ben rivelata dai dati aggregati: dove c'è una diffusa criminalità organizzata, il distacco del PIL pro-capite rispetto alla media del centro-Nord aumenta di circa dieci punti percentuali. Ma i distacchi dentro il Sud sono quasi sempre molto inferiori al distacco del Sud nel suo complesso nei confronti del centro-Nord. Inoltre, come ho scritto in un recente articolo, l'analisi delle dinamiche economiche registrate in questi anni mostrano che la dispersione all'interno del Mezzogiorno è diminuita, non aumentata. Se aveva senso parlare di Mezzogiorno qualche anno fa, ha forse ancora più senso continuare a farlo ora. Scendendo dal livello aggregato a quello più settoriale e aneddotico, credo sia utile ricordare che la Sardegna, che spesso è percepita, abbastanza giustamente, come una Regione lontana da molti dei principali problemi del Mezzogiorno continentale, è però caratterizzata da dati molto "meridionali" in ambiti importanti come quello per esempio dell'istruzione. La Sardegna ha uno dei più alti indici di dispersione scolastica e uno dei peggiori indici di apprendimento scolastico nei test OcsE e INVALSI. Insomma, è giusto raccontare le differenze tra i singoli alberi, ma tenendo in mente che fanno parte di una foresta che ha alcune ben definite caratteristiche. 183


2. Confini. Mediterraneo da scoprire Unione europea e Mezzogiorno come metafora di relazioni di un luogo. La geopolitica delle Regioni meridionali e la vocazione dei loro territori all'apertura, all'accoglienza verso il Mediterraneo, il Levante, sono elementi che andrebbero fatti valere in ambito comunitario, anche nella prospettiva dell'allargamento? In che modo? A talfine quanto conta la questione infrastrutturale intesa non soltanto come realizzazione di grandi opere ma come fabbisogno e dotazione di piattaforme logistiche e intermodali? Quali sono i possibili altri alleati in Europa? E qual è ancora la spinta propulsiva della politica di coesione? GV: La geopolitica è molto interessante, anche se va vista nel tempo lungo, come condizione di lungo periodo. E un aspetto molto importante perché il Mezzogiorno è il Mezzogiorno anche perché, fino alla fine degli anni ottanta, è stato un territorio senza confini, con a destra la cortina di ferro, a sud la distanza con i Paesi del Nord Africa, ad ovest il mare, ed aveva un unico sbocco al nord, col quale si rapportava e rappresentava. E dunque il suo sviluppo economico è stato condizionato da questo dualismo. Nel momento in cui c'è stata l'unificazione del mercato nazionale senza avere vicini con cui integrarsi e commerciare, la struttura economica nazionale si è delineata come una struttura dualistica. Non è un fatto solo italiano. Ovunque nel mondo le aree isolate sono più deboli, soffrono dell'integrazione con altre aree. In Europa non c'è nessuna area forte che non confini con altre aree forti. La geopolitica ed i confini contano moltissimo per lo sviluppo economico. Da vent'anni il quadro sta cambiando. Molto più a est che a sud. Con l'Est si stanno realizzando molte più relazioni interessanti; purtroppo, non interessantissime, perché il Sud è sfortunato nell'avere vicino l'Est più povero ed economicamente in difficoltà. Le aree costiere sono deboli, chiuse da grandi catene montuose, cosicché è molto difficile avere l'Albania e il Montenegro come frontiere di un Est assai più dinamico ed interessante. Il corridoio 8 (ndr: uno dei dieci corridoi paneuropei, progettato nel 1991 per collegare i porti di Bari e Brindisi con Albania, Bulgaria e IVlacedonia, attraverso reti stradali eferroviarie), che è più una descrizione immaginifica che un discorso reale, non è stato mai realizzato, non esiste un corridoio di penetrazione. Dunque, la penetrazione si è fermata alle aree costiere. In Romania, ad esempio, pur essendo in linea d'aria molto vicina al Sud, si arriva in maniera molto più semplice e diretta dal Triveneto. Su questo versante non è cambiato moltissimo. E cambiato anche relativamente poco e ancora meno dal versante sud dell'integrazione con il Nord Africa. Questo perché in realtà la geografia è una cosa, la geoeconomia è un'altra. Le forme di integrazione economica sono limitatissime. Un po' è stato fatto nei trasporti, molto poco negli scambi commerciali, pochissimo nell'agricoltura. Tutto questo ci dice che il cambiamento nella 184


geopolitica è un fatto positivo, può produrre conseguenze importanti col tempo, la proiezione mediterranea del Mezzogiorno è una cosa importante ma da non enfatizzare o mitizzare. Richiede un'azione di lunga iena per essere concretizzata in relazioni socio-economiche e culturali spesse. Mai potrà tuttavia produrre relazioni spesse come quelle tra il nord-ovest italiano con la Francia, la Germania e la Svizzera. Tra tutti i temi, quello agricolo - che però è molto indietro - e quello trasportistico/logistico sono i meno irrealistici, anche perché per fortuna l'area del Nord Africa cresce e si modernizza anche vivacemente. Dunque, avere una componente di quadro mediterraneo quando si ragiona del futuro è una cosa che serve, è un elemento di scenario interessante. Per farle valere in ambito europeo, c'è tutto da costruire. I forum del Mediterraneo si fanno sempre a Milano. Gli aerei che collegano le città del Nord Africa partono da Roma e da Milano, fatta eccezione per Palermo-Tunisi. FP: Credo davvero che il problema sia altrove. È ovvio che il Mezzogiorno ha un ruolo importante da giocare nelle relazioni euro-mediterranee. Il problema è se oggi è in grado di farlo. La questione infrastrutturale deve fare i conti con i dati di Golden e di Picci del 2005. La spesa pubblica nel Mezzogiorno è troppo spesso occasione di attività di rent-seeking se non peggio, per i motivi che ho citato prima. Per dotare il Mezzogiorno di infrastrutture davvero utili, va prima affrontato quel problema di qualità istituzionale. Di piattaforme logistiche perfettamente inutili posso citarne un certo numero, senza troppi sforzi.

3. Non c'è Sud senza Nord. Non c'è Nord senza Sud? Mentre un sondaggio Civicom-Demoskopea (luglio 2010) rivela che il 95% degli italiani oggi voterebbe per l'Italia unita, esplode una pubblicistica antimeridionalista. Che cosa è cambiato? Ha smesso difunzionare il meccanismo di sviluppo sul quale - da una parte - si è retto il Nord con le sue industrie e la manodopera del Sud a basso costo e con i servizi pubblici e privati (sanità, università, sistema abitativo) verso i quali sempre più massicciamente si rivolge la domanda pagante degli abitanti del Sud, e - dall'altra - ha prosperato una classe diri gente zpertrofica, con le sue clientele e i giri malavitosi? La metamorfosi di una ampia parte del Nord produttivo, oramai orientata verso mercati esteri, è la ragione del successo della Lega e della scomparsa della questione meridionale dall'agenda politica e civile? E la questione delle classi dirigenti meridionali è davvero un'emergenza in termini di capitale sociale, civicness, o il caso della Puglia e il recente affollato corteo antimafia a Reggio Calabria dimostrano che non è così? 185


GV: La questione del federalismo fiscale si accompagna anche ad un mutamento del dibattito politico e culturale sul Mezzogiorno nel Paese. Non è casuale la corrispondenza temporale tra questi due aspetti, e cioè la discussione sui soldi, molto concreta, e quella sul Sud, molto astratta. Nel corso dell'ultimo triennio, in particolare, è venuta affermandosi fortissima una visione estremamente semplificata del Mezzogiorno che io chiamo il "teorema Mezzogiorno", veicolata univocamente dalla stampa e dalla televisione nazionali, e fatta proprio da molti politici e anche da molti al Sud. Il teorema Mezzogiorno dice che da sempre ingenti risorse sono state trasferite al Sud, ma queste risorse sono sempre state sistematicamente sprecate, perché le classi dirigenti del Mezzogiorno sono inette, corrotte, incapaci. E quindi, la conclusione di questo teorema è che, finché le classi dirigenti locali non cambiano, meno si fa al Sud e meglio è. Meno risorse si trasferiscono, meglio è; meno politiche di sviluppo si fanno, meglio è. Nella sua versione più estrema, alcuni sostengono che dato che le classi dirigenti meridionali sono espressione di un territorio il cui capitale sociale è molto basso, è difficile che si possano mai avere classi dirigenti migliori nel Mezzogiorno. Senza soluzione, quindi. E la trappola del sottosviluppo. Perché non è casuale che questo tipo di narrazione coincida col federalismo fiscale? Perché questo fornisce un alibi al federalismo fiscale e fornisce la spiegazione del fatto che nell'ultimo biennio, per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra, un governo nazionale, l'attuale, abbia fatto una politica redistributiva per territori, togliendo cioè risorse al Mezzogiorno e destinandole ad altri usi. Fornisce un alibi perché la spiegazione di queste decisioni è quella che comunque queste risorse sarebbero state sprecate, e allora è meglio utilizzarle per altri fini. Il bilancio di questa situazione è estremamente negativo e pericoloso, perché oggi è difficile discutere del Mezzogiorno analizzandone i fatti, cogliendone i fallimenti ed i successi, capirne le diversità. Tutto è accomunato in una notte nera in cui tutte le vacche sono nere, con la conseguenza che nella comunità nazionale è maturato un senso profondo di insofferenza, alterità e disinteresse rispetto al Mezzogiorno. Per la prima volta dal dopoguerra, non si discute più di che cosa fare, ma di come non fare. Si tende a derubricare questi temi come questioni che riguardano la sola comunità meridionale e non anche la comunità nazionale. FP: Francamente, la crescente impazienza di molti cittadini del Nord verso la situazione economica del Sud è facilmente comprensibile: basta guardare la situazione della finanza pubblica italiana e fare due conti per capire che la persistente arretratezza economica del Mezzogiorno ha un impatto enorme sui conti dell'intera nazione. Ogni anno il Sud riceve dal resto del Paese oltre 50 miliardi di euro, pari al 3,3% del PIL nazionale, al 16% di quello meridionale. Se le Regioni meri-


dionali formassero oggi uno Stato sovrano sarebbero al disastro finanziario, in una situazione molto peggiore di quella greca. Da quarant'anni, il prodotto di un abitante meridionale è in media inferiore di 40 punti percentuali rispetto a quello di un cittadino del centro-Nord. Un divario così grande e persistente è l'indizio di uno spreco di risorse (e di un potenziale di crescita per l'intero Paese) unico nel mondo sviluppato. Se i moltissimi soldi spesi per lo sviluppo del Mezzogiorno lo avessero messo in grado di finanziare i servizi pubblici di cui oggi godono i suoi cittadini, non solo saremmo tutti più ricchi: potremmo anche usare una buona parte degli oltre 50 miliardi che trasferiamo al Sud per ridurre il debito pubblico nazionale. In pochi anni l'Italia diventerebbe un Paese virtuoso anche per i severi standard tedeschi. Sospetto che di Mezzogiorno si parli meno di prima perché siamo di fronte a questo evidente fallimento politico-economico. Si sono fatti mille tentativi, e gran parte di questi sono stati resi inefficaci da diffusi comportamenti di renr-seeking. Chi ha voglia di parlare di Mezzogiorno, dopo tutti questi anni di crescente frustrazione? Per ricominciare a parlarne seriamente, serve riprendere l'analisi del problema, aumentare la capacità di leggerne le caratteristiche principali con gli strumenti della ricerca. Se oggi uno facesse la rassegna delle ipotesi sviluppate nei decenni sulla questione meridionale, ho l'impressione che si troverebbe di fronte a molte ipotesi ad hoc, a modelli internamente incoerenti, a intuizioni appena accennate. Purtroppo, c'è ancora molto da fare. Per esempio, negli anni novanta c'è stato un importante tentativo di cambiare la politica economica a favore del Sud. Si tratta della così detta Nuova Politica Regionale (NPR), che si è basata su un'analisi seria dei problemi ritenuti all'origine dell'arretratezza relativa del Sud. Se leggete quei documenti, vedrete quanti sforzi sono stati fatti per capire la malattia e per disegnare una cura adeguata. Quella medicina, quella politica, poi però non ha funzionato granché e oggi di fatto è stata abbandonata. Problema: abbiamo capito perché non ha ftinzionato? Abbiamo capito come andrebbe modificata per funzionare? Risposta: no e no. Punto. E questo è decisamente grave. Oindi, serve riprendere la ricerca e provare a rispondere a domande come queste. L'unico sviluppo recente è la ripresa dell'ipotesi di Putnam sulla persistenza dei divari di civicness, sulla loro origine medioevale, sull'impatto di questa persistente differenza fattoriale sulle performance territoriali attuali attraverso il funzionamento delle "istituzioni locali". Guiso, Sapienza e Zingales hanno scritto un articolo bellissimo (Long term persistence, Eui Working Paper 2008/30) nel quale testano, con il metodo controfattuale, l'ipotesi di Putnam e trovano buona evidenza a sostegno di quest'ultima. 187


La mia impressione è che oggi ci sia molta e convincente evidenza che una delle proposizioni di Putnam ha colto nel segno: antiche vicende storiche "sfortunate" hanno consentito alle popolazioni del Sud di accumulare, nel tempo, un minor senso di civicness rispetto ad altri territori nazionali. 5u questo avrei pochi dubbi. E chi invece ha dubbi, dovrebbe produrre test di ipotesi rigorosi, capaci di sfidare scientificamente l'eccellente lavoro di Guiso, Sapienza e Zingales. Finché questo non avverrà, possiamo prendere come una ragionevole ipotesi di partenza che il trust è un tratto culturale meno diffuso nel sud che nel centro-nord. Il problema successivo è: in che misura questa minore dotazione di trust ci aiuta a spiegare l'enorme, persistente, anomalo divario economico che osserviamo tra nord e sud? Questa per me è la domanda decisiva. Per esempio, la NPR è stata poco efficace a causa dello scarso capitale sociale meridionale? Io credo che sia così. La NPR era consapevole, eccome, del problema, ma sospetto che abbia ritenuto di poterlo risolvere con relativa facilità, adottando metodologie che avrebbero dovuto aumentare rapidamente la fiducia tra privati e istituzioni pubbliche, soprattutto locali, e tra privati e privati. Obiettivo giusto, strumenti probabilmente inadeguati. Il risaltato è nato dalla difficoltà di adottare politiche attive e allo stesso tempo capaci di limitare comportamenti rent-seeking tipicamente molto diffusi e aggressivi, appunto, in presenza di scarso capitale sociale (su questi temi rimando al mio "Il ritardo economico del Mezzogiorno: uno Stato stazionario?", in QA Rivista dell'Associazione Rossi-Doria, 2009, pp. 113-139). Detto questo, credo sia sbagliato dare per scontato che il divario attuale sia il riflesso diretto e inevitabile della scarsità di trust, e concludere che l'unico modo di ridurre il divario sia spingere sulla (lenta) accumulazione di capitale sociale meridionale. Credo che sia sbagliato perché oggi questo punto non è supportato dall'evidenza empirica. La storia economica del Mezzogiorno dopo la seconda guerra mondiale mostra oscillazioni tra andamenti positivi e negativi molto ampie, non facilmente spiegabii in termini di un gap di capitale sociale che invece appare molto stabile e persistente. C'è qualcos'altro in gioco, e decisamente varrebbe la pena di identificarlo e di studiarne le caratteristiche. Una volta che lo avremo fatto, credo che emergerà qualche sorpresa. Soprattutto questa: che l'attuale incapacità di ridurre il gap Nord-Sud non è il riflesso inevitabile di un (pur esistente, probabilmente) deficit di capitale sociale, ma dell'aver adottato, dal 1970 in poi, politiche ad accresciuta intensità di capitale sociale locale. In poche parole, credo che l'impatto di un basso capitale sociale sulla performance economica di un territorio possa essere tutt'altro che univoco, e che tale differenziazione dipenda molto dal livello istituzionale a cui si delega t.I.J


l'azione pubblica. Se l'azione pubblica è messa al riparo dall'assalto dei rentseekers, gran parte del danno attribuibile alla scarsità di capitale sociale può forse essere neutralizzato (e l'accumulazione di nuovo capitale sociale può essere forse attivata). Insomma, sospetto che il basso capitale sociale massimizzi il danno economico quando esiste lpportunità di catturare il gestore delle risorse pubbliche. Passare da meccanismi automatici, non discrezionali, come le gabbie salariali, a meccanismi molto più discrezionali e affidati sempre più ai livelli locali del governo, ecco, questo sospetto non sia stato saggio né lungimirante. Con Luciano Mauro stiamo per completare la prima versione di un articolo (Social capital, government institutions and economic outcomes. A closer look at the Italian 11/Iezzogiorno's case) che cerca di precisare queste ipotesi attraverso un modello di crescita e poi di testarle empiricamente.

4. Le sfide al federalismo per la giustizia sociale Federalismo e spesa pubblica. In che termini ilfederalismo (anche fiscale) dovrà confrontarsi con i problemi di cultura politica, di deficit delle classi dirigenti e di vaste clientele per innescare circoli virtuosi e non suicidi? Quali sono le opportunità e i rischi? E sufficiente sperare nella responsabilizzazione (che passa per il meccanismo elettorale del suffragio universale diretto) senza un reale potere programmatorio sul proprio territorio, senza parlare di solidarietà e pere quazione, anche quando al Sud un abitante su 3 è a rischio povertà e in certe aree - come dice Michele Emiliano - la malavita vince perché offre servizi di welfare aporzioni di cittadinanza ai margini? Loic Wacquant, in Punire i poveri. Il nuovo governo dell'insicurezza sociale, parla dell'ascesa dello Stato penale in parallelo alla ritirata dello Stato sociale - esito dell'insicurezza economica crescente, dove i poveri sono le masse in aumento di precari, disoccupati, marginali e ultimi del ceto popolare - che crea esclusione e allarme sociale e sancisce lafine di ogni solidarietà (di classe, interclasse, cristiana). Apocalittici o integrati?

GV: Il federalismo in senso molto generale è una tendenza, in corso da quasi vent'anni nel nostro Paese, a decentrare alcuni poteri di governo. Si tratta di una tendenza opportuna, perché se - come dicevo - le potenzialità di sviluppo sono differenziate da area ad area, è molto importante che il governo dello sviluppo sia assunto anche in sede locale. E impossibile, sia per le condizioni oggettive nel Sud, sia per le condizioni generali di ftinzionamento dell'economia e della società in Europa, avere dei processi di sviluppo totalmente eterodiretti. Non è più tempo di agenzie straordinarie, non è più tempo di grandi piani nazionali; bisogna sapere mescolare accuratamente politiche nazionali e politiche locali. Anche in questo caso valgono entrambi i poli.


Puntare esclusivamente su politiche locali è velleitario se. non ci sono politiche nazionali coerenti. Al tempo stesso, non tutto può essere fatto dal centro. Se dunque il federalismo, quello che chiamiamo decentramento così come disegnato dalla riforma costituzionale, è nel caso italiano un cambiamento opportuno per affrontare meglio questi temi, lo stesso cambiamento nelle politiche di sviluppo verificatosi a partire dalla fine degli anni novanta è utile e irreversibile. Il federalismo fiscale è in teoria un complemento ovvio ai processi di decentramento. Non può esservi decentramento e quindi potestà di spesa che funzioni senza responsabilità della spesa. Le classi dirigenti locali devono potere avere gli strumenti per disegnare percorsi di sviluppo e al tempo stesso la responsabilità di bilancio ad essi connessa. Non si può fare politica di sviluppo senza un ragionevole vincolo di bilancio. D'altra pare, anche il federalismo fiscale - quindi, decentramento, potestà di spesa e responsabilità di bilancio - sono elementi che col tempo possono migliorare la qualità delle classi dirigenti locali, messe alla prova del disegno e della messa in atto di politiche di sviluppo con risorse date. Naturalmente, il federalismo fiscale può costituire un rischio mortale per il Mezzogiorno, se si considera che in Italia la tendenza verso il federalismo fiscale non è dovuto tanto ad una opportuna segmentazione dei livelli di tassazione che corrisponde ai livelli di governo. Essa in Italia parte come una grande operazione di redistribuzione, che tende a portare via risorse dal Mezzogiorno e a spostarle nelle aree più ricche del Paese. Un conto è un federalismo fiscale che dà risorse sufficienti e responsabilizza, un conto è un federalismo fiscale che riduce le risorse quanto più possibile. Stiamo parlando dei grandi servizi pubblici, a cominciare dall'istruzione e dalla sanità, senza i quali è impossibile avviare alcuno sviluppo. E dunque, nell'insieme, un decentramento di responsabilità è opportuno, ma deve essere ben temperato, misurato con queste esigenza. Certamente non bisogna mitizzare il decentramento, non è affatto detto che le politiche locali siano per definizione migliori di quelle nazionali. E una condizione opportuna quella di avere anche un disegno locale delle politiche di sviluppo, laddove la redistribuzione delle competenze a favore degli Enti locali, dei Comuni, delle Regioni, non si traduce automaticamente in politiche utili, se non fatte bene.

FP: Il federalismo fiscale si basa su principi molto semplici. Il suo compito è rendere più chiare le responsabilità del decisore politico e favorire il controllo del cittadino sul suo operato. Perché questo succeda, è bene che la distanza anche geografica tra eletti ed elettori non sia eccessiva. Per indurre i politici locali a lavorare meglio per la collettività, le risorse pubbliche a loro disposizione saranno definite una volta per tutte e proverranno direttamente dalle tasche di chi, votandoli, gli consente di governare il territorio. Per il governo locale sarà dunque più difficile giustificare le proprie 190


carenze con un preteso inadeguato sostegno da parte del governo centrale. Se tutto funzionerà nel modo auspicato, alla fine sarà più facile per tutti noi scegliere politici capaci di evitare gli sprechi e di spendere con maggiore efficacia le risorse disponibili. Non sarebbe un risultato trascurabile: l'Italia soffre terribilmente dell'inefficienza del suo settore pubblico. Ma non ci sono miracoli in arrivo per il Sud. Il divario delle Regioni meridionali dipende da una popolazione istruita poco e male, da una qualità istituzionale bassa, da diritti di proprietà mal garantiti, da un "capitale sociale" scarso che, per esempio, rende più difficile alle piccole imprese cooperare per crescere. Il federalismo fiscale può certamente aiutare ad affrontare questi problemi, se non altro perché ridurre gli sprechi libera risorse con cui finanziare politiche per lo sviluppo. Ma quali politiche per lo sviluppo? Ci sono motivi per ritenere che la qualità di queste politiche migliorerà per il solo fatto che la responsabilità della loro attuazione si sposterà dal livello centrale a quello locale? In un Paese con divari trascurabili, la risposta sarebbe un cauto sì. In Italia è necessaria molta più cautela. Assegnare responsabilità enormemente maggiori a istituzioni locali che finora hanno data pessima prova di sé non sembra proprio una grande idea. Per rispondere a dubbi di questo tipo, il ministro Brunetta ha provato a metterla così: la riforma dovrà "dare ai governi regionali e locali... l'incentivo a effettuare scelte che incidano positivamente sullo sviluppo locale". Giusto. Quale incentivo, dunque? Questo, secondo il ministro: poiché le Regioni avranno una compartecipazione in quota fissa a tributi che aumentano con la crescita del reddito, per avere più risorse pubbliche i politici locali saranno incentivati ad adottare politiche che favoriscono lo sviluppo. Fosse così semplice. Il fatto che un incentivo esista non significa né che sia abbastanza forte da funzionare, né che non ne esistano altri, magari più forti, di segno contrario. Per convincersene, basta ricordarsi che in Regioni a statuto speciale come la Sardegna e la Sicilia quell'incentivo, basato su compartecipazioni al gettito erariale di imposte statali, è in funzione dal 1948. Con risultati di sviluppo e di qualità delle politiche locali che ognuno può valutare. Prudenza è dunque la parola chiave di questa fase. Come tutte le riforme importanti, e come tutte le politiche pubbliche, sarebbe bene muoversi con molta cautela, semplicemente perché non abbiamo certezze sulle conseguenze. Cautela vuol dire trasferire alcune competenze e poi controllare, con dati di buona qualità e condivisi da tutti, Stato e Regioni, se le cose funzionano come previsto. Per esempio, sarà essenziale controllare che l'aumento della responsabilità locale nel comparto "istruzione" non causi un ulteriore approfondimento del divario qualitativo che già oggi danneggia gravemente le opportunità di lavoro dei giovani meridionali e le prospettive di sviluppo del Sud. 191


5. La governance e la responsabilità del centro Il recente Rapporto della Banca d'Italia su "Il IVlezzogiorno e la politica economica dell'Italia" dice: «La crescita delle Regioni meridionali è stata inferiore agli obiettivi che le politiche regionali (quelle avviate dopo la cessazione dell'intervento straordinario nel IVlezzogiorno e messe in atto in seguito alla costituzione del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione) si erano posti - una crescita del Sud più elevata del Centro Nord e della media europea - anche perché lo scenario di riferimento nazionale è nelfrattempo cambiato. Sorge naturale l'interrogativo se la responsabilità del mancato conseguimento degli obiettivi di crescita del IV!ezzogiorno sia da attribuire alle politiche regionali oppure a effetti diversficati sul territorio delle politiche generali, nazionali, quelle non direttamente orientate a colmare i divari tra djfferenti aree del Paese. La tesi che sosteniamo in questa relazione è che lo sviluppo del It'Jezzogiorno sia stato prevalentemente condizionato dalle politiche nazionali » L'abolizione dell'Id resa possibile dal ricorso a risorse che l'UE aveva destinato in gran parte al Mezzogiorno, gli Incentivi 488 dirottati verso le industrie del Nord, come anche la struttura del sistema bancario e creditizio, ne sono un esempio. I localismi virtuosi che riempiono di suggestioni i discorsi degli economisti funzionano davvero nella patria delle 100 Italie? Anche quando, come dice Franco Cassano, non c'è proporzione tra problemi e strumenti del territorio? O serve una Politica nazionale con blocchi sociali rappresentativi nuovamente interessati all'unità nazionale? Se ne intravede qualcuno all'orizzonte? GV: Le politiche regionali sono politiche aggiuntive di sviluppo regionale che si fanno in Italia come in molti altri Paesi del mondo. In Italia sono molto cambiate dalla fine degli anni novanta, con la chiusura della Cassa del Mezzogiorno, e ne sono state innovate profondamente modalità, procedure ed obiettivi. In realtà, queste nuove politiche regionali non sono mai decollate. Non sono mai diventate una priorità della decisione politica, non sono state mai accompagnate da un'effettiva centralità nella discussione e nella politica, è mancata la volontà del centro. Lo si vede dai dati sulle risorse disponibili che sono state largamente inferiori da quelle ipotizzate. Lo si vede dai meccanismi di coordinamento e di controllo delle Regioni, che sono stati estremamente modesti, e modesti sono stati i risultati delle politiche regionali così implementate. E tuttavia, è meglio che ci siano state, seppure sono state in larghissima parte politiche di intervento sostitutive di politiche ordinarie, e quindi per definizione non avrebbero potuto ottenere più di tanto. Molto opportunamente la Banca d'Italia dice questo, nell'unico studio sul Mezzogiorno fatto negli ultimi 5-7 anni, riportando l'attenzione sul peso quantitativo rilevante che hanno le politiche ordinarie, ovvero sulla qualità dei servizi pubblici come elemento che, insieme al potenziamento delle infrastrutture 192


materiali e immateriali, favorisce i processi di sviluppo. E molto opportunamente ci ricorda che c'è tanto da fare sulla qualità di sicurezza, giustizia, istruzione. Questo molto da fare non è colpa delle politiche di sviluppo regionale, ma è più legato ad un quadro nazionale di riorganizzazione dei grandi servizi pubblici. Il tema delle politiche generali si ricollega al federalismo fiscale, di nuovo. Perché le politiche generali, nel quadro che abbiamo davanti, sono in parte politiche nazionali, in parte politiche a carico della Regione, a cominciare dalla sanità. Da questo punto di vista c'è un problema rilevante di finanziamento, e c'è un problema di qualità delle politiche stesse. Il punto essenziale è legare le politiche generali e le politiche regionali. Persino nella legge 42 sul federalismo fiscale, il funzionamento a regime - i costi standard e i fabbisogni standard, la spesa corrente - è legato al potenziamento, definito come perequazione infrastrutturale e delle dotazioni. Questo è il terreno-chiave. Ne ho scritto da ultimo (ndr. "Il federalismo difficile", Il Mulino, n. 5/2010, pp. 730-738), e cito sempre come esempio il "Rapporto sulla scuola in Italia" della Fondazione Agnelli, nel quale si dice che è necessario fare contemporaneamente una razionalizzazione della spesa ed un potenziamento selettivo dei servizi e delle infrastrutture, ad esempio, con l'applicazione forte del tempo pieno al Sud. Le politiche nazionali e quelle locali si muovono insieme quando hanno come obiettivi comuni il miglioramento dei servizi disponibili, che viene raggiunto da un lato con politiche di spesa corrente - i tagli agli sprechi, centrando meglio le risorse e migliorando la qualità di quello che si fa e dall'altro con politiche aggiuntive di potenziamento delle dotazioni. La sanità di alcune Regioni del Sud è in un vicolo cieco perché, al netto di alcune questioni pure importanti, il nodo di fondo è il seguente: i tassi di ospedalizzazione nel Mezzogiorno sono più alti che altrove nel Paese. Questo non dipende dal fatto che al Sud i cittadini si ammalano di più, ma dipende dal fatto che al Sud la sanità svolge anche un ruolo improprio di assistenza sociale. Mancando servizi adeguati territoriali, gli anziani del Mezzogiorno finiscono in ospedale più spesso di quanto accade in altre Regioni italiane. E una situazione pessima innanzitutto per gli anziani, e poi per i cittadini del Sud che devono pagare molto di più per forme improprie di assistenza. E evidente che questo non si risolve vietando i ricoveri, bensì agendo sui due tasti insieme, cioè tagliando la spesa per la sanità in generale, obbligandola a ristrutturarsi e organizzarsi meglio, e potenziando la rete dei servizi territoriale e dei servizi di assistenza domiciliare. L'una cosa non si può ottenere senza l'altra. I risultati sarebbero parziali. FP: La Banca d'Italia dice la cosa giusta. Le politiche locali da sole possono fare poco, se lo Stato non accompagna adeguatamente le politiche nazionali nei vari territori, che in Italia sono più eterogenei che altrove. 193


Da cosa dipendono i risultati PIsA-OcsE (sull'apprendimento scolastico dei quindicenni) così deludenti al Sud? Non da spesa inferiore. Da altro, appunto. Può lo Stato ignorare la presenza di questo - evidentemente cruciale - altro? Può farsi dire dall'OCSE che c'è un problema? In questo sta il dramma: lo Stato parla di un federalismo basato su standard minimi da garantire a tutti e poi non fa nulla per misurarli. E se non li misuriamo, succede che un quindicenne meridionale perda, di fatto, due anni di scolarità rispetto al coetaneo del centro-Nord, senza neppure saperlo. Ora per fortuna l'INvALsI ha iniziato a fare un lavoro eccellente sotto la direzione di Cipollone, e con i dati INvALsI diventerà possibile lavorare per differenziare l'implementazione locale di una politica nazionale, al fine di garantire davvero i diritti di base di una cittadinanza. I localismi virtuosi sono sempre esistiti. Però finora non sono stati in grado, in media, di compensare i molti localismi viziosi continuamente alimentati da una spesa pubblica mal diretta, mal governata e per niente valutata nei risultati.

6. Banche per lo sviluppo I/sistema creditizio è determinante per lo sviluppo locale, e quello bancario lo è tanto più nelle banking economies, come 1 'Italia. La struttura del sistema bancario italiano presenta sintomatiche differenze nel costo e nella disponibilità del credito dal Sud al Centro-Nord: significativi differenziali nei tassi attivi praticati all'industria e livelli comparativamente inferiori degli impieghi bancari, considerati, non solo dalla letteratura economica, uno dei principali vincoli alla crescita del sistema produttivo locale. Date l'attrattiva offerta dalla capacità di risparmio riscontrabile al Sud e la progressiva contrazione della quota di mercato delle banche de/IVlezzogiorno, le Regioni del Sud sono mercati di raccolta, non d'impiego, del risparmio bancario, che è drenato per successivi impieghi nelle Regioni del Paese più remunerative o meno rischiose. Emerge un problema di qualità delle politiche di sviluppo e della governance, tra Nord e Sud? GV: La situazione del credito nel Sud non è drammatica affatto. Il cambiamento che c'è stato negli anni novanta, e cioè il collasso di gran parte del sistema bancario pre-esistente è stato un fatto positivo, in quanto affetto da un male incurabile, ovvero il sistema di erogazione del credito era condizionato dalla politica e molto meno dall'economia. Al posto di queste banche sono arrivate medie e grandi banche del centro-nord che hanno portato una razionalità di mercato in tutte le operazioni, un rapporto migliore tra impieghi e depositi. Certamente non è una situazione ottimale. Sappiamo benissimo che le grandi istituzioni creditizie nazionali sono molto lontane dal 194


territorio del Sud. Per lo sviluppo territoriale servono banche che non abbiano soltanto gli sportelli, ma anche i centri decisionali sul territorio. Da questo punto di vista, da un lato, serve un potenziamento del sistema bancario locale, che pure esiste in diverse Regioni del Sud; e dall'altro, si potrebbe incentivare una strutturazione diversa del sistema creditizio attuale perché si riduca questo iato. Il rischio oggi è che le grandi banche nazionali, da Unicredit a Intesa San Paolo, selezionino la clientela, facendo credito soltanto alle imprese più forti, e lascino la clientela più difficile e la clientela piccola alle banche locali. Il punto principale sul quale chiamare le grandi banche ad un diverso modo di stare nel sistema creditizio meridionale è quello di fare nel Mezzogiorno non soltanto l'attività ordinaria - che fanno piuttosto bene ma anche attività non ordinaria. Quindi: finanziamento alla nuova impresa, cioè fare credito non soltanto a quei soggetti che hanno già garanzie, ma anche a chi vuole avviare nuove attività; e l'esplorazione sistematica di tutti gli ambiti nei quali vi sono possibilità di partenariato pubblico-privato nella realizzazione e nella gestione di grandi infrastrutture. Non sono moltissimi, sono meno che al Nord perché la domanda è più piccola, ma ci sono una serie di ambiti, dai trasporti ad alcuni servizi pubblici come l'edilizia sociale, nei quali, sia per carenza di capitale pubblico, sia per carenza nella gestione da parte dei soggetti pubblici, forme innovative di gestione pubblico-privata potrebbero essere interessanti. Così come il voto alle banche del Nord per la gestione delle attività creditizie ordinarie al Sud è alto, il voto per queste ultime attività straordinarie è bassissimo. Perché non fanno niente. Le differenze importanti tra Nord e Sud che negli ultimi anni si sono rese evidenti sono due. In primo luogo, al Nord c'è un tessuto di imprese pubbliche locali. E un tessuto controverso perché ha molto a che fare con le tematiche della concorrenza, ma comunque di segno positivo, molto importante per la realtà economica del Nord, in quanto ha realizzato la riorganizzazione di settori-chiave come quello energetico, quello del trasporto pubblico locale. E un tessuto che al Sud manca del tutto, siamo dieci-quindici anni indietro, ancora alle municipalizzate. Non è un giudizio di valore in favore del pubblico-privato rispetto al pubblico puro, che è da vedere. Tuttavia, capitali pubblici in questi ambiti ce ne sono sempre meno, e il Sud potrebbe in futuro pagare ancora il mancato processo di riorganizzazione. Il secondo ambito di differenziazione tra Nord e Sud è che al Sud mancano le fondazioni di origine bancaria. Lo smantellamento del sistema bancario avvenuto negli anni novanta al Sud improvvidamente non è stato accompagnato dalla nascita di soggetti come le fondazioni che nell'economia del Centro-nord pesano moltissimo, sia da un punto di vista quantitativo, sia da un punto di vista qualitativo e strategico, di selezione dei progetti, di istituzioni che fanno concertazioni. La Fondazione per il Sud è interessante ma assai limitata. A Sud rischia di esserci una dicotomia pubblico/privato molto arretrata rispetto al Nord 195


dove esiste un continuum di situazioni e contesti dal pubblico e privato che è interessantissimo, al di là di ogni giudizio di valore. Questo ha a che fare ed è insieme concausa dello sviluppo molto inferiore - per quanto non irrilevante - del terzo settore al Sud, che nasce non per buona volontà ma perché vi sono soggetti e istituzioni che presidiano il territorio, che creano regole e comportamenti, processi, anche molto lenti. Il terzo settore è un ambito strategico soprattutto per il bacino occupazionale, ed al Sud è ancora molto poco sfruttato. Un ruolo dovrebbe averlo la Cassa Depositi e Prestiti. E questo che ho cercato di fare come Consigliere di amministrazione, trovando una sponda convinta nell'allora Presidente Alfonso lozzo prima e nel Presidente Franco Bassanini poi. Lì c'è bisogno del socio Tesoro, però, perché alle fondazioni bancarie si possono chiedere tante cose, ma soprattutto in un momento di crisi non si può chiedere loro di non guardare prioritariamente ai rispettivi territori di elezione. E invece il Tesoro che deve agire perché tutta la strumentazione disponibile sia orientata verso l'intero territorio nazionale, non soltanto verso la parte rappresentata dalle fondazioni bancarie, ma verso tutto il Paese. Da questo punto di vista, ho trovato un ostacolo insormontabile nel Ministro del Tesoro che, come tutti sappiamo è il maggiore nemico del Sud e non ha alcun interesse a fare cose per il Sud. FP: Non credo sia questo il problema. Credo sia un problema, ma non il principale. Al margine, è certo che una buona banca locale può superare meglio l'asimmetria informativa che caratterizza il mercato del credito. Ci sono ottimi studi di ricercatori della Banca d'Italia che lo dimostrano. Ma l'effetto aggregato di questo "fallimento del mercato" penso non debba essere sopravvalutato. In più, ottenere una banca insieme locale ed efficiente nel Sud è un obiettivo complesso, come tutti sanno. I motivi, di nuovo, sono quelli di cui sopra. Ne ho scritto altrove, riflettendo su un'esperienza che ho fatto anni fa nel CdA del Banco di Sardegna, ai tempi dellbttima e coraggiosa presidenza di Sebastiano Brusco. A quelle riflessioni rimando il lettore interessato (F. Pigliaru, "Sebastiano Brusco e la presidenza del Banco di Sardegna: cronaca di una sconfitta apparente", Economia e Politica Industriale, 2004). 7. Mezzogiorno e glocalismo Assistiamo afenomeni nuovi o di nuove dimensioni, tra cui lo spopolamento di ampi territori del Sud (in Calabria, il caso di Caulonia, abbandonata dai nativi calabresi per emigrare a/Nord o all'estero in cerca di opportunità qualificate e ripopolata da immigrati poveri, dediti all'agricoltura e ai servizi agli anziani, unica fascia di popolazione italiana in loco); la questione degli scontri nelle campagne 196


alabresi tra proprietari italiani e schiavi immigrati, quale nuovo fronte de/sottosviluppo del Sud. Ne/frattempo, il Sud è sempre più presente nei set cinematografici deifilm italiani e stranieri, ma ci sono sempre meno sociologi, giornalisti, narratori, cineasti interessati a rappresentare la questione meridionale nel/a sfera culturale del Paese, in modo credibile e complesso, "il campo /ungo" Forse perché ormai il Sud è anche a Milano ed è passato da categoria geografica a categoria "spirituale", come dimostrano i recenti reportage sul/a 'ndrangheta al Nord? Quali sono oggi i punti diforza del Sud e le possibili interdipendenze attive co/Nord, e quali le criticità da conoscere e risolvere? GV: Viviamo in uno straordinario paradosso. Mai come in questi tempi è diventato fuori moda parlare di Mezzogiorno. La rappresentazione del Sud coincide con i rifiuti di Napoli. Da quando c'è stata la crisi dei rifiuti, questa immagine si è sovrapposta ad ogni altra. Per fortuna il fronte non è assoluto. Mai come oggi il Mezzogiorno è la questione centrale per lo sviluppo del Paese, per la sua ripresa. L'Italia si è fermata, negli ultimi decenni sono emersi problemi destinati a rendere alquanto lenta la ripresa rispetto ad altri Paesi europei. Il nodo di fondo che essa è obbligata ad affrontare è la questione del basso tasso occupazionale, più basso rispetto all'Europa - meno al Nord e molto di più al Sud - laddove sono troppo pochi gli italiani che contribuiscono alla crescita ed alla finanza di questo Paese. La questione centrale diventa allora come fare lavorare gli italiani - e i meridionali soprattutto - che non lavorano. Come trasformare il reddito che essi producono in domanda, in tasse e contributi. E ineludibile per lo sviluppo economico italiano oggi. Sappiamo che il tasso occupazionale nel meridione è basso non a caso ma perché ci sono troppe poche imprese, per le condizioni difficili nelle quali esse vivono, date dal combinato disposto di tre grandi cause: una diffusione di comportamenti e atteggiamenti delle classi dirigenti e dei cittadini non favorevoli alle imprese che stanno sul mercato; la bassissima qualità dei servizi pubblici, soprattutto nazionali, a cominciare dall'istruzione e della giustizia; la scarsissima dotazione moderna di infrastrutture necessarie per la competitività delle imprese. Occorre allora pensare a come cambiare le condizioni di contesto citate perché molte più persone al Sud lavorino. Non è facile non è banale. E il tema dello sviluppo economico italiano. Il paradosso è che si parla di tutto tranne di questo. La soluzione disegnata è opposta, ovvero considerare il problema insolubile e quindi trascurarlo. Nessun governo di nessun Paese OcsE, neanche in passato, ha mai realizzato una politica economica esclusivamente redistributiva come quella del gover no italiano attuale. Ancora più grave è che il teorema Mezzogiorno pare avere un vasto consenso tra gli italiani. Le politiche di sviluppo, cioè, diventano il problema, non sono la soluzione. Perché succede questo? Ci sono motivi economici molto importanti. La rilevanza del Sud come bacino di forza lavoro 197


per l'industria nazionale è più bassa che in passato; il nostro Paese ha un'allergia a confrontarsi con problemi di lungo periodo; gli italiani sono molto impauriti e scoraggiati, per cui preferiscono una strategia di breve periodo per recuperare qualche risorsa da un federalismo redistributivo ad una strategia che consente nel lungo periodo di recuperare maggiori risorse attraverso lo sviluppo del Mezzogiorno. Il cittadino veneto semplicemente non crede a questo secondo scenario. La politica non affronta questo tema. Il centro-destra nazionale è schierato a difesa di Tremonti; il centro-destra meridionale oscilla tra indifferenza e rivendicazionismo spicciolo, accontentandosi di ricevere qualcosa per il proprio territorio, mentre su tutto il resto si taglia; il centro sinistra è paralizzato, ha paura di pronunciarsi sul tema. Quali possibilità abbiamo? Occorre fare due cose insieme, non facili. Difendere il Sud e difendersi dal Sud. Quindi, riportare il tema in agenda, battersi per equi decreti attuativi del federalismo, porre fine al teorema Mezzogiorno, mettere ordine in casa propria, contrastare classi dirigenti che in misura rilevante non funzionano bene. Significa pensare all'Italia di qui a vent'anni, come accade negli altri Paesi. In questttica di lungo periodo nazionale non richiede di fare cose bizzarre per il Sud, ma soltanto le stesse cose che servono al Paese con maggiore intensità. Tre sono i temi di una possibile agenda: riportare il lavoro al centro della politica economica nazionale e generale per evitare un sicuro divario di genere, territoriale e generazionale. Attenzione, rischiamo di avere un'intera generazione senza lavoro. Il primo e principale capitolo di questo punto sono le nuove imprese. Rischiamo di uscire da questa crisi avendo perso pezzi di manifatturiero che non stanno più nel mercato internazionale, e per di più senza avere i pezzi di nuova impresa, di nuovo manifatturiero, di nuovi servizi. Serve ripensare ad una fiscalità su imprese e lavoratori dipendenti, intervenire su quelle aree del Paese in cui le rendite di posizione impediscono la nascita di nuove imprese. Serve un Paese più equo e più mobile. In secondo luogo, occorre una razionalizzazione dell'intervento pubblico al fine di potenziare la qualità dei servizi e degli interventi. Il concetto non è come tagliare su scuola e sanità, ma come avere una scuola ed una sanità migliori spendendo bene o meno. Non il risparmio come obiettivo. Terzo punto è come avere un Paese non più bloccato, che non realizza, che non mette a frutto le poche risorse che usa e che ha per realizzare infrastrutture che effettivamente ftinzionino. Per un'opera pubblica di cinquanta milioni di euro, in Italia servono dodici anni, in Cina due e in Spagna cinque. Questo è un grande tema, meridionale e nazionale, per un ragionamento di costruzione di futuro. Come costruire un'Italia diversa dopo la crisi è il piano della discussione, di cui il Sud è un tema oggi e può essere un grande motore di recupero, una chance di sviluppo per tutto il Paese. Non è dietro l'angolo ma occorre iniziare a pensarci.


FP: Seppure a grandi linee, penso di avere risposto nelle pagine precedenti. Sono convinto che il Sud possa superare il pessimo stato stazionario nel quale si trova oggi senza doversi necessariamente dotare - per usare una battuta oggi diffusa, riferita al lavoro di Putnam - di un Medioevo migliore di quello che ha avuto. Credo che molto dipenda dalla qualità istituzionale nella elargizione dei beni pubblici essenziali. Con la Banca d'Italia, credo che in questa fase la qualità debba essere garantita in primo luogo dal livello centrale di governo. Sappiamo anche che spesso il problema non è quello delle risorse, e che spesso invece si tratta di eliminare sprechi che intorno a quelle risorse avvengono. La riduzione di quegli sprechi richiede molta regia centrale, molto monitoraggio, valutazione, definizione e imposizione di standard minimi. Tutte cose essenziali per limitare i comportamenti opportunistici diffusissimi in Italia in generale, e nel Mezzogiorno in particolare. Su questo c'è stata una promettente riflessione ai tempi della NPR. Non è bastata a forgiare strumenti operativi efficaci, ma quella discussione andava nella direzione giusta. Sarebbe ora di ripartire da li, per andare molto più avanti.

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