NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
ECONOMIA
DEMOGRAFIA DI IMPRESA
NEL SETTORE BIRRARIO
di Francesco Licciardo, Stefano Tomassini, Katya Carbone
BIRRE ICONICHE
BLONDE DI MALTUS FABER
di Andrea Camaschella
BIRRA E MUSICA
THOMAS HART BENTON: QUANDO
LA MUSICA INCONTRÒ IL PENNELLO
di Antonio Boschi
FOCUS
I ragazzi di QuAM
Lo strano caso della birra coi cachi di Alessandro Artoni, Giulio Parolari e Giorgio Tchvritidze
Non è solo un BICCHIERE DI BIRRA!
Ciò che noi versiamo nel bicchiere è l’essenza di molte cose. È ciò che rimane, o forse sarebbe meglio dire che viene creato, dopo un lungo processo di selezione delle materie prime, di scelta degli ingredienti, di fasi di lavorazioni e passaggi vari. Chi si ritrova prima a scegliere cosa bere e poi a sorseggiare la sua birra fresca spesso non ha consapevolezza del lavoro che quel bicchiere contiene e se si lamenta di un prezzo considerato troppo alto dovrebbe provare a mettersi nei panni di coloro che quella birra la creano. Ad aiutarci a farci un’idea dell’universo aziendale e professionale che c’è dietro ci pensano due articoli. Il primo è un articolo scritto a tre mani e frutto di uno studio più ampio a nome di Francesco Licciardo, Stefano Tomassini e Katya Carbone che hanno analizzato alcuni dati relativi alla demografia di impresa nel settore della birra mentre il secondo, a cura di Eleni Pisano analizza gli sbocchi professionali di un settore in via di sviluppo che offre ampie possibilità di lavoro. Matteo Malacaria allarga la sua analisi ai birrifici agricoli, parte essenziale di quella demografia di impresa che, nella riscoperta delle origini e di materie prime antiche, fonda il suo valore aggiunto e soprattutto la sua identità in una dimensione più imprenditoriale ed attuale. Flavio Boero continua invece il suo percorso nell’analisi della qualità in microbirrificio andando questa volta ad analizzare gli aspetti legati all’analisi sensoriale della birra mentre Angelo Ruggiero trasporta in pentola gusti e sapori degustati nei suoi viaggi birrari
nel tentativo (il più delle volte riuscito) di dare all’home brewer una identità sempre più forte sostenuta anche dai consigli di Massimo Faraggi che in questo numero parla delle tecniche e delle problematiche legate alla fermentazione di birre ad alta gradazione prodotte in casa. È invece l’iconica Blonde di Maltus Faber l’oggetto dell’analisi di Andrea Camaschella che ne ripercorre la storia e le fasi della creazione. Se Roberto Muzi analizza gli abbinamenti tra la birra e la carne di bufalo partendo dalla degustazione organizzata dall’amico Antonio della fattoria Lauretti, agli studenti del corso di Laurea ad orientamento professionale in “Qualità e approvvigionamento di materie prime per l’agro-alimentare” (QuAM) dell’Università degli Studi di Parma il compito di analizzare l’accoppiamento tra la birra e i cachi in un tripudio di sapori spesso considerati inaccostabili.
Chiude il numero un trittico di articoli dedicati in maniera indiretta alla birra. Il primo è una satira sulle mode sociali ed enogastronomiche a firma di Norberto Capriata a cui segue quello di Antonio Boschi che questa volta coniuga arte, musica e birra con un articolo dedicato al pittore Thomas Hart Benton ed infine chiude il pezzo di Luca Grandi dedicato alle gite fuori porta o ai viaggi in luoghi anche a vocazione birraria che questa volta ci conduce nella provincia padovana tra città murate e colli euganei. Potete a questo punto dire che il vostro bicchiere contiene solo birra?
Buona
lettura e buona bevuta!
Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra
MIRKA TOLINI
EDITORIALE
Non è solo un bicchiere di birra! 1 di Mirka Tolini
ECONOMIA
Demografia di impresa nel settore della birra 4 di F. Licciardo, S. Tomassini, K. Carbone
MARKETING
La birra di domani? È quella che si beveva ieri 10 di Matteo Malacaria
ABBINAMENTI
Le sconosciute bellezze dei bufali
di Roberto Muzi
I RAGAZZI DI QUAM
Lo strano caso della birra coi cachi 22 di A. Artoni, G. Parolari, Giorgi Tchvritidze
di Flavio Boero HOMEBREWING
di Angelo Ruggiero
HOMEBREWING Forte, fortissima
di Massimo Faraggi
BIRRE E BIRRIFICI
Artigianali e iconiche: Blonde di Maltus Faber 42 di Andrea Camaschella LAVORO
Le professioni del mercato
brasso-artigianale in italia di Eleni Pisano
SOCIALITÀ
Quando
di Norberto Capriata
T.
di Antonio Boschi
Birra Nostra Magazine - Bimestrale
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa
Direttore Responsabile Mirka Tolini
Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it
Hanno contribuito a questo numero Alessandro Artoni, Flavio Boero, Antonio Boschi, Andrea Camaschella, Norberto Capriata, Katya Carbone, Massimo Faraggi, Luca Grandi, Francesco Licciardo, Rachele Lori, Matteo Malacaria, Roberto Muzi, Giulio Parolari, Angelo Ruggiero, Giorgi Tchvitridze, Stefano Tomassini, Eleni Pisano
Quine Srl
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Dall’analisi dei dati sull’imprenditoria, alla fine del 2022 emerge che l’Industria Alimentare e delle Bevande (IAB) è composta da 69.436 imprese, di cui l’87% (60.444) sono attive, con una proporzione simile a quella registrata nel settore manifatturiero nella sua totalità (86,8%). Complessivamen-
te, le imprese dell’IAB rappresentano il 13,2% del totale manifatturiero (Tab.1).
Per quanto riguarda nel dettaglio l’Industria Alimentare italiana (IA), che costituisce il 93,5% dell’aggregato, conta 64.925 imprese, di cui l’87,2% (56.595) sono attive. Nel caso dell’Industria delle Bevande (IB), invece, le imprese regi-
strate ammontano a 4.511 unità, di cui 3.849 attive (85,3%).
La particolare congiuntura negativa sta generando un clima di incertezza tra le imprese, con conseguenze sulla stabilità complessiva dell’aggregato in esame. In particolare, confrontando il numero di nuove imprese iscritte con quelle
ECONOMIA
che hanno cessato l’attività, emerge una profonda crisi dell’imprenditoria nazionale nel 2022: il saldo tra nuove iscrizioni e cancellazioni è negativo per l’IAB (-2.278 unità), in linea con il trend recessivo che ha coinvolto l’intero settore manifatturiero (-17.975).
Birra, il settore produttivo in cifre
In prima analisi, i dati del Registro delle imprese fotografano un settore della birra italiano in buona salute. Le informazioni disponibili per il quinquennio 2018-2022 evidenziano, infatti, un trend positivo in termini di numerosità di impresa, la cui crescita non si è arrestata nemmeno durante l’emergenza sanitaria che ha fortemente condizionato l’attività economica nazionale.
Come riportato nella tabella 2, il numero delle imprese produttrici di birra, sede e unità locale (UL), è passato dalle 1.073 unità nel 2018 a 1.200 nel 2022 (+127 unità), registrando un incremento complessivo dell’11,8%; solo nell’ultimo anno la variazione è risultata del +2,1%. Nel 2022, si nota una significativa concentrazione di imprese produttrici nel
Nord Italia, dove sono state censite 565 unità, corrispondenti al 47,1% del totale nazionale (Fig. 1). Tuttavia, è interessante osservare che nel medio periodo è il Sud del Paese a mostrare l’incremento maggiore: tra il 2018 e il 2022 la consistenza delle imprese produttrici di birra si è accresciuta, infatti, di 60 unità segnando una variazione del +16,7% (Centro: +8,5%; Nord: +9,7%).
Tabella 1 - La numerosità imprenditoriale
A livello territoriale, le Regioni con la maggiore diffusione di questo tipo di imprese nell’ultimo anno sono la Lombardia, che conta 182 unità, pari al 15,2% del totale nazionale, e il Piemonte con 107 imprese (8,9%). Seguono l’Emilia-Romagna e il Veneto, entrambe con una quota di 90 imprese e un’incidenza del 7,5% sul totale nazionale, la Toscana con 83 unità (6,9%) e la Puglia con 76
Note: la voce “variazioni” comprende gli eventi a cui può essere interessata un’impresa nel corso di un anno, ma che non danno luogo a cessazioni e/o reiscrizioni. Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
Fig. 1 - Peso delle imprese produttrici di birra per ripartizione territoriale (2022, variazione %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
Tabella 2 - Imprese produttrici di birra a livello regionale (anni 2018-2022, valori assoluti e in
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
unità (6,3%), unica realtà del Sud a rientrare nella top five.
Il dettaglio provinciale (Fig. 2) conferma la diffusione regionale sulla localizzazione delle imprese produttrici, con Torino e Milano che trainano la graduatoria 2022. Seguono, subito dopo, la provincia di Salerno, Roma e Brescia. Le uniche realtà in cui l’attività produttiva stenta ad affermarsi sono le province di Enna e Gorizia, dove si rileva una sola attività. Osservando la dinamica temporale, è possibile arricchire il dettaglio informativo sul comparto rilevando che i tassi di crescita più consistenti nel quinquennio in esame hanno riguardato prevalentemente alcune realtà terri-
toriali (Fig. 3). Tra questi, si segnalano variazioni a due cifre particolarmente rilevanti, ben al di sopra del valore medio nazionale (11,8%), nel caso della Sardegna (+34%), Calabria (+32,3%) ed Emilia-Romagna (+24,5%). Al contrario, nello stesso periodo si registrano delle chiusure di attività in quattro Regioni (Molise, Valle d’Aosta, Marche e Veneto), mentre per la Liguria il tasso di variazione è risultato nullo.
La diffusione delle imprese in base alla localizzazione Venendo ad esaminare le forme giuridiche (Tab. 3), la popolazione di imprese produttrici di birra in Italia risulta com-
Grafico 1 - Imprese produttrici di birra a livello regionale
posta in prevalenza da forme societarie che, nel 2022, in maniera congiunta costituiscono i ¾ del totale delle imprese attive (fig. 4); le imprese individuali rappresentano una quota del 21% circa (247 unità), mentre le altre forme risultano del tutto residuali (3,7%). Tale caratterizzazione conferma il quadro strutturale che generalmente si riscontra nel settore delle bevande nazionale, dove le imprese medio-grandi prevalgono come asset giuridico-organizzativo. All’opposto, risulta del tutto peculiare nell’ambito del settore manifatturiero nazionale che, tradizionalmente, si connota per la presenza importante di piccole e medie imprese che convivono con quelle di più grande dimensione. Nell’ultimo biennio si osserva una contrazione sia delle società di persone (-7,2%), sia delle altre forme (-4,3%) (Fig. 5). Le uniche a crescere in maniera significativa sono quelle più strutturate ovvero le società di capitale, le quali segnano un incremento del 7% (+1,6% l’incremento delle imprese individuali). Tale evidenza porta a suggerire una maggiore tenuta, rispetto all’instabilità dello scenario macroeconomico, del segmento di imprese che può conta-
re su una certa dimensione e solidità economico-finanziaria. Il dato, tuttavia, potrebbe anche essere il risultato di processi di concentrazione aziendale (acquisizioni e fusioni) che favoriscono il passaggio verso forme giuridiche più complesse e, più in generale, di un orientamento del settore agro-alimen-
tare verso la dimensione della grande impresa in grado di supportare i costi per far fronte alla concorrenza esterna, ma anche di generare più redditività. A tal proposito si pensi, ad esempio, alla capacità di raccolta dei mezzi finanziari, a titolo di prestito o di capitale proprio, per sostenere nuovi investimenti.
Fig. 2 - Distribuzione provinciale delle imprese produttrici di birra (2022, valori assoluti)
Fig. 3 - Le Regioni che crescono e quelle che arretrano in termini di imprese attive (anni 2018-2022, variazione %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
Fig. 4 - Incidenza delle forme giuridiche nel settore produttivo della birra (anno 2022, valori in %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
Nota metodologica
La presente analisi ha preso in esame i dati del Registro delle imprese (https:// www.infocamere.it/movimprese) che riporta per singola impresa, identificata mediante codice fiscale/partita iva, l’insieme delle localizzazioni, che possono essere più di una, e distingue la sede legale dalle unità locali. Mentre la prima si identifica con il luogo in cui si trova l’organizzazione amministrativa, le seconde rappresentano le localizzazioni dove sono ubicati gli impianti, in genere in luoghi fisicamente diversi da quelli della sede legale.
Più nel dettaglio, nell’ambito della divisione C “Attività manifatturiere” della classificazione ATECO 2007, sottocategoria C11 (Industrie delle bevande) il codice di attività considerato è 11.05 “Produzione di birra” che comprende:
Fig. 5 - Evoluzione delle forme giuridiche nel settore produttivo della birra (anno 2022, valori in %)
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
ECONOMIA
Tabella 3 - Imprese produttrici di birra per forma giuridica (anni 2021-2022, valori assoluti e in percentuale)
Fonte: nostre elaborazioni su dati InfoCamere-Movimprese
produzione birra (bionda, rossa, scura); produzione di birra a basso contenuto alcolico o analcolica.
Il report dei dati è stato fornito da InfoCamere, Società Consortile di Informatica delle Camere di Commercio Italiane, e sono stati estratti sia per le sedi che per le localizzazioni relativamente ai codici ATECO indicati. In particolare, le consistenze sono state estratte per le seguenti dimensioni:
❱ Regione;
❱ provincia;
❱ Comune;
❱ ATECO prevalente/primario;
❱ classe di natura giuridica;
❱ natura giuridica (disponibile solo per le sedi);
❱ tipo localizzazione (disponibile solo per le localizzazioni);
❱ stato impresa (registrate, attive, iscritte, cessate).
I dati utilizzati hanno considerato le imprese attive nel quinquennio 20182022, ovvero le imprese presenti nel Registro che esercitano l’attività e non risultano avere procedure concorsuali in atto.
Preme far osservare che, rispetto ad altre analisi sul sistema produttivo italiano, eventuali disallineamenti dei dati potrebbero derivare da specifiche richieste di estrazione. ★
LA BIRRA DI DOMANI?
È quella che si beveva ieri
Passato, presente e futuro della birra agricola
Quando lasciai la Calabria, ormai cinque anni or sono, notai l’inizio di un’inversione di tendenza rispetto all’emorragia di capitale umano che affligge il Belpaese, il Me-
ridione in particolare. Fuga di cervelli, la chiamano, anche se a mio parere è un’espressione inopportuna, perlomeno nel caso di genere. Conosco tanti conterranei e non solo, che si sono tra-
sferiti al centro, al nord o addirittura all’estero, e posso assicurare che non sono fuggiti da nulla. Anzi, avrebbero preferito rimanere nella loro terra di origine, per più di una ragione: l’aria è
salubre, gli affetti sono vicini, il cibo è buono e lo stile di vita è tutto sommato godibile. Ciascuno aveva le proprie ragioni per rimanere nel Meridione. Eppure si sono trasferiti, sono emigrati. Quella in cui viviamo è una società in cui l’essere umano si definisce in funzione del proprio lavoro, la dignità individuale passa anche attraverso il proprio mestiere, molti addirittura si limitano ad autodefinirsi in funzione del titolo riportato sul proprio biglietto da visita. Senza scendere nel dettaglio delle ragioni per cui ciascuno trasferisce la propria residenza, più che una fuga si tratta di una ricerca di opportunità, che ritengo sia il diritto di qualsiasi libero individuo.
Ritorno alle origini
Ho fatto questo preambolo per sottolineare che oggi l’inversione di tendenza è veramente in atto e il tradizionale percorso scuola-università-lavoro d’ufficio non è più ritenuto l’emblema della realizzazione personale. Diciamo che l’essere umano si è accorto di essersi veramente imbruttito appresso a lavori poco entusiasmanti, consumati in ambienti asettici, e che lavorare otto ore al giorno per cinque giorni a settimana non è proprio il massimo della vita. Serpeggia, anche se ancora a livello superficiale, il bisogno di ricongiungersi con la terra, di tornare a coltivare quel rapporto atavico con Madre Natura, ormai sopito da tempo. Questo si unisce con il bisogno crescente, soprattutto per le nuove generazioni, di fare esperienza imprenditoriale. Non mi riferisco a chi si trasferisce all’esterno, in un paese anglofono, per fare il lavapiatti mosso dalla convinzione di imparare una seconda lingua, finendo molto probabilmente a lavorare al fianco di suoi connazionali. Parlo di esperienza imprenditoriale, quella che manca alla formazione italiana, che produce un esercito di arguti studiosi troppo competenti in teoria ma poco in pratica. La somma di queste condizioni – ricon-
giungimento con la natura e bisogno di nuove esperienze di business – induce giovani e meno giovani ad affrontare le nuove sfide con uno spirito diverso, con una maggiore consapevolezza di quello che sono e di quello che vogliono diventare, con la voglia di andare via ma solo per un periodo breve, per poi tornare. Spirito patriottico? Direi proprio di no, piuttosto si tratta di lungimiranza imprenditoriale, di consapevolezza di poter arricchire il proprio background prima di dare vita a qualcosa di nuovo, di realmente impattante.
Come? Tornando alle origini. E in origine cosa c’era? La birra, e prima ancora l’agricoltura.
Che la birra sia un prodotto agricolo è risaputo, del resto cereali e luppoli sono ancora prodotti della terra. Non sono altrettanto sicuro che sia risaputo il concetto di birra agricola, su cui si è legiferato sul come (gli ingredienti) e sul quanto
(almeno per il 51%) per individuare i requisiti atti a definirla tale. Il risultato è che alla data odierna, mentre il mercato birrario continua a trovarsi nel caos, combattuto tra ciò che è artigianale e ciò che, invece, rappresenta l’interpretazione industriale di un prodotto artigianale (il cosiddetto crafty), la definizione di birra agricola offre al mercato (produttori e consumatori) molte più chance di trasmettere con successo la propria identità e formare aspettative realistiche su ciò che poi si trova nel bicchiere. Insomma, nonostante la birra agricola sia soltanto una piccola frazione della birra artigianale, paradossalmente i suoi connotati sono assai più robusti. Per carità, siamo sempre in Italia e sulle definizioni regna il caos, per cui anche nel mondo della birra agricola si fa confusione tra le definizioni di agribirra, birragricola e persino birra contadina, tuttavia rimane un minimo comune denominatore: l’ar-
tigianalità del prodotto e l’impiego dei prodotti della terra.
L’evoluzione dell’agricoltura
Pur avendo radici fortemente radicate nel passato, l’agricoltura è il business del futuro. Non è una novità, visto che già nel 2014 il gruppo di studi composto da Matteo Fastigi, allora dottorando, insieme a Roberto Esposti ed Elena Viganò, realizzò una robusta indagine alla scoperta di quello che era un fenomeno ancora allo stato embrionale. Da allora poco è cambiato, tuttavia sta cambiando l’approccio all’impresa agricola, un approccio sempre più consapevole e con robuste basi di business. Diciamo che il momento storico è favorevole. Basta seguire Ferdy Wild per capire che l’agricoltura sta vivendo una nuova primavera, per necessità – nuovi percorsi di realizzazione personale, come menzionato in apertura – e per percezione, diventa addirittura una moda quando comunicata correttamente. Certamente rispetto al passato può essere un business molto redditizio, anche più dello stipendio medio di un impiegato. Sarà anche più faticoso? Può essere, certamente lavorare nei campi (e anche fare la birra) è un lavoro fisico che comporta sudore. Però l’impresa sana è quella in cui c’è una chiara distinzione tra manovalanza e direzione, nel rispetto di entrambe le parti, e ciascuna si occupa del suo per generare business. Ecco, l’imprenditore agricolo 2.0, diciamo così, non è più quello che prende le redini dell’impresa agricola famigliare e ne eredita sia la visione che il modus operandi, bensì è quello che applica innovazione (di prodotto, di processo, concettuale) all’agricoltura, dando vita a qualcosa di nuovo.
Una nuova dimensione imprenditoriale
Riprendendo l’indagine precedente, un dato significativo è che il 32% degli intervistati giustificava la propria decisione di aprire un birrificio agricolo come
una conseguenza ineluttabile della propria passione. La solita solfa venuta a noia. A mio avviso, però, bisogna leggere questo dato in maniera critica, nella misura in cui il 68% degli intervistati ritiene che oltre alla passione ci siano altre buone ragioni per aprire un birrificio agricolo. Quella più gettonata è la diversificazione della produzione e del reddito dell’impresa agricola. Il che produce due effetti: il primo è che le imprese agricole già esistenti sfruttano il traino della birra artigianale per immettere sul mercato un nuovo prodotto, riorganizzando la propria filiera – il che dà vita a prodotti decisamente discutibili, sia in termini di marketing che di gusto; il secondo, ed è questa la chiave di lettura che preferisco, è che i nuovi imprenditori birrari trovano nell’a-
zienda agricola la propria dimensione imprenditoriale. Ed ecco che laddove c’erano beer firm, birrifici e brewpub, subentra una quarta alternativa. Dal 2014 a oggi il mercato è drasticamente cambiato. I locali prettamente birrari sono in affanno, sia perché le normative sull’ordine pubblico remano in loro sfavore, sia perché in un modo o nell’altro si è andata assottigliando la fascia di consumatori serali, soprattutto quelli post cena, eccezion fatta per il fine settimana. Al contrario, il fenomeno della birra artigianale ha contribuito a fare arrivare la birra sulle tavole degli italiani, proponendosi come bevanda di accompagnamento ai pasti, a cena ma anche a pranzo. Contestualmente è cresciuto l’aperitivo come momento di consumo preferito. Da una parte l’offer-
ta gastronomica, dall’altra la fascia oraria che precede la cena, sono diventati momenti importanti per combattere la sfida di mercato e conquistare nuovi consumatori. In questo mutato contesto è rincuorato il brewpub, che integra la proposta birraria con l’offerta ristorativa, ed è anche per questo motivo che mi sono sempre espresso a favore dei brewpub come forma di business. E se questa proposta di abbinamento birracibo avvenisse in fattoria, in aperta campagna oppure in malga? Ammettilo, già l’idea ha il suo fascino. Aggiungiamo che, sempre nell’ambito del perpetuo cambiamento, temi quali il rispetto degli animali e del loro benessere, la provenienza delle materie prime e la tracciabilità di filiera non sono più sterile retorica ma temi caldi
dell’agenda politica e per riflesso del sentimento nazionalpopolare. Tutti ne parlano, pardon ne parliamo, perché tutti ne siamo coinvolti. E soprattutto perché siamo italiani, e quindi per parlare di cibo sentiamo il bisogno irrefrenabile di argomentare su come, dove, quando e perché il cibo esiste, viene prodotto e soprattutto consumato.
Le potenzialità del birrificio agricolo
L’industria e la grande distribuzione organizzata sono leader di mercato perché hanno saputo studiare il proprio target e approfittare di quelle che sono le distorsioni cognitive, i cosiddetti bias. Intanto però, tra le tante cose negative che i nuovi mezzi di comunicazione hanno contribuito a diffondere, è avvenuta una forte sensibilizzazione e responsabilizzazione dei consumatori, che non assistono più passivamente alle decisioni del mercato ma diventano attori attivi, sempre più responsabili delle proprie scelte e al contempo consapevoli che l’indifferenza è una colpa. Chi può inizia a diffidare di allevamenti intensivi, importazione di prodotti eso-
tici, abusi e malcostumi alimentari. Siamo ancora distanti dal giro di boa, ma il cammino è tracciato. Alcuni hanno adottato regimi alimentari alternativi, rinunciando ad alcune categorie edibili, altri ritengono che privarsi di un prodotto di origine animale sia sbagliato, ma che certamente è meglio consumarlo con parsimonia e, ove possibile, scegliere un prodotto il più possibile vicino al luogo di produzione.
Riassumendo, il concetto di birra agricola (e quindi anche di birrificio agricolo) è considerato sinonimo di naturale, poco raffinato – o grezzo, giusto per utilizzare un termine contemporaneo – e di origine locale. Mettendo sul piatto un’offerta ristorativa a tutto tondo, capace di trasformare il cibo (e anche la birra) in un’esperienza, in un ritorno alle origini, alle cose buone come una volta, e in una fuga dalle abitudini cittadine della settimana lavorativa, ecco che un birrificio agricolo ha la possibilità di proporsi come attore di punta di quello che sarà il nuovo mercato. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica. Chi lo dice che un prodotto agricolo è più buono di uno industriale?
Si può parlare di carattere, di identità, di riconoscibilità, tuttavia la qualità rimane un metro di paragone aleatorio, perché non è oggettivo – si parla infatti di percezione della qualità, ricordi? Con riferimento alla birra, per esempio, non ho un ricordo piacevole delle birre agricole assaggiate nei più sperduti casolari di Vattelapesca. Lo dicevo prima, molti imprenditori già agricoli hanno approcciato alla birra come veri e propri speculatori, iniziando a produrla dimenticandosi di non averla mai fatta. Allo stesso modo molti ex birrifici si sono riorganizzati per soddisfare i criteri normativi e ottenere il riconoscimento di impresa agricola, accedendo così a
un regime fiscale decisamente più conveniente. Per molti questa soluzione di convenienza è criticabile. Per me, se la scelta di business non va a scapito del prodotto, è la soluzione vincente. Difatti, al fianco di tanti esempi dozzinali, ne esistono anche di eccelsi, i cosiddetti pochi ma buoni, che hanno saputo rivedere la propria attività mantenendo ottimi prodotti. E devono essere loro il benchmark: conoscenza del prodotto birra e una cornice imprenditoriale che congiunga cibo, turismo e marketing esperienziale. Per come la vedo io il birrificio agricolo del futuro nasce da un’idea imprenditoriale sana, sostenibile e persino sca-
labile – ricordo, e non mi stancherò mai di ricordarlo, che generare fatturato è un bene ed è sintomatico di un’impresa virtuosa – ed è in grado di avviare una conversazione onesta e sincera, ma anche coinvolgente, finalizzata a creare un consumatore responsabile e informato. Non so se questa mia previsione sul successo dei birrifici agricoli si realizzerà, e se a scrivere sia la parte del cervello razionale o piuttosto quella romantica e creativa. Se però dovessi scommettere nel futuro della birra in Italia scommetterei nei birrifici agricoli. Non potendo scommettere mi accontento di frequentarli prima che diventino un fenomeno di massa. ★
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LE SCONOSCIUTE bellezze dei bufali
Animale energico e dall’aspetto rustico, ma dalla grande mitezza, quella del bufalo è una specie con la quale in Italia abbiamo una certa confidenza, da ormai diverso tempo.
Probabilmente è grazie ai Longobardi che questi animali vennero stabilmente introdotti nel nostro Paese, nel VI-VII secolo: i maschi trovando apprezzato impiego nel lavoro dei campi e per il
trasporto, mentre le femmine come lattifere di grande successo, per le mozzarelle, innanzitutto, per i formaggi, come caciotte e caciocavalli, e infine per il latte (gelato, burro) e latticini (ricotte e yogurt).
Un animale che per mia fortuna ho conosciuto da vicino alla Fattoria Lauretti, azienda agricola del frusinate, a conduzione familiare, che frequento da
tempo grazie alla preziosa amicizia con il mio coetaneo Antonio, ormai discretamente datata. Quest’ultimo aspetto mi fa capire due cose: la prima è che viaggio speditamente verso la “maturità cronologica”; la seconda riguarda invece i tanti passi compiuti da questa piccola realtà artigiana, che non ha mai avuto paura di intraprendere strade originali e in controtendenza.
Dalla terra al banco
Siamo ad Amaseno, nel basso Lazio, a due passi dalla coreografica Statale 156 dei Monti Lepini: un piccolo centro situato nella valle bagnata dall’omonimo fiume, che vanta una grande ricchezza di fonti d’acqua e un monumento nazionale, La collegiata di Santa Maria Assunta. Ma ciò che dal nostro punto di vista è maggiormente meritevole di menzione è che questo paese conta 4.500 abitanti e circa 15.000 capi bufalini!
Storicamente la famiglia Lauretti ha sempre vissuto lavorando la terra (qui il nonno di Antonio è stato l’ultimo coltivatore di canapa) e allevato animali. Ma per approdare all’attuale modalità di conduzione aziendale dobbiamo arrivare al 1988, quando, quasi per caso, papà Giuseppe e mamma Fiorella rilevano una macelleria che diventa il punto vendita aziendale. Nel 2008 apre l’attuale sede del negozio, una vera e propria bottega-laboratorio, e nel 2014 avviene il totale coinvolgimento dei figli, Antonio e Anna. Da questo momento l’azienda conosce una graduale e profonda ristrutturazione, accelerata nelle stagioni più recenti. Che ha portato, da una parte, all’attuale dimensione di circa 30 ettari lavorati (quasi totalmente di proprietà), divisi tra seminativo, aree di stabulazione e stalle, che ospitano maiali neri di razza casertana (dei cui salumi non ci occupiamo solo perché abbiamo toccato l’argomento con un recente pezzo di questa rubrica); circa 20 bufali maschi, in base a parti e momenti, macellati normalmente a 1420 mesi; 24 fattrici di Chianina, 10 Pezzate rosse (di età variabile) e qualche capo di Angus.
E dall’altra parte, alla risistemazione dei campi in disuso, all’introduzione del fotovoltaico, al recupero di terreni marginali di proprietà per la conversione in pascoli; all’alimentazione degli animali allevati portata quasi completamente a erba o fieno di propria produzione, riducendo i mangimi e aumentando la verticalità aziendale (cioè, meno spese e più
qualità della carne, modalità che fino agli anni ‘60 era la norma ovunque e che poi, per una strana idea di progresso, è stata abbandonata).
Una filosofia di conduzione frutto dello spirito che questa impresa artigiana possiede e della strada che vuole tracciare: una giusta dimensione rispetto alle risorse e alle persone che ci lavorano; creare una filiera interna completa, partendo dal benessere animale e dal rispetto per l’ambiente e i cicli naturali; prendere parte alla costruzione di una rete virtuosa con gli agricoltori locali; essere sempre più a misura di bambino; realizzare il minor numero di scarti possibili, utilizzando ogni parte degli animali e suggerendo ricette per valorizzarle. Con l’idea precisa e indifferibi-
le che non si può foraggiare la follia dello spreco e non sfruttare ogni singola e minima risorsa alimentare.
Un animale speciale e una scelta intelligente
È proprio in questa nuova fase alla metà degli anni ‘10 che ad Antonio viene in mente l’idea della macelleria-salumeria bufalina, vera e propria peculiarità aziendale. Il fatto che nessuno ci avesse mai pensato prima, nonostante la quantità incredibile di bufali presenti in questa zona, la rende un’idea perspicace e ricca di potenzialità, ma allo stesso tempo tutta da costruire.
L’esperienza nel settore, la voglia di mettersi in discussione e l’essere dei grandi lavoratori sono certamente fat-
T-bone di bufalo
tori che aiutano, ma se non ci sono una materia prima di alto livello e una distintiva capacità di trasformarla è difficile dare continuità a un progetto di questo tipo.
Partiamo dal principio: cos’ha di speciale il bufalo?
Presente in diversi continenti, vero e proprio simbolo culturale in Vietnam, molto diffuso in India e nel continente africano, fa parte della grande famiglia dei bovidi ed è una specie di cui esistono diverse razze, tra cui quella diffusa nel Belpaese, detta Mediterranea italiana. La presenza nella nostra cultura è lunga e significativa (citiamo, per esempio, il concetto di bufala come notizia falsa o gonfiata, per cui l’Accademia della Crusca fa risalire la ragione al modo di dire “menare altrui pel naso come un bufalo/una bufala”, nel senso di raggirare una persona a piacimento, proprio come si fa con questi bovidi, che si lasciano tirare pacificamente per l’anello al naso).
Animale mansueto, resistente e adattabile, a suo agio in territori paludosi e malsane, ha avuto un ruolo importante nelle opere di bonifica italiane del XX secolo e nei lavori di manutenzione del-
le campagne; in alcune aree è stato anche utilizzato come mezzo di trasporto, per via della sua capacità di farsi strada su terreni scivolosi e alluvionati. L’uso alimentare del bufalo era già consueto nelle aree della produzione delle mozzarelle, ma riguardava solo i giovani maschi, gli annutoli, improduttivi e dunque sacrificabili. Oggi però qualcosa potrebbe cambiare: in Italia il settore annovera circa 20.000 lavoratori con il 90% delle produzioni tra Campania e basso Lazio, quasi tutte concentrate sulla commercializzazione del latte. Lo sfruttamento così sembra incompiuto: considerando che ogni anno i maschi rappresentano statisticamente il 52% dei parti, per una corretta differenziazione aziendale e generare ulteriori ricavi, non sembra un’idea così balzana puntare su un’integrazione economica dal commercio di carne bufalina. A ulteriore conferma, un validissimo studio della Camera di commercio di Frosinone (2007) ci aiuta a individuare le peculiarità alimentari di questo animale:
❱ minore concentrazione di lipidi totali, all’1.3% (nei bovini siamo al 19%); ❱ contenuto di colesterolo basso: 41.3 mg/100 g. Nel pollo il rapporto è
88/100, nel bovino 80 (come media tra i vari tagli)/100 e nella carne ovina 97/100
❱ percentuali inferiori di acidi grassi saturi (38.4%) e superiori di acidi grassi mono-insaturi (37.3% e polinsaturi (24.3%);
❱ livelli inferiori degli indici di aterogenicità (0.41) e di trombogenicità (1.16), valori che riguardano i rischi cardiovascolari
❱ migliore e maggiore composizione aminoacidica delle proteine rispetto ai bovini;
❱ alti livelli di ferro e zinco;
❱ contenuti rilevanti di vitamina B6 e, soprattutto, B12.
Relativamente alle caratteristiche organolettiche, la carne bufalina risulta più tenera (grazie a un minore contenuto in idrossiprolina) e succosa (maggiore potere di ritenzione idrica).
Oltre alle potenzialità alimentari, recenti studi hanno anche mostrato la buona qualità delle pelli per l’utilizzo nell’ambito tessile, che potrebbe rappresentare un’ulteriore riduzione degli scarti e l’aumento delle rese per capo.
Probabilmente la ragione per la quale il bufalo è sempre stato poco considerato in macelleria è l’accrescimento lento, che porta a un aumento dei costi. Attualmente, però, con l’esistenza di una parte di acquirenti disposti a spendere di più per un prodotto di alto valore e una maggiore attenzione al tema dietetico-alimentare, è forse arrivato il momento giusto per spiegare la maggiorazione di prezzo con un potenziale gastronomico e una scheda nutrizionale dai valori straordinari.
Bicchieri e distanze...
Ho sempre due pensieri fissi ogni volta che vado a trovare Antonio Lauretti: il primo è discretamente piacevole, perché io arrivo, lui stappa ed è difficile non fermarci a chiacchierare dei mille interessi in comune (bello, certo, ma non sai mai come va a finire); il secondo, invece,
Lingua di bufalo stagionata
è logistico-organizzativo, visto che abito a 100 km esatti dalla macelleria... Ma ci vuole poco a togliermi i tarli: Antonio esce dal banco e già mi porge il primo degli assaggi concordati.
Si parte con la tartare 100% carne di bufalo, che condiamo con un filo di extravergine Sabina DOP di media intensità: piatto delicato e a tendenza dolce, di cui si apprezzano qualità e tenerezza.
L’abbinamento con la XXI quattro di ECB, blanche sui generis (con aggiunta di rosmarino e buccia di limone) da 5% abv, è stuzzicante: la birra esprime freschezza, voglia di bella stagione, e sa interagire ottimamente con la tartare. Il dialogo aromatico si eleva a un livello piuttosto interessante, con la costante sfida tra le note citriche e quelle proteiche, e l’esito generale dell’incontro è dilettevole, generatore di suggestioni mediterranee, di colori intensi e vitali e con un effetto boccale di soddisfazione e pulizia, grazie alla gasatura e alla lieve acidità, esemplari nel ripulire l’untuosità.
Annuisco, ancora gaudente, rifletto sugli effetti dell’incontro gastronomico e prendo appunti, soddisfatto degli abbinamenti, ma già sento la voce di Antonio: “Dai, passiamo ai salumi.”
L’ora dei salumi
Nell’ottica del recupero di cui sopra, il primo assaggio è la lingua di bufalo (stagionata 30-40 giorni) conciata con quantità omeopatiche di sale, ginepro, alloro, aglio, pepe nero, finocchietto e coriandolo. All’aspetto e alla consistenza sembra vagamente capocollo (senza le abbondanti venature grasse). Il naso assomiglia alla carne salada del Trentino, ma è più rustico e terragno. In bocca è leggermente sapido e pepato, umami e, aromaticamente, fa di nuovo pensare a una vaga somiglianza con il capocollo. Particolare, con una grande lunghezza gusto-olfattiva. Per l’abbinamento la scelta è ricaduta sulla Export Hell di Schnitzlbaumer (birrificio familiare di Traunstein, circa
100 km a sud-est di Monaco di Baviera), equilibratissima helles, frutto di un’antica ricetta con ingredienti tedeschi di prima qualità e 5.2% in abv. Storicamente venivano classificate come export le birre base con un pizzico di alcol e luppolatura aggiuntivi per aiutarle a viaggiare con meno problemi, aumentandone, di fatto, la personalità: un buon supporto per affrontare le fini complessità boccali. Il risultato è che le tendenze dolci ballano felicemente con quelle sapide, le note speziate vengono armonizzate dalla morbidezza dei malti e il finale di bocca è uno scambio aromatico tra le note proteolitiche e la freschezza erbacea e speziata dei luppoli utilizzati. Procediamo con i salumi: bresaola di bufalo, la cui concia è la medesima della lingua e che, rispetto a quella famosa di bovino, si mostra più scura, con profumi e sapore molto simili, ma più
rustici; e cuore di bufalo, conciato con sale, coriandolo, pepe nero, cannella e noce moscata, che si presenta con colore bruno e tessitura consistente, mentre in bocca risulta sapido ed ematico, con una retrolfattiva promettente, ricca di eteree suggestioni speziate. Con caratteristiche di questo tipo abbiamo bisogno di morbidezza, malti caramellati, capacità abbracciante e discreta lunghezza gusto-olfattiva: l’abbinamento è così ricaduto sulla Renazzenfest, la märzen del sempre ottimo Biren, con il 6% in abv. La birra riesce a moderare la rusticità, incontrando alla perfezione le tendenze sapide e le speziature e detergendo i toni ematici e gli spigoli meno affettati. Con Antonio, riflettiamo sulla bellezza della concia, sulla genialità dei salumi come vivanda di conserva (“Del resto, come si può pensare di ammazzare
Export Hell di Schnitzlbaumer
Renazzenfest di Biren
animali così grandi e utilizzare solo filetto e controfiletto? È da pazzi. Proprio pensando ai nostri vecchi, obbligati a trasformare la necessità in opportunità, mi è venuta l’idea.”), sulle esaltanti possibilità concesse alle carni dal lavoro del sale, delle spezie, del tempo e delle fermentazioni.
Arriva la carne cotta
A chiudere le nostre appassionate elucubrazioni arriva il piattino con le due pietanze cotte. La prima è uno spiedino di bufalo, con inserti del (meraviglioso) lardo di maiale nero della casa (il grasso è sempre la cartina di tornasole della qualità dell’allevamento). Una carne garbata e confortevole. Stappiamo la Winter ale di St Peter’s e facciamo scopa: la birra ha corpo, offre note tostate, di melassa, frutta disidra-
tata, spezie scure e lascia una sensazione vellutata, grazie anche alla carbonazione sottile, e di discreta dolcezza, mentre la carne si fa corteggiare dalla rotondità della birra e lascia che questa aggreghi le note aromatiche all’umami e che le tendenze dolci/maltate e quelle sapide si incontrino. Entrambe godono di una coinvolgente fase gustoolfattiva, lasciando un finale balsamico e di caldarrosta. Un vero spettacolo. In chiusura, l’hamburger (fatto semplicemente con carne di bufalo e il suo grasso, sale, pepe e olio EVO), guarnito con una sottile fetta di caciotta di Amaseno (di latte di bufala, of course): il morso ha una delicatezza unica, è perfettamente equilibrato e dotato di una certa persistenza gustativa. Perciò l’accostamento ricade su una Double
IPA, muscolosa sì, ma dal (necessario) carattere malleabile, come la Epic lava di Rebel’s brewing, 9% abv. Realizzata con aggiunta di avena e cercando di mantenere una parte di zuccheri residui per avere una base opportunamente morbida, in grado di sostenere le generose quantità di luppolo presenti, scelti più per l’aroma che per l’amaro: i riconoscimenti di variegata frutta tropicale, tè nero e freschi agrumi fanno il paio con una birra non dotata di particolari secchezze o durezze, il che la rende perfetta per un abbinamento di questo tipo, dove serve sostanza, pienezza e capacità di accompagnare. Il contributo aromatico si appoggia bene alla base lattica e proteica della pietanza e l’abbinamento lascia una bocca suadente, ricca. ★
Winter ale di St Peter’s
Epic lava di Rebel’s brewing
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LO STRANO CASO DELLA BIRRA COI CACHI
Rassegna di articoli a cura degli studenti del corso di Laurea ad orientamento professionale in “Qualità e approvvigionamento di materie prime per l’agro-alimentare” (QuAM) dell’Università degli Studi di Parma.
In una certa misura la birra alla frutta è sempre esistita. Alcuni ritrovamenti archeologici mostrano come la birra fosse prodotta a partire da fermentazioni di cereali con aggiunta di spezie, erbe e frutta. Negli anni 80 dei produttori belgi della regione del Pajottenland cominciarono a fare della frut-
ta un ingrediente tradizionale delle celebri birre in stile Lambic, caratterizzate da sentori molto particolari legati allo sviluppo di fermentazioni spontanee. Questa prima sperimentazione segnò l’inizio della diffusione delle prime birre in stile Kriek (aromatizzate con ciliegie fresche) e Framboise (aromatizzate con lamponi).
Metodo di produzione
Il metodo di produzione della birra fruttata non si distingue eccessivamente da quello classico. Infatti, il processo di birrificazione prevede l’aggiunta di frutta fresca, frutta essiccata oppure
l’aggiunta di puree di frutta. La frutta o le puree vengono aggiunte durante il processo della fermentazione per conferire al prodotto finito aroma e sapore di frutta e andando ad aumentare il grado zuccherino e a volte il tenore alcolico della bevanda. Dal punto di vista microbiologico l’utilizzo in fermentazione di frutta fresca con buccia necessita particolari accortezze, infatti la buccia potrebbe apportare lieviti non selezionati e dare origine a fermentazioni indesiderate. Per questo motivo, la frutta fresca con buccia andrebbe sempre pretrattata prima di essere utilizzata. L’impiego di puree di frutta invece permette l’utilizzo della frutta senza incorrere in effetti indesiderati e fornisce anche vantaggi logistici. Per ottenere un buon prodotto, bilanciato e con sentori distintivi, il mastro birraio dovrà tenere in considerazione tutte le caratteristiche tipiche della frutta: aroma, acidità, tannini, amaro e soprattutto il contenuto zuccherino che nella frutta è rappresentato da zuccheri semplici, che tendono ad essere consumati facilmente dai lieviti e convertiti in alcol. Inoltre, la presenza di questi zuccheri è da tenere in considerazione per il bilanciamento della parte acida che la frutta aggiunta porta con sé. Per assaporare la vera birra fruttata sarebbe consigliato partire dai prodotti tradizionali. Alcuni esempi più famosi: ❱ Framboise Boon, la birra ai lamponi prodotta dal birrificio con sede a Lembeek, in Belgio, sotto la supervisione del maestro birraio Frank Boon;
di Alessandro Artoni, Giulio Parolari, Giorgi Tchvritidze
❱ Krieky Bones, la birra fermentata alle amarene prodotta in California da Firestone Walker;
❱ Italian Grape Ale, la birra aromatizzata con mosto d’uva; è una birra ad alta fermentazione prodotta principalmente da birrifici artigianali italiani. Questa tipologia di birre rappresenta il nuovo stile Italiano, che sta ricevendo sempre più consensi anche a livello mondiale.
La cerveza de caqui (o meglio, la birra al cachi)
Un esempio di birra alla frutta, utilizzando prodotti legati al territorio, è stato effettuato in uno studio da Alejandro Martinez, un ricercatore che ha osservato l’effetto di aggiunte progressive di cachi alla birra.
Il cachi è una delle più antiche piante da frutta coltivate dall’uomo. Il suo frutto è detto anche mela d’Oriente. Oggi la pianta è diffusa in molte regioni temperate del mondo, potendo essa crescere in diverse condizioni climatiche. Il frutto ha una forma simile a un pomodoro, con una buccia sottile e colorata che può variare dal giallo all’arancione al rosso. Una delle caratteristiche più distintive del cachi, quando è maturo, è la sua consistenza morbida e dolce. Se consumati a completa maturazione, i frutti ricchi d’acqua (botanicamente vengono infatti definiti “bacche carnose”), contengono molti zuccheri, vitamina A, C, K e potassio.
L’esperimento
Nello studio, sono state testate quattro diverse formulazioni utilizzando in diversa percentuale malto e di cachi. Il risultato dell’esperimento ha portato all’ottenimento di birre alla frutta, con un contenuto alcolico tra 3,6-5,6% v/v, valore che aumentava all’aumentare della quantità di frutta presente nel mosto. Dato interessante, le birre contenenti più cachi, avevano inizialmente un maggior contenuto in fruttosio, che è risultato a più lento utilizzo da parte
dei lieviti. Come ci si poteva immaginare, il pH della birra diventa più acido all’aumento del contenuto in frutta variando da 3.97 a 4.13, per l’abbondanza di acidi organici, citrico e lattico. Altro dato rilevato è stato il colore, che virava verso il giallo arancio, all’aumentare del quantitativo di cachi utilizzati, per il maggior contenuto in caroteni. Per quanto riguarda la capacità antiossidante della birra, è stato osservato come questo sia più legato all’attività presente in malto e luppolo piuttosto che al contenuto di composti antiossidanti del cachi. Il cachi non possiede un grande potere antiossidante e di conseguenza le birre prodotte con un maggior contenuto in cachi avevano un potere antiossidante minore.
Esperienza sensoriale
L’esperimento ha previsto anche una parte di analisi sensoriale delle bevande, con assaggio e valutazione delle stesse da parte di 20 consumatori. I
risultati hanno portato alla luce una preferenza marcata per la bevanda con 75% di cachi; al secondo posto, è stata valutata positivamente la birra che aveva nella ricetta il 50% di malto e il 50% di cachi. I contributi dati dall’aggiunta di frutta sono stati quindi valutati positivamente sia dal punto di vista analitico, sia dal punto di vista sensoriale. Il cachi ha fornito acidità, specialmente con acidi malici e citrici, zuccheri fermentabili e carotenoidi, che hanno influenzato in modo decisivo la tonalità arancione chiaro della birra e il suo apprezzamento da parte degli assaggiatori. L’aggiunta di cachi ha portato ad una bevanda o birra con aroma fruttato i cui parametri di qualità erano all’interno degli standard. I risultati complessivi hanno mostrato che la produzione di birra con l’aggiunta di cachi potrebbe aprire nuovi usi per questi frutti a tratti desueti ma contraddistinti da un’alta biodiversità e legame con i territori. ★
LA QUALITÀ IN MICROBIRRIFICIO Quinta puntata: l’analisi sensoriale della birra (seconda parte)
Ci siamo lasciati nel numero 2/24 di BNM parlando degli strumenti dell’analisi sensoriale e di come questi strumenti siano a disposizione di tutti. È venuto il momento di parlare di metodi, cioè come usare questi strumenti.
La base del metodo di analisi sensoriale
Nella terminologia dell’analisi sensoriale si parla di valore soglia (threshold in inglese) cioè della capacità di riconoscere una sostanza alla più bassa concentrazione possibile, dal 50% del panel.
La soglia vale sia per le percezioni olfattive sia per quelle gustative (tattili comprese).
Per quattro dei gusti base il valore soglia è il seguente:
❱ dolce: 4000 mg/l di saccarosio ovvero 12 mMoli;
❱ salato: 600 mg/l di cloruro di sodio ovvero 10,3 mMoli;
❱ acido: 40 mg/ l di acido citrico ovvero 0,21 mMoli;
❱ amaro: 20 mg/l di chinino ovvero 0,025 mMoli.
Per quanto riguarda l’umami, risulta più difficile determinare il valore soglia. Uno studio intitolato Taste sensitivity for monosodium glutamate and an increased liking of dietary protein1 pubblicato online da Cambridge University Press il 2 gennaio 2008 ha concluso che il valore soglia del MSG (glutammato monosodico) sarebbe di 3300 mg/l (17,6 nMoli).
Tale valore scenderebbe a 2600 mg/l (14 mMoli) con l’aggiunta dello 0,25% di IMP (inosina fosfato), un altro componente del sapore umami: lo studio ha quindi concluso affermando che la percezione proteica dell’umami risulta ancora più complicata.
Fortunatamente per i nostri scopi l’umami risulta una proprietà che non si riferisce direttamente alla stragrande maggioranza delle birre, almeno non alle birre occidentali.
Tra i flavor primari ricordiamo l’alcol che ha un valore soglia di 14 g/l (0,30 mMoli), e l’anidride carbonica con valore soglia di 1,1 g/l (0,025 mMoli).
Possiamo notare come i nostri sensi abbiano una estrema sensibilità all’amaro e all’acido rispetto a salato, umami e soprattutto al dolce.
Caratteristiche del valutatore
La ragione di queste differenze dipende dalla storia del genere umano, quando i nostri antenati preistorici utilizzavano il senso del gusto per distinguere i cibi potenzialmente tossici, segnalati dall’amaro, da quelli contaminati che diventavano acidi, in contrapposizione a quelli dolci, salati e gustosi che fornivano energia, proteine e sali minerali. Parliamo ora delle caratteristiche dei componenti di un panel: sulla base dell’esperienza sviluppata in tanti anni di analisi sensoriale, gli elementi che
caratterizzano un buon valutatore sono i seguenti, in ordine di priorità:
1. Capacità di concentrazione.
2. Interesse all’assaggio.
3. Formazione.
4. Esperienza.
5. Capacità fisiologica intesa come sensibilità agli stimoli.
6. Età.
Durante l’analisi sensoriale i valutatori devono mantenere il massimo silenzio e non devono scambiare osservazioni finché ognuno ha compilato il proprio modulo.
Telefoni e altri mezzi di disturbo devono essere spenti.
I valutatori devono evitare l’uso di profumi intensi, i fumatori non devono essere esclusi, ma devono astenersi dal fumo almeno un’ora prima dell’inizio dei test.
Analisi sensoriale
Essa può essere discriminativa o descrittiva. Lo scopo dell’analisi discriminativa è individuare le differenze significative tra i prodotti senza la preoccupazione di stabilire una scala di valutazione. Lo scopo si raggiunge attraverso un confronto diretto tra due o più campioni. Si usano due soli campioni a confronto nei
test A/non A, duo-trio test, test a triangolo; più campioni nel ranking test. L’analisi discriminativa più utilizzata è il test a triangolo.
Le norme ISO hanno stabilito le linee guida e accolto e finalizzato le regole principali che si devono seguire per attuare in modo efficace e riproducibile l’analisi sensoriale. Le stesse regole che possiamo ritrovare nel testo di Meilgaard, Civille e Carr Sensory evaluation Techniques, giunto attualmente alla quinta edizione.
Test a triangolo
È il test discriminativo per eccellenza: si usa per comparare due prodotti simili ed esprimere la propria preferenza. Il degustatore riceve tre bicchieri: due conterranno lo stesso prodotto, il terzo il prodotto diverso.
I prodotti che devono essere messi a confronto devono entrare a far parte casualmente o del singolo bicchiere o del doppio di ogni degustatore. È compito del preparatore tenere la chiave della composizione della terna di bicchieri, ed è pure suo compito verificare se è il caso di usare bicchieri opachi per eliminare la riconoscibilità alla vista, nel caso i campioni fossero riconoscibili per colore o torbidità.
Il valutatore deve isolare, dopo un primo esame, il campione singolo. Nel caso sia richiesto si consiglia di non ricercare immediatamente una preferenza, che sarà comunicata solo dopo aver accertato che l’individuazione del campione singolo sia corretta.
Il risultato che indica se esiste una differenza tra i campioni dipende dalle risposte corrette in confronto al numero dei valutatori che compongono il panel: le linee guida che regolano il modo corretto di applicazione sono indicate nella norma ISO 4120. Ad esempio, se prendiamo in considerazione una confidenza del 95%, la differenza tra i campioni è considerata significativa secondo la tabella A1 della norma quando almeno 6 degustatori su 8 hanno riconosciuto la combinazione corretta; la preferenza è considerata oggettiva se almeno 5 degustatori tra quelli che hanno riconosciuto la combinazione corretta hanno anche preferito lo stesso campione. Dal punto di vista strettamente statistico, se volessi avere dei dati inoppugnabili dovrei avere un panel con almeno 18 valutatori o ripetere l’esperienza più volte, possibilmente utilizzando persone sempre diverse. Comunque, nella maggior parte dei casi, un panel di almeno 8 valutatori offre delle indicazioni sufficientemente valide.
Se voglio cogliere non la semplice differenza, ma invece la similarità tra i due campioni devo utilizzare la tabella A2 della norma, ed è consigliabile avere almeno un numero di 30 valutatori.
In linea di principio, si versa la birra nei bicchieri attenendosi alla disposizione segnata su un modulo preparato per lo scopo, ad esempio, dati 2 campioni “A” e “B” di cui si vuole sapere se esiste una differenza oppure si vuole misurare la similarità, si dispone ogni terna di bicchieri secondo uno schema deciso dal panel leader ad esempio: ABB, ABA, BBA, BAB, AAB, BAA e così via Passiamo ora all’analisi sensoriale descrittiva, denominata profilo sensoriale e regolata in linea generale per molti tipi di prodotti alimentari dalla norma ISO 13299.
Lo scopo dell’analisi descrittiva è individuare tutte le caratteristiche del prodotto che possono essere convertite in stimoli sensoriali e stabilire una corrispondenza biunivoca tra la sensazione ricevuta e un attributo specifico che può essere aggettivato (es. banana, mieloso, etc.) o descritto più precisamente come sostanza chimica (isoamil acetato, solfuri, etc.). Valutare infine l’attributo secondo una scala di valori arbitraria, ma convenzionata.
Profilo d’aroma
Meilgaard ha denominato tale metodo
Flavor profile e ne attribuisce lo sviluppo ad Arthur D. Little negli anni ’40. Il metodo si applica al prodotto finito: lo scopo è descrivere il profilo d’aroma attraverso termini codificati ed evidenziare eventuali sensibili difetti del prodotto.
Con la birra, la prova viene condotta secondo i sistemi dell’analisi sensoriale da un panel di almeno sei assaggiatori addestrati che sono informati solo della tipologia del prodotto di ciascuna sessione.
Un cambiamento tipico del prodotto birra è dovuto all’invecchiamento, ragion per cui la prova viene condotta sia sul prodotto fresco sia a distanza nel tempo, oppure sottoponendo la birra a invecchiamento forzato. In quest’ultimo caso, per valutare l’ossidazione del prodotto nel tempo è consigliato il test a triangolo.
I campioni destinati all’analisi sensoriale devono essere conservati in frigorifero dal quale verranno prelevati qualche tempo prima della degustazione, termostatati per uniformare la temperatura a 14/17 °C.
Ogni sessione di degustazione non deve comprendere più di quattro bicchieri e deve essere più omogenea possibile: la differenza di grado Plato non deve superare il 10%, la differenza di colore EBC non deve superare il 50%. Le birre di alta fermentazione, le specialità, le birre fortemente luppolate, le analcoliche devono essere valutate in sessioni separate. La freschezza o meno del prodotto non è motivo di discriminazione.
Le sessioni, generalmente non superiori a quattro, devono essere disposte in ordine crescente di grado Plato.
Un vassoio con i bicchieri numerati è destinato a ciascun valutatore; la birra è versata nei bicchieri attenendosi alla disposizione segnata su un modulo preparato per lo scopo e ogni valutatore deve compilare il modulo con firma leggibile e data.
Tab. 1 - Elementi che influenzano il profilo sensoriale
Al ricevimento di ogni vassoio, nell’appropriata sessione del modulo, il valutatore deve riportare il numero di ciascun bicchiere in ordine crescente.
Ad ogni campione valutato corrisponde un termine identificato nella ruota dell’aroma.
Ad ogni termine si dà un peso o un voto con un metodo che sarà stato concordato preventivamente dal panel.
Al termine, il conduttore della degustazione raccoglie i voti di ciascun valutatore e informa i partecipanti riguardo al punteggio medio attribuito a ciascuna birra valutata.
Tutti i valutatori devono essere adeguatamente formati e occorre stabilire i limiti di accettabilità per ogni off-flavor in base al valore soglia della sostanza valutata.
Teniamo in considerazione il valore soglia per ognuno di questi elementi. Meilgaard ha individuato un indice per
misurare l’impatto di questi elementi sul profilo sensoriale della birra, dividendo la quantità in birra per la sua soglia: si ottengono così le flavor unit. Più questo valore è alto, maggiore sarà l’impatto sul profilo sensoriale della birra.
FU=Concentrazione in birra/ valore soglia
Quando il valore FU = 1, la concentrazione in birra eguaglia il valore soglia, vale a dire che solo il 50% del panel è in grado di riconoscerla. Nel caso le FU raddoppino, la percentuale sale e si attesta tra il 50% e il 100%; se le FU triplicano arriviamo molto vicino al 100% di riconoscimento da parte del panel (vedi Fig. 2)
Prendiamo in considerazione alcuni elementi che impattano sul profilo sensoriale della birra (vedi tabella).
La norma ISO 13299 e Sensory evaluation Techniques descrivono in modo ac-
curato come usare il valore soglia e le flavor unit.
Ad esempio, possiamo usare questi parametri per la formazione del panel, infatti Flavor Activ, Aroxa Siebel, solo per citare alcuni dei più conosciuti produttori di standard per l’analisi sensoriale, forniscono degli standard stabili, che disciolti in un litro di birra conferiscono una concentrazione della sostanza che vogliamo usare come standard e che sarà 3 volte superiore alla soglia, vale a dire 3 FU.
Valutazione dei risultati
Per la formazione dei neofiti possiamo innalzare la concentrazione utilizzando mezzo litro di birra, in modo da avere un valore di 6 FU, permettendo il riconoscimento certo a tutti i componenti del panel, almeno in una fase iniziale. Il valutatore può farsi un’idea precisa di come quella determinata sostanza impatta sul profilo sensoriale. L’ad-
destramento del panel può durare diverse settimane, ed è necessaria una verifica periodica dei valutatori, sempre attraverso il metodo di standard a concentrazione nota. Il panel leader, in base alle esigenze decide quali sono i parametri ritenuti fondamentali: stili
di birra, difetti che si presentano con maggiore frequenza, altre caratteristiche volute dal birraio.
A questo punto il panel leader decide come convertire i valori medi ottenuti per ogni parametro in un attributo descrittivo, ad esempio: non soddisfa-
cente, appena accettabile, sufficiente, soddisfacente. Le tecniche appena descritte possono essere utilizzate per prendere decisioni molto importanti sulla qualità del prodotto, affidando le scelte a criteri oggettivi.
In questo modo l’analisi sensoriale potrà essere integrata in modo coerente ai risultati analitici di laboratorio, contribuendo efficacemente alle decisioni che dovrà prendere chi è responsabile della qualità del prodotto.
Ci rendiamo conto che istituire un sistema di analisi sensoriale non è così semplice come ci si potrebbe aspettare da un primo approccio superficiale, ma è possibile adeguare questa attività in base alle esigenze e ai mezzi del birrificio, senza però perdere di vista i principi e le regole principali a cui è ispirata.
In Figura 2 è illustrato come esempio un grafico di una birra lager sottoposta ad analisi strumentale: i valori di concentrazione dei flavor presenti nella birra sono stati divisi per il loro valore soglia per ricavarne le Flavour Units. Dal grafico possiamo notare come i componenti primari come CO2, alcol, Bitter units presentino un valore FU abbondantemente superiore all’unità. Anche isoamil acetato e DMS superano l’unità: ciò significa che ognuno di noi, almeno per i primi tre, è in grado di riconoscerli individualmente. Tutti i valori al di sotto dell’unità non possono essere riconosciuti individualmente, ma potranno formare, insieme a tutti gli altri, anche quelli che non sono rilevati dall’esame strumentale, il carattere aromatico di quella specifica birra. ★
Note
1 https://doi.org/10.1017/S000711450788295X
2 Uno schema (non esaustivo) di Flavour Unit per una tipica lager europea. Pochi composti superano la soglia di percezione. L’aggiunta di aromi o difetti può modificare considerevolmente lo schema: per esempio, una breve esposizione della birra alla luce svilupperebbe FU di MBT (3-metil-2-butene-1-tiolo) superando i livelli di tutti gli altri composti aromatici.
Flavour Unit in una birra Lager2
Le guide Le guide Le guide
IL MANUALE DEL BIRRAIO
Il testo più completo e autorevole
sulla scienza e la pratica della birrificazione, riferimento indispensabile per tutti e per gli studiosi della materia. Illustra i principi alla base del processo di produzione della birra, dalla maltazione all’ammostamento, all’utilizzo del luppolo e del lievito. Il volume approfondisce inoltre le fasi della fermentazione, i pericoli di contaminazione, la maturazione, l’imbottigliamento influenze sul gusto finale della birra.
Particolare attenzione è dedicata anche ingegneristici e tecnologici, per offrire teoriche e pratiche all’azienda birraria e piccole dimensioni.
ISBN 978-88-6895-767-4
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Prezzo 59,90 euro
di Angelo Ruggiero
Dal viaggio alla… PENTOLA
Viaggiare per birra è una delle attività più belle che si possano fare. Spostarsi per andare a bere qualcosa di unico in un luogo distante da casa potrebbe sembrare qualcosa di frivolo, ma non è semplicemente un puro atto materiale. Un tempo si parlava di “beer hunting”, un termine che forse oggi rischia di apparire superato perché di buone birre capita di berne ovunque a due passi da casa e non occorre andare in avanscoperta per bere bene. Ma è ancora fondamentale spostarsi, prendere un treno o un aereo e
allontanarsi in alcune direzioni perché ci sono realtà produttive di cui è davvero difficile trovare un corrispettivo nel panorama nazionale. Molto spesso chi viaggia per birre, non solo per visitare locali e passare qualche ora, ma facendolo con cognizione di causa, organizzazione e motivazione, non è un semplice bevitore. Non è la stessa cosa che andare a un festival: tocca avere voglia di ascoltare i produttori, desiderare realmente di capire come vengono concepite certe birre e qual è il contesto di materie prime che
ne permettono la realizzazione. Per cui in molti casi si tratta di veri appassionati, spesso birrai o homebrewer. Molte volte è proprio questa la veste produttiva in cui mi sono trovato ad interagire con birre e birrai stranieri, cercando di capire anche come poter replicare sull’impianto personale qualcosa che somigliasse a certe gemme bevute.
Belgio
Una delle birre più enigmatiche nel panorama europeo, per esempio, porta il nome di Orval, unica birra imbottigliata dai trappisti dell’abbazia di Notre Dame d’Orval con sede in Belgio a Florenville, poco distante dal confine francese. L’unica birra prodotta da loro in bottiglia, se si esclude la versione Orval Vert (un tempo chiamata Petite Orval) ritrovabile solo alla spina dello storico bar-ristorante L’Ange Gardien poco distante. È una birra iconica perché riesce a tenere in equilibrio sia il raffinato contributo maltato che il sofisticato aroma, a sua volta composto da un’anima luppolata e dall’altra derivante dall’azione dei Brettanomyces. È una di quelle birre che si distinguevano già decenni fa e che tuttora ha mantenuto il suo successo grazie all’eleganza del suo aroma. Le fonti, nello specifico il libro “Brew Like a Monk”, parlano di un complesso susseguirsi di fermentazioni a cominciare dalla prima con un lievito ale inoculato a 14 °C e fatto lavorare fino a 22 °C fino al quarto giorno, seguito da un blend tra un nuovo lievito ad alta fermenta-
zione e un Brettanomyces che lavora per 3 settimane a 15 °C insieme a Styrian Goldings in coni. Per finire, dopo un processo di centrifuga che riesce ad eliminare il lievito ale ma non il Brettanomyces, quest’ultimo rifermenta con ulteriore lievito fresco in bottiglia per un altro caratteristico marchio di fabbrica di Orval, ovvero l’abbondante carbonazione. Un’unica birra ma decisamente complessa nella realizzazione, tanto che in casa ci si può avvicinare ma mai eguagliare con il solo uso delle pentole. Di sicuro - ed è quello che ho fatto tempo fa - la prova più facile è quella di raccogliere i fondi di diverse bottiglie e sfruttare lo stesso Brett, senza alcuna speranza di ripescare il lievito ale delle prime fasi (come per tutte le birre trappiste) di fermentazione che nella sua classica bottiglia è sostituito da lievito apposito per il priming. Con quel Brett, che dovrebbe essere di tipo Bruxellensis, ci si può sbilanciare sul versante degli aromi esotici e ottenere davvero qualcosa di elegante a partire da una base semplice. Anche sui malti e sull’inquadramento della birra privata del funky, ci si mette a cavallo tra una saison di colore ambrato, una patersbier più alcolica, una belgian pale ale ma nessuno di questi stili calza perfettamente e anche questo che la rende davvero inimitabile. Solo sul luppolo le cose possono essere più interpretabili, dato che dalla teoria degli ultimi anni legata al mondo IPA e NEIPA è chiaro a tutti come un luppolo inserito in fase di piena fermentazione attivi biotrasformazioni tali da esaltare ulteriormente il suo profilo in termini di intensità e ventaglio fruttato. Non è impossibile avvicinarsi a questa birra, nella pratica potremmo dire sia fattibile, ma mettere insieme tutte queste componenti può non essere alla portata di tutti gli homebrewer.
Repubblica Ceca
Ultimamente e finalmente sta facendo parlare molto di sé il mondo birrario
ceco. Le maggiori aperture sociali e culturali degli ultimi anni verso il resto d’Europa hanno fatto crescere ancor di più la voglia dei cechi di abbracciare il mondo craft, tra svecchiamento di birrifici storici e nuove realtà, tenendosi sempre ben saldi alle proprie radici e ai propri stili. Spesso si parla di pils ceche, ma le numerose sfaccettature che distinguono le varie Výčepní Ležák e Světlý Ležák, di diverse gradazioni e sfumature cromatiche, una volta conosciute e approfondite a colpi di boccali půllitr, spalancano un mondo di dettagli che difficilmente si coglierebbe bevendo una birra acquistata come generica “czech pils”. Anche solo girando per Praga è incredibile come anche tipologie molto simili esteticamente abbiano dei tratti comuni come la mielosità dei malti, il corpo, il livello di amaro e l’equilibrio finale, ma differiscano per sfuggevoli aromi secondari. Come non citare una delle birre che più
sta unendo mondo classico e moderno della birra ceca come la Vinohradská 11, Výčepní Ležák dall’audace bilanciamento tra l’intenso mielato e la luppolatura verace. È davvero difficile per un homebrewer decodificare queste birre, apparentemente banali ma tutt’altro che immediate nell’interpretazione. Di sicuro il merito è in parte della decozione, quasi sempre doppia (a volte tripla), realizzata praticamente in tutti i birrifici, dai colossi Plzeňský Prazdroj e Budějovický Budvar ai piccoli micro praghesi Bubeneč, Lod’, Prokopák e altri. Questo aiuta moltissimo ad aggiungere livelli di complessità al puzzle maltato, così come la fermentazione a vasca aperta, altro must della tradizione ceca, capace di far interagire diversamente lievito (non così influente in termini di ceppo, bensì di freschezza) e luppolo lasciando per più tempo quest’ultimo in sospensione ed estraendo un ventaglio di beta-acidi proba-
L’Orval ha mantenuto il suo successo grazie all’eleganza del suo aroma
bilmente più ampio. La differenza delle materie prime fa il resto: i malti sono meno modificati e più propensi alla decozione rispetto a quelli più collaudati del resto d’Europa e i luppoli sono molto espressivi, pescando tra le varie cultivar dello Žatec (Saaz), aggiunto sempre con generosità. Alla luce di questo risulta una grande sfida riuscire a riproporre in casa qualcosa che si avvicini alle lager ceche in assenza di materie prime adeguate e di impegno ulteriore su decozione e fermentazione in un recipiente che simuli la vasca aperta. Attrezzandosi adeguatamente e sforzandosi di trovare rivenditori cechi che spediscano in Italia (cercando online si trova qualcosa), ci si può provare ad avvicinare, al netto della spillatura con side-pull faucet con la relativa inebriante schiuma tipica dei banconi cechi.
Vinohradská 11, lager ceca prodotta a Praga
Stati Uniti
In tema di IPA, invece, c’è da dire che spesso i metodi produttivi e le recenti informazioni tecnico-scientifiche in tema di trattamento del luppolo a caldo e a freddo hanno fatto decisamente salire il livello delle birre luppolate, perfino in ambito homebrewing. Innanzitutto per via delle attrezzature, con i moderni e ormai attualissimi fermentatori in pressione, capaci di reggere una birra carbonata della sua stessa CO2 e dei suoi aromi, quindi di ridurre all’osso il contatto con l’ossigeno presente nell’aria e di minimizzare la perdita di aromi e di freschezza. Anche il confezionamento stesso, con i moderni accrocchi fai da te o già assemblati, può garantire - se ben condotto - ottimi risultati in termini di freschezza degli aromi del luppolo aggiunto nei vari dry hopping. Al di là dell’attrezzatura, sono anche le materie prime ad aver dato anche un bello scatto in avanti, con l’avvento di luppolo in
formato CRYO o analoghi, un pellet con maggior concentrazione di luppolina e quindi con resa superiore in termini di intensità. Le ricette stesse sono cambiate nel tempo, da quando le IPA americane erano riprodotte quasi sempre con una certa dose di malti Caramel e/o Crystal. Sicuramente la presenza di IPA di livello eccellente in alcuni (pochi, a dire il vero) eventi nazionali provenienti direttamente dagli USA ha giocato un certo ruolo nello spingere homebrewer e birrai italiani a produrre qualcosa di ancor più intenso, sforzandosi molto sul processo. È quello che è successo soprattutto sulle NEIPA, diventate nel giro di un paio d’anni da oggetto misterioso dei trend della East-Coast a stile assodato, compreso in molte delle sue sfaccettature e a un certo punto perfino quasi scontato. La grande conquista, a mio parere, è quella di aver però finalmente dominato la conoscenza delle west coast IPA, dapprima blandamente
imitate e poi finalmente rivalutate in via definitiva. La grandezza di queste birre e lo stupore che sono in grado di donare si apprezzano, come è ovvio che sia, quando si riesce a mettere piede in qualche lodevole (e non sono pochi) birrificio americano, specie se situato negli stati di California, Oregon e Washington. Può sembrare una banalità e perfino un luogo comune, ma la disponibilità di luppolo di primissima scelta che può avere un birrificio di media grandezza non è da tutti e può essere appannaggio solo dei pochi birrifici europei in hype (tra cui solo una manciata gli italiani), raramente nelle possibilità di selezionare per sé i raccolti delle farm e spesso costretti ad accontentarsi di quanto disponibile da importatori e rivenditori: per forza di cose non il massimo della qualità disponibile. Bevendo le straordinarie IPA in alcuni brewpub californiani, come la The Jetty IPA nel brewpub Pizza Port ad Ocean Beach, San Diego o la mitica Russian River Pliny
Ancora Belgio
the Elder ho davvero toccato con mano quanto questa qualità sia per forza di cose dovuta alla disponibilità di luppolo di alto pregio, oltre che ovviamente alla consapevolezza di come debba essere realizzata una buona WCIPA. Qualche homebrewer in Italia sta pazzamente
provando ad ordinare direttamente dagli USA luppoli freschi, ma è chiaro che il dispendio economico non è indifferente: sicuramente vale la pena, così come è didattico, illuminante ed estremamente appagante andare direttamente in California e berle lì, a parità di spesa.
Quando si parla di Belgio, invece, a dispetto di un’illusoria facilità nel poter visitare e conoscere birrifici spesso attrezzati per visite e approfondimenti, ci sono poche certezze. La tipica sincerità alternata a goliardia dei birrai è spesso fuorviante per chiunque abbia provato a domandare informazioni tecniche per quel che riguarda soprattutto i lieviti utilizzati in alcune birre iconiche. Nel tentativo di strappare alcune dritte, alcuni birrai avvertono quasi un’intrusione nella propria intimità di artigiani e non è affatto facile ottenere dagli stessi produttori informazioni univoche e chiare sulle proprie birre. Nulla di male, per carità, così come a volte è enigmatico che alcune birre industriali (anche se neppure in Belgio, come nel resto d’Europa, esiste questa distinzione) risultino eccellenti bevute sul territorio belga per via di una conservazione parecchio superiore a quella che risulta dai diversi passaggi distributivi che poi le portano in Italia. Ma c’è anche di più, perché non ci si capacita di come, per esempio, il colosso Van Steenberge Brouwerij produca una birra quasi dozzinale come la Gulden Draak e sia anche in grado di creare una delle birre più celestiali che si possano bere a Bruges, ovvero la Tripel van de Garre. Fino a qualche anno fa reperibile solo esclusivamente alla spina di quel posticino di De Garre, introvabile staminee nei vicoli della cittadina fiamminga, è una birra quasi impossibile da non bere e ribere nonostante il suo sostenuto grado alcolico di 11% alc. Tecnicamente è più vicina a una Belgian Golden Strong Ale che a una Tripel, in quanto molto opulenta al naso: un aroma floreale molto intenso e dai toni molto delicati, freschi, di gelsomino e crema pasticcera, di zucchero a velo, torta di mele, crostata alla frutta. Splendidamente solida, con malto e soprattutto lievito in evidenza a dare anche fragranti sfumature fruttate, con grande sostegno al tenore alcolico. Bevendola mi è capitato di sognare di riprodurla… ma quale lievito usare? La ri-
L’inimitabile Garre, a cavallo degli stili tripel e golden belgian strong ale
Il brewpub americano Pizza Port a Ocean Beach, San Diego
sposta è destinata a non esserci: mentre sulla ricetta di malti e luppoli si può facilmente prevedere Pils e qualche luppolo EKG, Styrian Goldings o similari, è difficile imitare il livello di tolleranza all’alcol, attenuazione e abbondanza di esteri che caratterizzano questa birra. Un generico ceppo trappist può essere una buona base, ma altri fattori come pitching rate (probabilmente alto), vitalità (di sicuro alta) e temperature di fermentazione (presumibilmente basse per i primissimi giorni ma a seguire anche molto alte) di sicuro giocano un ruolo chiave, così come un’elevata carbonazione finale. È bello immaginare cosa possa esserci dietro alla realizzazione di una birra così raffinata, meno bello rendersi conto che per ottenere questi livelli forse può essere meglio mettere in calendario qualche periodica puntata in quel di Bruges e tagliare la testa al toro.
Regno Unito
Durante il mio ultimo viaggio in Inghilterra mi sono poi chiesto come fosse possibile assicurare la bontà di alcune bitter, la complessità dei malti e la fragranza dei luppoli. Non sempre viag-
giare in UK per pub significa bere bene, ma selezionando i locali più meritevoli tra la miriade di luoghi della tradizione, si può facilmente incappare in qualche bella sorpresa. Una di queste è sicuramente la Harvey’s Sussex Bitter, una birra semplice ma che - come sempre in questi casi - porta a ragionare su congetture infinite per capire come sia fatta e magari provare a riprodurla. Kent Bramling Cross, Sussex Progress, Goldings, Fuggle: queste le varietà di luppolo che sono conservate nel magazzino del birrificio di Lewes, ma la particolarità è che per questi non è prevista né refrigerazione, né sottovuoto, bensì sono prelevati di volta in volta da sacchi aperti, accantonati un angolo qualsiasi del deposito. Un’immagine che farebbe rabbrividire qualsiasi appassionato, ma che una volta lì mi ha dato quasi una speranza: quando c’è piena consapevolezza del proprio impianto (tini in rame), del processo (hanno fermentatori a vasca aperta con lievito pare propagato ininterrottamente dal 1959) e soprattutto della shelf life (cask e bottiglia, alcune rifermentate e altri no in base alla birra in questione),
anche scelte apparentemente scellerate possono trovare una propria giustificazione. Produrre una bitter in casa con la speranza che da luppoli vecchi possa venire fuori una birra che resista alle settimane di maturazione, al caldo, all’ossidazione e a tanti altri fattori negativi è un’eresia. Per cui sarebbe sempre bene, con questi stili, attenersi alla loro attitudine ad essere consumati freschi e in breve tempo, proprio come accade per questa best-seller dei banconi inglesi.
Queste e tante altre birre, che hanno raggiunto una propria notorietà in seguito all’unicità di quello che riescono a suscitare in chi le beve, meritano senz’altro di essere prese come canovaccio per provare a sporcarsi le mani nella speranza di poter poi bere qualcosa che evochi lontanamente qualcosa di simile. Ma senza dubbio vanno prima conosciute come meritano, ovvero ognuna nel proprio luogo d’origine, se possibile non solo sporadicamente. Solo così saremo riusciti nell’intento di apprendere, in parte di capire quello che c’è dietro e forse di emozionarci ancora. ★
Il “magazzino” luppoli del birrificio Harvey’s
FORTE, FORTISSIMA
Tecniche e problematiche di fermentazione di birre ad alta gradazione
Riprendiamo in questo articolo l’argomento della produzione di birre a gradazione molto elevata, intendendo con ciò quelle che vanno ben oltre il 10% alc., superando il 13% e anche più. Dopo aver esaminato in precedenti numeri (BNM 4/21 e 2/24) i metodi per ottenere un mosto a gradazione ade-
guata, veniamo al problema principale: riuscire a fermentarlo! Anche in questo articolo affronterò l’argomento in ottica generale - in certi casi riprendendo concetti già ben noti - sperando di stimolare gli opportuni approfondimenti. Affrontare un mosto così concentrato è un compito gravoso per il lievito, ed è ne-
cessario quindi provvedere alle migliori condizioni nelle quali possa lavorare.
La dose
Cominciamo dalla quantità: come è noto, per il lievito non si parla tanto di una dose esatta ma piuttosto di una quantità minima atta a garantire una
buona fermentazione. Questa dose è proporzionale non solo alla quantità di mosto ma anche alla sua gradazione (si parla di 0.6 - 1.0 milioni di cellule per ml per grado plato). Per fare un esempio, 20 litri di mosto ad una gradazione di 30 Plato richiedono circa 500 miliardi di cellule, equivalenti a 4 bustine di lievito secco. Usando il lievito liquido, è necessario un sostanzioso starter di diversi litri. In effetti, il modo migliore per ottenere una quantità adeguata di lievito e una buona partenza della fermentazione è quello di utilizzare l’intero “fondo” di una cotta precedente, appena imbottigliata!
Ossigenazione
Altro fattore importante è quello dell’ossigenazione. Un mosto ad alta gradazione richiede una maggiore quantità di ossigeno, ma al tempo stesso è più difficile disciogliervelo! Per la verità, studi e metodologie recenti puntano più sull’ossigenazione dello starter che non del mosto, in modo da stimolare una migliore crescita del lievito già nello starter e da sottoporre al rischio di ossidazione questo invece del mosto. Nel caso di birre extra-strong penso però che sia consigliabile agire su entrambi i fronti, ossia grande quantità di lievito e ossigenazione del mosto. Quest’ultima può
avvenire anche a 2 o 3 riprese nell’arco delle prime 24 ore, idealmente con ossigeno puro ma in mancanza di questo utilizzando i classici metodi conosciuti.
Il ceppo
Altro fattore delicato è la scelta del ceppo di lievito. Riguardo alla capacità di fermentazione, sono due i parametri da tenere d’occhio: attenuazione e tolleranza all’alcool. Un lievito infatti può terminare la sua attività per due motivi: incapacità di fermentare i tipi di zuccheri residui o “intossicazione” causata dall’alcol da lui stesso prodotto; è logico che nel nostro caso ci interessa maggiormente il secondo aspetto senza tuttavia trascurare il primo. Alcuni ceppi fra quelli comunemente usati sono noti per una buona tolleranza all’alcol, fra questi ad esempio (facendo riferimento alla Wyeast) il #1728 e il #3787. Il lievito secco T-58 ha fama di buona tolleranza alcolica – tanto da essere tra i preferiti per la rifermentazione - ma in un batch “parallelo” con stesso mosto (11-12% alc) è stato superato dal liquido #1388 che va quindi annoverato fra quelli consigliati. Anche il secco US-05 se la cava bene, permettendomi di raggiungere i 13% alc (usato in combinazione con il T-58, vedi più sotto). In tutti questi casi si parla di birre fino a 12, 13% di alcol, oltre que-
sto livello le cose diventano più difficili. È abbastanza diffuso l’impiego di lievito da champagne, anche se personalmente non sono rimasto troppo soddisfatto né della performance né degli aromi. Vi sono anche lieviti speciali “high gravity” nei cataloghi dei produttori di lieviti: quelli secchi cosiddetti “turbo”, capaci di arrivare al 20% o al 25% di alcool, hanno caratteristiche organolettiche generalmente considerate inadatte per la produzione birraria.
Anche se si preparano old ale, barleywine e altre birre tradizionalmente ad alta fermentazione, è da notare come commercialmente trovano impiego anche lieviti a bassa. Significativo è il caso della Thomas Hardy’s, per la quale veniva riportato l’uso di un lievito lager. In questo caso, a quanto pare, veniva impiegato non per la fermentazione primaria ma per la lunga maturazione a temperature più basse, durante la quale altri zuccheri (maltotriosio), digeribili più facilmente da un lievito a bassa, venivano lentamente consumati. Altro caso è quello di Traquair House Ale (anche se si parla di una birra non così forte): nel sito della birreria veniva un tempo segnalato l’uso di un lievito a bassa fermentazione, poi l’informazione è stata corretta.
Errore iniziale, cambiamento o tentativo di nascondere un piccolo segreto?
In ogni caso l’uso di lieviti lager (ad una temperatura intermedia fra quelle classiche di lager e di ale) per questi stili di strong ale viene da taluni (ancorché in casi limitati) suggerito per garantire una fermentazione più “pulita” dal punto di vista aromatico.
Stimolare la fermentazione
A questo punto, iniziata la fermentazione, si tratta di portarla a termine! Una tecnica classica usata nella produzione di vecchie old ale e barleywine era quella di far rotolare ogni tanto il barile in cui stava maturando, per riportare in sospensione il lievito e fargli riprendere il lavoro: anche in ambito casalingo può essere necessaria ogni tanto una gentile rimescolata per cercare di rimettere
al lavoro il lievito che si fosse impigrito dopo la lunga fatica. Come già accennato sopra, un metodo interessante è quello di combinare l’azione di più lieviti: è una procedura talvolta usata a fini organolettici (solitamente dividendo e ricombinando il mosto); nel nostro caso si può pensare invece di usare dei lieviti in successione per far riprendere il lavoro da un lievito più fresco dopo che il primo si sia stressato. Inoltre, ceppi diversi possono essere capaci di attaccare tipi di zuccheri leggermente diversi e l’azione combinata risultare quindi più efficace. Si può anche pianificare un ruolo diverso per ciascun lievito: ad esempio se si desidera una birra dall’aroma più pulito si può usare il lievito più neutro nelle fasi iniziali - quando maggiore è la produzione di esteri - e l’altro successivamente, a solo scopo attenuativo... oppure viceversa. Un esempio di uso di più lieviti è quello già citato della Thomas Hardy.
In un mio “wheat wine” ho invece usato in successione US-05 e T-58 raggiungendo una gradazione vicina al 13%. In questo caso ho anche utilizzato un’altra tecnica per me nuova, quella dell’aggiunta in successione di zuccheri. Questo metodo è impiegato spesso nella produzione di birre superalcoliche, e a quanto sembra è pratica standard nella preparazione dei mead più forti, come gli squisiti esemplari polacchi (16% alc) nelle qualità dwojnak e poltorak. Il concetto è quello di non sottoporre subito il lievito allo shock di una concentrazione zuccherina che potrebbe perfino inibirlo. Se possibile, è meglio partire con un mosto a densità minore, aspettare che una buona parte degli zuccheri (se non tutti) sia stata convertita, e poi immettere gli altri zuccheri previsti dalla ricetta ma “tenuti da parte” fino a quel momento. Naturalmente questo è possibile se nella ricetta è prevista l’aggiunta di zuccheri concentrati (zucchero da tavola o in sciroppo, miele, estratto, sciroppi zuccherini vari...). In caso di ricetta all grain, ottengo tutti
gli zuccheri già dall’ammostamento dei grani, e quindi non è possibile partire con una gradazione inferiore: al più si potrà aggiungere progressivamente mosto sempre alla stessa gradazione, ma in questo caso l’effettivo beneficio non è chiaro. In molte birre ad alta gradazione sono comunque usate fonti di zuccheri alternative al malto (zucchero, sciroppo d’acero in certe birre USA...) che possono essere aggiunte in fasi successive. È quello che ho fatto nel mio già citato wheat wine, nella cui ricetta avevo previsto anche un po’ di miele e un piccolo “aiutino” di estratto di malto (la gran parte del fermentabile era proveniente da malto in grani). In questo caso ho accoppiato anche l’uso di due lieviti. Ho inseminato il mosto “all grain” a circa OG 1075 con il lievito US-05. Dopo 3 giorni la densità era già scesa a circa
1018. A quel punto ho aggiunto estratto e miele - disciogliendoli in una piccola quantità del mosto prelevato dal fermentatore e riscaldato, questo perché se avessi sciolto estratto e miele in acqua avrei diluito il mosto. Ho reinserito questo sciroppo nel mosto principale, insieme al lievito secco T-58. Questo ha riportato l’OG a 1058, corrispondente quindi a oltre 1110 di densità originale “equivalente”. Il mosto ha ripreso a fermentare vivacemente scendendo alla fine a una FG inferiore ai 1016.
Controllare la temperatura Fin qui abbiamo visto come riuscire a produrre la giusta quantità di alcol a partire da un mosto così denso di zuccheri. È un aspetto importante, che però non deve farci dimenticare un altro fattore, quello del risultato organolettico
della fermentazione! Il problema è che la formazione di “sottoprodotti” della fermentazione (esteri, alcoli superiori) è proporzionale alla gradazione del mosto (forse anche più che proporzionale, direi quasi esponenziale). In casi di questo genere si rischia di avere una birra che “spara” aromi eccessivamente fruttati (se va bene) quando non di solvente e di alcol “bruciante”. Una lunga maturazione può a volte ovviare o attenuare questi problemi, ma è meglio prevenirli favorendo una fermentazione più pulita possibile, principalmente tenendo sotto controllo la temperatura. Non bisogna cedere alla tentazione di “aiutare” il lievito nel suo lavoro con una temperatura alta, al contrario è meglio mantenersi più vicini al limite inferiore che a quello superiore. Un lievito specificato tra i 16 °C e i 24 °C, ad esempio, se usato a 18 °C è
sempre efficace e sufficientemente rapido (darebbe segni di “svogliatezza” solo a temperature ancora inferiori) e permetterà di ottenere una birra più pulita e bevibile senza la necessità di aspettare anni di affinamento.
Se la fermentazione di queste birre super-forti può essere problematica, tanto più lo è la rifermentazione in bottiglia per la carbonazione. Fino ai 12 o 13% alc. è ancora possibile ottenere una certa carbonazione con il classico priming (o anche affidandosi solo agli zuccheri residui lentamente fermentabili), meglio se aiutandosi con l’aggiunta di una piccola quantità di lievito secco “fresco” come i già citati US-05 e T-58 o lo specifico F2, a un dosaggio di circa 0,1 g/l. Se il tenore alcolico è superiore, la cosa è decisamente più difficile, anche perché probabilmente si è arrivati a quella gra-
dazione già usando le combinazioni di lieviti più tolleranti che alla fine si sono comunque “arresi” al livello alcolico raggiunto. C’è da dire che si tratta di tipi di birre, da “meditazione”, che richiamano un Porto o uno Sherry e che nella maggior parte degli esempi commerciali si presentano piatte. Per chi desidera le bollicine anche in questo caso, spesso non resta che la carbonazione forzata. L’impiego di lieviti alternativi (es. Sake), lieviti selvaggi o batteri riveste un carattere sperimentale che esula dall’ambito di questo articolo.
E ora non resta che assaggiare la nostra super-birra... ma non subito: anche seguendo il consiglio per una fermentazione “pulita”, si tratta di birre che beneficiano di un lungo periodo di affinamento. Ma la lunga attesa viene spesso premiata! ★
Le guide Le guide Le
LE TUE BIRRE FATTE IN CASA
Ricette per tutti gli stili - Seconda edizione di Davide Bertinotti, Massimo Faraggi
Davide Bertinotti e Massimo Faraggi, tra i massimi esperti italiani di birra fatta in casa e artigianale, in questo libro hanno selezionato oltre 90 ricette per realizzare nella propria cucina i più diversi e apprezzati stili birrari, dalle Lager alle Ale inglesi, dalle IPA ai Lambic. Tutte le ricette sono state premiate in concorsi birrari e includono sia birre strettamente aderenti allo stile presentato sia “interpretazioni” più libere, comunque testate e approvate da esperti giudici degustatori. Per ogni stile è presente la descrizione completa tratta dalla revisione 2021 del BJCP (Beer Judge Certification Program), ossia il disciplinare che descrive e definisce ogni stile birrario in termini tecnici e organolettici, e che è alla base delle più importanti competizioni amatoriali e commerciali in tutto il mondo.
ISBN 9788868959470
Pagine 368 | Colori
Prezzo 22,90 euro
di Andrea Camaschella
ARTIGIANALI E ICONICHE
Blonde di Maltus Faber
Nella prima era delle birre artigianali in Italia, le birre di stampo belga erano brassate spesso per vari motivi: l’attrezzatura poteva essere più semplice, la produzione era più veloce e meno complessa di una birra a bassa fermentazione e, a differenza della scuola inglese, concedevano molta
più fantasia nella loro realizzazione. Occasionalmente, anche troppa fantasia nell’aggiunta di spezie o altri ingredienti, così come a volte la fermentazione “scappava” un po’ di mano lasciandoci nei bicchieri dei blend di birra, vernici e solventi abbastanza imbarazzanti oppure delle birre dall’aspetto inquietante,
torbide e “fangose” che oggi sarebbero di gran moda, ma non sarebbero probabilmente bevute, solo guardate!
Quando tutto cambiò
Poi arrivò Maltus Faber con la sua Blonde e il panorama cambiò. Il birrificio Maltus Faber apre i battenti nel 2007 a
Fegino, quartiere periferico di Genova, all’ombra dello stabilimento dove nel 1906 iniziò la produzione la Fabbrica della Birra Cervisia. Nel 1985 Cervisia, dopo essere stata acquisita da Dreher, poi confluita a sua volta in Heineken, cessò la produzione. Dalla sede produttiva di Maltus Faber si poteva osservare il vecchio birrificio e si sognava, anzi, ora possiamo dire che si aspettava, di occuparlo: cosa puntualmente avvenuta nel 2016 con la prima cotta nel settembre di quell’anno.
La storia di Maltus Faber inizia ben prima del 2007, quando iniziarono i lavori e i progetti per l’apertura del birrificio. Massimo, o come dicevan tutti Max, Versaci (accento sulla a anche se a lui non dispiace affatto che lo si esorti a versare da bere) è un impenitente collezionista di lattine di birra. Casa sua è un museo della birra, con migliaia (pare aver raggiunto le 25.000 unità) di lattine
esposte su mensole costruite su misura per evitare accumuli di polvere. È un appassionato di birra, di storia della birra e questo lo si capisce anche entrando in birrificio, dove il tema non sono però le lattine bensì il precedente proprietario, o meglio Birra Cervisia, quasi a raccoglierne il testimone: vassoi, bicchieri, targhe, vecchie bottiglie, scatole di legno e altro ancora sono ben esposti nell’area accoglienza accanto al merchandising di Maltus Faber.
Fausto Marenco è a sua volta appassionato di birra ma da un punto di vista tecnico: gli piace sporcarsi le mani, prodursela in casa, tanto che Max lo consiglia agli amici di Pasturana, la confraternita della Grande Schiuma, come birraio per le loro cotte, casalinghe sì ma di gruppo e quantità. I due si conoscono alla Centrale del Latte di Genova dove entrambi lavorano; Fausto si occupa di controllo qualità, Max lavora sui vari progetti di
loyalties (raccolte punti e simili). Quando la Centrale, che peraltro ha la sedeguarda il caso - sempre a Fegino, viene acquisita da Parmalat, i nostri iniziano a guardarsi attorno e ben prima della chiusura o del rischio di un licenziamento, hanno già il piano B (come birra) in piena attività.
Max è, nei primi anni 2000, uno dei dispensatori di cultura brassicola, non solo a Genova. Grazie a lui tanti entrano in contatto con le realtà artigianali, scoprono che le birre non sono necessariamente delle bevande gialle, gasate e più o meno insapori, si rendono conto che c’è una storia dietro a ogni boccale. Con la Compagnia della Birra, di cui proprio Max fu fondatore nel 2005 e primo presidente, ha messo Lorenzo Kuaska Dabove su un pullman come guida birraria nei viaggi in Belgio e ancora oggi si sentono raccontare aneddoti dai vari partecipanti. Insomma, grazie a Max il verbo si è diffuso.
Non potrebbero essere più diversi. Piccolo ed esplosivo Max, alto e riflessivo
Massimo Versaci e Fausto Marenco, fondatori di Maltus Faber
Fausto, genoano il primo, doriano il secondo – il derby a Genova è piuttosto sentito, eppure persino Kuaska ha accolto il birraio; i due si completano, si vede che si conoscono e sono amici da una vita per come si prendono in giro, si sopportano e si supportano e soprattutto si prendono cura l’uno dell’altro. Sì, lo so, ho descritto una vecchia coppia ma in fondo quello sono!
Un percorso di crescita
Il passo produttivo di Fausto e Max è, soprattutto nei primi anni, fortemente incentrato sulla scuola belga e sui suoi stili. Oggi è banale e riduttivo definire Maltus Faber un birrificio “belga”, visto che nel frattempo le referenze sono aumentate e ora si guarda anche - e bene - a entrambe le sponde atlantiche (prima Gran Bretagna e poi anche Stati Uniti) eppure, in quei primi anni, pareva di essere a Bruxelles. Ricordo che i primi assaggi a Pianeta Birra a Rimini, nel febbraio 2008 non furono eccezionali: le birre parevano un po’ giovani ma comunque promettenti e in effetti pochi mesi più tardi iniziarono a convincere in modo deciso.
La Bianca, la Blonde, l’Ambrata, la Brune, la Triple e la Extra Brune iniziarono davvero a segnare il passo delle interpretazioni belghe in Italia (e non solo). Birre bilanciate, scorbutiche al naso nei primi istanti per poi aprirsi, l’una per l’altra, in bouquet dove i sentori creati dal lievito dominano la scena legandosi ai profumi di eventuali spezie aggiunte e dei malti mentre i luppoli vengono sempre lasciati in disparte. Bevuta che negli anni è anche decisamente migliorata ma che già allora chiudeva con la giusta secchezza. Fausto ha una mano tecnica ma non fredda, lavora di precisione per esaltare gli ingredienti e la filosofia di base che - a giudicare dai vari assaggi - pretende birre facili da bere, pulite, bilanciate, con profumi e sapori integrati tra loro. Posso solo immaginare le lotte interne tra Max e Fausto, con il primo pronto alla vendita e il secondo a frenarlo per fare terminare al meglio la rifermentazione e maturazione delle bottiglie. “Keep calm and drink a Maltus Faber beer” incarna molto bene l’atmosfera in birrificio: ogni volta che ci sono passato, che fosse la prima sede o l’attuale,
che fosse agli albori dell’avventura del birrificio genovese o quando l’azienda si è consolidata, è sempre stata rilassata. Non fraintendiamo, si lavora e si lavora sodo. Semplicemente non ci si agita, non ci si arrabbia e al limite può scappare un “belin!” ogni tanto; soprattutto se chiamo offrendomi di portare io le focacce (No, non le ho mai potute portare: “Belin, le focacce le prendo io” è la risposta classica di Max). Si crea quindi un clima rilassato e tranquillo e si fa quello che si può, umanamente, fare: anche in questo pare di essere in
Belgio. Sulla pulizia dei locali invece non si transige e da questo punto di vista non pare proprio di essere nella piccola monarchia federale.
Dal 2007 il birrificio è cresciuto con calma, con passi sicuri, quando era il momento. Prima con un piccolo magazzino esterno e un aumento dei volumi della cantina (nuovi tini insomma), sempre portando lo sguardo all’altro lato della strada, finché nel 2016 decisero che era giunto il momento per il grande passo: il trasloco in quei locali dove la birra di Genova era nata.
Oggi il birrificio è luminoso con una piccola e accogliente area di mescita diretta negli orari di produzione, dove si possono acquistare bottiglie e gadget vari. La produzione non pare eccessivamente spaziosa ma è organizzata e razionale, persino la scrivania di Max è ordinata e in generale lo spazio per gli uffici c’è e questo aiuta sicuramente.
Come scrivevo, il punto di Maltus Faber non è aumentare a dismisura la produzione ma semplicemente (benché tutto sia fuorché semplice!) produrre il giusto in modo da avere birre sempre ben fatte, senza fare il passo più lungo della gamba o rischiare investimenti che si possano risultare esiziali alla minima contrazione di mercato. Anche i dipendenti paiono sereni e soddisfatti.
La Coccagna è il locale gestito dalla nipote di Max, Camilla. Aperto nel 2017 nell’omonimo Vico di Coccagna (al ci-
vico 21/r ma è impossibile mancarlo) si trova nel centro di Genova, a due minuti a piedi dalla fermata della metropolitana Sarzano/Sant’Agostino, in un vecchio fondo ristrutturato con gusto, arredato in modo sbarazzino e accogliente e con la possibilità, quando la stagione, o meglio il meteo, lo permette, di sfruttare la parte esterna che si sviluppa in una sorta di piazzetta prospiciente il locale. Non è una taproom e va oltre al concetto di pub; visto che non mi piace il termine gastropub, accetto la definizione che ne danno loro di RistoPub. Insomma lo definirei un ristorante birrario dove i piatti, gustosi e ben cucinati, si accompagnano con le birre di Maltus Faber che hanno grande spazio con ben dieci spine e due hand pump inglesi.
Degustazione Blonde
La Blonde, come dice il nome, guarda alle Belgian Blond Ale come riferimento stilistico, ma le riporta a ricordi del passato o contemporanei come la Taras Boulba del birrificio di Bruxelles De La Senne (che però nel 2008 era una beer firm, praticamente sconosciuta in Italia), con qualche lieve intromissione di De Ranke. Insomma, la Blonde non interpreta lo stile Blond come vorrebbe il BJCP, che come spesso accade non coglie le sfumature più interessanti limitandosi a guardare i grandi numeri, ma ne raccoglie in sé l’anima belga e la porta a ricordare un passato in cui le
birre belghe avevano tenori alcolici più contenuti e in cui si coglieva il sapore amaro, cosa che oggi molti produttori in Belgio stanno facendo ma che nel 2008 ancora pochi, pochissimi osavano fare.
Il colore dorato scarico, limpido quanto la rifermentazione in bottiglia può concedere, la schiuma bianca di grana fine, compatta e persistente sono il biglietto da visita della Blonde di Maltus Faber. I profumi svelano la fermentazione belga: il lievito firma la parte di esteri fruttati ed esalta i profumi di spezie che poi si amalgamano con la parte maltata. Al naso si percepiscono profumi di frutta fresca, appena colta: mela, albicocca, pesca, prugna, pera e anche banana; poi sentori appena accennati di agrumi (buccia di limone e arancia) e anche floreali e ancora miele floreale, in particolare di fiori di arancio e qualche nota panificata che sfuma nel biscotto a fine cottura; attorno un piacevole aroma di pepe. Più complesso descrivere i profumi che goderseli con il bicchiere sotto il naso!
Il passaggio in bocca è snello e veloce, grazie a un corpo esile (che tende al medio) perfettamente bilanciato da un finale secco che snellisce fino a far scomparire il sapore dolce e svelare un piacevole e azzeccato amaro e una lievissima sapidità. Il retrogusto riapre alla parte dei profumi ma, anche a livello tattile, il pepato si fa più presente. La
BIRRE E BIRRIFICI
bolla è ben presente e perfettamente integrata nella bevuta: aiuta ad esaltare le varie sensazioni. I merletti di Bruxelles che si disegnano sulle pareti del bicchiere raccontano la bevuta, in pochi sorsi, dai primi più timidi, mentre cerchi di capire, di captare tutto, agli ultimi abbondanti e convinti fino a lasciarti in attesa di un altro bicchiere. Riassumendo: la Blonde è sì una birra che si presta alla degustazione ma è soprattutto
Indirizzi
Via Fegino, 3/G
16161 Genova GE
Telefono: 010 740 1697
E-mail: info@maltusfaber.com
Sito web: www.maltusfaber.com
La Coccagna (pub e ristorante)
Vico di Coccagna 21R 16128 Genova
Telefono : 349 607 8981
E-mail: lacoccagna@gmail.com
Sito web: https://www.facebook.com/lacoccagna/
Produrre Blonde Maltus Faber a casa propria
Ricetta per 23 litri
Malto Pils
Rapporto acqua/malto 3:1
pH a circa 5,4 Mash in
Sparge
Luppoli - Bollitura 80 minuti
una birra facile da bere, appagante, da sola come durante un aperitivo o a tavola: si sposa facilmente con pesce al cartoccio e focacce (chiedete però a Max dove comprarle!) così come con una pasta al pesto (rigorosamente genovese, con i pinoli), con formaggi poco stagionati, con carne bianca, anche speziata (per esempio un pollo con un curry non troppo invasivo) e con le torte salate, a base di verdure. ★ IBU:
pH a fine bollitura a circa 5,1
Lievito: 3787 HG Trappist
Temperatura pitching: 23-24 °C.
Fermentazione a 21 °C per 2 giorni, poi a 19 °C per 21 giorni.
Sosta a 2 °C per 10 giorni. Imbottigliare con 7 g/l di destrosio. Rifermentazione per 10-12 giorni a 24°C.
alcolico: 5,6%
Temperatura consigliata: attorno agli 8 °C
Le guide Le guide Le guide
TE CN I CH E TR A DI Z IO N A L I DI BIRRI F I CAZ IO N E
d i L a rs M ar i u s Ga rs ho l
La birra si fa da oltre 5.000 anni, ma le tecniche produttive si sono prog uniformate, in particolare nel brassaggio
In alcune zone remote dei Paesi scan orientale sopravvivono tuttavia pratiche inusuali, tramandate nell’ambito delle contadine, che risultano in aromi e dalla birra che abbiamo conosciuto fino
In questo libro unico al mondo l’aut le materie prime utilizzate e le sfum ma anche antropologiche e storiche che caratterizzano la produzione del m e la fermentazione di queste antich
ISB N 9788868959104
Pagin e 536 | A colori
P rez zo 34,90 euro
LE PROFESSIONI DEL MERCATO brasso-artigianale in italia
Di mercato brassicolo e sue evoluzioni se ne sente parlare sempre più spesso e in ambiti e con interlocutori diversi. Questo interesse, crescente e diffuso, è già una prima chiara manifestazione di come il settore brassicolo artigianale sia in un’evoluzione che si radica sempre di più e si diffonde in vari ambiti raggiungendo target progressivamente più diversificati.
Lo scorso giugno è stato presentato il Rapporto annuale di Assobirra sullo stato del settore brassicolo in Italia: tra i vari temi su cui si focalizza l’osservazione e monitoraggio del mercato, il rapporto dettaglia l’indotto di personale nella filiera produttiva, l’innovazione tecnologia ed ambientale, la produzione delle materie prime e la connotazione territoriale e conviviale della birra artigianale.
Non mancano temi come quelli dell’inclusione e dell’uso della birra, sempre più presente, nell’ambito della somministrazione/ristorazione. Ma come si legge un mercato, come si determinano i parametri che lo definiscono e da cui si parte per un’analisi descrittiva e poi critica sia in termini qualitativi che quantitativi? Esistono diversi approcci per analizzare questo
aspetto, in questo articolo vorrei partire da come si struttura e sostiene economicamente il fulcro centrale del settore, la produzione e trasformazione da materie prime in birra. Conoscere questi aspetti aiuta a dare indicazioni anche su quali risorse professionali a cui questo tipo di settore si dovrebbe e potrebbe affidare. Professionalità è una parola fondamentale quando si discute e si fanno analisi sulle strutture ed evoluzioni dei mercati ma, come molto spesso accade, è uno di quei termini che si tende a dare per scontato e il cui significato è assunto quasi a priori.
Si chiama formazione, si dice professione
La crescita di un mercato e la sua stabilizzazione passano necessariamente per una maggiore professionalizzazione e questo avviene in primis anche attraverso una proposta formativa ampia e variegata che sia capace di unire alla teoria la pratica, quello che gli anglosassoni sintetizzano bene in learning by doing. La formazione professionale e specializzata nel mondo brassicolo, in Italia e non solo, sta vivendo una rapida sferzata iniziando a coprire ogni fase della filiera produttiva. La formazione nel settore della birra in Italia ha visto una crescita significativa negli ultimi anni, grazie al crescente interesse per la produzione di birra artigianale e alla voglia di esplorare nuove competenze nel settore brassogastronomico. Questa evoluzione è stata accompagnata dall’istituzione di corsi, scuole e programmi specifici dedicati alla produzione, distribuzione e degustazione della birra. Storicamente, l’Italia è stata principalmente associata alla produzione di vino. La birra era meno diffusa e generalmente considerata una bevanda di minor pregio rispetto al vino. La metà degli anni ‘90 ha visto una rinascita della birra artigianale in Italia e piccoli birrifici artigianali hanno cominciato a proliferare, rispondendo a un crescente interesse per le birre di qualità e per la sperimen-
tazione con nuovi stili e ingredienti. Ad oggi sono molti i luoghi in cui poter trovare piani formativi completi e variegati. Diverse università italiane hanno iniziato a offrire corsi e programmi di laurea in tecnologie alimentari, con specializzazioni in produzione di birra. Ad esempio, l’Università degli Studi di Udine offre un corso di laurea in Tecnologie Alimentari con moduli specifici sulla produzione di birra. Gli ITS (Istituti Tecnici Superiori)
offrono percorsi formativi specifici per il settore agroalimentare, inclusi moduli sulla produzione di birra. Questi programmi sono orientati alla pratica e spesso includono stage in birrifici. Esistono diverse accademie e scuole private che offrono corsi specifici sulla produzione di birra, come l’Accademia delle Birre. Questi corsi possono variare da brevi workshop a programmi più estesi e dettagliati.
LAVORO
Nel 1998 nasce Unionbirrai, l’associazione che rappresenta i birrifici artigianali italiani, e che organizza corsi di formazione per aspiranti birrai e per coloro che desiderano approfondire le loro conoscenze tecniche e pratiche sulla birra. Nel 2009 nasce MoBI, contrazione di Movimento Birrario Italiano, un soggetto che si affaccia sulla scena birraria con l’intento di rappresentare i legittimi interessi dei consumatori di birra e che negli anni si è occupato molto di momenti di formazione. Tra gli altri attori che si occupano di formazione l’Associazione Italiana Sommelier della Birra (AIBES) offre corsi per diventare sommelier della birra, insegnando le tecniche di degustazione, la conoscenza dei diversi stili di birra e le competenze necessarie per consigliare abbinamenti cibo-birra. Alcuni istituti offrono poi master dedicati alla cultura birraria, che coprono la storia, la produzione, il marketing e la degustazione della birra. Non mancano proposte formative specifiche per il mondo brassicolo che affrontano temi più ampi ma necessari e complementari per lo sviluppo e crescita del mercato come comunicazione, marketing territoriale, produzione di materie prime e nuovi prodotti in campo, abbinamenti, ospitalità e turismo solo per citare i più diffusi. Se l’offerta formativa si amplia e diversifica anche la tipologia di dipendenti coinvolta sarà sempre più ampia.
Mercato che cresce, mercato che si struttura
Il mercato della birra artigianale in Italia ha mostrato una crescita significativa negli ultimi anni. Nel 2024, con oltre 1.000 birrifici artigianali attivi nel paese, il settore è stato valutato a circa 9,4 miliardi di euro (equivalente allo 0,53% del PIL). Questo valore comprende sia la birra agricola che quella artigianale, che insieme contribuiscono significativamente all’economia italiana. Il settore birrario, unico fra le bevande da pasto, versa all’Erario oltre 700 milioni di euro in ac-
cise annue che si sommano alla contribuzione fiscale ordinaria. Da cinque anni l’Italia è stabilmente fra il primo e il quarto posto per reputazione della birra fra i 27 paesi europei presi in considerazione dalla ricerca Beer Image Tracker, promossa dai Brewers of Europe.
Fatturato medio e margine di redditività
Il fatturato di un birrificio può variare in base a vari parametri, come la dimensione degli impianti, la capacità produttiva, il prezzo di vendita della birra e
la domanda del mercato. In Italia, un birrificio artigianale di piccole dimensioni può generare un fatturato annuo che oscilla tra i 200.000 e i 500.000 euro. Birrifici di medie dimensioni possono arrivare a 1-2 milioni di euro, mentre quelli più grandi possono superare i 5 milioni di euro annui. Secondo la normativa italiana, una birra è considerata artigianale se soddisfa i seguenti criteri: ❱ Indipendenza: deve essere prodotta da un birrificio legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio. Non deve operare
sotto licenza di utilizzo dei diritti di proprietà immateriale altrui.
❱ Produzione limitata: la produzione annua non deve superare i 200.000 ettolitri, compresa la birra prodotta per conto di terzi.
❱ Non pastorizzazione e non microfiltrazione: la birra non deve essere né pastorizzata né microfiltrata.
Il margine di redditività dipende da diversi elementi, inclusi i costi delle materie prime, le spese operative, il costo del lavoro e le tasse. Generalmente, il margine di profitto lordo di un birrificio artigianale si aggira intorno al 50-60%.
Tuttavia, dopo aver considerato tutte le spese operative e fiscali, il margine di profitto netto tende a essere inferiore, spesso tra il 10% e il 15%.
Chi lavora nella filiera brassicola
L’età media dei dipendenti nel settore della birra artigianale in Italia tende a essere relativamente giovane, con una predominanza di persone sotto i 40 anni. Questo trend si riflette nel dinamismo e nell’innovazione che caratterizzano il settore, dove la passione per la birra artigianale attrae molti giovani imprenditori e lavoratori. Il mercato brassicolo conta circa il 50% dei suoi dipendenti assunti da più di 10 anni, fornendo forte stabilità lavorativa al settore visto che la media in altri lavori non arriva neppure alla metà. Secondo gli ultimi dati, il comparto birrario italiano registra un’occupazione complessiva (diretti + indiretti + indotto) di oltre 120.000 operatori in più di 1100 aziende del settore con un continuo aumento in termini quantitativi, in termini geografici e di in termini d’inclusione, tra cui categorie di persone con vari tipologie di disabilità e marginalità. In questa cornice di positivo movimento e crescita la parte relativa all’impiego delle donne è tuttavia ancora troppo marginale e spesso concentrata in alcune fasi della filiera brassicola e con ampie diversità geografiche. Le donne,
da tempo oramai considerate ottime bevitrici e selezionatrici di gusti e sapori, sono ancora troppo poco presenti non solo nell’ambito della produzione ma anche in quello della rappresentanza; sono invece percentualmente più presenti nel servizio e somministrazione. In parallelo crescono le donne che vogliono contribuire in modo concreto e variegato al mondo brassicolo sia in termini di gruppi ed associazioni e sia come singole battitrici che spaziano dai temi della comunicazione, organizzazione di eventi di settore sino a quelli dell’ospitalità con il turismo brassicolo. Non esistono dati specifici pubblicati recentemente sull’età media precisa delle differenti figure, ma i rapporti generali indicano una forte presenza di giovani sia tra i produttori che tra i consumatori di birra artigianale.
Quali competenze per il mondo della birra?
Secondo i dati raccolti da una recente indagine di Osservatorio Birra, sono emerse le principali competenze professionali necessarie per lavorare nel mondo brassicolo.
La ricerca ha ottenuto queste informazioni attraverso una serie di interviste
ai diretti protagonisti della filiera. Prima di tutto, conoscere bene il prodotto (18%) e la industry (5%). Molto richieste anche qualità manageriali (11%), da imprenditore (8%) e di formazione del personale (14%), a conferma di un settore spesso giovane e dinamico, che ha visto nascere molte nuove imprese e modi di interpretare la distribuzione e vendita del prodotto. Non a caso tra le altre parole d’ordine troviamo specializzazione (9%) e learning agility (8%).
❱ Ecco 15 profili, spesso altamente specializzati, tra i più richiesti:
❱ Mastro/a birrario/a
❱ Tecnologo/a alimentare (della birra)
❱ Ingegnere chimico alimentare
❱ Responsabile laboratorio e controllo e qualità
❱ Responsabile sicurezza
❱ Coordinatore/trice sostenibilità
❱ Automation specialist
❱ Digital innovation manager
❱ Commerce specialist
❱ Tecnico/a grafico/a
❱ Brand ambassador
❱ Beer specialist
❱ Spillatore
❱ Barman
❱ Sommelier della birra
QUANDO È MODA, È MODA Parte 1: L’attacco dei Vegani
L’appartenenza alla nicchia degli appassionati di birra artigianale implica tutta una serie di comportamenti, attenzioni e limitazioni, che si concretizzano nella frequente partecipazione attiva ad alcune, ben precise, dinamiche sociali. Dinamiche non così dissimili da quelle che sperimentiamo, a ruoli invertiti, frequentando altri gruppi di consumatori provenienti da differenti
microcosmi. Ad esempio, i vegani (ebbene sì, di punti in comune ce ne sono molti). Quando al tavolo c’è un vegano, la sua sola presenza impone al resto degli invitati qualche piccola restrizione da accettare unanimemente, di buon grado, soprattutto per buona educazione, ma anche per evitare di incorrere in derive imprevedibili e potenzialmente catastrofiche. È comunque praticamen-
te certo che il veganesimo del convitato determini una perturbazione non trascurabile sullo sviluppo e sull’esito stesso del convivio.
Le variazioni più scontate riguardano questioni logistiche concrete, come la scelta del locale, che non potrà non tener conto della peculiarità del carnefobico, con ovvia epurazione degli esercizi non idonei e probabili ripensamenti e irritazione multiple durante la delicata fase della prenotazione. Il pasto vero e proprio potrà poi procedere nella più tranquilla normalità o rivelare tensioni più o meno sottese, a seconda del livello di tolleranza degli invitati - vegani e non - e soprattutto della qualità degli argomenti di conversazione proposti tra l’antipasto e il caffè. Il rischio che sempre aleggia è però quello che lo stesso mangiatore anomalo, o un qualche commensale troppo ciarliero, possano decidere di indirizzare la discussione proprio verso le differenti modalità di approccio al cibo, con tutte le implicazioni conseguenti. A questo punto, nella migliore delle ipotesi, buona parte dei presenti, dopo aver brevemente simulato un minimo d’interesse, inizierà a trattenere sbadigli e a inventarsi qualche scusa plausibile per abbandonare il prima possibile la tavolata. Se il dibattito dovesse invece prendere una piega meno amichevole si rischia di vivere momenti potenzialmente anche molto sgradevoli, che vanno dal leggero imbarazzo per una discussione fin troppo accesa al concorso in tentato omicidio e lesioni gravissime nei confronti del più pesante dei contendenti.
Il destino dell’appassionato
La presenza di un appassionato di birra artigianale pone gli stessi temi e gli stessi rischi, ma spostando l’attenzione, in questo caso, dal piatto al bicchiere. Soprattutto qualora l’uscita sia indirizzata verso un pub e, in particolare, se l’appassionato, come tutti gli appassionati, si dovesse dimostrare ben poco disposto a scendere a compromessi per il quieto vivere e a turarsi quindi (letteralmente) il naso accettando bevande ben lontane dal suo gusto. E se, per chi ha intrapreso un percorso vegano, l’intransigenza è spesso motivata da profonde e articolate riflessioni, legate a doppio filo con importanti questioni morali, ecologiche e animaliste, per gli appassionati di birra artigianale invece, al netto di qualche vaga considerazione fuori dal tempo sulla necessità di proteggere il piccolo, tenero, artigiano dalle malvagie macchinazioni dell’industria, le motivazioni sono di natura puramente e indiscutibilmente organolettica: la birra artigianale è buona, quella industriale no. Come non capirlo? In effetti, quello che più sconvolge qualsiasi adepto del culto craft, è il fatto che possa davvero esistere anche un solo ominide, talmente obnubilato e stolto, da non accorgersi immediatamente di quanto queste birre siano clamorosamente e indiscutibilmente migliori delle tipiche brodaglie industriali di consumo più comune. Ogni volta che faticosamente riesce a far assaggiare i prodotti di qualche microbirrificio del suo cerchio magico a un conoscente, egli sempre si prefigura che il neofita ne risulti immediatamente conquistato, quasi trasfigurato, come al termine di un lungo incubo ambientato in una oscena e nauseabonda discarica, risvegliandosi in una realtà di aromi e sapori paradisiaci. E che, trattenendo copiose lacrime di gioia, si spertichi in sentiti, prolungati ringraziamenti di cuore e vigorosi abbracci nei suoi confronti. La dura realtà con la quale l’edotto bevitore si dovrà invece confrontare sarà purtroppo ben distante da questi
piccoli, innocui, sogni di gloria. Alcuni apprezzeranno, certo, anche se meno entusiasticamente rispetto alle aspettative, ma altri, molti altri, si mostreranno invece piuttosto reticenti ad ammettere questo, per loro tutt’altro che scontato, divario qualitativo. Qualche scriteriato potrebbe addirittura permettersi di storcere il naso: “mah... perdonami, ma questa moda della birra artigianale continua a non convincermi”.
Ed ecco che il rischio che il conflitto di civiltà deflagri si fa concreto, come e più di quanto paventavamo in caso di scenari del tipo “Carnivori vs. Vegani”. Eh sì, perchè se l’appassionato dovesse aprire gli argini – e talvolta avviene – ecco cosa risponderebbe, agitandosi, gridando e sputacchiando ovunque:
Fase
1: Stupore & Indignazione
“Moda??? Ma che dici? Cosa c’entra la moda? Ma se le percentuali di vendita del prodotto craft rispetto a quello industriale non arrivano nemmeno al 4%? Non c’è nessuna moda, si tratta sempli-
cemente di un altro prodotto: un prodotto più buono, più sano, più giusto, più umano, più... Ma quale moda?”
Fase 2: Aggressività & Accenni di complottismo
“Si vede proprio che l’industria vi fa il lavaggio del cervello con le sue pubblicità sulle birre regionali, che vi rincitrulliscono (n.d.r. notare il passaggio al plurale). Ma ce l’avete un palato, un olfatto? Tutti a bearvi di quelle porcherie pastorizzate, che non sanno di nulla, solo perché ve lo dicono i poteri forti! E poi avete pure il coraggio di fare le pulci a questi pochi coraggiosi artigiani che resistono e combattono anche per voi.”
Fase 3: Primi cedimenti & Resilienza
“Magari, te lo concedo, non tutti i lotti sono sempre a posto... la bottiglia sfortunata può capitare: ma è il bello dell’artigianale! E il costo non è proprio irrisorio, lo so... d’altra parte i volumi sono piccoli e le materie prime pregiate... ma che te lo dico a fare, ormai siete
SOCIALITÀ
assuefatti a succedanei, vi piace sentire il mais! Vi piace il miglio, come ai polli”.
Fase 4a: Autocritica Pt.1 (colpa degli addetti ai lavori)
“Comunque non è nemmeno tutta colpa vostra, pure i nostri birrai... Bravissimi nel loro mestiere, ma poi non sanno proprio comunicare, dovrebbero diventare un po’ più imprenditori, imparare da Ichnusa, da Raffo, come si arriva alla gente comune. Loro si che sono professionisti!”
Fase 4b: Autocritica Pt.2 (colpa degli esperti)
“Però devo ammetterlo dipende un po’ anche da noi, noi “esperti”. Avremmo dovuto, già da tempo, porci come tutori: accogliere, invogliare, insegnare. Invece spesso - troppo spesso - abbiamo fatto muro, abbiamo respinto i curiosi e le nuove generazioni con la nostra aggressività, la nostra prosopopea, il nostro sarcasmo.
Fase 4c: Autocritica Pt.3 (colpa sua)
“Comunque ci sta, arrivarci così, senza preparazione, è chiaro che uno rimane scombussolato. Avrei dovuto introdurtela meglio, spiegarti cosa stai bevendo, la filosofia, gli ingredienti, le basi della degustazione. Ti va se la riassaggiamo insieme? Ti prego...”
Questa fase 4 è quella che ritengo più interessante, anche da un punto di vista psicoanalitico, ed è lì che le strade dei vegani e degli appassionati di birra si separano. La fede vegana rimarrà infatti sempre salda e incrollabile, nessuna concessione al nemico: il mangiaverdure potrebbe al limite decidere di soprassedere per manifesta incapacità altrui di comprendere le grandi questioni della vita o per semplice spossatezza (d’altra parte la dieta alla quale si sottopone non gli consente di intraprendere sforzi troppo prolungati). Il birrofilo invece manifesta spesso questa strana tendenza, di stampo quasi masochistico, all’autocri-
tica. È un fenomeno straniante osservare questi novelli predicatori del verbo artigianale che, non soddisfatti di dedicarsi instancabilmente alla causa, investendo quantità spropositate di tempo, impegno e danari, inseguendo eventi, bevute e acquisti birrari, assumersi paradossalmente anche la responsabilità di qualsivoglia limite o problema del settore, proprio loro che ne rappresenterebbero invece il prototipo del cliente ideale. La loro dedizione è talmente totalizzante che li spinge addirittura a farsi idealmente carico di questioni totalmente al di fuori della loro portata e della loro possibilità d’indirizzarle anche solo minimamente, tipo le strategie di marketing, i modelli di comunicazione, le quote di mercato. Non solo se ne interessano con passione e trasporto, ma arrivano persino a sentirsi parte in causa di queste dinamiche, anche e soprattutto per quanto riguarda i punti deboli e le mancanze che ne limitano il successo a livello planetario. E tutto ciò malgrado
poi la maggior parte degli addetti ai lavori non se li fili nemmeno di striscio o, addirittura, li tenga a distanza, come la lebbra.
Come si spiega?
Ho parlato di masochismo, e una predisposizione a tendenze di questo tipo mi sento di ribadirla con un certo grado di certezza. Non escluderei poi una non trascurabile percentuale di ego, il grande motivatore dei nostri tempi, che non è difficile scorgere nelle frequenti, comprensibili quanto tristanzuole, autocelebrazioni documentate via social in occasione di concorsi ed eventi vari, dove i nostri si mostrano in insensati atteggiamenti trionfanti e pavoneschi, non proprio gradevolissimi per chi osserva da fuori. Ma dietro a queste esasperazioni, che potrebbero attirare critiche e sfottò, scorgo qualcosa di più profondo e umanamente apprezzabile. Il tentativo di esserci, attivamente, mettendosi in gioco e assumendosi paradossalmente oneri e persino colpe altrui, per contribuire a plasmare e rendere accogliente un microcosmo che amano e del quale si sentono parte. C’è una fragilità commovente in queste manifestazioni di appartenenza, che non ritrovo in altri ambiti paragonabili tipo, appunto, il veganesimo. Tornando alla dicotomia alla quale mi sono riferito sinora, mi voglio spingere a fare un paragone un po’ blasfemo ma abbastanza calzante, pur nella sua assurdità, affermando che, relativamente alle rispettive cause, un vegano sta a un appassionato di birra come Torquemada a San Francesco. Pensiamo infatti ai nostri frequentatori di pizzicagnoli: malgrado la loro dieta implichi considerazioni etiche ben più universali e cruciali della semplice passione per un fermentato di cereali, non mi pare, che nel loro inattaccabile impegno gastronomico per la sostenibilità del pianeta, si scorga alcuna tendenza al dialogo o all’autocritica. Dimostrano certo grande impegno e combattività, ma anche malcelata intolleranza ver-
so coloro che non abbracciano i loro stessi ideali (tacciati come minimo di menefreghismo), ma pur nella loro inflessibile convinzione, non arriverebbero mai a pensarsi addirittura come parte del problema per non riuscire a contribuire adeguatamente alla causa, mancando in compiti di proselitismo, compassione e accoglienza. Si credono, forse anche giustamente, indiscutibilmente posizionati dalla parte giusta della storia e, lungi dal porsi anche solo minimamente in discussione, dall’alto di un piedistallo di marmo, si rivolgono al bieco onnivoro additandolo con disprezzo e urlandogli: “confessa!”.
L’artigianale
è una moda?
Il nostro timido bevitore, invece, pur partendo da una convinzione altrettanto salda e incrollabile, ha fatto voto di povertà (con quel che costano le birre è automatico), vive in armonia tra le bestie (i bevitori di birra industriale) predicando con gioia il verbo artigianale agli infedeli, consapevole di essere, egli per primo, un peccatore e di dovere perciò,
incessantemente, chiedere perdono per raggiungere il regno dei cieli (un enorme e meraviglioso beergaten). A questo punto credo che si sia ormai capito verso quale dei due contendenti si indirizzino le mie simpatie (d’altra parte se pubblico articoletti su “Birra Nostra Magazine” invece che su “Orti Italiani” ci sarà un motivo). Ma, come spesso mi accade, affascinato dalla psiche umana e dai suoi caotici, assurdi, meravigliosi percorsi, ho divagato.
Il tema sul quale avrei voluto soffermarmi, a partire dall’ipotetica conversazione immaginata a inizio articolo, era l’incauto commento proposto dal bevitore meno edotto sul tema della “moda della birra artigianale” che tanto aveva irritato il nostro espertone, ispirandomi poi tutte le elucubrazioni a seguire. La domanda è la seguente: chi si interessa di birra artigianale lo fa solo in virtù delle sue qualità gustative oppure è anch’egli, almeno in parte, vittima di una “moda”? Lo scopriremo nella seconda e ultima parte dell’articolo, prossimamente su queste pagine. ★
THOMAS HART BENTON
Quando la musica incontrò
il pennello
Possiamo, in una rubrica dedicata alla musica, su una rivista dedicata alla birra artigianale, parlare di pittura? In pratica stiamo parlando di arte in sue differenti varianti; quindi è ipotizzabile che possa esistere un legame, anche forte, che in alcuni frangenti può arrivare ad unire indissolubilmente le tre arti sopraccitate.
Prendiamo come esempio la musica tradizionale americana, sia quella di origine afroamericana sia quella di ceppo europeo. Entrambe ci arrivano da due zone molto particolari degli USA, dal Missis-
sippi e da buona parte di quel Sud dove lo schiavismo era pratica normale, e qui parliamo del Blues, oppure dalle pendici montuose o collinari della catena degli Appalachi dove è proliferata la Old Time Music, poi trasformatasi in Bluegrass, genitori della più conosciuta Country Music che, fondendosi con la Black Music, daranno vita al Rock’n’Roll e di conseguenza a buona parte della musica moderna.
Birra e blues
Qualcuno si chiederà cosa c’entra la birra in tutto questo. È molto semplice,
basti pensare al livello di povertà e, in molti casi, di ignoranza culturale che regnava in queste aree statunitensi dove la produzione clandestina di alcolici (whiskey e birra su tutti) era all’ordine del giorno. Sostanze, a volte veri intrugli quasi tossici, che avevano lo scopo di riunire le persone, in quei pochi momenti di felicità o di svago a loro concessi. Momenti della giornata che confluivano in canti e danze per allontanare – anche con l’ausilio dello stordimento causato dall’alcool – una terrificante realtà.
Tornando alla domanda iniziale, effettivamente non è cosa usuale pensare a queste musiche e immaginare un dipinto. Solitamente vi si abbinano note, al limite fotografie, solo raramente l’arte figurativa viene associata al blues e alla musica popolare. Eppure, non dobbiamo dimenticare che molti punti in comune tra storie narrate e storie dipinte esistono e sono alla base della comunicazione, soprattutto in quei casi dove la libertà di parola era (è) a dir poco un lusso.
Tra le popolazioni afro-americane, soprattutto nel Delta del Mississippi e a cavallo tra le due guerre, l’arte pittorica o solamente un tentativo di essa, era poco usuale; magari si preferiva una forma scultorea su legno, retaggio delle tradizioni africane.
Ma anche nel resto del paese, più evoluto e aperto verso le arti del Vecchio Continente, Francia e Italia su tutte, non vi era ancora un utilizzo dell’arte per nar-
The Wreck of the Ole
rare la quotidianità di una Nazione come quella statunitense, piena di contraddizioni, e capace di incidere sul tessuto sociale del paese.
Nello stesso periodo, nel Midwest, emersero una serie di pittori che diedero vita, forse anche inconsapevolmente, ad un movimento denominato Regionalismo che tese ad instaurare col pubblico un rapporto diretto narrando storie di vita quotidiana della provincia americana, con le gioie e le sofferenze, con un aspetto dell’America scomodo e da tener nascosto che emerge prepotentemente sotto le pennellate di artisti come Grant Wood (famosissimo il suo “American Gothic” che raffigura una coppia di contadini in posa davanti alla propria abitazione), John Steuart Curry (suo “Mississippi”, il capolavoro che trasmette tutta la paura, la tensione e la fede di una famiglia alla mercé degli eventi atmosferici durante la terribile inondazione del 1927) e di Thomas Hart Benton che, più di ogni altro, ha posto la realtà degli Stati Uniti al centro della propria pittura.
Con questo articolo non vogliamo fare un trattato d’arte, non ne siamo in grado e non rientra tra i nostri principali scopi, vogliamo invece poter trasmettere quelle emozioni e quei sentimenti che ci hanno fatto avvicinare sempre più alla cultura del blues e della musica popolare americana.
Sarebbe, infatti, assolutamente riduttivo relegare la cultura popolare canora dietro ad uno spartito, ad un genere musicale senza volerne approfondire gli aspetti storici e sociali per i quali essa ha intrapreso la strada che tutti conosciamo, modificandosi a seconda dell’andamento degli eventi stessi.
Se ascoltassimo il blues solo perché gradevole o per voglia di distinguersi dal resto della popolazione (e non neghiamo che, purtroppo, questa è la triste verità in alcuni casi) sarebbe come se ci mancasse una gamba o un braccio. Sarebbe come se fossimo stati abbandonati su un’isola deserta senza
saperne il perché (e allora sì che cominceremo a capire il blues). Oggi, nel XXI secolo, abbiamo una discreta informazione di quello che è stato il nostro passato; così non era cent’anni orsono quando una popolazione acce-
cata dal sogno americano era convinta che la realtà fosse ben differente da quella che scopriranno grazie alle parole di artisti come William Faulkner, Erskine Caldwell, John Steinbeck, James Agee, alle immagini di Walker Evans e Doro-
Lone Green Valley
Departure of the Joads
thea Lange e ai dipinti di Benton con le sue impetuose visioni delle forme, sgargiante nei colori e populista nei contenuti tanto che il presidente Truman lo definì “il miglior maledetto pittore d’America”.
L’arte di Thomas Hart Benton
Trovarsi davanti ad un’opera di Thomas Hart Benton è come entrare nei racconti di Caldwell o Faulkner e constatare la drammaticità degli eventi, arricchiti di implicazioni sociali e politiche da farlo elevare a rivelatore culturale nel più completo senso del termine.
Nato a Neosho, cittadina del Missouri nota anche per aver dato i natali a James Scott, il giovane Thomas trascorse l’infanzia sul pubblico palcoscenico poiché figlio di un rappresentante politico del Missouri occidentale che portava il giovane figlio con sé durante le campagne elettorali.
Erano tempi antecedenti alla radio e alla televisione e la politica era fonte di intrattenimento oltre che di istruzione.
I territori battuti erano al confine tra gli elementi della vita di frontiera e la cultura del Sud con una forte separazione sociale, tipicamente sudista, tra gli abitanti delle colline e le aristocratiche famiglie che regnavano nelle piantagioni a manodopera schiavista della Virginia, della Georgia e della Carolina.
Ma la strada del ragazzo non era destinata a seguire quella degli antenati, il nonno era Senatore e l’amore verso l’arte si manifestò molto presto, incoraggiato dalla madre, e grazie ai numerosi volumi ricchi di illustrazioni che poteva trovare nella notevole biblioteca paterna imparando a disegnare copiando quelle immagini riprodotte. La curiosità e la voglia di imparare nuove tecniche pittoriche lo portarono a lasciare Neosho per trasferirsi nei primi anni del ‘900, prima a Chicago dove imparò i primi rudimenti, e successivamente a Parigi e a New York, città dove la formazione del giovane Benton iniziò ad assumere aspetti interessanti. Nel corso dei primi anni ’20 Benton gradualmente spostò il suo interesse
e la sua ricerca dal modernismo verso l’esplorazione di soggetti di carattere americano e rimanendo anche coinvolto dal fascino della pittura murale. Ed è proprio nel 1930 che i suoi primi tentativi lo portarono a produrre “American Today”, un murale per la New School for Social Research di New York che lo consacrò come grande artista. Quest’opera, mastodontica per il periodo, sopraffece tutte le precedenti opere d’arte americane e racchiudeva tutto ciò che Benton aveva potuto notare nei tanti viaggi compiuti alla ricerca di materiale negli anni precedenti, in quello che fu un periodo di frenetica attività artistica. In questi viaggi poté farsi una chiara idea di quale fosse la condizione di vita della popolazione statunitense, da Nord a Sud, dalla costa Est a quella Ovest. Notò e sottolineò attraverso le sue opere il sopravvento che stava avendo la tecnologia ma anche il problema razziale che, soprattutto al Sud, era una piaga che andava contrastata e sconfitta. Dopo aver terminato il murale American Today, Benton cadde in uno stato depressivo e incominciò a suonare l’armonica e ad appassionarsi alla musica folk e country traendo spunto dai testi di queste canzoni per numerosi suoi quadri o litografie.
I treni, che da sempre affascinavano l’artista, appaiono spesso nelle sue opere
The Negro Soldier
Letter From Overseas
così come aspetti spesso drammatici della vita agreste. Nel 1939 la Twenty Century Fox commissionò a Benton delle immagini basate sul romanzo di Steinbeck “Furore” che contribuirono ad aumentare le opere dedicate alla Grande Depressione.
Lo scoppio del secondo conflitto mondiale spostò, inevitabilmente, l’attenzione verso il pericolo nazista con alcune opere di rara intensità ma anche a quello che accadeva in America in quei giorni. Emblematiche le opere “Negro Soldier” che evidenzia come i neri, che non godevano certamente di eguali privilegi in patria, fossero i primi a venir arruolati per difendere la patria, oppure “Letter From Overseas” dove, in un potente e drammatico gioco di chiaroscuri viene raffigurata una ragazza, perfettamente inserita in un contesto rurale, che aspetta il postino che le consegna la lettera dell’amato impegnato nel conflitto armato.
Il lascito di Benton
Gli sforzi dell’artista di produrre opere il cui linguaggio avrebbe portato significati inequivocabilmente americani agli americani stessi colpirono nel segno, mostrando molto chiaramente che i comportamenti del popolo erano la primaria realtà della vita americana e contribuendo a facilitare i vasti cambiamenti sociali roosveltiani che egli riteneva necessari nell’America della Depressione. Successivamente, dopo la fine della guerra e dei contrastanti risultati del New Deal, lo stile regionalista perse di interesse e molti artisti, tra cui anche il più illustre allievo di Benton, Jackson Pollock, uno dei maggiori rappresentanti dell’Espressionismo astratto, erano arrivati a vedere il regionalismo come uno stile artistico fallito e irrilevante. Ma questa è un’altra storia, un altro capitolo dell’evoluzione dell’arte americana. Resta il fatto che, comunque, Thomas Hart Benton ha dato immagine alla mu-
sica popolare e ci regalò una delle più belle dimostrazioni di ciò con l’ultima delle sue opere, commissionata dalla Country Music Foundation, intitolata “The Sources of Country Music” che ci presenta cinque distinte scene raggruppate in un’unica opera murale, dove troviamo tutte le influenze disparate ma interconnesse che hanno determinato la nascita della Country Music. Si tratta di un’opera incompiuta in quanto Benton morì il 19 gennaio del 1975 a 85 anni, colpito da infarto, proprio mentre si era recato nella rimessa per terminare il murale che oggi è uno dei pezzi di maggior valore esposti alla Country Music Hall Of Fame di Nashville, Tennessee. Provate, ora, ad ascoltare un buon disco di musica americana e ad ammirare alcune delle opere di questo artista, magari gustando una birra di qualità e vedrete quanta musica emerge dai suoi disegni o quadri.
Ne vale la pena. ★
The Sources of Country Music
Di colli e città murate in un VENETO CHE TI SORPRENDERÀ
Diretti a nord, risalendo l’autostrada Bologna-Padova, è impossibile non notare un’ampia distesa di colline verdeggianti che si susseguono nel bel mezzo della pianura veneta: sono i Colli Euganei.
Una destinazione poco nota se non per le località rinomate per le proprie acque termali: le Terme Euganee. Il territorio dei Colli rappresenta un romantico connubio di ambienti, luoghi e attrazioni interessanti dal punto di vista naturalistico, storico e culturale che, quasi magicamente, si sposa alla perfezione. Addentrandosi tra i vari rilievi di origine vulcanica dalla caratteristica forma conica del Parco Regionale dei Colli Euganei è facile rimanere sorpresi, oltre che dalla bellezza e dalle peculiarità dei paesaggi e delle aree naturalistiche, anche dalla possibile scoperta di borghi, rude-
ri, castelli, santuari, monasteri, eremi e particolari musei locali.
L’itinerario che vi presento è inserito nel volume dedicato al Nord Est dell’Italia di Turismo birrario: Guida per viaggiatori in fermento, scritta da Pierluigi Bruzzo, Gabriele Navoni e Luca Grandi. L’opera completa è curata da Luca Grandi e pubblicata da Edizioni LSWR
Le città murate
Le antiche città murate di Montagnana, Este e Monselice sono le ambasciatrici più sfolgoranti di questa parte di territorio padovano, al confine con la pianura veronese e il basso vicentino. Montagnana è una cittadina cinta dalle mura meglio conservate d’Italia e custodisce il Palio dei 10 Comuni, fra i più antichi del Belpaese, che si svolge nella prima domenica di settembre. Dentro le
mura la piazza con lo splendido Duomo, posto in posizione obliqua rispetto alla pianta della piazza, il Castello di San Zeno con la piazza d’armi e un piccolo ma ricercato Museo Archeologico. Non ripartite senza prima aver assaggiato il tipico prosciutto crudo dolce.
Montagnana, cittadina cinta dalle mura meglio conservate d’Italia
A un quarto d’ora di strada da Montagnana si ergono i resti delle mura e del Castello di Este, restituita ai suoi abitanti e ai turisti che la visitano da un profondo restyling che ne ha messo in risalto i suoi notevoli punti di forza, come la piazza e il corso che uniscono le due Porte del centro e il Castello, meta obbligata per una rigenerante sosta.
Lasciando Este arriviamo infine a Monselice, la più grande delle tre città murate; anche qui si è lavorato di fino sulle opere urbanistiche, rendendo il centro della cittadina un salottino ideale per passeggiate e visite turistiche sia del centrale Castello, risalente all’anno 1000, sia del notevole complesso monumentale religioso, il Santuario Giubilare delle Sette Chiese (le sette ciesette), disegnato nel 1600 dall’architetto Vincenzo Scamozzi.
Ma i Colli Euganei sono scrigni di borghi, monasteri, Ville e Giardini di notevole bellezza. Potremmo farne un lungo elenco ma ci limitiamo qui ad alcuni, importanti siti, così da facilitare la visita anche ad un turista di passaggio.
ARQUÀ PETRARCA
Visitare il borgo di Arquà Petrarca è imprescindibile, stretto fra le sue tipiche case in pietra a vista, i vialetti fioriti, e con la piazzetta bassa che ci porta dritti alla casa di Francesco Petrarca, che aveva scelto proprio Arquà per giubilare la sua scelta di vivere in campagna, abbandonando la più caotica vita cittadina. Qui si respira davvero aria di vivere lento.
MONASTERI E ABBAZIE
Poco più a nord, addentrandosi fra i Monti Venda, il più alto dei Colli Euganei con i suoi 601 metri e Rua, troviamo due monasteri, quello degli Olivetani e quello visitabile (ma non dalle turiste) dei Camaldolesi. Va da sé che fra questi luoghi collinari si aprono bellissimi sentieri e notevoli ciclabili che consentono di vivere ancor più intensamente le suggestioni agresti e bucoliche che i Colli Euganei sanno offrire.
E sempre a proposito di luoghi religiosi, segnaliamo il bel complesso dell’Abbazia di Praglia, vicino a Bresseo, famosa per la sua Officina che produce prodotti naturali di cosmesi e preparazioni a base di miele, la loro storica specialità.
VALSANZIBIO
Non molto distante dall’Abbazia, superata Torreglia, si apre ad uno sguardo
ammirato il Giardino Barocco di Villa Barbarigo a Valsanzibio, un superbo giardino monumentale del 1600 che ospita un Giardino Simbolico, punteggiato da sculture, peschiere e fontane e un Giardino Botanico di due ettari dove rilassarsi e magari concedersi un rigenerante picnic.
Naturalmente qui non manca un curato (e articolato) labirinto.
Monselice è la più grande delle tre città murate
Il castello d’Este
BATTAGLIA TERME
Infine, prendendo la direzione delle Terme, a Battaglia Terme ci aspettano due immancabili appuntamenti: uno per visitare la bellissima Villa Selvatico - che prende il nome dal consultore
della Repubblica di Venezia Bartolomeo Selvatico, deciso a riqualificare a fine ‘600 il complesso oramai in rovina che sorgeva sulla collinetta detta la Stufa (per la vicinanza ai siti termali) e lo splendido Castello del Catajo, un imponente edificio di 350 stanze (molte quelle visitabili) che nei secoli è stato anche dimora dei duchi di Modena e Reggio e residenza di villeggiatura degli Asburgo, imperatori d’Austria. Vi accoglierà il suggestivo Cortile dei Giganti, salirete ai piani alti da scale che si potevano salire a cavallo, ammirerete la cappella gentilizia costruita interamente in legno, potrete godervi un raro Giardino delle Delizie che ospita una collezione di rose antiche dal XVI al XX secolo e infine rilassarvi all’ombra di piante secolari di magnolia e sequoia. Vi abbiamo fin qui descritto un luogo di immense suggestioni, ricco, ricchissimo di Ville venete superbe e ben con-
servate (ne approfitto per ricordarvi la notevole Villa dei Vescovi a Torreglia), il tutto all’interno di un territorio armonioso e verde.
Ai piedi dei Colli, ad Este, ci aspetta Nicola Innocenti, birraio del Birrificio Estense. Qui, oltre alle birre - alcune delle quali possono vantare premi nei più importanti contest italiani ed esteri - possiamo trovare ottima gastronomia in un ambiente nuovo ed accogliente. ★
Birrificio Estense
Via Atheste 40/c Este (Padova) www.birrificioestense.it
L’itinerario completo lo trovate su “Turismo birrario. Guida per viaggiatori in fermento” Nord Est di Pierluigi Bruzzo, Gabriele Navoni e Luca Grandi. L’intera opera è curata da Luca Grandi. Edizioni LSWR.
Il labirinto all’interno del giardino monumentale di Valsanzibio
Lo splendido Castello del Catajo conte 350 stanze, molte di queste visitabili
HANNO SCRITTO PER NOI
Flavio Boero
Perito chimico, ho iniziato a lavorare nel 1973, in qualità di tecnico di Laboratorio, alla Poretti S.p.A. di Induno Olona e quando l’azienda è acquisita da Carlsberg sono diventato responsabile qualità fino al pensionamento. Fin dal sorgere dei primi microbirrifici mi sono appassionato alla birra artigianale collaborando attivamente ai corsi di formazione per birrai e beer-sommelier. Partecipo, in qualità di giudice, ai concorsi birrari in Italia e all’estero.
Antonio Boschi
Grafico di professione e grande appassionato di musica e di arte. Titolare dell’agenzia WIT Grafica & Comunicazione, ho all’attivo l’ideazione e l’organizzazione di alcuni festival, tra cui il Rootsway premiato nel 2009 come migliore a livello europeo. Redattore della rivista Il Blues, da anni collaboro con Visit USA Italy oltre ad essere uno dei soci fondatori della società A-Z Blues. Autore del libro Blues Pills e altre storie
Andrea Camaschella
Appassionato di birra da svariati anni, sono coautore dell’Atlante dei Birrifici Italiani, docente ITS Agroalimentare per il Piemonte e in svariati altri corsi.
Norberto Capriata
Scienziato, filosofo, artista, pornografo, viaggiatore del tempo, mi divido tra la florida attività di arrotino-ombrellaio e la passione per la birra artigianale. Ho collaborato con le principali riviste del settore, a loro insaputa, e insegnato in vari corsi di cultura birraria, che nessuno ricorda. Conosco perfettamente la differenza tra Porter e Stout, ma non la rivelerò mai.
Katya Carbone
Ricercatore presso CREA Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura, Agrumicoltura. Responsabile del laboratorio di “Chimica e Biotecnologie degli Alimenti”, sono da anni impegnata nel settore brassicolo e in quello luppolicolo in particolare. Coordinatrice di diversi progetti nazionali sulla filiera, sono autrice di numerose pubblicazioni ed esperto tecnico al Tavolo di settore presso il Masaf, dove coordino il GdL “Ricerca e Sperimentazione”. Sono membro dello Steering Committee per la stesura del Piano di settore del luppolo.
Massimo Faraggi
Pioniere dell’homebrewing in Italia e docente di birra fatta in casa, sono stato co-fondatore di MoBI e curatore della rivista dell’associazione. Sono autore di articoli e libri di tecnica e cultura birraria.
Luca Grandi
Ho fondato il brand Birra Nostra nel 2007 e il il web magazine Birra Nostra Magazine nel 2013; nel frattempo ho ideato ed organizzato TEDx e fiere per i più importanti enti Fiera italiani e dal 2016 sono consulente per Fiere Parma e CIBUS. Scrivo per Slow Food, CiBi Magazine, Foodyes e Mark You; coautore de La via della birra - un Grand Tour attraverso l’Italia dei birrifici artigianali ed autore di Guide per viaggiatori.
Francesco Licciardo
Sono un economista agrario impegnato in attività di analisi e ricerca presso il CREA - Politiche e bioeconomia. I miei studi comprendono, fra gli altri, gli effetti delle politiche di sviluppo rurale, i processi di aggregazione nel settore agroalimentare e le analisi di filiera, tra cui quelle minori come il luppolo.
Matteo Malacaria
Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci.it e del libro Viaggio al centro della birra. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birrogastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.
Roberto Muzi
Formatore, sommelier, assaggiatore ONAF e consulente di settore. Laureato in Scienze Politiche, sono stato responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore dal 2014 al 2021 e giurato in diversi concorsi birrari nazionali.
Eleni Pisano
Scrivo, fotografo, insegno e racconto di cibo. Esperta di turismo esperienziale in ambito brassicolo, beerchef, food stylist e beernauta in cerca di eccellenze in ambito brassicolo. Ho lavorato per grandi marchi del mondo birrario italiano e poi mi sono avvicinata al mondo brassicolo artigianale. Lavoro come consulente e beerchef in diversi locali tra Milano e Monza. Collaborazione su beer pairing.
Angelo Ruggiero
Homebrewer dal 2006, nel 2010 avvio il blog berebirra.org, dove tuttora racconto i miei viaggi birrari e le cotte casalinghe. Dal 2012 collaboro con diverse associazioni e nel 2017 divento giudice BJCP, cominciando anche l’avventura da birraio per Lieviteria. Sono autore anche per Fermento Birra, docente in corsi di degustazione e homebrewing, organizzo e partecipo come giudice a concorsi. Sono autore con Francesco Antonelli di Fare la birra in casa (2020) e di Birra a Praga (2023) con Paolo Crovace. Stefano Tomassini
Collaboratore tecnico di ricerca presso CREA - Politiche e Bioeconomia, dove svolgo attività di sviluppo, realizzazione e gestione di banche dati, con particolare esperienza nella analisi statisticoterritoriale e nell’utilizzo di strumenti GIS.