NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
BIRRE E BIRRIFICI
BIRRE INGLESI RISORTE di Massimo Faraggi
ABBINAMENTI
APOLOGIA DELL’INVECCHIAMENTO di Roberto Muzi
TURISMO BIRRARIO
LA BIRRA IN REPUBBLICA CECA
DALLA A ALLA Z di Norberto Capriata
L’evoluzione degli aromi del luppolo durante la birrificazione di Andrea Dagoni FOCUS
TEMPUS FUGIT
Viviamo con l’espressione non ho tempo! sempre pronta a materializzarsi sulle nostre labbra per scansare un impegno indesiderato, rimandare incontri o appuntamenti o crearci una giustificazione plausibile per mettere a tacere la nostra coscienza. In realtà che a noi piaccia o meno il tempo passa, sedimenta, si dilata e si amplifica che noi lo vogliamo oppure no. Negli articoli di questo numero è proprio il tempo il protagonista della nostra narrazione, assieme ovviamente all’immancabile birra artigianale. Lo ritroviamo nel pezzo di Massimo Faraggi sulle Birre inglesi risorte dove una bottiglia di Dark Star Prize Old Ale diventa una macchina del tempo che catapulta l’autore in un tempo lontano qualche decennio dove però le emozioni e le sensazioni che il contenuto di quella bottiglia evoca sono ancora intatte, cristallizzate e pronte e riemergere. È certamente anche il protagonista del pezzo di Roberto Muzi visto che il Parmigiano reggiano, per sua natura, trasforma il tempo che passa nel suo tratto distintivo… soprattutto se accompagnato con la birra giusta! Anche nel pezzo di Eleni Pisano, dedicato all’importanza del terroir nella produzione e alla sua capacità di condizionare i prodotti che ne derivano, il tempo assolve al ruolo di custode di tradizioni, tecniche di coltivazione e di identità. Norberto Capriata, nel suo inconfondibile stile che ci fa
sorridere ma anche riflettere, ripercorre il tempo e la storia della birra artigianale dal 2005 ad oggi chiedendosi se il nostro modo di bere rifletta le mode del momento; e così a noi lettori, nel leggere l’articolo, sale la malinconia perché ci rendiamo conto che il 2005 non era l’altro ieri ma venti lunghi anni fa! Antonio Boschi nella sua rassegna dedicata al legame tra la birra e la musica parla implicitamente del tempo visto che parte da una copertina di un disco di Bloomfield e Kooper del 1969 rimasta intatta e potente grazie all’opera grafica di Norman Rockwell. Non mancano i pezzi dedicati al Turismo birrario a firma di Luca Grandi e Norberto Capriata; entrambi ci raccontano di luoghi magici dove il tempo sembra immobile ma nel suo scorrere lascia dietro di sé storie di uomini e donne legati indissolubilmente al tempo della storia. Di stampo più tecnico gli articoli di Matteo Malacaria dedicato al Marketing, di Michele Matraxia e Anna Cataldo sugli aromi secondari ed infine l’appuntamento con gli studenti dell’Università degli Studi di Parma in un articolo questa volta a firma di Andrea Dagoni che a sua volta lavora sugli aromi del luppolo. Un numero insomma da leggere con calma, prendendosi il tempo che serve, per il quale sono certa non userete l’espressione non ho tempo!
Buona lettura e buona bevuta!
Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto
MIRKA TOLINI
Birra Nostra
Birra Nostra Magazine - Bimestrale
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa
La birra in Repubblica Ceca, dalla A alla Z
di Norberto Capriata
di Luca Grandi
di di Norberto Capriata BIRRA E
San
di Antonio Boschi
di Andrea Dagoni
Direttore Responsabile Mirka Tolini
Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it
Hanno contribuito a questo numero
Antonio Boschi, Anna Cataldo, Andrea Dagoni, Norberto Capriata, Massimo Faraggi, Luca Grandi, Matteo Malacaria, Michele Matraxia, Roberto Muzi, Eleni Pisano
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Talvolta una bottiglia di birra può essere spunto di ricordi e storie birrarie che si intrecciano e ciò è sicuramente vero per questa bottiglia di Dark Star Prize Old Ale che ho davanti a me. Ricordo Prize Old Ale bevute quasi 40 anni fa, di cui questa bottiglia riprende il nome e - come vedremo - in un certo senso anche il contenuto. Il nome “Dark Star”, poi, mi fa ripensare a una giornata piovosa a Londra, negli anni ‘80, quando stavo leggendo un bigliettino sbiadito, appeso alla porta di un negozio di homebrewing, dove era scritto
“Ci siamo trasferiti in 8 Pitfield Street N1 6HA” (dalla parte opposta della città!). La stessa etichetta di questa bottiglia fa intuire che dietro questa birra ci sia una storia per lo meno complicata: è una “Dark Star”, quindi questa dovrebbe essere la birreria, ma in basso c’è un piccolo marchio “Gale’s”. In caratteri più piccoli, in retroetichetta, si leggono i nomi di Chiswick (sede della Fuller’s) e addirittura Asahi! Quattro birrerie per una birra? In realtà ce ne sarebbe una quinta, non menzionata pur essendo proprio quella che ha effettivamente prodotto la birra!
Questi pensieri un po’ disordinati mi hanno offerto lo spunto per riflettere e scrivere a proposito della vicende di alcune birre iconiche inglesi, della loro storia di successi e difficoltà, della loro scomparsa compianta dagli appassionati più fedeli e soprattutto delle loro resurrezioni, non sempre durature.
Oltre alla POA, un’altra birra “riesumata” negli ultimi mesi ha richiamato la mia attenzione: la Allsopp’s Arctic Ale; meno recenti le vicende della Courage Imperial Russian Stout e della Thomas Hardy’s. In questo articolo vorrei riper-
correre la storia della POA lasciando le altre per le prossime puntate.
L’apparenza del marchio
Chi è appena addentro al mondo dell’industria birraria, è consapevole di come a volte il nome di una birra sia solo un marchio, uno scheletro vuoto tenuto in vita da esigenze di marketing, e come la provenienza e l’identità stessa della birra possa essere un affare complicato da decifrare. Non si tratta di un fenomeno solo inglese ma globale: pensiamo a come la Moretti nell’immaginario sia ancora una birra indipendente e friulana quando da oltre 20 anni non è che un marchio applicato a una birra prodotta da Heineken (per non parlare della Moretti Grand Cru, che almeno inizialmente non era altro che la belga Affligem Blonde rietichettata).
Ma è soprattutto in UK che queste storie sono più frequenti e complicate: gli ultimi decenni hanno visto innumerevoli acquisizioni e merge, con i produttori nazionali (i cosiddetti “Big Six” [1]) a divorare gloriose birrerie regionali, per poi a loro volta scomparire assorbiti o smembrati dalle grandi multinazionali della birra (AB-Inbev, Carlsberg, Molson-Coors...). Nel corso di queste operazioni, birrerie hanno perso la loro indipendenza cambiando più volte proprietario, o più spesso sono state chiuse e il loro portafoglio di birre trasferito da una parte all’altra del Regno. Birre classiche che agli occhi del consumatore sono ancora esistenti vengono ancora vendute come tradizionale espressione di una regione ma in realtà resistono solo come marchio, magari prodotte dalla parte opposta dell’isola [2] . Sebbene si tratti di operazioni di natura esclusivamente commerciale, a volte (sia pur raramente) dietro questi intrecci si trovano nonostante tutto anche storie di sincere passioni e di positiva ostinazione nel far sopravvivere birre importanti per gli appassionati, sia birrai che consumatori, ed è questo il caso della POA.
Al di là delle sue vicende recenti, la POA era una birra davvero particolare e quasi unica nel suo genere. La distinzione fra barley wine e old ale è sfumata quanto quella fra porter e stout: in estrema sintesi, barley wine (quindi “forte come un vino”) fa riferimento alla forza di una birra, “old” al fatto che possa o debba maturare per un periodo di tempo prolungato, e le due caratteristiche (come nel caso della POA) spesso coincidono. Nel caso di questa birra l’aggettivo “old” è quanto mai appropriato, visto che la birra, quando veniva prodotta nel suo birrificio originale, spendeva diversi mesi in maturatori, da sempre usati per questa birra, e ospitanti sovente batteri e lieviti selvaggi sviluppati nel corso dei decenni. Birre sottoposte a questa maturazione venivano denominate per l’appunto “Old” o “Stock” Ale. Quando nel 1923 il nuovo head brewer di Gale’s William Barton Mears Jr. introdusse la Prize Old Ale, stava riproponendo uno stile ancora esistente
ma sulla via dell’estinzione. La birra, forte e scura, veniva fermentata in legno per poi maturare per lungo tempo in un grosso tino di legno di pino, che negli anni sviluppava tutta una fauna di batteri e lieviti che impartivano alla birra un carattere vinoso e leggermente acidulo che ben si sposava con le note scure, fruttate e caramellate della birra. La ricetta prevedeva malto Maris Otter, zucchero invertito scuro, frumento torrefatto, malto black e luppoli Goldings e Fuggles, e l’uso del lievito proprietario della birreria, con una OG di 1095 e un grado alcolico intorno al 9%. La produzione continuò regolarmente anche dopo il pensionamento del birraio nel 1954 per proseguire fino al XXI secolo. La Prize che bevevo negli anni ‘80 aveva un carattere in realtà solo leggermente acido e maggiormente tendente al vinoso: la ricordo erbacea con sottili note di cacao; altre annate sviluppavano maggiore acidità. La gradazione alcolica era del 9% circa.
L’arrivo di Fuller’s
Purtroppo la storia della tradizionale birreria dello Hampshire si concluse all’inizio di questo secolo: nel 2005 infatti la londinese Fuller’s annunciò l’acquisto di Gale’s. Fuller’s è sempre stato fra i miei esempi preferiti di birrificio industriale capace di produrre birre di qualità e carattere, non di rado superiori a molti prodotti artigianali. Non si tratta di una multinazionale e neppure di un produttore importante a livello nazionale, ma non si può nemmeno considerare artigianale: è una delle tante realtà regionali che hanno fatto la storia birraria britannica. In questo caso Fuller’s si comportò come prima di lei fecero i grossi birrifici nazionali, ovvero acquistare un birrificio con l’intenzione di chiuderlo per assorbirne i marchi delle birre (da riprodurre eventualmente in proprio) e rete commerciale. Il primo pensiero degli appassionati andò quindi ad alcune birre Gale’s, la classica HSB ma soprattutto la POA, quella più caratterizzata e legata al sito produttivo: che fine avrebbe fatto? Per fortuna anche nell’ambito della produzione birraria, a volte a fare la
differenza sono le persone, in questo caso John Keeling, mitico responsabile della produzione di Fuller’s. Keeling per anni è stato un riferimento per la scena birraria londinese, industriale e craft, collaborando e facendo da mentore a diversi giovani birrai artigianali. Lavorare in un’industria di medie dimensioni pone certi limiti alla possibilità di un birraio di “divertirsi” e sperimentare e Keeling nel rispetto di questi limiti ha sempre cercato di andare un po’ oltre al seminato, ad esempio proponendo birre particolari con la serie “Past Master’s” e curando l’introduzione della Vintage Ale a partire dal classico barley wine Golden Pride. Conscio dell’importanza storica della POA, per cominciare Keeling fece produrre a Gale un’ultima e abbondante cotta della old ale, riempiendo per bene i famosi tini di legno (difficilmente trasportabili a Londra).
La birra non ha necessità di essere subito imbottigliata (anzi!) ed è normale che possa riposare anche per anni ed essere imbottigliata più tardi e in piccoli lotti.[3]
A tempo debito, Keeling convinse la Fuller’s a riproporre la POA, utilizzando
una sorta di metodo Solera [4], ovvero producendo (con l’aiuto di Derek Lowe, ex birraio di Gale’s) una nuova cotta da miscelare con la “vecchia” POA. Intorno al 2008-2009 vennero prodotte due cotte, delle quali a dir la verità non ho trovato molte notizie. Ad ogni modo la POA made in Fuller’s non suscitò l’entusiasmo dei responsabili commerciali e i tank con abbondante birra blendata residua finirono dimenticati nella sala serbatoi di Fuller’s per diversi anni.
Il ritorno della Dark Star
A questo punto entra in gioco nel 2018 un’altra acquisizione, quella della rinomata birreria “craft” Dark Star del Sussex da parte di Fuller’s, in questo caso per fortuna non con l’intenzione di chiuderla ma di lasciarle continuare la produzione - magari approfittando delle dimensioni minori per produrre birre particolari in minore quantità. Nemmeno il tempo di mettere a punto nuovi piani produttivi, e un anno dopo Fuller’s stessa viene comprata dal gigante giapponese Asahi (proprietario anche della Peroni, fra le altre). Questa si che è una notizia un po’ preoccupan-
te, sebbene come al solito l’acquirente rassicuri che nulla cambierà ecc ecc. Nel “pacchetto” è anche compresa la Dark Star. E qui in questo intreccio di acquisizioni entra di nuovo in gioco la passione birraria, in questo caso di Henry Kirk, giovane birrario di Fuller’s poi passato proprio in quel periodo al ruolo di head brewer di Dark Star. Già alla Fuller’s Kirk aveva adocchiato quei tank giacenti da anni e contenenti quella birra particolare e affascinante, e riuscì dapprima a far trasferire un grosso tank presso la Dark Star, poi dopo due anni a convincere Asahi a riproporre la birra. Anche in questo caso viene prodotta una nuova cotta da blendare con la birra esistente, in modo da continuare a propagare i lieviti selvaggi originali e ottenere una birra che contenesse una percentuale (sempre minore) di quella originale. Messa in vendita a fine 2022, 13 anni dopo la precedente edizione, la birra ebbe un buon successo. Ma ecco un altro colpo di scena (ancorché forse prevedibile), con Asahi che subito dopo annuncia la chiusura della Dark Star, con spostamento della produzione delle sue birre alla Meantime
di Greenwich, già acquisita nel 2016. Visto però il successo della POA, la Asahi decide di continuare a Greenwich anche la produzione di questa Old Ale così particolare. Il birraio di Meantime incaricato della produzione di POA, Sven Hartmann, ha un background di birraio “craft” e pur non conoscendo la birra ne rimane colpito accettando volentieri la sfida. Vengono prodotti 50 ettolitri, come in precedenza blendati con 50 hl della “vecchia”; dopo alcuni mesi a fine 2023 circa metà della birra viene imbottigliata, sempre come “Dark Star” (è questa la bottiglia che mi accingo ad aprire!) e il resto lasciato a disposizione per eventuali successivi blend, in pieno rispetto della filosofia “Solera”.
Quale sarà il futuro?
Tornando alla Dark Star, leggere il suo nome presente in etichetta mi riporta alla mente quel pomeriggio piovoso di quasi 40 anni fa, collegato in qualche modo a questa bottiglia dal filo conduttore della passione e ricerca birraria. Il giorno dopo riuscii a individuare e raggiungere la nuova sede del negozio di homebrewing; non aveva solo ingredienti per la produzione casalinga (allora già diffusa in UK, quanto inesistente in Italia), ma era anche un beershop, che continuerà per anni a essere il più noto e fornito della capitale. La sezione homebrewing era comunque notevole, specie per l’epoca, e negli anni successivi, ogni qualvolta qualche conoscente si recava a Londra, veniva da me indirizzato in Pitfield St. per l’acquisto di qualche lievito o luppolo; si trattava allora di una zona un po’ degradata che solo di recente è stata soggetta a rinnovamenti. Quello che conta ai fini della storia è che il luogo era anche sede di un birrificio artigianale, di non grandi dimensioni ma che per qualche anno si guadagnò una certa notorietà: la Pitfield Brewery. Uno dei suoi prodotti di bandiera era la scura ottima Dark Star, menzionata anche da Michael Jackson e che riuscii a provare in cask
sul posto - probabilmente senza rendermi conto di stare bevendo una birra così iconica. Pochi anni dopo la Pitfield ebbe alcune difficoltà, legate anche all’aumento degli affitti in una zona che stava diventando “elegante”. La birreria cessò la produzione a Londra nel 1989, per poi riprenderla dal 1996 al 2006.[5] Nel frattempo uno dei birrai fondatori, Rob Jones, nel 1994 aprì un birrificio nel Sussex chiamandolo proprio con il nome della famosa birra scura, di cui ancora deteneva il marchio. La Dark Star Brewery nel giro di alcuni anni consolidò il suo successo, con la sua Dark Star Original ma soprattutto con più moderne e ottime birre luppolate come la sua Hophead, continuando la sua produzione fino ai nostri giorni... o quasi. Alla fine, come abbiamo visto, questo filo che ha collegato diverse storie birrarie si è interrotto, e Dark Star potrà al massimo sopravvivere ancora un po’ come marchio. Anche per la POA, nonostante la storia di “revival” sopra narrata, il futuro non è roseo: la Asahi
BIRRE E BIRRIFICI
dopo Dark Star ha deciso di chiudere anche il birrificio stesso di Meantime, mantenendo la produzione solo presso la Fuller’s di Chiswick. Non è certo una bella notizia, anche e soprattutto nei confronti di una birreria che ha fatto storia nell’ambito della birra “craft” britannica. Sappiamo bene che in questi casi gli annunci rassicuranti per cui la gamma e la qualità delle birre rimarrà la stessa lasciano il tempo che trovano; il rischio che con questo ennesimo trasferimento e consolidamento della gamma, a farne le spese sia la POA è molto concreto ed è un timore che mi ha manifestato anche Martyn Cornell, noto storico della birra. Nella speranza che questo non si avveri, è tempo ormai di stappare la bottiglia... ★
Tasting Prize Old Ale
Dark Star Gale Prize Old Ale 2023 (degustazione di agosto 2024)
L’ultima versione di POA, a etichetta Dark Star, si presenta di colore mogano scuro con una abbondante testa di schiuma, inusuale per questo genere di birra e anche rispetto a POA assaggiate negli anni. Il naso ci sottopone note di cantina, diciamo pure “puzze” che si dissipano rapidamente, lasciando spazio a note selvagge più delicate e a un leggero caffè. Gli aromi più tipici da barley wine si manifestano soprattutto come mosto cotto (forte è il richiamo alla piemontese cugnà). In bocca la carbonazione è più moderata di quanto la schiuma potesse far supporre e al palato la birra risulta morbida e scorrevole. L’acidità è ben presente ma equilibrata e piacevole, con note ancora di caffè “cold brewed” e più leggere di cacao. Mi sarei aspettato un corpo un po’ più consistente e una maggior profondi-
Note
[1] I Big Six erano sei birrifici di dimensione nazionale che dominavano la scena birraria britannica fino agli anni ‘90: Bass, Courage, Whitbread, Allied Breweries, Watney e Scottish & Newcastle.
[2] Solo un esempio: la “scozzese” Mcewan è ora prodotta formalmente da una “ex-birreria” (Marston’s) di Burton on Trent, in un birrificio (ex Charles Wells) situato però a nord di Londra, di proprietà della danese Carlsberg...
[3] La storia recente della POA è ben delineata in alcuni articoli di Martyn Cornell, ad es: https:// www.goodbeerhunting.com/blog/2023/11/6/ rebirth-of-gales-prize-old-ale
[4] Il metodo Solera, utilizzato storicamente per la produzione di alcuni sherry, prevede che il vino dell’ultima annata sia miscelato a quello vecchio lasciato a maturare, per poi imbotti-
gliare parte del blend e lasciare a maturare il resto della miscela, in un processo continuo e “ricorsivo”. In questo modo il vino prodotto contiene una percentuale via via più piccola di tutte le annate precedenti, anche di decenni or sono. Come vedremo una filosofia del genere è stata applicata nelle realizzare le versioni recenti, ma non è sicuro che la Gale’s in origine utilizzasse questo metodo per la POA: pur riportandolo nei suoi articoli, Martyn Cornell da me interpellato non si è detto sicuro al 100% di questo fatto.
[5] Per la storia completa delle birrerie Pitfield e Dark Star si può far riferimento a questo articolo di Des de Moor: https://desdemoor.co.uk/ pitfield-brewery/
[6] Degustazioni del dicembre 2021. Tratte da: D. Bertinotti, M. Faraggi (2022), Barley Wine, Ediz LSWR
tà degli aromi che spesso ritroviamo nei barley wine più strutturati, mentre questa old ale richiama maggiormente birre del tipo Rodenbach. Questa bottiglia era ancora molto giovane, vedremo come si evolverà negli anni!
La Prize Old Ale 2023 è disponibile sul sito :https://www.darkstarbrewing.co.uk /products/prize-old-ale ma non viene spedita al di fuori del Regno Unito.
Gale’s Prize Old Ale 2003 [6]
L’acidità, che spesso caratterizza in varia misura questa birra, in questo caso invece di arricchirla sembra averla svuotata di tutte le sue altre componenti. Deludente, anche rispetto ad assaggi di esemplari con più anni sulle spalle.
Nel bicchiere appare bruna e limpida, senza schiuma, con carbonazione assente. L’aroma è più blando rispetto alle aspettative per questo tipo di birra, le tipiche note di cioccolato sono appena avvertibili. In bocca spicca subito
una decisa acidità lattica che si potrebbe definire pulita; il corpo è svanito, la birra è watery e la persistenza corta.
Gale’s Prize Old Ale 1972 [6]
Una birra la cui evoluzione ha preso strade del tutto inaspettate; l’assaggio, nonostante qualche asperità, è stato interessante e stimolante. Certamente molto diversa da come era stata concepita e prodotta all’origine. Questa birra quasi cinquantenne sorprende subito per il colore (tra l’arancio e il rosso) e il naso caratterizzato dal Brettanomyces che, dopo un primo impatto aggressivo, col passare dei minuti lascia emergere piacevoli note fruttate e agrumate. In bocca il corpo c’è ancora tutto, bilanciato da un’acidità moderata con note sia lattiche che blandamente acetiche e un ben avvertibile sentore di mandarino. Si percepiscono purtroppo anche note terrose e di lievito che impediscono alla bevuta di essere del tutto piacevole.
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ORGOGLIO E PREGIUDIZIO
Mai giudicare la birra dalle apparenze (o per partito preso)
Fare parte di uno dei tanti gruppi per nerd della birra è semplicemente fantastico. Se ne leggono di ogni, e ogni anno in questo periodo è la stessa tiritera. Lamentele diffuse nei
confronti di nuovi marchi commerciali, che lanciano la bomba dell’estate pronta a esplodere come un tormentone musicale, non sapendo che il loro destino è quello di esaurire presto la loro luce,
come le meteore. Ci sono poi le critiche, a bizzeffe, nei confronti degli eventi, sagre fra tutti, che trovano nella calda stagione il loro momento di gloria, l’unico. Sono occasioni destinate al consumo di
di Matteo Malacaria
massa, e il fatto che l’offerta birraria non sia esattamente al top è coerente con la domanda dell’evento. Tuttavia anche qui la questione fa storcere il naso a più di qualche rigoroso sostenitore della birra artigianale, che non si vuole abituare al fatto che esistano bicchieri di plastica e birre dozzinali. In entrambi i casi sono critiche a mio avviso sterili, che non aggiungono alcun argomento alla conversazione che non sia quello del partito preso. Continuo però a seguire questi gruppi, perché di argomenti interessanti se ne leggono tanti, perché tra le righe si leggono alcune tendenze emergenti e soprattutto perché, osservando con occhio critico questi atteggiamenti, si può studiare più da vicino la fauna della birra artigianale.
L’ultimo disastro è stato servito su un piatto d’argento da alcune testate giornalistiche, digitali e non, che seguendo l’equazione estate=birra hanno sentito il dovere di dire la loro in ambito brassicolo. Il risultato è stato ovviamente disastroso: un’accozzaglia di stereotipi, falsi miti e leggende degne di una grande Epica - peccato che stiamo parlando di riviste non di settore e di letture destinate a essere consumate sullo smartphone sotto l’ombrellone, il che fa comprendere il target di riferimento. Insomma, certi articoli potrebbero anche evitare di pubblicarli. Però… c’è sempre un però. Il fatto che siano stati ripresi all’interno dei gruppi di nerd di cui sopra è la dimostrazione che (1) questi articoli raggiungono i lettori che vogliono raggiungere, ma soprattutto (2) che la falce più radicale della birra artigianale si lascia condizionare da queste vili calunnie. Insomma, si sente ferita nell’orgoglio, si offende.
Pregiudizi
e verità
Ma l’offesa sarebbe nulla, se non ci fosse un fondo di verità nel pregiudizio, dico bene?
Omaggiando “Orgoglio e pregiudizio” ho voluto riportare, con le debite differenze, il succo di questo romanzo al
mondo della birra. In particolare mi sento di dire che il limite principale del comparto craft, incapace di creare una comunicazione semplice, efficace e inclusiva, pretende il rispetto dei non addetti ai lavori e si offende quando qualcuno chiama in causa la sua beniamina, senza averne i meriti. Ora, sia chiaro che è legittimo lavare via l’offesa, così come è legittimo offendersi, ma basta osservare la situazione da un punto di vista diverso per capire che la verità, come sempre, sta nel mezzo. Il grande limite del mercato della birra artigianale è proprio l’atteggiamento di chi ne fa parte, decisamente poco inclusivo. Allo stato attuale, più dialogo con le persone e più mi rendo conto che tra corsi e ricorsi di formazione, locali birrari specializzati e conversazioni talebane da banco, si potrebbe dire che il mondo
craft stia facendo di tutto per mantenere circoscritta la propria nicchia di consumatori. Una nicchia, inizialmente composta da appassionati, adesso formata da bodyguard il cui compito è intimidire i novellini e cancellare le velleità dei più curiosi. Male, molto male. In questa trincea a difesa dell’orgoglio tutto si sta difendendo fuorché il legittimo interesse della birra. Attenzione, perché oltre all’orgoglio c’è anche il pregiudizio.
Secondo fonti ufficiali e ufficiose il mercato della birra non è esattamente dorato come potrebbe apparire. I consumi sono in contrazione, crescono a valore ma non a volume. Un film già scritto. Superata la pandemia i consumi sono schizzati alle stelle, sostenuti dalla rinnovata gioia di vivere e dall’entusiasmo di tornare a bere in compagnia. I con-
sumi non vivono di entusiasmo e gioia di vivere però, vivono di disponibilità economiche e di gusti. Per cui era logico prevedere una contrattura, o meglio un ritorno ai livelli pre-Covid. Non solo. I fortunati che hanno continuato a lavorare o a percepire uno stipendio hanno accumulato risparmio. Finite le limitazioni è stato normale che sfogassero la loro fame sociale nei consumi, sfruttando il risparmio accumulato. Un risparmio che è stato rapidamente eroso, e unitamente al fatto che lo stipendio medio sia al palo da decenni fa sì che quella che poteva essere una birra in più, oggi è in realtà una birra in meno. Per salvare il salvabile occorre smettere di ragionare per partito preso e gettare uno sguardo oltre il proprio orticello, cercando di leggere l’andamento di mercato.
Sempre a proposito di pregiudizi, il fatto che negli articoli di stagione sia ricor-
rente la confusione tra Lager e Pilsner è figlia della comunicazione convenzionale. Considerare i due termini come sinonimi, diciamoci la verità, è blasfemia. Però io personalmente non mi sento offeso, mentre non credo di poter dire lo stesso di alcuni eletti del mondo craft, a giudicare dai loro commenti.
Un termine per tutto
Diciamo che l’industria, per semplificare, ha sempre cercato di ridurre la conversazione (e la produzione) al mondo delle basse fermentazioni, utilizzando il termine Lager per descrivere tutto. In soldoni la differenza tra Lager e Pilsner si può riassumere in quella tra Helles e Pilsner, la prima chiara e dolce, la seconda chiara e amara. Con un 60% delle preferenze di consumo, le Lager sono le birre più consumate e di conseguenza il termine più diffuso. Fare le dovute differenze è importante, ma of-
fendere chi si permette di utilizzare impunemente il termine Lager mi sembra un po’ esagerato, talebano oserei dire. Come nella cultura dell’insegnamento, correggere l’errore additando la colpa produce un solo effetto: far fuggire i destinatari, terrorizzati dagli improperi loro rivolti.
Quest’estate ti sarà capitato di vedere Session IPA e Blanche, forse persino qualche Weizen. Ci sono, se ne consumano molte in stagione, ma stai sicuro che non sono questi stili a guidare i consumi. Il grande ritorno alle chiare rappresenta la fine di un ciclo cominciato con l’esplosione dei birrifici artigianali, che hanno introdotto sul mercato stili e gusti insoliti. Mi permetto di fare un paragone col mondo della pizza a me tanto caro. Oggi si parla di impasti d’ogni genere e di farciture d’ogni tipo, eppure la regina delle pizze rimane sempre la Margherita. In una logica di massa, la Margherita è La pizza, il suo stereotipo è base pomodoro e sopra mozzarella. Allo stesso modo le Lager (Helles o Pilsner) rispondono alle aspettative di tutti quelli che ordinano una birra chiara senza specificare altro. Ad alcuni piace sperimentare, ad altri piace rimanere nella propria comfort-zone. Ecco, questi altri rappresentano la fetta più grossa del mercato della birra e per loro esiste solamente la “bionda”. Punto.
Le richieste del pubblico
E se di pregiudizi siamo pieni, ciò che veramente nuoce alla salute del mercato della birra è “fare quello che fanno gli altri”, soprattutto quando l’esempio viene da oltre confine. Mi riferisco all’arrivo in Italia di un fenomeno già diffuso in buona parte del mondo sviluppato: le birre analcoliche e a ridotto contenuto alcolico. È vero, queste birre, cosiddette di servizio - al pari delle birre senza glutine - replicano quello che è già avvenuto in ambito ristorativo, con l’introduzione di menu vegetariani per accontentare le esigenze delle nuove tendenze alimentari. La ricerca di
un’alternativa è diventata una pretesa da parte del pubblico, che ha il coltello - ovvero i social - dalla parte del manico, giocoforza obbligando i ristoratori ad accontentare le loro pretese. Mettici anche la diffusa attenzione per la salute, di cui l’alcol non è certamente amico, ecco che anche le birre hanno iniziato a piegarsi al volere di mercato, introducendo queste novità. Sembrava essere un mercato monopolizzato dalle birre industriali, e invece… Oggi, grazie ai progressi sulle materie prime e sui processi produttivi, anche i birrifici artigianali si stanno affacciando con successo a questo mercato. Non solo, i birrifici artigianali hanno dalla loro un vantaggio competitivo: possono produrre tanti stili a ridotto conte-
nuto alcolico, a differenza dell’industria che è ancora legata alla chiara da battaglia. In pratica i birrifici artigianali possono fare quello che l’industria, per limitazioni produttive (e commerciali) non può fare: offrire una gamma ampia, e con essa accontentare canali, mercati e consumatori differenti. Un po’ come l’azienda di beni alimentari che vuole entrare in GDO: se ha un solo prodotto fatica molto di più a trovare spazio a scaffale rispetto a un’azienda che offre più etichette. Eppure, sempre per tornare al titolo dell’articolo, non dovresti mai offrire una birra analcolica a un purista della birra. La troverebbe offensiva. E così, con il suo atteggiamento di morbosa protezione, finirebbe per tarpare le ali dei più innovativi birrifici
artigianali. Per fortuna fuori dall’Italia hanno capito che ci sono vacche grasse, e anch’io ho assaggiato produzioni anglosassoni a ridotto contenuto alcolico davvero straordinarie. Alla fine della fiera l’unico che potrebbe veramente offendersi è l’alcol, ma checché si dica il bere non trionfa sempre sul male.
Paese che vai, tendenze che trovi
Da una parte va bene non precludersi le possibilità, dall’altro è sempre bene contestualizzarle. Come ho detto, un errore da principianti è imitare senza criterio, anche quando il riferimento è il top player mondiale. Prova a immaginare Stati Uniti, Regno Unito, Germania e paesi del Nord Europa: ovviamente
ciascuno di questi ha le sue peculiarità. Tuttavia, c’è una cosa in cui tutti differiscono dall’Italia, che è la mancanza
di cultura gastronomica. E, con essa, di sensibilità alle bibite. Coca-cola e Pepsi, che sono le leader incontrastate, sono entrambe figlie degli USA e non è un caso: il pubblico locale ha una forte sensibilità verso le bevande zuccherate. Da noi le bevande esistono, e vengono consumate a tutte le età e in tutte le tipologie, dai succhi di frutta ai tè. Tuttavia tutto possiamo dire dell’italiano medio tranne che abbia un’ossessione per le bibite zuccherate. Per fortuna. E in Italia, finché c’è l’acqua, le grandi compagnie possono fare quello che vogliono, ma troveranno sempre nell’acqua il loro insormontabile avversario: più salutare, più naturale, e soprattutto più economica. Va bene dunque produrre birra analcolica, ma occhio che il cavallo potrebbe non essere lo stesso che ha vinto in altri campionati.
Abbiamo parlato di salute e di profondità assortimentale, potrei allungare il mosto con i temi più caldi del momento quali sostenibilità e inclusività, ma te li risparmio. Volevo semplicemente riportare l’attenzione sul fatto che la prima cosa da fare sarebbe togliersi la maschera, mettere da parte l’orgoglio, accettare il pregiudizio e piuttosto trovare nel pregiudizio un’opportunità. L’opportunità di comunicare correttamente quello che la birra artigianale rappresenta: non passione, non materie prime di qualità, bensì brand, emozioni e unicità. So che sembrano parole da fuffettari del marketing, ma in cuor tuo sai che o ti distingui o ti estingui. È ora di scendere dal palco su cui siamo saliti: i cinque minuti di gloria della birra artigianale sono finiti da un pezzo, adesso sopravvive solo chi sa comunicare i valori dell’artigianalità. ★
PER TUT T E L E B I R R E
Un a ga mma c o m ple t a pe r ogni st il e
Che siano per calici per la birra artigianale o tumbler per una strawblond, i bicchieri creati da RASTAL sono pensati per enfatizzare l’esperienza multisensoriale del consumatore e al contempo soddisfare le esigenze pratiche dei professionisti della ristorazione.
di Roberto Muzi
IL PARMIGIANO REGGIANO per un’apologia dell’invecchiamento
Se esistesse una lista di cibi da inserire tra quelli più conosciuti e, contemporaneamente, più sconosciuti sarebbe sicuramente presente il Parmigiano Reggiano. Parliamo di un simbolo caseario apprezzato, esportato e, purtroppo, imitato, di cui vengono prodotte circa 4 milioni di forme all’anno. Come capita spesso a noi italiani, discorriamo di enogastronomia ergendoci a esperti, pensando che per farlo basti il luogo di nascita, ma poco o nulla sappiamo delle ragioni che rendono questo cibo così speciale.
Una parte della responsabilità di questa ignoranza sta nel fatto che, negli ultimi decenni, abbiamo trasformato un formaggio importante e nobile in un prodotto da volantino, da mai senza; un’altra parte sta nella mancanza di educazione alimentare (basta il nome, e più spesso, ancora peggio, il brand); un ultimo pezzo di responsabilità sta nel fatto che, nella maggior parte dei casi, facciamo la spesa in luoghi nei quali siamo noi a ghermire gli oggetti per metterli nel carrello e quindi, a parte le etichette (che leggono in pochi e in ancora meno
capiscono), sono le nostre conoscenze, il confezionamento, la pubblicità e il prezzo a farci operare la scelta.
Parmigiano e fonti letterarie Il Parmigiano Reggiano viene prodotto da secoli (sembra che la sua nascita sia avvenuta all’interno delle abbazie benedettine del XII secolo, nell’area tra Reggio Emilia e Parma). Già nel 1353 Giovanni Boccaccio ne parla in un famoso verso del Decameron. Nell’ottava giornata del Decameron, con regina Lauretta, i protagonisti narrano
delle beffe che gli uomini e le donne si fanno vicendevolmente. La terza novella racconta di Calandrino e della sua ricerca dell’elitropia, una pietra dai vari poteri tra i quali quello di rendere invisibile chi la indossa, lui non solo è convinto di averla trovata ma anche che la causa della perdita del potere delle pietre che ha portato a casa sia la moglie! Calandrino è il protagonista assoluto di alcune novelle e viene descritto da Boccaccio come un personaggio sciocco e credulone che crede di essere molto furbo ma viene invece deriso dai suoi compagni di avventure Bruno e Buffalmacco; ciò non toglie che sia anche cattivo e determinato nei suoi strani propositi.
È proprio lui ad essere beffato in relazione al luogo dove si trovano le pietre magiche che viene così descritto da un personaggio che si prende gioco di lui.
“(...) in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua.”
Caratteristiche, produzione e classificazione
Il Parmigiano Reggiano fa parte delle DOP italiane dal 1996 ed è prodotto esclusivamente nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna (a sinistra del Reno) e Mantova (a destra del Po). La regolamentazione che si sono dati i produttori costituiti in Consorzio prevede specifici protocolli e marchiature e il divieto di alimentazione con foraggi insilati, fermentati e farine di origine animale.
Si tratta di un formaggio a latte vaccino crudo - cioè non pastorizzato - parzialmente scremato (“per affioramento”) e
a pasta pressata cotta: appartiene alla famiglia dei grana (che hanno crosta rigida, consistenza dura, con pasta che si scaglia) e sono vietati additivi di qualunque genere.
Si utilizza il latte di due mungiture, mattino e sera, e la coagulazione avviene lentamente grazie all’aggiunta di caglio e di siero innesto - conseguito dalla lavorazione del giorno precedente e con una generosa carica di fermenti lattici.
Grazie a un antico attrezzo chiamato spino, la cagliata ottenuta viene rotta in pezzetti grandi come un chicco di riso, e all’interno di pentole di rame a campana rovesciata si scalda fino a 55 °C; dopo meno di un’ora la massa viene estratta e posta nell’apposita fascera per dargli la tipica foggia: la resa finale è di circa 1 kg di formaggio da 13/14 litri di latte. Ogni forma, del peso di circa 40 kg, viene poi dotata di una placca che la identifica e marchiata con la famosa scritta a puntini. Si procede poi alla salagione,
in grandi vasche riempite con acqua e sale, e alla stagionatura. Quella minima è di dodici mesi, trascorsi i quali si procede alla cosiddetta espertizzazione: il battitore percuote la forma con apposito martelletto e, ascoltando i suoni che produce, individua eventuali difetti interni e la classifica secondo tre categorie: scelto, conforme alle indicazioni del disciplinare di produzione, marchiato e pronto o per la vendita o per ulteriore invecchiamento; mezzano, presenta alcuni lievi difetti, senza alterazioni delle caratteristiche organolettiche, marchiato e da destinare alla vendita immediata; sbiancato, quando presenta difetti rilevanti, viene dequalificato eliminando i marchi d’origine. Su richiesta del caseificio, è possibile ottenere due ulteriori marchiature, tramite relative espertizzazioni: export, per le forme con una stagionatura minima di 18 mesi e con le caratteristiche di “scelto sperlato” - qualifica attribuita
La statua di Giovanni Boccaccio in Firenze
alle forme immuni da qualsiasi difetto, sia esterno che interno (pezzatura, crosta, struttura della pasta, aroma, sapore) in qualsiasi modo rilevabile (vista e collaudo con ago e martello); premium, per le forme “scelto sperlato” con stagionatura minima di 24 mesi e che hanno superato un ulteriore e specifico esame organolettico.
Dal 2013, utilizzando una classificazione europea volta a valorizzare i cibi prodotti in altura, aree dell’Unione spesso abbandonate, dove sussistono i maggiori disagi a livello economico e logistico, è stata introdotta la dicitura “prodotto di montagna”, ottenibile rispettando uno specifico disciplinare.
Elogio dello stagionato
Prima di passare alla degustazione, ci preme toccare un ultimo, fondamentale argomento: perché è così importante la stagionatura, cosa succede durante questo straordinario processo?
È un fenomeno molto complesso, che ha scopi ed effetti simili all’invecchiamento che si pratica nel vino o nella birra: è difficile entrare nello specifico,
poiché l’esito finale dipende fortemente dalla tipologia di formaggio e dal tempo, ma in generale si può dire che dona intensità, ricchezza, complessità grazie a una serie di passaggi fisicochimici che trasformano il formaggio, a livello estetico, di consistenza e di complessità gusto-olfattiva. I grandi cambiamenti apportati dipendono fondamentalmente dall’azione del sale, dal lavoro dei microrganismi, dall’evaporazione dell’acqua e dalla degradazione enzimatica delle proteine (proteolisi) e dei grassi (lipolisi).
Di casello in casello
Il caseificio Malandrone 1477 (la cifra indica il numero di “casello”, così si chiamano gli stabilimenti di trasformazione da quelle parti) è stato tra i primi a sperimentare le stagionature più estreme del Parmigiano Reggiano, grazie a un’intuizione di Giovanni Minelli - titolare di questa realtà produttiva sita sulle colline di Pavullo sul Frignano (MO) a 700 m.s.l.m. Da grande appassionato di vino, si fece una domanda molto semplice: se in bottiglia il liquido odoroso può migliorare col tempo perché non provarci con un formaggio così ricco e complesso? Soprattutto se ci si trova all’interno di un’azienda a gestione familiare, in grado di governare direttamente l’intera filiera produttiva: fieno ed erbe per le 120 vacche di razza frisona provengono dai 200 ettari di campi dedicati, con piccole integrazioni di mangime e ricorso agli antibiotici solo in caso di strettissima necessità. Le bovine vengono allevate in stalla, ma a stabulazione libera e, nel periodo precedente il parto, lasciate al pascolo libero: forniscono quotidianamente circa 3.500 litri di latte che si trasformano in 6 forme di Parmigiano Reggiano. Una particolarità di questo caseificio è il non raffreddamento del latte e la ricerca di una lavorazione più magra possibile, già favorita dal latte utilizzato (rispetto ad altre razze, quello di frisona contiene meno grassi). Le forme
vantano così un eccellente equilibrio tra parte secca e parte grassa (“nemica” della stagionatura), dando vita a fermentazioni lente, che permettono maturazioni il più possibile omogenee tra centro e sotto crosta.
Tra calice e scagliatore
La verticale è un modo piuttosto interessante e proficuo per comprendere come il tempo sia in grado di influenzare i cambiamenti organolettici di un cibo o di un alcolico e come questi ultimi siano stati capaci di resistere, interagire o perire.
26 mesi
L’aspetto è di colore giallo, mentre la scaglia è abbastanza friabile. Al naso emergono le tipiche note lattiche e burrose, zaffate di frutta tropicale, mentre in bocca è molto equilibrato tra le tendenze dolci e le percezioni sapide. Per l’abbinamento procediamo con una Chimay Cinq Cents, iconica tripel trappista con l’8.0% in abv, caratterizzata da ampia ricchezza olfattiva (frutta bianca, mandorla, miele da fiori bianchi, erbe aromatiche) e grande personalità gustativa, capace di tenere in equilibrio secchezza e rotondità, profondità di sorso e fruibilità.
L’abbinamento funziona, risulta in grado di accordare le note rotonde e confortevoli del cacio con quelle più asciuganti e ripulenti della birra. Sono bravi nell’incedere comune, capaci affabulatori da salotto, in grado di regalare emozioni anche in una grigia giornata d’autunno.
36 mesi
Il colore è di un giallo più intenso, la scaglia maggiormente granulosa. Al naso emergono ancora tipiche note lattiche e burrose, la frutta è un gradevole soffio di tropicalità, mentre in bocca permane un apprezzabile equilibrio.
L’abbiamo abbinato alla Magna, belgian amber strong ale di 082tre, birrificio del casertano molto portato per gli stili “classici”. In questo caso l’ispirazio-
Chimay Cinq Cents, la tripel
ne è data dalle birre belghe d’abbazia (con una piccola contaminazione neo mondista nella luppolatura): colore ambrato e brillante e schiuma pannosa, al naso presenta profumi di caramella di malto, canditi, floreale delicato, soffi agrumati e vagamente tropicali. In bocca, la gradazione alcolica sostenuta (9%) e la rotondità complessiva tengono in piedi un sorso pieno e di carattere, caratterizzato dal caramellato e dalla frutta rossa matura; la chiusura è cedevole, appagante, accompagnata da un leggerissimo amaro.
L’abbinamento è sorprendente: la parte caramellata lavora con la sapidità mentre le lunghezze gusto-olfattive si equivalgono e l’abbondante carbonazione riesce a detergere, lasciando emergere interessanti note di erbe aromatiche e una balsamica suggestione finale, un refolo rinfrescante, che completa l’abbinamento e fa bene al cuore.
60 mesi
Onestamente, non è facile incontrare creature alimentari di questa età: quando accade c’è sempre un po’ di emozio-
ne. E si cambia anche approccio mentale, perché il tempo rappresenta una vera sfida, dove il formaggio diventa davvero “il salto del latte verso l’eternità”.
A livello organolettico, ci parla con note lattiche evanescenti, che lasciano il posto a quelle fungine, di frutta secca, a una impercettibile zaffata di ananas: fantastico! In bocca la persistenza è lunga, la sapidità elegante, il formaggio è evoluto, ma ha anche un’incredibile, originale vitalità.
La scelta per l’accostamento ricade sulla Selva di Birra dell’Eremo, IGA con aggiunta del 30% di mosto fresco di Sauvignon e 7.6% in abv. Dal colore dorato, velata, schiuma bianca e non copiosa, sprigiona note di pesca nettarina, camomilla, erbe aromatiche. Al palato si caratterizza per la secchezza, la lieve acidità e la sottile lunghezza aromatica.
L’abbinamento è un piccolo miracolo di piacere: quando due prodotti del genio artigiano si trovano così in forma vanno giubilati, sorbendone con il massimo piacere. Si costruiscono un lungo e proficuo spazio di dialogo che diventa piacere, facendo passare in primo piano delle eteree percezioni speziate, generando una continua rincorsa virtuosa, che appaga ed esorta la fase gustativa.
96 mesi
Un Parmigiano stagionato oltre i 60 mesi assume un colore giallo intenso, che può tendere all’ambrato. All’interno la consistenza è asciutta, la pasta facilmente scagliabile, c’è maggiore presenza di sapidità e presenza di cristalli di tirosina (spesso confusi proprio con il fiore del sale). Le note lattiche cedono il passo a quelle di frutta secca e a guscio (nocciole, mandorle tostate,
Magna di 0823
Selva, IGA di Birra dell’Eremo
noci), burro di cacao, fieno, funghi secchi, noce moscata, cuoio, tostature. In bocca si ritrovano soprattutto una lunga e garbata sapidità e irresistibili note umami.
Per l’abbinamento abbiamo scelto la Wee heavy di Moor, 9.5%, dall’aspetto bruno, con riflessi rossastri e dagli aromi dominati da intriganti e numerose sfumature di malto. Si riconoscono fragranze di crosta di pane ben cotto, caramello, frutta secca, frutta scura matura, melassa. In bocca avvolge grazie a un corpo spesso, masticabile, e a una frizzantezza moderata. La retrolfattiva si propone con grande coerenza rispetto alle percezioni orto-olfattive: con l’aggiunta di cenni toffee e di liquirizia. L’alcol riscalda, fa da legante accompagnando il sorso, conducendo verso un finale fatto di consistenza, assieme lento e appagante.
Accoppiati sembrano due persone che non si conoscono ma sono in grado di entrare subito in confidenza: la rotondità e la potenza della birra moderano l’esplosività aromatica e le donano un punto d’appoggio per salire ancora di più nella confidenza e nella complessi-
tà. Il finale di bocca fa chiudere gli occhi e sorridere, ci si perde a individuare sensazioni e riconoscimenti, mentre continuano le suggestioni di vaghe note tostate e sbuffi fumè.
108 mesi Riserva Minelli
Caratterizzato da note tostate, funghi secchi e da un crescendo di riconoscimenti speziati e dall’abbraccio dell’umami, al palato esordisce con una sensazione stupefacente di croccantezza che si trasforma lentamente in finezza: la prolungata stagionatura conferisce eleganza, maturità ed equilibrio, ne esalta la personalità decisa, appone una firma originale di persistente stimolazione gusto-olfattiva. Risulta autorevole, lunghissimo, affascinante, ha la delicatezza di una persona saggia, un naso di ampiezze e sfumature (legno umido, note citriche, ananas, frutta secca, sottobosco, un leggerissimo e intrigante sentore di acetico-fermentato). Nove anni di invecchiamento rappresentano una sfida all’esistenza. Possibile solo perché è fatto con latte crudo, è solo la sua vitalità e varietà microrganica che permette alla vita di procedere sotto forme diverse, in direzioni diverse.
Parliamo di un formaggio che basta a se stesso, di cui si può godere anche da solo. Ma l’abbinamento è fatto per aumentare il godimento e allora ecco qui la Fortezza nuova, barley wine di Piccolo Birrificio Clandestino, 10.5% in abv. Dedicata a uno dei simboli architettonici di Livorno, si basa sui più classici dettami realizzativi di questo storico stile britannico e sul suo peculiare elemento costitutivo: il tempo di maturazione (un anno circa, tra tank e bottiglia). Questa cura prolungata ci dona un bicchiere dal colore ramatoaranciato, sormontato da un velo di schiuma. Il naso è ampio, di “grande soddisfazione odorifera”, caratterizzato dalla parte melanoidinica della calotta del panettone, dal caramello cotto, da mieli scuri, mela cotta, frutta a guscio
e disidratata (fichi e datteri), tenui ed affascinanti effluvi da vini liquorosi, nuance ossidate. Una birra dalla grande personalità, a tratti imponente, senza fastidiose adesività zuccherose, con uno splendido bilanciamento tra dolcezze, lievissima acidità e tenore alcolico.
Non è facile trovare il modo di far collaborare due grandi personalità. Ma in questo caso ognuno, nella propria grandezza, si mette a disposizione con umiltà sapendo che l’enorme numero di suggestioni fornite necessitano della ripetizione del gesto d’assaggio, non possono conoscere impazienza. È così che nel matrimonio gustativo si colgono la classe superiore, la signorilità, lo stile unico nel proporsi: i ricordi vanno da una torta di mela con la cannella, all’ossidazione di un Porto o all’affumicato leggero di un prosciutto di Bassiano. Un profluvio epicureo che afferra e suggestiona, che si accetta come un’esperienza nuova, favorevole, irripetibile. ★
Fortezza Nuova di PBC
WeeHeavy di MoorBeer
BrauBeviale la casa di birrai e homebrewer
BrauBeviale, storico salone internazionale dedicato a materie prime, tecnologie e marketing per birra e bevande, torna dal 26 al 28 novembre 2024 a Norimberga e si riconferma luogo di ritrovo per eccellenza per birrai e homebrewer da tutto il mondo. Durante l’ultima edizione più di 31mila operatori professionali (41% internazionali) provenienti da 128 Paesi hanno visitato i 9 padiglioni della manifestazione. I birrai in visita sono alla ricerca di materie prime, attrezzature di processo e impianti dedicati alla produzione della birra. Ma l’offerta di BrauBeviale non finisce qui: le tecnologie avanzate per il riempimento e l’etichettatura, insieme alle varie tipologie di bottiglie e casse, permettono ai birrai di trovare soluzioni per tutte le loro esigenze quotidiane. La fiera presenta anche una vasta selezione di attrezzature per pub e birrerie. Sul sito ufficiale della fiera è possibile visionare il catalogo degli espositori e dei prodotti, così come il ricco programma collaterale, fatto di conferenze, tradotte in 5 lingue. I forum nei padiglioni 1 e 9 offriranno approfondimenti su temi cruciali come
le materie prime, il marketing, la tecnologia e le tecniche di imballaggio. Nel padiglione 1, l’attenzione sarà rivolta alle nuove varietà di orzo resistenti al clima, alla produzione di malto nel contesto del cambiamento climatico e alle nuove varietà di luppolo. In ambito marketing, il programma di conferenze includerà interventi come “Nuovo, diverso, di successo: sull’Innovation Thinking. Rivitalizzare la birra!” e “Punti chiave: Cosa rende le innovazioni nel settore delle bevande un successo”. Con il patrocinio dell’Associazione dei birrifici privati bavaresi (Verband Private Brauereien Bayern e.V.), sponsor concettuale della BrauBeviale, nel padiglione 9 verranno affrontati temi di grande attualità come l’efficienza energetica per le PMI, la produzione di birre analcoliche, il ruolo dei lieviti nelle birre analcoliche e lo sviluppo di queste ultime, con esempi virtuosi proposti dai vincitori dello European Beer Star. Il 27 novembre 2024, all’interno del padiglione 9, i produttori di bevande potranno approfondire le attuali sfide del mondo del packaging. Tra i temi trattati le preferenze di imballaggio tra i giovani consumatori e l’imple-
mentazione del regolamento imballaggi PPWR nei mercati europei.
Anche quest’anno BrauBeviale sarà il palcoscenico ufficiale di uno dei concorsi birrari più rinomati al mondo: lo European Beer Star, che dal 2004 vede sfidarsi birrai da tutto il mondo in diverse categorie (quest’anno ben 75). Circa 150 esperti di birra provenienti da tutto il mondo si incontreranno dal 18 al 21 settembre per degustare i campioni di birra presentati. Alla fine, solo le tre migliori birre di ogni categoria saranno premiate con gli ambiti riconoscimenti d’oro, d’argento e di bronzo. Le premiazioni avranno luogo proprio in occasione di BrauBeviale il 27 novembre alle ore 15:30. Ma gli highlight per i birrifici non sono finiti! Come dimenticare infatti la Craft Drinks Area, dove degustare birre artigianali. Anche quest’anno molto spazio sarà riservato alle birre artigianali italiane, sotto l’egida dell’associazione Unionbirrai. Il punto d’incontro per tutti gli homebrewer e hobbisti al BrauBeviale sarà l’area brau@home, dove verranno esposte attrezzature e materie prime specifiche per la produzione di birra in casa. Da non perdere anche le dimostrazioni live su come fare birra a casa e gli speech dello Speakers Corner. Birra Nostra regala ai suoi lettori un biglietto gratuito per visitare BrauBeviale. Per ottenerlo basta scrivere una mail con i propri dati a: elena.jordens@bdexpo.net
www.braubeviale.com/en
TERROIR DIMMI DA DOVE VIENI
In un mondo che corre troppo veloce, in cui spesso la quantità ha la meglio sulla qualità, parrebbe antieconomico soffermarsi su dettagli come il terroir, quasi a voler scimmiottare il mondo del vino. Ma questi sono i dettagli che, nel tempo, fanno la differenza sul mercato, che fidelizzano contribuendo a cambiare un modello economico che si è scordato dei sapori a fronte delle promozioni
Il mondo brassicolo mondiale già da qualche tempo si sta focalizzando sul tema del terroir, in Italia ancora molto legato al mondo enologico: Kyle Sanker scrive in un articolo: Come gli appassionati di vino apprezzano le sottili
differenze tra i vigneti della Napa Valley rispetto a quelli di Bordeaux o della Toscana, gli amanti della birra possono godere della ricca diversità dell’identità regionale della birra Le Lambic belghe si basano su lieviti selvatici originari della valle della Senne in Belgio per la loro asprezza e funkiness uniche. Le English Ales mettono in evidenza la mineralità dell’acqua dura dell’Inghilterra, che esalta l’amaro del luppolo delle classiche birre chiare britanniche come quelle prodotte a Burton-onTrent. Le IPA americane della West Coast si distinguono per i luppoli floreali e agrumati coltivati nel Pacifico nord-occidentale.
Definizione
Il concetto di terroir è centrale nella produzione di prodotti agricoli di alta qualità, specialmente nel mondo del vino, ma anche in altre coltivazioni come il caffè, il tè, e alcuni prodotti alimentari come i formaggi. Il termine “terroir” deriva dal francese e si riferisce all’insieme delle condizioni ambientali, climatiche, e geologiche di una specifica area geografica che influenzano le caratteristiche uniche del prodotto agricolo che vi si coltiva. Vediamo queste caratteristiche:
❱ Clima: Include fattori come temperatura, piovosità, umidità e esposizione al sole. Ad esempio, la
di Eleni Pisano
temperatura influisce sul tempo di maturazione ed accrescimento delle coltivazioni e la loro concentrazione di nutrienti che determinano poi la struttura del prodotto.
❱ Topografia: L’altitudine, la pendenza del terreno e l’orientamento delle vigne rispetto al sole (esposizione) sono importanti per la quantità e la qualità della luce solare che le piante ricevono.
❱ Suolo: La composizione del suolo, il drenaggio, la mineralità e la capacità di ritenzione dell’acqua sono tutti aspetti cruciali.
❱ Biodiversità: L’ecosistema circostante, inclusi gli organismi presenti nel suolo e le piante spontanee, può influire sullo sviluppo delle colture e,
di conseguenza, sulle caratteristiche del prodotto finale.
Importanza del Terroir nella Produzione
L’attenzione sul tipo di terroir ha dirette e concrete conseguenze sulla produzione. Alcuni input validi a dimostrarne l’importanza sono:
❱ Unicità del prodotto: Il terroir è spesso ciò che rende un prodotto unico e riconoscibile. Ad esempio, la stessa birra realizzata in due regioni diverse, anche se dello stesso luppoleto (ad esempio), può avere sapori, aromi e qualità diverse a causa delle differenze nel terroir.
❱ Tipicità e tradizione: Il terroir è strettamente legato alla tradizione e
alla tipicità di una regione. Prodotti come il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma, ad esempio, sono intrinsecamente legati al loro terroir, che è protetto da denominazioni d’origine controllata (DOP). Solo per citare tra i prodotti più diffusi nel mondo e legati al Made in Italy ed hanno un forte potere d’acquisto sul mercato registrandosi tra i prodotti esportati tra i più cari e ricercati e con un mercato mediamente stabile.
❱ Sostenibilità: La comprensione e l’utilizzo ottimale del terroir possono portare a pratiche agricole più sostenibili, riducendo la necessità di interventi chimici e meccanici, e favorendo l’equilibrio naturale dell’ecosistema.
ll concetto di terroir applicato alla birra è un tema emergente, soprattutto negli ultimi anni, in cui i produttori di birra artigianale stanno sempre più cercando di valorizzare l’origine degli ingredienti e il legame con il territorio. Non si tratta solo
di fattori chimico-fisici ma anche antropici e culturali che hanno forti connessioni con un prodotto artigianale, in primis nella sostanza e poi nella forma anche comunicativa e di fidelizzazione potenziale nei confronti del consumatore.
Ma non basterebbe l’osmosi inversa?
L’uso dell’osmosi inversa (OI) nella produzione di birra artigianale ha iniziato a prendere piede negli anni 2000. Tuttavia, la tecnologia di osmosi inversa è stata sviluppata molto prima, intorno agli anni ‘50 e ‘60, inizialmente per scopi industriali e per la desalinizzazione dell’acqua di mare con risultati ambientali ed economici poco edificanti. Solo successivamente, la tecnologia è stata adattata e adottata in vari settori, tra cui la produzione di alimenti e bevande, inclusa la birra.
Chi scrive teme l’eccessiva diffusione ed utilizzo dell’OI dell’acqua ma in questa sede credo sia importante iniziare a sintetizzare quali sono, in generale, le principali argomentazioni a favore e a sfavore sul tema. L’OI ha contri-
buito allo sviluppo del mercato craft nel mondo, non solo in Italia: in caso di acque non buone o troppo dure si deve in qualche modo trattare l’acqua per poter fare la birra. L’OI permette di avere un controllo totale sulla composizione dell’acqua utilizzata nel processo produttivo, potendo partire da acqua praticamente pura e aggiungere sali minerali specifici per ottenere il profilo desiderato. L’OI permette la stabilità nella produzione: esistono luoghi dove la qualità dell’acqua varia notevolmente o contiene impurità che potrebbero influire negativamente sul gusto della birra (cloro, metalli pesanti e contaminanti organici). Chi osserva criticamente l’OI affronta il tema, solitamente, non solo produttivo. Dal punto di vista
I componenti del terroir
nella birra
Per fare un’analisi tecnica e per sostenere la tesi di questo articolo voglio partire dall’analisi del singolo ingrediente per la birra correlata al concetto di terroir.
❱ Acqua: L’acqua è storicamente, in rapporto alla definizione di stili di birra e luoghi, uno degli ingredienti principali della birra, ne rappresenta circa l’85-90% e la sua composizione minerale varia notevolmente da un luogo all’altro. La durezza o la dolcezza dell’acqua, il contenuto di minerali come calcio e magnesio, e la presenza di elementi come il bicarbonato influenzano direttamente il sapore e la qualità della birra. Ad esempio, la purezza delle acque utilizzate nella produzione delle birre ceche è parte del motivo per cui quelle birre hanno un gusto così distintivo.
❱ Malto: Il malto è prodotto dall’orzo o da altri cereali, che a loro volta sono influenzati dal suolo e dal clima in cui crescono. L’orzo coltivato in diverse regioni può avere caratte-
organolettico l’OI rimuove i minerali dall’acqua, che sono invece essenziali per conferire alla birra un carattere distintivo. In molte tradizioni birrarie, l’acqua locale, con il suo specifico contenuto minerale, è una parte importante del gusto unico delle birre regionali che cambia anche con il clima locale e le stagioni. OI richiede elevati costi d’installazione e di manutenzione ma questa argomentazione viene sempre più facilitata da nuove tecnologie che la rendono più facile e immediata da usare. Restano, invece, alti i costi energetici per il suo utilizzo: smaltimento dei residui (salamoia), consumo di acqua circa il 30/50% in più tra utilizzata e scartata, produzione e smaltimento delle membrane, solo per citarne alcuni.
ristiche diverse in termini di sapore, aroma e struttura. Alcuni birrifici stanno iniziando a usare malti provenienti da orzi locali, cercando di creare birre che esprimano il terroir del grano.
❱ Luppolo: Il luppolo è forse l’elemento della birra in cui il terroir si esprime più chiaramente. I luppoli coltivati in diverse regioni sviluppano profili aromatici e gustativi unici. Ad esempio, i luppoli della Yakima Valley negli Stati Uniti sono famosi per i loro intensi aromi agrumati e tropicali, mentre quelli europei, come i luppoli della regione di Hallertau
in Germania, tendono ad avere note più erbacee e floreali.
❱ Lieviti: Anche i lieviti possono essere influenzati dal terroir. Nelle birre a fermentazione spontanea, come le Lambic belghe, i lieviti selvatici presenti nell’aria e nelle cantine di Bruxelles e dintorni danno alla birra un carattere unico che non potrebbe essere replicato altrove.
❱ Ingredienti locali aggiuntivi: Alcuni birrifici, particolarmente quelli artigianali, utilizzano ingredienti locali come frutti, spezie, erbe e addirittura legno delle botti per conferire alla birra un carattere specifico del luogo
di produzione. Ad esempio, una birra prodotta con ciliegie coltivate localmente o con erbe selvatiche del territorio riflette direttamente il terroir.
Terroir e comunicazione
Come rendere il terroir un elemento interessante nella comunicazione commerciale? Un terroir di alta qualità può essere utilizzato come elemento centrale nel posizionamento del prodotto sul mercato. I produttori enfatizzano spesso il legame con il terroir per differenziarsi dai concorrenti e giustificare un prezzo più alto. La storia del terroir e il legame con la tradizione locale sono
potenti strumenti di storytelling: comunicare la specificità del terroir aiuta a creare un’immagine di autenticità e artigianalità, elementi che attraggono i consumatori.
Le descrizioni dettagliate del terroir, come il tipo di suolo, il clima, e le tecniche di coltivazione tradizionali, sono spesso utilizzate nelle etichette, nei siti web, e nelle campagne pubblicitarie per costruire un’immagine di alta qualità. L’utilizzo del terroir nella comunicazione commerciale non solo attira gli intenditori, ma educa (la base di un buon mercato dovrebbe sempre essere quella di educare/informare/socializzare) anche il consumatore medio e incerto sul dove collocarsi, creando una consapevolezza maggiore dell’importanza del terroir e giustificando prezzi più elevati. La comunicazione di un ter-
roir legato a pratiche agricole sostenibili o biologiche è un trend crescente: i consumatori sono sempre più attenti alle questioni ambientali, possono quindi essere disposti a pagare di più per prodotti che promuovono la sostenibilità del terroir. In sintesi tutti questi elementi che si completano tra di loro sono un buon esempio di un nuovo tipo di consumo spesso detto consapevole, lento, attento, sostenibile (per la natura ma chiaramente anche per chi consuma). Insomma, un consumo che tenta, concretamente il cambiamento.
Case study: progetto Terroir
Series Danimarca
Mikkeller, beer firm danese, nel 2017 ha avviato un interessante ed innovativo progetto denominato Terroir Series, dopo aver dedicato molti anni
Katya Carbone, ricercatrice CREA
all’esplorazione di diverse varietà di luppolo e delle loro caratteristiche distintive. Qual è stata la missione? Che cos’è il terroir? Mikkeller, insieme al birrificio belga De Proef, ha voluto dimostrare che così come l’uva non è solo uva, il luppolo non è solo luppolo. L’intero progetto intende contribuire alla comprensione delle caratteristiche complessive del luppolo. “Allo stesso modo in cui nel mondo del vino si parla di terroir - cioè, degli effetti che la geografia e il clima hanno sull’uva e sul vino - possiamo parlare anche del terroir del luppolo e della birra. Una varietà di luppolo può avere un sapore nettamente diverso a seconda del Paese in cui viene coltivata e del processo di produzione”, spiega Mikkel nelle pagine del suo portale on line dedicato a questo progetto. “L’idea (...) era quella di piantare la stessa specie di luppolo in diverse parti del mondo, di esporla agli elementi naturali di quel continente e di vedere quanto il terroir, cioè l’aria, il terreno e il processo di fertilizzazione, ad esempio, influissero sul risultato finale della birra. Il progetto Hop Terroir è la continuazione del progetto Single
Hop Technology, iniziato circa 10 anni fa che ha poi portato alla serie Single Hop di Mikkeller. Le IPA con luppolo singolo offrivano ai bevitori l’opportunità unica di assaggiare le diverse varietà di luppolo con sapori ben distinti. Conclude dicendo che: “Questo è simile al paragone tra i whisky miscelati e i single malt, dove nel primo caso alcuni sapori sono mascherati dalla miscelazione con altre varietà di whisky, mentre nel single malt non c’è miscelazione e il prodotto deve essere di alta qualità per essere apprezzato.”
Case study: Progetto Lob.it Italia
Luppolo e orzo da una filiera sostenibile per una birra aromatica, poco alcolica e completamente italiana. Questi gli obiettivi principali del progetto “LOB.IT “Luppolo, Orzo, Birra: biodiversità Italiana da valorizzare”, coordinato dal CREA e finanziato dal MASAF, che è stato presentato lo scorso Ottobre 2023 presso la sede centrale di Roma, alla presenza del Commissario Straordinario, Prof. Mario Pezzotti, del Direttore Generale Stefano Vaccari, del Direttore del CREA Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura, Enzo Perri, dei principali stakeholders del comparto e dell’On. Sen. G. Naturale, Vice Presidente IX Commissione Agricoltura Senato. Il progetto LO.BIT è l’introduzione di genetiche italiane per le materie prime di uso brassicolo e la possibilità di individuare lieviti, appartenenti al genere Saccharomyces, in grado di connotare territorialmente le produzioni birrarie italiane e mira ad una filiera realmente sostenibile e innovativa (dalla tecnica colturale ai processi, fino al prodotto) e partecipata, con misure di accompagnamento che permettano azioni di networking tra le imprese e i sistemi produttivi. Tra le azioni previste dal progetto una serie di azioni tecnologiche per la valorizzazione in chiave sostenibile della filiera, che si concentreranno sullo studio di ecotipi locali di luppolo e di incroci legati al territorio; aumentare la disponibilità di varietà italiane di orzo distico, l’orzo da birra per eccellenza, di alta qualità e produttività, per lo sviluppo di micro-filiere tra agricoltori, micro-maltatori e micro-birrifici e per selezionare le varietà di questo cereale più adatte per ogni areale e la ricostruzione in chiave statistico-economica della filiera brassicola, uno strumento utile agli stakeholder, in particolare a quelli istituzionali, per lo sviluppo di interventi legislativi tesi al consolidamento di una filiera made in Italy. “LOB.IT, terzo progetto nazionale sulla filiera coordinato dal CREA, - dichiara Katya Carbone, ricercatrice del CREA e coordinatrice del progetto - si pone come obiettivo quello di offrire a tutta la filiera strumenti tecnico-scientifici per la valorizzazione di una filiera italiana della birra: da nuove genetiche italiane per l’orzo distico e avvio di un programma di breeding per il luppolo italiano, fino all’introduzione del concetto di terroir microbico, e all’esaltazione del luppolo in un’ottica di sostenibilità, dalla formulazione di nuovi prodotti al riutilizzo degli scarti”. ★
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FOCUS SUGLI AROMI secondari nella birra
La ricerca di aromi particolari, unici e gradevoli all’interno di cibi e bevande rappresenta una delle strategie principali per incrementare la qualità organolettica dei prodotti agroalimentari. Con il termine aroma si intende una serie di sensazioni che coinvolgono contemporaneamente i sensi dell’olfatto e del gusto. Nel caso delle bevande, la percezione aromatica ini-
zia già dal bicchiere (odore ortonasale), grazie al rilascio dei composti organici volatili (COV) dall’interfaccia liquidoschiuma-aria; agitando il bicchiere, la percezione di questi aromi subisce un incremento, grazie alla CO2 che veicola questi composti nell’ambiente circostante. La componente odorosa retronasale viene liberata dopo aver portato in bocca la bevanda da degustare, con la
risalita dei COV dalla bocca e dalla gola verso la cavità nasale.
I composti aromatici presenti nelle birre e, in generale, negli alimenti fermentati, possono essere classificati in diverse categorie, sulla base della loro origine: ❱ Aromi primari: rappresentano quei composti che si trovano già nelle materie prime e che vengono preservati fino al prodotto finito; esempi di
aromi primari nella birra sono quelli provenienti dagli oli essenziali del luppolo o dalla tostatura dei malti scuri.
❱ Aromi secondari: sono aromi che si sviluppano grazie al processo metabolico delle fermentazioni (alcoliche, lattiche, malolattiche, butirriche etc.); nella birra sono da esempio gli esteri prodotti dal metabolismo di alcuni lieviti che danno aromi speziati tipici dello stile Saison, o anche l’acido lattico prodotto da batteri lattici che conferisce freschezza a birre come le Berliner Weisse.
❱ Aromi terziari: costituiscono la componente aromatica legata all’affinamento e all’invecchiamento del prodotto; nel mondo brassicolo, lo stile del Barley Wine ne rappresenta forse la massima espressione, con il passaggio di composti aromatici dalla botte alla birra durante la fase di maturazione in legno.
In questo articolo saranno trattati i principali aromi secondari prodotti dai microrganismi fermentanti presenti nella birra.
I composti aromatici secondari nella birra
Molti COV presenti nella birra sono per lo più metaboliti secondari prodotti dal processo di fermentazione. Questi composti attivi dal punto di vista odoroso sono prodotti in quantità relativamente basse rispetto ai principali prodotti della fermentazione (etanolo e anidride carbonica). I metaboliti secondari possono essere suddivisi in diverse categorie e comprendono composti aromatici contenenti zolfo, composti carbonilici indesiderati, fenoli volatili, acidi organici, alcoli superiori, esteri e alcoli monoterpenici. Nonostante gli studi fatti su queste molecole, esistono centinaia di sostanze attive sul piano aromatico che devono ancora essere scoperte e descritte. In seguito verranno riassunte alcune delle categorie principali, anche
in relazione alla loro produzione da parte di lieviti Saccharomyces e non-Saccaromyces. Questi composti organici svolgono ruoli diversi nell’impatto aromatico e nella gradevolezza della birra. Alcuni hanno un’influenza sinergica sull’aroma, anche se in quantità notevolmente al di sotto della soglia di percezione.
Composti solforati
I principali composti contenenti zolfo prodotti dal lievito durante la fermentazione della birra sono l’anidride solforosa (SO2) e l’idrogeno solforato o acido solfidrico (H2S). Anche i produttori casalinghi di birra conoscono molto bene l’anidride solforosa. Essa svolge un ruolo importante nella stabilità del sapore, poiché agisce come antiossidante nella
birra finita, aumentandone la shelf-life. L’anidride solforosa viene solitamente prodotta in quantità inferiori a 10 mg/L come prodotto secondario o di inibizione della biosintesi degli aminoacidi. Inoltre, l’anidride solforosa ha una soglia di odore solforoso di 2,5 mg/L, caratteristica positiva desiderata in alcune birre a bassa fermentazione. Al contrario, l’idrogeno solforato è un composto indesiderato, poiché sopprime alcune componenti aromatiche positive della birra. Inoltre presenta una soglia di percezione molto bassa (0,005 mg/L) e viene percepito con il tipico odore di uova marce. L’idrogeno solforato viene prodotto principalmente durante la fase di maturazione cellulare, ma viene successivamente riassorbito nella fase della gemmazione dei lieviti. I lieviti
Fig. 1 - Saggio di produzione di idrogeno solforato per lieviti su substrato differenziale BiGGY Agar: il colore scuro delle colonie è indice di produzione di H2S
attualmente in commercio, sia Saccharomyces che non-Saccharomyces, sia brassicoli che enologici, sono selezionati per l’assenza di produzione di questo metabolita sgradevole (Figura 1).
Composti carbonilici indesiderati
I più importanti composti carbonilici indesiderati nella birra sono l’acetaldeide e i dichetoni vicinali. Tra questi ultimi, il diacetile svolge un ruolo importante nell’aroma della birra, a causa del suo sapore prevalentemente indesiderato e della sua soglia di percezione molto bassa; è simile al 2,3-pentandione, un altro composto sgradevole.
L’acetaldeide viene prodotta prevalentemente durante la fase di crescita del
lievito, come risultato del metabolismo degli zuccheri. Durante la fermentazione la maggior parte di essa viene convertita in etanolo. Ha un sapore erbaceo per lo più indesiderato, simile alla mela verde, con una soglia di 10 mg/L.
Il diacetile è un sottoprodotto dell’anabolismo amminoacidico della valina. Esso aggiunge un sapore burroso alla birra se si trova al di sopra della sua soglia di 0,1-0,15 mg/L. Questo composto viene riassorbito dal lievito durante la fase di maturazione cellulare e viene successivamente ridotto a 2,3-butandiolo, una molecola dal sapore neutro. Il 2,3-pentandione è noto per il suo sapore di caramella mou (toffee) simile a quello del diacetile, con una soglia di circa 0,9 mg/L. È un sottoprodotto nel-
la sintesi dell’aminoacido isoleucina nei mitocondri delle cellule di lievito.
Fenoli
La maggior parte degli aromi che derivano dai fenoli prodotti dal lievito sono definiti “off-flavours fenolici”. Tuttavia, questi aromi sono desiderati in alcuni stili di birra come il lambic e le birre d’abbazia belghe, e le birre di frumento tedesche. Gli odori più comuni derivanti da questi COV includono aromi di chiodi di garofano, di spezie, di medicinali, di affumicato e di bruciato. I più comuni sono il 4-vinilguaiacolo, il 4-vinilfenolo, il 4-etilguaiacolo, il 4-etilfenolo, il 4-vinilsiringolo, lo stirene, l’eugenolo e la vanillina. Come gli altri aromi secondari, la sintesi di questi composti dipende dalla specie e dal ceppo di lievito, e dalla presenza di precursori nel mosto. I precursori includono acidi fenolici come l’acido ferulico, cumarico e cinnamico, provenienti dal malto. Le birre fermentate con S. cerevisiae conterranno per lo più 4-vinilguaiacolo e 4-vinilfenolo, poiché possono effettuare solo la decarbossilazione degli acidi fenolici. Tuttavia, specie come Brettanomyces sp. sono in grado di ridurre alcuni dei composti a 4-etilguaiacolo e 4-etilfenolo (Figura 2). Le soglie di percezione per questi fenoli volatili sono molto basse: 4-etilfenolo, 0,9 mg/L (aroma fenolico, astringente); 4-etilguaiacolo, 0,13 mg/L (aroma fenolico, dolce); 4-vinilguaiacolo, 0,3 mg/L (aroma fenolico, amaro, chiodo di garofano); e 4-vinilfenolo 0,2 mg/L (aroma fenolico, affumicato).
Acidi organici
Il grande gruppo degli acidi organici, insieme agli acidi inorganici, contribuisce al sapore della birra e all’acidità totale finale (correlata al pH). Gli acidi organici possono essere suddivisi in due classi principali, che comprendono gli acidi volatili e quelli non volatili (Figura 3).
I principali acidi organici volatili presenti nella birra sono l’acido acetico,
Fig. 2 - Morfologia cellulare di lieviti Brettanomyces osservati al microscopio
propionico, isobutirrico, butirrico, isovalerico, valerico, caproico, caprilico, caprico e laurico. Se presenti in concentrazioni elevate, contribuiscono a conferire alla birra un sapore aspro e salato e possono anche contribuire a creare sapori sgradevoli come quello di formaggio e di sudore. Dal punto di vista quantitativo, gli acidi volatili che hanno un maggiore impatto sul sapore sono l’acido acetico, caprilico, caprico e laurico. L’acido acetico, la molecola predominante nell’aceto, ha una soglia di 175 mg/L, mentre l’acido caprilico ha una soglia molto più bassa di 15 mg/L e viene descritto come caprino. L’acido caprico è descritto come ceroso con una soglia di 10 mg/L. L’acido laurico è descritto come saponoso quando raggiunge una soglia di 6,1 mg/L. I princi-
pali acidi non volatili prodotti dai lieviti presenti nella birra con un impatto sul sapore e sull’aroma sono (soglia indicata): acido ossalico (500 mg/L, salato, ossidato), acido citrico (400 mg/L, acido, limone), acido malico (700 mg/L, mela), acido fumarico (400 mg/L, acido), acido succinico (220 mg/L, acido), acido lattico (400 mg/L, acido, yogurt) e acido piruvico (300 mg/L, salato, foraggio). La produzione di questi composti dipende dal ceppo di lievito e la maggior parte di questi acidi sono sottoprodotti della glicolisi, del ciclo dell’acido citrico, degli amminoacidi e del metabolismo degli acidi grassi.
Alcoli superiori
Oltre al composto alcolico principale (l’etanolo o alcol etilico), esistono
Fig. 3 - L’acido acetico (volatile) e l’acido malico (non volatile), presenti anche nell’aceto di mele, sono responsabili di aromi acetici e di mela nella birra
Fig. 4 - L’alcol isoamilico è responsabile dell’aroma di banana in alcuni stili di birra.
molti alcoli superiori, i cosiddetti fuselalcohol, che contribuiscono in modo significativo all’aroma della birra. Gli alcoli superiori possono conferire aro-
mi floreali, fruttati o erbacei, a seconda dei loro effetti singoli o sinergici con altri COV. Gli alcoli superiori più importanti nella birra sono l’n-propanolo,
l’isobutanolo, l’alcol isoamilico e il 2-feniletanolo. La soglia di n-propanolo ha il valore più alto, pari a 600 mg/L, che contribuisce al sapore alcolico e dolce. L’isobutanolo e l’alcol amilico presentano aromi simili a quelli dei solventi, tuttavia si differenziano rispettivamente per le soglie di 100 e 50-70 mg/L. Il 2-feniletanolo e l’alcool isoamilico hanno aromi più fruttati, con quest’ultimo che mostra un sapore più bananoso e alcolico (Figura 4).
Il 2-feniletanolo ha un sapore di orsetti gommosi e di rosa. Il lievito produce alcoli superiori come sottoprodotto del catabolismo (demolizione) degli aminoacidi presenti nel mosto.
Esteri
Nonostante le loro basse concentrazioni rispetto ad altri COV, gli esteri sono fra le sostanze più importanti sul piano aromatico. Essi contribuiscono a un’ampia gamma di aromi fruttati nel bouquet aromatico delle bevande fermentate. Questi esteri attivi sul piano aromatico possono essere suddivisi in esteri acetati ed esteri etilici di acidi grassi a catena media.
Gli esteri acetati sono sintetizzati a partire da un alcol superiore o dall’etanolo con l’acido acetico e presentano la più alta concentrazione di esteri attivi dal punto di vista aromatico nella birra. I più importanti di questi esteri nella birra sono l’acetato di etile (aroma di solvente con una soglia di 33 mg/L), l’acetato di isoamile (aroma di banana con una soglia di 1,6 mg/L), l’acetato di isobutile (aroma fruttato e dolce con una soglia di 1,6 mg/L) e l’acetato di feniletile (aroma di rosa, mela e miele con una soglia di 3,8 mg/L) ( Figura 5 ).
Gli esteri etilici degli acidi grassi a catena media si formano, come dice il nome, da un acido grasso a catena media e da un radicale etanolo. Due di questi esteri sono fondamentali per l’aroma della birra, ad esempio l’esanoato di etile (caproato di etile), con una
Fig. 5 - L’acetato di feniletile è un estere prodotto dai lieviti, responsabile di aromi di rosa, mela e miele
Fig. 6 - I rapporti tra i cinque alcoli monoterpenici derivati dal luppolo possono essere modulati dal lievito
soglia di 0,23 mg/L, produce aromi di mela e anice, mentre l’ottanoato di etile (caprilato di etile), con una soglia di 0,9 mg/L, produce un aroma di mela acida.
Alcoli monoterpenici
Queste sostanze, che derivano dalle piante, contribuiscono al sapore della birra, dei succhi e del vino con aromi altamente floreali. Nella birra vi sono cinque composti, presenti in concentrazione significativa, che derivano dal luppolo (Figura 6).
I cinque alcoli monoterpenici di notevole importanza per l’aroma sono (soglia indicata dalla letteratura, aroma): linalolo (5 μg/L, lavanda), α-terpineolo (2 mg/L, lillà), β-citronellolo (8 μg/L, limone, lime), geraniolo (6 μg/L, rosa) e nerolo (0,5mg/L, rosa, agrumi). Il lievito è in grado di trasformare questi composti e di modificare i rapporti tra i cinque principali alcoli monoterpenici presenti, il che può portare a un cambiamento nell’aroma di luppolo della birra dopo la fermentazione. Inoltre, questi composti possono essere presenti nel mosto in forme legate glicosidicamente, dando luogo a uno stadio inattivo dell’aroma. Alcune specie di lievito possiedono l’enzima glicosidasi, che consente loro di rilasciare il monoterpene, modificando o esaltando l’aroma del luppolo. Reazioni di questo tipo prendono il nome di bioflavouring (o bio-aromatizzazione), ossia una reazione biochimica mediata da un microrganismo, in grado di potenziare l’aspetto aromatico di cibi e bevande.
Conclusioni
Dalla moltitudine di composti sopra elencati, appare evidente come lo studio e la comprensione del metabolismo della fermentazione siano di fondamentale importanza per prevedere i composti aromatici che ritroveremo nel bicchiere. La conoscenza dei parametri che influenzano la fermentazione alcolica (temperatura, pH e pressione di fermentazione; grado, composizione zuccherina e azoto assimilabile nel
Tab. 1 - Principali COV presenti nella birra
CLASSE/COMPOSTO AROMI
ALDEIDI/CHETONI
Acetaldeide
Diacetile
Erbaceo, mela verde
Burroso, caseario
2,3-pentandione Caramella toffee
FENOLI
4-vinilguaiacolo
4-vinilfenolo
Fenolico, amaro, chiodo di garofano
Fenolico, affumicato
4-etilguaiacolo Fenolico, dolce
4-etilfenolo
ACIDI ORGANICI
Acido acetico
Fenolico, astringente
Acetico, vinoso
Acido caprilico Caprino
Acido ossalico Salato, ossidato
Acido citrico Acido, agrumato
Acido malico Mela
Acido lattico Acido, yogurt
ALCOLI SUPERIORI
n-propanolo
Alcolico, dolce
alcol isoamilico Fruttato, bananoso, alcolico
2-feniletanolo Fruttato, orsetti gommosi, rosa
mg/L
mg/L
mg/L ESTERI
acetato di etile Solvente
acetato di isoamile Banana
acetato di isobutile Fruttato e dolce
acetato di feniletile Rosa, mela e miele
COMPOSTI SOLFORATI
Anidride solforosa Solforoso 2,5 mg/L
Idrogeno solforato Sulfureo, uova marce, sopprime altri aromi 0,005 mg/L
mosto; genere, specie e ceppo di lieviti impiegati) permetterà quindi di ottenere delle birre con caratteristiche ben definite, riconoscibili e ripetibili. Nella tabella 1 sono riportati sinteticamente i principali COV, le soglie di percezione e gli aromi che questi composti apportano al prodotto finito.
Bibliografia
Jackson, R.S. (2017). Wine tasting. A professional handbook, third edition. Eds. Cool Climate Enology and Viticulture Institute, Brock University, St. Catharines, Ontario, Canada. Michel, M., Meier-Dörnberg, et al., (2016). Pure nonSaccharomyces starter cultures for beer fermentation with a focus on secondary metabolites and practical applications. Journal of the Institute of Brewing, 122(4), 569-587.
12-15
In mostra la migliore tecnologia, le macchine e le attrezzature più innovative. Incontri, workshop e convegni. Unica protagonista: la birra
PROGRAMMA
Martedì 12 Novembre
Ore 10.00 – 10.50
Classificazione e autenticazione delle birre di frumento tramite approcci statistici multivariati e multiomici.
Relatore: Prof. Giampiero Sacchetti, Dip. di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari, Univ. degli Studi di Teramo.
Approccio multiomico per la valutazione dell’influenza dei cambiamenti climatici sulle caratteristiche qualitative delle birre di frumento.
Relatore: Dr. Riccardo De Flaviis, Dip. di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari, Univ. di Teramo.
Ore 11.00 – 11.25
Resistenza/suscettibilità allo stress idrico in luppolo.
Relatore: Prof. Stefano Bona, Dip. DAFNAE – Agronomia Animali Alimenti Risorse Naturali e Ambiente, Univ. di Padova
Ore 11.30 – 11.55
Le statistiche a supporto della filiera brassicola: superfici e aree di produzione nel mondo.
Relatore: Dott. Francesco Licciardo. Ph.D in Economia della produzione e dello sviluppo. CREA –PB, Milano
Ore 12.00 – 12.45
Il terroir del luppolo in Lombardia studio dell’interazione genotipo x ambiente.
Relatori: Prof. Giacomo Cocetta, Dott. Davide Bianchi, Dip. di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Paesaggio, Agroenergia, Univ. degli Studi di Milano.
Impiego di tecnologie innovative per la produzione di estratti di luppolo “tailor made”.
Relatrice: Prof.ssa Lilia Neri, Dip. di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari, Univ. degli Studi di Teramo.
Luppolo: strategie di processo per la produzione di estratti in polvere ad elevata stabilità.
Relatrice: D.ssa Simona Tatasciore, Dip. di Bioscienze e Tecnologie Agro-Alimentari e Ambientali, Univ. degli Studi di Teramo.
Ore 16.30 – 17.30
TALK SHOW: Lo stato dell’arte del mercato brassicolo in Italia.
Partecipano Alfredo Pratolongo, Presidente AssoBirra; Vittorio Ferraris, Direttore UnionBirrai; Carlo Schizzerotto, Direttore Consorzio Birra Italiana. Conduce Maurizio Maestrelli, giornalista
La partecipazione ai laboratori è gratuita con registrazione. Preregistrati sul sito www.simei.it; se sei già registrato, connettiti alla SIMEIdigitalplatforme iscriviti all’evento.
Martedì 12 Novembre
Ore 15.30 – 16.15
Evoluzioni tecniche ed evoluzioni degli stili: una storia a quattro mani. L’influenza delle evoluzioni industriali sulla nascita degli stili.
Docente: Daniele Risi, Giudice nazionale.
PROGRAMMA LABORATORI
aggiornato al 4 settembre
Mercoledì 13 Novembre
Ore 10.00 – 10.50
Valorizzazione degli scarti di produzione della birra: nuovi alimenti e nuovi materiali
Relatrice: Prof.ssa Ombretta Marconi, Dip. di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Univ. degli Studi di Perugia
Recupero e riutilizzo del luppolo esausto da dry-hopping.
Relatore: Dott. Vincenzo Alfeo, Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Università degli Studi di Perugia.
Ore 11.00 – 11.50
La produzione di birra sostenibile attraverso la valorizzazione delle trebbie:
• Le trebbie: da scarto a biofertilizzante.
Relatore: Dott. Davide Assandri, CNR Torino
• L’utilizzo di biofertilizzanti da trebbie in orticoltura.
Relatrice: Dr.ssa Angela Bianco, Università degli Studi di Sassari.
Ore 12.00 – 12.25
Trasferimento degli aromi dal luppolo alla birra: molecole che vanno e molecole che vengono.
Relatrice: Dr.ssa Irene Lucchetta, borsista di ricerca, Univ. di Padova.
Ore 12.40 – 13.30
Case history – Nutrienti per l’esaltazione aromatica della birra.
Relatore: Tania Porcu, R&D Manager AEB Brewing
Ore 14.30 – 15.00
Reading: Birra artigianale. La produzione sostenibile (Carlo Delfino Editore) a cura di Francesca Borghi, Marilena Budroni e Giacomo Zara. Interverranno gli Autori.
Ore 15.30 – 16.20
Strategie produttive per il miglioramento della sostenibilità della maltazione.
Relatore: Dott. Giovanni De Francesco, Dip. di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Univ. degli Studi di Perugia.
Selezione e caratterizzazione di ceppi di lievito per la produzione di birra analcolica.
Relatore: Dott. Ezio Moretti, Dip. di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Univ. degli Studi di Perugia.
Giovedì 14 Novembre
Ore 9.30 – 10.50
Impatto dell’orzo sulla qualità della birra.
Relatori: Prof. Stefano Buiatti e Dott. Paolo Passaghe, Dip. di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali, Univ. di Udine.
D.ssa Maria Grazia Farbo, Dott. Antonio Palomba, Dott. Salvatore Pisanu, Porto Conte Ricerche, Alghero (Sassari).
Case history – Soluzioni per monitoraggio mosto di birra e prodotto finito in laboratorio e in produzione.
Relatore: Mauro Bordesan (Anton Paar)
Ore 11.00 – 12.50
Ogni frutto ha la sua stagione... e la sua birra. Relatori: Dott. Luca Pretti, Dott. Pietro Piu, Porto Conte Ricerche, Alghero (SS).
Prof. Tommaso Ganino, Dip. di Scienze degli Alimenti e del Farmaco, Univ. degli Studi di Parma Effetti della fertilizzazione del luppolo e impatto sulla qualità della birra.
Relatori: Prof. Tommaso Ganino. Dip. di Scienze degli Alimenti e del Farmaco, UniV. degli studi di Parma. Dott. Luca Pretti, Porto Conte Ricerche, Alghero (Sassari).
Interazione luppolo a diversi gradi di maturazione e lievito durante la birrificazione.
Relatori: D.ssa Antonella Costantini, CREA – VE, Asti Prof. Tommaso Ganino, Dip. di Scienze degli Alimenti e del Farmaco, Univ. degli studi di Parma Case history: Controllo qualitativo della birra: i parametri chimico-fisici su mosto, fermentato e prodotto finito.
Relatore: Carlo Trezzi (FOSS Italia).
Ore 14.00 – 14.30
Materie prime in Birrificio: innovazione, ricerca e nuovi metodi di utilizzo.
Relatore: Giovanni Faenza, mastro birraio del Birrificio Ritual Lab.
Ore 14.40 – 15.30
Case history – L’evoluzione 5.0 del birrificio: efficienza e risparmio con le applicazioni di Omnia Technologies e ifm electronic
Relatori: Stefano Giacobini (BU Leader Beer Omnia Technologies), Enrico Biego (Global Key Account ifm electronic)
Ore 16.50 – 17.50
Talk Show: I nostri primi trent’anni: nascita, evoluzione e prospettive. Trent’anni di birra artigianale italiana raccontata dai protagonisti.
Partecipano Fabio Brocca, birraio e socio del Birrificio Lambrate; Giovanni Faenza, birraio e titolare del Birrificio Ritual Lab; Francesco Mancini, birraio e titolare del Birrificio del Forte; Fabiano Toffoli, birraio e socio del Birrificio 32 Via dei Birrai. ConduceLorenzoDardano,conduttoreradiofonico
Mercoledì 13 Novembre Giovedì 14 Novembre
Ore 12.30 – 13.30
La riscossa delle basse fermentazioni.
Docente: Simone Cantoni, Giudice nazionale e internazionale.
Ore 16.30 – 17.30
Birre a basso grado alcolico (low alchool).
Docente: Simone Cantoni, Giudice nazionale e internazionale.
Ore 13.00 – 13.50
Le birre alla frutta.
Docente: Alessandra Agrestini, Giudice nazionale e internazionale.
Ore 15.40 – 16.40
IGA - evoluzione di uno stile.
Docente: Alessandra Agrestini, Giudice nazionale e internazionale.
Venerdì 15 Novembre
Ore 9.30 – 9.55
Le statistiche a supporto della filiera brassicola: produzione e consumo di birra in Italia.
Relatore: Dott. Francesco Licciardo, Ph.D in Economia della produzione e dello sviluppo. CREA – PB, Milano.
Ore 10.00 – 10.50
Birra artigianale, ricerca e innovazione per la sostenibilità.
Relatore: Prof Aldo Todaro, Scienze e Tecnologie Alimentari, Univ. di Palermo
Investigating optimal malting regimes for the Sicilian old landrace Perciasacchi durum wheat.
Relatore: Dott. Ignazio Maria Gugino
Ore 11.00 – 11.50
Case history – Il Nuovo Lievito LalBrew Pomona™: Innovazione in Laboratorio e Rivoluzione in Birrificio.
Birre IGA: come valorizzare gli aromi dell’uva nella birra.
Relatore: Prof. Fabio Mencarelli, Dip. Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Univ. di Pisa. Influenza della mela a polpa rossa sulla frazione aromatica e sul valore nutrizionale della birra.
Relatore: Dott. Alessandro Bianchi, Dip. Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Univ. di Pisa. Case history: Gestione automatizzata della fermentazione: ossigeno e lieviti
Relatori: Stefano Pettinelli e Giuseppe Floridia (Parsec srl)
Ore 14.30 – 15.15
Birre speciali: preferenze dei consumatori e caratterizzazione chimico-fisica e sensoriale di birre di frutta da derivati d’uva e melograno. Relatori : Prof.ssa Giorgia Spigno (Dip. Scienze e Tecnologie Alimentari per una Filiera agro-alimentare Sostenibile, Univ. Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza); Dott. Mario Gabrielli (Dip. Scienze e Tecnologie Alimentari per una Filiera agro-alimentare Sostenibile, Univ. Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza);
Prof. Fabio Chinnici (Dip. Di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari, Univ. di Bologna)
Venerdì 15 Novembre
Ore 15.30 – 16.30
La gestione risorse umane nei Birrifici. Idee ispirate da Crafting Brewery Culture di Gary Nicholas.
Docente: Lisa Matzeu, Giudice internazionale
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La birra in Repubblica Ceca DALLA A ALLA Z
A come Andata/Ritorno
Ma anche come Andechs e Augustiner: coincidenza vuole che le tappe che meritano una sosta, lungo il tragitto verso la Repubblica Ceca, inizino entrambe per la lettera A.
Si tratta di due monasteri: l’Augustiner Bräu Kloster Mülln, a Salisburgo, e la Klosterbrauerei Andechs, nella zona lacustre a ovest di Monaco, entrambi più gettonati come templi della convivialità e del buon bere piuttosto che come luoghi di culto.
Sono mete ben conosciute dal turismo locale, perciò sempre assai affollate, ma comunque vivibilissime, grazie agli spazi molto ampi e all’efficienza della gestione (il contrario di quanto accade, per esempio, alla famigerata HB di Monaco, dove regna ormai il caos più assoluto e viene presto voglia di darsi alla
fuga, dopo aver appiccato un piccolo incendio).
Birre ottime - una grande Keller in Austria e l’imperdibile doppietta Helles/ Doppelbock in Baviera - cibo succulento, grandi spazi sia all’aperto sia al chiuso. Una garanzia.
Un’altra ottima alternativa, in terra tedesca, è il birrificio/ristorante Ayinger, pochi km a sud del capoluogo bavarese: anche questa è una tappa decisamente consigliata... e sempre con la lettera A.
B come Bellezza
Basterebbe scrivere “Praga” e passare al prossimo punto. Due osservazioni però le aggiungo.
Prima: passare dal Castello, in tarda serata, quando la temperatura estiva inizia a dare tregua e la folla si è ormai dispersa... è un’esperienza da Sindrome di Stendhal.
Te lo trovi di fronte all’improvviso, maestoso e sapientemente illuminato per esaltarne la magnificenza, e per un attimo dimentichi addirittura le birrerie che ti hanno portato qua. Per un attimo, eh... poi prosegui e vai da U Cerneho Vola. Seconda: un’altra cittadina di enorme bellezza, circondata da un fiume balneabile ad anello e torreggiata da uno splendido castello, è Cesky Krumlov, a sud del paese, pochi km dal confine austriaco.
Una meta battutissima dal turismo internazionale quindi un po’ caotica ma che merita una visita.
Purtroppo è anche uno dei luoghi meno interessanti da un punto di vista birrario... in passato, vicino al castello, si trovava la Pivovar Eggenberg che, almeno intorno al 2010, produceva anche buone birre, ma che ora ha chiuso.
Ai bevitori meno monotematici segnalo però un bellissimo e più che valido cocktail bar, lo Zapa, che per un paio di serate può senz’altro rappresentare un’ottima alternativa alcolica.
C come Craft
Gli stili più moderni e modaioli convivono in apparente serenità con la tradizione, le lager chiare e scure che hanno fatto la storia sono sempre al centro dell’interesse di birrifici e consumatori, ma le IPA, in tutte le loro moderne declinazioni, sono presentissime un po’ ovunque.
Non vi sarà sfuggito l’aggettivo “apparente”, che è più un’impressione personale che il risultato di una lunga analisi. Mi è parso infatti che la dicotomia tra stili storici e recenti sia stata digerita meglio
di Norberto Capriata
dai produttori che dai locali di somministrazione e che i pub dedicati alla birra craft, puntando sulla modernità a tutti i costi, sia a livello di allestimento che di proposta birraria, siano tutti piuttosto simili e un po’ noiosi, d’impatto per i primi minuti ma faticosi sul lungo periodo. E all’ennesima Pale Ale o Sour alla frutta, centellinate faticosamente su un trespolo di metallo, il palato e il cervello iniziano a rimpiangere una bella Kozel gelata da tracannare su una panca di legno.
D come Diacetile
Il nemico pubblico n.1 del bevitore in terra ceca. In realtà, rispetto ai viaggi precedenti, l’ho ritrovato in netta recessione, e le scorpacciate di burro di un tempo sono ormai, se non un ricordo, piuttosto rare.
Qualcuno probabilmente ha trovato il coraggio di farglielo notare e persino di spiegargli che ci sono modi piuttosto semplici per evitarlo...
Nessuno invece, purtroppo, pare aver suggerito che le bottiglie di plastica trasparenti, con le quali ti vendono quasi ovunque le birre d’asporto, sono un abominio da cancellare dalla memoria dell’umanità (non tanto per questioni ecologiche, che pure non sfiorano nessuno, quanto per come influisce disastrosamente sul prodotto all’interno).
E come Educazione
Se il diacetile era il nemico pubblico n.1 del bevitore in terra ceca, il cameriere di Praga si piazzava senz’altro al secondo posto.
Ricordo ancora, con timore e un pizzico di ammirazione, l’inflessibile
Il Castello di Praga
Uno dei locali più tradizionali di Praga: U Cerneho Vola
TURISMO BIRRARIO
sgarbatezza che, fino a pochi anni fa, veniva riservata anche al più mite tra i turisti stranieri, costantemente fulminato da occhiate assassine e aggredito verbalmente alla minima esitazione in fase di sistemazione, ordinazione o pagamento.
Mi sono sempre spiegato, ed ho quindi in parte giustificato, questi atteggiamenti, come una reazione alla cafoneria delle comitive (soprattutto italiane) che affollano costantemente la capitale ceca, in occasione di rimpatriate, viaggi organizzati e addii al celibato, le quali, pur contribuendo al benessere economico della città, creano disagi ai cittadini e soprattutto sfiniscono i lavoratori del settore della ristorazione. Ebbene, un po’ come il diacetile, anche la figura del cameriere maleducato è ormai in declino: le nuove generazioni sono decisamente più cosmopolite e malleabili, e probabilmente anche più sveglie, e loro si guardano bene dal respingere dei potenziali elargitori di laute mance.
A chi, in crisi di astinenza da maleducazione, volesse rivivere i vecchi tempi, suggerisco di recarsi al sempre affollato U Zlatého Tygra che, pur non riservando particolari gioie birrarie (solo Pilsner Urquel e spesso nemmeno in gran forma), coi suoi anziani e rudi inservienti, non mancherà di riservare qualche simpatico momento di umiliazione pubblica.
F come Festival
A Brno, forse più che nella stessa Praga, si respira un grande interesse per la birra di stampo più moderno e molti sono i locali dedicati al tema. Ma, come avrete capito leggendo il capitolo dedicato alla lettera “C”, non ne sono rimasto particolarmente impressionato. Per fortuna, però, nel mese di agosto, in una piazza centrale del paese, è presente un piccolo festival della birra che, incrociato casualmente, ho trovato ben più interessante, sia come offerta che come approccio al prodotto.
Niente di eclatante ma un buon numero di birrifici, un po’ di panche dove sedere e qualche stand dedicato a cibo niente male.
I nomi dei birrifici presenti, molti dei quali provengono da piccoli paesini sparsi per la nazione, non sono conosciutissimi, e nella scelta di cosa bere e cosa evitare bisogna andare un po’ a fiuto, col rischio di incappare in qualche produttore non del tutto (o fin troppo) artigianale. Mediamente comunque la qualità è buona e il festival consente di assaggiare parecchie birre, anche di un certo interesse, che altrimenti, con buona probabilità, sarebbe difficile incrociare.
G come Goulash
In generale la cucina locale è di buon livello. Non sto certo affermando che sia all’altezza di quella italiana, ma si mangia comunque molto meglio che in altre importanti nazioni birrarie come la Germania, il Belgio e la Gran Bretagna. Il piatto nazionale per antonomasia è il goulash ed è buono.
H come Hostomice - Malj
Janec - Podlesi
A pochi chilometri da Praga esistono alcune mete birrarie di qualità, in particolare questi tre birrifici che, essendo molto vicini tra loro, meriterebbero una giornata dedicata, durante la quale passarseli tutti.
Il condizionale deriva dalla logistica, che sicuramente non facilita. Innanzitutto i posti per pernottare sono pochi, qualche sparuto B&B non particolarmente di strada e lo stesso Podlesi, che però propone stanze a dir poco spoglie… Ma sono soprattutto gli spostamenti a risultare complicati.
Nella bella stagione l’ideale sarebbe muoversi in bici, ma se questa opzione non fa per voi, le alternative sono limitatissime, dato che i mezzi di trasporto sono quasi inesistenti e l’automobile pone dei rischi non trascurabili (vedi lettera “z”). Peccato, perchè il livello delle birre proposte, in particolare da Hostomice, è davvero notevole.
I come Industriali
Una particolarità del mondo birrario ceco è quella di poter presentare, oltre a un numero importante di piccoli, validi
Un piatto di goulash
produttori artigianali, anche alcune importanti birre industriali assolutamente dignitose da un punto di vista gustativo. Ovunque, agli occhi di un appassionato, le birre industriali rappresentano il male assoluto. I meno talebani arrivano a prenderle in considerazione - malvolentieri - solo in qualche contesto sociale in cui la loro presenza sia praticamente obbligatoria (concerti, partite, discoteche), ben consapevoli di non potersi aspettare altro che un gusto monocorde e stereotipato, se non addirittura chiaramente sgradevole.
In Repubblica Ceca non è così. Pilsner Urquell, Kozel e Malastrana, ad esempio, pur provenendo da un ambito produttivo ben distante da quello che conosciamo come artigianale, hanno il merito di saper proporre birre comunque potabili, talvolta persino buone.
Ma allora... SI! PUO’! FAREEEEEE!!!!
L come ležák
Conoscere un minimo di nomenclatura è utile per avere una minima idea di cosa si sta ordinando.
La birra, genericamente, è indicata come Pivo, ma il termine si incrocia raramente. Le tipologie storiche principali, quelle che personalmente mi interessano maggiormente, sono tutte basse fermentazioni, ossia lager, che in ceco traduciamo con Ležák.
Le stesse lager però si suddividono in almeno quattro sottogruppi, in base al tenore alcolico, che viene misurato in gradi plato, ossia tenendo conto della densità zuccherina del mosto: Lehké (<8°), Výčepní (8° - 11°), Ležák (11°- 13°), Speciál (>13°).
Un’ulteriore suddivisione riguarda invece il colore della birra, chiara, ambrata o scura, che la ripartisce in tre ulteriori categorie: Světlé (chiara), Polotmavè (ambrata), Tmavè (scura)
I sottostili birrari che troveremo nei pub cechi risulteranno quindi originati dalle permutazioni delle due tipologie di classificazione. Ad esempio una birra chiara
di gradazione medio bassa sarà verosimilmente indicata come Svetlý Výčepní e una birra scura un po’ più forte come Tmavý Ležák.
M come Mancia
Confesso di avere un problema con le mance. Forse per scarsa abitudine, più probabilmente per qualche tara genetica, ho ancora serie difficoltà a gestire con efficacia e dignità, il tragico momento dell’obolo al cameriere. Qualora mi trovi, mio malgrado, in nazioni che contemplino questo pratica insensata e fastidiosa, ogni transazione economica diventa un piccolo dramma. Finché la valuta è in euro la situazione, seppure imbarazzante, rimane gestibile, ma quando la moneta è locale e il calcolo per la conversione non banale (come in Repubblica Ceca) tutto diventa più complicato. La combo più dura è la seguente:
Moneta locale (no euro) - personale locale (no inglese) - ennesimo locale (no sobrio): in questa situazione calcolare una mancia equa diventa sfidante e l’errore è dietro l’angolo. L’espressione stupita del cameriere è un buon indicatore del fatto che vi convenga accomiatarvi con
una certa urgenza, sia che abbiate sbagliato per eccesso (per evitare abbracci e lacrime e di essere presi di mira dalla malavita locale che vi potrebbe identificare come un magnate in vacanza) sia che abbiate clamorosamente sottostimato la cifra (una mancia equivalente a 23 centesimi di euro potrebbe costarvi qualche comprensibile rimostranza).
N come Nigredo (e Imperial Zest)
I pochi che, in terra ceca, si trovassero a rimpiangere le birre artigianali italiane, possono recarsi al birrificio Harry di Brno e bere la Tmavý Lezàk, una dark lager estremamente luppolata ed erbacea, praticamente un clone della Nigredo del Birrificio Italiano, oppure di cercare, in qualche beershop, la Funky Newz di Sibeeria, molto simile all’Imperial Zest di Extraomnes.
Ma non prendetelo per un consiglio, era solo un sotterfugio per sfruttare la lettera N.
O come Olomouc
Praga a parte, ovviamente inarrivabile, la Repubblica Ceca offre qualche altra
più modesta cittadina degna comunque di una visita.
Olomouc, ad esempio, oltre a una piazza degna di nota, possiede anche un birrificio locale di ottima qualità, Svatovaclavsky Pivovar, dove gustare al loro meglio gli storici stili locali, Svetle, Polotmavè e Tmave, e almeno un paio di locali validi dedicati alle birre di qualità.
Di un certo interesse anche artistico è, in particolare, il piccolo e un po’ nascosto Retro Bar, dove, in un ambiente ancora fermo ai tempi della cortina di ferro, con atmosfera, mobilio e memorabilia degni di un museo a tema, l’enorme proprietario serve invece, paradossalmente, birre artigianali di moderna concezione.
P come Passaggi pedonali
La durata dei passaggi pedonali praghesi è praticamente infinitesimale.
Per attraversare da un marciapiede all’altro uno qualunque degli stradoni del centro bisogna munirsi di pazienza e coraggio, rassegnandosi ad almeno due o tre tappe e preparandosi a schivare le numerose auto che, inevitabilmente, proveranno a schiacciarvi non appena scattato il rosso (ossia subito).
Narra la leggenda che solo il grande Usain Bolt, nel periodo migliore della sua carriera, in occasione di una visita alla città per un trial, sia riuscito ad attraversare un passaggio pedonale in un solo colpo. Ma arrivando lanciato alla linea di partenza al momento dello scattare del verde. E con vento a favore.
Q come Quattrocentonovanta
Se la lettera “C” non fosse già occupata avrei potuto intitolare questo paragrafo: “C come circonvenzione d’incapace”.
In alcuni birrifici di Praga, infatti, va molto il cosiddetto beer tasting. Invece di scegliere una o più birre tra quelle disponibili ti vengono portati degli assaggi, per provarne un po’. Peccato che in tali casi il prezzo della birra per unità di misura aumenti in modo totalmente sproporzionato.
Nell’ U Supa, birrificio antico e centralissimo anche se di qualità non straordinaria, ad esempio, una tavoletta con sei calici da 20 centilitri costa appunto 490 corone, per un prezzo al litro che supera i 15 euro. Le stesse birre, in formato normale (1/2 litro) viaggiano invece sui 6 euro/lt.
Questo significa che se invece di sei assaggi ordini sei birre medie spendi di meno.
Eppure hanno ragione loro, perchè i turisti vanno matti per questa formula e
La città di Olomuc
ne fanno incetta, felici di farsi spennare come grulli.
R come Rezanè
Altra trovata un po’ insensata dei birrifici cechi, ma meno truffaldina e più gradevole. In pratica si tratta di un boccale riempito per metà con birra chiara e per metà con birra scura, con le due componenti che, grazie a una certa attenzione nella spillatura, rimangono simpaticamente separate.
Alla fine non è niente di chè, un po’ come bere due birre piccole, una Svetle e una Tmave (questo se non soffri di tremore alle mani, in caso contrario otterrai ben presto, invece, un pessimo blend marroncino), ma le foto del bicchiere bicolore ti permetteranno senz’altro di guadagnare qualche like a buon mercato.
S come S světlé
Nel locale birrario più famoso e più turistico in assoluto di Praga, l’U Fleku, la birra ha sempre avuto una ed una sola tonalità: quella scura della buonissima Tmave di casa. Ultimamente però, a sorpresa, una sorella chiara (Světlé) ha affiancato l’ammiraglia del locale.
Me ne avevano parlato malissimo ma ho voluto comunque provarla di persona e l’ho quindi ordinata, anche se con
ridottissime aspettative. Davvero buona, invece, molto luppolata (non escluderei il contributo di qualche varietà d’oltreoceano) e, incredibilmente, esente da diacetile. L’amico Davide Bertinotti, che ci è tornato da poco, ha invece raccontato di una birra totalmente devastata da sentori burrosi... A questo punto, o uno di noi due soffre di seri deficit ai recettori olfattivi (e in tal caso non potrei che essere io...), oppure si tratta di un problema d’incostanza produttiva. In ogni caso, il dilemma sulla qualità di questa birra permane: vi invitiamo quindi a recarvi da U Fleku e fare da cavia per contribuire ad ampliare la raccolta dei pareri.
T come Tmavé
La migliore che ho bevuto a Praga è senz’altro quella del birrificio U Tri Ruzi, morbida, bilanciata ed elegante. Il locale si trova in una via centrale della città vecchia e merita una visita anche per le altre tipologie birrarie (anche se non al livello della Tmavé) e per la cucina di buona qualità.
U come Urquell
Ne ho già parlato nel paragrafo dedicato alle birre industriali ma, tale è l’importanza del brand Pilsner Urquell in tutta la nazione (e incombente la sua presen-
za) che vale la pena spendere ancora un paio di parole. Innanzitutto, come molti già sapranno, per bere la versione non filtrata della Urquell occorre recarsi a Plzen e fare il tour del birrificio oppure ordinarla al pub U parkànu. Ne vale la pena? Eccome.
Ma anche la versione filtratissima, presente letteralmente ovunque, si fa bere con piacere. Soprattutto in quei locali dove viene fornita in “tank”, grossi serbatoi dedicati alle birrerie più grandi che possono vantare grandi volumi di somministrazione. Le dimensioni di questi contenitori, simili a dei piccoli fermentatori, amplificano la sensazione di freschezza della birra rendendola ancora più piacevole. O almeno così dicono, e così effettivamente mi è parso. Solo suggestione?
V come Vino
La zona della Moravia ha una buona reputazione per la produzione vinicola e, per chi apprezza anche questa bevanda, una puntatina a sud del paese potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa.
I vini di un certo interesse sono rigorosamente bianchi: Gruner Veltliner, Sau-
L’antico birrificio U Supa
Rezanè, il mix di Pils e la scura Tmavè
TURISMO BIRRARIO
vignon, Riesling, Müller Thurgau, etc.
Sono prodotti amabili, non molto complessi ma di buona bevibilità, forse un po’ dolci per i nostri standard, ma non mancano le etichette valide.
Interesse per il prodotto a parte, consiglio comunque una tappa da queste parti anche per ammirare l’estetica di queste piccole cantine che, per riparare il prodotto in fermentazione e maturazione dalla torrida calura estiva, sono interamente interrate nel sottosuolo delle colline locali, al punto che, in molti casi, le uniche parti visibili risultano essere il portone d’ingresso e il camino, con un effetto “casa degli Hobbit” molto pittoresco.
Molte di queste produzioni sono davvero minuscole e destinate al consumo privato ma alcune cantine sono aperte al pubblico e, con un piccolo sforzo comunicativo, è possibile organizzare delle piacevoli degustazioni, dalle quali, vi avverto, sarà difficile uscire in condizioni dignitose (pernottare a breve distanza, vedi anche la lettera “z”, è a dir poco obbligatorio).
W come Wild Creatures (anzi, Mamut)
Mikulov, situato a pochi chilometri dall’Austria, è un altro paesino che meri-
ta una visita, sia per l’indubbia bellezza architettonica che ne fa una piccola ma gettonata meta turistica locale, sia per i nostri, sempre preponderanti, interessi birrari.
È infatti sede del birrificio Wild Creatures, produttore di Sour beer di qualità ragguardevole, tra i più interessanti che si siano affacciati negli ultimi anni a livello non solo locale ma almeno europeo. A dire il vero però Wild Creatures non si trova proprio a Mikulov ma a qualche km di distanza (Dolní Dunajovice) e fino all’anno scorso non era ancora attrezzato per l’accoglienza, eppure anche in città esiste un locale indicato a nome Wild Creatures... ma non è proprio così.
Si tratta infatti del microbirrificio Mamut, di proprietà del marito della birraia di Wild Creatures, anche lui birraio che, in un cortiletto minuscolo e su un impianto a dir poco casalingo, brassa e propone ai visitatori la sua limitatissima produzione. Le sour beer della consorte sono presenti solo in bottiglia in un piccolo frigorifero, quasi come birre ospiti.
Delusione quindi? Tutt’altro, perchè le birre di Mamut, sebbene di concezione decisamente più tradizionale, sono una vera bomba, tra le migliori Svetle e Tma-
ve mai assaggiate. Se passate in zona non perdetevelo.
Z come Zero Alcol
Il dramma principale per il turista alcolico in Repubblica Ceca, è il tasso alcolimetrico previsto per mettersi alla guida. O meglio, il divieto assoluto di bere, dato che il valore consentito è, appunto, zero. Pur comprendendo i motivi e condividendoli in parte, mi pare sinceramente un’esagerazione, dato che c’è una bella differenza tra bere “responsabilmente”, mantenendosi sufficientemente lucidi per fare qualche chilometro in auto, e ubriacarsi completamente. Grande rigore quindi ma controlli quasi inesistenti: il risultato è che i più pavidi (o ligi) tra i guidatori aderiscono completamente alle direttive non concedendosi nemmeno un assaggio o rinunciando all’auto, con ovvi disagi, e che gli altri, invece, se ne fregano e se la rischiano e, già che ci sono, ci danno pure dentro. Detto questo, se fate parte, come noi, della prima categoria, sappiate che Praga si gira molto bene coi mezzi pubblici, quindi il tema è meno pressante, ma altrove questa alternativa è quasi inesistente. Il consiglio è quello di organizzare molto bene le varie tappe del viaggio pernottando a distanza di passeggiata dai locali che più vi interessano oppure, se non viaggiate da soli, fare a turni tra chi beve e chi guida, rassegnandosi, quando tocca a voi il ruolo dell’autista, a trangugiare qualche intruglio alla granatina o una pessima birra analcolica mentre osservate i vostri amici spassarsela. ★
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IL DELTA veneto del Po
Questo percorso è uno dei 60 itinerari proposti dall’opera completa Turismo birrario. Guida per viaggiatori in fermento (Ed. LSWR), ideata e curata da Luca Grandi e scritta insieme ad
altri otto Autori
Il Delta veneto del Po è il luogo dello stupore e della suggestione. È un territorio fatto di terra e di acqua e continuamente, attraversandolo, ci restituisce la forza e la bellezza di una natura che qui è ancora in gran parte incontaminata. È anche luogo di forti contrasti e in continua evoluzione e che per questo, una volta visitato e soprattutto vissuto, ci procura emozioni indelebili.
Il Delta del Po è la più vasta zona umida d’Italia ed è compreso fra le provincie di Rovigo, Ferrara e Ravenna. Questo enorme patrimonio naturalistico è gestito, nel Veneto, da nove comuni e dal Parco Regionale Veneto del Delta del Po. Tuttavia, dovendo qui indicare itinerari da coprire pressoché in giornata o tutt’al più in un weekend, si è pensato di suggerire alcuni passaggi che sarebbe corretto
definire fondamentali e che comunque ci aiuteranno a scoprire l’anima profonda di questo territorio che, per inciso, si estende su una superficie di 786 km2 (la zona protetta copre 120 km2).
Una vivace cittadina
Partiremo quindi dal salotto buono del Delta che è Adria - comune che ha dato il nome al Mar Adriatico - visitando il no-
Cà Vendramin con la sua ciminiera
di Luca Grandi
tevole Museo Archeologico Nazionale con reperti di epoca etrusca, greca e romana. Adria ospita inoltre uno dei più grandi teatri d’Italia, il Comunale, segno di una cittadina culturalmente molto attiva, oggi come in passato; a riprova di questo, ci basti sapere che anche Adria, oltre il capoluogo Rovigo, ospita un Conservatorio.
Da visitare, inoltre, la Cattedrale dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, la Chiesa vecchia di San Giovanni, contenente diversi affreschi bizantini e la Basilica di Santa Maria Assunta, al cui interno fu ritrovata la tomba di un illustre personaggio romano, Quinto Tizio Sertoriano. Il centro storico del paese ci restituisce fin da subito la sensazione di una cittadina viva, elegante e attiva, in qualsiasi stagione la si frequenti e non mancano i locali dove poter degustare pietanze tipiche del territorio polesano.
Proseguendo lungo il nostro ideale itinerario, spostiamoci ora in direzione del mare, seguendo la strada provinciale, la stessa che ci conduce alla connessione con la Strada Romea che collega Venezia a Ravenna. Qui vi coglierà forte la tentazione di prendere in direzione del mare per stendere l’asciugamano sulla spiaggia di Rosolina Mare o per visitare il vicino Giardino Botanico Litoraneo di Porto Caleri - Riserva di Biosfera MaB per l’UNESCO - un sito naturalistico che riassume in sé tutte le biodiversità del territorio deltizio. A voi la decisione.
Verso i luoghi più suggestivi
Per inoltrarci, tuttavia, nel cuore del Delta veneto, dovremo prendere la Strada Romea in direzione Ravenna e superato il ponte di Porto Viro ed il comune di Taglio di Po, uscire dalla Romea e dirigerci verso Porto Tolle. Poco prima del grande ponte di Porto Tolle, sulla destra troviamo il manufatto di Cà Vendramin: non potrete confondervi, si farà notare grazie alla sua ciminiera di sessanta metri d’altezza!
Qui dentro è ospitata un’enorme idrovora che, dai primi del ‘900, aveva il compito
di bonificare i territori circostanti; grazie ad una portata complessiva di 11 mila litri al secondo, l’idrovora poteva sollevare acqua per un territorio complessivo di 12mila ettari, convogliandola poi in un canale che l’avrebbe portata fino al mare. Oggi, Cà Vendramin accoglie il Museo Regionale della Bonifica, che consigliamo vivamente di visitare, mentre nella carbonaia si trova il Centro Visitatori del Parco Delta del Po e lo IAT provinciale. A questo punto, il nostro itinerario si fa lineare, basterà seguire la strada che ci porterà fino alla Sacca di Scardovari, forse il luogo più suggestivo e significativo di questa parte d’Italia.
Prima di arrivarci, però, potremo sostare per un bagno di sole o nell’acqua del mare alla Spiaggia di Barricata, che troviamo lungo la strada, proprio nella punta più estrema, svoltata la quale saremo arrivati alla Sacca. Come anche altre spiagge sul Delta, anche la Barricata è ancora poco turistica: è tuttavia molto apprezzata proprio per la caratteristica spiaggia, una distesa profonda di sabbia che digrada lentamente verso il mare. Come Barricata, in zona potrete trovare le spiagge attrezzate di Boccasette e la
Spiaggia delle Conchiglie o quelle libere di Scano Boa, Bastimento e dell’Isola dei Gabbiani: tutte consigliate, naturalmente.
La Sacca è il pezzo forte del Delta, unico per la sua potenza evocativa, per i colori del paesaggio che ne fanno un’immensa tavolozza grazie alla particolare luce che si crea nella fusione fra l’acqua del mare ed il cielo, qui sempre così terso e saturo. È un’area spesso spazzata dal vento, che porta quindi con sé anche il profumo dell’acqua salata.
Quest’area, un tempo, era terra per risaie, il pregiato riso del Delta che ancora oggi, in altre zone, viene coltivato. E proprio per questo state ora visitando la parte più giovane del Delta, quella dove l’acqua si è fatta strada ricoprendo immense aree prima destinate ad altre colture.
Natura e buon cibo
Oggi tutta la riviera che guarda sul mare è disseminata delle caratteristiche casette di pescatori, che qui gestiscono numerosi vivai di cozze e vongole. La strada che arriva alla Sacca di Scardovari è disseminata anche di trattorie e ristoranti pronti ad assecondare i nostri
Adria, il comune dal quale prende il nome il Mar Adriatico
palati grazie all’immancabile offerta di pesce fresco (se non qui, dove!?), lungo la quale si trova il Consorzio di Pescatori più grande d’Italia - qui si coltivano anche le pregiatissime ostriche rosa del Delta – e dove ad un certo punto troveremo l’oasi di Cà Mello, una valle da pesca poi bonificata per la coltura del riso. L’Oasi consente di ammirare numerose specie di salici bianchi, sambuchi, tamerici, giunchi palustri e di applicarci nella rilassante pratica del birdwatching, grazie alle postazioni libere di osservazione disseminate qua e là. Non dimentichiamo che sul Delta del Po si affollano circa 400 specie di uccelli; nelle sue lagune, nelle sue valli e sulle barene nidificano aironi, sterne, avocette, cavalieri d’Italia e moltissime altre specie. Nelle sacche e nei bonelli - dai fondali più bassi - prosperano beccaccini e pittime mentre sulle spiagge nidifica ancora la beccaccia di mare, altrove scomparsa. Da qualche anno, inoltre, proprio sullo stesso territorio dell’Oasi di Cà Mello ma spostato di qualche chilometro, fa bella mostra di sé un enorme lavandeto, mèta obbligata di turisti e curiosi.
Usciti dall’Oasi proseguite verso Santa Giulia. Se siete riusciti a resistere al ri-
chiamo dei ristoranti che avrete trovato lungo il percorso, sappiate che anche qui potrete farlo, questo è forse l’ultimo avamposto prima di un lunghissimo percorso che ci potrà riportare - secondo un ideale anello - a Porto Tolle. Ma da qui sarà imprescindibile uscire in barca per conoscere il Delta profondo, quello dei canneti, dove un tempo gli abitanti del posto passavano settimane intere a raccogliere le canne per poi farne arelle, le parti interne dei tetti delle case. Vi condurranno le guide del posto, abilitate a farlo. Lungo il percorso vi parleranno di flora, di fauna, di leggende d’acqua, del mito di Fetonte, il figlio del dio Sole, che qui venne colpito dalla furia di Giove e fatto precipitare in mare. Vi racconteranno poi delle sue sorelle, le Eliadi, che il dolore per la morte dell’adorato fratello trasformò in pioppi trasudanti delle loro lacrime di ambra. Ma, soprattutto, vi condurranno all’Isola dei Gabbiani, una spiaggia libera dove potrete godere della luce, del sole e della bellezza di un luogo davvero senza tempo, popolato solo dalla bassa vegetazione di mare, dai gabbiani e da qualche tenda di fortuna, tirata su da turisti fai da te con i legni lasciati dal mare sulla spiaggia.
In alternativa, potranno condurvi sulla Spiaggia dell’Amore, dove oltre ad una locanda con camere si trova il Faro del Bacucco, la sentinella di questo raro e prezioso pezzo di mondo.
Birra e tradizione
Al confine estremo del Delta veneto del Po si trova l’unico birrificio artigianale con impianto di produzione proprio, il Birrificio Perkè. Il paese, Rivà, è quasi sulla linea ideale che divide le due provincie di Rovigo e Ferrara, poco prima del ponte di Mesola, primo comune della provincia ferrarese (e, peraltro, dove si trovano il Castello - una delle poche
Delizie Estensi ancora intatte e perfettamente conservate - e la Riserva naturale Bosco della Mesola).
Il mastro birraio del birrificio è Francesca Beltrame, che con Dario Ferri ha realizzato il sogno di avere un proprio birrificio dove poter mettere a frutto la conoscenza acquisita in anni di studio e preparazione. Il loro impianto è all’interno di Villa Ferri, un ampio e storico caseggiato di fine ‘800 con cucina, ampliato ad Agri Resort per turisti e appassionati, che potranno così mangiare, degustare buona birra e perfino dormire sopra il birrificio. Per loro, Francesca e Dario hanno anche realizzato nell’ampio parco adiacente la Villa il Giardino della Birra, un orto didattico dove poter tenere degustazioni e l’imprescindibile piscina per godersi un meritato relax, magari dopo una buona bevuta. Francesca produce birre su ricetta originale, secondo stili a lei consoni, con orzo e grano prodotti nei tre ettari di terreno adibiti allo scopo, arricchendole infine con ingredienti perlopiù del territorio polesano.★
L’itinerario completo lo trovate su “Turismo birrario. Guida per viaggiatori in fermento - Nord Est” di Pierluigi Bruzzo, Gabriele Navoni e Luca Grandi. L’intera opera è curata da Luca Grandi. Edizioni LSWR. Le fotografie utilizzate nell’articolo sono state scattate da Luca Grandi.
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Parte 2: A spasso nel tempo
Al termine dello scorso articolo pubblicato su BNM 4, dopo aver scherzato sulle similitudini e sulle differenze tra l’appassionato di birra artigianale e altri casi umani più o meno paragonabili, c’eravamo lasciati promettendoci di ragionare su un tema collaterale di una certa, credo, rilevanza.
Esistono le mode nella birra artigianale? E se esistono (ed è questo il lato più interessante della questione), sono davvero in grado di influenzare la risposta emotiva e cerebrale dell’appassionato, sovrapponendosi ad altre considerazioni più logiche e concrete come la qualità organolettica del prodotto?
È soltanto la bontà di quanto abbiamo nel bicchiere a motivare la nostra passione e a farci scegliere una determinata birra o concorrono anche altri fattori
ambientali, nell’indurci a scegliere un prodotto piuttosto che un altro? Beviamo ANCHE per questioni di moda?
Un viaggio nel tempo
Avevo accennato a come, almeno istintivamente, l’appassionato tenda a rifiutare anche la sola idea che un concetto astratto e ambiguo come la moda possa in qualche modo condizionare le sue convinzioni, dettate solo e unicamente da considerazioni puramente sensoriali.
Qualche osservatore meno coinvolto e un po’ rompiscatole potrebbe sostenere invece che anche il microcosmo della birra artigianale, come tutte le sotto-culture dei nostri tempi, sia invece, almeno in parte, condizionato e indirizzato da questioni di moda.
Come fare per fugare questo dubbio? La cosa più ovvia che mi viene in mente è quella di avvalermi della Macchina Del Tempo, che la redazione di Birra Nostra Magazine munificamente concede come benefit a tutti i suoi collaboratori, e accompagnarvi in un viaggetto nel passato.
Non temete, non ho intenzione di tornare all’epoca dei faraoni o di Nabucodonosor per mostrarvi di persona le prime fermentazione di cereali, se volete farvi un sonnellino vi basta iscrivervi a qualche corso di cultura birraria, mi limiterò a qualche tappa molto più vicina nel tempo.
Considerando che, nel nostro Paese, abbiamo ormai associato l’inizio del fenomeno della birra artigianale all’anno 1996, ma che ci volle qualche tempo
di Norberto Capriata
perché qualcosa di concreto iniziasse a manifestarsi davvero e soprattutto affinchè un po’ di gente iniziasse a interessarsene, direi che possiamo settare i controlli della Time Machine sull’anno 2005.
E improvvisamente eccomi qua di fronte a un computer fisso, pesante e obsoleto, intento a consultare, su un browser lentissimo, i primi newsgroups dedicati all’argomento birra artigianale (chi ricorda it.hobby.birra?)
Rifletto amaramente sul fatto che i newsgroups non esistono più da un pezzo, sostituiti inizialmente dai forum e dai blog e successivamente dai cosiddetti social, e realizzo soprattutto che nessuno, in quest’epoca, parla di birra artigianale, ma solo di birra.
Esiste però l’homebrewing, praticato da pochi pionieri, un po’ maniaci ma amichevoli, almeno tra loro, che si scambiano ricette e suggerimenti.
Ed esistono gli appassionati di birra. Sono ancora pochi, ma già molto agguerriti e intransigenti. Conoscono bene l’argomento: hanno letto i pochi testi rintracciabili sul tema e tutto ciò che si trova in rete, fanno quasi tutti birra in casa e, soprattutto, viaggiano alla ricerca delle birre e dei birrifici migliori. Odiano la tipica birra da supermercato che monopolizza il mercato ovunque e sanno bene verso che nazioni, stili e produttori orientarsi.
Il Belgio in testa
A farla da padrone è il Belgio. Le birre trappiste, innanzitutto: Orval, Westmalle e Westvleteren sono luoghi di pellegrinaggio e culto, Tripel e Belgian Strong Dark Ale gli stili più ricercati, Rochefort 10 e Westvleteren 12 le migliori birre del mondo. Anche Lambic e fermentazioni spontanee del Pajottenland hanno i loro adepti, pochi coraggiosi orgogliosi delle loro papille gustative a prova di acido citrico, mentre Flemish e Oud Bruin, leggerissimamente più facili, raccolgono molti consensi, Rodenbach in primis.
Il Regno Unito
Questo Paese desta grande interesse, soprattutto per le Real Ale: gli storici pub londinesi che spillano a pompa Bitter e Pale Ale, robustamente maltate e amare, piatte e a temperatura ambiente, sono mete gettonate. Anche le Stout hanno i loro fans, ben attenti a sottolineare che ne esistono di molto migliori rispetto alla celebre Guinness.
L’America coi suoi gioielli è ancora un lusso per pochi, mentre la Germania è
snobbata clamorosamente da quasi tutti: Lager, Pilsner e Weizen sono tipologie birrarie troppo vicine alle brodaglie che l’industria ci ha propinato per decenni e la gente ha voglia di altro.
Il nostro Paese
In Italia si seguono le orme dei primi birrifici, ormai consolidati, ognuno dei quali caratterizzato dalle passioni e dalla personalità del mastro birraio fondatore. Teo Musso rivisita il Belgio
introducendo però interessantissime sperimentazioni deluxe sui Barleywine inglesi (Le Xyauyu), Agostino Orioli interpreta gli stili della Repubblica Ceca e della Germania con rispetto ma anche personalità e sottolineando le variazioni introdotte nei nomi stessi delle sue creazioni (Tipopils, BI-Bock, etc.), il Birrificio Lambrate si muove a cavallo delle tre grandi scuole, belga, britannica e germanica, con qualche tocco personale come le affumicature introdotte nella Ghisa. C’è molto interesse per le birre al miele e parecchi birrifici iniziano a utilizzare qualche prodotto del territorio, soprattutto la Castagna, che pare imporsi come ingrediente birrario tipicamente italiano.
Il boom delle IPA
Quanti ricordi… Questa prima tappa meriterebbe già molte riflessioni, ma è ancora presto, facciamo un piccolo salto in avanti: prossima fermata, anno 2010. Rieccomi davanti al computer, ora ho un portatile, ancora un po’ pesante e lento ma decisamente più maneggevole. La grande novità birraria di questo periodo è rappresentata dall’esplosione dei luppoli americani e conseguentemente, delle American IPA.
Sierra Nevada, Flying Dog, Dogfish Head, Great Divide e molti altri birrifici della West Coast, stanno sfondando dappertutto con le loro birre amarissime (si compete a colpi di IBU), profumate (principalmente agrumi e resina) e leggermente maltate (i malti caramello sono imprescindibili).
L’Europa recepisce e apprezza, e visto che procurarsi le IPA USA, penalizzate dai costi e dal trasporto, non è così semplice, in molte nazioni si comincia a brassare birre di questa tipologia; in UK, ad esempio, dove le vecchie e meno scioccanti IPA locali vengono, pian piano, sostituite dal nuovo modello (Moor, St. Peter, Brewdog tra i primi artefici) e in Scandinavia, dove micro produttori di chiara ispirazione statunitense iniziano a spuntare come funghi.
Anche da noi il fenomeno non passa inosservato e nel giro di breve tempo vi si buttano un po’ tutti, sia tra i produttori già attivi da qualche anno (Bi-Du, Orso Verde, Bruton) sia tra i novizi, che spesso partono direttamente puntando sulle birre di questo genere (Brewfist, Foglie d’erba, Toccalmatto).
Un’altra tipologia birraria di gran richiamo, in particolare negli USA, è quella delle Imperial Stout, che gli statunitensi
stanno rivisitando con ottimi risultati, attirando nerd da tutta la Nazione ed oltre (il sito Ratebeer, in voga in questi giorni, ne decreta inequivocabilmente il successo planetario).
È un momento topico perché i numeri cominciano a crescere, sia quelli dei birrifici che quelli dei locali, e se gli appassionati bevitori sono ancora pochini, l’homebrewing esplode definitivamente.
Un periodo di riscoperta
Torno alla Macchina Del Tempo e sposto di un ulteriore lustro la destinazione: 2015.
Io mi avvalgo ancora di un PC ma molti lo stanno sostituendo con uno smartphone, ancora un po’ scomodo e costoso ma molto più trendy.
A livello di popolarità siamo probabilmente al picco della curva di crescita, successivamente inizierà un periodo di stasi se non di lieve decrescita. La birra artigianale è ormai una realtà e il termine stesso per definirla, precedentemente soltanto un modo non ufficiale per distinguere i prodotti dei moderni microbirrifici da quelli della grande industria, viene ufficializzato da una Legge del parlamento, alla quale contribuiscono le più importanti associazioni dell’epoca: Unionbirrai, MoBI Movimento Birrario Italiano e altre compagini territoriali. Ma questa è un’altra storia.
L’esplosione delle IPA, annunciata dal lustro precedente, si è effettivamente concretizzata, e questa specifica varietà di birra rappresenta ormai la più ricercata dai bevitori e la più prodotta dai microbirrifici di tutto il mondo. Ma sta già cambiando. Quei luppoli aromatici che ne hanno fatto la fortuna non bastano più e ovunque si ricercano nuove varietà ancora più intense e profumate. Dall’oriente vengono importate alcune variazioni di luppolo che virano nettamente verso la frutta tropicale e, nel giro di poco tempo, questo sentore diventa il più apprezzato (uno dei precursori in
questo senso è il nostro Toccalmatto che, con la Zona Cesarini, sbanca).
È un periodo di grande diversità e di riscoperta di stili minori: Berliner Weisse, Gose, Grodziskie e altre tipologie che fino al momento avevano rappresentato soltanto una postilla a margine sulle brochure dei corsi di degustazione, sembrano improvvisamente diventate le più ricercate sia dai microbirrifici che dai degustatori. La scuola belga pare in calo (a eccezione dei produttori di Lambic che, diventati una specie di status symbol, stanno invece facendo milioni ovunque) e qualcuno ricomincia a interessarsi alla Germania, in particolare alla zona della Franconia che, già da tempo, Manuele Colonna e Dino Perin, hanno iniziato a proporre sul nostro territorio.
L’ascesa di nuovi stili
Riparto per un’ultima tappa, prima di ritornare al presente.
L’anno 2020 è un momento triste e strano, mi ritrovo chiuso in casa a chiacchierare in video conference con colleghi e amici a causa del covid; essendo al corrente di come andrà a finire sono un po’ più tranquillo di quanto fossi all’epoca, ma l’atmosfera pesante mi ripiomba addosso come una coperta e decido di fermarmi il meno possibile, giusto quanto basta per rinfrescarmi il momento birrario.
A livello produttivo segnalo che le lattine si stanno già imponendo sulle bottiglie, più comode da maneggiare e trasportare e particolarmente indicate per la tipologie di birra più in voga: ossia le solite IPA.
Queste ultime continuano infatti a dettare legge, ma sono ormai molto diverse rispetto a quelle che abbiamo conosciuto nel decennio precedente. Come prevedibile gli aromi tropicali hanno ormai oscurato qualsiasi altro sento-
re, ma molte altre caratteristiche sono decisamente cambiate. Innanzitutto è stato completamente eliminato il malto caramello, in competizione deleteria con i profumi del luppolo che si fa di tutto per esaltare. Inoltre, dato che come riferimento stilistico il New England sta soppiantando la West Coast, le nuove (NE)IPA si presentano decisamente torbide e molto meno amare. Insomma, dei succhi di frutta al gusto tropicale... De gustibus.
Nel frattempo, si stanno imponendo le cosiddette (almeno per ora) Italian Grape Ale, birre che utilizzano il mosto d’uva in una qualsiasi fase produttiva, e inizia ad andare per la maggiore, soprattutto a livello di beershop, una nuova tipologia di birre sour, acidule ma meno estreme di quelle del Pajottenland, spessissimo completate con l’utilizzo di frutta, ad indirizzarle verso i consumatori di aperitivi.
Il Belgio è ormai rimasto un ricordo dei vecchi appassionati del primo periodo ma per il resto non attira più nessuno, la Germania invece ha consolidato quell’interesse di nicchia per le tipologie franconi al quale avevamo accennato, sul territorio iniziano a girare le botticelle della zona e parecchi birrifici locali ricominciano ad apprezzare questi stili e a produrli.
Le birre robuste e impegnative che primeggiavano sui siti di rating, Imperial Stout e Barleywine, sono una rarità e anch’esse hanno attraversato un’evoluzione, dato che non vengono quasi più proposte “lisce” ma fungono quasi sempre da base per lunghe maturazioni in botti di liquori e vini presumibilmente pregiati.
Purtroppo Birra Nostra Magazine non rimborsa il carburante per la Macchina Del Tempo e le barre di plutonio che la alimentano costano come una cassa di Cantillon: è ora di tornare al presente.
Come cambia il modo di bere
Del periodo birrario attuale preferisco non parlare perchè non l’ho ancora concettualizzato appieno e comunque, dato che lo state vivendo anche voi, vi sarete
fatti una vostra idea, torniamo invece alla domanda di partenza e vediamo se la nostra ouverture ci ha fornito degli elementi per rispondere.
Partiamo dal presupposto iniziale, ossia che la birra cosiddetta artigianale (o meglio, di qualità, visto che la definizione, come abbiamo visto, è cosa recente) sia quella effettivamente “buona” e immaginiamo di condurre un amico alla sua scoperta: cosa gli faremmo bere?
Tornando al nostro viaggio temporale abbiamo visto che:
❱ vent’anni fa avremmo scansato a priori Lager e affini e lo avremmo portato in Belgio a caccia di bottiglie di Dubbel, Tripel e Quadrupel, con qualche timida puntata verso i territori acidi, nelle Fiandre o nel perimetro di Bruxelles. In alternativa avremmo potuto pagargli una pinta di Bitter o di Stout in un pub inglese.
❱ Successivamente avremmo puntato senz’altro sulle IPA, proponendogli probabilmente una ReAle o una ArtigianAle, col loro carico di malto caramello a bilanciare l’amaro importantissimo. Avremmo sicuramente provato a stupirlo con una Imperial
Stout tipo la Yeti di Great Divide, anch’essa particolarmente amara e luppolata.
❱ Qualche anno dopo gli avremmo probabilmente offerto una IPA di Hammer, stupendolo con profumi di frutta tropicale e spiegandogli l’importanza dell’utilizzo di soli malti chiari.
❱ Più recentemente gli avremmo proposto forse una lattina di NEIPA di MC77 per essere sicuri di fare centro anche con i meno portati per la birra tradizionale, grazie ai suoi profumi accattivanti, all’amaro limitatissimo e persino all’aspetto simile a un succo di pera.
❱ Nel frattempo avremmo censurato completamente il Belgio e puntato decisamente verso le keller tedesche prodotte in Franconia, facendogli provare una botticella di Monchsambacher o di Bajon. Ai più interessati ai territori vinicoli avremmo offerto invece una IGA di Siemàn, scordandoci completamente che un giorno la gente beveva strani intrugli tipo la Rodenbach Vintage. E le castagne? Facciamoci le caldarroste che è meglio.
Come vedete nel giro di due decenni il modo di bere birra artigianale è cambiato completamente... cosa possiamo dedurne? Significa forse che quanto apprezzavamo a metà anni duemila era un abbaglio e nel tempo ci siamo ravveduti? Oppure che, col passare del tempo, i nostri recettori di gusto e olfatto si sono corrotti, per colpa forse dei vaccini o del 5G? Esiste forse un’altra spiegazione, più semplice e razionale, che preferiamo però evitare?
Purtroppo il mio spazio è finito: lascio a voi le conclusioni.
Ma mentre salvo e chiudo l’articolo per mandarlo alla redazione, non so perché, mi risuona nella testa il ritornello di un vecchio brano di Giorgio Gaber: “Quando è moda è moda... Quando è moda è moda... Quando è moda è moda”. ★
San Francisco e le avventure
LIVE DI BLOOMFIELD E KOOPER
Come per le migliori birre anche il rock ha avuto necessità di sperimentare e di mescolare varie miscele musicali prima di potersi considerare maturo.
Questo è avvenuto soprattutto in quei fantastici anni Cinquanta e Sessanta, quando l’apertura musicale e la curiosità di giovani e meno giovani musicisti hanno evidenziato l’importanza di poter osare ed uscire da canoni stilistici già collaudati.
E come esperti mastri birrai ecco che da strani ed innovativi alambicchi a valvole
questi giovani capelluti ragazzi hanno avuto l’abilità di estrarre questa corroborante ed emozionante miscela che aveva i watt al posto dei gradi alcolici. Nasceva il rock e quelli saranno anni che non potranno mai essere dimenticati e che resteranno nella storia delle arti mondiali come fondamentali per un discorso sia artistico sia sociale.
Non era il profitto economico - come troppo spesso nei giorni nostri - a motivare questa schiera di “strani figuri”, dai vestiti appariscenti e dalle lunghe chio-
me che avevano deciso di vivere un’utopia e di sposare uno stile di vita che rompesse stereotipi stretti e castranti per una generazione che aveva deciso di alzare la testa.
Winds of change
In gran parte negli Stati Uniti e nella giovane Inghilterra abbiamo avuto la possibilità di vedere come questi cambiamenti abbiano influito sull’evoluzione della musica, mezzo principale di comunicazione per una sempre più
Antonio Boschi
folta schiera di ragazzi che volevano aggiustare un mondo che pareva votato a tornare ad essere bellicoso.
E se nel Sud degli States Elvis Presley e soci hanno avuto la bravura di fondere i suoni delle tradizioni bianche e nere decretando la nascita del rock’n’roll, soprattutto in California questa forma di collage sonoro ci ha regalato attimi di pura arte, dove la follia, la curiosità ed il coraggio di osare sono la base portante di momenti di musica fenomenale, fortunatamente molto spesso incisa su nastro con la possibilità di poterne beneficiare ancora oggi.
Era il periodo delle grandi ed estemporanee collaborazioni, dove musicisti anche di differenti estrazioni, sia sociali che culturali, amavano unire le proprie abilità ed emozioni da cui spesso scaturivano capolavori ancora celebri dopo oltre sessant’anni.
Un disco che lascerà il segno in questo senso è il doppio album intitolato “The Live Adventures of Mike Bloomfield and Al Kooper” che va assaporato inizialmente dalla sua copertina.
Un disco da incorniciare, nel vero senso della parola, e per ben due motivi: è in-
La copertina di Norman Rockwell
Norman Rockwell (1894-1978) è un mago dell’illustrazione, capace con le sue opere definite di “realismo romantico” di entrare nelle case di tutti gli americani - soprattutto grazie alle celebri copertine del magazine The Saturday Evening Post (oltre 300 tra il 1916 e il 1963) - come un romantico cronista dal tratto popolare, fanciullesco, quasi da cartone animato e capace, al contempo, di tranquillizzare e istruire un popolo intero e descrivendo alla perfezione l’americano tipo.
Certamente non lo possiamo considerare, a differenza di tanti altri, un artista legato alla musica e in questa quasi inusuale - per lui - operazione ha
saputo cogliere in pieno il carattere dei due protagonisti, con un Al Kooper in un primo piano quasi altezzoso e Bloomfield alle sue spalle che denota la timidezza e le paure di apparire, tipiche e tallone d’Achille del grande chitarrista di Chicago.
In questo doppio ritratto Rockwell ha voluto sfidare il pubblico, ben conscio che alla gente non piace guardare due cose nello stesso tempo, impostando il dipinto in maniera tale che lo sguardo dello spettatore debba per forza saltare da un particolare all’altro, costruendo il tutto in una composizione racchiudibile in un cerchio dove il nero dei capelli e della maglia di Kooper
sono un tutt’uno per dar maggior risalto al volto di Bloomfield che arriva in primo piano.
dubbiamente uno dei più bei live della storia e la copertina è un capolavoro (uno dei tanti) di quel genio dell’illustrazione che era Norman Rockwell capace, più di chiunque, di rappresentare l’America.
Una grande alchimia
“The Live Adventures of Mike Bloomfield and Al Kooper” (1969 - Columbia Records KGP-6) è un doppio LP (poi anche doppio CD, rimasterizzato nel 1997 senza alcuna aggiunta) che ci presenta il meglio di tre fantastiche esibizioni alle quali il pubblico di San Francisco ha potuto assistere nelle serate del 26, 27 e 28 settembre del 1968. Se penso a cosa possono aver assistito gli abitanti della città californiana in quegli anni mi viene la pelle d’oca. Mike Bloomfield e Al Kooper si erano conosciuti 3 anni prima quando si trovarono a creare, sotto la guida di Bob Dylan, il disco più importante della storia, quel “Highway 61 Revisited” che sanciva - oltre al passaggio di Dylan all’elettrico - la maturità raggiunta dal rock. Un disco dove i due nuovi amici lasciarono il segno, Al Kooper (NYC 1944) col suo organo Hammond e Mike Bloomfield (Chicago 19431981) con la sua magica chitarra (Gibson, quasi sempre, o Fender che fosse), aprendosi la meritata strada verso il successo, consacrato col bellissimo “Super
Session” (1968) che vedeva protagonista anche Stephen Stills chiamato proprio a sostituire il chitarrista chicagoano bloccato da problemi alla schiena. Questo doppio album live rispecchia fedelmente lo spirito di far musica di quegli anni, dove la sperimentazione e la fusione di diversi generi - in questo caso blues, rock, jazz, e psichedelia - era alla base di tanti progetti discografici e live. Lo scorrere della puntina lungo le 15 tracce di questi due LP ci regala emozioni di una intensità che si farà fatica a ritrovare in album anche molto più blasonati e, certamente, il merito è in grande misura di Bloomfield, uno dei chitarristi forse più dimenticati in quelle inutili classifiche che ogni tanto appaiono sulle riviste di musica, ma che poi un po’ tutti guardiamo. Non tanto la tecnica ma, soprattutto, il gusto del chitarrista nato nella Windy City ci dovrebbero far capire come il vero cuore nella musica popolare è e deve rimanere l’anima, che traspare ed emerge in ogni brano.
Un’epoca dorata
È stato quello un periodo irripetibile per la storia della musica moderna ed ascoltando le 14 tracce di questo doppio vinile possiamo notare come, a distanza di oltre mezzo secolo, il suono sia an-
cora attuale ed intrigante. Canzoni ancora oggi immortali come “59th Street Bridge Song” di Paul Simon, il capolavoro “The Weight” di The Band, “Dear Mr. Fantasy” dei Traffic oppure “Green Onions” di Booker T and Mg’s assieme a meravigliosi blues come “I Wonder Who” e “Mary Ann” di Ray Charles o “Don’t Throw Your Love On Me So Strong” di Albert King in una esplosione di suoni e di gusto musicale. A supportare questo duo troviamo al basso John Kahn (che accompagnerà quasi sempre Jerry Garcia nei suoi progetti extra Dead) e il batterista Skip Prokop ai quali si aggiungeranno, due nuovi volti che poi diverranno celebri quali Elvin Bishop e Carlos Santana, quest’ultimo alla sua prima apparizione su disco.
Purtroppo, la carriera di Bloomfield verrà pesantemente segnata da problemi fisici confluiti nell’abuso di alcol e droghe che lo portarono ad una prematura morte, mentre Kooper ha visto la propria carriera ricca di soddisfazioni anche nel ruolo di produttore e scopritore di nuovi talenti come, ad esempio, i Lynyrd Skynyrd. Eccoci, quindi, davanti ad un meraviglioso esempio di come saper osare a mescolare elementi possa portare ad inaspettati capolavori, a nuove mirabolanti avventure musicali, perfette colonne sonore per le nostre giornate che se coronate con una squisita birra artigianale possono diventare splendide ed indimenticabili.
Segnatevi questo album e prosit. ★
L’EVOLUZIONE DEGLI AROMI del luppolo durante la birrificazione
Rassegna di articoli a cura degli studenti del corso di Laurea ad orientamento professionale in “Qualità e approvvigionamento di materie prime per l’agro-alimentare” (QuAM) dell’Università degli Studi di Parma.
Il luppolo (Humulus lupulus L.) appartiene alla famiglia delle Cannabaceae: è una pianta perenne rampicante e lianosa alta fino a 12 metri, con un fusto dotato di peli rigidi e ricurvi capace di avvinghiarsi ad altri vegetali o sostegni. Le foglie hanno una forma palmato-lom-
bata, seghettate con peli setolosi, i fiori maschili sono bianco-verdognoli disposti in pannocchie mentre quelli femminili sono formati da amenti penduli che contengono ghiandole giallastre per la produzione di una sostanza resinosaaromatica (la luppolina). Per amaricare la birra si usano le infiorescenze femminili. Il luppolo nei processi di birrificazione viene solitamente utilizzato dopo essere stato essiccato, in modo tale da preservarne le caratteristiche più a lungo, ma può anche essere utilizzato fresco o sotto forma di estratti concentrati di composti amaricanti o aromatici. La normale aggiunta del luppolo durante la
produzione della birra avviene qualche istante prima della bollitura, ma l’aroma può essere intensificato con l’aggiunta di ulteriore luppolo dopo la bollitura (“late hopping”) oppure durante la maturazione del mosto (“dry hopping”).
Le molecole del luppolo
Gli oli essenziali costituiscono una parte di fondamentale interesse nel luppolo e la loro biosintesi e accumulo avviene nelle ghiandole lupuliniche. Sono stati identificati più di 400 componenti dell’aroma del luppolo, i quali possono essere suddivisi in due classi principali, gli idrocarburi (40–80% in peso dell’olio essenziale di luppolo totale, con monoterpeni e sesquiterpeni) e i composti ossigenati. Il mircene è il monoterpene più comune, presente in tutte le varietà di luppolo e rappresenta dal 10 al 72% dell’olio essenziale totale. I sesquiterpeni più abbondanti invece sono l’αumulene (15–42% dell’olio essenziale) e il β-cariofillene (2,8–18,2% dell’olio essenziale). Grazie ai composti aromatici presenti all’interno dell’infiorescenza, si possono quindi caratterizzare più o meno marcatamente le birre con sentori di luppolo. Tra i composti ossigenati, di primaria importanza per il grande contributo gustativo che può dare alla birra, c’è il linalolo, contenuto nell’olio essenziale di luppolo in quantità fino all’1,1% in peso. Il mircene e il linalolo sono considerati i composti volatili che
di Andrea Dagoni
più contribuiscono all’aroma dei luppoli. Il mircene solitamente partecipa in minima parte a caratterizzare l’aroma delle birre; infatti, è molto volatile e tende ad evaporare durante la bollitura del mosto. Esistono moltissime varietà di luppolo che differiscono tra loro per il loro aroma e per la loro capacità amaricante. In base al loro contenuto in α e β- acidi, cioè le molecole amaricanti del luppolo, questi possono essere commercialmente classificati in luppoli da amaro, caratterizzati da alte concentrazioni di α-acidi, luppoli da aroma, con poco potere amaricante, ma dotati di buone caratteristiche aromatiche, e luppoli a duplice attitudine, che possono essere cioè utilizzati, sia per amaricare, sia per impartire aromi particolari alla birra. Ai giorni nostri, questa separazione è sempre meno netta, soprattutto nelle produzioni di birre artigianali. Infatti, i birrai tendono a sperimentare e, sempre più e spesso, i luppoli con spiccate caratteristiche amaricanti vengono sfruttati anche come aromatizzanti in modo da sfruttarne alcune componenti del loro bouquet.
Ogni luppolo dà il suo contributo alla birra
La componente aromatica del luppolo, è una componente fondamentale, ed è stata spesso studiata per capirne il comportamento all’interno del prodotto birra. È stato ad esempio studiato l’effetto di luppoli di varietà Saazer, Hersbrucker, quindi luppoli europei aromatici, dotati di basso potere amaricante, e Cascade, luppolo americano famoso per le sue note agrumate particolari, all’interno della birra. Queste varietà di luppolo sono state utilizzate prima del processo fermentativo in modo tale da permettere al luppolo di reagire anche con i lieviti in fermentazione. Le birre ottenute sono state analizzate utilizzando gas cromatografia accoppiata ad olfattometria. Questa strumentazione è particolare in quanto permette di analizzare il luppolo prima attraverso
il gascromatografo, che ha il compito di separare le singole molecole e identificarle; successivamente le molecole vengono “soffiate” all’esterno facendole percepire al naso dell’operatore, che opportunamente allenato, sarà in grado di contraddistinguere e descrivere i sentori separati dallo strumento. Questa tecnica, molto particolare, permette quindi di identificare il contributo aromatico di ogni molecola presente. Il confronto tra birre non luppolate e luppolate ha rivelato che 27 componenti sono aromi derivati dal luppolo nella birra. La maggior parte di queste sostanze derivate dal luppolo erano comuni a tutte e tre le birre testate ma si differenziavano per la maggiore o minore presenza. Alcune molecole, si sono ritrovate nella birra in maggiori quantità rispetto alla materia prima, facendo supporre biotrasformazioni ad opera del metabolismo dei lieviti durante la fermentazione; la certezza che queste molecole provenissero dal luppolo è dato dal fatto che queste non venivano rilevate nella birra non luppolata.
Quali sono questi sentori?
Sentore erbaceo: grazie alla parte di olfattometria, sono stati identificati aromi erbacei dovuti alle molecole di esanale nelle sue isoforme (molecola caratteristica proprio dell’odore di erba tagliata), nonadienale, esen-1-olo, 1,5-ottadiene -3-one e per una componente volatile non identificata. La nota erbacea più elevata è stata identificata nella birra luppolata con il luppolo di varietà Hersbrucker.
Sentore fruttato: gli aromi intensi fruttati sono stati legati alla presenza di 4-mercapto-4-metil-pentan-2-one e una molecola non identificata. La birra luppolata con Cascade aveva un maggiore contributo di questi aromi.
Sentore speziato: gli aromi speziati derivano prettamente dal contributo dei sesquiterpenoidi. Il luppolo Hersbrucker ha prodotto le birre con la componente speziata più pronunciata.
Sentore floreale: è stato dimostrato che il linalolo, geraniolo e β-ionone, contribuiscono alla nota floreale. Oltre a questi tre terpenoidi, anche il 2-feniletil 3-metilbutanoato è stato associato alle caratteristiche floreali: quest’ultimo probabilmente deriva da processi fermentativi. Il punteggio sensoriale per gli attributi floreali era più alto per la birra ottenuta con luppolo Saazer, seguito da Hersbrucker e poi Cascade.
Sentori agrumati: linalolo, etil 3-metilbutanoato, etil 2-metilbutanoato, etil 2-metilpropanoato, etil 4-metilpentanoato, 3-mercapto-esan-1-olo, sono stati identificati come componenti aromatiche agrumate. La birra ottenuta con Cascade secondo la stima organolettica era superiore a quello delle altre birre.
Esiste quindi un luppolo migliore?
Non esiste una risposta giusta e una sbagliata. Ogni stile e ogni birraio ha le sue preferenze ed esigenze, e ogni tecnica di utilizzo del luppolo in birrificazione permette di ottenere risultati diversi, come anche ogni parametro fermentativo può modificare completamente il prodotto e il bouquet aromatico della birra a parità di tutte le altre condizioni. Certamente però la conoscenza delle materie prime e la conoscenza tecnologica e chimica del processo di birrificazione è fondamentale per ottenere un buon risultato (o almeno il risultato atteso). ★
HANNO SCRITTO PER NOI
Antonio Boschi
Grafico di professione e grande appassionato di musica e di arte. Titolare dell’agenzia WIT Grafica & Comunicazione, ho all’attivo l’ideazione e l’organizzazione di alcuni festival, tra cui il Rootsway premiato nel 2009 come migliore a livello europeo. Redattore della rivista Il Blues, da anni collaboro con Visit USA Italy oltre ad essere uno dei soci fondatori della società A-Z Blues. Autore del libro “Blues Pills e altre storie”.
Norberto Capriata
Scienziato, filosofo, artista, pornografo, viaggiatore del tempo, mi divido tra la florida attività di arrotino-ombrellaio e la passione per la birra artigianale. Ho collaborato con le principali riviste del settore, a loro insaputa, e insegnato in vari corsi di cultura birraria, che nessuno ricorda. Conosco perfettamente la differenza tra Porter e Stout, ma non la rivelerò mai.
Anna Cataldo
Dottoressa magistrale in Imprenditorialità e Qualità per il Sistema Agroalimentare e docente di chimica analitica e strumentale presso gli istituti superiori. Homebrewer e appassionata di birre altamente luppolate.
Massimo Faraggi
Pioniere dell’homebrewing in Italia e docente di birra fatta in casa, sono stato co-fondatore di MoBI e curatore della rivista dell’associazione. Sono autore di articoli e libri di tecnica e cultura birraria.
Luca Grandi
Ho fondato il brand Birra Nostra nel 2007 e il il web magazine Birra Nostra Magazine nel 2013; nel frattempo ho ideato ed organizzato TEDx e fiere per i più importanti enti Fiera italiani e dal 2016 sono consulente per Fiere Parma e CIBUS. Scrivo per Slow Food, CiBi Magazine, Foodies e Mark You; coautore de “La via della birra - un Grand Tour attraverso l’Italia dei birrifici artigianali” ed autore di Guide per viaggiatori.
Matteo Malacaria
Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci. it e del libro “Viaggio al centro della birra”. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birrogastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.
Michele Matraxia
Docente di Scienze Agrarie, Dottore di Ricerca in Microbiologia Agroalimentare e homebrewer. Mi occupo di selezione e screening tecnologico su lieviti non-convenzionali per le produzioni di birre e idromeli. Ho da poco discusso la mia tesi di dottorato dal titolo “Innovazioni biotecnologiche nei processi fermentativi delle birre e di bevande fermentate a base di miele”
Roberto Muzi
Formatore, sommelier, assaggiatore ONAF e consulente di settore. Laureato in Scienze Politiche, sono stato responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore dal 2014 al 2021 e giurato in diversi concorsi birrari nazionali.
Eleni Pisano
Scrivo, fotografo, insegno e racconto di cibo. Esperta di turismo esperienziale in ambito brassicolo, beerchef, food stylist e beernauta in cerca di eccellenze in ambito brassicolo. Ho lavorato per grandi marchi del mondo birrario italiano e poi mi sono avvicinata al mondo brassicolo artigianale. Lavoro come consulente e beerchef in diversi locali tra Milano e Monza. Collaborazione su beer pairing.
Antonio Boschi
Norberto Capriata
Luca Grandi
Matteo Malacaria
Anna Cataldo
Massimo Faraggi
Michele Matraxia
Roberto Muzi
Eleni Pisano
Passione familiare
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Tipo di campione: Mosto
Mosto in fermentazione Birra finita
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Alcol, SG, densità, pH, RDF, estratti (grado P°) e calorie
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