NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO
NON SOLO BIRRA
PRENDI LA VITA CON SPIRITS
di Alessandra Agrestini
MATERIE PRIME
LE NUOVE FRONTIERE DEL LUPPOLO
di Luca Pretti
FACCE E RACCONTI DI BIRRA
BIRRIFICIO ALVERIA: GABRIELE SIRACUSA
di Eleni Pisano
FOCUS
I docenti di QuAM – Birra nello spazio: realtà o fantascienza?
di Margherita Rodolfi e Tommaso Ganino
Le nostre soluzioni per le fermentazioni
PER BIRRE SOUR
PER BIRRE CON FRUMENTO
PER BIRRE NEI PA
PER BIRRE A BASSO CONTENUTO ALCOLICO
PER BIRRE LAGER
PARTNER PREFERITO
Le sfide del presente e le opportunità DEL FUTURO
Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto
Questo numero di fine anno raccoglie articoli che, seppure in maniera diversa, analizzano il presente per guardare al futuro; del resto la birra da secoli è protagonista delle tavole e delle culture di tutto il mondo e oggi si trova ad un crocevia e tra tradizione e innovazione. I fermenti del settore brassicolo, spinti anche da nuove esigenze di mercato e da una crescente consapevolezza ambientale, stanno ridisegnando il panorama di una delle bevande più amate e diffuse; un viaggio, non privo di ostacoli, attende la nostra bevanda preferita soprattutto in Italia dove il potenziale della produzione locale di luppolo e birra è ancora in gran parte inespresso ma paradossalmente convive con lo slancio creativo di esperti mastri birrai che cercano nuove strade da esplorare. Così Alessandra Agrestini racconta la sfida di Agostino Arioli che ha deciso di fondare una distilleria mentre Eleni Pisano racconta l’avventura siciliana di un birrificio artigianale che nella tradizione e nel territorio ha messo le sue radici. Di una sorta di Rinascimento del luppolo, degli studi e della ricerca ad esso collegati ci racconta invece Luca Pretti mentre Domenico Giuseppe Spanò torna alle origini con una ricerca sul Gruit, antico sostituto del luppolo. I ragazzi di QuAM in questo numero hanno
passato la parola ai loro docenti e così Tommaso Ganino e Margherita Rodolfi riflettono sulla birra… nello spazio e più futuro di così non è possibile!
Tocca a Roberto Muzi portarci a terra, per la precisione a Roma, con i suoi gustosissimi abbinamenti che questa volta arrivano da un locale sulla carta specializzato in caffè ma che nella realtà offre piatti e birre che fanno esplodere le papille! Luca Grandi e Antonio Boschi ci fanno viaggiare: il primo ci presenta uno degli itinerari presenti nella guida Turismo birrario. Guida per viaggiatori in fermento nella zona dei colli Berici mentre il secondo ci porta nel West Coast con un trittico di musicisti (Crosby, Stills, Nash & Young) che ha fatto sognare un’intera generazione.
A chiusura di tutto vi invito a leggere l’importante contributo di Matteo Malacaria che, come noi di Birra Nostra Magazine sappiamo, afferma che “C’è chi fa storytelling e chi mente” e sulla buona capacità di raccontare e narrare sicuramente torneremo a parlare nei prossimi numeri perché l’ottima riuscita di BeerForum ci ha dato un’idea che troverete concretizzata nei prossimi numeri. Come vedete anche noi costruiamo il futuro raccogliendo le sfide del presente!
Buona lettura e buona bevuta!
MIRKA TOLINI
Birra Nostra
EDITORIALE
Birra Nostra Magazine - Bimestrale
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Verona in data 22 novembre 2013 al n. 2001 del Registro della Stampa
di Domenico Giuseppe Spanò I DOCENTI DI QUAM
La birra nello spazio: realtà o fantascienza? 32 di Margherita Rodolfi e Tommaso Ganino TURISMO BIRRARIO
di Luca Grandi
Birrificio Alveria: Gabriele Siracusa
di Eleni Pisano
La birra “antica” di Düsseldorf 50 di Davide Bertinotti
Direttore Responsabile Mirka Tolini
Comitato di Redazione Davide Bertinotti, Luca Grandi redazione@birranostra.it Hanno contribuito a questo numero Alessandra Agrestini, Davide Bertinotti, Antonio Boschi, Tommaso Ganino, Luca Grandi, Matteo Malacaria, Roberto Muzi, Eleni Pisano, Luca Pretti, Margherita Rodolfi, Domenico Giuseppe Spanò, Mirka Tolini
Quine Srl
Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 12191
Quine srl, Via G. Spadolini, 7 20141 Milano – Italy Tel. +39 02 88184.117 www.quine.it
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Ci sono delle persone che non smettono mai di cercare, che non si fermano a contemplare i risultati raggiunti; al contrario, sono sempre in cammino verso nuove destinazioni. In continua esplorazione, verso nuovi mondi e nuove scoperte. Agostino Arioli appartiene, a mio parere, a questa tipologia di “camminatori”: nonostante i risultati ottenuti in campo birrario e nonostante lo si senta spesso dichiarare di voler andare in pensione per dedicarsi
al relax ed alla pesca, Agostino mostra un entusiasmo giovanile ed una voglia continua di mettersi in gioco quando parla dell’ennesimo progetto rilasciato da quell’officina alchemica chiamata Birrificio Italiano. E no, non si tratta di una birra, ma di ben sette etichette tra liquori e distillati.
C’è da dire che i numeri del mercato dei superalcolici parlano chiaro: la crescita è costante negli ultimi cinque anni, e in particolare il comparto artigianale sta
vivendo un momento di grande popolarità. Su tutti il gin è la bevanda spiritosa che intercetta le preferenze anche dei consumatori più giovani, in virtù di un’immagine fresca e fantasiosa che trova ampio spazio d’utilizzo in mixology. Uno sguardo al mercato americano, inoltre, fa comprendere come questo fenomeno di diversificazione del prodotto sia una realtà che ben si coniuga con l’attività brassicola: già nel 2018 erano oltre 250 i birrifici craft statunitensi che avevano abbracciato anche il mondo della distillazione, fino ad arrivare alle 450 licenze del 2023, secondo i dati della Brewers Association. Il mercato brassicolo è in contrazione anche nella terra a stelle e strisce e il mondo dei superalcolici presenta connessioni e affinità che lo rendono un’interessante opportunità di differenziazione anche per il mercato nostrano.
Per il lancio ufficiale di Birrificio Italiano Spirits e per raccontare un percorso che ha già qualche anno di lavoro alle spalle, con un approccio fatto di studio, di tecnica e di approfondimento maniacale di ogni singolo passaggio, Agostino ha organizzato una presentazione presso Birrificio Italiano Milano, il pub che si trova nei pressi della Stazione Centrale; un evento organizzato in collaborazione con l’agenzia di comunicazione Mirtaxelle di Milano.
Sperimentare con gusto
Per raccontare gli esordi del progetto, però, è necessario riavvolgere il nastro fino al 2019: in quell’anno nasce Strada
Ferrata, una distilleria fondata assieme ad alcuni soci a Seregno, comune brianzolo alle porte di Monza. Dopo una collaborazione durata qualche anno, però, nel 2023 le strade si dividono ed Agostino esce dalla società. Il mondo del whisky e dei distillati continua ad esercitare un grande fascino e, nonostante la scottatura data da una fuoriuscita un po’ rabbiosa, la scintilla rimane accesa. A distanza di pochi giorni, infatti, il cammino riprende con un comunicato che sancisce la nascita dello spin off del marchio Birrificio Italiano dedicato alle
distillazioni artigianali. Abbandonato il mondo del whisky che porta con sé importanti investimenti produttivi che non rientrano nei piani aziendali, il progetto presenta un approccio innovativo alla distillazione, declinando la lunga esperienza brassicola nella sperimentazione ed in un’accorta selezione di cereali, lieviti ed altri ingredienti speciali. Il processo produttivo, esternalizzato presso distillerie di fiducia, resta comunque sotto il completo controllo di Agostino che sviluppa in toto le ricette e ne gestisce anche gli eventuali aggiustamenti in corso d’opera. Senza gli investimenti di un impianto di distillazione, ma con una chiara visione in mente ed un controllo completo del processo. Attenzione al gusto e all’equilibrio coniugate alla libertà di sperimentare, senza dogmi, stili o preconcetti; la stessa filosofia che delinea le produzioni birrarie del Birrificio Italiano risalta anche dal lato “spirits” ed emerge anche nelle parole della presentazione: libero spazio alla fantasia, tra blend, invecchiamenti ed ingredienti speciali,
con grande attenzione alla tecnica e ad ogni fase del processo creativo.
Contaminazioni accattivanti
Come nel caso di Marasso, il digestivo con il morso, come recita il claim. Nato nel periodo Strada Ferrata, Marasso, che presenta la sagoma di un serpente in etichetta, ha proseguito il suo percorso anche nel nuovo progetto targato Birrificio Italiano, con Agostino che seleziona personalmente il mix delle botaniche ed effettua le prove di infusione. Sedici botaniche, tra cui pepe rosa, dragoncello e finocchietto, 30% vol. il titolo alcolometrico, pochissimo zucchero, per un interessantissimo amaro che può già vantare premi internazionali e che è da poco approdato anche negli Stati Uniti.
L’altro prodotto che deriva dagli esordi brianzoli, dove faceva parte della linea New Make, è Capparis, un’infusione alcolica di capperi di Pantelleria che si presenta come “aperitivo mediterraneo”, da provare nella versione liscia, con ghiaccio oppure miscelata. Nato
con una gradazione maggiore, nell’uscita attuale è più snello, pur mantenendo una piacevole complessità data dai capperi e dalle quattro botaniche aggiunte: assenzio, pepe rosa, scorza d’arancia e
quassia amara. Prodotto dalla distilleria Eugin di Meda (MB), come anche gli altri prodotti,tranne Marasso che nasce presso la distilleria Deta di Barberino Tavarnelle, vicino a Firenze.
L’ultimo prodotto della linea base è Drytto, London Dry Gin che oltre ad angelica, coriandolo e ginepro gioca con il combava, agrume del Madagascar chiamato anche kaffir lime, e con il pepe nero. Un prodotto pensato per la miscelazione ma che rivela un carattere versatile e ben definito.
Completa la gamma la linea Albedo, un distillato di birra o bierbrand, una tradizione poco conosciuta in Italia che rimanda ad atmosfere di stampo nordeuropeo. Attualmente sono disponibili il prodotto base, imbottigliato nel 2019 e tre versioni a tiratura limitata e one-shot che hanno subito un affinamento di almeno cinque anni in tonneau che in precedenza avevano ospitato Moscato Giallo altoatesino. Da qui derivano Albedo Moscato Giallo e, grazie a due successivi e diversi finishing, Albedo Rhum Martinica che guarda ai rhum agricoli e Albedo Peated Whisky, dove l’ulteriore passaggio in botti di whisky ex-Kilchoman regala eleganti note torbate ed esalta la profondità della bevuta. La sorpresa della serata sono stati i miscelati elaborati in tempo reale da Marco Pirovano, bartender, che ha studiato delle proposte semplici per i cocktail, tali da essere facilmente replicabili, ma al tempo stesso accattivanti. Come Bitter Sweet Simphony, in cui Amaro Marasso e Gin Drytto si incontrano con ghiaccio, sciroppo d’agave e succo di lime, con una fettina di lime essiccato per chiudere la preparazione. La distribuzione di questi prodotti resterà - per scelta - nei canali classici tradizionali, legati al mondo birra. L’idea è - volutamente - quella di offrire al comparto brassicolo dei prodotti che amplino e completino l’offerta dei locali gestiti dai publican, in risposta ad un mercato in evoluzione e sempre più vocato alle contaminazioni. Un progetto chiaro e definito, con un packaging essenziale ma accattivante e la firma produttiva di Agostino Arioli: gli ingredienti per incuriosire il consumatore (e i publican) ci sono tutti. ★
C’è chi fa storytelling E CHI MENTE
Ecco qual è la storia della birra che tutti vorremmo ascoltare
Sono trascorsi dodici anni (così tanti?) da quando ho iniziato a occuparmi di birra ed è da dodici anni che sono tormentato, per non dire annoiato, da due classici ricorrenti: il primo è
il consolidato matrimonio “tradizione e innovazione”, il secondo è la ricorrente “passione” di cui ormai tutti i birrifici sono permeati. Spostando l’attenzione dal mondo birra all’intero mercato ali-
mentare, invece, il tema più ricorrente, a uso e abuso degli operatori di settore, è quello dello storytelling, che alcuni non sanno neppure cosa significhi. Però millantano di farlo lo stesso, così, perché fa
figo. Oggi prendo questi tre punti della galassia birraria, così vicini eppure così lontani tra loro, e provo a unirli dando loro un senso al disegno finale. Partendo da una tesi: c’è ancora bisogno di raccontare la birra - sottinteso: della birra si è già detto tutto e ormai c’è poco da raccontare - ed eventualmente qual è il modo giusto di raccontarla?
La birra è una bella storia
La sfida è appunto, nonostante gli anni sul groppone, fare della birra una storia giovane, fresca e originale, in grado di sorprendere e divertire, sorso dopo sorso. Anche dopo esserci abituati a essa, sia come concetto che come prodotto. E gli uomini del marketing sanno bene che l’abitudine è pericolosa, nel senso che fa rima con noiosa. E la noia porterebbe a un tracollo delle vendite, con uno spostamento di massa verso alternative più moderne e divertenti. Insomma, limitandosi a osservarla dall’esterno si potrebbe pensare che la birra sia vecchia e che non interessi più a nessuno, e nel caso ci fosse dell’interesse residuo non sia più possibile, ormai, raccontare qualcosa di nuovo e interessante. Sbagliato. L’interesse c’è eccome. La birra è una storia bella, bellissima, e il mondo è pieno di persone che vorrebbero ascoltarne la storia. Lo dimostra il fatto che Ichnusa non filtrata, Angelo Poretti ai vari luppoli, Raffo Lavorazione Grezza, tanto per citarne alcune, sono riuscite nell’intento di innescare una conversazione nuova con il pubblico. Una conversazione fatta di ingredienti e di processo produttivo, argomenti ancora
nuovi per la maggior parte dei consumatori. Uno degli errori più comuni della narrazione artigianale è che a furia di frequentare i soliti ambienti e le solite persone ci si convince che il mondo sia tutto uguale, che la nicchia corrisponda alla massa. La verità è che la birra è un concetto ben diffuso e consolidato, ma tutto ciò che riguarda gli ingredienti, il processo produttivo, gli stili e le loro caratteristiche sono perfetti sconosciuti. Salvo poche eccezioni, che non fanno testo, la conversazione sulla birra è ferma a livelli basici, da principianti. La stessa cosa vale per il caffè, il cioccolato o chicchessia. È vero che sono prodotti ormai scontati, tuttavia quasi nessuno ne conosce i retroscena e soprattutto c’è sempre un ricambio generazionale da considerare, ovvero c’è sempre un nuovo pubblico da “educare”. La birra è quindi un tema immortale, che trova e troverà sempre un interesse, ed è questa la grande opportunità della comunicazione. Si può quindi fare molto per coinvolgere un’ampia fetta di pubblico, che ha tutto l’interesse ad ascoltare una storia nuova e coinvolgente. In quanto alla presunta assenza di novità dell’argomento basta osservare la mole di serie televisive e film che vengono prodotti ogni anno, ma anche di nuovi libri e fumetti che vengono pubblicati, perfino podcast e canzoni che vengono registrati. Una realtà ci si mostra in maniera limpida e cristallina, inconfutabile: passano gli anni ma le storie non smettono di esistere, se sono sufficientemente belle per starle ad ascoltare. Perché sentire (e raccontare) storie è un bisogno atavico, fa parte del
nostro DNA. Al più cambia il modo di raccontarle, utilizzando mezzi al passo coi tempi e utilizzando un linguaggio comprensibile al pubblico destinatario. Insomma, la birra è ancora una storia che vale la pena raccontare. Il che rimanda al primo aspetto della narrazione di oggi: ogni storia, prima di avere un inizio e una fine, ha un narratore e un pubblico. Il pubblico (target) è esogeno, appartiene al contesto, può essere influenzato, tuttavia la propria facoltà di azione è limitata. È un fattore da considerare come qualcosa con cui convivere, a meno di essere disposti a trasferire il proprio business altrove. Ma se il pubblico è esogeno, il narratore è endogeno, ovvero è interno all’organizzazione. OK, magari non sempre è interno, nel caso in cui l’agenzia di marketing non faccia parte dell’impresa in senso stretto, ma certamente è vicino alla realtà imprenditoriale e quest’ultima ha su di esso un diretto controllo. In chiave narrativa significa che l’impresa può scegliere tutto: chi, cosa, come, dove, quando e persino perché. Farsi queste domande e darsi delle risposte significa avere un’idea chiara del contenuto da realizzare e del pubblico destinatario a cui indirizzarlo. È impossibile stabilire se venga prima il contenuto oppure il target, sarebbe come risolvere l’eterno dilemma dell’uovo e della gallina. C’è una tale intimità tra le parti, un rapporto di dare e avere così simbiotico da risultare fluido, che porta a realizzare sia contenuti ad hoc per il pubblico esogeno, sia contenuti nuovi per raggiungere un pubblico potenziale completamente nuovo. Comunque
vada in entrambi i casi il contenuto è concepito, creato e promosso in funzione dei propri destinatari.
Lo storytelling, per chi ancora non lo conoscesse, è quel simpatico signore che si è recentemente fatto conoscere e apprezzare come uno strumento potente nel settore birrario, dove la narrazione della birra è tanto importante quanto il gusto della birra stessa. È uno strumento che va oltre la semplice pubblicità; si tratta di creare una narrazione in linea con i valori, le esperienze e le aspirazioni del pubblico. Condividendo il viaggio della birra, dal concepimento al consumo, i birrifici possono coinvolgere i consumatori a un livello più profondo, trasformandoli in fedeli sostenitori del marchio, o perlomeno quello sarebbe l’ideale. Peccato che lo storytelling, per l’appunto, sia uno strumento, una tecnica diciamo, attraverso cui portare l’unicità al consumatore. Ma lo storytelling NON rappresenta l’unicità né tantomeno è di per sé un elemento di differenziazione, visto che è alla portata di tutti. Molti, troppi, hanno confuso il mezzo con il fine, e sono davvero convinti di fare storytelling, ma la verità è che stanno semplicemente imitando, in maniera anche piuttosto raffazzonata, quello che altri hanno fatto prima di loro.
Raccontare per distinguersi
E allora come comunicare la propria unicità? Di certo non parlando di tradizione e innovazione, visto che tutti fanno tradizione (produrre una bevanda millenaria, impiegare ricette antiche, resuscitare stili scomparsi, ricorrere a tecniche produttive d’una volta) e innovazione (utilizzare nuovi ingredienti, interpretare stili tradizionali in chiave moderna, ricorrere a nuove tecniche e strumenti, farsi aiutare dalla tecnica e dalla scienza). Dov’è l’unicità in tutto ciò? Semplicemente non c’è.
La storia potrebbe concentrarsi sull’ispirazione dietro una particolare birra, visto che ogni birra ha la sua genesi. Si
può parlare delle sfide affrontate durante la sua creazione, del ricorso a metodi sperimentali e non convenzionali, oppure della selezione di ingredienti unici e distintivi, della ricerca di materie prime esotiche con cui dare un apporto diverso e al contempo affascinare il
pubblico. Un tema ricorrente è la collaborazione con gli attori locali, spesso attraverso l’impiego di materie prime fresche, che oltre a dare un senso specifico al prodotto finale rafforzano il legame con la comunità locale - un messaggio importante sia per i membri della co-
munità stessa sia per gli estranei, che nel loro viaggio cercano di portarsi a casa esperienze autentiche del territorio che stanno visitando, anche se queste passano attraverso il bicchiere. Per il consumatore il racconto potrebbe ruotare attorno all’esperienza di gustare la
birra, magari in un ambiente particolare o durante un evento memorabile. I locali birrari, merce sempre più rara, sono come templi in cui si porta avanti il rito del servizio e del consumo, e sono fattori sempre più determinanti nella scelta tra una birra e un’altra. I rivenditori po-
trebbero enfatizzare la cura dei dettagli e gli accorgimenti tecnici per preservare il prodotto, l’espressività grafica delle etichette oppure le caratteristiche sensoriali che rendono quelle birre idonee all’abbinamento col cibo.
Insomma, lungo la filiera della birra le cose da raccontare sono tante e poco importa che tutti abbiano qualcosa da dire, magari anche le stesse cose. Ciascuno si sta rivolgendo alla propria nicchia e anche nella massa c’è molto da poter raccontare. La cosa più importante è farlo sempre in chiave distintiva. Ancora una volta lo storytelling è un modo, non è IL modo. E la birra è solo una parte della narrazione, composta anche da persone ed esperienze. Solo attraverso un approccio olistico alla narrazione si può trasformare la birra in un brand ad alto tasso di coinvolgimento.
Santa passione
L’altro pilastro della comunicazione birraria moderna è la passione. È il motore propulsivo, l’energia vitale che smuove gli animi e fa venire la pelle d’oca quando ci troviamo al suo cospetto. Il che è un ottimo assist per fare comunicazione d’impresa, perché si aggiunge un elemento di valore a un mondo fatto di freddi numeri e di razionale business. “Quello lì c’ha la passione dentro”. “Quell’altro arde di passione”. Siamo naturalmente propensi ad apprezzare le persone che dimostrano passione, perché si vede che credono in quello che fanno e ne apprezziamo la naturalezza con cui riescono ad arrivare laddove altri giungono con difficoltà e sacrificio. Di questa verità ineluttabile si è impadronito il marketing mondiale, quando ha deciso di trasferire la passione dalle persone alle imprese, che sempre di persone sono fatte, dando loro forma umana. Ma può essere veramente la passione il fulcro della comunicazione?
Fare una cosa con passione significa avere un coinvolgimento interiore che migliora l’esecuzione del proprio
lavoro. Diciamo che la passione è un facilitatore. Ma dire che il racconto di un’impresa si esaurisca nella passione significa limitarsi ad apprezzarne il suo talento naturale.
Definire la brand identity, identificare le audience principali del brand, il mercato di riferimento, i valori dell’azienda e persino il cambiamento che quel brand vorrebbe portare nel mondo. Tutto questo è necessario, ma non è sufficiente. Manca l’ultimo pezzo, l’ultimo miglio, quello forse più importante. Comunicarlo. Una buona comunicazione è necessaria per scaricare a terra tutto quello che è stato concepito ai piani alti, la cosiddetta strategia. Una buona comunicazione nel mondo birra
passa attraverso lo storytelling, purché sia uno storytelling emozionale ed emozionante. Perché le emozioni, per il loro impatto, si riversano sulla memoria a lungo termine. Sono memorabili.
Raccontare un’emozione
Va bene, dunque, raccontare delle storie, e la birra è un’ottima storia, ma come disse un vecchio saggio la gente si dimentica quello che hai detto e quello che hai fatto, ma non dimentica come li hai fatti sentire, le emozioni che hanno provato. Ma che emozione c’è nella birra?
L’emozione che si prova a produrre birra oppure a berla. QUELLA emozione, non una qualsiasi. È questa l’unicità
che vale la pena raccontare. Per riconoscerla e raccontarla occorre fare un po’ di sana meditazione, compiere un viaggio dentro se stessi per scoprire la propria essenza. Imitare la comunicazione altrui, pretendendo che bastino piccoli aggiustamenti per adattare la comunicazione al proprio brand, avrà come risultato la solita minestra riscaldata. A quel punto, a ritroso, si può fare esplodere il concetto attraverso una tecnica narrativa a effetto, lo storytelling, e dando alla storia una trama saporita come solo la birra può fare.
E adesso dimmi: quand’è stata l’ultima volta che hai ascoltato un’impresa parlare di birra e ti sei veramente emozionato? ★
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FARO, ROMA Specialty coffee ma non solo
Il caffè. Ci sono poche parole più dette e pochissime bevande più bevute; un termine che evoca, nello stesso momento, la bevanda e il luogo dove essa si consuma, attorno a cui ruotano pause di lavoro, chiacchierate, confidenze, sfoghi, scuse. Eppure, diciamocela tutta, il caffè non lo conosciamo affatto. Anzi, lo trattiamo proprio male: la stragrande maggioranza dei caffè che beviamo è frutto di agricoltura intensiva e sfruttamento indegno dei lavoratori, di tostature estreme (necessarie per mascherare i difetti) e di tazzine (a casa, al bar o agli onnipresenti distributori automatici) il cui olezzo equivale a quello di un incendio appena spento. In questo quadro fosco, è arrivata una piccola speranza rappresentata dai c.d. specialty coffee. I bar e i rivenditori che vi si dedicano - ancora pochi, ma in incoraggiante aumento - trattano il caffè con cura e professionalità, considerandone ogni aspetto (dai metodi di coltivazione al servizio al tavolo). Ecco perché, già da “semplice consumatore consapevole” quale provo a essere da anni, sono profondamente grato a Faro, che dal 2016 è stato il primo locale a Roma ad aprire pensando di mettere al centro queste tematiche. Ok, bello, ma cosa c’entra tutto questo con una rubrica sugli abbinamenti tra cibo e birra?
Al di là del fatto che ci sono diversi punti in comune tra birra e caffè (in primis, fermentazione e tostatura), da qualche tempo qui c’è anche una cucina, la cui interessantissima proposta, dolce e salata, è semplice, ma attentamente pensata e basata, come per il caffè, sulla qualità della materia prima. Insomma, un’ottima occasione per provarla e mettere qualche piatto alla prova dell’abbinamento con la birra.
Scoprire il caffè all’estero…
Ho conosciuto (e iniziato a stimare) Dario Fociani qualche anno fa, capitandogli accanto a una cena di professionisti del settore. Terminati gli studi nel 2010, decide di vedere un po’ come va
il mondo e per 6 anni lavora in ambito caffè tra Melbourne, Berlino e Londra, approfondendone gli aspetti agricoli, teorici e operativi. Così, una volta tornato intende dare concretezza a un’idea che già da qualche tempo condivide con l’amico Arturo Felicetta: aprire un bar con specialty coffee, un tipo di locale che incredibilmente a Roma non esisteva. Nel 2017 si aggrega la terza socia, Dafne Spadavecchia.
Le cose procedono bene, tra premi di settore e apprezzamenti unanimi, ma il Covid e la guerra in Ucraina scombussolano i piani. Così, i tre decidono di costruire una cucina all’interno della caffetteria, ampliandone la proposta ed elevandone le potenzialità econo-
miche, senza variare identità e filosofia: sentirsi un progetto politico, nel senso nobile del termine, consci che ogni gesto ha un effetto e che è fondamentale comunicare col pubblico, trasmettere la volontà di confronto e di far sentire tutti a proprio agio. Una consapevolezza precisa e una determinazione che sono frutto di un percorso lungo, con tante tappe di arricchimento. “Cerchiamo di lavorare con responsabilità, una parola a cui teniamo molto. Conosciamo le connessioni che esistono tra le persone e le loro storie e sappiamo che la preparazione culinaria o la realizzazione di un caffè sono la sintesi finale e l’incrocio nobile di tutto questo”. Per dare continuità e coerenza a questa
visione, il terzetto di soci nel 2021 ha anche aperto una propria torrefazione, Aliena, nel quartiere Montesacro.
Condivido totalmente questo punto di vista: perché dietro ogni ingrediente c’è uno specifico pezzo di terra, una persona con le sue mani, il suo sudore, c’è un viaggio, c’è una connessione tra chi acquista, conserva, trasforma, racconta e infine serve. Cambiare le convinzioni delle persone con la dimostrazione pratica, con l’assaggio e il confronto, trascorrendo del buon tempo; mostrare che esiste un’alternativa: questa sì che è politica, questa sì che è una grande rivoluzione culturale.
I piatti come nodi di una rete
Essendo conosciuto per il caffè di qualità, probabilmente si può pensare a un’eccellente pasticceria (e onestamente non si sbaglia). Ma anche la proposta
salata merita l’attenzione di una felice pausa pranzo. Un menù corto, costruito sulle e ispirato dalle materie prime che forniscono i contadini/artigiani con cui Faro collabora. Perché tanto è ovvio, tutto parte da lì: così, tanto per citarne qualcuno, le farine sono di Mulino Sobrino o Forno Santa Rita, le marmellate e le composte di Marco Colzani, la verdura di Poggi Agricultura, il burro di Beppe e i suoi formaggi.
Un’esplosione di aromi
Per il nostro menù abbiamo iniziato con toast fatto in casa con prosciutto cotto di Bottega Roccia (ex Pork’n roll Bottega, di cui ci siamo occupati anche in questa rubrica) e il fiordilatte de Le starze: nella sua semplicità, un morso stupendo. Non c’è nessun particolare cambiamento nella forma, ma una vera e propria rivoluzione nella sostanza: una panificazione premurosa produce una fetta in cassetta seria e ogni ingrediente sprigiona un’intensità aromatica e una personalità uniche. Avvicinan-
do il toast al naso arriva il profumo di burro e la conseguente insopprimibile voglia di addentare: gesto che produce il rumore della croccantezza e in bocca mostra umami e lieve sapidità, delicatezza ed equilibrio.
L’idea in abbinamento è di utilizzare una birra con una chiusura secca, una componente maltata e una gasatura in grado di fronteggiare la presenza butirrosa e di aggiungere all’insieme una sferzante componente fresco-aromatica. Ecco allora la Vermontoise, straordinaria saison frutto della collaborazione tra Brasserie de Blaugies e Hill Farmstead, con 6% in abv, caratterizzata dalla ricchezza aromatica (si va dal “fieno verde”, alla frutta bianca a media maturazione, alla speziatura delicata) e una personalità incredibile, che riesce a far interagire perfettamente le sue spigolosità con la rotondità del cibo.
Un piatto di sostanza
Proseguiamo con l’assaggio delle uova strapazzate con funghi e Parmigiano
Reggiano. Altra ricetta semplicissima, con il protagonismo della materia prima e di un assemblaggio accurato. Un piatto di sostanza, certamente, che ingressa rotondo e deciso, in grado di stimolare generosamente i ricettori boccali, soprattutto quelli dell’umami, ma allo stesso tempo dotato di un’incredibile capacità di auto-dissolvenza: ingerito il boccone rimangono la ricchezza aromatica del formaggio e quella boschiva dei funghi, ma anche l’originale capacità di una non eccessiva persistenza.
Per l’abbinamento, la scelta deve ricadere su una birra autorevole, rotonda, maltata e speziata. La traduzione concreta è stata la Triple XXX di Croce di malto, una birra storica e importantissima per il movimento brassicolo italiano. Dotata di un potente impatto maltato, di una certa ricchezza fruttata, di accoglienza, grande morbidezza boccale, e l’8% in abv, riesce a integrare la sua speziatura fine con le note umami. Inizialmente sembra che non ci sia nessun accordo, perché i due elementi in gioco sono così carichi da rendersi quasi indecifrabili, ma dopo qualche secondo iniziano un esaltante lavoro di reciproco bilanciamento e valorizzazione.
Si passa ai dolci
Essendo in una caffetteria con cucina, la linea principale è ovviamente dedicata alla pasticceria: infatti ora mi aspetta uno stimolante trittico. Mentre aspetto le preparazioni dolci mi guardo intorno, vedo una sala piena di indigeni e turisti, chi mangia, chi legge, chi conversa. Mi fa veramente piacere che un’attività coraggiosa, costruita da persone preparate e con una visione precisa, riesca a connettere così tante espressioni umane e a trasmettere così tanti concetti.
Dario è molto indaffarato, serve qualcuno ai tavoli, dà un’occhiata agli ordini al banco, risponde al telefono. Ma è anche curioso di venirmi a chiedere come
procede. Gli racconto qualcosa dei miei appunti e mi viene da chiedergli perché, quando hanno aperto, abbiano scelto il caffè come elemento centrale del lavoro? “Io ero un barista, avevo sempre cercato di approfondire le tematiche del servizio e del lavoro alla macchina, studiato le specialità, il latte art, tutto ciò che girava intorno a questo mestiere. Mi piaceva l’idea della caffetteria. A questo interesse personale si è unita l’opportunità imprenditoriale: a Roma non esisteva un bar con specialty coffee, ci sembrava davvero uno spazio culturale-imprenditoriale da riempire e, con Arturo, abbiamo pensato che fosse vincente infilarcisi”.
Arriva il primo dolce, più da colazione mattutina che da chiusura del pasto:
un pan brioche con la composta di albicocca, delicatissimo e profumato. Amorevole il matrimonio con la Rød di Extraomnes: ispirata alle MärzenOktoberfest, dal colore rosso-ramato e 5% in abv, si caratterizza per l’ottimo profilo maltato, l’asciuttezza, le note di biscotto al miele, e la lieve tendenza dolce equilibrata dai luppoli capaci di essere necessari attori non protagonisti. Queste peculiarità le permettono di incontrare bene il pan brioche, lasciando spazio all’aromaticità della composta ed essendo in grado di ripulire i persistenti ricordi burrosi.
Secondo capitolo del trittico è il kouignanann, semplice pasta sfoglia di origine bretone, la cui peculiarità è la (copiosa) presenza di burro e dello zucchero
in cristalli sulla parte esterna. Con un impasto soffice, la copertura croccante e ampie note aromatiche da melanoidine, ha trovato una sincera armonia con la Get lost di Busa dei briganti, imperial stout da 10.5% abv, con avena e aggiunta di caffè e tabacco Kentucky: solida e maltata, con l’opportuno e lieve grado di secchezza e amaro finali, utilizzati come adeguati contrappunti di chiusura all’approccio poderoso. Il dessert si giova dell’opposizione delle tostature, delle aromaticità “complementari” e della capacità nettante.
Un maritozzo per concludere L’ultimo assaggio lo dedichiamo a Sua Maestà, il maritozzo con la panna. Si tratta di uno dei dolci simbolo di Roma, che dopo anni di orribili volgarizzazioni industriali sta conoscendo una felice riscoperta. Fatto con farina, uova, olio e malto (o miele), all’aspetto sembra una piccola pagnottina lievitata: si può mangiare anche tal quale, ma è indimenticabile se farcito con la panna montata. Il nome deriva molto probabilmente da una tradizione (ormai desueta) per cui il giovane fidanzato donava alla futura moglie questo dolce nascondendo tra la morbida panna l’anello di promessa matrimoniale, diventando di fatto un “quasi marito” o, nel salace dialetto romanesco, un “maritozzo”. È sinceramente bellissimo da vedere, con quelle fattezze pingui e invitanti. Ma soprattutto, in bocca è straordinario: impasto morbido e profumato, giusta quantità di zuccheri e l’aggiunta della peccaminosa panna dell’Azienda Agricola Faustini. Più che un morso un giubilo alle cose buone, un amplificatore di gioia, un’emozione profonda. Che trova una compagna perfetta nella Trick or treat di Birra dell’eremo, magnetica imperial stout con aggiunta di marshmallow e vaniglia, con ben 12.2% in abv. Di un oscuro quasi impenetrabile, densa e sfingea, offre al naso riconoscimenti di terroso, tostato, liquore al caffè e vaniglia bourbon. L’attacco
è dolce e potente, senza mai risultare invadente: morbida, letteralmente da masticare, lunga e corposa, resa più intrigante dalla leggerissima sapidità, dall’elegante, sottilissima acidità e da un curioso ritorno aromatico di burro di arachidi: ricca, divertente, dal sorso appagante e propizia. Perfetta da condividere e da abbinare a dolci come il maritozzo con la panna, poiché lo bilancia e lo magnifica: i toni caramellati e tostati e gli effluvi aromatici da pasticceria si esaltano, circuiscono e valorizzano, aggiungendo una valida forza uguale e contraria all’invincibile abbraccio grasso della panna.
Il caffè, un ponte tra mondi diversi
Ho finito, sono pronto per alzarmi e il mio sorriso è largo e soddisfatto. Un po’ sarà colpa degli assaggi delle birre, ma un altro po’ saranno la soddisfazione e l’energia che dà un pasto ricco di energia buona. Vado verso il banco per salutare e prendere (ovviamente) un caffè di commiato.
I ragazzi alla macchina raccontano e spiegano e infine mi consigliano un caffè etiope, chiamato Hamasho. La situazione nel locale è più calma e così posso scambiare qualche ultima chiacchiera con Dario. Mentre attendo la mia tazzina, gli chiedo che cosa rappresentano per lui il caffè e il lavoro di pasticceria e di cucina che quotidianamente operano.
“Il caffè per me rappresenta il punto di inizio della ricerca sul prodotto agricolo e la possibilità di fare ristorazione con un approccio politico, che per noi significa responsabilità comunicativa e di esecuzione; rappresenta mondi lontani, ci mette di fronte al passato ingiusto del colonialismo e unisce due stili di vita all’opposto: oggi, forse, è il cibo che meglio fotografa le storture dell’agricoltura mondiale, la falsità dei meccanismi commerciali. Che invece possono essere virtuosi se c’è comunicazione, scambio, ascolto. Perché, in-
nanzitutto, la fatica di chi lavora la terra deve essere premiata”. Effettivamente, tutta la strada degli specialty coffee ha ben mostrato una possibilità di riscatto. “Oggi tutto ciò che è frutto della terra è visto come una commodity. Noi la pensiamo diversamente: il caffè è una pianta, è agricoltura, è cultura, come gli altri cibi e le altre bevande. Lo stesso vale per gli ingredienti in cucina: vogliamo unire la sapienza contadina e artigiana con la tecnica di una trasformazione attenta e con la cura che unisce tutte le mani di una filiera, dalla terra fino al piatto. Ci piacciono le storie dietro le persone e gli alimenti, le andiamo a cercare, le vogliamo raccontare”.
Arriva il caffè. Il nome si riferisce all’omonimo villaggio di origine, 2200 mslm nella regione di Sidama (l’altitudine consente ampie escursioni termiche e dunque maggiore aromaticità), proveniente dai campi di agricoltori che lavorano senza utilizzo di chimica. È un caffè lavato, la cui varietà si chiama Heirloom. Al naso ha una fine complessità varietale, che spazia dal floreale al tè al gelsomino, al lievemente caramellato e al terroso. In bocca percepisco una leggera tendenza dolce, un’acidità viva e un’originale rusticità. Una grande chiusura, di cui nemmeno l’inaspettata pioggia che mi cade addosso appena metto piede fuori, riesce a togliermi la soddisfazione. ★
LE NUOVE FRONTIERE del luppolo
L’importanza che il luppolo ha acquisito per la birra in funzione del suo apporto aromatico è relativamente recente, così come la ricerca di varietà con caratteristiche sempre più diverse e più capaci di diversificare l’orizzonte sensoriale di alcuni stili birrari.
Negli Stati Uniti un impulso alla maggiore coltivazione coincise con la fine dell’epoca del proibizionismo a partire
dai primi del 1930. In quel periodo, la produzione ebbe una clamorosa impennata dovendo, i pochi birrifici di grandi dimensioni, far fronte ad una improvvisa e rinnovata domanda da parte dei consumatori. Le birre presenti sul mercato globale avevano poco da chiedere a questa materia prima se non la dotazione in alfa acidi e quindi in amaro. In questo senso, i margini di guadagno cui potevano ambire gli
agricoltori erano perciò ridotti essendo non richiesto, né dai produttori né dai consumatori, qualsiasi altro parametro qualitativo, rendendo praticamente inutili le eventuali differenze varietali.
Ricerca e nuovi prodotti
Le ragioni che dopo il proibizionismo portarono i produttori a costituirsi in un distretto agricolo con un proprio programma di sviluppo della coltura, nella
Yakima Valley dello stato di Washington, nell’areale geografico della costa occidentale degli Stati Uniti escluso dai piani di investimento governativi, sono di origine politica ed economica.
Il risultato della ricerca operata nella realizzazione di nuove varietà in quell’ambito geografico portò alla realizzazione di prodotti birrari alternativi a quelli di massa fino a quel momento dominanti la scena nazionale e mondiale. Le conseguenze dell’immissione nel mercato di queste produzioni determinò anche una ricollocazione in termini di valore del luppolo con un meccanismo che rientra nella definizione complessa di “demercificazione” (decommodification) che, in virtù della maggiore caratterizzazione qualitativa e tecnologica, lo slegò dalla valutazione economica in funzione della sola quantità di alfa-acidi.
In altri termini, la retribuzione del capitale investito dai coltivatori risultò aumentata, determinando una maggiore diversificazione nel modo di intendere le produzioni brassicole che sarebbe di lì a poco confluito nella renaissance birraria e nel movimento craft che, nei decenni successivi, assumerà una dimensione globale.
Il terroir
La definizione di stile birrario racchiude aspetti che riguardano la geografia e la storia delle materie prime utilizzate, la tecnologia impiegata e l’estro del mastro birraio nell’ottenere il risultato finale dal punto di vista sensoriale. Ultimamente ha preso maggiore peso il contributo dato dal cosiddetto “effetto terroir” legato alle materie prime. In linea generale con questo termine,
mutuato dal mondo enologico, si suole indicare l’effetto che le condizioni pedoclimatiche possono avere sulle caratteristiche del prodotto ottenuto anche se, in alcuni casi, lo si evoca più in maniera ideologica, quando si ritiene che un determinato prodotto sia da preferire solo per la provenienza locale e non per delle caratteristiche intrinsecamente possedute, o per una particolare peculiarità sensoriale, tecnologica o compositiva. Tuttavia l’accezione più ampia del terroir include anche le ricadute socioeconomiche dalla coltivazione e trasformazione di un prodotto agricolo in un determinato areale, regione o, ancora, nazione. Entrambi gli aspetti, ambientali ed economici, potrebbero essere ricondotti alle conseguenze della coltivazione del luppolo nei paesi brassicoli emergenti.
MATERIE PRIME
Alla ricerca di nuovi areali
Sempre più frequentemente si è assistito al proliferare di piccole piantagioni allo scopo di assecondare il desiderio del mastro birraio di realizzare prodotti utilizzando il proprio luppolo, andando così a cercare di colmare quella distanza tra la terra ed il bicchiere che i produttori di birra italiani hanno sempre sentito come una sorta di peccato originale, in contrapposizione al mondo enologico dove il passaggio dalla vite al bicchiere risulta lineare.
L’esplorazione di nuovi areali per la coltivazione del luppolo, considerando come tali quelli al di fuori delle aree comprese tra il 45° ed il 52° nord dell’equatore, è comune a tutti i paesi che hanno abbracciato la filosofia craft.
Secondo una stima recente, il 90% della produzione commerciale del luppolo è divisa in maniera non equa tra i paesi storicamente vocati. Più in particolare, l’85% sarebbe prodotto tra Germania, Stati Uniti, Repubblica Ceca, Polonia e Slovenia, mentre il 5% sarebbe coltivato in Cina.
Vengono considerate nuove aree di coltivazione alcune regioni degli Stati Uniti, il Brasile, che già nel 2019 era il primo tra i paesi tropicali, seguiti dalla Francia e dall’Italia. Completano il quadro alcuni paesi della federazione russa.
Ognuno di questi paesi è impegnato a trovare una sua strada da percorrere per poter ambire ad una produzione che abbia le caratteristiche commerciali adeguate. Per ogni coltura di nuova immissione nel panorama produttivo è imprescindibile la verifica dell’adattabilità delle cultivar ad ambienti pedoclimatici differenti rispetto a quelli in cui queste hanno avuto origine. Una volta superata questa prima fase si rendono necessari studi relativi alla quantità e qualità dei coni ottenuti ed in ultimo, le migliori pratiche agronomiche necessarie, che saranno in funzione delle varietà impiantate e quindi delle produzioni brassicole in cui i fiori verranno utilizzati.
Il luppolo in Italia
In questo senso l’analisi all’interno del panorama italiano rappresenta un valido banco di prova per la valutazione della direzione in cui sta andando la luppolicoltura nelle regioni considerate le nuove frontiere di questa coltivazione. Partiamo dalla considerazione che il numero di microbirrifici in attività sembra non voler recedere dal trend positivo dell’ultimo decennio. Secon-
do quanto riportato in un recente studio riferito al 2023, nel nostro paese la produzione si è attestata su un volume pari a 1,7 miliardi di litri cui corrisponderebbe un fatturato di circa 10 miliardi di euro, con una importazione di luppolo, proveniente prevalentemente da Germania e Francia, vicina alle 5.500 tonnellate.
Affermare che l’Italia sia una nuova area di coltivazione è però poco corretto. Sa-
rebbe forse più giusto dire che la coltivazione di questa pianta è da considerarsi ricorsiva, poggiando le sue radici (mai come in questo caso la metafora è più calzante) per la prima volta in Lombardia nel 1830, e che portò alla realizzazione di alcuni luppoleti nel nord e centro del paese, soprattutto laddove la coltivazione della vite non sarebbe stata possibile, fino all’inizio del XX secolo. Risale a questo periodo anche l’esperien-
za dell’ormai celeberrimo Raimondo Montecuccoli nella provincia di Modena, pluricitato in qualsiasi dissertazione che tratti della storia del luppolo in Italia. E, sempre sfruttando le citazioni, si dovrebbe dire che “malgrado i buoni risultati ottenuti che gli valsero un premio in un’esposizione internazionale nel 1876 a Haguenau, in Alsazia” si dovrà attendere un secolo e più precisamente la fine degli anni ’80 del novecento perché
si potessero avere a disposizione delle relazioni scientifiche riguardanti la coltivazione. Poi, ancora niente fino all’ultimo ventennio quando, grazie all’impulso del comparto artigianale, alla nascita dei primi birrifici agricoli, l’Italia torna ad avere una sua “verginità” e ad essere considerata “nuova area” produttiva. Un contributo alla spinta verso le produzioni locali lo dà anche lo svilupparsi di una nuova coscienza, relativa alla sostenibilità, intesa anche come riduzione delle emissioni derivanti dalla movimentazione delle materie prime da uno stato/continente all’altro.
Il censimento della superficie luppolata in Italia, per quanto frammentaria, incompleta e probabilmente sottostimata, riporta 52 ettari interessati in poco più di 100 aziende agricole che si traducono in estensioni medie di circa mezzo ettaro, concentrate nella maggioranza nel nord del paese e, scendendo in senso geografico e percentuale, al centro, al sud e nelle isole, che si dividono circa il 5% della superficie totale. Giusto per avere un termine di paragone, la superficie investita in luppoleti in Germania è stimata intorno ai 17.000 ettari… Non sorprende che le varietà di luppolo maggiormente impiantate nel nostro paese siano quelle che riflettono il trend craft proveniente dagli USA: il Cascade rappresenta quella più studiata, seguita da Chinook, Columbus, Comet e Nugget.
Ostacoli alla coltivazione
Secondo quanto riportato in un recente studio, ma facilmente verificabile da chiunque voglia intraprendere l’attività di coltivazione, le principali difficoltà all’espansione della coltura sono rappresentate dalle difficoltà di approvvigionamento del materiale di propagazione, spesso ad alto costo quando non protetto da brevetto. Non è da dimenticare anche l’assenza di prodotti fitosanitari certificati, il che determina una minore possibilità di scelta nell’affrontare eventuali problemi derivanti da attacchi di insetti e/o crittogame, e quindi la scel-
MATERIE PRIME
ta obbligata verso il biologico con i vantaggi e gli svantaggi del caso. Il vero ostacolo alla diffusione è però intimamente connesso con la mancanza di tecnologie necessarie per ottimizzare la fase di raccolta e post raccolta, confinando perciò in maniera quasi esclusiva l’utilizzo dei coni alla realizzazione di birre in stile Harvest (ottenute con i luppoli freschi). Riguardo le rese, per quanto ci sia un limitato numero di studi al riguardo, sembrerebbe che nel nostro Paese i risultati possano essere considerati soddisfacenti. Sempre secondo lo studio sopra citato, anche i lavori di ricerca recenti non riuscirebbero in toto a coprire il fabbisogno di conoscenze richieste per far fare alla luppolicoltura il necessario salto di qualità.
Nel periodo dal 2016 al 2024 sono 14 i lavori pubblicati su riviste peer review, la maggior parte dei quali dimostrerebbero l’adattamento delle diverse cultivar alle differenti condizioni pedoclimatiche italiane con particolare ri-
ferimento alle regioni del Lazio, della Sicilia, della Sardegna, della Calabria, delle Marche ed Emilia Romagna. Le regioni del Nord probabilmente non hanno suscitato particolare interesse da parte dei ricercatori, avendo goduto di maggiori informazioni di tipo pratico derivanti dagli eventi storici di cui si è parlato più sopra. Dai risultati riportati da queste ricerche si evidenziano le potenzialità della coltura in termini di rese e di caratteristiche tecnologiche quali percentuale di olio essenziale, alfa e beta acidi e della dotazione terpenica riferita alle singole varietà. Il discorso si complica se si entra nel merito, perché spesso (e lo dico per esperienza personale condivisa anche con altri autori) la ricerca risente della scarsa superficie investita ed è riferibile ad un numero ridotto di piante. Ovviamente questo non significa che i dati ottenuti non siano veritieri, ma solo che i ricercatori necessiterebbero spesso di una maggiore distribuzione del dato
statistico e degli areali di coltivazione anche all’interno della stessa regione, per poter dare risposte più precise agli agricoltori.
Scarse conoscenze agronomiche
Un’ultima osservazione che scaturisce da questa indagine e che rappresenta un altro anello debole del sistema riguarda la scarsa specializzazione del luppolicoltore, spesso rappresentato dal mastro birraio mosso dalla volontà di produrre la propria birra con i luppoli coltivati da sé ma senza le specifiche conoscenze agronomiche, senza attrezzature ed in generale senza il necessario supporto tecnico.
A conclusione si può dire che, note le criticità, è sicuramente più semplice individuare le strategie necessarie per trasformare la luppolicoltura italiana da “pionieristica” a produttiva a tutti gli effetti. Verrebbe da dire: se non ora, quando? ★
BEERFORUM 2024 La ricerca brassicola italiana al centro della scena con BNM
Dal 12 al 15 Novembre 2024, in Fiera Milano, si è tenuta, durante il Simei - Esposizione internazionale della Tecnologia applicata al vino, alla birra e all’olio - la 1^ edizione di BeerForum, gli Stati generali della Birra. Questo nuovo format - ideato e curato da Luca Grandi di Birra Nostra - è nato con l’obiettivo di dare voce alla ricerca italiana impegnata in ambito brassi-
colo; obiettivo centrato poiché hanno aderito i Dipartimenti delle Università di Udine, Padova, Milano, Piacenza, Bologna, Parma, Pisa, Teramo, Catania, Sassari, il CERB di Perugia, il Centro Ricerche Porto Conte di Alghero, oltre ai CREA di Asti e Milano.
Si sono succeduti sul palco 40 ricercatori che hanno presentato lavori - alcuni già pubblicati, altri inediti - che hanno dimostrato una volta di più quanto anche la ricerca debba entrare di diritto nella filiera brassicola italiana.
Nell’area BeerForum Lab si sono inoltre tenuti sei Laboratori di formazione e degustazione condotti da quattro docenti, giudici nazionali e internazionali. Nel fitto palinsesto della quattro giorni hanno trovato spazio anche due talk show che hanno visto la partecipazione dei Direttori di AssoBirra e del Consorzio Birra Italiana e i mastri birrai di generazioni diverse che hanno raccontato i primi trent’anni del movimento birraio artigianale.
Hanno infine completato il Programma dieci speech aziendali che hanno contribuito al dibattito con interessanti spunti tecnici e produttivi.
Media partner dell’evento è stato Birra Nostra Magazine Appuntamento a SIMEI 2026! ★
GRUIT L’antico sostituto del luppolo
Nel corso del tempo il luppolo ha sostituito progressivamente l’utilizzo del gruit, in particolare in Germania, dove l’introduzione di regolamenti locali ne favorì l’adozio-
ne. Queste norme locali furono successivamente formalizzate nel famoso Reinheitsgebot del 1516, emanato da Guglielmo IV, duca di Baviera. Questo unito all’elevato costo degli ingredienti
usati per produrre il gruit, spesso soggetti a monopoli e tasse, portarono ad un declino del Gruit; tranne in quelle rare eccezioni come le birre monastiche belghe, dove i monasteri erano esentati
dal pagamento delle tasse sulle spezie utilizzate per produrlo. Il gruit è una miscela di spezie, erbe e aromi utilizzata come additivo nella produzione della birra fin dall’epoca carolingia. In Scandinavia, veniva chiamato “pors”, mentre i popoli germanici, tra cui i Franchi, furono i primi a utilizzare il termine gruit, specialmente nelle regioni tra Francia, Belgio e Paesi Bassi. Questa miscela variava notevolmente rendendo ogni gruit un segno distintivo, gelosamente custodito dai mastri birrai; ogni birrificio presentava un’impronta riconoscibile, caratterizzata dagli aromi e dagli odori derivanti dall’infusione del gruit. Il mix non solo aveva la funzione di aromatizzare, ma agiva anche come conservante, grazie alle proprietà delle molecole presenti nelle diverse spezie. Le varie combinazioni e proporzioni degli ingredienti influenzavano la capacità antimicrobica e antiossidante del prodotto oltre al bouquet aromatico della birra. La segretezza delle ricette e la rapida deteriorabilità degli scarti nella filiera brassicola ci impediscono di avere certezze dirette sulle spezie e botaniche più utilizzate dai mastri birrai. Tuttavia, queste sostanze erano soggette a tassazione come merci di monopolio e fortunatamente alcuni libri contabili rinvenuti in Belgio, Paesi Bassi, Germania e in alcune cittadine francesi possono offrirci spunti preziosi su questo argomento. Nell’area geografica in questione, quattro botaniche si distinguevano per la loro diffusione:
Myrica Gale
Nota anche come mirto di palude, è una pianta autoctona delle zone umide e costiere. Nella tradizione scandinava è conosciuta come “pors”, suggerendo che fosse un ingrediente fondamentale nel mix di spezie per alcune popolazioni. Oggi, è oggetto di studi per il suo potenziale uso come erbicida. Sia i frutti sia le foglie possono essere utilizzati, e da essi sono stati identificati 85 compo-
sti chimici diversi. I frutti contengono tra il 2% e il 6% di olio essenziale, mentre le foglie presentano una quantità notevolmente inferiore, circa 19 volte meno, e mostrano anche caratteristiche chimiche distinte.
Gli 85 composti della Myrica Gale sono stati classificati in cinque categorie distinte in base alla loro natura chimica, quattro delle quali appartengono alle sottofamiglie dei terpeni e terpenoidi: monoterpeni idrocarburici (MH), monoterpenoidi ossigenati (OM), sesquiterpeni idrocarburici (SH) e sesquiterpenoidi ossigenati (OS), oltre ad altri composti (AC). Le foglie contengono circa dal 19% al 28% di MH, dal 15% al 17% di OM, dal 26% al 28% di SH, dal 16% al 25% di OS e dal 7% al 13% di AC. Pertanto, circa il 50% dei composti totali ha una natura idrocarburica, mentre i composti ossigenati costituiscono il 33%-40%, e gli altri composti rappresentano una parte sostanziale della miscela. Gli unici composti presenti nelle foglie che superano il 5% sono: (E)-Nerolidolo (OS) (9%-13%), δ-Cadinene (SH) (8%-10%), α-Pinene
(MH) (5%-10%), Limonene (MH) (6%) e Germacrone (OS) (5% in media).
Guglielmo IV, duca di Baviera, nel 1516 estese a tutta la Baviera il Reinheitsgebot, atto a regolamentare la produzione e la vendita di birra
I frutti producono un olio particolarmente ricco di MH, che supera il 44%, contiene il 25% di OM, circa il 13% di SH e il 14% di OS, mentre gli AC sono presenti solo per il 3%. Così, i composti idrocarburici superano il 57%, mentre quelli ossigenati arrivano al 39%. Il 72% di tutto l’olio essenziale estratto dai frutti è costituito da solo otto dei 85 composti identificati: 21% α-Pinene
(MH), 21% 1,8-Cineolo (OM), 10% α-Phellandrone (MH), (E)-Nerolidolo (OS) e δ-Cadinene (SH) entrambi al 7%, 6,5% Limonene (MH), Germacrone (OS) e 1-epi-Cubenolo (OS) entrambi al 5%.
L’α-Pinene (MH) emana un aroma simile a quello della trementina e numerosi studi ne hanno esaminato le proprietà antiossidanti e antimicrobiche. Non è
solubile in acqua, e durante la preparazione del mosto d’orzo o la successiva infusione durante la fermentazione, non si verifica un’estrazione apprezzabile del composto. Tuttavia, è ossidabile in condizioni aerobiche a temperature superiori a 90 °C. Questo processo ossidativo genera composti chimici più solubili in acqua, grazie all’elettronegatività degli ossigeni intramolecolari o alla formazione di gruppi ossidrili (-OH), capaci di generare legami idrogeno in soluzione.
L’α-Phellandrone (MH) ha un aroma simile alla menta, ma presenta le stesse problematiche dell’α-Pinene, in quanto non ci sono evidenze in letteratura riguardo l’ossidazione termica e il conseguente miglioramento della solubilità.
Il Limonene (MH) emana un forte profumo di arancia e limone, ed è lievemente solubile in acqua. Tuttavia, è molto reattivo alla luce, al calore e all’aria; in presenza di acidi (il pH del mosto d’orzo è circa 5), può trasformarsi in Carvone, un composto con aroma di cumino o menta. Il Carvone e i suoi derivati possiedono notevoli proprietà antiossidanti e sono stati dimostrati efficaci sia in vitro che in vivo contro i microrganismi. Considerando gli studi sui monoterpeni menzionati, si potrebbe pensare che non svolgano un ruolo attivo nella stabilità e nella shelf-life del prodotto. Questo è parzialmente vero, poiché le reazioni ossidative favoriscono la formazione di composti che, nonostante la loro attività biologica ridotta, hanno un impatto maggiore sul prodotto grazie a un miglior indice di solubilità.
Il 1,8-Cineolo (OM), comunemente noto come Eucaliptolo, possiede forti proprietà aromatiche e antiossidanti, che contribuiscono alla stabilizzazione del prodotto birrario. Tuttavia, non presenta attività antimicrobica, pertanto non è un conservante efficace contro i microrganismi.
Il δ-Cadinene (OS) ha un aroma erbaceo e spesso si trova insieme ad altri enantiomeri. Studi su estratti vegetali
Myrica Gale
ricchi di questi quattro enantiomeri hanno dimostrato attività antiossidante. Negli estratti in cui il δ-Cadinene è il componente principale, si riscontra un effetto sia antiossidante che antimicrobico e antifungino.
L’(E)-Nerolidolo (OS) è presente sia nelle foglie che nei frutti. Questo composto, conosciuto anche come peruviolo, è solubile sia in alcol che in acqua e possiede un aroma floreale, verde e legnoso. La sua attività antiossidante è superiore a quella dell’acido ascorbico, e ha anche un potere antibatterico nella conservazione degli alimenti. Gli estratti vegetali acquosi di piante contenenti Nerolidolo hanno mostrato un’efficacia maggiore in termini di attività antiossidante e antimicrobica rispetto agli estratti oleosi. Il Germacrono caratterizzato da fragranze agrumate, legnose e marine.
Possiede anche buone capacità antibatteriche e antifungine.
L’1-epi-Cubenolo (OS) ha un aroma speziato e legnoso. Sebbene non sia una molecola ampiamente studiata, si sa che è completamente insolubile in acqua; inoltre, gli estratti alcolici o oleosi di piante contenenti questo composto hanno mostrato scarsa o nulla capacità antiossidante.
I composti della Myrica gale sono stati studiati in laboratorio, non nel corpo. Questo implica che gli esperimenti hanno utilizzato composti puri contro microrganismi specifici o come antiossidanti. Pertanto, i risultati di laboratorio potrebbero non corrispondere alle condizioni “reali” di produzione. Tuttavia, è evidente che i composti bioattivi di questa pianta hanno fornito supporto ai produttori di birra, grazie alla loro stabi-
lità e capacità di generare ulteriori composti in soluzioni idroalcoliche.
Ledum Palustre
Comunemente noto come rosmarino di palude, è una pianta che cresce nei climi freddi, come quelli della Scandinavia, Germania e Stati Baltici. Purtroppo, è anch’essa a rischio di estinzione a causa dell’antropizzazione delle torbiere. Sono in fase di studio le proprietà antiprostaglandine del suo olio essenziale, utilizzato per scopi antinfiammatori. La composizione chimica dell’olio essenziale può variare notevolmente, e le molecole chimiche più comuni nelle piante raccolte in Europa includono: Palutrolo (24,5%), Ledolo (16,5%), Ascaridolo (8,5%) e p-Cimene (5,9%). Gli oli essenziali estratti da questa pianta hanno mostrato una buona attività antiossi-
Ledum Palustre
dante, particolarmente efficace quando l’olio è ricavato dai germogli estivi, e hanno anche dimostrato notevoli proprietà antifungine.
Tuttavia, uno svantaggio dell’olio essenziale è che sembra inibire la crescita del Saccharomyces cerevisiae, rendendolo
non ideale per la fermentazione delle birre Ale. Detto ciò, è stato analizzato l’olio essenziale puro ottenuto tramite idrodistillazione. Considerando la solubilità variabile dei composti in un ambiente idroalcolico, come nella birra, e la degradazione di alcuni elementi, come il
Ledolo, durante la produzione del mosto ad alte temperature, non si prevedono problemi significativi per il processo fermentativo; al contrario, potrebbe favorire la parziale soppressione di lieviti e microrganismi indesiderati.
Bacche d’alloro
Le bacche di Laurus Nobilis, comunemente conosciute come bacche di alloro, capace di prosperare anche in climi rigidi come quello della Renania Tedesca e nel sud dell’Irlanda e delle Isole Britanniche. Contrariamente a quanto si possa pensare, queste bacche non sono tossiche e contengono circa lo 0,8% di olio essenziale, mentre le foglie ne possiedono oltre il 3%. L’olio estratto dalle bacche è composto principalmente da 1,8-Cineolo (33,3%), α-Terpinil Acetato (10,3%), α-Pinene (11,0%), β-Elemene (7,5%), Sabinene (6,3%) e β-Fellandrene (5,2%). Tuttavia, la composizione chimica di questo olio può variare notevolmente in base alla zona di coltivazione, al periodo di raccolta e ai metodi di estrazione. Pertanto, la decisione di utilizzare le bacche nel mosto o di aggiungerle successivamente durante la fermentazione può influenzare significativamente il risultato finale. Grazie al loro contenu-
Laurus Nobilis
to di terpeni e fenoli, le bacche di alloro possiedono spiccate proprietà antiossidanti e antimicrobiche, rendendole un ingrediente prezioso nella produzione di birra e in altre applicazioni.
Laserpitium siler
Noto anche come cumino di montagna per il suo aroma, è una pianta tipica delle montagne europee, in particolare delle Alpi Tedesche e dell’altopiano Svevo-Bavarese, ma si trova anche in Italia. Il suo olio essenziale è composto per oltre il 50% da monoterpeni, sia in forma di idrocarburi che di composti ossigenati. La composizione chimica può variare significativamente in base alla zona di crescita e alla sottospecie, con oltre 120 composti chimici identificati. Il Sabinene è il più abbondante, con una percentuale che varia dal 6% al 48%. Questo mono terpene, presente anche nella maggiorana, contribuisce alla piccantezza del pepe nero e possiede notevoli proprietà antimicrobiche e antiossidanti, rendendolo un potente stabilizzatore chimico.
Un ingrediente frequentemente menzionato nei registri contabili delle città con una fiorente industria della birra nel nord-ovest europeo è la resina. Sebbene venga citata in diverse fonti storiche, raramente vengono approfonditi gli effetti della resina purificata ed estratta da pini e altre conifere, presenti non solo nel Nord Europa, ma anche in Scandinavia, dove potrebbe essere utilizzata per la preparazione dei pors La composizione chimica della resina varia significativamente in base a fattori quali il luogo di crescita degli alberi, la loro età e la varietà. Anche se esistono pochi studi specifici, si può ipotizzare che la resina di piante conifere possieda una forte attività antimicrobica. Il luppolo, d’altra parte, è una pianta molto più semplice da gestire rispetto a spezie ed erbe. Si è diffuso in tutto il panorama birraio globale, grazie anche allo sviluppo di numerose varietà e sottovarietà con diverse caratteristiche
amaricanti, aromatiche e conservanti. Questo ha portato a una rapida sostituzione del gruit, che oggi è impiegato solo in alcuni stili birrai tradizionali del Belgio e dei Paesi Bassi.
Il gruit oggi
Il gruit “contemporaneo”, spesso combinato con il luppolo, si compone principalmente di una componente speziata, come il coriandolo, e di una componente citrica, derivante da scorze di arancia o dalla corteccia di Lahara, un agrume tipico dell’isola di Curaçao, antico possedimento coloniale dei Paesi Bassi. Anche se le proprietà conservanti degli oli essenziali degli agrumi e del coriandolo sono ben documentate, esse non sono paragonabili a quelle del luppolo. Pertanto, tali ingredienti vengono aggiunti per ragioni organolettiche piuttosto che per prolungare la shelf-life del prodotto.
Oggi, grazie al movimento dei microbirrifici e degli homebrewer nordamericani emerso negli anni ‘90, stiamo assistendo a una vera riscoperta delle birre gruit. Queste birre, tuttavia, non prevedono l’uso del luppolo e si basano su spezie, erbe e aromi storici tipici dell’Europa birraia, in particolare del Nord-Ovest della Germania, Scandinavia, Belgio e Paesi Bassi. Inoltre, molti di questi preparati possono includere ingredienti esotici provenienti dal Nuovo Mondo, introdotti in Europa solo dopo la scoperta del continente americano. ★
Bibliografia
Laserpitium siler
LA BIRRA NELLO SPAZIO realtà o fantascienza?
La rassegna di articoli a cura degli studenti del corso di Laurea ad orientamento professionale in “Qualità e approvvigionamento di materie prime per l’agro-alimentare” (QuAM) dell’Università degli Studi di Parma, lascia la parola in questo ultimo numero dell’anno ai… docenti di QuAM!
Si… Può… Fareeeee Nonostante ci fossero precedenti che dichiaravano l’impossibilità per gli astronauti di bere birra nello spazio a causa della mancanza di gravità che provocherebbe diverse problematiche ai consumatori spaziali (a causa del comporta-
mento “particolare” dei gas nei fluidi in ambiente senza gravità), numerosi sono stati i tentativi di produzioni di birre “spaziali”.
2011: Ma come fanno gli astronauti a bere birra?
Questa è la domanda che si è posta una startup australiana che si è impegnata per produrre una birra che potesse essere bevuta, non come solitamente si usa nello spazio, cioè con cannuccia, ma che potesse essere addirittura spillata nello spazio e gustata senza cannucce. Dalla collaborazione tra 4 Pines Beer e Saber Astronautics, è nata una sperimentazione, portata avanti in Virginia, in un impianto che permette la simulazione della gravità zero. Dopo innumerevoli tentativi, hanno trovato che la miglior birra da poter sfruttare in quelle condizioni è una Stout in stile irlandese, a ridotta carbonatazione. I ricercatori inoltre sono riusciti ad eliminare la cannuccia inventando una nuova bottiglia che permette di sfruttare le proprietà di tensione super-
ficiale della birra, per far sì che questa si sposti verso il collo della bottiglia. Come hanno chiamato questa birra? Vodstok, in onore della prima missione spaziale. Questa birra è stata poi realmente testata nello spazio con un volo parabolico che ha permesso il raggiungimento della gravità zero, ed è risultata la migliore delle birre testate per i presenti nel volo. Forse la Nasa non la prenderà in considerazione nelle prossime missioni, ma è stata comunque una bella scoperta in vista di viaggi turistici spaziali… chi non vorrebbe sorseggiare una birra mentre osserva la terra da un oblò?
2014 - Lievito nello spazio
Se nel 2011 il problema da risolvere era quello di far gustare una birra nello spazio senza creare problemi al bevitore e senza utilizzare la cannuccia, successivamente i ricercatori “spaziali” hanno alzato il tiro: valutare le attività del lievito nello spazio al fine di produrre la bevanda direttamente tra le stelle! Chi ha deciso di intraprendere questa impresa fantasiosa e spaziale? Come ci si può aspettare, questo progetto ha avuto luogo negli Stati Uniti, da un’idea di un birrificio dell’Oregon, Ninkasi Brewing Company, in collaborazione con UP AeroSpace. Quest’ultima è una società privata il cui obiettivo è quello di giungere all’esplorazione spaziale (quindi al turismo spaziale). Queste due compagnie hanno deciso di tentare l’impresa di lanciare nello spazio i lieviti per poi produrre birra. I lieviti sono stati letteralmente sparati a 124 km di altitudine. I malcapitati sono stati poi lasciati per quattro minuti in assenza di gravità. I lieviti spaziali, conclusa l’esperienza a gravità zero, sono stati utilizzati per la produzione di una Imperial Stout, aromatizzata con nocciole, anice, cacao e luppolo. In questo esperimento il birraio ha deciso di utilizzare alcuni luppoli dai nomi quantomeno azzeccati: Apollo, Bravo e Comet. Questi sono luppoli noti a tutti, ma il loro nome in questo caso sembra essere evocativo di “cose” spaziali:
-Apollo: chi non conosce la storia di Apollo 13? Apollo 13 è stata una missione spaziale statunitense, parte del programma Apollo decollata l’11 aprile 1970. La missione divenne celebre per il guasto che impedì l’allunaggio e rese difficoltoso il rientro degli astronauti sulla Terra. -Bravo: forse non tutti conoscono un grande successo del satellite Sax (Satellite per astronomia X), ribattezzato poi BeppoSax in onore del fisico Giuseppe Occhialini. Questo satellite ci ha svelato la natura dei lampi di raggi gamma. Qual è il legame tra questo satellite e Bravo? “Bravo BeppoSax!” è stato l’ultimo telecomando inviato al satellite nel 2002, prima del suo spegnimento. Questo satellite ci ha regalato, in sei anni di vita operativa, 1500 osservazioni di sorgenti celesti e una pioggia di premi prestigiosi per gli scienziati coinvolti nello studio. Questi sono stati i motivi di tanta gratitudine: Bravo!
-Comet: chi non conosce le comete? Una cometa è un corpo celeste “piccolo”, composto da gas ghiacciati (acqua, metano, ammoniaca, anidride carbonica), frammenti di rocce e metalli. La sublimazione delle sostanze volatili, quando la cometa è in prossimità del Sole, causa la formazione della chioma e della coda. A completare il gioco dei nomi, la birra prodotta, prendeva il nome di Ground Control. I lieviti sono stati influenzati da questa catapulta spaziale? Questo non ci è dato sapere, ma sicuramente l’esperimento ha incuriosito le masse.
2021 - Il luppolo nello spazio
Dopo i lieviti, perché non vedere cosa succede al luppolo quando questo è lasciato orbitare nello spazio? Nel 2021, nella missione spaziale civile denominata Inspiration 4, insieme a passeggeri civili sono stati caricati 30 kg di luppolo, che
il birrificio statunitense Samuel Adams Boston Brewery ha poi utilizzato per produrre la IPA chiamata Space Craft. Il luppolo, imbarcato in questo tour spaziale, ha trascorso 2 giorni, 22 ore e 3 minuti in orbita, per poi riatterrare ed essere utilizzato per la produzione della birra. La missione spaziale ha avuto grande sostegno mediatico anche perché, in questo caso, la sperimentazione aveva una finalità nobile: sollecitare donazioni per finanziare le attività di un ospedale. I luppoli che hanno avuto l’onore di questo viaggio spaziale erano Mosaic e Citra, e hanno portato alla produzione di una birra in stile IPA (India Pale Ale), che dopo tanto peregrinare del luppolo aveva tutti i sentori di… una classica IPA prodotta dallo stesso birrificio utilizzando luppoli “terrestri”. In questo caso, il luppolo spaziale ha probabilmente avuto maggiore rilevanza mediatica, rispetto ad un vero e proprio effetto qualitativo. La birra non sarà stata dal gusto spaziale, ma certamente la sperimentazione ha portato al risultato voluto: l’ospedale ha ricevuto dei finanziamenti (la cosa più importante).
2024 - La birra in condizioni spaziali
Questa notizia ha tenuto banco nelle ultime settimane in diversi programmi
radio e tv, ma in cosa consiste davvero questo esperimento?
Siamo ancora negli Stati Uniti. L’obiettivo è sempre la birra e lo spazio, anzi le condizioni spaziali. I protagonisti di questa vicenda sono alcuni ricercatori dell’Università della Florida. Questi ricercatori hanno provato a portare in laboratorio le condizioni di microgravità dello spazio, per produrre birra Lager. Lo scopo era quello di osservare il comportamento dei lieviti durante il processo di fermentazione. La domanda che si sono posti questi ricercatori è stata la seguente: in assenza di gravità i lieviti possono compiere regolarmente il loro metabolismo? Il loro metabolismo è modificato? Se si, come? I ricercatori, impostato il piano sperimentale, hanno condotto il loro esperimento e sono arrivati ad alcune conclusioni. I risultati principali della sperimentazione sono stati due: i lieviti possono sopravvivere in condizioni di microgravità e sono in grado di completare una fermentazione. Ci sono però delle differenze rispetto alle fermentazioni che avvengono sulla terra: il metabolismo dei lieviti sembra essere più accelerato in assenza di gravità e questo si traduce in una fermentazione più rapida rispetto al normale processo terrestre. Secondo i ricercatori questa differente veloci-
tà è legata al fatto che in condizioni di microgravità i lieviti non si depositano e questo potrebbe consentire a questi microrganismi di sfruttare meglio i nutrienti, anch’essi in sospensione. L’altro risultato eclatante derivato dallo studio è relativo alla qualità del prodotto ottenuto. Secondo i ricercatori la birra prodotta con microgravità è risultata migliore. Ma basta il giudizio di pochi ricercatori per stabilire che una birra sia più buona di un’altra? Nello studio, infatti, non è stata effettuata nessuna prova di accettabilità su consumatori o degustazione con panel di esperti; quindi, il giudizio si basa solo su dati puramente strumentali, che purtroppo, non sempre danno la visione totale della qualità organolettica di un prodotto. L’unico fatto osservato a livello qualitativo è la riduzione della produzione da parte dei lieviti impiegati, di isoamil acetato, dai sentori di banana, che a volte viene prodotto dai lieviti in caso di stress. Questo aroma è ricercato in alcuni stili, meno desiderato in altri.
Di certo è possibile affermare che la microgravità varia l’attività dei lieviti, ma resta da valutare se queste differenze siano realmente percepite a livello olfattivo e gustativo dai consumatori. ★
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IL FASCINO DISCRETO dei Colli Berici
Questo itinerario è compreso fra i 60 itinerari proposti da TURISMO BIRRARIO. Guida per viaggiatori in fermento (Ed. LSWR), ideata e curata da Luca Grandi di Birra Nostra e realizzata grazie al contributo di altri autori, esperti di turismo e di birra. Nella Guida, infatti, sono recensiti anche 80 birrifici artigianali che, con gli originali itinerari descritti, ci svelano un’Italia minore, da vivere con lentezza, espressione più alta del turismo brassicolo di oggi.
IColli Berici vicentini sono spesso giudicati i cugini minori dei Colli Euganei: niente di più sbagliato! Per iniziare, l’origine è completamente differente: i
Colli padovani sono il risultato di eruzioni vulcaniche sottomarine mentre i Colli Berici hanno un’origine marina. Si sono infatti formati a seguito di un lunghissi-
mo processo di sedimentazione di resti animali e vegetali, documentato dalla numerosa presenza di fossili di molluschi, coralli e alghe.
Ciò spiega anche la diversità, all’aspetto, di questi ultimi con i cugini padovani: dolci e sinuosi i Berici, più alti e imponenti gli Euganei.
I Colli Berici nascondono ai più le loro bellezze, svelandole di volta in volta avventurandosi sempre più in profondità; sono più discreti ma non per questo meno affascinanti.
In questo percorso potremo decidere di affidarci a loro solcando le numerose strade e stradine in auto o in bicicletta ma dovremo essere sempre pronti, tuttavia, nel saper cogliere ed approfondire le bellezze che celano con riservatezza.
Si parte da Lonigo
Posto nel versante occidentale dei Colli, Lonigo è un centro che gode di un’invidiabile posizione che lo rende equidistante dalle più importanti vie di comunicazione della provincia mantenendone, tuttavia, un’orgogliosa e preziosa distanza. Questa placida posizione la si respira già passeggiando per il centro, un tempo contenuto in poderose mura che la proteggevano dalle continue incursioni di chi se la contendeva nel medioevo: inutilmente, visto che alla fine Lonigo si consegnò spontaneamente alla Repubblica veneziana.
Tracce di quelle mura sono due torri, una posta nella piazza del centro ed una vicino all’imponente Duomo.
Sempre dalla piazza si aprono poi suggestivi portici che conducono a villa Giovannelli, una costruzione ottocentesca ricavata sul corpo della cinquecentesca abbazia dei SS. Fermo e Rustico, arredata da uno scenografico accesso composto da guardiole ed archi di trionfo.
In direzione opposta, invece, attraversata la luminosa piazza centrale, si accede ad un’area marginale del centro, al termine della quale si apre un inaspettato quanto ampio Parco cittadino, con l’immancabile chiosco al centro.
Prima di arrivare al Parco, tuttavia, saremo costretti a passare sotto il locale Municipio - Palazzo Pisani - eretto a metà del Cinquecento da un ignoto architetto
che la tradizione orale del posto indica improbabilmente in Andrea Palladio o in Michele Sanmicheli.
E a proposito del primo, un fulgido esempio di come un giovane Palladio abbia interpretato i gusti di tre fratelli committenti - i Pisani - lo trovate poco distante da Lonigo, in frazione Bagnolo. Qui sorge Villa Pisani Bonetti, eretta da Palladio nel 1544, inclusa nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco e visitabile.
Su un altro colle di Lonigo si erge invece la Rocca Pisana, progettata da un allievo di Palladio, Vincenzo Scamozzi. L’intento di Scamozzi fu di emulare il capolavoro palladiano per antonomasiala Rotonda a Vicenza - cercando tuttavia di mantenere un proprio tratto stilistico. Il risultato finale, decisamente più manieristico, si discosta dall’impianto di Villa Capra La Rotonda, pur restituendoci quel senso di raffinata eleganza, tipica della bottega palladiana. In questo aiuta decisamente anche la posizione della villa, eretta su uno dei tanti, dolci colli della zona.
Lonigo, protetta e sedotta da questi colli, offre quindi il meglio di sé per tutto l’anno, grazie anche ad un clima mite e temperato.
Ripartiamo ora da Lonigo - in direzione Orgiano - facendo prima una breve sosta ad Alonte, piccolo borgo sui colli, circondato da vigneti.
Su un versante del colle sono visibili otto tombe, riconducibili ad antiche fosse funerarie ricavate nella roccia e di origine alto-medioevali.
Un po’ più a nord, invece, vicino ad una sorgente che si collega a lei, si trova la Grotta dei Mulini, con un imponente strapiombo, oggi attrezzato a palestra di roccia. Questa Grotta è la seconda cavità naturale più lunga dei Colli Berici.
Riprendiamo la Strada provinciale - che conduce a Noventa Vicentina prima e successivamente a Este, ai piedi dei Colli Euganei - e dopo pochi chilometri troviamo le indicazioni per Orgiano.
Tracce medievali
Orgiano ha un passato nobile: sul suo territorio si ergevano castelli e ville venete, sorti perlopiù in epoca medievale. A testimoniare tanta nobiltà campeggia ancora oggi, nel centro del borgo, Villa Fracanzan Piovene, un maestoso complesso che ebbe origine all’inizio del XIV secolo e che si ingrandì progressivamente nel corso dei secoli fino a mostrarsi
Costruita da Palladio nel 1544, Villa Pisani Bonetti fa parte del Patrimonio Mondiale dell’Unesco
definitivamente con la severa imponenza con cui oggi si mostra agli occhi dei viaggiatori.
Il parco che la circonda è uno dei più grandi parchi paesaggistici del Veneto, arricchito da un anfiteatro collinare, dal brolo con gli orti e da una suggestiva sequenza di prati, boschi e zone umide. Visitabile, all’interno della barchessa e nei granai della Villa il Museo della
vita quotidiana e lavoro in villa, una completa raccolta di oggetti e attrezzi agricoli a testimoniare lo stile di vita contadino nelle aziende agricole venete nell’Ottocento.
Ville, trattorie e percorsi
Superato Orgiano e seguendo le indicazioni per Grancona entreremo nella Val Liona, percorrendo una sinuosa strada
che seguendo lo scolo che dà il nome alla valle passa attraverso piccoli borghi disseminati di pievi, Oratori e ville d’epoca. Segnaliamo qui la seicentesche Villa Vajenti e Villa Dolfin, la settecentesca Villa Bollani-Brunello; Villa Custoza Lazzarini a Villa del Ferro, edificata nel 1500. E sempre a Villa del Ferro la quattrocentesca Villa Giacometti. Questa vasta presenza di ville venete che punteggia tutto il territorio si spiega con gli importanti lavori di bonifica che si sono succeduti nei secoli e che ha obbligato le famiglie patrizie ad edificare le loro ville non tanto per villeggiatura quanto per un controllo adeguato e rigoroso dello stato dei lavori e la conseguente resa delle loro tenute.
La Val Liona, una valle verde e ricca di corsi d’acqua, ospitò numerosi mulinialcuni in uso fin dal 1400 - che col tempo, grazie all’utilizzo dell’energia elettrica, vennero tuttavia dismessi. Troveremo in seguito, nel corso del nostro itinerario collinare, altri mulini, a testimoniare un passato vivace ed operoso. Percorrere questa valle è un vero e proprio percorso della salute, tanto è dolce e verde il panorama che si apre ai nostri occhi e alla scarsa antropizzazione (lo sono quasi tutti i Colli Berici, in realtà). Immancabili e preziose le ottime trattorie della zona, dai nomi strani e suggestivi - Moreieta, Scudeleta, Isetta, Penacio, solo per citarne alcune - pronte ad accoglierci con ottimi bolliti, piatti di cacciagione locale, con il tipico tartufo dei Colli e grandi e generosi piatti di formaggi e salumi, nostrani e succulenti.
Nella Val Liona si trovano bellissimi percorsi per il trekking, generalmente di facile e media difficoltà ma sicuramente di grande suggestione per la qualità del paesaggio e dell’aria buona che qui ancora si respira.
I percorsi fra i filari di vigneti, i boschi e i frutteti sono quindi consigliatissimi agli amanti della natura, a chi ama il trekking o le escursioni in bicicletta. Tornando al percorso, riprendiamo la strada che solca la valle e arriviamo al
La Rocca Pisana fu progettata da Vincenzo Scamozzi, un allievo di Palladio
Villa Fracanzan Piovene fu costruita all’inizio del XIV secolo e venne progressivamente ampliata nel corso dei secoli
punto in cui chiare indicazioni stradali ci indicano San Germano dei Berici e successivamente Pozzolo; superato il borgo disponiamoci per una visita all’Eremo di San Donato del Covolo
Di questo antico convento - la cui esistenza è documentata dal 1200 ma che venne infine soppresso da Venezia nel 1600 - rimangono tracce delle fondamenta a ridosso della parete rocciosa.
Teatro di operazioni militari durante la Prima Guerra mondiale, occupato poi dai tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale, tutto il complesso venne in questo periodo definitivamente demolito.
Nel 1980, tuttavia, grazie alla laboriosità del Gruppo Alpini di Pozzolo, viene recuperato l’oratorio e rinnovato il sito del Covolo, ora periodicamente aperto per cerimonie e messe.
Un
percorso nella natura
Riprendiamo la strada e puntiamo a Barbarano Vicentino. La strada che ci conduce a Barbarano è un susseguirsi di filari, vigneti e paesaggi bucolici a perdita d’occhio, a conferma che i Colli Berici sanno regalare improvvisi e inaspettati cambi di prospettiva, così preziosi per un viaggiatore attento.
Arrivati a Barbarano incroceremo subito Villa Godi-Marinoni, un bellissimo complesso settecentesco edificato su un sito precedentemente occupato dall’antico Castello dei vescovi vicentini, distrutto nel 1312. Qui, nell’antica cantina sotterranea, si possono trovare i vini e l’olio prodotti sul posto; all’esterno, l’antica limonaia e la serra, oltre ad un piccolo bosco e al brolo, connessi alla villa da un’importante scalinata. Infine, l’oratorio di San Gaetano, anch’esso eretto nel 1709.
Ritornati sulla strada principale, prendiamo verso il centro del borgo, al centro del quale campeggia una fontana cinquecentesca, la parrocchiale di Santa Maria Assunta e il Palazzo dei Vicari, successivamente chiamato dei Canonici, un tempo centro del potere politico locale; la curiosa caratteristica di questo
quattrocentesco palazzo in stile gotico veneziano è la serie di finestre trilobate del primo piano, ognuna di disegno diverso rispetto alle altre.
Un lago piccolo ma suggestivo
A questo punto del nostro itinerario potemmo seguire due diverse direzioni, scendendo da Barbarano a Ponte di Bar-
barano per affrontare poi la Riviera Berica che ci condurrà a Vicenza. Oppure, e questo è il nostro suggerimento, riprendere la strada ed inoltrarci nei Colli, per una rigenerante visita al Lago di Fimon
Seguendo la strada in direzione Arcugnano, arriveremo così al piccolo Lago di Fimon, l’unico della provincia di Vicenza e, per questo, frequente mèta dei cittadini che qui trovano un’oasi di tranquillità.
L’Eremo di San Donato del Covolo
Nella cantina sotterranea di Villa Godi-Marinoni si possono trovare i vini e l’olio prodotti sul posto
Il lago è di piccole dimensioni ed è anche poco profondo, alimentato da sorgenti d’acqua sotterranee.
Questo specchio d’acqua ha la caratteristica di aver mantenuto intatto il proprio habitat nei secoli, e ciò malgrado le importanti opere di bonifica subite dal territorio e l’antropizzazione che qui, tuttavia, è alquanto modesta.
Per questo la natura qui è stata generosa, esponendo al visitatore pioppi, ninfee e salici e le castagne d’acqua, dal sapore simile alle castagne di terra e che oggi si trovano solo qui.
Ora potrete concedervi una rigenerante passeggiata in uno dei tanti percorsi che qui vengono proposti - particolarmente interessante il Percorso Archeologico Valli di Fimon - oppure decidere di solcare il lago con la barca a remi: avrete comunque visitato - e ci auguriamo, apprezzato - il più importante ambiente umido del Vicentino.
I Colli Berici hanno le loro carte da giocare; un turista di passaggio potrà co-
munque ammirare e visitare anche le ampie aperture carsiche di Lumignano - con la Grotta e l’Eremo di San Cassiano (XI secolo) - la Grotta del Brojon a Longare, la Chiesa della Sacra Incompiuta a Brendola, il Palazzo Prigioni ricavato nella roccia a Mossano, l’Eremo di San Bernardino. Ma soprattutto la placida bellezza delle Valli dei Molini a Mossano e a Fimon, ricche di piccoli e fioriti corsi d’acqua, impreziositi dal silenzio. Terminata la visita del Lago, potreste decidere di visitare il capoluogo, Vicenza.
Birrificio Ofelia. Dodici anni di successi!
Proprio nel centro storico della città si trova il Beerstrot del Birrificio Ofelia. Ci sono poche realtà brassicole in Italia che abbiano avuto uno sviluppo così rapido come successo per questo Birrificio. Soprattutto uno sviluppo qualitativo. Il Birrificio è nato nel 2012 dalla passione di Lisa e Andrea, soci e compagni
nella vita, un recente passato da chef lei, economista ma con vista su vino e birra Andrea.
Nel loro impianto, che si trova a Sovizzo, poco distante dai Colli Berici, hanno così preso forma birre originali, ricercate e spesso audaci, realizzate anche grazie alla continua ricerca e ad un uso di spezie provenienti da ogni parte del mondo. Di fatto birre che hanno presto spopolato nei vari contest nazionali, accolte con favore da un vasto pubblico che ha infine apprezzato anche le proposte gastronomiche della tap room, adiacente il Birrificio di Sovizzo.
Una proposta gastronomica arricchita dalla recente apertura dell’Ofelia Beerstrot, dove oltre alla produzione dell’Ofelia si possono degustare anche birre prodotte da altri birrifici.★
L’itinerario completo lo trovate su “Turismo birrario. Guida per viaggiatori in fermentoNord Est” di Pierluigi Bruzzo, Gabriele Navoni e Luca Grandi. L’intera opera è curata da Luca Grandi. Edizioni LSWR
Il Lago di Fimon è l’unico della provincia di Vicenza e, per questo, frequente mèta dei cittadini
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CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG Il supergruppo che fece sognare un’intera generazione
Quante birre gustate in locali, in casa o in un prato assieme ad amici ascoltando “quella musica” che rappresentava una generazione. Era la generazione di quei ragazzi che credevano in un mondo differente, senza guerre, dove l’amore trionfava e la musica rock e folk era il loro mezzo per comunicare al mondo che loro esistevano. Un’utopia, se vogliamo, ma che ha
colorato le città regalando sorrisi in un clima funereo che vedeva l’incombere di un’ennesima, inutile, guerra. Inghilterra e Stati Uniti si suddividevano il primato di aver prodotto la maggior parte dei progetti musicali, dove le esperienze dei vari artisti si mescolavano e fondevano quasi ci fosse un mastro birraio a dettare proporzioni e ingredienti. Ed era una “birra di grande qualità”
quella che usciva dagli amplificatori e dalle chitarre di questi giovani musicisti, che potremmo definire irripetibile.
California dreamin’
La California era indiscutibilmente in quegli anni sul finire dei favolosi Sessanta e primi Settanta lo Stato USA che ha visto la maggior parte degli esperimenti sonori, dalla psichedelia al blues e a tut-
to quel suono definito West Coast che vedeva in Crosby, Stills & Nash dei veri eroi appena dopo la loro partecipazione al mega festival di Woodstock, dove vennero raggiunti sul palco dall’artista canadese Neil Young, e da quel giorno le cose cambiarono per tanti. La recente pubblicazione (uscita per fine ottobre) da parte dell’etichetta Rhino dell’album “Live at Fillmore East, 1969” riporta in luce quel disco - sempre live - che permetteva soprattutto a noi, per i quali l’America era lontana, di poter immaginare di partecipare ad un concerto di quel livello come se fossimo nella patria del rock mondiale.
Il 7 aprile 1971 faceva il suo debutto sul mercato mondiale “4 Way Street” (Atlantic, 60 003 | 2-902) ad oggi l’album dal vivo più bello e famoso di Crosby, Stills, Nash & Young, emblema di un’intera generazione e crocevia di 4 strade, con differenti esiti per 4 grandissimi musi-
cisti che non riusciranno più a trovare insieme quella magica alchimia che li aveva portati ad essere il supergruppo più famoso e pagato al mondo. Dopo il clamoroso successo di “Déjà vu” dell’anno precedente, questo doppio vinile ci ripropone solo una parte delle esibizioni tenute da Crosby Stills Nash & Young - con l’aggiunta dei bravi Johnny Barbata alla batteria e di Calvin “Fuzzy” Samuel al basso - tra il 2 e il 5 luglio del 1970 al celebre Fillmore East di New York, al Forum di Los Angeles e al Chicago Auditorium della celebre metropoli dell’Illinois. Questa è, bootleg a parte, l’unica e la qualitativamente migliore occasione per ascoltare questi quattro colossi della musica dal vivo e nel loro migliore periodo artistico. Un concerto che si divide tra acustico ed elettrico, tra brani in completa solitudine e corali, ma capace di regalare brividi dalla prima all’ultima nota.
Possiamo sentire come le armonie vocali non erano trucchi di studio, ascoltare brani già apparsi su precedenti album del gruppo o dei singoli o ancora inediti ma, soprattutto, possiamo avere una tangibile e reale occasione di capire cosa voleva dire avere sullo stesso palco Stephen Stills e Neil Young che duellavano furiosamente con le loro chitarre in un intreccio tra psichedelia e rock che aveva reso immortale ogni concerto dei Buffalo Springfield
Un’alchimia irripetibile
L’album parte con le bellissime note finali di “Suite: Judy Blue Eyes” che precedono l’ingresso del canadese che ci regala una magnifica “On The Way Home” aiutato alle armonie vocali dagli altri tre amici. Tocca a Graham Nash proporci una delle sue più celebri canzoni, quella “Teach Your Children” che, pur priva della pedal steel di Jerry Garcia, saprà far sognare intere generazioni. Segue David Crosby con la sua magnifica voce e la scabrosa e, allo stesso tempo, sublime “Triad” dal testo talmente provocatorio che i Byrds si rifiutarono di interpretarla. Ancora il baffuto Croz con uno dei gioielli del disco, “The Lee Shore” assieme all’amico Nash che diverrà vero protagonista con la seguente “Chicago/We Can Change The World”, pianistica e meravigliosamente interpretata, che apparirà il mese successivo
sull’album solista del cantautore inglese “Song For Beginners”.
È tempo di voltare il primo dei 2 vinili e ancora il duo ci propone una delicata
“Right Between The Eyes” prima di lasciare posto al solitario Young che ci regala 2 vere perle. “Cowgirl In The Sand” in una acustica e quasi sommessa versione che è in totale antitesi con l’originale ed elettrica apparsa in “Everybody Knows This Is Nowhere” e il gioiello “Don’t Let It Bring You Down” da “After The Gold Rush”.
Il compito di chiudere tocca a Stills che, solo al pianoforte, subito ci stupisce proponendoci una versione da brividi di “49 Bye-Byes/America’s Children” inventata al momento ma che, alla fine, risulterà un vero capolavoro. Imbraccerà, infine, la sua Martin D45 per interpretare, assieme agli altri amici, “Love The One You’re With” dal bellissimo album di debutto del texano. Si chiude così la sezione acustica di questo 4 Way Street ed eccoci alla grintosa parte elettrica che apre il lato 3 con
“Pre-Road Downs” di Nash e qui iniziano a scaldarsi i due chitarristi in un continuo rincorrersi che inizierà a farsi particolarmente incessante dalla seguente “Long Time Gone”, sempre bellissima con lo scambio vocale tra Crosby e Stills. Sono, però, i 13 minuti di “Southern Man” a colpirci con le delicate, prima, e graffianti, poi, note dei due amici/nemici dove uno Stills più tecnico e blues si scontra con Young e tutta la sua irruenza. Un brano ancora oggi spiazzante per bellezza, così come la seguente “Ohio” - sempre dal repertorio di Young e che apre l’ultima facciata - con tutta la sua sferzante drammaticità a raccontarci dei tristissimi fatti accaduti nel Campus di Kent.
Nemmeno un attimo di pace e subito “Carry On” ci riporta ad una ipnotica e lunghissima cavalcata chitarristica nel celebre brano che apriva “Déjà vu”. Pace, quasi eterna, che giungerà con la conclusiva “Find The Cost Of Freedom” dove, dopo una introduzione di chitarre acustiche, le voci - da sole - dei 4 saranno libere di regalarci tutta la drammaticità di questo brano, perfetto per chiudere concerto e album.
Una nuova versione
Nel 1992 è uscita una nuova versione in CD con sole 4 bonus track, “King Midas In Reverse” scritta da Nash assieme ad Allan Clark e Tony Hicks, suoi compagni negli Hollies, la bellissima “Laughing” di Crosby che finirà in quel capolavoro assoluto che è “If I Could Only Remember My Name” e il blues di Stills “Black Queen” sempre dall’omonimo suo primo album. Ma il pezzo forte è il conclusivo medley “The Loner/Cinnamon Girl/Down By The River” col quale Neil Young ci dimostra che è, indiscutibilmente, uno dei più grandi interpreti della musica moderna.
E adesso attendiamo di ascoltare il nuovo attesissimo live di questi quattro grandissimi artisti, e sono sicuro che le birre verranno spillate come si faceva un tempo, perché la nostalgia è contagiosa. ★
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La questione delle accise sulla birra è da sempre un tema spinoso per il settore della produzione, ma nelle ultime settimane sembra finalmente prospettarsi un intervento strutturale e non temporaneo. Dal 1° gennaio 2025, infatti, le accise sulla birra prodotta in Italia saranno ridotte a 2,97 centesimi per grado Plato. Questa proposta, approvata dalla Commissione Agricoltura della Camera nel parere sulla Legge di Bilancio 2025 in discussione a Montecitorio, prevede riduzioni specifiche per i birrifici di dimensioni più contenute: un taglio del 50% per i birrifici con produzione annua fino a 10.000 ettolitri, del 30% per quelli tra i 10.000 e i 30.000 ettolitri, e del 20% per produzioni tra i 30.000 e i 60.000 ettolitri.
La reputazione della birra, un parametro che viene contemplato nelle ricerche economiche sui flussi di mercato, in Italia registra tra i valori più alti in Europa e nel nostro paese supera, secondo i dati del 2024, di un punto percentuale il vino. Aumenta il turismo brassicolo come formula per lo storytelling dei diversi soggetti che fanno birra e aumentano le produzioni agricole in Italia per materie prime locali. In Italia oggi il comparto brassicolo conta circa 110.000 lavoratrici e lavoratori dipendenti direttamente e solo nella produzione e distribuzione. Il dato è in crescita, in particolare rispetto all’indotto dovuto alla tendenza di radicare più nel contesto nazionale: produzioni di materia prima, locali di somministrazione e azioni di turismo
brassicolo. Questi sono alcuni dei temi principali che si affrontano quando si parla di birra ma grazie a chi possiamo assaporare questa bevanda che tanto amiamo e giudichiamo?
Il Birrificio Alveria è un birrificio che si autodefinisce da sempre, non a caso, caparbio; nato nel 2015 a Canicattini Bagni, in provincia di Siracusa, dalla passione e dall’amicizia di Gabriele Siracusa e Ivan De Gaetano che producono birra in modo artigianale con un piccolo impianto: Gabriele è responsabile di produzione, Ivan referente commerciale mentre Dario Ponzo (bold) si occupa di logistica anche se poi ognuno cerca di fare tutto nel supportare gli altri. Li abbiamo intervistati per Birra Nostra Magazine.
? Come nasce l’idea di fare birra?
Alveria nasce da una forte passione iniziata nel 2005, anno in cui sono venuto a contatto con la birra artigianale a Pisa dove mi sono laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie.
In quel periodo frequentavo spesso un brew pub che autoproduceva la propria birra e ne sono stato fulminato. Da lì è stato l’inizio di quello che oggi sono e che faccio. Iniziai con le classiche Ipa molto luppolate avvicinandomi sempre di più e rapidamente alle produzioni artigianali e i vari stili birrari. La mia passione è cresciuta sempre di più e in cuor mio sapevo che prima o poi avrei aperto un birrificio. Nel 2012 sono rimasto senza lavoro e pur se le possibilità erano molte, mi sono voluto basare sulle mie passioni: se tanto devi faticare, meglio farlo in qualcosa in cui credi e che ti affascina ed incuriosisce ogni giorno. A me piaceva fare la birra e da lì siamo arrivati ad avere il birrificio. Ho iniziato come homebrewer, ho studiato parecchio, fatta molta pratica ed usato i miei risparmi per poter avviare ed aprire il nostro birrificio.
? Il vostro slogan è Bevi Caparbio e avete un asino come logo. Te lo avranno chiesto mille volte, ma ci vuoi raccontare il perché?
Facile. L’asino e il nome Alveria sono correlati poiché l’impianto è stato assemblato nella struttura ricettiva del mio socio Ivan, un agriturismo dove c’è un allevamento di asini: il borgo Alve-
ria nella Val di Noto e quindi abbiamo riportato nel logo ciò che è la nostra genesi, la nostra origine. Il nome del birrificio è l’asinello che avevamo sempre lì accanto.
Nel tempo poi ci siamo resi conti che questa immagine e questo approccio ci rappresentano molto bene e ci sentiamo di aver fatto la scelta migliore.
? Parto dall’ultima collaborazione che avete fatto con Yblon e Onei. Che ne pensi delle collaborazioni tra birrifici? Quale il loro valore aggiunto? Fare una birra in collaborazione coinvolge diversi aspetti. Il primo sicuramente è rappresentato dallo stare in-
sieme, perché in birrificio spesso si è soli e condividere la passione comune attraverso una cotta in compagnia è un modo che serve ad aggregare e a spolverarci un po’ la mente, la creatività, a prendere spunti da altri pensieri; in sintesi, almeno per me, una sorta di esercizio catartico. Non si deve, davvero, mai smettere di osservare ed ascoltare quello che succede intorno a te. Dal punto di vista della visibilità è chiaro che, se collabori, ci sono più soggetti che comunicano, ognuno con la propria clientela e questo aumenta molto il giro di conoscenza e di interazione. Questo è molto positivo perché è uno stimolo anche per il singolo birrificio
Gabriele Siracusa e Ivan De Gaetano di Birrificio Alveria
che vede come la clientela reagisce ad una nuova birra nata dalla collaborazione tra più birrifici. Lo stesso vale per i locali che si incuriosiscono da una nuova birra fatta a più mani. I costi sono sostenuti dal birrificio in cui si produce ma, se domani volessi repli-
care la birra e la ricetta, non ci sarebbero problemi, anzi!
? Mi racconti l’ultima collaborazione?
Con gli amici, Francesco di Onei e Marco di Yblon, abbiamo deciso di fare
una birra a sei mani con luppoli freschi italiani, in parte locali prodotti qui in zona e altri da Italian Hops Company: si tratta di una fresh hop edizione 2024. Volevamo un prodotto bello profumato, intenso e facile da bere ma con un carattere dato dalla freschezza e il mix dei luppoli che insieme abbiamo selezionato. Vedi quanto sia uno dei momenti più interessanti quando si testa, si prova, si sperimenta e ci si confronta.
? Siete stati uno dei primi birrifici in Sicilia e siete noti non solo nell’isola ma in tutta Italia e oltre. Siete stati invitati anche in contesti internazionali a presentare le vostre produzioni, tra cui la vostra IGA. Come ci racconteresti il cambiamento del settore brassicolo in Sicilia?
Sicuramente il nostro settore è cresciuto e c’è una maggiore consapevolezza da parte delle persone, in linea con quelli che sono i tempi, con quello che è successo un po’ di anni fa in Nord America e che poi è arrivato anche in Italia, interessando soprattutto Roma e poi in tutta Italia, fino ad arrivare da noi. Le persone conoscono sempre più il prodotto artigianale e lo ricercano. La nostra isola è grande e varia e questo influisce anche nella produzione di birra: ci sono
La birra Fresh Hop
È una tipologia di birra che si caratterizza per l’uso di luppolo fresco, o “wet hop”, raccolto e utilizzato nella birrificazione entro poche ore o, al massimo, un paio di giorni dalla raccolta. Wet quando ancora umido fino
all’80% del luppolo e fresh quando sono passati pochissimi giorni. Questa freschezza del luppolo distingue le birre Fresh Hop da quelle tradizionali, in cui si utilizzano luppoli secchi, in pellet o in estratto.
Gabriele Siracusa con Eleni Pisano
tendenze e stili diversi ma credo che in generale ci sia sempre maggiore attenzione e consapevolezza in quello che si fa. Ad esempio, le persone nei festival, per noi importantissimi per fare analisi di mercato, chiedono e hanno in mente uno stile, non solo una birra “bionda” o “scura”.
?
C’è qualcosa che caratterizza il modello siculo di fare birra artigianale?
Siamo un’isola felice, bellissima, diversa, si vive bene e si vive moltissimo di turismo. Le persone vengono in Sicilia per stare bene, mangiare i nostri prodotti, conoscere il nostro contesto, bere vino (storicamente) e ora sempre di più la birra. Il turista va a cercare il prodotto locale. Per farti capire, io probabilmente non vado a Milano a cercare una birra di Milano da abbinare al risotto allo zafferano. Qui invece forse la birra è molto territoriale e locale. Poi siamo un’isola e ci sono logistiche e modalità di distribuzione diverse perché abbiamo costi differenti.
? Esportare sì o no? Scelta o obbligo?
Noi come Alveria esportiamo, attraverso alcuni contatti interni e solidi nel tempo, negli Stati Uniti, con precisione in zona California. In generale credo che esportare, visti i costi enormi delle accise e non solo, non sia affare utile ed interessante oltre che sostenibile per un piccolo microbirrificio. Il rischio è quello di impegnarsi moltissimo e non riuscire a guadagnare il che significa non riuscire a far andare avanti la tua attività. Noi distribuiamo, in modo diretto, in tutta Italia e devo dire che a me va bene così.
? Come scegliete cosa produrre?
Non a tavolino, non seguendo quello che decide il mercato. Poi quale mercato? Nazionale? Locale? Cerchiamo di fare quello che crediamo vada bene per il nostro territorio e le persone che lo frequentano. Una birra che ci caratterizzi e ci faccia riconoscere. Poi le evo-
luzioni su una birra sono continue non ti devi fermare ma non puoi neppure produrre senza pensare dove sei e dove vivi. Non mi metterei a fare birre adatte a climi diversi da quello in cui sto. Qui quando fa caldo superiamo i 45 gradi all’ombra, propongo una stout o un’imperial? Il gioco è quello di creare, almeno per quello che ci riguarda, una birra beverina, fresca.
Poi può essere prodotta anche la birra “piaciona” ma quello è normale, devi solo stare attento a non ammazzare la spontaneità del birraio e del birrificio senza programmare tutto e fare tutto a tavolino. No. Almeno per me, per noi è così.
A me piace quello che faccio; è impegnativo, faticoso, imprevedibile ma
anche una passione che ti alimenta e si trasforma di continuo. Lo vedi nelle persone, quando ti chiedono quella birra particolare perché se la ricordano ancora, o quelli che arrivano e sanno cosa vogliono, quelli che si fidano della novità perché sanno chi sei e come lavori.
Finita l’intervista mi rendo conto di quanto un mercato sia fatto di regole, consuetudini e norme ma come esso si possa alimentare solo attraverso chi lo crea e costituisce e quanto sia importante ascoltare il punto di vista di persone e birrai come Gabriele che fanno di una passione uno stile di vita e un mestiere fatto di professionalità: i migliori ingredienti per fare un’ottima birra. ★
Gabriele, Ivan e Dario, crew di Alveria
LA BIRRA “ANTICA” di Düsseldorf
Il mondo birrario contemporaneo è caratterizzato da un costante incremento del numero di produttori, da nuove etichette lanciate mensilmente da birrifici che fanno a gara per inserire nelle proprie ricette nuovi luppoli sperimentali, spezie rare importate dagli antipodi o improbabili legumi dimenticati. Ma esistono ancora luoghi che al
beer hunter appaiono immutati da lustri: in alcuni locali birrari, un ipotetico viaggiatore nel tempo non riuscirebbe a intuire in quale anno è capitato, se non adocchiando i telefoni cellulari sui banconi dei bar o per le mode nel vestiario degli avventori.
Uno di questi luoghi è sicuramente la città di Düsseldorf, tradizionalmente as-
sociata allo stile birrario “Alt”, termine traducibile in italiano come “vecchio”, “antico”. Diversamente dalla Kölsch della vicina Colonia, Altbier non è una denominazione protetta e quindi non può essere ricondotta esclusivamente a prodotti brassati a Düsseldorf, ma la maggior parte della produzione e del consumo di questo stile birrario conti-
nua ad avvenire nella regione della Renania settentrionale, a testimonianza di una tradizione che ancora oggi resiste, nonostante le mode che si susseguono nei boccali in altre parti del mondo. Altbier è, tecnicamente, come la Kölsch, una birra ad alta fermentazione, fermentata a temperature vicine ai 20 gradi e poi maturata a lungo al freddo, similmente alle lager bavaresi. La caratterizzazione più importante dello stile è derivata dal cospicuo uso di malti Vienna e Monaco che, talvolta in associazione a malti caramello e torrefatti, sono responsabili del colore ramato scuro della birra. A differenza della Dunkel, altro stile tedesco caratterizzato dall’uso del malto Monaco, il livello di amaro è abbastanza elevato e l’attenuazione medio alta; questi connotati, uniti a una carbonazione moderata e a un grado alcolico
inferiore al 5%, permettono di ottenere un prodotto molto beverino e raramente l’avventore riesce a fermarsi al primo bicchiere.
Convento di Gerresheim: il primo birrificio ufficiale di Düsseldorf
La prima testimonianza storica di un birrificio a Düsseldorf risale al 873, anno in cui l’arcivescovo di Colonia concede diritti di birrificazione al convento di Gerresheim, oggi sobborgo orientale della città. Da allora si riportano, nel corso dei secoli, da 50 a 100 birrifici costantemente attivi nei confini cittadini almeno sino alla seconda guerra mondiale: dopo il conflitto ne rimangono solo 18. Oggi, dopo ulteriori chiusure e fusioni, a Düsseldorf si possono bere Altbier prodotte da tre grossi gruppi multinazionali come AB InBev (Diebels Alt), DABRadeberger (Hansa Alt e Schlösser Alt) e Oettinger-Carlsberg (Hannen Alt) ma anche quelle realizzate da una manciata di brewpub e medio-piccoli birrifici cittadini: negli ultimi anni alcuni sono spariti, ma altri nuovi ne sono nati.
Tralasciando i prodotti “industriali” citati che probabilmente offrono al bevitore limitate emozioni, a Düsseldorf il beer hunter può sbizzarrirsi nel bere le Alt locali in diverse modalità: queste possono essere reperite in bottiglia, anche nella grande distribuzione, o alla spina in numerosi bar e birrerie; l’opzione più interessante è tuttavia quella di visitare i “locali ufficiali” dei diversi birrifici, spesso posizionati nel medesimo stabile degli impianti produttivi, in cui il servizio è realizzato con mescita da botticelle e botti, di varie dimensioni, a caduta. A parte l’estetica e il fascino retrò del rivestimento in legno delle botti, questo tipo di servizio dovrebbe assicurare una più coinvolgente esperienza degustativa, grazie a una carbonazione del prodotto più delicata e - almeno teoricamenteuna eccellente freschezza della birra, vista la vicinanza agli impianti produttivi. Il visitatore più attento potrebbe notare che le botti, trasportate dalla cantina del locale per mezzo di carrelli a due ruote e posizionati sopra il bancone di mescita a forza di braccia da parte dei camerieri o talvolta per mezzo di paranchi, sono
spesso di dimensione variabile: le botticelle più piccole, da 20 litri, sono utilizzate negli orari di apertura mattutina e nei giorni feriali, mentre in serata e nei fine settimana queste fanno spazio a contenitori più capienti, da 30 e 50 litri. La logica è naturalmente quella di evitare la permanenza sul bancone di prodotto che possa scaldarsi eccessivamente o perdere carbonazione se non addirittura ossidarsi; l’eventualità è in effetti solitamente remota, visto il consumo pro capite e soprattutto considerato il fatto che la Altbier servita è normalmente l’unica tipologia di birra disponibile. A queste condizioni, è impensabile non esaurire la botte in un paio d’ore. Per noi consumatori ormai avvezzi a locali birrari con 20-30 spine tra le quali scegliere, pensare a birrerie che servano solamente un’unica tipologia di birra sembra in effetti molto strano, ma anche considerando il retaggio culturale di aree che da secoli considerano la birra alla stregua
di un alimento (pane liquido), tutto ciò esprime una propria coerente logica. Tradizionalmente il servizio della Alt è effettuato con il classico bicchiere da 0,25 cl che assicura una birra sempre fresca e alla temperatura corretta. Come nella vicina Colonia, nelle birrerie di Düsseldorf i camerieri passano con regolarità tra i tavoli con un vassoio carico di bicchieri pieni e li sostituiscono, dopo un rapido cenno d’intesa col cliente, a quelli vuoti, segnando sul sottobicchiere una tacca in matita per ogni “rabbocco” effettuato. Capita che, dopo qualche tacca sul sottobicchiere, i köbes (nome dialettale dei camerieri locali) sostituiscano il bicchiere vuoto senza più chiedere esplicitamente: a questo punto, si può segnalare la volontà di smettere di bere semplicemente non terminando la birra o appoggiando il sottobicchiere sul bicchiere vuoto. In alcuni locali, tuttavia, il rapido susseguirsi di bicchieri al bancone non è sempre gestito nel migliore dei modi e talvolta il lavaggio è compresso in un semplice risciacquo manuale in lavandini con sapone e acqua dalla dubbia pulizia. Il degustatore più attento che torna più volte nel medesimo locale nota sicura-
mente che può esserci una minima variabilità nel prodotto tra le diverse botti oggetto di servizio: in queste condizioni la variabilità può essere (purtroppo) evidente anche tra bicchieri in mescita dalla stessa botte; i clienti abituali non sembrano tuttavia preoccuparsi più di tanto di queste discutibili pratiche!
La regola dell’unica tipologia di birra disponibile non è in realtà sempre assoluta: occasionalmente, una o due volte l’anno, i birrifici realizzano una versione “muscolare” della Altbier, chiamata Sticke (“segreto”, “pettegolezzo” in dialetto locale). La Sticke è più maltosa della versione base, più tostata, amara e luppolata, con un grado alcolico attorno ai 6,5; un produttore (Uerige) si spinge addirittura sino agli 8,5° Alc con una birra che può essere interpretata come l’equivalente della doppelbock in versione Alt.
Alt non solo in Germania E in Italia? Per chi non ha la possibilità di effettuare un viaggio a Düsseldorf, lo stile birrario Alt può essere trovato anche da noi, presso alcuni microbirrifici. Certamente, la Altbier è geograficamente localizzata in Germania e difficilmente
reperibile al di fuori della Renania settentrionale e anche tra i nostri birrifici lo stile non è tra i più popolari. Tuttavia, è possibile assaggiare diverse interpretazioni di ottima qualità, anche se molte di queste sono brassate stagionalmente (se non addirittura one-shot). Probabilmente la prima produzione nostrana è quella del birrificio torinese Grado Plato che nei primi anni 2000 ha creato la Sticher, 6,5° Alc, il cui nome è una crasi di sticke e Chieri,
Schumacher
Oststrasse 123, Düsseldorf www.schumacher-alt.de
la cittadina dove è nato il birrificio. La Sticher è a tutt’oggi prodotta, così come un’altra Alt torinese: Jatobà, 5,5° Alc, del birrificio San Paolo; di concezione più recente è invece la Alterelvo del biellese Elvo, di 4,8° Alc, interpretazione godevole ma forse troppo “pulita” rispetto alle ruvidezze delle originali Alt di Düsseldorf. Apparentemente, per numero di Altbier prodotte, il Piemonte sembra essere la nostrana Renania, ma birre ottima-
Il produttore cittadino più antico, attivo dal 1838. Oltre all’indirizzo indicato, sede del birrificio, nella centrale Bolkerstrasse gestisce un altro ampio e popolare locale. Produce, oltre alla Alt base e a una propria versione di Sticke, una Alt “moderna” con luppolatura americana, denominata 1838er.
Uerige
Bergerstrasse 1, Düsseldorf www.uerige.de
La birreria è un dedalo di ambienti piccoli e grandi, di grande fascino, sempre popolato di avventori locali ma anche molti turisti. Uerige, considerato dai beer hunter il birrificio di punta dello stile, oltre alla Alt e alla Sticke produce una Doppelsticke da 8,5°Alc.
Füchschen
Ratingerstrasse 28, Düsseldorf www.fuechschen.de
Qualche centinaio di metri a nord del centro, Füchschen produce probabilmente la Altbier più “rustica” tra quelle cittadine. Qui la minor “pulizia” gustativa non è sinonimo di difetto, ma di carattere. In menù ha anche una propria pils e una weizen.
L’ampio e caratteristico stabile su due piani è frequentato da turisti e locali che in serata affollano anche la strada antistante. Rispetto ad altre Alt, Schlüssel è quella che esprime tratti evidenti di luppolo in aroma, “modernizzando” a modo proprio lo stile.
mente ispirate dallo stile Alt si trovano anche al di fuori di questa regione: è il caso della Sticke Alt, 6,5° Alc, del friulano Foglie D’Erba, della Mahlzeit, 5,5 °Alc, del marchigiano MC77 e de La Carretta, 5,2° Alc. del siciliano Rock Brewery. Tra le birre citate, forse è proprio quest’ultima, quella realizzata dal birrificio più lontano da Düsseldorf, la produzione stilisticamente più vicina alle originali tedesche. ★
Il maggiore tra i produttori qui citati (o il più piccolo degli “industriali”?) non produce più in Düsseldorf da un decennio ma a Werstein, dopo che una consistente quota azionaria è stata acquisita dal gruppo Wersteiner.
Brewpub posizionato a un paio di chilometri a ovest del centro cittadino, creato nel 2011. Produce nella sala cottura, posizionata in bella vista all’ingresso del locale, solamente un’unica referenza denominata Gulasch Alt.
Aperto nel 2010 in pieno centro, questo brewpub si stacca dalla tradizione attirando clientela giovane in un ambiente postindustriale. Anche il servizio è innovativo: la Alt viene riversata automaticamente dalla cantina in un contenitore trasparente sul bancone e da qui nei bicchieri.
Brewpub facente parte di una catena di cinque locali con sedi sparse tra il nord e il sud della Germania, realizza con regolarità una Alt ma anche una Helles e una Dunkel, con diverse oneshot a rotazione.
HANNO SCRITTO PER NOI
Giorgia Bertan
Laureata in Mediazione linguistica e culturale, con un passato nella logistica e una grande passione per la birra artigianale che mi accompagna da una decina di anni. Nel 2020 ho mollato tutto per tornare sui banchi di scuola e diventare birraia. Oggi mi divido tra Piemonte e Lombardia lavorando in produzione da Birrificio Castagnero e Serra Storta.
Flavio Boero
Perito chimico, ho iniziato a lavorare nel 1973, in qualità di tecnico di Laboratorio, alla Poretti S.p.A. di Induno Olona e quando l’azienda è acquisita da Carlsberg sono diventato responsabile qualità fino al pensionamento. Fin dal sorgere dei primi microbirrifici mi sono appassionato alla birra artigianale collaborando attivamente ai corsi di formazione per birrai e beer-sommelier. Partecipo, in qualità di giudice, ai concorsi birrari in Italia e all’estero.
Stefano Buiatti
Dal 1994, docente di Tecnologia della Birra presso l’Università di Udine. Esperienze in controllo qualità della Birreria Moretti di Udine e di ricerca presso il Brewing Research International a Nutfield, in Inghilterra. Consulente esperto nella valutazione di progetti tecnico scientifici per la Commissione Europea e presso la Fondazione Edmund Mach a San Michele all’Adige. Autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative.
Andrea Camaschella
Appassionato di birra da svariati anni, è coautore dell’Atlante dei birrifici italiani, docente ITS Agroalimentare per il Piemonte e in svariati altri corsi.
Norberto Capriata
Scienziato, filosofo, artista, pornografo, viaggiatore del tempo, mi divido tra la florida attività di arrotino-ombrellaio e la passione per la birra artigianale. Ho collaborato con le principali riviste del settore, a loro insaputa, e insegnato in vari corsi di cultura birraria, che nessuno ricorda. Conosco perfettamente la differenza tra Porter e Stout, ma non la rivelerò mai.
Anna Cataldo
Dottoressa magistrale in Imprenditorialità e Qualità per il Sistema Agroalimentare e docente di chimica analitica e strumentale presso gli istituti superiori. Homebrewer e appassionata di birre altamente luppolate.
Katya Carbone
Ricercatore presso CREA Centro di ricerca Olivicoltura, Frutticoltura, Agrumicoltura. Responsabile del laboratorio di “Chimica e Biotecnologie degli Alimenti”, sono da anni impegnata nel settore brassicolo e in quello luppolicolo in particolare. Coordinatrice di diversi progetti nazionali sulla filiera, sono autrice di numerose pubblicazioni ed esperto tecnico al Tavolo di settore presso il Masaf, dove coordino il GdL “Ricerca e Sperimentazione”. Sono membro dello Steering Committee per la stesura del Piano di settore del luppolo.
Lorenzo “Kuaska” Dabove Degustatore, esperto, docente, giudice e scrittore di birra. Pioniere nel supportare il movimento artigianale italiano. Principale combattente nel preservare il lambic e la gueuze tradizionali. Dal mese di aprile 2021 ho assunto la carica di Presidente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Accademia delle Professioni di Padova. Ho pubblicato “La birra non esiste”, “Le Birre” e “Il Manuale della Birra” con contributi e capitoli di libri di Michael Jackson, Tim Hampson, Garrett Oliver, Randy Mosher, Tim Webb e Stephen Beaumont.
Giorgia Bertan
Lorenzo “Kuaska” Dabove
Anna Cataldo
Katya Carbone
Flavio Boero
Stefano Buiatti
Andrea Camaschella
Norberto Capriata
QUEST’ANNO
Massimo Faraggi
Pioniere dell’homebrewing in Italia e docente di birra fatta in casa, sono stato co-fondatore di MoBI e curatore della rivista dell’associazione. Sono autore di articoli e libri di tecnica e cultura birraria.
Francesco Licciardo
Sono un economista agrario impegnato in attività di analisi e ricerca presso il CREAPolitiche e bioeconomia. I miei studi comprendono, fra gli altri, gli effetti delle politiche di sviluppo rurale, i processi di aggregazione nel settore agroalimentare e le analisi di filiera, tra cui quelle minori come il luppolo.
Michele Matraxia
Docente di Scienze Agrarie, Dottore di Ricerca in Microbiologia Agroalimentare e homebrewer. Mi occupo di selezione e screening tecnologico su lieviti non-convenzionali per le produzioni di birre e idromeli. Ho da poco discusso la mia tesi di dottorato dal titolo “Innovazioni biotecnologiche nei processi fermentativi delle birre e di bevande fermentate a base di miele”.
Marco Parrini
Sommelier e Degustatore (Vino-Birra-Olio-Distillati), homebrewer di vecchia data, appassionato di miele e dei fermentati a base di questo prodotto, ho studiato come autodidatta quasi tutto lo scibile sull’argomento fino a proporre al mercato italiano il primo libro dedicato all’idromele.
Paolo Passaghe
Laureato in Controllo e Gestione della Qualità dei Prodotti Alimentari, dottorato in Scienze degli Alimenti (2014), con uno studio sulla stabilità colloidale di birre artigianali prodotte con succedanei gluten free, presso l’Università degli Studi di Udine. Collaboratore del Prof. Stefano Buiatti nella sezione di ricerca e sviluppo (Brewing Science Group) e tecnico della micromalteria sperimentale dell’Università di Udine.
Angelo Ruggiero
Homebrewer dal 2006, nel 2010 avvio il blog berebirra.org, dove tuttora racconto i miei viaggi birrari e le cotte casalinghe. Dal 2012 collaboro con diverse associazioni e nel 2017 divento giudice BJCP, cominciando anche l’avventura da birraio per Lieviteria. Sono autore anche per Fermento Birra, docente in corsi di degustazione e homebrewing, organizzo e partecipo come giudice a concorsi. Sono autore con Francesco Antonelli di Fare la birra in casa (2020) e di Birra a Praga (2023) con Paolo Crovace.
Christian Schiavetti
Appassionato alla birra con le prime bottiglie collezionate e i primi sottobicchieri. Dal 2010 ho iniziato a viaggiare in Belgio e in Franconia ma non solo. Diversi corsi targati MoBI, anche da homebrewer e Good Beer, mi hanno portato ad aprire il blog Birre Bevute 365 e collaborare tra altri con Giornale della Birra e Guida alle birre D’Italia. Amo viaggiare e in particolare amo le birre tedesche.
Stefano Tomassini
Collaboratore tecnico di ricerca presso CREA - Politiche e Bioeconomia, dove svolgo attività di sviluppo, realizzazione e gestione di banche dati, con particolare esperienza nell’analisi statistico-territoriale e nell’utilizzo di strumenti GIS.
Federico Viero e Vanessa Alberti
Coppia di chimici industriali appassionati di birra artigianale da diversi anni. Essendo dei giramondo abbiamo unito la nostra passione brassicola con quella per i viaggi andando a scovare birrifici anche nei posti più remoti del pianeta.
Massimo Faraggi
Michele Matraxia
Christian Schiavetti
Paolo Passaghe
Federico Viero e Vanessa Alberti
Stefano Tomassini
Angelo Ruggiero
Francesco Licciardo
Marco Parrini
HANNO SCRITTO PER NOI SU QUESTO NUMERO
Alessandra Agrestini
Bellunese di nascita, bolognese (o meglio sanlazzarona) d’adozione. Consulente e divulgatrice birraria freelance, collaboro con diverse associazioni per docenze e corsi brassicoli. Giudice internazionale da più di una decade, autrice del libro Di cotte e di crude: 30 anni di birra artigianale italiana
Davide Bertinotti
Dal… secolo scorso viaggio, bevo, produco (per autoconsumo) e racconto birre. Sono autore di libri sulla produzione, servizio della birra e sul mondo dei microbirrifici italiani. Docente di produzione presso ITS Mastro Birrario Torino.
Antonio Boschi
Grafico di professione e grande appassionato di musica e di arte. Titolare dell’agenzia WIT Grafica & Comunicazione, ho all’attivo l’ideazione e l’organizzazione di alcuni festival, tra cui il Rootsway premiato nel 2009 come migliore a livello europeo. Redattore della rivista Il Blues, da anni collaboro con Visit USA Italy oltre ad essere uno dei soci fondatori della società A-Z Blues. Autore del libro Blues Pills e altre storie
Tommaso Ganino
Professore Associato presso l’Università di Parma. Ho sempre lavorato su temi legati alla biodiversità, alla selezione e valorizzazione di piante agrarie e dal 2011 lavoro sulla filiera del luppolo. Responsabile del Centro di certificazione del luppolo per incarico del MiPAAF dal 2015; insieme al mio staff ho selezionato tre genotipi di luppolo a genetica italiana; mi occupo inoltre di agricoltura 4.0 applicata al luppolo.
Luca Grandi
Ho fondato il brand Birra Nostra nel 2007 e il il web magazine Birra Nostra Magazine nel 2013; nel frattempo ho ideato ed organizzato TEDx e fiere per i più importanti enti Fiera italiani e dal 2016 sono consulente per Fiere Parma e CIBUS. Scrivo per Slow Food, CiBi Magazine, Foodyes e Mark You; coautore de La via della birra - un Grand Tour attraverso l’Italia dei birrifici artigianali ed autore di Guide per viaggiatori.
Matteo Malacaria
Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci.it e del libro Viaggio al centro della birra. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birrogastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.
Roberto Muzi
Formatore, sommelier, assaggiatore ONAF e consulente di settore. Laureato in Scienze Politiche, sono stato responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore dal 2014 al 2021 e giurato in diversi concorsi birrari nazionali.
Eleni Pisano
Scrivo, fotografo, insegno e racconto di cibo. Esperta di turismo esperienziale in ambito brassicolo, beerchef, food stylist e beernauta in cerca di eccellenze in ambito brassicolo. Ho lavorato per grandi marchi del mondo birrario italiano e poi mi sono avvicinata al mondo brassicolo artigianale. Lavoro come consulente e beerchef in diversi locali tra Milano e Monza. Collaborazione su beer pairing.
Luca Pretti
Laureato in Scienze agrarie e dottore di Ricerca in biotecnologie microbiche. Ricercatore nel centro Porto Conte Ricerche di Alghero, dal 1999 mi occupo della caratterizzazione di materie prime locali (luppoli e orzi) per le produzioni birrarie della Sardegna. Conduco corsi di divulgazione della cultura birraria per appassionati e professionisti e sono stato responsabile scientifico e docente del primo corso di formazione in Sardegna per birraio artigiano. In qualità di giurato ho partecipato al concorso Birra dell’anno ed al Bruxelles Beer Challenge. Collaboro inoltre con Slow food per l’area birra in Sardegna.
Margherita Rodolfi
Dottore di Ricerca dal 2016 in Scienze e Tecnologie Alimentari. Ho partecipato attivamente, come responsabile di laboratorio e ricerca e sviluppo, a progetti di ricerca sul luppolo e sulla filiera brassicola. Negli ultimi anni mi sono concentrata su studi di valutazione del terroir di diverse varietà di luppolo.
Domenico Giuseppe Spanò
Mischio le mie competenze di Agrotecnico e di ex studente di Chimica Industriale, mi dichiaro un Divulgatore Scientifico sia quando scrivo sia quando faccio lezioni. Quando non scrivo e non parlo di Birra e Luppoli sono un Esperto Assaggiatore di Vino e un Docenti dell’ONAV.
Alessandra Agrestini
Antonio Boschi
Luca Pretti
Tommaso Ganino
Matteo Malacaria
Margherita Rodolfi
Roberto Muzi
Davide Bertinotti
Eleni Pisano
Domenico Giuseppe Spanò
Luca Grandi
Craft Beer Range I mi g l io ri calici e tumb l ers b i rr a
R A S TAL ha i n te r p ret a t o le e sig e nze d el s e t t o re “ B i r r a
Ar t i g ia na l e ” i ta li a n o con u n a g a m m a di c a lici, bicchi e r i e b o cc a li unica pe r d esi g n , f u nzi o n a lit à e co m plet e zza .
Prodotti che uniti alla decorazione diventano un supporto indispensabile per favorire la crescita e la diffusione dei marchi.