![](https://assets.isu.pub/document-structure/230401144248-17ad96c65e74632969ad4609a682e808/v1/2b7b0b52f32356d18112ede713e8e832.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
4 minute read
Set point
''Chi ha spostato il mio formaggio?” è il titolo di un best seller, un volumetto di “quick management” che racconta la storia di due topolini cui avevano spostato il magazzino da cui si rifornivano della propria razione di formaggio quotidiana. La morale del libro è racchiusa in una semplice affermazione: reagire al cambiamento è l’unica soluzione alle problematiche portate dal cambiamento stesso. Fine degli insegnamenti e del racconto. Il successo di un contenuto al limite dell’ovvio è rappresentato da pochi ma sostanziali ingredienti: un titolo indovinato, la narrazione sotto forma di favola per bambini (il tanto apprezzato storytelling ha una radice collodiana, probabilmente), il fatto che sia stato adottato da molti manager per dire ai propri collaboratori che era ora di cambiare. Anzi, di accettare di buon grado un cambiamento. Che è tutt’altra cosa.
Il Cambiamento Che Spaventa Meno Quello Fatto
FARE AGLI ALTRI
Abbiamo conosciuto un importante dirigente d’azienda, donna all’apparenza molto risoluta, che affermava sprezzante “non ho paura del cambiamento” e che - con un pizzico di sadismo - come regalo di Natale fece recapitare a tutti i propri collaboratori il famoso libretto per anticipare un cambiamento alle porte. Ne seguì una rivoluzione aziendale lunga e dolorosa, che fece numerose vittime e che ebbe un finale a sorpresa: il licenziamento di quella dirigente. Chi la fa, l’aspetti. La incontrammo tempo dopo, sembrava un’altra persona: della sicurezza dei giorni passati nemmeno l’ombra. Da questo capimmo una prima cosa: il cambiamento che spaventa meno è quello fatto fare agli altri.
L’IMPORTANZA
DEI “SEGNALI DEBOLI”
Parlavamo tempo fa con l’Amministratore Delegato di un’azienda leader nel proprio settore. Ci spiegava come il risultato economico più importante del bilancio della sua azienda provenisse da un servizio ormai più che datato. Quel servizio rappresentava per l’azienda un prodotto ad altissimo margine, svolto a costi irrisori e arricchito, per sostenerne il prezzo, con accessori di utilità discutibile. Per i clienti poco più di una commodity con valore aggiunto prossimo allo zero, che veniva accettata solo per accondiscendenza verso il “ricatto” implicito rappresentato dal suo monopolio sul mercato. Questo particolare, per giunta, rendeva il nostro interlocutore particolarmente tronfio della posizione di forza acquisita. E il rapporto con i clienti? Dettaglio trascurabile. Gli raccontammo la storia, famosa ed emblematica, del crollo di un monopolio, quella della divisione grandi elaboratori dell’IBM degli anni ’80, e ci permettemmo di metterlo in guardia. Un acquisto fatto “obtorto collo” non soddisfa mai chi lo compie. Se un nuovo concorrente avesse realizzato un servizio light, meno ricco, ma ugualmente apprezzabile da chi ne desiderava solo la parte essenziale, avrebbe potuto invadere il mercato e minare la sua posizione di monopolio. Perché non realizzare loro in primis quella versione light? Con l’aumento dei volumi di vendita derivante dal prezzo più abbordabile avrebbero colmato la possibile diminuzione del fatturato, ma, soprattutto, avrebbero impedito l’ingresso ai concorrenti. La divisione IBM dei grandi elaboratori non lo fece e arrivarono i produttori di server. L’AD tagliò corto con aria di sufficienza e con il sorriso sarcastico di chi sta parlando con degli incompetenti: era in quel mercato da anni e sapeva bene che l’ingresso di concorrenti in tempi brevi era impossibile, per cui cambiare tutto sarebbe stata fatica inutile. Lo rincontrammo 6 mesi dopo e ci sentimmo come Cassandra. Lui sorrideva meno. Così capimmo la seconda cosa: l’importanza dei “segnali deboli”. Se alla parola “cambiare” si vuole dare anche il significato di “innovare”, allora cambiare significa impegnarsi ad ascoltare i segnali deboli provenienti dall’esterno; in primo luogo dai clienti, per produrre cambiamenti che vadano nella direzione di quei segnali. Ascoltare i segnali deboli è un esercizio impegnativo, che implica di essere concentrati su quello che succede “attorno a noi”, ma non necessariamente “direttamente a noi”. Magari su qualcosa che - crediamo - non ci riguarda affatto, che sta succedendo in un mercato diverso dal nostro, oppure su qualcosa che addirittura può comportare per noi uno scomodo immediato a fronte di un vantaggio di lungo periodo. Perché uscire da un’area di comfort (predominanza sul mercato, rendita di posizione, prassi consolidate, processi conosciuti, etc.) per esplorare nuove strade? Meglio difendere lo status quo acquisito. Forse.
Il Cambiamento Passa Attraverso La Mentalit Delle Persone
Cambiare è un processo virtuoso che, anche per i cambiamenti aziendali, passa innanzitutto attraverso il cambiamento della mentalità delle persone. Molto spesso le aziende vengono paragonate ai dinosauri, che si estinsero perché non furono in grado di adattarsi a un repentino mutamento delle condizioni ambientali. A differenza dei dinosauri, però, le aziende possono mo- dificare la propria “genetica aziendale” a piacimento. Ognuno di noi ha un proprio codice genetico, fatto di pregiudizi, teorie e modalità di reazione derivanti dalla propria cultura e dall’ambiente in cui è vissuto. Noi consulenti siamo soliti chiamarla anche “mappa del mondo”. Questo background, quando l’ambiente circostante cambia, può diventare una minaccia. Col passare del tempo, l’insieme dei codici genetici dei singoli componenti dell’azienda diventa una parte integrante della struttura aziendale e ne determina i processi e le strategie. Ascoltando i “segnali deboli” provenienti dall’esterno, la soluzione si trova nel “dimenticare” per tornare ad analizzare poi il proprio patrimonio genetico partendo da zero, partendo da sé stessi come singoli individui per diventare i motori del cambiamento dell’intero gruppo. “La follia sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”, diceva Albert Einstein. Per ottenere risultati diversi, per prevenire il cambiamento (che funziona ancora meglio che reagire) iniziamo col cambiare l’elemento che ci è più facile modificare: noi stessi.
P.S. Quell’indiscusso mito del giornalismo sportivo che è stato Gianni Clerici ha parafrasato l’aforisma di Einstein parlando di tennis: “Se vuoi perdere il secondo set, gioca come hai giocato per perdere il primo”. Con buona pace dei giocatori di club che seguitano a imprecare mentre continuano imperterriti a brandire la racchetta come una padella per il fritto misto.
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230401144248-17ad96c65e74632969ad4609a682e808/v1/ead7b8a769e9de82ba01073a94819230.jpeg?width=720&quality=85%2C50)