n°02
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La città promuove l’arte ed è arte; la città crea il teatro ed è il teatro. È nella città, dentro la città come teatro, che le attività umane più progettate trovano la loro massima concentrazione e il loro culmine più significativo, attraverso il conflitto e la cooperazione di personalità, eventi, e gruppi. Lewis Mumford, What Is a City?, 1937 La redazione di Robida è, un po’ come i suoi contenuti, sparpagliata. Ognuno di noi abita e lavora in città diverse; e tutti coloro che hanno scritto in questo numero molto spesso vengono da altrettanti luoghi tra loro lontanissimi. Ciò che ci ha tenuti collegati mesi sono state decine e decine di e-mail e una cartella Dropbox piena di documenti condivisi: una rete di contatti virtuale, materializzatasi quasi magicamente in queste pagine. Siamo anche noi, un po’, un reticolo di vite su una mappa. Veniamo così al tema per questo numero: città, reticoli di vite. Dopo aver pensato nel primo numero all’abbandono coi suoi rovi e il suo silenzio, in questo numero guardiamo all’opposto: alla dimensione urbana, al suo traffico, a ciò che la costruisce e che la anima, e all’intrecciarsi di storie e di vite che ha luogo al suo interno. Inizialmente pensavamo ad un numero di Robida più esile rispetto al primo, in cui la città avesse un suo spazio dai contorni definiti. Ma ci siamo resi conto quasi subito che questa Robida sarebbe stata ancora più piena, e che la città avrebbe invaso, espandendosi incontenibilmente, tutte le sue pagine. Robida diventa così monotematica, ma mantiene comunque la varietà che le è caratteristica: abbiamo organizzato gli articoli mappandoli secondo la loro città di provenienza o di ispirazione, ma ognuno di essi offre uno sguardo molto diverso sul tema. La città diventa: lo sfondo o la protagonista di racconti (quelli di Stè e di Vittoria, per esempio); trama d’ispirazione musicale (come racconta Guglielmo, in un approfondimento su Luigi Nono); ambientazione cinematografica (Dora ci parla della Lisbona di Wim Wenders, e Alma di una Genova da documentario); oggetto d’arte, osservato dalla cornice di una finestra (come scrive Sara) oppure dall’obbiettivo della macchina fotografica (e le moltissime fotografie che accompagnano gli articoli ne sono esempio). E ancora, in questa Robida troviamo la città come interazione con la natura, la città come spazio pubblico da progettare e creare, la città come letteratura, come poesia, come vita vissuta e anche come immagine sognata e fantasticata. I disegni sono di Laura Savina, una delle ragazze che ha fondato il neo-nato Studio Ortica, spazio romano dedicato all’illustrazione. Che le robide (rovi) si siano avvicinate alle ortiche è una coincidenza bellissima e piena di significato: con Laura ci siamo immediatamente rese conto di condividere una sensibilità per le cose simile, e uno stesso entusiasmo. Siamo piante pungenti ma dolci. Tra le tante città del secondo numero, Laura ha costruito la sua con gli stessi materiali dell’architetto – non mattoni e malta, bensì trasferelli, rapidi schizzi e tinte piatte. Ma dove ci aspetteremmo una planimetria, troveremo una città vivente: enormi soli e infiniti fiumi, scie d’auto e rovi sparsi. Quindi, buona lettura e buona osservazione!
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Tønder Ground Casts by Susie Boreham
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Soothsayer di Sté
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Helsinki | Istantanee del cambiamento di Teresa Frausin
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Partire è un po’ tradire di Vittoria Rubini
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Tra radici, rami e cemento | La ricchezza nascosta della flora urbana
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Limiti sbiaditi di Giulia Zanon
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Luigi Nono | Tutti i sinonimi della parola “sensibilità” di Guglielmo Cherchi
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La bocca del lupo: quando la città si fa partitura di Alma Mileto
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Abitare il mare di Guglielmo Cherchi
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Lisbon Story | La città tra suono e immagine di Dora Ciccone
testo di Alba Serafini
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Toward a sensorial urbanism by Mirko Zardini
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Scrivere la Città | Camminata cittadina con consigli di lettura di Maria Moschioni
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Lettera dal fronte | L’insegnamento delle favelas di Martina Mataija, Ana Orlić e Ariana Sušanj
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www.straydogswalktheredcarpet.com by Pietro Bulfoni and Hanane El Ouardani
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Scores for listening by Jez Riley French
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The city from a window by Sara Wengström
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Città, reticoli di vite di Dennis Rakar
r o b i d a nasce da un'idea di Maria Moschioni e Vida Rucli e cresce con Dora Ciccone, Guglielmo Cherchi, Elena Rucli e Amanda Paganini
Guglielmo Cherchi Nella città ascolto il verso dei fenicotteri, annuso e sa di mare, i suoi palazzi sono fatti di sabbia e balconi in ferro battuto, e io li osservo godendo dell'ombra ristoratrice che proiettano.
Maria Moschioni Nella città ascolto il verso dei gabbiani, annuso e sa di pioggia, i suoi palazzi sono fatti di arenaria rossa, e io li osservo mentre la abbandono.
Elena Rucli Nella città ascolto la diversità dei passi, annuso e sa di ricordi, i suoi palazzi sono fatti di inconsapevoli dettagli, e io li osservo curiosa.
Dora Ciccone Nella città ascolto le voci dei passanti, annuso e sa del mio profumo, i suoi palazzi sono fatti di tante finestre, e io li osservo immaginando le loro storie.
Amanda Paganini Nella città ascolto l'abbiare dei cani, annuso e sa di erba tagliata. I suoi palazzi sono fatti di grandi blocchi di pietra chiara e polverosa, e io li osservo passeggiando con Afro.
Vida Rucli Nella città ascolto voci di muratori balcanici e musica jazz, annuso e sa di fiori di tiglio, i suoi palazzi sono fatti di cemento armato e facciate in pietra, i suoi più belli, e io li osservo seduta nelle sue piazze all'ombra dei salici con d. che mi bacia le mani e i capelli.
Laura Savina Nella città ascolto gli accenti, i dialetti e cinguettii degli uccelli. Annuso e sa di cibi che non vedo ma immagino, i suoi palazzi sono fatti di finestre illuminate, piante e stanze segrete e io li osservo come se potessi vivere in ognuno di essi.
Tønder Ground Casts by Susie Boreham
Cast 1, Kirkepladsen, 2015, Alabaster Plaster
Tønder Ground Casts by Susie Boreham
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Cast 2, Søndergade, 2015, Alabaster Plaster
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Tønder Ground Casts by Susie Boreham
Every city is a collage, built from different pieces. Over the years, things have been added and removed, changed and adapted. Within the city, the debris of history is apparent and traces of the past are visible. When the city requires regeneration, as architects, what is an appropriate response? Should we ignore the marks of history, and place something new and absolute, or should we respond to what already exists and add a new layer that is sensitive and respectful? This project is about the need to create architecture which responds to adaptive reuse. Drawing heavily on Claude Levi-Strauss’idea of bricolage, the architect is viewed as a bricoleur, rather than a mastermind-creator. The bricoleur creates a type of work which is responsive to its surroundings and made from its context. But, in order to work with the existing condition, the architect needs to understand it first. This is the job of the architectural survey. Tønder Ground Casts are part of an extended survey of the small town of Tønder, in southern Denmark. Certain ground conditions were abstracted, through the techniques of mould making and casting, and objects made of alabaster plaster and paraffin wax were produced. Although the survey is intended as a tool for the architect to begin designing, it also becomes a project in itself. Tønder Ground Casts, together with drawings and photographs of Tønder, became a small exhibition. The objects help the viewer to see the familiar conditions anew, and hopefully, appreciation of their beauty is renewed. The elements’potentials are unveiled – and the town is then offered a vision of the future which is responsive to what already exists.
Whole project at www.susieboreham.com
Tønder Ground Casts by Susie Boreham
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Cast 3, Torvet, 2015, Alabaster Plaster
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Tønder Ground Casts by Susie Boreham
Cast 4, Østergade, 2015, Paraffin Wax
Tønder Ground Casts by Susie Boreham
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Soothsayer di Sté
Ogni tanto ci ripenso e sorrido, in verità ci ho messo un po’ per imparare a farlo. Vedi non è neanche proprio esatto dire che sorrido; tiro su gli angoli della bocca in un modo che forse neanche si vede. Se di tutte le cose che si possono raccontare le più inattese destano maggiore stupore, chi può dire siano da meno quelle che, anche se con segnali da decifrare, si lasciano intuire. Quando compii venticinque anni decisi di partire, andarmene lontano, dove mai prima ero arrivato. Avrei trovato un nuovo lavoro e creato nuovi legami. Deve essere stata questa più o meno l’idea, cosa che poi ad essere onesto feci solo in parte. Sono di carattere notoriamente chiuso; prima che riesca ad instaurare un legame dignitoso con qualcuno, di acqua sotto i ponti può scorrerne ed irrigare tutti i canali della terra. Il giorno in cui arrivai, di questa città non conoscevo niente. Bianche le strade e bianchi i cieli, sembrava accogliermi con profonda indifferenza. I viali di questa città sembrano arterie, sono infiniti. Durante la prima settimana avevo comprato anche io la mia bici, di seconda mano, ma perfettamente funzionante. Le strade da decifrare ed i suoni delle conversazioni da esplorare, i venti da interpretare; dopo la pioggia anche le pozzanghere sembravano chiazze di Rorschach. In questi reticoli di strade, confesso di essermi perso più di una volta, numerose volte, svariate volte. Qualcuno ricorda quei mesi come parte di un autunno tra i più insoliti; trascorsero belle giornate, con temperature decisamente al di sopra della media. L’inverno arrivò all’improvviso; sferzate di vento gelide a tagliarmi la faccia. E che fossi straniero in quella terra ancora lo si intuiva da chilometri; mai una volta uscii di casa senza guanti e sciarpa, quando, all’affacciarsi del primo sole freddo e pallido, intorno a me vedevo persone in camicia. Trovai infine lavoro, al civico 92 di una parallela di una delle strade principali. Ero cameriere in un ristorante di cucina italiana avviato da poco, ma che già stava iniziando ad avere un minimo giro di clienti affezionati. Aspetta poi, non ci allarghiamo più di tanto; più che il cameriere nel senso di portare a tavola finivo solo per ripulire i tavoli dalle mille lattine di birra scolate dai clienti in neanche mezz’ora. Tante che ad averle conservate tutte una ad una, avrei innalzato una torre fino al cielo, e al confronto quella di Babele sarebbe sembrata una costruzione lego. La città d’inverno sembra di un buio senza risveglio, e la discesa prematura della notte giocava a mio favore. Gli ultimi clienti arrivavano non più tardi delle otto, un ultimo giro in cucina per rimettere in ordine e alle undici
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ero già fuori. Finito il turno, ogni notte ero stanco quasi da non riuscire a pedalare. Ed il freddo sembrava stringere e ritirare come corde le vene dagli arti. Prima di ripartire saltellavo un po’ per riaccenderli e mi soffiavo nelle mani; le dita a stringere il manubrio sembravano morte come rami secchi. Il percorso che facevo giorno dopo giorno non sgarrava di un metro, rifacendolo automaticamente ogni volta, avevo imparato la posizione esatta di ogni mattonella. Il mio tetto sopra la testa era un monolocale in Nørre Allé, niente di più di un mezzo scantinato, ma era diventato il mio rifugio. Fu durante la prima settimana di aprile che accadde un fenomeno che trovai assai strano. Mi svegliai in tarda mattinata, come sempre mi accadeva, scansai la tenda alla finestra e non vidi niente se non una coltre bianca e spessa, che non aspettava forse altro se non qualcuno che la tagliasse a fette. E questa da dove viene, mi dissi. Perché mai mi ero immaginato che questa città dove il vento forte e gelido sembra spazzare via ogni cosa, comprese le persone, potesse ritrovarsi completamente immersa dentro una nebbia così densa. Ma scrollai le spalle e preparai la colazione, mangiai, lessi qualche cosa. Come sempre non uscii prima di sera per andare a lavoro, e già dentro casa sentivo l’aria essersi fatta un po’ più fredda. Si era al quarto giorno di nebbia; se continua così vedi che bella primavera che mi aspetta, pensavo. Ero diventato un ciclista perfetto, ma pedalare immerso nel vuoto di quel bianco ancora non mi ci vedevo. Le luci nella nebbia sembrano fari dietro a un vetro appannato, ed io procedevo lentamente. Le mie lucine rosse comprate in un discount, attaccate al manubrio e al carro posteriore, segnalavano con audacia intermittente la mia presenza sulla strada. La vidi tornando dal lavoro – una notte come tante altre tutte uguali – passai con la mia bici per la stessa strada di sempre, giusto accanto a Kongens Have. Lei era lì seduta, incappucciati occhi ed orecchie contro il freddo, in quella che sembrava essere l’unica panchina della città. Leggeva un libro, circondata dal bianco, sotto la poca luce di un lampione. Credo mi vide, ma non fece nulla. Affondò di nuovo la testa nella lettura, ed io continuai ad andare avanti, nient’altro avrei forse saputo fare o dire. La ripetizione rafforza qualsiasi atto. Ogni cosa acquista più senso se inserita in un rituale, come ascoltare per ore la stessa canzone, vedere lo stesso
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Soothsayer di Sté
film, mangiare le stesse cose. E non è esagerato dire che quella volta gli eventi sembravanow dovessero davvero ripetersi sempre nello stesso modo. Mi fermai così ogni notte a guardarla, il tempo di un istante che divenne un’abitudine e poi forse anche qualcosa di normale, almeno inserita nella normalità che avevano preso le mie giornate. Esiste un modo di incontrarsi che è possibile solo nel riconoscersi, ed io faticai ad ammettere a me stesso che percorrere quel tratto mi divenne quasi necessario. Anche se in nessuna lingua c’erano parole in grado di ricucire la distanza che s’era aperta tra me e quella ragazza silenziosa. Di tutti i luoghi della terra, l’unico davvero inaccessibile era ora la zona d’ombra che proiettavano i suoi silenzi. Iniziai a immaginarmela di giorno, non riuscendoci, perché sembrava appartenere alla notte come lo sono certe statue quando i turisti si ritirano e restano da sole. Tu resti ancora lì a guardarle, in silenzio, mentre ti sembrano ancora più tristi, quasi le senti respirare. Nel bianco di quelle notti, le mie domande accarezzavano la sua immagine, cercando di definire i sentieri sconosciuti dei suoi lineamenti; a restituirmi la sensazione di essere al centro delle cose e, al tempo stesso, nel punto più lontano della loro periferia. Insieme alla certezza che fosse un atteggiamento quanto meno irrispettoso, quello di non considerare quanti o quali sforzi fossero stati necessari per far combaciare i punti di questa coincidenza. Mi dicevo che, se mai fosse arrivato il momento di prendere le sue mani nelle mie, avrei anche dovuto saperne decifrarne ogni sentiero, per non perderla. Quella fu la ventiquattresima notte di nebbia; la vidi reggere per la prima volta il libro chiuso. Pensai avesse finito di leggere, mi chiesi cosa avrebbe fatto, ma restò semplicemente lì seduta. Sembrava avesse aspettato qualcosa per tutto quel tempo senza credere del tutto neanche lei del suo arrivo. Attendere come si aspetta l’avverarsi di una profezia o come si aspetta l’acqua scendere dal cielo nei paesi dove la terra brucia sotto il sole. Mi fermai in quell’istante e sentii il vento ghiacciarmi la nuca. Strinsi il cappotto un po’ più forte, poggiai i piedi nei pedali e ripartii. Questa volta come le altre, non visto. La mattina dopo la cortina di nebbia era sparita, esattamente come quasi un mese prima era venuta. Pensai ad un prodigio e come uno scemo perfetto mi venne da sorridere. Vedi, mi dissi, ora le cose iniziano di nuovo a funzionare. Quella notte passai per la solita strada davanti al parco, ma non la vidi.
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Helsinki | Istantanee del cambiamento e foto di Teresa Frausin
Helsinki
Istantanee del cambiamento di Teresa Frausin
Il taxi giallo corre pigramente per le strade spruzzate di neve, vuote, umide. È notte – non potrebbe essere altrimenti, in inverno, lassù, al nord – e il tassista con le mani molli sul volante sbadiglia svogliato, con quella sicurezza di chi sa che il sonno non lo fermerà, perché quelle strade le conosce così bene che potrebbe farle anche dormendo. E così procede, piano, svolta in una stradina disegnata da due edifici bassi e un po’ anonimi del centro e arriva nella piazza della bianca Cattedrale, deserta. I fari tagliano la pavimentazione in pietra, l’auto gira a vuoto intorno al monumento. Ma ecco che il tassista viene pungolato dalla radio taxi in azione – Tehtaankatu 29, Strada della Fabbrica 29 – tre uomini hanno bisogno di un passaggio. Così riparte, più spedito ma senza fretta, corre, passa il porto, il parco Kaivopuisto, le ambasciate, scivola per Ullanlinna e arriva a destinazione. Tre uomini, accasciati, bevuti, pronti a rovesciare sul tassista assonnato le loro sventure che invano hanno cercato di sciogliere nella Koskenkorva pura, secca, che brucia la gola, che annebbia i pensieri. E intanto Helsinki dorme. – Nel 1991 Jim Jarmusch ritrae Helsinki nel suo lungometraggio Night on Earth. Una città piccola, poco illuminata, spopolata, monotona. Un taxi scivola nel buio, con a bordo quattro uomini – solo uomini, quella notte – che parlano della loro sfortuna affilata ma inevitabile. Tanto vale berci sopra. – Maggio 2014, sabato mattina. A Kamppi, cuore metropolitano di Helsinki, in una insolitamente calda giornata di maggio, cammino e all’improvviso mi accorgo che attorno a me persone che all’apparenza chiacchierano del più e del meno, nella piazza antistante la stazione multiscambio, cominciano a mettersi all’opera. Sfoderano pentoloni chiusi da enormi coperchi, aprono tavoli da birreria da decorare con tovaglie di svariati colori e da attrezzare con fornelli a gas, utensili da cucina, brocche con acqua fresca. Finlandesi, ghanesi, cinesi, coreani e brasiliani iniziano a cucinare o a scaldare vivande come se ci trovassimo all’interno di un esteso festival multiculturale. Questo è il Restaurant Day, in finlandese Ravintolapäivä, evento trimestrale, nato nel 2011 a Helsinki da un’idea di Olli Sirén, Timo Santala e Antti Tuomola, che in pochi anni si è esteso a macchia d’olio in 30 Paesi, fino a contare 400 ristoranti pop-up solo a Helsinki e circa 1700 ristoranti in giro per il mondo.1 Il concetto è quello di dare la possibilità a chiunque di aprire, solo per un giorno, un ristorante, senza badare alle regolamentazioni necessarie per aprirne uno vero. Ci si iscrive sulla corrispondente pagina Facebook dando una breve descrizione di cosa e di come si vuole cucinare per amici, parenti, vicini di casa, ma soprattutto sconosciuti. La mappa Google del sito si aggiorna così istantaneamente, fornendo agli avventori
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informazioni sulla localizzazione dei vari ristoranti, nel proprio appartamento, lungo le strade, nei parchi di quartiere. – Maggio 2015, venerdì pomeriggio. Usciamo dalla stazione centrale, progettata un secolo fa da Eliel Saarinen, attraversiamo il piazzale con le fermate degli autobus e ci dirigiamo verso Kaisaniemenpuisto (il Parco di Kaisaniemi), dove ci sono le giornate di Maailmakylässä, il World Village Festival, dove eventi, concerti, conferenze e workshop fanno emergere la presenza di persone da diversissimi paesi di provenienza all’interno della città. Assistiamo al concerto di una band nigeriana, mangiamo un piatto thailandese, per evitare un acquazzone improvviso ci rifugiamo sotto un tendone da circo dove un gruppo finnico-americano propone un workshop circense per bambini. Appena spiove, decidiamo di andare verso Senaatintori, la piazza su cui svetta la cattedrale sorta nella prima metà dell’800, non appena Helsinki divenne capitale della Finlandia, sotto il dominio dei russi che ne promossero l’urbanizzazione attraverso il piano di J.A. Ehrenström: maglia ortogonale, edifici neoclassici. Negli edifici di Unionkatu, tra la piazza del Senato e Kauppatori, la piazza del mercato, hanno aperto un nuovo pop-up store. All’interno di un blocco della città originaria, i piani terra e il primo piano, che prima ospitavano uffici amministrativi, sono stati rinnovati recentemente per ospitare negozi di design locale, caffè e ristorantini che sono una gioiosa alternativa ai classici spazi souvenir, sì, quelli con i guanti di pelliccia lappone, i cappelli con le corna da vichingo e la cattedrale di Senaatintori in plastica, in una boccia con la neve. L’iniziativa, detta Torikorttelit, viene definita dai suoi ideatori “the new old town” e si propone come luogo commerciale che può ospitare eventi di vario tipo, legati a diverse tematiche ma tenuti assieme da un obiettivo comune: la voglia di fare ‘città’.2 Ironicamente, gli stessi edifici che incorniciano lo sfondo della Senaatintori di Jarmusch, non sembrano gli stessi: scrollatisi di dosso la patina del tempo, rivivono oggi come un villaggio vivace e cangiante. – Luglio 2015. Oggi si può dire che faccia davvero caldo. È la prima vera giornata d’estate, anche se molti sono già tornati in città dopo le ferie – che qui si fanno tra giugno e luglio. Faccio una passeggiata a Punavuori, uno dei vecchi quartieri operai della città storica, ora elegante neighbourhood gentrificato con negozi di design, atelier, studi, caffetterie bio e ai piani di sopra appartamenti con pavimenti a listoni, muri bianchi e soffitti altissimi. Tra il museo del design (Designmuseo) e il museo dell’architettura (mfa - Museum of Finnish Architecture) c’è di solito uno spazio vuoto, anonimo: una piastra di cemento, usata spesso come area di carico-scarico mentre i musei allestiscono le loro mostre. Oggi, invece, cambio di scenario: su una piattaforma in legno una struttura ad albero in fasce di multistrato di
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betulla crea una piacevole zona d’ombra. Sedie a sdraio mi permettono di sostare, allungare le gambe, guardarmi attorno. L’installazione è stata curata dagli studenti della Aalto University all’interno del Wood Program, per la sperimentazione di nuovi modelli strutturali in legno. In effetti, già nel 2012, quando Helsinki era stata World Design Capital, questo spazio si era trasformato in un salotto contemporaneo, grazie alla costruzione del Paviljonki. La struttura ideata all’interno del Wood Program era stata usata per attività programmate anche da Demos Helsinki, “the Nordic thinktank”, come si definiscono. Cinema all’aperto, un ristorantino, spettacoli teatrali e musicali e tanto altro avevano animato il piccolo palco per tre mesi e attirato avventori da tutta la città. – “This is a small city that’s doing things. (…) With major public service initiatives underway, Helsinki is doing much to grown intelligently, in part by recognizing that small is an asset.” Così, Monocle apre il video che nel 2011 presenta Helsinki come città più vivibile al mondo, confermata all’ottavo posto della stessa classifica nel 2015. Così diversa dalla città assonnata e soporifera di Jarmusch o triste e stralunata dei film di Kaurismäki, girati quando la Finlandia stava vivendo una crisi economica conseguente alla fine della Guerra Fredda e – di nuovo – ad un cambio di equilibri con la vicina Russia. Colorata, impegnata, determinata a crescere in maniera positiva, giusta, convincente. Le cose “piccole” di cui parla Monocle costituiscono in realtà l’interesse di Helsinki: sono tante “piccole” azioni – eventi, micro-servizi, spazi ad uso pubblico – che l’hanno trasformata anno dopo anno in una città abitabile e confortevole, da cui imparare. E tanto. La Città sta pianificando lo sviluppo urbano, concentrando le nuove aree di costruzione prevalentemente in aree brownfield, ovvero già usate per funzioni industriali, le quali, spostate altrove, hanno lasciato macro-aree libere molto vicine alla città “interna”. In tali zone (Kalasatama, Pasila, Jätkäsaari) si sta concentrando lo sviluppo residenziale di Helsinki, che si prevede crescerà notevolmente nei prossimi anni. Al contempo, nel centro originario, si sono consolidate una serie di esperienze che usano gli spazi del centro urbano in maniera intensa, originale, diffusa. Il Restaurant Day, ma anche il Sauna Day - che prevede l’apertura a sconosciuti delle saune private e l’installazione temporanea di saune in giro di qua e di là – la diffusione dei food-truck di qualità, il Cleaning Day – quando chiunque può improvvisare un mercatino delle pulci ovunque in città – sono esempi di come gli spazi della città vengono ridefiniti da nuove destinazioni e di come si moltiplichi lo spazio ad uso pubblico attraverso la condivisione, la messa in rete anche solo temporanea di luoghi solitamente privati oppure di rappresentanza. Questo tipo di “vibrancy ”, brulicare di vita, voglia di urbanità non passa inosservato ad un turista, quindi figuriamoci ad un urbanista che a Helsinki vive da sempre. Timo
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Hamaläinen è urbanista, autore del blog urbanfinland.com e tra i fondatori del collettivo Urban Helsinki, che propone progetti per accentuare il carattere urbano di Helsinki e dare suggerimenti su come agire in futuro a chi sta disegnando la città. Perché – ne sono convinti – Helsinki potrebbe fare ancora meglio. In effetti, mentre tra i tavoli dell’Urban Planning Department del Comune si stava discutendo il nuovo piano regolatore, a sostituzione del piano del 2002, Timo e i suoi compari elaboravano una contro-proposta di piano, ProHelsinki 2.0: la mappa di Helsinki disegnata per il visionario piano di Eliel Saarinen nel 1918, che doveva tracciare il futuro di Helsinki come metropoli di rilevanza internazionale, ci aggiungono le urbanizzazioni del ‘900 e poi moltiplicano i blocchi urbani del centro – lasciandone invariate densità e forma – lungo gli assi di comunicazione principali, per densificare le aree esistenti. We took the density and urban form of the current inner city as the general goal for all new neighborhoods we’d suggest and quickly learned that we could easily fit twice the amount of people the City Planning Department’s draft plan would while leaving the city’s current green spaces practically untouched . L’idea è che densificare Helsinki – molto più di quanto previsto dal piano in via di elaborazione – possa favorire il propagarsi a tutto il tessuto urbano di quella vitalità che rende così attraente il cuore della città e che è evidentemente diverso dal resto dell’area metropolitana e della Finlandia. – In un soleggiato pomeriggio di settembre, incontro Paivi Räiviö, designer ed esperta di partecipazione, presso uno spazio bellissimo quale è il Turntable Urban Garden, della cui progettazione lei è stata una dei responsabili. Lo spazio è una struttura in acciaio in un vecchio deposito ferroviario ancora di proprietà statale, che, grazie ad una manciata di fondi europei elargiti in occasione degli eventi per la wdc - World Design Capital (2012), è stato trasformato con minimi gesti in una serra urbana. Dentro alla serra si coltivano ortaggi da rivendere e, durante la bella stagione, nella piattaforma rotante antistante si organizzano eventi, micro-concerti, mercatini, pubblicizzati sui social o col passaparola. L’associazione dodo, l’ong con cui Paivi ha collaborato, è responsabile della gestione temporanea dello spazio, in attesa che il destino dell’Urban Garden sia deciso a seconda dei macro-interventi di rigenerazione urbana a Pasila. Parliamo di Finlandia, dei suoi progetti, del ruolo dello spazio pubblico, di come Helsinki può o non può essere un modello di sviluppo per altre città finlandesi. “The urban culture is very young in Finland and the use of public spaces is hard ”, mi dice, appoggiata ad uno scaffale in cui stanno ancora crescendo rigogliosi dei pomodori. Sarà dura, ma per ora più di qualcuno ci sta riuscendo dannatamente bene. 1 2
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www.restaurantday.org www.torikorttelit.fi
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Partire è un po’ tradire di Vittoria Rubini
Partire è un po’ tradire di Vittoria Rubini
Era giovedì, e come ogni giovedì alle cinque in punto T. passava a prendermi all’uscita dall’università. Nelle nostre lunghe passeggiate sul lungomare si sprecavano gli sguardi languidi e le tenerezze di chi sa che si potrà rivedere anche domani o il giorno dopo ancora. T. era dolce, ma a volte una grazia scontrosa si impossessava dei suoi occhi azzurri. Con la forza del vento i suoi capelli nocciola chiaro, da gabardine, prendevano le sembianze di un nido di uccelli ed io, che con le labbra da essi volavo via, e poi tornavo, diventavo mamma gabbiano. Mi portava spesso al cinema e a volte mi offriva un gelato, ma non mi aveva mai regalato un fiore. Dicevo, era giovedì e gli avrei finalmente detto tutto, era deciso. Gli avrei parlato di B. e del fatto che per qualche mese avevo perso la testa per lei. Forse gli avrei anche parlato dei suoi meravigliosi tratti dell’Europa dell’Est e di come su di essi si posasse il mio sguardo sotto i rosa del tramonto – con B. mi sentivo straniera, eppure tutto attorno a me era così familiare – e forse anche dell’impellente bisogno che mi prendeva, la notte, di restare sola con lei. Di sicuro, però, non gli avrei parlato del calore dei nostri lunghi baci sotto la pioggia nei giorni in cui non potevamo neanche permetterci di comprare un ombrello da uno di quei venditori ambulanti, perché B. era così, povera, ma sexy. Funzionava più o meno in questo modo, con lei: la settimana scorreva tranquilla e le giornate di studio si susseguivano senza pretese di tenerezza. Poi la pesantezza così accumulata si riversava nei weekend fatti di kebab consumati alle luci prepotenti dell’alba e di lunghe notti fuori a ballare, nude di pretese e cariche di onnipotenza, musica techno in templi di cemento armato. Passeggiavamo nelle zone più moderne della città e ancora ricordo il suo sorriso beffardo che spuntava ogni volta che le dicevo che no, Norman Foster a me proprio non piace. Non parlavamo molto, ma se ogni tanto ci provavamo, in realtà finivamo per recitarci a vicenda il nostro monologo. Condividevamo la passione per i mercatini delle pulci, le impronte fresche sulla prima neve di dicembre e, anche se il cielo sopra di lei non ci piangeva addosso cristalli di ghiaccio, apprezzavamo il tepore del fuoco che si concedeva a noi nella serenità di un bar di periferia. Passare sei mesi con lei era stato come passare sei mesi a guardare una rosa sempre viva ma ancora mai sbocciata, la cui potenza non si era lasciata corrompere dal rigido inverno sottozero, né l’avrebbe fatto col secco sole d’estate. Di questo e ancora di molto altro avrei dovuto parlargli, ma non ci riuscii. Continuavo a guardare T. negli occhi e a perdermici, per poi ritrovarmi nei suoi abbracci in riva al mare. Quello era un giovedì di grande confusione, eppure una cosa mi fu subito chiara. All’improvviso avevo capito perché non mi aveva mai regalato un fiore: aveva le mani troppo grandi.
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Tra radici, rami e cemento | La ricchezza nascosta della flora urbana di Alba Serafini, foto di Caterina Gabelli
Tra radici, rami e cemento
La ricchezza nascosta della flora urbana testo di Alba Serafini foto di Caterina Gabelli
Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d’una piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava l’occhio tra le fronde degli ippocastani, dov’erano più folte e solo lasciavano dardeggiare gialli raggi nell’ombra trasparente di linfa, ed ascoltava il chiasso dei passeri stonati ed invisibili sui rami. A lui parevano usignoli; e si diceva [...] “Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a questo fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; [...] qui nel buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane chiuse, zebrato dal riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e cielo aprendo gli occhi! Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città
Tra radici, rami e cemento | La ricchezza nascosta della flora urbana di Alba Serafini, foto di Caterina Gabelli
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Quando l’anno scorso mi sono trasferita a Trieste con tutta la mia famiglia, sapevo quanto mi sarebbe mancato il tempo trascorso a contatto con la natura (forse l’unica cosa emozionante dei luoghi dove sono cresciuta). Ho passato la mia infanzia a cercare felci e castagne nei boschi e non avevo mai vissuto in una città fino all’inizio della mia esperienza universitaria durante la quale, comunque, mi era permesso di immergermi nei miei amati campi molto spesso. Studiando Scienze Ambientali, a marzo ho cominciato un corso di botanica; parte dell’esame consiste nel fare un erbario: raccogliere cento piante, identificarle con una chiave online, seccarle in una pressa, sistemare poi ogni pianta su un enorme foglio, arrivare all’esame conoscendo famiglia, genere e specie di ogni individuo. Nel corso delle passeggiate nel mio paesino natale guardavo entusiasta tutto quel verde, ettari ed ettari di biomassa vegetale pronti per essere pressati in vista dell’imminente impresa dell’erbario. Ma, in queste ultime settimane, ho scoperto il fascino di doverla andare a cercare tra i mattoni di muretto, la natura, o vederla arrampicarsi su un edificio abbandonato. La foresta urbana è meno evidente (in campagna la vegetazione ti circonda) e richiede uno sforzo maggiore per essere apprezzata veramente, un po’ come le pennellate di un quadro impressionista. “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, scriveva Ludwig Wittgenstein, citato in una delle prime lezioni dal nostro professore per convincerci dell’utilità del dare un nome alle cose. Non mi sarei mai resa conto che l’aiuola fuori dall’edificio dove facciamo lezione ospita una decina di specie se non avessi cercato di identificarle, ed è quando cerchi di dare un nome a un lichene che ti rendi conto della differenza tra uno verde e uno grigio: è così che ho iniziato a vedere licheni ovunque. Dare un nome alle cose apre poi ad un mondo di storie e curiosità. Un pomeriggio mi trovavo al giardino pubblico “Muzio Tommasini” con i miei compagni di corso per identificarne le piante legnose. Già l’anno scorso, quando ci abitavo vicino da fuori sede, avevo un occhio
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di riguardo per questa macchia verde in mezzo al traffico, eppure non avevo mai notato un piccolo arbusto con dei fiori bianchi particolarissimi. Avendolo identificato come un Viburnum plicatum, si è aperta una discussione per capire se fosse proprio questa la specie di viburno di cui Pascoli parlava. E s'aprono i fiori notturni, nell'ora che penso a' miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari. Con l’arrivo della bella stagione il sentimento di nostalgia per la campagna si è affievolito, e ho iniziato a notare come a Trieste ci siano luoghi in cui la natura accompagna in maniera particolarmente affascinante l’architettura urbana. Ne è un esempio il parco di San Giovanni, fino al 1977 sede dell’ospedale psichiatrico da dove partì la rivoluzione di Franco Basaglia. Ora è un parco curatissimo e ospita un magnifico roseto, anche questo da scoprire con attenzione, specie per specie, colore per colore. Ho anche recentemente realizzato che salendo una scaletta vicina a viale xx Settembre, uno dei luoghi che meno apprezzo di Trieste, si arriva in via Marchesetti, dove si trova l’Orto Botanico. Procedendo per questa lunga salita ci si addentra nel piccolo bosco del Farneto fino ad arrivare al Parco di Villa Revoltella: camminando sul marciapiede, a destra si vedono automobili che vanno avanti e indietro e, sulla sinistra, il verde rigoglioso. Con questo sguardo un po’ meno passivo e distratto, quella “natura urbana” (in particolare la vegetazione) che mi sembrava tanto irrisoria nella quantità rispetto a quella di altri paesaggi meno antropizzati, acquista un valore particolare: pur non dominando rimanda a storie, luoghi esotici, personaggi ed epoche, oltre a richiamare la mia infanzia nel verde. Per scoprire il verde che vi circonda con uno sguardo diverso, riportiamo a questo link degli esempi di chiavi di utilizzo abbastanza semplice per l’identificazione della flora di diversi luoghi tra cui le città di Trieste, Udine, Pordenone, Roma e Cividale del Friuli: http://dryades.units.it/trieste/index.php?procedure=lista
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Il mondo contemporaneo è sproporzionato. Vi è una innaturale relazione tra ogni cosa. Anche ogni rapporto tra causa ed effetto sembra essere esagerato; troppo piccolo o troppo grande, o meglio, piÚ semplicemente: troppo. Esagerazioni nelle attese, nelle azioni, nel loro significato, nella loro reciproca gerarchia, nella misura dei rapporti quantitativi, come nella sottolineatura caricaturale di ogni carattere distintivo. Persino la raffinatezza sembra divenire eccessiva, tanto sottile da far perdere la percezione della distinzione. [...] Non si tratta solo di un problema di affollamento, di cose, di merci, di materie, di desideri, di persone che vengono disordinatamente raggruppate e consumate; è che ogni impulso sembra privo di proporzionate motivazioni, sbanda lasciando vuoti ingiustificati oppure premendo per passare improvvisamente tutto dalla stessa strettoia. V.Gregotti, Editoriale Casabella n.638
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Limiti sbiaditi di Giulia Zanon
Limiti sbiaditi
di Giulia Zanon
La disordinata pendenza del masegno, lustrato dalla frenesia bipede di inconsapevoli processioni, priva l’incerto passo del suo naturale baricentro costringendo lo sguardo a diagonali, veloci atti in potenza da uno spigolo all’altro: tutto segue un disassamento. Rigoroso nella sua totale anarchia. Ogni pietra detta le sue personali leggi di forma: porose entità respiranti, mutevoli nel loro sbriciolarsi e ricondursi a figure altre, eccentrica beffa di materiale costruttivo. Lo sguardo, così accarezzato e poi schiaffeggiato, non ha tregua nel notare il dettaglio prorompente, è assetato di una sciocca libertà che non ha riscontro: un Narciso condannato ad un’eterna e barocca bellezza. Sua tragica catarsi solo l’immedesimazione con il punto di fuga stesso, stolta caduta orizzontale sul filo dell’acqua. Venezia è la città del limite, in quanto segue con fede la linea marcata di separazione dei due stati fisici antinomici, rivelando la dicotomia primigenia del suo stesso assetto urbanistico. Un atto fondante: il costruire come potente presa di potere in una talassomachia costante tra l’antropizzato e il nulla, se si considera il mare come iperuranico fattore di isolamento, di ostacolo favoloso. Lotta archetipica il cui spettro visivo rimane nelle facciate colorate, eufemismi di fortini, rimirabili all’univoca condizione di spingersi verso il limite stesso, direttamente di fronte al proprio dolce nemico, l’acqua. Le fondamenta, etimologicamente ma anche diacronicamente, sono l’archè di Venezia: eppure essa ci inganna, grazie alla sua riservata intelligenza illude l’avventore del fatto che esse siano relegabili allo sbaglio nell’orientarsi, siano termine ultimo di passeggiate dondolanti. La città obnubila del troppo, tautologicamente mai eccessivo, per condurci ad un vuoto assoluto, che, solo, può fornirci la chiave di volta del suo mistero: non mancanza del passato ma vago – come ogni magia ha il divertimento di mantenersi – sentore retroattivo di come ciò che è sia stato determinato.
Limiti sbiaditi di Giulia Zanon
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I’m fine, Herr, for private use. Tonight it’s live, you 20th sentry fox! Wimps gain the hill, with a schwimmen. Streetlicht kommen zu the time of stories. The rad isthm, bling of beer? tired arse Arse, be! Is the bling before it started? He studied trunks, cubit monoliths, ghosts. Out the Licht or pee, embrasures cheapen rents. If the weather so far clouds the ascending. And noodles of pee have been here before. On the fire, escape is a graven script. 00E3 Unicode please update codecs. As good as this, but rises with accretion. Alas I –ew him saying: ‘oh that this!’ Killed the king, my sister du? Finally coming in x, y and z. And knows their ‘please mind the gap.’ Wo whore es besten in Einstein’s city squared? I, image in the US rip of a car crash. The top deck’s OP still, which makes tarot. The web-designed sell premade get-a-lives. It’s like wiz pills to keep in shape. Some kid we know still plays with Action Men. The clubs love us, of all heroes. Will has the words of fifty percent off. Goodie bought, I’m sure, on the import market. Sphenopectin sodium laureth love is. Power is perfect as white-shirted M00E4nner. Selfies rumbling for inedibles. Don’t travel at random on Euclidian planes. To roam on maps with FTL technology. Shoulders that stay on the Big Bang theory. Scheme the escape into space seeking Indians. Moon, around and around, is a fixed form. Rave in the land as fossils play with bones. Eat your hand machine: a still nolife.
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Summer in the city by Christophe Lee, foto di Elena Rucli
Luigi Nono
Tutti i sinonimi della parola “sensibilità” di Guglielmo Cherchi
Le città, con il loro brulicare di esistenze, non sono soltanto luoghi in cui si concentrano industrie, commercio, potere politico, sono anche fucine di artisti quando non addirittura di movimenti artistici (pensiamo alla Dublino di Joyce, alla Weimar, alla Dessau e alla Berlino della Bauhaus), possono fungere da vetrine per questi ultimi (come Parigi, eletta a sede dei Balletti russi di Sergej Djagilev) e ospitare grandi festival capaci di attirare visitatori da tutto il mondo (il Brighton Festival o il Coachella, ad esempio). Gli ambienti urbani, quindi, forgiano, plasmano e influenzano la creatività e l’estro di chi li abita o li visita anche solo per brevi periodi. Nella storia di Luigi Nono, fra i massimi compositori italiani del Novecento, sono diverse le città a rivestire un ruolo fondamentale per la sua crescita e la sua formazione: in particolare Venezia, dove nacque nel 1924 e morì nel 1990; Darmstadt, nella quale partecipò ai Ferienkursen für neue Musik durante gli anni ’50, assieme a personalità come Morton Feldman, Theodor Adorno, Iannis Xenakis, Edgard Varèse e Karlheinz Stockhausen; quindi Milano, sede del Laboratorio di Fonologia della rai e di molte sue prime presso il Teatro Lirico e il Teatro alla Scala.
Luigi Nono | Tutti i sinonimi della parola “sensibilità” di Guglielmo Cherchi
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Luigi Nono, Nuria Schoenberg, Karlheinz Stockhausen e Bruno Maderna
Nipote dell’omonimo pittore di genere e paesaggista, Nono nasce in una casa affacciata sulle Zattere al Ponte Longo, primo tratto di una lunga fondamenta che costeggia il Canale della Giudecca fino alla Punta della Dogana. Sarà proprio la sua città natale a formare parte del suo immaginario espressivo: l’infinito susseguirsi di calli, ponti e canali, in cui il febbrile viavai di abitanti, turisti e commercianti può interrompersi improvvisamente a seconda del percorso che seguiamo. “Maestro di suoni e silenzi ”, come recita la targa affissa sulla sua casa. Un’ambivalenza che ritroviamo in numerose sue opere, in bilico fra vita e morte, pace e irrequietezza, sofferenza e sollievo, tutti strumenti di rappresentazione di una realtà storica che molti suoi colleghi ignoravano o alla quale tentavano di sfuggire in funzione di una ricerca musicale votata al determinismo. Venezia, una città modellata dalla storia e che al tempo stesso l’ha scritta, ha dato i natali a un uomo il cui genio instancabile ha scosso le fondamenta del pensiero musicale non solo europeo ma mondiale. Una delle scosse più celebri la assestò con una lettura tenuta a Darmstadt nel 1959, quando criticò apertamente le tesi e i modelli propugnati da compositori come Joseph Schillinger e John Cage, che predicavano l’applicazione di metodi scientifici all’atto creativo e il distacco, l’emancipazione dell’artista dal contesto storico-geografico in cui viveva. In particolare Cage, coi suoi collage sonori, viene fatto oggetto di aspre critiche da parte di Nono, che arriva a parlare di colonialismo musicale citando, guarda caso, la sua Venezia: […] ma questo tipo di collage ha il merito morale di non rinnegare la propria natura: in San Marco una pietra, o altro, che proviene con tutta evidenza da un’altra civiltà, ha la funzione inequivocabile di testimoniare d’un’epoca storica, caratterizzata appunto da trofei e prede belliche. Il metodo del collage nasce da una forma di pensiero colonialista, e non esiste una differenza sostanziale tra un tamburo cavo, che serve agli indiani per gli scongiuri e in una casa moderna funge da portacenere, e gli orientalismi di cui si serve una certa cultura occidentale per rendere più attraente la propria estetistica elaborazione del materiale.1 Darmstadt, ricco centro industriale, si trasformò, a partire dal dopoguerra, in un concentrato di istituzioni scientifiche di importanza mondiale, tanto da meritarsi il titolo ufficiale di Wissenschaftsstad (città della scienza). Sede del gsi, un grande centro di ricerca dotato di un acceleratore di particelle, a Darmstadt sono stati sintetizzati diversi elementi chimici, fra cui uno intitolato alla città stessa: il Darmstadtio. Il background culturale della città sembra aver inconsciamente spinto lo scientismo che montava nelle teorie di alcuni degli illustri frequentatori dei Ferienkursen, fino a rendere l’ambiente darmstadtiano ostile e progressivamente sgradito a Nono, che pure vi aveva fatto eseguire le prime di opere più che contestualizzate tanto sul piano storico quanto su quello ideologico, in particolar modo La Victoire de Guernica (1954). Musica e impegno politico divengono inscindibili, tanto che solo due anni dopo (1956) e a duecento chilometri a Nord-Ovest di Darmstadt, la prima de Il Canto Sospeso viene eseguita a Colonia. Voci soliste, coro e orchestra danno forma a uno
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Luigi Nono, Karel Goeyvaerts e Karlheinz Stockhausen a Darmstadt
straordinario monumento alla memoria, la cui base lirica è composta da lettere di condannati a morte della resistenza antifascista. L’orchestra, ma in generale la struttura stessa della cantata concepita da Nono, frammentano le parole sillabandole, con l’obiettivo di dar loro una dignità ancor più solenne e rendendole accessibili solo all’ascoltatore più attento; una peculiarità che Stockhausen, altro eminente habitué dei Ferienkursen, non colse affatto, arrivando a pensare – e scrivendolo nero su bianco nel suo Musik und Sprache – che il testo fosse stato così spezzettato e sparpagliato semplicemente per celarlo. Fu una delle tante gocce che fecero traboccare il vaso e spinsero Nono a chiudere con la cosiddetta Scuola di Darmstadt dopo dieci anni di frequentazioni. È interessante notare come, nonostante gli screzi e le divergenze di vedute sorte coi suoi colleghi contemporanei, la sua musica abbia avuto maggior successo all’estero piuttosto che in Italia. Emblematico e sconcertante l’episodio che riguarda la prima di Intolleranza 1960, azione scenica in due tempi portata in scena – nell’aprile del ’61 – al teatro La Fenice di Venezia sotto la direzione dell’amico e mentore Bruno Maderna, e conclusasi col deflagrare di una contestazione di stampo neofascista che aveva disturbato lo svolgersi dell’intera rappresentazione, tra cori a base di «Viva la polizia!» e piogge di volantini. Una serata raccontata da Eugenio Montale sul Corriere d’Informazione, che cita l’aggressione fascista solo nel breve paragrafo finale, preferendo – giustamente – esporre le sue critiche più o meno circostanziate sull’opera in esame, bollata come troppo difficile ed accademica, ma anche capace di coinvolgere ed impressionare lo spettatore con la continua tensione che l’attraversa e i brillanti effetti di spazializzazione del suono. Nonostante l’ostilità dimostrata da una fetta del pubblico italiano, Nono proseguirà, nel corso degli anni ’60, a scrivere e pubblicare musica politica: Canti di vita e d’amore: sul ponte di Hiroshima (1962), Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1965) e A floresta é jovem e cheja de vida (1966), quest’ultima sulla Guerra del Vietnam. E voi? Siete sordi? Complici nel gregge? Nella turpe vergogna? Non vi scuote il lamento dei nostri fratelli? Megafoni! Amplificate quest’urlo! Prima che la calunnia lo deformi e l’indifferenza lo strozzi! 2 Musicista in continua evoluzione e alla ricerca di linguaggi sempre nuovi e funzionali al suo stile espressivo, Luigi Nono non mancherà di frequentare lo Studio di Fonologia presso una delle sedi rai di Milano. Aperto nel 1955 grazie all’opera di Bruno Maderna e Luciano Berio, lo studio milanese fa sì che anche in Italia si porti avanti un discorso di sperimentazione simile a quello intrapreso – più tardi – in Francia dall’ircam (Institut de Recherche et
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Nuria Schoenberg e Luigi Nono a Venezia
Cordination Acoustique/Musique) e in Germania dal wdr (Studio für elektronische Musik des Wesdeutschen Rundfunks). A Milano Nono stringe nuove amicizie e lavora con pilastri come Claudio Abbado e Maurizio Pollini, che eseguiranno – e successivamente registreranno in Germania – la prima di Como una ola de fuerza y luz (1972) al Teatro alla Scala. Composta in memoria del cileno Luciano Cruz, dirigente di un movimento di sinistra rivoluzionario, Como una ola... prevede oltre a coro, orchestra e nastro magnetico, anche una voce solista, affidata al soprano Slavka Taskova; le parole del testo vengono cantate e declamate con grande impeto, e tanto la solista quanto il coro sembrano sfidare l’orchestra in accenti drammatici; una fuerza impalpabile eppure così solida impregna tutti e trenta i minuti dell’opera, a testimonianza della profonda intesa creatasi tra compositore ed esecutori. Sempre allo Studio di Fonologia di Milano, Nono darà la forma definitiva a un’altra composizione che coinvolge Pollini sia come musicista che come amico: …sofferte onde serene… , scritto nella triste circostanza di un lutto comune. Il suo pianismo indica a Nono una nuova strada da percorrere e da esplorare, e dopo il suo lavoro su Como una ola… decide di affiancare al suono del pianoforte in purezza quello del pianoforte rielaborato su nastro magnetico. È sorprendente come l’espressività e la drammaticità della musica del Nostro non perdano vigore neppure in una veste intimista come quella dipinta dalle onde. La costruzione simmetrica del brano invece di svilire sottolinea il momento doloroso: l’onda si forma, frange, si dissolve, la musica è un gioco di sfumature da cui si sviluppa l’antitesi fra sofferto e sereno, un ordito austero che non perde un grammo di emotività nell’arco dell’intera durata. Alla mia casa, alla Giudecca in Venezia, giungono continuamente suoni di campane varie, variamente ribattute, variamente significanti, di giorno e di notte, attraverso la nebbia e con il sole. Sono segnali di vita sulla laguna, sul mare. Inviti al lavoro, alla meditazione, avvertimenti. E la vita vi continua nella sofferta e serena necessità dell’ «equilibrio del profondo interiore», come dice Kafka.3 I suoni della quotidianità, l’incresparsi del bacino della Giudecca, la nebbia che si dissolve per lasciar posto al limpido sole: sono gli elementi che modellano la sensibilità di Nono, è la voce della sua città che cerca spazio nell’energica mente di un uomo che non conosce “intervalli del sentire”, per citare Pessoa. L’ascolto degli apparenti silenzi che ci circondano, l’attenzione riposta in questa pratica, fornirà l’input per un’opera di ben altre proporzioni che vedrà la luce nella sua versione definitiva solo nel 1985, il Prometeo. Prometeo. Tragedia dell’ascolto scaturisce da un lungo percorso che coniuga la ricerca sonora/musicale a quella filosofica, portata avanti insieme a Massimo Cacciari, creatore/costruttore del libretto. Il corpus dell’opera – che per convenzione si suddivide
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La prima assoluta del Prometeo presso San Lorenzo a Venezia
in nove cantate – è frutto di anni di sperimentazione presso l’Experimentalstudio der Heinrich-Strobel-Stiftung des swf di Friburgo; qui, grazie a sofisticate apparecchiature di produzione, analisi ed elaborazione del suono, il compositore si focalizza su micro-intervalli e micro-toni, particelle infinitesimali ma determinanti in diverse tradizioni musicali (da quella religiosa ebraica alla musica rinascimentale), che studierà fino a tracciare una cronistoria delle conquiste teoriche in termini di innovazione compositiva. Tutto partecipa al suono, gli spazi in cui questo si propaga e si riflette, i materiali che lo assorbono o lo amplificano, in cui le live electronics si inseriscono come elemento capace di trasformarlo in infinite declinazioni, infinite possibilità; gli spazi come voce, strumento, coinvolti al pari di tutti gli altri agenti. Il luogo deputato alla prima esecuzione assoluta della prima versione del Prometeo è la chiesa di San Lorenzo in Venezia, all’interno di uno spazio musicale concepito da Renzo Piano e con gli interventi luce di Emilio Vedova, in occasione della Biennale del 1984; una sorta di prova il cui brillante risultato non ne ha impedito la riscrittura ma è stato anzi propedeutico alla versione andata in scena l’anno dopo a Milano allo Stabilimento Ansaldo (oggi mudec - Museo delle culture) di via Tortona, e successivamente al Teatro alla Scala. Il rapporto di Nono con Venezia mai spezzatosi nel tempo, continua fino alla morte sopraggiunta nel 1990, nella stessa casa alle Zattere che lo aveva visto nascere. Nono infatti, pur avendo viaggiato in lungo e in largo, avendo passato periodi lontano dalla sua città natale, vi fece sempre ritorno e vi abitò, nutrendosi dell’illimitato patrimonio di suoni e di luci che fa della Serenissima un unicum su questa Terra, dei suoi infiniti possibili, gli stessi che fungeranno da ispirazione a una partitura dedicata a Carlo Scarpa (A Carlo Scarpa, architetto, ai suoi infiniti possibili) del 1984. Le sue spoglie riposano nel cimitero dell’isola di San Michele, davanti alla sua amata città. […] Ora ci viene morte, ma non sarà mai la Morte, finché queste voci parleranno – finché Miłosz darà ancora luogo nel suo linguaggio alla patria polacca – e in Ungheria si parla la lingua di Ady e in Russia quella di Pasternak. «Io non ho alzato la bandiera bianca»: anche «Quando stanno morendo, gli uomini cantano»…4
uigi Nono, ‘Presenza storica nella musica d’oggi’ (1959), da Nono a cura di Enzo Restagno (A.A.V.V., 1987 L E.D.T. Edizioni di Torino). 2 Luigi Nono, Intolleranza 1960, coro di tortura dalla Scena V, su idee di Angelo Maria Ripellino 3 Luigi Nono. Scritti e colloqui, a cura di A.I. De Benedictis e V. Rizzardi, Ricordi-LIM («Le Sfere», 35), Milano 2001, vol. I, p. 482. 4 Luigi Nono. Scritti e colloqui, a cura di A.I. De Benedictis e V. Rizzardi, Ricordi-LIM («Le Sfere», 35), Milano 2001, vol. I, pp. 489-490. 1
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questa mattina sbadiglio disegnato e poi ci siamo persi dentro un ciottolo di vita e tutti questi alberi che sanguinano sulle nostre teste ci baciamo sotto la pioggia nel disastro provinciale dove non abita nessuno qualche passero sperduto e impronte abbandonate che bei disegni che ci sono dentro i tuoi occhi quando daremo fuoco al lago si vedranno ancora meglio ci siamo scontrati sotto la cabina telefonica con i vetri sfondati ed abbiamo pensato inutilmente a come ci siamo vestiti di pioggia di catrame di mattoni e cemento ci salutiamo vicino alla cartiera incendiata mi hai preso alla gola mi hai detto che la via era sbagliata mi hai detto che volevi un parco dove adesso ci sono i grattacieli ci sorvola l’aereo militare che cerca nuovi spazi demografici e suonano le sirene delle ambulanze ti abbraccio sotto nuvole di uccelli cercando un arcobaleno tra i cimiteri abbandonati e le indicazioni sbagliate dei navigatori non aggiornati abbiamo costruito un mondo che si sgretola come un puzzle lo incastriamo malamente e senza metterlo in cornice camminiamo come palombari suicidi in un giardino di niente
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Macerie di Fabrizio Tagliaferri, foto di Silvia Di Gregorio
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La bocca del lupo: quando la cittĂ si fa partitura di Alma Mileto
La bocca del lupo: quando la città si fa partitura di Alma Mileto
Nel 2009 è uscito nelle sale La bocca del lupo, lo straordinario documentario diretto dal giovane regista Pietro Marcello. Il film nasce da una precisa istanza dettata dal Comune di Genova: illuminare di nuova luce la città, far sì che la memoria tecnica del dispositivo cinematografico si curi di recuperare i sedimenti di cui questa si compone liberandoli da ogni pregiudizio e manipolandoli in modo che diano vita a qualcosa d’altro. O perlomeno, questa è la direzione che Marcello, con la preziosa collaborazione della montatrice Sara Fgaier, dà al suo lavoro. Se seguendo il filo rosso che attraversa queste pagine pensiamo alla città come ad un “reticolo di vite”, è proprio in questo reticolo che Pietro e Sara si perdono alla ricerca di una storia da cui partire, che faccia da snodo e crocevia alla rivitalizzazione del capoluogo ligure. Dopo alcuni mesi, Pietro incontra Enzo in un bar, ed è quella sera che sono piuttosto certa di poter dire che inizi l’operazione di montaggio, il vero, unico, indiscusso protagonista de La bocca del lupo. Enzo è un immigrato siciliano cresciuto a Genova, lavora ad un banchetto che vende gelati e fette di anguria, ha un viso da attore e lo sguardo penetrante di chi la sa lunga. Più volte coinvolto in circostanze criminose, ha passato quasi dieci anni della sua vita in carcere. Ed è proprio tra quelle mura soffocanti che ha ricominciato a respirare grazie a Mary, una transessuale di cui si innamora e con cui passa lì dentro alcuni dei mesi più belli della sua vita. Mary viene rilasciata molto prima di Enzo, ma i due continuano con incredibile tenacia a starsi vicino e a sostenersi vicendevolmente scrivendosi lunghe lettere, sfruttando le sporadiche giornate di visita permesse, registrando su dei nastri le proprie voci e inviandoseli reciprocamente. Sono voci che si raccontano, si incoraggiano, voci che incarnano anche solo e semplicemente una condizione: quella di essere presenti l’una per l’altro. Pietro Marcello arriva quando Enzo e Mary sono finalmente riuniti, vicini e non più distanti, in grado finalmente di realizzare il loro sogno: quello di vivere gli ultimi anni di vita in una casetta in campagna affacciata sul porto di Genova dove rielaborare insieme gli anni trascorsi. Una dimensione ulteriore in cui condensare il passato e riattivarlo all’insegna di una ricostruzione. Del resto il loro sogno non è che un corollario dell’intera operazione che il montaggio fa su Genova. Il montaggio monta la storia di Enzo e di Mary e allo stesso tempo la storia della città, e non può che
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farlo manifestandosi nel suo aspetto più manuale, strumentale, tangibile: quello intermediale. Cos’è l’intermedialità? Il termine stesso rende evidente il fondamentale aspetto dell’inter, del ‘tra’: il montaggio intermediale è il montaggio che lavora con diversi formati audiovisivi, sfruttando proprio lo scarto che si viene a creare tra i diversi materiali e le energie che vengono sprigionate dal loro incontro. La bocca del lupo è uno degli esempi più lampanti di questa tecnica, là dove regista e montatrice lavorano con numerosi livelli formali che si intersecano in vista di una nuova e sorprendente esplosione di senso: le riprese attuali della città, le riprese di Enzo e di Mary (in particolare una lunghissima intervista in piano sequenza verso la fine in cui li vediamo per la prima volta insieme, interagire di fronte a noi), i nastri registrati dai protagonisti durante la permanenza in carcere di Enzo, la lettura di alcune delle loro lettere, qualche fotografia, le bellissime musiche di genere sacro composte appositamente per il film, un commentario di sapore epico scritto dal regista e diviso in tre sezioni (prologo, intermezzo ed epilogo), ma soprattutto numerosissime immagini e sequenze video di repertorio su Genova, pescate come perle da Sara Fgaier in archivi di tutta Italia (molte delle quali amatoriali, le più antiche risalenti agli anni ’60). Basti pensare che montatrice e regista hanno lavorato in sala di montaggio con un’enorme lavagna sulla quale erano segnati con tasselli di diverso colore questi differenti piani compositivi, così da avere costantemente sotto gli occhi il loro incastrarsi e risuonare insieme, come in una vera e propria partitura filmica. È proprio da questa apparente discontinuità, disomogeneità, collisione rappresentativa che può e deve nascere una nuova immagine generalizzata, che afferri e plasmi, come uno scalpello nelle nostre mani, il senso della materia che cangiante scorre sotto i nostri occhi. Usiamo dunque la nozione di ‘rappresentazione’ per indicare l’orizzontale e convenzionale dimensione della sequenzialità filmica, quella di ‘immagine’ per indicare la prensione sintetica che lo spettatore è chiamato a fare in un non-convenzionale eppure necessario atto di unità. Perché parliamo di non-convenzionalità? Questo termine ci apparirà più chiaro se ragioniamo sull’aspetto temporale della questione: per far sì che ci sia un atto sintetico di un materiale eterogeneo, c’è bisogno che questo stesso materiale trascorra, sia dinamico,
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cada nel tempo; è solo scorrendo che le diverse componenti compositive che abbiamo elencato si proiettano l’una sull’altra, si illuminano reciprocamente, si accavallano, risuonano armonicamente, permettendoci così di ap-prenderle insieme. Viviamo dunque un passaggio da una normale, convenzionale, progressiva condizione di sequenzialità delle rappresentazioni ad una condizione di aberrante e non convenzionale compresenza, una regressione che sola può, nel consapevole atto sintetico dello spettatore, far lavorare le rappresentazioni simultaneamente ad un’unica immagine, percepita fisiologicamente e compresa concettualmente. Forse ci suonerà meno strana ora la dizione ejzenštejniana di verticalità, là dove il regista sovietico parla di ‘montaggio verticale’ proprio in questo senso: l’esplosione delle linee compositive orizzontali dell’opera, le sue diverse voci, in una ‘seconda linea generalizzante’ che sfondando la gabbia quadrangolare dell’inquadratura ci appaia in una nuova, unificata dimensione, verticale rispetto alle semplici rappresentazioni. È quell’immagine sintetica di cui abbiamo parlato fin ora, ulteriore non nel senso di distaccata dal materiale che le scorre al di sotto, bensì al contrario nel senso di raccogliente questo materiale in un’azione sincretica che al tempo stesso dona un nuovo senso e collega questo senso al resto della composizione. Un’unità che nasce dall’ibridazione e dalla contaminazione di diversi formati, ergendosi ad un nuovo livello e contemporaneamente mantenendo il contatto con questo costante mutamento. Il nostro sguardo di spettatori è continuamente deviato, chiamato al differimento, ma è proprio nella fuoriuscita di una rappresentazione sull’altra che avvertiamo impellente il bisogno formale, prima ancora che contenutistico, di mettere in moto la nostra facoltà immaginativa e kantianamente contenere questo molteplice in un'unica apprensione che ce ne mostri il senso complessivo. In un montaggio del genere balza all’occhio l’atteggiamento soggettivo di colui che compone (il regista, il montatore, lo spettatore che a sua volta è chiamato a montare e ad essere montato dal film) prima ancora dell’oggetto stesso, il meccanismo operativo prima dell’opera, la processualità prima del contenuto. Come se si andasse e venisse dalle quinte teatrali, dal laboratorio di un artigiano, dalla sala prove di un’orchestra: la faccia manuale, ludica, creativa del prodotto che abbiamo di fronte è la più importante della medaglia, se il
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montaggio è protagonista lo è anche nel farci immaginare in ginocchio a terra nell’atto di montare al fianco di Pietro e di Sara, testimoni con loro del piacere narcisistico di fare e disfare una densissima tela. La terminologia musicale ci viene calorosamente incontro: come in una partitura orchestrale o in una fuga bachiana le diverse voci si sviluppano autonomamente solo per incontrarsi più in alto, in una seconda linea armonica che le faccia risuonare insieme donandoci il senso totale della composizione, nel montaggio intermediale-verticale de La bocca del lupo i diversi piani rappresentativi (quei tasselli colorati sulla lavagna) funzionano solo se raccolti in una seconda linea ad opera di un complesso lavoro di elaborazione da parte della nostra facoltà immaginativa. Fin ora abbiamo affrontato la questione da un punto di vista per lo più formale. Se ho scelto di scrivere di questo film è tuttavia anche perché questo decisivo sentimento di trasformazione, di passaggio da divisione ad unità, da disomogeneità a sintesi, da discontinuità a raccoglimento, potremmo anche dire in modo ancor più calzante da vecchio (materiale eterogeneo, frammentato e non ancora ricostruito) a nuovo (stimolo a ricostruirlo in un rinnovato e consapevole atto sincretico) si avverte ne La bocca del lupo anche ad un più ‘superficiale’ livello narrativo. Quella che Marcello vuole raccontare attraverso l’accuratissima scelta delle immagini è una vera e propria rinascita della città di Genova, a sua volta catalizzata da una seconda rinascita, quella della coppia di Enzo e di Mary. Parliamo qui di una riemersione, nel senso più letterale del termine, di un’immagine della città attuale che si fa tale proprio accogliendo al suo interno voci e gesti del passato che mette in dialogo con le nuove storie che si muovono sulla ribalta genovese, in un movimento dialettico che fa sì che da questo scontro apparentemente dissonante sorga una terzità del tutto armonica, pura, centrata. La musica è discorso direbbe Sabaneev, il nostro pensiero è polifonico: perché un concetto si sviluppi, c’è bisogno che il ragionamento tracciato sulla via che lo precede sia capace di agglutinare più elementi, facendosi carico del loro intreccio, faticoso ma appagante, che si fa vivo nella realtà con cui ci scontriamo tutti i giorni nella forma medesima in cui, ridotto ad un profilo più essenziale, si palesa su uno spartito in cui le voci possono parlare solo rincorrendosi, accavallandosi; persino
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rifiutandosi, ma nel rifiuto resta sottointeso un legame. Una voce tematica importante e spesso presente nel documentario è quella della distruzione, del crollo, della deflagrazione di edifici i cui detriti vengono spazzati via dalle onde liguri in tempesta, a rendere palpabili quel dissotterramento e quella costruzione su nuove fondamenta che già ci investe a livello teorico. Vorrei concludere con il consegnare a questo panorama uno spettatore. Di fronte ad un’opera come La bocca del lupo, ad un montaggio ‘armonico’ come quello che abbiamo appena descritto, siamo chiamati a rivestire un ruolo di attiva condensazione che, fuori dalla sala cinematografica, è il nostro mondo a chiamare in causa. Abbiamo a nostra disposizione materiali di costruzione sempre più numerosi e variegati, l’unica via da seguire per far sì che il loro utilizzo non rimanga fine a se stesso, o peggio, non ci sopraffaccia, è quella di rimanere vitali protagonisti nel gestirli. “Saper fare di tutta l’erba un fascio”, ma non nel senso riduttivo e categorizzante dell’espressione: al contrario dobbiamo acquisire progressivamente una nuova abilità, quella di raccogliere erbe diverse e tuttavia saper valorizzare il loro sempre più complesso incontro in un unico fascio che le ponga in comunicazione e le faccia modificare l’un l’altra, fuoriuscire l’una sull’altra. Esattamente come questa rivista accoglie tra le sue ampie braccia voci distanti e talvolta sconosciute, con la volontà unificante di dargli forza proprio grazie al terreno intricato e caotico su cui si conoscono. Il fiore più bello ormai può nascere solo da un rovo. I livelli narrativi e compositivi del film che abbiamo analizzato insieme fuoriescono estaticamente l’uno sull’altro, noi spettatori siamo a nostra volta chiamati all’estasi nel proiettarci attivamente sull’opera e nel far sì che questa stessa si proietti estaticamente su di noi abbracciando il nostro pensiero e oggettivandolo. Tutto sorge unicamente sul terreno eterogeneo dell’incontro. Siamo condensatori rispetto ad ogni cosa in cui ci imbattiamo nel percorso, è necessario esserlo, la nostra forza deve consistere ormai nel saperci dislocare, nell’accettare il continuo differimento cui siamo sottoposti e saper fare di questo una forza trainante che accomuni il piano della sensibilità e quello della conoscenza. Come scrive Pietro Marcello nel suo commentario, “i nuovi abitanti delle caverne sono uomini che trasmigrano”.
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Abitare il mare di Guglielmo Cherchi
Abitare il mare
di Guglielmo Cherchi
tornò che era ormai aprile con la convinzione che la vita potesse essere tranquillamente racchiusa in un banale quadretto balneare Massimo Volume Tra la sabbia dell'oceano
Abitare il mare di Guglielmo Cherchi
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I destini dei territori e delle persone che li abitano si intrecciano, si compenetrano. Se già le comunità diffuse che costellano le campagne hanno plasmato il paesaggio, fino a distorcere quasi a livello semantico il concetto di natura, le città, comunità più o meno estese e popolate di individui sono diventate il paesaggio stesso, l’amalgama costitutivo del territorio. Dal tufo di Pitigliano al basalto che lastrica le strade dei comuni etnei, la disponibilità di determinati materiali contribuisce a caratterizzare non solo l’aspetto estetico di un agglomerato urbano, ma anche la vita di chi lo abita. Nel caso delle città costiere, com’è ovvio, è soprattutto il mare a giocare un ruolo determinante: naturale via di comunicazione e causa di isolamento al tempo stesso, con la sua azione ora sedimentaria, ora erosiva, scandisce la vita delle persone forse più di qualunque altra cosa. La storia che ho provato a sintetizzare nelle righe che seguono, però, comincia da un cielo segnato dalle sagome di rumorosi velivoli militari. È il 1943 quando gli Alleati, nel corso dei primi mesi dell’anno, con una serie di bombardamenti mettono a ferro e fuoco la Sardegna; non limitandosi affatto ai soli obiettivi militari, l’offensiva americana e britannica si concentra sui principali centri urbani e in particolar modo sul capoluogo regionale, Cagliari. Tra gennaio e giugno la città, in gran parte disabitata, viene rasa al suolo quasi del tutto e trasformata in una distesa informe di macerie; di monumenti, chiese, sedi istituzionali e civili abitazioni non restano che poche facciate, qualche muro perimetrale. A settembre l’Italia esce dal conflitto, e per le centinaia di migliaia di persone sfollate arriva il momento di tornare in quello che resta della città; ricostruire diventa un’urgenza, è necessario garantire un tetto a chi lo ha perso. Così, nel dopoguerra e fino alla metà degli anni Settanta, la geografia di Cagliari viene nuovamente sconvolta da una massiccia opera di ricostruzione ed espansione urbanistica; è in questo periodo che il rapporto simbiotico – una simbiosi in senso figurato, ma che ha le caratteristiche di una simbiosi biologica, di quelle che si instaurano tra organismi di diversa specie – tra la città e il territorio va oltre il concetto di parassitismo fino a trasformarsi in predazione vera e propria. La necessità di creare alloggi per i senzatetto in tempi celeri, oltre a quella di garantire la riapertura delle più elementari attività commerciali, ha fatto sì che vengano adottati metodi e materiali di costruzione inadeguati: si punta ad ottenere il massimo del risultato col minimo dell’impegno e della spesa. La grande riserva di sabbia costituita dalla spiaggia del Poetto, principale meta balneare per i cagliaritani e gli abitanti dei centri limitrofi, viene depredata; una sabbia così candida da brillare al sole, che formava enormi dune lungo tutta la lunghezza del litorale, è questo l’elemento costitutivo di gran parte delle costruzioni sorte nell’immediato dopoguerra. Cagliari diventa una città di mare a tutti gli effetti, è come se l’azione delle onde non si sia limitata a depositare la sabbia sulla costa, ma abbia proseguito ad ammassarla fino a delineare strade, piazze, muri e terrazzi. I castelli di sabbia però, pur dando un’idea di solidità maggiore rispetto a quelli di carte, soffrono tanto il tempo che passa quanto la furia degli elementi: Cagliari non è soltanto una città di mare, c’è anche il vento a modellarla; ogni anno, infatti, in città si segnalano balconi e cornicioni pericolanti, le facciate di molti edifici si sgretolano come parmigiano, altrettanti presentano problemi di stabilità. Il rapporto con il Poetto si fa ancora più saldo quando la città lo elegge a vera e propria meta di villeggiatura. Gli storici stabilimenti balneari vengono ingranditi con l’aggiunta di nuove file di cabine e di bracci a mare, e sull’arenile cominciano a spuntare i casotti: piccole strutture in legno dipinto e altri materiali di fortuna atte ad ospitare intere famiglie durante i mesi estivi. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 il numero di casotti cresce a dismisura fino ad assumere le proporzioni di una colorata città di palafitte. Ogni estate si trasloca, letteralmente: c’è chi lo fa occupando più spazio del dovuto sul tram e chi noleggia una motoape (apixedda, in dialetto cagliaritano) per trasportare il necessario alla villetta al mare. Chi non può permettersi la cabina di un regolare stabilimento balneare se ne costruisce una con le sue mani, non ci sono norme edilizie da rispettare e ognuno disegna e arreda il proprio casotto in base ai suoi gusti e alle sue disponibilità: due metri per due, quattro metri per quattro, con
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o senza veranda, con una finestra per lato o con un lucernario. Come tante piccole cappelle i casotti ospitano i riti dell’estate dei cagliaritani, fatti di grigliate con famiglia e amici, di partite a carte nei dopopranzo, di interminabili code ai rubinetti per fare scorta d’acqua. Chi ha vissuto questo periodo di libertà lo racconta con il volto illuminato da un sorriso, e lo fa descrivendo anche i personaggi singolari che si distinguevano tra la folla di bagnanti, e che popolavano il Poetto, vere e proprie figure mitologiche: dalla signora Battistina, gestrice del chiosco dei gelati, ai venditori ambulanti di ghiaccio. Le dinamiche che regolano questo stagionale tessuto sociale sono le stesse riscontrabili in un piccolo paese. Col tempo, però, la densità di casotti diventa tale da crearenun serio problema igienico-sanitario: sotto la sabbia non ci sono fognature cui allacciarsi, e il sistema di conferimento e smaltimento dei rifiuti non è adeguato alle esigenze e alle dimensioni di questa sorta di anarchico impianto urbano. Rifiuti e sporcizia si accumulano nei vicoli sabbiosi fra una palafitta e l’altra, i topi diventano una presenza fissa, e così nel 1986 il Comune prende la decisione fortemente impopolare di demolire i casotti; per molti cagliaritani è un pezzo di vita che se ne va. I vuoti normativi, il generale lassismo della società cittadina e in particolare della macchina pubblica, hanno portato alla fine di un’esperienza che, con un minimo di discernimento, avrebbe potuto continuare a caratterizzare il paesaggio urbano e costiero, come il pier di Brighton o le coloratissime file di spogliatoi in tela di Nazaré, in Portogallo. Nel frattempo, con l’Italia in pieno miracolo economico, Cagliari allarga i propri confini avvinghiando, come una piovra, aree verdi e aree umide. I processi di antropizzazione e urbanizzazione non riguardano più solo la spiaggia, che nel frattempo è andata sempre più ad assottigliarsi – anche per opera dei cambiamenti nelle correnti marine e nel moto ondoso – e i cui casotti sono talmente integrati nel paesaggio da sembrare naturali, infatti anche lungo la striscia di terra che la separa da stagno e saline cominciano a sorgere case in muratura: al posto di una fitta pineta, barriera naturale contro l’azione erosiva dei venti sull’arenile, sorge un quartiere di villette e palazzine, di strade asfaltate e di parcheggi. Quello che era un delicato ecosistema costiero si è trasformato nel giro di alcuni decenni nel fulcro della vita e della movida balneari per cittadini e turisti, ma quel giocattolo che sembra perfetto, quel motore di sviluppo economico, sta per rompersi. Ci si accorge tardi del degrado in cui versa la spiaggia, e ancora più tardi si tenterà di porvi rimedio con un’opera di ripascimento che fin da subito presenta i connotati di una catastrofe. Con una lunga e costosa attività di dragaggio del fondale marino, si riversa sul caratteristico manto bianco del Poetto una grigia massa di sabbia, conchiglie, alghe e detriti vari, creando un incalcolabile danno ambientale prima ancora che estetico. A beffa si aggiunge beffa, perché l’assenza di un piano di salvaguardia dell’arenile fa sì che la “nuova” sabbia venga lentamente ed inesorabilmente inghiottita dal mare, spazzata dai venti e portata via dal calpestio dei bagnanti. Bastano pochi anni per vanificare un progetto nato male e cresciuto peggio, la striscia di spiaggia si è nuovamente assottigliata e il suo colore, tendente al grigio, fa storcere il naso agli aficionados, che comunque continuano a frequentarla con assiduità durante i mesi estivi. Per intravedere una svolta nel tormentato rapporto tra città e litorale bisognerà attendere la stesura del Piano di Utilizzo dei Litorali (pul), approvato dal Comune di Cagliari sul finire del 2014. Il rifacimento e la pedonalizzazione dell’asse viario che corre lungo la spiaggia è il primo importante passo di un percorso che punta a tutelare l’integrità e la futura vivibilità dell’arenile; gli interventi riguardano anche le attività commerciali e di ristorazione, le cui strutture vengono uniformate in termini estetici e dotate dei sottoservizi (nuovi impianti idrici, elettrici e fognari) necessari; inoltre, reti e barriere in materiali naturali puntano a ridurre sensibilmente la dispersione della sabbia. Non è possibile risarcire il Poetto per i danni che ha subito in più di mezzo secolo di predazione e incuria; mentre è auspicabile che l’opera compensatoria messa in atto dal Comune non resti una goccia nell’oceano, e che l’intera città capisca il valore della coesistenza, smettendo i panni dell’insetto parassitoide. Vivere il territorio, ma anche lasciarlovivere, è una sfida e dev’essere un obiettivo non solo per la città di Cagliari, ma per tutti i nuclei urbani, piccoli o grandi che siano.
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Lisbon Story
La città tra suono e immagine di Dora Ciccone
Nel 1994 viene proposto a Wim Wenders di realizzare un documentario su Lisbona con l’intento di testimoniare lo sguardo di uno straniero sulla città (capitale della cultura per quell’anno). Wenders, che era già passato per quelle strade durante Lo stato delle cose (1982) e Fino alla fine del mondo (1991), ci ritorna senza un copione per mettere al centro del suo film la città stessa. Solo successivamente Lisbona è diventata Lisbon story. “Prima c’è stato il luogo. E poi la storia”.1 Quella che ritrova non è più la stessa Lisbona dormiente che lo aveva commosso in una giornata piovosa del 1980, quando in mezzo a edifici silenziosi, vecchi tram e automobili era stato incantato da un luogo che gli era apparso sospeso e impenetrabile, avvolto dalla cultura e dalla storia che aveva percorso quelle stesse strade. Mosso dal desiderio di raccontarlo, ci torna ma la città si è svegliata, bruscamente scossa dai suoi sogni, in un futuro destinato alla scomparsa. Come salvarla? Sono convinto che i posti abbiano bisogno di una storia per sopravvivere: mi resi conto allora che sempre alla fine scoprivo i luoghi nelle storie meglio che in qualunque altro posto.2 uando giravo per la città cercando di immaginare, di strutturare il documentario che Q dovevo realizzare, venivo catturato dai rumori dei moltissimi luoghi in cui passavo, che mi chiedevano di apparire, non in immagine, ma in una storia.3 Una volta abbandonata l’idea di girare un documentario, Wenders trova la storia nella città stessa, nelle infinite possibili storie che si potevano scorgere al suo interno. Così, guidato dai versi di Pessoa e dalle musiche dei Madredeus, si addentra nello spirito di una città fortemente radicata nell’immaginario letterario novecentesco. Per fare ciò diviene fondamentale un personaggio che, più che guardare, ascoltasse la città. Torna così in scena Philip Winter (Rüdiger Vogler, il viaggiatore e alter ego di Wenders) che raggiunge l’amico regista Friedrich. Friedrich era andato a Lisbona con un’idea nostalgica di pura archeologia e con la colta utopia poetica di una cultura che aveva posto le fondamenta della sovranità della soggettività
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dell’autore. Sconfortato dall’impossibilità di girare un documentario come l’avrebbero fatto cent’anni prima, cerca di salvare le immagini con il suono. Ma quando Winter arriva non lo trova e allora inizia, attraverso le immagini, a vedere, scoprire e riconoscere Lisbona. Attraverso i suoni ricostruisce le immagini, dà forma e posto alle inquadrature. Conferisce un senso agli elementi visivi mettendoli in relazione tra di loro e con il mondo, dando voce alla ritrovata fiducia di Wenders nell’immagine cinematografica. Quando Lisbon Story esce nel 1994 si presenta come un’esplicita riflessione sulle conseguenze della tecnologia nel linguaggio cinematografico, nella cultura e nella tradizione e che in quegli anni venivano messe profondamente in discussione, per poi aprirsi a interrogativi più impegnativi sul potere, il diritto e la necessità di un punto di vista nel cinema, sulla soggettività dei venerati Autori. Perché non riflettere in questo film sul fatto che sono ormai cento anni che possiamo guardare alla città attraverso l’obbiettivo della cinepresa.4 Il film si costruisce sull’iterazione di diversi formati audiovisivi per restituire lo sguardo frammentato di un estraneo sulla città. Per la maggior parte questi consistono in immagini girate in pellicola 35mm alternate da riprese amatoriali girate in video Hi-8 e altre girate con una camera a spalla degli anni venti. In questa conversazione a più voci troviamo anche i suoni e i rumori che Philip Winter raccoglie per la città e ricrea, le musiche dei Madredeus e le poesie di Pessoa che risuonano durante tutto il film. Scorci di Lisbona che si sommano a creare un’immagine sintetica in continuo dialogo con la città stessa, che noi poi (ri)costruiamo nel nostro sguardo. “Diventato ormai parte integrante del nostro ambiente, il cinema ci mostra il paesaggio urbano dalla prospettiva delle immagini.”5 La Lisbona di fine xx secolo si presenta ancora dormiente, ancora avvolta da quell’aura che per Benjamin pervade l’intera cultura ottocentesca e che nel lavoro sui Passage di Parigi individua come il medium avvolgente da cui ci si deve liberare. Ai margini dell’Europa (politicamente, geograficamente e socialmente) si trova in Lisbona una
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resistenza a farsi metropoli. Rimasta quasi immutata dal xix secolo, è ancora avvolta da quel medium auratico. In questa marginalità Wenders ci riconosce una città anche più europea di Parigi, facendola metafora del vecchio continente. Le immagini riprese con una camera a spalla degli anni venti, in seppia, ci mostrano una città congelata nel tempo, ci raccontano una storia riposta nella memoria del passato, avvolte da quel sogno che ricopre gli anziani abitanti, le canzoni dei Madredeus, le poesie di Pessoa, i vecchi tram e gli edifici che disegnano il paesaggio. Le storie nel cinema di Wenders nascono proprio come conseguenza del confronto tra personaggi e territorio, i quali possiedono già una storia propria, evocano un’atmosfera, un sentimento del tempo. Ogni film parte dalle immagini che un luogo contiene, una molteplicità di immagini che lasciano lo spazio al regista di muoversi tra di esse, conferendo sì una scelta, ma lasciando anche allo spettatore la libertà di ricostruire da sé il proprio film, senza prescrivere nulla, bensì stimolandone l’immaginazione. L’autore appare tanto più in quanto è quello che è visto mentre vede, come se facesse parte del quadro. La sua traccia (il punto dello sguardo, l’indizio che qualcuno guardi, il punto di vista, il posto della macchina, ecc.) è, contemporaneamente, ciò che dovrebbe scomparire totalmente e ciò che protegge da un rapporto troppo violento (mistico) con la cosa vista.6 Un film non è quindi una distrazione dal mondo ma lo spazio d’azione sul mondo, che lo richiama alla memoria “La città è un luogo in cui la storia è presente a livello fisico, in cui il presente viene inondato e appagato dal passato. Una città si delinea attraverso il suo lavoro memoriale.”7 Il cinema era nato esattamente cento anni prima come parte della cultura urbana ed era cresciuto parallelamente all’espansione della città ritagliandosi un proprio spazio al suo interno. I film quindi testimoniano le trasformazioni che hanno ridisegnato drasticamente lo spazio urbano, “Il cinema e la città sono cresciute e diventate adulte assieme. (…) Il cinema è insomma lo specchio adeguato delle città del Novecento e degli uomini che le abitano”8.
. Wenders, Lisbon Story, a cura di M. Sesti W W. Wenders, Conferenza presso la Triennale di Milano, 1994 3 W. Wenders, Conferenza presso la Triennale di Milano, 1994 4 W. Wenders, Conferenza presso la Triennale di Milano, 1994 5 W. Wenders, L'atto di vedere, Ubulibri, Milano, 1992 (p.85) 6 Serge Daney, L’exercise a été profitable, Monsieur, 1993 7 W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano 1992 (p.104) 8 W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano 1992 (p.85) 1 2
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Sunset on the Crossing by Maria Sledmere
Toward a sensorial urbanism by Mirko Zardini
In recent years, numerous studies have taken up the theme of the city and the urban domain. It seems that the city can no longer be avoided: As the predominant setting of our daily lives, it is “everywhere and in everything.”1 The notion of urbanism as a way of life, independent of the physical density of the environment and thus not dependent on locale, is becoming a concrete reality.2 During the 1960s and 1970s, studies and descriptions of the city focused mainly on changes of scale, on the surprising growth that led to the emergence of novel urban configurations. New terms such as metropolitan region, city-region, megalopolis, or megistopolis3 gradually began to replace traditional references like city, town, ville, cité, città, Stadt, urbs, and polis, and even metropolis or Grossstadt, which were no longer considered adequate to describe the new conurbations. Studies and descriptions of the last decades have attempted to represent the new qualities and increased complexity of urban phenomena. To suggest these new conditions, authors have resorted to adjectives or nouns modifying the word “city.”4 It is clear from the diverse viewpoints these represent that a unified vision of the urban has been renounced in the face of the complexity of the phenomena being observed and analyzed. So numerous are the studies and the terms coined in service of this new effort of description and interpretation that they would fill not one but several dictionaries on the subject of the contemporary city. In effect, they betray a Borgesian urge to capture the nature of the contemporary urban context in terms that run the alphabetical gamut from A to Z: anxious city; city of bits; compact or cyber city; dual or dead city or città disfatta; edge, edgier, or entrepreneurial, or event city; fantasy city; generic, global, or green city; hypercity; instant city; Japanese city; kitsch city; cité locale or lettered city; Manga or mortal city; ville narcisse or network city; open city or ökotop Stadt; ville panique, partitioned city, or città pulpa; city of quartz; rat ville; survival city; soft or sun city; tourist, television, or thematic city; unknown city; virtual city; wounded city; x or Xerox city; year city; Zwischenstadt or zweckentfremdet.5 Despite their diversity of approach, all of these studies reveal how the cities in which we live have changed, how our ways of looking at the city have changed, and above all, how we ourselves have changed. Contemporary City Planning and Environment Urbanistic studies and urban projects have also attempted to define new strategies of intervention that are capable of effecting transformations of the urban fabric, and of responding to new problems posed by the forces of globalization, de-localization, and fragmentation. From new urbanism to post-urbanism or re-urbanism, from everyday urbanism to informal urbanism, and from eco-urbanism to landscape urbanism, a range of new definitions have been assigned to contemporary city planning in recent years.6 The multiplicity of these designations clearly reflects the wide range of responses and approaches adopted in the face of new urban phenomena worldwide. New urbanism, for example, has responded to the rediscovery of social and environmental needs with the often nostalgic revival of certain models of the historic city. Post-urbanism, in
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the Eisenmanian sense of the term, emphasizes above all the value of the project as a means of critiquing the status quo without distinguishing between architecture and city planning. This overlap between the two, tied to a vision of the city that is not just morphological, but also social and political, is also manifest in Manuel de Solà-Morales’ research on the urban project, the urban section, and the theme of urban corners. For De Solà-Morales, in fact, the corner is at once a building, an urban place, and a metaphor for the city, as a place of meeting and confrontation between “diverse people.”7 This is a theme that recurs in many lines of inquiry. In particular, it resonates in projects belonging to what has been called everyday urbanism,8 inspired by the rediscovery of quotidian life in the work of Henri Lefebvre, Michel de Certeau, and Guy Debord, in which the daily reality of the city’s inhabitants becomes the centre of interest. Even though the themes of advocacy or grassroots participation in architecture and city planning that were so prominent in the 1960s and 1970s are not explicitly referenced, it is clear that attention is focused largely on the informal city, and that the goal is a democratic approach to planning, from the bottom up. There is now widespread interest in the environmental and ecological issues confronting cities, in particular sustainability and biodiversity, and a renewed and general faith in the efficacy of the tools and methods of landscape design to bring about the understanding and transformation of the urban environment. It is not just a question of a reappropriation of the technical instruments, something that is not new, if we look at the experiences of the 19th and early 20th centuries, but rather a conceptual change: we have moved from Boccioni’s “city that rises” to the “landscape that advances,” metaphorically as well as actually.9 As a result, Iñaki Ábalos and Juan Herreros can claim that “every location has begun to be regarded as a landscape, either natural or artificial.”10 This great variety of studies, strategies, and projects notwithstanding, are we not missing something? If we look back to the late 1960s and 1970s, we find that the theme of the urban environment was already at the centre of many prescient reflections, most considered radical at the time. However disparate were the viewpoints of that era, from the technological optimism of Buckminster Fuller to the social criticism of collectives like Superstudio, the urban environment seems to have been examined in a broader and more complex manner than in recent decades.11 Investigations into phenomenology, for example, though they may not have had widespread impact in the field at large, have surely been a crucial point of departure for theorists like Juhani Pallasmaa and others. This strongly suggests the need for a rethinking of proposals dating from these years, especially because they were framed by political and social issues, debates, and events whose gravity is mirrored by events that are overwhelming cities today. Cedric Price, Charles Moore, Christian Norberg- Schulz, Kevin Lynch, Superstudio, Gordon Matta-Clark, and Alison and Peter Smithson, for example, all raised questions and engaged themes that are resurfacing today. What is clear is that some of the most innovative proposals of the 1970s exceeded our capacity to realize them at the time, whereas today, they seem not only relevant, but also feasible as events on a global scale transform both the landscape of cities and the hierarchy of our priorities on a daily basis. For example, studies and proposals of the 1970s which dealt with the qualities of atmosphere, nature and the environment, the human body and health—including those of Cedric Price, who observed that “mental, physical, and sensory well-being is required”12—are once again at the centre of debates concerning the city, because the improvement of the quality of the urban environment is now more than ever a necessity. It is not a matter of returning to a conception of the environment as purely climatic fact or visual phenomenon, as with the British townscape of the 1960s and 1970s,13 but rather of proposing a broader view of the environment that takes into consideration the full spectrum of perceptual phenomena that make up the sensorial dimension beyond the regime of the visual. Material and tactile properties, the control of temperature, humidity, and odours, along with acoustic qualities are increasingly considered fundamental to the definition of private spaces. Unfortunately, this is not yet the case with urban spaces.
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Public Space and “Sensorial” Streets The shrinking and impoverishment of so-called public space is now a prominent theme in contemporary debates. Some of the activities once carried out in public space have been taken over by new forms of communal space (i.e., space that is privately owned but in public use, such as shopping malls or theme parks),14 while other functions of communication and entertainment that originated as communal have been transferred to the private sphere by means of the television and computer. Today, one predominant concern seems to be determining the character of contemporary urban space: security. The open spaces of the city, streets and squares, along with communal spaces, have above all become spaces of fear, and thus, inevitably, spaces of control. Fear is a primary force driving the proliferation of socially homogeneous and controlled enclaves, gated communities, and theme parks. And it is fear that determines the definition of what is left of public space. To keep fear—all the various forms of fear that have possessed us— at bay, we have resorted to remedies such as the illumination of public space, its enclosure and segregation, and video surveillance. According to Steven Flusty, certain characteristics are introduced into urban spaces in order to make them repellent to the public. Flusty’s discouraging list includes: “stealthy spaces” (spaces that cannot be found); “slippery spaces” (spaces that cannot be reached); “crusty spaces” (spaces that cannot be accessed); “prickly spaces” (spaces that cannot be comfortably occupied); and “jittery spaces” (spaces that cannot be utilized unobserved).15 Contemporary architecture and city planning are increasingly preoccupied with masking such responses and repressing the conceptual as well as real nature of new systems of control. Zygmunt Baumann points out that, on the contrary, urban space ought to be shaped by the concept of “mixophilia,” to favour and encourage the possibility “of living peacefully and happily with difference, and taking advantage of the variety of stimuli.”16 To achieve this end, it would be necessary to promote “the diffusion of public spaces that are open, inviting, and hospitable, spaces that citizens of all kinds would be tempted to make frequent use of and to share intentionally and willingly.”17 What qualities should these spaces have? Is it possible to transform the urban spaces described by Flusty into livable, appealing, and interesting environments? As early as the 1960s, in her critique of planning practices, Jane Jacobs suggested some possible qualities of the urban environment, stressing the importance of difference, of the human dimension, and insisting on the role of the street as public space.18 In his influential text of the 1980s, William H. Whyte also proposed the street and the square as public spaces par excellence, analyzing their modes of use and their various components, from water to wind, from trees to light, from shade to sun, arriving at the idea of a “sensorial street.”19 Nonetheless, city planning has long privileged qualities of urban space based exclusively on visual perception. Whether the aim was to define a regular space through control of alignments and heights or through definition of materials and colours, or to accentuate contrasts and differences in a picturesque vision of the urban environment, the eye has always been privileged. The same consideration has not been given to the ear and nose (nor the sense of touch). Above all, sounds and odours have been considered disturbing elements, and architecture and city planning have exclusively been concerned with marginalizing them, covering them up, or eliminating them altogether. From the Hygienic City to Smellscapes and Soundscapes This process of sanitization of the urban environment, although it was prefigured at the dawn of the Italian Renaissance by Leonardo Bruni in his Panegyric to the City of Florence (circa 1403–4),20 is only taken up in earnest at the level of the municipality in the mid-eighteenth century.21 The transformation of the character and quality of public space starts with the first
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regulations concerning street cleaning and attempts to control the proliferation of dust and mud by paving streets with stone, and subsequently, asphalt. Even with respect to garbage collection and the elimination of dirt and odours, the visual aspect of the intervention, whether it was paving or plastering, assumed a predominant role, often in excess of what was actually required.22 This dual preoccupation with the visual and the “hygienic” has been a constant factor in the shaping of attitudes toward the modern city, and it persists today. Thus, the paving of roads and squares, street lighting, and regulations to prevent the spread of unpleasant odours and noises were just the first step in the ongoing process of embellishing public space.23 With the introduction and dissemination of new technologies (now on an increasingly global scale), and the consequent production of new and more or less undesirable effects of a sensory nature, solutions considered optimal at one moment come to be perceived as problematic, in and of themselves, at a later point. This is the case with asphalt, which is now blamed for the increase in automobile traffic, and also street lighting, which has resulted in excessive illumination of the city at night. Nonetheless, the continuous erosion of the perceptual sphere, by sanitization on the one hand and standardization on the other, has to contend with olfactory and aural distinctions, which however impalpable, have turned out to be highly resistant. The processes of globalization and the diffusion of now-common odours (that mixture of gasoline, detergents, plumbing, and junk food of which Ivan Illich speaks)24 notwithstanding, every city and every place still has its own smellscape: “There is a smell of London. There is a Russian smell.... There is a smell of Central Europe.... There are scents of the Mediterranean and the Orient.... There is the subtlety of the odours of India.... There are the odours of China.... There is the smell of America,” observes André Siegfried, one of the first writers to take an interest in the geography of colours, odours, and sounds.25 Likewise, the research of R. Murray Schafer and Laboratoire Cresson has focused on the study of diversity in soundscapes of urban environments.26 Thus, alongside the traditional notion of a visual landscape, we have begun to recognize the identity of individual cities by their unique sounds and smells. One need only look at the recent rise in recorded soundscapes as a form of “guide” to cities around the world, or the insightful sound installations and “walks” of Canadian artist Janet Cardiff, to grasp the importance of this new alertness to sounds and noises in the urban environment. Architecture and Sensorial Experience It is not just the urban setting in which we live that changes with the passing of time: our own perceptions, sensitivities, and ways of life, as well as our sensory thresholds and levels of tolerance or appreciation of odours, sounds, dirt, darkness, cold, or heat tend to vary. However, this variation in perception and sensitivity, and thus judgment, does not depend solely on time, but also on location and culture.27 The abstract idea of a modern human being who prefers, for example, to live at an ambient temperature of 18°C has resulted in a multitude of contemporary human beings who live in different places and cultures, with different levels of awareness and tolerance.28 In contrast to what Charles Moore suggested in the 1970s,29 we do not “live” in a generic body, but in bodies that differ widely in their perceptual culture and capacities, and that are sometimes even modified by technological prostheses. As David Howes has observed in connection with Marshall McLuhan’s research, “perception is not just a matter of biology, psychology, or personal history, but of cultural formation.”30 In recent years, the human and social sciences, from anthropology to geography, have undergone a “sensorial revolution” in which the “senses” constitute not so much a new field of study as a fundamental shift in the mode and media we employ to observe and define our own fields of study. Much of contemporary architecture shares this renewed interest in a sensorial experience extending beyond the purely visual realm. Architects including Gaetano Pesce, Jacques
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Herzog, Juhani Pallasmaa, Steven Holl, Kengo Kuma, and even Peter Eisenman have pointed out that too much importance is given to the visual aspect of architecture. “Yes, sound, material, not just vision. What I’m trying to do is to question the dominance of vision and this is a difficult thing because most people are judged by the visual image. There is too much visual noise in our environment for me,” remarked Peter Eisenman in a recent interview.31 In their description of the “conglomerate order,” Alison and Peter Smithson hypothesized that a building can “harnesses all the senses: it can accept a certain roughness, it can operate at night; it can offer, especially, pleasures beyond the eyes: they are perhaps the pleasures of territory that the other animals feel so strongly.”32 Contemporary interiors—from hospitals to the communal spaces of shopping malls, theme parks, and places of entertainment and consumption—devote particular attention to differences in sensory perception, and many are conceived specifically as extensions of marketing strategies for consumer goods and experiences. A growing number of the objects that surround us are designed with a special emphasis on their sensual characteristics. In the field of communication of abstract information, for example, Saul Wurman’s information design33 has been superseded by new research that focuses on multi-sensory design, introducing the aspects of sound and touch as well.34 This interest is currently even influencing the design of virtual environments. For example, the Sensory Environments Evaluation (SEE) Project, renouncing the photorealism of the past twenty years, “seeks to formulate a new design methodology for virtual environments that utilize multiple sensory inputs to induce presence.”35 In a highly successful book entitled The Experience Economy,36 Joseph Pine, II, and James Gilmore suggest, as a first step toward rendering merchandise more experiential, and therefore more interesting and valuable, intensifying the customer’s sensorial interaction with the goods themselves.37 At a moment when sensory marketing, purveyors of the experience economy, and the practice of multi-sensory design, not to mention the crucial investigations of contemporary artists, seem to be devoting so much attention to sensorial experience, it is paradoxical to find that the urban environment remains untouched by this sort of consideration. Character, Atmosphere, and Sensorial Urbanism Critical thinking in this context is no longer driven by language, semiotics, text, and signs, but by a rediscovery of phenomenology, experience, the body, perceptions, and the senses. This “sensorial revolution” has been matched in architecture and urbanism by a rediscovery of the element of character.38 Associated with a particular place, the term character indicates its specificity; at the same time it does not refer to an exclusively visual condition, but embraces all the various sensory experiences that one can have in a place. As far back as the 1970s, Kevin Lynch39 and Christian Norberg- Schulz reintroduced this theme into their reflections on the urban environment. In particular, Norberg-Schulz described place as a “total” qualitative phenomenon, making use of expressions like “environmental character” and “atmosphere.”40 It is precisely this last term that is increasingly being used to describe the environmental qualities of a place.41 Gernot Böhme has portrayed atmosphere as an almost objective condition. It implies the physical presence of the subject and the object; it focuses attention on place; and above all, it presupposes a sensory experience. Böhme has observed that “sensory perception as opposed to judgment is rehabilitated in aesthetics, and the term ‘aesthetic’ is restored to its original meaning, namely the theory of perception.”42 Yet it is not just a question of developing a new sensitivity. As Reinhard Knodt has pointed out, specific expertise is also necessary, an expertise that is extended to the practical field through the work of artists, architects, city planners, or landscape designers.43 In establishing a “sensorial city planning” that is capable of defining the character and atmosphere of places, it is necessary to avoid a practice based,
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once again, on vision. The discipline of landscape design cannot help in this regard, for it, too, like architecture and city planning, is dominated by the eye. Unfortunately, as Iñaki Ábalos points out, “true picturesque invention—in which places have a voice and speak to us, telling us what they expect to become, what they need or do not need—has developed ... as pure appearances, as cosmetics.”44 According to Kengo Kuma, there is another, non-visual practice to which we can turn for reference in this regard: “The practice of gardening provides us with many hints and gives us the courage.”45 In fact, it is not just a matter of reducing our dependence on vision and introducing richer conditions of perception; there is also the need to “make manifest that totality called place.”46 The gardener is always in the garden, he is practically its prisoner. There being no distance between him and the garden, he cannot manipulate it visually from the outside, as a landscape designer would do. “He is forever occupied with watering, ridding plants of bugs, weeding and replanting, and the garden would cease to exist if he stopped... There is no temporal point where a goal is reached and completion is achieved. There is no completion for a garden.”47 The materials, projects, and studies presented in Sense of the City (2005) at the Canadian Centre for Architecture propose a different way of talking about, describing, and planning our cities; they suggest thinking of them as places for our bodies (and our souls);48 they remind us how mutable is our way of perceiving the urban environment; they offer us a history of the changes in the Western city from new points of view that have been hitherto neglected; in addition, they reveal to us the possibilities provided by the urban environment in its various aspects—those of sound, smell, touch, vision, and climate—and invite us to look at them in new ways. The physical urban environment, despite the impoverishment to which it is currently subject, is in fact a vital part of our human experience. As Joseph Rykwert points out, the seduction of place still exists, and the spread of cyberspace will not be able to substitute for “the functions of the tangible public realm.”49 On the contrary, it is precisely the expansion of the virtual, globally connected world that renders specific places increasingly appealing and thus important. The fact that accessibility is no longer the discriminating factor makes the other qualities of a place fundamental to its ability to attract.50 Thus atmosphere, character, and sensorial qualities are becoming key factors in the definition of a place, even from an economic perspective. All the more reason for us to demand that this attention be turned to public places, and to urban spaces in general. Is it possible to combine the different approaches to contemporary urbanism with a “sensorial urbanism,” capable of offering a broader understanding of urban settings, interested in describing the character and atmosphere of places, and aiming to contribute to a new definition of public space? Alongside conceptions of the city as a place of difference, conflict, and confrontation, is it not possible to develop an approach to the city as a place of camaraderie, conviviality, and comfort?
See the introduction to Ash Amin and Nigel Thrift, Cities: Reimagining the Urban (Cambridge: Polity Press, 2002). 2 See Louis Wirth, “Urbanism as a Way of Life” in The American Journal of Sociology (1938); Melvin M. Webber, ‘The Urban Place and the Nonplace Urban Realm’ in Melvin M. Webber et al., Explorations into Urban Structure (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1964). 3 Jean Gottmann, Megalopolis: The Urbanized Northeastern Seaboard of the United States (New York: Twentieth Century Fund, 1961). The term “megistopolis” was coined by Gottmann in a 1978 essay entitled “How Large Can Cities Grow?” reprinted in Since Megalopolis: The Urban Writings of Jean Gottmann, eds. Jean Gottmann and Robert A. Harper (Baltimore & London: Johns Hopkins University Press, 1990). 4 In this connection, see Nan Ellin, “Slash City” in Lotus international 110 (September 2001): 58–72. 5 For a hypothetical dictionary on the contemporary city, see Ludovica Molo and Mirko Zardini, eds., “La città contemporanea dalla A alla Z” in archi (February 1999): 10–45. The compilation of dictionaries is an 1
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increasingly common practice today. For a different interpretation, see The Metapolis Dictionary of Advanced Architecture (Barcelona: Actar, 2003). 6 A series of seminars held at the University of Michigan in 2004 offered a first and very interesting panorama; see Rahul Mehrotra, ed., Everyday Urbanism: Margaret Crawford vs. Michael Speaks (Ann Arbor: University of Michigan Press & A. Alfred Taubman College of Architecture, 2005); Robert Fishman, ed., New Urbanism: Peter Calthorpe vs. Lars Lerup (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2005); Roy Strickland, ed., Post Urbanism and Reurbanism: Peter Eisenman vs. Barbara Littenberg and Steven Peterson—Designs for Ground Zero (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2005). For the debate on landscape, see James Corner, ed., Recovering Landscape: Essays in Contemporary Landscape Architecture (New York: Princeton Architectural Press, 1999), and Mohsen Mostafavi and Ciro Najle, eds., Landscape Urbanism: A Manual for the Machinic Landscape (London: AA Publications, 2003). 7 Manuel de Solà-Morales, Ciudades, esquinas = Cities, Corners, exh. cat., Forum Barcelona 2004 (Barcelona: Lunwerg, 2004). 8 John Chase, Margaret Crawford, and John Kaliski, eds., Everyday Urbanism (New York: Monacelli Press, 1999). 9 Mirko Zardini, “De la ciudad que sube al paisaje que avanza,” in Metròpolis, Ciudades, Redes, Paisajes, eds. Gustavo Gili, Ignasi de Solà-Morales, and Xavier Costa (Barcelona: Gustavo Gili, 2005), 208–212. 10 Iñaki Ábalos and Juan Herreros, “Journey through the Picturesque, a Notebook,” in Mostafavi and Najle, Landscape Urbanism, 56. 11 See Joachim Krausse and Claude Lichtenstein, eds., Your Private Sky – R. Buckminster Fuller. Design als Kunst einer Wissenschaft (Baden: Lars Müller, 1999), and Your Private Sky: Discourse, R. Buckminster Fuller (Baden: Lars Müller and Museum of Design, Zürich, 2001); on Superstudio, see Emilio Ambasz, ed., Italy, The New Domestic Landscape: Achievements and Problems of Italian Design, exh. cat. (New York: Museum of Modern Art & Florence: Centro Di, 1972). 12 Cedric Price, A Lung for Midtown Manhattan, CCA Competition for the Design of Cities, exhibition publication (Montreal: Canadian Centre for Architecture, 2000). 13 Gordon Cullen, Townscape (London: Architectural Press, 1961). 14 Michael Sorkin, ed., Variations on a Theme Park: The New American City and the End of Public Space (New York: Hill and Wang, 1992). 15 Steven Flusty, “Building Paranoia,” in Nan Ellin, ed., Architecture of Fear (New York: Princeton Architectural Press, 1997), 47–59. 16 Zygmunt Bauman, “Living with Foreigners,” address to the conference Trust and Fear in the City, Unidea, Unicredit Foundation, Società Umanitaria, Milan, March 30, 2004, proceedings published as Fiducia e paura nella città (Milan: Bruno Mondadori, 2005), 33; translation from the Italian by the author. 17 Baumann, “Living with Foreigners,” 35. 18 Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities (New York: Modern Library, 1962). 19 William H. Whyte, City: Rediscovering the Center (New York: Doubleday, 1988). 20 F lorentine humanist Leonardo Bruni, chancellor of the republic from 1427, wrote his Laudatio florentinae urbis in conscious imitation of a 2nd century ad panegyric on Athens. The first Renaissance writer to utilize an ancient literary model for a contemporary text, Bruni nonetheless departs in crucial ways from the Greek model, describing the architecture and character of the city in wholly new terms; published in English trans. by Benjamin G. Kohl, in Hans Baron, From Petrarch to Leonardo Bruni: Studies in Humanistic and Political Literature (Chicago: Published by the Newberry Library for the University of Chicago Press, 1968), 232–263. 21 For an analysis of the relationship between the city and the human body, see Richard Sennett, Flesh and Stone: The Body and the City in Western Civilization (New York: W. W. Norton, 1994). 22 Rodolphe el-Khoury, “Polish and Deodorize: Paving the City in Late-Eighteenth-Century France,” in Assemblage (December 1996): 6–15. 23 It is worth recalling the Futurists’ appreciation for the new noises of the modern city. See Luigi Russolo, L’arte dei rumori: manifesto futurista (Milan: Direzione del movimento futurista, March 11, 1913; Milan: Edizioni Futuriste di Poesia, 1916); published in English as The Art of Noises, trans. and intro. Barclay Brown (New York: Pendragon Press, 1986). 24 Ivan Illich, H20 and the Waters of Forgetfulness (London: Marion Boyars, 1986), 49–50. 25 André Siegfried, “La Geographie des odeurs,” lecture delivered in Paris in 1947, published in Geographie des odeurs, eds. Robert Dulau and Jean-Robert Pitte (Paris and Montréal: Éditions L’Harmattan, 1998), 19–23. For a history of the perception of smells, see Alain Corbin, Le miasme et la jonquille. L’odorat et l’imaginaire social (Paris: Aubier, 1982). For a general approach to the theme, see also his article, “Histoire et anthropologie sensorielle,” first published in Anthropologie et Sociétés 14/2 (1990), and later in Les Temps, le désir et l’horreur: Essais sur le dix-neuvième siècle (Paris: Flammarion, 2000), 228–241, and Time, Desire, and Horror: Towards a History of the Senses, trans. Jean Birrell (Cambridge, MA: Polity Press, 1995).
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basic introduction to the work of R. Murray Schafer can be found in The Soundscape: Our Sonic A Environment and the Tuning of the World (Rochester, VT: Destiny Books, 1977). Also of interest is the research into the sonic landscapes conducted by the Laboratoire Cresson at University of Grenoble. Among the publications coming out of this work is Jean-François Augoyard, and Henry Torgue, A l’écoute de l’environnement. Répertoire des effets sonores (Marseilles: Éditions Parenthèses, 1995). 27 On the subject of sounds, it is very interesting to look at the data provided by R. Murray Schafer on noises perceived as annoying in different cities at the beginning of the 1970s, which is cited in The Soundscape, mentioned above, and also in this volume, 174–75. 28 Reyner Banham, The Architecture of the Well-Tempered Environment (Chicago and London: University of Chicago Press, 1969), 40. 29 Kent C. Bloomer and Charles Moore, Body, Memory, and Architecture (New Haven and London: Yale University Press, 1977). 30 David Howes, “Introduction,” in Empire of the Senses: The Sensual Culture Reader, ed. David Howes (Oxford and New York: Berg, 2005), 3–4. This is an interesting foray into the sensual revolution that has taken place in the human and social sciences. 31 Peter Eisenman interviewed by Chiara Visentin in Genoa, 2004; now at www.floornature.com. 32 Alison and Peter Smithson, Italian Thoughts (privately published in Sweden, 1993), 62. See also Juhani Pallasmaa, The Eyes of the Skin: Architecture and the Senses (London: Academy Editions, 1995), and Steen Eiler Rasmussen, Experiencing Architecture (Cambridge, MA: The MIT Press, 1964). A new attempt to tackle the theme in comprehensive fashion can be found in Joy Monice Malnar and Frank Vodvarka, Sensory Design (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2004). Noteworthy is the fact that a Sensory Trust has been established (www.sensorytrust.org.uk). 33 See Richard Saul Wurman, Information Architects (New York: Graphis Press, 1996). 34 Keith V. Nesbitt, “Modelling the Multi-Sensory Design Space,” in Peter Eades and Tim Pattison, eds., Australian Symposium on Information Visualization, Conferences in Research and Practice in Information Technology 9 (Sydney: Australian Computer Society, 2001). 35 California International Conference on Computer Graphics and Interactive Techniques Archive (San Diego: SIGGRAPH, 2003). 36 B. Joseph Pine, II, and James H. Gilmore, The Experience Economy: Work is Theatre & Every Business a Stage (Boston: Harvard Business School Press, 1999). 37 On the subject of the privatization of sensory experiences and the experience economy, see David Howes, “Hyperesthesia, or, the Sensual Logic of Late Capitalism,” in Empire of the Senses, 281–303. 38 See the entry for “carattere” in Luciano Semerani, ed., Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno (Venice: Fondazione Angelo Masieri & Faenza: Edizione CELI, 1993), and for “character” in Adrian Forty, A Vocabulary of Modern Architecture (London: Thames and Hudson, 2000). 39 Kevin Lynch, The Image of the City (Cambridge, MA: MIT Press, 1960). 40 Christian Norberg-Schulz, Genius Loci: Towards a Phenomenology of Architecture (New York: Rizzoli, 1984), first published in Italian, as Genius loci: Paesaggio, ambiente, architettura, trans. Anna Maria Norberg-Schulz (Milan: Electa, 1979). 41 On the use of the term atmosphere in architecture and city planning, see Konstruktion von Atmosphären, Daidalos 68 (1998). 42 Gernot Böhme, “Atmosphere as an Aesthetic Concept,” Daidalos 68 (1998): 114. See also his Atmosphäre: Essays zur neuen Ästhetik (Frankfurt-am-Main: Suhrkamp, 1995), and Anmutungen, über das Atmosphärische (Ostfildern: Edition Tertium, 1998). 43 Reinhard Knodt, “Atmosphären,” in Ästhetische Korrespondenzen: Denken im technischen Raum (Stuttgart: Philipp Reclam jun., 1994). 44 Iñaki Ábalos, “Metamorfosi pittoresca,” in Metamorph, Focus, catalogue of the 9th International Exhibition of Architecture (Venice: Venice Biennale, 2004), 147. English edition, “Picturesque Metamorphosis,” in Metamorph, Focus, Vectors, Trajectories, eds. Kurt W. Forster and N. Baltzer (Venice: Marsilio, 2004). 45 Kengo Kuma, “Gardening vs. Architecture,” in Lotus International 97 ( June 1998): 46–49. 46 Kuma, “Gardening vs. Architecture,” 49. 47 Kuma, “Gardening vs. Architecture,” 49. 48 It is worthwhile to reread some of James Hillman’s writings on the city. See in particular City and Soul (Dallas: Center for Civic Leadership, University of Dallas, 1978). 49 Joseph Rykwert, The Seduction of Place: The History and Future of the City, 2nd ed. (New York: Vintage Books, 2002), 159. 50 William J. Mitchell, “The Revenge of Place,” in Kester Rattenbury, ed., This is Not Architecture: Media Constructions (London and New York: Routledge, 2002), 45–53. In this connection, see also François Ascher, Métapolis ou l’avenir des villes (Paris: Éditions Odile Jacob, 1995), 263. 26
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You become more easily aware of how your senses function in a landscape than in urban space, which is arguably where we spend most of our time. My perception of landscape is more physical because it takes time to walk through a landscape. That’s because I can feel and measure my body in relation to my sorroundings in a way that's impossible in urban space, which generally have more going on in them – cities are full of narratives and signs, and the built environment oncentrates on controlling people’s interactions more. Moving around a city or through a landscape always carries with it a certain level of staging or managment. In cities especially, our sorroundings are planned in order to manage our experiences. There is a long tradition of designing spaces to direct movement. Safety measures eliminate surprises and create predictable sorroundings. The city’s social potential, on the other hand, lies in the less predictable, multipurpose spaces, which let you enjoy the hospitality of presence.
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Spaces Create Bodies, Bodies Create Space by Ólafur Elíasson, foto di Elena Rucli
Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d'un lampione e i piedi penzolanti d'un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l'altezza di quella ringhiera e il salto dell'adultero che la scavalca all'alba; l'inclinazione d'una grondaia e l'incedervi d'un gatto che si infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all'improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell'usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo. Di quest'onda che rifluisce dai ricordi la città s'imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.
Le città invisibili di Italo Calvino, foto di Elena Rucli
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Scrivere la Città
Camminata cittadina con consigli di lettura di Maria Moschioni
Laggiù, oltre il ponte sull’autostrada, c’è la finestra da cui ho guardato la mia città per la prima volta. Nella grande via lì sotto, ho conosciuto il suo caratteristico odore (di fritto, di pioggia, di vento). Appena più avanti, c’è una fermata dell’autobus dove abbiamo aspettato molto a lungo, non ricordo più perché; e lungo il fiume ho scoperto dei meravigliosi tramonti. In quel caffè ho pianto, in quel pub ho festeggiato. Questa, invece, è la mia via, dove ogni tanto, tornando a casa la sera, scorgo per terra qualcosa che mi è scivolato dalla tasca la mattina. Questa è la mappa della mia città: tracciata dai miei ricordi e misurata con i miei passi. È con questa mappa di abitudini, decisioni inconsce, riferimenti interiori ed esperienze fisiche che mi oriento nella città e la posso definire mia. Non c’è altro modo di conoscere la città se non questo, personale, corporeo, e allo stesso tempo narrativo. C’è un bellissimo passaggio, nella collezione di scritti di Georges Perec Specie di Spazi, in cui l’autore francese illustra con la precisione che gli è caratteristica un progetto a cui sta lavorando, nel quale scrittura, città, e memoria si confondono e definiscono vicendevolmente: nel 1969, sceglie dodici luoghi di Parigi in cui ha vissuto oppure a cui è particolarmente legato, e si impone di realizzarne due descrizioni ogni mese per dodici anni. Una di queste due descrizioni mensili deve scriverla mentre si trova fisicamente sul luogo, “quaderno e penna in mano”, l’altra deve invece completarla altrove, sforzandosi di trascrivere ogni suo ricordo. Stabilisce inoltre che deve descrivere ogni luogo in un mese sempre diverso, non descrivere mai due volte una coppia di luoghi nello stesso mese, e chiudere le descrizioni in buste sigillate, accompagnate a volte da fotografie, biglietti dell’autobus o del cinema. Di mese in mese, di anno in anno, Perec compila quest’archivio. La meraviglia affiora al termine di questo esercizio ordinato, quando, dalle 288 descrizioni così raccolte, Perec spera di ottenere “la testimonianza di una triplice esperienza di invecchiamento: dei luoghi stessi, dei miei ricordi, e della mia scrittura”. La sua penna trattiene i ricordi, la città rivive in essi, e la scrittura le dà una forma. Questa connessione tra la dimensione urbana e quella, intima, della memoria e della parola è centrale anche per Michel De Certeau, anche lui impegnato a passeggiare per la città nell’Invenzione del Quotidiano. “I ricordi ci legano a quel luogo… È qualcosa di personale, non è interessante per nessun altro, ma in fin dei conti è proprio questo che dà a un vicinato il suo carattere”, scrive riportando le parole di un’abitante del quartiere Croix-Rousse di Lione. Il carattere di uno spazio deriva dal suo contatto con la nostra presenza così effimera, e dalle narrazioni che vi associamo. Molti romanzi esplorano quest’idea, ma se ne volete leggerne uno inaspettato e straordinariamente intenso, cercate Tales from the Mall di Ewan Morrison. Pubblicato da Cargo nel 2014, non è ancora uscito in Italia, per ora: intanto è stato presentato all’edizione 2015 del Pisa Book Festival, interamente dedicata alla letteratura scozzese (e ne potete trovare un assaggio in un trailer realizzato dall’autore sul suo sito: www.ewanmorrison.com). Lo sfondo e il punto di partenza di questa raccolta di racconti è uno scenario disorientante, familiare, e universale: il centro commerciale. Come mai ci sono così pochi libri sui centri commerciali?, si chiede Ewan Morrison. Forse è una realtà che non vogliamo guardare e che nostalgicamente rifiutiamo di documentare. Eppure, scrive Morrison, la cultura consumistica incarnata dal centro commerciale è parte del nostro presente, che noi lo vogliamo o meno. Così il progetto di Tales from the Mall è proprio quello di documentare un fenomeno storico, alternando brevi
Scrivere la Città | Camminata cittadina con consigli di lettura di Maria Moschioni
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inserti di storia e architettura a una vera e propria collezione di folklore urbano: racconti e aneddoti locali legati al centro commerciale. In questo modo, i parcheggi, i negozi, le scale mobili si fanno visibili in quanto scenari di incidenti, incontri, incroci e racconti. Il linguaggio che li riporta è mutevole: si adatta al racconto, di tanto in tanto avvicinandosi al parlato e al dialettale, e quindi a un’identità locale e geografica distante dall’essenza stessa del centro commerciale, la cui pianta si ripete identica a Glasgow come a Pechino. Le superfici lucenti e antisettiche del centro commerciale si popolano di storie intime, ironiche e commoventi: il racconto e la scrittura trasformano un non-luogo in un luogo vivo. Questo voler conservare il ricordo, questo gesto di commemorazione, mi fa pensare ai fiori sul ciglio delle autostrade, alle targhe affisse alle facciate di una casa, ai santuari, ai templi, alle mete di pellegrinaggio, alle reliquie, ai monumenti, alla particolarità del silenzio nell’attraversare un punto dove è successo qualcosa di irreparabile. Scrive De Certeau, sempre nell’Invenzione del Quotidiano: La dispersione delle storie significa anche la dispersione del ricordo. E difatti il ricordo è una sorta di anti-museo: non è localizzabile. Se ne ritrovano dei frammenti nelle leggende. Anche gli oggetti e le parole hanno degli spazi vuoti al loro interno, dentro cui il passato dorme […] Non esiste luogo che non sia infestato da molti diversi fantasmi, nascosti lì in silenzio, fantasmi che si possono “invocare” o meno. Questa visione di molti spiriti, silenziosamente a spasso intorno a noi, è un’immagine infestante di per sé: difficile non immaginarsela, una folla invisibile che popola i marciapiedi e che di tanto in tanto prende vita in un racconto (“Qui, un tempo c’era un panificio. Là è dove viveva la signora Depuis.”, continua De Certeau, e in quell’attimo riprende vita il panificio, riprende corpo la signora Depuis). La stessa immagine infestante trova espressione nella scrittura di un’altra autrice scozzese contemporanea, Ali Smith, nel romanzo Hotel World (pubblicato in Italia da Minimum Fax nel 2004). Tutto il libro si costruisce proprio attorno ad un evento irreparabile: la fatale caduta di Sara Wilby, diciottenne, nel pozzo dell’ascensore di servizio dell’hotel in cui lavorava. Le voci diversissime di cinque donne, tutte in qualche modo legate a quest’evento e all’hotel, si susseguono nel romanzo. Secondo alcuni, ognuna di queste voci rappresenterebbe una delle fasi dell’elaborazione del lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione, infine accettazione. Di sicuro c’è che il romanzo cresce in forza di attrazione ad ogni pagina. Quello che ho adorato di Hotel World è l’intensità di cui si caricano certi minutissimi dettagli fisici: i vuoti lasciati sulla pagina, la descrizione dei segni lasciati su un tappeto da un letto che non c’è più, delle macchie sul muro, una manciata di polvere raccolta in un fazzoletto, il sapore del pane tostato. Questi particolari descritti nello spazio del romanzo raccontano l’assenza, le danno un aspetto fisico, e rivelano come essa si manifesti quale presenza tangibile e concreta. Infine, come se l'obiettivo si allontanasse, la visuale della narrazione si amplia. L’hotel diventa un po’ un’immagine del mondo, con le sue tante stanze occupate transitoriamente. In una specie di veduta aerea della Gran Bretagna, sorvoliamo città nordiche e umide, punteggiate di persone impegnate in azioni quotidiane e triviali, spalla a spalla con i fantasmi di cui parla De Certeau: migliaia di donne anziane che tastano con le dita la trama dei maglioni da Marks&Spencer, i loro mariti in attesa all’uscita del negozio, la principessa Diana che fluttua con gli occhi tristi al di sopra dei souvenir con la sua immagine stampata. I margini del passato si spezzano e sconfinano nel presente, componendo questo memento finale: “ricordati che devi vivere”.
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La città, quindi, pullula di fantasmi e delle loro storie. Ma ritorniamo con l’obiettivo al nostro giornaliero camminare per la città: alla fine, di tutte queste storie, i protagonisti, personaggi, e autori siamo noi. Quante volte ci siamo trovati a osservare degli sconosciuti e a immaginarne vita e pensieri? Quante volte, soprattutto se costretti a incasellarci dentro spazi predisposti nei mezzi pubblici, la vicinanza di altri corpi ci ha riempito di disagio, di curiosità oppure di un senso di comunanza? Città significa contatto continuo e costante con altri, tantissimi altri, che guardiamo o evitiamo di guardare, di cui facciamo parte o da cui ci distanziamo, contro cui ci scontriamo per coincidenza. La mia città è tappezzata di una frase che dice: “People Make Glasgow”. Ovvero, la città è i suoi abitanti, sono loro a farla (calorosa nonostante la pioggia, accogliente, spietatamente ironica) e a unificarla in una narrazione. Il principio di fondo è più o meno quello del celebre Humans of New York, il progetto fotografico che tramite Facebook si è diffuso in tantissime altre città. I ritratti fotografici che lo compongono, collezionati per strada, sia ci invitano a conoscere le storie personali degli sconosciuti in primo piano (e a sorprenderci o immedesimarci), sia vogliono costruire un ritratto frammentario della città in sé. L’idea che dietro all’immagine esteriore degli sconosciuti intorno a noi ci sia una storia, e che da queste tante fotografie si possa creare un ritratto umano più ampio, è al centro di 253 di Geoff Ryman, scrittore canadese emigrato a Londra. Il romanzo nasce nel 1996 come hypertext (www.ryman-novel.com): un’opera pensata per il web, dove è il lettore a decidere, con i suoi clic, quale percorso intraprendere attraverso il testo. Nel 1998, 253 è stato pubblicato da Harper Collins in forma di “remix cartaceo”, ovvero di libro tradizionale, in un’operazione che trasforma piuttosto radicalmente l’esperienza disorientante della lettura virtuale. 253 è essenzialmente una collezione di ritratti: quelli di ogni singolo passeggero in viaggio l’11 gennaio 1995 nella metropolitana di Londra tra le stazioni di Embankment ed Elephant & Castle. Un po’ come nelle descrizioni di Perec, c’è uno schema matematico e preciso alla base dell’idea di Ryman: “Ci sono sette carrozze su un treno della Bakerloo Line, ciascuna con 36 posti a sedere. Un treno in cui ogni posto è occupato trasporta 252 persone. Con il conducente, fa 253 persone.” Da qui il titolo, 253. Non solo: ad ogni passeggero sono assegnate esattamente 253 parole di descrizione, suddivise in “Aspetto esteriore”, “Informazioni attendibili”, e “Cosa sta facendo o pensando”. Così siamo invitati a osservare (o a osservarci?), ma soprattutto a notare la nostra naturale tendenza a cercare una storia dentro questo schema rigido, a sottolineare differenze e similitudini tra i personaggi, relazioni e punti di contatto, ad aspettarci un finale a sorpresa. Come dice l’autore stesso, “in questo romanzo non succede quasi niente”, se non alla fine (ma lo sappiamo già dall’inizio: il conducente della metropolitana è molto, molto assonnato). Eppure cerchiamo la storia; e ne troviamo tantissime – o forse una sola, comune a tutti? – che ha dell’ironico, dell’esilarante, del patetico e del commovente. Bruscamente, all’annuncio della mia fermata, devo chiudere il libro e smettere di leggere. Lo spazio, ancora una volta, si mescola con la parola, e mi fa lasciare un paragrafo a metà. Nel ricordo, il brano del libro che stavo leggendo, seduta sul mio sedile nella metro, rimarrà ancorato proprio a quel sedile, al movimento del treno sul mio corpo e sul libro, alla sua luce, e al suo odore. Lo spazio diventa ricordo – parte del racconto. Come lo diventa un centro commerciale in cui finisce una storia d’amore; come lo diventa il vuoto che è rimasto, dove c’era una volta chi ora se n’è andato; come lo diventa una carrozza del treno pochi minuti prima dell’impatto. Così, attraverso la parola scritta e letta, lo schema diventa una storia, la mappa diventa un itinerario, il luogo diventa un racconto, il piano regolatore diventa esperienza. La città è un romanzo, e noi ne siamo protagonisti, lettori, e autori.
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Centro storico di Ghadāmes, Libia
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Lettera dal fronte | L’insegnamento delle favelas di Martina Mataija, Ana Orlić e Ariana Sušanj
Lettera dal fronte
L’insegnamento delle favelas di Martina Mataija, Ana Orlić e Ariana Sušanj traduzione di Ilaria Ciccone e Vida Rucli
O privato - o pubblico è un approccio alla progettazione che non prevede alcuno spazio intermedio, ovvero quella particolare area che non è né privata né pubblica nella quale, sebbene ci si trovi in pubblico, circondati da persone, si può stare anche soli con se stessi, sentendosi a proprio agio. La pratica architettonica che segue la netta divisione tra spazio privato e spazio pubblico preclude la possibilità di uno spazio tra e quindi anche la creazione di una comunità vera, basata su rapporti veri. L’assenza di questo tipo di relazioni tra le persone è un fenomeno che caratterizza sia gli insediamenti di case unifamiliari sia le aree condominiali costruite negli anni ’60 del secolo scorso. In quel periodo c’era la necessità di costruire velocemente agglomerati di appartamenti disposti seguendo uno schema razionale; le aree condominiali erano progettate con lo scopo di promuovere i concetti di collettività, socialità e famiglia, ma alla fine si sono rivelate inadeguate poiché sprovviste di spazi che favorissero questo tipo di rapporto tra gli abitanti di stessi condomìni. Con i grandi cambiamenti politici e sociali degli anni ’90 in Yugoslavia, e ancor prima altrove, il primato del collettivo e del sociale è decaduto: al suo posto si è fatto largo l’ individuale. Le unità residenziali odierne sono organizzate in modo tale da non stimolare la condivisione degli spazi e dunque uno stile di vita collettivo. Quelli che sembrerebbero complessi residenziali progettati per la collettività sono in realtà luoghi dove nascono condizioni ideali per lo sviluppo di sensazioni come l’alienazione e l’isolamento. In effetti, nell’architettura residenziale contemporanea, sono particolarmente problematici gli spazi
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comuni, che sono progettati solamente come passaggi e aree d’ingresso attraverso le quali accedere il più rapidamente possibile alle quattro mura dell’appartamento. Un problema al quale l’architettura può rispondere. Un progetto – mai realizzato – che ha proposto un palliativo interessante a questa problematica, è quello di Jože Plečnik dal titolo Case sotto un tetto comunale (1944): si tratta di uno studio di condomìni popolari, la cui organizzazione viene gestita dagli inquilini stessi, a seconda delle proprie possibilità ed esigenze. Per collegare le singole unità Plečnik ha previsto un tetto comprensivo (e comunale), posato su pilastri seguenti un ritmo modulare, e una rete di impianti (acqua, luce, gas) fornita dal comune stesso. Oggi potremmo descrivere il progetto di Plečnik come un’architettura open source, che prevede l’utilizzo di nuovi procedimenti nella formazione di spazi all’interno di un’infrastruttura universale. In tal modo l’architettura si trasforma da un meccanismo top-down ad un sistema più trasparente bottom-up. Le Case sotto un tetto comunale sono un bell’esempio di architettura votata alla socialità, poiché assicurano ai propri ipotetici abitanti un’infrastruttura orientata a uno sviluppo libero e personale. Un’ulteriore ricerca di spazi che permettano la formazione di una comunità e stimolino l’interazione dei suoi abitanti porta all’analisi della tipologia delle favelas: questo insediamento urbano, nel quale vivono gli abitanti più poveri delle città, è caratterizzato da una uno sviluppo spontaneo e auto-organizzato, non dettato da alcun progetto su larga scala, e combina spesso materiali da costruzione a quelli di scarto.
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La densità all’interno di questi villaggi è da nove a dieci volte maggiore di quella delle altre zone della città di cui fanno parte. Sotto numerosi aspetti sappiamo che le favelas sono estremamente problematiche e certamente non possono fungere da modello ideale di insediamenti contemporanei. Rimane però il fatto che in questi villaggi la coscienza collettiva è particolarmente forte e anche grazie alla loro struttura stessa qui la vita comune e la coabitazione sono parte del quotidiano. La struttura delle favelas è funzionale allo svolgimento delle varie attività al suo interno: cresce e si sviluppa come un complesso organismo nel quale, nonostante l’apparente caos, esiste un certo ordine interno. Questo è un ordine spaziale che non si basa su proporzioni ideali, su un’elucubrata scelta dei materiali, sulla funzionalità o sulla ricerca estetica degli edifici. Piuttosto, l’ordine stesso è definito dalle interazioni tra gli abitanti della favelas. Ed è proprio da questo che possiamo imparare: possiamo imparare ad andare oltre i confini rigidamente tracciati dai condomìni di oggi e creare spazi tra spazi che non abbiano una funzione prestabilita, che non siano “programmati”, spazi che crescano e si sviluppino, che siano pensati come flessibili, mutevoli in relazione al numero di abitanti e alle attività svolte da essi. Questi spazi possono prendere forma di orti collettivi, spazi per i giochi dei bambini, accogliere divani e tavolini da caffè, spazi di lavoro o di lettura – tutto ciò che ci manca e che desideriamo, quando siamo chiusi tra le quattro mura dei nostri appartamenti razionalmente progettati. Questi sono gli spazi che ci aiutano a evitare la solitudine: l’appartamento non più come cellula isolata ma che cresce e si estende al di fuori dei suoi limitati confini.
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Adottando la logica alla base della crescita e della struttura di questi insediamenti, adottando la cultura della costruzione partecipata, è possibile sviluppare tipologie insediative più adatte alla coabitazione e stabilire una comunità. Seguendo la lezione delle favelas ci si può aprire a un modo di vivere collettivo e basato sui rapporti umani. La nostra proposta per la Biennale di Venezia è un modello di struttura abitativa organizzato come combinazione di elementi tipici dell’architettura residenziale, collegati tra loro in una rete di spazi e strade dove le persone possano incontrarsi e connettersi, così da creare le condizioni necessarie a un tipo nuovo di coabitazione. Con piante dell’edificio che crescono organicamente e con spazi abitativi adattabili, vogliamo evidenziare il significato della partecipazione trasformativa nell’architettura, in cui l’architetto e l’abitante siano alla pari. L’organismo abitativo che ne risulta si espande liberamente attraverso lo spazio, e nel farlo mette noi architetti di fronte a una domanda essenziale: come può l’architettura unire le persone in una comunità, come può creare le condizioni adatte a una vita di qualità?
Il testo che qui pubblichiamo è un risultato del corso di Analisi dell’architettura contemporanea tenuto dalla professoressa Petra Čeferin alla Facoltà di Architettura di Ljubljana. Si pone come riflessione sul tema proposto da Alejandro Aravena per la 15^ Biennale di Architettura Reporting from the Front. Qual è il ruolo dell’architetto che sta sul fronte? E cosa significa occuparsi del fronte? La risposta che viene data in questo testo è una proposta per il Padiglione Sloveno della Biennale.
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Connecting the dot by Pietro Bulfoni A huge advertisement passes before my eyes from left to right. It shows a handsome man with a smiling face, shiny teeth and a dozen old squeaky wheels, which make it even more noticeable: it’s a tram. Advertisement decals cover many means of public transportation in Sarajevo. They come in flashy colors and entertaining graphics, but seeing them rushing by, especially on a cloudy morning just doesn’t feel right. Wondering what it looks like to be inside one of these moving commercials, I decide to hop on and share a ride with the locals. The view from the tram is compromised, visible only through a grid of circular dots. Suddenly buildings, cars and people along the journey assume abstract shapes, things are not easily recognizable. While enjoying this somewhat ludic experience, I start reflecting on the simple necessity one has to want to look outside the window and see things as they are, without any filter. Chit-chatting here and there, I understand that the government hasn't been devolving enough funds to public transportation, and that this is at once a problem of bureaucracy and of individual behavior (it’s not really a habit to buy a ticket on board). These are without any doubt some of the causes that force the tram company to cover its trains with smiley dentist advertisements, but such a solution is no Bosnian invention, these decals are found on trams in many other European cities as well. It’s especially when headed towards the outskirts of Sarajevo that I experience the weight and the obstruction of this layer. The visible scars of the past war on some residential buildings are, in fact, not noticeable any longer, blurred, if not completely vanished through the grid. Local newspaper Oslobodenje, and the national television bhrt are two historical vehicles of communication and information. Like a tram, they’ve been functioning as connectors between people belonging to different parts of the country, keeping individuals in touch. But what goes around comes around, and just as with the tram company, both news outlets seem to be neglected by national institutions. The information we absorb along one day runs through the minds of many and the interests of many more, no matter the medium.
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Believe it or Not by Pietro Bulfoni The bhrt media center was built in 1984 in occasion of the Olympic games, back when a good economy could guarantee vast working enviroments. These standards were the consequence of political choices which then ended up influencing relations between camera operators, anchormen, men and women. Since then the building remained untouched, but it still seems to influence the life of the employees. Can comunication between people be affected by old instruments and out of date surroundings? I decided to follow those who make the news of this century but still work in the past one.
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Times in Bravery by Hanane El Ouardani Sarajevo was besieged for 1395 days – only one day of the siege the newspaper Oslobođenje (1943) did not appear. The war in Yugoslavia was an early affect orders of the newspaper. Despite the unprecedented efforts of the employees, the newspaper fell during and after the war in misery. Once it was one of the most booming newspapers in Bosnia, nowadays nothing remains except leftovers of what has become now a nostalgic memory. Through archive material and former employee’s memories, the contradiction of its success is shown in this series. In a desolate building Oslobođenje continues production. Corruption and lack of financial support resulted in stagnation of this once thriving source of information. How long is bravery sustainable?
1995. The Oslobođenje building was targeted from the beginning of the war by Serbian troops led by Ratko Mladić.
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score for listening # 52 listening to each building in an urban environment, for a space for this structure and its sound imagined
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Scores for listening by Jez Riley French
Scores for listening by Jez Riley French
engravedglass.bandcamp.com/album/if-you-so-wish-scores-for-listening
There has always been a strong emotive, creative link for me between the visual and the audible. My approach to photography has connected with those “other” impulses and inspirations that perhaps are more commonly associated with forms of musical expression. The images themselves are concerned not with the precise capture of a physical space or object but rather they are my intuitive visual response to a location or experience, often taken in conjunction with my explorations with conventional and extended field recording methods. For some time I had been contemplating the concept of using certain images as photographic scores. During this time I have assembled several images into one piece, experimented with applying certain conventional musical notation to the images and various other processes. In a sense, I moved further away from the point, from the musicality of the images. Perhaps it was necessary?
If we look for longer we see more, if we listen for longer we hear more. We can spend time on both. The scores are, by definition, simple - open and playful. The image is a hint, a clue, a visual invitation to the act & art of listening. The text, where present, is a suggestion, a quiet thought that the reader can take, if they so wish, as a guidance towards closer listening perhaps. A realisation can be the simple act of listening in an environment or space for a period of time that seems, to each individual, to be intuitively hinted at by the score or by the ways the sound extends up to the edges of the image. A realisation can be recorded or documented in other ways (text, photograph, drawing etc).
Scores for listening by Jez Riley French
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score for listening # 59 perceive sound coveredby snow, near ice
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Scores for listening by Jez Riley French
The city from a window by Sara Wengström
“Rhythms perceived from the invisible window, pierced into the wall of the façade…But next to the other windows, it is also within a rhythm that escapes it…” The city from a window. The scene: a street junction where the tram stops. A corner shop and its ticking neon sign, always almost giving up. The familiar that changes from day to day. Hidden behind glass I watch the people I’ve never seen and will never see again. Henri Lefebvre, in Rhythmanalysis, writes of the window as a place of isolation, of necessary externalisation of self. Only at this threshold between inside and outside can the city be grasped as object – as artwork. In the distance between the street and the windowsill the illusion of objectivity is maintained. The window becomes a place where the rhythms of the city – the temporality of daily grind and the realities of bodies moving – turn into spectacle. A simulacra that offers itself as a painting below. At the window I can be where I am also not. Apart from the scene I feel myself a part of it. Making the city an object I reinforce my subjectivity. I take myself in and out of the picture, controlling it by being separate from it. For Lefebvre, this is a false sense of individuality, a fantasy of autonomy from the city’s rhythms and the social organisation that governs them. But also: the window as a place to listen. “The passage from subject to object requires neither a leap over an abyss, nor the crossing of a desert.” At the window the attentive one can single out the rhythms and the noises, and break apart the illusion of idealised totality: to realise the city as product rather than work. “The observer in the window”, Lefebvre writes, “knows that he takes his time as first reference, but that the first impression displaces itself and includes the most diverse rhythms.” I listen. I close my eyes to avoid the deceptiveness of the visual. I hear the ticking of the neon sign. The murmur of pebbles and the electric buzz of the tram. “The window replies.” To what? The nervous tension between my body and the scene below me: longing. Looking down at the street I can feel my back scraping concrete pavements, the soles of my feet trampling springtime dust. Rooftops tug at my nerves as the sun goes up.
The city from a window by Sara Wengström
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Desire, Lefebvre tells us, is also a rhythm. A rhythm both aesthetic and sensual. The aesthetic desire of the street as image is maintained precisely in the distance from that image. A rhythm only superficially concerned with me. But there is also the need to immerse and the memory of my own rhythm: my legs against each other as I walk through the park. The city: a work of art, always in the process of becoming, but there nonetheless, outside my window. And my window part of another view, another sunrise – the immeasurable network of rhythms and connections that tangle the streets. The city as desire.
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The city from a window by Sara WengstrĂśm
by Christophe Lee
Despite this, time still beats vertically. From the dug up earth, a whiff of air buried; bandages once imbibed in myrrh and incense being peeled off; the body in which long these spices have been kept. Breath, from the navel and through the spine, leaping over the apex of the head, is exhaled. Whose is the saliva? Whose the sweat and the particles of excrements? The rail tracks are littered with empty beer cans, papers unwrapped from comfit dates and ginger candies, empty bags and filthy napkins. The earth beneath is dry and bare from the regular passage of trains. The air is hot and wet. It rises up. The sticks of incense at the small altar with the picture of her late husband, in the corner of the living room, have not been lit for several days. Outside the window, a drop falls from an air-conditioning grille, eighty-seven floors down onto bitumen; the same thing happens on the skyscraper opposite; and the same on the building on the side, which houses a school. If the traffic was silent, the city would make the sound of rain. She sits at the table by the window. She is not thinking; why would she be thinking? Places only leave a lingering bitterness, like medicine, on a stratum of her skin. Where is she? There was an abandoned shelter once. It was open to the winds and the monsoon, the ivy that creeps and the one that hisses, and the rust that devours the iron bars. Images, pretty images, marks and more marks, printed on a vivid red background or made of sinuous neon wires. She is not in those pictures. Maybe if she had been to school... But not now, not now, now that she is one degree away from the sky. A piano? What piano? Who’d want such a useless piece of junk anyway? Let the sons watch TV! More importantly who shall inherit?
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“Città, reticoli di vite”. “Città, reticoli di vite”. Ripeto questo titolo per capire cosa voglio scrivere. Città: Udine non è Bolzano, Trento non è Verona, Berlino non è Gerusalemme. Ripeto questo titolo come un ebreo ortodosso tontolone tredicenne grasso residente a Mea’a Shearim ripete ripete la Torah prima del proprio Bar Mitse’wah. Ripetere la Torah tutta la vita può avere gravi effetti sulla salute. Capitò che il mio autobus, il 34 della Eghed, dovette fermarsi nel mezzo dell’incrocio perché un signore sulla sessantina lo stava attraversando parlando da solo e gesticolando con vigore, così che l’autista lo lasciò attraversare. Forse, egli ripeteva la Torah; e sudava pure, credo, siccome gli abiti da ultraortodosso sono tipicamente invernali e andrebbero bene a latitudini ormai non avvezze ai discendenti degli ebrei europei; la città è memoria. Così mi sento uno studente zelante fresco fresco di Yeshivah poco prima del proprio Bar Mitse’wah, l’esame di conoscenza della Legge. Ripeto questo titolo, anzi, lo copio - incollo: “Città, reticoli di vite”, “Città, reticoli di vite”, “Città, reticoli di vite”, “She’ma Yisrael”, “She’ma Yisrael”, “She’ma Yisrael”. Ripeto questo titolo come Dio ripeteva assieme a Mosé la Legge sul monte Sinai, “come un uomo parla col suo amico” come si legge in uno dei passaggi più intensi e contraddittori del Deuteronomio dell’Antico Testamento. Un Dio tontolone pure lui, un tontolone religioso come il mio amico immaginario ultraortodosso tredicenne grasso di Mea’a Shearim. Come jhwh, il Signore, “il Dio che presiede l’Assemblea degli altri Dei”, “El Elokhim”, ripeto la mia Torah molto concisa, un titolo fatto di poche parole, una traccia che piuttosto che imprimersi nella pietra riposta nella Santissima Arca del Patto rimarrà impressa in ciò che scriverò. Ogni città parla la sua lingua, ogni quartiere parla a sua volta un suo gergo, e ogni cittadino parla a sua volta una lingua molto simile a quella di un qualche dizionario. Un esempio: Molenbeek non è fatta solo di terroristi. Fra i musulmani belgi si annovera la tre-volte ministra della cultura francese. Si vive in una città quando i suoi segni sono anche i propri. “Hatahana haba’a: Tel Aviv Hashalom”, “Mevaseret Tsiyon”, “Hatahana habaona’a: Tahanat Merkazit Yerushalayim”, “Turim” (che ho sempre pensato volesse dire “Fermata di Torino”, con un senso di irresistibile orgoglio italico, e un po’ di nostalgia), “Davidka” (un nome che evocava, nella mia immaginazione, un Re Davide zoppicante e sovietico), “Iriyah – Al Baladiyah – City Hall”. Poi, “Sderot Bar Lev”, “Katsir”, “Hadassah”, “Har Hatsofim”, e il capolinea: “Hauniversita Haivrit”. La mia esperienza di studio in Israele fa parte di me. È stata un’esperienza forte (essendo scampato a cinque attentati, due dei quali a carattere omofobo per mano di alcuni ristoratori e negozianti musulmani) ed alcune delle “sue” città, Tel Aviv, Gerusalemme (perlomeno la sua parte “praticabile” da un occidentale dal look ebraico) sono diventate “mie”. Tel Aviv, contrariamente a Udine, è una città chiassosa e calda, calda d’un abbraccio amichevole. Ecco un’altra fermata dell’autobus gerosolimitana: “Kol Yisrael Khaverim”. Tradotta letteralmente non ha senso, “Gli israeliti sono tutti amici”. Andrebbe tradotta (ve lo dico solo perché ho studiato) “Tutti gli esseri umani vivono in amicizia”. C’è un’espressione
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biblica altresì complicata: “Haemon baeytim lebayim”, che tradotta dall’aramaico vuol dire “Là nei tronchi dove nidificano gli uccelli del cielo”. Lo scorso ottobre viaggiai, con spirito da turista, a Istanbul e Tel Aviv. Viaggiai ad Istanbul per coronare il mio sogno adolescenziale di visitare la Basilica della Santa Sapienza, Ayasofiya. Un mio caro amico turco, Mohammad, mi ha spiegato che quando Costantinopoli fu conquistata, il Sultano ordinò che nessuna cupola nelle nuove moschee di “Fetih”, Istanbul, avrebbe mai potuto superare in grandezza quella di Santa Sofia. Era una saggia forma di appropriazione e fonte di legittimazione del nuovo califfato ottomano. La prima volta che la visitai, rimasi deluso. Anni fa, complice l’omofobia, mi trincerai in un mondo virtuale, che assomigliava a Costantinopoli. Quindi, ad Ayasofiya non vidi i segni della mia memoria. Così la visitai una seconda volta. Incontrai una tutrice iraniana, dalla bellezza proverbiale (perdonatemi la punta di maschilismo), che mi chiese di farle una foto assieme alle sue allieve. Una volta fattele la foto, le chiesi di “fotografarmi assieme a Dio”. Era raffigurato in un mosaico bizantino alle mie spalle, uno dei pochi che i Crociati non raschiarono con le spade nell’assedio del 1204. Lei sgranò gli occhi, e guardandomi come per dire "Sei pazzo amico mio" mi fece la foto. Ci salutammo, e Ayasofiya, in un certo senso, divenne più reale di quella che io mi ero convinto che fosse. Dopo Istanbul volai a Tel Aviv per completare il mio viaggio. Nel frattempo, il mio nuovo iPhone targato Ebay arrivò ad Udine; a casa c’era mia mamma che mi mandò le prime foto del contenuto della scatola. Oh mio Dio. Non era la scatola originale di un iPhone; conteneva dei cavetti colorati col logo di Playboy, una garanzia scritta su una cartolina da registrare presso una beauty house britannica, scritta in spagnolo. Dopo avere fatto gli opportuni controlli al Centro Commerciale Dizinghoff, io e il responsabile dell’Apple Store verificammo che il mio iPhone risultava comprato il 14 maggio scorso a Salt Lake City. È la città della mia amica Debra. La conobbi per puro caso alla stazione di Verona; dovevo andare al bagno, e le lasciai le valigie. Così lei cominciò a spiegarmi che si trovava a Verona per ricercare i suoi lontani parenti tirolesi. Ed io che studiavo a Bolzano, feci di tutto per aiutarla a rintracciarli. Da Salt Lake City a Tel Aviv, o dal magazzino di Shenzen a Udine? Le città sono sì memoria, ma anche possibilità, una possibilità che nasce solo in seno all’incertezza, alla parentesi di vuoto costante che essa apre sul mondo e sul modo che abbiamo di vedere la realtà. All’indomani del “controllo” andai a Petack Tiqva per pranzare con una mia amica molto cara. Mi persi con l’autobus siccome fra Tel Aviv e Petack Tiqva esiste una sola megalopoli senza pause: a un condominio segue una grande fabbrica, alla quale segue un nuovo grattacielo, al quale segue un altro capannone, al quale segue un giardino pubblico, al quale segue un parco che ha come “quinte”, sullo sfondo, altri grattacieli e condomini e fabbriche e capannoni. Stesso discorso andando da Tel Aviv a Haifa: centocinquanta chilometri di edifici, centri commerciali, grattacieli, nomi quali Microsoft ed ibm ed Apple e mio Dio, ho i brividi: un “impero” di grandezza, ecco la biblica volontà di potenza. Un muro di vetro, acciaio, calcestruzzo e insegne luminose lungo come metà Israele: è la “Silicon Wadi”, un mix di inglese ed arabo palestinese che designa il centro della “Startup Nation” che è Israele (superortodossi permettendo). Una mattina presto andai con il mio amico “fratello” Tomer da Or Aquiva, la sua città dal nome buffo (che si può interpretare come “Luce del rabbino sefardita almoravide”) a Tel Aviv. Ad un certo punto, la bruma mattutina si squarciò sul cielo come se Dio stesso avesse voluto che io lo guardassi lassù nel cielo. Musica turca a palla. Vidi
Città, reticoli di vite e illustrazioni di Dennis Rakar
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i bianchi grattacieli della “città bianca” svettare dalle rive del Mediterraneo. Mi ricordò troppo Minas Tirith. Una capitale dalle case sporche che fa breccia nel cielo con la sua bianca Torre di Echtelion, Sovrintendente di Gondor. Le città come memoria, possibilità, e ora come dato di fatto: le città sono lì per esistere, per resistere, per prosperare. Credo che questi tre punti metterebbero d’accordo grandi pensatori ebrei come Dio, Spinoza, e Marx. Un’ultima cosa su cos’è una città: sulla strada che va da Haifa a Tel Aviv si passa per la città di Netanya. Ho sentito parlare di una ragazza che si chiama proprio Netanya. Per me che sono italiano, mi sembra un nome orecchiabile, femminile. Un mio amico che la conosce mi disse: “È stupido chiamare qualcuno con il nome di una città. Sarebbe come se io mi chiamassi Gerusalemme”. Sarebbe come se io mi chiamassi Udine. Forse le città e le persone sono le stesse cose, ed è per questo motivo che devono avere nomi diversi, perché possano conoscersi. Le persone, come le città, hanno memoria, sono aperte alle possibilità, esistono, resistono e prosperano; e hanno un nome del quale sono gelose custodi. – Il 24 dicembre scorso ero in piscina a Magnano. Mi capitò di rivedere il mio primo ragazzo. Ci scambiammo uno sguardo breve, intenso come il calore nel nucleo del Sole, e restammo in silenzio. Era da dieci anni che non ci incrociavamo, era da dieci anni che non lo guardavo negli occhi. Non è come vederlo in foto; non è stato per come me lo ricordo ora (ho pure rimosso). In quello sguardo brevissimo vidi qualcosa di estremamente bello, quasi quanto la Minas Tirith di cui mi innamorai anni addietro. Penso che la vedemmo entrambi: la Minas Tirith rivelata, quella che vedeva lui, e la Minas Tirith come me la ero sempre immaginata, quella che vedevo io. A febbraio dell’anno scorso andai a Dubai a trovare alcuni familiari. Dal suo centro svetta il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, come dalla Cittadella dei Re svetta la bianca Torre di Echtelion. Passeggiando nei pressi di Marina, il quartiere degli eccessi a nord-est di Downtown Dubai, potei osservare alcuni edifici da molto vicino; toccandoli, analizzandoli. Una fontana finta che ricalcava la forma di una fontana “europea”, non era altro che un pezzo di metallo spruzzato con schiuma poliuretanica. Ecco, una fontana. Dubai è una città affascinante, ma cresciuta così in fretta (ed immagino che esista già “costruita” nelle menti degli sceicchi) che è “finta”, una “finzione reale” che non lascia nulla all’immaginazione, e non lascia nulla nemmeno a nessuno. Tutti vanno a Dubai con il sogno di diventare re, per poi scoprirsi schiavi di un futuro traballante quanto ammaliante, schiavi di una carriera tanto reale quanto fatta in fretta. Dubai non esiste, mentre Minas Tirith esiste a Magnano in Riviera come a Tel Aviv, dentro di me come dentro Lorenzo, del quale, tempo fa, ero innamorato.
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