n°4
2018
n°4
2018 domestico :: domače :: domestic “It could be said that when attempting to domesticate a place, domesticity ends where nature begins. In everyday life, this boundary line is expressed primarily by ourselves, animals of a domestic nature, and by our everyday actions, intimate gestures directed at establishing our relationship with the wilderness.”
r o b i d a significa rovi. i rovi sono le prime piante che crescono su un terreno abbandonato. r o b i d a è femmina, perchè ci piace pensarla come un’amica o, a volte, come una figlia. r o b i d a è pianta, viva, che cresce, non le serve tanta acqua nè troppe cure: è libera. i rovi sono tradizionalmente considerati piante infestanti, inestirpabili e fastidiose. r o b i d a si ispira proprio a questo: inverte lo sguardo generalmente denigratorio sui rovi, e cerca di somigliare alla tenacia estrema, alla spontaneità e alla bontà delle more che crescono sorprendentemente dolci tra le spine di questa pianta, ricordandoci con la sua ostinatezza che anche un luogo abbandonato continua a vivere e cambiare, lentamente, silenziosamente. ‘si orienta la selva, ed è giardino’, scrive andrea zanzotto: r o b i d a vuole essere questo, unendo e orientando una certa spontaneità con ricerca e curiosità. per natura, r o b i d a se ne sta in disparte dal baccano; crea entusiasmo, sì, ma di quello leggibile negli occhi delle persone, che la guardano con un certo affetto. In questo modo continuiamo a lavorare, spinti dal desiderio di circondarci di persone che ci ispirano, approfondire ciò che ci interessa e condividere ciò che ci piace. r o b i d a nasce nel caldissimo agosto duemilaquindici da un’idea di Maria Moschioni e Vida Rucli e cresce assieme a Dora Ciccone, Guglielmo Cherchi, Elena Rucli, Janja Šušnjar e Matteo Vianello.
r-o-b-i-d-a.tumblr.com
domestico :: domače :: domestic Domus, Dynamis
Una declinazione motoria del domestico
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di Alma Mileto
Latium Vetus
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Notes on a poem about Judith
.8
Iskanje domačnega v tujosti digitalnega
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Per un non-addomesticamento della lingua straniera nei processi di traduzione
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L’oggetto domestico come immagine-cristallo
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di Virgil Darelli di Sara Wengström di Aleš Čeh
di Vittoria Rubini
Sulla natura morta in Krzysztof Zanussi
di Giulia Antonia Zanon
Wilderness Stations
The domestic and the wild in Canadian literature
.16
di Maria Moschioni
Domačnost in divjina
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Le buone abitudini
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Le lieu est un autre
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di Gašper Medvešek
di Paola Nistri e Tommaso Petrosino di Riccardo Soave e Maddalena Venturini
- atlante di immagini e poesie Ci sarà tanto legno in casa
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Good girl
.33
奥 oku
.34
di Claudia Melyndra
di Lisa Lee Benjamin alone in an indoor space during the complete length of the shot
di Jorge Suárez-Quiñones Rivas
Odnosi
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Dietro casa è già autunno
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Le scale del caffè
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di Nika Vrabic di Francesco Balsamo
di Giampaolo De Pietro
_____ Becoming Femme-Maison
Home-Traveling With Louise Bourgeois Et Al.
.40
di Jade Penancier
Tokyo, io che espatrio, e i verdi totem
.43
Hortus conclusus
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Sono come te, albero
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Vijolični cevtovi
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Interno notte
.52
Timira. Romanzo meticcio
.53
di Lavinia Siardi di Janja Šušnjar
di Guglielmo Cherchi di Katarina Gomboc di Valentina Rodella
Intervista agli autori Wu Ming 2 ed Antar Mohamed
di Vittoria Rubini
n°4
2018
Una abitudine ricorrente nella storia, cara a tutte le civiltà, è stata quella di identificare nel mondo (ma specialmente nel regno naturale) due principali categorie di realtà: una addomesticata e l’altra selvatica. Scavando nelle due parole, dom-estico e selva-tico, emergono vivide le immagini di due luoghi (immaginari o reali?), due paesaggi messi in contrapposizione: la casa e la selva. La prima, ordinata e curvata al nitido e razionale disegno del pensiero umano, definita da abitudini, tradizioni, necessità; la seconda, non ancora controllata, libera e ignota. La distinzione tra le due venne definita in epoche e civiltà diverse dalle più disparate leggi morali e scientifiche: da sempre infatti capire cosa è domestico e cosa no è una possibile via per definire i confini del nostro universo, la natura umana, o per inverso, la natura altra, quella non domestica. Si potrebbe definire che nell’addomesticare un territorio, la domesticità finisce laddove comincia la natura. Nella vita di tutti i giorni, tale linea di confine viene espressa in prima linea da noi, animali della natura domestica, e dalle nostre ordinarie operazioni, intimi gesti tesi ad affermare il nostro rapporto con la natura selvaggia. È facile avere immagine di ciò: lo si può percepire quando ripuliamo una casa abbandonata dalle ragnatele e dagli insetti, quando rimettiamo in sesto un giardino ripopolato da piante non gradite, ma anche quando popoliamo di portafotografie e libri le mensole della nostra nuova stanza, ancora meglio quando riponiamo i nostri vestiti in un armadio straniero. Addomesticare è, per una civiltà ma soprattutto per noi stessi, decidere cosa è casa e cosa e selva, è disegnare questi luoghi attraverso le nostre azioni su uno spazio reale. Considerato sotto questo punto di vista, addomesticare entra in rapporto con la dimensione del tempo, avendo come fine anche l’abituare uno spazio allo scorrere dei giorni, inserirlo nella nostra quotidiana ordinarietà, erigere nella selva il nostro intimo teatro della vita privata, renderlo consueto, familiare, domestico. Ecco quindi questo piccolo spazio di carta, sul quale si insediano parole selvatiche e domestiche generando un continuo gioco di travestimenti, inversione di ruoli, nostalgie, distanze e vicinanze, continuamente sfumando quel limite tra due mondi che con questo numero r o b i d a era interessata ad esplorare. Tra le parole, si fanno spazio i disegni di Elena Rucli, che vanno ad addomesticare o a inselvatichire le parole che trovano tra queste pagine. Buona lettura.
robida quattro
Domus, Dynamis
Una declinazione motoria del domestico
6
di Alma Mileto
Rispondere a un gesto, a un interrogativo, a uno sguardo, rappresenta già sempre un addomesticarsi, un addomesticare noi stessi a vivere una specifica circostanza, un luogo, un dialogo. Mi viene da dire che si fa allora domestica—nel senso di “addomesticata”—ciascuna delle nostre risposte al tema di questo numero. Lo stimolo è dato, la porta è aperta: ognuno di noi varca la soglia e si accomoda nelle pieghe di questa nuova abitazione come più gli si confà.
Quando si pensa al “domestico” si pensa alla radice di questo termine: la domus, la radice di una parola che ha che fare con le radici di noi tutti. Si parla di radici, dunque. Braccia bagnate che affondano nei terreni umidi del mondo e tentano di arrivare alla sua origine. Tentacoli che abbracciano una memoria e vorrebbero non abbandonarla. Quello che è certo, e che rende allo stesso tempo la riflessione su questo concetto estremamente affascinante e indiscutibilmente ardua, è che questa strana creatura incarnante il domestico—aggettivo o sostantivo, poetico o letterale—ha la capacità di insinuarsi in ogni dove, di declinarsi in innumerevoli sfumature. Di incarnare, pur nella sua atavica circoscrizione di uno spazio scelto, individuato, il movimento universale e inarrestabile di ciascun soggetto. Si afferra con difficoltà allora, è un “falso amico”. Non è sufficiente bussare a un uscio e fare capolino in una stanza per scovarlo, c’è bisogno piuttosto di mettersi in cammino e accettare che tante identità respirano con noi e dentro di noi, altrettante “dimore” verranno su, con calce e mattoni o con l’intenso desiderio di un istante. Mi sono chiesta: come decido di inseguirlo questa volta? Perché senza dubbio non è la prima occasione in cui mi
sottopongo a un’analisi di quest’entità mutevole di cui tutti siamo in cerca, spaventati e bisognosi. L’abitare, l’essere a casa, il sentirsi a proprio agio, avvertire il calore di un focolare o solo di una carezza. Ci si potrebbe inerpicare per strade tortuose che ci condurrebbero lontano, mentre al contrario questa sede ci chiede di rimanere tutti vicini a soffiare sulla stessa fiamma affinché il falò di questa atipica sosta che stiamo costruendo rimanga vivo tra le pagine, resistendo fino all’ultima. La nostra storia attuale e passata sì, ci porterebbe a parlare di migrazione. La filosofia pioverebbe versi hölderliniani su sorgenti, fiumi che scorrono nelle valli della vita e sentimenti di familiarità vissuti visceralmente solo nella distanza. Ma questa pietra preziosa forse in definitiva introvabile di un proprio “sentirsi a casa” possiamo smussarla anche con una più pura ed essenziale manciata di immagini e di sensazioni, prima di dedicarci a chiudere il pugno su una singola prospettiva che ci dia un possibile canale da esplorare—si deve pur sceglierne uno, anche se è complicato. Immagini, dicevo. Così, come mi vengono, tegola per tegola, a edificare un tetto sotto cui posso provare a mettere in forma il mio pensiero.
Prima di andare a letto, in una piccola casa blu lontana da tutto e vicina a tutti, una ragazza bruna fa croccare nel forno il suo pigiama come fosse una pagnotta, prima di perdersi nel sonno incantato di un’ennesima notte. Una contadina abita su un’isola circondata dalle onde, ma la sua pelle aspetta anni, aspetta di innamorarsi, prima di bagnarsi nel mare. Prima di allora, solo un riquadro verde e un po’ montuoso. E il turchese in lontananza. Un gruppo di amici crea una bolla di sapone brillante fatta di baguettes e di tetti cobalto. Se anche scoppierà, il suo riflesso rimarrà nell’aria tersa e nelle scie degli areoplani. E in una macchia di vino rosso sul parquet. Le mani si appoggiano sulla tastiera bianca e nera e ritrovano le stesse ruvidità del giorno prima. Nodose le dita si adattano ai solchi, scoprendo ogni ora che passa un nuovo sussulto. Una bambina si appisola sul divano, cullata dall’intermittenza delle lucette dell’albero di Natale. Il profumo scoppiettante del sugo materno in lontananza, le chiavi nella toppa, note che si mescolano a giochi in altre dimensioni. Sott’acqua, nella trasparenza intima di un silenzio pieno e segreto, i corpi si avviluppano e le labbra scandiscono altre frequenze. Chiudo gli occhi, sono io.
Così, il domestico si rivela in sette diversi scorci—almeno sette, ma è bello affidarsi al numero magico per eccellenza: il gesto, il limite, il sogno, il quotidiano, il ricordo, l’altrove, l’identità. L’azione di ogni notte, la cornice per lungo tempo inesplorata del proprio orizzonte, il limpido potere di stravolgimento di una nuova realtà, il ritrovarsi e il ritrovare, l’andare indietro a recuperare l’inizio del gomitolo, il rifugiarsi, il riconoscersi. In tutti questi casi, intendiamo il domestico come un movimento. Non c’è nulla di statico, di stantio. Il domestico corre sui binari, squarcia l’esistenza, si ripete testardo, si getta nel flusso degli eventi, si sottrae. Non è un francobollo che si attacca una sola volta, non è un timbro definitivo su una carta da lettere: è una pellicola che aderisce e poi si sposta, una macchia di colore che si allarga, una voce che si lancia nello spazio. Non voglio dire solo che nella vita ci trasferiamo da un luogo all’altro, o che come le lumache portiamo con noi una chiocciola che via via cambia fondale e scorre su diversi suoli. C’è dell’altro. È il nostro stesso definire il domestico che muta nel tempo, è la capacità di addomesticare e addomesticarci che si trasforma. Il domestico ha come propria condizione di esistenza la dinamicità: è domestico ciò su cui si agisce, di cui ci si prende cura, a cui si dà una direzione, che si muove e che ci fa muovere. Il domestico si impasta, se ne mescolano continuamente gli ingredienti. Può apparire mentre ci stiracchiamo la mattina e, con la stessa potenza, può sorprenderci in mezzo alla strada di un quartiere sconosciuto, mentre il sole tramonta. La “casa” ci appare come un fenomeno repentino prima di essere arredata e riempita della nostra persona. La sua fenomenalità va costruita, a volte va soccorsa, va colta sul fatto. È una scintilla che si perde ma poi si ritrova, quando meno ce lo si aspetta. Compare e scompare: viaggia mentre siamo immobili, si assopisce mentre viaggiamo.
domestico
Su quest’onda, chiudo una sola volta il pugno, come accennavo poco sopra, su qualcosa che a mio avviso merita di esemplificare nella sua forma artistica ciò che vengo dal dire. Parlo di un documentario franco-belga, Visages, villages, presentato quest’anno fuori concorso a Cannes e candidato agli Oscar 2018. Un piccolo capolavoro, un raggio luminoso che mi ha colpita pochi giorni fa in un cinema parigino mentre fuori si scatenava la neve. Ero sola in sala, in una città che rappresenta in questo momento della mia vita esattamente quel terreno di prova entro cui la mia definizione di domestico è chiamata a svelarsi, lo “scacco” che scalza a più riprese il mio re su una scacchiera a cui si aggiungono senza sosta quadrati bianchi e neri, così che io-monarca possa continuare a muovermi senza arrivare a quello “matto”. Le menti inventrici e fervide che hanno ideato questo film sono Agnès Varda (88 anni, celebre fotografa, documentarista e attrice belga che ha collaborato con Resnais e Godard) e l’artista francese JR (33 anni, fotografo e viaggiatore del mondo, famoso per le sue installazioni fotografiche sulle superfici più impensabili e il suo Inside Out group actions project http://www.insideoutproject. net/en). I due avrebbero potuto incontrarsi mille volte prima del 2016 (quando hanno iniziato le riprese), ad esempio in una boulangerie parigina a gustare quei morbidi éclairs al cioccolato di cui Agnès va ghiotta. Ma il loro incontro avviene quando deve avvenire; quando per le loro età, entrambe a cifra doppia, è arrivato il tempo di specchiarsi l’una nell’altra. Lui, cappello nero e occhiali scuri per conservare un anonimato che in alcuni paesi (alla frontiera tra USA e Messico, ad esempio) è necessario per riuscire a portare a termine i propri progetti; folle acrobata cresciuto dentro al Mercato delle Pulci di Porte de Clignancourt e avido conoscitore dell’opera della sua compagna, quasi una seconda nonna. Lei, capelli bicolore invertiti rispetto al “normale” (sopra bianco, come
fosse una cascata di zucchero a velo, punte rosse); colpita dalla forza delle immagini di JR stampate su pareti e containers di tutto il mondo, vitale sognatrice che continua a prestare la sua vista malata ad un lucidissimo sguardo bambino sulla realtà. Cosa combinano questi due personaggi? Decidono di partire insieme—“ils sont partants, tous les deux”—con un camioncino-macchina fotografica che stampa in cinque secondi giganteschi ritratti in bianco e nero. Vanno in campagna, “alla ricerca di visi, di villaggi”, nei piccoli e sperduti paesi del sud della Francia e della Normandia. Ovunque si fermino, accolgono nel ventre del loro spassoso veicolo giovani, vecchi e bambini e riproducono i loro volti; poi, dopo averli stampati, riempiono superfici di visi, di sorrisi, di corpi. Una baguette addentata da ciascun abitante di un villaggio diventa un’unica baguette infinita che scorre sui muri dissestati dell’ingresso di un paese, case abbandonate dai minatori si ripopolano di emozioni, due gruppi di operai che non si incontrano mai nella realtà a causa del diverso orario di turno si tendono le braccia sulle pareti di una fabbrica di acido cloridrico, un enorme postino apre una finestra del paese invece che una busta da lettere, un uomo veglia solitario sulla sua fattoria, due nonni innamorati compaiono in un’elegante cornice di pietra, una capra affonda le sue corna nella fantasia dei passanti in un campo desolato, le mogli dei lavoratori di un cantiere navale si ergono come cariatidi-sentinelle, alte e bionde, sui containers di uno spazio tutto maschile, un modello che Agnès ritraeva in gioventù (morto da anni) viene addormentato nella ‘culla’ di un bunker tedesco crollato su una spiaggia tempestosa del nord.
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Alma Mileto
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robida quattro
Se dovessi sintetizzare in una sola espressione l’avventura creativa di Agnès e JR, direi che durante il suo variopinto viaggio questa coppia riesce nell’intento di muovere il domestico. Come dei maghi, l’acrobata e la sua eroina vanno in cerca di materia grezza da mutare in buon umore, di emozioni da riattualizzare, paesaggi umani da ricomporre—come quando raccontano di aver dato vita, attraverso le fotografie, a finte famiglie, quasi come se stessero giocando con i loro vecchi pupazzi nel giardino di casa. Nel fare questo, non soltanto risvegliano il desiderio artistico di chi incontrano—bambini che fanno il solletico agli enormi piedoni della ragazza del paese ritratta con il suo ombrellino merlettato, l’operaio che definisce l’arte “une surprise”, l’allevatore che comincia ad immaginare le corna della capra di diverse tonalità e diversi materiali, il vecchio folle del villaggio che negli anni ha costruito un paesino di fantasia tutto per sé, che ciondola all’eco del vento. La cosa più sorprendente è che riescano, grazie allo spirito di questa iniziativa, a rendere fluida la nozione stessa di “abitare”: tutto comincia da un incontro, il loro, e procede nella spontaneità di nuovi incontri, di nuove esplosioni di fiducia. A&J vivificano l’impeto appropriativo che le persone che di volta in volta conoscono provano nei confronti degli spazi che popolano, il loro camioncino—macchina di incantata riproducibilità e oggettivazione—abita la distanza esistente tra l’essere a casa propria e il sentirsi a casa propria. Esperienze e materiali si accumulano sopra le ruote dei viaggiatori infaticabili, a ogni intersezione con una realtà è concesso il respiro giusto per rielaborarla, approfondirla. E il tratto pertinente di questa rielaborazione è esattamente quella dimensione processuale del gesto e della ripetizione cui accennavamo quando parlavamo di un domestico che va costruito, edificato, manomesso. È proprio attraverso la rete di connessioni di più identità che si sfiorano, che quel domestico— solo in apparenza tirannicamente singolare ed egocentrico—si plasma. Esattamente come prevede l’Inside Out project di JR, piattaforma web che chiede ai suoi utenti di inviare non meno di 50 ritratti a cui si vuole dare voce: l’équipe li sceglie, li stampa, li rinvia al mittente, a volte li installa personalmente—come nel caso della mastodontica “action au Panthéon” in cui il monumento si è riempito di volti sovrapposti. Uno spazio chiede di essere abitato, un’identità sente l’urgenza di essere ridefinita, come nel caso della Lakota Tribe, riconfermata, oggettivata da uno sguardo esterno; mossa nel suo stesso luogo natìo, perché solo in questo moto metamorfico troverà il suo contorno. Visages, villages, ma anche: Domus, Dynamis—dove il termine greco ben narra al suo interno una forza vitale che sia energica e laboriosa, oltre che in movimento.
Alma Mileto
“Le but est le pouvoir de l’imagination”, dice Agnès: lo scopo è il potere dell’immaginazione. L’immaginifica manipolazione del reale succhia da questo stesso la sua essenza più autentica. L’impasto a mano farinoso, familiare già sempre e giammai, va girato con l’uovo, va steso, va fatto riposare, perché lieviti in quel famoso forno dove qualcuno fa croccare il suo pigiama.
Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico pp. 27 - 28 - 29, fotografie .8, .13, .20
domestico
Latium Vetus
Latium Vetus era il nome di questo luogo, ora senza nome. È il pantano dove ci si agita e da cui si fugge, e dove poi si ricade.
A volte, un turista ne sostituisce la banale rovina quotidiana con la rovina piacevole di un’immagine nostalgica. Un turista esce dalle poche linee battute per trovare nuovi punti di vista, specie dall’alto, dove si vedono il mare e la città. È così che riesce a conoscerne la geografia meglio degli autoctoni. Non è uno che conquista paesi stranieri, perché conosce la difficoltà di muoversi. Per questo limita sapientemente il suo raggio d’azione. E non crede alla promessa dell’ubiquità, ma si accontenta di mezzi funzionanti più o meno. Un abitante sa che stare qui è impossibile. L’unico compromesso, tra il qui e la fuga, resta il confine. Al confine di ogni paese, ognuno con un suo dialetto; al confine di ogni strada consolare, linee parallele che non si incontrano mai; ai limiti della copertura fibra e 3G, reticolari difettosi; lontano dai terminali delle linee bus e treno; eppure al Centro, così al centro da essere invisibile, invivibile. L’abitante si fa turista per necessità.
Il Turista è un erudito: conosce nomi, storie, personaggi. Ma non possiede la struttura della conoscenza, solo frammenti. Nel deserto che percorre, fatica a ritrovare una narrazione lineare. Schegge di passato, siano vecchi binari, casolari o tombe romane, si confondono ad altri oggetti che sono nati in rovina, strutture di cemento e rifiuti tossici. Le grandi tenute nobiliari furono spartite tra i lavoratori. Grandi templi dismessi. Utopie digitali su strati di incompletezza. Ci sono movimenti geologici di superficie che rendono zone meno visibili, meno dicibili, meno pensabili. Ed egli osserva, quasi senza personalità, ma cerca di ricostruire un’immagine che lo supporti. Il Turista, con l’hobby di vivere, fa un percorso tra i tanti, simile a quello del capotreno, del contadino, del ciclista della domenica, del camminatore sportivo, del ragazzino in piazza, del pellegrino a piedi. È una cartografia sperimentale che costruisce il qui del soggetto, a metà tra un paesaggio da cartolina e la casa dei pensieri.
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di Virgil Darelli
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Notes on a poem about Judith
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di Sara Wengström
“– for she was very young, oddly like Shakespeare the poet in her face.” Virginia Woolf, A Room of One’s Own
Her mother died and left her a little farm on the plains. Far out in the middle of everything that the wind touches, in the middle of nothing it can hold on to. There is a white chalked house; it stands alone with no trees to give it shadow. The sun burns the grass to withered yellow and the walls to blinding light. It is not the murmurous heat of the south, but a silent heavy. When the southern wind comes it stays for days and covers everything in red dust. It covers the rusty pickup truck in the yard. It covers the chair by the door. After the southern wind has visited she paints in the dust with her hands. First absent-mindedly, making intricate patterns on the hot bonnet of the truck. Then decidedly, circling the house, dragging her feet behind her. Her heavy boots press into the earth. The cornfields along the road strain under the pressure of an endless blue sky. The sun falls in waves over the gold. She is standing in the field. She looks at the big sky as it comes down to touch the skin of her right shoulder. The silence vibrates. Reverberates. Who is she? Maybe call her Judith.
There is something about these summer skies that reminds her of a long gone blue winter. She remembers it vaguely, looked at through a window. The blue framed by wood and faded silver. What is this room in which she cannot move? Memory of enclosure. 16th century embroidery. She leans on the doorframe, measuring the distances of the afternoon. Sometimes she can hear a car coming, but not many make it all the way out to the farm. The roads reach aimlessly for the horizon. She lifts an arm to shade her eyes, to caress the line of dizzying hot air at the end of the field. She plucks at the vaults of the peripheries. Here, movement is vast. Movement is not autonomous. Autonomy suggests the unconscious flow of fingers, the taking for granted of space. She moves with deliberate force, making an effort to capture every dried straw of grass between her toes. She leans mirrors against the front wall of the house: her body and the infinity behind her. In the cornfield she tangles her arms in the meter high stalks, spiralling her heart up. Crystallised heat. She licks the salted sweat around her mouth. She sleeps on white linen. The morning lies on the threshold of the kitchen. She has been here for a while, but the rooms are still empty. Except for the bed, the table, the coat on the hanger. She decorates the walls with tied hay strings. Garlands of gold. The days are neither long nor short. She goes out into the yard and sits for a while on the chair beneath the bedroom window. She can stare straight into the sun. She is the zenith, levitating.
Sara Wengstrรถm
domestico
She goes into town chewing a straw. One arm out the window of the pick-up truck she enters the sandy main street, shoots it full of holes. Radiant ruse of petrol. The weather forecast on the shop counter radio predicts a storm by evening. She buys tinned foods.
The cacti are dripping with dew. The barren land has been cracked open. The big sky has come down to earth and covers her skin with wet. She paints new patterns in the moist, over the old ones. The rain shields her eyes from the plains. All she can hear is the torrents of water like wind through a forest. The ground beneath her comes undone. Excavate Outside, the sky continues. carve * She can remember the room in which she cannot move. The room in which she is always still. Polite negation of body. But here she lies now, in the middle of the room, contemplating the distance between her hips and the wall. She wants to live with the only the fields to consider. * hollow carve * She can remember the room in which she cannot move. The room in which she is always still. Polite negation of body. But here she lies now, in the middle of the room, contemplating the distance between her hips and the wall. She wants to live with the only the fields to consider. * Outside, the sky continues.
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When she hears the buzz of a fly she realises she has forgotten what it sounds like.
robida quattro
Iskanje domačnega v tujosti digitalnega
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di Aleš Čeh
Jonathan Blow, avtor dveh izjemno pronicljivih videoiger, je računalnike pred časom povezal z inherentnim občutkom tujosti, kar lahko razumem, pa čeprav se kakor on tudi sam vsakodnevno znajdem za bliskajočim ekranom. Toda, če je resnična trditev, da nezavedno podedujemo občutja petih predhodnih generacij, me prav nobena izkušnja prednikov ni morala pripraviti na konstantna občutja napetosti, ki jih čutim(o) za ekrani.
Ker pa je človek ontološko nagnjen k iskanju zavetja, to je kraja ali skupnosti, ki ga bo obvarovala pred nepredvidljivim svetom, sem si določena zavetja poiskal tudi v okolju digitalnega. Tukaj ne želim spregovoriti o rednem obiskovanju strani, ki se mi zdijo domače, uporabljanju aplikacij, ki jih gledam vsak dan, pač pa o pojavnosti v sodobnih videoigrah, ki v svojih hladnih in neizprosnih dogajalnih krajih igralcu skoraj vedno ponudijo majhno zavetje, kjer je neranljiv in domač. Naj idejo predstavim na primeru iger iz serije Assassin's Creed, snov za katero je delno vzeta iz slovenskega romana Alamut. Prvenec v seriji (2007) se dogaja v času tretje križarske vojne na Bližnjem vzhodu. Igramo v vlogi mladega pripadnika ceha morilcev, ki opravlja različne atentate v Jeruzalemu, Damasku in Akri. Vsa mesta in vmesna pustinja so za igralca zelo neprijazna, saj mu po življenju strežejo stražarji, vojaki, prostozidarji in tudi drugi pripadniki ceha morilcev. Igranje, ki poteka iz tretje osebe, tako ni mirno in turistično, kakor bi si morda kdo želel, pač pa napeto in neizprosno. V uteho pa je igralcu ponujena mirna destinacija, destinacija, kjer je domač, načelno zaželen, kjer mu po življenju ne streže nihče – to je mestece Masjaf z istoimensko graščino, ki sicer leži na zahodu Sirije. Tam življenje kljub prihajajočemu kaosu tretje križarske vojne poteka sorazmerno mirno, igralec pa se lahko okoli sprehaja prosto, seda na klopi in posluša pogovore meščanov. Koncept je razširjen v nadaljevanju Assassin's Creed 2 (2009), ki se dogaja v Italiji med renesanso. Čeprav večino igre preživimo med Benetkami in Firencami v nemirnih časih stroge cenzure in militarizacije, nam je ponovno ponujen miren kraj, kjer ni bojevanja in nasilja, pač pa samo spokojnost, mirni sprehodi, poslušanje starcev na trgu. Za nameček pa so koncept »mirnega prostora« nadgradili z različnimi stranskimi zadolžitvami
za igralca, recimo vizualnim opremljanjem vile, kjer se znajdemo. Ta sicer stoji v mestni vasici Monteriggioni v Toskani. Čeprav je igra prežeta z napetostjo in povsem avanturističnim igranjem, kjer se tako na ravni zgodbe kot aktivnosti neprestano kaj dogaja, so avtorji za igralca zgradili to mirno vasico, kjer si lahko oddahne od siceršnjega živžava, kjer lahko mirno zadiha in meditira. Toda. Kak namen stoji za tem? Življenje v enaindvajsetem stoletju ni preprosto. Skoraj vsi poznamo članke in knjige, ki govorijo o izgorelosti, izčrpanosti sodobnega človeka, o njegovi izgubljenosti v kaotični zmesi digitalnega in resničnega. Terry Eagleton v svoji monografiji Marksizem in literarna kritika (1976) pravi, da se nova vrsta umetnosti ne pojavi zgolj zaradi tehnološke zmožnosti, pač pa tudi zaradi potrebe ljudi. In v kolikor to drži, bi si upal trditi, da videoigre niso nastale (zgolj) kot posledica nekega tehnološkega razvoja, pač pa globoke potrebe človeka na koncu 20. stoletja, ki bi ga radikalno izsekala iz anonimne množice, presegla besedo in podobo ter oznanjala čas aktivnosti, dobo akcije, dobo krika. V enaindvajsetem stoletju pa se je nekaj spremenilo. Človek se je zavlekel nazaj vase, neprestana aktivnost sveta, ki z internetom ostaja buden štiriindvajset ur na dan, ga je napolnila z željo po intimi, miru, domačnosti. Videoigre ne morejo več zadovoljevati samo človekove želje po akciji in aktivnosti, pač pa morajo zadovoljiti tudi njegovo potrebo po duhovnem miru, ki mu nekako, če si drznemo sklepati po množici publikacij o splošni izgorelosti, primanjkuje. In bolj ko je igra aktivna, več pozornosti ko zahteva od igralca, bolj bo slednji potreboval protiutež, kotiček miru, kjer se bo spočil in zadihal.
domestico
Ti 'kotički miru' v digitalnih igrah pravzaprav od resničnosti ne izstopajo kaj veliko. Ponavadi so to domače vasice protagonistov, domači kraji, celo lastna hiša. V Grand Theft Auto V (2013) med drugim igramo v vlogi Michaela, ki se po akcijskih aktivnosti zmerom vrne v domačo hišo, kjer je mir, nihče mu ne grozi, lahko se ukvarja z jogo, gleda televizijo in se pogovarja z domačimi. V preživitveni igri The Long Dark (2017), kjer se znajdemo izgubljeni sredi kanadske pustinje, si domačo hišo poiščemo kar sami, saj se igra dogaja v od ljudi zapuščeni divjini, kjer so mnogi za sabo zaradi grozljive zime pustili prebivališča in počitniške hiške. Tako si v iskanju zavetja pred snežnimi viharji izberemo eno izmed njih, nakar v njej zakurimo ogenj, shranimo zaloge živeža in vej, odpravimo se spat na udobno žimnico, če jo le najdemo v hiši. Igra, ki je sicer izjemno stresna, saj moramo neprestano skrbeti za fizično udobje lika (lakota, žeja, telesna temperatura), tako postane znosna, saj imamo kraj, kamor se lahko po raziskovanju divjine vrnemo, imamo dom. V funkciji krajev, ki igralcu ponudijo mir, pa se pogosto znajdejo cerkve in svetišča. Med drugim celo v japonski seriji iger Dragon Quest (1986–2018), ki je prvenstveno namenjena japonskemu trgu – krut svet zunanjosti se v cerkvi kar porazgubi, naši junaki si lahko odpočijejo in naberejo novih moči. Posebej presenetljivo za Japonsko pa je, da se v teh igrah pojavlja simbolika križa, saj na Japonskem prisotnost krščanstva ni velika. Svetišča so kraji, ki likom iz videoiger ponujajo mir in počitek, priložnost za refleksijo svoje pustolovščine, ponudijo mu dom, antitezo tujega. Tako kot cerkve s svojim hladom ponudijo zatočišče kolesarjem in sprehajalcem, ki se cele dneve pojajo po žgočem soncu. Še moj oče, ki se je najrazličnejših svetišč ponavadi izogibal, si je po celem dopoldnevu kolesarjenja včasih privoščil malo pomirjajočega cerkvenega hladu. Občasno pa se zgodi nekaj posebej ganljivega – razvijalci ustvarijo dogajalni kraj, ki je igralcu domač, ker je v osnovi domač razvijalcu. To se je zgodilo pri igri Assassin's Creed Unity (2014), ki se dogaja v Parizu, kjer je tudi glavna izpostava podjetja, ki razvija serijo. Digitalni arhitekti so se rekonstrukciji Pariza med francosko revolucijo posvetili s tako vnemo, da kot igralci, ki nismo niti približno izkusili Pariza med francosko revolucijo, začutimo domačnost, začutimo, da je to mesto dom ljudem, ki so ga poustvarili v digitalni obliki. In zato postane dom nam. Ko se sprehajamo po tej domala fotorealistični upodobitvi Pariza, si ne moremo kaj, da se ne bi iskreno čudili nad čudesom digitalnih svetov. Človek v svojem bistvu teži k domačnosti. Resda si želi izzivov tujosti, želi si doživeti nove kraje, spoznati nove ljudi, pa vendar teži k temu, da bi tudi novo podomačil, še raje pa se vrnil k tistemu, kar že pozna. Tega občutka si želimo tudi v digitalnih svetovih. Zato se vedno znova vračamo k spletnim stranem, ki jih že poznamo, zato se v videoigrah zatekamo v »varne kraje«, kjer se lahko sprehajamo brez skrbi in zahteve po akciji.
In zato na koncu dneva še vedno poklopimo ekran – da se odmaknemo od globoko tujega občutja digitalnega, da na občutljivi večerni koži začutimo mehkobo domače postelje, vonj tihe in neskončne teme, ki nas s svojo domačo skrivnostnostjo vznemirja in pomirja hkrati, slišimo in izrečemo 'lahko noč', nevzdržno srečni, da smo doma na tej strani ekrana, kjer je vse iz mesa in krvi.
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Aleš Čeh
robida quattro
Per un non-addomesticamento della lingua straniera nei processi di traduzione
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di Vittoria Rubini
I Correva l’anno 1607. Le flotte inglesi si insediavano permanentemente a Jamestown. Iniziava così l’esperienza del primo colonialismo inglese. Il processo di stanziamento nella poco vergine Virginia prevedeva un paradigma vecchio quanto il mondo Occidentale da che lo conosciamo: l’occupazione di territori per trarvi beneficio economico, l’assoggettamento delle popolazioni autoctone e l’imposizione di una cultura colonizzante a sfavore di quella indigena. I titoli di coda del colonialismo hanno visto scorrere le esorbitanti percentuali di territorio controllate dagli Stati colonizzanti. All’anno 1900 il 100% dell’Australia, il 98,9% della Polinesia, il 90% dell’Africa, il 56,5% dell’Asia ed il 27,2% delle Americhe erano in mano alle potenze economiche europee e statunitensi1. I volti e i nomi di soggetti e assoggettati sono della più varia diversità, ma l’azione colonizzatrice mantiene una stessa costante ricorrente: l’Altro, primitivo, selvaggio e con impresso sul volto il marchio dell’indomabilità, viene domato, addomesticato. Corrono gli anni 2010. I prodotti culturali, figli riconosciuti dei nervosi meccanismi della globalizzazione, hanno espanso la loro diffusione su scala globale. Il mondo intero è diventato la provincia entro cui l’uomo si muove e propaga la propria eco letteraria. Tuttavia, i grandi centri di produzione culturale paiono ad oggi una prerogativa unicamente statunitense ed eurocentrica. Di tutte le lingue del mondo, è l’inglese la lingua franca dell’espressione culturale, scientifica e letteraria. La Bowker, una società del New Jersey che si occupa di raccogliere e fornire informazioni legate all’industria bibliografica, ha determinato una percentuale che indica i libri stranieri pubblicati negli States. Il totale di questi equivale pressappoco al 3%2. Tale modesta percentuale si spiega economicamente attraverso i costi elevati delle traduzioni professionali e culturalmente attraverso le difficoltà che spesso la resa in inglese di molte lingue comporta. La traduzione è un presupposto fondamentale per la diffusione di testi di lingua straniera, e dunque per la diffusione di temi, stili e correnti che si dipanano al di fuori del mondo anglofono. Nei casi di traduzioni da lingue sintatticamente, morfologicamente e culturalmente distanti dall’inglese la questione si fa più complessa. La traduzione porta a ridurre, schiacciare, ammaestrare la lingua straniera, lingua-lupa selvatica da addomesticare a favore di una resa fluente da dare in pasto al pubblico di lettori anglofono—e anglofilo. Non con meno prepotenza di quella applicata dalle forze colonizzatrici, la lingua inglese si è imposta sul mercato globale come indispensabile veicolo di conoscenza, a sfavore delle circa 6500 altre lingue che il mondo parla. La traduzione in inglese è ormai un presupposto necessario per permettere il salto da libro a libro di qualità. Gli studi di teoria della traduzione hanno analizzato il fenomeno da vicino e con l’occhio critico che deriva dalla lettura postcoloniale dei meccanismi culturali contemporanei, determinando, a seconda dei casi, un addomesticamento o una resa straniante ed esotizzante della lingua straniera. II Tra gli ingranaggi-cardine del mondo della letteratura globale emergono il traduttore ed il mediatore culturale. Sulla prima figura grava l’oneroso compito di avvicinare le culture più lontane e tradurre le espressioni più intraducibili. La sua priorità deve essere quella di annientare la distanza che intercorre tra il testo-fonte (ST, source text) ed il testo-target (TT, target text), che risentono di una cultura-fonte (SC, source culture) e una culturatarget (TC, target culture), che si esprimono a loro volta in una lingua-fonte (SL, source language) e una lingua-target (TL, target language). La natura frattale dei rapporti tra ST, TT, SC, TC, SL e TL ben rende l’idea
delle difficoltà che il compito del traduttore comporta. Allo stesso modo, la mediazione culturale, che semplifica la comprensione tra due culture, è sempre più che una semplice mediazione linguistica. I mediatori culturali devono essere profondamente consapevoli della propria identità culturale e di quella della cultura per cui si media, oltre che consci del modo in cui entrambe le culture influenzano la percezione di un discorso. Per il traduttore e per il mediatore le distanze culturali possono, a seconda dei casi, provocare il fastidio di un sassolino nella scarpa o avere il peso del macigno di Sisifo.
III Ad esemplificare le congetture avanzate finora, viene in aiuto la lingua xhosa. Il xhosa è una lingua parlata in Sudafrica, Lesotho e Swaziland. È anche la lingua parlata da Nelson Mandela. La lingua xhosa è così classificata3: -lingue niger-kordofaniane -lingue congo-atlantiche -lingue volta-congo -lingue benue-congo -lingue bantoidi -lingue bantoidi meridionali -lingue bantu -lingue bantu centrali -lingue bantu S -lingue nguni -lingua xhosa
Ultima tra le ultime delle lingue niger-kordofaniane, xhosa nelle lingue khoisan, il più piccolo phylum linguistico africano, significa uomini arrabbiati. Assoggettati ai più svariati soprusi riservati alle popolazioni africane da parte delle forze colonizzatrici, non si potrebbe pensare a definizione migliore per esprimere la frustrazione degli uomini xhosa. La rabbia non ha tuttavia impedito loro di dare una definizione dell’uomo bianco che è di raro lirismo etimologico: Abelengu, l’uomo bianco, porta per gli xhosa il significato della spuma del mare. Come quest’ultima, il colonizzatore è bianco e giunge a riva attraverso il mare, da cui viene periodicamente ringhiottito. La traduzione di Abelengu come uomo-bianco-spumadi-mare appare subito mimetizzante, tenendo conto che l’uomo bianco non ha riprodotto per le popolazioni xhosa la stessa innocuità della spuma di mare. IV Foreignization e domestication in quanto strategie di traduzione sono state introdotte da Lawrence Venuti nel suo The Scandals of Translation: Towards an Ethics of Difference (1998). Venuti afferma che “la domestication e la foreignization hanno a che fare con la questione di quanto una traduzione assimili un testo straniero alla lingua e cultura in cui viene tradotto, o quanto invece segnali le differenze tra i due”. Più in generale, la domestication indica il tipo di traduzione in cui l’estraneità del testo straniero viene minimizzata dall’utilizzo di uno stile fluente ma opaco. La foreignization invece implica che il TT prodotto scardini le convenzioni della TC, assorbendo parte dell’estraneità dell’originale e rendendola visibile in trasparenza. La conflittualità che lega le due strategie di traduzione prese in esame non riguarda esclusivamente l’estensione linguistica, ma soprattutto quella culturale, se non addirittura politica. La questione è passata anche sotto l’acuto vaglio di Antoine Berman, che nel suo La Traduction et la Lettre, ou L’Auberge du Lointain (1999) ha indagato i processi che sussistono nel passaggio da ST a TT, proponendo un’analitica negativa delle pratiche di traduzione e determinando le azioni più violente eseguite dalla traduzione nei confronti del SL. Tra questi, innanzitutto la razionalizzazione e la chiarificazione, avvolte dalla V La resistenza all’imposizione linguistico-culturale è condizione necessaria per mantenere vive le infinite voci del mondo. Tra i fervidi sostenitori di una resistenza alla cultura anglo-americana figura lo stesso Venuti, il quale predilige una strategia traduttiva priva di qualsivoglia tendenza addomesticante. I più importanti centri di produzione e diffusione della cultura—letteraria e non— parlano la mono-lingua dell’aggressività costrittiva sottesa alla cultura anglo-americana ed eurocentrica. Dietro ogni atto o intenzione di addomesticamento si cela la durezza del colonizzatore. La domestication implica una riduzione del testo straniero, che deve essere conosciuto in inglese per essere diffuso, a favore di una più semplice comprensione da parte del lettore target, che deve conoscere l’inglese https://www.mtholyoke.edu/acad/intrel/pol116/colonies.htm https://www.ilpost.it/2015/10/29/libri-tradotti-usa-amazoncrossing/ 3 https://www.ethnologue.com/language/xho 1 2
domestico
La traduzione di Abelengu come uomo bianco appare subito minimizzante, tenendo conto della sua originaria polisemanticità. Ci si trova davanti ad un ostacolo epistemologico difficile da superare per chi si occupa di translation studies. Da un lato, un approccio straniante (tecnica della foreignization): la prima traduzione, esplicitando la metafora marina, porta a galla la tangibile estraneità della SL e della SC. Il termine viene spiegato, ma è questo stesso chiarimento ad ammettere e assecondare la distanza che intercorre tra SC e TC. Dall’altro, un approccio addomesticante (tecnica della domestication): nel secondo caso, la traduzione minimizza l’estraneità della SC, conformandosi ai valori della TC. La definizione rende accessibile alla TC ciò che non le è familiare, ma la traduzione perde la seconda accezione di significato e la sua nuance poetica.
presupposizione che il ST manchi a tratti di chiarezza. In secondo luogo, la nobilitazione, un’elevazione nello stile del linguaggio che rischia di annichilire la retorica orale e la multiformità poli-logica del ST. Seguono l’impoverimento quantitativo e qualitativo, la distruzione del ritmo e delle reti di significazione sottese, oltre che una resa eccessivamente esotizzante. Come nota Jeremy Munday nel suo Introducing Translation Studies (2001), l’insieme di questi processi risulta in una super-imposizione di una lingua a discapito di un’altra. La natura conflittuale del rapporto tra due culture— riflessa nelle relazioni tra SC e TC, ST e TT—è stata oggetto di analisi per il movimento denominato cannibalismo brasiliano. Basandosi sulla metafora antropologica presa in esame dal Manifesto Antropófago (1928) di Oswald de Andrade, questo gruppo di teorici enfatizza la portata postcoloniale dei processi di traduzione. Così come il cannibalismo consiste nel nutrirsi di sangue altrui al fine di ottenere linfa vitale per se stessi, allo stesso modo il punto-cardine da cui il gruppo parte presuppone un assorbimento e la trasformazione dell’influenza di ciò che è estraneo. Il ST viene dunque assorbito, a favore di una rigenerazione vitale del TT. Il ST viene divorato e risputato dalla cultura colonizzante, nella lingua colonizzante.
per essere a conoscenza dei prodotti letterari immersi in questo meccanismo di diffusione. A combattere la tradizione di una traduzione allisciata e addomesticante deve dunque porsi un metodo di traduzione che corra sui binari ignorati dal treno dei valori dominanti della lingua di arrivo. Forse così si imprigionerebbe l’indole ad addomesticare del colonizzatore e si arriverebbe ad alleggerire la pressione deviante della lingua-target, incrementando il numero di viaggi letterari per mete tanto sconosciute quanto culturalmente ricche. Forse così la percentuale di letteratura straniera pubblicata negli USA salirebbe ben oltre il 3%.
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Vittoria Rubini
robida quattro
L’oggetto domestico come immagine-cristallo Sulla natura morta in Krzysztof Zanussi
di Giulia Antonia Zanon 16
“La natura morta è il tempo, perché tutto ciò che cambia è nel tempo, ma il tempo stesso non cambia, non potrebbe cambiare che in un altro tempo, all’infinito.”
Gilles Deleuze
Improvvisamente, mi vedo dal di fuori. Sarà passata un’ora. Una rapida scrollata. La presa di consapevolezza del mio sguardo, fino ad ora incatenato inconsciamente alla superficie liscia di un bicchiere: scheggiato, di vetro duro, banale, Ikea probabilmente. Nella rapida successione di qualche secondo, un brivido scende lungo la colonna vertebrale: sono profondamente turbata da quell’innocuo recipiente, diventato il luogo ultimo di funebri pensieri peregrini. La realtà autonoma degli oggetti è forse una delle principali conquiste del cinema moderno. Affrancati da quella che è la bidimensionalità dello sfondo, essi vendicano la loro antica passività diegetica facendo pagare, con interessi da usura, la nostra psiche. Gli oggetti si prendono il gustoso compito del profeta, gli oggetti sanno. Freddo e crudele nei confronti dell’umanità dei teatranti, essi riflettono un futuro nero ed inesorabile con l’impossibilità (o, meglio ancora la non-possibilità, così da accentuare il valore distintivo che l’oggetto ha contrapponendosi al soggetto agente) di comunicazione, causata dalla loro materia immobile ed eterna.
Nell’Ossessione viscontiana ci troviamo in una casa, prigione di una moglie infedele, e nella camera coniugale, vediamo uno specchio riflettere l’immagine della fedifraga protagonista, la cui sagoma “reale” ci porge la nuca, si nega a noi, e solo attraverso il suo riflesso, a cui si accosterà il riflesso ignaro dell’amante-complice, possiamo percepire
nel suo sguardo la consapevolezza di voler uccidere il marito. L’oggetto è qui un frangente di eterno, un portale sull’Assoluto che si affaccia alla realtà e inghiotte in sé i personaggi. Ciò che pare l’apoteosi del dentro, l’arredamento di una scenografia domestica, è forse in realtà l’unico oggetto dal di fuori.
Questa metafisica del mobilio viene messa in luce attraverso le cure dedicate da Gilles Deleuze alla concezione Bergsoniana dello scorrere del tempo e alla sua percezione. Immaginiamo il Tempo come un cono rovesciato che, sezionabile un numero n di volte, rivela cerchi di passato, compiuti ed eterni, perfetti di per sé e tendenti verso un piano, l’Assoluto, appunto. Il cono è in equilibrio perfetto sulla sua punta (che è il presente) la quale non riesce a risolversi nella compiutezza, il presente, per antonomasia, ci sfugge. Quindi è proprio nel presente, e non nel passato come si potrebbe pensare, a giacere l’astrazione inconoscibile. Come rappresentare dunque l’inafferrabile essenza del tempo stesso e il concetto così difficile di presente nel cinema se non attraverso il ruolo attivo dell’oggetto che, come abbiamo detto, è proprio un portale mentale? Deleuze parlerà dunque di “punte di presente” in riferimento a questi oggetti, chiamati nel suo L’Imagetemps immagini- cristallo, il cui valore semantico è molteplice, ambiguo, ma allo stesso tempo materico alla vista, come solo un suppellettile può essere. “La natura morta è il tempo, perché tutto ciò che cambia è nel tempo, ma il tempo stesso non cambia, non potrebbe cambiare che in un altro tempo, all’infinito.” Scriverà così, Gilles, e con queste parole il riferimento alla stasi dell’oggetto si fa più chiaro. Perché cristallo? Importantissimo è sottolineare quanto questo sostantivo ci rimandi, immediatamente, a un’immagine, talora lucida, talora opaca ma pure sempre vitrea, ladra di luce e ingannatrice nel suo riflettere e specchiare, come se ci si riferisse a un prisma trasparente, capace di catturare ogni visione del passato simultaneamente, rispecchiando allo stesso tempo la natura subitanea della percezione di un attimo, la realizzazione di un concetto o di una memoria.
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Una delle narrazioni cinematografiche più emblematiche del valore simbolico dell’immaginecristallo, e del suo ruolo attivo nello svolgimento dell’azione e nella relativa influenza sui personaggi stessi, è l’opera prima del regista polacco Krzysztof Zanussi, Struktura Kryształu, La Struttura [appunto] di cristallo. Jan, dopo la facoltà di Fisica, ha votato se stesso alla quieta vita agreste della bianca campagna polacca, nel nido maritale di una casa che possiede, con le sue mura deliziosamente acconciate, il sapore del diorama. Essa è disseminata di oggetti del quotidiano, a rappresentare il neutro potenziale di cui Louis Marin potrebbe parlare come “potenza energetica in divenire”: questi oggetti verranno attivati, all’occhio dell’osservatore, di vero potere visivo solo da indizi gestuali che li metteranno in relazione con altri elementi inanimati, quasi alieni, quali gli strumenti della ricerca scientifica. Ampolle, astrolabi, mappe, strani marchingegni: sono tutte rovine, simulacri di una vita passata, il cui dispositivo semantico viene innescato dall’arrivo di Marek, l’antico compagno di studi di Jan che, da Varsavia, entra nella dimensione domestica come ospite, talvolta è amico, talvolta pare quasi uno straniero. Marek è attratto dall’oggettistica propria della sperimentazione e attraverso essa, che all’improvviso diventa lucente e protagonista delle inquadrature, guida l’amico in un’interattiva riscoperta del passato condiviso.
Cristalli, appunto: verrà data particolare attenzione formale alla materialità di questi strani strumenti, con cui la cinepresa giocherà in un delizioso teatro di opacità, annebbiamenti, distorsioni. Il passato, dunque, si dilata e specchia retroattivamente: si ha l’impressione che il pittorico scenario di una quieta vita di coppia diventi improvvisamente una scaena versatilis costellata da strani macchinari scenografici. Marek guida Jan a una rilettura del suo cosmo privato. Ciò che è stato (dimenticato) è ora puntualizzato e richiamato dall’oggetto del presente, che è l’unico elemento di vita e movimento e, consequenzialmente, di eterno. I due protagonisti osserveranno se stessi, le loro storie personali, accompagnando l’ingenuo stupore per l’empirismo di semplici esperimenti a celati agoni poetici: l’esaltazione della scienza da parte dell’accademico, intenzionato a persuadere l’autoimposto eremita al ritorno alla ricerca universitaria, contro una contemplazione intimista del suo microcosmo sperticata dal padrone di casa. Il commiato fra i due riporterà entrambi a uno stato originario, a una stasi turbata e vicendevolmente messa in bilico, ma il tempo, inesorabile, verrà risucchiato di nuovo in quella che è la potenza visiva degli oggetti. L’ultima magistrale sequenza andrà a sottolineare in una sintesi perfetta l’impossibile (eppure, lampante e vivissima agli occhi dello spettatore) connessione tra microcosmo domestico, poetico, con il macrocosmo scientifico: Jan, dopo aver salutato l’amico, si avvicina ad un telescopio, di nuovo la lente–cristallo Deleuziano, e vi scruta all’interno; l’inquadratura successiva è quella di un vetrino che inquadra organismi, macchioline, infinitamente piccole. Egli ha dunque offerto all’amico una visione di un universo egualmente illuminato, seppur centripeto, e queste due visioni del mondo sono collegate dalla fragile illusione, quella di una lente. Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico pp. 28 - 29, fotografie .12, .19
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Giulia Antonia Zanon
robida quattro
Wilderness Stations
The domestic and the wild in Canadian literature
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di Maria Moschioni
“ This world is a wilderness, in which we may indeed get our station changed, but the move will be out of one wilderness station unto another .” (T. Boston, qtd. in Alice Munro, “A Wilderness Station”)
In “Conclusion to a Literary History of Canada,” Northrop Frye begins his reflection on the Canadian identity and literary imagination by sketching a map of the colonial Canadian territory, the way it would have looked like to the European explorer, eager to discover a passage through it to the treasures of the East. Frye points to the map to show how entering the United States via their Atlantic seaboard was, then, simply “a matter of crossing an ocean”: merely moving from one side to the other of “the cultural unity of the English-speaking community of the North Atlantic that had London and Edinburgh on one side of it and Boston and Philadelphia on the other,” and which moved westward, towards the Pacific coast, “irregularly but steadily.” There is no such seaboard on an old map of Canada. The traveller, Frye writes, “edges into it like a tiny Jonah entering an inconceivably large whale, slipping past the Straits of Belle Isle into the Gulf of St. Lawrence, where five Canadian provinces surround him, for the most part invisible. Then he goes up the St. Lawrence and the inhabited country comes into view, mainly a French-speaking country, with its own cultural traditions.” The experience of entering Canada is the “unforgettable and intimidating” one of “being silently swallowed by an alien continent”: it is an experience of the wilderness in its vastity, of the indigenous “Other” inhabiting it, of the deleterious belief in the right and the necessity to settle it, to domesticate it, to assert ownership over it.
I think about that European traveller as I feel this huge, silent, snowwhite, forest-spotted alien land drift under me, at the end of the eight-hour flight that is taking me to what will be my new home for an entire year. In my arrival to Toronto Airport there is something of Frye’s “unforgettable and intimidating experience.” I am, for the first time, really far from home, in a different time zone, in another continent, alone. Yet, I am at home in the language; there is no real culture-shock, nothing unpredictable waiting for me, even after I exit the obviously recognizable non-place that is the airport. Things—trains, houses, roads, shops, buildings, people—look somehow familiar, already-seen. The orderly rows of houses, with their green patches of garden at the front, seem to have come straight out of an American movie, and place names endlessly echo their faraway British antecedents: there is a York, a London, a Stratford, and I live right across an Argyle Street, exactly as I did three years ago, in Scotland. Yet again, there is something strange about all these familiar things, as if they had been distorted, their proportions shifted. Everything is bigger, wider, disorientingly farther; the train horn blows deeper, cicadas chirp louder, and birds sing differently; my backyard hosts chipmunks and skunks, the road is crossed by turtles, wild geese, porcupines and beavers, the giant sky cut through by vultures and bluejays and bright red birds. Everything is strangely familiar and foreign, here; uncanny , I might say, borrowing from Freud and from literary theory a term that has always fascinated me, and inside which I suddenly find myself living. From books, to reality, and back again to books: I soon discover I am not the only one who uses literary terms to think about Canada as a place. Justin Edwards, in a book aptly entitled Gothic Canada , describes it as a liminal space, caught “in-between colonization and post-colonization,” in-between the overlapping influences of Great Britain on the one hand, and the United States on the other (xiv). Because of the paradoxes which are at heart of the Canadian identity, Edwards defines it “an uncanny space,” a place that is “strangely familiar and familiarly strange” (xv). Underlying this, according to Edwards, is the problematic notion of the non-existence of a single Canadian “identity” or culture, given the way in which this has been culturally constructed as diasporic, hybrid and multicultural. Edwards acknowledges that the very idea of nation is “a ghost story”, an entity that is simultaneously real and unreal, imaginary and powerful, drawing on Homi Bhabha’s claim that a sense of nation is constructed in opposition to “the unheimlich (or uncanny) terror of the space of the Other” (Edwards xix). But this Gothic discourse surrounding the elusive, ghostly notion of identity and belonging seems pervasive, almost haunting, in the Canadian context. Frye notably mentions the paradoxes that confront and disturb the Canadian sensibility as they conflate in the riddle: “Where is here?” (220). The same sense of displacement, of strangeness in one’s home, returns in Margaret Atwood’s Survival, where she claims that Canada “as a state of mind, as the space you inhabit not just with your body but with your head,” is “an unknown territory,” the “kind of space in which we find ourselves lost” (18).
The Gothic as the literature of the home and its unsettling finds a distinctive, discreet, and mesmerizing expression in the voice of the Canadian short story writer, Nobel prize winner Alice Munro. Most of her stories, as well as her own life, have revolved around Huron County, in Southern Ontario: a largely rural region, whose geography of small villages with their people, churches, farms, woods, rivers and fields she vividly recreates in her writing, transforming it into an almost mythical place. Behind the seemingly realistic, exact surface of the deceptively simple style with which they describe reality, Munro’s stories suggest dimensions of possibility and uncertainty, exceeding the confines of realism to explore what lies beyond and beneath it. This is what Coral Ann Howells defines as Munro’s “doubleness of vision,” that is, her short stories’ capacity to move within two alternative worlds: the world of everyday, small town reality, and “the shadowy map of another imaginary or secret world laid over the real one” (1). Upon a first reading, in fact, Munro’s work looks like a detailed, hyper-realist painting of the lives of characters, women especially, in their dailiness: she is interested in ordinary experiences, like coming of age, motherhood, womanhood, and human relationships, and the way memory shapes them. Her stories are, in a sense, studies on domesticity, in which she reworks her own memories and family narratives: the title story from the 1983 collection The Progress of Love, for example, is a multi-generational tale about family inheritances and secrets that combines autobiography with imagination, and encapsulates them in an image of the passing of time as it becomes visible on the aging walls of a house. At the same time, her stories have been said to belong to the so-called Southern Ontario Gothic genre: an only partially ironic definition that refers to the way in which various authors—like Marian Engel, Margaret Atwood, Timothy Findley and Robertson Davies—rework Gothic motifs, like the supernatural, the uncanny, murder, madness, illness, repression and desire, to describe a distinctly regional setting. In reading Munro’s 2009 collection Too Much Happiness, for example, we can ponder the irony of the title as we move from a story about murdered children to one about children murderers, through various other ones that speak of death, terminal illness, mutilation, rejection, and hatred. The combination of realistic narration and Gothic intertexts is particularly relevant in two of my favourite Munro stories, where the dialogue between realism and the extraordinary is used to explore the liminal space between the domestic and the wild: “Meneseteung,” from the 1990 collection Friend of My Youth , and “A Wilderness Station,” from the 1994 collection Open Secrets . Both of them bring us back to 19th-century colonial Canada: a place that maleauthored, pioneer narratives of the time described as the dangerous frontier between civilization and a wilderness to be domesticated, and where women were needed to be “partnered and fruitful” (“Meneseteung” 59).
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The stories insert themselves in this context to recover the imagined voices of two women: Almeda Roth, a poet and spinster in a newly built Ontario village, and Annie Herron, brought to the Canadian woods to be a housewife. Munro works with fictional documents, multiple perspectives, and the Gothic motifs of madness and dream, to unsettle the familiar dichotomy between the dangerous wilderness and the safety of the home: in a complete reversal, the stories of Annie and Almeda speak of the violence hidden within the domestic walls and behind the pretense of civilization set up by the colonization process, and re-appropriate the wilderness as a possible space for safety and freedom. And so Almeda locks herself inside her own home on a hot day in August, shutting out her suitor—the practical-minded, widowed entrepreneur Jarvis Poulter—and the conventional voice of her community, which regards her with suspicion because of her verse writing and her single condition; and she discovers in her surroundings, “flowing and altering” in her vision blurred with nerve medicine, the inspiration “for one very great poem that will contain everything” and that bears the native name of a river, the Meneseteung (69–70). On the other hand, Annie, from the story “A Wilderness Station,” escapes from the shanty in the middle of the woods where her husband died, and brings with herself her own unheard, puzzling version of the events, which the reader finds in the form of an undelivered letter. Both short stories leave us searching for the truth of Annie’s and Almeda’s lives within the accounts of unreliable narrators and the contradicting perspectives of many characters, and lead us to touch and feel how the history of a place is inscribed upon its microhistories, something fictional and personal.
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Reading Alice Munro, then, is also a way of entering Canada, of exploring it as a place and as a history; yet, at the same time, Munro’s work is always exceeding the specific, local topography that she chooses to start from, moving from her own hometown, childhood memories, and life experiences, to enter a universal dimension. It is also by reading Alice Munro that my relationship with my temporary home in Ontario has evolved into something physical, and profound, and rooted, just like the tomatoes and the butternut squash that I planted in the garden at the back of the house when the snow had finally melted. I understood then what Munro meant when she said that she “love[d] the landscape,” and specified: “Love isn’t the word, really, because that sounds like I’m going out looking at sunsets and pretty views; it’s not that. It’s just that it’s so basic like my own flesh or something that I can’t be separated from” (Horwood). To inhabit a place, then, is not just to settle it, to till the earth, and to let the roots grow deep; but to become aware that those roots are there already, that your foreignness is but the awareness of the pull that draws you to it, that you belong to it, before your very beginning, inescapably.
Works Cited: Atwood, Margaret. Survival: A Thematic Guide to Canadian Literature . Anansi, 1972. Bhabha, Homi. “The World and the Home.” Social Text , no. 31/32, 1992, pp. 141–153. Edwards, Justin. Gothic Canada: Reading the Spectre of a National Literature . University of Alberta Press, 2005. Frye, Northrop. The Bush Garden: Essays on the Canadian Imagination . University of Toronto Press, 1971. Online at http://northropfrye-thebushgarden.blogspot.fr/2009/02/conclusion-to-literary-history-of. html Horwood, Harold. “Interview with Alice Munro.” The Art of Alice Munro: Saying the Unsayable , edited by Judith Miller, University of Waterloo Press, 1984, pp. 123–135. Howells, Coral Ann. Alice Munro . Manchester University Press, 1998. Munro, Alice. “Meneseteung.” Friend of My Youth . Knopf, 1990, pp. 50–73. ---. “A Wilderness Station.” Open Secrets . Penguin, 1995, pp. 222–263. ---. The Progress of Love . McClelland and Stewart, 1983. ---. Too Much Happiness . Douglas Gibson Books, 2009.
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Domačnost in divjina
Glede na dejstvo, da se bo vsebina številke formirala okoli domačnosti v realnem prostoru, bi želel pozornost preusmeriti v notranji svet opazovalcev ter omenjeno temo oz. njeno nasprotnico osvetliti v tem kontekstu. V samem pozivu k razmisleku, nas snovalci revije opozarjajo, da se lahko domačnost in divjina dogajata tudi pri vsakdanjih stvareh, kot je na primer pospravljenost naše delovne mize oz. pri njeni nasprotnici nepospravljenosti. Pospravljena miza je za osebnost, ki je usmerjena k organiziranosti, domačnost, medtem ko nepospravljena miza predstavlja divjino. Za opazovalce vsakokratne realnosti lahko obstajata dve vrsti mentalnih podob. Tiste, ki nam povzročajo domačnost in smo jih vajeni ter tiste, ki nam povzročajo divjino. Podobam divjine se izogibamo, poizkušamo jih odriniti iz naše zavedne zaznave, če je mogoče celo uničiti. Navdajajo nas z občutki tesnobe in nelagodja. Mentalne slike domačnosti pa so tiste, ki smo jih najbolj navajeni, saj se v njih počutimo domače-vsakdanje. Pozitivna plat mentalnih slik domačnosti je, da nas utirjajo v vsakdanjosti, ki nam omogoča cikličnost in ponovljivost naših miselnih predstav ter iz njih izvirajočih dejanj. Negativna stran (podob) domačnosti pa je izrazita nezmožnost za ustvarjanje nepredvidljivosti, novosti, inovativnosti, in spontanosti. Edward De Bono (vodilna svetovna avtoriteta na področju ustvarjalnega razmišljanja in oblikovanja idej) opisuje delovanje našega uma kot koncept, kjer se naša spominska površina samoorganizira, kar preprosto pomeni, da skuša vsakokratno realnost zmeraj rekonstruirati iz naših preteklih podob (domačnosti). Omenjeni mehanizem omogoča, da se zjutraj samodejno zbudimo, vstanemo iz postelje, umijemo zobe ter kasneje opravimo naše vsakodnevne rutine. Vendar pa nam prav podobe domačnosti onemogočajo realnost opaziti v drugi perspektivi in oblikovati nove postopke za izvajanje naših dejanj. Ker se naša spominska banka samoorganizira in izpopolnjuje, je zato potrebno pri iskanju svežih in inovativnih rešitev, v naš mentalni svet uvesti podobe divjine. Te nas premikajo, iritirajo in onemogočajo ciklično izvajanje naše vsakdanjosti. Tako kot lahko za rast pridelka njivo plemenitimo s surovinami, ki ne izvirajo samo iz zemlje, lahko tudi našo spominsko površino spodbujamo z zaznavami, ki so nehotene, nenačrtovane in spontane. De Bono jih imenuje provokacije. Provokacije (podobe divjine) nas iztirijo iz vsakodnevnih mentalnih poti in nam omogočajo, da realnost opazimo v drugi sliki ter kasneje postopke izvedemo po drugi poti. Omogočajo nam rezanje in spajanje (obstoječih) podob v nove vzorce, ti pa posledično pripeljejo do izvirnih ustvarjalnih rešitev.
Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico pp. 27, fotografia .6
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di Gašper Medvešek
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Le buone abitudini
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di Paola Nistri e Tommaso Petrosino
Un topolino di campagna viveva nella sua casetta di campagna, aveva le sue abitudini di topo di campagna. Amava il suo cortile e il suo granaio di campagna e addirittura giocava con i gatti dell'aia. In verità tutti gli animali stavano bene, ciascuno aveva delimitato i propri spazi, ma la reciproca cortesia aveva fatto sì che nessuno fosse interdetto da qualche spazio e che tutti quindi fossero ben accetti. Frequenti erano i momenti di convivialità, nei quali l'ospitalità sincera e genuina faceva sì che ciascuno si sentisse a casa propria. Persino il riccio riceveva ed era ricevuto con un'eleganza inaspettata a dispetto del suo carattere un po' scontroso. Nessuno di loro pensava a un’utopistica nuova società, soprattutto da quando i più istruiti avevano letto del fallimentare risultato di una riforma sperimentata in una fattoria non molto lontana: il loro scopo era quello di avere una propria domesticità. D'estate all'ombra del vecchio faggio, d'inverno al calore del camino il topolino era felice. Anche il fatto che gli abitanti della casa lo chiamassero "topolino" la dice lunga! Quel lessico familiare alludeva al fatto che il topolino, appunto, fosse diventato domestico!
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Paola Nistri e Tommmaso Petrosino
Non così bene se la passava un suo cugino che, attratto dalla vita mondana, aveva abbandonato la campagna e si era trasferito in città, dove però, da un po' di tempo, non viveva bene. Per certi aspetti era molto simile a degli umani che vedeva nascostamente avventurarsi alla sera a caccia fra i cassonetti! Insomma si stava abbrutendo. Qualcuno lo chiamava Topaccio! Venne quindi ospitato dal Topolino: non fu facile all'inizio per lui "reinselvatichirsi", gli mancò addirittura quello da cui era fuggito. Era in piena crisi di identità: urbanus o villicus? Il tempo passava e superato a fatica un nero periodo di depressione, il topo riacquisì le proprie abitudini e ricominciò a riassaporare il suo essere topo: le sue abitudini tornarono ad essere quelle di un tempo, le sue battute di caccia, le antiche battute di caccia! Il cugino di campagna e gli amici campagnoli lo avevano accolto, la casa del cugino era man mano diventata la sua, aveva imparato nuovamente a vivere in campagna. Si era nuovamente addomesticato... o inselvatichito... o aveva semplicemente imparato a far convivere il topolino selvatico e domestico che erano in lui. Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico, p. 36
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Le lieu est un autre
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di Riccardo Soave e Maddalena Venturini
“Je est un autre” Arthur Rimbaud
La cura dell’abitare il mondo è prima di tutto una questione linguistica. Il linguaggio è il primo luogo da curare, un luogo di esistenza intersoggettiva: volessimo risalire all’unità fondamentale che precede la costruzione, saremmo portati a individuarla in un io-tu, in due persone che, parlando, si prendono cura di uno spazio. L’interazione risponde al bisogno di trascendere il nostro isolamento, di trovare un riparo: è una questione di sopravvivenza. Per quanto aperta all’avvenire e alle possibilità dell’azione, essa finisce con il definire i confini del paesaggio, limitandolo. Tuttavia il linguaggio non va inteso solamente in termini di referenza, o più in generale in termini di denotazione, poiché capita spesso di veicolare contenuti di pensiero che non coincidono con un determinato elemento linguistico. Secondo Jakobson, nel nostro linguaggio è la funzione poetica che, a differenza di quella referenziale, si indirizza verso un’area imprecisa, transizionale, tra l’io e il nonio, sganciandosi così dalla dimensione di referenza. La funzione poetica nel nostro atto di Parole, ossia nel nostro stesso atto linguistico, è ciò che ci permette di allargare i confini della casa, spingendoci nella selva. L’atto di Parole è per sua stessa natura destinato a un’infinità di significati e di equivoci: come scrive Merleau-Ponty, “ogni sforzo di chiudere la mano sul pensiero che abita le parole ci lascia tra le dita solo un po’ di materia verbale”.1 Tentare di adeguare un mio pensiero al linguaggio comporta la frustrazione di non riconoscermi nel già detto, perciò è la stessa asimmetria tra l’intenzione di significare e il piano di referenza a suggerire una via di fuga dall’enunciato, un’esigenza di andare oltre la denotazione delle parole. Accade, durante l’atto di Parole, di percepire non solo ciò che diciamo come altro, ma anche di sentire che la nostra soggettività sia altrove. Rimbaud, con la formula “je est un autre”2, suggerisce che il soggetto è oggetto entro certi confini, oltre i quali non è più oggetto, ma altro. Anche la sessuazione partecipa all’alterità del soggetto: Irigaray
individua nel linguaggio un processo di esclusione della donna da ciò che fa ordine linguistico, dal discorso di lui, dalla competenza simbolica. Il linguaggio è dunque fonte di alienazione, è un discorso dell’uomo per l’uomo, riguarda la stessa costruzione dell’identità femminile, che è sempre definita a partire dal paradigma maschile. Ecco perché nei suoi scritti Irigaray non va mai verso una rappresentazione identitaria della femminilità, ma cerca anzi di distaccarsi dall’elemento referenziale dell’esser donna. Con Irigaray, Deleuze condivide questo rifiuto dell’ordine referenziale. Egli parla di un divenire-donna come di un divenire altro rispetto all’identità: mentre l’essere-uomo è un essere neutro, di maggioranza, in cui siamo presi senza che ci riguardi singolarmente, il divenire-donna esce da questa categoria e si dirige verso un’esistenza minoritaria, di ricerca e di patimento. L’esempio più riuscito è contenuto ne La logica del senso, in cui Deleuze riprende Alice nel Paese delle Meraviglie: egli mostra come la storia colga Alice in un divenire-altra, mentre segue vie di fuga che la allontanano dagli altri bambini, diventando infinitamente grande e infinitamente piccola. Una via di fuga ci allontana dal rischio di ridurre il nostro abitare ad uno schema ordinato, concluso, di pura referenza, invitandoci al movimento verso la selva, verso spazi dove si può perdere la continuità di segno tra noi e il paesaggio. È proprio nello spaesamento, scrive La Cecla, che “il soggetto si trova spiazzato tra una aspettativa di familiarità con un luogo, di adesione affettiva o di comprensione con esso ed un comando contrario che lo stesso luogo gli dà”3. Perdersi significa, in questo modo, attraversare una soglia per riterritorializzarsi su altri spazi. La relazione si schiude nel movimento di deterritorializzazione: i vuoti che mi separano dagli altri sono condizione necessaria per il riconoscimento tra libertà incarnate.
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Riccardo Soave e Maddalena Venturini
Così, le protagoniste di Fair Play, Mari e Jonna, riescono a realizzare questo movimento: Abitavano ai capi opposti di un grande caseggiato vicino al porto e tra i loro atelier c’era la soffitta, un’impersonale terra di nessuno, di alti corridoi con porte di legno chiuse a chiave su entrambi i lati. A Mari piaceva passare per la soffitta, che inseriva una parentesi di necessaria neutralità tra i rispettivi territori. Poteva fermarsi nell’attraversarla ad ascoltare la pioggia sul tetto di lamiera, a guardare la città che accendeva le sue luci, o anche solo attardarsi per il gusto di farlo. Nessuna delle due chiedeva all’altra: “Sei riuscita a lavorare oggi?”. Magari venti o trent’anni prima l’avrebbero fatto, ma col tempo avevano imparato a lasciar perdere. Ci sono spazi vuoti che vanno rispettati, periodi spesso lunghi in cui non si arriva a vedere l’insieme del disegno o a trovare le parole giuste e si ha bisogno di essere lasciati in pace.4
Chiudiamo gli occhi: lo scricchiolio dei piedi nudi sul pavimento di legno, i passi che si attardano ad attraversare la soffitta. Stupiti ci rendiamo conto: una sola chiave ruotare nella toppa, una sola maniglia di porta abbassarsi, per ora, non il toc toc diretto aldilà che ci saremmo aspettati. Solo un rumore, quello della pioggia sulla lamiera: la città entra nella stanza dalla finestra. La soffitta che separa gli atelier delle due artiste è senza dubbio un luogo racchiuso, intimo, domestico, uno spazio che non solo rappresenta il luogo di rispetto dell’alterità, ma che anche costruisce fisicamente quella distanza e quella tensione necessarie al movimento. La finestra della soffitta apre al lieve spaesamento di un suono familiare e tuttavia esterno, accogliendolo all’interno della stanza per renderlo parte del gesto di attraversare. In questo modo possiamo dire che la dimensione spaziale della relazione di Mari e Jonna è coinvolta in una tensione inclusiva: si appropriano di un luogo a partire da un elemento che marca la sua condizione di alterità, per accoglierlo nello spazio domestico che con esso si dilata e si modifica. Non un luogo è strettamente selvatico, né strettamente domestico: entrambi gli habitat invitano l’uno alla presenza dell’altro in un concatenamento, in un’intermittenza di periodi. Non si erano accorte che la nebbia se n’era andata: la fitta nebbia estiva si era spostata verso nord per dar noia agli abitanti dell’arcipelago interno, all’improvviso il mare era azzurro e sgombro e si ritrovarono parecchio al largo verso l’Estonia. Jonna accese il motore. Tornarono all’isola da tutt’altra direzione e non sembrava per niente la stessa.5 Il punto di partenza e quello di arrivo coincidono, la distanza che le due donne percorrono si annulla, ma i paesaggi sono diversi. I rapporti si invertono durante il viaggio: il dolore del ritorno non è dovuto alla lontananza del luogo caro, ma alla difficoltà nell’accogliere i cambiamenti che questo luogo subisce, alla difficoltà di interiorizzare il movimento dell’isola da un aspetto domestico verso uno alieno. La casa, la città e l’isola costituiscono, in modo diverso, in termini di scala e di modalità, l’arcipelago dei luoghi familiari delle due donne: quando si tratta di navigare tra le isole, sanno come muoversi, anche se le coordinate ed i percorsi possono cambiare.
“È meglio che rifiuti”, ripeté Jonna. Mari dichiarò: “No. Credo che si possa fare.” “Davvero? Lo pensi davvero?” “Sì. Ho bisogno di molto tempo per tutte queste illustrazioni. Devono venire bene.” “Ma voglio dire”, disse Jonna del tutto sconcertata “Le illustrazioni...” “Appunto. Devono venire bene e ci vuole tempo. Forse non hai capito quanto sono importanti per me.” “Certo che l’ho capito!” sbottò Jonna, e si lanciò in una lunga accalorata disquisizione sull’importanza delle illustrazioni, il lavoro coscienzioso, la concentrazione, la necessità di non essere disturbati per arrivare ad un buon risultato. Mari non la stava molto a sentire, un pensiero azzardato stava prendendo forma nella sua mente: la possibilità di una perfetta solitudine in pace e aspettativa, quasi una specie di gioco che ci si può permettere quando si è nello stato di grazia dell’amore.6
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Un ulteriore momento del racconto sposta la traiettoria dal porto di Helsinki a Parigi, verso cui Jonna è proiettata, in un movimento di fuga che la porta a deterritorializzare il suo arcipelago. Mari da subito capisce che la distanza che le separerà non sarà meno significativa della soffitta per la costruzione della loro casa. I concetti di selvatico e di domestico non sono riducibili ad esperienze slegate dai luoghi in cui nascono: è abitando lo spazio che si amplia il confine tra l’uno e l’altro, in un continuo percorso di sperimentazione. Cosa significa, poi, sperimentare uno spazio in termini di selvatico e di domestico? Limitiamo il campo e pensiamo che questo spazio sia il tratto di autostrada che porta da Parigi a Marsiglia, come nel caso del viaggio atemporale condotto da Julio Cortázar e Carol Dunlop. Cosa significa abitare un’autostrada? Arrivato in cima al sentiero, il profumo di un arbusto pieno di fiori bianchi fu come una voce che mi diceva: “Vedi, questo non è più l’odore dell’autostrada, qui si entra in un altro mondo”. Però non si trattava di entrare, ma di uscire, e questo era allo stesso tempo il segno e la tentazione.
Si tratta di una spedizione sperimentale che non porta con sé nostalgia: ogni luogo, ogni oggetto, ogni persona coinvolta nel viaggio è legata al lessico della casa, un lessico esclusivo che il Lupo e l’Orsetta sono costretti ad introdurre al lettore per essere compresi. Certo, come può il Drago, il camioncino Volkswagen a bordo del quale i due viaggiano, dormono, si riparano e scrivono, non essere domestico? E come possono, d’altra parte, non esserlo quelle aree di sosta, immerse nella selva, dove gli Esploratori ed il loro Drago trovano sollievo dal viaggio e riparo dal sole?
Sappi, pallido e amabile lettore, senza per questo soccombere all’invidia che ciò provocherebbe nei deboli, che ogni uomo e ogni donna che voglia vivere davvero la propria vita invece di accontentarsi di vederla passare, corre di continuo il rischio di perderla, per ragioni che non appartengono necessariamente alla famiglia dei pericoli del corpo, e che i temerari protagonisti di questo libro cominciavano appena a riemergere, nel periodo a cui facciamo riferimento, da un periodo di vortici nefasti e di altri avvenimenti a causa dei quali erano stati sul punto di abbandonare le rispettive umanità.7
I due protagonisti fuggono da una casa che non sentono più propria e, addentrandosi nella selvaautostrada, riconquistano con l’esplorazione la loro dimensione umana. È ancora una volta il movimento ad essere centrale nel ritorno al domestico: un movimento che procede da e verso il selvatico e secondo continui assestamenti. L’Alterità non è una fuga nell’Immaginario, ma ricerca e produzione di Reale. Come nel caso dell’atto di Parole, il ricorso alla funzione poetica ci pone su un piano altro rispetto all’oggettività del linguaggio, ma restituisce allo stesso tempo un senso di reale che sentivamo non appartenerci. Così, attraversare luoghi che disattendono la nostra aspettativa di familiarità non è un pericolo per la costruzione della casa: le premesse si costruiscono a partire dal selvatico, nel quale non si smette mai di ritornare. Occorre essere consci dell’Alterità per abitare il linguaggio, le relazioni e i luoghi.8
1_ M. Merleau-Ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio, in Id., Segni, cit., p. 123 2_ A. Rimbaud, Rimbaud a Georges Izambard (1871) in Opere, Mondadori, Milano 1984, p. 450. 3_ F. La Cecla, Perdersi, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 89. 4_ Tove Jansson, Fair play, Iperborea, Milano 2017, p. 13. 5_ Tove Jansson, Fair play, Iperborea, Milano 2017, p. 67. 6_ Tove Jansson, Fair play, Iperborea, Milano 2017, p. 131. 7_ Julio Cortázar, Carol Dunlop, Gli autonauti della cosmostrada, Einaudi, Torino 2012, p. 25. 8_ Julio Cortázar, Carol Dunlop, Gli autonauti della cosmostrada, Einaudi, Torino 2012, p. 134. Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico p. 29, fotografia .16
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atlante di immagini e poesie
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dall' articolo Tokyo, Io che espatrio, e i verdi totem, p. 43
di Lavinia Siardi fotografie analogiche
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dall'articolo DomaÄ?nost in divjina, p. 19
di GaĹĄper MedveĹĄek
illustrazione articolo omonimo, Photoshop CS6
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dall' articolo Sono come te, albero, pp. 46 - 49
di Guglielmo Cherchi P.W. Elverum, Lost Wisdom
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dall'articolo Domus, Dynamis: Una declinazione motoria del domestico, , pp. 4 - 6
di Alma Mileto fotografia digitale
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dall'articolo Becoming Femme-Maison: Home-Traveling With Louise Bourgeois Et Al., pp. 40 - 42
di Jade Penancier
Louise Bourgeois, Femme maison
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dall' articolo Sono come te, albero, pp. 46 - 49
di Guglielmo Cherchi
P.W. Elverum, fotografie reperibili su sito web
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dall'articolo L’oggetto domestico come immagine-cristallo, Sulla natura morta in Krzysztof Zanussi, pp. 14 - 15
di Giulia Antonia Zanon
Krzysztof Zanussi, Struktura Kryształu, fotogrammi tratti dal film
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dall'articolo Domus, Dynamis: Una declinazione motoria del domestico, , pp. 4 - 6
di Alma Mileto
Agnès Varda, JR, Visage, Villages, fotogrammi del film
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dall'articolo Becoming Femme-Maison: Home-Traveling With Louise Bourgeois Et Al., pp. 40 - 42
di Jade Penancier
Francesca Woodman, Untitled, fotografia
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dall'articolo Le lieu est un autre, pp. 22 - 25
di Riccardo Soave e Maddalena Venturini
Julio Cortázar, Carol Dunlop, Gli astronauti della cosmostrada, foto incluse nel libro
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Ci sarĂ tanto legno in casa
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di Claudia Melyndra
ci sarà tanto legno in casa / il tuo cuore i tuoi occhi gli archi / per suonare - la notte / è un verso / che ci lascia spazio - / un nuovo tempo / un movimento
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Good girl
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di Lisa Lee Benjamin
Sit, paw, lay down. Good girl—don’t bite. / I am innocent until I believe or agree. Wild until I obey. / A fork and knife lay inward on my finished plate. Perpendicular to where I sit—civilized consequence. Don’t run with scissors or stay out after dark, she said. Good girl. / As I sit, ivy grows up my trees and my houses. Four walls of imagination. / Wild outside—wild inside. / Inside. Yes, inside. / A pile of twisted organs, brambles, branches, brains—ideas. Dead. Clipped like parakeet wings. Self imposed. Packaged peas for planting. Don’t bark. Don’t dare bud til spring. She whispers. / I would rather grow wild by highways like dry weeds—catch on fire, fly into charcoal, slip naked through grass, howl through night—than sit here at the table. / Roxy Grand
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奥 oku
alone in an indoor space during the complete length of the shot 36
di Jorge Suárez-Quiñones Rivas
cyclic, lonely day-to-day parcours. always inside, always from the inside. opening doors once and once again. the same door, the same corridor, the same feeling of her feet on the wood, on the cold wood, only warmed along the day by the soft contact of her soles. she has been opening those doors for centuries, the same gestures have been repeated and rehearsed ever since. a movement from the inside to the outside. a never-ending loop of repeated gestures: all limits may be erased by the overlapping of one-day full range of movements. eternal gestures repeated more than one billion times: the undervalued power of banality is on her side. *
motion and emotion, relative position. alone: no one to hear her crying, no one to hear her singing. maybe that’s why she cries, maybe that’s why she sings. alone, but still worrying not to make any noise. her moving triggers a fluent flux of images and sounds whose energy, once it has started, becomes unstoppable. the air moves as she trespasses the corridor. the air moves from the corridor to the nearby room. her passing through the corridor creates an eternal, never stoppable flow of air, renewing the atmosphere of each room. *
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Jorge SuĂĄrez-QuiĂąones Rivas
has she still got a name? can she be named in a single way? the balance of her body together with the weight of the tray; the balance of the tray’s cups together with her fingers. we see her from the back. shelter or prison. we can just see her hind-head. the position is always relative, the space for transformation is always open, however... *
rushing, rocking, strolling, rambling, tramping, roaming, wayfaring, tottering, wandering, marching, trudging, touring, meandering, sauntering, mooching, drifting, ambling, hurrying... she has tried all the range of velocities on those floors. willingly not lifting the soles of her feet from the floor, like a ghost in the ancient theatre. going through corridors over and over, opening doors that communicate with parallel universes; entering eternity through circles, in which the boundary between any couple of separated things is easily erased. no words but actions. her shadow obediently following her. no psychology but presence. becoming architecture, melting architecture as she moves. sinusoidal waves from the impact of her sole on the floor, like a ghost in the ancient theatre. *
when was the last time she heard her name pronounced, dark at the end of the perspective? trying not to make any noise while eating, but still some enchanted sips of non-rehearsed freshness sort out. crossing edges, traversing thresholds. the power of an everlasting repetition defying the laws of time and space. always involving no interpretation. just being. *
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Illustrazione per l'articolo Le buone abitudini, pp. 20 - 21
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Odnosi
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di Nika Vrabic
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Dietro casa è già autunno
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di Francesco Balsamo
dietro casa è già autunno / dove il cavo delle grida buca il fogliame / e volpe e lepre / rincasano dalla finestra / a scrivere / a tirar su / tutti i mattoni cotti dell’autunno / io ci guadagno un ramo
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Le scale del caffè
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di Giampaolo De Pietro
è salito l’odore del caffè / fatte le scale i loro muri / fino alla sera / a raggiungere la stanza / piccola con letto e libri / la finestra lasciata lì / quasi appena appesa /è – più precisamente – un / oblò a rettangolo, ed è/ com’ era stamani, semichiusa / come uno dei due occhi socchiuso / oltre il letto coi suoi paramenti / e i libri con / tutti quei discorsi in carta / e l’inchiostro forse sciolto, per il tepore / del giorno si saranno accaldati anche / quasi tutti gli altri oggetti, e i termini probabili / per accorgercene dovremo parlare a voce / corta e inspirando quel tuffo fuori-post-o-rario di caffè / poi a piedi scalzi fare un balzo sul letto / fino a distenderci stretti i quattro piedi / addormentandoci / come fosse inverno, coperti sotto il sacco / e l’aria condizionata del sole di quasi mezzo / giorno fa
robida quattro
Becoming Femme-Maison:
Home-Traveling With Louise Bourgeois Et Al
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di Jade Penancier
The writing context of the following article is two-sided: half public and half personal, a hybrid form mixing an attempt at art criticism and a page of travel log. On the one hand, it is a response to an exhibition held at the Monnaie de Paris, “Women House: La maison selon elles" from August 2017 to January 2018. It showcased the work of 39 female artists, reunited by two topics: the domestic and the feminine. On the other hand, it relies on my personal experience of moving abroad three times in less than two years to study, or this strange period of my life that taught me that moving could be both empowering and deeply unsettling. These two different contexts—the Parisian exhibition with thousands of visitors, and my own personal experience of which I am the only spectator—are tightly intertwined. The fixity of artworks helps make sense of travels and changes, and conversely artworks truly unfold when they echo one's emotional moves. To articulate a personal definition of the house, I distinguish two feminine figures I called femme-domus and femmemaison. While the former incarnates the typically feminine experience of alienating domesticity, the other embodies an emancipating inner home-feeling. They draw the distinction between feeling domesticated and feeling at home, between foyer and maison. This text gathers a few shareable thoughts I had about being uprooted, rerouted, and déroutée1, in parallel with some highlights from some of the 20th-century greatest women artists. "La maison selon moi", or my small stone added to the great edifice of the understanding of our domestic experience.
Femme domus
"Women House", La Monnaie de Paris, the 29th of December, 2017. The rooms are full, it is pouring rain outside; I am wondering what is the proportion of people coming for art, and the one coming inside to find a temporary shelter. In the first room, puzzled gazes stop on the wall where Judy Chicago and Miriam Schapiro's Womanhouse (1972) is projected. The artistic documentary about their feminist in-house performances introduces the first section of the exhibit. Entitled “Desperate Housewives”, it focuses on artists who denounce the domestic sphere as the modern model of women’s confinement, explicitly echoing the 1970s American feminist activism. Most of them resonate with Second Wave feminism, initiated with Betty Friedan’s Feminine Mystique (1963), a collection of American housewives’ personal confessions about their daily routines, socially sold as the utmost version of the female American dream. Friedan's book is about a specific era of post-war North-America, when every component of the white nuclear family stays in its assigned place: men are thrown in the capitalist job market, while wives usually stay at home to make sure the household gets fed, playing a key role in the correct functioning of the great consumerist machine. From the first section, I especially retain the works of two famous photographers (Birgit Jürgenssen and Cindy Sherman), a marble sculpture by Louise Bourgeois, and a video performance by Martha Rosler. They represent the many possible ways to translate an almost ineffable feeling of unconscious seclusion, the generalized white feminine malaise, in Friedan's word the “problem that has no name”. Like other artists of the "Desperate Housewives" rooms, the artists above mentioned picture housewives as the preys of a system urging them to embrace entrapping existences ruled by domestic tasks. Though they look comfortably settled in their expensive sofas, invisible hands maintain them in their passivity. Their own houses are places of self-imposed, unconscious domestication, fancy properties silencing their owners' hysterias. I look at the unexpressive models in some pieces of Cindy Sherman’s Film Stills series, more especially Untitled #21 and Untitled #50. Her models become parts of the furniture, like human still lifes, natures mortes encore vivantes. The one sitting on her sofa in Untitled #50 is hardly human, closer to the living doll than the real woman. Their gazes get emptier as their houses get fuller of things they do not need. Most of the housewives ironically depicted in these works repeat the exact same daily tasks: opening cans of frustrated hopes, putting away groceries in the cupboards like they would put away their desires and ambitions. While their husbands keep their brains busy with post-war neo-liberalism, theirs are filled with neo-bovarism. Louise Bourgeois's sculpture Femme-maison (1994) also presents the house as a space of entrapment, or at least restricting woman's agency. The marble shows a sleeping, unexpressive woman miniature whose body lies horizontally across her small house. She is clearly too big for it; her limbs overflowing the walls like a giant Alice provoke a feeling of discomfort. Birgit Jürgenssen illustrates the female “domestic destiny” more explicitly than Bourgeois in her diptych Housewives’ Kitchen Apron (1975) using metonymies. The kitchen specifically embodies the room of modern women’s social taming. In the photograph, her model's apron is a wearable cooker, ironically mimicking a female figure: a trapezoidal shape for her hips, two round stoves for her breasts, an oven for her vagina.
domestico
The visual parody of domesticity makes me imagine her long days spent enclosed in the kitchen: her hands take the smell of bleach she hears the vibrating noise of the micro-waves more often than conversations she listens to the sound of running water in the sink more often than she listens to music her life is as circular as a plate In her puzzling short Semiotics of the kitchen (1975), Martha Rosler ironically denounces this absurd mise en cuisine of the housewife’s existence. Cooking becomes a codified language, a process during which endless repetition is made a rule: chopping, cooking, baking, eating, washing, putting away, starting all over again a few hours later. Reiteration, loss of sense, making without accomplishment, seclusion in a stainless steel prison. Rosler's performance recalls later feature films illustrating the vicious circle of the fully-equipped kitchen. It is Julianne Moore in The Hours (2002), crying over an umpteenth failed birthday cake. In a famous female movie director's worst case scenario, the fear of an enslaving domestic future pushes young girls to end their lives with their heads in the oven.2
“(...) a room, like many thousands, with a window looking across people’s hats and vans and motor-cars to other windows.” (Virginia Woolf, A Room of One’s Own, 1929)
Femme maison
For the domestic lifestyle has long been the alwaysalready designated feminine life-track, I guess that many women artists tried to escape from their domestic destinies.3 Having this in mind or not, after graduating I got ready to leave my country of origin for two years, willingly submitting myself to total cultural estrangement while I had never lived abroad before. Finally, as I come back to my mother's home after one year spent on the other side of the world in December, I keep on moving around as much as I can, sleeping in nearly ten different places in less than one month: on the floor of a dear friend’s student room in the Parisian banlieue; in an eight-years-old girl's chaotic princess bedroom in the middle of Pigalle; in a wooden flat of the dimension of my dreams in Dinard, the city by the sea which inspired Alfred Hitchcock; in my friend S.'s flat I was sitting while she was on vacation. Uninterested in finding my own place, at the moment, I develop a fascination for my loved ones' houses; I fully live my fantasy for ephemeral domestic rituals in each of these temporary homes, carefully establishing small habits only to destroy them few days after. Yet, I surprise myself with how I feel at the idea of leaving S.'s. She has a perfectly simple flat, humbly furnished with taste. Its most prominent piece of furniture is the library, and its most charming architectural elements are the large windows with a view on the Parisian courtyard. When I stay there, I have the feeling I eventually found a
space at my size, a place that is not domestic. It becomes a place where I can think, live, and (maybe) create; it is a room of my own though I do not own it; it does not ask me anything. Before leaving the place, I draw Louise Bourgeois’s first Femme-maison (1947) on my thank-you note. This personal digression brings me back to Bourgeois’s work. I really love the first femme-maison's house, for it is stable but neither immobile nor dull, naturally standing in equilibrium on her waist. She carries her home upon herself like a snail, une femme-escargot. The house has her eyes closed and her mouth wide open as if she was peacefully yawning, while the woman is waving at the viewer with confidence. Whenever she goes, she will find a new home because her house is her own self. As she can move anywhere, the femme-maison's outside houses are plural, her home exponential. The second most important element of the drawing is the woman's two strong legs, showing she can still move, run, and dance though her house is heavy. She embodies the home of my own, this one inner or actual house that would support me to go out. Indeed, the ideal of the femme-maison is open on the outside world. She tells us that the most important element in the room of one's own is not the price of the furniture: it is the window to peek out on the outer wild world; it is its door open to travelling and home-seeking. If the productive domesticity seems to kill existence itself, the image I have of the femme-maison encourages creativity, the mysterious process Virginia Woolf is so concerned about in her essay. I imagine that prolific women artists and writers had the courage to refuse to be femme-domii if they did not want so; many of them even may have had strong inner femmes-maisons.4
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Jade Penancier
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Jade Penancier
Conclusion: femme-araignée
Other alternatives to female domesticity are the ones allowing the irruption of the unknown and of wildness in the personal space; a mix of familiarity and unexpected variables becoming a motor of poetry. Two works exhibited in “Women House” illustrate the surrealist wildness of both actual and inner home. The first one is Louise Bourgeois’s Maman (1995), her monumental spider displayed at the end of the exhibition, whose copy I saw for the first time at the MoMA three months earlier. Though she is ten meters high, Bourgeois's spider is not scary. The steel sculpture is a mix of maternal heaviness and monstrous affection; protecting and fragile, slender and imposing. Indeed, her presence impresses but also conveys a deep feeling of instability: she is ready to go build her cobweb somewhere else at any time. By dedicating this late career piece to her own mother, Bourgeois questions the boundary between the well known maternal figure—the womb as every human's original "house"—and the wild otherness of the arachnid. The second work is a black and white photograph from Francesca Woodman's series Space2, Providence, Rhode Island (1976). Indeed, Woodman's work cannot be omitted when we talk about the poetic encounter between houses, wildness, and moving feminine bodies. Many of her photographs rely on a tension between wild and domestic, or on the integration of disrupting elements like wild animals (such as snakes or swans) in indoor environments. While most of them were taken in the same dilapidated house, each of them convey something as unique and uncanny as dreams, always putting me in the most enchanting state of bewilderment. For example, in Space2, Providence, Rhode Island, the model integrated is all but domesticated; as she becomes part of the walls through a process of camouflage, the halfhidden body confuses itself with a pattern full of wild flowers, as if her personal space was: a domestic space to go wild; to shoot the angel in the house with poetry; to cohabit with one's spider.
1_ Here I only try to make sense of what it means to feel uprooted as a white, privileged, and educated European baby girl. 2_ The specific reference is ommitted to avoid risks of spoiling. 3_ Here I am not claiming that every girl should travel instead of staying at home to feel more fulfilled; I simply underline the importance of any woman's choice, I maintain the importance to recall girls they are totally free to travel the world if they wish to do so, in response to recent waves of right-wing "alter-feminism" in France. This "alter-feminist" is composed of women and men arguing for a re-valorization/reinforcement of the housewife's role in modern society, along with the criticism of fundamental women's rights such as birth control. See for instance: https://www.mediapart.fr/journal/ france/120218/entre-alterfeminisme-et-antifeminisme-la-droite-tatonne?onglet=full 4_ I especially think of the French novelist, journalist, publicist, and mime artists Colette, who managed to become an important literary figure even before the first wave of feminism. Indeed, Colette is also famous to have lived in more than fifty different apartments in Paris. During periods of illness or old age when she was not able to move, she would continue to write, gazing at the window. Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico, pp. 27 - 28 - 29, fotografie .9, .14, .18
domestico
Tokyo, io che espatrio, e i verdi totem
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di Lavinia Siardi
Espatriare significa ricostruire. Reimparare a riconoscersi in una terra aliena. Per farlo, sono necessari dei punti di riferimento.
Sono cresciuta a Udine, a pochi metri dai campi di periferia. Un giardino sul retro, una bicicletta in garage e le montagne a vista. Vivo a Tokyo, e le Alpi sono state sostituite dalla Tokyo Tower, che brilla sempre, incessantemente. Espatriare significa ricostruire. Reimparare a riconoscersi in una terra aliena. Per farlo, sono necessari dei punti di riferimento. Dopo le mie prime settimane di pellegrinaggi urbani disorientati, mi sono imbattuta in Tokyo Totem, magistrale guida alla ricostruzione del domestico curata da Christian Fruneaux e Edwin Gardner. L’idea è semplice: per poter navigare la metropoli, è fondamentale prima costruire un dialogo con essa. E per farlo, è necessario individuare dei totem , punti di riferimento personali che andranno a costruire una geografia alternativa, probabilmente impenetrabile a terzi ma di vitale importanza per l’individuo che li ha identificati. Vivo a Tokyo da ormai due anni. Non sono nemmeno lontanamente vicina all’averla addomesticata, ma ho imparato a renderla un po’ più familiare. Per farlo, forse controintuitivamente, sono andata alla ricerca del selvatico nel mio vicinato. Lo stesso selvatico dei cespugli di more e degli orti trasandati che mi intimidiva durante le mie prime esplorazioni in solitaria da bambina, è diventato essenziale per ricordarmi chi sono e da dove vengo. Ho realizzato una selezione di scatti in analogico di un pomeriggio di vagabondaggi sul lato est del fiume Sumida, che scorre placido a pochi metri del mio balcone al tredicesimo piano di una torre residenziale della Tokyo orientale.
Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico, pp. 26, fotografie .1, .2, .3, .4, .5
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Hortus conclusus
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di Janja Šušnjar
Pripovedovati želim o zaprtem vrtu kot o paradoksu udomačene / ukročene krajine odsotnega horizonta, ki temelji na močni vertikalni povezavi neba in zemlje. Ta pojav dvojnosti - najprej brezmejnost, univerzalnost in brezčasje neba, in na drugi strani polnost zaznav, občutek končnosti, varnosti in individualnosti, zavedanje prostora in časa na zemlji, prisotnost neskončnega (divjega) in tistega čemur poznamo konec (domačega) - je združen istočasno na kraju, ki mu pravimo zaprti vrt. Zaprti vrt je tako krajina brez horizonta, kot soba brez stropa.1 Na enem prostoru se tako nahajata krajinska razsežnost in zaznavna mera domačnosti. Vrt je tako odprt kot zaprt, tako notranji kot zunanji - iluzija raja in resničnost vsakdanjika postaneta združena - nasprotja se prepletajo.
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Zaprti vrtovi so bili namenjeni kontemplaciji, meditaciji in pogovoru. S svojo notranjo lepoto, redom, tišino in mirom so vrtovi odmika nudili obvarovanje pred neznanim zunanjim svetom in obenem napajali dušo in telo. Zid, ki obdaja vrt ne zaznamuje namreč samo pogleda na horizont in obdajajoči svet, temveč nas prav tako varuje pred hrupom, vetrom, premočnim soncem in smradom. Znotraj zidov nas obkrožajo samo prijetne barve in vonj cvetlic, iskrene teksture nas vabijo, da se jih dotaknemo. Tišina, ki jo zvok vode in šelestenje listov le ojačata, je balzam za ušesa. V zaprtem vrtu je naše zaznavanje bolj čuječe in prefinjeno. Odsotnost kakršnega koli programa dopušča svobodo, ki jo v svoji osnovi nudi vrt. Prav programska praznina vrta se ponuja kot platno na katerega lahko vsak od nas projicira svojo domišljijo. Vrt omogoča svobodo med pravili in zahtevami mest, postavlja le okvirje, ki jih zapolni vsak obiskovalec s svojo prisotnostjo. Prav tako je odsotno napredovanje časa, oziroma je njegov obstoj nerelevanten. Kronologija preteklosti, sedanjosti in prihodnosti je postavljena na stran. Prepletata se večnost in trenutek. Linerani čas se umakne krožnemu. Namesto dogajanja, ki bi določalo tok časa, se ponavlja ciklično in neustavljivo menjavanje dneva in noči, zime, pomladi, poletja in jeseni. Statični prostor materializira mirujoči čas, čas in prostor sta eno. /‘glej sin moj, tu se čas spremeni v prostor’ Wagner: Parsifal / Ujeta podoba večnosti se je od srednjega veka dalje pogosto pojavljala kot motiv v slikarstvu, literaturi, miniaturah, tapiserijah. Upodabljanje zaprtega vrta je sledilo ideji o predstavi raja kot vrta, ki je bila blizu različnim civilizacijam. Vrt večne pomladi je afirmacija za krepostno življenje na zemlji. Skozi ustvarjanje idealov in v določenem časovnem kontekstu se je podoba raja urbanizirala, vrt pa je postal enklava sredi mestnega obzidja na kar je v veliki meri vplival obstoj arhetipov: Perzijske Pairidaeze, klasične Arkadije in Bibličnega Raja. V samem upodabljanju je v ospredju nastopal kult nedolžnosti Marije v obzidanem vrtu, obdane s simboli in rastlinami, subjekti in objekti, ki krepijo metaforično sporočilnost: vodnjak, obdan z rožnimi gredicami, posejanimi s simbolnimi cvetlicami: Vijolice predstavljajo skromnost, bela lilija in iris nedolžnost, vrtnica brez trnov je bila srednjeveški simbol Device Marije. Prav tako se na slikah pojavljajo sadna drevesa (češnje, jabolke), šmarnice, gozdne jagode, potonike.2 Srednjeveški ideal in ‘arhetip’ zaprtega vrta se je do danes najmočneje obdržal v ohranjenih samostanskih vrtovih, njegova parafraza pa se še naprej pojavlja tudi v bolj urbanih kontekstih in zasebnih rezidencah. V času ko mesta postajajo vse bolj strjena in urbanistični cilji temeljijo na zgoščevanju urbanega prostora je zaprti vrt zaželjena menjava krajine, namig prostora, kjer mu grozi njegovo umanjkanje. Kompaktna prisotnost zaprtega vrta ima zato toliko večji učinek v mestih, ki izgubljajo prostore svobode. Majhne, skrbno negovane zunanje sobe lahko na pravih mestih predstavljajo urbane akupunkure, ki imajo katalitičen vpliv na razvoj okolice. Sodobni zaprti vrt lahko prav tako predstavlja stik med dvema različnima krajinama, prisotnost prehoda, ki omogoča tako fizično kot vizualno in mentalno tranzicijo. Na drugi strani pa umeščanje zaprtega vrta v brezkončno krajino (četudi urbano) predstavlja drug fenomen, ki ga bolj kot praznina definira omejenost in zaprtost. Neznane dimenzije tu zanika intimnost prostora, ki ga omejujejo zidovi. Zaprti vrt ostaja udomačena krajina, varna, neobremenjena, uprta v nebo, neskončno in večno. 1_ Rob Aben, Saskia de Wit,The Enclosed Garden: History and Development of the Hortus Conclusus and Its Reintroduction Into the Present-day Urban Landscape, 010 Publishers, 1999 2_ Lucia Impelluso, Nature and Its Symbols, Getty Publications, 2004
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Janja Šušnjar
robida quattro
Sono come te, albero
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di Guglielmo Cherchi
“La questione non è ciò che osservate, ma ciò che vedete” Henry David Thoreau
Il confine tra domestico e selvatico è frutto della nostra percezione, talvolta del desiderio di smarcarci da qualcosa che ci sembra estraneo se non addirittura ostile; ma c’è anche chi questo confine non lo percepisce o si è abituato a valicarlo con la frequenza di un frontaliere. È il caso di Phil Elverum, cantautore statunitense classe ’78 nativo di Anacortes, Stato di Washington, che ha eletto la sua terra natia non a semplice fonte di ispirazione ma a vera e propria interlocutrice.
No inside, no out
La prima volta che mi imbattei nel personaggio di Phil Elverum correva l’anno 2008, accadde grazie a un articolo di una rivista musicale nel quale compariva una sua foto, circa a tutta pagina, che lo vedeva ritratto ai piedi di una enorme sequoia, al riparo fra il massiccio tronco e una propaggine di corteccia. Quando di lì a poco cominciai ad ascoltare la sua musica quella foto mi apparve doppiamente emblematica. Scheletrica, profonda e stratificata, comunque viscerale, la materia sonora plasmata da Phil nell’arco di più di vent’anni ha attraversato mutamenti talvolta considerevoli restando sempre riconoscibile e fedele, in perfetta armonia – e disarmonia – con la natura che le ha dato i natali e l’ha vista crescere. Una natura che è tutto, che non inizia fuori dall’uscio di casa ma è nel fuoco stesso che la riscalda, sconfinata – nel senso più letterale del termine – e divina. Elverum, che di secondo nome fa Whitman, sembra quindi un moderno trascendentalista, e non solo per meriti anagrafici, evidentemente; continua a scavare nel solco tracciato da Emerson e Thoreau e diventa un tutt’uno col fango, le foglie, l’acqua, il vento e il fuoco. Tra il 2002 e il 2003 passa anche l’inverno in una capanna in Norvegia, quasi in completo isolamento, sperimentando uno stile di vita non poco distante proprio dal Thoreau di Walden. Ma il Nostro, pure quando non è in giro per il mondo a fare concerti, non conduce un’esistenza troppo dissimile; ciò l’ha portato a sviluppare non soltanto un approccio musicale distintivo ma anche l’artigianalità con cui produce e pubblica la sua arte: una predilezione per la stampa in vinile, per la compilazione casalinga di splendide raccolte fotografiche analogiche e per la gestione personale di un piccolo shop su internet, insomma una generale adesione all’etica del do it yourself, figlia del movimento punk rock di fine anni ’70.
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Guglielmo Cherchi
Mount E(e)rie
Il rapporto fra selvatico e domestico assume un ruolo di crescente rilevanza nel corso della carriera cantautoriale di Elverum, sembra procedere per fasi, contraddistinte, fra l’altro, da un cambio di monicker. Gli esordi firmati The Microphones sono caotici, di una selvaticità che li rende estremamente disomogenei sul piano musicale: Window (Yoyo, 2000) è uno sgangherato percorso sensoriale su ventitré tappe – alcune di brevissima durata – che alternano, sul piano tematico, immersioni oceaniche e schitarrate sulle sponde di un lago, sonni/sogni in mezzo alla natura e risvegli romantici; It Was Hot, We Stayed In The Water (K, 2000) mette un po’ da parte i rumorismi percussivi di Window e assume una forma più classicamente folk/rock, selvatica ma non troppo, tant’è che fra gli spaccati di vita che racconta ci sono i flash di una stufa che viene accesa (Turn on the stove / In the little tiny rooms that our friend calls a home / My head fills with heat from the knife in your hand to mine) e di un telefono a barattolo (Pulling a string in tin-can telephones / Through what does it run? / And who is hearing? / Do you keep holding on? / The can up against your ear / Imagine all the terrain / Between your ear and the other ear!), simbolo di un’infanzia passata in case sugli alberi. Passa poco tempo e lo spirito confusionario lascia spazio a primi accenni di solennità su The Glow Pt. 2 (K, 2001), la linea fra domestico e selvatico si fa più indistinta e il racconto diaristico di Phil comincia a intrecciare casa e natura senza soluzione di continuità; lo fa smussando angoli, con un afflato pop che non si concretizza mai in modo compiuto e che è il segreto che tiene viva la tensione in un’opera sorprendentemente profonda: Phil racconta l’amore e la solitudine con episodi che si snodano tra paesaggi sconfinati, camerette e nottate passate a zonzo per le vie di una cittadina assediata da una natura selvaggia e incombente (I went out last night to forget that /I went out and stared it down / But the moon stared back at me / And in its light I saw my two feet on the ground). Dopo una serie di altre pubblicazioni interlocutorie divise fra album veri e propri, EP e raccolte, arriva – al culmine di un tour in giro per il mondo – il soggiorno invernale in Norvegia, vero e proprio spartiacque, artefice di un prima e di un poi. Phil aggiunge una “e” al suo cognome (che all’anagrafe risulta Elvrum e che con la “e” supplementare diventa quello di una cittadina norvegese, appunto), tiene un diario e scrive canzoni – pubblicate solo successivamente in forma di libro e disco, Dawn (P.W. Elverum & Sun, 2008) – ma soprattutto matura l’idea di porre fine al cammino esplorato finora per cominciarne uno nuovo, sotto un altro nome. L’esperienza The Microphones termina così con un disco che lo stesso Phil definirà come un non luogo: Mount Eerie (K, 2003), il cui titolo deriva da “Erie”, il nome del monte che si staglia a sud di Anacortes e di un piccolo lago a breve distanza. L’aggiunta di una “e” è determinante, e trasforma una montagna terrena in una montagna sovrannaturale e misteriosa. Mount Eerie è una discesa che attraversa la morte per poi risalire, scalare la montagna e diventare una cosa sola con l’universo (You have a bright disguise: Mountains and light / But universe, I see your face in blackest night / And you see mine / Oh universe, I see your face looks just like mine / We are open wide). Il discorso della montagna
Dalla cima del Mount Eerie domestico e selvatico appaiono come un’unica entità, intrecciati, sono l’esistenza in quanto tale; a Phil comincia a stare stretto perfino il lessico cui deve ricorrere per tentare di esprimere ciò che ha dentro in relazione al mondo esterno, perché per lui, semplicemente, non esistono più barriere fra l’uno e l’altro. Nella biografia reperibile sul suo sito pone la questione in questi termini:
I don’t like the word “nature” because it does a quick job of drawing a mental curtain between “us” and some other realm, separate from where we live and what we are made of, perpetuating the damaging illusion that we humans can exist in some exemption, leading to irresponsible thinking and acting. Fuck nature. I believe there is only one big THIS.
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L’incomprensione che può derivare dall’utilizzo di termini “comuni” per definire qualcosa che definito non è può frustrare, ma Phil non si ferma. No Flashlight - Songs Of The Fulfilled Night (P.W. Elverum & Sun, 2005) è un lavoro ambizioso, variegato, e gode di una produzione più curata rispetto al passato lo-fi targato Microphones; le percussioni, ora incredibilmente eterogenee, costituiscono l’ossatura di un corpo musicale ricco di sfumature che forse le parole non saranno mai in grado di chiarificare del tutto (Knowing no one will undestand these songs, I try to sing them cleaner); l’assenza di confini tra noi e ciò che ci circonda è spiegata e riassunta in tre versi (Because the pupil of my eye is a hole / There’s no inside and there’s no out / The world is in me and I am in the world) e la concezione di selvatico e domestico nel dualismo di No Flashlight 1 (I can only love those dark hills because I live in the day / I can only see the mountain because I live in town / I only love night because I have only smelled it / Actually living in the night means no talking). Concezione che trova una forma ancor più compiuta nei successivi Wind’s Poem (P.W. Elverum & Sun, 2009) e Clear Moon (P.W. Elverum & Sun, 2012). Nel primo è il vento “in persona” a parlare a Phil e per bocca di Phil, il vento come forza distruttrice e ri-creatrice, che comunica con noi sotto forma di fruscio di alberi e picchiando sulle finestre di casa (Come destroyer, pound on my window / Scream through my house, / Tear the old land from itself / Come wind, in the mouth of the sky, speak for me / Show the hill’s insides / Show me the river roaring thorugh the house); il vento che scrive canzoni furiose echeggianti perfino il black metal in Wind’s Dark Poem e sussurra versi al nostro orecchio mentre dormiamo nell’ossuta Wind Speaks, crea un senso di incontro/scontro. Nel secondo, Clear Moon, i testi e le atmosfere si fanno meno impetuose in favore di una dimensione contemplativa, a tratti sconsolata e disillusa, figlia proprio dell’incomprensione in cui Elverum si sente imprigionato; non ancora un grido d’aiuto quanto piuttosto una ricerca di anime simili alla sua (Can you find a wildness in your body / And walk through the stone after work, holding it high?); il disco è quello che meglio condensa questa visione trascendente, la luna brillante che ancora mancava nell’odissea di Mount Eerie, che illumina i riff di House Shape e ne evidenza le singole falde. In waves of weather, the house lies Piled up wood with me inside I’m piled up dust, alive, dreaming Or walking whirlpool of water Awaken and indifferent Looking at cars go by and then get forgotten Only a sound of a waterfall, breathing out in one long exhale In my ears for a moment, then another wave of rain blows over, Greying out the light The lawn through the window seems undiscovered “Crow” you said, “Crow”
La poetica di Elverum sembra aver raggiunto il culmine della maturità e dopo le buone prove di Ocean Roar (P.W. Elverum & Sun, 2012) e Sauna (P.W. Elverum & Sun, 2015) sembra cristallizzarsi, casa sua è ormai anche un po’ casa nostra. Mai avremmo pensato di poter andare ancora più a fondo nell’animo di questo ragazzo ormai alle soglie dei quaranta, ma la vita è imprevedibile e nel luglio del 2016, mascherata da morte, si porta via Geneviève, la moglie di Phil, appena un anno dopo che quest’ultima aveva dato alla luce la loro bambina. Il racconto della malattia e della scomparsa di Geneviève (anch’ella cantautrice sotto gli pseudonimi Woelv e Ô PAON) diventa un disco talmente intimo e sincero da mettere soggezione. Insieme a Phil e alla figlioletta entriamo in stanze improvvisamente vuote e silenziose, sentiamo il rumore di una famiglia che si spezza tra gesti domestici che assumono, d’un tratto, un nuovo significato: il ménage quotidiano scopre lentamente i vuoti (Your toothbrush and your trash / And the fly buzzying around the room / Could that possibly be you too? / I let it go out the window / It does not feel good) e dissemina di prove durissime l’elaborazione del lutto (Today our daughter asked me if mama swims / I told her, “ Yes, she does and that’s probably all she does now.” / What was you is now borne across waves / Evaporating); l’esistenza terrena di Geneviève, però, continua nel corpo di un corvo naturale/sovrannaturale che segue papà e figlia durante le loro passeggiate nel bosco e fa loro visita nei sogni (Sweet kid, I heard you murmur in your sleep / “Crow”, you said, “Crow” / And I asked, “Are you dreaming about a crow?” / And there she was). Nella weltenschauung di Phil Elverum domestico e selvatico sono soltanto parole, quindi, sono vincoli di pensiero prima ancora che fisici, argini che non impediscono all’universo di fare di noi ciò che vuole e di cui, per questo, dovremmo spogliarci tutti.
Tracklist
The Microphones 1. Sand (By Eric’s Trip) :: da It Was Hot, We Stayed In The Water 2. Between Your Ear And The Other Ear :: da It Was Hot, We Stayed In The Water 3. The Moon :: da The Glow Pt. 2 4. Universe :: da Mount Eerie Mount Eerie 5. I Know No One :: da No Flashlight 6. No Inside, No Out :: da No Flashlight 7. No Flashlight :: da No Flashlight 8. Summons :: da Wind’s Poem 9. Wind’s Dark Poem :: da Wind’s Poem 10. Wind Speaks :: da Wind’s Poem 11. Through The Trees Pt. 2 :: da Clear Moon 12. House Shape :: da Clear Moon 13. Toothbrush/Trash :: da A Crow Looked At Me 14. Swims :: da A Crow Looked At Me 15. Crow :: da A Crow Looked At Me
Le immagini dell'articolo si trovano nell'apparato iconografico pp. 27 - 28 - 29, fotografie .7, .11, .15, .17
domestico
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Guglielmo Cherchi
robida quattro
Vijolični cevtovi
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di Katarina Gomboc
Vidiš tisto oguljeno drevo za hišo? Zgodbo ima. Poleti iz njega poženejo vijolični cvetovi, vse poletje padajo in kdor se usede na kakšnega od njih, mu na hlačah ali krilu ostanejo vijolične packe. Okoli cvetov brenčijo čebele, včasih nerodno zapleše kakšen čmrlj, včasih pa mimo prinese sršena in takrat se razbežimo.
To se potem nekoliko spremeni, uravnovesi. Ne, s tistega časa pa nimam nobenih spominov. Takrat sem imela dve, morda tri leta. Saj veš, kako je svoje starše spraševati o preteklosti, zato nisem nikoli preveč spraševala. Mama mi je nekoč povedala, da se je trudila in mi pripovedovala, da bi ohranila spomin. Na njeno sestro, mojo teto. Ampak v resnici se ne spomnim ničesar. Tetino podobo ohranjam v mislih le zaradi fotografij. Videla sem nekaj posnetkov, takrat je moj oče veliko snemal, ampak tistih prostorov ne znam povezati s temi danes.
iz svoje družine vzela Ljubljano za svojo, jo vzljubila. Bila sem še majhna, ko smo začeli živeti v Ljubljani in hitro sem se privadila nanjo. Še danes imam rada večja mesta. To zdaj ni pomembno, vrniva se k tej hiši. Zanimivo pri vsem tem je, da so bila to leta gospodarske krize, ko je padla odločitev o nakupu. Jaz sem o tem vedela bolj malo, kaj lahko o tem pove šestnajstletnica? Nisem si mogla niti predstavljati, o kakšnih vrtoglavih vsotah govorimo, poleg tega sem vedela, kako marljivi so moji starši. Kakor koli, čez leta, ko smo z gosti sedeli zadaj za hišo ob mizi, pogrnjeni z belim prtom, sem slišala mamo reči, da se v življenju tako kot v literarni zgodovini menjujejo obdobja realizma in romantike, razuma in čustev. Nakup hiše je bil v njunem obdobju romantike. Odločitev ni bila povsem razumska, vendar to ne pomeni, da je bila slaba ... Če je pri meni tudi tako? Najbrž je, življenje z obdobji neslutene romantike in nato streznitvenega realizma ... Čeprav se obdobja med seboj tudi pomešajo, nato pogledaš nazaj in vidiš, da si bil včasih vse to: zelo ravnodušen, zelo srečen, preizkušan in močan obenem. Ne vem ... Spij kavo, da se ti ne bo ohladila. Tudi skodelica, iz katere piješ, je že bila tu. Kje sem že ostala ... Aha. Torej, kupili smo to hišo. Najprej sem videla samo fotografije, nisem si znala predstavljati, na fotografijah je bilo staro masivno pohištvo iz temnega lesa. Ni mi bilo preveč všeč. Morala bi poiskati tiste fotografije, da bi videla razliko. Moja sestra, ki je prišla sem med prvimi, mi je postregla z zelo natančnimi opisi, zato sem si v svojih mislih oblikovala nekoliko pretirano podobo nenavadne in arhitekturno zapletene zgradbe. Rekla je, da je veliko stopničk, da se strop ponekod nenavadno zniža. Neki čuden brlog sem si narisala v mislih.
Potem je minilo kar nekaj let, preden sem spet prišla sem, trinajst, štirinajst. Če so mi kaj govorili o tej hiši? Nekaj so, omenjali so teto, njeno smrt, nato zapuščeno hišo. Vsakič ko so govorili o tem, je bilo čutiti otožnost, celo skrb, kaj se dogaja, kaj se še bo zgodilo z njo. Kdo jo bo kupil, v čigave roke bo prišla. Toda nikoli me sem niso peljali, v mojih mislih je obstajala le neka neznana posest v neznanem kraju. Vsaj jaz se ne spominjam, da bi me. In mene spomin redko prevara. Potem smo se začeli pogovarjati o tem, da bi imeli hišo. V Ljubljani smo se ustalili v stanovanju in življenje v večjem mestu je začelo pritiskati na vsakdanje življenje. Vedno sem imela občutek, da sem samo jaz
Prvih nekajkrat nisem šla zraven. Ne vem, v tistih časih sem se držala nekoliko zase. V Ljubljani sem imela svojo družbo. Prvič sem šla enkrat maja, tega pa ne bom pozabila. Čeprav se prihoda v hišo, prvih spominov ali prve noči ne spominjam, se spominjam doline reke Branice, po kateri smo se takrat pripeljali. To pa me je čisto osupnilo. Bilo je pozno popoldne in sonce je zahajalo – saj veš, kako je, ko to dolino obarva pozno rdeče sonce? Zdi se, kot da si vstopil v zgodovinski roman. In nad vasjo grad, utrdba, ki bi jo kje drugje hodili gledat z vsega sveta – tu pa sameva, ščiti to braniško dolino v molčečnosti. Najbrž sem si v glavi že napletala zgodbe o njem.
Ne, to ni vse. Drevo je posebno, ker je malo manjkalo, da bi ga posekali. Razgled pod njim je osupljiv in oguljene veje drevesa so pogled nanj nekoliko motile. Saj res, takrat za vijolične cvetove še nismo vedeli, zgodnja pomlad je bila in bilo je takšno, kot je sedaj, oguljeno in na videz neprijazno. Moj oče je že držal žago na njegovem deblu in si zadnji trenutek premislil. Čez čas je hvaležno pognalo listje in vijolične cvetove. Pravzaprav se ne spominjam dobro, kako je bilo. To zgodbo sem slišala od drugih. Takrat, ko se je to zgodilo? Takrat sem imela ... šestnajst let. Nisem bila več majhna deklica, ampak začetki so v mojih spominih nekoliko zabrisani. Druge skrbi sem imela, saj veš, kakšni so ljudje v teh letih – notranji svet doživljajo tako močno, da se zunanjega niti ne zavedajo dobro.
domestico
Hiša pa je bila ... kako bi rekla, negostoljubna. Obraščena s temno zelenim bršljanom. Prašna, stara. Polna predmetov nekdanjih lastnikov, težkega porcelana, predvsem pa nedostopnih komod, zaklenjenih z zarjavelimi ključi. Prejšnja lastnika sta bila zbiralca starin, v eni sobi je bil lavabo, pod njim stara nočna posoda, česa takega nisem prej nikoli videla. Na oknih so bile ljubke, skvačkane zavese. Zbirka porumenelih italijanskih revij o kvačkanju je pričala o tem, da jih je teta sama kvačkala. Ko smo odprli okno v eni izmed zadnjih sob, je iz bršljana hušknila sova. Odletela je nad gozdom, ki se odpira pod hišo. Hišo je bilo treba najprej udomačiti, v letih zapuščenosti je pridobila nekaj zloveščega, kar pa ni moglo prikriti njene ljubeznivosti, zlasti ne lepote. Če so tetini otroci kaj prihajali? So, včasih, redko, še eno hišo imajo na slovenski strani meje, ta ... ta pa jim je povzročala bolečino. Še bolj pa moji mami. Sem dolga leta sploh ni hotela. Potem jo je vzljubila. Kot bi spoznala, da jo mora povrniti v življenje. Seveda, v vasi so bile tudi zgodbe. Da se je neka ženska na stopnicah smrtno ponesrečila. Da bomo mogli odgnati duhove, ki so se naselili v teh letih samevanja, so predlagali drugi. Najbrž misliš, da sem jo takoj vzljubila? Niti ne. Kmalu po prihodu so se začela dela po hiši, nekaj starega, toda vrednega pohištva so odpeljali. Brskanje po predmetih, ki so ostali, odpiranje predalov, pranje posteljnega perila. Vse je bilo treba vrniti k življenju. Torej ... zato ker sem potrebovala dlje časa. Ker so me zanimale druge stvari. In zato ker je bilo s tem povezano tudi to, da sem se začela oddaljevati od svoje družine. Bila sem vezana na Ljubljano, tu sem imela opravke in prijatelje. Na hišo sem gledala kot na prostor, kamor jih lahko pripeljem in nas starši pustijo pri miru. Seveda sem to kdaj naredila, saj mi ni žal, toda ... to ni bilo mesto za zabavo, vendar tega nisem takoj spoznala. Šele čez čas sem tudi sama začela prihajati sem zaradi tišine in narave. Tistih ljudi ni bilo več sem. Kaj sem mislila z oddaljevanjem od družine? Torej ... nisem hotela z njimi vsak konec tedna. Raje sem ostajala doma. To ni bilo preveč dobro za moje srce, ampak pustiva to. Saj tudi ne morem reči, da je bil odnos s hišo vedno le lep. Tudi s hišo ustvariš odnos, veš? Še zdaleč ni bil. Včasih sem jo sovražila, bila jezna, jo krivila za kakšno razprtijo, ki je vzniknila. Včasih sem jo krivila za osamljenost. Včasih se mi je zdela neprijazna in negostoljubna zaradi debelih sten in ker smo v njej ob večerih zmrzovali. Ker je dosti terjala. Ne samo časa in vloženega truda, tudi čustev in predanosti. Morda sem jo najprej cenila le zato, ker sem vedela, da je kaj ceniti. V njenem zaledju sem študirala za maturo. Takrat sem veliko brala Kosovela in mislim, da mi ga je zveneči Kras pomagal bolje doumeti. In še, prej sem bila samo mestno dekle, vezana na mestni vrvež, ljubke kavarne, knjižnice, fakulteto, mestne avtobuse. To je bil moj vsakdan. Tukaj pa sem začela bolj spoštovati naravo. Kaj spoštovati, ljubiti. Kot da bi v meni vzbudila nov način čutenja. Kdaj sem zares vzljubila ta kraj? Ko sem začela prihajati sem v dvoje. Sama, a v dvoje. Takrat se je toliko spremenilo. Večerni hlad sva preganjala z ... Pustiva to. Preveč utrujaš staro gospo. Saj ti bom kdaj drugič povedala do konca.
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Katarina Gomboc
robida quattro
Interno notte
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di Valentina Rodella
Ogni luogo, vicino a te, diventa domestico. Mi addormento con gli orecchini ancora addosso e la mano appoggiata alla tua guancia. Sogno una colazione lussuosa a bordo dell’Orient Express, guardo il succo d’arancia tremare nel bicchiere di cristallo e i piccoli paesi francesi passare veloci fuori dal finestrino del treno. Sopra il tavolino, un libro rosso con la foto di una montagna stampata in bianco e nero sulla copertina : un libro che vorrei davvero leggere ma che al mio risveglio non ricorderò e non ritroverò più. Le mie dita si muovono tra i tuoi fili di barba morbida e in un attimo mi ritrovo da un’altra parte, in un altro sogno, in cui sto accarezzando il muschio umido cresciuto sulla corteccia di un albero che mi indica il Nord. Mi sono persa ma ancora una volta mi riporti a casa, sopra le lenzuola e sotto un piumino che dividiamo male. Esco dal bosco tenendo in mano un bastone per aiutarmi nei tratti in salita. Le nuvole basse hanno la forma degli animali che nascosti in silenzio tra le piante sono sfuggevoli come nuvole, anche loro aspettano il sole per sparire. Ecco una radura, dei piccoli fiori azzurri mi fanno pensare ai tuoi occhi e come i tuoi occhi mi calmano e mi incantano. Dividiamo i sogni e il cuscino, mi sveglio, ti guardo, mi addormento di nuovo. Sono in Marocco e dei bambini scelgono una tartaruga fra quelle che un venditore tiene dentro a delle cassette di plastica colorate. Nella cassetta rossa quelle grandi, nella bianca le medie e in quella nera le più piccole. Piccolissime, proprio come i palmi delle mani di quei bambini che le sorreggono. Piccolissime proprio come me tra le tue braccia calde e il tuo respiro tranquillo. In ogni posto del mondo in cui mi trovo, se ti penso, sentirò aria di casa, di quartiere, di paese, e mai di città. Potrei vedere Perugia dall’alto, scendere e salire tutte le scalinate colorate di Seoul, stare per dei giorni interi in mezzo alla steppa in Kazakistan solo per vedere quel cratere artificiale che continua a bruciare dagli anni ‘70 e non smette mai, girare per Ibiza a maggio, per Palinuro in ottobre. Potrei viaggiare e camminare fino al monastero ortodosso di Meteora costruito sopra una falesia, ma ogni posto mi riporterebbe al VIA (senza passare di prigione, come nel Monopoli ma al contrario). Ogni luogo, vicino a te, diventa domestico.
domestico
Timira. Romanzo meticcio
Intervista agli autori Wu Ming 2 ed Antar Mohamed
L’esaustiva quarta di copertina di Timira. Romanzo meticcio, pubblicato da Einaudi nel 2012, presenta al lettore tutti gli attori principali del romanzo: Isabella, la Somalia e l’Italia, l’Africa e l’Europa, la Storia, l’intreccio di storie, il sentirsi a casa e il meticciato. La vita di Isabella scorre in parallelo a quella del rapporto tra Italia e Somalia, scandagliato con cura e trattato da un punto di vista sempre duplice e ambivalente. Meticcia è la doppia appartenenza di Isabella, ma anche la letteratura, perché in essa convergono diverse forme e registri di scrittura. Meticcia è la ricerca di una multifocalità di sguardi su una storia di cui si parla poco, quella del passato coloniale italiano, così come lo è la co-autorialità riflessiva che ha dato vita al romanzo. La scrittura a quattro mani -più due, quelle di Isabella- vede la collaborazione di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, figlio della protagonista. Con Timira la scrittura collettiva, da sempre alla base dell’attività del collettivo Wu Ming, si fa carico di alcune delle tematiche più care ai subaltern studies e agli studi di genere: il passato coloniale, la scissione identitaria, le dinamiche che si vengono a instaurare tra colonizzatore e colonizzato, italiano e somalo, uomo e donna. Assieme a Point Lenana1 , firmato Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, Timira costituisce un dittico nel panorama letteratura postcoloniale italiana. Wu Ming 2, quella di Timira non è stata per te la prima esperienza di scrittura collettiva, ma probabilmente la prima con qualcuno con esperienze di vita, età e gusti spesso diversi dai tuoi. Questa diversità ha comportato un ostacolo o, piuttosto, contribuito ad un arricchimento di visioni? Quale delle due forze è prevalsa?
Wu Ming 2 Sulle prime, nonostante l’abitudine alla scrittura collettiva, ha prevalso il timore. Pensavo che la diversità ci avrebbe ostacolati e ho proposto a Isabella il ruolo della testimone, mentre io avrei scritto il libro rielaborando le nostre chiacchierate. Per nostra fortuna, lei si è opposta a questa soluzione: il romanzo con il racconto della sua vita voleva scriverlo anche lei. Così abbiamo iniziato a lavorare davvero insieme, purtroppo per un periodo breve, perché di lì a qualche mese Isabella è morta, lasciandomi con la curiosità di sapere cos’avremmo potuto realizzare.
“C'è sempre un piccolo colonialista ad occupare in pianta stabile i crani occidentali” 2. In che modo ti sei rapportato ad esso durante l'esperienza di scrittura di Timira?
Wu Ming 2 Ho cercato anzitutto di riconoscerlo, nel mio stesso modo di pensare e agire. Poi di stanarlo, e infine di combatterlo ad ogni pagina. L’amicizia con Isabella mi ha molto aiutato, in questo, perché quel colonialista è il prodotto, l’intersezione di più caratteristiche della mia persona. Ho un piccolo colonialista nel cervello perché sono “un bianco”, mentre Isabella aveva la pelle scura. Allo stesso tempo, ce l’ho perché sono maschio, mentre Isabella si è scontrata per tutta la vita con gli appetiti, gli stereotipi e la violenza degli uomini che ha incontrato. Infine, lui si nutre anche del mio essere adulto, abile, produttivo, “nel fiore degli anni”, mentre Isabella, quando l’ho conosciuta aveva già più di ottant’anni ed era costretta a muoversi su una sedia a rotelle.
L’esperienza coloniale italiana, prevalentemente declinata al maschile, ha contribuito a forgiare l’identità del razzismo in Italia, spesso legato a doppi standard di genere. Ritieni che con un protagonista di sesso maschile si sarebbe potuta testimoniare una storia di vita di impatto altrettanto forte? Wu Ming 2 Credo che un personaggio come quello di Isabella/Timira sia interessante perché funziona come un filtro, che scompone il razzismo italiano nelle sue componenti: la colonia, il Ventennio, la violenza di genere, il patriarcato, la Patria, il vittimismo, il culto della giovinezza… Non credo che saremmo riusciti in un’analisi narrativa altrettanto profonda utilizzando un protagonista maschile. Antar, ti eri rivolto a Wu Ming 2 con sedici fogli A4 che prevalentemente riguardavano la storia di tuo zio Giorgio Marincola, unico partigiano italosomalo di cui si ha memoria, e ti sei ritrovato co-autore di un libro di 370 pagine che parla di tua mamma Isabella e della sua storia. Avresti mai pensato che dalla tua cartelletta rossa potesse aver origine un lavoro così complesso?
Antar Mohamed Non avrei mai pensato di scrivere Timira: avrebbero dovuto scriverlo Giovanni (Wu Ming 2, ndr.) ed Isabella, e penso che per lei quella potesse anche essere un’occasione per mettere ordine a quella che era stata una vita travagliata. Ed inoltre mai avrei pensato che in una sola notte una persona che per diciannove anni mi aveva completamente ribaltato la vita decidesse di andarsene, così, senza permessi né autorizzazioni, solo perché il suo cuore un po' vissuto decidesse di fermarsi, tutto così, in una notte sola. Sì, Isabella aveva una discreta età, ma tutto sommato stava bene, amava ancora giocare, vedere film, leggere, bere del vino, e mai avrei pensato che il 30 Marzo 2010 decidesse di andarsene, lasciandoci così. Passati i funerali e il successivo rito, chiamo Giovanni e chiedo se lui è d’accordo a continuare a scrivere il libro assieme. Lui ci pensa, e dopo alcuni giorni mi dice di sì. Ed io così riesco, scrivendo Timira, anche ad elaborare il mio lutto.
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di Vittoria Rubini
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robida quattro
Avresti mai pensato che quella di Isabella potesse essere una storia di resistenza tanto forte quanto quella di Giorgio Marincola? Antar Mohamed Non so se la storia di Isabella sia più o meno forte di quella di Giorgio. Certamente è più lunga. Inoltre per me è difficile stabilire in genere un ordine di grandezza o di importanza delle storie umane, ritengo che siano tutte storie importanti, anche quelle che ai più possono sembrare storie di vita poco significative. Chi stabilisce l'importanza o meno di una storia? Prima della guerra in Somalia, Isabella poteva pensare di provenire da due Paesi: l'Italia in quanto italiana, almeno sulla carta, e la Somalia, paese dove è nata e terra di sua madre Ashkirò, Paese nel quale poi dal 1961 aveva deciso di risiedere. Quando poi, a causa della guerra civile somala, esplosa nel dicembre 1990, dovette cercar rifugio in Italia, si trovò davanti un Paese differente rispetto a quello a lei conosciuto negli anni ’60. Spesso il suo sentirsi italiana qui veniva messo in discussione: “Mi scusi signora, lei da dove viene? Dal Marocco? Oppure è per caso brasiliana?” ed Isabella puntualmente: “No, sono un’italiana dalla pelle scura.” L'Italia degli anni ‘90 cominciava sempre di più ad essere un'Italia “razziale”, in cui essere italiani equivaleva ad essere di pelle “bianca”. Questo mettere in discussione il suo essere/sentirsi italiana le faceva sorgere una domanda che poi poneva anche a me: “Ma se io per loro non sono italiana, perché di pelle scura, allora mio fratello Giorgio per quale Paese ha combattuto ed è morto? Quindi neanche lui è italiano!”. Un piccolo aneddoto: a settembre del 2017, in una biblioteca comunale, mi viene rubato il portafoglio. Vado in caserma a denunciare l'accaduto e l'ufficiale mi chiede che nazionalità io abbia. Io rispondo che sono italiano. Una volta uscito dall'ufficio, leggo il verbale: dopo il mio nome vi è scritto “sedicente” italiano. Non nego di essere rimasto sorpreso, ed ho subito pensato a mio zio Giorgio Marincola. Il suo cadavere in Val di Fiemme è stato per oltre sessant’anni un cadavere inspiegabile: solo nel 2008 -grazie al libro Razza Partigiana3 di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio- finalmente è emerso che quel cadavere non era di un medico sudafricano né afroamericano, ma di un italosomalo di nome Giorgio Marincola. Quindi ai tempi dell'incontro con Giovanni, avvenuto nel 2003, vi era anche il nostro tentativo di mettere radici, dire e dirci che non siamo soltanto dei profughi, ma anche parenti di un partigiano morto per la libertà e la giustizia di questo Paese. Per noi questo mantra era un modo di tirarci su, di vedere che sopra gli affanni causati dai problemi materiali che attraversavamo, sopra le nostre teste, vi era il cielo, e che eravamo ancora in grado di ammirarlo. Quella di Timira è stata la tua prima esperienza di scrittura di un romanzo? Se sì, è stato difficile superare le problematiche legate alla scrittura -ad esempio la ricerca di un ritmo comune- o gli ostacoli più grandi sono stati di altro tipo? Antar Mohamed Antar Mohamed: Sì, per me è stata la prima esperienza. La voglia di raccontare questa storia ha preso il sopravvento sulle difficoltà. Giovanni ed io capivamo che raccontare la storia di Isabella -e anche in parte quella di Giorgio- era qualcosa sia utile, che necessario: in un Paese come l’Italia il passato, ed in particolare il passato coloniale, viene raccontato e studiato poco, sia a scuola che in Università, come se la colonizzazione fosse una faccenda che riguarda la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, il Portogallo, ma non l’Italia. Invece io ritengo che questo aspetto, soprattutto oggi, possa farci comprendere molto di ciò che sta accadendo nel mondo. Ad esempio per molti africani subsahariani esiste un “mito dell'Occidente”: questo non ha forse a che fare con un’opera di colonizzazione della mente? Ngugi Wa Thiong'o, scrittore e intellettuale keniota, invita, a tale proposito, a decolonizzare la mente4.
Vittoria Rubini
domestico
Bologna, 7 settembre 2011
Cara Isabella, sono passati molti mesi dall'ultima volta che ci siamo visti. Li conto sulle dita e sono già diciotto, un anno e mezzo pieno di rivStyle65olta e di quello che si usa chiamare la Storia, per poi convincersi che sia un pezzo di carta, o di marmo, e non di vita. […] Di tutto questo mi piacerebbe parlarti, sedere a quel tavolo sempre ingombro di carte, bollette, giornali, matite, tazze e bicchieri. Accendere il registratore e srotolare il pomeriggio, con la scusa di un romanzo da scrivere insieme. (Wu Ming 2, A. Mohamed, op. cit., p. 9)
Le lettere intermittenti, interludi presenti in diversi momenti del romanzo, contengono riflessioni sui temi cardine affrontati: tra di essi, il rapporto tra il cantastorie Wu Ming 2 e la coppia Antar-Isabella. Si è trattato più di un rapporto di amicizia divenuto narrazione o, piuttosto, di un rapporto tra co-autori poi evolutosi in amicizia?
Wu Ming 2 Credo che abbiamo scritto questo romanzo perché siamo diventati amici, e a un certo punto ci siamo chiesti se quell’amicizia poteva diventare qualcosa che non fosse solo nostro. Un po’ come succede a una coppia quando decide di avere un bambino.
Antar Mohamed Prima è arrivata la conoscenza, poi le cose fatte in comune, i reading Università e negli SPRAR5 fatti insieme a Isabella e Giovanni, poi gli incontri del mercoledì, l'amicizia; solo alla fine, passando attraverso la figura di Giorgio, siamo approdati nel 2012 a Timira. Romanzo meticcio, anche grazie alla vicinanza della persona fantastica che è stata Severino Cesari.6 Édouard Glissant definisce meticcio un individuo nato da un incrocio (dal risultato perlopiù prevedibile) tra i conquistadores e le popolazioni indigene, mentre creolo ciò in cui si manifesta una creazione nuova e imprevedibile. Perché Timira è un romanzo meticcio e non un romanzo creolo?
Wu Ming 2 Perché prima di scriverlo non conoscevamo la terminologia di Glissant, che tutto sommato è abbastanza arbitraria. Si potrebbe fare la stessa distinzione tra “ibrido” e “incrocio”. Nel nostro caso, comunque, la parola meticcio aveva un valore molto preciso. Le leggi coloniali italiane e quelle razziali fasciste parlano di “meticci”, non certo di creoli. I testi degli anni Quaranta, quando Isabella faceva il liceo a Roma, li definiscono come esseri inferiori, un’offesa alla dignità della razza. Per questo, definire “meticcio” il nostro romanzo ibrido era un modo per rivendicare in positivo quella definizione, come quando gli afroamericani, tra di loro, si chiamano “nigger”. È un classico esempio di talking back, dove il colonizzato rinfaccia al colonizzatore le sue stesse parole, usandole però con un senso, o una valenza, differente.
Antar Mohamed Ritengo che alle spalle del creolo in Glissant ci sia un passato di schiavitù, mentre alla base di Timira c’è il passato coloniale, in particolare quello italiano. Tra le fonti di ispirazione di Timira c’è Can the subaltern speak? di Spivak7: la storia del colonizzato è la stessa se a raccontarla è il colonizzatore? Il colonialismo italiano è stato davvero buono, rispetto a quello degli altri Paesi? È giusto, quando si parla del passato coloniale italiano, dire “italiani brava gente”? È possibile colonizzare senza esercitare violenza? Si può fare la guerra senza uccidere? Possono esistere guerre umanitarie? Timira è un romanzo meticcio per le differenze che segnano le età, le biografie ed i bagagli personali degli autori; è meticcio per il materiale utilizzato, che include foto, documenti, dichiarazioni, testi di autori (penso, ad esempio, alla Medea di Alvaro8), per come il tempo del romanzo va avanti per poi tornare indietro. È meticcio infine il suo provocare sentimenti contrapposti, perché nel suo non essere né nero né bianco non si tratta di un romanzo buonista. È meticcio perché a noi questa parola piace, e perché il mondo lo sarà sempre di più.
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Preludio Lettera intermittente n. 1
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robida quattro
"Chiusi gli occhi, li riaprii e provai a sentirmi a casa, incollando sul paesaggio visioni più familiari. [...] Eppure sapevo che una volta sbarcata non mi sarei certo sentita a casa, per il semplice fatto che quel sentimento non lo avevo mai provato, a meno che «sentirsi a casa» non significhi avere addosso gli occhi dei passanti, come mi accadeva a Roma, o essere presi a curbasciate, come a Casal Bertone, o andare a dormire nei camerini di un teatro. Solo negli ultimi sei anni avevo conosciuto qualcosa di simile a una vera casa [...], ma mi bastava uscire dal portone per diventare straniera. Mi domandai se questo non fosse un vantaggio: la capacità di provare, in ogni situazione, un familiare disagio." 9 : proseguire con la scrittura di Timira dopo la morte di Isabella per voi ha anche significato donarle un luogo in cui lei e la sua storia potessero sentirsi a casa? Antar Mohamed Più che una casa, quello che penso è che possiamo aver regalato a Timira un'idea di immortalità/ eternità. A me sorge una domanda: l’essere resi immortali grazie ad un libro rende i morti felici? Nonostante Timira sia morta, la sua storia è viva grazie a chi la legge, è una storia in grado di commuovere. Penso che in fondo ad ogni lavoro di scrittura ci sia un tentativo, forse anche inconscio, di poter regalare un'illusione di immortalità. In realtà di case Isabella ne ha avute, alcune ottenute con fatica, altre che custodivano frustini coloniali mai trovati, case somale e case dimenticate. Non credo che quello che lei cercasse fosse tanto una casa, quanto delle risposte al suo “tormento”. Per questo pensai che affrontare la stesura del libro assieme a Giovanni potesse essere una sorta di terapia per Isabella. Poi, dopo che lei ha deciso di andarsene, per me il tutto è diventato qualcos’altro. Quando io e Giovanni decidemmo di continuare a lavorarci, avevamo già qualcosa, non molto, ma pur sempre qualcosa. Andando avanti con il lavoro, notavamo però che ci mancava ancora tanto, quindi ci siamo confrontati, abbiamo studiato, ragionato sui passaggi, sui nodi, ovviato ai buchi con creatività e anche molto artigianato, abbiamo cercato di trovare un fil rouge che potesse rendere la storia di Isabella non solo la storia di una donna, ma forse anche una storia “simbolica”. La parola “simbolo” deriva dal greco σύμβολου10, che a sua volta deriva dal verbo ουμβάλλω11, che significa mettere insieme. Volevamo parlare di una storia che mettesse insieme Somalia, Italia, colonialismo, razzismo, genere, cittadinanza, profughismo... Tutto ciò per far comprendere -in primis a noi stessi- quali storie possano esserci dietro ad un profugo, uno straniero, ad un meticcio o presunti tali, cioè quali possono essere i mondi che le tante Timire, oggi e domani, sempre più in movimento, hanno alle loro spalle e/o davanti a sé, ambasciatrici del proprio mondo, gelosamente custodito nei loro cuori. Wu Ming 2 Credo piuttosto che la storia di Isabella, come quella di suo fratello Giorgio, siano una “casa” offerta ai lettori. Un modo per sentirsi meno spaesati nell’Italia di oggi, perché grazie a queste narrazioni, si riesce a intuire l'origine di alcuni fenomeni. Come si è arrivati all’odierna “emergenza profughi”. Cosa c’è dentro il nostro razzismo. Perché non abbiamo ancora una legge decente sulla cittadinanza. E così via. Il 25 aprile abbiamo rappresentato a Nichelino, vicino a Torino, lo spettacolo “Razza Partigiana”, che parla appunto di Giorgio Marincola, il fratello partigiano di Isabella. In sala, c’era un gruppo di ragazzi somali, richiedenti asilo. Nel centro che li ospita, alcuni volontari avevano raccontato loro la storia di Isabella, di Giorgio e della loro famiglia. Penso che anche per loro un libro come “Timira” possa essere una casa, anche se purtroppo non ripara dal freddo.
Siamo tutti profughi, senza fissa dimora nell'intrico del mondo. Respinti alla frontiera da un esercito di parole, cerchiamo una storia dove avere rifugio. (Wu Ming 2, A. Mohamed, op. cit., p. 9)
1_ Wu Ming 1, R. Santachiara, Point Lenana, Torino, Einaudi, 2013 2_ Wu Ming 2, A. Mohamed, Timira. Romanzo meticcio, Torino, Einaudi 2012, p.241 3_ C. Costa, L. Teodonio, Razza partigiana: storia di Giorgio Marincola, Roma, Iacobelli Editore, 2008 4_ N. Wa Thiong’o, Decolonizing the mind: the politics of language in African literature, Portsmouth, Heinemann Educational, 1986 5_ Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati 6_ Gli autori esprimono la loro gratitudine a Severino Cesari anche nei ringraziamenti nelle ultime pagine del romanzo. 7_ G. C. Spivak, Can the subaltern speak?, Basingstoke, Macmillan, 1988 8_ C. Alvaro, La lunga notte di Medea, in M. G. Ciani, (a cura di), Medea. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2004 9_ Wu Ming 2, A. Mohamed, op. cit., p. 186 10_ Sýmbolon, segno 11_ Symbállō
domestico
In un capolavoro del neorealismo, Riso amaro di Giuseppe De Santis, oltre a Silvana Mangano in hot pants compare una strana mondina nera. Il suo nome è Isabella Marincola, ma in Somalia si farà chiamare Timira. Donna appassionata e libera, nata nel 1925 a Mogadiscio, è una figura nascosta e leggendaria, uno scrigno di storie intrecciate, tra Europa e Africa, che questo libro per la prima volta disseppellisce. Timira è un «romanzo meticcio» che mescola memoria, documenti di archivio e invenzione narrativa. Scritto da un cantastorie italiano dal nome cinese, insieme a un'attrice italosomala ottantacinquenne e a un esule somalo con quattro lauree e due cittadinanze. Per interrogare, attraverso l'epopea del passato, un tempo che ci vede naufraghi, sulla sponda di un approdo in fiamme. Questo tempo dove ci salveremo insieme, o non si salverà nessuno. (Wu Ming 2, A. Mohamed, "Timira. Romanzo meticcio", Torino, Einaudi, 2012, quarta di copertina)
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Vittoria Rubini