Cani, gatti, rospi e altre persone

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parole LEGGERE

storie ad alta leggibilitĂ

Cani, gatti, rospi e altre persone Paola Valente


parole LEGGERE storie ad alta leggibilitĂ


Editor: Paola Valente Consulente Scientifica: Raffaela Maggi Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini Progetto grafico e impaginazione: AtosCrea, Raffaella De Luca Copertina: Mauro Aquilanti Ufficio stampa: Francesca Vici

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Paola Valente

CANI, GATTI, ROSPI E ALTRE PERSONE

Illustrazioni di

Chiara Bordoni


Cara lettrice e caro lettore, in questi racconti abbiamo cercato di ricordare come eravamo da bambini, qual era il nostro immaginario, cosa ci piaceva leggere. Per qualche bambino, allora come adesso, leggere è faticoso. La collana parole LEGGERE nasce da una ricerca fatta con alcuni vostri coetanei che hanno delle difficoltà di lettura e che ci hanno dato suggerimenti per rendervi il tutto più scorrevole e piacevole. Per facilitare la comprensione del lessico, è stato strutturato un apposito spazio nel quale troverete semplici ed efficaci spiegazioni di sostantivi , aggettivi , verbi e delle espressioni idiomatiche . Inoltre, potrete utilizzare questo spazio per prendere appunti, scrivere sinonimi, segnare nuovi termini poco conosciuti. Alla fine, sono presenti giochi e attività che stimoleranno la vostra partecipazione e il vostro interesse. Buona lettura!

Raffaela Maggi Consulente Scientifica



TRE GATTI IL SABATO SERA

Non pretendo che mi crediate, ma vi assicuro che sto per raccontarvi la pura verità. Abito in una casetta fra i campi insieme a tre gatti: il Rosso, il Nero e il Grigio: siccome li ho adottati uno alla volta, a distanza di due mesi uno dall’altro, c’è un po’ di confusione nei nomi. Il Rosso è un gatto con il pelo tutto nero, il Nero ha il pelo tutto grigio e il Grigio ha il pelo rosso. Si chiamano così perché il Nero ha profondi occhi neri, il Rosso ha il naso rosso come una fragola e il Grigio all’inizio si chiamava Gigio ma mio padre pretese che gli cambiassi il nome perché si chiama Gigio pure lui.

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prelibati: gustosi

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Come tutti i gatti, essi trascorrono il loro tempo a sonnecchiare, a cacciare invano topi e uccellini, a mendicare del cibo, a strofinarsi contro le mie gambe e a grattare il divano. Come tutti i gatti, sono molto indipendenti, non ubbidiscono ai comandi, anzi, fanno esattamente il contrario di ciò che vorrei. Da qualche tempo avevo notato una cosa che mi faceva riflettere molto. I miei tre gatti sono dormiglioni e schiacciano parecchi pisolini durante la giornata ma la domenica vanno praticamente in coma: si stendono sul tappeto del soggiorno e non si rialzano piĂš fino al giorno dopo, salvo per mangiare e per fare un bisognino. La sera prima spariscono nel nulla e ritornano sfiniti la mattina seguente. Era un mistero e intendevo scoprirlo. Cominciai a fantasticare sulle attivitĂ dei miei felini: avevano forse una fidanzata dal lungo pelo candido oppure trascorrevano la notte del sabato a casa della mia vicina, un’amabile vecchietta che non smetteva mai di offrire loro dei bocconcini prelibati? Partivano per una spedizione punitiva contro i due mastini del contadino che di notte erano costretti nel loro recinto? Salivano sui tetti a guardare la luna miagolando?


Un sabato sera decisi di levarmi la curiosità una volta per tutte e di seguirli di nascosto. Prima di tutto mi vestii di nero: maglia nera, pantaloni neri e mi coprii i capelli con una calza nera. Poi feci finta di andare a letto, mi distesi sotto le coperte e cominciai a ronfare. Forse esagerai anche un po’ ma i miei gatti ci cascarono.

Vennero a controllare sull’uscio della camera. Sentivo il loro respiro e, fra le palpebre socchiuse, vedevo i loro grandi occhi luminosi che mi scrutavano. A un tratto si girarono all’unisono con le code alte e si diressero in cucina. Erano silenziosi come indiani, con quelle zampe felpate che sfioravano appena il pavimento.

all’unisono: nello stesso momento

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Mi alzai dal letto cercando di non fare nessun rumore e sbirciai. Il Rosso si avvicinò allo sportello del frigorifero, si sollevò su due zampe e lo aprì. La luce del frigo illuminò una scena inaspettata. Il Nero afferrò con un artiglio l’involucro del prosciutto e lo tirò per terra. Poi il Grigio prese tre fette di affettato fra i denti.

“Brutti ladruncoli ingrati” pensai. Ma il Grigio non mangiò il prosciutto: lo tenne delicatamente in bocca senza farlo cadere mentre gli altri due, rimesso a posto il cartoccio con un colpo di muso e di coda, richiusero il frigo. La cucina fu di nuovo buia.

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I tre gatti uscirono dalla gattarola che avevo fatto aprire apposta per loro nella porta di ingresso. M’infilai le scarpe nere e uscii anch’io. Alla livida luce della luna, feci appena in tempo a scorgere la coda rossa del Nero sparire sotto a un cespuglio. Mi precipitai fuori dal giardino. Dov’erano andati? Eccoli là, in fila indiana in mezzo al campo: vedevo le loro code e la punta delle orecchie fra l’erba che si apriva e non c’era un filo di vento. Cominciai a seguirli tenendomi abbastanza lontano in modo che non se ne accorgessero. A un tratto però si fermarono tutti e tre. Forse avevano sentito il fruscio dei miei passi. Si appiattirono nell’erba. Rimasi immobile con il cuore che mi batteva in gola. I miei vestiti neri nella notte nera sarebbero bastati per non farmi scoprire? Per fortuna, i tre ripresero il cammino ma questa volta procedevano a zig zag come per ingannare eventuali inseguitori. Un campanile scoccò dodici colpi che rimbombarono nell’oscurità e nella mia povera testa. Che cosa mi era saltato in mente? Era meglio se fossi rimasto nel mio letto.

si appiattirono: si schiacciarono a terra

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Alla fine del campo c’era un fossato pieno d’acqua. I gatti, come ombre eleganti, lo saltarono senza problemi. Io fu costretto a entrarci, mi inzuppai le scarpe e i pantaloni fino al ginocchio. Dopo il fossato il terreno saliva dolcemente formando una collinetta. La luna appariva e spariva tra nubi leggere come garza. La sua luce illuminò un fienile abbandonato. Dal tetto semi crollato spuntavano le travi corrose dal vento. Strisciai letteralmente fino all’ingresso del fienile e la situazione dei miei vestiti peggiorò di molto. Il grande portone era socchiuso e una lama di luce, fuoriuscendo dall’edificio, avvolgeva con un alone glorioso un enorme gatto color sabbia con la coda spezzata, un occhio solo e il collo massiccio intorno al quale spiccava un collarino dorato. Trattenendo il respiro, sollevai la testa quel tanto che bastò per vedere i miei tre gatti consegnare a quel temibile guardiano le fette di prosciutto ed entrare, a un cenno imperioso di quest’ultimo, nel fienile.

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E poi, ecco arrivare altri gatti, una processione di gatti di tutte le razze e di tutti i colori, grassi come botticelle, magri come cordicelle, con il pelo ben allisciato, la coda dritta, lo sguardo sfrontato. Ognuno di loro consegnava un obolo al guardiano: chi dava un topo morto, chi una scatoletta di tonno, chi un pezzo di carne. – Perbacco, sembra che paghino l’ingresso – mormorai. Bagnato com’ero, cominciavo a sentire freddo ma non me ne sarei andato per nessuna ragione: ero troppo curioso di chiarire quel mistero. Quando il gatto color sabbia chiuse il portone, il buio diventò davvero fitto: la luna era completamente coperta dalle nuvole. Poi, dal fienile, si levarono dei suoni e dei miagolii che mi fecero accapponare la pelle. Girai intorno alla costruzione, calpestai i rebbi di un rastrello e il manico mi colpì così forte che non riuscii a trattenere le lacrime. Mi toccai la fronte: un bernoccolo, grosso come una patata, pulsava con intenso dolore. Perché non avevo adottato un cane? La luna riapparve. Respirai profondamente e guardai in alto: sulla parete sopra di me c’era una

rastrello:

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vera del pozzo:

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finestrella che portava alla parte superiore del fienile, là dove in tempo si riponeva il fieno per le vacche. E, appoggiata alla vera di un pozzo, ecco una scala piuttosto malconcia. Quella notte rischiai davvero la pelle per scoprire che cosa facevano i miei tre gatti: presi la scala, la posai contro il fienile e con cautela salii in alto, su su, fino a raggiungere l’apertura. Scavalcai una trave ed eccomi in bilico su un pavimento pieno di fessure, con le assi che scricchiolavano minacciose. Mi affacciai dal soppalco e lo spettacolo che apparve ai miei occhi mi ripagò di tutta quella fatica. Sul pavimento del fienile, spazzato con cura, era stata ricavata una specie di arena circolare bordata di balle di paglia. Al bagliore della luna e di milioni di lucciole che volteggiavano dappertutto, decine di gatti e di gattine stavano danzando. Rialzata da una pila di cassette c’era un’orchestrina: un gatto con un collarino verde fosforescente suonava una batteria fatta con pentole e barattoli di allumino. Un altro, snello e lucido, strimpellava una chitarra facendo stridere le corde con gli artigli. Un terzo gatto musicista, con il pelo riccio, i baffi folti e la pancia ballonzolante, soffiava in un flauto traverso.


Poi entrò una gatta cantante: aveva il pelo lungo, color argento, ed enormi occhi verdi bordati di nero. Iniziò a miagolare con tanto sentimento e tanto brio che tutti i gatti presenti non resistettero e si unirono al coro. Mi tappai le orecchie invano. Ascoltai canzoni pop, rock, metal, rap, dance.

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rattrappito: irrigidito

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I gatti ballarono per gran parte della notte. Ogni tanto qualcuno si ristorava in un piccolo bar che offriva piattini colmi di latte intero. Il Rosso, il Nero e il Grigio si scatenarono fino all’alba. Non si fermarono un attimo. Erano davvero degli ottimi ballerini e nessuna delle gattine presenti rifiutò un loro invito. Roteavano sulla pancia e sulla schiena, saltavano, intrecciavano le code, si sollevavano sulle zampe anteriori, scivolavano. Non avrei mai creduto che fossero così bravi se non li avessi visti con i miei occhi. Come avrei potuto immaginare che anche i gatti andassero in discoteca il sabato sera? Quando l’orizzonte si tinse di rosa e la luna impallidì, il gatto color sabbia fece un cenno all’orchestra, baciò la zampa alla cantante e chiuse le danze. Aspettai che tutti i gatti fossero spariti, chi di qua e chi di là, e me ne tornai a casa. Ero assonnato, sfinito, rattrappito e avevo un doloroso bernoccolo sulla fronte. Quando aprii la porta, i miei gatti erano già in casa, distesi sul tappeto del soggiorno. Il Rosso con la pancia all’aria, il Grigio avvolto su se stesso, il Nero con la testa posata su una mia ciabatta.


Dormimmo per tutto il giorno. La sera mi svegliai, preparai la cena per me e per i miei gatti che mangiarono di gusto e poi tornarono a dormire. Non pretendo che mi crediate ma vi assicuro che vi ho raccontato la pura veritĂ .

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UN CANE DI NOME ANDREA

Un giorno andai a fare una passeggiata alla periferia del mio paese. In uno spiazzo erboso il circo aveva dato spettacolo e ora, tolte le tende, aveva abbandonato fra l’erba vari rifiuti. Il Comune non aveva fatto ancora ripulire l’area e quel prato dall’erba spelacchiata appariva triste e desolato. Mentre lo costeggiavo, sentii un guaito e vidi uno straccio che si muoveva. Poi spuntò fuori una piccola testa color bianco sporco e il lamento si ripeté. Mi avvicinai e scorsi il musino di un cane, un cucciolo che, con tutta evidenza, era stato dimenticato dai proprietari del circo.

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Che cosa fare? Lo raccolsi con l’idea di portarlo in canile, ma quel birichino, quasi mi avesse letto nel pensiero, mi posò le zampette sulle spalle e cominciò a leccarmi il viso come a chiedermi di non abbandonarlo. E io, che ho il cuore tenero come il burro, me lo portai a casa. Aveva il pelo corto, fitto e bianco, ma talmente sporco che sembrava affumicato, ed era ricoperto di puntini neri che si muovevano: pulci! Prima di tutto occorreva un bagno. Il cagnolino si lasciò immergere in una vaschetta di acqua saponata solo dopo aver mangiato la pappa dei miei gatti e aver fatto la pipì contro una gamba della mia poltrona preferita. “Cominciamo bene!” pensai. Finalmente riuscii a lavarlo; ci vollero almeno tre bagni per togliergli di dosso la sporcizia. Poi gli schiacciai sulla collottola una fialetta di antipulci. Fu un’impresa perché non stava fermo un momento. Quando fu libero di muoversi per la casa, cominciò ad annusare dappertutto mentre i miei tre gatti lo osservavano diffidenti dall’alto di un mobile. Era un cane davvero grazioso con una coda corta che teneva sollevata come un punto interrogativo e occhi vivaci, pieni di gioia.

collottola: parte posteriore del collo

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Più che un animale, sembrava un bambino curioso per cui mi venne spontaneo chiamarlo Andrea. Andrea trascorreva quasi tutto il suo tempo all’aperto, nel mio giardino recintato. I gatti si abituarono alla sua presenza e lui imparò a non stuzzicarli dopo aver ricevuto un paio di graffi sul naso. Era un gran mangione e ben presto diventò rotondo come una botticella. Lo portai dal veterinario che lo vaccinò, gli mise un microchip, lo registrò e lo visitò. – Ha una salute di ferro ed è molto intelligente – disse alla fine. Né io né il dottore però ci eravamo accorti che Andrea era un cane prodigioso. Era nato in un circo da cani circensi e il circo ce lo aveva nel sangue. Un giorno, i bambini del mio vicino calciarono una palla dentro la mia proprietà. Andrea la annusò, poi ci salì sopra in perfetto equilibrio e, facendola rotolare, fece il giro di tutto il cortile fra le risate dei bambini che lo osservavano al di là della rete metallica. Quando fu stanco di quel gioco, il mio cagnolino saltò giù dalla palla e le diede un colpo di zampa così preciso che gli finì giusto sul naso. Allora si mise a saltellare sulle zampe posteriori colpendo la palla con il naso senza mai farla cadere. I bambini applaudirono entusiasti.

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Ogni sera, andavo a fare una passeggiata conducendo Andrea al guinzaglio. Ci spingevamo fuori dal paese, in mezzo a un bosco che piaceva tanto a lui perché era pieno di odori e di fruscii e a me per i colori dei fiori e delle foglie. Quando eravamo nel bosco, liberavo il cane dal guinzaglio perché scorrazzasse a piacere fra gli alberi. Lui non si allontanava mai molto e ritornava subito quando fischiavo per richiamarlo. Una sera però fischiai a lungo e Andrea non tornava. Dov’era finito? E se me lo avessero rubato? O peggio, se si fosse ferito o fosse… morto? Era estate, il sole tramontava tardi, ma fra poco sarebbe calato oltre i monti. Come avrei fatto a ritrovare il mio cane? Continuando a fischiare, corsi in mezzo agli alberi. Un ramo mi colpì sul naso facendolo sanguinare, ma io continuai a correre premendomi sulla faccia un fazzoletto. – Andrea! Andrea! – urlavo e fischiavo. Raggiunsi una radura e mi fermai ansante. Fu allora che un breve latrato mi fece alzare il capo. Su un ramo sporgente, chi ti vedo? Proprio lui, il cane acrobata. Mi guardava tutto orgoglioso in equilibrio su due zampe.

scorrazzare: girare di qua e di là

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prodezza: azione coraggiosa

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Poi si lasciò andare. Rimase aggrappato al ramo con le zampe anteriori, si diede una spinta e cominciò a girare intorno al ramo sempre più veloce. Infine lasciò la presa e ricadde ai miei piedi scodinzolando. Non sapevo se rimproverarlo per lo spavento che mi aveva fatto prendere o elogiarlo per la sua prodezza. Nei giorni seguenti, decisi che la natura circense di Andrea doveva essere controllata e valorizzata perciò gli insegnai alcune cose che potevano essere utili oltre che divertenti. Il cane apprendeva in modo veloce e sicuro. Imparò a spegnere il gas, a contare fino a cento, a portare il sacchetto dell’umido nell’apposito contenitore, ad accendere e a spegnere il computer, a chiedere in prestito lo zucchero ai vicini portando delicatamente con i denti una tazzina vuota. La voce si sparse: c’era un cane prodigioso che sapeva fare acrobazie e altre cose straordinarie! Una mattina, il circo ritornò a piantare le tende nel solito spiazzo e, il giorno seguente, il proprietario si presentò a casa mia insieme a due omoni enormi, fratelli gemelli. Uno era l’uomo-cannone e l’altro l’uomo che lo sparava in aria dalla bocca, appunto, di un cannone.


Il padrone del circo era baffuto. – Che cosa desidera? – gli chiesi. – Lei ha qui un cane che mi appartiene. Deve restituirmelo! – Io ho un cane, ma appartiene a me. È regolarmente registrato e ha il microchip. – Era mio. Si è perduto l’ultima volta che siamo stati qui. – Si è perduto o lo avete abbandonato? – Questo non le deve interessare. Il cane è mio! Insomma, nonostante i tre fossero nell’aspetto alquanto minacciosi, tenni duro e mi rifiutai di consegnare Andrea. Ero troppo affezionato a lui.

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scranno: sedia

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E così, finimmo in tribunale. Il giudice ascoltò le ragioni del padrone del circo e poi le mie. Infine chiese: – Si può vedere questo benedetto cane? L’udienza fu aggiornata alla settimana successiva quando mi presentai in tribunale con Andrea. Il giudice rimase a bocca aperta nel vedere il mio cane entrare tenendo in bocca il proprio guinzaglio per poi sedersi composto vicino a me con la schiena ben appoggiata allo schienale della sedia. – Deve essere intelligente – mormorò. – È molto intelligente – confermai. – Allora chiederò a lui con chi vuole rimanere. Se con lei o con il padrone del circo. Questi stava per protestare, ma il giudice gli chiuse la bocca con un cenno deciso. Poi si rivolse di nuovo a me: – Come si chiama il cane? – Andrea. – Anch’io mi chiamo Andrea! – disse il giudice burbero. Ohi, si metteva male. Il giudice scese dal suo scranno, si avvicinò al cane, lo guardò negli occhi e gli disse:


– Mi senti, cagnolino bianco? Se mi capisci, abbaia tre volte. – Bau! Bau! Bau! – rispose Andrea. – Oh perbacco! Sei davvero un fenomeno! – continuo il giudice. – Andrea, devi dirmi con chi vuoi stare. Con questa persona che ti ha accolto a casa sua o con il padrone del circo? Il mio cane non si fece ripetere la domanda. Balzò giù dalla sedia, si sollevò sulle zampe posteriori, mi saltò in grembo e cominciò a leccarmi il viso. – Il caso è chiuso! – sentenziò il giudice. – Ma Vostro Onore… – protestò il padrone del circo. Il giudice lo guardò severamente e gli disse: – Signore, il cane ha il diritto di scegliere con chi stare. E lei, dopo averlo abbandonato, non ha il diritto di reclamarlo perché in questo caso la cosa più importante è l’amore. Così Andrea è rimasto a vivere con me. In questo momento, sta facendo l’acrobata sul filo della biancheria fra le risate e la gioia dei bambini del mio vicino di casa.

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EMILIO, IL CINCILLÀ TELEPATICO

equivoco: errore

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Prima di tutto, devo chiarire che Emilio non era un coniglio. L’equivoco nacque a causa della mia ignoranza. Era una piovosa mattina di maggio. Andando a fare la spesa, ero passato vicino alla scuola e avevo notato un gruppo di ragazzini che strillavano accanto a un cassonetto delle immondizie. Invece di entrare in classe, i monelli si attardavano a sbirciare tra il contenitore e il muro e uno in particolare, con un bastone in mano, frugava dietro al cassonetto. Sapevo, per esperienza, che i bambini non sono abituati a trattare bene gli animali e che spesso, anche senza volerlo, li tormentano. Pensai che, acquattato lì dietro, ci fosse un gattino o un ranocchio perciò decisi di intervenire.


Mi feci largo nel gruppetto vociante, tolsi il bastone al bambino e mi accovacciai. Vidi un mucchietto di pelo appallottolato e polveroso. Lo presi e sentii che era vivo, tremante e nervoso. Me lo infilai sotto alla giacca e lo portai via con me. I bambini mi seguirono per un tratto di strada gridando come ossessi, poi entrarono a scuola al richiamo del bidello. Tornai a casa, mi chiusi in bagno per evitare la curiosità del cane e dei gatti e tirai fuori da sotto la giacca il fagottino di pelo. Lo posai sul tappeto. Rimase immobile per un po’ quindi si aprì e si rivelò una specie di coniglietto morbidissimo, con la pelliccia color grigio-nocciola, muso da topo, coda da scoiattolo, baffi da gatto, orecchie da elefante, occhi rossi come un demonietto. – Oh, che bel coniglio – sussurrai perplesso, – che cosa ne faccio di te? Intanto ti do un nome. Emilio il coniglio. Ti piace? Lui non rispose. Si limitò a muovere i baffi. Tirai fuori il telefonino, gli scattai una foto e la inviai con WhatsApp a un’amica biologa. Lei mi rispose quasi subito.

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cereali:

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“Non è un coniglio, ma un cincillà!” Olla là, il cincillà! L’unica cosa che sapevo di queste povere creature è che un tempo non molto lontano erano destinate a diventare pellicce per signora. Lasciai l’animaletto chiuso in bagno e mi collegai a internet. Seppi così che i cincillà sono mammiferi roditori appartenenti alla famiglia dei cincillidi. Vengono dall’America del Sud, più precisamente dalla catena montuosa delle Ande, e, per merito della foltissima pelliccia, si sono adattati a vivere ad alta quota. Il cincillà ora è una specie protetta e gli esemplari vengono venduti come animali di compagnia. Ecco, qualcuno aveva comprato Emilio oppure lo aveva ricevuto in regalo, si era stancato di lui e lo aveva buttato nei rifiuti così come si getta uno straccio o una vecchia scarpa. Che rabbia! Continuai a leggere: i cincillà sono animali notturni, dormono di giorno e stanno svegli di notte. Mangiano frutta e verdura, ma specialmente cereali integrali perché hanno bisogno di molte fibre. Sono vivaci, hanno una grande energia e stanno bene se sono in compagnia di altri animali della stessa specie.


Emilio, poverino, era solo soletto. Se avessi trovato quello στρονζο! che lo aveva abbandonato, guai a lui! Lessi anche che il cincillà deve rotolarsi nella sabbia per lucidarsi il pelo eliminando il sebo in eccesso; che era meglio tenerlo in una gabbia spaziosa con una casetta posta in alto, acqua e cibo, fieno e sabbietta; che l’esposizione a una temperatura superiore ai 26 gradi mette in pericolo la sua vita; che può vivere anche per venti anni; che bisogna dargli tempo perché acquisti confidenza e non si deve importunarlo con carezze non richieste; che eventuali altri animali che vivono in casa potrebbero dargli fastidio. Un tipino complicato, questo Emilio! Lessi anche che era necessario lasciarlo uscire dalla gabbia per qualche ora dandogli il modo di sfogare la quantità eccessiva di energia e di fare movimento. Proprio un tipino complicato! Ma era così carino, così soffice, così indifeso! Giurai solennemente che lo avrei protetto e gli avrei garantito tutto ciò di cui aveva bisogno.

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trepestìo: rumore

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Mi recai perciò nel negozio per animali, acquistai una bella gabbia con tutto il necessario per lui e tornai a casa con il portafoglio quasi vuoto. Dove mettere la gabbia? Dopo un lungo rimuginare, mi risolsi a posarla sopra a un armadio in corridoio, bene in alto, lontano dalle profferte di amicizia del cane e dalla curiosità pericolosa dei gatti. Entrai in bagno, aprii la gabbia e cercai Emilio. Era sparito. Lo ritrovai dentro al cesto della biancheria, lo infilai in gabbia e misi la gabbia sull’armadio. E poi tirai un sospiro di sollievo. Il cincillà rimase così tranquillo che me ne dimenticai. La sera, mentre godevo il meritato riposo sul divano leggendo un romanzo avventuroso, con il cane al mio fianco e i gatti acciambellati sulla poltrona, sentii un trepestìo, come il rumore di mille piedini scalpitanti, che proveniva dal corridoio. Emilio! I gatti mossero le orecchie, il cane abbaiò e io, salito su una sedia, mi avvicinai alla gabbia. Il cincillà correva su e giù velocissimo. Poi si fermava all’improvviso, afferrava un po’ di cibo, rosicchiava, riprendeva a correre su e giù e su e giù. E si aggrappava alle sbarre. Allora portai la gabbia in bagno.


– Stanotte resterai qui, ma sarai libero di uscire e di correre a tuo piacimento – gli dissi. Aprii la gabbia, uscii dal bagno e chiusi a chiave la porta davanti alla quale si piazzarono vigili e miagolanti i miei tre gatti. La mattina seguente feci uscire il cane e i gatti in giardino e poi aprii la porta del bagno. La gabbia era posata sul pavimento come la sera prima, ma Emilio non si vedeva da nessuna parte. In compenso il pavimento del locale, il lavandino, il water, il bidet, i mobili e il ripiano della doccia erano punteggiati da centinaia di piccole‌ Boh! Che cos’erano?

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Ma sì, erano cacchine nere, cacchine di cincillà. Non avrei mai pensato che un animale così piccino potesse fare tanta cacca. E quel che è peggio, Emilio si era dato da fare, oltre che con il sederino, anche con i denti perché aveva rosicchiato tutto quello che aveva trovato. L’astuccio del dentifricio, il cordone della tenda, il cavo del fon (che per fortuna non era attaccato alla corrente), le ciabatte, le maniglie di legno del mobiletto, la copertina di un libro posato sul davanzale e altro ancora. I cincillà sono roditori, lo avevo letto e ora lo stavo sperimentando. Immersi le mani nel cesto della biancheria e ne tirai fuori Emilio ancora semiaddormentato. Lo posai sul coperchio del water, lo fissai e lo rimproverai: – Sei un finto coniglio combina guai. Io ti ho accolto e protetto e tu mi ricambi con un disastro. Forse non ci crederete, ma ciò che sto per riferirvi è l’assoluta verità. Anche Emilio mi fissò con i suoi occhi color rubino e io non riuscivo a distogliere lo sguardo. E poi, sentii dentro la mia testa, con perfetta chiarezza, i suoi pensieri. Il cincillà mi parlava, non in modo umano, ma ero in grado di capire e di tradurre le sue parole una per una. Mi diceva così:

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– Voi esseri umani! Mi avete portato via dalle mie montagne e dalla mia famiglia, mi avete venduto come fossi un oggetto, trattato come un giocattolo per i bambini. Ma non sono un giocattolo e seguo la mia natura. Dormo di giorno e corro di notte, sono pulito e le mie cacche non puzzano però devo pur farle dove posso. Sono un roditore per cui rosicchio tutto ciò che trovo altrimenti mi crescono troppo i denti e allora sono guai. Non sono nato per essere prigioniero, per stare in una gabbia. Gli risposi con il pensiero, sicuro che avrebbe capito. – Scusa, Emilio, ma non è colpa mia se ti trovi in questa situazione. Io ti ho salvato dall’abbandono. Se ti avessi lasciato dietro al cassonetto avresti fatto una brutta fine. Il cincillà mi osservava immobile, muovendo appena i baffi. E continuava a parlare dentro alla mia testa.

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indistinta: poco visibile

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– Lasciami andare. – Dove? – chiesi io. – Lasciami andare – ripeté. Quel giorno stesso, caricai nell’auto la gabbia con dentro Emilio. Guidai per un paio d’ore salendo verso le montagne. A sera, arrivai in un posto solitario dove si elevava una formazione rocciosa piena di fessure e di buchi. Aprii la gabbia e il cincillà uscì fuori. Si fermò un attimo ad annusare l’aria poi saltò su una roccia. Il sole stava tramontando e l’aria lassù era frizzante e pura. Emilio mi guardò e nei suoi occhi balenò una luce gioiosa. – Grazie – sentii dire dentro la mia testa. Emilio si arrampicò ancora più in alto, diventò una macchia indistinta e sparì.


LOLA, LA GROLA MELOMANE

melomane: appassionata di canzoni operistiche

Uno degli animali più furbi e intraprendenti del mondo è la cornacchia che, in certi paesi, è chiamata anche grola. Ce ne sono tante che abitano dalle mie parti e che svolazzano sui tetti emettendo per tre volte il loro sgraziato richiamo. Non sono benvolute da tutti. C’è chi ne ha paura, chi le considera quasi con indifferenza, chi le prende a fucilate. Le cornacchie abitano i tetti più alti e volano spericolate lanciandosi in basso come proiettili. A me piace molto osservare questi antichi uccelli mitologici che, a volte, entrano nelle case da una finestra e, velocissime, rubano il cibo dai piatti.

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veterinario: il medico degli animali

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Un giorno, mentre camminavo in mezzo alla campagna, vidi una grola che correva disperata in mezzo ai solchi del terreno arato da poco. Aveva un’ala spezzata che pendeva inerte dal busto. Tentava invano di spiccare il volo e gridava al cielo il suo richiamo. La rincorsi e, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, riuscii ad afferrarla. La cornacchia dapprima si divincolò poi, sfinita com’era, rimase tranquilla. La portai a casa, la infilai in una scatola e la condussi dal veterinario. Nel vederla, il dottore scosse la testa come per dire che stavo perdendo tempo e soldi per niente. Comunque la visitò. – È una bestia giovane. Le hanno sparato e probabilmente non riuscirà più a volare. La cosa migliore sarebbe sopprimerla – disse. – Ma neanche per sogno! – protestai. – In giardino ho una voliera vuota, la metterò lì dentro. Lei pensi a medicarle la ferita e a steccare l’ala. Il veterinario ubbidì di malavoglia e poi fu lui a sparare: un compenso che neanche avesse curato un branco di elefanti! Pagai e mi riportai a casa l’uccello.


In giardino avevo davvero una vecchia voliera. La ripulii, ci misi dentro un recipiente con dell’acqua e la grola con l’ala steccata. Le cornacchie sono uccelli onnivori che mangiano volentieri insetti e carne: larve, uccellini, ranocchie, uova e anche topolini e anatroccoli. Di conseguenza, i loro escrementi puzzano moltissimo. Per fortuna, la voliera era all’aperto. – Ora ti darò un nome – dissi rivolgendomi alla mia nuova ospite. Siccome quel giorno non avevo molta fantasia, mi venne spontaneo chiamarla Lola e Lola la grola fu. La palpai con molta dolcezza e mi accorsi che era magrissima e deperita. Già al momento in cui l’avevo afferrata nel campo, avevo notato come fosse quasi priva di peso, tutta pelle, piume e ossa, ovviamente cave e leggere come sono quelle degli uccelli. Misi nella gabbia un piatto con del macinato crudo ma, per un paio di giorni, Lola non mangiò. Si limitò a rimanere accovacciata in un angolo con la testa incassata nel busto. Ero convinto che sarebbe morta e mi dispiaceva.

deperita: indebolita

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La voliera si trovava accanto alla finestra del mio studio dove avevo il computer. Era per me consuetudine lavorare ai miei file ascoltando musica. Oltre alla musica classica e ai brani dei Queen, ascolto volentieri le opere. Le mie preferite sono “IL flauto magico” di Mozart e “La Carmen” di Bizet. Ed era appunto quest’ultima che ascoltavo una tiepida mattina d’autunno, lavorando al computer con la finestra aperta. La cantante si stava cimentando nel famoso brano intitolato “L’amore è un uccello ribelle” quando udii una voce sovrapporsi alla sua. Era una voce strana, gracchiante, ma intonata che proveniva dal giardino.

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Stupefatto, guardai fuori dalla finestra e vidi Lola che saltellava nella voliera gracchiando la melodia senza sbagliare una nota. Quando il brano terminò, la cornacchia divorò tutto il macinato che aveva nella mangiatoia e poi mi guardò con quegli occhi neri e impenetrabili che hanno gli uccelli della sua specie. – Questo è un prodigio! – esclamai. Cercai su internet “Il barbiere di Siviglia” di Rossini e la celebre melodia di Figaro si sprigionò spumeggiante dalle casse sonore.

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Lola rimase immobile, poi arruffò le penne e cominciò a gracchiare con il baritono. E anche questa volta senza sbagliare una nota. Quando il brano terminò, l’uccello batté con il becco sulla mangiatoia e io mi affrettai a rifornirlo ancora di cibo. Pochi giorni di musica e di pasti abbondanti e Lola cominciò a ingrassare, a girare per la voliera e a reclamare gracchiando la sua dose di pappa e di musica. Inoltre cominciò a cantare i brani che aveva sentito anche senza sottofondo. Aveva una memoria straordinaria e ricordava tutte le note. Non c’era brano operistico che lei non sapesse ripetere per quanto difficile. Imparò a cantare “Parigi o cara” da “La Traviata” di Verdi e perfino a interpretare la difficilissima parte dell’Abigaille, personaggio del “Nabucco”. Lola cantava, mangiava e ingrassava.

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Ogni tanto quelli che passavano in bicicletta si fermavano ad ascoltare quella strana cantante dall’ala spezzata e i bambini del vicinato rimanevano aggrappati alla recinzione con la bocca aperta per lo stupore e così silenziosi e tranquilli da sembrare piccoli angeli. Alla sera, Lola si addormentava con il capo sotto l’ala sana per svegliarsi allo spuntar del sole gracchiando il “Buongiorno a te” cantato da Pavarotti. Arrivò l’inverno e cominciò a piovere. Ero costretto a tenere chiusa la finestra, ma Lola ormai cantava da sola senza accompagnamento musicale e diventava sempre più grassa e vivace. Il veterinario aveva ragione: la sua ala non si era aggiustata anche se la ferita era guarita. Non avrebbe volato mai più. Una volta tentai di fare un duetto canoro con lei. Siccome sono piuttosto stonato, dopo un paio di strofe, Lola si girò indignata e si rifugiò dalla parte opposta della gabbia. All’arrivo della primavera riaprii la finestra e ricominciai a farle ascoltare dei brani operistici. Lola ne imparò a decine. E qui cominciarono i guai.

duetto canoro: canto per due persone

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Una mattina, il mio vicino di casa suonò il campanello. – Desidera? – Senti tu! Se la tua grola non smette di svegliarmi all’alba e di assordarmi per tutto il giorno con le sue canzoni, lo sai cosa faccio? – Cosa fai? La cornacchia si trova nella mia proprietà. – Non me ne può importare di meno. Vengo dentro e le torco il collo! Capito? – Guarda che Lola è un vero prodigio. Piace tanto anche ai tuoi bambini. – Al diavolo i bambini! Io lavoro di notte e dormo di giorno. E, se non dormo, divento molto molto molto nervoso. Capito? Avevo capito, ma non sapevo come risolvere il problema. Il vicino probabilmente non sarebbe entrato a forza nel mio giardino, ma come dargli torto? Non era stato molto gentile, ma aveva tutto il diritto di dormire di giorno perché faceva il guardiano notturno. Povera Lola! Non potevo liberarla, non potevo tenerla.

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Per un paio di giorni, coprii la voliera con un telo scuro in modo che l’uccello, non vedendo la luce del giorno, non cantasse. Lola smise allora di mangiare. Se non mi fossi ricordato di un certo amico, la mia cornacchia ora sarebbe morta e sepolta in fondo al giardino. Telefonai a un mio ex compagno di scuola che, se non aveva cambiato mestiere, lavorava come costumista all’Arena di Verona. Lui rispose, mi feci riconoscere e gli raccontai di Lola. – Vengo subito a conoscerla! – esclamò. Mantenne la parola perché la mattina seguente me lo ritrovai in casa. E non era solo: lo accompagnavano due celebri cantanti d’opera, un tenore e un soprano, incuriositi dalla storia che aveva loro raccontato. Andammo in giardino e scoprii la gabbia. La cornacchia era accovacciata in un angolo e la mangiatoia era piena di cibo. – È depressa perché non può cantare – dissi. – Allora sentiamo che cosa sa fare – rispose il tenore. Fece un cenno alla donna che cantava da soprano e insieme intonarono il duetto d’amore dalla “Madame Butterfly” di Puccini.

costumista: disegnatore di costumi per il teatro

tenore e soprano: cantanti

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Lola arruffò le penne, aprì il becco e accompagnò i due in modo impeccabile. – Stupefacente – gridò alla fine il tenore. – Incredibile – sospirò il soprano. – Pazzesco – disse il mio amico costumista. – La porteremo con noi e le daremo una casa – disse la cantante. – E anche un lavoro – aggiunse il tenore.

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Lola la grola è diventata indispensabile all’arena di Verona. I cantanti d’opera si esercitano insieme a lei, sicuri che così non sbaglieranno una nota e i musicisti accordano al suo gracchiare i loro strumenti. Lola adesso vive in una grande voliera, dentro a un giardino pieno di piante e di fiori. Ogni tanto passo a trovarla. Lei mi riconosce e, nel vedermi, canta il mio duetto preferito, quello di Papageno, il buffo uccellatore rivestito di piume, dal “Flauto Magico” di Mozart.

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I protagonisti di questi racconti sono gli animali, colti nella dimensione domestica e nel loro ambiente naturale. Le vicende narrate, a volte realistiche, a volte fantastiche, ripercorrono le caratteristiche della fiaba classica e, nello stesso tempo, descrivono il rapporto difficile fra gli esseri umani e la natura. Hanno la funzione di interessare e divertire i lettori conducendoli, per mezzo di avventure e di emozioni, a riflettere sui propri comportamenti e a conoscere il mondo dei loro “fratelli minori”.

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