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BLU SERIE
E 7,50
È stato il silenzio
Il libro è dotato di approfondimenti online su www.raffaellodigitale.it
anni
Una storia sulla Shoah
Un romanzo coinvolgente, consigliato come lettura in occasione della Giornata della Memoria. Paola Valente vive a Vicenza, dove insegna nella scuola primaria. Ha scritto per Raffaello numerosi libri per ragazzi, tra cui “La Maestra Tiramisù” e i fortunati racconti di Educazione alla Cittadinanza (“La Casa di Nonna Italia” e “Il tesoro dell’Unità”).
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Paola Valente
È stato il silenzio Paola Valente
Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE,GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n° 633, art. 2 lett. d).
Il piccolo Isaac ha una bella famiglia: genitori attenti e affettuosi, una sorella minore di nome Aurora ricca di intelligenza e di sensibilità. Eppure c’è qualcosa che non va. Il papà nasconde un segreto, qualcosa di cui non vuole parlare e che riguarda i nonni paterni. Si tratta di un segreto terribile, che Isaac scopre a poco a poco durante una vacanza al mare. Tra bagni, fantasticherie sui pirati e giochi avventurosi con altri ragazzi, il bambino viene a conoscenza di un momento fra i più dolorosi della storia umana: la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.
SERIE
BLU
Per volare con la fantasia
Collana di narrativa per ragazzi
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Editor: Paola Valente Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini Team grafico: Letizia Favillo, Benedetta Boccadoro Copertina: Benedetta Boccadoro Ufficio stampa: Salvatore Passaretta
Ia Edizione 2012 Ristampa 7 6 5 4 3
2021 2020 2019 2018 2017
Tutti i diritti sono riservati © 2012 Raffaello Libri S.p.A. Via dell’Industria, 21 60037 - Monte San Vito (AN) www.ilmulinoavento.it www.grupporaffaello.it info@ilmulinoavento.it Printed in Italy
www.facebook.com/GruppoRaffaello È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di q uesto libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright. L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti.
Paola Valente
Ăˆ stato il silenzio
Illustrazioni di
Marco Viale
Uno
Non dimenticherò mai la casa sulla scogliera. Era
poco piÚ di una baracca che dominava l’oceano. I venti avevano lucidato la pietra e temprato il legno con cui era costruita. La prima volta che mi ci portarono avevo dieci anni.
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Vivevo in una cittadina tranquilla insieme ai miei genitori. La mamma era allegra e gentile. Mio padre, che faceva il medico condotto, aveva sempre un’ombra di malinconia negli occhi scuri. Pensavo fosse colpa di mia sorella. Si chiamava Aurora ed era muta. Non aveva mai pronunciato una parola in vita sua. Giocavo spesso con lei nel giardino della nostra abitazione. Capiva tutto, leggeva e scriveva, rideva e piangeva, ma non parlava. Ogni tanto emetteva dei suoni inarticolati e dei piccoli sbuffi deliziosi gonfiando le gote e serrando le labbra. Canticchiava perfino, mugolando le note dolcemente, ma non parlava. Il papà l’aveva fatta visitare da molti specialisti. Anche lui era un medico. Nessuno ci aveva capito qualcosa. Una bambina sana, intelligente e bella. Il suo cervello e la sua gola erano a posto. Fin da piccolissima, Aurora aveva imparato a comunicare senza difficoltà. Poiché le mancava la parola, spargeva disegni per tutta la casa. Ritratti, paesaggi, animali, personaggi inventati e poi arabeschi e cerchi, spirali, il nostro gatto, il nostro pesciolino rosso, il papà in camice bianco, me stesso che studiavo, disegni eseguiti di getto con le matite colorate. All’inizio della prima elementare Aurora scoprì la parola scritta. Allora non smise più di infilare i suoi
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biglietti dappertutto: sotto i cuscini, dentro le tasche, nelle scodelle della colazione. Li appendeva ai lampadari, li appiccicava al frigorifero. Poche lettere tracciate in modo incerto, solo per dirci “ciao” oppure “mi dispiace” e anche “ti voglio bene”. Diventò man mano più sicura, imparò il corsivo e alla fine della prima elementare scriveva perfettamente e i suoi biglietti furono vere e proprie lettere lunghe una pagina intera. La sera, quando tornava a casa, il mio malinconico papà cercava con gli occhi la sua bambina. Mi chiedeva come stavo e guardava dov’era Aurora. Quando appariva, la prendeva in braccio e lei gli si attaccava al collo nascondendo la testa contro la sua spalla. Poi s’infilava una mano nella tasca del grembiule, tirava fuori un foglio piegato e lo cacciava a forza nel taschino della giacca paterna. Allontanava il viso da quello del padre per scrutarlo bene. Capiva se era stanco o preoccupato, felice o rabbioso e, con il linguaggio dei gesti, cercava di consolarlo e di condividere i suoi sentimenti. Era straordinaria mia sorella quando muoveva le mani per parlare in quel modo espressivo e silenzioso. Avevo imparato a risponderle e qualche volta mi capitava di gesticolare anche con i miei amici e con gli insegnanti, perfino con la commessa del negozio
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di generi alimentari dove andavo a comprare il latte tutte le sere. Qualcuno si metteva a ridere, qualcuno pensava che volessi prenderlo in giro oppure che fossi un po’ scemo. Una sera Aurora e io eravamo seduti a gomito a gomito per eseguire i compiti. Dovevo risolvere un paio di problemi di aritmetica. Mia sorella completava uno schema con il nome dei suoi familiari. A un tratto posò la penna e mi tirò per la manica. – Che c’è? Alzò le mani verso di me per spiegarsi, ma poi ci ripensò. Scrisse qualcosa con la matita ai margini del mio quaderno. Lessi “dove sono il papà e la mamma del papà?”. – Non lo so – risposi sorpreso. Eppure anche io mi ero posto spesso quella domanda.
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Due
Quasi tutte le domeniche si andava a far visita ai
nonni materni. La mia mamma era la direttrice di una scuola di danza. Aveva occupato il posto della nonna quando era andata in pensione. Nel salotto dei nonni c’era una sbarra per gli esercizi. La nonna si muoveva ancora come una ragazza. Insieme alla mamma provavano delle figure. A volte mi fermavo a guardarle con la bocca aperta.
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– Prova anche tu, Isaac – mi dicevano, ma io scappavo via imbarazzato. Il nonno aveva uno stagno nell’orto. Ci portava lì. – Lo sapete vero che dentro vive il coccodrillo? Mia sorella annuiva tutta seria. Il nonno si abbassava alla nostra altezza, allungava un braccio e indicava un punto fra le erbe acquatiche. – Guardate bene. Quei due puntini luccicanti sono i suoi occhi. Ha sempre fame. Non dovete mai e poi mai mettere i piedi qui dentro. Aurora scrutava lo specchio torbido con molta attenzione. Io ormai avevo capito il trucco: era un modo per tenerci lontano dall’acqua. Eppure mi capitava a volte di sognarlo, il coccodrillo: tutto verde, con i denti irregolari che trituravano pezzi di legno. Il nonno aveva anche un orso in soffitta. Dormiva dentro un baule e non bisognava svegliarlo. Ci faceva salire piano le scale e ci spingeva su dalla botola sul pavimento di legno. In fondo, appoggiato al muro, c’era il baule e l’orso ronfava come una caffettiera. – Salta fuori quando arriva l’estate, esce dalla finestrella, scende per la grondaia e va per i boschi. Poi torna qui a svernare. Io non gli credevo, ma il baule era semiaperto e ne fuoriusciva una specie di scura pelliccetta che si confondeva con l’ombra.
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Ci mettevamo a tavola nella sala da pranzo arredata con mobili chiari. La mamma chiacchierava con i suoi genitori e rideva dei pettegolezzi del quartiere. Il papà parlava poco, ma sembrava sereno, come se le mura della casa dei nonni lo proteggessero. Aurora si esprimeva con i suoi gesti affascinanti e io avevo voglia di correre fuori a crogiolarmi al sole. Una domenica come tante altre eravamo seduti come sempre a tavola. La nonna aveva servito il risotto con i funghi, il piatto preferito del papà. Lui lo gustava rilassato, con un’espressione di piacere sul viso malinconico. – È squisito – disse e poi aggiunse: – Si sta proprio bene qui da voi. – Perché non andiamo a trovare anche gli altri due nonni? – chiesi io. Il papà posò la forchetta e impallidì. Nei suoi occhi passò un’ombra di dolore così intenso che Aurora si mise a piangere. La nonna la portò fuori dalla stanza, la mamma si alzò, il nonno cercò di rimediare chiedendo a mio padre come andava il lavoro. Io sarei voluto sprofondare sotto terra. Più tardi, mentre tornavamo a casa in automobile, mia sorella si addormentò con la testa posata contro la mia spalla. Sonnecchiavo anch’io, ma udii chiaramente il papà che diceva alla mamma:
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– Isaac non ha nessuna colpa. Aveva il diritto di chiedere. – Ma tu non hai avuto la forza di rispondere – sussurrò lei. – Non ne voglio parlare – sospirò il papà e il sonno mi avvinse.
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Tre
Un giorno la scuola finì. Salutai i miei amici, pre-
si per mano Aurora e corremmo a casa. Mi aspettava l’estate con i suoi giochi e la sua noia. – Vacanze! Vacanze! – strillavo e quasi danzavo trascinandomi appresso la bambina sbuffante. Chi ci vedeva si metteva a ridere: io, con il grembiule sbottonato che svolazzava dietro di me come un uccellaccio, lei, sommersa da uno zaino rosa pieno zeppo che la trascinava all’indietro, tentava gesticolando di farmi andare più piano.
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Come spesso succede d’estate, il temporale scoppiò all’improvviso. Dal cielo precipitò giù una cascata d’acqua. Strappai lo zaino dalle spalle di mia sorella per permetterle di correre veloce. Ci riparammo sotto il tendone di un negozio, ma ormai eravamo zuppi fino alle ossa. Quando entrammo in casa, si formò una pozza sotto i nostri piedi. I miei genitori non erano ancora tornati dal lavoro. Presi degli asciugamani, aiutai Aurora a togliersi i vestiti fradici e cominciai ad asciugarla. Lei mi fece capire a gesti che era preoccupata per me, ma non smisi di strofinarla finché non fui sicuro che fosse davvero calda e asciutta. Intanto mi venne freddo. Cominciai a tremare. La mamma rientrò in quel momento: – Isaac! Sei tutto bagnato. Fila via a cambiarti. Per terra, sul pavimento dell’ingresso, i vestiti di Aurora giacevano come un mucchietto di meduse arenate. A sera sentii ancora più freddo. Mi sedetti a tavola per cenare, ma non avevo fame. – Ti senti bene? – mi chiese il papà. – Oggi Isaac e Aurora sono tornati a casa tutti bagnati – disse la mamma. Ah, già Il temporale. Si è asciugata bene la mia bambina?
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Aurora spiegò con i gesti che l’avevo aiutata io e poi cercò di aggiungere qualcosa, ma il papà sorrise e la esortò: – Mangia tutta la pasta, da brava. Così non ti verrà il raffreddore. Chiesi il permesso di alzarmi da tavola. Andai in camera mia, mi spogliai e mi ficcai sotto le lenzuola. Il tremito diventò più forte, qualcosa cominciò a bruciarmi nella gola. Mi addormentai di botto. Durante la notte mi svegliai. Mi sentivo ardere. Le orecchie mi ronzavano e mi faceva male la testa. Avevo sete. Mi sollevai a sedere, scesi a fatica dal letto e mi diressi verso il bagno. Le tempie mi pulsavano. Aprii il rubinetto e scivolai per terra. Nel buio. Ombre si spostavano silenziose per la stanza. Qualcuno mi umettava le labbra con una pezzuola bagnata. Mi posarono più volte un oggetto freddo sul petto. Era lo stetoscopio del papà? Forse. Sognavo il coccodrillo. Sognavo labirinti in cui mi perdevo per sempre. Sognavo di cadere in un burrone. Toccavo terra sussultando e ricadevo nell’incoscienza. Mi faceva male dentro, mi dolevano le ossa. Allora mi lamentavo. La mia voce sembrava provenire dall’esterno del mio corpo. Era il pigolio di un pulcino. Le ombre andavano e venivano. Un mostro si delineava controluce, con due teste e tanti arti.
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– Mamma? Mamma! Qualcuno mi pungeva il braccio. Volevo che mi lasciassero in pace. Odore di menta. Odore di sciroppo schifoso. Il mostro tornò. Ebbi l’impressione di conoscerlo. Aurora in braccio alla mamma? Ricadevo nell’oscurità con un macigno sul petto. Quando ripresi conoscenza, erano trascorsi cinque giorni. – Hai avuto la polmonite – sussurrò il papà dolcemente scostandomi un ciuffo di capelli dalla fronte. Mi sentivo esausto, svuotato e leggero come una nuvola. Ingoiai un po’ di latte con i cereali. Vomitai. Poi mi venne fame di nuovo e questa volta riuscii a trattenere un po’ di brodo. – I bambini si riprendono in fretta – disse il papà. Dalla faccia della mamma, compresi che si erano molto preoccupati.
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