Felici di leggere

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Indice Un amico venuto dal mare ............................................ 5 Il ribelle ................................................................................................. 7 Non trattatemi così! ............................................................... 9 L’altalena della felicità ...................................................... 11 Portami con te ............................................................................ 13 Via Roma 73 ................................................................................... 17 La domenica è il futuro ................................................... 21 #HelpJack ......................................................................................... 25 È stato il silenzio .................................................................. 29 La casa che guarda il cielo ........................................ 33 Il tesoro dell’Unità ................................................................ 37 Lo scrigno delle farfalle .................................................. 41 Il campione che sarò .......................................................... 45 Il filo che ci unisce .............................................................. 49 Sono erba, sono cielo ........................................................ 53 La classe terribile ................................................................. 57 Vado a essere felice ............................................................. 61 Il cielo tra le sbarre ........................................................... 65 Il Cacciatore di Aria ........................................................... 69 Il pozzo dei dalit .................................................................... 73 Leonardo e il Fiore della Vita ................................ 77 Leopardi e l’amore nascente ..................................... 81 L’ultima lettera di Vincent ......................................... 85 Mozart e lo spartito perduto ................................... 89 Charlot. Il passo del pendolo ................................... 93 Steve Jobs. Affamato e folle ...................................... 97 La mia vita all’ombra del mare .......................... 101 Un’amicizia... in ballo ..................................................... 107

Legenda Cittadinanza Memoria storica Vita di relazione

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Educazione alla salute Grandi personaggi


“Colui che è maestro di scuola può cambiare la faccia del mondo” G. W.Leibniz

Cari docenti, ognuno di voi conosce il valore primario e trasversale dell’abilità di decodificazione e di comprensione della lettura e sa quale intenso lavoro di ricerca sia necessario per proporre ai ragazzi testi coinvolgenti che consentano di conciliare il piacere di leggere con lo sviluppo delle competenze

linguistiche e del pensiero critico individuale.

Le pagine che seguono sono pertanto uno strumento di supporto a questa attività di ricerca e al vostro lavoro quotidiano nelle classi. Si tratta di un’accurata selezione di testi, scelti all’interno della vasta produzione Raffaello Ragazzi e Mulino a Vento. Essi possono essere usati come brani - stimolo per organizzare circle time, dibattiti, interviste su temi previsti dalla progettazione curriculare; possono servire per introdurre unità di lavoro e per proporre ai ragazzi attività che, a partire dalla lettura, favoriscano lo sviluppo di menti autonome e responsabili. Gli argomenti prescelti sono stati raggruppati in cinque macroaree: cittadinanza, memoria storica, vita di relazione, educazione alla salute, grandi personaggi e consentono di affrontare temi complessi quali il bullismo, la diversità, l’accoglienza, le relazioni affettive, l’uso consapevole della rete, l’evoluzione personale.

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Particolare attenzione è stata data alla gradualità delle proposte: i brani, inizialmente più semplici sia dal punto di vista linguistico che di contenuto, divengono sempre più complessi e articolati nelle letture successive. Questo per assolvere al compito, per noi primario, di avviare i ragazzi di quinta alla costruzione di abilità più strutturate come quelle richieste dalla scuola secondaria. Esse seguono d’altra parte il percorso tracciato dalle Indicazioni Nazionali e contribuiscono a raggiungere l’obiettivo principale richiesto dalle stesse, nei profili di uscita: formare individui competenti, laddove la competenza coincide con il “saper essere”. Questo significa avere interiorizzato conoscenze e abilità apprese durante gli anni di scuola, fino al punto di possederle per divenire se stessi e portare nel mondo la pienezza dei propri talenti realizzati. In questo modo sarà la scuola che, attraverso l’impegno dei suoi insegnanti migliori, contribuirà a promuovere la formazione critica dei ragazzi e l’acquisizione di una coscienza civica indispensabile per i cittadini di domani. L’autrice

Patrizia Ceccarelli

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CITTADINANZA

Un amico venuto dal mare Abdul, un ragazzino arrivato in Italia dal Marocco, deve scontrarsi con pregiudizi e ingiuste accuse anche da parte dei compagni di scuola. Qualcuno però lo aiuterà... Davanti alla “Pascoli”, un gruppetto di ragazzi discute, si agita e si guarda attorno come se aspettasse qualcuno. Dal Corso principale sbucano Carolina, Abdul e Federico: sono proprio loro gli attesi. Alessandro si stacca dal gruppo e si avvicina ad Abdul con aria minacciosa. – Allora è bella la mountain bike di Carlo, non è vero Abdul? Dove l’hai messa? – Non ho preso nessuna bicicletta… anzi, Carlo, ti volevo appunto dire che la bicicletta… – cerca di spiegare il ragazzino, ma è interrotto da Alessandro: – Non devi spiegare niente! Oltre che ladro sei bugiardo! Ti hanno visto allontanarti ieri sera con la bici di Carlo. – Non trovo più la mia mountain bike e qualcuno deve averla presa – sottolinea Carlo. – Vedi, Carlo… – cerca ancora di spiegare Abdul. – Cosa vuoi spiegare, ladro! – lo zittisce Ale. Fede non ci vede più e dà sfogo a tutta la sua collera. 5


– Vuoi lasciarlo parlare o no, attaccabrighe che non sei altro! – Attaccabrighe a me? Parli tu che sei solo un voltafaccia?! Stanno per azzuffarsi, quando arriva il maestro Giorgio che li ferma: – Finitela, voi due! Tenete a freno le mani e smettetela di litigare. Capito? Tutti in classe e vediamo di spiegarci civilmente! In silenzio si avviano in aula, sanno che, se il maestro interviene in quel modo, è arrabbiato davvero. Dopo una discussione vivace, viene fuori che: 1– Abdul ha preso davvero la bicicletta di Carlo. L’ha trovata la sera prima ai giardini pubblici mentre passeggiava col fratello. Era appoggiata a un albero e, per non farla rubare durante la notte, l’ha consegnata al giostraio pregandolo di custodirla nel suo ripostiglio per poterla restituire a Carlo il giorno dopo. 2– Carlo, dopo tanti “se” e “ma”, ha capito che se ha di nuovo la sua bici lo deve ad Abdul e ammette di averla dimenticata ai giardini. 3– Non bisogna accusare nessuno senza averne le prove. Ivonne Mesturini, Un amico venuto dal mare, Il Mulino a Vento

Un amico venuto dal mare Tutti per uno, uno per tutti: questo è il motto della mitica 5a A. A rompere l’equilibrio, però, è un nuovo arrivato: Abdul, ragazzo marocchino timido e in cerca di nuovi compagni. Da quel momento, Federico, Alessandro, Nicolò e Talo non sono più amici. Colpa del nuovo arrivato? E quali segreti nasconde Abdul? Una storia coinvolgente sul valore dell’amicizia e sull’importanza dell’integrazione, senza frontiere né colori.

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MEMORIA STORICA

Il ribelle Attraverso il ritrovamento di alcune lettere e i ricordi della mamma, il ragazzino protagonista del racconto scopre tante notizie sul bisnonno partigiano e sulla sua scelta in difesa della libertà. – Perché sei così preoccupata che Sara resti fuori da questa faccenda del bisnonno partigiano? Mamma serrò le labbra e io mi pentii subito di averglielo chiesto. – Sono fatti miei! – sbottò. Poi si addolcì in viso. – Scusami, non volevo risponderti così. Ti può sembrare esagerato questo mio atteggiamento, lo so, ma ha a che fare con la mia infanzia… Mi fece sedere sul divano e quindi capii che mi avrebbe spiegato per bene. – … Venivo spesso in questa casa, soprattutto durante le vacanze. Mi piaceva molto perché ero attratta dai draghi del cancello, dall’altezza esagerata delle stanze, dall’enorme giardino. Era un mondo perfetto per le esplorazioni di una bambina. Un giorno, avrò avuto sette anni, ero salita in 7


soffitta. C’erano delle bambole meravigliose, tutte vestite di pizzi e ricami. Io insistevo molto per poterle portare a casa, ma il nonno non me lo permise mai. Era irremovibile. – Forse aveva paura che tu le rovinassi. – Secondo me invece ci teneva troppo a conservare i suoi ricordi. Comunque, un pomeriggio, mentre cullavo una di quelle bambole, feci cadere un paio di libri. Li raccolsi subito e nel riporli, da uno dei due uscì un foglio di giornale. Sapevo leggere da poco, ma ciò che mi colpì di quel foglio non furono le parole. La mamma si fermò, sembrava che rivedesse ancora qualcosa davanti agli occhi. – E cosa allora? – chiesi impaziente. – Due fotografie, in bianco e nero. Rimasi in silenzio ad ascoltare. Eleonora Laffranchini, Il ribelle, Il Mulino a Vento

Il ribelle Quando la mamma gli annuncia che avrebbero traslocato, il figlio protesta con forza. L’idea di abitare in una vecchia casa appartenuta al bisnonno non lo entusiasma affatto. Ma quel trasloco, nell’abitazione che tutti chiamano “la casa del partigiano”, si rivelerà l’inizio di un’avventura oltre i confini del tempo. In una mansarda che pare un museo, fra copie ingiallite di giornali antichi, fotografie e appunti, il ragazzo ricostruisce l’atmosfera dell’Italia della Seconda Guerra Mondiale, ritrova voci di uomini e donne che non si rassegnarono alla perdita della libertà.

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VITA DI RELAZIONE

Non trattatemi così! Un avvenimento tragico cambia improvvisamente la vita di Emma: si trasferisce in un’altra città e si trova in una scuola in cui anche le compagne di classe le creano disagi... Emma camminò in silenzio accanto a Federica fino al parco. Quando arrivarono, c’erano alcuni maschi e delle femmine che parlottavano fra di loro. Emma riconobbe alcune ragazze della sezione B. Una di loro, una certa Lucrezia, un tipo di quelle che mettevano in soggezione Emma, aveva un’importante novità da comunicare. – Lo sapete che i maschi hanno fatto una graduatoria? L’attenzione delle sue amiche si accese. – Che graduatoria? – chiese Giada, lanciando un’occhiata dubbiosa verso Federica. – Qual è la ragazza più bella, quale la più brutta, la più simpatica e la più antipatica. Poi c’è una graduatoria a parte per le T.F. Emma non capiva e domandò: 9


– Chi sono le T.F.? Le ragazzine si scambiarono uno sguardo indispettito. – Le T.F. sono le “Tagliate Fuori”! Una ragazzetta si staccò dal gruppo e le chiese: – Ma tu chi sei? – Sono Emma. Faccio la prima A. – Ci credo. Qui se non fai la prima B è perché fai la prima A! Ci sono solo due sezioni. Era vero. Le cose stavano così, però Emma si sentì a disagio. Non era una frase gentile, quella. Lo sguardo della ragazza la paralizzava. Le altre, poi, si erano messe a ridacchiare, e Giorgia aveva detto: – Figuriamoci se Emma non faceva una delle sue domande sciocche! S.Conte - M.Ottino, Non trattatemi così!, Il Mulino a Vento

Non trattatemi così! Il bullismo al femminile è di marca anzitutto psicologica: è fatto di pettegolezzi, esclusioni, prese in giro, piccole bugie... Emma, ragazzina timida, spontanea e brava a scuola, diviene a poco a poco la vittima designata di un gruppo di sue compagne di classe, capitanate da Federica. Attraverso un delizioso romanzo adolescenziale, ambientato tra i banchi di una scuola media di una piccola città d’Italia, gli autori ci portano a riflettere sulle motivazioni psicologiche, le cause e le conseguenze di una problematica sociale molto importante e di estrema attualità.

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VITA DI RELAZIONE

L’altalena della felicità Cercando di scoprire cosa si nasconde dietro all’improvvisa freddezza del suo amico Alex, Marco conoscerà meglio il mondo che lo circonda... Arrivò il primo giorno di scuola. Eravamo tutti in cortile, facevamo chiasso. Ecco Alex, finalmente. Ero felice di vederlo. Gli andai incontro, lo salutai, avrei voluto dirgli tante cose, ma bisognava salire in classe. Entrammo tutti in aula di corsa, spintonandoci fra i banchi per prendere i posti migliori. Io mi ero seduto e avevo buttato lo zaino sulla sedia accanto, ma vidi che lui stava andando in fondo, allora lo afferrai per lo zaino e gli dissi: – Ehi, dove vai? Sediamoci qua. Lo spinsi nel banco, ridendo. Alex si sedette, docile, ma non rise. Quando suonò la ricreazione mi distrassi appena un momento e Alex era già sparito. La cosa mi infastidì perché mangiavamo sempre insieme la merenda e ce la scambiavamo. 11


Quando suonò l’uscita non lo persi di vista: volevo parlargli. – Come stai? – gli domandai. – Bene. – E le vacanze. Che hai fatto? – Il solito. – Ce l’hai con me? – No. – Ci vediamo in piscina? – Non lo so. – Oggi vuoi venire a giocare da me? Ho un nuovo videogioco. – Non posso. – Perché? Non vuoi più stare con me? – No, non è questo… Per tutto il corridoio e per le scale fu così. Uno strazio. Alex non mi voleva parlare, si comportava proprio come se ce l’avesse con me. L’avevo offeso in qualche modo? No, ero sicuro di no. Eppure era cambiato. Mi sfuggiva senza motivo. Stavo perdendo un amico e non sapevo perché. Ci pensai e ripensai e decisi che avrei fatto un’indagine. Maria Strianese, L’altalena della felicità, Il Mulino a Vento

L’altalena della felicità Marco e Alex sono compagni di scuola e amici inseparabili, ma all’improvviso qualcosa li allontana. Alex è ancora seduto nello stesso banco, eppure distante. Marco non si rassegna e comincia a indagare, assieme ad altri compagni. Scoprirà che tanti papà perdono il lavoro e altri arrivano da lontano per cercarlo, che le cose non hanno solo un prezzo ma anche un valore, che è meglio collaborare che competere... Alla fine di una storia emozionante, i due amici capiranno che da soli non si può essere felici: bisogna essere almeno in due, proprio come per giocare su un’altalena.

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CITTADINANZA

Portami con te La mamma di Florentin è partita per l’Italia per lavorare come badante, lui è rimasto in Romania con la nonna. Per superare la nostalgia della lontananza, si tengono in contatto scrivendosi lunghe mail. Ma a Florentin questo non basta...

Lesini, 28 aprile Cara mamma, sei partita da un giorno soltanto e già mi manchi. Lo so che leggerai questo messaggio tra un po’, però avevo fretta di scriverti. Per ora lo faccio su un vecchio quaderno, poi, quando andrò dai cugini, ricopierò tutto sul computer e click, per magia, le mie parole arriveranno da te. E farò come a scuola, che prima di ogni compito scriviamo la data. Così vedrai i miei giorni scorrere, e ti sembrerò un po’ meno lontano. Lesini, 1 maggio Oggi è la festa del lavoro e non siamo andati a scuola. Ho chiesto a nonna se anche in Italia si fa festa e lei mi ha detto che il lavoro si festeggia in tutto il mondo. Forse è l’unica cosa che hanno in comune i popoli della terra. 13


Il lavoro è una cosa bella quando c’è, e brutta quando non c’è. Non avevo voglia di festeggiare il lavoro, che poi è il motivo per cui sei partita. Ma la nonna è stata brava a farmi andare via l’arrabbiatura. Ha preparato i panini con i cetrioli e la senape, e siamo andati a fare un picnic nel giardino della sua amica Denisia, quella che ha più nipoti che denti in bocca. È venuto anche Radu, che ha un debole per la nonna, visto che lui i nonni non li ha mai conosciuti. Ha detto che aveva già mangiato, ma poi si è fatto fuori cinque panini. Peccato che non c’eri, peccato che la sera a casa la tua sedia è vuota, e nel tuo letto c’è la nonna con le gemelle. Mi manchi. Dimmi che tornerai presto. Tuo Florentin

Lesini, 4 maggio Ecco, oggi sono qui dai cugini e dopo aver copiato gli altri due miei messaggi posso spedirteli tutti insieme. Per fortuna quest’anno a scuola è arrivato un computer e la professoressa di tecnologia ci ha fatto esercitare. A scuola però la connessione internet non c’è, e dobbiamo avere pazienza che arrivi il nostro turno per scrivere. Ho detto alla professoressa di rumeno quello che ci eravamo promessi di fare tu e io. Ha detto che è una bellissima idea, e che devo essere fiero di te, che sei andata lontano tutta sola per darmi un futuro migliore. A me questa storia del futuro suona strana. Il futuro non lo conosco, per me è solo il tempo di un verbo; il futuro non si tocca, non ha sapore, non esiste. A volte penso sia un’invenzione, un po’ come le fiabe dove tu puoi metterci dentro quello che vuoi, fare tutto quello che ti pare. Ho detto anche questo alla professoressa, e lei mi ha risposto che sono proprio in gamba, che ci so fare 14


con le parole forse perché leggo così tanto, e che potrei fare lo scrittore. Me lo dice spesso, quando corregge i miei temi. È una fortuna che le parole mi vengano bene, così posso scriverti senza fare troppa fatica. Ma non sono sicuro di voler diventare uno scrittore. Deve essere noioso stare sempre chiuso in casa a scrivere. Io invece vorrei viaggiare, vedere posti sempre nuovi e navigare negli oceani, buttarmi con una canoa giù da una cascata come ho visto fare ieri sera in televisione in quel programma sulle imprese folli che piaceva tanto anche a te. Ecco, a scrivere questi pensieri mi viene da piangere. Sei così lontana e non mi hai ancora scritto nulla. Ti sei già dimenticata di noi?

Lesini, 11 maggio È stato bello sentirti ieri sera al telefono, anche se ero così emozionato che non ti ho detto quasi nulla. Mi hai detto che il giovedì è il tuo giorno libero dal lavoro e che, appena potrai, andrai alla biblioteca. L’ho subito detto al cugino Ion e abbiamo deciso che andrò da lui a controllare la posta. A scuola sono stato interrogato in geografia, indovina che Paese ho scelto di raccontare? L’Italia, naturalmente! E ho preso ottimo. Scrivimi appena puoi. Livorno, 14 maggio Caro Florentin, questa è la prima mail che scrivo. Lettera dopo lettera con un solo dito, come una scolaretta. Ho aspettato qualche giorno perché non ero capace a scrivere al computer e ho dovuto imparare. In questa biblioteca sono molto gentili e ci hanno fatto un piccolo corso: per accendere il pc, entrare nella posta, scrivere e anche allegare fotografie, se ne avremo. 15


Ecco, anche io sono tornata a scuola, ma non sono brava come te! Siamo una decina di donne, quasi tutte mamme. Veniamo da tutte le parti del mondo: Albania, Ucraina, Perù, Africa, e anche Romania, come me. Ho letto le buone notizie che mi scrivi, però non devi farti prendere dalla malinconia. Come vedi, la prima promessa l’ho mantenuta. E appena ricevo il primo stipendio vi manderò qualche regalino. Dai tanti baci a Steliana e Florica, e un abbraccio alla nonna. La tua mamma, che ti pensa sempre. Fulvia Degl’Innocenti, Portami con te, Raffaello Ragazzi

Portami con te Alla stazione di autobus di una città rumena, Florentin saluta la mamma che parte per l’Italia. Andrà a fare la badante, mentre lui e le sorelline rimarranno con la nonna. Florentin ha paura di quel saluto, ha paura che accada anche a lui come al suo amico Pavel, dimenticato dai genitori e sconfitto dalla tristezza. Ma la mamma di Florentin ha intessuto un filo che li terrà in contatto: un appuntamento settimanale con le mail per raccontarsi la loro vita. Florentin parlerà della scuola, dello sport, degli amici; la mamma della scoperta di una nuova città. A un certo punto, però, le mail non bastano più. Florentin prende una decisione coraggiosa che lo porterà a vivere una grande avventura.

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CITTADINANZA

Via Roma 73 Aneta e Damian aspettano il loro primo bambino, anzi la loro prima bambina a cui vogliono dare il nome benaugurale di Speranza, ma qualcosa non va per il verso giusto... – Speranza, voglio che sia Speranza – disse Aneta toccandosi il ventre leggermente prominente. – Promettimi che la chiameremo Speranza – insistette. – Sì... sì, certo... – rispose Damian con un lieve tono di perplessità nella voce. Avrebbe preferito dare alla sua primogenita il nome di sua madre. Aneta alzò il bavero del cappotto e lo strinse attorno al mento con le mani rosse per il freddo; si accomodò meglio sulla panchina, guardò lontano, in un punto imprecisato verso il Danubio che scorreva davanti a loro, quindi appoggiò la testa sulla spalla di Damian. – È un nome così bello, così… benaugurale! Fin da piccola ho desiderato dare questo nome alla mia bambina, se mai ne avessi avuta una – continuò lieve. – Mmmhhh... e se fosse maschio? – chiese lui. – No, tesoro, non sarà un maschio! Lo so. Sarà una 17


bambina. Sarà Speranza, la nostra Speranza! – ribatté lei allegra, spostando la testa e guardandolo dritto negli occhi neri. Damian sentiva che la moglie aveva ragione: sarebbero stati genitori di una bambina. – Torniamo a casa? – chiese lei a un tratto. – Inizia a fare freddo. Si alzarono dalla panchina, si strinsero addosso il cappotto e si avviarono lungo il marciapiede mano nella mano. Il vento freddo scompigliava i loro capelli. Lei oltrepassò con un saltello un piccolo fascio di foglie che rotolavano e lui la guardò sorridendo. Era felicissima: con la bambina, lei e Damian avrebbero formato una famiglia. Arrivò l’inizio della primavera e con essa il rifiorire della natura: l’aria, benché ancora fredda, cominciava a profumare dei primi fiori e di rinascita. Aneta contava le ore che la separavano dalla nascita della sua piccola creatura: non vedeva l’ora di conoscerla. Nelle notti insonni che trascorreva di fianco all’amato Damian cercava di immaginarsi il volto della piccola, i suoi lineamenti delicati, il colore dei capelli. Le parve di non essere mai stata così fortunata nella vita; il suo cuore traboccava di gioia e di attesa. Arrivò l’ultimo giorno di marzo, giorno del parto. Dolori sempre più forti scossero Aneta che, con coraggio, diede alla luce la piccola. Appena dopo il parto, tuttavia, Aneta ebbe un malore improvviso e, nonostante gli sforzi dei medici, il suo cuore smise di battere! Damian aveva appena finito di completare i documenti per la registrazione di sua figlia, quando l’infermiera gli comunicò la notizia: in un solo istante passò dalla gioia 18


per la nascita della piccola alla disperazione per la perdita della moglie. Fermo in quell’orribile corridoio giallo con le pareti scrostate e le sedie verdi, avrebbe voluto urlare tutta la propria rabbia, ma non riuscì a dire nulla, tanto profondo era il suo dolore in quel momento. Prese le scale e corse fuori, disperato. Nel parcheggio dell’ospedale si lanciò a terra in ginocchio e, imprecando, cominciò a battere i pugni sull’asfalto e a maledire quel giorno. Rabbia e angoscia si mescolarono alle lacrime calde che scendevano sulle sue guance; solo, in un piazzale anch’esso deserto. All’ospedale, per rivedere la sua piccola, Damian non tornò il giorno dopo, né quello dopo ancora, né lo fece mai. Speranza, come accadde ad altri bambini, fu affidata ben presto alle cure di un orfanotrofio. Damian non smise un solo giorno di pensare ad Aneta: quand’era arrivato a casa, quella fatidica notte, era stato preso da una rabbia incontrollabile e aveva buttato per terra ogni cosa. Era stato così che aveva rotto piatti e bicchieri, aveva aperto e rovesciato cassetti e, quando in un angolo nascosto tra i documenti aveva trovato un paio di calzine di lana rosa, aveva promesso a se stesso che mai e poi mai avrebbe voluto conoscere quella bambina che, nascendo, le aveva tolto la donna che amava. Il giorno dopo, si era risvegliato in mezzo a cocci di tutti i tipi; aveva raccolto i pezzi più grossi di vetro e di ceramica, aveva ordinato le pochissime cose che erano rimaste intatte negli armadietti, quindi aveva preso le calzine di lana rosa e le aveva gettate nella spazzatura insieme a quella parte di vita felice che sentiva persa per sempre. Con grande dolore, infine, aveva sistemato un po’ di vestiti in una valigia e si era chiuso la porta alle spalle per andarsene. 19


Con i risparmi che possedeva comprò un biglietto per l’Italia. Sola andata. Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto, né dove sarebbe andato a vivere. Il suo unico desiderio era quello di andare via. Di quella bambina, nata e appena intravista, non gli importava nulla: il solo pensare a lei, anzi, lo faceva stare male per la rabbia. Si trovava su un aereo. Se ne stava andando. Aveva appena chiamato per telefono Ioachim dicendogli che aveva deciso di abbandonare la Romania, gli aveva chiesto di aiutarlo a trovare alloggio e lavoro in Italia, sapendo che l’amico abitava lì da parecchio tempo e si era sistemato. Damian sospirò e afferrò senza voglia il giornale omaggio nella tasca dello schienale che aveva di fronte. Michela Albertini, Via Roma 73, Il Mulino a Vento

Via Roma 73 Speranza, Faris e Rafik sono tre bambini di nazionalità diverse con storie avventurose alle spalle. Non si conoscevano prima di andare ad abitare nel condominio di Via Roma 73, un edificio poco curato e sporco. In questo posto sembra difficile cominciare una vita diversa. Proprio qui, invece, tra panni stesi ad asciugare e rifiuti abbandonati, tra partite di calcio e compiti da finire, i tre bambini diventano amici e scoprono che la vita può davvero riservare delle sorprese. Un racconto per riflettere su argomenti di grande attualità: l’immigrazione, l’essere profughi e le condizioni di vita in altri Paesi.

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CITTADINANZA

La domenica è il futuro Gerry è un adolescente viziato ed egoista. Per spavalderia e scarsa consapevolezza, si mette nei guai con la giustizia. La pena che dovrà scontare gli farà conoscere Agata, una ragazzina molto particolare. Un po’ alla volta imparai alcune cose su Agata: era abitudinaria in modo ossessivo. Alle dieci in punto, segnate dall’orologio a parete, andava nel bagno attiguo e si lavava le mani. Poi prendeva dallo zainetto verde, posato sempre nello stesso modo e nel medesimo posto, un pacchetto di biscotti morbidi, sempre gli stessi. Si sedeva sulla poltroncina e apriva il pacchetto con un gesto che si ripeteva immutato: afferrava la strisciolina rossa, la sollevava, la staccava, la posava sul tavolo arrotolandola in due cerchi. Tolta la plastica superiore della confezione, la metteva accanto alla strisciolina. Poi disponeva i biscotti uno accanto all’altro, li contava e controllava che fossero integri. Se un biscotto aveva un angolino sbriciolato, si arrabbiava, spazzava via tutto con la mano e si metteva a gemere. 21


Allora le porgevo un’altra confezione che tenevo pronta per quell’eventualità e lei si calmava. Mangiava i biscotti a uno a uno e, solo dopo un po’ di tempo, mi accorsi che, a ogni biscotto, dava lo stesso numero di morsi. Infine si versava dell’acqua in un bicchiere di plastica verde: acqua minerale gassata, sempre della stessa marca. Agata aveva una vera ossessione per le tende: le controllava, ne aggiustava continuamente le pieghe. Controllava anche la creta blocchetto per blocchetto: ce ne dovevano essere sempre sette sul suo tavolo, non uno di più, non uno di meno. Raccoglieva qualsiasi cosa cadesse per terra, perfino le briciole. Si irritava quando udiva dei rumori forti e improvvisi ma la sua rabbia esplodeva del tutto se qualcuno toccava le sue creazioni: allora tentava di farsi del male. Agata sapeva parlare e si riferiva a se stessa in seconda o talvolta in terza persona. Per esempio diceva, senza guardare nessuno: – Agata, vai a lavarti le mani. Oppure: – Oggi Agata si è stancata molto. E comprendeva ciò che le dicevano gli altri. Per farsi capire da lei bisognava essere chiari e precisi: non coglieva le sfumature della voce né tanto meno quelle di un viso che esprimeva sentimenti. Nei primi tempi, cercai di affascinarla: ero consapevole di come fosse irresistibile il mio sorriso: le fossette che si formavano sulle guance avevano cotto decine di ragazze. Perciò non mi arrendevo e cercavo il suo sguardo, tentavo di intercettare quegli occhi scuri, profondi, ma era impossibile. Lei era sensibile solo alla mia voce quando cantavo, non propriamente alla voce ma al suono delle parole, alla melodia. 22


Imparai queste cose lentamente, commettendo degli errori che adesso considero dovuti alla mia inesperienza e trascuratezza ma che allora imputavo alla “malattia” di Agata, alla sua diversità, all’incommensurabile distanza che la separava da qualsiasi essere umano. Nei primi giorni, aprii una finestra perché in quella stanza blindata mi sembrava di soffocare e provocai una crisi di gemiti e di graffi che non riuscii a contenere. – Non esce mai da qui? – chiesi a Salvatore che era arrivato in mio aiuto. – Sì, tutti i giovedì la portiamo a fare una passeggiata. Ti mostrerò l’itinerario che dovrai rispettare. – Sempre lo stesso? – Sempre lo stesso. Agata ha paura di ciò che non conosce. Anch’io avevo paura di ciò che non conoscevo ma, santa pazienza, cercavo di superare quel timore come tutte le persone normali. Così un giovedì, io e Salvatore portammo Agata a fare la solita passeggiata. Alle nove in punto, lei mise in testa un cappellino verde e controllò i lacci delle scarpe. – Oggi anche Gerardo viene con noi – disse Salvatore. – Anche Gerardo – ripeté Agata senza guardarmi direttamente ma puntando gli occhi sulla mia spalla destra. Uscimmo dalla stanza e la ragazza camminò davanti a noi. Il pavimento del corridoio era di piastrelle bianche e nere: lei posava il piede solo su quelle bianche. Dapprima mi sembrò un gioco strano e ossessivo, poi ricordai che anch’io, a volte, evitavo di calpestare le connessioni fra le mattonelle o le lastre del marciapiede. Agata camminava con passo regolare evitando anche di calpestare le ombre, con la testa inclinata su una spalla e rivolta verso l’alto. 23


Raggiungemmo il recinto degli animali e subito gli asini si avvicinarono. Agata ne accarezzò con dolcezza il muso mite, strappò dell’erba e gliela offrì. Le pecore erano distese sotto un albero. D’un tratto, un galletto rosso e nero svolazzando andò a posarsi sulla schiena di una pecora. La bestia si limitò a girare il muso e il galletto, aprendo le ali, si scrollò tutto e cantò. Fu allora che Agata rise. Per la prima volta da quando la conoscevo udii la sua risata gutturale e strana. Le guance pallide s’imporporarono. E poi disse: – Agata ha riso. – Anche Salvatore e Gerardo hanno riso – rispose Salvatore. – Anche a loro piace il gallo sulla schiena della pecora – aggiunse lei. Era il discorso più lungo che le avevo sentito fare. Non potei fare a meno di commuovermi: Agata aveva permesso a me e Salvatore di entrare nel suo mondo. Paola Valente, La domenica è il futuro, Raffaello Ragazzi

La domenica è il futuro

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Zazzera color miele e faccia d’angelo, Gerardo detto Gerry segue svogliatamente la sua vita fatta di amicizie superficiali, di tante feste e poco impegno. A scuola però questo atteggiamento non paga e, quando Gerry viene rimandato, la combina veramente grossa. Ma la punizione che riceve lo farà cambiare profondamente: Gerry entrerà a contatto con una realtà sconosciuta che lo farà crescere e lo renderà capace di comunicare anche con Agata, una ragazzina che sembra vivere in un mondo tutto suo, apparentemente isolato, ma non del tutto insensibile alle emozioni esterne. Una storia profonda e delicata per avvicinarsi senza pregiudizi al tema dell’autismo.


CITTADINANZA

#HelpJack Syria è alla sua prima uscita in discoteca, ma ci saranno avvenimenti e incontri inaspettati che la metteranno in contatto con un mondo a lei sconosciuto... Jack se la vide arrivare come un pulcino bagnato e indifeso. Quella ragazza aveva bisogno di aiuto. Fece per aprire la bocca ma si bloccò. Ripensò al modo in cui lei lo aveva guardato prima insieme all’amica. Alla paura nei loro occhi e alla vergogna che lui aveva provato. Ma sì, forse era meglio farsi i fatti propri. Non c’era nessuna persona al mondo a cui importasse di lui. Perché mai avrebbe dovuto lui fregarsene di qualcuno? Con la faccia incollata a terra, Syria passò accanto all’uomo. Cercava di camminare in maniera naturale, ma vista da lontano assomigliava a un robot claudicante. Il terrore si era impossessato del suo corpo. Si chiese dove fosse finita tutta la sicurezza di prima. Forse era Ludovica, con la sua debolezza e il bisogno di protezione, a tirare fuori quel lato del suo carattere di cui ora sentiva clamorosamente la mancanza. 25


Un passo dopo l’altro. Né troppo lungo, né troppo corto, per non destare sospetti. Sentì lo sguardo dell’uomo analizzarla come una radiografia. Gli sfiorò il braccio con lo zaino e lo sorpassò. Tirò un sospiro di sollievo a cui fece seguire subito dopo uno starnuto. – Ehi! – urlò Jack. Silenzio. – Hai bisogno di aiuto? – chiese. La voce uscì più rauca del solito. Ma da quanto tempo era che non parlava? Nessuna risposta. Affari suoi. Lui il suo l’aveva fatto. – Hai bisogno di aiuto? – ripeté l’uomo. Il cuore di Syria ebbe un sussulto. La gabbia toracica era una sbarra troppo esile per contenerlo. Certo che aveva bisogno di aiuto. Come mai nella sua vita, avrebbe avuto bisogno di aiuto. Ma quell’uomo non la rassicurava per niente. Con la sfiga che aveva quella sera era facile che l’avrebbe prima violentata, poi uccisa e, come gran finale, nascosto il cadavere in qualche cassonetto. Forse stava esagerando. Probabilmente erano le paranoie della mamma a farla ragionare così. Però, provando a riflettere con lucidità, che aiuto avrebbe potuto darle quell’uomo? Lei aveva bisogno di soldi. Di un telefono. Di un taxi. E quell’uomo, ne era certa, non aveva nulla di tutto ciò. E se invece rimanendo zitta l’avesse irritato di più? Era un particolare a cui non aveva pensato. Avrebbe potuto correre soltanto, ancora una volta, ma si sentiva sfinita. Quel tipo l’avrebbe raggiunta senza problemi. 26


Che doveva fare? Syria si fermò. Poi si girò lentamente verso l’uomo. Pochi metri a distanziarli. – In verità mi sono persa – disse la ragazza. Gli aveva rivolto la parola. Jack era abituato a sentirsi un fantasma invisibile. Impiegò un paio di secondi per essere sicuro che si stesse rivolgendo proprio a lui. – Come? – disse per togliersi ogni dubbio. – Mi sono persa! – ripeté la ragazza. Stavolta più convinta. – Dov’è che abiti? – chiese Jack. Come diceva quel proverbio? Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Però… c’era un però: gli occhi, quegli occhi di un azzurro cristallino le ispiravano fiducia. Erano due fari che brillavano nel buio. Syria decise di seguire l’istinto. Gli disse il nome del quartiere in cui viveva e attese una risposta. – A piedi non ci arrivi – disse Jack. – Lo so. Sto cercando un taxi. Ma sono senza soldi. – Questo me lo hai già detto prima. Allora era vero. Quando prima la ragazza gli aveva rifiutato una piccola elemosina non stava mentendo. O forse sì. Sembrava una cosa da niente, ma in quel momento assumeva una grande importanza per Jack. Si soffermò sull’aspetto della ragazza. Sola. Spaesata. Bagnata. Impaurita. 27


Jack si mise la mano nella tasca. Tastò la manciata di spiccioli che aveva racimolato durante il giorno. Avrebbe potuto assicurarsi un pasto caldo e qualche birra l’indomani. Ci meditò un attimo su. Guardò ancora la ragazza. E pensò che sarebbero serviti più a lei che a lui. Syria vide la mano destra dell’uomo fare un movimento veloce. Iniziò a trafficare nella tasca e le si paralizzò il cuore. Adesso caccia un coltello e mi uccide, pensò. E mentre immaginava il giorno del suo funerale, l’uomo aprì il palmo della mano e Syria non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi. – Sono sette euro. È tutto quello che ho – disse Jack. Syria non respirava. Era sconvolta. – Non è un granché. Ma dovrebbero bastare per tornare a casa – fece Jack mettendo le monete nella mano di Syria. – Grazie – fu tutto quello che riuscì a rispondere. Roberto Bratti, #HelpJack, Raffaello Ragazzi

#HelpJack Syria ha quasi quindici anni e frequenta le scuole superiori. È piena di aspettative per la prima serata in discoteca della sua vita, ma le cose vanno diversamente da come aveva previsto. Si ritrova in strada da sola, in un’estenuante corsa contro il tempo per rientrare a casa entro l’orario consentito. Si accorge di aver perso il portafoglio e di avere la batteria del cellulare scarica. Confusa, stanca e infreddolita, finisce col perdersi e viene avvicinata da un uomo. Si chiama Jack, e ha alle spalle una storia terribile e dolorosa. Un romanzo in cui amicizia e solidarietà, emarginazione e riscatto sociale, disegnano una possibile favola moderna.

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MEMORIA STORICA

È stato il silenzio Isaac e Aurora vivono una vita serena accanto ai genitori. Il papà però ha dei momenti di profonda tristezza e la parola “ebreo” sembra suscitare in lui un’emozione così intensa da risultare inspiegabile… Pioveva a dirotto, tornai a casa accompagnato da Giovanni. La mamma e Aurora mi corsero incontro. Quando videro che ero tutto intero, asciutto e sorridente, si tranquillizzarono. Mi raccontarono che il papà era stato chiamato d’urgenza presso una famiglia di pescatori, dove c’era un neonato con la febbre alta. – Il papà dovrebbe stare tranquillo, è in vacanza – protestai. – Un medico non va mai in vacanza. Quando una vita è in pericolo, deve intervenire. Ha fatto un giuramento, il giuramento di Ippocrate, con cui si è impegnato a salvare le persone. Prima di tutto viene la sua professione, poi il resto. – E la sua famiglia? In che posizione sta? La mamma sorrise e mi accarezzò la testa. – La sua famiglia sta prima della sua professione, Isaac. – Prima di tutto, allora. 29


– Proprio così. Credo che per lui non ci sia niente di più importante dei suoi bambini e di sua moglie. Mentre pronunciava queste ultime parole, il viso di mia madre s’intenerì e io provai una felicità nuova, intensa, che mi scaldava il petto. Aiutai la mamma e mia sorella a preparare la cena. Quando le ombre divennero lunghe, accendemmo le lampade a petrolio. Un uccello ritardatario strillò sulla scogliera. Infine ci fu solo il rumore della risacca. Aurora leggeva un giornalino con i capelli che le ricadevano sul volto come una tenda. Io guardavo fuori dalla finestra spiando l’oscurità. Tendevo l’orecchio per sentire il rombo dell’automobile, ma il papà ancora non tornava. La mamma mise in tavola la cena e ci esortò a mangiare. Io mi rifiutai e mia sorella fece cenno che anche lei voleva aspettare. La mamma ci costrinse a ubbidire. Disse che il papà sarebbe potuto tornare anche a notte fonda e che non gli avrebbe fatto piacere trovarci ancora alzati. Mangiammo in silenzio la zuppa di verdura e un delizioso guazzetto di pesce fresco. Dopo il pasto, Aurora crollava dal sonno. La accompagnai in camera tenendo alta la lampada sopra la sua testa e ritornai in cucina per aiutare la mamma a riordinare. Sul fornello la cena di papà era tenuta in caldo da uno strofinaccio pulito avvolto intorno alla pentola. C’era una grande pace. Lavai i piatti, li asciugai e li riposi nella credenza. – Vai a letto, adesso – sussurrò la mamma. – No, non riuscirei ad addormentarmi. Per favore, mamma, lascia che io resti ancora un poco qui con te a farti compagnia. Lei annuì, scelse uno dei libri con la copertina rosa riposti nella libreria e cominciò a leggere. Sapevo che aveva piacere che leggessi anch’io: era una bella abitudine della 30


nostra famiglia dedicare, tutte le sere, un po’ di tempo a quell’occupazione. Io però ero ancora eccitato dalla giornata trascorsa e non riuscivo a mettermi tranquillo. – Mamma, scusa se ti disturbo. – Non mi disturbi Isaac. Dimmi. – Il papà è ebreo? Lei alzò la testa e si girò di scatto. Il libro le cadde dalle mani e si ribaltò sul pavimento. – Non c’è niente da vergognarsi, vero? – balbettai spaventato dalla sua reazione. Si avvicinò, mi posò le mani sulle spalle e con voce alterata mi chiese: – Dove hai sentito questo, Isaac? – In paese, dai ragazzi. – È stato Claudio a dirtelo, vero? Si tolse una ciocca di capelli dalla fronte e respirò profondamente. Terrorizzato, io non rispondevo. La mamma mi accarezzò le guance per tranquillizzarmi. – Ascolta Isaac. Ascoltami con attenzione. Non c’è niente di male in tutto questo, credimi. Però tu non dovrai dire niente al papà. Non dovrai mai fargli sapere questo. Me lo prometti? – Sì, ma non capisco il motivo. – Hai ragione. Restammo in silenzio per alcuni secondi guardandoci negli occhi. La mamma era pallida, ma più serena ora. Sospirò di nuovo e riprese a parlare con voce rassicurante. – Vedi, il tuo papà ha una ferita. No, non una ferita fisica, ma una ferita morale. Capisci ciò che ti sto dicendo? È una ferita che lo fa soffrire, che si sta chiudendo un po’ alla volta. Quando sarà pronto, ti racconterà la sua storia. Adesso però deve stare in pace. Deve, per quanto è possibile, dimenticare. 31


Mi resi conto solo allora che i miei genitori erano esistiti molto prima che io nascessi e che avevano vissuto una parte della loro vita senza di me. – Anch’io ho una ferita morale. Claudio, con me si comporta in modo insopportabile, mi dà il tormento. – E tu lascialo perdere! Ascolta Isaac, ascolta. Promettimi solennemente che non dirai niente a tuo padre e che non pronuncerai mai la parola “ebreo” di fronte a lui. Ti prego, bambino mio. – Lo prometto. Solennemente – aprii la mano destra e la alzai. Fu allora che la porta si spalancò ed entrò mio padre tutto allegro, con la sua borsa da medico sotto il braccio e un barattolo di marmellata in mano. Li posò su una sedia, baciò la mamma e ci salutò. – Cosa avete combinato? Avete una faccia strana – disse. – Eravamo preoccupati per te. Hai fatto molto tardi. Cosa è successo? – Fammi lavare le mani e ti racconto tutto. Paola Valente, È stato il silenzio, Il Mulino a Vento

È stato il silenzio Il piccolo Isaac ha una bella famiglia: genitori attenti e affettuosi, una sorella minore di nome Aurora ricca di intelligenza e di sensibilità. Eppure c’è qualcosa che non va. Il papà nasconde un segreto, qualcosa che riguarda i nonni paterni. Si tratta di un segreto terribile, che Isaac scopre durante una vacanza al mare. Tra bagni e giochi avventurosi, il bambino viene a conoscenza di un momento fra i più dolorosi della storia umana: la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Un romanzo coinvolgente, consigliato come lettura in occasione della Giornata della Memoria.

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MEMORIA STORICA

La casa che guarda il cielo Per sfuggire alla persecuzione nazista, la famiglia ebrea di Anna Frank si trasferisce in Olanda, ad Amsterdam. Lì, resta nascosta in una casa e, in questo libro, a parlare sono proprio le pareti del rifugio che la ospita... – Nessuno immaginerebbe che oltre quella semplice porta tinta di grigio si nascondano tante stanze – osservò Anna guardandosi attorno incredula. – Sì, questo è un nascondiglio perfetto – dichiarò convinto suo padre. – Dobbiamo, però, finire di oscurare le finestre, altrimenti dall’esterno qualcuno ci potrebbe scoprire. – Questi stracci possono andare bene, papà? – gli chiese Anna, rovistando solerte dentro alcune casse. – Se li uniamo con un po’ di fantasia, potranno diventare delle tendine. – Ottima idea – le rispose, fissandoli poi al telaio delle finestre con delle puntine da disegno. – Oh, papà, te ne sei ricordato – sentii esclamare Anna mentre tirava fuori da un’altra cassa una scatola con la sua raccolta di figurine di stelle del cinema, di principi e di 33


principesse. – Sei davvero straordinario, Pim! – aggiunse al colmo della meraviglia, chiamando il padre con quel curioso nomignolo. – So che tenevi tanto a questi tuoi piccoli tesori – le rispose Otto. – Cosa dici se ne incolliamo qualcuna sui muri nudi della cameretta tua e di Margot? – D’accordo, Pim, così questa stanza triste e disadorna diventerà un po’ più ospitale.

Lì per lì non mi offesi. Ero consapevole di non essere per nulla attraente, così accettai di buon grado che la mia spoglia parete fosse rinnovata. Anna mi spennellò di colla da cima a fondo, poi vi appiccicò le sue amate figurine, tappezzandomi dall’alto in basso. Sulla parete, accanto ai ritratti di famosi attori e attrici, furono attaccati anche dei bambini paffuti con i riccioli biondi, discendenti delle case regnanti europee, come la futura Regina Elisabetta, poi delle curiose scimmiette e alcune riproduzioni di Leonardo da Vinci, di Rembrandt e della “Pietà” di Michelangelo. – Questa camera è più piccola di quella dove dormiremo la mamma e io – disse Otto, – ma non mancherà nulla a te e a Margot: due divani letto, tre armadietti a muro e... – ... un piccolo tavolino proprio sotto la finestra: qui potrò sedermi a studiare e a scrivere il mio amato diario – proseguì Anna con gli occhi che le brillavano mentre tirava fuori da una cartella un libricino con la robusta copertina di cartone a scacchi bianchi e rossi. – È stata la prima cosa che ho infilato dentro lo zaino ieri sera, non avrei mai potuto separarmi da lui... Anna strinse il diario al petto come fosse un tesoro, mentre Otto aprì la porta comunicante che dava nel mio bagno. 34


– È un po’ spartano come arredamento – le disse – ma c’è tutto quel che serve: un lavabo e acqua corrente, anche se solo fredda. Il water si potrà usare solo fuori dell’orario d’ufficio. I tubi di scarico corrono lungo la parete che comunica con il piano sottostante e qualcuno potrebbe sentire il rumore dello sciacquone.

Io promisi in cuor mio che non li avrei traditi e che avrei cercato di zittire il più possibile le mie condutture un po’ arrugginite e rumorose. Anna, sempre salterellando come un grillo, salì la ripida scala di legno che portava al mio piano superiore. – Vieni a vedere, Margot! – la sentii esclamare meravigliata. – È incredibile che in una casa vecchia lungo il canale possa esserci una stanza così ampia e luminosa con doppie finestre sul cortile, un lavandino, una credenza, un fornello a gas e un tavolo. Mi sembra di essere in una pensione davvero singolare! Io non potei fare a meno di sorridere del suo entusiasmo. Sembrava una bambina nel Paese delle Meraviglie. – Questa è la cucina-soggiorno, ma servirà anche da stanza da letto per i signori Van Daan – le rivelò Otto, raggiungendola di sopra anche per paura che le sue grida e il suo saltellare fossero uditi al pianterreno. – Come ti ha già detto la mamma, tra qualche giorno si nasconderanno qui con noi anche il mio socio, il signor Van Daan, con la moglie e il figlio Peter. – Così almeno avremo un po’ di compagnia – mormorò Anna, – anche se quel ragazzo, a quanto ricordo, non mi sembra molto interessante... Giù, Edith e Margot non davano segni di vita. Distese su giacigli improvvisati non muovevano neppure un dito. 35


La vitalità di Anna era invece incontenibile. Per nulla stanca, s’inerpicò su fino in soffitta, incurante della polvere e delle enormi ragnatele che pendevano dalle mie travi piene di tarli. – Sai, Pim – sussurrò, facendo capolino tra un piolo e l’altro della rudimentale scala, – questo alloggio, come nascondiglio, è ideale. Sebbene sia umido e sbilenco, credo che ad Amsterdam non abbiano mai costruito niente di più comodo per chi avesse bisogno di nascondersi. – Devi camminare piano e parlare sottovoce, perché di giorno in magazzino potrebbero udirci – la riprese il padre. Proprio in quell’istante la campana rintoccò il quarto d’ora, come volesse darle il benvenuto. – Che suono gradevole – sussurrò Anna. – Tu sarai per me come un amico fedele. Poi sollevò lo sguardo sopra i tetti fino all’orizzonte, così luminoso e azzurro che la linea di separazione non era chiaramente visibile. “Finché questo c’è ancora” pensò turbata, “e io posso perdermi nel cielo terso, non devo essere triste”. Lorenza Farina, La casa che guarda il cielo, Il Mulino a Vento

La casa che guarda il cielo Anna Frank, la ragazzina perseguitata dai nazisti perché ebrea, ha commosso con il suo Diario intere generazioni, divenendo simbolo della Shoah. In questo racconto si è scelto un originale taglio narrativo: è la casa di Amsterdam, in cui Anna e i suoi familiari trovarono rifugio, con le sue umide e scalcinate pareti, la narratrice partecipe della loro forzata prigionia. È un romanzo che si propone di avvicinare i giovani lettori all’immane tragedia della Shoah, intrecciando finzione narrativa e realtà storica.

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MEMORIA STORICA

Il tesoro dell’Unità Nella casa della famiglia Mazzini è stata organizzata una caccia al tesoro riguardante la storia del Risorgimento italiano. Adesso è giunto il momento della premiazione dei vincitori... Com’era silenziosa la casa, quella domenica mattina. La luce incerta dell’alba penetrò dalle finestre e disegnò strani fiori sulle tende tirate. Bepìn, che si era appena svegliato, si mise a sedere sul letto, si stropicciò gli occhi e si rassegnò: doveva per forza fare la pipì. Uscì dalla camera, entrò in bagno, poi scese le scale e vide Olga che parlava sottovoce con qualcuno che gli dava le spalle. Capelli neri, lisci, e un corpo snello. – Higa! – gridò. Il fidanzato della sorella si girò ridendo e Bepìn si catapultò fra le sue braccia. – Higa! Sei venuto in moto? Due braccia forti lo tirarono su e il bambino si trovò a stringere il collo del giapponese. Adorava Higa perché era allegro, forte e sapiente. 37


Gli aveva promesso di insegnargli lo ju-jitsu, una lotta che lo avrebbe reso invincibile contro i bulletti della scuola. Olga finse di protestare: – Guarda che Higa è mio. Adesso va in cucina a fare colazione, prima che gli altri si sveglino e divorino tutto. Bepìn baciò il viso fresco del giapponese e ubbidì senza fatica. In cucina, la mamma aveva preparato cesti pieni di pane affettato, ciotole con marmellata e miele, uova sode, latte caldo, caffè, biscotti cucinati nel forno a legna e aveva messo nei vassoi i dolci portati in dono dai parenti. L’aria era satura di strane fragranze: frutta meridionale maturata sotto il sole ardente, semi aromatici colti in campi lontani, farine speziate, ricotte profumate di latte fresco, nocciole cresciute nei boschi del lago di Vico, castagne del Trentino, carrube pugliesi, ciliegie marosticane. Lo stomaco di Bepìn intonò la marcia trionfale. Mentre si puliva la bocca con la manica del pigiama, le porte si spalancarono e Margherita spinse nella stanza la carrozzina del pro-prozio Asdrubale. L’anziano tremolava come una ragnatela nel vento. Orson versò un po’ di caffè in una piccola tazza di porcellana e la porse ad Asdrubale. Mentre questi sorseggiava la bevanda, Bepìn guardava affascinato la semplicità dei suoi gesti. Gli pareva che intorno al vecchio la vita procedesse al rallentatore. Nonostante la sua naturale, incontenibile vivacità, il bambino si lasciò cullare dalla lentezza di quella colazione. Gli zii e i cugini parlavano in italiano, ma tutti con un accento diverso, usando anche termini dialettali che lui non aveva mai sentito. Il pro-prozio agitò una mano e Orson si chinò ad ascoltare, poi disse: 38


– Il signor Asdrubale, prima di partire, desidera che ci ritroviamo tutti nel salone per salutarci e per premiare i vincitori della caccia al tesoro. Così alle undici il salone era pieno di gente. Non mancava proprio nessuno. Ogni tanto si udiva lo strillo di un neonato, per il resto tutti parlavano sottovoce. Margherita spinse al centro la carrozzina di Asdrubale e Orson si piazzò al suo fianco. Ci fu silenzio. L’anziano agitò una mano e il gatto Garibaldi gli saltò in grembo. Poi il pro-prozio aprì le labbra e parlò. La sua vocina era flebile e gracchiante come se le sue corde vocali fossero state di carta velina. – Quest’anno ricordiamo l’anniversario dell’Unità d’Italia. Centocinquanta anni. Voi penserete che io sia solo un povero vecchio nostalgico, ma dovete rendervi conto dell’importanza di questa storia. La nostra bella famiglia è formata da persone che provengono da quasi tutte le regioni d’Italia. Voi siete differenti: parlate dialetti diversi, cucinate i cibi della vostra regione e sono diverse anche le vostre caratteristiche fisiche. Però siete tutti parenti e tutti italiani. Parlate una sola lingua, vi riconoscete in una sola Costituzione. C’è voluto tempo per ottenere questo. Molti giovani hanno sacrificato la vita per questo ideale. Mia nipote Olga è fidanzata con un giapponese. Noi siamo aperti al mondo, all’Europa come all’Oriente, ma siamo anche Italiani e dobbiamo sentirci orgogliosi di questo. Ho proposto ai bambini una caccia al tesoro per lasciare in eredità ai vincitori la villa Risorgimento, ma ho sbagliato perché, così facendo, ho suscitato la competizione. Vi chiedo scusa. Villa Risorgimento apparterrà all’Italia. La donerò allo Stato, per fondarvi un museo della nostra storia. Poi Asdrubale continuò: 39


– I bambini però meritano il loro premio, perciò tutti quelli che hanno partecipato alla caccia al tesoro studieranno a mie spese fino all’università e avranno un computer portatile in regalo. Quanto a Bepìn… Nel sentir pronunciare il suo nome, lui sollevò la testa di scatto. – ... quanto a Bepìn, per premiarlo di aver salvato il mio gatto preferito, riceverà ora… “Un regalo solo per me!” pensò il bambino. – ... una spada appartenuta al generale Garibaldi, l’Eroe dei Due Mondi! Il suo valore sentimentale è inestimabile. – Vieni, piccolo – disse Orson sorridendo. Bepìn desiderò di scappare fuori dal salone, ma il papà lo spinse avanti e lui si trovò sotto la mole del segretario. Diventò rosso come una divisa garibaldina. Orson gli consegnò l’arma e scoppiò un applauso fragoroso. Il bambino afferrò la spada, chiusa nella guaina di cuoio consumata dal tempo. – Forte! – disse. Paola Valente, Il tesoro dell’Unità, Il Mulino a Vento

Il tesoro dell’Unità Cade la neve e nella grande casa della famiglia Mazzini arrivano parenti da tutta Italia. Arriva anche il pro-prozio Asdrubale, carico di anni e di quattrini. Proporrà ai pro-pronipoti una caccia al tesoro davvero speciale. Per vincere è necessario conoscere la storia del Risorgimento italiano, risolvere indovinelli, avere il coraggio di entrare in luoghi bui e sconfiggere la squadra di Vittorio e Pio, i cugini più antipatici dell’universo. Ma per essere davvero degli eroi bisogna saper perdere. Un racconto per comprendere il valore e l’attualità dell’Unità d’Italia.

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EDUCAZIONE ALLA SALUTE

Lo scrigno delle farfalle Giulio deve documentarsi e scrivere, insieme alla compagna di classe Ji, una ricerca sull’alimentazione e il funzionamento del corpo umano. Questo è il momento in cui dovrà raccontare alla classe ciò che ha imparato... Dalle finestre, oltre i tetti dei condomini, si intravedeva un cielo nuvoloso. Non pioveva ma le nuvole sembravano indecise sul da farsi. Anche Giulio, seduto nel suo banco, era indeciso. La maestra era appena entrata e tra poco avrebbe chiesto a qualcuno di esporre la propria ricerca di scienze. Ji era pensierosa. Il distacco dal nonno le pesava ancora. Passarono solo pochi secondi e la voce dell’insegnante interruppe le sue riflessioni: – Bene ragazzi... Chi ha voglia di raccontarmi la propria ricerca? Giulio guardò l’amica scoprendo che anche lei lo stava cercando con lo sguardo. “Ma sì, dai! Togliamoci il pensiero” pensò il ragazzo. Decidendo anche per Ji, alzò la mano per offrirsi volontario. 41


Si avvicinarono all’insegnante. In piedi, di fronte a tutti, cominciarono a parlare. Fu piacevole raccontare quello che avevano imparato studiando insieme il corpo umano e l’importanza dell’alimentazione. I compagni di classe si divertirono quando Giulio e Ji fecero vedere le loro diverse piramidi alimentari. Sotto alla sua, sostenuta da una base di brioches, pizze, torte, gelati, hot dog e patatine fritte, il ragazzo aveva scritto “Piramide dei sogni!” La maestra si complimentò con loro per la ricerca e il modo in cui l’avevano svolta. – Bravissimi! Vi meritate proprio un bel dieci! Ho però ancora una domanda da farvi… Giulio sbuffò. Avrebbe preferito tornare a sedersi al suo posto. Avere tutti gli occhi dei compagni puntati addosso non era facile! La maestra per fortuna non notò la sua insofferenza e, con dolcezza, chiese: – Secondo voi, che cos’è il corpo umano? Era una domanda semplice ma, al contempo, difficile. A Giulio vennero in mente le spiegazioni di nonno Chan. Poteva rispondere che era una macchina perfetta costituita da organi, apparati, tessuti e sistemi; oppure che era dominato da due energie opposte, ma dipendenti l’una dall’altra. Si ricordò anche della storia che il signor Ling gli aveva raccontato paragonando il corpo a un grande paese. Ji rimase silenziosa perciò il ragazzo si sentì in dovere di dare una risposta. Le parole gli uscirono dalla bocca in fretta, come se stesse riferendo qualcosa che aveva sempre saputo. – Il corpo umano è… caspita maestra! Dovrei dirti che il corpo è un meccanismo bellissimo dove tutti gli organi, i tessuti e le parti che lo compongono, sono gli ingranaggi. Ma non vorrei rispondere così! – Bene Giulio, allora cosa vorresti dirmi? – lo incoraggiò l’insegnante. 42


– Io immagino che il corpo sia uno scrigno, sì, uno scrigno come quello dei pirati. Con la sua struttura robusta protegge un tesoro prezioso fatto di organi, apparati, tessuti, muscoli... ma non è solo questo. Nello scrigno dei pirati ci sono anche dei misteri, così come dentro di noi ci sono degli aspetti segreti che non possiamo vedere e neppure studiare con il microscopio. – Per esempio? – chiese Rocco stranamente attento. Giulio gli rispose guardandolo dritto negli occhi, senza paura, senza timidezza: – Per esempio le emozioni, le idee, i sogni, le paure, i desideri, i pensieri... La maestra lo fissò con stupore. Era molto meravigliata dalla profondità del pensiero di Giulio. – Bravo! – gli disse un po’ commossa. Il ragazzo diventò rosso come un pomodoro e si aspettò che, da un momento all’altro, Rocco cominciasse a deriderlo, ma non accadde. Anche il compagno lo stava guardando con meraviglia. Sembrava che, per la prima volta, non vedesse in lui un pesce palla, come lo chiamava sempre per deriderlo. Forse, oltre al corpo robusto, riusciva a scorgere anche i suoi pensieri e le sue emozioni. – Ragazzi – propose l’insegnante cercando di non guastare l’atmosfera magica che si era creata in classe, – mi è venuta un’idea! Cosa ne dite di fare un disegno? Ognuno di voi potrebbe rappresentare il corpo umano così come lo immagina, usando un pizzico di fantasia e di immaginazione. Tutti si misero al lavoro con impegno. Disegnare era ancora un compito piacevole anche se erano cresciuti e non erano più alla scuola materna. Concluso il suo disegno, Giulio si avvicinò a Ji. 43


La ragazzina stava finendo la sua piccola opera: aveva rappresentato un grande scrigno di legno con il coperchio un po’ sollevato. Dall’apertura usciva una miriade di farfalle colorate. Sembrava un’esplosione di fuochi d’artificio. – Dal mio corpo-scrigno escono queste farfalle: sono le mie idee, i miei sogni e le mie emozioni – gli spiegò felice, senza aspettare che lui le chiedesse qualcosa. – Escono leggere e delicate dalla mia mente e volano in libertà. – È bellissimo! – le disse l’amico. Dopo qualche istante Giulio puntò il dito su una farfalla più grossa delle altre e colorata di rosso. Volava insieme a una azzurra, più piccola. – Questa farfalla somiglia a me! E questa a fianco potresti essere tu! – commentò sorridendo. Ji lo guardò, gli prese la mano e ricambiò il sorriso. Giulio arrossì: era bello essere il pensiero o l’emozione di qualcuno. Cinzia Capitanio, Lo scrigno delle farfalle, Il Mulino a Vento

Lo scrigno delle farfalle “Bene Giulio, tu dovrai approfondire l’importanza dell’alimentazione per il benessere del corpo umano!” esclama una mattina la maestra. L’alimentazione? Proprio a lui? Giulio odia sentir parlare di quello che si deve o non si deve mangiare! Odia la verdura, la frutta e tutte le cose considerate “cibo genuino”. Ama la cioccolata, le torte piene di crema, le caramelle, il gelato, le patatine fritte, le bibite gassate… Non vuole saperne di sana alimentazione. E se poi la ricerca deve farla con Ji, una coetanea cinese, e con il misterioso nonno Chan… la faccenda si complica davvero!

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EDUCAZIONE ALLA SALUTE

Il campione che sarò Dopo un brutto incidente in motorino, Federica frequenta la palestra riabilitativa di Tazio. Con lui scambia idee riguardo al mondo dello sport e all’eccessiva fama di gloria che spinge adulti senza scrupoli a somministrare sostanze pericolose per la salute dei giovani atleti... Oggi voglio vederci chiaro e soprattutto voglio capirci qualcosa di più. Entro in palestra e subito la musica mi avvolge: “Come si fa, a stringere la vita... intanto fuori scoppia la notte... Dove si va, come si fa... Se vivere da queste parti è come tirare a sorte...” Noto solo ora che al soffitto ci sono casse disposte in diversi punti per cui la musica, pur essendo un leggero sottofondo, si sente bene ovunque. Tazio si sta servendo un bicchiere d’acqua dal boccione. – Buongiorno. Niente cuffie oggi? – esordisce allegro tirando i baffoni. Poi osserva serio la mia andatura claudicante e commenta: – Brava! Vedo che vai sempre meglio. 45


Penso che mi stia prendendo in giro, ma abbozzo comunque un sorriso. Sui tappetini, un paio di bimbi fanno i soliti esercizi per la schiena. Mi accomodo sul lettino e comincio dolcemente a tendere il piede destro. Ogni tanto una fitta mi fa sussultare. Il dolore è reale, non è un ricordo. Tazio si avvicina e comincia a massaggiare la gamba partendo dal piede: – Allora? – si informa. – Come procede? – Medio – rispondo. – Medio... – riprende lui, – medio è sempre meglio che male... Medito che adesso è il momento e azzardo: – Posso farti una domanda? – Chiedere è lecito, rispondere è cortesia – ribatte Tazio senza smettere di massaggiare. – Hai visto il notiziario ieri sera? – No – risponde lui. – Cosa hanno detto? – Quindi non sai niente del ragazzo che il padre costringeva a doparsi per vincere? – Ne ho sentito parlare... – dice lui. – So che la cosa ti sorprenderà, ma non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo genitore disposto a far usare integratori e ogni mezzo lecito e illecito ai figli. – Ma perché lo fanno? – Forse credono che il loro successo li aiuterà a riscattare i propri insuccessi… – Cosa sono gli integratori? – chiedo. Manipolando il muscolo e flettendo la mia gamba risponde: – Gli integratori sono sostanze che agiscono aumentando la capacità di recupero in seguito a sforzi molto intensi, dopo gare o allenamenti. Quelli più usati dagli sportivi sono ad esempio la creatina, la caffeina e le bevande energizzanti. 46


– Ah... – faccio io. – La creatina è una sostanza che il nostro corpo produce normalmente – continua Tazio. – Quindi, come fa a essere una sostanza dopante se il nostro corpo già la produce? – incalzo. – Giusta osservazione – conviene il fisioterapista. – Quindi prenderla non è reato? – Reato? – Tazio scuote la testa. – No. L’assunzione di creatina al momento non è considerato un’infrazione dalla World Anti-Doping Agency e non compare nella lista delle sostanze e dei metodi proibiti. – Ma allora... Lui non lascia che lo interrompa e prosegue: – Allora, se presa in alte dosi per lunghi periodi, potrebbe provocare effetti tossici... tipo convulsioni, disturbi gastrointestinali, danni ai reni, crampi... persino lo sviluppo di un comportamento aggressivo e violento. Pare che a lungo andare sia persino una sostanza cancerogena. – Ma come? – contesto. – Se mi hai detto che è una sostanza che il nostro organismo produce naturalmente! – Infatti, ma produce quella che gli serve quando gli serve. Se tu gliene dai un vagone tutti i giorni non lo aiuti, anzi. Più alta è la dose che ingerisci e peggiori saranno gli effetti. Gli adolescenti poi non dovrebbero nemmeno vederli. Non capisco perché tutti questi divieti per gli adolescenti e sbotto: – E certo, figuriamoci se agli adolescenti è permesso fare qualcosa… – Il vostro organismo è in pieno sviluppo – ribatte lui, – per voi il miglior integratore è una dieta equilibrata. Non dico più niente e lascio che continui il trattamento. – Senti, ma... Hassiba? Come mai è qui? Cosa si è fatta? 47


– Vedi... – spiega lui. – Non c’è solo il doping che migliora le prestazioni agonistiche, c’è anche quello per rallentare la crescita, si chiama Somatostatina. È detto anche volgarmente “ormone anti-invecchiamento”. In passato ha fatto scalpore la notizia che in alcuni Paesi le ginnaste lo assumessero per arrestare lo sviluppo ormonale e mantenere il più a lungo possibile un fisico da ragazzina. – Anche in Italia? – domando allarmata. – Non che io sappia – risponde Tazio. – Ecco come fa Hassiba a restare così piccola e minuta. Sembra che non cresca mai. Ma il suo fisico non ne risente? – Bene non fa di certo. La tua amica è stata sospesa per precauzione, sta facendo dei controlli e intanto l’hanno inviata qui nel mio Centro Riabilitativo. – Per uno sportivo – continua Tazio, – il vero doping dovrebbe essere la voglia di giocare. Sono gli adulti che, come al solito, rovinano tutto. Nello sport l’obiettivo dei ragazzi è solo quello di giocare, divertirsi e provare emozioni. Spesso sono i genitori oppure alcuni preparatori atletici senza scrupoli, che infondono loro aspettative diverse. David Conati, Il campione che sarò, Raffaello Ragazzi

Il campione che sarò Valentino e Yuri sono due promesse del calcio, Federica è una ginnasta, Oljesia una campionessa di nuoto. E poi ci sono Pietro, Fabio e anche Hassiba che coltivano, ognuno a modo suo, il sogno di diventare campioni. Storie diverse che mostrano come lo sport, per restare una nobile passione, debba essere basato soprattutto sul piacere del gioco e della competizione leale, condotta nel rispetto di sé e dell’avversario. È questo che porterà a essere campioni anche nella vita.

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VITA DI RELAZIONE

Il filo che ci unisce Elisa ha un’amica speciale, una betulla, a cui racconta i suoi problemi. Questa volta però il problema sembra molto difficile da affrontare: il suo papà sta facendo la valigia... La settimana di vacanza dai nonni Serristori passò in fretta e la domenica successiva Elisa tornò a casa. Dette un bacio a mamma e papà, poi volò in giardino, verso la sua Betulla. Quante cose aveva da raccontarle! – Ciao – disse Elisa sfiorando qualche rigonfiamento sui rami stecchiti. – Sai che ho conosciuto Clara? È una bambina che impara ad andare a cavallo, è simpatica e poi... mi sa che ha i genitori separati... A quel punto Elisa fissò lo sguardo sulle piccole protuberanze dei rami di Betulla. Pensò che a breve la pianta si sarebbe riempita di foglie e le avrebbe sentite frusciare dal lettino di camera sua. Una delle cose che le piaceva degli alberi era quel cambiamento di aspetto a ogni stagione. Le piaceva anche il fatto che essi restavano sempre lì al loro posto, fissi sulle loro radici; forse per questo la presenza della pianta l’aveva sempre rassicurata, fino da quando era piccola e se 49


ne stava là sotto all’ombra con la mamma, nelle calde sere d’estate. Con quel ricordo nella mente rientrò e corse verso Simona. – Noi non andremo via da questa casa, vero? – chiese a gran voce. – No di certo, cosa ti prende piccola? Poi venne la sera e il momento, sempre atteso, in cui il suo papà le leggeva una storia prima di darle il bacio della buonanotte. Elisa entrò quindi festosa nella camera dei suoi genitori per chiedere al padre che cosa le avrebbe letto quella sera. Le parole, però, rimasero a mezza aria perché ai piedi del letto c’era una valigia e Luca la stava riempiendo. – Cosa fai, papà? – chiese Elisa con un filo di voce. – Ricordi? Ti avevo parlato di una nuova casa molto vicina a questa, ebbene l’ho trovata! È carina, sai, non vedo l’ora di fartela vedere… – E... quando ci andiamo? – riuscì a rispondere Elisa, trattenendo a stento le lacrime. – Nei prossimi giorni, sarai la prima a vederla! Elisa si sentì confusa, un sacco di domande le ronzavano per la testa ma non ebbe il coraggio di farle. Il suo papà le sembrava già abbastanza indaffarato, così si rassegnò e andò a letto da sola, pensando che, forse, anche questo faceva parte del suo “diventare grande”. Il giorno dopo però riprese l’argomento: insistette per vedere la nuova casa del padre e riuscì a farsi promettere che ci sarebbero andati quel pomeriggio stesso. Così la mattina a scuola, Elisa spiegò tutta eccitata a Sofia che sarebbe andata a vedere la sua casa nuova. – Come? Cambiate casa? – le chiese Sofia meravigliata. – No, è il papà che cambia casa. – Allora ne avrai due – disse Sofia. 50


– Di papà o di case? – chiese Elisa. – Di case, no? – rise Sofia. – Sì, ti ricordi quando Marco ha raccontato alla maestra che i suoi genitori si volevano ancora bene, ma non avevano più voglia di vivere insieme? Credo che anche ai miei stia succedendo la stessa cosa… – Insomma avrai anche tu i genitori separati!? Elisa fece di sì con la testa, ma un nodo le strinse la gola e pensò che era facile pronunciare quelle parole per Sofia che aveva i genitori innamorati come due fidanzati. Per lei, invece, la parola “separati” bruciava ancora come un ceffone in pieno viso. Sofia si accorse del turbamento dell’amica e tentò una consolazione: – Dai, ce l’hai sempre i genitori, no? Anche se sono separati… Elisa non ce la fece più a trattenersi, sentì le lacrime bucarle gli occhi e si allontanò gridando: – E tu sei… cattiva… cattiva! Poi corse nel corridoio e si rifugiò in bagno dove pianse disperata. Al suo rientro in classe, la maestra Maria l’accolse con un sorriso e la invitò ad aprire il libro, ma le parole scritte si confondevano, i suoi occhi scivolavano verso la parete e poi verso la finestra, la mente tornava a certe parole scambiate con Betulla, alle sue dormite nel lettone tra mamma e papà. E, come le succedeva da un po’ di tempo, non trovava alcun interesse per ciò che si diceva in classe. Alla fine della lezione, la maestra invitò Elisa a restare e, quando tutti i compagni furono usciti, la guardò negli occhi e disse: – Sofia mi ha raccontato che avete litigato e che a lei dispiace molto di quello che ti sta succedendo. Ricorda che sei una ragazzina. Devi renderti conto dei problemi dei grandi, ma non sta a te risolverli… Mamma e papà ti vogliono bene e desiderano solo che tu sia tranquilla. 51


Comunque, quando vorrai parlarne, io ti ascolterò volentieri! Non temere, tutti ti vogliono bene. Elisa abbracciò la maestra, le strinse le mani come in cerca di un sostegno e si sentì più forte. Quando poi all’uscita dalla scuola, vide suo padre che la aspettava sorridente, dimenticò ogni preoccupazione e corse ad abbracciarlo, salì in macchina e in pochi minuti si trovò davanti alla nuova casa. – Eccoci arrivati, entra – la invitò il papà aprendo il portone di ingresso. – Non c’è il giardino, ma in compenso c’è l’ascensore. Salirono al sesto piano ed eccoli nel nuovo appartamento: un unico locale spazioso con un divano azzurro nell’angolo. C’erano quadri alle pareti e lunghe tende di pizzo davanti alle finestre. A Elisa quell’ambiente sembrò triste e nudo, perciò si strinse al papà dicendo: – E tu starai qui da solo? – No, spesso ci sarai tu a farmi compagnia, vero? – Certo papà, ogni volta che vorrai! Patrizia Ceccarelli, Il filo che ci unisce, Il Mulino a Vento

Il filo che ci unisce “Perché i miei genitori non si amano come quelli di Sofia? Chi mi proteggerà quando papà vivrà in un’altra casa?” Sono tante le domande che passano per la testa della piccola Elisa, tanti i dubbi e le paure che la assalgono da quando i suoi genitori hanno deciso di non vivere più insieme. Però, attraverso l’amore e l’ascolto attento, essi riusciranno a mantenere vivo il legame che li unisce a Elisa e a farle comprendere che la serenità è ancora possibile. Un modo dolce e leggero di affrontare il difficile e sempre più attuale tema della separazione dei genitori.

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VITA DI RELAZIONE

Sono erba, sono cielo Emma ha ascoltato tante volte il nonno, il vecchio Giò, mentre le parlava della voce degli alberi e le insegnava i suoni della natura. Adesso però qualcosa nella mente del nonno si è incrinato... La mattina seguente, il vecchio Giò, com’era sua abitudine, si svegliò presto, appena la luce del sole s’infilava tra le fessure delle imposte. Nonna Sara si alzò di scatto, pronta per portare soccorso. Percepì i passetti incerti del marito che a tentoni cercava la porta della camera per uscire in corridoio. – Buongiorno, vecchio mio! Come siamo pimpanti, stamattina! – lo salutò lieta anche se dalla sua voce traspariva una nota di apprensione. Giò fece una smorfia, chiedendosi perplesso: “Chi sarà mai questa signora?” Aveva i capelli scomposti e dritti come uno che si è rigirato più volte nel letto. Sara lo accompagnò nella stanza da bagno e lo aiutò a lavarsi e a vestirsi. 53


Lo fece, quindi, sedere davanti allo specchio, gli mise l’asciugamano attorno al collo e, con gesti precisi e rapidi, cominciò a insaponargli il viso per radergli la barba. Poi gli asciugò il volto, gli pettinò con cura la chioma candida, ribelle a ogni colpo di spazzola. – Con questa zazzera scapigliata assomigli a un inventore – commentò divertita, accarezzandogli la testa. Giò si lasciava coccolare come un bambino. Emma, svegliata dalle voci, si affacciò in corridoio e, attraverso la porta socchiusa del bagno, seguì incuriosita la conversazione. – Buongiorno signore, la sua faccia mi è simpatica – sentì borbottare il nonno mentre fissava confuso la sua immagine riflessa per decifrarne l’identità. – Giò, smettila di blaterare – lo riprese la nonna, cercando di non dar peso a quei vuoti di memoria che diventavano ogni giorno più frequenti. – Quello sei tu in carne e ossa. Sei ancora un bel giovanotto, non è vero, Emma? – Sembri un cavaliere perfetto! – confermò la nipote spalancando la porta del bagno. – Su, Emma, accompagna tuo nonno in soggiorno mentre io finisco di riordinare le camere. L’uomo si lasciò guidare, arrendevole. Il suo incedere era lento. Emma spalancò la porta a vetri che dava sul giardino. L’aria frizzante del mattino penetrò nella stanza. Prima di sprofondare nella poltrona, Giò indugiò un momento. Amava osservare come la luce inondava ogni angolo della casa in quelle mattine d’estate. – Questa notte la civetta gridava lamentosa... – mormorò, seguendo il filo intricato dei suoi pensieri. – Se ne stava su un ramo della quercia e mi fissava con i suoi occhiacci per spaventarmi. – Dovevi chiamarmi, nonno – gli disse Emma, – l’avrei fatta volare via, gridandole: “Sciò sciò!” 54


– Sciò sciò – ripeté il nonno come un automa, mimando con le braccia il volo dell’uccello. Sara entrò nella stanza con in mano un vecchio album di foto che lasciò scivolare sul grembo del marito. Giò iniziò a sfogliarlo con lentezza. Osservava con attenzione quelle vecchie foto color seppia come se il passato lo attirasse più del presente, anche se gli appariva strano e nebuloso. – Questa è la mia mamma – tirò a indovinare, indicando una giovane donna vestita d’azzurro con i capelli castani raccolti in un elegante chignon. – No, questa sono io, Giò, e qui eravamo in viaggio di nozze – s’intromise la nonna, guardando la foto, in piedi, alle sue spalle. – Tu non sei mia moglie, però le assomigli – ribatté il vecchio che si sforzava di ricordare, attraverso quelle immagini, momenti importanti della sua vita. – Quand’ero piccolo la mamma mi accompagnava al mercato. Oggi voglio andare al mercato! – esclamò Giò, impuntandosi come un bambino che fa i capricci. – Domani, Giò, domani ti porterò senz’altro – rispose Sara, facendo finta di assecondarlo. – Compreremo le ciliegie e la focaccia dolce... – borbottò il nonno, continuando a sfogliare l’album. Accarezzava le foto con le dita tremanti come se, a quel contatto, tutto potesse tornare a posto nella sua testa confusa, piena di immagini che solo lui poteva vedere. “Chissà dove si perde il nostro Giò quando non è qui con noi, quando annaspa nei suoi pensieri?” si chiese Sara mentre sentiva una stretta al cuore. – In che stagione siamo? Stiamo andando verso l’inverno o l’estate? – domandò il nonno a Emma che stava guardando le foto insieme a lui. 55


– Siamo in estate, nonno, e io sono qui in vacanza. Ricordi? Sembrava uno scolaretto che cercava il suggerimento giusto per completare un complicato cruciverba cui mancavano parecchie caselle da riempire. – Queste foto sono importanti per lui, è un modo per ritrovare il proprio posto nel passato – rivelò Sara alla nipote. Giò chiuse gli occhi, stanco per lo sforzo di ricordare. Lasciò quindi vagare la mente. Dietro le palpebre chiuse vide presenze che quelle istantanee evocavano, ma cui non riusciva a dare un nome. Riaprì gli occhi, incapace di capire dov’era. La tenda di mussola bianca alla finestra si gonfiò per un colpo di vento. La stanza fu invasa dal profumo inebriante dell’erba tagliata. Aspirò con le narici aperte quel profumo che si mescolò con l’odore del pollo al rosmarino che stava cuocendo nel forno, in cucina. Il vecchio abbozzò un sorriso, tuffandosi nuovamente nel suo mondo popolato d’immagini fiabesche, accessibili a lui soltanto. Lorenza Farina, Sono erba, sono cielo, Raffaello Ragazzi

Sono erba, sono cielo Emma osserva ogni cosa attraverso lo sguardo meravigliato del nonno che si posa come una carezza sulle piante, sui fiori, sull’erba. Il vecchio Giò, infatti, insegna alla nipote ad ascoltare la voce degli alberi, il canto degli uccelli e, con questi, la musica della vita. Con parole lievi e piene di grazia, questa storia racconta l’esperienza umanissima della malattia dell’Alzheimer che vede sfumare i contorni di ogni certezza, ma ci ricorda anche che la potenza dell’amore resta l’arma più efficace per combatterla. Un romanzo denso di poeticità e delicatezza.

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VITA DI RELAZIONE

La classe terribile La Tranquillity School non rende affatto onore al suo nome: la terza Q infatti è una classe terribile, ma proprio per i suoi alunni è in arrivo una maestra davvero eccezionale... La T.B.P., come veniva chiamata per abbreviazione, era nascosta nel seminterrato della scuola, in uno sgabuzzino pieno di sedie rotte e di ragnatele. La Terribile Brodaglia Puzzolente fermentava in un secchio di alluminio tutto ammaccato, emanando dei miasmi velenosi e viscidi che facevano vomitare. Gli alunni della terza Q la fabbricavano versando periodicamente nel secchio gli avanzi della mensa scolastica, che si decomponevano nell’oscurità dello sgabuzzino dove il personale della scuola non entrava più da anni. Nel secchio ribollivano i resti delle minestre e degli hamburger, delle insalate e dei dolcetti, delle patate e delle uova, pullulanti di vermi e di batteri. Guidati da Patty Blue, i bambini presero il secchio e, turandosi il naso, lo trascinarono nella loro aula. – Ora sistemiamolo sopra la porta socchiusa – ordinò 57


Patty Blue, – così, quando la maestra entrerà, il secchio le cadrà in testa, rovesciandole addosso la T.P.B. – È orribilissimo! – esultò Ralph, che adorava gli scherzi puzzolenti. – Bene! – gridarono tutti. Quando il secchio fu sistemato in precario equilibrio sulla porta socchiusa, i bambini rimisero a posto i banchi e, fingendo di essere alunni supereducati, sedettero composti ad aspettare l’arrivo dell’insegnante. Ed ecco un fruscio minaccioso lungo il corridoio. La porta si aprì. Entrò la maestra. Era nera come la notte. Teneva in mano una strana gabbietta. Si sedette in cattedra. E... orrore! Il secchio non cadde, ma prodigiosamente rimase in bilico sulla porta dell’aula. Finalmente la campanella suonò la fine delle lezioni. I bambini cominciarono a sciamare fuori dalla Tranquillity School. Pioveva. Quelli che non avevano l’ombrello si tiravano il cappuccio sulla testa o se la proteggevano con lo zainetto. Gli alunni più piccoli uscirono per primi, seguiti dai ragazzi grandi, quindi come penultimi se ne andarono soli, educatissimi e diligenti, i fanciulli della terza A. Per ultimi si trascinarono in strada gli alunni della terza Q. Mogi mogi, come ogni giorno accompagnarono Patty Blue fino all’angolo. Svoltato l’angolo, la strada era vuota: transitavano solo alcune automobili e qualche pedone frettoloso. Patty Blue era furibonda. I suoi scherzi ai danni della nuova maestra non avevano dato buon esito. – È stato solo il primo round. Passeremo subito alla riscossa! – proclamò ad alta voce. 58


Un passante stupito si girò a guardarla. Camminando, Patty Blue ripensava agli avvenimenti di quella disastrosa giornata: la nuova maestra si era assisa in cattedra come una regina sul trono e aveva fulminato tutti con un’occhiata serpentina. Fra l’intimorito e il sospettoso, momentaneamente disarmati, i bambini avevano tentato di ricambiare quello sguardo feroce con un’aria di sfida e avevano esibito una faccia alquanto screanzata. Ma Ralph aveva voluto strafare: si era alzato bel bello dal posto, si era piazzato sotto il secchio e aveva sollevato lo sguardo nel tentativo di capire perché non fosse caduto. Proprio in quel momento il secchio aveva cominciato a vacillare e i compagni avevano fatto appena in tempo a dire “Att...” Ralph, per sua fortuna, era riuscito a serrare la bocca ma la T.B.P. gli si era rovesciata addosso con uno splash abominevole, e un fetore insopportabile aveva ammorbato l’aula. Ralph era rimasto immobile per qualche secondo, poi si era messo a singhiozzare disperatamente. I suoi compagni erano rimasti impressionati da quel pianto straziante: egli non aveva mai frignato, neppure quando, giocando a baseball, era caduto e si era ferito un ginocchio tanto profondamente che si vedeva l’osso. – Hai avuto quello che ti meriti, piccolo mascalzone. Ora va’ a fare una doccia! – aveva ringhiato la maestra. Poi aveva suonato per chiamare la bidella. Mentre la poveretta ripuliva il pavimento e i muri schizzati dalla verminosa poltiglia, la maestra aveva rivolto agli alunni un discorsetto di questo tenore: – Miei cari, teneri fanciulli, io sono la vostra nuova Maestra. Se oserete rivolgermi la parola, pretendo che 59


mi chiamiate “Signora Pregiatissima”, oppure “Illustre Dottoressa”. A voi la scelta! Niente di ciò che propongo può essere messo in discussione, perché io sono perfetta. Se mi ubbidirete in tutto e per tutto, andremo d’accordo e potrete apprendere molte cose interessanti, curando la malattia a cui siete tanto soggetti che si chiama “ignoranza nera”. Se non mi ubbidirete... peggio per voi! E così dicendo, la Maestra aveva aperto la gabbietta. A quel ricordo, Patty Blue si sentiva le gambe molli e un formicolio sgradevole nello stomaco, come se qualcosa le camminasse dentro il corpo. I bambini, ammutoliti, avevano visto lampeggiare due occhietti rossi e feroci. Qualcosa di spaventoso aveva cominciato a strisciare fuori dalla porticina. Era nero e peloso. Era un... ratto grasso e ributtante, così lucente e pulito che sembrava essersi appena fatto lo shampoo. La Maestra lo aveva accarezzato appassionatamente, scompigliandogli i peli irti, e aveva dichiarato: – Questa meravigliosa creatura è un topo di nobile stirpe e di rara intelligenza. È il mio tesoro: mi aiuta a tenere la disciplina. Paola Valente, La classe terribile, Il Mulino a Vento

La classe terribile Alunni in gamba, insegnanti competenti e un direttore autorevole: ecco gli ingredienti indispensabili per una scuola che si rispetti. Ma... se in quella scuola capita una classe terribile? Sono guai! E se nella classe terribile capita un’alunna ancora più terribile? È il finimondo! Una storia avvincente e ironica, per riflettere su principi, valori e sentimenti che stanno alla base del mondo scolastico.

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CITTADINANZA

Vado a essere felice Andrea è una ragazzina che non si piace, il confronto poi con una cugina bella e “perfettina” le fa apparire il suo corpo ancora più goffo, ma il coraggio di compiere un’azione di straordinaria generosità compirà il miracolo... È arrivata. Oddio quanto avrei voluto che questo momento non arrivasse mai. Ho desiderato persino un’alluvione, una tracimazione del Tevere come non si era vista da Nerone il folle in poi, con le strade impraticabili, le case che galleggiano e soprattutto i treni che non partono e non arrivano. Stanotte ho sognato che il Vesuvio aveva eruttato e reso inagibili tutte le vie di comunicazione tra la Campania e il Lazio. Mi sono svegliata felice finché non ho ricordato che quello era solo un sogno, un misero sogno. Così adesso è qui. È da Natale che non la vedo. Veramente mi basterebbe incontrarla una volta o due ogni centinaio d’anni, così, tanto per rendere omaggio ai legami di sangue, se ce ne sono. 61


La sento toccare le cose con le manine ingioiellate di bigiotteria. Che grazia, che perfezione, che inusitata leggiadria per una fanciullina di quattordici anni! Perché il malvagissimo destino ha voluto darmi questa creatura come cugina? Sarebbe stato meglio la figlia segreta di qualche parente migrato in America, povera, misera e magari gobba e con il naso adunco. Detesto il buonismo e ammiro i cattivi! – Andrea! Mi chiamano. E io vado. Ciabatto, mi sospingo, arranco, mi lascio guidare da quel festoso richiamo, giù verso il declino. È tutta un sorriso abbagliante, la perfettina. Profuma di creme idratanti e di shampoo al limone. Immagino le mie lunghe soste davanti al bagno, con lei a tolettarsi banchettando tra spazzole e ombretti e io a tentare di trattenere la pipì in libera uscita. – Andrea, hai visto cara, finalmente Gigliola è arrivata! Su, saluta – mi dice mia madre. Sì, saluto Gigliola e la strangolo con un abbraccio virtuale. – Ciao! – mi dice allargando la bocca carnosa. – Uhmm, ciao – rispondo trascurando di evitare il pestaggio del suo nobile piedino, un 35 forse. La guardo meglio: ma dove cavolo le trova scarpe così piccole. Forse in un’altra vita è stata una geisha alla quale avevano fasciato i piedi per non farli crescere. Sono minuscoli davvero. Che siano i piedi di una nana trapiantati su un corpo da sirenetta? Papà mi guarda con una specie di invito sulla faccia. Vorrei far finta di non aver capito, mi sento un’anima cattivo-candida in un corpo tutto sbagliato, come uno sformato che si affloscia appena tirato fuori dal forno. Adesso, anche se ho coperto tutti gli specchi, ne avrò sempre davanti uno implacabile di nome Gigliola. 62


La osservo transitare per la stanza come se fosse già tutta sua e trotterellare sui tacchi da un angolo all’altro, cercando di conquistare spazio. Io me ne sto sull’uscio con il broncio e una fame che mi serra lo stomaco. Guardo il suo girovita e poi il mio: ecco, ci siamo, di nuovo lo specchio che mi perseguita. Allora penso: mangio le ciambelline al limone e glassa o le tartine al burro con l’uovo sodo? Mi decido per le prime: in fondo lo stress ha bisogno di zuccheri. (…) In camera, Gigliola sta sdraiata sul letto tenendo la testa appoggiata a una mano e gli occhi incollati su una rivista. Le giro intorno senza degnarla di uno sguardo e questo forse la stupisce. Sento infatti la sua voce ferma e un po’ zuccherina. – Davvero io non ti piaccio!? – mi chiede. Ecco ci siamo. Ora vorrà farsi dire che è bellissima, vorrà sentirsi rassicurata che io non ce l’ho con lei, dirà che in fondo è stata la natura a farci e costruirci in questo modo e che io non sono nessuno per giudicare, per confrontare... che in fondo nessuno può scegliere il suo aspetto, la sua forma, a meno di manipolazioni, ma queste non sono per noi... Invece non le dico niente. Che si tenga pure i suoi dubbi! Poi non credo che le interessi tanto il mio parere. Forse me l’ha detto più per convenienza: in fondo è un’ospite transitoria, spero transitorissima. – Mi dispiace molto, sai... – continua. Non la smette, ha proprio deciso di intavolare una conversazione del tipo superficial-manontroppo. – Di cosa? – ribatto. 63


– Del fatto che io non ti piaccio. Sì, insomma, che non possiamo essere amiche e cose del genere. Io invece ti voglio molto bene e ti invidio. Bene, bene, ora, signori e signore, passiamo allo show della serata. Non perdete le prossime battute perché lo spasso è assicurato! – Uhmm, uhmm – mi sento mugolare come un toro che prende la rincorsa. – E cosa invidi di preciso, i quindici chili sulle cosce, i peli sotto il naso o i capelli crespi? – Sei molto carina Andrea, solo che non vuoi esserlo veramente, ecco tutto. E poi tu hai quegli splendidi cuscini di grasso che ti proteggono, ti tengono calda calda, non ti fanno sentire gli spigoli appuntiti e i chiodi che ti trapassano. A me si riferiscono sempre coi diminutivi: “Gigliolina”, “stellina”, “così carina”. È una barba, Andrea, una noia, una cosetta, appunto. Anzi una cosina-ina. Dove vuoi parare cuginetta ultra-terrena? Cosa mai vuoi farmi credere? Loredana Frescura, Vado a essere felice, Raffaello Ragazzi

Vado a essere felice Andrea deve imparare ad accettarsi, a partire da quel nome dall’identità incerta per lei che è femmina; deve convivere con l’immagine del proprio corpo e dominare il desiderio di cibo. A questo si aggiunge l’arrivo di Gigliola, sua cugina e coetanea, che sembra possedere tutta la bellezza e la grazia che Andrea non riesce a conquistare. Una scoperta imprevista, però, avvicinerà Andrea a Gigliola e la spingerà a un gesto di intensa generosità che farà di lei una persona adulta. Fabio l’Imbranato e uno strano angelo contribuiranno, poi, a costruire una storia esilarante, a volte tenera, mai banale.

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CITTADINANZA

Il cielo tra le sbarre Felice ha commesso un omicidio e finisce in carcere, ma si tratta di un carcere particolare, in cui il profumo del mare, la cura degli animali e la bellezza della natura possono davvero curare l’anima di chi ha sbagliato... Fu quando lo trasferirono nell’isola carcere, dove il libro del veterinario diceva che gli uomini e gli animali erano liberi, che Felice si accorse di essere diventato grasso. Arrivò dopo un giorno e una notte di viaggio, chiuso dentro un cellulare della polizia e poi trasferito sottocoperta, piantonato a vista, in una nave dove avvertiva solo il rullio del mare grosso e l’odore forte di gasolio. – Sei sempre stato sdraiato a guardare tra le sbarre del cielo? – gli chiesero i suoi nuovi compagni, quando videro quanto era grasso. Furono Pino e Luca i primi ad accoglierlo, sul molo, mentre sbarcava con la testa confusa e il cuore che batteva troppo forte. – Qui non succederà – dissero. C’erano salite e discese, vigneti e ulivi secolari e animali da curare e portare al pascolo, aggiunsero. 65


L’isola carcere era lontana dalla grande isola dov’era nato Felice. Ma era così piccola, che da ogni promontorio e da ogni cima si poteva guardare il mare. “Il mare dei nomadi” pensò il ragazzo, che in prigione aveva ormai compiuto l’età che compie un uomo. Quando salì sulla macchina che lo conduceva alle case del carcere, accompagnato da due guardie e da Pino e Luca, si accorse che erano molti gli uomini che camminavano da soli lungo i sentieri. – Detenuti – gli dissero e glielo ripeterono, perché Felice sembrava non crederci, anche se lo sapeva che in quel carcere i detenuti erano liberi di muoversi e di lavorare. Lo aveva letto tante volte e lo aveva immaginato con una gioia che gli scuoteva il petto. Nessuna recinzione, nessun muro con il filo spinato, nessuna torre con le guardie armate: il carcere non era grigio, ma verde come l’odore dei prati e rosso come i tetti delle case. Case piccole con le celle che venivano chiuse solo di notte, ma che a volte venivano aperte se c’era un animale che bisognava accudire. Accadde quasi subito, quando Felice per la prima volta raccontò senza nessun timore che faceva suonare le pietre, e il direttore che lo ascoltava lesse poi tutte le carte che parlavano di lui. Erano le carte che avevano spedito dal carcere chiuso e che descrivevano il suo carattere mite e la buona condotta, grazie a cui aveva già ottenuto uno sconto di pena. Il direttore del carcere era un uomo dal sorriso gentile che amava passeggiare tra i sentieri dell’isola, guardare il mare e scambiare qualche parola con i detenuti. Chiese ufficialmente a Felice di occuparsi delle pecore, di condurle al pascolo, di mungerle all’alba e poi di nuovo nella stalla, alla sera, prima di ritornare in cella. 66


– So anche tosarle – rispose Felice. Lo aveva imparato da bambino, anche se allora non lo faceva da solo e stava molto attento a non far loro del male. Da quel giorno, nella sua breve transumanza, Felice percorse l’isola con il gregge, tra cisti e cespugli di santolina, tra pietre che raccoglieva e a volte incideva con uno scalpello a punta, che nel carcere libero il direttore gli aveva permesso di portare con sé. Contava le barche e le navi che si vedevano all’orizzonte. Le immaginava, tra i flutti bianchi, come pastori che veleggiavano sospinti dal vento. Non c’erano strade, sentieri, sbarramenti umani in mare. Solo la via del coraggio che faceva andare e poi ritornare. Quasi tutti i detenuti si occupavano della terra e degli animali. Luca strigliava le mucche adulte, si prendeva cura dei cavalli e degli asini che brucavano l’erba dei prati. Non c’erano mangimi nell’isola e neppure concimi chimici: il letame restituiva letizia e ricchezza ai campi. Pino, che fuori dal carcere era stato contadino, aiutava anche i vitelli a nascere e poi li attaccava alla madre, perché il latte fosse prima per il figlio e poi per il laboratorio dove veniva preparato il formaggio da spedire in continente. E con il formaggio venivano spediti in continente anche le bottiglie di olio che ogni novembre si ottenevano al frantoio. E gli animali che ogni settimana venivano caricati sul carrello blu e portati al macello. Alcuni detenuti, dopo i lavori all’aperto, negli orti o presso le arnie dove le api producevano il miele, di sera tornavano in cella con i cani e i gatti che avevano trovato randagi e feriti lungo i sentieri dell’isola e con cui ora condividevano parte della loro vita. 67


Le celle erano quasi tutte singole e dalle finestre aperte sul promontorio si udivano spesso gli abbai e i miagolii di cani e gatti che rispondevano con gioia alle parole e alle carezze che ricevevano, senza mai fare domande. Non domandavano neppure cosa sarebbe stato di loro a fine pena, ma si fidavano, pensava Felice. E infatti alla fine della detenzione, spesso gli uomini che tornavano alle loro case portavano con sé i cani e i gatti che avevano accudito, e da cui, con la stessa compassione, si erano sentiti curati. E, se non potevano farlo, li affidavano ad altri compagni che a loro volta li curavano come avevano fatto i primi. Era una cura dell’anima, si ripeteva Felice, quella degli animali, che rendeva gli uomini più indulgenti verso se stessi e verso gli altri. Emanuela Nava, Il cielo tra le sbarre, Raffaello Ragazzi

Il cielo tra le sbarre Felice ama il mare, il suono delle pietre, i profumi, la natura della sua terra. È una terra di sapienza profonda, di riti antichi grazie ai quali le donne anziane del villaggio riescono a salvare il ragazzo dal veleno potente dell’argia, il ragno della vita e della morte. Così Felice continua a vivere, a crescere e diventa un pastore, un vero pastore che ama il suo gregge e per proteggerlo è disposto a uccidere. Una storia potente, che ci parla di forti radici e umane fragilità per ricordarci come anche dal male, attraverso l’esperienza di un carcere che educhi, che guidi al rispetto per tutto ciò che vive, si possa rinascere e guardare oltre.

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CITTADINANZA

Il Cacciatore di Aria Dabilonia è una città resa invivibile dall’inquinamento. Il professor Conrado Lysenko ha messo in guardia il Comitato Centrale di Controllo sui pericoli che corre la città, ma il Comitato non intende ascoltarlo... Dabilonia era una città senza atmosfera. O meglio, l’atmosfera c’era, ma era diventata irrespirabile, tossica. Quella miscela di gas che avvolge la Terra e che ha permesso - grazie alla presenza di ossigeno - lo sviluppo della vita e la sua evoluzione in miliardi di anni, a Dabilonia si era trasformata, a causa dell’inquinamento, in una minaccia per la sopravvivenza di tutti. Nessuna traccia dell’azoto e dell’ossigeno, i due gas principali che compongono l’aria, grazie ai quali tutti gli esseri viventi possono respirare e sopravvivere. Ai bordi delle strade, i pochi pedoni camminavano curvi e veloci. Nessuno passeggiava mai a Dabilonia. Al massimo, andava da qualche parte a piedi, intendendo il lavoro, la scuola, la propria casa. Tutto era assegnato dal CCC, il Comitato Centrale di Controllo, che governava la città e che 69


stabiliva persino con chi sposarsi. Nessuno si lamentava o si ribellava perché il CCC aveva informatori ovunque e spiava i cittadini con un sistema di microcamere nascoste. Dove, non era dato saperlo. Impossibile dire se il tempo fosse buono o cattivo: il sole era oscurato da uno strato di smog che impediva ai raggi di passare e di raggiungere la superficie terrestre. Di solito il cielo era grigio, a volte color ocra e allora si era stabilito che fosse l’equivalente di una bella giornata. Il professor Conrado Lysenko era uno dei tanti scienziati che avevano messo in guardia il CCC sui pericoli a cui Dabilonia andava incontro a forza di abbattere alberi per costruire edifici di cemento. Ma il Comitato Centrale di Controllo, che aveva preso il potere con libere elezioni e non l’aveva più restituito, non aveva voluto ascoltarlo. Anzi Conrado era stato licenziato dall’università. Li chiamavano “vecchi retrogradi”, “nemici del progresso”. Il cosiddetto progresso di Dabilonia richiedeva una produzione sempre maggiore di energia da petrolio e carbone, con emissione eccessiva di anidride carbonica e altri gas: anidride solforica e solforosa, polveri sottili che inquinavano l’atmosfera, rendevano il clima ogni anno più caldo e facevano ammalare anziani e bambini piccoli. Ma piuttosto che ammetterlo e ridurre i consumi, il CCC rese obbligatorio l’uso dell’aria condizionata, con un dispendio ancora più alto di energia. Le piante iniziarono a morire, avvelenate dall’inquinamento, uccise dalla mancanza di sole, sempre coperto da una coltre di smog, impossibilitate a riprodursi perché prima di loro erano morte le api. E siccome le piante non c’erano più, l’ossigeno a Dabilonia cominciò a scarseggiare, perché non veniva più rinnovato. 70


Tutti gli esseri viventi, infatti, respirano nello stesso modo: inalano ossigeno ed emettono anidride carbonica. Mentre a Dabilonia si manifestavano i primi segnali della crisi ambientale, Conrado fu ritenuto responsabile dell’estinzione di piante e di animali. Uscirono articoli sui giornali, servizi in televisione che lo descrivevano come un uomo dall’ambizione smisurata, privo di scrupoli, disposto a tutto pur di raggiungere i propri scopi. Poi gli esperti di comunicazione del CCC si resero conto che parlare troppo dell’estinzione delle piante avrebbe potuto essere controproducente. Anche perché il professor Lysenko era stimato da tutti, amato dai colleghi, una specie di idolo per i suoi studenti. Nessuno lo avrebbe mai creduto capace di una cosa del genere. Così il CCC seguì un’altra strategia: cancellare la memoria. Quando l’ultima pianta si estinse, ogni traccia del mondo vegetale venne eliminata dai libri. L’utilizzo dei computer doveva essere autorizzato dal CCC. internet era stato bandito e sostituito con Interlon, una rete con collegamenti limitati e controllati, che impediva di sapere cosa accadesse fuori da Dabilonia. Dopo le api e le piante, iniziarono a sparire gli altri insetti, gli uccelli e poi tutti gli animali. E quando non ne restò più nemmeno uno, il CCC decise che era arrivato il momento di un cambiamento radicale. Dissero che le piante, gli animali e qualsiasi elemento del mondo naturale non si erano estinti, ma non erano mai esistiti. Vennero confinati in un passato di racconti mitologici: l’Età del Prima. Poi era arrivata l’Età del Progresso, dove la felicità e il benessere erano garantiti dal CCC che si occupava di depurare l’aria e di riciclarla, forniva bombola e mascherina a chi doveva uscire di casa, produceva cibo sintetico in pillole e beveroni. 71


In definitiva il CCC aveva stabilito per legge che l’Età del Prima forse non era mai esistita. L’importante era non parlarne mai, nemmeno a bassa voce, perché il CCC sarebbe venuto a saperlo. Gli abitanti di Dabilonia all’inizio si sentivano controllati perciò impararono a non parlare, a non esprimere i loro pensieri. Poi dimenticarono di essere controllati ma ormai erano così abituati a tacere che continuarono a farlo e smisero persino di pensare. Nel frattempo a Conrado Lysenko era stato proibito di insegnare, e tutti i suoi libri erano stati sequestrati e bruciati. Francesca Capelli, Il Cacciatori di Aria, Il Mulino a Vento

Il Cacciatore di Aria A Dabilonia, una città ambientata nel futuro, l’aria è irrespirabile, tanto che le piante e gli animali si sono estinti a causa dell’inquinamento. La giovane Aida crede però che da qualche parte esista ancora la possibilità di una vita diversa. Con l’amico Daniel decide di fuggire dall’orfanotrofio in cui è rinchiusa e va alla ricerca di un mondo dove la natura non sia scomparsa. Un misterioso personaggio si offre di aiutarli: manterrà la sua promessa o li tradirà?

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CITTADINANZA

Il pozzo dei dalit Ramesh, un bambino indiano appartenente alla casta dei dalit, gli “intoccabili”, lotta per avere accesso al pozzo che distribuisce un bene indispensabile: l’acqua potabile... Era ancora giovane, poco più che una ragazza, ma era già vedova. Il corpo emaciato, il viso scavato, portava su di sé tutti i segni di una sofferenza antica. Chiuse gli occhi e il suo respiro diventò affannoso. Un paio di mosche le si appiccicarono all’angolo delle palpebre. – Non ti preoccupare, mamma. Lavorerò io per te. Prima però devo trovare dell’acqua – affermò Ramesh con baldanza e sicurezza. Nonostante fosse piccino, l’aveva già sostituita alcune volte quando gli attacchi di malaria le impedivano di alzarsi. – Se non avessi te... – sussurrava lei senza terminare mai la frase. Ramesh sapeva che cosa avrebbe aggiunto: se non avessi te, sarei stata cacciata dal villaggio. Era il destino delle vedove dei paria senza figli maschi. 73


Il bambino prese il secchiello ammaccato che serviva per prendere l’acqua. Uscì dalla baracca che si trovava nella parte più sudicia e polverosa del villaggio, abbastanza lontana dalle altre case e controvento rispetto a quelle, in modo che neppure l’odore degli intoccabili raggiungesse gli appartenenti alle caste superiori. C’erano altre baracche di dalit lì intorno, costruite con assi malamente inchiodate, pezzi di cartone, stracci, teli di nylon. Sorgevano in un avvallamento del terreno tra pietrame, polvere rossa e rade piante rinsecchite, brucate da capre magre e ossute. C’era anche lo scheletro di un autobus, con due vecchi e una bambina che ci dormivano dentro, e perfino una casa scavata nella terra, poco più di un buco, abitata da quattro persone. Ramesh imboccò un sentiero in leggera salita. I suoi piedini nudi battevano ritmicamente la terra facendo fuggire enormi coleotteri color piombo. Una grande mucca bianca era stravaccata in mezzo al sentiero. Aveva una faccia sorniona, occhi liquidi e una ghirlanda di fiori di carta le adornava le corna. I fiori, coperti com’erano di mosche, sembravano vivi. Il bambino si guardò intorno con attenzione. Accertatosi che in giro non ci fosse nessuno, posò ambedue le mani sulla schiena della bestia e saltò dall’altra parte con uno strillo di vittoria. La mucca non si scompose e continuò a ruminare, assorta nella difficile digestione. Uno sciame di mosche si alzò ronzando nell’aria rovente. Quasi subito gli insetti ritornarono ad affollare la ghirlanda. – Hai toccato la sacra vacca di Krishna – disse una vocetta petulante. Ramesh sussultò e il cuore gli salì in gola. Si era dimenticato di guardare in alto, sopra il vecchio ficus contorto, le cui radici attraversavano il sentiero chiazzato dall’ampia ombra della chioma. 74


Trattenne il respiro e poi sbuffò sollevato. Fra i rami c’era Lalita, la bambina che viveva nella carcassa dell’autobus, una piccola insolente dalle unghie dei piedi lunghe come artigli. Il suo corpo bruno brillava tra le foglie, coperto solo da un drappo lurido che le cingeva i fianchi. – Fatti gli affari tuoi! – le disse. – Dove stai andando così di corsa? – Dove mi pare! – La tua mamma sta male di nuovo, vero? Non è ancora uscita. Ramesh si trattenne dal raccogliere un sasso per scagliarglielo addosso. Il pensiero della mamma diventò all’improvviso così urgente, che lui si degnò di rispondere in modo cortese, anche se non era dignitoso parlare con una femmina. – Devo trovare dell’acqua, poi andrò a lavorare al posto suo. – Non abbiamo accesso al pozzo. – Lo so benissimo. È inutile che me lo ricordi ma devo comunque trovare dell’acqua. Pulita. – Pulita? Per noi non c’è acqua pulita – mormorò la piccola con un sorriso birichino. Ramesh scrollò le spalle e riprese il cammino. Arrivò sull’orlo dell’avvallamento e sbucò su una piana soleggiata. All’orizzonte si stagliavano alte montagne azzurre, così lontane da sembrare un miraggio. Il bambino non sapeva come si chiamavano. Erano coperte di neve e la neve era formata da acqua solida. Acqua che avrebbe potuto dissetare tutta la sua terra, l’India. Ce n’era tanta lassù ma pochissima nel suo villaggio. I pochi ricchi che vi abitavano avevano l’acqua in casa perché potevano riempire in continuazione gli enormi serbatoi che stavano sui tetti oppure possedevano un pozzo privato. Gli altri attingevano all’unico pozzo pubblico con una pompa a motore. 75


Chi poteva permettersi di pagare il carburante prendeva l’acqua senza faticare troppo, chi non aveva abbastanza denaro la tirava su a mano. Era acqua pulita che sgorgava dalle profondità insondabili della madre terra, con cui ci si poteva lavare, si poteva cucinare e bere. Ramesh non poteva attingere dal pozzo perché lui apparteneva alla casta dei dalit, i paria, gli intoccabili. Lo sapeva bene, ma pensò di nuovo a sua madre e affrettò il passo. Giunse al centro del villaggio, il pozzo era come al solito inavvicinabile. C’era sempre qualcuno nei dintorni e forse solo a notte fonda Ramesh avrebbe potuto rubare un po’ d’acqua. Avrebbe anche potuto aspettare che una persona ne attingesse un secchio per lui ma spesso l’attesa era vana e lui non aveva proprio tempo. Doveva trovare un altro modo di procurarsi dell’acqua. Paola Valente, Il pozzo dei dalit, Il Mulino a Vento

Il pozzo dei dalit Ramesh, un bambino povero che vive in India, lotta contro chi vorrebbe impedirgli l’accesso al pozzo di acqua potabile. “L’acqua è un bene troppo importante per dividerlo con tutti!” dicono i ricchi. Tra avventure drammatiche e nello stesso tempo divertenti, il lettore potrà comprendere sia gli aspetti scientifici, sia gli aspetti ecologici, di una delle sostanze fondamentali presenti sul nostro pianeta. Un racconto per conoscere l’acqua, la sua natura, la sua importanza. Chiamata “oro blu” per quanto è preziosa, l’acqua ha permesso che sulla Terra si formasse la vita.

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GRANDI PERSONAGGI

Leonardo e il Fiore della Vita Leonardo Guidi deve il suo nome alla passione del padre per il genio di Vinci e, insieme alla compagna di classe Lia, si trova coinvolto in uno strano enigma che ha al centro il Fiore della Vita... La campanella della ricreazione ha decretato la fine della verifica. Con le nostre prove tra le grinfie, la prof si è defilata. Ho sospirato, sollevato, mentre Mattia si alzava dalla sedia, esclamando: – Ah, la ricreazione... finalmente! Vado a mangiare. Vieni anche tu, vero? – Oggi no, Matti. Devo cercare una cosa in biblioteca. – Biblioteca? Ci vai da solo, Leo! Stavolta non ti seguo. Ho fatto spallucce e gli ho dato il cinque mentre se ne andava. Poi, ho sollevato la testa e ho guardato verso il banco di Lia. Rivolevo i miei fogli. Ma lei mi ha anticipato, posandoli sul mio banco, come se scottassero. 77


– Scusa... erano nella custodia della tua chitarra – ha mormorato, rossa in faccia. “Lia Monti mi sta parlando?” ho pensato, sbalordito. “Che succede? È la fine del mondo?” – Complimenti, Leonardo – ha aggiunto infine d’un fiato. – Complimenti? E per cosa? – Per questo! – ha mormorato, seria, indicando il disegno. – Come fai a conoscere il Fiore della Vita? – Che? Cosa? Quale fiore? – ho domandato. Lei ha indicato gli scarabocchi circolari e la sequenza di numeri, aggiungendo: – La tua è stata un’ottima intuizione, Leonardo! Non fare il buffone con me. Io so come sei davvero. Come faceva a saperlo se non lo sapevo neppure io? – Questi sono soltanto dei... ehm, dei cerchi tracciati a mano, con dei numeri a caso – ho balbettato. – E poi, io come sarei davvero? Sentiamo. – Be’, molto più bravo di come vuoi sembrare... Ho lanciato delle occhiate nervose intorno, implorando che la sorte fosse benigna e che nessuno ci sentisse. Se passava il professor Acuti da quelle parti, ero spacciato. – I tre cerchi che hai tracciato rappresentano il Tripode della Vita, così come il numero 3 scritto sotto il simbolo – mi diceva intanto Lia. – Il Tripode è una sequenza del Fiore. Perciò, hai avuto un’ottima intuizione, te lo ripeto. – E tu che ne sai? Lia Monti, la sapientona, non sgarra mai? Non potevo credere che stesse intaccando il mio super mistero. Però, quando ho notato che è diventata ancora più rossa, mi sono pentito. Forse ero stato troppo duro con lei, ma ero geloso. Quel mistero era soltanto mio. O no? – Ma che sapientona! La verità è un’altra! – ha esclamato. – Shhhh! – l’ho rimproverata di nuovo. Si è guardata intorno, sbuffando, poi ha aggiunto, a voce bassa: 78


– Non lo dire in giro, per favore, ma io sono un’appassionata di... botanica. – Da quando in qua la botanica è una cosa di cui vergognarsi? E poi, scusa, ma che c’entra la botanica con questo disegno? – le ho chiesto, sventolandole il mio disegno sotto il naso. – Forse questi sembrano fiori ma non lo sono. – Hai ragione: la botanica è stata solo un pretesto. Tempo fa, cercando su internet altre cose, mi colpì il nome di questo simbolo. Era così bello... Fiore della Vita! Ed era così evocativo che decisi di leggere a quale fiore appartenesse. Così ho scoperto che non si trattava di fiori. Ecco perché ho riconosciuto subito il tuo simbolo! Ed ecco perché so cos’è! Stavo per chiederle col cuore in gola: Perché? Che cos’è?, quando, discriminando nel caos di voci e di risate, ho registrato il rimbombo di passi familiari nel corridoio. Mi sono voltato, abbassando il braccio che sventolava il disegno e nascondendolo dietro la schiena. Giusto in tempo... – Salve, ragazzi! – ha salutato Raffaele Acuti ad alta voce, rivolgendosi al gruppo classe che affollava il corridoio. Poi ha guardato all’interno: vedendo noi due, ci ha sorriso, indeciso. Ignara, Lia ha esclamato: – Buondì! Prof, mi scusi, posso parlarle? Invece di entrare e di ascoltarla, lui si è dileguato, come se non avesse sentito. – Strano che non sia entrato – ha sussurrato Lia. – Eppure l’ho chiamato! Non è da lui: è sempre disponibile. Ho deglutito a vuoto. Ecco, questo era uno di quegli indizi che non avrei voluto registrare. Il prof di tecnica si comportava stranamente. Quanto odiavo avere ragione... Dietro di lui sono apparsi Rachele, Filippo e Jacopo. Ci hanno lanciato delle occhiate minacciose. 79


Hanno fatto qualche commento che non abbiamo sentito, ma certamente velenoso. Infine si sono dileguati, inghiottiti dalla marea umana che passeggiava su e giù, chiacchierando, masticando, bevendo e ridendo. Vedere il professore reagire in modo insolito e sbiancare, per me è stato tutt’uno. Lia ha colto la mia reazione. Così ha fissato i fogli che tenevo ancora nascosti dietro la schiena. – Ma che ti succede, Leo? Che c’è? Avrei voluto risponderle male o ignorarla, come facevo sempre. Invece il suo tono comprensivo mi ha sconfitto. Benedetti secchioni! Quando la loro intelligenza diventava forza empatica vincevano sempre. – Ho-bisogno-di-aiuto – ho sussurrato. Mi sembrava di annegare nell’incertezza. – Però-ho-bisogno-anche-dellamassima-segretezza. Puoi? Lia ha annuito, con un’espressione indecifrabile in viso, e si è portata le dita sulle labbra, come i bambini piccoli. – Te lo giuro! – ha detto. – Vieni con me, allora – le ho sussurrato, tirandola per una manica. Con l’altra stringevo i miei fogli. Gabriella Santini, Leonardo e il Fiore della Vita, Raffaello Ragazzi

Leonardo e il Fiore della Vita Età: undici anni. Nome: Leonardo, detto Leo. Passioni: la bici, gli amici e… i misteri. Prossimo obiettivo? Risolvere un enigma vecchio di cinquecento anni. Compagni di avventure e di sventure: Lia e… nientemeno che Leonardo Da Vinci in persona. Nemici: tanti e sconosciuti. Pericoli: insondabili. Finale: top secret. Che aspetti? Leo e Lia hanno bisogno di alleati… Manchi soltanto tu!

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GRANDI PERSONAGGI

Leopardi e l’amore nascente Silvia ha spiato Loredana mentre si faceva un selfie e l’ha messa in ridicolo di fronte alla classe. Viene punita con un periodo di isolamento, durante il quale le sarà vicino solo Giacomo, suo amico del cuore. Riuscirà a consolarla proprio con i versi di un altro Giacomo, una delle voci più alte della letteratura italiana. Quel giorno la prima ora era quella di francese, che era appetitosa come un brodino caldo a ferragosto. Con il pretesto di prendere appunti, Silvia aggiornò Isabella e Tosca su ciò che aveva visto la sera prima. Lo scambio di pettegolezzi avvenne attraverso scritte su bigliettini e il risultato del passaggio di carta fu il seguente:

Ieri ho visto Loredana che si faceva selfie in pose ridicole. (Silvia) A chi li manda? (Isabella) Ma chi li vuole?! (Tosca) Era scollata e faceva la diva. (Silvia) L’hai filmata? (Tosca) 81


E non ci potevi chiamare?! (Isabella) Non l’ho fotografata. Era penosa. (Silvia) È una schifosa! (Tosca) Non è schifosa. È penosa. (Isabella) Schifosa e penosa. (Silvia) Bleah. (Isabella) Al suono della campanella, Silvia ripose i bigliettini nell’astuccio. La seconda ora era quella di educazione artistica. Via i libri e fuori gli albi, i colori e tutto l’armamentario degli artisti! Quando Loredana le chiese se poteva prendere in prestito il suo astuccio dei pastelli, Silvia era assorta nel disegnare e, distrattamente, le rispose di sì. Fu solo quando Loredana lanciò un urlo, che Silvia si rese conto di non aver avuto per niente una bella idea. Loredana infatti aveva in mano i bigliettini che Silvia si era scambiata con Tosca e Isabella e strillava: – Prof! Guardi qua! Silvia tentò di strapparglieli di mano, ma Loredana corse alla cattedra e scoppiò in un pianto isterico urlandole contro: – Sei un mostro! Silvia si girò verso la classe. Erano tutti curiosi, ma sui visi di Tosca e Isabella c’era qualcosa di più di una compiaciuta curiosità: c’era il terrore. Per il resto della mattinata a scuola non si parlò d’altro. Il contenuto dei biglietti venne letto ad alta voce, per l’infamia delle tre scribacchine. Il prof di educazione artistica ebbe la bella pensata di far sistemare i ragazzi in cerchio e avviare uno scambio di idee sull’accaduto. Loredana continuava a piangere come se fosse stata colpita da un lutto grave e parlava a scatti. 82


– Mi ha spiata! Bugiarde! Mi hanno infamato! Le foto le ho fatte solo per me, perché mi aveva truccato mia sorella! La classe si era schierata per intero dalla sua parte. – Era in camera sua, poteva fare quello che voleva! – È sbagliato deridere i compagni! – Se Silvia pensava che Loredana stesse sbagliando, doveva parlargliene, non ridere alle sue spalle! Silvia non poteva che ammettere: avevano tutti ragione. – Non volevo diffamare Loredana. Ne ho parlato solo con Isabella e Tosca. Siete degli ipocriti se ve la prendete per questo perché anche voi, con i vostri amici, parlate male degli altri e li deridete! Lo fate tutti quanti! Provava un certo piacere nell’ammettere le sue colpe ed era convinta che anche gli altri avvertissero il suo stesso senso di leggerezza man mano che apriva il proprio cuore. Si sbagliava. Loredana piangeva sempre di più e, a fronte degli attacchi dei compagni, anche Tosca e Isabella prendevano le distanze. – Le sono andata dietro, sì, ma ha cominciato lei! – aveva detto Isabella a un certo punto. – Chiedo scusa a tutti, mi dispiace tanto e mi vergogno – e, nel dire così, Tosca era scoppiata a piangere (secondo Silvia solo per compiacere la classe). – Ho solo risposto ai suoi biglietti. Non lo faremo più – aggiunse tra i singhiozzi. – Mi dispiace, ma non credevo che Loredana si sentisse tanto ferita – intervenne Isabella, per non essere da meno. – Se lo avessi immaginato non avrei dato corda alla cattiveria di Silvia. Sì, sì, aveva detto proprio «cattiveria» come se non fosse chiaro che anche lei si era divertita a rispondere, buttando benzina sul fuoco. È orribile quando i biglietti privati vengono letti in classe: è come se tutti potessero vedere il lato oscuro della tua anima. Come se si scoprisse che dietro 83


la parvenza bianca dei tuoi denti si nascondessero delle carie profonde. E le carie, si sa, presto o tardi fanno male. Silvia se ne stava accorgendo a spese proprie. Non si era mai trovata in una situazione tanto imbarazzante. Adesso si meravigliava anche lei di come era stata così superficiale, e soffriva perché si sentiva stupida, colpevole per il pianto di Loredana, e si pentiva di avere spiato la sua intimità. Perché sapeva che quel fatto avrebbe rovinato i rapporti con molti dei suoi compagni. Perché, e questo per il momento era quello che la faceva soffrire di più, i suoi genitori sarebbero venuti a saperlo e non l’avrebbero certo presa bene. Quando arrivò la campanella dell’intervallo, Silvia era sudata, con le lacrime agli occhi e la testa bassa. In quel momento si rese conto che c’era un’altra questione che non aveva ben valutato ancora: a ricreazione sarebbe stata il principale argomento di conversazione nei corridoi e non poteva nemmeno contare sulla consolazione di Isabella e Tosca che l’avevano ufficialmente tradita per migliorare di un pochino la propria condizione. Ci avrebbe pensato due volte, disse Silvia a se stessa, prima di definirle di nuovo “amiche”. Annalisa Strada, Leopardi e l’amore nascente, Raffaello Ragazzi

Leopardi e l’amore nascente Giacomo Leopardi è uno dei padri della letteratura italiana. La sua vita viene solitamente ridotta a un triste quadretto di dolori fisici e morali, all’interno di una casata nobiliare in decadenza dove si stagliano tetre la figura di un padre molto colto e di una madre tiranna. Toccherà a Silvia, ragazzina innamorata di un altro Giacomo, riscoprire un Leopardi più vitale e combattivo. Complici una ricerca di scienze e una vicina di banco esibizionista, scoprirete il poeta di Recanati come non lo avete mai immaginato.

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GRANDI PERSONAGGI

L’ultima lettera di Vincent Una gita scolastica a Parigi porta Mara e Mattia, due gemelli “di ferro”, a scontrarsi con il piano del falsario Rossini riguardante l’ultima lettera scritta da Vincent Van Gogh... Mancavano ancora più di tre mesi alla gita della classe di Mara e Mattia, quando Domenico Rossini ebbe un’idea, e per quanto possa sembrare incredibile, questa idea avrebbe coinvolto Mara e Mattia in una singolare avventura. A Parigi, lontano centinaia di chilometri dall’occhio vigile del maresciallo Parisi, Rossini aveva proseguito nella sua attività non esattamente legale, anche se i risultati non erano stati incoraggianti. Il mercato dei falsi d’arte languiva, ma chi era messo peggio di lui? Be’, forse chi gli affittava le stanze in cui viveva, il Pérignon detto Pepé. Infatti, se Domenico Rossini se la passava male, Pepé ne pagava le conseguenze. Erano mesi ormai che non riceveva un soldo di affitto per le due camere che il falsario occupava nell’appartamento che la madre di Pérignon aveva lasciato in eredità al figlio. 85


Pepé aveva pensato di potersi sistemare una volta per tutte affittando metà dell’alloggio e tenendo per sé l’altra metà. Purtroppo la sua solita sfortuna gli aveva fatto incontrare questo inquilino “particolare”, che lui, in un primo tempo, aveva scambiato per un artista. Solo quando era ormai troppo tardi e il Rossini si era sistemato nell’altra metà della casa come una vongola attaccata a uno scoglio, Pepé aveva capito la vera natura dell’arte del suo inquilino. E vista la natura dei suoi affari, ovviamente Rossini pagava l’affitto quando poteva, cioè quasi mai. Insomma, Domenico e Pepé erano una coppia ben assortita da parecchi punti di vista: stessa sfortuna, stessa vita disgraziata, stessa mancanza cronica di denaro. Ma c’era fra i due una differenza fondamentale: mentre Pepé non sapeva fare nulla di nulla, il Rossini aveva dalla sua una certa genialità, che non era da sottovalutare. E soprattutto, aveva finalmente un vero piano: quello che Rossini intendeva vendere, questa volta, non era un’opera falsa. Era finito il tempo dei falsi capolavori “trovati nella soffitta del bisnonno”. La fatica che aveva fatto a piazzare sottocosto il falso Toulouse Lautrec portato dall’Italia non compensava il rischio! Bisognava inventarsi qualcosa di nuovo. Rossini avrebbe messo in vendita un’informazione. E questa informazione avrebbe permesso di ritrovare la parte mancante dell’ultima lettera di Van Gogh. La lettera che tutti dicevano che Van Gogh non aveva terminato di scrivere. La parte mancante della lettera di Van Gogh sarebbe stata “ritrovata” da qualche studioso in cerca di notorietà o da un avido mercante d’arte o anche da un collezionista senza troppi scrupoli. Il mondo era pieno di questo genere di persone. 86


E per fare questo Rossini aveva bisogno di tempo. Per prima cosa era necessario un sopralluogo nella camera del pittore ad Auvers sur Oise: lì, con un po’ di fortuna, avrebbe “ritrovato” la lettera. Rossini, come un turista qualunque, andò a visitare l’hotel Ravoux. La stanza era rimasta esattamente come era: stesso intonaco, stesso pavimento di doghe di legno. Così affermava il pieghevole che illustrava l’albergo Ravoux, e Rossini poté constatare che era la verità. Tutto uguale. Certo, i mobili non c’erano più. Sarebbe stato davvero troppo pretendere che i vecchi mobili fossero rimasti in quella stanza di albergo per tutto quel tempo. Chissà chi altri ci aveva abitato, chissà come era cambiato l’arredamento. Ora nella camera ci tenevano una sedia. Era una sedia che ricordava, vagamente, quella del celebre dipinto della stanza ad Arles, nel sud della Francia, dove Van Gogh aveva vissuto per circa due anni. Qualcuno, che aveva visto quel quadro e confondeva le due stanze, soffermandosi davanti alla sedia impagliata sospirava: “Ah, la famosa sedia...” Di solito nessuno gli faceva notare che aveva detto una stupidaggine. Solo se interrogati, i proprietari ammettevano che quella era una sedia qualunque, messa lì “per fare atmosfera”. In ogni caso era sempre più di quello che si poteva trovare ad Arles. Ad Arles, altro che mobili, altro che stanza, nemmeno la casa c’era più! La casa gialla in cui aveva abitato van Gogh era stata danneggiata irreparabilmente dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, e in seguito era stata demolita. 87


Restava solo il quadro dipinto da Van Gogh nel 1888, ma per vederlo sarebbero dovuti andare ad Amsterdam. Comunque era stata quella annotazione riguardo al pavimento, letta nel dépliant pubblicitario, a suggerire a Rossini l’idea: se il pavimento era sempre lo stesso, c’era la possibilità che per tutto quel tempo, in una fessura fra le doghe, fosse rimasto nascosto qualcosa. Già s’immaginava che cosa avrebbero detto i gestori della locanda: “Oh parbleu! Ci abbiamo camminato sopra per anni senza immaginare che proprio lì ci fosse questo foglio”. Perché la gente, lui lo sapeva, crede solo a quel che vuole credere. Un falsario su questo ci vive: ogni volta che Domenico aveva venduto un dipinto falso spacciandolo per l’opera di un artista famoso, aveva avuto per alleato il desiderio del possesso, e il desiderio conta più della verità. Guido Quarzo, L’ultima lettera di Vincent, Raffaello Ragazzi

L’ultima lettera di Vincent Quando Mara e Mattia, i “gemelli di ferro” della mitica terza F in gita a Parigi, si trovano fra le mani una lettera firmata Vincent, pensano immediatamente al grande pittore olandese Vincent Van Gogh. Allora si improvvisano investigatori ed esperti di arte per risolvere il mistero di quell’enigmatico manoscritto. Un astuto falsario, un ladro maldestro e un papà antiquario vengono coinvolti in una vicenda che si svolge all’interno di musei, antiche locande e botteghe di rigattieri, alla ricerca della verità sull’ultima lettera di Van Gogh.

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GRANDI PERSONAGGI

Mozart e lo spartito perduto Lisa è appassionata di musica e quando l’Accademia in cui studia si trova al centro di un intrigo e rischia di chiudere, ad aiutarla sarà addirittura W. A. Mozart, il grande genio della musica di ogni tempo. Un attimo dopo siamo in strada. All’angolo tra via del Mercato e Corso Mazzini ci separiamo. Io e Marco, seguendo l’antica mappa del Settecento, arriviamo all’ingresso del palazzo. È spalancato. All’interno, un cortile adorno di piante e un’infinità di porte e porticine. Quale sarà quella che conduce al retro della libreria? Studiamo la pianta. – Di là – decide infine Marco. Ci infiliamo in un corridoio lungo e buio. Mentre ci inoltriamo nelle viscere dell’antico palazzo, l’oscurità diventa sempre più fitta. – Sono certo che ci dev’essere un interruttore da qualche parte – mormora Marco. – Già, ma chissà dove. Intanto accendo la torcia del cellulare, così non inciampiamo – dico. 89


Continuiamo a camminare nel corridoio che diventa sempre più stretto e più buio. L’inquietudine mi sta afferrando: stiamo andando nella direzione giusta? E quanti animali ributtanti si muovono e strisciano, non visti, intorno a me? Mentalmente stendo una lista delle bestie che temo di più al mondo: topi, ragni, serpenti… – Sicuro che stiamo andando verso il retro della libreria? – domando a Marco, un po’ per essere rassicurata, un po’ per sentire il suono di una voce. – Spero di sì – risponde Marco, ma colgo una nota di dubbio. Istintivamente gli afferro la mano. E mi sento meglio. – Vedrai che tra poco troviamo quello che cerchiamo. Già, ma cosa cerchiamo, con precisione? Me lo sto domandando, quando il corridoio si allarga e ci imbattiamo in due porte. – Se il mio senso dell’orientamento non sbaglia, dovrebbe essere la porta sulla destra. Speriamo che non sia chiusa a chiave – dice lui. Giriamo con cautela la maniglia, e la porta, per fortuna, si apre. Entriamo in un piccolo disimpegno illuminato: davanti a noi c’è il retro della libreria, ci giunge persino la voce di Rino il libraio che parla con un cliente. Sulla destra un’altra porta. Il cuore mi batte forte: eccolo! L’ufficio di Rino! Chissà se è qui che conserva lo spartito. Marco non ha lasciato la mia mano e adesso sta girando, con quella libera, la maniglia della stanza segreta. Si apre! Entriamo. Il locale è completamente buio. Abbiamo l’accortezza di chiudere la porta prima di cercare l’interruttore a tentoni. Poi accendiamo la luce e ci guardiamo intorno. È un ufficio, con una grande scrivania al centro, sulla quale troneggia un computer vecchiotto. Il tavolo è ingombro di carte, fogli, ricevute, cataloghi di libri antichi. 90


Non ci sono dubbi, ci troviamo nell’ufficio di Rino. Non ci sono finestre e, a parte una sedia, neanche altri mobili. – Io controllo se nel computer c’è qualcosa di interessante – mi dice Marco. – Trovato qualcosa? – domando impaziente. Questo posto mi rende nervosa, e anche se Luca ha promesso di avvertirci nel caso che Rino si avvicini, vorrei uscire il più presto possibile. – Niente di particolare – risponde Marco. – A quanto capisco, la libreria non naviga in buone acque. – Nessuna libreria naviga in buone acque di questi tempi. Non c’era bisogno di venire fin qui, avrei potuto dirtelo io. Marco mi rivolge un’occhiataccia e continua il suo lavoro. – Controlla anche le mail – suggerisco io. – È quello che sto facendo. Tu, intanto, spulcia tra le carte. Cerco con la sensazione che in questo squallido ufficio non ci sia proprio niente di valore. Poi passo a perquisire i cassetti della scrivania. E nell’ultimo finalmente trovo due fogli che mi saltano all’occhio: sono diversi dalle fatture o dagli altri documenti commerciali. Li osservo con più attenzione: si tratta di uno spartito e di una lettera. Marco è subito vicino a me. – È in tedesco – dice emozionato indicando il frontespizio dello spartito. – Certo che è in tedesco – lo gelo io, – sono le celeberrime Variazioni in do maggiore su canzone francese di Mozart. Chiunque studi pianoforte sa suonare la variazione più famosa. Anch’io. Passo alla lettera e la leggo a voce alta: “Gentile signor Ramboni, dopo aver esaminato il documento che mi ha affidato e aver analizzato chimicamente la carta e l’inchiostro, posso affermare con certezza che risale alla fine del XVIII secolo”. 91


L’epoca di Wolfy! Il mio cuore, a queste parole, fa un triplo salto mortale. Il documento al quale si riferisce è lo spartito perduto di Mozart? Continuo a scorrere il foglio cercando di calmare l’eccitazione. “La calligrafia, però, non trova corrispondenze con quella dei testi manoscritti di Wolfgang Amadeus Mozart e, data la scarsa qualità della composizione, è da escludere che si tratti di una creazione del grande genio, per quanto in giovane età. La saluto distintamente, Emanuele Strabi”. Dopo i salti mortali, il mio cuore è finito sotto i tacchi. Guardo Marco per vedere se ha afferrato la portata della scoperta. Non gli è sfuggito niente perché ha l’espressione più delusa del mondo. – Dunque... lo spartito, dovunque sia, non è di Mozart! – mormora. – Già. Anche Rino, a quanto pare, si era sbagliato. E noi ci eravamo illusi con lui. Valeria Conti, Mozart e lo spartito perduto, Raffaello Ragazzi

Mozart e lo spartito perduto Lisa è una ragazzina curiosa, suona il piano e la batteria in un gruppo rock, ma la sua Accademia di Musica si ritrova al centro di uno strano imbroglio. Indagando per risolvere l’intrigo, Lisa si imbatterà in un sacco di guai. La aiuteranno Luca e Marco, ma anche Wolfgang Amadeus in persona. Impossibile, Mozart è morto da un pezzo, direte voi! No! Finché qualcuno strimpellerà la sua musica, Wolfgang sarà in mezzo a noi vivo e vegeto. E Lisa potrà confermarvelo!

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GRANDI PERSONAGGI

Charlot. Il passo del pendolo Spencer ha un compagno di banco straordinario e, quando parla di lui, lo descrive come un paese da esplorare, pieno di paesaggi sorprendenti e di trovate strabilianti proprio come Charlot, il genio della comicità del cinema muto. – Passiamo alle montagne – incalzò la prof, – vediamo se te la cavi meglio. C’è una cima famosa, che svetta su una delle località sciistiche più frequentate della Valle d’Aosta, dove… – Il Cervone! – sono saltato su, senza lasciarla finire. – Il che? – ha replicato lei, sbigottita. – Il Cervone – ho ribadito, a voce più alta ma un po’ incrinata. – Avete sentito, ragazzi? Abbiamo una nuova montagna. Grazie, Spencer, grazie davvero di questa rivelazione straordinaria! Se almeno conoscessi il significato del tuo nome, certe figuracce te le risparmieresti. – Purtroppo no, non lo conosco – ho ribattuto, a testa bassa. 93


– Spencer significa “dispensatore di provviste”. Di provviste, non di stupidaggini... Era ironica. Di più: strafottente. Ancora di più: perfida. E la classe giù a ridere. – Se non è il Cervone, allora non saprei. Ho mostrato il collo come il lupo che si arrende, aggrappandomi all’unico spuntone friabile di una roccia. – Si chiama Cervino. Cer-vi-no, Spencer, non Cervone! – ha sbuffato la vipera, con uno sguardo di pura commiserazione, poi mi ha mandato al posto rifilandomi un voto siberiano. Giù la maschera, tanto l’avete capito: in geografia sono una frana che più frana non si può. D’altronde neppure nelle altre materie gareggio per i gradini più alti del podio. Tuttavia non mi sono mai fatto bocciare, non sono ancora incappato nei “torna alla casella di partenza” come succede a Monopoli. Per il rotto della cuffia, certo; per la buona volontà, in fondo. Di sicuro dei prof, non mia... A diversi insegnanti sono simpatico e questo dà ossigeno al “percorso scolastico”, come si dice. Meno male, perché questa delusione a mamma e papà riesco a non darla. Non la meriterebbero: per me fanno davvero tanto e se addirittura mi facessi bocciare, non mi rimarrebbe altro che sprofondare fino al centro della Terra. In ogni modo vi faccio una rivelazione da urlo: pur essendo la mia bestia nera, la geografia è una delle mie materie preferite. Dico sul serio, la metterei addirittura in cima alla lista. Al netto della tara, con tutta l’onestà di cui sono capace, la geografia è la materia che, di quando in quando, seppure molto di rado, mi accende la curiosità. 94


Non saprei spiegarne il motivo, ma sono attratto dai confini: mi dilungo a osservare i bordi delle Nazioni e intanto fantastico, mi perdo a immaginarli un po’ spostati, un chilometro più a sinistra o due più a destra. È come se modellassi i Paesi con il pongo e, siccome li ho ridisegnati io, mi piace intrufolarmi nelle regioni per scoprirne gli habitat e le caratteristiche. Questo giochetto lo faccio con tutti i Paesi del mondo. Tutti eccetto uno, perché quello soltanto è meraviglioso così com’è. Mi ha stregato e adesso mi diverto un po’ io: ve ne racconto i confini e vediamo come ve la cavate voi saputelli, che fin qui vi siete piegati in due dal ridere per le mie fregnacce. Siete pronti? Allora allacciate le cinture: si decolla! Il mio Paese del cuore confina: • A nord, con una bombetta lisa e malconcia. Chissà quanti sederi l’hanno schiacciata, però ha tenuto botta e la forma della bombetta è rimasta. • A sud, con due scarpacce raccattate nel cassonetto. Due ciabattoni smisurati, con la suola rosicchiata dai topi, e i laccetti... A dire la verità non so mica se li hanno, i laccetti! • A est, con… Però potrei dire “a ovest” e sarebbe lo stesso: il confine è segnato da un bastone da passeggio, passato vertiginosamente da una mano all’altra. Così sembra che il Paese che c’è dentro ruoti per conto proprio, in barba alla rotazione della Terra. Ho detto “Paese”, ma sarebbe riduttivo perfino definirlo pianeta: c’è un universo speciale dentro questi confini senza confini, un territorio unico e straordinario, il più imprevedibile che si possa immaginare. Ci siete? Non ancora? Non fa niente, se brancolate nel buio mi fate tenerezza e ve lo servo su un piatto d’argento: dentro c’è lui, l’inarrivabile Charlot! 95


“E tu come fai a conoscerlo così bene?” mi chiederete. Intanto non voglio tirarmela e chiariamo subito che “bene” è una parola grossa, smisuratamente grossa. Del resto come si potrebbe conoscere “bene” un furetto imprevedibile qual è lui? Sto cominciando a conoscerlo, questo sì: di giorno in giorno, a piccoli passi mi avvicino a lui. E non è per niente semplice, perché parla con il contagocce e commenta ogni frase, ogni osservazione, ogni… Insomma tutto, ma proprio tuttotutto, con un’infinità infinita di espressioni del viso, di gesti, di scatti repentini, di movimenti del corpo. Così frenetici, a volte, che se di tanto in tanto non distogli lo sguardo, ti gira la testa. Senza contare le raffiche di occhiate inquiete, sorprese o ammiccanti, di trasalimenti che ti lasciano con il fiato sospeso, di incupimenti che ti spezzano il cuore. Come dicevo, sto imparando a conoscerlo e non è una passeggiata. Tuttavia non potrei farne a meno, mi piace un sacco e del resto mi viene spontaneo, perché… Volete saperlo, eh, curiosoni! Potrei tenervi sulla corda, ma sono buono... Ferdinando Albertazzi, Charlot. Il passo del pendolo, Raffaello Ragazzi

Charlot. Il passo del pendolo Quello dal sorriso disarmante, dalla risata nervosa e conturbante. Quello impacciato e schivo, quello sbarazzino e sfrontato. Quello chi? Ma Charlot, il mitico Charlot, protagonista assoluto della storia del cinema, che rimane di un’attualità palpitante nel segno dell’avventura e del fuoco d’artificio delle sue pensate. È così sul set, ma già anche a scuola: parola di Spencer, un ragazzo che, con lo svilupparsi della trama, svela il vortice inventivo di Charlot ai compagni di allora e di adesso, talmente catturati da sentirsi complici delle sue trovate fulminanti e delle sue gag irresistibili.

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GRANDI PERSONAGGI

Steve Jobs. Affamato e folle Stefano Lavori è un ragazzo appassionato di computer e, proprio come il genio di Cupertino, ha allestito il suo tavolo di lavoro in garage dove farà un incontro incredibile... Mi toccò finire i cavoli in fretta e furia e mangiare anche la frutta. Mangiai velocemente per tornarmene subito di sotto ma poi, proprio quando stavo per alzarmi, mio padre cominciò. – Dove vai, Stefano? – Giù in garage, pa’. – A far che? – A… giocare col computer. – E i compiti? – Fatti. – Tutti? – Tutti, pa’. Mi alzai, con disinvoltura presi una bella mela rossa dalla cesta che c’era in mezzo al tavolo e me la portai dietro. I miei non se ne accorsero, perché adesso avevano cominciato a parlare tra loro. Mia sorella Linda invece mi 97


guardò incuriosita, perché sapeva quanto detestassi le mele. In effetti la mela l’avevo presa per Steve, mica per me. A lui le mele piacevano, lo sapevo. “E se mia sorella mi viene dietro?” pensai. “Se mi viene dietro sono fregato”. Per fortuna in quel momento le squillò il cellulare, e lei buttò un occhio al display e se la filò in camera sua. Non le piaceva parlare col suo amichetto davanti agli altri. Lanciai un’ultima occhiata ai miei e cominciai a scendere la scala che portava giù in garage col cuore che picchiava forte. Ero sudato. La lingua secca. Chissà se lo trovo ancora là in poltrona, pensavo. E poi, pensavo, sei matto Stefano, sei matto: Steve Jobs è morto già da un bel po’, non puoi averlo visto per davvero. Arrivai all’ultimo gradino. Ero davanti alla porta. Appoggiai la mano alla maniglia, e la maniglia era come se scottasse. Spinsi piano la porta, e la porta fece come un gemito. Poi entrai nel buio del garage. Steve era in penombra, ma non stava più sulla poltrona. Adesso stava davanti al mio computer, e le dita sui tasti le muoveva con una velocità incredibile, e col mouse clikkava a raffica, a tutta birra; la freccina sullo schermo manco la vedevi. Sullo schermo scorrevano immagini mai viste e lui ci clikkava sopra e poi scriveva frasi incomprensibili. E ogni tanto scuoteva la testa e diceva: “Sto computer è lento, ragazzo, ma come fai a lavorare?”. Di colpo si fermò, si guardò intorno come se cercasse qualcosa, chissà cosa. Aprì tutti i cassetti della scrivania uno dopo l’altro, si alzò e guardò sugli scaffali e sulle mensole appese al muro, aprì tutte le scatole di cartone, di legno e di metallo dentro cui mio padre teneva le sue cose. Cercava e cercava, Steve, e da ogni scatola che apriva pescava qualcosa. Qua una vite, là un bullone, una graffetta, 98


e tutto quello che sceglieva lo metteva nella mia tazza di ceramica che c’era sul tavolo. In quella tazza ci bevevo sempre il succo di frutta. Adesso invece era così piena di pezzi di metallo che ci potevi aprire un negozio di ferramenta. Finalmente si calmò. Guardò dentro la tazza e fece un sorriso soddisfatto. Poi spalancò la bocca, chiuse gli occhi e avvicinò la tazza alle labbra. “Questo è matto” pensai. “Minimo si beve tutta quella roba”. Non riuscivo a dire niente, stavo là a guardare e non dicevo niente. Stringevo la mia mela e non mi usciva una parola. Pensai a una cosa strana, pensai che forse dopo lo portavano all’ospedale e gli tiravano fuori tutta la ferraglia con la calamita. Ma in quel momento Steve aprì gli occhi, mi guardò e si fece una gran risata, poi picchiò la tazza sulla scrivania, e caddero due viti. – Ci sei cascato, ragazzo, sei proprio un salame! Di colpo Steve fece di nuovo la faccia seria, prese il cacciavite piccolo a stella e cominciò a smontare il retro del computer. Svitava a una velocità impressionante, e adesso non parlava più. Lavorava e lavorava, con gli occhi fissi e con la lingua fuori, e ogni tanto si fermava e si sistemava gli occhiali sul naso o si grattava il mento. Fece un po’ di cose veloci e strane. Con un elastico collegò due cilindretti di plastica grigia, piantò una vite dentro un buco, intrecciò i capi di due fili azzurri, avvolse il fil di ferro intorno a un microchip, piegò la graffetta e la fece diventare un cerchio, e il cerchio dopo sembrava proprio una piccola antenna. Fece un lungo sospiro. Tirò su col naso. 99


Rimise il coperchio al retro del computer e lo riaccese, e dopo, sullo schermo, non so perché si vedevano la Luna e Marte da vicino, da vicino come fossero lì in garage, voglio dire, e da internet scaricavi tutto quello che volevi in due secondi. E col computer dopo ci potevi telefonare, fare le fotocopie e le scansioni, vedere la televisione e quasi quasi preparare pure il caffè. Steve sorrise soddisfatto. Si rimise seduto. Si pulì le mani con uno straccio, lo appoggiò sulle ginocchia e mi guardò con gli occhi che gli brillavano. – Adesso è una scheggia, Stefano – disse. – Buon divertimento. Gli allungai la mela e lui la guardò e sorrise. Se la strofinò sui jeans e poi l’addentò con gusto. – Buona! Veramente saporita! Fece in tempo a darle solo un morso, però, perché gli venne in mente un’ultima modifica. Si alzò di nuovo, e lo straccio gli cadde. Appoggiò la mela sul tavolo e si rimise al lavoro, e io mi abbassai a raccogliere lo straccio ma, quando mi tirai su e mi girai verso di lui, non c’era più. C’era solo la mela morsicata sopra il tavolo, come un’impronta. Antonio Ferrara, Steve Jobs. Affamato e folle, Raffaello Ragazzi

Steve Jobs. Affamato e folle Stefano è appassionato di computer e passa le ore trafficando con schede madri e circuiti elettronici. Da tempo però si comporta in modo strano... la sorella lo sente parlare da solo e lo spia preoccupata. A chi si rivolge suo fratello guardando verso la vecchia poltrona verde? Una storia curiosa per conoscere Steve Jobs, un uomo dall’intuito straordinario che ci invita a credere nelle proprie passioni e ad affrontare con forza ogni sfida che la vita ci pone.

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CITTADINANZA

La mia vita all’ombra del mare Salvatore è un ragazzino che vive nel quartiere Brancaccio di Palermo e frequenta il Centro Padre Nostro di Padre Pino Puglisi, che tutti chiamano 3P. È un sacerdote simpatico che sa anche giocare a calcio, ma tanti nel quartiere lo odiano... – E che fai? T’assitti e ci talii? – dice scherzando don Pino. Salvatore si sente un po’ stupido a stare fermo mentre gli altri giocano e si divertono, e decide di partecipare anche lui. – Che ruolo? – gli chiede il prete. – Portiere. Ma non importa – dice Salvatore ancora un po’ timido. – Bene, portiere! – dice don Puglisi. – Quella è la tua squadra. Gli indica tutti i bambini con la maglietta bianca. Marco è con lui e Salvatore ne è felice, non solo perché Marco è un suo amico ma perché è mingherlino e veloce. Con lui in squadra si può vincere, pensa Salvatore. 101


Gli avversari sono la squadra scura, anche se in realtà indossano tutti magliette colorate. Padre Puglisi è l’arbitro. – Allora, picciuttieddi, ricapitoliamo le regole perché c’è sempre qualcuno qua che fa finta di dimenticarsele. – Ascoltatemi – riprende padre Pino, – non voglio vedere spintoni, non voglio vedere calci, non voglio vedere ginocchiate e nemmeno schiaffi. Al secondo fallo, rigore. Al sesto fallo di squadra, rigore netto. – Si ferma, li guarda serio. – Tutti d’accordo? I bambini urlano sì all’unisono. Scoppiano d’entusiasmo nonostante il caldo e il solleone. Pino fischia il calcio di inizio e la partita comincia. Salvatore fa due parate decisive buttandosi sulla palla a pugni chiusi come fanno i veri calciatori. A dieci minuti dalla fine i bianchi sono in vantaggio di un gol, ma Marco commette il secondo fallo in scivolata e l’arbitro concede un calcio di rigore agli avversari. A tirarlo sarà quello che tutti chiamano il Tedesco perché ha i capelli biondissimi e gli occhi azzurri. Salvatore si piazza tra i pali, al centro. Piega le ginocchia, si concentra. Il Tedesco prende una rincorsa lunghissima per dare potenza al tiro. Calcia la palla che sembra una bomba lanciata contro il portiere. Solleva terra e pietrisco insieme. Salvatore si butta sulla sinistra, vede bene il pallone di fronte a sé, lo sfiora con due dita, quanto basta per cambiarne la traiettoria. Il pallone esce dallo specchio della porta. Salvatore ce l’ha fatta, ha parato il rigore! La squadra dei bianchi esulta. Ormai la partita è vinta. Padre Puglisi si complimenta con tutti e anche con Salvatore. – Ottima partita! Grande parata, devi tornare più spesso. – Certo che vengo Padre Pino! – risponde Salvatore con entusiasmo. 102


– Ma quale Padre Pino? È meglio 3P – gli dice Marco. Tanti lo chiamano così Padre Puglisi. – 3P? Ma che nome è? – chiede Salvatore. – Boh. Lo chiamano così. – Mi dici una bugia. Non è vero. – È vero! – insiste Marco. – 3P. Te lo giuro. Mette una mano sul cuore, Marco sancisce il giuramento: unisce il dito indice e il medio e li bacia da un lato e dall’altro. Ma non conta, pensa Salvatore. Tutti giurano cose che non sono vere, anche lui lo fa qualche volta. Intanto si avvicina anche don Pino, sente uno stralcio della conversazione fra Marco e Salvatore e si intromette nel discorso: – 3P – scandisce le parole, – cioè Padre Pino Puglisi. È troppo lungo, fa fatica, quindi 3P che è più corto – si rivolge a Salvatore, lo guarda negli occhi. – Anche tu mi puoi chiamare così. – Non lo so – dice lui. – Non mi piace tanto 3P. Salvatore pensa che sia un nome stupido, ma non lo dice. – E come mi vorresti chiamare? – chiede Puglisi. – Non lo so. Padre? – Eh, ma padre mi chiamano tutti. Devi trovare un modo tutto tuo. Devi dare nomi tuoi alle cose. Per esempio – continua il prete, – tanti mi chiamano rompiscatole. I ragazzini scoppiano a ridere perché gli fa sempre effetto quando qualcuno dice le parolacce, poi se è un prete lo fa ancora di più. Salvatore però non si mette a ridere come gli altri. – Perché la chiamano così? – chiede. Pino prende una scatola di cartone che contiene dei giocattoli e qualche peluche. La svuota, ci salta sopra con tutti e due i piedi e dice: 103


– Perché io rompo le scatole. I bambini ridono tutti, anche Salvatore stavolta. Ma non è molto convinto dalla spiegazione. È divertente, sì, ma non gli basta. Quindi insiste: – Ma perché lei rompe le scatole? Le scatole di chi? – Eh, ancora che insiste? – dice Tonio con un po’ di spocchia perché è più grande di due anni e si crede migliore di tutti gli altri, a calcio e in ogni situazione. – Non l’hai capito ancora? Iddu rompe le scatole e lo chiamano accussì. Ma la domanda di Salvatore in realtà è un’altra. Certo che ha capito il giochino della scatola. Infatti ha riso anche lui. Ma sa che in giro nel quartiere tanti non sopportano Puglisi. Il perché non lo sa. – Calmi, calmi picciutteddi – interviene il padre. Poi si rivolge a Salvatore che ha occhi grandi e tanti desideri dentro la testa. Vuole sapere la ragione di tutte le cose. Vuole conoscere il mondo. Vuole capire perché. Vuole essere grande. Vuole sapere le cose del mondo dei grandi anche se è ancora un bambino. E tutto questo Pino Puglisi glielo legge dentro. – Tu vuoi sapere perché – Puglisi si piega sulle ginocchia, così è alto uguale e può puntargli addosso quei suoi piccoli occhi penetranti e tenaci. – Io ti ho risposto con una battuta, con uno scherzo. Ho fatto un po’ di teatro ma tu vuoi sapere perché. Non è facile da spiegare, sei un bambino – si gira verso gli altri. – Tutti voi siete picciriddi ancora, ma certe cose le sentite e qualcuno ve le deve spiegare – continua Pino. – Mi chiamano rompiscatole perché gli do fastidio. Io dico che i bambini come voi, i vostri coetanei del quartiere, devono poter studiare e imparare, devono giocare, divertirsi a pallone o a quello che vogliono. Io credo in Gesù, e credo che dobbiamo vivere insieme, in pace e cooperazione. Credo 104


che i bambini devono poter imparare a scuola, e imparando capiscono, e capendo possono conoscere la voce della propria coscienza e possono alzare la testa, vedere il mondo da una prospettiva diversa rispetto a quelli che c’hanno sempre lo sguardo a terra come i muli e fanno solo quello che gli dicono di fare gli altri. Puglisi si ferma, riprende fiato. E lascia qualche istante di silenzio affinché tutte le parole che ha pronunciato possano posarsi un po’ sulla pelle di ciascuno di loro. Qualche parola viene assorbita, qualcuna finisce perduta. Salvatore le tiene tutte, non se ne lascia scappare nessuna. Ha capito cosa sta dicendo il prete. Lo ha capito anche se forse non sarebbe in grado, adesso, di ripeterlo lui stesso. – Chi sono gli altri? – chiede. – Chi sono questi che dicono cosa si deve fare? – Sei un ragazzino intelligente – gli dice Puglisi dandogli un pizzicotto gentile sulla guancia. – Gli altri possono essere chiunque – continua. – Possono essere i boss del quartiere – dice il prete – o un amico che ti costringe a fare una cosa brutta che tu, – Puglisi chiude la mano in un pugno e batte appena appena sul petto di Salvatore – dentro il tuo cuore non vuoi fare. Può essere una persona malvagia che vuole portarti sulla cattiva strada. Il nostro compito è sempre quello di onorare Gesù e noi stessi. Salvatore se ne accorge, gli altri ragazzini hanno perso l’attenzione. Marco si è distratto, Tonio fa palleggiare il pallone sulle ginocchia provando a tenerlo in equilibrio. Le parole del prete hanno una durata limitata su di loro. Troppo caldo. Troppa estate da vivere e giocare ancora. 105


Ma Salvatore no, rimane incollato a ogni sillaba. Vuole sapere tutto. Vuole capire tutto. Perché, pensa, magari una di quelle parole potrà servirgli per consolare meglio la mamma, o una di quelle cose che ascolta adesso potrà tornargli utile per capire meglio le azioni di suo fratello Giuseppe. Salvatore vorrebbe fare a don Pino la domanda che non è riuscito a fare a sua madre e che ancora gli batte nella testa da quella sera: Giuseppe è cattivo? Ma rimane in silenzio. Segue i movimenti dei suoi nuovi amici. Giocherella anche lui con la palla, insieme a Tonio. E in un istante si è già distratto, don Puglisi si è allontanato, sta mettendo in ordine panche e sedie per un incontro pomeridiano con gli anziani del quartiere. Salvatore avverte che in un attimo, breve come un battito di ciglia, la magia delle parole del padre si è già esaurita. E lui come lo chiamerà, si chiede Salvatore mentre palleggia. Padre, Pino, 3P, o troverà un modo tutto suo per chiamarlo? Simona Dolce, La mia vita all’ombra del mare, Raffaello Ragazzi

La mia vita all’ombra del mare Salvatore è un ragazzino come tanti: ama il mare, il calcio e gli amici. Cresce però in una realtà difficile e si pone tante domande su Brancaccio, il quartiere in cui vive, e su 3P, il sacerdote che non si arrende alle minacce e prosegue con coraggio per dimostrare ai suoi ragazzi che l’onesta è ancora possibile. La mia vita all’ombra del mare è un romanzo che descrive con rara sensibilità le pieghe sottili attraverso cui la mentalità mafiosa può insinuarsi nel tessuto sociale e racconta il coraggio di coloro che, come don Puglisi, hanno combattuto questa mentalità a costo della vita.

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VITA DI RELAZIONE

Un’amicizia... in ballo Non è semplice accogliere come compagno di banco un nomade e toglierti dalla testa tutti i pregiudizi che ti sono stati inculcati a proposito degli zingari... La prima volta che l’ho visto mi ha subito fatto paura. Ne avevo già incontrati altri in giro, per strada o davanti al supermercato, ma non avevo mai avuto a che fare con uno di loro da vicino. Così però è la vita: quando meno te lo aspetti, ti capita una cosa strana e sorprendente e spesso si tratta di un brutto scherzo del destino. Quella volta è toccato a me. Elvis non era un qualunque ragazzino zingaro: era il mio nuovo compagno di classe e, prima o poi, ne ero certo, mi sarebbe capitato di doverci condividere qualcosa. Un compito, un disegno, un gioco durante l’intervallo: l’occasione non sarebbe certo mancata. Sentivo una specie di presentimento che mi metteva in allarme, sapevo che se l’iniziativa non fosse partita da me, ci avrebbe pensato qualcun altro. La Giusti, la nostra prof di matematica, ad esempio. 107


Un’insegnante che non ha mai accettato che tra noi compagni ci fosse qualcuno “messo da parte”, come diceva sempre lei. Già! Mi aspettavo che soprattutto da una fissata come lei sull’amicizia e tutto il resto, sarebbe partita una qualche stramba e pericolosa proposta di “accoglienza” (giusto per usare una delle sue espressioni preferite o, per meglio dire, uno dei suoi tormentoni). Non che quell’insegnante non avesse buone ragioni per le sue manie sui “buoni rapporti tra coetanei”, soprattutto in una classe spesso in competizione e diffidente come la nostra, ma il pensiero della nuova situazione che si sarebbe presto presentata in aula non mi allettava. Anzi! È inutile: quando una persona non va giù, non si riesce a sopportarla neppure facendo ricorso alla migliore buona volontà! Si blocca lì e non la si digerisce manco con l’acqua gassata. Luigia, ad esempio: ce la metteva sempre tutta per riuscire a essere in assoluto la più antipatica della classe. A ogni minimo errore dei compagni correva a fare la spia ai prof, con quella sua vocetta gracchiante. Di Luigia però non ho mai avuto paura e ogni tanto le ho rifilato qualche sgambetto senza farmi scoprire, tirando fuori poi una faccia angelica, mentre invece dentro di me sghignazzavo. Ma con Elvis? Be’ con lui sarebbe stato sicuramente tutto diverso; anzi, io stesso sarei stato diverso con lui, e mi aspettavo che con un tipo di quel genere in classe qualcosa di grave o di brutto sarebbe prima o poi successo. Non si trattava di una mia fissa; intendo dire che non è che io ce l’avessi con gli zingari per partito preso, ma avevo i miei buoni motivi per non aver fiducia in loro. E non ero l’unico a dirlo. Tanto per iniziare mia nonna: fin da piccolo mi ha sempre ripetuto che “gli zingari portano via 108


i bambini”. Io non le ho mai creduto del tutto, ma neppure me la sono mai sentita di darle completamente torto. Ogni volta che incontravo una donna zingara a un semaforo o in metropolitana, la vedevo circondata da un gruppetto di marmocchi sporchi, e in più di una occasione mi sono chiesto se fossero davvero tutti figli suoi o di chissà chi. E poi bastava ascoltare un telegiornale o una qualunque trasmissione impegnata (una di quelle in cui c’è gente seduta come in un salotto, che anziché parlare di argomenti divertenti, fa l’elenco delle disgrazie successe) per rendersi conto che c’erano spesso di mezzo gli zingari quando accadeva qualcosa di brutto: furti, sparizioni... Nonostante queste mie paure e la mia gran voglia di ignorare e rifiutare la situazione utilizzando la vecchia ma efficace tattica dello struzzo, io mi trovavo inesorabilmente a scuola, senza alcuna via di fuga e senza poter fare proprio niente contro la “bella” novità: c’era un nuovo compagno in classe, ed era proprio uno zingaro! “Speriamo che da ragazzi non siano così terribili come da adulti!” mi sono detto subito. Elvis se ne stava lì, in piedi, a testa bassa, di fianco alla prof. Il bidello lo aveva appena accompagnato in classe e per noi era stato come un fulmine a ciel sereno, come una scarica a 10 000 volt; insomma un vero e proprio sasso nel melmoso stagno di quella barbosa lezione sulle radici quadrate. La Giusti ci aveva anticipato due giorni prima la notizia, ma tutti avevamo preferito pensare che il fatto sarebbe avvenuto molto in là nel tempo o che forse non sarebbe mai avvenuto. Era già girata voce che la bella idea di inserirlo da noi, in seconda C, fosse partita proprio dalla nostra prof di matematica. Quale altro insegnante avrebbe provato tanto piacere a cacciarsi da solo nei guai? 109


D’accordo che ti può capitare una tale sfortuna nella vita, ma addirittura andarsela a cercare mi sembrava troppo! Per giunta senza neppure consultare noi alunni. Chi gliel’aveva detto che noi avremmo gradito la “bella sorpresa”? Elvis era ancora lì, in piedi, con lo sguardo rivolto al pavimento. La prof cercava di far arrivare a noi il messaggio dell’accoglienza, ma le parole entravano e uscivano dalle mie orecchie senza lasciare traccia. Era ciò che stava sicuramente accadendo anche agli altri: eravamo tutti impegnati a scrutare Elvis. I suoi capelli neri e lucidi come le piume di un merlo probabilmente non conoscevano da tempo uno shampoo come si deve. Non riuscivo a vedere il colore dei suoi occhi. Quando finalmente ha alzato lo sguardo da terra, due profonde lance nere mi hanno trapassato. Forse è stata solo una mia impressione, ma ho provato questa sensazione. Non è del tutto vero che ho avuto paura dal primo momento che l’ho visto. È più esatto dire che l’ho avuta dal primo momento in cui lui ha guardato me! Ho riconosciuto subito nel suo volto le stesse caratteristiche che avevo già notato per strada in ragazzi come lui: viso magro e orecchie un po’ a sventola, naso sottile e faccia non proprio pulita. I suoi jeans e le sue scarpe erano simili ai miei, ma quel maglione di lana verde e grossa, un po’ corto sulla pancia data la sua notevole altezza, mostrava chiaramente che Elvis non aveva sotto né maglietta, né canottiera. Dai polsini del maglione spuntavano le mani magre e graffiate, con dita lunghe. “Sembrano fatte apposta per rubare” ho pensato subito. – Elvis è arrivato da poco in Italia o forse è meglio dire che è tornato qui da poco, perché lui è nato nel nostro paese. Vero Elvis? – ha esordito la prof raccontando la sua 110


storia. – Be’ voi conoscete il suo nome... cosa aspettate a dirgli il vostro? Anzi inizio io: mi chiamo Rosella Giusti e sono la professoressa di matematica e scienze. Ora tocca a voi. A turno abbiamo pronunciato il nostro nome. Io, con finta indifferenza, ho sputato in fretta il mio. Nel frattempo il bidello è rientrato con banco e sedia per Elvis. – Dove li metto? In quel momento è scattato un vero e proprio panico. Forse la prof si aspettava che qualcuno di noi facesse un segno per dimostrare la propria disponibilità ad avere di fianco il nuovo arrivato. Ingenua! Con i banchi raggruppati a coppie ed essendo in classe in numero pari, le soluzioni non potevano essere che due: o Elvis se ne stava da solo (cosa che speravamo tutti), oppure si attaccava a una coppia già esistente. Nessuno di noi ha fatto però il minimo accenno a dare spazio, anzi cercavamo tutti di essere invisibili. Si è trattato di un tempo durato pochi secondi, vissuto però con il fiato sospeso. Poi il verdetto della Giusti è calato sulla classe come una mannaia. Ma soprattutto... è calato sul mio collo! Dove poteva mai essere sistemato un compagno alto, se non in ultima fila? Da quel posto non copriva la visuale verso la lavagna e la cattedra. – Lo sistemi là, di fianco a Nico – rispose infatti la prof al bidello. La frase sembrava detta con noncuranza, ma il messaggio era suonato dentro di me con il tono di un ricatto. Senza bisogno che la prof mi parlasse direttamente, ho udito le seguenti testuali parole: “Non t’azzardare a manifestare il minimo rifiuto, altrimenti te la vedi con me!” 111


Ovviamente io, povero alunno soggetto al potere dell’insegnante, non ho protestato, ma ho ingoiato in silenzio quel boccone. Gli occhi dei miei compagni invece hanno espresso un misto di sollievo e di compassione nei miei confronti. Il bidello ha messo vicino a me il suo banco, mentre io ostentavo un sorrisetto, poco convinto. Non sapevo neppure che lingua parlasse Elvis e se capisse qualcosa di italiano. Era nato in Italia, ma a che età se ne era andato? E adesso come dovevo comportarmi? Dovevo essere io a fare il primo passo? Non me la sentivo, ero troppo intimorito, ma non volevo darlo a vedere, né a lui, né agli altri, né all’insegnante. “Speriamo che sia una sistemazione provvisoria” ho pensato tra me. Roberto Morgese, Un’amicizia... in ballo, Il Mulino a Vento

Un’amicizia... in ballo Inizialmente diffidente verso Elvis, ragazzino rom appena arrivato in classe, Nico non vuole dividere con lui il banco, non vuole starci gomito a gomito. Poi, soprattutto grazie alla musica, Nico inizia a sentirsi incuriosito da Elvis e dalla sua storia. Il lettore sarà così trascinato nel mondo, apparentemente opposto, dei due ragazzini: entrerà in un campo rom, sentirà sulla propria pelle i pregiudizi della gente, sarà invitato a riflettere sulle problematiche dell’integrazione tra popoli.

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F BN eli 97 c i d 8- i 88 l e -4 g g 72 e -2 r e 98 53 IS

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE,­GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n° 633, art. 2 lett. d).

Accoglienza del diverso, ricchezza e povertà sulla terra, famiglie allargate, episodi sempre più frequenti di bullismo tra i giovani… Come si possono introdurre e presentare alle classi questi e altri argomenti, così attuali e delicati? La lettura di brani di narrativa, selezionati con cura tra la vasta produzione del Gruppo Editoriale Raffaello, rappresenta una risposta adeguata al quesito che l’insegnante si pone quando vuol favorire il confronto critico tra i ragazzi e la società complessa in cui essi vivono. Questo testo vuole dunque fornire uno strumento per il lavoro quotidiano nelle classi, nella consapevolezza del ruolo fondamentale che ogni docente svolge per la formazione di menti attrezzate per un futuro in continua e rapida evoluzione.

Prezzo ministeriale


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