I Cavalieri della Quinta Luna - Estratto

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Luciano Nardelli

I Cavalieri della Quinta Luna Un racconto al tempo del Medioevo

Luciano Nardelli Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi racconti, soprattutto di fantascienza, ottenendo diversi riconoscimenti e premi. Ha collaborato con la RAI nella realizzazione di un radioprogramma di fantascienza.

Fra castelli e monasteri, feudatari e vassalli, vescovi-conti e abati, si muovono quattro ragazzi: “I Cavalieri della Quinta Luna”. In un mondo di faide per il potere, Fiammetta, Nuccio, Ossobuco e Guapo lottano per la giustizia. Il barone Mastino vuole impadronirsi con un inganno della terra dell’abbazia benedettina confinante con il suo castello e si circonda di loschi individui per far sparire un testamento importante che gli toglierebbe il titolo nobiliare. Con essi, trama contro i nostri eroi, che si trovano a dover risolvere ingarbugliate situazioni.

Un romanzo avvincente, per conoscere gli aspetti più importanti di un periodo storico fondamentale per la nascita della società moderna.

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Il libro è dotato di approfondimenti e schede didattiche on line

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).

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€ 9,00

I Cavalieri della Quinta Luna

Pasqua del 963, Alto Medioevo

STORIA E STORIE

La storia raccontata da grandi storie per ragazzi

Luciano Nardelli

STORIA E STORIE

Un racconto al tempo del Medioevo

Completano la lettura: Approfondimenti finali F ascicolo di comprensione del testo S chede interattive su www.raffaellodigitale.it



Collana di narrativa per ragazzi


Editor: Paola Valente Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini Team grafico: Claudio Ciarmatori, Benedetta Boccadoro Approfondimenti: Elena Frontaloni Schede didattiche: Elena Frontaloni Ufficio stampa: Salvatore Passaretta

II Edizione 2017 Ristampa

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Luciano Nardelli

I Cavalieri della Quinta Luna



Capitolo

1

Un bosco in pericolo

Si era vicini alla Pasqua del 963.

Quella primavera la gente della valle non si sarebbe annoiata. C’erano tante di quelle novità da saziare la più intrigante delle comari. C’era il clima, per esempio, come non lo si vedeva da anni: temperatura mite, sole a volontà e pioggia al momento giusto. Una vera benedizione! E la valle fertile era un brulicare di vita con le sue campagne e i suoi boschi, con le fronti sudate e le schiene curve, piegate sotto il peso di mille mestieri. Nuccio osservava tutto questo in groppa a Ciupo, il suo asinello. Ma la notizia più interessante riguardava il barone Mastino, il feudatario, che aveva deciso di fortificare con una cinta di pietre il castello. I contadini, servi1, coloni o proprietari che fossero, si erano divisi in due fazioni: chi considerava l’evento una fortuna, perché il barone sarebbe stato tanto impegnato nell’impresa da lasciare in pace la gente, e chi, al contrario, profetizzava che, per risparmiare, Mastino avrebbe trasformato i contadini in muratori. E i campi sarebbero andati alla malora! Nuccio scosse la testa. Quelli non erano crucci adatti a un contadinello dodicenne. Lui era lì, nel bosco dell’Abbazia benedettina, per far legna e per godere di quel sole e di quel paesaggio. 1– Servi: la schiavitù, in Europa, scomparve con l’età carolingia, ma rimasero talune forme, come quella dei servi della gleba.

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Capitolo 1

Saltò a terra con una piroetta, lasciando che Ciupo sfornasse un raglio di protesta, e si accomodò in testa il galero2 di feltro. Faceva già caldo sotto il sole, così allentò il soggolo3 e fece cadere il cappello dietro la schiena. Scosse la testa, lasciando fluttuare i lunghi capelli castani che incorniciavano il suo volto ancora paffutello ma con tratti marcati. Aveva un naso bello diritto e grandi occhi color del miele scuro. Si lisciò la camiciola bianca infilata nelle brache verdi e accarezzò il manico del coltello tenuto su dalla cintola di corda. Controllò che le gerle di giunchi fossero ben strette ai fianchi di Ciupo e si avviò verso il ciglio della collina. Fiammetta sarebbe arrivata? Sarebbe stata puntuale? E subito alle sue spalle echeggiò una voce ben nota: – Nuccio! Si voltò sorpreso e la vide arrivare allegramente fra l’erba, dondolando un grosso cesto. Fiammetta, lunghi capelli neri, un visetto affilato con grandi occhi scuri, era la sua compagna di confidenze. La graziosa figlia del mugnaio sapeva metterlo a suo agio come pochi altri. Indossava un abito simile a un saio grigio, stretto in vita da una cinghia di cuoio, e pianelle con suola di legno molto alta. Grazie a quel tacco artificiale sembrava che fossero quasi della stessa altezza, mentre in realtà Nuccio superava l’amica di una mezza testa. – Perché hai fatto tardi? – Scusami, Nuccio. Ho dovuto fare il giro più lungo per andare a far provvista di uova dal Bepo. Servono a mio padre. Sai, in questi giorni non farà solo pane, ma anche molti dolci da portare su, al maniero. – Uuh! – fischiò Nuccio. – Visite importanti? Qualche festa? 2–Galero: a Roma e nell’Alto Medio Evo, cappello rotondo usato anche dai contadini. Il

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galero è poi divenuto il cappello cardinalizio di panno rosso. 3–Soggolo: nastro o striscia di cuoio che passava sotto la gola e assicurava al capo certi cappelli, anche a larghe tese.


Un bosco in pericolo

Fiammetta gli si avvicinò. – Forse – ammise sbattendo le lunghe ciglia. – E non me lo vuoi dire? – Non adesso – rispose Fiammetta, schioccandogli a sorpresa una bacio su una guancia. Nuccio arrossì e si consolò pensando che erano soli. Fiammetta era così. Spontanea ed esuberante. Un tesoro di ragazza, ma a volte un po’ troppo espansiva, specie quand’erano in compagnia. – Be’ – commentò Nuccio riprendendosi – prima o poi lo verrò a sapere. Qui i segreti durano poco. – Oh, questo è vero – confermò Fiammetta, giuliva. – A proposito, lo sai che Rosalba, la figlia del falegname, ha messo gli occhi addosso a… – Fiammetta, ti prego! – la bloccò, ostentando indifferenza. – Riusciresti a raccontare pettegolezzi anche a un sordo! Lei s’imbronciò. Mollò il cesto a terra e incrociò le braccia sul petto. – Se non ti interessa la mia compagnia, signorino, non hai che da dirlo! – Ma no, ma no! Lo sai che ti aspettavo, Fiammetta. È solo che stavo pensando ad altre cose. – Più importanti? – Diverse. Nuccio la invitò a sedersi fra l’erba del ciglio lasciando penzolare le gambe nel vuoto. Fiammetta raccattò la cesta e si sedette accanto a lui. Nuccio tese il braccio destro e tracciò un arco immaginario nell’aria, partendo dalla mole dell’Abbazia, alla loro sinistra, per proseguire sui campi e sul borgo che sorgeva a metà strada dal castello di Mastino. – Ecco, pensavo a tutto questo – spiegò. – Un bel paesaggio, ma lo conosco a memoria. 7


Capitolo 1

– Sbagli, perché a ogni raggio di sole cambia aspetto. Non te ne sei mai accorta? Adesso però imprimitelo bene nella mente, finché rimane così com’è. – Perché? Dovrebbe cambiare? Nuccio annuì. – Non hai sentito le voci che circolano? – No – ammise la giovane sgranando gli occhioni. – Guarda il castello, allora. Fiammetta obbedì e seguì il braccio di Nuccio. Il maniero del barone Mastino, in realtà, non era molto grande. La collina che lo ospitava era bassa e larga, facile da salire, ma sul cocuzzolo si elevava la motta4 di terra che sorreggeva le strutture del castello. Era una piattaforma artificiale realizzata con la terra di riporto ricavata dagli scavi del fossato. Il castello si componeva di un’alta torre a tre piani, con base di pietra, terra e fango, e di una palizzata di cinta con cinque torri di legno. – Ebbene? Che c’è di nuovo? – domandò Fiammetta. – Adesso niente, ma fra poco potresti non vederlo più così. – Perché? – Perché il barone Mastino vuole abbattere la cinta e rifarla di pietra, e anche le torri. – Non gli va bene così? – si sorprese la fanciulla. – Non più – spiegò Nuccio. – Sai, su all’Abbazia l’abate Leone mi ha parlato di certe invasioni di Ungari, al Nord. L’esercito dell’Imperatore Ottone5 parecchi anni fa li ha respinti in una terra chiamata Sassonia. Ma il pericolo esiste e così i feudatari stanno fortificando i loro castelli per sé e per la popolazione. – Bene – commentò Fiammetta. – Vuol dire che i signori si preoccupano per noi.

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4– Motta: lieve rialzo collinare. 5– Ottone: Ottone I il Grande (912-973), re di Germania dal 936. Nel 962, a Roma, si fece incoronare Imperatore da Papa Giovanni XII, facendo riconoscere così la supremazia dell’Impero sul Papato, e fondò il Sacro Romano Impero Germanico.


Un bosco in pericolo

– Macché! Pensano solo alle loro pance. – Che dici, Nuccio? – Rifletti, Fiammetta. Se i contadini fossero trucidati dai barbari, chi penserebbe più alla cucina dei nobili? E chi farebbe fruttare le loro terre? Ad ogni modo non è questo il punto. Il fatto è che si temono grandi sconvolgimenti nella valle. – Cioè? – Be’, il barone avrà bisogno di manovali e siccome non può distogliere troppi contadini dai campi, farà arrivare degli stranieri. Con tutti i guai che i forestieri portano. – Forse non sarà così – azzardò Fiammetta. – Beato il tuo ottimismo. Per bene che vada ci sarà un andirivieni di gente. Lavoratori, fornitori di materiali, carri, buoi e cavalli. Tutta la valle sarà una bolgia. – Be’, non sempre le novità portano male. Tutta questa gente dovrà pur mangiare, dormire e vestirsi. E se noi sapremo darci da fare, arriveranno anche i soldi: denari d’argento, magari. Nuccio si strinse nelle spalle. – È difficile che la miseria porti ricchezza. Ad ogni modo è inutile discuterne adesso. Volevo solo raccontarti le novità. Che cos’hai di bello lì dentro? – domandò additando la cesta. – Hai qualcosa da mangiare? – Sì, pane e formaggio! Nuccio, però, cambiò la sua richiesta. – Mangeremo più tardi. L’abate Leone mi ha chiesto di portare all’Abbazia almeno quattro fascine di legna. Mi aiuti? – Certo. Cominciarono a raccogliere i rami sparsi al suolo e a riporli nelle gerle. Continuarono di buona lena per una mezz’ora o più e non si sarebbero fermati se a un certo punto Nuccio non avesse avvertito un rombo sordo in lontananza. 9


Capitolo 1

– Che c’è? – chiese Fiammetta. Lui si portò un dito al naso e sussurrò: – Cavalli… e vengono qui. Presto, dietro quei cespugli. Non ci vedranno. – Ma… è proprio necessario nascondersi? – chiese Fiammetta. – Certo. Stanno arrivando nobili o soldati o, peggio ancora, banditi. È meglio non farsi vedere. A quella gente basta un pretesto anche futile per prendersela con i poveri. Nuccio scelse una radura fra alti pini e folti cespugli. Non dovettero aspettare molto, perché dal bosco sbucarono due cavalieri. Uno, alto e possente, montava un morello e indossava un giaco6 di cuoio coperto di piastre metalliche. Al fianco gli pendeva un lungo spadone. Nuccio lo riconobbe subito: era Nerone, il grosso tirapiedi del barone Mastino. L’altro cavaliere, su un baio, indossava brache larghe e una giubba di velluto. In testa portava un cappello verde a punta con piuma rossa. Era Tazio, il capomastro del castello, l’uomo che badava a tenere in ordine tutte le strutture, di pietra e di legno. E fu proprio Tazio che si fece sentire, con voce alta. – Fermatevi, messer Nerone. – Che c’è? – fece l’altro, trattenendo il focoso morello, che nitrì scalpitando. – Questo mi sembra il posto migliore. Guardate, quegli alberi sono adatti a diventare capriate e travi di sostegno e la pietra di questa collina mi sembra un ottimo materiale da costruzione. Ne verrà fuori un capolavoro, credetemi. – Ne sono sicuro – annuì Nerone, – e sono lieto che il posto vi soddisfi, Tazio. – C’è solo un problema, però. Mi risulta che questa collina appartenga all’Abbazia. 10

6–Giaco: casacca di maglia di ferro o altro che si portava a protezione del torso e delle braccia.


Un bosco in pericolo

Una risata animò il faccione barbuto di Nerone e dilagò nel bosco, zittendo uccelli, scoiattoli, rane e persino insetti. – Quello non è un problema! – Ma che dite? – si stupì Tazio. Nerone lo squadrò con un’occhiataccia. – Mio bravo capomastro, voi pensate al vostro lavoro. Ai frati ci penso io. Accarezzò l’impugnatura della spada, voltò lo stallone e comandò: – Al castello, al castello! Il barone deve saperlo subito. E partì al galoppo. Tazio si affrettò a seguirlo. Quando l’eco degli zoccoli svanì, Nuccio e Fiammetta uscirono dai cespugli e si guardarono, attoniti e spaventati. – Avevi proprio ragione, Nuccio – ansimò lei. – Cominciano i guai. – Già – riconobbe Nuccio. – E questo è pane per i denti dei Cavalieri della Quinta Luna!

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Capitolo

2 Fra le pergamene di Leone

C

– he cosa facciamo, Nuccio? – domandò Fiammetta guardandolo con occhi smarriti. – Be’ – sospirò lui, – le cose da fare sono due. Anzitutto bisogna avvertire l’abate Leone delle intenzioni del barone. Quello è capace di buttare all’aria tutta la collina! Poi prese Ciupo, cominciando a tirarlo verso la radura. – E la seconda? – domandò Fiammetta alzandosi. Nuccio rispose senza voltarsi. – Convocherò il Consiglio dei Cavalieri della Quinta Luna. Fiammetta sospirò. – Nuccio, ti prego, torna con i piedi per terra. Son cose grosse, queste. È meglio non immischiarsi. Siamo solo quattro ragazzi. – Qualcosa si può sempre fare – borbottò lui a mezza voce. – Sì, sfidare tutti i soldati del barone! E infilzarli con le nostre gloriose spade! – scherzò Fiammetta. Nuccio non se la prese e proseguì verso la radura con l’asinello. – Non metterla così, Fiammetta. Siamo ragazzi, d’accordo, ma siamo pur capaci di ragionare. E quando abbiamo deciso di fondare la Compagnia dei Cavalieri della Quinta Luna non pensavamo certo di andare a caccia di draghi fantasma. – Ma di ostacolare i prepotenti sì. Solo che con le spade di legno non mi ci vedo proprio, io, insieme a te, a Ossobuco e a Guapo, a mettere a tacere le velleità del barone! – ribatté Fiammetta. 12


Fra le pergamene di Leone

– Certo che no, ma qualcosa si può fare. Ricordi l’inverno appena trascorso? Siamo riusciti a trovare le capre di sora Clotilde disperse nella neve. – Già, a trovar capre siamo maestri! Nuccio sbuffò, poi disse: – Pensala come vuoi, ma io qualche idea ce l’ho già. – E non me ne parli? – si arrabbiò Fiammetta. – Te l’ho già detto, no? Vado da padre Leone. – A quest’ora sarà certamente impegnato con i salmi in chiesa. – E allora tornerò più tardi. Tanto oggi è giorno di lezione, per me. Poi, notando che Fiammetta stava per sedersi di nuovo, chiese: – Vieni con me all’Abbazia? – No. Devo tornare a casa prima di pranzo. Papà aspetta le uova. – Ah già, l’ospite misterioso del barone. – Non è poi tanto misterioso. Pare che si tratti di un Legato7 imperiale che arriva in visita. – Com’è che adesso me lo puoi dire e prima no? – domandò Nuccio, ironico. – Scherzavo, non l’avevi capito? – E che ci viene a fare, qui? Fiammetta fece spallucce, scuotendo graziosamente i capelli neri. – Non lo so con precisione, ma mio padre dice che forse vuole controllare come vanno certe cose: la raccolta dei tributi, l’amministrazione della giustizia e altre ancora. – Uuh – ridacchiò Nuccio. – Se indaga a fondo ne scoverà delle belle! E il barone avrà di che scusarsi. – Non crederlo – ribatté Fiammetta. – Quell’uomo è bravo a nascondere le sue marachelle. Lo dicono tutti. 7–Legato: nell’antichità e nel periodo rinascimentale, funzionario inviato per incarico temporaneo a rappresentare uno Stato o un sovrano.

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Capitolo 2

– E non sempre i funzionari imperiali sono luminosi esempi di onestà, come sostiene mio padre. – Chiacchiere, chiacchiere – sbuffò Fiammetta. – Pensiamo al sodo. Ora vuoi mangiare qualcosa, sì o no? – Be’, un languorino lo sento – confermò Nuccio. – Poi mi dai una mano a finire di riempire le gerle? Neanche io voglio far tardi. – D’accordo. Allora vado a prendere il cesto sul ciglione. E s’incamminò svelta. Pochi secondi dopo tornò, si sedette, tolse la tovaglia dalla cesta e la stese a terra. Nuccio le si sedette accanto. Fiammetta prese un grosso pezzo di formaggio dalla crosta color ocra e ne tagliò una fetta che porse a Nuccio. Poi ne tagliò una per sé, assieme ad alcune fette di pane. Mangiarono in silenzio e velocemente, poi bevvero un po’ d’acqua da un piccolo otre. Al termine si dedicarono con rinnovata energia alla raccolta della legna. – Credo che sia sufficiente così – affermò Nuccio, infilando l’ultimo ramo nella seconda gerla. Uscirono dal bosco che il sole era alto. E in lontananza sentirono la campana della chiesa del borgo. Subito si fecero udire anche quelle dell’Abbazia, dalla voce più robusta. – Ciao, ci rivedremo presto – lo salutò Fiammetta. – Sì, sì, domani sera, ti va bene? Alla solita ora del Vespro8, qui, alla Tavola del Bosco delle Sette Querce. – Va bene. – Io avverto Ossobuco – si impegnò Nuccio. – E io avverto Guapo. Abito abbastanza vicino al castello. – D’accordo. Allora, a domani. il ragazzo davanti e l’asinello dietro, curvo sotto il peso delle gerle. Non c’era molta strada da lì all’Abbazia, ma bisognava aggirare il costone, scendere più a valle e risalire l’altro colle. 14

8–Vespro: penultima delle ore canoniche. L’ora del tramonto.


Fra le pergamene di Leone

*** Una mezz’oretta dopo Nuccio si trovò davanti lo spettacolo dell’Abbazia benedettina che, baciata dal sole, appariva in tutto il suo splendore. A valle scorreva il torrente dove i monelli del villaggio si tuffavano, d’estate, in cerca di refrigerio. Un ponte portava direttamente all’ingresso dell’Abbazia. Il fiume aggirava anche la collina delle Sette Querce, spingendosi ben oltre, dove c’era un secondo ponte prima della salita del castello. L’ingresso dell’Abbazia era presidiato da un’alta torre, o forse sarebbe stato meglio dire un campanile senza campane! Nuccio accelerò il passo. Come sempre, a quell’ora il portone era spalancato per consentire l’accesso ai poveri che avevano bisogno di un pasto. Entrò, trascinandosi dietro Ciupo, e si ritrovò nell’ampio piazzale di terra battuta che separava gli edifici del dormitorio e del refettorio dei fratelli laici, dagli altri: la panetteria, la macelleria, le dispense, la cucina dei monaci, le celle; e anche dalla chiesa abbaziale in stile romanico9. C’era molto movimento, nel cortile, ma Nuccio riconobbe subito l’alta figura di fra’ Fosco che avanzava a grandi passi verso di lui. Fra’ Fosco era robusto e una barbetta ben curata gli incorniciava un volto dai lineamenti severi, addolciti da grandi e profondi occhi neri. Indossava il saio dei benedettini, ma non era un frate e nemmeno un novizio: era un laico che essendo stato allevato dai monaci vestiva come loro. A fra’ Fosco era affidata la gestione della foresteria. Non appena vide il ragazzo, fra’ Fosco agitò in aria la mano destra. – Hai portato la legna? 9–Romanico: stile architettonico diffuso in Europa tra i secoli X e XII, prima del Gotico.

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Capitolo 2

Nuccio inarcò le sopracciglia. – Io l’ho portata, ma per frate Leone. Non so se te la cederà. – E allora andiamo a chiederglielo subito. Lo troveremo in biblioteca, credo. Ti secca, Nuccio? – O no! Anzi, devo parlargli anch’io. – Cose importanti? – Credo proprio di sì. – Lega pure l’asino – disse fra’ Fosco indicando la solita palizzata di fronte alle cucine. Nuccio obbedì e seguì il frate, per lui un amico nonostante la differenza di età. Entrarono in chiesa e, dopo la genuflessione e il segno di Croce, uscirono dalla parte del chiostro. Lo attraversarono e salirono le scale dell’edifico che portava alla Biblioteca. Trovarono frate Leone seduto a un tavolo, intento a sfogliare un grande libro. Nonostante la non più giovane età, frate Leone emanava una tale impressione di forza e saggezza da lasciare interdetti i suoi interlocutori. Alto e ascetico, volto squadrato, colpivano soprattutto la fronte spaziosa e gli occhi neri, indagatori. All’entrare di fra’ Fosco e Nuccio, l’abate si alzò e sfoderò un gran sorriso. Nuccio lo abbracciò. – Ecco il mio bravo allievo! Qual buon vento ti porta, Nuccio? Non è ancora l’ora della lezione. Mezzo soffocato contro il ruvido saio, il ragazzo non poté rispondere. Al suo posto lo fece fra’ Fosco. – La legna. Nuccio ha portato la legna, abate. Me ne servirebbe un po’ per la foresteria. Frate Leone annuì con un sorriso. – Prendine quanta ne vuoi. Ma tu, Nuccio, non sei più capace di parlare? – Oh, sì, abate – rispose alla fine, – e ho tante cose da raccontarvi. Ma una è… spaventevole, ecco! 16


Fra le pergamene di Leone

– Cosa può esserci di così terribile da inquietare uno che va su e giù per i boschi come te? – scherzò il frate. – Proprio il bosco! C’è un grave pericolo che lo minaccia. – E che sarà mai di così tremendo? – Il barone. Il barone Mastino… Frate Leone lo fermò con un gesto. – Che vuol combinare ancora quel ribaldo? E Nuccio, senza prendere quasi fiato, raccontò l’intera scena alla quale aveva assistito. Frate Leone si accigliava a mano a mano che lui parlava. Alla fine non commentò, ma prese per mano Nuccio e disse: – Vieni. E anche tu, Fosco. Adesso vi voglio mostrare una cosa. Si avvicinò a uno scaffale zeppo di libri e rotoli di pergamena impolverati. Lì accanto un frate rotondetto stava scrivendo su un gran libro e nemmeno alzò il capo: era frate Bon, il bibliotecario. Frate Leone prese una pergamena10, la srotolò e disse: – Guarda, Nuccio, guarda. Il ragazzo obbedì. – Sono parole, lo vedo bene, ma non le capisco. Che lingua è? – Ma quella che parliamo noi in questo momento, Nuccio! – La nostra lingua? Si può anche scrivere? Ma allora perché mi insegnate a leggere e a scrivere solo in latino, frate Leone? – Perché quella è la lingua dei dotti, figliolo, e i libri sono ancora scritti in latino. – E questa… questa nostra lingua? – Oh, per il momento è solo parlata. Ma come vedi si comincia ad usarla anche in qualche documento. E frate Leone lesse: 10–Pergamena: pelle di agnello o di pecora, lavorata e usata anticamente per scrivere. La carta, infatti, arrivò in Europa verso la metà del XIII secolo.

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Capitolo 2

“Ne lo detto anno 930 del mese di luglio Messer Grancane di Valbruna dona la terra ch’à nome Sette Querce, per kelle fini que ki contene, a parte Sancti Benedicti… ”11 – Credo di aver capito – fece Nuccio. – Certo che hai capito. È l’atto di donazione delle terre che circondano l’Abbazia ed è firmato dal padre di Mastino. Come vedi, il barone ha le mani legate. Può fare ben poco. – E voi credete che un pezzo di carta lo fermerà? Frate Leone abbassò la testa e apparve improvvisamente invecchiato. – No, non lo credo. E non so come potremo cavarcela. – Io vi aiuterò – promise Nuccio. Frate Leone gli accarezzò i capelli. – Tu stai lontano da questa faccenda, figliolo. È pericolosa. Vedrai, sapremo uscirne da soli e con onore. Resti a pranzo con noi? Nuccio scosse il capo. – No, grazie. I miei genitori mi aspettano. – Qui sei sempre il benvenuto – sorrise frate Leone. – Vai, figliolo, e non preoccuparti. A proposito, sei in casa, domani? – Sì, padre. È domenica, non ricordate? L’abate sorrise. – Sbadato che sono! Allora riferisci a tuo padre che manderò fra’ Fosco da voi dopo la Messa. E digli che prepari il farro che mi serve. Lui sa già. Non hai che da ricordarglielo. Va’, figliolo, va’! E ripose al suo posto la pergamena. Frate Bon alzò il capo dal suo lavoro e lo guardò con occhi assenti.

11– la frase è in parte tratta dal Placito di Capua, un atto notarile del 960. Nel testo del

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Placito, scritto in latino, risalta la frase in volgare, pronunciata da un testimone, e che per tradizione è considerata l’atto di nascita della lingua italiana (Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti).


Capitolo

3

Un “Mastino” guastafeste

–L’alba aveva lasciato il posto al giorno e la luce inon-

dava la cucina, che era tutta la casa della famiglia di Nuccio. I contadini del borgo, quelli sotto le grinfie del barone Mastino, abitavano in tuguri maleodoranti. Nuccio, al contrario, aveva una dimora modesta, ma pulita. Merito anche di sua madre Lucia, che la governava come se fosse un castello, ma anche di Lorenzo, suo padre, che sgobbava dalla mattina alla sera per procurare il necessario. Ma il merito era anche dell’Abbazia, che non sfruttava né i servi né i contadini, come nel caso di Nuccio e dei suoi genitori. Questi, infatti, erano riusciti ad acquistare il proprio manso12. Il sole, sorto oltre le colline, era il migliore annuncio della domenica e in casa già fervevano i preparativi della “festa” che consisteva, soprattutto, nell’andare ad ascoltare la Messa e nello scambiare qualche chiacchiera. Mamma Lucia era uscita per badare ai polli e alle oche assieme a Chiara e Serena, sorelle di Nuccio. I fratelli maggiori, Tonio e Jacopo, si stavano occupando di mucche e di cavalli. Seduti attorno alla grande tavola centrale, davanti alle loro ciotole di latte, erano rimasti soltanto Nuccio e suo padre. Lorenzo gli chiese: – Il farro per l’Abbazia è già pronto. Credi che fra’ Fosco arriverà prima della Messa? – No. Frate Leone ha detto che verrà giù con noi. – Va bene, ma avrei preferito prima della Messa. Qui ci 12–Manso: podere concesso in affitto.

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Capitolo 3

sono impegni anche la domenica: le bestie mangiano lo stesso, bisogna mungere, e poi c’è l’aratro nuovo da provare… – Lo avete già provato due volte in autunno – gli ricordò Nuccio. – Sì, ma devo far pratica, capisci? È così nuovo! Nuccio sorrise. La preoccupazione di suo padre era di non saper usare quel nuovo aratro di cui si dicevano meraviglie e che era costato tanti sacrifici. Così cercò di rincuorarlo. – Perché non lo fate vedere a fra’ Fosco? – Sarà un piacere mostrarglielo. E anche farglielo provare. Mentre finiva di bere il latte, Nuccio si guardò attorno. Gli piaceva“assaporare” la casa, specie a quell’ora del mattino. Suo padre Lorenzo l’aveva costruita su solide fondamenta di pietra e con tronchi diritti e robusti. L’aveva anche abbellita con tante cose, anche se l’ambiente in cui vivevano era unico. Al centro stava il grande focolare con tutto il suo corredo appoggiato sulle mensole sopraelevate: paioli di rame, tegami di coccio, spiedi, leccarde13 di varia misura. Nella parte destinata a ospitare il fuoco troneggiavano gli alari14. Quando si cucinava, il fumo usciva dall’apposita apertura sul tetto, ma una buona parte ristagnava, diffondendo a volte puzza di bruciato e dando ai cibi sapore di fumo. Tutto sommato, anche quel piccolo inconveniente dava un certo fascino alla casa che, per il resto, era sempre tirata a lucido. I letti, niente altro che pagliericci infilati dentro rozzi cassoni di legno, alti sul pavimento di sassi tondi di fiume, erano sempre a posto, con lenzuola e coperte cucite e decorate dalle abili mani di mamma Lucia. La madia, che serviva per lavorare e conservare il pane, 13–Leccarda: vaschetta metallica che si mette sotto la graticola o lo spiedo per raccoglie-

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re il grasso che cola dalla carne. 14–Alare: sostegno in ferro battuto o pietra che serve per sostenere la legna sul focolare.


Un “Mastino” guastafeste

era larga e solida. E anche le cassepanche usate per custodire gli abiti e il vasellame. Ogni oggetto, poi, aveva il suo posto preciso, dal mortaio indispensabile in cucina per schiacciare e triturare, al mastello per fare il bucato, dal salatoio per salare e quindi conservare meglio le carni essiccate, ai tinelli15, alle botti per l’acqua e per la cervogia16 . Le riflessioni di Nuccio furono interrotte dall’arrivo della madre e delle sorelle. – Ancora lì, poltroni? – li rimproverò Lucia. – Svelti a preparare il carro! Noi siamo quasi pronte. Le donne si portarono, chiacchierando, dietro i paraventi di fortuna ottenuti buttando lenzuola su corde tirate da una parte all’altra della casa. Si sentì il rumore dell’acqua nelle tinozze: visi e mani, dopo l’aia, avevano bisogno di una buona strigliata. Quando Nuccio uscì all’aperto, suo padre era già nella stalla e stava attaccando Rosso, il bel cavallo da lavoro, alle stanghe del carro agricolo dalle grandi ruote a raggi. Il ragazzo si affrettò ad aiutarlo, mentre anche Tonio e Jacopo rientravano in casa. Mezz’ora dopo, il carro, con Lorenzo e Nuccio a cassetta e tutti gli altri nel cassone, inforcò il polveroso sentiero che portava all’Abbazia. *** Il canto gregoriano17 si levò alto e potente, mentre l’abate Leone, avvolto nei suoi paramenti sacri, impartiva la benedizione solenne ai fedeli assiepati sotto la navata centrale e le due laterali. 15–Tinello: piccolo tino, ossia recipiente di legno che serve per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del vino. 16–Cervogia: antico nome di una specie di birra fatta con orzo e avena fermentata. 17–Gregoriano: si dice della musica monodica e diatonica usata nella liturgia della Chiesa.

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Capitolo 3

In prima fila c’era il barone Mastino con la seconda moglie Luana e Madamigella Roxana. C’era anche un vispo bimbetto di cinque anni, Corradino, figlio di Mastino e della sua prima moglie morta di parto. Quel bambino era l’erede. Il feudatario era circondato non solo dalla famiglia, ma anche dai suoi fidi. Dietro venivano gli altri nobili della baronia, i notabili e i borghesi, tutti fedelissimi di Mastino, poiché a lui dovevano agi e ricchezze; in coda c’era il popolo: artigiani, contadini, pastori e servi. Una sola cosa aveva in comune quella gente: tutti assistevano alla Messa in piedi. Quando l’abate Leone ebbe finito, la folla si aprì in due. Mentre il coro stava concludendo l’inno sacro finale, Mastino e il suo seguito, senza attendere che il sacerdote lasciasse l’altare assieme ai chierici, voltarono la schiena e passarono fra le due ali di popolo. Ben pochi fra i popolani salutarono il barone, per niente benvoluto, se non con occhiate malevole. Mentre la nobiltà si ritrovava sul sagrato della chiesa per il solito scambio di pettegolezzi domenicali, il coro cessò e i frati si alzarono dai loro stalli18 dirigendosi verso la sagrestia. A fine Messa, Nuccio si fermò come sempre ad ammirare il coro ligneo, quel capolavoro di intaglio e intarsio, vanto della chiesa. Ma sulla soglia della sagrestia apparve l’abate Leone, ancora in dalmatica19, che gli rivolse un cenno. Nuccio si mosse, seguito da suo padre. In sagrestia trovarono fra’ Fosco. Lorenzo cominciò senza preamboli: – Scusatemi, reverendo abate. Se avessi saputo quanto farro vi serviva, ve lo avrei portato io. 18–Stallo: sedile di legno con schienale a braccioli, allineato con altri per formare un

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ordine di posti.

19–Dalmatica: veste liturgica.


Un “Mastino” guastafeste

– No, no – lo rassicurò frate Leone. – Avete già abbastanza da fare, voi. L’amico Fosco, invece, oggi è libero: la foresteria è quasi vuota. – Come volete – commentò Lorenzo, inchinandosi e facendo l’atto di uscire. Poi, rivolgendosi a fra’ Fosco, concluse: – Al ritorno passate da noi a mangiare un boccone, mi raccomando. – Un momento solo, Lorenzo – si fece sentire l’abate. – Vi ho chiamato non per discutere del cibo, ma per chiedere un favore a Nuccio. – Dite pure, padre – si fece avanti il ragazzo, con tono orgoglioso. Frate Leone sorrise al vedere quella sollecitudine. – Come avete notato tutti – esordì, – oggi a Messa c’era anche il barone Mastino. Non sempre viene, perché a volte va nella chiesa del borgo, oppure se ne sta nella sua cappella, al castello, dove gli mando un frate per celebrare. Ed è logico che sia così. È buona politica, per un nobile, curare ogni parte del suo feudo. Ma se oggi era qui, non credo lo si debba al fatto che preferisce l’Abbazia. – E allora perché? – domandò Lorenzo. – Voleva umiliarmi – rispose l’abate, lapidario. – Umiliarvi? E in qual modo? Lorenzo e fra’ Fosco apparivano attoniti. – L’avete pur visto. È uscito dalla chiesa prima che io lasciassi l’altare. – Una scortesia bella e buona – riconobbe Nuccio. Il frate si strinse nelle spalle. – Più che una scortesia il suo è stato un gesto di potere. Uscendo prima di me dalla chiesa ha voluto ricordare a tutti che il padrone è lui. E che quindi può fare quello che vuole anche del nostro bosco. 23


Capitolo 3

– È un’ipotesi plausibile – ammise Lorenzo. – A me non ha detto né chiesto nulla del Bosco delle Sette Querce – continuò frate Leone, – ma per tutta la Messa mi sono sentito i suoi occhi addosso, quasi volesse ammonirmi: “Guarda che sono qui. E sono anche il tuo signore”. Capite, figlioli miei? Adesso temo che quando agirà lo farà sicuramente senza chiedere il permesso. Io, però, vorrei saperlo subito, se non addirittura prima che accada. E per questo ho bisogno di te, Nuccio. – Come posso aiutarvi, padre? – Tu giri spesso nel bosco. Quindi guarda e osserva tutto. E se vedi movimenti sospetti, allora avvertimi. – Non ne dubitate, frate Leone. – E adesso andate, andate – li invitò l’abate, tracciando il segno di Croce nell’aria per benedirli. – Fosco vi seguirà tra poco.

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Capitolo

4

Un uomo in fuga e un frate in maschera

–Mamma Lucia arrivò in tavola reggendo il pentolone

fumante della zuppa, mentre Chiara e Serena, armate ognuna di un mestolo di legno a forma di cucchiaio, cominciavano a versare la minestra nelle ciotole, pure di legno. Nuccio, invece, si incaricò di versare da bere: un vinello rosso contenuto in un bottiglione di vetro verde. Il primo a essere servito, ovviamente, fu fra’ Fosco. – È un onore avervi a tavola con noi – esordì Lucia per mettere a suo agio l’ospite. – Ma che dite, donna Lucia? L’onore è mio. E voi, permettetemi di dirvelo, avete una gran bella casa. – Grazie – rispose Lorenzo. – Qui tutti parlano di voi, della vostra pazienza, della vostra abilità. Vorrei saperci fare anch’io con certe cose, specie nei campi. – Ma voi fate già tanto su all’Abbazia. E poi dovete studiare, prendere i voti… Fra’ Fosco inarcò le sopracciglia. – Ma che dite, Lorenzo? Io prendere i voti? Lucia fece il giro della tavola e chiese: – Ma allora perché... – Perché vesto il saio? – la interruppe fra’ Fosco. – Oh, è semplice: in convento non ci sono molti altri abiti di tipo diverso. – Ma ci sono molte brave sarte in giro. Io stessa potrei

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Capitolo 4

confezionarvi… che so, magari un paio di brache. Fra’ Fosco scosse il capo. – Non dovete incomodarvi, donna Lucia. – Lascialo mangiare – si intromise Lorenzo, che aveva già vuotato a metà la sua scodella e adesso teneva in mano il boccale di metallo pieno di vino. Non c’erano molte altre stoviglie: si mangiava in un’unica ciotola e sulla tavola c’erano solo alcuni rozzi coltelli. Il pranzo continuò con il pollo. Ognuno ne ebbe un pezzo, che mangiò ovviamente con le mani, sciacquandosi poi le dita in ciotole d’acqua. E arrivò, grazie all’abilità di Lucia, anche un dolce fatto con pasta di pane, fichi, noci e mandorle. Lo zucchero era sostituito dal miele di bosco. Un pranzo eccezionalmente ricco anche per un giorno festivo! Ma, pensò Nuccio, loro se lo potevano permettere: erano contadini agiati, perché avevano bestie e braccia robuste per lavorare la terra. Altri in paese erano meno fortunati, sia perché il barone era esoso in fatto di balzelli, sia perché molti dei loro figli non erano neppure arrivati all’adolescenza, falciati da mali incurabili. Al termine del pranzo gli uomini uscirono all’aperto e le donne rimasero in casa a sparecchiare. Fra’ Fosco, con encomiabile pazienza, ascoltò una “dotta” lezione di Lorenzo sull’aratura e sulla semina e soprattutto sul nuovo sistema di coltivazione a rotazione triennale, che evitava di impoverire il terreno e permetteva raccolti più frequenti e più abbondanti. – E tutto grazie a questo – concluse con tono fiero Lorenzo, puntando l’indice contro un aggeggio di legno che era appoggiato alla staccionata della stalla. – Cos’è? – chiese Fosco incuriosito. – È l’aratro. Dicono che su, al nord, abbia smosso anche la terra più dura. Qui da noi fa veri miracoli. 26


Un uomo in fuga e un frate in maschera

A questo punto Lorenzo prese l’aratro e facendolo correre sulle ruote lo portò accanto a fra’ Fosco per farlo vedere meglio. – Vedete – cominciò, – con i vecchi aratri si riusciva appena a sollevare terra e sassi. E occorrevano due arature: una diritta e una di traverso. Questo aratro, invece, non solo ha le ruote, ma basta accompagnarlo e fa tutto da solo. Insomma, tempo e fatica risparmiati! – Certo che la tecnica ne ha fatti di progressi! – riconobbe fra’ Fosco. – Oh, sì! Basta pensare al collare rigido e imbottito per il cavallo. Con i vecchi gioghi c’era poco da stare allegri. Adesso, invece, il cavallo può usare tutta la sua forza e… – Padre! Guardate laggiù! – gridò all’improvviso Nuccio con voce stridula. L’aria era stata squarciata da sonori nitriti seguiti da grida femminili. Lorenzo e Fosco si voltarono attoniti. La scena che si presentò ai loro occhi aveva ben poco di bucolico, anche se il cavallo era l’indiscusso protagonista. Un superbo stallone dal mantello sauro, infatti, stava galoppando a rotta di collo lungo il campo che avrebbe ospitato il grano. E sulla sua sella veniva sballottata una giovane. Che si trattasse di una donna lo si capiva dalla voce, non certo dagli abiti maschili che indossava. Era una scena che rischiava di tramutarsi in tragedia. Quel cavallo sembrava impazzito! Bisognava fare qualcosa. E subito! Nuccio saltò subito sul carro di fra’ Fosco, l’unico con il cavallo attaccato, e incitò l’animale. Poi si voltò e gridò: – Fra’ Fosco, seguimi! E fra’ Fosco, tirato su l’orlo del saio, cominciò a correre senza pensare al ridicolo di quella scena. Il disegno di Nuccio era ben preciso. 27


Capitolo 4

Il ragazzo aveva calcolato i tempi alla perfezione. Il carro non ebbe molta strada da fare e intercettò quasi subito lo stallone. L’animale, di fronte all’improvviso ostacolo, frenò impennandosi e agitando gli zoccoli anteriori. La giovane restò miracolosamente in sella, ma rischiò seriamente di cadere quando il cavallo scartò e sgroppò per scegliere una nuova direzione e continuare la sua folle corsa. A quel punto, però, fu intercettato da fra’ Fosco che, rischiando una zoccolata, riuscì ad afferrarlo per le briglie. Il cavallo s’impennò inferocito, nitrendo e schiumando per la rabbia. Fra’ Fosco fu lesto a saltare di lato. Così non solo evitò il colpo, ma riuscì anche ad afferrare la ragazza che, stordita, stava scivolando dalla sella. Appena libero, il cavallo smise di fare il matto e cominciò a brucare certi ciuffi d’erba come se niente fosse accaduto. Fra’ Fosco adagiò la ragazza al suolo e aspettò Lorenzo e Nuccio, che stavano arrivando di corsa. Mamma Lucia, richiamata dal trambusto, aveva assistito alla scena dalla porta di casa. Accorse subito portando una coperta. Sollevarono la giovane, che appariva esangue, e le misero la coperta sotto la schiena. A quel punto lei aprì gli occhi: due splendidi occhi azzurri, vivacizzati ancor di più dai capelli biondi. – Chi siete, madamigella? – chiese fra’ Fosco. – E che cosa vi è accaduto? – Sono Roxana, la figlia del barone Mastino. – Oh, scusatemi! Sono imperdonabile. Vi ho vista stamattina in chiesa, ma non vi ho riconosciuta, vestita come siete da… – Da uomo? – rise lei mettendosi a sedere. 28


Un uomo in fuga e un frate in maschera

Adesso, con i lunghi capelli sciolti e le guance che acquistavano colorito, la riconobbero tutti. Sì, era proprio Roxana, l’affascinante figlia maggiore del barone. – Il mio cavallo? – chiese. – Pascola – rispose fra’ Fosco ridendo. – Ma che cosa vi è accaduto? – Una biscia – rispose lei. – Un’innocua biscia ci ha attraversato la strada e quel matto si è messo a correre terrorizzato. Non riuscivo più a fermarlo. – Adesso è finito tutto, madamigella – cercò di consolarla Lucia. – Sì, e grazie a voi, amici miei. Siete stati superbi. Vi voglio tutti al castello. – Ma non… – provò a risponderle fra’ Fosco. Nuccio lo interruppe e chiese, con gli occhi che brillavano: – Quando? – Fra qualche giorno – rispose lei. – Mio padre darà una grande festa perché arriverà un Vescovo-Conte20, un messo dell’Imperatore. Vi farò avvertire quando sarà il momento. Ma adesso, vi prego, lasciatemi tornare a casa. – Vi aiuto, madamigella – si offrì fra’ Fosco. Una volta in piedi Roxana li abbracciò tutti. Poi rimontò in sella e partì al galoppo. – Che caratterino, quella giovane! – commentò Lorenzo. – Guardala là. Sembra che la caduta da cavallo non le abbia scomposto un solo capello! – E avete visto che coltello aveva alla cintola? – chiese Lorenzo. – Ad ogni modo, questa per noi è una bella fortuna! – dichiarò Nuccio. – E perché? – chiese il padre. 20–Vescovo-Conte: Ottone creò la figura del Vescovo-Conte assegnandogli poteri di comando, polizia ed esazione di tasse. A questi Vescovi, che avevano potere sulle città e sui territori circostanti, il re faceva spesso regali e concedeva diritto di battere moneta, diritto di mercato, diritto di riscuotere gabelle. Alla morte dei vescovi (che non avevano eredi) il potere tornava nelle mani del re che lo riaffidava ad altri vescovi.

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Capitolo 4

– Perché possiamo entrare nel castello e… spiare legalmente! – Attento a quello che fai, Nuccio – lo ammonì suo padre. Discussero ancora un po’ dell’accaduto fino a quando fra’ Fosco non risalì sul carro per tornare all’Abbazia. E senza dimenticare i sacchi di farro.

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Capitolo

5

Un furto misterioso

–Un lupo solitario ululò lungo il crinale, mentre sopra

la collina si levava una grande luna, tonda e gialla. Il Bosco delle Sette Querce, situato sopra il borgo ed esattamente a metà strada fra l’Abbazia benedettina e il castello, si animò di lunghe ombre incappucciate che, marciando in fila e reggendo alte le lucerne a olio, raggiunsero la misteriosa radura della Tavola. Le Sette Querce, alte e dai tronchi contorti, erano disposte quasi a cerchio e chiudevano la radura, mentre il gran masso di pietra grigia che sorgeva nel bel mezzo sembrava proprio una tavola messa lì per ospitare chissà quanti e quali esseri leggendari. Le ombre che attorniavano la tavola di pietra erano quattro, coperte da sai e cappucci di tela grezza. E da sotto uno di quei cappucci uscì la voce di Nuccio, una voce che lui forse voleva cavernosa, ma che suonò, al contrario, solo roca. – Nobili Cavalieri della Quinta Luna. La Tavola è pronta ad ascoltare? – Pronta! – rispose Fiammetta, togliendosi il cappuccio. – Pronta! – risposero le altre due ombre, all’unisono. Quando i loro cappucci scivolarono sulla schiena si videro i volti di due coetanei di Nuccio e Fiammetta: Tano il pastore, meglio conosciuto come Ossobuco, e Guapo, il figlio del fabbro che aveva la casa e la fucina al castello.

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Capitolo 5

Ossobuco era alto, magro, e mostrava una gran zazzera nera e arruffata; Guapo, invece, era tarchiato, robusto e aveva lunghi capelli color paglia. – Nobili cavalieri, prendete posto – ordinò Nuccio, con tono solenne. E siccome non c’erano sedie, i quattro si sedettero sull’erba attorno al basso masso di pietra e vi appoggiarono sopra le lucerne che rischiararono i loro volti, creando ombre spettrali. Quando la calma tornò, Nuccio riprese la parola. – Dama Fiammetta, iniziate! La ragazza si alzò, infilò le mani nelle maniche del saio e parlò con voce incolore, come se recitasse. – Nobili Cavalieri, il Gran Maestro della Quinta Luna vi parlerà dei pericoli che corre questo bosco. Poi si risedette. Tutti gli sguardi si puntarono su Nuccio, che non si alzò. Lui era il Gran Maestro. Nuccio narrò la storia e concluse: – Inoltre vi dico questo, nobili amici. È compito sacro dei Cavalieri della Quinta Luna impedire che il Bosco delle Sette Querce sia devastato! – E come pensi di riuscirci? – domandò Ossobuco, con la sua voce nasale. Nuccio s’infiammò. – Vi ricordo, messer Ossobuco, che state parlando al Gran Maestro della Quinta Luna. – Scusami, Nu… ehm, scusatemi Gran Maestro – sospirò Ossobuco. – Al momento – precisò Nuccio, rabbonito, – non essendoci stato ancora un crimine, la nostra Compagnia può solo osservare. E io stesso mi sono assunto l’incarico di sorvegliare il Bosco delle Sette Querce. Ma voi, nobili cavalieri,

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Un furto misterioso

potete fare molto di più. Addirittura, badate bene, prevenire le mosse del nemico. – E chi mai? – chiese Ossobuco. – E chi mai? – gli fece eco Guapo. – Voi, messere – comunicò lapidario Nuccio. – Io? – si stupì il figlio del fabbro. – Sì, voi. Vivete al castello e quindi potete avere le notizie di prima mano. Non appena capirete che il nemico sta per muoversi ce lo comunicherete. E noi potremo agire. – Sarà fatto, Gran Maestro – annuì Guapo. – Ma a che cosa serve tutto questo? – domandò, attonito, Ossobuco. – A prevenire le mosse del barone e dei suoi scherani21 – assicurò Nuccio. Ossobuco alzò le mani al cielo e cominciò: – D’accordo, Gran Maestro. Ammettiamo pure di riuscire a sapere quando il barone si muoverà. Che cosa mai potremmo fare noi di fronte a boscaioli, operai e cavatori di pietre scortati dai soldati? Siamo solo in quattro e le nostre spade sono di legno. – Infatti non dovremo combattere. Non subito, almeno. – Cosa faremo allora? – Si prepara una grande festa al castello. Pare che sia in arrivo un Legato imperiale. Toccherà a lui, una volta a conoscenza della situazione, prendere la decisione più saggia. – E accontenterà il barone – dichiarò Fiammetta, gelida. – E perché dovrebbe farlo? – si stupì Nuccio. – Perché il barone è un nobile ed è un fedele vassallo – spiegò la ragazza. – Per esempio, potrebbe asserire che il bosco gli appartiene. – E se dimostrassimo il contrario? – insinuò Nuccio. – Che cosa volete farci capire, Gran Maestro? – si stupì Fiammetta. 21–Scherano: uomo violento al servizio di un potente.

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Capitolo 5

Nuccio gongolò e annunciò con voce tronfia: – Esiste un documento che prova la proprietà dei frati su questo bosco. Basterà mostrarlo a chi di dovere. – Davvero? E come farete ad entrare nel castello? – chiese Fiammetta. – A parte il fatto che le porte non sono mai chiuse al popolo, io sono... sono stato invitato al castello! – E da chi? – gli domandò Fiammetta. – Da Madamigella Roxana, la figlia del barone! – Oh! – sbottò Fiammetta, contrariata. – E come avete fatto, Gran Maestro, a conquistare le grazie di una così nobile fanciulla? Nuccio, assumendo un tono solenne, raccontò del cavallo imbizzarrito e del rocambolesco salvataggio di Roxana. – E ora dovrei perdere una simile occasione? Quella di vivere come un nobile, anche se per un giorno solo? Mai! – disse Nuccio. Fiammetta sbottò: – E allora accorrete pure, messere, quando quella smorfiosa vi chiama. Ma non chiedete il mio aiuto, poi! Nuccio sospirò rassegnato, e continuò: – Ad ogni modo, nobili compagni d’arme, il Legato imperiale, un Vescovo-Conte mi si dice, non sarà di certo solo. Avrà sicuramente la sua scorta. E se il barone è un nobile, noi siamo pure i Cavalieri della Quinta Luna. Ascolterà anche noi! – E che cosa gli racconteremo, Gran Maestro? – chiese Ossobuco. – Abbiamo in mano solo chiacchiere – rincarò Guapo, sconsolato. – Questo lo dite voi. Quando sarò nel castello mobiliterò occhi e orecchie e se capterò qualcosa di losco circa gli affari del barone, allora… 34


Un furto misterioso

Nuccio non finì la frase perché l’aria fu pervasa all’improvviso da un suono acuto e poderoso al tempo stesso. – Sono campane! – saltò su Fiammetta. – Le campane dell’Abbazia! – strillò Ossobuco, alzandosi a sua volta. Una nuova emergenza chiamava i Cavalieri della Quinta Luna. Nuccio, con un gesto deciso, prese la propria lucerna e comandò: – Cavalieri, all’Abbazia, presto! C’è bisogno di noi! *** I ragazzi attraversarono il ponte di pietra che scavalcava il torrente e giunsero all’Abbazia. C’erano molti contadini armati di falci e forconi. Tra loro Nuccio individuò suo padre, che stava discorrendo con fra’ Fosco. – Che cosa è accaduto? – chiese. Lorenzo lo guardò storto e, invece di rispondere, lo rimproverò: – Che cosa ci fai qui? Perché non sei a casa? Tua madre è preoccupata, Nuccio. E perché siete tutti vestiti da frate? – Non sono tonache da frate, mio buon Lorenzo – lo interruppe fra’ Fosco, che era al corrente dell’innocente gioco dei ragazzi. – Sono abiti da lavoro che usiamo per non sporcare quelli buoni. Sapete, Lorenzo, avevo chiesto ai ragazzi una mano per sbrigare qualche lavoretto in foresteria. Ma se voi volete Nuccio a casa. ... – Oh, no, fra’ Fosco. Se il mio figliolo vi serve, che resti pure. Ma la prossima volta, moccioso… – e Lorenzo agitò un pugno in tono scherzoso, – avverti prima tua madre, se no mi muore di crepacuore. 35


Capitolo 5

– Sì, padre – rispose Nuccio, compunto. – E voialtri? – continuò Lorenzo. – A casa vostra lo sanno che siete qui? – Sì – confermarono i tre. Lorenzo scrollò le spalle e se ne andò. – Grazie per avermi salvato – disse Nuccio. – Il Cielo te ne renderà merito. Ma dimmi, ti prego, cosa è successo? Perché le campane? Fra’ Fosco si strinse nelle spalle. – Non lo so bene neanch’io, ma qualcuno ha visto delle ombre furtive uscire dalla Biblioteca. E allora ha fatto suonare le campane per dare l’allarme. Come hai visto, qui è arrivato mezzo paese, ma non credo che ce ne fosse bisogno. – Ladri? – chiese Nuccio. – Non lo so, ma frate Leone sta facendo l’inventario in Biblioteca. Andiamo a vedere! – E s’incamminò seguito dai ragazzi. Quando arrivarono, la sala della Biblioteca era in subbuglio. Persino i due amanuensi, che sicuramente fino a poco prima stavano copiando chissà quali testi antichi, si erano alzati dai loro tavoli e stavano frugando in ogni angolo. Solo il vecchio frate Bon, il bibliotecario, era rimasto seduto. Al centro del grande salone c’era l’abate. Frate Leone se ne stava seduto a un tavolo di copiatura, accanto a un grande libro aperto con la pagina sinistra scritta appena a metà. Da quella posizione impartiva ordini a destra e a manca. I ragazzi gli si avvicinarono quasi in punta di piedi e frate Leone abbandonò il cipiglio del comando per sorrider loro. – Anche voi volete aiutare? Bravi, bravi! – Manca qualcosa, frate Leone? – domandò subito Nuccio. L’abate lo guardò e rispose avvilito. – Nuccio, ricordi quel documento che ti ho fatto vedere? Quello sulla proprietà del Bosco delle Sette Querce! 36


Un furto misterioso

– Sì. – Ebbene, non lo troviamo più. Non è al suo posto: sparito! – Senza quella pergamena il bosco è condannato! – strillò Nuccio. Frate Leone dondolò il capo, appesantito come se sul collo gli gravasse un masso. – Proprio così, ragazzo. Il barone Mastino potrà prendersi il bosco quando vuole. E noi non potremo in alcun modo difendere il nostro diritto. – Cercate ancora, frate Leone – lo incoraggiò Nuccio. – Non preoccuparti, lo faremo, ma non adesso. Si fa tardi, ragazzi. Andate pure. Noi ci ritiriamo in preghiera. Il Signore ci aiuterà. – Vi accompagno con un carro? – propose fra’ Fosco ai ragazzi. Essi accettarono. Alla luce della luna il lupo ululò ancora. Fiammetta strinse il braccio di Nuccio e lui sorrise, senza però guardarla. Forse l’arrabbiatura le stava passando. E benedisse quel lupo.

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Capitolo

6 Visita al castello

A mano a mano che si avvicinavano, il castello appariva

sempre più imponente. Né Nuccio, che guidava il carro del fieno vuoto, né fra’ Fosco, che gli sedeva a fianco con aria assorta, avrebbero immaginato di poter essere convocati così presto. Quella mattina un messo s’era presentato alle porte dell’Abbazia notificando l’invito a fra’ Fosco, che aveva subito avvertito Nuccio. – Non mi aspettavo che l’invito giungesse così tempestivo. Madamigella Roxana è stata di parola – fece Nuccio. – Certamente – rispose fra’ Fosco. – Il barone ci rivolgerà mille ringraziamenti, forse ci darà anche qualche moneta promettendo eterna gratitudine, e poi ci rispedirà a casa. Tutto nel giro di una mezza giornata. A Mastino, credimi, interessa ben poco di noi, anche se abbiamo soccorso sua figlia. – E allora perché ci vai? – indagò Nuccio aggrottando la fronte. – Be’, forse a Madamigella Roxana interessa di più ringraziarci di persona. Ecco perché ci vado. Tu sei mai stato al Castello? – No, ma ho un amico, Guapo, che abita lì perché suo padre è il fabbro. Egli mi racconta le novità. – Io, invece, ci sono stato una volta, parecchi anni fa – ammise fra’ Fosco, – ma devo dire che adesso è molto cambiato. Anzitutto guarda il maschio, ossia il palazzo. 38


Visita al castello

– Ti riferisci a quella grande casa al centro? Con il tetto di ardesia? – Proprio quella. Ecco, Nuccio, quella è la dimora del barone Mastino. Vedi? È costruita tutta di pietra, ma fino a dieci o dodici anni fa era ancora di legno. Era a un piano e adesso ne ha tre, oltre al pianoterra. Mastino ha ingrandito i suoi appartamenti. – Vive anche nella torre? – domandò Nuccio, additando l’alta costruzione a fianco del palazzo. – No. La torre è ancora di legno, tranne la base, e ha solo tre piani, anche se è leggermente più alta del palazzo. Ad ogni modo, se guardi bene, ti accorgerai che anche una parte della cinta ha già alcuni tratti di pietra. – Allora perché vogliono le pietre del nostro bosco? – Perché Mastino vuole rifare tutta la cinta e anche la torre di solida pietra, caro mio. E il materiale che aveva a disposizione sta per finire. – A che serve quella torre? – domandò Nuccio cambiando discorso. – A tanti usi. Al pianoterra tengono le provviste: granaglie, legumi secchi, frutta secca, carne essiccata. Da lì si accede in ambienti sotterranei dove si dice ci siano le prigioni. Non occorre l’approvvigionamento di acqua perché c’è un bel pozzo, molto profondo, che è collegato al torrente. – E negli altri piani? – Be’ – spiegò fra’ Fosco, – quello superiore, l’ultimo, ospita una postazione militare. Sai, dall’alto si può dominare tutto il territorio circostante. – E nel piano di mezzo? – Oh, lì di solito i castellani tengono le cose più preziose, anche i gioielli. – Mastino ne possiede di sicuro – sbottò Nuccio. – È una sanguisuga in fatto di tributi. Nemmeno noi, che siamo li39


Capitolo 6

beri, riusciamo a sfuggire alle sue grinfie. Quel Nerone, per esempio, viene spesso a bussare anche alla nostra porta. Fra’ Fosco ebbe una risatina ironica. – Vorrei proprio sapere quanti di quei soldi che estorce alla povera gente vedranno le casse imperiali. – Oh, questo è facile da sapere – rise Nuccio. – Basterà chiederlo al Legato imperiale, quando arriverà. – Guarda, stanno già mettendo bandiere sulla palizzata e sui terrapieni. Un rimbombar di ruote distolse l’attenzione di Nuccio. Fra’ Fosco sbottò: – E quelli chi sono? Nuccio aguzzò la vista: all’ingresso del maniero c’era una notevole confusione. Il grande portone di legno era stato aperto e alcuni cavalieri stavano uscendo con i cavalli al piccolo trotto. C’erano poi cinque altri armigeri a cavallo, armati di lunghe picche, oltre che di spade e scudi. Alla loro testa giganteggiava la criniera leonina di Nerone, il sovrintendente. Fra’ Fosco e Nuccio non furono colpiti tanto dai cavalieri, quanto dai cinque grossi carri carichi di gente che seguivano. – Ehi! – avvertì Nuccio. – Quella gente è armata di accette e picconi. Vanno a lavorare nel bosco! Bisogna fermarli. – Lo faremo – assicurò fra’ Fosco. I carri erano una vera attrazione. Erano da carico, senza sponde, e con ruote a raggi, piccole davanti e grandi dietro. Non c’era cassetta22 e il conducente stava in groppa a uno dei due cavalli che componevano la pariglia. Ognuno di quei carri trasportava una decina di uomini, seduti sui bordi, con i piedi che penzolavano nel vuoto. Sul primo carro viaggiava anche Tazio, che, nonostante la scomodità della posizione, riusciva lo stesso a consultare alcune pergamene, tenendole distese sulle ginocchia. 40

22–Cassetta: nelle carrozze, il sedile del cocchiere.


Visita al castello

Solo quando il frastuono prodotto dall’ultimo carro finì, Nuccio si rivolse a fra’ Fosco. – Hai sentito la parlata di quella gente? – Ho sentito che chiacchieravano, ma non ci ho fatto caso. – Non avresti capito quel che dicevano – spiegò Nuccio. – La loro è una lingua che non ho mai sentito. Sono stranieri. E questo vuol dire che fra poco cominceranno i guai. – Guai? Quali guai? – Quelli sono forestieri. Noi non capiamo loro e loro non capiscono noi. Qualche attrito ci sarà di sicuro. E purtroppo, in questi casi, il passo dalle parole ai fatti è breve. Questa situazione non piacerà molto neanche all’abate Leone, non credi, fra’ Fosco? – Di questo sono sicuro. Quello che non si sistemerà, invece, sarà il problema con il barone Mastino. Staremo a vedere. Madamigella Roxana ci aspetta, Nuccio. Cerchiamo di essere puntuali. Nuccio gli rivolse un’occhiata ironica. – Be’, visto che siamo così vicini alla meta, puoi anche dirmelo perché oggi hai rinunciato al saio. È per Madamigella Roxana che ti sei cambiato d’abito? – Anche – ammise, – ma soprattutto perché non voglio ingannare il barone. Mi avrebbe creduto un frate, e non lo sono. Oltrepassarono il ponte di pietra con un grande stridio di ruote e si ritrovarono davanti alla cinta, costituita da un terrapieno piuttosto alto su cui si elevava la palizzata di legno eretta a difesa degli edifici. Non appena il carro si fermò, fu chiesto loro da due armigeri: – Chi siete? – Nuccio. E questo è il mio amico Fosco. Madamigella Roxana ci aspetta. 41


Capitolo 6

Il soldato lo interruppe con un gesto annoiato. – Ho capito, ho capito. Potete passare. Nel vasto piazzale notarono subito una grande animazione. La cinta, infatti, non proteggeva solo il palazzo e la torre di Mastino che sorgevano in posizione elevata, ma anche una borgata in miniatura. C’erano numerose casupole che dividevano l’interno del castello in vicoli e piazzette. In quelle capanne di legno e pietra, con tetti di ardesia o a volte soltanto di paglia, abitavano gli artigiani che contribuivano alla vita del castello: il maniscalco per gli animali, il fabbro per riparare armi e forgiarne di nuove, il falegname, alcuni pastori che provvedevano alla carne, al latte e al formaggio per le cucine del barone, il sarto, il cordaro. Era tutta gente che avrebbe potuto vivere anche nel villaggio più a valle, ma che lì dentro lavorava protetta e senza altra preoccupazione che quella di dover rispondere a un signore tirannico. Nuccio finì di impastoiare23 il cavallo e spalancò le braccia. – E dove troviamo Roxana in questa bolgia? – A palazzo, ovviamente – spiegò fra’ Fosco incamminandosi verso il pozzo. Nuccio lo seguì. Individuò subito la casa del fabbro: dal tetto, infatti, uscivano volute di fumo nerastro. Accanto alla casa, poi, si elevava un cumulo di terra a forma di cono che da un buco in superficie eruttava fumo biancastro: lì sotto bruciava a fuoco lento la legna che si sarebbe trasformata in carbone24, quel carbone così prezioso per chi lavorava il ferro25. 23–Impastoiare: legare con funi le zampe degli animali al pascolo. 24–Il carbone di legna: il carbone era molto usato nell’antichità e alla sua fabbricazione

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provvedevano esperti carbonai. In primo luogo si erigeva un’alta catasta di legna da bruciare. Tutto attorno, poi, si costruiva il cono di terra, con sopra appoggiati pali di legno. La vetta del cono restava aperta e da lì, con l’ausilio di foglie e ramoscelli, si accendeva il fuoco. Il carbonaio saliva sulle pareti del cono e sorvegliava il fuoco. Non appena il fuoco attecchiva bene, il carbonaio, a poco a poco, tappava il buco, finché il fumo usciva non più dal buco, ma dalle pareti della montagnola di terra. 25–La lavorazione del ferro: fino al secolo XIII il ferro si otteneva con un processo di riduzione del minerale portato ad alta temperatura a contatto con carbone di legna nei cosiddetti bassi fuochi.


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Attraversarono alcuni viottoli lastricati con sassi tondi e si ritrovarono davanti al portone di legno, riccamente decorato con intarsi e statuine, e con un arco a tutto sesto: era l’ingresso. Il palazzo era anche l’unica costruzione di pietra, dalle fondamenta al tetto. Non c’erano guardie, e il portone era aperto, ma una volta che Nuccio e fra’ Fosco si ritrovarono nell’atrio buio e umido, dalla volta bassa, sostenuta da due grosse colonne, furono avvicinati da un tizio calvo e panciuto che portava alla cintola un enorme mazzo di chiavi. Quando seppe chi erano li accompagnò svelto al piano di sopra. Si ritrovarono in un ampio atrio quadrato, con pavimento di pietra bianca. Il tizio li introdusse in una sala laterale, dal pavimento di pietra rosata, forse porfido, ammobiliata con cassapanche, una grande tavola rettangolare con una dozzina di sedie e diversi candelabri. C’era anche, in una rientranza della parete, un ampio focolare di pietra per riscaldarsi d’inverno e per cuocere le vivande. Nella stanza c’era Roxana, che indossava un’elegante pellanda26 blu con maniche lunghe e in testa portava una coroncina d’oro per fermare sulla fronte una frangia bionda. Accanto a lei c’era un uomo alto, corpulento, con capelli lunghi e baffi biondicci. Vestiva riccamente con una giubba verde impreziosita da un collare d’oro massiccio, brache di stoffa di color giallo ocra e stivaletti. Non appena li vide, Roxana corse ad abbracciarli. E se restò sorpresa per il fatto che fra’ Fosco non indossasse l’abito talare, non lo diede a vedere. Anzi, li presentò al padre con uno smagliante sorriso. – Ecco, mio signore e padre, questi sono i giovani che mi hanno salvata – e con un cenno grazioso li invitò ad avvicinarsi. 26–Pellanda: lunga veste medievale.

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Capitolo 6

Mastino li squadrò ben bene, con quei suoi occhi chiari ma freddi, e sbottò: – Credevo che uno dei due fosse un frate. Così mi avevi detto, figliola. – Se permettete, barone – spiegò fra’ Fosco, – e perdonate il mio ardire, Madamigella Roxana non poteva non cadere nell’equivoco. Quando ci siamo incontrati io vestivo il saio dei benedettini. Mastino inarcò le sopracciglia. – Ah – sbottò divertito, – e subito dopo aver incontrato mia figlia avete deciso di buttare la tonaca alle ortiche? – No, barone. La verità è che io non ho genitori e sono stato allevato dai frati. E al convento non ci sono molti abiti mondani. Così ho sempre indossato il saio. Mastino gli si avvicinò e lo guardò fisso negli occhi. Fra’ Fosco indietreggiò di un passo, ma sostenne quello sguardo indagatore a testa alta. – Siete un bel giovane – disse Mastino, – ma c’è qualcosa in voi che mi risveglia… sì, sì, quasi un vago ricordo, ecco. Tornò a guardare fra’ Fosco e chiese: – Ditemi un po’, figliolo, quanti anni avete? – Venti, monsignore. – Venti? Uh, potrebbe essere che… ma no, ma no! Fantasmi! Ma ditemi, come potete sapere di avere proprio vent’anni, se siete senza famiglia? – Oh, è semplice, monsignore. Me lo ha detto padre Leone. Sapete, è lui che mi ha raccolto nel bosco, proprio vent’anni fa, nel 943. E nella stessa stagione di adesso, la primavera. – Allora una famiglia forse ce l’avete, figliolo, anche se snaturata. Chi può avere il coraggio di abbandonare un neonato in un bosco? Non potevano deporvi alla porta del convento? E di questa stagione, poi, quando non fa ancora caldo? E con i lupi che cacciano di notte? 44


Visita al castello

– Frate Leone mi ha raccontato che ero ben coperto. – Sì, ma sareste morto lo stesso se il frate non fosse passato di lì. Ad ogni modo, tutto è bene quel che finisce bene. Il barone andò al tavolo e prese in mano una grossa scarsella27 che tese verso fra’ Fosco. – Questo – spiegò il barone, – è il segno della mia riconoscenza. Qui al castello, ricordatevelo, sarete sempre i benvenuti. Fra qualche giorno, forse Roxana ve l’avrà già detto, ci sarà una grande festa. Vi prego di essere miei ospiti. – Noi non possiamo accettare – disse fra’ Fosco. – Noi... Mastino rise. – Avrete pure dei poveri a cui badare, lì nell’Abbazia. – Questo è vero – ammise fra’ Fosco. E accettò il dono. Mastino sorrise e uscì dalla stanza facendo rimbombare il pavimento. Una volta fuori lo sentirono gridare a voce alta: – Nerone! Dov’è Nerone? Una voce debole rispose: – Fuori, monsignore. Con i manovali. – E allora che venga da me non appena rientra! Anzi no! Mandatelo a chiamare subito! Poi silenzio. Roxana prese per mano gli ospiti. – Venite, vi faccio visitare il palazzo.

27–Scarsella: borsa di cuoio per il denaro.

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Capitolo

7 Ombre dal passato

Il carro lasciò il sentiero che dal castello portava al borgo

in mezzo alla valle per imboccare quello che risaliva la collina del Bosco delle Sette Querce. Nuccio guidava Rosso tenendo le redini con una mano sola e sbirciava fra’ Fosco che, seduto accanto a lui, s’era chiuso in un ostinato mutismo. A capo chino guardava con aria assente la borsa donata dal barone. – Perché non li conti? – sbottò. Fra’ Fosco trasalì e chiese: – Cosa hai detto? Contare che cosa? – I soldi! – strillò divertito Nuccio. – I soldi che il barone ci ha regalato. Li hai fra le mani… O gli occhi di Roxana te li hanno fatti dimenticare? Fra’ Fosco non gli badò, aprì la borsa e prese le monete in mano. – Venti. Sono venti denari d’argento. Una fortuna! Dieci per ciascuno. Il ragazzo intascò i soldi e chiese: – E dei tuoi che ne farai? – Non ho molte esigenze, io. Li darò a padre Leone per riparare il tetto del chiostro. – Prendi anche cinque delle mie – disse Nuccio porgendo a fra’ Fosco le monete. – Sei generoso, ma anche tu avrai bisogno di portar soldi a casa. – Oh – si schermì Nuccio, – non siamo poi così poveri ri46


Ombre dal passato

spetto a tanti altri, e so che mio padre mi approverebbe. – Allora grazie. Ma… che cosa farai con quelli che ti restano? Li porti a casa? – Non tutti – confessò il ragazzo. – Vorrei comprare qualcosa a Fiammetta. Che so, un abito, o anche solo un cappellino… Non riuscì a finire la frase perché sbucarono dal bosco due cavalieri al galoppo. Nuccio riconobbe subito il primo cavaliere: Nerone, il sovrintendente del barone. L’altro doveva essere l’uomo andato a chiamarlo. – Che fretta! – sbottò. Poco dopo s’inoltrò con fra’ Fosco nel folto del bosco. Ad un tratto i due furono attratti dal rumore di colpi ritmati e secchi, come se qualcuno battesse su un tamburo: erano picconi! E quando accanto a una radura intravidero messer Tazio che impartiva degli ordini a una squadra di boscaioli nei pressi di una roccia coperta di muschio, mentre altri due stavano attaccando un albero con grosse accette, capirono che stavano assistendo al primo assalto al loro bosco. – Hanno cominciato presto! – sbuffò Nuccio. – E senza nemmeno chiedere il permesso. – Se ne infischiano dei permessi – commentò amaro fra’ Fosco. – Gli ordini li dà il barone. A loro non serve altro. Accelera, accelera, Nuccio. Padre Leone deve sapere al più presto quello che sta accadendo. Nuccio non se lo fece ripetere. *** Nerone entrò nella piccola camera al terzo piano, dalle pareti di pietra spoglie. Quella stanza era talmente isolata che si prestava a collo47


Capitolo 7

qui riservati. E il barone Mastino l’aveva usata spesso nella sua lunga carriera di feudatario. – Mi avete fatto chiamare, monsignore? Nel sentire la voce di Nerone, Mastino si voltò con calma aggrottando l’alta fronte e roteando gli occhi chiari, gelidi. Andò al tavolino a tre gambe, l’unico mobile di quell’ambiente disadorno, e si chinò in avanti poggiando i pugni sopra il ripiano. – Notizie del Vescovo-Conte? – chiese poi con voce insolitamente bonaria. – Sì, monsignore. Si trova a poco più di due giorni di marcia da qui. Ma procede lentamente. Non arriverà tanto presto. – E i lavori nel bosco? – Sono cominciati, monsignore. Messer Tazio sa far filare diritti gli operai e ha già avviato i primi scavi. Vedrete, avremo la nuova cinta in muratura molto prima del previsto. – Meglio così – commentò Mastino. – Ma dimmi: i frati non hanno protestato? – Non se ne sono ancora accorti, monsignore. Ma quando scopriranno quello che sta accadendo starnazzeranno come oche infuriate. – Non preoccupiamoci di loro. Al momento opportuno saprò metterli a tacere. C’è dell’altro, invece, che mi preoccupa, mio buon Nerone. – Cosa? – Credo di aver visto un fantasma! – disse Mastino camminando nervosamente attorno al tavolino. A quelle strabilianti parole, Nerone mosse un passo indietro. – Che dite, mio signore? Un fantasma qui? – Sì, sì, ma in carne e ossa – rispose Mastino. – Sai chi è venuto oggi a farci visita? Quel giovane che ha salvato Roxana 48


Ombre dal passato

da una pericolosa caduta da cavallo. Ebbene, quel ragazzo mi ha ricordato tanto, troppo, il mio povero fratello Ruggero. – Quale dei due? – chiese Nerone, senza batter ciglio. – Quel Nuccio che bazzica sempre nel Bosco delle Sette Querce? – No, l’altro. Quello più vecchio. – Ma signore! Sapete bene che… il bambino, sì il figlio di vostro fratello è morto vent’anni fa. Mastino gli puntò l’indice contro. – Ecco, anche il tempo è quello giusto. Il ragazzo ha proprio vent’anni. – Signore – insistette Nerone, – quello che supponete non è possibile. Il bambino è passato a… miglior vita. – A chi era stato affidato? – interrogò Mastino. – Non ricordate, signore? A Rufo, un servo fedele. Un uomo che non sbaglia quando… – Oh, sì sì, ricordo – annuì Mastino. – Lo chiamavano Rufo l’infallibile. L’uomo che con il coltello era capace di fare miracoli. Ma se ci avesse ripensato, Nerone? Se si fosse pentito? – E perché mai, signore? – si stupì il sovrintendente. – Perché il ragazzo mi ha detto di essere stato raccolto nel bosco. Nerone trasalì. – Impossibile, signore. Rufo era fidato e ha avuto i suoi soldi. – Che cosa ti ha detto quando è tornato? – Non ricordate, monsignore? Rufo non è tornato. Il patto era che compisse il suo incarico… e sparisse. A quell’annuncio Mastino si prese la testa fra le mani. – Abbiamo sbagliato! Avremmo dovuto farlo tornare, esigere una prova della morte del bambino! – Farlo tornare avrebbe voluto dire farsi tradire, monsignore – obiettò Nerone. – A lungo andare i segreti saltano fuori, se ci sono troppi testimoni in giro. 49


Capitolo 7

– Lo so, lo so, amico mio, ed è inutile recriminare. Ci sono i documenti e la collana con il mezzo ciondolo che hai trovato nell’Abbazia! E non so come i frati li abbiano avuti! Nerone ebbe un ghigno. – Non ho trovato l’atto di proprietà del bosco, è vero, ma ho trovato qualcosa di più prezioso, forse. – Puoi ben dirlo, Nerone, ma adesso la comparsa di quel giovane complica le cose. Se veramente fosse mio nipote, allora i frati che hanno custodito quei documenti lo sanno, capisci? E poi come sono ricomparsi? Avrebbero dovuto essere seppelliti o distrutti! Che cosa è accaduto? Me lo sai dire? – No, signore, non lo so – ammise Nerone. – E allora non c’è tempo da perdere. Temo che qualcuno approfitti dell’arrivo del Vescovo-Conte per smascherarci. Quindi dobbiamo giocare d’astuzia. – Che cosa avete in mente, monsignore? – Quel Fosco lo voglio qui, al castello. Con la scusa dell’arrivo del Vescovo e della festa sarà facile farlo tornare. E poi, da alcune occhiate che si sono scambiati mi pare che Roxana sia interessata a lui. – E poi, monsignore? – Ci penserò, ci penserò – brontolò Mastino. E uscì dalla stanza a grandi passi, con la testa bassa come un ariete pronto a caricare.

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Capitolo

8

Un triplice colpo di scena

–Padre Leone, padre Leone! – chiamò Nuccio entrando

trafelato nella biblioteca senza preoccuparsi di disturbare i sei frati che, uno a ogni tavolo ai due lati della grande stanza, erano intenti a trascrivere su grossi libroni di pergamena chissà quanti e quali testi di autori classici. Dietro a Nuccio arrivò, più calmo, fra’ Fosco. Insieme a loro c’era anche un fratello laico venuto per portare l’inchiostro e rabboccare così i calamai. Nuccio lo conosceva bene: era frà Benozzo, uno degli scaccini28 dell’Abbazia, un tipo smilzo insaccato in un abito verde troppo largo per la sua corporatura. Padre Leone, che se ne stava in piedi curvo su un leggìo di legno scolpito, dava loro le spalle. A quel sonoro richiamo chiuse il libro che stava consultando e si girò attonito. – Che cosa succede, ragazzi? – domandò aggrottando la fronte. Nuccio gli arrivò quasi in braccio, affondò il volto nelle pieghe del saio e ansimò: – Il bosco! Hanno cominciato a tagliare alberi… a cavare pietre! Frate Leone gli sollevò il mento e prese fra le sue mani scarne quel volto arrossato. – Calmati, figliolo, e andiamo per ordine. Chi ha cominciato a tagliare alberi e dove? Mentre gli altri frati continuavano a lavorare, le chieriche29 chine sui libroni, Nuccio e fra’ Fosco cominciarono a 28–Scaccino: chi fa le pulizie in chiesa. 29–Chierica: rasatura rotonda che i membri del clero portavano per umiltà in cima alla testa.

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Capitolo 8

raccontare. Quando ebbero finito, frate Leone mise le mani sulle ginocchia, si piegò in avanti e commentò: – In tutta questa faccenda c’è almeno una notizia positiva. – E quale? – chiese fra’ Fosco. – Che il Vescovo-Conte, Legato dell’Imperatore Ottone, sta per arrivare. – Sperate tanto in lui? Non lo conoscete nemmeno – osservò fra’ Fosco. – Oh, lo so, ma i messi imperiali godono fama di provata onestà. Sanno ascoltare e soprattutto sanno giudicare. Ma ditemi, il barone vi è sembrato preoccupato a causa di questa visita? – No, no – interloquì Nuccio. – Sembrava più ansioso di avere notizie su fra’ Fosco. – Che cosa? – si stupì l’abate. – Sì – rincarò il ragazzo. – Ha voluto sapere l’età e... tutto, insomma. – E tu, Fosco, che cosa gli hai detto? – chiese il frate con voce preoccupata. – Ho cercato di essere cortese e ho risposto a tono. Padre Leone serrò gli occhi a fessura. – Quindi adesso sa che hai vent’anni e che sei un trovatello? – Proprio così. Padre Leone si umettò le labbra, tirando poi un gran sospiro. – Troppa curiosità vuol dire tanti sospetti – borbottò quasi fra sé. – E se Mastino sospetta che tu, Fosco... Frate Leone agitò una mano in aria. – Lasciamo perdere – disse. – Che cosa, padre? – chiese fra’ Fosco. – Sì… che cosa? – rincarò Nuccio. Frate Leone rivolse loro uno sguardo mesto e si alzò, 52


Un triplice colpo di scena

cominciando a camminare su e giù, le mani dietro la schiena. – Niente, niente, ragazzi. Ora devo solo concentrarmi sulla cosa più importante, la visita del Vescovo. – Egli può ordinare al barone di lasciar stare il nostro bosco? – suggerì Nuccio. – No, non può farlo, perché noi non possediamo più l’atto di proprietà delle Sette Querce. – Non importa. C’è la vostra parola, che conta più di qualsiasi scritto. Frate Leone gli sorrise. – Grazie della fiducia, Nuccio, ma non è come credi. La giustizia degli uomini, purtroppo, ha bisogno di prove. Quella pergamena lo era, ma è scomparsa! Se io andassi dal Vescovo a rivendicare i diritti sul bosco, Mastino farebbe lo stesso. Ci sarebbe la sua parola contro la mia. A chi pensi che crederebbe il messo dell’Imperatore? Nuccio non fece in tempo a rispondere perché nel silenzio generale echeggiò una voce timida: – Ti riferisci forse a questo, reverendo abate? A parlare era stato frate Bon, il bibliotecario. E stava tenendo in mano qualcosa che assomigliava a un rotolo di pergamena. – Che cosa hai lì, padre Bon? – domandò frate Leone, incuriosito. Frate Bon si alzò e porse la pergamena all’abate. Nuccio e fra’ Fosco si avvicinarono. Frate Leone srotolò la pergamena, lesse e restò di sasso. – Ma è questo! – sbottò entusiasta. – È l’atto di proprietà! Come l’hai avuto, padre Bon? Perché non me l’hai dato prima? Il fraticello si agitò, inquieto, tenendosi con le mani la grossa pancia. 53


Capitolo 8

– Ecco, reverendo abate, l’ho trovato ieri. Mi era caduta la penna e purtroppo ero solo. Così mi sono chinato per raccoglierla. Che fatica! Così facendo, però, sotto la libreria ho trovato non solo la penna, ma anche quella pergamena. – Avresti dovuto darmela subito – lo ammonì bonariamente frate Leone. – Mi avresti evitato tanti crucci. – Perdonami, ma non pensavo che quel rotolo potesse essere tanto prezioso. – E come sarà arrivato lì sotto? – si chiese frate Leone. – La roba cade – commentò, placido, padre Bon. – Ma… se i ladri non hanno preso l’atto di proprietà, che cos’è, allora, che hanno rubato? – continuò padre Leone. – Nessuno si prende il disturbo di una simile incursione per andarsene a mani vuote. Qualcosa devono aver preso, ma che cosa? A quel punto frate Bon si fece risentire: – Io credo che… L’abate si voltò di scatto verso di lui e lo apostrofò: – Frate Bon, se hai qualcosa da dire dilla subito. Il fraticello si schiarì la voce tossicchiando. – Quella notte, reverendo abate... quella dell’incursione, io... io ero qui. – Qui? In biblioteca? E che cosa hai visto? E perché non me l’hai detto? – tuonò padre Leone. – Ho avuto paura. E poi ho visto poco, ben poco. Quando il ladro è entrato sono stato avvertito dal rumore. Non ho spento la mia candela, ma mi sono nascosto sotto il tavolo. – Ladro? – chiese padre Leone. – Dunque era un uomo solo? – Sì – confermò l’altro. – E chi era? Un contadino? – chiese fra’ Fosco. – No, no. Era alto e grosso. Calzava stivali e aveva una spada da far spavento. Era alto, ti dico, con una gran barba. 54


Un triplice colpo di scena

– Nerone! – esclamò subito Nuccio. – Il sovrintendente del barone? – si stupì l’abate. – E che cosa ha preso? – Non lo so, ma ha frugato dappertutto. E da lassù qualcosa ha tolto – e indicò una mensola sporgente sopra l’ultimo scaffale della libreria, che arrivava fino al soffitto. – Ha tirato giù una specie di fagotto, ma non ho visto bene. Padre Leone seguì la direzione del dito grassoccio di padre Bon, afferrò la scala a gancio appoggiata alla libreria e salì svelto, facendo ballonzolare il cordone del saio. Nuccio e fra’ Fosco lo videro arrivare in cima e frugare accanitamente con le mani. Poi ridiscese, buio in volto, e sospirò: – Non c’è, non c’è. – Che cosa manca, abate? – chiese fra’ Fosco quando il monaco rimise i piedi per terra. Frate Leone agitò la destra davanti al viso, come se volesse scacciare un pensiero molesto, e dichiarò: – Ormai è inutile tacere. Venite, ragazzi, seguitemi nella mia cella. Poi si rivolse al fratello laico e chiese: – Fra’ Benozzo, portaci del sidro. Quello filò via svelto senza nemmeno rispondere. E ritornò quasi subito con un boccale di metallo e una bottiglia di vetro verde. Frate Leone non attese che fra’ Benozzo finisse di mescere e parlò: – Visto quello che è accaduto, Fosco, e quello che ancora potrebbe accadere, ritengo sia giunto il momento che io ti riveli alcune cose sul tuo conto. I vent’anni li hai passati, sei un uomo, ed è giusto che tu sappia. – Che cosa volete dirmi, padre? – domandò fra’ Fosco. Nuccio si accorse che il giovane tentava di darsi un contegno, ma non riusciva a nascondere l’emozione di fronte a 55


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quella che aveva tutta l’aria di essere una rivelazione capace di mettere sottosopra la sua vita. Frate Leone li guardò a uno a uno e dichiarò: – Quel Nerone che si è introdotto nell’Abbazia ha rubato documenti e un oggetto che… che ti riguardano, Fosco. E questo spiega anche le domande che ti ha rivolto il barone, che dev’essere rimasto piuttosto sconvolto quando il suo tirapiedi gli ha portato quei documenti che forse riteneva distrutti. Fra’ Fosco si agitò sulla sedia facendola scricchiolare. – Volete spiegarvi meglio, reverendo abate? – Lo faccio subito. E frate Leone bevve il primo bicchiere di sidro. Fra’ Benozzo si affrettò a riempirgli nuovamente il boccale. Frate Leone si schiarì la voce e proseguì: – Sono cose che risalgono a vent’anni fa, Fosco, e ti prego di rispondere solo a una domanda e poi di non interrompermi più. – Sì, padre. – Ti ricordi, ragazzo mio, di quando mi parlavi del tuo futuro di sacerdote in questa Abbazia e io, pur compiacendomi, ti rispondevo che era meglio aspettare perché forse Nostro Signore aveva altri progetti per te? – Ricordo – annuì fra’ Fosco con vigore. – Ecco, adesso stai per conoscere il perché delle mie parole. Tu, figliolo, hai sempre saputo di essere un trovatello. Quello che non sai, però, è che io non ti ho mai detto il nome dei tuoi genitori… che pure conoscevo benissimo! Fra’ Fosco balzò in piedi. – Che cosa? Leone gli rivolse un cenno imperioso e, quando il giovane si fu seduto e calmato, continuò: 56


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– Ma devi sapere che non sono stati i tuoi genitori a lasciarti nel bosco. Purtroppo, un morbo mortale se li è portati via. Tu eri un fantolino in fasce, mio buon Fosco, e chi avrebbe dovuto accudirti, ossia il fratello di tuo padre, non solo non l’ha fatto, ma ti ha affidato a un sicario perché… ti sopprimesse! – Ma è mostruoso! – insorse fra’ Fosco. – E mi hanno abbandonato nel bosco per farmi morire di fame e di freddo? O farmi sbranare dai lupi? – Non è del tutto esatto. Io ti ho trovato, sì, infreddolito e piangente, ma non eri solo. – Chi c’era con me? Padre Leone si spazientì, sbuffò e proseguì: – C’era un uomo...! – Un uomo? – si stupì fra’ Fosco. – Sì. Quell’uomo giaceva a terra e aveva una brutta ferita, ma quando mi sono avvicinato si è ripreso, mi ha parlato e ha voluto che lo ascoltassi. Così ho saputo che qualcuno ti aveva affidato a lui perché… ti portasse in un posto lontano e ti uccidesse. Ma la Provvidenza ha voluto diversamente. Nel bosco il cavallo è inciampato e l’uomo è ruzzolato sbattendo la testa contro una pietra aguzza. Lui mi ha indicato un fagotto con dentro varie cose. Mi ha supplicato, poi, di conservare il suo segreto perché il mandante non scoprisse che tu eri vivo. Solo allora mi ha giurato il suo pentimento. – E dov’è, adesso, quell’uomo? – chiese fra’ Fosco. – È morto. Ma prima di esalare l’ultimo respiro mi ha chiesto di confessarlo e sono riuscito a impartirgli l’assoluzione. E poi l’ho seppellito. Alla fine ho preso te, il cavallo mezzo zoppo, il fagotto, e sono tornato in convento. Che fame avevi! Hai messo a dura prova la resistenza di una brava balia! E il resto lo sai, mio buon Fosco. – Tutto, meno una cosa. Chi sono i miei parenti? 57


Capitolo 8

– Non i tuoi parenti – lo corresse l’abate, – ma un tuo zio. – Uno zio? L’abate annuì. – E chi è? – Non lo immagini? – No – ammise fra’ Fosco aggrottando la fronte. – Allora sappi questo – riprese l’abate con tono solenne. – Tuo padre era Ruggero, barone delle Sette Querce e di Valbruna. E tua madre, sua moglie, era Antinea, contessa di Pieve Magna. – Barone delle Sette Querce? Ma allora Mastino… – È tuo zio – confermò l’abate. – E voleva uccidermi? Ma perché? – Per diventare lui il barone, è ovvio! – interloquì Nuccio. – Giusto – confermò frate Leone. – E quei documenti rubati sono il testamento di tuo padre e tua madre, la cui famiglia fra l’altro non esiste più. C’è il tuo nome scritto a grandi lettere, su quelle pergamene. E c’è anche una collana con un ciondolo d’oro spezzato a metà. – E l’altra metà dov’è finita? – domandò fra’ Fosco. – Ce l’hai tu al collo da quando sei nato. E qui tutti sanno che l’avevi al collo quando sei stato trovato. Capisci? Mastino, che era secondo nella linea di successione al feudo, una volta scomparso il principale erede, è diventato il nuovo barone. – Un momento – obiettò fra’ Fosco, – ma se Mastino è mio zio, allora Roxana, che è sua figlia, è anche mia cugina! – Roxana è la figlia di Luana, l’attuale baronessa, che l’ha avuta dal suo primo marito e che ha poi sposato in seconde nozze Mastino. Il barone, quindi, è solo il patrigno di Roxana. – E il bambino che sta sempre con loro, Corradino? – domandò Nuccio. 58


Un triplice colpo di scena

– Quello sì che è figlio di Mastino e della baronessa Elena, la prima moglie, morta appunto cinque anni fa nel darlo alla luce. – Che storia, ragazzi! – fischiò Nuccio. – Già – commentò l’abate. – E adesso, ragazzi, è finito il momento delle chiacchiere ed è giunto quello di agire. – Sì – convenne Nuccio, – Mastino non deve passarla liscia. – E il bosco va salvato – rincarò fra’ Fosco. – Ed è per questo – disse l’abate, – che dobbiamo parlarne subito al Vescovo, adesso che l’atto di proprietà è stato ritrovato. Fosco, domani mattina prendi il cavallo migliore e va incontro al Vescovo. Lo troverai sulla strada di Pieve Magna, credo. E chiedigli che mi riceva non appena sarà arrivato e prima che cominci la festa con i giochi. – Giochi? Quali giochi? – si stupì Nuccio. – Be’ – spiegò frate Leone, – è usanza, in occasione di visite importanti, organizzare anche gare di abilità fra cavalieri. E s’immersero talmente tanto in piani e progetti che nemmeno si accorsero che fra’ Benozzo se l’era svignata alla chetichella.

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Capitolo

9 L’agguato

Lo studio in cui Mastino era solito lavorare e sbrigare i

propri affari si trovava al secondo piano del palazzo, a fianco della grande Sala degli Scudi, dove, sotto le insegne delle Casate, si svolgevano le assemblee del feudo. La mobilia era semplice: una cassapanca, una libreria polverosa, un’angoliera, tutto senza decori. Solo lo scrittoio dov’era seduto aveva le gambe decorate con teste di lupo intagliate nel legno. Mastino aveva scelto proprio quella mattina per mettere a posto alcuni documenti riguardanti i proventi della baronia da consegnare al Vescovo-Conte. Le tasse, sospirava sempre il barone, andavano pagate, ma perché pagarle tutte? E così, di quando in quando, il contratto di vendita di un campo o l’elenco di alcuni tributi finivano in un cassetto segreto di quello scrittoio che sembrava non avere aperture, ma che Mastino apriva semplicemente tirando a sé il calamaio di bronzo a forma di testa di cervo. Con quella manovra, sotto la scrivania si apriva uno sportello che nascondeva l’accesso a due cassetti, uno per lato. E in uno di quei cassetti Mastino aveva riposto anche le carte segrete riguardanti il suo presunto nipote creduto morto e tornato dal passato come un fantasma deciso a perseguitarlo. Mastino stava proprio per toccare il calamaio quando qualcuno bussò alla porta di legno grezzo, inchiavardata direttamente sulla pietra. – Avanti – tuonò, alzando gli occhi dallo scrittoio. 60


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La porta si aprì cigolando e comparve il massiccio Nerone. – C’è qui un tizio che vuole parlarvi. Un certo fra’ Benozzo, un servo dell’Abbazia. Il barone inarcò le sopracciglia. – Viene dall’Abbazia? Potrebbe avere novità. Fallo entrare. Nerone si voltò scostandosi dalla porta e tuonò: – Vieni avanti, tu! Fra’ Benozzo, che appariva minuto rispetto al grosso sovrintendente, entrò a capo chino senza osare di alzare gli occhi e rigirando fra le mani il cappellaccio di feltro tinto di verde. – Allora? – andò subito al sodo il barone. – Che hai da dirmi, plebeo? Fra’ Benozzo alzò appena gli occhi e ordinò: – Qualcosa che può tornarvi utile, nobile signore. – Avanti, parla! – intimò Mastino. Con gli occhi sempre bassi, fra’ Benozzo riprese: – Ecco, signore: fra poche ore l’abate Leone manderà un messo a incontrare il Legato imperiale sulla strada di Pieve Magna. Mastino si alzò in piedi di scatto e chiese: – E chi è questo messo? – Fra’ Fosco, il pupillo dell’abate Leone. Mastino roteò gli occhi chiari come se volesse perforare il soffitto con la sola forza del pensiero e ruggì: – Nerone, da’ tre denari d’argento a questo bifolco e se non gli bastano aggiungici venti legnate. A quelle parole fra’ Benozzo si inchinò e sparì oltre la porta. Nerone fece per seguirlo, ma Mastino lo fermò. – Mettiti alle calcagna di fra’ Fosco e impediscigli di raggiungere il Vescovo. Ma bada – lo ammonì, – non devi torcergli un capello. Lo voglio qui sano e salvo. E adesso vai! Nerone s’inchinò e uscì. 61


Capitolo 9

*** Fra’ Fosco partì che il sole era già alto. Era preferibile viaggiare di giorno. Le strade erano quelle che erano, e a volte si rischiava di fare brutti incontri. Tagliagole e borseggiatori si moltiplicavano come i funghi! E i briganti non guardavano mai in faccia le vittime! Quel viaggio, ad ogni modo, era anche l’occasione per stare un po’ da solo con i suoi pensieri. Ne sentiva il bisogno. Le rivelazioni di padre Leone lo avevano scombussolato. Se lui era il vero barone, che cosa doveva fare? Rivendicare il titolo? Detronizzare lo zio? Sì, ma come? E se anche ci fosse riuscito? Non si sentiva tagliato per la parte del castellano. Gli piaceva studiare, e l’abito talare gli andava a pennello. E se padre Leone non lo avesse trattenuto, a quest’ora lui sarebbe stato sul punto di prendere i voti. Ma frate Leone sapeva, e per questo lo aveva invitato a meditare e a pazientare. Adesso, dopo quelle rivelazioni, fra’ Fosco sentiva che l’indecisione aveva preso il sopravvento nel suo intimo. Tirò lievemente le redini e fermò la giumenta che l’aveva portato fin lì. La cavalla scalpitò, ma obbedì. Era arrivato al bivio del salice piangente. Il maestoso albero, infatti, gettava la sua ombra su due strade: una portava a Pieve Magna e l’altra chissà dove. Ma qual era la strada per la città? Quella di dritta o quella di manca? Il corso dei suoi pensieri fu interrotto dalla giumenta che all’improvviso rialzò la testa, drizzando le orecchie all’indietro in segno di allarme. Fra’ Fosco si girò proprio mentre dal folto sbucavano tre cavalieri che procedevano al piccolo trotto verso di lui. I loro mantelli eleganti, con cappuccio foderato di pelliccia, gli fe62


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cero capire che probabilmente si trattava di mercanti. Così alzò la destra in segno di saluto. Il primo cavaliere ricambiò il saluto e chiese con voce tonante: – Vi vedo indeciso, messere. Avete forse smarrito la strada? – Non proprio – rispose pronto fra’ Fosco. – So che questa è la strada per Pieve Magna, ma a questo bivio sono stato assalito da un dubbio. I tre gli furono accanto e lo attorniarono con i cavalli. – Nessun problema, messere. Seguite sempre il sentiero di destra e fra poche miglia vedrete i campanili di Pieve Magna. – Sono così vicino? – si stupì fra’ Fosco. – Sì. Noi veniamo proprio dalla città. – Siete mercanti? – domandò fra’ Fosco, tanto per non mostrarsi ingrato. L’uomo si chinò sulla sella sporgendosi un po’, e affermò con tono confidenziale: – Non possiamo dirvelo, messere. Capirete bene, se la voce si spargesse ci attireremmo addosso tutti i briganti dei boschi! – State tranquilli. Non sarò certo io a tradirvi. Dal cappuccio uscì un gorgoglìo che sembrò una risatina. L’incappucciato spostò il suo cavallo e disse: – E allora passate, messer frate. – Vi ringrazio, signori. E fra’ Fosco rimise la giumenta al passo. Alle sue spalle echeggiò una risata. Cercò di voltarsi, ma non riuscì a farlo perché un forte dolore alla nuca gli annebbiò la vista. Fra’ Fosco traballò sulla sella. Cercò di afferrarsi prima alle redini, che gli sfuggirono di mano, e poi alla criniera della cavalla. Ma tutto fu vano. Scivolò d’arcione, rimanendo impigliato con il piede sinistro nella staffa. 63


Capitolo 9

Le ultime parole che sentì furono: – Presto, uomini, prima che arrivi il corteo del VescovoConte! Toglietelo da lì e prendetegli la spada. Potrebbe servire al barone! Poi più nulla. *** Roxana stava pregando sul suo inginocchiatoio ai piedi di una graziosa statua lignea di Maria con il Bambino, quando una gran confusione proveniente dal cortile la distrasse. Il Vespro era ormai passato da un pezzo e il sole era tramontato. A quell’ora, di solito, il castello era immerso nel silenzio. In quel momento, però, si sentivano voci robuste, tumulto di zoccoli e nitriti. Roxana si fece il segno della Croce e si affacciò alla finestra a bifora della sua stanza al primo piano, sopra il Corpo di guardia. Scostò la vetrata e guardò di sotto. Uomini e cavalli affollavano il cortile davanti al portone del palazzo. Chi potevano essere? Roxana prese la lampada a olio dal comò accanto al letto e uscì. Scese la scalinata e si ritrovò nell’atrio proprio nel momento in cui Nerone e altri due figuri imbacuccati stavano portando dentro un uomo legato e imbavagliato! Mastino, in piedi accanto alla colonna sinistra della scala, guardava la scena, mentre alcuni paggi rischiaravano l’ambiente tenendo alti alcuni doppieri d’argento massiccio. Le fiamme delle candele tremavano e gettavano strane ombre all’intorno. Roxana approfittò di quella penombra e scivolò dietro ai paggi e al patrigno senza che se ne accorgessero. Si nascose dietro una delle colonne dell’atrio che sostenevano la volta

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a cupola. Mise a terra la lampada e sospirò sollevata: da lì poteva spiare senza essere vista. A quel punto il barone apostrofò Nerone: – Avete fatto tardi. Credevo che lo aveste perso. – No, monsignore – rispose pronto Nerone. – Lo abbiamo intercettato già stamattina, ma ho preferito aspettare il buio. Di giorno ci sono in giro troppi curiosi. Poi gli occhi di Nerone si fermarono sulla colonna che proteggeva Roxana. L’uomo sorrise beffardo e s’inchinò con fare servile. – Madamigella Roxana, è un onore incontrarvi! Solo allora, vedendola uscire da dietro la colonna con la lampada in mano, Mastino sembrò accorgersi della figliastra. – Che cosa ci fai qui, Roxana? – chiese adombrato. – Ho sentito tanta confusione, padre, e poi è quasi l’ora di cena. Così sono scesa. – Hai fatto male! Non sono cose da donne, queste. Non ti riguardano! – Che ne facciamo di lui, signore? – chiese Nerone, impaziente. – Portatelo dove sapete e non fatevi vedere – rispose il barone. – Sì, monsignore. E il gruppetto si mosse marciando verso la parete di fondo abbellita da due colonne con una tenda di velluto verde nel mezzo. Roxana sapeva che dietro quella tenda si nascondeva una postierla30 che portava nei sotterranei del palazzo, collegati da un tunnel a quelli della torre! In quel momento il gruppetto le passò davanti e Roxana poté veder bene in viso il prigioniero. – Fra’ Fosco! 30–Postierla: porticina segreta nelle mura di una città o di una fortezza.

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Capitolo 9

– Stai zitta – impose Mastino. – Vuoi che ti sentano fin oltre la cinta? – Scusate, padre – fece lei, – ma quello è il giovane che mi ha salvata. – Lo so bene – ammise lui. – E lo fate mandare nelle segrete? Mastino attese che gli uomini fossero spariti dietro la tenda e replicò con tono duro e minaccioso: – Taci, Roxana. Non ti devo alcuna spiegazione. E sappi che quel mezzo frate potrebbe causarmi molti fastidi. E anche a te, se proprio lo vuoi sapere. Perciò mettiti il cuore in pace e non seccarmi. Il barone si girò e risalì la scala per raggiungere i suoi appartamenti. Roxana aspettò qualche secondo, poi salì anche lei. Tornò nella sua stanza con le lacrime agli occhi. Una volta dentro s’inginocchiò ai piedi della Madonnina dal manto d’oro e pregò a lungo.

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Luciano Nardelli

I Cavalieri della Quinta Luna Un racconto al tempo del Medioevo

Luciano Nardelli Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi racconti, soprattutto di fantascienza, ottenendo diversi riconoscimenti e premi. Ha collaborato con la RAI nella realizzazione di un radioprogramma di fantascienza.

Fra castelli e monasteri, feudatari e vassalli, vescovi-conti e abati, si muovono quattro ragazzi: “I Cavalieri della Quinta Luna”. In un mondo di faide per il potere, Fiammetta, Nuccio, Ossobuco e Guapo lottano per la giustizia. Il barone Mastino vuole impadronirsi con un inganno della terra dell’abbazia benedettina confinante con il suo castello e si circonda di loschi individui per far sparire un testamento importante che gli toglierebbe il titolo nobiliare. Con essi, trama contro i nostri eroi, che si trovano a dover risolvere ingarbugliate situazioni.

Un romanzo avvincente, per conoscere gli aspetti più importanti di un periodo storico fondamentale per la nascita della società moderna.

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Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).

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I Cavalieri della Quinta Luna

Pasqua del 963, Alto Medioevo

STORIA E STORIE

La storia raccontata da grandi storie per ragazzi

Luciano Nardelli

STORIA E STORIE

Un racconto al tempo del Medioevo

Completano la lettura: Approfondimenti finali F ascicolo di comprensione del testo S chede interattive su www.raffaellodigitale.it


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