Roberta Fasanotti
Il fascismo dalla mia finestra Un racconto al tempo del Fascismo
Roberta Fasanotti È nata e vive a Milano. Insegnante di lettere, è amante di narrativa, in particolare per adolescenti, e nutre una profonda passione per la storia del ’900. “Il fascismo dalla mia finestra” è il suo primo racconto pubblicato con la Casa Editrice Raffaello.
Carolina vive in una famiglia borghese e condivide con le sue compagne di scuola tutte le difficoltà che ogni adolescente incontra in questi anni delicati. Durante una festa conosce Edoardo e tra loro nasce una forte simpatia, ma il ragazzo è figlio di uno squadrista e il suo destino è già segnato. L’eco di avvenimenti drammatici per l’Italia, quali il delitto Matteotti, sconvolge la famiglia di Carolina. Il padre, assai critico verso l’attuale momento storico, impedisce alla figlia di frequentare Edoardo. Un amore sfiorato che porterà la protagonista, dopo tanti anni, a compiere un nobile gesto di solidarietà umana.
Il fascismo dalla mia finestra
Milano, anni 1922-24
STORIA E STORIE
La storia raccontata da grandi storie per ragazzi
Roberta Fasanotti
STORIA E STORIE
Un racconto al tempo del Fascismo
Completano la lettura: Approfondimenti finali F ascicolo di comprensione del testo
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S chede interattive su www.raffaellodigitale.it
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Online: approfondimenti e schede didattiche www.raffaellodigitale.it Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).
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788847 225046
Collana di narrativa per ragazzi
Editor: Paola Valente Redazione: Emanuele Ramini Ufficio stampa: Salvatore Passaretta Team grafico: Claudio Ciarmatori Illustrazione di copertina: Mauro Marchesi Approfondimenti: Elena Frontaloni Schede didattiche: Elena Frontaloni IIa Edizione 2016 Ristampa
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Roberta Fasanotti
Il fascismo dalla mia finestra
Capitolo
1
Carolina Milano, ottobre 1922
C
– arolina, cerca di non perdere tempo, anche oggi rischiamo di essere in ritardo! Carolina, non lasciare sul mobile i guanti! Carolina, sbrigati… In questo modo iniziava la mia giornata. Sistemavo velocemente nella cartella i quaderni che erano ancora sparsi sul tavolo, per non sentire ancora le raccomandazioni di mia madre. Mio padre in quei momenti era immerso nel suo silenzio. Lui lo adorava, soprattutto la mattina presto, quando il sonno teneva prigioniera l’intera famiglia. Papà dedicava tempo al suo sigaro, che diffondeva tra una stanza e l’altra un profumo che a me piaceva, anche se era aspro. Fumava ancora in pigiama, davanti alla tazza del caffè. Poi si lavava e si vestiva in un lampo. A quel punto, l’unica parola che diceva era sempre la stessa: “bene”. Dopo, era pronto per uscire e raggiungere il liceo, dove insegnava latino e greco. Il mio ginnasio non era proprio sotto casa. La mamma sosteneva che una camminatina quotidiana avrebbe favorito lo studio, anzi, come lei diceva sempre, “l’applicazione allo studio”. Io non ho mai capito il legame tra l’esercizio fisico e il successo scolastico, comunque camminavo. Camminavo e basta. Mi godevo la tranquillità del tragitto: la mamma mi accompagnava, assorta nei suoi pensieri. In casa nostra si parlava di tutto. Papà era sempre molto informato e da lui avevo saputo che Benito Mussolini alloggiava in quei giorni a Milano. 5
Capitolo 1
Diceva alla mamma che quell’uomo sarebbe potuto fuggire in Svizzera, se la situazione, davvero un po’ confusa, avesse preso una brutta piega. Io non ero certo in grado di contestare le opinioni dei miei genitori, ma sarei stata contenta di parlare con qualcuno di parere contrario. Magari avrei ascoltato cose allettanti su questo Mussolini e sugli uomini che portavano le camicie nere. Intuivo che l’uomo politico in questione era odiato da molti, da mio padre, soprattutto, ma anche adorato da molti altri. Mi chiedevo il perché. Chi aveva ragione? Non sapevo proprio cosa pensare. *** A scuola mi trovavo bene, anche se mi lamentavo un po’ della mia compagna di banco. Si chiamava Giovanna. Poverina: ogni giorno gli insegnanti la facevano quasi piangere. Era permalosissima e si offendeva per ogni minima sciocchezza. Giovanna cercava in me un rifugio, mi considerava probabilmente una specie di ombrello sotto il quale ripararsi. Ma quell’ombrello non lo trovava mai. Io ero sempre distratta da altro, preferivo parlottare, anche quando non si poteva, con la mia amica Luisella. Lei aveva una lunga treccia che metteva allegria, la disfaceva e la ricomponeva con cura tutti i giorni. Guardandola e ammirandola, non vedevo l’ora di far crescere anch’io i capelli e di assomigliarle, anche se lei sarebbe stata sempre più bella di me. L’intervallo rappresentava naturalmente per noi un momento di vero sfogo. Al suono della campana tutti correvamo verso il cortile. Molte di noi guardavano i maschi, sempre più agitati. Se poi notavamo un ragazzino carino, ci lanciavamo occhiate a turno, e poi… un cicaleccio continuo, e giù risate su risate. 6
Carolina
*** Mia nonna aveva l’incarico di venirmi a prendere a scuola e mi aspettava davanti al portone. Mi cercava guardando sempre dalla parte sbagliata ed io la raggiungevo velocemente, quasi di nascosto, per gustare il suo stupore quando mi ritrovava magicamente accanto a lei. Era sempre contenta di rivedermi e lo dimostrava dandomi mille baci. Non vedevo l’ora di salire i gradini di casa, abbandonare i pensieri e i doveri legati allo studio. La mia sorellina Lucia mi accoglieva a braccia aperte, mi sottraeva velocemente la cartella, che diventava per qualche momento di sua proprietà. Sognava la scuola, gli intrighi da ragazzine: tutto un mondo a lei ancora negato. Quando le raccontavo della mia compagna di banco la sua bocca si spalancava e le sorridevano anche gli occhi. Qualche volta la spiavo dal salotto e l’intravedevo seduta sul suo letto, con le gambe incrociate: mi faceva tenerezza e nello stesso tempo mi sentivo davvero grande. Lucia amava disegnare i quadri di Monet, quel grande pittore francese che a me piaceva più degli altri. Per quanto mi riguardava, non credevo di avere grandi talenti, e quando vedevo correre la matita che Lucia teneva tra le dita con una certa eleganza, mi sentivo come risucchiata dal vuoto. Per ritrovare me stessa correvo alla scrivania, dove c’erano tantissimi oggetti, non sempre in ordine: cannucce, calamaio, pennini, quinterni di fogli, quaderni, libri. Quello era il mio mondo e la mia sicurezza. Ma mi chiedevo anche che cosa avrei potuto fare da grande. Nella mia testa non c’era ancora nessun progetto.
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Capitolo
2 Una “nota” stonata: la Marcia su Roma
Papà ogni sera si accomodava sulla sua poltrona prefe-
rita. Con estrema cura, quasi fosse un intervento chirurgico, sfogliava il giornale per poi leggere a voce alta le notizie più importanti. Il destino della serata era già stabilito. La mamma sedeva davanti a lui, impegnata in un ricamo che sicuramente sarebbe stato disfatto almeno due volte. Lei amava la perfezione, e, quindi, non si sarebbe mai accontentata del primo risultato, considerato “sempre difettoso”. La nonna diceva che sua figlia aveva “le mani d’oro”, ma lei, di fronte a quel complimento materno, piegava la testa in segno di vergogna. *** Era il 27 ottobre del 1922. Venne ufficialmente annunciata la mobilitazione di gruppi fascisti, uomini con la camicia nera che iniziavano a riversarsi su Roma. – Presto ci ritroveremo in un mondo nuovo – disse la mamma con un’espressione di ribrezzo. – Il fascismo è qualcosa che… non so, credo che non ci siano cose pulite in quei gruppi di scalmanati! Mio padre, come al solito, tenne la sua lezione: – Mussolini sostiene che il partito fascista è liberale, almeno per quanto riguarda l’economia… Io capivo poco, la mamma sgranava gli occhi, quasi avesse voluto migliorare la sua partecipazione. 8
Una “nota” stonata: la Marcia su Roma
Papà continuò con parole che dovevano essere più semplici ma che a me risultavano ancora molto difficili: – Lo stato, secondo Mussolini, non deve occuparsi di tutto… quindi, non ci sarà più “stato ferroviere”, “stato postino”, “stato assicuratore”. Questo perché costa troppo e sarebbero i cittadini a pagarne le spese… Cosa ne dici, Angela? Fui io a interrompere la straordinaria intesa tra i miei genitori: – Papà, non so se ho capito bene… – Vedi, Carolina – mi disse con pazienza, – il fascismo… No, facciamo un esempio, immaginiamo di essere in mezzo a una strada: secondo i liberali lo stato deve limitarsi a regolare il traffico, senza pensare di fabbricare macchine o biciclette… Lo stato è un vigile, non un industriale o roba del genere… da certe cose deve astenersi, fare un passo indietro, altrimenti se fa troppe cose… cose che non gli competono, si rischia di essere tutti meno liberi… Insomma, se lo stato costruisce le biciclette, tu che fortuna puoi avere se metti in piedi una fabbrica di biciclette? Come fai a competere con lo stato? Hai capito, cara? – Adesso sì, papà. Almeno mi sembrava. La mamma faceva sì con la testa. Da certi discorsi sentiti in casa sapevo che a lei piacevano personaggi come Cavour, insomma vecchi gentiluomini. Ma quel Mussolini era un gentiluomo? Ci si poteva fidare di lui? Ad un certo punto, quella sera entrò in salotto la nonna e cominciò a parlare del re, di come lui avrebbe garantito il migliore futuro per il nostro paese, di come la corona fosse sempre stata un’ottima garanzia di serietà. Ma la nonna, quando parlava o tentava di parlare di politica, non era granché ascoltata e lei ogni volta si offendeva. 9
Capitolo 2
– Lo so – disse anche quella volta, – io qui sono solo un’ospite, un’intrusa, che ogni tanto s’illude di vivere in famiglia. A quel punto, davanti al sorriso ironico di sua figlia e all’indifferenza di papà, lei si ritirava arrabbiata in camera sua e, per calmarsi, cominciava a cambiare posto a tutti gli oggetti che possedeva, creando caos e tanto rumore. Ogni scatto di nervi era sempre seguito da quella confusione. Quando tutto questo accadeva, io e mia sorella entravamo nella sua camera e a stento trattenevamo le risate, mentre l’aiutavamo a risistemare tutto. – Vedete, bambine – ci diceva alzando al cielo le braccia, – perdere il nonno è stato terribile, ma è ancora più brutto capire che in questa casa il mio ruolo è solo quello di organizzare la cucina. Meno male che ci siete voi, i miei tesorini… A quel punto papà, dopo aver sbuffato un po’, la richiamava in salotto. Tornava la calma, in attesa di un’altra sfuriata. *** Sempre alla fine di ottobre, annunciarono che il re stava per ritornare a Roma. Proprio in quelle circostanze papà mi aveva raccontato che il nostro sovrano, un giorno, si era sfogato con i suoi consiglieri, ai quali aveva detto: “Piuttosto che cedere, prendo moglie e figlio e me ne vado”. Un’azione dura contro i fascisti? Quell’ometto piccolo e anche bruttino non dava proprio l’idea di avere un carattere di ferro. Eppure a me piaceva, come piaceva alla nonna. Io volevo essere dalla sua parte. La nonna era una persona davvero simpatica, diceva le cose in maniera semplice, mentre i miei genitori complicavano sempre tutto, con parolone difficili. Che strano, la nonna appariva ai miei occhi la più giovane della famiglia. Un’altra che parlava difficile era la signorina Franzini, pro10
Una “nota” stonata: la Marcia su Roma
fessoressa di latino. Non risparmiava certo la sua voce e fin dalle otto e un quarto gridava per richiamare all’ordine tutte le allieve. Proprio in quella settimana io ero stata nominata capoclasse, avevo quindi l’incarico di segnalare i nomi delle compagne che disturbavano prima dell’inizio delle lezioni. – Dai, Carolina, non scrivere il mio nome sulla lavagna – m’implorava a mani giunte la Verzetti, una con tanti brufoli sulla faccia. – Ti prego, ti prego, dì che non mi hai visto! – urlava la Penni, un’altra che di confusione ne faceva parecchia. Io non riuscivo a tradire le mie compagne e stavo al loro gioco. Quella mattina, però, la Franzini si era accorta che avevo “barato” e così mi presi una brutta nota sul diario. Ricordo che la prof di latino, dopo aver rimesso piede in classe, sbatté il righello sulla cattedra, come se fosse stato una frusta. Aveva un’aria da domatore di circo. Ritornò il silenzio assoluto, e tutti ci sistemammo con le braccia incrociate sul davanti e i gomiti appoggiati sulla ribaltina del banco. Sembrava di essere ritornati alle elementari. Meno male che gli altri professori ci trattavano un po’ più da grandi. Intanto la nota “pesava” nella cartella e tornai a casa mogia mogia. Quanto a serietà, papà non lo batteva nessuno. Come fare con quelle brutte parole sul diario? Speravo tanto di risolvere la faccenda con la mamma, ma la professoressa richiedeva assolutamente la firma di mio padre. Non avevo alternative. Che barba questi adulti, che barba tutte quelle regole! Se solo una volta si fossero ricordati di com’erano anche loro alla mia età! Avrei preferito mostrare un brutto voto, magari in matematica, visto che papà non è mai stato forte con i numeri. Sicuramente sarebbe stato clemente, ma una nota, che figura… 11
Capitolo 2
Cenammo tranquillamente, come ogni sera. Lucia faceva i capricci perché non voleva mangiare i finocchi. In effetti erano davvero disgustosi, ma quella volta sarei stata disposta ad ingoiare anche la sua razione, pur di non innervosire papà. Lui era assorto nei suoi pensieri. Ogni tanto, col cucchiaio in mano, diceva: – Si preparano avvenimenti importanti! E notizie importanti arrivarono. Eccome se arrivarono: il ministero degli Affari Interni aveva deciso di proclamare lo stato d’assedio in attesa della firma del re. I fascisti, quindi, sarebbero stati fermati. Il sovrano aveva promesso di firmare. Immaginate casa mia: non si parlava d’altro. La mamma continuava nervosamente a sistemarsi i capelli, malgrado non avesse un ciuffo fuori posto. Il papà non riusciva a star seduto un secondo mentre la nonna continuava a dire: – Lo sapevo, lo sapevo, il re sistema sempre tutto! E papà replicò: – Forse non hai capito… sai cosa significa “stato d’assedio”? La nonna fece un gesto con la mano e se ne andò. In quella confusione ogni tanto suonavano alla porta amici di papà che chiedevano un suo parere o volevano discutere assieme a lui. La serata si concluse in un clima di paura. Paura per qualche cosa che non si conosceva. Ma la nota sul mio diario? A chi avrei dovuto mostrarla? Forse a Mussolini? Non osai proprio, in quelle ore convulse, parlare di scuola. Lo scritto della Franzini rimase nella cartella, dove avevo chiuso anche la sua irritazione e la sgridata che avrei preso il giorno successivo. Pazienza. La notte portò consiglio e decisi di affrontare mio padre la mattina successiva. Alla fine lui fu più comprensivo del previsto. Al mio risveglio, tra un sorso di caffè e un morso ai biscotti, lesse le sgradevoli parole immortalate sul mio diario. Si limitò a fare una smorfia strana. Solo qualche brontolio uscì dalla sua bocca, ma non alzò le mani contro di me. 12
Una “nota” stonata: la Marcia su Roma
Intanto i fascisti s’impossessarono delle stazioni ferroviarie, degli uffici telegrafici e telefonici, dei magazzini di armi e munizioni, delle sedi dei giornali. Gli uomini in camicia nera avanzavano mentre le autorità militari, con una prudenza che sapeva di paura o d’indecisione, si ritiravano. Il re alla fine non firmò lo stato d’assedio. Molti consiglieri lo spaventarono, bloccando ogni sua decisione. E così accadde che i fascisti ebbero il via libera. Dilagarono nelle strade e nelle piazze, si mossero sui camion e sui treni. Ecco che cosa fu la Marcia su Roma. La mattina del 30 ottobre Mussolini arrivò nella capitale e il re lo nominò presidente del Consiglio. Erano giorni particolari. Il 31 ottobre molte finestre esposero il tricolore. Milano, così colorata, mi sembrò più bella, ma i miei genitori erano molto preoccupati. Secondo loro, i fatti che stavano succedendo non assomigliavano ad una festa o ad un Carnevale, ma all’inizio di una tragedia. La signorina Fossati, insegnante d’italiano e storia, quel giorno era tutta frizzante. Il suo golfino nero, che copriva un’elegante camicia di seta, era completamente abbottonato, quasi avesse voluto comunicare rigore e obbedienza. Ma a che cosa? Probabilmente nemmeno lei lo sapeva. Angelone, il nostro portinaio, era un omone di mezz’età, sempre di buon umore. Viveva con la moglie, una donna insulsa che agiva seguendo uno strano principio: tutto ciò che diceva il marito era legge, rideva ad ogni sua battuta, anche insignificante. Per lei Angelone era proprio un grande uomo. Il papà lo guardava di traverso, soprattutto quando lui lo salutava come facevano i fascisti, con il braccio teso. All’ennesimo gesto, il papà quella mattina non poté fare a meno di sbottare: 13
Capitolo 2
– Finalmente è arrivato il castigamatti che metterà a posto anche voi, vi accorgerete! Naturalmente Angeloni non aveva capito la presa in giro, o l’ironia, di mio padre. Peggio ancora: da quella volta, ogni mattina, il portinaio usciva trionfante dalla guardiola per salutare meglio papà, rovinandogli così la giornata.
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Capitolo
3
Colpo di fulmine a casa di Luisella Novembre 1922
Da un po’ di tempo convivevo con strane stanchezze.
La mamma le attribuiva all’età, sosteneva che era faticoso crescere. Tutti però continuavano ad essere esigenti con me. Certe volte gli adulti sembrano comprensivi, danno proprio l’impressione di capire tutto, salvo poi comportarsi diversamente e finire con le punizioni. Io cercavo sempre di più le mie amiche, mettendo da parte gli adulti e i loro pensieri complicati. Luisella stava diventando sempre più carina. La sua altezza mi faceva invidia, non tanto però da volerle meno bene. Assieme a lei vedevo tutto più bello. Poi c’era Giulia Poletti: una ragazzina generosa, che però aveva il vizio di parlare in classe a voce alta. Non si sentiva accettata dalle altre, anzi non lo era affatto, e proprio per questo la sua voce diventava squillante. Quella mattina, però, sarebbe stata contenta: Luisella avrebbe festeggiato tra pochi giorni il suo compleanno e avrebbe invitato a casa un gruppo di compagne. Tra queste anche lei. Sarebbe stata l’occasione per farle capire che l’amicizia è un regalo, non una specie di palcoscenico su cui esibirsi. Per una settimana, durante l’intervallo, non si parlò d’altro: quale abito scegliere, che giochi organizzare, quali regali fare, fino a che ora rimanere… I giorni volarono e il grande sabato arrivò. La nonna quel pomeriggio mise da parte i numeri da giocare al lotto e decise di occuparsi di me. 15
Capitolo 3
Sosteneva da sempre che la fortuna può in pochi secondi sconvolgere la vita, per cui deve essere inseguita. Con una vincita avrebbe magari recuperato la sua indipendenza e una nuova casa, senza dover sempre ubbidire alla mamma. Lucia, spalancato l’armadio, in meno di pochi minuti, aveva disteso malamente sul letto tutti i miei vestiti. Capivo la sua voglia di essere coinvolta, ma qui non si trattava di matite colorate. Tra noi finì in poco tempo con un bisticcio, uno di quelli in cui i fratelli minori hanno ogni volta la peggio. La mamma aveva sempre avuto con lei tanta pazienza, diceva che era piccola e quindi la si doveva proteggere. Ma anche viziare? Comunque quel pomeriggio nostra madre riuscì a calmare le sue grida ed io uscii da casa sorridente ed eccitata come non mai. *** – Prego, bambine, accomodatevi. Potete andare di là, intanto noi mamme c’intratteniamo nel salotto – ci accolse la mamma di Luisella, una donna gioviale. Portava al collo una fila di perle che le illuminavano lo sguardo. La festa elettrizzava anche l’aria che respiravamo. Nel giro di pochi minuti organizzammo una specie di sfilata e ogni abito venne messo in mostra in modo che apparisse il migliore. Giulia tentava d’imporsi con la sua solita voce da operetta. Che noia! Ma che altro potevo fare? Tutte noi le davamo corda, per educazione e per evitare lunghi discorsi sul carattere e sul comportamento. Quando fu il momento della torta suonò il campanello di casa. Entrò un ragazzino alto, con i capelli rossicci. 16
Colpo di fulmine a casa di Luisella
Una vampata di calore arrossò il mio viso e a stento recuperai la calma. Era Edoardo, il cugino di Luisella, davvero carino! Abitava nella sua stessa casa e non poteva mancare ad un’occasione così importante. Ma che ci faceva un maschio in mezzo a tante femmine? Risposta semplice: voleva mangiare! Infatti si rimpinzò di torta fino a star male. Ogni tanto mi guardava. Me ne accorgevo con la coda dell’occhio, ma facevo finta di niente.
Dicembre 1922 Il Natale era alle porte con tutte le sue sorprese, ma il momento storico che vivevamo rovinava anche le tradizioni più antiche. Gli squadristi, per quella che loro chiamavano “disciplina”, fecero innumerevoli spedizioni punitive. In pratica botte, tante botte a chi la pensava diversamente da loro. Manganellate e olio di ricino. Questo era il fascismo? Sembrava di sì. Proprio in quel dicembre maturarono alcuni dei peggiori delitti dell’epoca. Tutte le idee liberiste o socialiste vennero abbandonate dalle squadracce nere e da chi le comandava. Già, il socialismo: io avevo imparato, a casa, che socialismo significava rispetto per i più deboli. Eppure Mussolini veniva proprio dal Partito socialista. Come aveva potuto rinnegare quelle idee? Papà e mamma avevano proprio ragione: lo intuivo, lo avrei capito a fondo solo anni dopo. Avvertivo un senso di pericolo, ma non mi rendevo conto della gravità del momento. Probabilmente pensavo che quel che stava succedendo fosse un fenomeno passeggero. 17
Capitolo 3
Il mio mondo, fatto di scuola, di compagne, di abiti per la festa, e di quella noiosa di mia sorella, mi distraeva. Soprattutto mi era capitato un fatto nuovo: mi ero innamorata. Quello spilungone di Edoardo compariva sempre in casa di Luisella e ci raccontava un sacco di cose spiritose. Io non chiedevo altro che poter ridere: a parte i momenti che trascorrevo con la nonna e mia sorella, in casa mia non c’era più la serenità di una volta. Ecco una delle ragioni per cui un simpaticone così mi attirava tanto. Un giorno, di nascosto, osò dirmi: – I tuoi capelli sembrano un bosco in primavera. Che la felicità consistesse nell’ascoltare frasi come quelle?
Marzo 1923 La mamma si accorse di questo ciclone che mi travolgeva da un po’. Per evitare un fiume di raccomandazioni, le promisi che non avrei trascurato lo studio. Edoardo era in fondo solo un compagno, che frequentava la mia stessa scuola e… cosa c’era di male se c’incontravamo per parlare e giocare insieme? La mia complice era sempre Luisella. – Carolina, pochi minuti e… al suono della campana andiamo tutte in corridoio! Naturalmente noi saremo molto discrete ma non possiamo perdere una scena del genere – mi disse un giorno. La mia amica, con lo sguardo incollato alle lancette dell’orologio, stava pilotando le mosse delle nostre compagne. Di cosa si trattava? Di un semplice cenno di saluto al mio amico rossiccio, niente di più, ma questo nostro semplice gesto era diventato la favola della classe. Anche perché lui, regolarmente, rispondeva con un sorriso. 18
Colpo di fulmine a casa di Luisella
Per questo aspettavo l’intervallo con un filo d’ansia che cominciava a farsi sentire prima delle dieci e aumentava con il passare del tempo. – Paola, oggi non mi muovo dal banco se non scambiamo le merende – dicevo alla mia compagna seduta davanti a me. – Affare fatto. Paola estraeva dal suo cestino pane scuro e salame da barattare con la mia fetta di pane imburrato. E così lei si guadagnava il biglietto per la scenetta. Naturalmente Luisella faceva parte del gruppo. Nel giro di poco tempo si creò così in classe un piacevole clima di complicità.
Maggio 1923 Svegliarsi alla mattina presto nei mesi invernali era davvero un supplizio. Difficile vincere il desiderio di non infilarsi di nuovo sotto le coperte e rifiutare tutto, pensando magari di dire una bugia del tipo: “Mi sento poco bene, forse ho un po’ di febbre” solo per evitare quella folata d’aria fredda che t’investiva all’uscita dal portone. Ma ora, in primavera, ovviamente, i risvegli erano diversi: quasi non avevo più bisogno dei richiami materni: “… Carolina, Carolina, dai, amore, sei in ritardo, dai…!”, eccetera, eccetera. Altro vantaggio della bella stagione: c’erano meno abiti da infilare, quindi fatica dimezzata. In poco tempo mi trovavo davanti alla tazza del latte e la mia mente passava in rassegna le cose che avrei dovuto fare durante la giornata. E anche quelle che avrei desiderato fare: erano sempre più numerose delle prime. 19
Capitolo 3
“Questa sarà una settimana particolare” pensai “e i giorni, in attesa della domenica, trascorreranno più velocemente”. L’incontro con Luisella ai giardini pubblici mi esaltava: naturalmente non tanto per lei, ma perché Edoardo sarebbe stato con noi e la mamma l’avrebbe conosciuto. Solo l’idea mi procurava un brivido sulla schiena. Il piacere d’incontrare quel ragazzo mi allontanava dai giochi infantili. La domenica mattina papà, Lucia ed io avevamo un appuntamento fisso con la pasticceria. Era nostra tradizione, come quella di molti altri, portare a casa, come diceva papà, “qualcosa di buono”. Non ci facevamo certo pregare nella scelta dei pasticcini più golosi del negozio. Quella mattina rimanemmo più del solito con il naso incollato alla vetrina, mentre papà era impegnato a parlare con il Preside del suo liceo. Rimasi molto colpita dal clima di cordialità che s’instaurò tra loro in pochi secondi e capii quanto fosse stimato papà. Infatti ogni sua parola era come ingoiata, quasi fosse un cannolo o un bignè della pasticceria, da quel signore con la faccia severa e col mento che andava su e giù, come per dire “sono d’accordo con lei, caro professore”. Parlavano di politica, tanto per non smentirsi. Io sentii dire da mio padre più o meno queste parole: “La situazione si fa sempre più difficile. Mussolini vuole cambiare il modo in cui gli italiani votano e raggiungere così la maggioranza assoluta”. Altre parole mi rimasero in testa: “inganni, truffe, imbrogli”. E tutte erano quasi sussurrate, nel timore che qualcuno, passando di lì, potesse sentire. “Siamo già a questo punto?” pensai. “Non si può più conversare liberamente?” Papà rivolse a noi uno sguardo tenero, intuendo la nostra noia. Occorreva fare in fretta: la nonna avrebbe preparato il risotto. 20
Colpo di fulmine a casa di Luisella
Io e mia sorella sapevamo quanto lei odiava i ritardi, soprattutto dopo aver trascorso la sera prima a pulire con pazienza snervante ogni chicco di riso. – Dai, papà, compriamo i pasticcini e torniamo a casa, prima che la nonna perda la pazienza! – dissi quando il preside si fu allontanato. In realtà la fretta era tutta mia: l’appuntamento del pomeriggio ai giardini mi rendeva nervosa, come se avessi voluto porre fine al più presto ai consueti gesti domenicali. *** E venne l’ora. Io galleggiavo nell’emozione. – Mamma, questo è Edoardo! Frequenta la mia scuola, è in seconda ginnasio. La mamma sorrise divertita. In effetti la situazione era buffa. Edoardo montava una bicicletta normale, truccata però da bici da corsa: al manubrio erano stati applicati due cestelli per le bottiglie d’acqua, come se fosse un corridore professionista. Ogni piccolo movimento dei pedali produceva un rumore simile a quello di un motorino a scoppio. Aveva infatti infilato tra i raggi una cartolina, fermata da una molletta per i panni. L’espressione del suo viso era trasognata, come se fosse sceso da una nuvola: sapeva di essere sotto osservazione. I capelli erano tutti ritti. A dire la verità non mostrava in quel momento un’aria furba. Però, però… quanto mi piaceva quel ragazzo! Anche nella sua goffaggine di corridore. Sapevo che voleva assomigliare ad Ottavio Bottecchia, una promessa del ciclismo. La mamma fu subito distratta dalle altre signore che cominciarono a confabulare dei problemi di casa, di quanto fosse difficile allevare i figli in momenti così delicati. Le solite cose, insomma. 21
Capitolo 3
Nel gruppo delle mamme mancava quella di Edoardo. La donna era morta nel 1920 in una cascina del mantovano, durante un incidente provocato dalle squadre rosse, i comunisti o i socialisti, o tutte e due insieme. Non sapevo bene. La mamma era al corrente di questa tragedia, per questo si mostrava tenera con lui e naturalmente Edoardo ricambiava la simpatia con innumerevoli sorrisi. Quel giorno mia madre era particolarmente elegante: assomigliava proprio ad una stella del cinema. Lucia sgambettava tra i vialetti dei giardini, contenta di aver vicino Laura, la sua amichetta del cuore. In queste situazioni non potevo esimermi dal fare la sorella maggiore, ma… ero distratta da altro. Avevo anche portato il monopattino, ma quel giorno lo lasciai appoggiato alla panchina. Edoardo aveva in mano un curioso giocattolo ad elica che, senza perdere tempo, calammo sull’acqua: sembrava un transatlantico. Tra un gesto e l’altro sfiorava la mia mano. La sfiorava per caso, oppure… Io so soltanto che ero completamente confusa, e forse anche rossa in viso. Nello stesso tempo aspettavo che le nostre mani fossero vicine. Quel giorno mi sembrava tutto perfetto, mancava solo papà, ma i compiti di greco dei suoi allievi l’avevano trattenuto a casa, almeno così diceva lui. Era la verità? No. Io sapevo benissimo che in realtà voleva leggere nella casa finalmente silenziosa. Quello sarebbe stato il pomeriggio ideale. Ormai conoscevo Edoardo da un po’ di tempo, ma di suo padre la mia amica non mi aveva mai raccontato nulla. Ad ogni domanda cambiava discorso. – Luisella, tu che sei sua cugina, come fai a non sapere che lavoro fa? 22
Colpo di fulmine a casa di Luisella
– La nostra parentela non è stretta – rispondeva lei. – Ci frequentiamo da poco, da quando Edoardo si è trasferito nel mio palazzo, dopo la morte della madre. Il padre lo vedo spesso… mi sembra un tipo strano, sicuramente la mamma ne sa di più. Poi Luisella girava la testa dall’altra parte per segnalarmi che aveva voglia di parlare d’altro.
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Capitolo
4 Un’estate di segreti
Giugno 1923
L’anno scolastico si concluse in bellezza: fui promossa,
anche con qualche bel voto. Esaurire gli impegni scolastici significava per tutti noi avviare i preparativi per trasferirci nella nostra casa di Moltrasio, sul lago di Como. Un grande baule veniva collocato nell’entrata, quasi volesse ricordarci ogni giorno la promessa di aiutare la mamma e la nonna. Lucia sbuffava ad ogni sollecito: sapeva di essere la più piccola, ed era convinta che il suo compito consistesse solo nell’infilare qualche orsacchiotto e le sue adorate matite colorate. La nonna, come sempre, si faceva prendere dall’ansia: – Prima di partire, tutte le finestre devono essere sigillate! Non deve penetrare un filo d’aria, neanche uno spiraglio di sole! Per lei sarebbe iniziato il periodo più bello dell’anno: ci saremmo stabiliti nella “sua” casa e forse lì, qualche volta, avrebbe avuto il diritto di “dettare legge”. Ero felice di partire: sul lago mi aspettava una vacanza che conoscevo a memoria ma che rivivevo sempre con l’entusiasmo di quando ero piccola. Sapevo che Edoardo avrebbe trascorso le vacanze estive sul Mare Adriatico, a casa di una vecchia zia vedova e senza figli. Sembrava contento di questo programma, anche perché era sicuro che avrebbe ritrovato alcuni ragazzi, secondo lui scatenati e divertenti. 24
Un’estate di segreti
Settembre 1923
In vacanza avevo pensato spesso a lui, ricordando alcuni momenti vissuti insieme per poi sognarne di nuovi. Confesso che ero sempre più spaventata dall’idea che si fosse dimenticato di me. L’estate era volata via, ed io aspettavo solo che il portone della scuola si riaprisse. Pensavo che un saluto dal cortile non sarebbe certo mancato, in attesa, magari, di frequentare di più la sua casa. Sapevo che viveva senza la mamma, situazione terribile per lui come lo sarebbe stato per chiunque. Forse mi sentivo attratta da questo “rossiccio” perché mi faceva tenerezza? Non riuscivo proprio a capirlo. Suo padre gli aveva insegnato a difendersi anche dai sentimenti? Luisella ed io andavamo in casa di Edoardo solo in assenza del padre. Non capivo il motivo, ma sembrava che lui e sua cugina avessero preso un accordo preciso per evitare che incontrassimo quell’uomo. Nel soggiorno di casa c’era appesa alla parete, in bella mostra, una raccolta di sciabole e di qualche altra arma da guerra. In camera, il padre conservava come unico ricordo della moglie una preziosa apparecchiatura da toilette con un trabiccolo di ferro, sormontato da un piccolo specchio orientabile. Li considerava oggetti rari, preziosi pezzi da museo. La prima volta che misi piede in casa sua, Edoardo si portò in mezzo alla stanza con le mani nascoste dietro la schiena e, assunta un’aria severa, si era divertito ad imitare il padre: – Le cose cambiano velocemente, anche le abitudini delle donne. Quel che oggi è o sembra vecchio, domani sarà roba da antiquariato! – aveva detto. E noi eravamo scoppiate a ridere. 25
Capitolo 4
In un angolo della stanza era sistemata una piccola scrivania. Edoardo aveva detto che fungeva solo come mobile, visto che suo padre non era una persona che amava perdersi nei pensieri per poi appuntarli su un taccuino. Quel ripiano serviva per ospitare un completo da scrittoio, in pelle rossastra. Il mio amico avrebbe voluto appropriarsi di quell’angolo, ma purtroppo gli era assolutamente proibito. Edoardo viveva tra quelle mura senza vita e tendeva a non invitare i suoi amici, tranne noi, naturalmente. – La casa è piccola – ci raccontava con tono convincente. – Manca lo spazio sufficiente per giocare. Solo Antonio, anche lui appassionato di teatro, può avere via libera! Mi raccontava che, proprio con Antonio, si divertiva ad allestire il palcoscenico: era quasi un rito e loro lo sapevano bene, perché il divertimento era anche nella preparazione dell’ambiente. Dallo scatolone tiravano fuori i personaggi maschili, mentre le marionette femmine rimanevano dentro, come morte. Edoardo mi raccontava che non si stancava mai di quelle finzioni, quasi avesse voluto cercare di mettere in scena pezzi di vita mancata. Preferiva forse “quel” presente, sia pure inventato, al futuro? Anche lui come me non riusciva a creare la “scena” dei giorni e degli anni che aveva davanti a sé? La passione per il teatro sarebbe rimasta solo un gioco? Difficile rispondere a tutte queste domande. Spesso, durante la primavera, avevo sentito pronunciare parole confuse che riguardavano la politica. Si parlava di dottrina nazionalista: come dire che prima di tutto contava la nazione italiana, e ad ogni costo. Il resto avrebbe avuto poca importanza. Intanto il partito fascista si era fuso con quello nazionalista e Mussolini parlava sempre più spesso di patria. 26
Un’estate di segreti
Quando riportavo ad Edoardo certi discorsi di papà a proposito della situazione attuale, lui non commentava mai. Si limitava ad ascoltarmi e basta. Sosteneva che era suo padre a fornirgli le informazioni, tutte particolareggiate. – Fin troppo – sottolineava con aria annoiata. – Papà parla, parla… Ti confesso che spesso non capisco bene il significato di certe parole, ma non glielo dico, altrimenti urla e le sue lezioni durano ore! Ascoltavo i suoi segreti e gli sorridevo soddisfatta, sperando si accorgesse che ero sempre dalla sua parte. Nominava spesso sua madre. Mi raccontava che era stata più ambiziosa del padre: pur non avendo studiato, gli aveva insegnato l’importanza della lettura, tramite quei pochi libri che occupavano il piccolo scaffale della sua camera. Sapevo da Luisella che Edoardo era da tempo inserito in una banda di ragazzi a lui fedelissimi. L’avevano nominato capo. Si riunivano a giorni fissi, sempre alla stessa ora, magari anche per poco tempo, secondo gli impegni della giornata. La sua squadra amava le partite di calcio e le corse dei ciclisti. Tutti si lanciavano come disperati con la propria bicicletta in percorsi, scelti volutamente difficili e tortuosi. Prendevano nota delle penalità per garantire la giusta vittoria al migliore, che veniva sempre premiato dal capo. Edoardo era fiero di questo ruolo, si sentiva importante. Certe volte litigava con alcuni ragazzi per difenderne altri, o solo perché li considerava antipatici. Avrei voluto tanto spiarlo, lui non era uno qualunque e mi sarebbe piaciuto osservarlo al comando del suo gruppo. Il campetto dove s’incontravano per giocare a calcio era però molto lontano e nessuno mi avrebbe accompagnato. Mi raccontava che tra i suoi amici si creavano spesso rivalità con gruppi di vicini, formati da ragazzi prepotenti, spesso crudeli. 27
Capitolo 4
Quando il pallone li stancava, passavano ad altri giochi: con cerbottane, spade di legno, fionde. L’importante era sempre proteggere il capo perché, se fosse stato aggredito, la banda si sarebbe sciolta e avrebbero dovuto scegliere un altro leader. Continuavo a pensare a lui, ai suoi racconti che mi tenevano compagnia, in attesa di rivederlo e di ascoltare nuove storie.
Ottobre 1923 Con l’aiuto della nonna avevo imparato durante l’estate l’arte del cucito. Mi ritrovavo spesso con l’ago in mano. Con le stoffe colorate trasformavamo le bambole in eleganti damine ottocentesche. Lucia, come sempre, non voleva essere da meno: invece di cucire le stoffe intrecciava i fili e finiva per combinare guai e irritarsi. Pretendeva poi che io mettessi ordine a tutti i suoi pasticci e ad ogni mio rifiuto reagiva con urla e lacrime. Al momento sbuffavo, poi sollevavo le spalle e me ne andavo. Quella bambina era difficile da sopportare, limitava la mia libertà, di cui avevo sempre più bisogno. Spesso parlavo di Lucia con le mie compagne, tanto per sfogarmi un po’. E mi accorgevo che anche loro erano insofferenti ai fratelli minori. Insomma, un classico. Il clima stava cambiando, sentivo l’autunno sulla pelle, presto sarebbe iniziata la scuola. Quello davvero era il mio regno, lontano dai brontolii di casa e dai soliti discorsi. Amavo sempre di più starmene sola nella mia camera a leggere, pregavo la nonna d’intrattenere Lucia. Lei mi capiva e mi aiutava, così io recuperavo un po’ di tranquillità. 28
Un’estate di segreti
Non avevo ancora rivisto le mie amiche, e nemmeno Edoardo. Come avrei potuto incontrarlo? Non volevo cercare Luisella, mi sentivo un po’ imbarazzata nel confessarle i miei segreti. L’estate aveva creato un vuoto tra noi, che forse avremmo colmato in pochissime ore di complicità ritrovata. Sentivo nostalgia dei banchi di scuola, della scatola nuova dei pennini, del cestino della merenda, dell’odore della carta stampata... Avrei ritrovato tutte le mie compagne, magari cambiate. Finalmente non saremmo più state le più piccole della scuola. Forse Vito, il nostro bidello, tra un silenzio, un muso e poche parole pronunciate tra le labbra, com’era sua abitudine, ci avrebbe trattato con maggior rispetto. *** Il grande giorno era finalmente arrivato. La sera prima avevo sistemato con cura i vestiti sulla sedia, vicino al mio letto, come se fossi dovuta andare ad una cerimonia. Tutto doveva essere perfetto. Sarei passata sotto gli occhi di tutti e noi ragazze facevamo sempre a gara per apparire al meglio. Una colazione veloce, una toilette curata… Ecco: ero pronta per la seconda ginnasio, un anno che avrebbe segnato il mio futuro. Ma io non potevo saperlo. – Carolina, come sei cambiata! – mi urlò nelle orecchie Giulia. – Angela, hai visto? – sussurrai nascondendo la testa dietro a Rosa. Abbiamo una compagna nuova, cerchiamo di capire che tipo sia. Mi sembra spaesata, io so che si è appena trasferita da Genova. Con una gomitata la mia compagna di banco mi riportò all’ordine per evitare le prime sgridate. 29
Capitolo 4
La professoressa Mantelli continuava a parlare, probabilmente le piaceva ascoltarsi, noncurante della nostra scarsa partecipazione. Per lei l’importante era fare il comizio. La campana dell’intervallo suonò puntuale come sempre. Non avevo il coraggio di uscire dall’aula, ma Luisella mi diede uno strattone ed io mi ritrovai, senza accorgermi, in cortile, con gli occhi di qualcuno puntati addosso. Una terribile vergogna mi prese: Edoardo cercava un segno, ma io quel giorno non riuscii a darglielo.
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Capitolo
5
Il padre di Edoardo
La ruggine delle vacanze si è sempre fatta sentire duran-
te il primo mese. Meno male che esistevano i ripassi, tanto noiosi, ma salutari, soprattutto per me che ho sempre avuto bisogno di tempi lunghi per ingranare. Il latino è sempre stata una materia ostica, ma con il padre che avevo non avrei potuto certo fare brutta figura, non me l’avrebbe perdonata. La mamma, per distrarsi dai soliti lavori domestici, mi aiutava nelle versioni, ma io ero sempre più desiderosa di far da sola, o per lo meno non con lei. Così organizzavo di incontrarmi con la mia amica. – Carolina, Carolina bella… meno male che abbiamo combinato di studiare insieme! – mi disse Luisella la prima volta che andai a casa sua con un entusiasmo tale da farmi pensare di essere capitata lì per salvarla dalla guerra. – È successo qualcosa di pericoloso? – le chiesi con aria stupita. – Se non mi aiuti in questa traduzione di latino, sarò io in pericolo domani! Sicuramente verrò interrogata... – Lascia fare a me: io traduco, ma… tu ti occuperai della matematica. – Affare fatto – concluse lei. Luisella infilò le dita tra i capelli e in pochi secondi si sistemò la treccia che le pendeva lungo il collo. Era più carina del solito. Il tempo passò in fretta e anche la voglia di continuare a studiare. 31
Capitolo 5
– Luisella? – le dissi sbadigliando. – Dimmi… – La traduzione è finita, con la matematica sei… A che punto sei? – Praticamente ho finito! – E allora andiamo a giocare in cortile? – Io non ho voglia, ma se tu vuoi… Ci precipitammo sulle scale, facendo saltare la palla. Io arrivai prima in cortile e… chi era seduto su un gradino? Edoardo, il grande Edoardo. Mi sembrava ancora più cresciuto, in altezza, mentre la sua aria trasognata era intatta. Gli era anche spuntato qualche baffetto che sicuramente lo rendeva ridicolo. Abituata a papà, quella peluria mi sembrava fuori posto, solo in attesa di un rasoio. Mi salutò con noncuranza, sbirciandomi con disinteresse, o almeno questo sembrava in apparenza. L’estate ci aveva divisi? Era presto per fare diagnosi. Improvvisamente si alzò un brutto vento che sollevava polvere e faceva volare i capelli. Guardandoci negli occhi manifestammo un certo disagio: eravamo infastiditi dall’aria che ci raffreddava le braccia. Non avevamo più voglia di rimanere all’aperto. Con una leggera esitazione Edoardo si fece avanti e domandò: – Cosa ne dite… se salissimo a casa mia? Non me lo feci ripetere due volte e, senza neanche chiedere l’approvazione di Luisella, lo seguii con passo veloce. In camera sua rimasi molto colpita da quello strano aggeggio che sorreggeva i libri di scuola: erano due piccole tavole di legno che servivano per ancorare i libri. – Dov’è la tua cartella? – chiesi ingenuamente. – Cartella? – rispose lui con tono irritato, come se mi avesse considerato una smorfiosa contessina. – Io uso le assicelle. 32
Il padre di Edoardo
Le cartelle sono da femmine. E così dicendo liquidò bruscamente il discorso. La mia amica sembrava non esistere più, come se fosse stata pietrificata dal disagio. Ci spostammo in soggiorno. La mia curiosità era attratta dalla luce del lampadario. Quel bagliore si scomponeva tra le tessere vetrose che ricoprivano il mobile centrale, dando alla stanza un’immagine di cattivo gusto. Il ragazzo era imbarazzato dai miei sguardi critici e lo fu ancora di più quando entrò in casa il padre: un uomo dai capelli impomatati dalla brillantina, così odorosa che ad ogni suo passo lasciava una scia nauseante. – Così… tu sei Carolina… ho sentito parlare di te… Sei l’amica di Luisella, vero? – si rivolse a me con tono autoritario ed io rimasi attonita. – Bene, bene… non so cosa abbiate in mente di fare voi tre, ma… cercate di non perdere tempo con giochi inutili, e soprattutto… di non disturbarmi! Ho bisogno di silenzio! Riuscii solo ad accennare un sì con il movimento della testa. Lui si avvicinò e mi guardò dall’alto al basso prima di allontanarsi. Quelle poche parole brusche mi avevano messo fortemente in imbarazzo, avevo l’impressione di avere di fronte un pazzo, o comunque un uomo diverso dagli altri. Era vestito di nero, teneva le mani ai fianchi e le gambe aperte, le ghette gli coprivano le caviglie. Sembrava un pupazzo di cartone. Provai subito un senso di fastidio. Sbirciando nella camera da letto, vidi che penzolava da sotto il materasso il lembo di un pantalone. Sicuramente quello era il modo più pratico per conservarne la piega. La cosa che mi fece sorridere di più fu il nodo di una cravatta appesa al pomo del letto, forse già pronta per l’indomani. “Che strano” pensai. “Papà non fa così”. 33
Capitolo 5
Dopo aver conosciuto quell’uomo avevo una gran voglia di andarmene, ma non mi sembrava gentile interrompere bruscamente l’incontro. Fortunatamente, Luisella mi venne in aiuto, precisando che si era fatto tardi e dovevamo andare. Dopo pochi minuti eravamo a casa di Luisella. Mi sentivo strana, non avevo voglia di niente, continuavo a spostare i libri, controllare che i pennini fossero in ordine. Niente era fuori posto, tranne, forse, io. Ritornando a casa feci festa ai miei genitori e li guardai con ammirazione. Che bella la nostra famiglia! Tutto mi appariva perfetto e quella sera anche la minestra mi sembrò un piatto stuzzicante. Venni poi a sapere che il Signor Moro apparteneva alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Sapevo da papà che le camicie nere avevano prestato giuramento di fedeltà al re, ma restavano agli ordini del capo del governo. Il loro compito era quello di conservare e difendere i diritti della rivoluzione. In che modo? Anche con la violenza. Da un po’ di tempo in casa mia non si commentava più la politica di Mussolini e non si facevano previsioni sul futuro. Io non capivo assolutamente il perché. Ad ogni mia curiosità papà rispondeva a monosillabi, senza però aggiungere una parola di commento. La cosa mi sembrava alquanto strana. Ho dovuto attendere molto tempo per capire che mio padre aveva paura di essere ascoltato, non si fidava di nessuno, neanche delle sue figlie. Il rischio per noi, come per altre famiglie, era alto: sarebbe bastata anche una spiata di un vicino di casa o del portinaio per essere immediatamente segnalati. Quella notte dormii malissimo. Le coperte continuavano ad arrotolarsi sotto la mia pancia: il pensiero di non aver ritrovato l’Edoardo di sempre mi turbava. Sognai le sue mani tra i miei capelli, gli piacevano tanto.
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Il padre di Edoardo
*** Seppi dalla mia amica che Edoardo si era preso una brutta influenza. Si assentò dalla scuola per una settimana intera. Non avendo la mamma, una vicina di casa si era presa cura di lui. La intravidi sulle scale un pomeriggio, mentre uscivo dalla casa di Luisella. Era una donna alquanto sciatta: portava capelli lunghi sulle spalle, probabilmente ogni mattina li arricciava con il ferro caldo. Edoardo mi aveva raccontato che lei si comportava nella loro casa con disinvoltura, indossando spesso una vestaglia rosa, forse per sottolineare quanto fosse intima in quell’appartamento. Edoardo aveva capito che la vicina era in confidenza con il padre e che probabilmente i due nascondevano un’intesa a lui sconosciuta.
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Capitolo
6 Tra bandiere e marionette
M
– a cosa sta succedendo? Partiamo per le vacanze un’altra volta? Lucia credeva che fosse nuovamente arrivato il momento d’infilare nelle valigie i costumi da bagno. Ogni nostro trasferimento al lago era sempre preceduto dalla tradizionale copertura dei divani, nella speranza che la polvere scegliesse spazi diversi dove posarsi. In quei momenti anche un lavoro del genere odorava di festa e tutti eravamo allegri, anticipando già quel senso di libertà che ci accompagnava per tutto il nostro soggiorno. La nonna si presentava in quella circostanza con la pila di candidi teli bianchi, pronunciando la solita frase: – Fate largo, bambine, non sono lavori per voi! E tutti noi, invece, ci davamo da fare per toglierle di mano il carico che ondeggiava, pericolosamente, come un’onda del mare. Quella sera Lucia stava immobile in mezzo alla stanza. Muoveva gli occhi con la sua aria furbetta, mentre teneva le mani appoggiate sui fianchi in un atteggiamento dispettoso. In quel momento la mamma entrò in soggiorno. Sembrava triste. Tratteneva con una mano un telo ripiegato. Lo distese con cura: era una grande bandiera italiana. Il viso di mia madre si fece scuro, come di chi ha appena ricevuto una brutta notizia. Si capiva che l’atmosfera di vacanza se l’era immaginata solo mia sorella. La mamma continuava ad agitare nervosamente la stoffa, intanto nella sua bocca si rita36
Tra bandiere e marionette
gliava una smorfia che le modificava l’espressione del viso, mettendo bene in mostra il suo disappunto. Io osservavo la scena con la massima calma, senza capire cosa stesse succedendo. – Bambine, voi non ricordate, ma domani si celebra la ricorrenza della Marcia su Roma e occorre esporre la bandiera. È così stropicciata! – spiegò. – Ma noi, allora, abbiamo cambiato parere su Mussolini? – intervenni nel discorso con un pizzico di delusione. – Ecco perché non parlate più di lui. Siete d’accordo con quello che decide. È forse diventato un buon capo di stato? Non capisco più cosa stia accadendo in questa casa! Volete per favore spiegarmi una volta per tutte da che parte state! O forse io sono troppo piccola per questo tipo di conversazioni? Papà, dal buio, entrò in scena come un fantasma. Aveva spesso il potere di presentarsi di soppiatto, veloce e sicuro come un felino. – Non possiamo dimostrare di non amare la patria. Esporre il tricolore non significa essere necessariamente fascisti, ma mettere in evidenza che ci sentiamo italiani. Ricordatevi che stiamo compiendo un gesto doveroso per ogni cittadino che si rispetti. Come sempre papà trovava le parole giuste per dire e non dire, e anche questa volta aveva fatto centro. Volevo capire e mi ritrovavo più confusa di prima. – Ma che puzza di naftalina! – brontolò la nonna, mentre cercava di trattenere una molletta nera che le scendeva sul collo. – Ai miei tempi si era più liberi! – Non immaginavo di arrivare alla mia età ed essere obbligata ad eseguire ordini! Speriamo almeno di fare bella figura con i vicini. Chissà perché, quando interveniva la nonna io capivo tutto. Lei sì che parlava in modo chiaro. Sapevo che d’ora in avanti sarebbe stata mia complice anche in momenti difficili. 37
Capitolo 6
*** Milano quel giorno sventolava tricolori a più non posso. Il sole del mattino faceva brillare le stoffe, che ondeggiavano numerose e composte, quasi a segnare il percorso di un’importante gara. Mentre camminavo per andare a scuola mi guardavo attorno e pensavo alle parole di papà che si mescolavano con quelle della nonna. Mi rendevo conto che tutta la città offriva un segno di ubbidienza ad un governo che stava cambiando la vita di tutti. Luisella mi aspettava sulla soglia della scuola. Si mordicchiava le pellicine attorno alle unghie, forse per ingannare il tempo o forse per cogliere una delle tante occasioni che davano spazio al suo vizio. Io non ero certo quella che si distraeva inutilmente nei corridoi, ma la mia amica non mi diede neanche modo di posare la cartella sul banco. Mi afferrò per un braccio, guardandomi con aria allarmata. Doveva proprio essere successo qualcosa d’importante, oltre ai tricolori che sventolavano! – Carolina, ti devo parlare. Ho saputo che Giulia Poletti non verrà a scuola per qualche giorno. Ho incontrato sua madre durante il tragitto. Era alquanto inquieta, mi ha detto che la figlia è stufa di essere presa in giro in classe e per un po’ rimarrà a casa. Pensa di chiedere un colloquio con i professori. Dobbiamo aiutarla, Carolina, noi le siamo amiche. Avevo sempre pensato che prima o poi Giulia avrebbe reagito ai maltrattamenti di qualche smorfiosa, anche perché lei era troppo buona e incapace di difendersi. In effetti, durante l’ultima interrogazione, Francesca Pardi aveva riso apertamente quando Giulia aveva inserito Virgilio tra i poeti greci. Da quel momento molte di noi l’avevano bollata come la “somara della classe” e lei non era più riuscita a riscattarsi. 38
Tra bandiere e marionette
– Oggi parlo con la mamma, Luisella. Sono sicura che mi lascerà andare da lei – le dissi con convinzione. – Se vieni anche tu andremo a trovare la nostra compagna al più presto. Penso che solo regalandole un po’ di fiducia possiamo aiutarla a sentirsi meglio. Ha bisogno di qualcuno vicino. L’assenza di Giulia destò la più assoluta indifferenza tra le compagne: forse tutti pensavano ad una banale influenza, o forse era più comodo pensarla così. Giulia quel pomeriggio ci accolse con entusiasmo, sempre con la sua vocetta squillante, un po’ fastidiosa per le nostre orecchie. Entrammo nella sua camera: gli scaffali erano colmi di bambole originali, vestite come antiche dame. Il letto era sistemato di fronte. – Carolina, ti sei incantata? – chiese Luisella, divertita dalla mia espressione un po’ persa. – Incantata? No… è che non ho mai visto tante bambole in un colpo solo. Sembra di essere in un negozio – dissi con la testa in aria. Intanto pensavo alla mia camera, sempre ingombra di penne colorate e fogli pasticciati da mia sorella. Giulia mise a nostra disposizione tutto quello che aveva. Si rivolgeva a me e a Luisella con allegria, le brillavano gli occhi. Non si parlò di offese, di battute sgradevoli. Si nutriva del nostro affetto, dimostrando di essere sempre pronta ad accogliere ogni slancio nei suoi riguardi. Passammo tutte e tre un pomeriggio indimenticabile, divertendoci ad inventare una scuola senza voti, senza pagelle, ma soprattutto senza conflitti. ***
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Capitolo 6
Dopo qualche giorno, la professoressa Mantelli entrò in classe con un’espressione diversa dal solito. Si era seduta come sempre dietro la cattedra come un sovrano sul trono, ma con il braccio aveva messo da parte i libri e il registro. Gesti che in genere concludevano le sue lezioni. C’invitò a tenere i quaderni chiusi. Fiumi di parole uscirono dalla sua bocca: bisognava coltivare lo spirito di classe, era importante dimostrare agli altri il nostro affetto, era fondamentale prima di tutto imparare ad accettare le persone per quello che sono… e tante altre frasi di questo tipo. Poi arrivò al dunque e parlò dell’assenza della Poletti. La prof non aveva mai avuto problemi di disciplina, ma quella mattina stentò a contenere la nostra esuberanza. Sembravamo mosconi sul miele. Tutti volevano intervenire, senza il minimo rispetto per le più elementari regole d’educazione. La Mantelli aveva un’aria preoccupata, come se avesse dubbi sull’efficacia di quell’intervento, alquanto diverso dal consueto. In realtà la sua lezione era riuscita a farci parlare liberamente come non era mai successo. Tutte avevamo raccontato i nostri segreti, confrontandoci l’una con l’altra. Passarono i giorni e noi ragazze non ci facevamo scappare occasione per parlottare dei nostri rapporti all’interno della classe, creando anche qualche tensione non così facile da superare. Il nostro punto di riferimento rimaneva sempre la Mantelli, che si sforzava più degli altri prof di capirci. Una mattina, a lezione già iniziata, si aprì la porta ed entrò Giulia con un foglio di riammissione in mano. Aveva un’aria allegra, come se avesse superato le sue difficoltà, o forse il semplice star lontana dalla scuola aveva curato le sue ferite. – Giulia, che bello rivederti a scuola – esordirono alcune ragazze con il sorriso stampato sulla bocca. 40
Tra bandiere e marionette
Tutte le mie compagne si erano alzate dai banchi per accoglierla con entusiasmo, senza che nessuno ci richiamasse all’ordine. Giulia sorrideva contenta e continuava a mostrare la sua ingenuità, accontentandosi solo di qualche gentilezza in più. Una cosa era certa: apprezzava i gesti di qualcuno, in particolare i miei e quelli di Luisella. Tutto questo servì a cementare l’amicizia tra me e la Bianchi; ci si capiva con uno sguardo e tutte erano gelose.
Novembre 1923 – Dai, Carolina, fammi copiare la versione di latino, tu sei un fenomeno! In cambio ti presto il mio quaderno di matematica, fanne pure quello che vuoi. Luisella m’implorava a mani giunte, in una delle innumerevoli volte in cui c’incontravamo a casa sua. Come si poteva rifiutare una cosa del genere? Il latino mi sfiniva, ma era il mio vanto. Con orgoglio le diedi una mano. Una scampanellata decisa interruppe i nostri traffici scolastici. Come d’incanto vidi davanti a me il mio amico rossiccio che, con tono scanzonato, c’invitava a casa sua. Era spettinato, i capelli gli accarezzavano il collo, addolcendogli l’espressione. – Ma Edoardo, non possiamo venire! In cucina c’è un budino appena fatto che ci aspetta – intervenne Luisella con un’espressione infastidita. – E cosa faccio io da solo? – brontolò Edoardo. Aveva uno sguardo malinconico, di chi nasconde pensieri complicati. Mi piaceva da pazzi. Luisella sbuffava, per lei il cugino era un impiccio, per me un tumulto interiore. – Dai, Luisella – intervenni io. – Andiamo a fargli compagnia. 41
Capitolo 6
Poi mi rivolsi a Edoardo, con aria disinvolta. – Ma tu, cosa ci proponi in cambio? In realtà mi sudavano le mani. Edoardo arrossì. Ero riuscita a creare imbarazzo e non sapevo più cosa dire e come comportarmi. Mi chinai per prendere tempo, facendo finta di allacciarmi la scarpa che peraltro era perfettamente a posto. – Il teatro più magico che abbiate mai sognato in vita vostra! – rispose entusiasta. Invogliate, lo seguimmo a casa sua. Edoardo aprì, come se fosse stato un prestigiatore, la grande scatola di legno, mostrando una magia tutta da comporre. Quando infilai la mano nel burattino di Andromaca e lui in quello di Ettore il mio cuore cominciò a “fare capriole”, non riuscivo più a controllarlo. Edoardo muoveva con sicurezza il cimiero e pronunciava frasi solenni, per far capire alla sua adorata moglie quanta sofferenza nascondeva la decisione di scendere in duello con Achille ed abbandonare per sempre la sua famiglia. A Luisella sarebbe toccata la parte dell’ancella consolatrice, ma in realtà continuava a sbadigliare e non consolava nessuno. Terminato il gioco, Edoardo ci confidò che non sopportava più suo padre perché lo rimproverava in continuazione, come se non fosse capace di fare nulla. – Dice che sono troppo debole con i miei compagni, che mi faccio sottomettere, che non so reagire! – ci raccontò con un tono di voce cupo. – Sapete, lui è un uomo forte. Forse devo prenderlo ad esempio, ma io non posso pensare di crescere come lui. – Ma lui com’è cresciuto? – gli domandai. – Em… Sai, mio padre è diventato uno squadrista. Avevo già sentito quella parola. Avrei voluto chiedergli altri particolari, ma non mi sembrava il momento. La nostra conversazione improvvisamente s’interruppe. 42
Tra bandiere e marionette
– Ciao, caro, oh... scusa. Forse ti disturbo, sei in compagnia. Loredana era davanti a noi. Era entrata con le sue chiavi per vedere se il ragazzo avesse avuto bisogno di qualcosa. Non sembrava una cattiva donna. Si rivolgeva a Edoardo con dolcezza e lui sembrava tollerarla, anche se forse la donna non aveva scelto il momento migliore per fare visita. Loredana aveva conosciuto il Signor Moro in una sezione del partito e da quel momento avevano iniziato a frequentarsi. Luisella non sbadigliava più, osservava la scena spostando ritmicamente la testa prima a destra, poi a sinistra, come se stesse seguendo una partita di ping–pong, contenta però di essere in panchina. Il disturbo lo togliemmo noi. In ascensore, mentre salivamo nel suo appartamento, Luisella mi sussurrò in un orecchio: – È una strana situazione, non vorrei essere al suo posto: sai, certe volte il padre lo picchia. Per lui sono gesti normali. – Come dici? Perché lo picchia? – Quello è un papà diverso dai nostri… Ciao, adesso devo andare! Tornando a casa mantenni la testa china, come quando si è assorti nei propri pensieri. Il teatrino mi aveva fatto scivolare in un dramma vero, sentivo di volere più bene di prima a quel ragazzo, e un bene così non si poteva confidare a nessuno. Di una cosa ero certa: Edoardo aveva bisogno di me.
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Capitolo
7 Per le strade di Milano
Dicembre 1923
L
a mamma quell’anno aveva addobbato la casa con più cura del solito: rami di pungitopo decoravano il centrotavola, ghirlande di nastri appesi sostenevano pigne dorate e campanelle di cristallo. Il re degli ornamenti, come sempre, era il presepe, con muschio, ghiaietta bianca, statuine in cartongesso che si allineavano sulla ribaltina del mobile antico dell’entrata. Papà ne era geloso, proteggere il presepe era un po’ come conservare integra una parte della sua infanzia. Da un mese la nonna lavorava a punto croce per ricamare un fiocco rosso da appendere sulla porta di casa e Lucia, inginocchiata vicino a lei, non perdeva un gesto. Le puntava gli occhi con insistenza, sicura di poterla un giorno imitare. – Carolina! – mi chiamò papà un sabato pomeriggio. – Cosa ne diresti se io e te ce ne andassimo fuori? Dicendo così strizzava l’occhio per non farsi accorgere da mia sorella. Adoravo la complicità di mio padre, anche se dovemmo fare i conti con le insistenze di Lucia, che era già nell’ingresso, pronta per uscire con noi. Lei aspettava Gesù Bambino e non dovevano comparire segni che smentissero la favola più bella del mondo. In un attimo fummo in Via Manzoni, in cerca di un regalo speciale. In quei momenti papà diventava ciarliero, libero com’era da tutti gli obblighi domestici. – Carolina, la mamma è sempre più ambiziosa. Mi aiuti 44
Per le strade di Milano
nella scelta di un regalo per lei? Stiamo attenti però ai negozianti, puntano solo a farti spendere. Non perdevo di vista neanche una vetrina, tutto mi appariva scintillante, ogni oggetto era sistemato in modo ricercato. Continuavamo a passeggiare in una Milano elegante. Intanto stringevo la mano di papà: era morbida ed accogliente come un nido di uccellini. – Ancora pochi passi e siamo arrivati. Ho letto sul giornale di un nuovo gioielliere. Cosa ne dici se lo andiamo a conoscere? – mi disse. Appoggiai la testa sul suo braccio e gli sorrisi. Entrati nel negozio, la commessa ci servì facendo scivolare con destrezza un orecchino dietro l’altro su una striscia di velluto rosso. Erano tanto preziosi e scintillanti che li avrei comprati tutti per sfoggiarli magari davanti alle mie compagne. No, continuavo a ripetermi, ero qui per la mamma, le mie orecchie avrebbero dovuto rimanere sotto i capelli. Papà mi guardava, io indicavo con il dito quelli che mi sembravano più adatti. Infine l’occhio cadde su un modello diverso dagli altri, un orecchino con un pendente d’oro bianco. – Scelta raffinata! – ci lusingò la commessa. Probabilmente diceva a tutti così, faceva parte del suo lavoro adulare il cliente. La signora confezionò con cura il pacchettino, utilizzando una carta speciale e un nastro dorato. Papà pagò con gioia e uscimmo soddisfatti, cercando d’immaginare che faccia avrebbe fatto la mamma il giorno di Natale. – Papà, mi prometti che d’ora in poi faremo gli acquisti sempre insieme? – Certo, piccola, io e te siamo una coppia vincente! A quel punto non poteva mancare un dolcetto, e magari anche un cappuccino: ne ero così golosa! Papà senza esitazione entrò da Cova, vicino a Piazza della Scala. 45
Capitolo 7
Tutta quella gente in un momento diverso l’avrebbe innervosito, ma quel giorno sembrava proprio che le cose andassero diversamente. La merenda ce la servirono ad un tavolino. Da tempo sognavo una giornata così. – Ciao. Edoardo era in piedi davanti a noi, vicino al banco. Aveva un’aria un po’ smarrita, sembrava più piccolo del solito. Al suo fianco il padre ostentava la divisa nera. Non c’erano alternative: via libera alle presentazioni. La compagnia di Edoardo mi aveva sempre procurato piacere, ma quel giorno no. Di fronte a quell’uomo, papà mostrò un’espressione alquanto disgustata, i suoi occhi puntarono la testa del mio amico. A quel punto mi sarei aspettata uno sforzo da parte di mio padre per rendere l’atmosfera meno tesa. Niente da fare: l’imbarazzo fu tale che avrei preferito sparire. Papà diventò di cera, mi prese per un braccio con fermezza, pagò la consumazione non finita, per poi trascinarmi gentilmente verso l’uscita della pasticceria. – Tu quel ragazzo non lo devi vedere mai più. Pronunciò la frase scandendo ogni lettera. Non ci furono più parole. Tornammo immediatamente a casa e tutti i nostri sorrisi si persero tra le strade del centro. *** Ma che bella sorpresa, non vi aspettavo così presto! – urlò la mamma sulla porta, mentre si asciugava le mani nel grembiule a pois bianco e nero che la copriva fino alle caviglie. In casa nostra, ogni sabato, si pensava alla cena con più cura e fantasia del solito. La cosa aveva sempre allettato il palato di tutti noi e così l’abitudine si era mantenuta nel tempo. 46
Per le strade di Milano
La nonna aveva sistemato la macchinetta della pasta in un angolo del tavolo. Lucia girava la manovella, mentre lunghissime tagliatelle si distendevano su un letto di farina. La famiglia era al completo. Avremmo fatto invidia a tutti, se non fosse stato per il cattivo umore che pesava nell’aria. Mi sentivo in colpa, come se tutto fosse dipeso solo da me. Non avevo voglia di parlare, non riuscivo neanche ad abbozzare un mezzo sorriso. – Carolina, ti senti poco bene? La mamma aspettava un segno, una frase che spiegasse il mio atteggiamento. Ci guardava appoggiata alla colonna di marmo dell’entrata, sperando di ascoltare racconti allegri; intanto scrutava il mio viso che non prometteva niente di bello. Povera mamma, aveva lo sguardo confuso. Meno male che mia sorella ebbe il buon gusto d’interrompere la situazione. Stava urlando a perdifiato, perché la nonna si era allontanata un attimo dalla cucina e un mucchio di pasta era volato sul marmo del pavimento. La solita pasticciona era entrata in azione, ma in quel frangente mi fu d’aiuto. Papà si chiuse nel suo studio. Dalla porta a vetri s’intravedeva una nuvola di fumo e un cono d’ombra sulla scrivania. Io mi chiusi nella mia camera. La mamma fece capolino nella stanza, profumava di sugo al prezzemolo. Seduta sul letto, con una mano sul mio collo, mi chiese: – Cosa è successo? Hai litigato con il papà? Non riuscivo a rispondere. Mi esprimevo solo con un pianto disperato. – Una volta che esci con tuo padre, dovresti esserne contenta… o no? Possibile che in questa casa ci siano sempre problemi… 47
Capitolo 7
Ascoltai i suoi passi allontanarsi dalla stanza, il fruscio della porta a vetri e un parlottio ininterrotto che proveniva dallo studio. Sdraiata sul letto, intravidi un vecchio disegnino sul muro, dietro il cuscino. Il tratto di matita era incerto e l’immagine un po’ sbiadita. Riconobbi una casetta, di quelle che si vedono nei paesi nordici. A fianco c’era un piccolo canile vuoto. Avevo sempre sperato di ritrovarmi tra le braccia un cucciolo e ricordavo benissimo quando, a letto con la febbre, l’avevo sognato disegnando una sua tana. Ebbi l’impressione di assopirmi, cullata dal sottofondo dei soliti rumori domestici. – Carolina, vieni a tavola, è ora! – chiamò la mamma con insistenza, non mostrando alcuna alterazione nella voce, quasi come se non fosse successo niente. Mi alzai per chiudere a chiave la camera, malgrado mi fosse stato sempre proibito. Mia sorella cominciava a protestare con pugni insistenti contro la porta. Non era certo nel suo carattere tollerare di essere chiusa fuori dalla stanza, che in fondo era anche sua. Aprii la porta: era lì, completamente sdraiata e mi guardava in silenzio, come se fossi stata un fantasma. Mi sedetti in terra vicino a lei. “Ma che diritto aveva mio padre di decidere per me?” pensai. “Adesso vado a tavola e gliela faccio vedere io!” Ci riunimmo tutti attorno al tavolo, con un tovagliolo annodato sulla nuca. La mamma faceva l’indifferente, ma palpavo la sua ansia. Lei e papà si erano sicuramente parlati, ma sui loro visi non vedevo quelle espressioni che si hanno dopo una discussione chiarificatrice. La mamma riempì i piatti con indifferenza, con gesti automatici. Il ticchettio delle posate parlava al nostro posto, a me sembrava di essere in un refettorio di frati. 48
Per le strade di Milano
A papà si era indurito il viso, come se fosse stato ingessato. Ogni tanto muoveva qualche muscolo della faccia, ma sempre in modo contratto. Tutte le mie proteste rimasero chiuse in camera. Non riuscii a pronunciare una parola, ma la rabbia mi chiuse lo stomaco. Non toccai cibo. Continuavo a giocherellare con il tovagliolo, stropicciandolo sempre di più. Gli occhi di tutti erano concentrati sul mio piatto colmo, nessuno era abituato a simili comportamenti. Decisi di alzarmi da tavola e mi rifugiai nuovamente in camera mia, sotto le lenzuola. – Psst, psst, guarda cosa ti ho portato – mi sussurrò in un orecchio Lucia. – Due biscottini e un cioccolatino, di quelli buoni, con il ripieno di crema! Tieni, non mi ha visto nessuno, non piangere, ci sono io. La mia sorellina camminava a piedi scalzi per non far rumore, intanto teneva il dito sulle labbra. Un leggero sibilo ridicolo le usciva dalla bocca, come se avesse ingoiato un fischietto. Non mi feci pregare ed assaporai i dolcetti, anche se la presenza di Lucia fece riaffiorare tutta la malinconia che tentavo di nascondere sotto il cuscino. Fortunatamente crollai presto in un sonno profondo, sognando laghi colmi di acqua nera.
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Roberta Fasanotti
Il fascismo dalla mia finestra Un racconto al tempo del Fascismo
Roberta Fasanotti È nata e vive a Milano. Insegnante di lettere, è amante di narrativa, in particolare per adolescenti, e nutre una profonda passione per la storia del ’900. “Il fascismo dalla mia finestra” è il suo primo racconto pubblicato con la Casa Editrice Raffaello.
Carolina vive in una famiglia borghese e condivide con le sue compagne di scuola tutte le difficoltà che ogni adolescente incontra in questi anni delicati. Durante una festa conosce Edoardo e tra loro nasce una forte simpatia, ma il ragazzo è figlio di uno squadrista e il suo destino è già segnato. L’eco di avvenimenti drammatici per l’Italia, quali il delitto Matteotti, sconvolge la famiglia di Carolina. Il padre, assai critico verso l’attuale momento storico, impedisce alla figlia di frequentare Edoardo. Un amore sfiorato che porterà la protagonista, dopo tanti anni, a compiere un nobile gesto di solidarietà umana.
Il fascismo dalla mia finestra
Milano, anni 1922-24
STORIA E STORIE
La storia raccontata da grandi storie per ragazzi
Roberta Fasanotti
STORIA E STORIE
Un racconto al tempo del Fascismo
Completano la lettura: Approfondimenti finali F ascicolo di comprensione del testo
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