Io, bambino soldato

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La vita raccontata agli adulti di domani


Editor: Patrizia Ceccarelli Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini Progetto grafico: Valentina Mazzarini Copertina: Mauro Aquilanti Ufficio stampa: Francesca Vici I Edizione 2018 Ristampa 5 4 3 2 1 0 2023 2022 2021 2020 2019 2018 Tutti i diritti sono riservati © 2018 Raffaello Libri S.p.A. Via dell’Industria, 21 - 60037 - Monte San Vito (AN) info@grupporaffaello.it www.grupporaffaello.it info@raffaelloragazzi.it www.raffaelloragazzi.it Printed in Italy È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright.

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Maurizio Giannini

IOI BAMBINO SOLDATO



capitolo uno

LE CAPRE Avete mai guardato una capra negli occhi? Forse no, almeno come facevo io quando avevo quasi undici anni e vivevo con la mia famiglia a Shahbas, un piccolo villaggio sperduto in mezzo a una campagna arida e a montagne pietrose. Del resto io, Azhar, così mi chiamo, trascorrevo molto tempo con il gregge, specie d’estate quando la scuola era chiusa e mio padre mi mandava a pascolare le capre fin dal primo mattino. Le capre hanno occhi strani, grandi e tondi come bottoni, davvero curiosi e incantatori, tanto che a volte non riuscivo a spostare lo sguardo da un’altra parte. Sono proprio buffe, perlomeno quelle che conducevo al pascolo, se così si può chiamare quella zona intorno al mio paese spoglia e sassosa in cui perfino le capre facevano fatica a trovare qualcosa da strappare coi denti. Le disegnavo su fogli di carta che mi regalava Faisal, il mio maestro di scuola, l’unico che apprezzava i miei disegni.

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Il maestro era buono e simpatico e io gli volevo bene. Pure gran parte dei miei compagni gli erano affezionati e ascoltavano volentieri le sue lezioni che teneva nella scuola costruita in fondo al villaggio dove passava la strada che portava a Bishan. Si trattava di un paese abbastanza grande, nel quale c’erano una piccola moschea, vari negozi, un paio di stazioni di benzina e anche un cinema. Ma dal mio villaggio, per arrivare a Bishan ci volevano almeno due ore di viaggio se si andava in macchina. La scuola era una costruzione vecchia e cadente con i muri di pietre tirate a secco e per il resto fatta di lamiere e tavole di legno, compreso il tetto che però era ricoperto di paglia e canne, tranne dove spuntava il comignolo che dava sfogo a un caminetto di mattoni. Ma la canna fumaria funzionava male e spesso si otturava, sicché quando d’inverno si accendeva il camino, il più delle volte il fumo ci costringeva a lasciare l’aula per uscire fuori. Anche d’inverno portavo le capre di mio padre al pascolo, ma solo di pomeriggio. Mi piaceva condurle per quei campi brulli insieme ad Alì e a Zaafira, i nostri cani da pastore, e osservare i loro movimenti scattanti mentre saltavano da un masso all’altro prendendosi a testate per gioco, o quando si arrampicavano nei punti più ripidi per staccare bacche tra gli spini dei rovi, o per mangiare le foglie di una borragine o del sicomoro, unico grande albero cresciuto là intorno su un’altura. Era alloggio di molti uccelli e io mi sedevo là sotto per proteggermi dal sole o dalla pioggia.

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Svolti i pochi compiti che il maestro ci assegnava per casa, tiravo fuori dalla sacca il foglio di carta e la matita e mi mettevo a disegnare. Talvolta mi avvicinavo a una capra e la ritraevo da vicino. Così, un giorno scoprii che le capre hanno occhi insoliti, come nessun altro animale. Ogni tanto Faisal attaccava i miei disegni con le puntine su una parete dell’aula e questo mi inorgogliva perché quasi mai lui affiggeva fogli sui muri della classe per lasciar posto alle cartine geografiche o scientifiche. Avevamo ventotto capre e un caprone, che mio padre teneva incatenato e soltanto lui faceva uscire dalla stalla perché – diceva – era un animale pericoloso. Bilal l’avevamo chiamato, il montone: grosso, muscoloso, gli occhi rossi come il fuoco con cui ti fissava minaccioso, tutto ricoperto di pelo grigio e marrone, con due enormi corna contorte che avrebbero sfondato di sicuro un muro se lo avesse preso a testate. Era azzardato portare fuori Bilal, ripeteva sempre mio padre quando mi affidava le capre. Il mio villaggio non contava più di una cinquantina di case abitate da pastori, da contadini e da qualche artigiano o venditore ambulante. Quasi tutte erano molto simili alla scuola, a un piano, fatte di pietre, argilla e paglia, con poche finestre sgangherate e un giardinetto dove, specie di sera, i vecchi se ne stavano seduti a fumare la pipa e i bambini giocavano schiamazzando come le galline e le oche lasciate libere davanti alle case. Soltanto una mezza dozzina erano a due piani; tutte di mattoni, col tetto in coppi, ricordavano le case che avevo

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visto a Bishan quando c’ero andato con mio padre e mio fratello Maazin, che allora aveva diciassette anni. Mia sorella Aisha, invece, era la più piccola della famiglia e tra lei e me c’erano circa due anni di differenza. Aisha anche quando era più piccina, non si comportava quasi mai come le sue coetanee. Era sempre stata una bambina assennata e riflessiva; di rado l’avevo vista giocare con una bambola di pezza o un altro giocattolo. Faceva ancora fatica a reggersi in piedi che già aiutava nostra madre nelle faccende di casa. Se non fosse stato per il maestro Faisal, mio padre non l’avrebbe nemmeno mandata a scuola perché era convinto, come del resto tanti altri genitori del villaggio, che le femmine non dovessero studiare, ma rimanere a casa a imparare a cucinare, a cucire e a ricamare, e poi a fare le mogli e infine le madri. – Le donne sono inferiori agli uomini e istruirle è una perdita di tempo. Lo dice anche il Corano! – aveva più volte dichiarato mio padre sotto il naso del maestro. Ma Faisal non era un tipo che s’arrendeva facilmente, e alla fine era riuscito a convincere mio padre a mandare a scuola anche Aisha perché, diceva lui, le femmine non sono affatto meno intelligenti dei maschi e pure alle bambine saper leggere e scrivere un giorno sarà utile come ai ragazzi. Gli stessi discorsi che il maestro aveva fatto a molti altri padri. Non tutti però gli avevano dato ascolto. Qualcuno s’era perfino arrabbiato con lui, minacciando di picchiarlo se si fosse di nuovo presentato a casa sua.

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Faisal era uno strano maestro, almeno così affermava la gente del villaggio, quando lo paragonava al vecchio Saabir, il maestro che aveva tenuto tutto da solo la nostra scuola per molti anni prima di diventare troppo anziano per continuare a insegnare. In molti sostenevano che Saabir era un gran bravo insegnante, un uomo tutto d’un pezzo, assai intransigente coi suoi alunni che non osavano fiatare quando lui spiegava la sua lezione. Ovviamente erano tutti maschi, dato che Saabir era il primo a dichiarare che le femmine non dovevano studiare. Secondo mio padre, il vecchio maestro era uno che onorava davvero il Corano, che a scuola aveva sempre tenuto nel punto più alto e guai all’alunno che non si fosse inchinato con devozione nel passarci davanti. Non come Faisal, che a malapena aveva una copia del Libro Sacro ma che neppure pareva ricordarlo, dato che raramente obbligava i suoi alunni a inginocchiarsi e pregare. In effetti, era vero. Quando entrava nell’aula, Faisal incominciava subito a parlarci di tante cose senza mai imporci la preghiera. Ci raccontava le sue esperienze, i viaggi in luoghi lontani dei quali prima io non sapevo nemmeno l’esistenza, ci descriveva grandi fiumi, montagne altissime e mari sconfinati che spesso indicava sulle carte geografiche appese alle pareti, poi scriveva sulla vecchia e traballante lavagna quei nomi che noi dovevamo ricopiare sul nostro quaderno. Ci insegnava anche a leggere e a contare, naturalmente. Ma buona parte delle ore in cui io e i miei compagni (quelli

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più grandi, perché i più piccoli entravano dopo) restavamo seduti dietro i banchetti, il maestro Faisal parlava d’altro. Non di geografia, né di storia o di aritmetica, bensì del nostro villaggio e di come tutti noi, vecchi, giovani, donne, uomini, ragazzi e bambini, dovevamo avere rispetto l’uno dell’altro, sentendoci uniti come fratelli. – Che differenza c’è tra un vero fratello e il ragazzo che ti siede accanto? – domandò una volta a un’alunna indicando il suo compagno di banco. Quella restò zitta non sapendo cosa rispondere. Ma alcuni di noi sapevano la risposta. – Nessuna! – dicemmo subito in coro. – Perché la verità è che siamo tutti fratelli! Anche gli adulti, aggiunse poi, avrebbero dovuto ricordarlo sempre: basta odio, rancori, antipatie. – Tutti gli uomini sono uguali, e anche le donne, uniti tra loro da un filo invisibile. Così vuole Allah, così vuole Maometto che è il suo Profeta – concludeva il maestro. Tutto questo in fondo non gli aveva inimicato troppo gran parte del villaggio come invece accadde quando incominciò a parlarci di religione. Le sue parole erano uscite fuori dalle quattro pareti della scuola e lo avevano messo in cattiva luce agli occhi di tanta gente. Faisal sosteneva che, anche se nel nostro villaggio eravamo tutti musulmani e seguivamo ogni regola dettata dal Corano e osservavamo il Mawlid, l’Id al-adha e tutte le altre feste dell’Islam, bisognava lo stesso accettare di buon grado che altre persone fossero di una diversa religione.

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Insomma Faisal cercava di inculcare in ciascuno di noi la tolleranza e il rispetto per gli altri. Ma questo gli aveva procurato molte critiche e perfino il disprezzo di chi lo riteneva un nemico della nostra religione. Faisal però non ci badava e continuava a parlarci di queste cose, oltre che dei luoghi che aveva visto girando il mondo prima di trasferirsi nel nostro piccolo villaggio, e a insegnarci la storia, l’aritmetica e come scrivere senza errori. Ricordo che una mattina d’inverno, mentre la strada di terra battuta che correva su un lato della scuola era spazzata da un vento furioso, il maestro interruppe la sua lezione per avvicinarsi alla finestra dell’aula indicando fuori. – Venite, bambini, venite a guardare – ci invitò. Ovviamente, nessuno restò seduto. In un attimo fummo tutti davanti alla finestra. – Vedete quei cespugli che il vento ha strappato e che sta portando lontano? E tutti quegli uccelli lassù che volano? – continuò. – Sì, signor maestro! – fu il coro di noi tutti. Lui allora mi chiamò. – Azhar, vieni qui accanto a me – disse senza nessun tono perentorio, anzi con voce calma e amabile. Io andai, e Faisal mi accarezzò la testa, scompigliandomi i capelli ricciuti. – Dove pensi che il vento porterà quei cespugli? E gli uccelli, dove pensi che andranno? – mi chiese. Tornai lesto alla finestra appiccicando il naso al vetro.

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Nella furia del vento, molti cespugli a forma di sfera correvano lontano come un branco di capre impazzite. Stormi di uccelli migratori attraversavano il grigiore del cielo quasi avessero fretta di lasciare quelle terre. – Non lo so – sussurrai appena, vergognandomi di non conoscere una risposta. Faisal mi venne vicino e mi toccò ancora delicatamente il capo, mentre diceva: – Certo che non lo sai. Nessuno lo sa, come nessuno può dire dove nasce il vento o la pioggia o la neve… Ma la stessa domanda, pensate bambini, in questo preciso momento forse se la sta ponendo anche chi vive in un altro paese molto lontano da qui e che magari crede in un altro Dio e lo onora e prega proprio come fate voi, come fanno i vostri parenti e come faccio io… Tacque. Poi aggiunse guardandoci uno a uno: – E sapete perché? Perché siamo tutti uguali, tutti fratelli.

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capitolo due

UN ’ARIDA ESTATE Quella sera di inizio estate, mia madre aveva preparato una cena speciale per festeggiare la fine del Ramadan, durante il quale nessuno della mia famiglia, tranne Aisha che era troppo piccola, per trenta giorni aveva mangiato né bevuto, dal sorgere del sole fino a quando l’astro scompariva al di là dei monti per lasciare posto alla notte. Anche i nostri vicini di casa, e credo tutti gli altri abitanti del villaggio, solennizzavano con un pranzo diverso dal solito lo Id al-fitr, cioè la piccola festa a conclusione del Ramadan. Era del resto un mese intero che ci privavamo di cibo e acqua dall’alba fino a sera, e specie per i ragazzi era un bel sacrificio al quale comunque nessuno poteva sottrarsi eccetto i malati, i troppo vecchi e i bambini, come disponeva la mia religione in ricordo della prima rivelazione del Corano fatta al Profeta Maometto come guida per gli uomini. Sul tavolo rotondo al centro della stanza fumavano ancora nella padella di ferro le falafel che riempivano l’aria del loro profumo pungente di ceci e aglio.

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Mia sorella aveva servito a noi maschi il pane pita, con la sua aria di donna di casa, benché non avesse neppure nove anni; e mia madre si era presentata con una grossa scodella piena di hummus che aveva posto in mezzo al tavolo intorno a cui io, Maazin e mio padre già sedevamo su piccoli sgabelli. Mio padre aveva lodato molto ogni pietanza, come Maazin, il quale era appena tornato stanco morto dal villaggio dove da qualche mese lavorava come apprendista alle dipendenze di un fabbro. Eravamo sereni. La fine del digiuno voluto da Allah ci riempiva di allegria, inoltre mio padre ci aveva detto che alcune delle sue capre presto avrebbero figliato e che la piccola stalla era piena di formaggi e ricotte che domani stesso avrebbe portato al mercato per venderli ricavando una bella cifra. Anche mia madre era allegra, e nel vedermi mangiare con voracità le sue polpette non mi aveva affatto sgridato, come sarebbe probabilmente accaduto altre volte. Aveva perfino sorriso, soddisfatta. – Azhar, domani mattina – disse a un certo punto mio padre guardandomi, – porterai tu le capre al pascolo, io come sai, andrò al mercato a vendere i formaggi. Risposi di sì con la testa, avendo la bocca ancora piena, ma dai miei occhi tutti capirono che ero molto contento. Era da poco terminata la scuola. Il nostro maestro per l’ultima volta ci aveva parlato di città e fiumi lontani, raccomandandoci anche di non dimenticare di esercitarci con i

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numeri e con la scrittura. A ciascuno di noi aveva consegnato un libro facendosi promettere di non lasciarlo per quei mesi estivi chiuso in un cassetto o gettato chissà dove, ma di leggerlo tutto. Quindi ci aveva spiegato ancora una volta quanto fosse importante per l’umanità intera la tolleranza e che ogni uomo rispettasse i propri simili anche se di diversa religione. E noi ragazzi, maschi e femmine, che sedevamo per l’ultimo giorno dietro i piccoli banchi, l’avevamo ripetuto in coro come fosse un versetto del Corano. Infine Faisal, con gli occhi lucidi di commozione, ci aveva chiamati uno alla volta per salutarci, stringendoci la mano come si fa con gli adulti. Ma poi non aveva resistito e ci aveva anche abbracciati con trasporto. Ero uscito dalla scuola quasi in silenzio, sebbene fossi felice che anche quell’anno fosse arrivata l’estate. Ma ero dispiaciuto di sapere che per qualche mese non avrei più ascoltato la voce pacata e calda di Faisal, che ci parlava di viaggi, di luoghi lontani e di amore per i nostri simili. – Arrivederci, ragazzi – ci aveva salutato infine il maestro, dopo aver chiuso la porta della scuola consegnando la grossa chiave al vecchio Mohamed, l’unico bidello oltreché barbiere e spazzino del villaggio. Mohamed l’aveva fatta sparire in una tasca dello spolverino che portava sempre e se n’era andato borbottando chissà cosa, sotto lo sguardo triste del maestro, il quale di lì a poco s’era incamminato verso la piazzetta del villaggio dove partiva la corriera.

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S’era però fermato a metà strada per farci ancora un saluto con la mano; infine era davvero scomparso al di là delle ultime case. Che durante l’estate Faisal lasciasse il villaggio non era una novità. A Shahbas era ospite di una famiglia; non era sposato e i suoi parenti vivevano in una città molto lontana dal nostro villaggio. Alla fine della scuola partiva per raggiungerli e trascorrere con loro i mesi estivi. Era accaduto anche l’anno precedente e quello prima ancora: quasi la stessa scena, lui che consegnava la chiave della scuola al bidello, lui che ci salutava con la mano aperta prima di salire sulla corriera. Tre mesi, e poi sarebbe tornato per riaprire la scuola e ricominciare a spiegarci tante cose… Eppure quel giorno, mentre lo osservavo camminare lentamente verso la piazzetta, ebbi come uno strano presentimento. Nel mio cuore temetti chissà perché di non rivederlo più. Ma poi tutto passò quando sentii le voci dei miei compagni che mi invitavano ad andare con loro. – Azhar, vieni a giocare a pallone! Andai, tenendo ancora in mano il libro che Faisal mi aveva consegnato come lettura per l’estate. Era uno dei tanti racconti delle Mille e una notte. “Aladino e la lampada meravigliosa”. Non che fossi un gran lettore, ma quella storia mi appassionò subito, tanto che portavo con me il libro quando conducevo al pascolo le capre.

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L’estate già nelle prime ore del mattino arroventava le pietre e la terra dove il gregge pascolava sotto lo sguardo attento di Alì e di Zaafira. Una serpe era sgusciata da sotto un grosso sasso per perdersi chissà dove, e più di un uccello aveva preso il volo dai tanti rami del possente sicomoro all’ombra del quale mi gustavo le avventure del giovane Aladino: mi immaginavo di essere al suo posto mentre strofinava la lampada magica per esprimere un desiderio, e solo ogni tanto alzavo la testa per controllare che nessuna delle ventotto capre si fosse allontanata troppo. Ma c’erano i miei cani che badavano a loro e non me ne preoccupavo, anche se temevo gli aspri rimproveri di mio padre se ciò fosse successo. Una volta una capra s’era persa, col rischio d’essere divorata da un lupo. Fortuna che Zaafira era riuscita a rintracciarla in tempo mentre Alì aveva tenuto a bada due lupi che già s’erano avvicinati famelici. Mio padre quella sera mi aveva sgridato severamente e un paio di ceffoni erano volati sulle mie guance. Chiusi il libro piegando un angolo della pagina per ricordarmi dove ero arrivato, con la mente perduta nelle avventure di Aladino, e tirai fuori dal piccolo zaino un foglio di carta e una matita. Non li scordavo mai, come la pagnotta di pane, il pezzo di formaggio e la fiaschetta con l’acqua che dovevano bastarmi per tutta la giornata. Quel giorno avevo voglia di disegnare forse più del solito. Misi via il libro stando attento a non sciuparlo, e con il foglio

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e la matita mi avvicinai con passo leggero a una capra, che stava brucando quel poco d’erba cresciuta tra due pietre. Non s’era accorta della mia presenza e le sue mosse erano lente, tanto che potei immortalarla senza dover ricorrere alla fantasia. Guardai compiaciuto il disegno ormai finito che il sole illuminava tra le mie mani. – Che te ne pare, Alì? Somiglia a una capra vera? – chiesi al cane che era rimasto accucciato ai miei piedi per tutto il tempo in cui avevo disegnato. Forse Alì sbirciò davvero il disegno, o fu solo la mia immaginazione, fatto sta che il movimento della sua lunga coda mi sembrò un gesto di approvazione per il mio “capolavoro”. Tornai sull’altura dove stava il sicomoro, la cui ombra s’era spostata da una parte poiché il sole accennava al tramonto. Ma faceva ancora un gran caldo, e non tirava un alito di vento. L’aria era secca e soffocante. Perfino le capre cercavano rifugio in qualche punto all’ombra, e le lingue di Alì e di Zaafira pendevano come straccetti rosa tra i denti, mentre si erano saggiamente accucciati accanto al grande tronco biforcuto del sicomoro, dove io avevo appena affisso con il coltello l’ultimo disegno per rimirarlo meglio. Mi sentivo molto soddisfatto. Mi gettai a terra e così disteso misi le mani a mo’ di cuscino dietro la testa con i piedi verso l’albero, per osservare ancora il ritratto della capra.

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Restai per un po’ con lo sguardo fisso sul disegno appeso al tronco del sicomoro, ma il silenzio intorno a me era immenso e gli occhi della capra disegnata parevano guardarmi ipnotici tanto da incantarmi… Fu così che di lì a breve mi addormentai.

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