Senza famiglia

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enza amiglia

La storia del piccolo Remi raccontata da Sabrina Rondinelli

Raffaello i Classici

Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini

Adattamento: Sabrina Rondinelli

Approfondimenti e schede didattiche: Paola Valente

Coordinamento grafico: Mauro Aquilanti

Team grafico: Raffaella De Luca, Valentina Mazzarini

Illustrazioni: Elena Iarussi

Ia Edizione 2022

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Senza famiglia

la storia del piccolo remi

Hector Malot
Illustrazioni di Elena Iarussi
Adattato da Sabrina Rondinelli

Capitolo uno

Al villaggio

Io sono un trovatello.

Fino a otto anni ho creduto di avere una mamma, come tutti i bambini. Quando piangevo, lei mi stringeva tra le braccia così dolcemente che le mie lacrime si asciugavano. Ogni sera mi dava il bacio della buonanotte e, quando il vento di dicembre incollava i fiocchi di neve ai vetri imbiancati, prendeva i miei piedi fra le mani per riscaldarli, cantandomi una canzone di cui ricordo ancora qualche parola. Se scoppiava un temporale mentre portavo a pascolare la nostra mucca, lei mi correva incontro e mi riparava sotto la sua gonna di lana; se litigavo con qualche compagno, sapeva trovare parole buone per consolarmi.

Per tutte queste cose e altre ancora, per le sue carezze, per la dolcezza che metteva pure nelle sue sgridate, io credevo che fosse la mia vera mamma. Ma un triste giorno scoprii che era soltanto la mia balia.

Ecco come andò.

Sono cresciuto a Chavanon, uno dei paesi più poveri della Francia, in una casetta sulla riva di un ruscello. Mio padre lavorava a Parigi come scalpellino e non l’avevo mai visto.

Una sera di novembre, uno sconosciuto si fermò davanti al nostro cancello. Io ero sulla soglia di casa, intento a spezzare una fascina.

– Abita qui la moglie di Gerolamo Barberin? – mi chiese.

– Sì – risposi.

Al suono delle nostre voci, la mamma accorse.

– Porto notizie da Parigi – le disse lo sconosciuto.

– Suo marito è rimasto ferito; ora è ricoverato in ospedale, ma non è in pericolo di vita...

Ansiosa di saperne di più, la mamma lo pregò di restare a cena. L’uomo spiegò che Barberin era stato travolto dal crollo di alcune impalcature e che il suo datore di lavoro si rifiutava di pagargli l’indennità.

Il mattino seguente andammo al villaggio per consultarci con il parroco, il quale scrisse subito al cappellano dell’ospedale; pochi giorni dopo arrivò la risposta: “Il povero ferito aveva bisogno di denaro per intentare una causa contro l’imprenditore.”

Passarono i giorni, le settimane, e continuavano ad arrivare lettere con nuove richieste di denaro.

L’ultima diceva che, se i soldi erano finiti, bisognava vendere la mucca.

Solo chi ha vissuto in campagna può capire il dolore e la miseria racchiusi dentro queste tre parole: vendere la mucca. Grazie alla mucca, infatti, anche le famiglie più povere riescono a sopravvivere poiché non manca mai il burro nella minestra e il latte per cuocere le patate.

Vivevamo così bene della nostra mucca, mamma e io, che fino ad allora non avevo quasi mai mangiato carne. E non era soltanto la nostra fonte di nutrimento: era una compagna, una bestia piena di intelligenza e di dolcezza, che sembrava perfino capirci quando l’accarezzavamo e le parlavamo.

Tuttavia, fummo costretti a venderla. Niente più latte né burro. La mattina ci accontentavamo di un pezzo di pane secco, la sera di qualche patata con un po’ di sale.

Il Martedì Grasso di quell’anno, mamma mi preparò una sorpresa: aveva chiesto in prestito una tazza di latte a una nostra vicina e un pezzo di burro a un’altra. Rientrando a casa a mezzogiorno, la trovai intenta a preparare la pasta per le frittelle.

– Su, aiutami – mi disse. – Passami le uova e, mentre io le sbatto, sbuccia le mele.

Quando la pasta fu ben stemperata, la posò sulle ceneri calde. Ora non ci restava che aspettare che lievitasse. La giornata mi sembrò lunghissima e, più di una volta, sollevai il tovagliolo che copriva il tegame. Finalmente arrivò la sera.

– Metti la legna sul fuoco – ordinò la mamma.

Non me lo feci ripetere due volte: una gran fiamma avvampò nel camino, rischiarando la cucina. Mamma mise una padella sulla fiamma e versò la prima striscia di pasta nel burro sfrigolante.

In quel momento qualcuno bussò. La porta si aprì bruscamente.

Era entrato un uomo. Al chiarore della fiamma vidi che si appoggiava a un grosso bastone.

– Si fa festa qui, eh? – disse, in tono duro.

– Gerolamo? Sei tu! – esclamò mamma.

Poi, prendendomi per un braccio, mi spinse verso il nuovo arrivato.

– È tuo padre.

Mi avvicinai per abbracciarlo, ma lui mi respinse con la punta del bastone.

– Chi è questo bambino? – chiese.

– È Remi.

– Ma mi avevi detto che…

– Io… non ho avuto il coraggio di…

– Mi hai mentito!

Fece qualche passo verso di me tenendo il bastone alzato; io indietreggiai d’istinto. Perché mi trattava in quel modo? Di che cosa ero colpevole?

– Vedo che stavate festeggiando il Martedì Grasso –disse. – Che cosa c’è per cena?

– Stavo preparando le frittelle.

– E tu vorresti dare delle frittelle a un uomo che ha fatto un viaggio così lungo?

– Ma… non ti aspettavamo…

– Preparami una zuppa di cipolle, piuttosto!

La mamma non replicò, anzi, si affrettò a eseguire gli ordini.

Io non osavo muovermi e lo osservavo: era un uomo sulla cinquantina, dall’espressione dura. A causa dell’incidente, teneva la testa piegata sulla spalla e questa deformità contribuiva a rendere il suo aspetto ancora più inquietante.

Dopo cena mi mandò immediatamente a letto.

– E vedi di addormentarti subito, sennò mi arrabbio!

Come in molte case di campagna, la nostra cucina serviva pure da camera da letto. Mi sbrigai a coricarmi ma ero troppo preoccupato per riuscire a prendere sonno. Così ascoltai i loro discorsi.

– La causa è persa, i soldi anche… Io sono rimasto storpio. E, come se non bastasse, mi ritrovo in casa un ragazzino da mantenere. Perché non l’hai portato in orfanatrofio come ti avevo detto?

– Non ne ho avuto il coraggio, gli voglio bene come se fosse mio figlio.

– Ma non lo è! Quanti anni ha adesso?

– Otto.

– Bene, allora andrà in orfanatrofio a otto anni! E peggio per lui se non c’è andato prima!

E detto questo, uscì di casa sbattendo la porta.

– Mamma! – gridai, appena se ne fu andato.

Lei accorse al mio letto.

– Non abbandonarmi in orfanatrofio, ti prego!

Mi abbracciò teneramente, cercando di rassicurarmi.

– Mi dispiace se non ti ho detto la verità, ma l’ho fatto per proteggerti. Non sappiamo chi siano i tuoi veri genitori. Una mattina di otto anni fa, a Parigi, Gerolamo ti trovò ancora in fasce abbandonato davanti alla porta di un giardino: strillavi con quanto fiato avevi in gola, come se avessi capito che quell’uomo che ti teneva tra le braccia era la tua unica speranza di salvezza. Sopraggiunsero altri operai e decisero di portarti al commissariato di polizia…

La donna continuò:

– I vestiti che indossavi lasciavano intuire che i tuoi genitori fossero ricchi. Il commissario ipotizzò che forse eri stato rapito e chiese se qualcuno dei presenti volesse prendersi cura di te. Sicuramente i tuoi genitori ti avrebbero cercato e avrebbero ricompensato le persone generose che ti avevano accolto, per cui Gerolamo si fece avanti: io avevo un figlio della tua età e avrei potuto allattarti… Così diventai tua madre. Dopo tre mesi, perdetti il mio bambino e mi affezionai ancora di più a te. Nessuno ti ha mai cercato, perciò mio marito vuole mandarti in orfanatrofio. Ma Gerolamo non è cattivo, vedrai che riuscirò a convincerlo a farti rimanere con noi.

La compagnia del signor Vitali

Non appena aprii gli occhi, il mattino seguente, tastai il letto e mi guardai intorno, per essere sicuro che non mi avessero portato via.

Barberin non mi rivolgeva la parola e io cominciavo a illudermi che avesse abbandonato l’idea di mandarmi all’orfanatrofio, ma a mezzogiorno in punto mi ordinò di mettere il berretto e di seguirlo.

Per raggiungere il villaggio da casa nostra ci voleva più di un’ora di cammino. Barberin camminava davanti a me, lentamente, zoppicando, voltandosi di tanto in tanto per accertarsi che lo seguissi. Dove mi stava portando? Forse potevo tentare la fuga.

Cercai di rimanere un po’ indietro: al momento giusto potevo mettermi a correre, scappare lontano e poi nascondermi in un fosso... Ma Barberin aveva intuito le mie intenzioni e mi afferrò per il polso, costringendomi a seguirlo. Fu così che entrammo nel villaggio, e tutti si voltarono a fissarci perché io sembravo un cane ringhioso tenuto al guinzaglio.

Quando passammo davanti al caffè, un uomo che oziava sulla porta chiamò Barberin e lo invitò a entrare. Si sedettero a un tavolino, mentre io mi rifugiai accanto al camino guardandomi intorno con curiosità.

Nell’angolo opposto a quello dove mi trovavo, c’era un vecchio con una gran barba bianca.

Sui capelli grigi e lunghi portava un alto cappello ornato di piume; indossava una giacca di pelle senza maniche e aveva le braccia ricoperte di un logoro velluto azzurro; due ghette nere gli arrivavano fino al ginocchio, tenute strette con nastri rossi incrociati più volte intorno alle gambe.

Sotto la sua sedia, tre cani stavano addossati l’uno all’altro per riscaldarsi: un barboncino nero, una cagnetta grigia dal musetto furbo e un barboncino bianco che indossava un vecchio berretto da poliziotto.

Intanto Barberin confabulava con il padrone del caffè e, anche se sussurravano, avevo capito che parlavano di me.

– Pur di levarmelo dai piedi, sono pronto a buttarlo in mezzo alla strada! – stava dicendo Barberin.

Anche il vecchio stava ascoltando quel che dicevano i due; improvvisamente si alzò.

– È questo il ragazzo di cui vuole sbarazzarsi? – disse con accento italiano, indicandomi.

– Proprio lui – rispose Barberin.

– Allora lo affidi a me.

– Affidarlo… a lei?!

Il vecchio frugò nella tasca e gettò sul tavolo alcune monete d’argento.

Fiutando l’affare, Barberin tentò di contrattare.

– Affidare a lei un ragazzino così bello? Perché è un bel ragazzo, guardatelo… Remi, vieni qui.

Mi avvicinai al tavolo, tremando.

– Non dico che sia brutto – disse il vecchio, – ma è troppo gracile per lavorare la terra.

– E allora cosa vorrebbe fargli fare?

– Mi terrà compagnia. Sono vecchio, la sera mi prende la malinconia. E diventerà un attore della compagnia teatrale del signor Vitali.

– E chi sarebbe questo signor Vitali?

– Sono io – disse il vecchio, aprendo la giacca dalla quale saltò fuori una scimmia che indossava una giacchetta rossa. – Ecco l’attore più importante della compagnia. Su Belcuore, saluta i signori.

Belcuore portò le mani alle labbra e ci mandò un bacio.

– Adesso – continuò Vitali tendendo la mano verso il barboncino bianco, – il signor Capi avrà l’onore di presentare i suoi amici.

A quest’ordine, Capi si alzò sulle zampe di dietro e, incrociando quelle anteriori sul petto, si inchinò al pubblico. Poi, rivolgendosi agli altri due cagnolini, fece loro cenno di avvicinarsi con la zampina.

– Capi è il più intelligente di tutti – spiegò Vitali. – Il suo nome è l’abbreviazione di “Capitano”. Il barboncino nero ed elegante si chiama Zerbino, mentre l’unica signorina della compagnia è Dolce. Questi sono i cari compagni con cui ho la fortuna di girare il mondo. Ma ora, signor Barberin, torniamo ai nostri affari: vi darò trenta franchi per il ragazzo.

– Ne voglio quaranta – rilanciò Barberin.

– Questo ragazzo si annoia qui – disse Vitali. – È meglio che vada a giocare in cortile.

Andai in cortile, ma non avevo voglia di giocare: in quel momento si stava decidendo il mio destino. Barberin ricomparve dopo un’ora, da solo.

– Andiamo a casa – disse. Mi prese poi per un orecchio. – Se racconti a tua madre una sola parola di quel che hai sentito, te la faccio pagare cara!

Vitali venne a prendermi la mattina dopo. Barberin aveva mandato la mamma al villaggio con una scusa, per impedirle di difendermi.

– Signore, vi prego! – gridai. – Non mi porti via!

E scoppiai in singhiozzi.

– Coraggio, bambino mio – mi disse Vitali. Barberin mi afferrò per un orecchio.

– O ti decidi ad andare con questo signore o andrai in orfanatrofio: scegli!

Io volevo restare con la mia mamma… Sentii la mano di Vitali stringermi il polso e non mi rimase altra scelta che seguirlo. Era finita.

Ci arrampicammo per una strada che saliva a zigzag su per la montagna. Vedevo la casa della mia infanzia rimpicciolire a ogni svolta. In quel momento una sottile spirale di fumo giallo usciva dal camino. Quel fumo mi portava l’odore delle foglie secche con cui avevamo acceso il fuoco tutto l’inverno. Mi sembrava di essere ancora là, accanto al fuoco, seduto sul mio panchetto con i piedi nella cenere calda. Oltre la casa, scorgevo il pero dal tronco contorto che la mia fantasia aveva trasformato in cavallo. Tutto era al solito posto: la mia zappetta fatta con un ramo ricurvo, il casotto dove allevavo i conigli e il giardino, il mio caro giardino.

Superata la cima della montagna mi volsi indietro: non vedevo più la valle, né la nostra casa. In lontananza, le colline azzurre sembravano raggiungere il cielo e i miei occhi si smarrirono in quegli spazi infiniti.

Capitolo tre

Il mio debutto

Dopo aver disceso un ripido pendio, eravamo arrivati in una vasta pianura. Non c’erano case, né alberi; soltanto eriche rosse e chiazze di ginestre appassite che ondeggiavano al soffio del vento.

Il mio padrone avanzava a grandi passi, Belcuore sulla spalla e i cani che lo seguivano trotterellando. Non sembravano stanchi; io, invece, ero stremato.

Il cielo, che era sempre stato azzurro da quando ci eravamo messi in cammino, a poco a poco si riempì di nuvole e ben presto cominciò a piovere.

– Prendi facilmente il raffreddore, tu? – mi chiese Vitali.

– Non ho mai preso un raffreddore – risposi.

– Sei più forte di quel che sembri – disse lui, – ma per oggi abbiamo camminato abbastanza. Dormiremo in quel villaggio che si vede laggiù.

Non c’erano alberghi e nessuno voleva ospitare una specie di mendicante che si trascinava dietro un ragazzo e tre cani infangati fino agli occhi.

Finalmente un contadino più caritatevole degli altri ci diede il permesso di dormire nel suo fienile: almeno adesso avevamo un tetto per ripararci.

Vitali era un uomo previdente e non si era messo in viaggio senza provviste; dallo zaino che portava in spalla, tirò fuori un grosso pezzo di pane secco e quella fu la cena che ci dividemmo.

Come rimpiangevo la minestra calda che mi preparava la mamma tutte le sere, quanto mi sarebbe sembrata buona in quel momento, anche senza burro!

Come avrei voluto coricarmi beatamente fra le lenzuola del mio letto!

Invece mi accontentai di stendermi in un letto di felci; mi girai e rigirai a lungo, troppo infelice per riuscire ad addormentarmi.

Avrei patito la fame e il freddo tutti i giorni?

Mentre ero assorto in questi pensieri, il cuore gonfio e gli occhi pieni di lacrime, percepii un soffio caldo sfiorarmi il viso. Allungai la mano e sentii tra le dita il pelo morbido di Capi: il barboncino si accucciò fra le felci, proprio accanto a me e mi leccò la mano con delicatezza.

Allora il nodo che avevo alla gola si sciolse, e dimenticai tutta la stanchezza e il dolore. Non ero più solo: avevo un amico.

Scoprii presto che Vitali era un uomo generoso: il giorno dopo, quando raggiungemmo la città di Ussel, mi comprò un paio di scarpe, una giacchetta di velluto azzurro, un paio di pantaloni di lana e un cappello.

Appena rientrammo nel nostro albergo, prese un paio di forbici e tagliò le gambe dei miei pantaloni all’altezza del ginocchio.

Rimasi esterrefatto.

– Siamo artisti, dobbiamo farci notare – mi spiegò.

– Quindi, visto che ci troviamo in Francia, ti vesto all’italiana.

Poi mi adornò le calze e il cappello con dei nastri rossi incrociati.

– E adesso che sei vestito, mettiamoci subito al lavoro: domani, per la prima volta, reciterai davanti a un pubblico.

– Ma io non so recitare! – protestai, atterrito.

– Imparerai.

La commedia che dovevamo mettere in scena si intitolava Il domestico del signor Belcuore. Sebbene la rappresentazione durasse soltanto una ventina di minuti, le prove andarono avanti per più di tre ore: Vitali ci faceva ripetere due, quattro, dieci volte la stessa cosa, ma con dolcezza, senza mai perdere la pazienza.

I miei compagni erano abituati a recitare davanti al pubblico e, quando l’indomani lasciammo l’albergo per raggiungere la piazza dove ci saremmo esibiti, per loro si trattò di fare ciò che avevano fatto cento volte, forse mille.

Io, invece, ero emozionatissimo.

Vitali apriva la marcia, testa alta e petto in fuori, suonando il piffero per attirare l’attenzione della gente. Dietro di lui veniva Capi, che portava sulla schiena Belcuore, vestito da generale inglese, con giacca e pantaloni rossi orlati d’oro. A rispettosa distanza sfilavano Zerbino e Dolce. Io chiudevo il corteo.

Gli abitanti di Ussel accorsero sulle porte per vederci passare, e le tendine delle finestre si sollevarono rapidamente.

Non impiegammo molto a montare il nostro teatrino: una corda legata a quattro alberi, in modo da formare un rettangolo in mezzo al quale prendemmo posto.

Durante la prima parte dello spettacolo, i cani eseguirono alcuni esercizi di bravura, accompagnati da Vitali che suonava l’arpa e cantava, alternando canzoni allegre ad altre lente e dolci. Una gran folla si era accalcata contro la recinzione e, quando mi guardai intorno, vidi un’infinità di pupille fisse su di noi.

Dopo gli applausi, Capi prese una ciotola fra i denti e, camminando sulle zampe posteriori, fece il giro tra il pubblico. Quando i soldi non cadevano nella ciotola, il cagnolino si fermava davanti agli spettatori poco generosi e picchiava sulle loro tasche per invitarli ad aprirle.

Ora toccava a me entrare in scena.

– Signore e signori – disse Vitali, – lo spettacolo proseguirà con una gustosa commedia, intitolata Il domestico del signor Belcuore. Spalancate gli occhi, aprite le orecchie e tenete le mani pronte ad applaudire.

In verità si trattava di una pantomima, cioè una scenetta recitata soltanto con i gesti, senza le parole. Tuttavia, per rendere più comprensibile la storia, la voce di Vitali commentava le scene principali.

Belcuore interpretava la parte di un generale inglese, io quella del suo domestico; la gente rideva a crepapelle nel vedere che una scimmia veniva servita da un essere umano, per di più un po’ tonto. Gli applausi del pubblico scrosciarono fragorosi. Il nostro spettacolo era stato un successo!

Tornando in albergo, Vitali mi fece i complimenti per come avevo recitato e io mi sentii orgoglioso di me stesso.

Capitolo quattro

Vitali finisce in prigione

Gli attori della compagnia di Vitali (vale a dire i cani e la scimmia) avevano talento, ma il loro repertorio era piuttosto ripetitivo, perciò non ci fermavamo mai a lungo nello stesso luogo. Tre giorni dopo il nostro arrivo a Ussel, ci mettemmo di nuovo in cammino.

– Dove andiamo? – chiesi a Vitali.

– Siamo diretti ad Aurillac; da lì raggiungeremo Bordeaux e poi i Pirenei.

– Lei conosce tutti questi luoghi? – chiesi stupito.

– Non ci sono mai stato – disse lui, – ma nel mio zaino ho un libro con la descrizione di tutti i paesi che attraverseremo.

– È difficile leggere? – chiesi.

– Non è difficile imparare con un po’ di buona volontà.

– Mi piacerebbe molto.

– Allora ti insegnerò. Il tempo non ci manca.

Il giorno seguente, mentre camminavamo, Vitali si chinò a raccogliere una tavoletta di legno.

– Ecco il libro sul quale imparerai a leggere.

Lo guardai perplesso, pensando che mi stesse prendendo in giro. Vitali ridacchiò.

Ci fermammo in un boschetto poco distante per riposarci. Posammo a terra i bagagli e ci sedemmo sull’erba punteggiata di piccole margherite. Non appena libero dalla catena, Belcuore si arrampicò su un albero, mentre i cani si accucciarono vicino a noi. Vitali tirò fuori dalla tasca il suo coltello e tagliò la tavoletta di legno in tanti quadratini uguali.

– Domani inciderò una lettera dell’alfabeto su ciascuno di questi pezzetti, imparerai a riconoscerle e a unirle, in modo da formare le parole.

Per settimane e per mesi, le mie tasche furono piene di quadratini di legno e, ben presto, imparai a riconoscere non soltanto le lettere ma anche le note musicali; Vitali mi insegnò a leggere, cantare e suonare l’arpa. Vivendo all’aria aperta, le mie braccia e le mie gambe diventarono più robuste, i polmoni si svilupparono e diventai capace di sopportare il freddo come il caldo, il sole come la pioggia, le pene, le privazioni, la fatica.

Il nostro modo di viaggiare era semplice: andavamo sempre diritto, all’avventura. Quando scorgevamo un villaggio, ci preparavamo per fare un’entrata trionfale. Io dovevo vestire gli animali, ma non era facile perché

la scimmia sapeva che indossare la sua divisa da generale significava lavorare e ne combinava di tutti i colori per sfuggirmi. Allora chiamavo Capi per aiutarmi.

Arrivammo nelle pianure della Francia meridionale, quasi prive d’acqua e di vegetazione. In mezzo a quelle terre bruciate dalla siccità, si trovava il villaggio in cui trascorremmo la notte nel fienile di un’osteria.

– Qui – mi disse Vitali, – proprio in questo villaggio, nacque un uomo che da povero stalliere diventò generale e poi re. Si chiamava Murat. Io l’ho conosciuto.

– Quando era ancora uno stalliere? – chiesi.

– No – rispose Vitali, ridendo. – Quando era re. Lo frequentai alla sua corte di Napoli.

– Lei ha conosciuto un re? – esclamai in un tono così stupito che lui scoppiò di nuovo a ridere.

Eravamo seduti su una panca davanti alla stalla, con la schiena appoggiata al muro. Dai rami di un grande sicomoro le cicale cantavano la loro monotona canzone. Sopra i tetti delle case, la luna piena saliva tranquilla nel cielo.

– Vuoi andare a dormire? – mi chiese Vitali. – O preferisci ascoltare la storia del re Murat?

– Non voglio dormire! Mi racconti la storia…

Per molte ore restammo seduti su quella panca, lui che raccontava, io che pendevo dalle sue labbra.

La mia fantasia era assetata di cose meravigliose.

Chi era stato da giovane quel vecchio che aveva avuto l’onore di conoscere un re alla corte di Napoli?

Ci fermammo per tutto l’inverno a Pau, non soltanto perché non soffiava quasi mai il vento, ma soprattutto per l’abbondanza degli incassi. Ricominciammo la nostra vita da vagabondi in primavera, quando il pubblico cominciò a scarseggiare.

Per molto tempo, non so quanti giorni e quante settimane, viaggiammo tenendo sempre alla nostra destra i Pirenei, simili ad ammassi di nuvole azzurrine, finché una sera arrivammo a Tolosa, una grande città in riva a un fiume: le case erano costruite in mattoni rossi, e le strade, selciate con piccole pietre aguzze, erano faticose da percorrere.

Il giorno dopo cercammo un luogo per gli spettacoli e decidemmo di montare il teatrino in un viale vicino al Giardino Zoologico. Fin dalle prime rappresentazioni fummo applauditi da un pubblico numeroso.

Sfortunatamente un poliziotto ci prese di mira, forse perché non amava i cani o forse perché la nostra presenza intralciava il suo lavoro.

– Non potete stare qui. Dovete andarvene!

Ma il mio padrone si rifiutò di ubbidire.

– Può mostrarmi il regolamento che vieta a dei poveri saltimbanchi di esercitare il loro mestiere su questa strada? – chiese.

Lì per lì il poliziotto lasciò perdere, ma ritornò il mattino seguente, ancora più agguerrito.

– Dovete mettete la museruola ai cani! – intimò, interrompendo la rappresentazione.

– La museruola ai miei attori? – ribatté Vitali.

– Sì, e subito! C’è un regolamento della polizia.

Il pubblico rumoreggiava.

– È assolutamente impossibile – disse Vitali, rivolgendosi più agli spettatori che al poliziotto. – Come potrebbero recitare i miei attori con la museruola?

Intanto la scimmietta, che si era piazzata dietro l’agente, faceva la sua imitazione, con tanto di smorfie e boccacce. Il pubblico rideva.

– Se domani i vostri cani non porteranno la museruola – gridò il poliziotto, esasperato, – saranno guai!

Credevo che Vitali avesse intenzione di comprare delle museruole al più presto, invece decise di infischiarsene, anzi era convinto che l’intervento del poliziotto avrebbe reso la rappresentazione più divertente per il pubblico. Purtroppo, aveva sottovalutato la pericolosità del suo nemico, perché il giorno dopo fu arrestato e condannato a due mesi di prigione.

Capitolo cinque

In barca

Due mesi di prigione! Come avrei fatto a sopravvivere due mesi senza il mio padrone? Non mi restava che lasciare Tolosa e cercare la fortuna altrove: misi l’arpa a tracolla e, trascinandomi dietro gli animali, mi incamminai verso le campagne circostanti.

Dopo chilometri e chilometri, ci fermammo sulle rive fresche del Canale del Mezzogiorno. La fame mi causava tremendi crampi allo stomaco; anche i cani erano affamati e mi fissavano con occhi disperati, mentre Belcuore si grattava la pancia vuota.

Una volta, Vitali mi aveva detto che in guerra, quando un reggimento è spossato da una lunga marcia, si suonano melodie allegre affinché i soldati dimentichino la fatica. Se avessi suonato anch’io un’aria allegra forse ci saremmo distratti... Allora presi l’arpa e, con le spalle rivolte al canale, cominciai a eseguire un valzer. Sulle prime, gli animali rimasero inerti, poi, ascoltando la musica, a poco a poco si animarono e si misero a ballare.

A un tratto sentii dietro di me una voce infantile.

– Bravi! – gridò.

Mi voltai di scatto.

Una strana imbarcazione era ferma sul canale, i due cavalli che la tiravano riprendevano fiato sulla riva opposta. Sul ponte del battello era costruita una galleria a vetri, ombreggiata da piante rampicanti, davanti alla quale vidi una signora e un bambino della mia età che era disteso su una tavola.

– Mio figlio Arturo chiede di poter vedere da vicino gli animali – disse la donna, con accento inglese. Acconsentii con piacere, sperando che quella giovane signora ci avrebbe offerto la cena. Allora lei fece un cenno al timoniere, il quale lanciò verso la riva una specie di ponte di legno che ci permise di imbarcarci senza pericolo.

– La scimmia, la scimmia! – esclamò il bambino.

Mi avvicinai e, mentre Arturo accarezzava Belcuore, ebbi il tempo di osservarlo meglio: era biondo e pallido, aveva un’espressione malinconica e quasi rassegnata.

– Mio figlio è malato – mi spiegò la madre. – Il medico gli ha ordinato di stare sempre coricato su una tavola rigida. Io lo porto in giro su questa barca per distrarlo un poco… E tu, caro? Come mai sei da solo?

La signora aveva una voce così dolce che decisi di raccontarle dell’arresto di Vitali. Non le confidai, però, il segreto della mia nascita: mi vergognavo di essere un trovatello, così le dissi che i miei genitori mi avevano affidato a Vitali perché erano troppo poveri per mantenermi. Mentre parlavo, Arturo giocava con i cani.

– Chissà che fame avrete! – esclamò.

Alla parola “fame”, i cani si misero ad abbaiare e la scimmia si stropicciò freneticamente la pancia.

La signora capì al volo e disse qualche parola a una domestica che si era affacciata a una porta socchiusa. Subito dopo ci fu portato un tavolino già imbandito.

Arturo ci guardava divorare quel cibo delizioso a occhi spalancati, meravigliato dal nostro formidabile appetito, quindi si rivolse alla madre e le parlò a lungo in inglese. Al termine del discorso, la signora mi disse:

– Mio figlio chiede se volete restare con noi.

Le parole non bastavano a esprimere la mia riconoscenza per quell’invito generoso, così mi slanciai a baciarle la mano.

– Povero piccino! – esclamò lei commossa, accarezzandomi la fronte.

Per dimostrarle la mia buona volontà, presi l’arpa, andai a prua e cominciai a suonare. Nello stesso momento, la signora portò alle labbra un fischietto d’ar-

gento, dal quale uscì un lungo suono acuto. A quel segnale, la barca riprese a scivolare sulla superficie piatta del canale; gli alberi a riva fuggivano dietro di noi, illuminati dagli ultimi raggi del sole.

La madre di Arturo, la signora Milligan, era inglese: era rimasta vedova e Arturo era il suo unico figlio; come avrei scoperto più avanti, ne aveva avuto un altro, ma era scomparso misteriosamente quando aveva soltanto sei mesi. Poco dopo era nato Arturo.

I medici avevano pronosticato pochi mesi di vita a quel bimbo gracile e malaticcio. Era sopravvissuto, invece, grazie alle cure amorevoli della madre, ma nell’ultimo periodo era stato colpito da una gravissima malattia alle anche. Era stata consigliata una cura che consisteva nel tenere il malato disteso, con l’assoluto divieto di appoggiare i piedi per terra.

Ecco perché la signora Milligan aveva fatto costruire quella barca così strana, per non tenere il figlio sempre chiuso tra quattro pareti senz’aria, luce e distrazioni: se Arturo non poteva camminare, la barca si sarebbe spostata al posto suo.

I giorni trascorsi sul “Cigno”, così si chiamava la barca, sono stati i più belli della mia infanzia. Arturo era per me come un fratello: andavamo d’accordo e

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE, GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n° 633, art. 2 lett. d).

Remi ha una famiglia, ma non sa dove sia: è stato abbandonato quando era ancora in fasce e la sua nascita è avvolta nel mistero. All’età di otto anni viene venduto a un artista di strada, il vecchio Vitalis, che lo prende nella sua compagnia teatrale, insieme a tre cani e una scimmietta.

Inizia così un lungo viaggio attraverso la Francia e l’Inghilterra, pieno di avventure e colpi scena.

Remi apprende a leggere e scrivere, suonare e cantare, ma soprattutto impara ad affrontare le difficoltà della vita con coraggio e ottimismo.

Una storia di crescita avvincente, emozionante, che continua a commuovere generazioni di lettori.

Hector Malot è stato un famoso giornalista e scrittore francese, vissuto nell’800. Nei suoi romanzi raccontò spesso le condizioni difficili dei bambini poveri, soggetti allo sfruttamento e alla fame.

Sabrina Rondinelli vive a Torino. Conduce incontri di scrittura creativa e scrive audiofilm per le persone non vedenti. È un’affermata autrice per ragazzi.

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