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Un affresco di vita veronese tratteggiato attraverso ventotto storie di uomini e donne. Ricordi, successi e speranze in un filo che lega passato e futuro, tradizione e modernità. Un viaggio tra luoghi e territori, cultura ed arte, gastronomia e tipicità, sport e impresa.
ISBN: 978-88-96305-29-4
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32 storie veronesi
2013
18,00 euro
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Excellence Book - Protagonisti a Verona
Marco Ambrosini Rosario Russo Bruno Fasani Alessandro Torluccio Paolo Bacilieri Nicola Guerini Matteo Padovani Veronica Marchi Giovanna Scardoni Emanuela Mattioli Roberto Bonfante Angelo Peretti Antonio Menegotti Fabrizio Stringhetto Massimo Miozzi Marcello Vaona Sara Villardi Nadia Pasquali Patrizio Violante Lia Musarra Simone Castioni Maria Giulia Da Sacco Federico Cozza Valerio Avesani Aldo Faustini Alessandro Bertolini Giorgio Tauber Edoardo e Daniele Martignoni Dino da Sandrà Emanuele Battaglia Luciano Gianfilippi Fabio Scolari e Claudia Giagnoni
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Emanuele Delmiglio
Prot agonist i a Verona Trentadue storie veronesi
2013
Indice
Ist it uzioni e Associazioni
Marco Ambrosini Assessore alla Cultura della provincia di Verona Rosario Russo Presidente Commissione Cultura del Comune di Verona Mons. Bruno Fasani Prefetto della Biblioteca Capitolare di Verona Alessandro Torluccio Responsabile Giovani Confesercenti Verona
Arte e dint orni
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24 Giovanna Scardoni Attrice 28 Nicola Guerini Direttore d’orchestra 32 Manuela Mattioli Vicepresidente Associazione Scuola d’Istrumenti ad Arco “Antonio Salieri” 36 Matteo Padovani Vicepresidente Associazione Suonatori di Campane a Sistema Veronese 40 Veronica Marchi Cantautrice 44 Paolo Bacilieri Disegnatore
Produzioni t ipiche
Roberto Bonfante Direttore Ente Fiera di Isola della Scala Angelo Peretti Responsabile Comunicazione del Consorzio Tutela Bardolino doc Antonio Menegotti Azienda Agricola Menegotti Fabrizio Stringhetto Tuttafrutta Massimo Miozzi Pasticceria Miozzi Marcello Vaona Cantina Novaia 2
50 54 58 62 66 70
Ospit alit à e Buona t avola Sara Villardi Casa Mazzanti Nadia Pasquali Ristorante Alla Borsa Patrizio Violante Osteria Dal Cavaliere Lia Musarra Ristorante Al Portego Simone Castioni Ciccarelli Café Maria Giulia Da Sacco Villa La Valverde
St orie d’Impresa Federico Cozza Leaderform Valerio Avesani Nova System Aldo Faustini Rotal Met Alessandro Bertolini Consulente botanico Giorgio Tauber G.T.G. Group Edoardo e Daniele Martignoni Bancarella di libri e fumetti
76 80 84 88 92 96
102 106 110 114 118 122
Personaggi Dino Da Sandrà Personaggio dei fumetti Emanuele Battaglia Dentista Luciano Gianfilippi Giornalista Fabio Scolari e Claudia Giagnoni Ordine delle Lame Scaligere Prot agonist i a Verona
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Ist it uzioni e Associazioni
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Marco Ambrosini Assessore alla Cultura della provincia di Verona
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Rosario Russo Presidente Commissione Cultura del Comune di Verona
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Mons. Bruno Fasani Prefetto della Biblioteca Capitolare di Verona
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Alessandro Torluccio Responsabile Giovani Confesercenti Verona
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Prot agonist s in Verona
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Una provincia di cultura
I
ncontriamo Marco Ambrosini, assessore alla Cultura e Beni Ambientali della Provincia di Verona. Ci racconta qualcosa di lei? Sono nato a Legnago nel 1973 e sono cresciuto a Casaleone, sempre nel cuore del basso veronese, dove vivo tutt’ora. Ho studiato e conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Ferrara, ma dopo la pratica legale non ho mai esercitato la professione perché ho sempre avuto un’altra passione: quella per il settore delle onoranze funebri, dove avevo lavorato durante gli studi. Dopo la pausa
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per la pratica professionale, ho ripreso a lavorare come responsabile organizzativo del personale nel principale consorzio di imprese di onoranze funebri della provincia, dove sono rimasto fino all’elezione del 2009 in Provincia. Da dove arriva questa passione? Era un’attività di famiglia? No, mio padre era commerciante nel settore del mobile d’arte. Quando ero in Consiglio comunale a Casaleone durante il mio secondo mandato, tra i vari incarichi, avevo anche una delega esecutiva alla funzione “Servizi ed Edilizia Cimiteriale”
Marco Ambrosini
Regione Venet o
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e questo mi ha portato a conoscere un settore un po’ diverso dal solito, che mi ha incuriosito e, al contempo, appassionato. E la passione per la politica, invece? È nata tra il ‘91 e il ‘92, nell’anno della maturità liceale. Nella primavera del ‘92 si andava alle elezioni amministrative a Casaleone e io conoscevo un architetto, stimato professionista del paese, che stava costituendo il gruppo della Lega Nord; mi ci sono avvicinato per dare il mio contributo in termini di idee e di collaborazione e successivamente c’è stata la possibilità di partecipare in prima persona alla corsa elettorale. Abbiamo votato a giugno e in quella occasione sono risultato il primo dei non eletti. Nei sessanta giorni successivi all’elezione del Consiglio, però, non si era formata la maggioranza, quindi il Consiglio stesso era decaduto e siamo tornati a votare, per la seconda volta nello stesso anno, a dicembre: quella volta sono arrivato secondo fra gli eletti. Lei ha potuto assistere alla primavera della Lega... Dopo aver apprezzato le idee della Liga Veneta, ho vissuto i primi anni di esistenza della neo-costituita Lega Nord; poi sono venuti gli anni del primo governo con la partecipazione della Lega, quindi la svolta secessionista del ‘96... C’ero, con tutte le difficoltà annesse al fatto di essere all’interno di un partito soggetto ad una certa diffidenza, soprattutto dopo la scelta secessionista. Come ha vissuto quegli anni? Sarà stata un’esperienza entusiasmante... Sì, eravamo la grande forza innovatrice, territorialmente radicata. Ho dieci anni di ricordi molto belli. Nel 2002 poi abbiamo perso le elezioni e siamo passati all’oppo-
sizione; comunque nessuno si è stracciato le vesti, né le tessere. Abbiamo continuato col nostro lavoro, preparando il successo raggiunto alcuni anni dopo. Infatti è arrivata la nomina in Provincia... Nel 2009. All’inizio ero titubante, il lavoro da dipendente mi impegnava e non sapevo in che misura potevo essere utile alla Lega Nord a livello provinciale. Mi sono impegnato molto e i miei amici della sezione di Casaleone si sono spesi per convincermi, così ho accettato la candidatura e, dopo una bella ed intensa campagna elettorale, è arrivato un gratificante risultato: sono stato eletto col 47% dei voti nel collegio Verona 5, che comprende Casaleone, Sanguinetto, Gazzo Veronese, Concamarise e Salizzole, la percentuale
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più alta di tutti gli altri eletti nei trentasei collegi elettorali della provincia scaligera. Com’è approdato alla Cultura? Pdl e Lega, le due forze di maggioranza, hanno definito le deleghe, pianificato la loro suddivisione e, nella prima fase, gli accordi sono stati siglati dalle rispettive segreterie provinciali. Ho preso parte poi ai lavori interni al mio partito per l’attribuzione specifica delle deleghe, nell’ambito di quelle poste a carico della Lega. Io ho sempre avuto un ottimo rapporto col mio predecessore, l’on. Matteo Bragantini, quindi parte delle attività le conoscevo già perché lui mi teneva al corrente; è stata quasi una logica conseguenza che mi siano state attribuite tutte le sue precedenti deleghe con delle integrazioni che, con la nuova Giunta, hanno portato il mio assessorato ad essere così composto: Cultura, Identità veneta, Manifestazioni locali per il tempo libero e Beni ambientali. Soddisfatto di questo incarico? Certo, anche se i primi sei mesi sono stati abbastanza
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duri: provenivo da una realtà comunale e in Provincia la macchina è più complessa. Peraltro, non ho fatto come altri la “gavetta” di cinque anni in Consiglio, sono approdato immediatamente in Giunta. Dopo qualche mese, comunque, lavoravo già a pieno ritmo. Ha trovato delle cose già iniziate ma ha aggiunto anche del suo... Ho portato avanti “Provincia in Festival”, il macro-cartellone degli eventi culturali estivi nella provincia, al quale ho aggiunto alcune nuove sezioni che hanno notevolmente arricchito tutto il palinsesto. Un’altra attività che ho in parte ereditato,
Marco Ambrosini
Regione Venet o
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ma che poi ho reimpostato nella forma e nella gestione, è stata “I Tesori Sconosciuti” che nel 2010 è diventata “I Tesori Veronesi”: un’iniziativa tesa alla scoperta e alla valorizzazione del patrimonio storicomonumentale e naturalistico del territorio della provincia di Verona, che ogni anno segue un tema storico diverso. Un’iniziativa nuova è stata invece “LibrarVerona”, il festival del libro e della lettura, ideato e realizzato per la prima volta dal mio assessorato nel 2010 e poi ripetuto con cadenza annuale. Un’iniziativa che sta crescendo... I numeri sono esplosi nel 2012 con oltre ventimila presenze. Speriamo che sia una tra le attività che potranno continuare negli anni a venire. Io ho cercato di conferirle un’impostazione che poggi sul sostegno e la collaborazione di un’ampia cordata di partners culturali del territorio, anche esterni alla Provincia, per fare in modo che l’iniziativa possa reggersi da sola. Come ha trovato la realtà della Provincia? Essere in Provincia impone un gran lavoro di coordinamento e di attenzione, ma è sicuramente entusiasmante perché ti arricchisce di moltissimi contatti in tutto il territorio, permettendoti di scoprire iniziative di grande valore, spesso basate sul volontariato delle associazioni culturali. In questo sta la grande ricchezza della provincia scaligera: tantissimo volonta-
riato, protagonista di iniziative molto valide che vale la pena di incoraggiare e sostenere. C’è un progetto che vorrebbe sviluppare? Vorrei potenziare ancora di più “LibrarVerona”. La nostra è una provincia che merita un festival importante che porti avanti la passione per il libro e la lettura, anche in virtù della grande tradizione delle arti grafiche del nostro territorio. Cosa vorrebbe per il suo futuro? Ho sempre fatto parte di quella che considero una grande famiglia, la Lega Nord veronese. I miei “capi” sanno che dò la massima disponibilità come esponente di partito per la vita politica e amministrativa del territorio; dove c’è bisogno, e se le mie caratteristiche e la mia preparazione sono ritenute adatte, io sono a disposizione. In alternativa, ho sempre il mio settore di provenienza, una passione, ma che per anni, è stata anche la mia attività lavorativa principale. Per le foto, si ringraziano: Foto Fadda, DN Foto, Ferruccio Dall’Aglio, Foto Maury Marco Ambrosini Assessore Cultura, Identità Veneta, Manifestazioni Locali per il Tempo Libero, Beni Ambientali della Provincia di Verona marco.ambrosini@provincia.vr.it
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Ph Antonella Anti
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Fedeli a se stessi
uesto il motto di Rosario Russo, Presidente della Commissione Cultura del Comune di Verona, il quale si racconta in una versione inedita, a partire dalla sua infanzia siciliana fino all’arrivo in una città del Nord. Ci parli delle sue origini... Ho avuto la fortuna di nascere a Taormina e di trascorrervi nei dintorni i primi quattro anni della mia vita, per poi ritornarci ogni estate. Il legame con la mia terra d’origine è rimasto sempre fortissimo, anche se a Verona ho trovato un’accoglienza formidabile. Se la mia vita a Taormina è stata dorata, fatta di vacanze e spensieratezza, Verona è stato invece il luogo della crescita, della formazione, del lavoro, ma anche delle amicizie profonde, quelle di una vita.
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Come ha trascorso la sua giovinezza? Sono cresciuto in zona Borgo Trento, in quel periodo bellissimo nel quale c’erano i campetti semi incolti dove si andava a giocare a pallone. Una giovinezza all’aria aperta. Dopo le medie, mi sono iscritto al Liceo Scientifico perché avevo in mente di proseguire con gli studi in ingegneria. Avevo infatti una tradizione familiare di ingegneri, in quanto sia mio nonno che mio bisnonno erano stati due importanti professionisti in questo campo. Durante il liceo però, ho scoperto la mia vera vocazione, che non era certo per i numeri, ma per le materie umanistiche. Ho cominciato così ad appassionarmi alla letteratura e a leggere moltissimo per conto mio. Alla fine, quando era giunto il momento
Rosario Russo
Ist it uzioni e Associazioni
di scegliere una Facoltà tra Lettere e Giurisprudenza, ho optato per quest’ultima, probabilmente per la scarsità di sbocchi che mi poteva assicurare una facoltà umanistica. Mi è piaciuto studiare diritto, soprattutto il diritto amministrativo, che un noto docente universitario definiva come “il diritto della felicità”, in quanto si occupa principalmente di regolare i rapporti tra la polis e i suoi abitanti. Nasce qui l’interesse per l’amministrazione della vita pubblica? Probabilmente sì, anche se confesso che per me la politica era ancora un oggetto misterioso. Lo dimostra il fatto che, quando ho iniziato questa esperienza, non sono stato io ad avanzare la richiesta di essere candidato nelle liste, ma mi è stato proposto. Devo confessare che ho accettato più con il proposito di fare un favore a chi me l’aveva chiesto, che non di perseguire un obiettivo di coinvolgimento nella vita politica attiva. Come è iniziata la sua attività politica? Ho prestato servizio per cinque anni in Circoscrizione. L’aver ricevuto, in quel
caso, un incarico in ambito culturale, è stata una circostanza felice anche se assolutamente casuale, una scelta calata dall’alto. Ha qualche ricordo piacevole di questa esperienza? Direi che il ricordo più vivo è il rapporto umano che si è creato con i consiglieri, perché con alcuni ho stabilito dei legami molto forti su ideali condivisi, che prescindevano da una contrapposizione partitica. Il fatto che la mia intenzione fosse quella di far cultura senza essere condizionato da elementi esterni o interessi clientelari, è stata molto apprezzata dai
Ph Antonella Anti
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Ph Antonella Anti
miei colleghi. In quale partito militava? Simpatizzavo già da qualche tempo per Alleanza Nazionale, in particolare mi ero avvicinato alla Destra Sociale perché aveva una prospettiva che mi affascinava: il valore dell’uomo al centro dell’azione politica, la co-gestione dei lavoratori nell’impresa, il senso di appartenenza ad una comunità, la capacità di far fruttare il capitale sociale, il principio di sussidiarietà. Nel frattempo lei si è avvicinato al mondo del lavoro … Si, dopo aver completato l’iter tipico degli studi di giurisprudenza, e dopo aver sostenuto l’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato, ho provato la strada dei concorsi pubblici, perché volevo essere indipendente dalla mia famiglia e avevo il desiderio di sposarmi; ho avuto la fortuna di vincere un concorso per lavorare all’ufficio legale di Amt,
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poi Atv. In realtà a quel tempo non c’era un ufficio legale, non ho avuto un predecessore che mi avesse passato le consegne, quindi ho dovuto creare l’ufficio dal nulla. Di che cosa si occupa attualmente? Sono Presidente della Commissione Sesta del Comune di Verona e sono felice della singolare continuità nell’ambito culturale prima a livello circoscrizionale, poi a livello comunale. Ho avuto la possibilità di proseguire un percorso ampliandone gli orizzonti. È bello poter creare, ipotizzare iniziative culturali e anche turistiche, dato che la Commissione
Rosario Russo
Comune di Verona
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Sesta si occupa, oltre che di cultura, di turismo, promozione della città, rapporti con il mondo accademico. Oltre a ciò, sono stato incaricato dal Sindaco di curare i rapporti culturali con le associazioni di ispirazione religiosa. Sono molto appassionato alle attività di cui mi occupo. Verona nasconde tante capacità, talenti, associazioni… Verona è una realtà ricca dove, al di là di alcuni circoli ristretti, chiusi, ci sono molte iniziative pulsanti; è una città che ha una vivacità intellettuale molto alta, che esprime una cultura di base notevole. Prendo a esempio gli incontri sulla scienza dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere, il cui grande successo, con il tutto esaurito al teatro Ristori, è inaspettato quanto significativo. Com’è il rapporto con il suo partito? Io sono molto contento di appartenere alla Lega Nord perché è il partito che, in maniera molto seria e documentata, sta conducendo una battaglia sul federalismo per riuscire a promuovere le autonomie
locali in modo che queste ultime diventino delle forme di governo efficienti, responsabili, con un rapporto diretto col cittadino. Questo è il futuro. Se vogliamo costruire un federalismo a geometria variabile, dobbiamo riuscire a individuare i costi standard ed eliminare gli sprechi. Direi che la Lega sta sostenendo in maniera coerente questo progetto. Poi, al di là di quelle che possono essere le ideologie, credo che alla fine la cosa più importante nella vita privata, lavorativa e pubblica, sia rimanere sempre fedeli a se stessi, al proprio credo interiore.
Rosario Russo Presidente Commissione Cultura Consigliere incaricato ai rapporti con le associazioni religiose Comune di Verona rosario_russo@consiglio.comune.verona.it
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Ist it uzioni e Associazioni
Indovinelli veronesi
“S
e pareba boues /alba pratalia araba /et albo uersorio teneba / et negro semen seminaba”.
I celebri versi dell’Indovinello veronese, considerato la più antica frase della lingua italiana, sono stati vergati a margine di un foglio all’interno del Codice LXXXIX. L’importante manoscritto, assieme ad altri più antichi e preziosi, è conservato in quella che è stata definita la “regina delle collezioni Ecclesiastiche”. Stiamo parlando della Biblioteca Capitolare di Verona, la cui fondazione, risalente al V secolo, la rende la più antica biblioteca esistente nell’ambito della cultura latina. A guidare questo fiore all’occhiello della cultura veronese, conosciuta in tutto il mondo, è stato nominato Monsignor Bru-
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no Fasani, uomo di fede e grande comunicatore. Partiamo dall’inizio, dalla storia di Don Bruno prima che fosse Don… Sono nato in una contrada che si chiamava La Rocca, a otto chilometri da Erbezzo, ultimo di cinque figli di una famiglia di contadini. Mio nonno paterno era l’unico maestro della zona e la nostra casa era per metà adibita a scuola. Grazie a questa circostanza mio padre ha avuto modo di assaporare il valore della cultura e si è tolto il pane di bocca per farci studiare. Il mio percorso di studi è stato regolare fino all’incontro con i testi biblici, dal quale è maturata l’idea di entrare in seminario. Prima di fare una scelta decisiva, ho fatto il servizio militare, quindici mesi con gli
Mons. Bruno Fasani
Biblioteca Capit olare di Verona
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Alpini, cinque mesi nella scuola militare di Aosta, e dieci nel Comando di reggimento a Merano. Il 19 ottobre del 1969 ho finito il servizio militare, il 27 ottobre ero già in seminario. Ho fatto cinque anni di teologia, poi l’esperienza in alcune parrocchie molto popolose a contatto con i giovani e col mondo della famiglia. Verso l’inizio degli anni Ottanta ho cominciato invece la collaborazione con Verona fedele di cui sono diventato prima Vicedirettore e poi, dal ’93, Direttore. La carriera giornalistica era nei suoi pensieri di ragazzo? Ricordo che allora non pensavo all’attività giornalistica come ad un lavoro per il quale spendere una vita. Se non fossi diventato prete sarei emigrato in Inghilterra; questo paese evocava in me una grande idea di libertà e, quando inconsciamente progettavo il mio futuro, lo pensavo lontano dagli orizzonti ristretti delle mie origini. Poi sono stato incanalato dalla grazia di Dio a fare delle scelte diverse, delle quali non finirò mai di ringraziare il Signore, perché credo che tutte le gratificazioni che ho avuto dalla vita siano state dettate dalla scelta di fare il prete. Secondo lei, esiste un destino? Ogni padre e ogni madre hanno un sogno per il proprio figlio, che non è mai un sogno piccolo. Credo che tutti noi veniamo al mondo con un sogno di Dio nei nostri confronti. Poi subentra la nostra libertà, di fare il bene e di fare il male, di dire di sì oppure di no; io penso che ci sia comunque un disegno superiore, una chiamata al bene che sta alla base della nostra vita e che sta a noi riconoscere e proteggere. Lei ha vissuto varie stagioni del rapporto tra l’uomo e la religione: come potrebbe descrivere i
cambiamenti che ci sono stati? La fatica più grande della Chiesa in questo momento è passare da un Cristianesimo della dottrina ad un Cristianesimo “vissuto”, ancorato di più all’attualità e alla società. Trovo che ci sia una stanchezza comunicativa o forse una percezione inadeguata di quello che sarebbe necessario comunicare oggi. Detto questo, credo che avesse ragione Giovanni Paolo II quando diceva che tutti i tempi di transizione, come i cambi di stagione, sono un’occasione buona per seminare, perché è lì che si prepara la stagione che viene dopo. L’ottimismo, in questi anni, nasce da due ragioni: sapere che seminiamo oggi per raccogliere domani, e sapere che Dio non abbandona mai la sua Chiesa, nonostante momenti di grande difficoltà. E il rapporto tra i giovani e la reli-
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gione, come è cambiato? Il rapporto col mondo giovanile ha moltissime sfaccettature. Da un punto di vista teologico stiamo assistendo a uno sfilacciamento del credo cristiano, contaminato da false verità che hanno messo in secondo piano i pilastri della verità di fede. Un secondo problema è legato alla cultura digitale, al web 2.0 che ci ha trasformati tutti in produttori e consumatori. Anche il sacro è entrato nel web e in questo contesto la ricerca di Dio avviene in un supermercato ideologico. Si promuove una visione del divino tutta personale, perdendo l’idea di un Dio oggettivo. Spariscono perciò le componenti della Chiesa, dei sacramenti, dell’autorità. La Chiesa ha superato momenti di grande difficoltà. Secondo lei supererà anche questa fase critica? Purtroppo, i giovani che frequentano oggi la Chiesa in Occidente sono il nove percento. Stando a questi numeri, il futuro della Chiesa non è rassicurante, ma è anche vero che la Bibbia ci ricorda sempre che il piccolo gregge ha salvato il popolo di Israele. A questo aggiungerei un altro elemento di stima: oggi le chiese sono sempre più vuote, ma in compenso si stanno ripopolando di silenzio, di pensiero, di meditazione della parola. È caduto l’aspetto scenografico, e qualche volta pittoresco, folkloristico, ma probabilmente è cresciuto il tempo dell’ascolto e della profondità di chi partecipa. La sfida di questi tempi non è soltanto nella Chiesa, è una sfida della famiglia, che è un bene della natura. Il vero rischio che corre la famiglia è il predominio di
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una cultura anti-natura o che prescinde dalla natura. Secondo lei, che cos’è il male? Come si manifesta? La Bibbia, quando parla del male, parla di “diaballein”, che in greco significa “ciò che divide, ciò che frantuma”: il male è quindi ciò che rompe l’armonia. Il male è lì dove l’uomo, anziché diventare grande, migliore, si frantuma come un oggetto di valore che cade a terra e si rompe. Nella società, il male è laddove non si è più capaci di condividere valori comuni, universali. E per quanto riguarda il bene? Ci sono punti di contatto anche con altre religioni su cosa sia il bene? Il bene è qualcosa di sovralocale, sovraculturale, non conosce lingue, non conosce latitudini, il bene è ciò che promuove la persona umana; il bene è Dio, uno che mette ordine al di sopra, che ci ama. Credo che il bene si trovi in tutte le religioni, sono gli uomini che contaminano le religioni introducendo elementi di non autenticità. Qual è secondo lei, oggi, il ruolo del giornalismo cattolico? Trovo che il giornalismo di oggi, in generale, abbia perso un po’ di eleganza e anche di responsabilità sociale, prestandosi
Mons. Bruno Fasani
olare di Verona Biblioteca Capit
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talvolta a diventare fazioso in logiche di potere più che di informazione. In questo senso credo che il mondo cattolico possa dare un contributo positivo, testimoniando una coerenza morale che a un cristiano è richiesta come prima qualità professionale. Sarebbe bene che i giornalisti si interrogassero profondamente sul senso della verità, della bontà e della bellezza, come ci ha ricordato Papa Francesco. Arriviamo adesso al suo approdo alla Biblioteca Capitolare… Il mio arrivo alla Biblioteca Capitolare è giunto, abbastanza inaspettato, quando Padre Roberto Flavio Carraro, il vescovo precedente, mi ha proposto di diventare canonico della cattedrale. I canonici sono titolari giuridici della Biblioteca Capitolare, e sono chiamati ogni cinque anni ad eleggerne il Direttore. E così, due anni e mezzo fa mi sono trovato inaspettatamente catapultato dal ruolo di giornalista a quello di prefetto della Capitolare. Io non sono un accademico, e questo va contro l’idea che a capo di una Biblioteca ci debba essere un intellettuale. Credo però che la grande fatica per il Direttore di una biblioteca, in questo momento storico, sia sicuramente quella di far ricerca, prima di tutto la ricerca di risorse, affinché una realtà come questa, che sopravvive da milleseicento anni, possa continuare a esistere. Come è stato il suo approccio all’istituzione? Conoscevo storicamente la grande rilevanza culturale della Biblioteca, frequentata da studiosi di tutto il mondo. La vera ricchezza che ho incontrato qui è stata la riconciliazione con la bellezza della storia, attraverso la lettura di testi preziosi. Quando avvicino i ragazzi che vengono qui, cerco di trasmettere loro questa bellezza della storia, difficilmente recupe-
rabile nella cultura digitale, che è invece una cultura senza memoria, analitica e sintetica, incapace di abbracciare la profondità degli eventi. Abbiamo parlato della storia e quindi del passato. Ma per il futuro cosa si aspetta? La mia aspirazione sarebbe quella di non avere più nessun incarico. Il massimo per me sarebbe prendere in mano il pennello e le tele e dedicarmi a quello che è sempre stato un sogno: la pittura. So bene però che rimarrà un sogno. Adesso sto portando avanti la direzione del giornale nazionale de l’Alpino, che mi assorbe notevoli energie; è una grande testata non solo per i numeri, quattrocentomila copie mensili, ma anche per i valori che porta avanti, i valori della protezione civile, della solidarietà. Al di là di tutti i possibili sogni, la cosa che spero di conservare è l’entusiasmo nel lavoro che mi accompagna da una vita.
Mons. Bruno Fasani Biblioteca Capitolare di Verona Piazza Duomo, 13 - 37121 Verona Telefono e fax 045 596516 bibliotecacapitolare@virgilio.it
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Largo ai giovani
lessandro Torluccio, responsabile della sezione giovani di Confesercenti, organizza uno dei fiori all’occhiello tra le manifestazioni veronesi, “Le piazze dei Sapori”. A quando risale l’inizio del suo impegno in Confesercenti? Ho iniziato nel 1997 per seguire il settore della formazione e la parte legata al settore della sicurezza alimentare; in quell’anno era da poco entrata in vigore la normativa HACCP, di conseguenza il mio compito è stato, in primo luogo, quello di studiare tutto il procedimento relativo all’igiene alimentare, in modo da poter
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assistere i nostri ristoratori e produttori nel risolvere le numerose questioni burocratiche scaturite da questa normativa. Come è proseguita poi la sua carriera? Dal settore formazione sono passato al settore servizi. Tra le diverse attività ho seguito anche dei progetti europei per la promozione dei prodotti alimentari, impegno che è sfociato, in seguito, nella creazione di eventi legati all’agro-alimentare. Pur continuando a seguire questo settore, sono stato poi trasferito alla funzione Rapporti istituzionali, in cui tuttora sono impegnato. Mi occupo dunque di seguire
Alessandro Torluccio
Confesercent i
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i rapporti con il Comune, la Provincia, la Camera di Commercio, gli enti locali. In questo contesto nasce il mio primo progetto, “Le Piazze dei Sapori”. Da quattro anni poi, sono entrato in giunta Confesercenti Verona, come responsabile del settore giovani. Quali sono gli eventi che organizzate? Come Confesercenti, la nostra manifestazione più importante è “Le Piazze dei Sapori”, nata nel 2002, una mostra enogastronomica dei prodotti italiani che, dall’anno scorso, si è aperta al confronto con i prodotti europei. Oltre alla mostra mercato in Piazza Bra, che coinvolge un centinaio fra realtà pubbliche, consorzi e imprese private, c’è una serie di eventi correlati, come ad esempio l’ambito premio “Guardiano del Gusto”, il riconoscimento destinato all’azienda che più ha saputo mantenere vive le tradizioni culturali-gastronomiche del territorio, attraverso i propri prodotti. C’è un progetto dedicato alle scuole, il “Teatro Ghiotto”, che prevede un incontro tra studenti ed esperti nutrizionisti in piazza Bra, allo scopo di educare i ragazzi a una corretta alimentazione attraverso giochi e laboratori. In che periodo dell’anno si svolge? Il periodo è sempre tra l’ultima settimana di aprile e la prima di maggio. Si sviluppa in quattro giornate, dal giovedì alla domenica, suddivise in diversi eventi. Quest’anno ci saranno delle novità. Una di queste coinvolgerà i ristoratori del centro storico, che dovranno creare un menù dedicato all’evento, ad un prezzo convenzionato che la gente potrà chiedere al ristorante. Sono in programma anche eventi musicali; due artisti veronesi di importanza nazionale presenteranno i loro nuovi lavori;
saranno presenti sulla scalinata di Palazzo Barbieri, Colore e Giulio Casale che presenterà il suo nuovo cd Dalla parte del torto e farà un tributo a Lucio Dalla. Questa fiera piace sia ai veronesi che ai turisti… Non solo. L’iniziativa ha anche dei patrocini importanti. L’Enit, l’ente nazionale per il turismo italiano che promuove l’Italia all’estero, è nostro partner e ciò significa che questa manifestazione rientra nel calendario degli eventi turistici italiani. Abbiamo poi il sostegno del Ministero per lo Sviluppo economico, della Regione Veneto, della Camera di Commercio e altre associazioni di categoria. Altre iniziative? Un’altra realtà che abbiamo creato da poco è “Chocolate in love”, legata a Verona in love. E poi c’è l’immancabile appuntamento natalizio con i mercatini di Norimberga in Piazza Dante, Cortile Mercato Vecchio e nel Cortile del Tribunale. Vogliamo parlare un po’ della realtà di Confesercenti? Fondata a Roma nel 1971, con il suo primo congresso a Verona nel 1973, la Con-
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fesercenti è una delle principali associazioni delle imprese in Italia. Essa rappresenta 352.666 imprese del commercio, del turismo, dei servizi, dell’artigianato e delle piccole e medie imprese, capaci di dare occupazione ad oltre un milione di persone. Le imprese fanno riferimento alle oltre settanta federazioni di categoria operanti in tutto il territorio nazionale e alle centoventi sedi provinciali, venti regionali e mille sedi comunali, presso cui sono occupati cinquemila addetti che garantiscono qualificati servizi alle imprese. La missione della Confesercenti è quella di rappresentare il mondo delle piccole e medie imprese che, con il loro dinamismo, assicurano crescita economica ed occupazionale in Italia e in Europa. Confesercenti si propone di contribuire alla crescita delle imprese e con esse dell’economia e allo sviluppo della democrazia, attraverso la collaborazione con le istituzioni, con le organizzazioni sociali, economiche, culturali ed umanitarie. Su questi obiettivi, la Confesercenti promuove proposte su cui coinvolge le Istituzioni e le forze sociali italiane ed europee. Fin dagli anni Ottan-
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ta, Confesercenti ha fatto la scelta di rendersi autonoma dalla politica, e questa posizione neutrale le consente di esprimere liberamente il proprio pensiero e le proprie posizioni, non essendo legata a nessuno. Fornisce servizi alle imprese, segue la formazione di chi vuole diventare imprenditore, organizza corsi abilitanti per diverse professioni. Questo sostegno si rivela fondamentale soprattutto per i giovani che hanno un’idea di impresa ma spesso non hanno gli strumenti per realizzarla… Dal prossimo mese faremo partire un progetto: “Start Up: fai nascere la tua impresa”, strutturato in seminari dedicati a fornire degli strumenti tecnici per capire se un’idea può essere spendibile sul mercato. Tra le nostre società di sistema c’è un ente di formazione e una cooperativa di credito di garanzia, che si impegna a garantire il credito alle imprese, facendo da ponte tra l’azienda e la banca.
Alessandro Torluccio
Confesercent i
Ist it uzioni e Associazioni
Stiamo vivendo un momento non facile per le imprese e voi avete il termometro di quello che sta succedendo. Cosa ci può dire in merito? Quindici giorni fa, in una conferenza stampa, abbiamo fornito dei dati nell’ambito di un’iniziativa che si chiama “L’impresa presenta il conto”. Il conto è che nella regione Veneto sono state chiuse ben seimila attività: 1500 imprese di commercio, 819 negozi al dettaglio, 409 attività di turismo e 1310 aziende di servizi. Verona, per fortuna, rispetto alle altre province, è quella meno colpita, ma il saldo è di un gravissimo impatto sociale. Che ricette avete per questa crisi? Tra le proposte, c’è per esempio quella di bloccare la desertificazione del tessuto sociale dei quartieri causata dalla costruzione dei centri commerciali. La Regione Veneto si sta muovendo in questo senso limitando perlomeno le metrature. Verona, in particolare, è la città veneta col maggior numero di centri commerciali. Come vede il suo futuro? Il mio obiettivo è quello di avere un ruolo sempre più decisivo nei rapporti istituzionali e parallelamente incrementare il mio impegno nell’organizzazione degli eventi, cercando di dare sempre il massimo all’associazione e dimostrandomi pronto a rispondere a qualsiasi responsabilità mi possa essere proposta, cosa che non riuscirei a fare se non avessi il sostegno di mia moglie, Silvia, che mi sprona e mi sostiene nei miei progetti. Contemporaneamente sono impegnato anche in un’attività in proprio, nata nel 2008. Di cosa si tratta? È una piccola attività che si occupa da un lato della creazione di siti web e consulenza informatica, dall’altro di consulen-
za nel settore alimentare e della gestione di eventi. Si chiama Avesa Solution: dal momento che Avesa è il paese in cui sono nato, volevo dare un nome legato al mio luogo d’origine. Da che cosa nasce l’interesse per l’informatica? Dal mio percorso formativo che mi ha visto impegnato nello studio da ragioniere, perito commerciale e programmatore informatico. Ho sempre avuto il pallino di creare qualcosa di mio e nel 2008 ho deciso di scommettere su me stesso.
Alessandro Torluccio Confesercenti Verona via Albere, 132 37137 Verona Tel. 045 8624011 - Fax 045 8624088 giovani@confesercentiverona.it
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Arte e dint orni
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Paolo Bacilieri Disegnatore
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Giovanna Scardoni Attrice
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Nicola Guerini Direttore d’orchestra
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Emanuela Mattioli Vicepresidente Assoc. Scuola d’Istrumenti ad Arco “Antonio Salieri”
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Matteo Padovani Vicepresidente Associazione Suonatori di Campane a Sistema Veronese 40
Veronica Marchi Cantautrice Prot agonist s in Verona
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Arte e dint orni Sweet Bacilieri
I
nnovative e originali, le nuvole parlanti di Paolo Bacilieri si stanno guadagnando una meritata fama internazionale. Abbiamo incontrato il disegnatore, originario di Molina, durante la preparazione di una mostra dedicata a Sweet Salgari, la sua biografia disegnata di Emilio Salgari, tenutasi nelle sale della Sovrintendenza alle Belle Arti di Verona. Parliamo un po’ della sua storia... Sono nato a Verona e cresciuto a Molina, un paesino piccolissimo, ma stupendo, che mi porto nel cuore e dove torno appena posso. La mia non è affatto una famiglia di artisti, ma i miei fratelli più grandi amavano scribacchiare e dipingere. Negli anni Settanta, in Italia, avevamo la fortuna di poter leggere fumetti bellissimi:
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Topolino, Tex, Zagor, Il Corriere dei Piccoli, Il Giornalino, Alan Ford, Diabolik. Gli autori erano strepitosi, a cominciare da Hugo Pratt, Dino Battaglia, Grazia Nidasio, e tanti altri che erano autori di fumetti esclusivamente per ragazzi, non di graphic novel d’élite. L’offerta era ricchissima, anche per un ragazzino di provincia. Da ragazzo, sognava già di divenire fumettista? Il passaggio dal leggere al disegnare è stato immediato: ricordo che mio padre, che lavorava in banca, tornava a casa con pacchi di carta da ciclostile che divenivano il mio patrimonio, su cui potevo sfogarmi senza preoccuparmi di rovinare i fogli. Li riempivo di disegni a biro e a matita; disegnavo tutto, dal cane Bric che stava in
Paolo Bacilieri
Sweet Salgari
Arte e dint orni
cortile, a mia nonna, a Tex, e più tardi, a metà degli anni Settanta, i supereroi americani, copiati da fumetti incredibilmente colorati. Già sapevo che disegnare era ciò che volevo fare nella mia vita, era una delle poche idee chiare che avevo! I primi fumetti li ho creati da piccolo, a scuola: si trattava di avventure di genere poliziesco, che facevo girare in classe. La scelta della scuola è stata poi influenzata da questo? Iniziai il Liceo Classico, poi, per inseguire il mio sogno, insistetti perché i miei genitori mi mandassero al Liceo Artistico, che allora non godeva di ottima fama: erano perplessi, ma accettarono. I miei insegnanti mi stimolarono molto, e approfondii lo studio legato al disegno. Destino volle che, a quell’epoca, un vicino di casa dei miei nonni paterni a Sant’Ambrogio, rispondesse al nome di Milo Manara. Conoscevo e amavo le sue storie, e feci quello che fanno molti fumettisti: presi la mia cartella dei disegni e gli mostrai il mio lavoro. Manara mi arruolò e mi insegnò moltissimo. A diciassette anni mi portò con sé al Lucca Comics, dove potei incontrare tutti i miei idoli. Proseguii con l’Accademia di Belle Arti, prima a Verona e poi a Bologna, dove ottenni il diploma; nel frattempo già pubblicavo fumetti. Quale è stato il suo esordio? Il mio primo fumetto lo pubblicai a quindici anni su Il Piccolo Missionario; all’epoca ero un “clone non autorizzato” di Sergio Toppi, mi ispiravo costantemente ed ossessivamente a lui. Andai così dal direttore dell’epoca con i miei disegni, e gli mostrai un breve fumetto intitolato Fortunato, storia poetica semidilettantesca e didascalica (nel senso che non c’erano balloons ma solo didascalie) di un vecchio montanaro. Questo esordio, più che per
me, timido ma già sicuro, fu importante per i miei genitori che, preoccupati per il mio fumoso futuro di fumettista, finalmente vedevano un riscontro concreto. In seguito, quali sono state le tappe salienti della sua carriera? Negli anni Ottanta ancora c’erano le riviste di fumetti! Nel 1987 uscì, nell’edizione francese della rivista Corto Maltese, su cui pubblicavano grandi autori come Hugo Pratt e lo stesso Manara, una mia storia scritta da Franco “Steve” Mescola, un gigante veneziano, maestro di Tai-Chi, intitolata Le tresor des Imbalas. Nel 1989, sulla prestigiosa rivista A suivre, pubblicai invece un fumetto tutto mio, testo e disegni: Barokko. Mario Barokko era uno spiantato detective privato, protagonista di storie noir ambientate in una riconoscibile e malinconica provincia lombardoveneta. Lo considero il mio vero esordio,
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tavole diverse dalle precedenti, ma anche dalle successive. Come si svolge la sua professione, oggi? Come si sta evolvendo? Nonostante il momento di crisi sono fortunato, ci sono lettori che leggono i miei fumetti ed editori che mi pagano, permettendomi di vivere di questo “strano lavoro”. Il fumetto come linguaggio, paradossalmente, non è mai stato tanto vivo, variegato e consapevole come lo è ora, ed è in continua trasformazione. Stiamo lentamente passando dalla vecchia carta a nuovi e misteriosi supporti digitali che stanno cambiando il nostro modo di creare, pubblicare, vendere, comprare, leggere fumetti. Sono convinto però che questo ex “moccioso in braghe corte”, il fumetto, sia ora più che mai un linguaggio realmente universale, con il quale si può raccontare qualunque genere di storia. Può
anche graficamente: misi da parte la linea chiara, pulita, che avevo usato fino ad allora, e cominciai a sporcare le tavole con molti segni ed ombre. Iniziai a lavorare anche sulle ambientazioni, andando a cercare, con blocco e macchina fotografica alla mano, i luoghi delle mie storie, che volevo riconoscibili, “reali”: cosa che continuo a fare tuttora, sia quando si tratta di Milano, dove vivo, sia quando si tratta de L’Havana, come è successo tre anni fa per il libro Adiòs muchachos. Un altro lavoro a cui sono molto legato è una storia lunga e autoconclusiva, ambientata a Venezia, dal titolo Durasagra. Per disegnarla mi trasferii per un periodo nella città lagunare, affondando in una sorta di “trip rinascimental/manieristico” che rese queste
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Paolo Bacilieri
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sembrare ovvio che sia così, ma in passato non lo è stato per molti, molti anni. Sweet Salgari: cosa ha significato per lei questa creazione? Un progetto importantissimo, per me.
L’idea risale a più di dieci anni fa; ne parlavo ogni tanto con Claudio Gallo, uno studioso salgariano che mi ha aiutato molto nel raccogliere la documentazione che mi ha permesso di ampliare, approfondire il canovaccio iniziale. Naturalmente nel frattempo, ho fatto altro: sapevo che per raccontare con efficacia la storia di Emilio avrei dovuto avere un controllo della situazione da autore maturo. La cosa curiosa è che all’epoca non erano diffuse le biografie a fumetti, mentre poco dopo sono diventate abbastanza comuni, in Italia e all’estero. A cosa sta lavorando in questo periodo? Sto lavorando su La scuola nera, una storia scritta da Mauro Boselli, del suo personaggio “Dampyr”, che dovrebbe uscire in autunno; in Francia è appena uscito Sweet Salgari, con un titolo diverso, La vie revée du Capitain Salgari, e ne sto curando anche l’edizione spagnola che dovrebbe vedere la luce in estate. Sto preparando infine un libro a fumetti che raccoglie le storie brevi create in questi anni. A fare da cornice al tutto, una storia suggeritami da Stefano Bartezzaghi, che tratta della nascita e dell’evoluzione del cruciverba, il cui titolo sarà Fun. L’editore sarà molto probabilmente Coconino/ Fandango, lo stesso di Sweet Salgari.
Paolo Bacilieri http://sweetsalgari.blogspot.it/
Sweet Salgari
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Photo by © Andrea Messana/inoutput
Sole in ariete, luna in bilancia
L
e caratteristiche astrali, ambito nel quale la nostra protagonista è un’esperta, tratteggiano uno spirito inquieto, sensibile, votato alla bellezza, eclettico, capace di armonizzare gli estremi. E vent’anni sui palcoscenici di mezza Europa, a interpretare singolari personaggi femminili, da Maria Callas a Ildegarda di Bingen a Clara Schumann, stanno a testimoniare la sua straordinaria capacità di leggere e restituire l’animo umano. Stiamo parlando di Giovanna
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Scardoni, attrice, drammaturga, cantante e librettista d’opera veronese; la incontriamo per farci raccontare la storia della sua grande passione per il teatro. Ci può raccontare qualcosa di sé? Sono cresciuta in città, vicino alla scuola materna Fontana del Ferro, teatro delle mie libere scorribande infantili. Sono stati anni di grande felicità, interrotti quando, prima di iniziare la scuola media, i miei genitori, entrambi insegnanti, si sono trasferiti a Poiano. Risale a quel pe-
Giovanna Scardoni
Photo by © Daniele Mendini
Att rice
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riodo la partecipazione al mio primo spettacolo teatrale: a tredici anni ho recitato la scena iniziale dei Rusteghi di Goldoni alle scuole medie G.Verdi e mi sono divertita tantissimo. Quindi la sua passione per il teatro è nata in età precoce? A dire la verità, dopo la prima esperienza sul palco non ho avuto il coraggio di entrare subito nell’ambiente, dato che durante l’adolescenza è prevalso il mio lato più timido, introverso, e il teatro mi avrebbe costretta a un’esposizione eccessiva. La passione è esplosa più tardi, e l’ho sentita chiaramente come una chiamata irresistibile. Fattori scatenanti sono stati la visione dell’opera teatrale e la lettura di alcuni libri del regista inglese Peter Brook. Brook fondò il suo centro di ricerca teatrale a Parigi; nei suoi spettacoli confluivano semplicità, rigore e indagine sui rapporti tra le diverse culture. Per me, da sempre appassionata di umanità e antropologia, questo regista è diventato una guida che mi ha ispirata e sostenuta ad intraprendere la carriera di attrice. Così ho fatto un’audizione per la Scuola di Teatro di Bologna, e sono entrata con una borsa di studio. La sua attività l’ha portata in molte direzioni diverse... Esattamente. Ho sempre sentito la necessità di imparare, di disporre di diversi metodi, di entrare in contatto e lavorare con personalità importanti nel mio campo, di affrontare numerose sfide. Ho cominciato privilegiando le maschere, la Commedia dell’Arte, da un lato perché mettono in evidenza il lavoro sull’archetipo, sul tipo umano, dall’altro perché ho sempre amato l’improvvisazione; ho iniziato i miei studi privilegiando l’aspetto
più fisico e performativo della recitazione. In seguito ho approfondito lo studio e il significato della parola, fondamentale per essere un’attrice completa, partecipando al corso di perfezionamento guidato da Luca Ronconi, a cui ho avuto accesso dopo una durissima selezione. Tra le numerose esperienze all’estero, ricordo L’École des Maîtres, corso di perfezionamento anch’esso molto selettivo, al termine del quale lo spettacolo realizzato è stato rappresentato in Belgio, Francia e Russia. Sono anche rimasta a Mosca per qualche mese, un’esperienza unica, perché mi sono trovata veramente immersa nell’ambiente descritto da Tolstoj, Gogol, Dostoevskij, i miei miti letterari. Lei è anche appassionata di canto... Ho sempre amato l’opera, fin da bambina, quando mio padre, baritono, mi portava in Arena per la stagione lirica. Non ho frequentato il conservatorio, ma ho sempre seguito corsi di perfezionamento vocale e
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Photo by © Andrea Messana/inoutput
sono stata spesso scritturata proprio come cantante attrice. Ho fondato un gruppo a Verona, i Matisha; è stato proprio questo repertorio, dedicato alle canzoni degli ebrei spagnoli, che mi ha permesso di superare, nel 2009, le selezioni per lo spettacolo francese l’Européenne al “Napoli Teatro Festival”, in cui interpretavo il ruolo della “chanteuse italienne”; ero la Donna Vulcano, la personificazione del Vesuvio. Divertentissimo. Con questo spettacolo, recitato in cinque lingue, sono stata in tournée tra i più importanti teatri francesi Com’è passata alla scrittura teatrale? Non mi ero mai cimentata nella scrittura, forse perché, conoscendo ormai il teatro con una certa profondità, mi frenava il timore di non essere in grado di farlo. Nel 2001 l’attuale direttrice di “Pergine Spettacolo Aperto”, Cristina Pietrantonio, mi ha commissionato la scrittura di uno spettacolo nel quale dovevo anche recitare: è nato così Callas Album, monologo con cui ho debuttato al Teatro Sociale di Como. L’esperienza è andata benissimo! Ho preso fiducia. Da quel momento si sono
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susseguiti vari progetti, tra cui un monologo intitolato C’era una volta, una sera con fate, streghe e anguane della Lessinia, che ho scritto e recitato per la mia famiglia, di origine cimbra, tradizione a cui sono molto legata. È anche la storia del rapporto di una bambina con la sua nonna, aspetto che desidero sottolineare, perché per me la scrittura rappresenta il modo di coniugare tutto ciò che ho imparato del e dal teatro con l’universo femminile, una dimensione di grande forza, ma anche dolcezza e tenerezza, caratteristiche condivise dal mio popolo montanaro. Mi interessa la donna che “sta”, crea e rispetta la
Giovanna Scardoni
Att rice
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donna. In sostanza credo nella sorellanza femminile, se possibile gioiosa! A questo proposito, molti dei suoi spettacoli parlano delle donne... Ho lavorato a uno spettacolo su Clara Schumann, pianista di successo già prima di diventare moglie del celebre compositore. Dopo la morte di Robert, pur vedova e con otto figli, fu lei a raccogliere e a far conoscere al mondo l’opera del marito, eseguendo al piano in tutta Europa proprio parte del suo repertorio. Una donna di incredibile determinazione e fedeltà. Per la compagnia franco-belga Inoutput, ho poi interpretato lo spettacolo Ni una màs, un lavoro che affronta il tema della violenza sulle donne. La regia è di Nerina Cocchi, una ragazza giovanissima, molto coraggiosa. Con lei sono entrata in punta di piedi per rispettare una condizione che non conoscevo. Ho scoperto un immenso dolore, un mondo di ingiustizie e di silenzio che non riesco ancora a collocare dentro di me senza restare tutte le volte agghiacciata e profondamente arrabbiata. Da tre anni inoltre recito, accanto al coro femminile di musica antica Adiastema, in uno spettacolo che si inserisce nell’ambito del mio interesse per il sacro. Interpreto Ildegarda di Bingen, una donna straordinariamente eclettica vissuta a cavallo dell’anno Mille che, oltre a fondare il proprio ordine monastico, fu poetessa, guaritrice, scrittrice, filosofa e, appunto, compositrice. Quali sono i suoi progetti futuri? Innanzitutto continuerò le attività che divulgherò grazie alla mia associazione Mitmacher, fondata l’anno scorso con il mio
compagno Stefano Scherini. Mitmacher significa fare, creare insieme. Quello che più m’interessa! A proposito di progetti collettivi, sono stata poi contattata per essere una dei quattro librettisti che, assieme a nove compositori, adatteranno il Decamerone di Boccaccio. Si tratta di un progetto molto importante, che però non è ancora fattivo, e del quale mi è stata affidata la direzione artistica non solo per le mie esperienze teatrali, ma anche per la mia conoscenza del francese, visto che si tratta di un progetto italo-francese. Per il resto ho bisogno di dedicarmi a moltissime attività diverse, sono una persona molto irrequieta che per fortuna è costantemente nutrita dalla curiosità. Un’esperienza a cui tengo molto e che senz’altro mi manca è la maternità. Magari in futuro arriverà anche un figlio, chi lo sa?
Giovanna Scardoni giovannascardoni@gmail.com
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Arte e dint orni Il restauro dei suoni
N
icola Guerini non è solo un direttore d’orchestra, professione che lui paragona all’arte del restauro, ma anche un grande divulgatore, impegnato in progetti importanti come il Fondo musicale Peter Maag e il Concorso Internazionale Scaligero Maria Callas. Nicola, ci parli un po’ di lei… Sono veronese, e qui ho iniziato i primi studi musicali. Da piccino, mio nonno, il pittore Aldo Tavella, mi portava a sentire i concerti, le opere in Arena e le commedie al Teatro romano, alle quali mi sono appassionato tantissimo. Ricordo che, a cinque anni, ritagliavo la carta per riprodurre le scenografie delle opere a cui avevo assistito, e rimanevo incantato durante i concerti nell’osservare il direttore: un mago carismatico che, muovendo le mani, coordinava i suoni di quel magico strumento che è l’orchestra. Poi, ho vissuto a
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stretto contatto con la pittura, frequentando l’atelier del nonno e assistendo alle sue lezioni in Accademia. Che cosa ha rappresentato suo nonno per lei? Mio nonno è stato il mio mentore. I suoi insegnamenti, uniti alla sua capacità di ascoltare, mi hanno trasmesso quella pulsione di ricerca continua che è fondamentale per chi vive nel mondo dell’arte. “L’uomo crea i limiti mentre l’arte li supera”, mi diceva: era una persona modernissima, frequentava i giovani e in Accademia era molto amato. Ricordo il suo sguardo e tengo sempre una sua foto sul pianoforte: ogni giorno il suo sorriso mi regala tutta l’energia che aveva quando gli ero vicino. Qual è stata la sua formazione? Ho studiato pianoforte, organo e composizione organistica, direzione d’orchestra
Nicola Guerini
<
< Con i Berliner Symphoniker M°Nicola Guerini
Arte e dint orni
e Composizione al Conservatorio C.Pollini di Padova e al Conservatorio G.Verdi di Milano perfezionandomi con A. Oses, U.Rotondi, S.Gorli, e F.Donatoni. Sono stato selezionato per il Master Internazionale di direzione d’orchestra, intitolato a Franco Ferrara, sotto l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica, tenuto da Luis Salomon dal 1997 al 1999. In seguito ho frequentato i corsi presso l’Accademia Chigiana con G. Gelmetti e la Scuola di Alto perfezionamento di Fiesole con G. Ferro. Successivamente ho approfondito il repertorio presso l’Accademia Pescarese con Donato Renzetti, che ho seguito in produzioni in Italia e negli Stati Uniti; ho conseguito poi il Master of Arts in Music conducting presso la Musikhochschule a Lugano (Svizzera) con Giorgio Bernasconi e Arturo Tamayo. Ci racconta le soddisfazioni ottenute come direttore? Ho debuttato a ventiquattro anni, in veste di compositore e direttore d’orchestra
Dirett ore d’orchest ra
al Teatro Nuovo di Verona nell’ambito del Festival di Primavera, con l’opera Zàabok, commissionata dalla Fondazione Arena di Verona. Dopo essere stato assistente del direttore d’orchestra austriaco Ralf Weikart nel 199596, ho collaborato con orchestre ed ensemble tra i quali il Divertimento Ensemble, la Mozart Chamber Orchestra, l’Ensemble ‘900 di Lugano, la Targu Mures Philarmonic Orchestra, l’ICARUS Ensemble, la Wurttembergergische Philarmonie Reutlinger, la S. Petersburg State Symphony, la Rousse Philarmonic Orchestra, la Sofia Philarmonie e i Berliner Symphoniker. Nel gennaio 2010 ho diretto presso la sede della Radio Svizzera Italiana, in veste di ospite del festival Novecento e Presente, ho collaborato con l’Accademia del Teatro alla Scala e sono stato invitato dall’Accademia Filarmonica di Verona con la Sofia Philarmonie, per l’inaugurazione del “Settembre dell’Accademia 2010”. Nel novembre dello stesso anno, c’è stato il debutto nella Sala Nazionale di Stato della Sofia Philarmonie con la Sinfonia n. 4 di G. Mahler, mentre risale al 2011 l’esaltante esperienza artistica con i Berliner Symphoniker, con i quali sono venuto anche a Verona, nel ventennale del festival “Il Settembre dell’Accademia 2011”. Prossimamente sarò impegnato in progetti di registrazioni con Orchestra Nazionale della Radio di Sofia. Per lei cosa significa essere un direttore d’orchestra? Ho sempre concepito la direzione d’or-
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Arte e dint orni
Prove a Berlino
chestra come la summa di tutto, il massimo di quello che un musicista deve sapere. Il direttore d’orchestra non è soltanto quello che dirige il traffico musicale, ma è colui che ritrova il respiro che c’è dietro al gesto compositivo. Mahler diceva: “Nella partitura è scritto tutto tranne l’essenziale”. Il lavoro del direttore è simile a quello di un restauratore che deve conoscere perfettamente la sostanza di cui è fatta l’opera, da come si mescola la vernice, al perché un colore deve essere più illuminato di un altro, dalla prassi esecutiva alla ricerca e scoperta del fuoco sacro. Com’è la situazione in termini di pubblico, rispetto a un tempo? In questo periodo storico si sta verificando uno scollamento tra chi fa musica e chi la fruisce. Per questo motivo, per me, è importante l’aspetto della divulgazione. Non bisogna aver paura di prendere per mano il pubblico e spiegargli le dinamiche del linguaggio musicale. Quando un musicista è animato dalla passione e dal rispetto per l’arte, la platea lo sente, e ti segue. Se non c’è questo innamoramento non arriverà mai il pensiero di chi ha scritto l’opera, per quanto l’interprete sia
preparato. Attualmente, in collaborazione con La Feltrinelli e l’Accademia di Alta formazione di Verona, mi sto occupando di rapportare l’arte dei suoni con il teatro, la danza, la pittura, la poesia ecc... Inoltre, quest’anno è nata una bellissima iniziativa promossa dalla Società Letteraria che prevede l’analisi del ciclo integrale delle sinfonia di Mahler, aprendo un dialogo su tutto l’ambiente filosofico e letterario di quell’epoca. Lei è Presidente del Premio Maria Callas. Può parlarci di quest’esperienza? Nel 2012 è stata inaugurata la prima edizione del Concorso Internazionale Scaligero dedicato a Maria Callas, nata artisticamente a Verona nel ‘47. Il concorso è andato molto bene ed è stata un’esperienza impegnativa, ma di grande soddisfazione. Accanto a una giuria di qualità e spessore internazionale, c’era una giuria critica importante, e poi il coinvolgimento del pubblico che ha assegnato il Premio Loggione. Si sono confrontati più di ottanta candidati provenienti Con i Berliner Symphoniker
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Nicola Guerini
Con il M°Donato Renzetti a Chicago
Dirett ore d’orchest ra
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da numerosi paesi, con una risonanza a livello internazionale che ha messo senza dubbio la città sotto i riflettori del mondo della lirica. Un’altra bella iniziativa di cui è direttore artistico, è il Fondo musicale Peter Maag. Di cosa si tratta? Peter Maag è stato un direttore d’orchestra di fama internazionale, morto a Verona nel 2001, dove viveva da qualche tempo. Oltre ad un’attività artistica importante, ha lasciato l’eredità de “La Bottega”, un grande laboratorio lirico per la formazione di cantanti, maestri collaboratori e direttori d’orchestra nel quale venivano svolte tutte le fasi per l’allestimento di un’opera. Nel 2011 ho incontrato Marica Franchi, vedova Maag, ed insieme abbiamo pensato a come raccogliere e custodire i preziosi materiali lasciati dal marito. Oggi posso ufficialmente parlare di Fondo musicale Peter Maag per il quale la stessa mi ha conferito il ruolo di direttore artistico, affidandomi la gestione di tutto il materiale musicale del maestro, partiture, saggi, manoscritti, parti, ma
soprattutto il ripristino del progetto de “La Bottega” che avrà come mentore il maestro Donato Renzetti per la direzione d’orchestra, Elisabetta Brusa per la regia e Richard Barker per i maestri collaboratori e come vocal coach. Nell’organizzazione artistica del Fondo musicale sono già in essere diverse iniziative che metteranno la città di Verona in contatto con importanti collaborazioni internazionali e istituti di alta cultura. Con il patrocinio dell’università La Sapienza di Roma, infatti, verrà curata una serie di incontri e conferenze dal 2013 al 2019 (anno del centenario della nascita) che approfondiranno la figura del grande direttore sotto il profilo non solo musicale, ma anche filosofico e teologico. Per le giornate di studio del Fondo, inoltre, è previsto l’intervento del grande musicologo americano Philip Gossett, che tratterà gli aspetti estetici e stilistici del repertorio di Peter Maag. Qual è la qualità che la caratterizza come artista? La curiosità, la dedizione e la capacità di meravigliarmi sempre delle cose. Mia madre si diverte a raccontarmi questo aneddoto: ero piccolo e non camminavo ancora. Eravamo in montagna ed ero seduto sotto un albero a giocare. Ad un tratto sono stato attirato da un fiore, lontano, e volendolo prendere mi sono alzato iniziando in quel momento a camminare. Ho sempre pensato che questo episodio rappresenti, in qualche modo, la spinta verso la mia ricerca. (ph Sergio Benaglia)
Nicola Guerini www.nicolaguerini.com
Intervista tratta dal volume “Excellence Book - Protagonisti a Verona”, ed. 2013, Delmiglio Editore
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Arte e dint orni Prima la musica e poi le parole
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Associazione Scuola d’Istrumenti ad Arco “Antonio Salieri” di Legnago, nasce nel 1922 e opera dal 1993 in qualità di Associazione con lo scopo di svolgere un’azione di promozione e diffusione musicale nell’ambito del volontariato culturale. È intitolata a uno dei musicisti più rappresentativi dell’Ottocento europeo, una vera e propria eccellenza del nostro territorio. Ne parliamo con Emanuela Mattioli, vicepresidente dell’Accademia.
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Ci racconta qualcosa di lei? Come si è avvicinata a questa istituzione? Sono nata a Legnago, mi sono diplomata in pianoforte al conservatorio Dall’Abaco di Verona e laureata all’Università di Padova in filosofia. In passato ho avuto esperienze come concertista, ho insegnato pianoforte presso l’Accademia e ora insegno in una scuola pubblica. È stato un processo naturale continuare in questo settore.
Emanuela Mattioli
Emanuela Mattioli, vicepresidente
Associazione Scuola d’Ist rument i ad Arco “Ant onio Salieri”
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Da quindici anni sono vicepresidente, mi occupo di organizzazione e coordinamento eventi, e ogni tanto tengo corsi di Estetica e Storia della Musica. Da chi è composta questa associazione? Ci sono una ventina di docenti. Il presidente, l’ingegnere Domenico Ardolino, non è un musicista ma un appassionato che ha dedicato la maggior parte della sua vita a questa forma artistica: ha cinque figli che sono stati tutti nostri allievi, quindi è legato anche affettivamente alla scuola. Tra i docenti abbiamo il Maestro Davide De Togni, che è anche il direttore didattico, e ha conseguito un titolo specifico in Pedagogia Musicale al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano, e il nostro direttore artistico è il Maestro Giammichele Costantin, clavicembalista organista che collabora col Conservatorio di Padova. Quali sono le caratteristiche dell’Accademia?
È nata come scuola di strumenti ad arco, ma negli anni si è gradualmente modificata con l’inserimento di altre discipline. Oggi abbiamo anche un dipartimento di musica moderna, per il quale c’è una forte richiesta. Uno strumento a cui vorremmo ridare vita è la fisarmonica, che è istituzionalizzato da qualche anno e richiama molta gente dalla Russia. Tramite il Concorso internazionale “Giovani musicistiPremio Antonio Salieri” stiamo valorizzando anche l’arpa, che ha un bacino d’utenza molto ampio nell’Europa dell’Est. È bello vedere come i confini si abbattono, la musica del resto permette dialoghi senza barriere. In generale, com’è cambiato, negli anni, l’insegnamento della musica? Oggi ci si sta allargando in molteplici direzioni, anche collegate al sociale e alle neuroscienze: basti pensare a tutto il settore della Musicoterapia e all’importanza che rivestono certe scoperte legate all’insegnamento della musica fin dai priIl direttore didattico Davide Togni
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Arte e dint orni
missimi anni. Io, ai miei tempi, ho ricevuto un tipo di insegnamento anche etico: sono stata educata a non separare l’estetica dall’etica ma ad avere responsabilità nei confronti delle opere a cui mi approcciavo. È un modello di formazione della persona, non solo del musicista. Parliamo della Scuola: proponete un insieme di attività che vanno dalla didattica ai concorsi, agli spettacoli... Esatto. In qualche modo vorremmo essere il corollario di una città che ha dato i natali a un musicista di levatura internazionale, che per un certo periodo ha rappresentato la musica in Europa. Nel 1816 Salieri ricevette una medaglia d’oro al valor civile per i cinquant’anni di servizio alla corte asburgica, un traguardo a cui non molti sono arrivati. Mozart era morto da più di sedici anni, e Salieri era ancora il trait d’union tra Classicismo e Romanticismo; un punto di riferimento, considerando che è stato docente di Beethoven e tantissimi altri musicisti dell’Ottocento. A Salieri avete intitolato anche un concorso, giusto? Sì, il Concorso Internazionale Giovani Musicisti - Premio Antonio Salieri, giun-
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to alla IV edizione. (www. concorsosalieri.com) Ci è sembrato doveroso intitolare a suo nome un Concorso, tanto più che lui è stato maestro di molti musicisti, alcuni dei quali sono stati i protagonisti dell’Ottocento. Poi Salieri si è incrociato con questo grande genio di Salisburgo... Noi tutti abbiamo visto Amadeus e nella nostra mente si è stagliata quest’immagine di Salieri come musicista mediocre. La storia di quel film è basata su una leggenda: ci sono testimonianze molto precise della consapevolezza da parte di Salieri della genialità di Mozart e del rispetto reciproco, di evidenti rapporti che potranno essere stati in alcuni momenti pacifici e in altri burrascosi, come succede ovunque, ma comunque di due personalità diverse: ricordiamo che Salieri è stato principalmente un operista. Sarebbe esiziale per qualsiasi artista un paragone siffatto: si tratta di due artisti che vanno studiati e rispettati in quanto tali. Quando era in vita, Mozart era poco considerato e, mentre le sue opere non venivano rappresentate, quelle di Salieri lo erano, anche perché era molto ben inserito nelle strutture sociali e politi-
Emanuela Mattioli
Associazione Scuola d’Ist rument i ad Arco “Ant onio Salieri”
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che dell’epoca mentre Mozart era un ribelle sperimentalista, contrario al senso dell’autorità. Ritiene che ci sia del lavoro da fare sull’immagine di Salieri? È una figura ancora da scoprire. Quando sono stata, per un anno e mezzo, alla direzione del Teatro Salieri, siamo riusciti a mettere in piedi un lavoro di edizione critica su una delle sue opere sacre, La Passione di Gesù Cristo, un capolavoro assoluto che il Maestro Scimone dei Solisti Veneti ha rappresentato in tutto il mondo. Questo lavoro è stato portato avanti da una musicologa, che ha creato il catalogo tematico delle opere di Salieri, e da un compositore che adesso vive in Friuli, il Maestro Virginio Zoccatelli. Entrambi hanno lavorato sui manoscritti: un’impresa non da poco, perché c’erano quattro diverse trascrizioni e c’era il problema di stabilire quale fosse più attendibile. Un anno e mezzo di lavoro. Stiamo parlando di un’opera del 1776, quando Salieri aveva ventisei anni. E ci sarebbe ancora tanto da fare, ma mancano i finanziamenti. Esiste una casa-museo di Salieri? C’è una targa fuori dall’abitazione in cui è nato, che però è stata distrutta con i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Il portone è stato recuperato ed è stato murato nella facciata posteriore del museo Fioroni. C’era stato un desiderio di creare un Centro Studi che riunisse gli organismi che si occupano della sua musica, con l’obiettivo di portarvi la maggior parte della documentazione perché gli studiosi avessero un punto di riferimento. Quali sono i vostri obiettivi? Oltre a formare dei bravi musicisti, vorremmo creare un buon pubblico, che sappia ascoltare e apprezzare. La struttura
scolastica deve investire nell’educazione di un pubblico consapevole. Che cosa auspica per il futuro? Una maggiore sinergia tra pubblico e privato: imprese e cultura potrebbero formare un binomio possibile e il mecenatismo non è relegato all’epoca rinascimentale, anzi, dovrebbe essere attuale; e poi una collaborazione sempre maggiore con le istituzioni pubbliche come Conservatori e Accademie, quindi la possibilità di creare delle professionalità certificate al massimo livello. Per finire, oltre all’attività didattica che deve rinnovarsi secondo le istanze europee e mondiali, la possibilità di avere un occhio di riguardo nei confronti dei giovanissimi. Credo che dovremmo guardarci intorno, senza il criterio di municipalismo che ci contraddistingue, perché abbiamo il dovere di confrontarci con realtà mondiali che ci stanno sorpassando notevolmente. E il nostro Concorso intende proseguire proprio in questa direzione.
Emanuela Mattioli Associazione Scuola d’Istrumenti ad Arco “Antonio Salieri” manumattioli@gmail.com www.scuolamusicasalieri.com
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Arte e dint orni Per chi suona la campana
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erona è la provincia italiana più ricca di campanari. Lo scopriamo grazie a Matteo Padovani, suonatore e vicepresidente della Scuola Campanaria Verona, organizzazione impegnata a recuperare un’arte tradizionale che ha assunto, proprio nel nostro territorio, forme del tutto particolari. Ci racconti qualcosa di lei... Fin da piccolo ho coltivato una passione per le campane. Mi ritengo un po’ anomalo nel campo perché questo interesse, contrariamente a quanto accaduto a molti miei colleghi, non è stato dettato dall’avere già dei contatti con i campanari tramite la famiglia, ma deriva dall’insegnamento
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che ho ricevuto da mio padre, che, quando ero bambino, mi ha sempre spinto a guadarmi intorno. Allora i campanili mi attiravano per l’architettura, l’arte, l’altezza. Il suono delle campane ha sempre avuto un fascino particolare, perché proveniva da una fonte inaccessibile, di cui però potevo intravedere i meccanismi. Il campanaro, poi, era una figura ancora più misteriosa, perché non si vede, ma si sente quello che produce. Lei com’è diventato suonatore a sua volta? In epoca tardo adolescenziale, proprio frequentando la Cattedrale di Verona, ho conosciuto alcuni campanari, e mi sono
Matteo Padovani
interessato su come e dove fosse possibile imparare a suonare. Allora non esistevano più scuole in centrocittà, ma ce n’era una ad Avesa. Nel corso del tempo, un po’ per caso, un po’ per cosciente ricerca, ho trovato dei colleghi che avevano la stessa passione e abbiamo intrapreso un percorso comune. Nel 1997 abbiamo aperto una nuova Scuola a San Giorgio in Braida, luogo significativo perché proprio qui era nata la tradizione del sistema di suono veronese inteso in senso moderno, e nel giro di qualche anno l’iniziativa ha portato dei buonissimi frutti. Ora la Scuola Campanaria Verona in Santa Anastasia conta una settantina di iscritti provenienti da realtà che prima operavano a livello locale, permettendo un miglior coordinamento tra i diciassette campanili in centro storico e gli altri in periferia. Il nostro gruppo aderisce all’ASCSV, Associazione Suonatori di Campane a Sistema Veronese, fondata trent’anni fa e attualmente guidata da Eles Belfontali, che riunisce un centinaio di gruppi di campanari su scala regionale. Cos’è il sistema di suono veronese? Nel sistema veronese le campane a suono solenne non vengono fatte semplicemente oscillare, ma si fa compiere loro una rotazione di trecentosessanta gradi, permettendo così di trattenerle immobili
Scuola campanaria Verona
con la bocca verso l’alto. Questo consente di generare, per ogni campana, un singolo rintocco conforme alla volontà del suonatore. La successione dei suoni singoli di campane diverse che compiono delle rotazioni, e che possiedono a loro volta diverse note musicali, rende possibile l’esecuzione delle musiche controllando la sequenza dei rintocchi, come con un rudimentale pianoforte. La nascita di tale metodo è stata codificata nel tardo ‘700, e da circa trent’anni abbiamo scoperto che, nonostante le differenze nel montaggio delle campane, esistono numerose somiglianze tra la tecnica veronese e il Change Ringing, il sistema inglese già presente nel ‘600 e tuttora praticato. Queste similitudini sembrano indicare un possibile contatto, nei secoli passati, tra le due scuole, un aspetto che sarebbe interessante approfondire. Qual è il suo ruolo nella salvaguardia di quest’arte?
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Ho un incarico specifico nella gestione delle campane della Cattedrale e sono vicepresidente della Scuola Campanaria Verona. Seguo inoltre un’associazione di campanologia a livello nazionale, questa volta composta da appassionati della ricerca culturale dal punto di vista storico e tecnico-musicale. In questo senso siamo anche in collegamento con realtà estere, alle quali, specialmente in ambito mitteleuropeo, dobbiamo molto per quanto riguarda la formazione. A Verona invece organizziamo attività sia culturali sia, per così dire, “sonore”, volte a mantenere viva una tradizione molto radicata nel territorio, nonostante la sistematica elettrificazione dei campanili avvenuta soprattutto negli anni cinquanta e sessanta. Ad ogni modo quasi il settantacinque percento dei campanili in città e provincia, resta ancora praticabile, grazie anche agli impianti di nuova concezione che consentono ai campanari di suonare. Il patrimonio campanario di Verona è dunque molto ricco. Certamente, ma bisogna tener conto che
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le campane montate sui campanili hanno subìto delle rifusioni perché rotte o incrinate, o sono state progressivamente adeguate a nuove esigenze liturgiche e di evoluzione musicale. Se la tradizione veronese con le campane in scala musicale si è sviluppata soprattutto dalla fine del ‘700, in realtà le campane attuali sono generalmente più recenti. Quelle della Cattedrale, ad esempio, sono del 1931. Le campane medievali, una delle quali risalente al 1081, sono conservate in buon numero al museo di Castelvecchio. Nella torre abbaziale di San Zeno Maggiore, poi, è conservata una campanella, non datata ma presumibilmente risalente al VII o VIII secolo, una delle più antiche fusioni europee in bronzo esistenti, che in futuro sarà oggetto di un nostro studio. Un’altra campana notevole è il famoso Rengo della Torre dei Lamberti, la Campana Civica,
Matteo Padovani
Scuola campanaria Verona
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della metà del ‘500, che tutt’ora è la seconda campana per grandezza del Veneto, superata solamente dalla maggiore della nostra Cattedrale, che però è di quattrocento anni più tarda. Quali sono le capacità richieste a un suonatore di campane? Dal punto di vista della tecnica, si richiedono abilità molto diverse a seconda delle differenti dimensioni delle campane. Per le più grandi, come la maggiore della Cattedrale che pesa quattromilacinquecento chili più altri duemila di contrappeso, e che viene messa in movimento da cinque o sei persone, è necessaria anche una certa prestanza fisica. Inoltre il suonatore non vede le campane, ma agisce su una corda che compie un movimento di saliscendi, quindi deve saperla fermare al momento giusto, e questo richiede grande esperienza. Le campane più piccole invece sono estremamente delicate, necessitano di grande precisione e sensibilità,
perfino a livello di polpastrelli, visto che un minimo errore nel movimento può rovinare un’intera concertazione. Fortunatamente a Verona possiamo anche contare su alcune suonatrici che si trovano molto bene con questo tipo di strumento. Personalmente sono più a mio agio con le campane di grandi dimensioni. Come si prospetta il futuro dell’Associazione? Fortunatamente il nostro gruppo è composto in grande maggioranza di giovani. Io stesso, a quarantadue anni, supero sia la media dell’associazione regionale, che si attesta attorno ai quaranta, sia quella veronese, ben più bassa. Il nostro più giovane collega, figlio d’arte, ha otto anni. Non sappiamo se la sua passione durerà per la vita, però la sua presenza è già un buon auspicio.
Matteo Padovani Scuola Campanaria Verona verona.domglocken@gmail.com www.scuolacampanaria.webnode.it www.campanesistemaveronese.it
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Arte e dint orni Così come mi vedi
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terea, elegante, tenace. É così, come la vedi, Veronica Marchi, raffinata cantautrice veronese, un talento innato, che ha fatto della musica la passione di una vita. Partiamo da Veronica bambina… Sono nata e cresciuta a Verona nel quartiere Saval, per cui vicino alla città, che è sempre stata una zona di partenza. La musica è entrata subito nella sua vita? Sì, mi ricordo, o meglio mi raccontano,
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che quando avevo circa quattro anni ho messo le mani sul pianoforte e ho suonato la canzone Sapore di sale ad orecchio; questo piccolo episodio ha sancito in qualche modo l’inizio della mia carriera musicale. Ho preso parte a tutti i concorsi canori possibili e immaginabili, tra cui lo Zecchino d’oro. Sono cresciuta sul palco. Ho sempre voluto che la musica fosse al primo posto, togliendomi la possibilità di vivere come una bambina “normale”, perché per me cantare era già un lavoro. Ero
Veronica Marchi
Pitt ore
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serissima. I suoi genitori hanno assecondato sin da subito questo suo talento naturale? Si, anche perché i miei hanno sempre avuto passione per la musica. Loro mi vedevano felice, e anche se avessi manifestato entusiasmo per qualsiasi altra cosa, mi avrebbero assecondata comunque. Ha studiato qualche strumento? Ho iniziato a studiare pianoforte a sette anni, seguendo un percorso classico fino ai tredici anni, poi mi sono dedicata al jazz; a dodici anni ho scoperto la chitarra ed è stato subito amore. Ho poi studiato canto per cinque anni con due insegnanti diverse. Attualmente mi divido tra i concerti e l’attività didattica che mi soddisfa molto. Cosa l’ha portata a scrivere? Ascoltava le canzoni alla radio, in televisione? Ero patita della musica. Per arrivare a nove anni a scrivere qualcosa, significa che la musica mi coinvolgeva totalmente. I miei idoli erano i Queen, i Beatles, Jovanotti, Bennato, Venditti, De Gregori, queste sono le prime cose che ho ascoltato, insieme al pop italiano più radiofonico. Per moltissimo tempo il mio modo di scrivere è sempre stato molto istintivo. I primi pezzi che ho scritto non erano articolati; li conservo ancora su cassetta. Quando ha iniziato a fare i primi concerti? I miei primi concerti risalgono a quando avevo quattordici anni, in acustico con due chitarristi, ho poi avuto una band punk rock, per poi ritornare all’acustico; nella fase adolescenziale ho cambiato tantissime forme, in particolare i miei capelli hanno visto tante cose diverse! Nel 2000 ho conosciuto Maddalena, che è diventa-
ta la mia violinista, e nel 2005 è arrivato Andrea Faccioli. Insieme abbiamo girato i locali di Verona e provincia, e successivamente abbiamo cominciato a spostarci in tutta Italia. Prima che uscisse il primo disco siamo riusciti ad arrivare sino a Roma. Mi piace esibirmi nei locali perché ho sempre voluto un contatto diretto con la gente, ho sempre cercato la dimensione più intima grazie alla quale le persone vengono, ti ascoltano, e si portano a casa qualcosa. Che cover facevate? Di tutto. Passavamo dai Queen, a tutti i cantautori, Suzanne Vega, Alanis Morissette, anche quello che passava la radio, per riuscire ad accattivarsi l’attenzione della gente che spesso è pigra e non ha voglia di concentrarsi. Nell’ultimo periodo ho cominciato a esibirmi anche in brani di musica elettronica di artisti come i Depeche Mode, Bjork, rivisitando i pezzi in
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modo nuovo. Quando ha cominciato a cantare le sue canzoni in pubblico? Fosse stato per me, già a quattordici anni, ma i miei chitarristi me lo impedivano perché dicevano che bisognava suonare Vasco o Ligabue. Lottavo tantissimo per riuscire ad affermarmi come cantautrice perché secondo me avevo qualcosa da dire. Così inserivo dei miei pezzi tra una cover e l’altra, senza dire che erano miei, nella speranza che qualcuno si chiedesse: “Ma di chi è quella canzone?”. Cercavo di sfondare un po’ le porte, senza troppo clamore. Quando è uscito il suo primo disco? Il primo disco è uscito nel 2005, è una specie di best of di tutte le canzoni che avevo scritto sino a quel momento. É uscito con un’etichetta indipendente di Milano che poi ha pubblicato anche il secondo. É andato bene, ho vinto tanti premi; è stato un anno bellissimo perché mi sono state offerte tante opportunità. Ho fatto una media di centottanta date in due anni, sempre nei club. Come si intitolano i primi due dischi? Il primo Veronica Marchi mentre il secondo, L’acqua del mare non si può bere. Mi domandavano sempre perché avevo
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scelto questo titolo; a me piaceva perché il secondo disco è stato un concept sui divieti, sulle cose che non si possono fare, sulla libertà, temi che ricorrono spesso nelle canzoni. Pian piano dunque ha cominciato a farsi conoscere… Ho cominciato ad ampliare la mia rete di conoscenze, e parlando di rete per me è stato molto importante essere presente su internet, You Tube, My Space, Facebook: questi canali di comunicazione sono stati fondamentali, oltre al fatto che ho viaggiato tantissimo e ho voluto portare il più possibile in giro la mia musica. Ha sempre scritto canzoni? Non sempre. Nel periodo in cui è uscito il secondo disco lavoravo, quindi il tempo che dedicavo alla musica si era piuttosto ridotto. Per ridare nuova linfa alla mia vena artistica ho deciso di intraprendere l’attività di insegnante, e da lì ho ritrovato la strada che mi legava all’arte. Ho ricominciato a fare concerti, ho ricominciato a scrivere, bene e tanto; ho cercato la musica dentro le parole e da questo ritorno alla scrittura è nato il terzo disco, La guarigione, uscito nel maggio del 2012. Per me è un po’ come se fosse il primo che pubblico perché coerente con quello che faccio dal vivo. Non è mai stato facile rag-
Veronica Marchi
Pitt ore
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giungere una grande celebrità, però in questo periodo le difficoltà sono maggiori. Cosa ne pensa? Secondo me la musica non è in crisi, non lo è mai stata, perché interessa a tutti, il problema è riuscire a coinvolgere il pubblico nel modo giusto. Sono convinta che se si fanno delle cose interessanti, i risultati alla fine arrivano. Basta insistere. So che sarà una strada lunghissima, che ci metterò probabilmente una vita, ma per poter stare bene con me stessa la strada deve essere questa. Tentare il più possibile di fare bella musica senza nessun compromesso. Lei è una persona determinata… Sì. Sin dall’inizio ero seria, serissima, ma non perché mi prenda sul serio, ma perché secondo me, se senti di saper fare bene una cosa, perché farne un’altra? Penso che questa determinazione sia una qualità, anche se a volte rischia di diventare un limite: andando sempre dritti per la stessa strada si rischia di perdere quello che ti sta intorno. Quali sono i temi delle sue canzoni? Scrivo dell’esistenza in generale, della mia e degli altri. La vita, l’amore, il tempo, la libertà, la fantasia, cerco sempre di raccontare una storia. Una cosa che non ho mai fatto e in cui mi piacerebbe cimentarmi è saper immedesimarmi nelle storie altrui. Secondo lei, della musica che ha ascoltato, cosa l’ha influenzata di più?
Non credo di essere stata influenzata, piuttosto sono sempre stata attratta dai grandi artisti e dalla loro capacità di riuscire ad emozionare così tanta gente nello stesso momento. Alla fine di tutto questo lavorare, ciò che mi gratifica di più è l’incontro tra chi canta e chi ascolta, al di là dei dischi. Il suo pubblico come si relaziona con lei? È molto eterogeneo. Ci sono bambini, ma anche persone più mature. Quando arrivano e li vedo cantare per me è una grande soddisfazione. Mi piace perché sono sempre gli stessi che mi seguono sin dal primo disco. Per il futuro cosa ha in serbo? Sono in fase creativa, ho iniziato a scrivere dei racconti, pensieri non più lunghi di una pagina che ho intenzione di musicare.
Veronica Marchi veronica.marchi@libero.it
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Produzioni t ipiche
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Roberto Bonfante Direttore Ente Fiera di Isola della Scala
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Angelo Peretti Responsabile Comunicazione del Consorzio Tutela Bardolino doc
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Antonio Menegotti Azienda Agricola Menegotti
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Fabrizio Stringhetto Tuttafrutta
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Massimo Miozzi Pasticceria Miozzi
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Marcello Vaona Cantina Novaia
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Prot agonist s in Verona
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Eccellenza all’isolana
a una piccola festa di paese a una manifestazione da oltre tre milioni di fatturato: la storia della Fiera del Riso ha del prodigioso. Roberto Bonfante, direttore dell’Ente Fiera di Isola della Scala, ci spiega come sia stato possibile realizzare un progetto così importante, che ha permesso al risotto all’isolana di essere riconosciuto in tutta Italia, mirando ormai a una meritata notorietà ultra nazionale. Può raccontarci qualcosa di sé? Sono nato e cresciuto ad Isola della Scala. E ad Isola della Scala ho cercato e trovato gli affetti, le passioni e il lavoro. La mia strada s’è incrociata presto con la Fiera del Riso: dopo il diploma, nel ’78 sono entrato in Comune. Alla routine dell’ufficio elettorale si è presto aggiunto l’impegno
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per organizzare il carnevale e la sagra del paese. Eventi assai piccoli e per i quali all’epoca disponevamo di fondi piuttosto esigui. Così, tra lavoro e passione, è cominciata la mia avventura con la Fiera del Riso. Può dirci qualcosa di questa manifestazione? La Fiera era nata nel ’67 per festeggiare la fine dell’annata agraria. Quando ho iniziato ad occuparmene, si trattava ancora di una festa paesana, che durava dal venerdì al lunedì e attirava poco più di tremila persone... sempre se non pioveva! Si svolgeva all’aperto, nell’attuale parco Budenheim, dove venivano allestiti due stand, uno di risotto gestito dagli isolani, e uno dove si serviva il vino di cui si occupava il comune di Bardolino. La speciali-
Roberto Bonfante
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tà era naturalmente il risotto all’isolana, condito con maiale e vitello in parti uguali, un piatto tipico della bassa veronese, praticamente sconosciuto altrove. Cos’ha determinato la svolta per questa manifestazione? A partire dal 1993 si è verificato un connubio vincente tra Gabriele Ferron, titolare dell’omonima riseria, allora presidente della Pro Loco, che collaborava con il Comune per la Fiera, e il nuovo assessore, l’attuale vice presidente della Fiera, Stefano Giordani, il quale, pur essendo giovanissimo, aveva già in mente moltissime proposte per promuovere l’evento. Per mettere in pratica queste idee erano naturalmente necessari investimenti elevati da parte del Comune, che Stefano con tenacia è riuscito ad ottenere, facendo crescere la fiera in maniera esponenziale. Attorno al 1999, quando la durata della Fiera è stata portata a dieci giorni, servivamo complessivamente circa centomila risotti, per arrivare ai ventisei giorni e ai quattrocentomila piatti attuali. La crescita è stata senz’altro dovuta anche all’appoggio che tutte le amministrazioni che si sono sus-
seguite hanno dato a questo evento. Qual è l’elemento chiave del successo della Fiera? L’organizzazione dell’intera manifestazione è sempre molto complessa, ma alcuni elementi ormai sono ben rodati poiché le riserie partecipanti sono in gran parte le stesse, e i collaboratori che lavorano con me da diversi anni hanno ben chiari ruoli e compiti. L’idea vincente è stata quella di non tradire l’assunto originale, abbinando all’offerta gastronomica dei risotti anche i secondi, come sarebbe stato naturale pensare, ma di continuare a proporre solo il nostro tipico primo piatto ampliandone le tipologie, e completando il menù con dolci a base di riso. È stato inoltre senza dubbio fondamentale mantenere alta la qualità. Per garantire che il prodotto servito sia sempre eccellente, ad esem-
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pio, abbiamo istituito una commissione giudicatrice che durante la fiera assaggia periodicamente i risotti e attribuisce un voto al piatto. Se la media di una riseria non risulta sufficientemente alta, viene penalizzata. A questo giudizio affianchiamo anche alcune interviste al pubblico, in modo da avere sempre un riscontro costante sulla qualità. Questo ci ha permesso, in alcune occasioni, di intercettare e risolvere problemi dovuti magari alle materie prime non all’altezza dei nostri standard, che per diversi motivi potevano essere sfuggite al controllo dei palati degli abili risottari. La Fiera propone anche diversi concorsi... Il primo concorso gastronomico, “La spiga d’oro”, istituito con la fiera, è stato incaricato di premiare il ristorante del nostro Paese, meritevole di aver preparato il miglior risotto all’isolana. È nato anche grazie al genio e all’amore per il riso di Giorgio Gioco, che è nostro cittadino onorario e ancora oggi è per noi una presenza fondamentale della nostra fiera. Successivamente è stato istituito il “Chicco d’oro”, che coinvolgeva l’intera provincia. Oggi è cresciuto a tal punto da essere diventato internazionale. In seguito è nato quello che è in assoluto il concorso più sentito ad Isola della Scala, “Il Palio delle Contrade”, dove le cinque principali aree del paese si sfidano ai fornelli presentando ciascuna un risotto all’isolana e due risotti con ricette alternative. Il quarto premio vede sfidarsi i ristoratori provenienti dall’area ove si può produrre il riso Nano Vialone Veronese d’Indicazione Geografica Protetta, e ha preso il nome di “Risotto d’oro dell’IGP”. Un concorso a cui teniamo molto è quello riservato ai ragazzi delle scuole alberghiere d’Italia, “Conoscere il riso”. È una ker-
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messe rilevante perché in questo modo facciamo capire ai futuri chef l’importanza di questa varietà di riso per preparare piatti sia popolari che di alta cucina. Ci sono poi due concorsi davvero speciali: “Il risotto del sindaco” e “Un risotto senza barriere per Telethon”. Nel primo si sfidano in cucina i primi cittadini di diversi Comuni, nel secondo invece ai fornelli ci sono cuochi disabili. Ad accomunare questi due eventi è il fine: il ricavato di entrambi va in beneficenza. Ultimo nato infine, ma già di grande successo, è il “Risotto del Sommelier”, in cui un cuoco e un sommelier per ciascuna provincia veneta preparano un risotto e abbinano un vino della loro terra di provenienza. I concorsi hanno di fatto scatenato la fantasia degli chef e dei cuochi non professionisti, facendo di Isola della Scala il più grande “laboratorio” mondiale sui risotti. Inoltre negli ultimi cinque anni abbiamo promosso anche Risitaly, il cui obiettivo è rendere Isola della Scala il centro del riso italiano per tutta la durata della Fiera,
Roberto Bonfante
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permettendo a varie aziende di presentare risotti tipici regionali e ampliando quindi l’offerta di degustazione a disposizione del pubblico. Quali sono i benefici della Fiera per il territorio? Durante il mese della fiera circa settecento persone di Isola della Scala vengono impiegate da associazioni e riserie, oppure come addetti ai servizi quali la pulizia dei tavoli, il parcheggio e altri incarichi. Tutti questi compiti vengono espletati in buona parte da pensionati, disoccupati e studenti, e credo che, soprattutto per questi ultimi, si tratti di un’esperienza molto utile per iniziare a misurarsi con il mondo del lavoro. Più in generale, poi, la Fiera del Riso ha permesso di diffondere il gusto per il nostro prodotto tipico, quindi non solo i ristoranti che offrono il risotto all’isolana lavorano tutto l’anno, ma anche macellerie ed esercizi che vendono il solo condimento trovano riscontro positivo anche oltre il periodo fieristico. L’ambito d’azione della Fiera del Riso, però, non si limita al territorio di Isola della Scala...
Come Ente Fiera, spesso in strettissima collaborazione con il Consorzio per la tutella della nostra IGP del riso, abbiamo ottenuto riconoscimenti molto soddisfacenti: il nostro risotto è arrivato al G8 de L’Aquila e alla cena di Natale al Parlamento Italiano, dove abbiamo fatto un’ottima figura nonostante la prestigiosa location non avesse ovviamente le strutture più comode per la preparazione dei risotti. Nel 2006 abbiamo proposto anche un menù tipico veneto agli ospiti del prestigioso Hotel Francisco XIII a Siviglia, grazie all’interessamento del console onorario italiano. Eravamo presenti a Londra nel periodo delle Olimpiadi e abbiamo partecipato, assieme a Verona Mercato, alla Fruit Logistic di Berlino, la più importante fiera a livello europeo per quanto riguarda frutta e ortofrutta. Infine, l’anno scorso siamo stati all’Oktoberfest per creare contatti e valutare la possibilità di essere presenti a Monaco, in futuro. Ci piacerebbe organizzare una festa simile qui da noi, magari invitando gli stessi tedeschi a partecipare: sarebbe molto stimolante, e abbiamo già alcune aziende interessate. Inoltre, come Ente Fiera, promuoviamo anche altre specialità del territorio, come il bollito con la pearà, che da una quindicina d’anni ha il suo evento dedicato. Le idee per diffondere la conoscenza e l’amore per i nostri prodotti, riso in primis, non ci mancano. I risultati raggiunti ad oggi sono il miglior riconoscimento al lavoro, spesso duro, che ci aspetta ogni giorno. Roberto Bonfante Direttore Ente fiera Isola della Scala per appuntamenti:045 7300089 e-mail: roberto.bonfante@isolafiere.it
Ente fiera Isola della Scala
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Bardolino alla riscossa
ino dalle grandi tradizioni, il Bardolino sta conoscendo da qualche anno una nuova giovinezza grazie all’operato di un Consorzio di tutela che ha saputo valorizzare i suoi indubbi pregi. Il segreto del successo? La sinergia tra gli attori del territorio, nel nome di una qualità ben comunicata. Incontriamo Angelo Peretti, responsabile dell’area Comunicazione e Promozione del Consorzio di tutela del vino Bardolino doc. Per prima cosa, ci parli di lei... Come giornalista, mi occupo di vino dal 1984, sia dal punto di vista della ristorazione che della produzione, collaborando con Slow food, Gambero Rosso, l’Espresso. Mio padre e mia madre sono nati a Bardolino: per me questo vino è importante, ha rappresentato e continua a rappresentare le mie radici, mi scorre nelle
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vene, è il primo vino che ho assaggiato in vita mia, quello che papà e mamma bevevano tutti i giorni. Pur non abitando in paese, coltivo un legame con questa terra, ma non avrei mai pensato di occuparmi di un consorzio di tutela. Com’è arrivato all’incarico attuale? Il Bardolino veniva da un momento di grossa difficoltà, sia di reputazione che di vendita. Il prezzo dell’uva era sottocosto. Cinque anni fa, un gruppo di produttori del Bardolino e lo stesso Consorzio, in particolare dopo l’elezione di Giorgio Tommasi alla presidenza, mi chiesero di interessarmi dell’aspetto comunicativo e del marketing. Per me è stata una sfida: mi occupo, tra l’altro, di pianificazione strategica in ambito bancario e volevo verificare quanto questa esperienza, unita alla conoscenza
Angelo Peretti
Produzioni t ipiche
da sx Angelo Peretti (direttore comunicazione Consorzio tutela vino Bardolino), Vescovo di Verona, Giorgio Tommasi (Presidente Consorzio Tutela vino Bardolino), Andrea Vantini (direttore tecnico Consorzio tutela vino Bardolino).
del vino, potessero essere applicate nel settore della vinificazione in forma innovativa per cercare il rilancio di una denominazione. Come siete partiti? Per prima cosa abbiamo attuato un’indagine di posizionamento della doc, per capire che cosa gli utenti pensassero e cosa chiedessero al Bardolino; poi abbiamo lavorato con i produttori, parlando, discutendo, assaggiando insieme, esaminando quali fossero i caratteri che la denominazione aveva smarrito, isolando i modelli che non corrispondevano al territorio. Cosa avete riscontrato? Il successo della Valpolicella aveva portato a scopiazzare vini che non si possono realizzare sul lago di Garda, pur avendo uve simili. Per questo abbiamo puntato a un ritorno alle origini del Bardolino, più leggero di colore, più speziato, più frut-
Consorzio t utela Bardolino
tato, per un consumo da tavola quotidiana. Abbiamo ridisegnato i vini basandoci sulla tradizione del territorio e, verificato che esisteva un’accoglienza positiva da parte dei consumatori, abbiamo iniziato a fare comunicazione su questi settori di mercato. Risultati? In quattro anni di lavoro il prezzo delle uve è raddoppiato, il prezzo del vino all’ingrosso è più che raddoppiato, le cantine sono state letteralmente svuotate delle giacenze e, in particolare, il Chiaretto è passato da cinque a dieci milioni di bottiglie vendute, diventando il leader assoluto dei rosati in Italia. Tutto questo con il continuo coinvolgimento dei produttori. Il risultato del lavoro collettivo della filiera ci ha portato a far uscire il Bardolino dalla sua crisi d’identità. Oggi il Bardolino e il Chiaretto hanno chiare e
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distinte fisionomie: il primo è il vino rosso delle colline del lago di Garda, e il secondo il vino rosa del lago di Garda. Dal punto di vista della produzione, quali azioni avete messo in campo? L’azione di ricerca dell’identità perduta è stata accompagnata da una forte revisione del disciplinare, sempre nella direzione della tipicità e della tradizione. Con il 2001 il Bardolino era stato “inquinato” da altri uvaggi come il Cabernet Sauvignon, che a quell’epoca imperava in tutto il mondo del vino internazionale, snaturando le caratteristiche tipiche del Bardolino. Il nuovo disciplinare, che è stato proposto all’assemblea dei soci ed è stato accolto molto favorevolmente, vede il potenziamento delle uve autoctone, in particolare la Corvina veronese, che poteva essere usata solo fino al 65%, mentre oggi può arrivare all’80%, e la Rondinella, a scapito di uve che non appartengono alla tradizione. Tutto questo ha consentito una rinascita del Bardolino. Cosa ne pensano i consumatori? Il mercato si sta ri-orientando verso i vini da bere, destinati alla tavola e alla quotidianità, e il Bardolino probabilmente è una delle migliori espressioni esistenti al mondo di questa tipologia. I produttori che hanno creduto in questa iniziativa, realizzando prodotti di altissimo profilo, possono giustamente essere orgogliosi. Oggi la qualità media dei nostri chiaretti può competere sulla produzione mondiale dei vini rosati, così come, tra i vini quotidiani, il Bardolino non ha rivali. Se ne sono accorte anche le guide di settore che un tempo lo snobbavano: tre bicchieri dal
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Gambero Rosso, la qualifica su Slow wine di Slow food, una corona sui Vini buoni d’Italia del Touring club italiano, mentre Decanter, una delle più importanti riviste mondiali sul vino, ha scritto che per comprendere le caratteristiche originarie della collina veronese bisogna assaggiare il Bardolino. Un grande lavoro di squadra... I nostri produttori hanno fatto un grande lavoro, sono tornati a fare vini come i loro nonni, ma in maniera moderna e perfetta. È stato un grosso lavoro fatto insieme, a partire dai vigneti. Qui il ruolo di Andrea Vantini, responsabile dell’area tecnicoamministrativa, è stato fondamentale: tremila ettari di vigneto sono un territorio infinito, da Caprino a Valeggio, da Sommacampagna a Garda. I vigneti sono stati quasi interamente rifatti e Vantini tiene una riunione settimanale con i tecnici delle varie zone per individuare le migliori pratiche da eseguire in loco, riducendo al minimo gli interventi chimici. Abbiamo lavorato in parallelo per la costruzione dell’immagine e dei vini, dalla vigna alla cantina: la base di tutto è la qualità. Tradizione e modernità, quindi? Indubbiamente. Abbiamo dovuto affron-
Angelo Peretti
Ph Thilo Weimar
Consorzio t utela Bardolino
Produzioni t ipiche
tare sfide impegnative, come la battaglia per conservare la specificità dei rosati contro una decisione della Comunità europea che voleva consentire la nascita di questi vini attraverso la semplice miscela di vini rossi e vini bianchi. Grazie alla nostra opera di sensibilizzazione, la norma è stata ritirata e i rosati si sono salvati. Abbiamo fatto anche scelte innovative: siamo stati tra i primi ad andare verso l’uso del tappo a vite di nuova generazione, e del bag-in-box, due strumenti perfetti per vini giovani come i nostri, sia dal punto di vista igienico che per mantenere l’aroma fruttato. Queste scelte innovative sono state accettate in maniera serena dai produttori. La filiera del Bardolino agisce in modo pressoché unitario. Quali mercati prediligono Bardolino e Chiaretto? Piacciono moltissimo agli italiani, soprattutto in Italia settentrionale. Seguono la Germania, anche per il fortissimo legame tra i due popoli, e i Paesi Bassi; poi, incredibilmente, la Francia, che ci sta scoprendo, gli Usa, un mercato interessante ma che deve aprirsi di più, e la Scandinavia che è in forte crescita. E gli spumanti?
La spumantizzazione del Chiaretto esiste da tre decenni, ma fino a cinque anni fa i produttori erano solo un paio. Il consorzio sta pensando a un progetto interessante in questa direzione che potrebbe rappresentare il futuro del Chiaretto, ma i passi vanno affrontati con cautela. Stiamo anche riflettendo su come creare un Bardolino tipico dei tre cru, sul modello della Borgogna, per esaltare le caratteristiche tipiche di ogni zona: ciliegia e pepe della parte sud, lampone e cannella dell’area classica, la fragolina di bosco e chiodo di garofano dell’entroterra. Quindi abbiamo di fronte un futuro “roseo”? I tempi sono oggettivamente difficili: tanti passi sono stati fatti, ora si deve procedere oltre. Dobbiamo recuperare l’agricoltura di qualità, consentendo a chi vive di agricoltura di mantenere la famiglia. Il Garda è già anche troppo urbanizzato, ma non possiamo chiedere ai contadini di mantenere il verde senza che ci sia un ritorno adeguato. Ora le famiglie riescono a vivere, ma hanno difficoltà a programmare il futuro. Tutto il territorio deve capire che il Bardolino è un bene ambientale, e proteggerlo vuol dire salvare il territorio del lago. Il nostro vino, come il nostro olio, sono beni che appartengono a tutti.
Angelo Peretti Consorzio di tutela del vino Bardolino doc Piazza Matteotti, 8 - 37011 Bardolino (VR) Tel. 045 6212567 - Fax 045 7210820 info@winebardolino.it
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Produzioni t ipiche Eleganza per tradizione
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radizione e innovazione. Questo il connubio vincente con cui la famiglia Menegotti produce ed esporta i suoi vini in tutto il mondo da oltre quarant’anni. Andrea, nipote del fondatore, ci svela i segreti di un successo così duraturo e le strategie per affrontare il futuro. Come nasce la vostra azienda? La nostra azienda nasce a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, grazie al nonno Antonio. A quei tempi si produceva soprattutto vino sfuso e si vendeva nel raggio di venti chilometri. Abbiamo cominciato ad im-
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bottigliare nel ’72, quando mio padre e mio zio hanno comprato i terreni che erano di proprietà del Conte Mendini, di cui mio nonno era stato fattore. I vini erano i doc base, Custoza, Bardolino, Bardolino chiaretto. Col tempo poi abbiamo iniziato a diversificare l’offerta con altre tipologie. Non solo vini fermi… Un’importante produzione, nata dalla passione dello zio, è rappresentata dagli spumanti metodo classico: oggi siamo diventati un punto di riferimento, per quantità e qualità, in tutta la provincia di Verona. Arriviamo a circa sessanta-
Andrea Menegotti
Produzioni t ipiche
mila bottiglie l’anno di bollicine, tra le quali spicca il Custoza, con ventiquattro mesi di fermentazione in bottiglia. Un altro spumante che ci ha resi famosi e che produciamo da quasi quarant’anni, è un uvaggio di Chardonnay e Corvina, in particolare una Corvina rossa vinificata in bianca, lavorazione che ci vede pionieri e che usiamo per dare struttura e longevità al vino. In totale la nostra produzione si aggira intorno alle centottantamila bottiglie l’anno con un trentacinque per cento di export; in particolare, siamo presenti in otto stati europei, ma stiamo cominciando a penetrare negli Stati Uniti e nei mercati dell’Est (Russia, Ucraina). Come si sta evolvendo la produzione della cantina? Fra due anni usciremo con un prodotto molto particolare, una Corvina vinificata in bianco cento per cento, Pas dosè, fermentata sessanta mesi in bottiglia. C’è molta attesa per l’uscita di questo prodotto, che è il frutto dell’esperienza nel metodo classico. Tra i vini di nuova concezione, di cui andiamo fieri perché hanno avuto particolare successo, ci sono il Geodoro e due vini rossi, sempre di uvaggio internazionale, un Cabernet-Sauvignon in purezza e un Merlot-Cabernet, taglio
bordolese. Se dovesse definire con un attributo i suoi vini, come li definirebbe? Una caratteristica che accomuna tutti i nostri vini è l’eleganza, la finezza. Bianchi, spumanti, o rossi, devono essere sì corposi, strutturati, molto profumati, ma devono avere come denominatore comune l’eleganza che si ottiene attraverso l’equilibrio tra tutte le componenti del vino, acidità, alcool, tannino (nei rossi), struttura; quando questi elementi sono equilibrati fra loro, il vino diventa armonico e di grande piacevolezza. Lei e suo fratello, quando siete entrati in azienda? Era nei vostri progetti sin da subito farne parte o avevate altri sogni? Io sono entrato in azienda
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Produzioni t ipiche
circa dieci anni fa, dopo aver concluso gli studi in enologia. Mio fratello, di nove anni più grande, è arrivato dieci anni prima. L’idea è stata fin da subito quella di entrare in azienda, col supporto dei genitori che ci hanno aiutati, affidandoci sin dall’inizio grandi responsabilità. Ritengo sia il modo migliore per evolversi professionalmente. Siamo cresciuti molto e abbiamo compiuto delle scelte aziendali orientate alla qua-
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lità senza compromessi. Oggi siamo riconosciuti soprattutto per la costanza qualitativa dei nostri vini. I nostri canali distributivi sono l’alta ristorazione, la gastronomia, l’enoteca, i privati, mentre non serviamo la grande distribuzione, e anche all’estero abbiamo importatori dimensionati alla nostra struttura e che lavorano con vini di alta gamma. Possiamo dire che la sua azienda è un esempio felice di passaggio generazionale? Sì. Abbiamo avuto la fortuna di avere dei genitori che ci hanno lasciato grande libertà, anche di sbagliare; ci hanno messo sulle spalle questo zaino di responsabilità e ci hanno permesso di intraprendere il nostro percorso. Io ho avuto una formazione tecnica durante la quale ho avuto la possibilità di lavorare in aziende fuori regione con delle produzioni di altissima qualità. Tutto ciò mi ha permesso poi di portare “a casa” tecniche ed obbiettivi che per la nostra zona di produzione erano inusuali. Lo stesso vale per mio fratello Antonio, che già dieci anni prima, con lungimiranza, ha voluto puntare anche sui mercati esteri. Il coraggio di sapersi rinnovare vi ha dunque ripagato?
Andrea Menegotti
Azienda Agricola Ant onio Menegott i
Produzioni t ipiche
Sì, devo dire che, visti i risultati, certi investimenti fatti negli anni scorsi e che allora sembravano pazzie, oggi ci stanno ripagando in pieno. Ce lo dimostra il fatto che in un momento di crisi la nostra azienda sta andando più che bene; la nostra forza è rappresentata dal fatto che conquistiamo nuovi clienti, senza perdere quelli vecchi; questo accade perchè è difficile che un cliente che inizia ad acquistare i nostri vini trovi poi delle alternative a parità di rapporto qualità-prezzo. Quando è stato inaugurato lo showroom? Lo showroom è stato inaugurato il 21 novembre del 2011 ed è nato dall’idea di modernizzare l’azienda in un’ottica di visibilità e di immagine. Al giorno d’oggi non basta più fare il vino buono, ma è necessario comunicare la qualità, costruendo un’immagine che sia adeguata al target dei nostri clienti, soprattutto esteri. Lo showroom è dunque una sorta di biglietto da visita dell’azienda, posizionato lungo una provinciale trafficata, data la vicinanza al lago di Garda; questa struttura ci è spesso richiesta da altre ditte per la realizzazione di presentazioni, cene... Da quest’anno sono previste numerose degustazioni con la presenza di giornalisti esperti del settore. Quali sono i progetti per il futuro? Ha qualche sogno nel cassetto? Dopo gli investimenti sul vigneto e sulla struttura aziendale, il prossimo campo d’investimento è quello del commerciale,
con un focus sull’estero; il nostro obiettivo per il prossimo futuro sarà quello di incrementare la nostra presenza nei mercati esteri di qualità, con un occhio di riguardo anche a quelli emergenti. L’Italia è ancora un mercato importante per voi? L’Italia per noi è ancora molto importante perché costituisce ancora un sessanta per cento di fatturato. D’altra parte, oggi è difficile pensare di investire e avere un risultato di crescita nel nostro Paese, almeno per i prossimi anni, in quanto a fronte di grossi investimenti c’è la necessità di crescere, e per poter crescere oggi bisogna orientarsi al di fuori dei confini nazionali. L’Italia, per voi che andate all’estero, è ancora un brand? Sicuramente. I vini italiani stanno crescendo sempre di più. Il vino italiano ha surclassato il vino francese due anni fa. Siamo diventati i primi esportatori in America, abbiamo superato la Francia, anche con le bollicine. E anche i vini fermi hanno una crescita in America dai sette, otto punti percentuali grazie al loro miglior rapporto qualità-prezzo.
Andrea Menegotti Azienda Agricola Menegotti Antonio Loc. Acquaroli 7 37069 Villafranca (VR) Tel. 045 7902611 fax 045 6304506 info@menegotticantina.com
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Produzioni t ipiche I frutti del lavoro
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all’ortofrutta a una produzione d’alta qualità di confetture, cioccolato e spalmabili: una storia trentennale che è soprattutto la storia di una famiglia unita, orientata al lavoro con dedizione e creatività. Incontriamo il capofamiglia, fondatore dell’azienda, per farci raccontare le tappe di questo successo. Dove è nato? Come è iniziata la sua avventura imprenditoriale? Sono nato nel 1957 a Begosso, frazione di Terrazzo (VR). Nella mia vita ho sempre lavorato sin da giovanissimo, come agricoltore, attività che è stata anche di mio padre. Ad un certo punto mi sono stancato di stare alle dipendenze di altri e ho sentito l’esigenza di mettermi in proprio. Così, nonostante i dubbi di mio padre circa la
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mia decisione di abbandonare il lavoro nei campi, all’età di ventisei anni ho comprato la licenza di ortofrutta da un vecchio commerciante, iniziando a creare con le mie mani la mia nuova attività. Sono partito nel 1983 con il commercio all’ingrosso di frutta e verdura e con un negozio al dettaglio a Porto di Legnago, al quale collaborava anche mia moglie. Una vita pur sempre dura, con la sveglia che suonava alle tre e mezza del mattino, ma avevo dalla mia un’urgenza di realizzarmi e una forza d’animo tali, che nessuno avrebbe potuto fermarmi, nemmeno mio padre. La determinazione e l’intraprendenza che la contraddistinguono, si può dire siano un marchio della famiglia Stringhetto?
Fabrizio Stringhetto
Tutt afrutt a
Produzioni t ipiche
La forza e la tenacia che mi accompagnano da sempre, sono eredità di mia madre, una donna straordinaria. Ci ha aiutato molto, insieme a mio padre, quando eravamo all’inizio della nostra avventura imprenditoriale. Oggi, che ha ottantun’anni, non ha perso il vigore di un tempo, e pensi che fino a qualche anno fa veniva a dare una mano nelle fiere! Non dimentico nemmeno il supporto di mio padre, che, dopo le prime titubanze iniziali, è stato ben felice e orgoglioso di vedere il proprio figlio realizzarsi come uomo e imprenditore. Poi come si è evoluto il suo lavoro? Dalla vendita e dal commercio all’ingrosso siamo passati alla produzione. Seguendo le richieste della clientela, sempre più orientata alla comodità d’uso del prodotto, avevo già iniziato a diversificare, producendo la cosiddetta “quarta gamma”, cioè frutta e verdura fresca lavata, asciugata, tagliata e confezionata in vaschette o in sacchetti e quindi pronta per essere messa in tavola. Sempre alla ricerca di nuove soluzioni per la mia attività, nel 2000, ho deciso di acquistare una macchina per fare il pesto alla genovese. Si trattava di un investimento abbastanza importante, intorno ai cinquanta milioni delle vecchie lire. L’apparecchiatura, però, aveva molte altre potenzialità, per cui, anche seguendo i consigli del produttore, mi sono detto: “Perché usare una macchina per un solo prodotto?” Nasce così l’idea di creare confetture.
Che caratteristiche doveva avere il prodotto che aveva in mente? Non volevo produrre una confettura qualsiasi, bensì un articolo d’alta qualità, lontano anni luce da quelli industriali. La clientela ci ha premiato, ampliando sempre di più la domanda. Oggi il nostro marchio “TUTTAFRUTTA” vanta una gamma di trentacinque gusti, dai più classici, ciliegia, albicocca, fragola, fino agli abbinamenti più insoliti, come ananas e arancia, pere e noci, fichi e zenzero. La particolarità di queste confetture è quella di non avere zuccheri aggiunti, al di fuori del fruttosio (estratto dalla frutta), e di essere un prodotto artigianale che lavoriamo sin dalla materia prima. Grazie a questa nuova linea di prodotti, siamo riusciti, nel tempo, a conquistarci una bella fetta di mercato. I vostri clienti dove possono trovare i vostri prodotti? Oltre al negozio in via Lungadige Scrami,
Produzioni t ipiche
a Legnago, dove si trova il nostro laboratorio, i nostri prodotti sono presenti in una trentina di punti vendita di nicchia, selezionati personalmente da noi, perché capaci di valorizzare le nostre creazioni. Da sette, otto anni, inoltre, siamo presenti anche in numerose fiere; in queste occasioni abbiamo la possibilità di incontrare direttamente i nostri clienti affezionati e potenziali, ai quali facciamo assaggiare ben volentieri i nostri prodotti in modo che possano apprezzarne sin da subito la qualità. Nel novanta percento dei casi, alla prova dell’assaggio del nostro cremino o della nostra confettura, segue l’acquisto! All’inizio abbiamo cominciato con le fiere di paese, poi ci siamo spostati negli eventi organizzati nelle grandi città. Oggi partecipiamo alle manifestazioni più importanti del Nord Italia. Inoltre, per chi volesse ricevere comodamente i nostri prodotti a casa, può ordinarli on line sul nostro sito internet. Oltre a questa vasta gamma di confetture, avete diversificato la produzione producendo anche il cioccolato... Abbiamo deciso di avviare una produzione di delizie al cioccolato per diversificare ulteriormente l’offerta di qualità nei punti di vendita in tutta Italia. La nostra confettura, che ha ovviamente un costo diverso da quella che si trova al supermercato, è rivolta ad un target piuttosto alto. Per ri-
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uscire a raggiungerlo è necessario essere presenti in contesti in cui è facile trovare questo tipo di clientela; le fiere ideali, sotto questo punto di vista, sono quelle del cioccolato. Sono nate così le “Le Spalmabili”, undici gusti di creme al cioccolato. Senza contare i cremini, i bon bon e molte altre squisitezze che inevitabilmente catalizzano l’attenzione di chi si trova semplicemente a passare davanti a un nostro stand. La priorità, anche qui, è l’altissima qualità del prodotto, a partire dalla materia prima. La sua è un’attività che coinvolge tutta la famiglia. Come sono divisi i ruoli?
Fabrizio Stringhetto
Tutt afrutt a
Produzioni t ipiche
Mia moglie gestisce principalmente la contabilità, ed immancabile è la sua presenza allo stand nelle fiere. I due figli più grandi lavorano con me in azienda e hanno ruoli ben distinti. Il primogenito, Cristian, si occupa della parte commerciale, e quindi del negozio; essendo un appassionato di vini, oltre alla frutta e alla verdura, ha pensato di inserire nell’offerta anche prodotti enologici di qualità che ci permettono di attirare una clientela piuttosto alta. Il secondogenito, Stefano, è il creativo della famiglia, e si occupa principalmente della produzione. Essendo un perito agrario, all’inizio conosceva ben poco della produzione di confetture o cioccolato, ma grazie all’impegno, allo studio da autodidatta e a qualche consiglio, è diventato un esperto in materia, un vero e proprio maestro del cremino! Lui sperimenta, prova le sue idee, compra i macchinari necessari e io mi fido di lui perché so che alla fine i risultati arrivano. Il terzo figlio, il più piccolo, studia e intanto dà una mano nelle fiere. Le vostre confetture e il vostro cioccolato piacciono tantissimo. Qual è il segreto del vostro successo? La freschezza, la varietà della nostra offerta, e la quantità di prodotto che esponiamo nel banco. L’impatto visivo è molto importante. Molta gente ci conferma di essere arrivata al nostro stand grazie al richiamo del profumo di cioccolato che si espande tutt’intorno al banco. Questo succede perché i nostri prodotti sono freschi e il pubblico li riconosce subito. La gente ama la qualità e la quantità. Cerco di trasmettere sempre ai miei figli la passione per l’alta
qualità e per la costante ricerca della novità. Credo che questi siano i principi ispiratori di tutta il nostro lavoro. Le vostre prelibatezze hanno conquistato anche i palati dei popoli nordici… Sì. Per il momento abbiamo inviato i nostri prodotti ad un rivenditore finlandese che ha in mente la creazione di un sito per formare un rete commerciale da estendersi anche in Svezia e Norvegia. Conta molto la tipologia di fiera a cui decidete di partecipare? Conta moltissimo. È importante che ci sia un unico prodotto a dare il là all’evento. Se all’interno di una fiera del cioccolato cominciano ad esserci anche cibi salati e altra oggettistica, si rischia di snaturare il tema principale della fiera e ne risentono anche gli incassi. Naturalmente è importante anche la posizione che si riesce a ottenere: un buon piazzamento può determinare un incremento del trenta percento sul guadagno finale. Lei è sempre attivissimo. Quali sono i suoi progetti per il futuro? Abbiamo da poco acquistato un terreno dove, per completare la filiera, produrremo la frutta destinata alla produzione delle nostre confetture. Come vede, noi non ci fermiamo mai.
Fabrizio Stringhetto TUTTAFRUTTA via Lungadige Scrami 4- 37045 Legnago (VR) Tel. 0442 20833 - Fax 0442 626273 frutta@tuttafrutta.it www.tuttafrutta.it
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Produzioni t ipiche Dolce Verona
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erona, città dell’amore, potrebbe essere definita anche città della dolcezza. Accanto alla nota tradizione di dessert da forno, dedicati soprattutto alle festività, non manca una vasta offerta di torte, paste e pasticcini, prodotti da abili artigiani. Tra tante specialità, ce n’è una che, pur di recente invenzione, sta guadagnando una meritata notorietà: si tratta della sfogliatina al recioto, opera del pasticcere Massimo Miozzi. Ci parli prima di tutto di lei... Sono originario di Trevenzuolo. Da ragaz-
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zo, forse perché a casa mia tutti cucinavano bene, ho intravisto un mio possibile futuro in ambito gastronomico, per cui mi sono orientato alla scuola alberghiera. Purtroppo, lo studio delle lingue mi è sempre risultato ostico, per cui ho deciso di abbandonare la scuola per frequentare dei corsi dedicati esclusivamente alla pasticceria, in particolare a Brescia. In fondo, la pasticceria è la punta di diamante dell’arte culinaria, e poi io sono sempre stato golosissimo! Mentre studiavo, però, non me ne stavo con le mani in mano, ma cercavo di dar-
Massimo Miozzi
Past icceria Miozzi
Produzioni t ipiche
mi da fare: ho avuto modo di collaborare, seppure in ruoli minori, con un grande nome della pasticceria mantovana, ovvero Antoniazzi. Dopo gli studi? Come si usava a quei tempi, ho prestato il servizio militare e, appena tornato, ho iniziato a cercare lavoro, desideroso com’ero di essere indipendente. Dopo un’esperienza a Isola della Scala e a San Giovanni, mi è giunta voce che la pasticceria Rossini di via Trento cercava aiutanti. Il titolare, Lorenzo Rossini, era in effetti alla ricerca di un collaboratore, dato che il suo braccio destro si era trasferito in Olanda; alla fine ha deciso di darmi fiducia, assumendomi. Ho passato in questa pasticceria tredici anni di vita, apprendendo molto sia sull’arte dolciaria che sulla conduzione di un esercizio commerciale, anche grazie a vari corsi di aggiornamento con illustri maestri pasticceri. Quando ha deciso di mettersi in proprio? Già dopo un decennio avevo maturato l’idea che fosse giunto il momento di mettermi alla prova come imprenditore, in modo da poter intervenire con la mia visione sulla preparazione dei dolci e sulla gestione di un esercizio commerciale. Avevo deciso che era giunto il momento di mettermi in proprio. Comunicata questa volontà a Lorenzo Rossini, quest’ultimo mi consigliò di attendere un paio d’anni, il tempo necessario affinché si organizzasse per lasciare il lavoro. Intendeva cedermi l’attività. Accettai volentieri e, nei tempi previsti, avvenne il passaggio di consegne: finalmente avevo una pasticceria mia!
Com’è andata? Molto bene, direi. All’inizio abbiamo mantenuto, d’accordo col precedente titolare, il nome Rossini. La clientela ci ha seguito e tutto è andato per il meglio. Fin da subito, la mia filosofia è stata quella di puntare al massimo livello qualitativo, a partire dalle materie prime. Vero che, se non si bada
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Ist it uzioni e Associazioni
al risparmio, i margini sono sensibilmente inferiori, ma è altrettanto vero che alla lunga lo sforzo premia. Proprio per questa filosofia produttiva non ci siamo mai impegnati a lavorare per terzi, dato che questo avrebbe comportato la ricerca di un compromesso. Il secondo negozio? Da molto tempo avevo notato uno spazio interessante in via Diaz, ritenendo che sarebbe stato il luogo ideale per una pasticceria. Nei locali si erano succedute parecchie attività, fino alla produzione e vendita di prodotti da forno, che aveva deciso di cedere gli spazi. Dopo una trattativa durata parecchi mesi, alla fine abbiamo raggiunto l’accordo. Abbiamo eseguito parecchi lavori di ristrutturazione per restituire a questi locali l’antico splendore e, fortunatamente,
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gli affari sono andati subito bene. In seguito abbiamo creato un laboratorio con sede a Roncolevà. Quale pasticceria proponete alla clientela? Partiamo dalla pasticceria tradizionale veronese, che è ottima perché è varia, aggiungendo alcuni sprazzi di fantasia e creatività. Capita spesso che ci inventiamo qualche novità; ricordo, a titolo di esempio, che una volta, stimolato dal noto proverbio che recita “Al contadin non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”, mi sono messo in mente di creare un dolce a base di mousse di formaggio e pere caramellate. È stato un successo, anche se, terminata la produzione, non l’ho più proposta. Difficilmente lo faccio: Paganini non ripete! E poi ci sono le sfogliatine al Recioto... Ho creato queste specialità sostituendo il Recioto all’acqua nell’impasto, il che rende le sfogliatine di colore rosato, perfette per essere abbinate al vino dolce della nostra tradizione. Non a caso, queste prelibatezze si sono aggiudicate il primo premio al concorso tenutosi in Valpolicella e oggi sono
Massimo Miozzi
Produzioni t ipiche
destreggiarsi nell’amministrazione, in particolare con la burocrazia e le banche. Una persona creativa come lei avrà senz’altro un sogno nel cassetto... A dire il vero mi stimolerebbe molto la sfida di dar vita ad un punto vendita in un’altra città per confrontarmi con clientela e abitudini diverse da quelle alle quali sono abituato. Addirittura all’estero, perché no? Sono convinto che il “made in Verona” riscuoterebbe un ampio consenso.
molto gradite alla clientela. Cosa consiglierebbe ad un giovane che volesse cimentarsi con il mestiere del pasticcere? Prima di tutto deve comprendere che si tratta di un lavoro duro, dove le ore non si contano, per cui consiglierei agli aspiranti pasticceri di dedicarvisi solo se l’impegno è sorretto dalla passione. Detto questo, occorre rimboccarsi le maniche e scegliere di fare esperienza in un’azienda di qualità dove ci siano maestri disponibili a passare le conoscenze sulla professione, cosa che può richiedere del tempo, perché non ci sono studi che possono sostituire una sana e prolungata gavetta. Ma non è tutto. Al giorno d’oggi ci sono almeno altre due cose importanti se si vuole riuscire: saper dialogare col cliente e saper
Past icceria Miozzi
Massimo Miozzi Pasticcerie Miozzi via A. Diaz, 7/A - Verona - Tel. 045 9275018 via Trento, 9 - Verona - Tel. 045 915312 info@pasticceriamiozzi.it www.pasticceriamiozzi.it
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Produzioni t ipiche L’anima dell’uva
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el cuore dell’alta Valpolicella, in uno degli angoli più suggestivi della collina veronese, querce e cipressi, ciliegi e ulivi proteggono a Novaia i vigneti della famiglia Vaona. Storici produttori delle migliori qualità del Valpolicella, i Vaona sono impegnati nella produzione vitivinicola da oltre un secolo. A raccontarci la storia dell’Azienda è Marcello, pronipote del fondatore. Ci parli di lei... Rappresento la quarta generazione di vignaioli nella tenuta Novaia: ha cominciato
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il mio bisnonno, Paolo, alla fine dell’Ottocento, poi si sono succeduti il mio prozio Renato, mio papà Paolo con mio zio Cesare, e adesso ci sono io. Il nome Novaia, che è quello della corte dove vive la famiglia, nasce nel 1973, quando mio zio e mio padre hanno iniziato a gestire l’azienda, volendo imprimere col nome un segno di cambiamento: dall’era del vino venduto sfuso si iniziava a introdurre l’idea della bottiglia, nell’ottica di investire sulla qualità. La proprietà si è ampliata negli anni?
Marcello Vaona
Azienda Agricola Novaia
Produzioni t ipiche
Una parte dei vigneti è quella che coltivava il bisnonno, un’altra è stata acquistata. Sono dieci ettari in totale, sette coltivati a uva e gli altri a olivi e ciliegi. La proprietà è tutta qui, nella valle di Marano. Come andavano le cose quando suo padre e suo zio iniziarono a innovare la produzione? Un’impennata qualitativa si è avuta, non solo per noi, dopo lo scandalo del metanolo, nell’86: la riscoperta della Valpolicella e dei suoi prodotti parte da qui. Si è iniziato, con una certa soddisfazione, a produrre sempre meglio e sempre di più. All’inizio bisognava confrontarsi con le produzioni di massa che avevano prezzi stracciati, e il consumatore non capiva la differenza tra prodotti di buona e scarsa qualità. Oggi invece è più preparato e informato, apprezza, cerca le piccole aziende e la realtà dei prodotti di nicchia. Quand’è arrivato in azienda? Con i piedi nel vino ci sono nato, e ho sempre dato una mano in azienda. Continuativamente ci sono dal 2005, da quando ho terminato gli studi. Sono enotecnico diplomato a San Michele all’Adige, in Trentino, e laureato in Tecnologie Alimentari a Milano. Diciamo che fin dall’infanzia la mia idea è stata quella di entrare a far parte della realtà di famiglia. Ha introdotto delle novità, al suo arrivo? Sono riuscito a convincere mio padre e mio zio, che lavorano ancora con me, a intraprendere la strada della coltivazione biologica e adesso siamo in fase di conversione. Il rispetto dell’ambiente è una cosa fondamentale che noi perseguivamo anche prima di convertirci al biologico. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo tutto il pacchetto della certificazione. La strada è lunga e ci vuole molta convinzione.
Quali sono i prodotti storici dell’azienda? Abbiamo sempre prodotto Valpolicella, Valpolicella Superiore, Recioto e Amarone, i classici della zona. Abbiamo introdotto il Ripasso e da circa quindici anni dividiamo i vini a seconda del vigneto di origine; attualmente abbiamo tre prodotti che portano sull’etichetta la menzione del vigneto selezionato: il vigneto posizionato più in alto, che tocca i 400 metri di altitudine, ci dà il Valpolicella Superiore I Cantoni, prodotto con un leggero appassimento; l’Amarone Riserva nasce dal vigneto Le Balze, a 300 metri d’altitudine, e il Recioto viene dal vigneto Le Novaie, quello con le pergole più vecchie. Da due anni stiamo producendo
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Produzioni t ipiche
anche un rosato, che però non è ancora sul mercato. Il Recioto è ancora apprezzato come un tempo? Sì, anche se la produzione è stata un po’ surclassata da quella dell’Amarone, il suo “figliolo”. Il Recioto è un vino storico che noi della Valpolicella abbiamo nel sangue. È difficile da fare e da vendere, molte aziende giovani non lo producono più. A noi però dà soddisfazione il prodotto in sé, quindi continuiamo vinificarlo. E per quanto riguarda il nuovo rosato? Ha già il certificato biologico, perché viene prodotto in collaborazione con un amico che produce biologico e ha un vigneto di Corvina e Rondinella a 600 metri di alti-
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tudine. L’idea ci è venuta perché le nostre uve sono molto flessibili, con tre varietà si fanno come minimo cinque vini, ma si è sempre puntato sui vini strutturati, mentre mancava la frontiera del contatto breve con la buccia. Abbiamo pensato a un vino di facile beva d’estate, con una buona acidità e un grado alcolico non troppo elevato. Abbiamo provato e il risultato è stato buono. C’è una tendenza al vino più leggero... Secondo me nel rosato c’è tutta l’anima dell’uva. È una via di mezzo, delicata, ma che comporta una lavorazione difficile e precisa. Ovviamente non tutti la pensano così, c’è stata una battaglia portata avanti da diverse denominazioni, come il Bardolino, ma anche dalla Federazione Italiana dei Vignaioli Indipendenti di cui faccio parte, per contrastare la legge della Comunità Europea che avrebbe previsto il riconoscimento del rosato come miscela ottenuta dall’unione di vini bianchi e rossi. Che cos’è la Federazione Italiana dei Vignaioli Indipendenti? La FIVI è un’associazione nata nel 2008 che tutela i diritti delle aziende agricole.
Marcello Vaona
Produzioni t ipiche
Non vengono accettate le iscrizioni di chi è azienda commerciale. Rappresenta dunque il vignaiolo che produce e imbottiglia il prodotto delle sue uve. È una realtà molto importante che, attualmente, comprende quasi mille aziende iscritte. La FIVI e tutte le altre realtà europee analoghe convogliano nella CEVI, che è l’organo di rappresentanza a livello comunitario. A quale mercato si rivolge l’azienda Novaia? Oltre all’Italia, dove però il mercato è un po’ in crisi, esportiamo all’estero dove invece la domanda è in costante crescita. Per noi i mercati più importanti sono Canada e nord Europa: Inghilterra, Svezia, Danimarca, Norvegia e, da poco, Olanda. Serviamo anche gli Stati Uniti e qualche mercato orientale, come Hong Kong e Singapore. I canali sono quelli della ristorazione, delle enoteche e dei wine bar. Quindi lei si divide tra produzione e settore commerciale... Sì. Mi piace molto di più la parte produttiva, sono sincero, quindi cerco di puntare tutto sul prodotto. Poi qualche viaggio lo
intraprendo, è necessario farsi conoscere. Andiamo alle fiere principali e, tramite rappresentanti, siamo presenti anche alle manifestazioni in Oriente, negli Stati Uniti e in Canada. Uno sguardo verso il futuro? Spero che tutto il comparto continui a lavorare bene e in sinergia nonostante la crisi, per proporre prodotti di qualità a prezzi corretti, ponendo come obiettivo principale l’attenzione al consumatore e all’ambiente in cui viviamo e lavoriamo.
Marcello Vaona Azienda Agricola Novaia Loc. Novaia 37020 Marano di Valpolicella Tel. 045 7755129 Fax 045 7755046 info@novaia.it - www.novaia.it
Azienda Agricola Novaia
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Ospit alit aâ&#x20AC;&#x2122; e Buona Tavola
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Ist it uzioni Ist it uzioni e Associazioni e Associazioni
Sara Villardi Casa Mazzanti
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Nadia Pasquali Ristorante Alla Borsa
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Patrizio Violante Osteria Dal Cavaliere
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Lia Musarra Ristorante Al Portego
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Simone Castioni Ciccarelli CafĂŠ
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Maria Giulia Da Sacco Villa La Valverde
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Prot agonist s in Verona
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Ospit alit a’ e Buona Tavola
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Dall’oriente con amore
ontrariamente a tanti giovani, che fanno esperienza in Italia per poi lavorare all’estero, Zeno, Sara e Pietro Villardi hanno trasferito nel loro ristorante tutta la cultura dell’ospitalità che hanno vissuto in molti posti del mondo. Il risultato è Casa Mazzanti, un luogo piacevole, cosmopolita, senza dimenticare la tradizione, con un tocco d’arte e bellezza, nel cuore di Verona. Zeno, lei è l’ispiratore del locale. A quando risale il suo incontro con l’attività della ristorazione? Il mio approdo al mondo della ristorazione è avvenuto ai tempi dell’università, quando, per una serie di eventi fortuiti, mi sono trovato a gestire un ristorante
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di cucina italiana e, in seguito, un bar ad Hanoi, capitale del Vietnam. Appena terminati gli studi, anche mio fratello Pietro è giunto a darmi man forte. Dopo qualche anno, al nostro ritorno in Italia, seguito da ulteriori esperienze nel campo della ristorazione, Pietro, Sara ed io abbiamo preso in gestione il Mazzanti. Ho voluto portare con me il fascino delle cucine vietnamita, cinese e giapponese, contribuendo a dare al nostro menù, molto ampio e variegato, un tocco internazionale. Oggi il mio ruolo è quello di coordinare l’operatività generale, sovrintendendo la proposta culinaria assieme a Pietro, con cui creo i menù e curo l’enoteca del locale. Sara si occupa prevalentemente della parte am-
Sara Villardi
Casa Mazzant i
Ospit alit a’ e Buona Tavola
ministrativa, ma anche le sue particolari esperienze sono molto utili per innovare continuamente il nostro locale. Sara, ci parli di lei... Dopo gli studi liceali, ho scelto di frequentare l’università di Lingue a Verona. In seguito ho cominciato a lavorare come interprete e traduttrice in lingua russa. Ho visitato più volte la Russia, a cominciare dai tempi della Perestrojka, quando la ricchezza culturale e la sete di contatti con l’Occidente dei cittadini ex-sovietici contrastavano fortemente con la diffusa povertà di un paese in cerca di nuovi equilibri. La mia curiosità mi ha consentito di adattarmi e mettermi in discussione con nuove esperienze. Alcuni anni più tardi, in seguito a un momento particolare della mia vita, è scoccata la scintilla tra me e l’attività dei miei fratelli nel settore della ristorazione. In quel periodo le proprietarie di Casa Mazzanti desideravano affittare la loro proprietà a persone che sapessero valorizzare un luogo così speciale, e, vista la passione e la forza di volontà che ci animavano, hanno deciso di accettare la nostra proposta. In che modo siete riusciti ad affrontare i cambiamenti necessari a far partire il locale? I lavori sono cominciati nel 2006, ma sin dal principio vi sono state diverse problematiche legate alle lungaggini burocratiche per l’approvazione dei progetti. È stato un lavoro impegnativo e stressante, e siamo stati più volte sul punto di abbandonare. A spronarci è stata la possibilità di creare delle novità nella struttura, come l’apertura del primo piano del locale, fino a quel momento sfruttato solo marginalmente; abbiamo infine cercato di dare risalto alla luce che viene dalla piazza per mezzo di vetri e illuminazioni particolari,
ottenendo un ambiente quanto più possibile luminoso. Anche l’inizio dell’attività non è stato facile, dovendo far convivere la nuova anima di ristorante alla tradizionale attività di bar. Che tipo di clientela frequenta Casa Mazzanti? Il locale si trova in una zona centrale della città, Piazza delle Erbe, luogo magico frequentato sia dai veronesi, dei quali Casa Mazzanti è divenuta il salotto, sia da turisti italiani e stranieri. Il nostro essere cosmopoliti ci ha favorito nel rapporto con
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la clientela internazionale, con la quale spesso sono nati rapporti di amicizia. L’anima polivalente di Casa Mazzanti, che offre servizi di caffetteria, aperitivo ma anche ristorante, comporta tuttavia un grosso problema: non sempre la gente ne ha la percezione corretta, e si limita a frequentare il locale solo per alcuni aspetti peculiari. Per fortuna i veronesi, col tempo, hanno via via im-
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parato a conoscerci e apprezzarci. Quali sono dunque i punti di forza del ristorante? Il nostro fondamentale punto di forza è la capacità di evoluzione: senza dimenticare le nostre origini, cerchiamo di introdurre sempre nuove proposte per la nostra clientela, come eventi che riguardano la musica, la pittura e la fotografia. La nostra arte principale, tuttavia, rimane quella della ristorazione, che coltiviamo aggiornando frequentemente il nostro menù. Le proposte spaziano dalla tradizio-
ne culinaria veronese alle portate a base di pesce, a ricette caratteristiche di altre regioni, fino a rivisitazioni di nostra creazione. I miei fratelli, inoltre, non hanno mai rinunciato alle proposte di cucina orientale, di cui sia Zeno che Pietro, grazie alle loro particolari esperienze, sono divenuti esperti preparatori. Periodicamente organizziamo serate a tema, spesso coordinate a eventi organizzati in città, in cui prepariamo i classici di svariate scuole culinarie del mondo, creando un continuo connubio tra Verona e le mete più lonta-
Sara Villardi
ne ed esotiche. Riteniamo che l’elemento della novità sia indispensabile per sorprendere piacevolmente i clienti abituali, rendendo più accattivante Casa Mazzanti per coloro che vi si avvicinano per la prima volta. La vostra offerta soddisfa anche le esigenze più particolari… Una delle nostre priorità è quella di venire incontro alle differenti esigenze della clientela: sempre più frequenti sono le richieste di menù vegetariani o dedicati a chi soffre di intolleranze. È fondamentale per
noi il rapporto col cliente, il dialogo, nonché l’immedesimazione nelle necessità di coloro che non si vogliono privare di un buon pasto fuori casa. Ritiene che l’aspetto della comunicazione sia importante in un’attività come la vostra? Assolutamente. Da amante delle lingue e, in generale, della comunicazione, posso affermare di essere predisposta a relazioni in cui vi sia un continuo scambio. Questo lavoro, sia dalla parte del cliente che da quella del ristoratore, permette di viaggiare moltissimo senza spostarsi fisicamente; viaggi mentali,
quindi, in cui è possibile entrare in contatto con culture e mondi lontani: in una città in cui la gente predilige la tradizione, avere l’opportunità di regalarsi qualche evasione sorprende e arricchisce. Abbiamo la fortuna di avere con noi mio fratello Pietro, una persona all’avanguardia, dal respiro mentale ampissimo, creatore di approcci incredibili con i clienti. Assieme a lui e a Zeno stiamo elaborando numerosi progetti, di cui non anticipo nulla ma che presto vi proporremo con il consueto entusiasmo che ci contraddistingue.
Sara Villardi Casa Mazzanti Piazza delle Erbe, 32 - 37121 Verona Tel 045 8003217 - Fax 045 8019466 info@casamazzanticaffe.it Casa Mazzanti Caffè
Casa Mazzant i
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Sua maestà, il tortellino
uella del tortellino di Valeggio è una storia che si intreccia al territorio, dai tempi in cui, come nell’immediato dopoguerra, fare tortellini era un’attività delle massaie per integrare il reddito familiare, fino alla creazione di un comprensorio di alta qualità ricettiva, assai rinomato. Esemplare della tradizione, il ristorante Alla Borsa vanta mezzo secolo di attività, testimone fedele delle proprie radici, ma con grande attenzione ai cambiamenti sociali in fatto di alimentazione. Come nasce il ristorante Alla Borsa? Papà Alceste ha venduto la campagna di proprietà della famiglia e, con l’aiuto di una zia e uno zio, nel 1959 ha intrapreso
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l’attività di ristorazione. A quei tempi, la somministrazione era basata su prodotti storici del territorio, il baccalà, le tagliatelle con i fegatini, i bolliti misti; ben presto siamo partiti con il confezionamento a mano dei tortellini, la cui qualità ci differenzia da sempre. Come si è evoluta la vostra offerta nei decenni? La nostra missione è soddisfare i nostri clienti, per cui è sempre stato nostro compito seguire il mutare delle esigenze e delle abitudini. Il fattore discriminante del cambiamento è il fattore tempo ed è anche l’elemento che più ci mette alla prova; negli anni Sessanta si usava rimanere a tavola dalle tre alle cinque ore. Adesso ci chiedono di essere efficienti e di preparare
Nadia Pasquali
Rist orante Alla Borsa
Ospit alit a’ e Buona Tavola
dei piatti convincenti in meno di un’ora, un tempo disumano se si parla della cucina valeggiana, che richiede, invece, prima di tutto, lentezza come garanzia di qualità e bontà. Per questo motivo apprezzo molto il movimento dello slow food, perché impone un ripensamento dei propri ritmi di vita, difatti il cibo valeggiano è per sua natura slow, contrariamente al gusto del pubblico sempre più tarato sui tempi del fast food. Come è cambiata la tipologia dei clienti? Nel passato la clientela era per lo più rappresentata da famiglie. Valeggio, localizzato in posizione equidistante fra le tre province di Mantova, Verona e Brescia, costituiva un ottimo punto di incontro per le riunioni fra i gruppi familiari di diversa provenienza sul territorio. Oggi, sempre di più, si esce a pranzo per business: a tavola si concludono contratti di lavoro, soprattutto con gli imprenditori esteri. Tra l’altro, abbiamo notato negli anni come la clientela sia diventata sovranazionale, a tutto vantaggio della nostra azienda e del comprensorio di Valeggio. Il prodotto principe è il tortellino, che richiede tempo, cura, amore… In primo luogo il tortellino è un piatto antico, la cui storia affonda le radici nel Medioevo, come testimoniano le citazioni in alcuni libri di cucina del Quattrocento, seppur con alcune varianti: veniva cotto, per esempio, in un brodo profumato con lo zafferano e aveva un condimento dolce piuttosto che salato. In secondo luogo il tortellino è un piatto che esprime l’intelligenza del recupero. I banchetti medievali erano assolutamente sontuosi, tanto che una grande quantità di cibo rimaneva completamente intonso. È naturale che le
massaie di allora lo considerassero uno spreco, per cui fu inventato un piatto che sposasse il meglio del banchetto medievale - brasati, faraone, galline, arrosti con l’economia domestica a disposizione, ovvero uova e farina, sempre reperibili e non particolarmente costosi. La forza del tortellino di Valeggio è un blend aromatico vincente da settecento anni, fatto di brasato e di carni miste, senza insaccati e senza formaggio, diversamente dal tortellino emiliano, con il quale condividiamo comunque la grande tradizione padana della pasta ripiena. Cosa si può trovare al ristorante Alla Borsa oltre al tortellino? Come primo piatto, amiamo proporre anche i tortelli di zucca, perché sono l’espressione di due territori, il veneto e il
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lombardo. Ma la pasta si esprime in tanti modi, non solo nella versione ripiena; altri piatti che affascinano il nostro pubblico sono la tagliatella con il ragù di stagione, con il radicchio rosso o con i carciofi, o anche la sfogliata, il pasticcio con gli asparagi in primavera, con le melanzane in piena estate, con il ragù di faraona in autunno. Per quanto riguarda i secondi, tanto blasonati nei banchetti medievali, abbiamo addirittura delle ricette ottocentesche, dovute al passaggio di Napoleone a Valeggio; il quartier generale delle truppe napoleoniche era Villa Maffei, l’attuale Villa Sigurtà, e le maestranze valeggiane preparavano da mangiare a questi militari cercando di assecondare il più possibile i loro gusti; da qui nascono la faraona ri-
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piena, lo stinco di maiale, l’anatra all’arancio, gusti che sono più tipici d’oltralpe, ma sono stati naturalizzati a Valeggio. C’è inoltre una via valeggiana del baccalà, prodotto facile da custodire perché essiccato. La lunga procedura di preparazione lo fa rientrare nella filosofia della lentezza di cui si parlava prima, che a noi del Borsa piace molto. E poi è un piatto unico che accompagna la brutta stagione, quando il cibo deve scaldare il cuore. In estate, l’altro piatto principe è il luccio con la polenta, perché non ci dimentichiamo che la terra valeggiana è attraversata da un bellissimo e romantico fiume, il Mincio. Ho notato che lei usa spesso l’espressione “noi di Valeggio”. Questo testimonia un senso di unione fra i vari ristoratori... Sì, non c’è crescita senza la forza del gruppo. Dal 1981 esiste un’associazione di ristoratori di Valeggio sul Mincio, voluta dai capifamiglia tuttora viventi, e da trent’anni questo sodalizio perdura, pur nel rispetto delle differenze di ognuno. Questo principio si manifesta anche nel rapporto con i nostri fornitori: Valeggio, ombelico di tre province, conta ben cinquantuno punti di ristoro rinomati. La forza del vostro gruppo si esprime anche attraverso la realizzazione di importanti manifestazioni... Quando l’amministrazione comunale ci chiede di vivacizzare con prodotti tipici qualsiasi manifestazione siamo pronti a cogliere
Nadia Pasquali
Rist orante Alla Borsa
Ospit alit a’ e Buona Tavola
ogni occasione di visibilità e di aggregazione al di fuori delle nostre aziende personali. Tipico esempio è l’evento che da oltre vent’anni realizziamo sul ponte visconteo: la Festa del Nodo d’Amore. Ogni anno riusciamo ad accontentare e incantare tremilacinquecento commensali che portano il ricordo del “nodo d’amore” e del tortellino di Valeggio in tutto il mondo. Durante i sei mesi di lavoro, ognuno dei componenti dell’Associazione dei ristoratori di Valeggio sul Mincio dedica parecchio tempo, ogni settimana, per contribuire a questo progetto, ottenendo risultati che sono invidiati da molte altre realtà. Parliamo un po’ di lei, Nadia, quando e dove è nata? Sono nata negli anni Sessanta tra una sfogliatrice e un’impastatrice, come dice mia madre scherzando. Sono cresciuta con il motto di famiglia ora et labora, con la consapevolezza che la vita non è nostra, ma della provvidenza, e che nell’ozio non c’è crescita, mentre nell’operosità si aprono tante prospettive. Lavorare nel ristorante di famiglia è stato più un sacrificio o più una passione? Non siamo noi a scegliere il lavoro...ma siamo scelti. Gli studi universitari alla Scuola Interpreti di Trieste, mi hanno permesso di soggiornare negli anni della mia giovinezza tra gli Stati Uniti e la Vecchia Europa: formazione senza confini, direbbero adesso, ma è stato gratificante “sperimentare il mondo” e crescere a casa. Il lavoro ha scelto me... ed è una scelta felice. Come si affrontano le sfide di un mondo in cambiamento? Oggi più che mai è importante essere
aggiornati e credere nei propri mezzi. Mettersi in proprio negli anni Sessanta, quando sono partiti i miei, era più facile, perché era tutto da costruire; oggi, in questi anni di consumismo, il mercato è saturo. Occorre continuare a rinnovarsi nello spirito, nell’immagine e magari strizzare l’occhio a certe mode, senza mai compromettere la qualità. In fondo, chi meglio del tortellino può prestarsi a rappresentare un piatto unico? Il tortellino, compendio perfetto di carboidrati e proteine, di facile e veloce fruizione, rimane dunque il piatto perfetto di ieri come di oggi. Nadia Pasquali Ristorante Alla Borsa Via Goito 2, 37067 Valeggio sul Mincio (VR) Tel 045 7950093 - Fax 045 7950776 info@ristoranteborsa.it
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Il gusto della semplicità
è una piccola osteria in centro, amata da turisti e avventori affezionati, dove si gustano ottimi piatti legati alla tradizione, con escursioni marinare e una cantina da far invidia a un ristorante stellato. È l’osteria Dal Cavaliere, dove è un piacere riscoprire che la qualità, in cucina, non deve per forza essere sofisticata. Incontriamo Patrizio Violante, il creatore di questo piacevole ritrovo enogastronomico, per farci raccontare la sua storia. Partiamo dall’inizio. Dove è nato?
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Io sono originario di Caserta, ma mi sono spostato a Verona venticinque anni fa, quando mio padre è stato trasferito alla Nato. A quell’epoca frequentavo la prima media ed è iniziata la mia avventura in questa città per me tutta nuova. Ripensando a quel periodo devo dire che il cambiamento per me è stato un po’ traumatico, anche perché allora c’era una forte diffidenza nei confronti dei meridionali; pian piano ho superato le difficoltà e mi sono ambientato molto bene. Oggi le cose sono molto cambiate, non c’è più la diffidenza di un tempo.
Patrizio Violante
Osterua Dal Cavvaliere
Ospit alit a’ e Buona Tavola
Quali sono state le sue prime esperienze lavorative? Ho iniziato a poco più di vent’anni con il mio primo bar all’interno dell’Istituto Einaudi. In pratica mi sono inventato il lavoro, un’idea un po’ folle, a ripensarci, ma che ha dato i suoi frutti; lavoravo anche il sabato dalle sette del mattino alle sedici, con prezzi agevolati. Invece alla fine della scuola mi davo da fare come PR nelle discoteche. I primi tre anni non ho guadagnato un soldo e arrotondavo facendo le consegne il sabato e la domenica per il negozio di fiori di un mio amico. Cosa ricorda di quel periodo? È stato un periodo della mia vita bello e spensierato, sempre sulla breccia. D’altro canto, se non fossi stato un po’ inconsciente, non mi sarei avventurato in un progetto costoso come quello del bar, accollandomi circa novanta milioni di debito! Le strutture del locale, infatti, non esistevano, abbiamo dovuto costruirle da zero, dalle tubature al bagno… In seguito? Dopo questa prima esperienza, ho aperto il bar Modigliani, in Corso Cavour, in società con altre due persone. Poi è arrivato
il bar all’Arsenale, che gestisco ancora. Si tratta di un locale che lavora per lo più in primavera e d’estate, servendo i bambini e le mamme che si trovano al parco giochi. Com’è nata l’idea dell’osteria Dal Cavaliere? Da una serie di eventi che si sono susseguiti: nel 2007 ho venduto il caffé Modigliani e nel 2010 è venuto a mancare mio padre. Dato che era Cavaliere della Repubblica, ho pensato di dar vita a un nuovo locale, un’osteria costruita da zero e tutta dedicata a lui: ecco perché il “Cavaliere”. Si è trattato di un investimento importante, ma oggi sono felicissimo, perché ho realizzato un sogno, e i sogni vanno inseguiti, al di là dell’aspetto economico. Ho anche la fortuna di lavorare, per cui sono contento. Qual era quindi il suo progetto iniziale? Prima di quest’osteria, qui c’era un vecchio locale, chiuso da anni. Il primo giorno che sono entrato non c’era nemmeno il pavimento. Ho ancora le foto di allora. Ho voluto seguire in prima persona tutta la progettazione, in ogni minimo particolare, mettendo a frutto per la prima volta le mie doti di geometra. Mi sono ispirato
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all’immagine della vecchia Verona, perché da sempre adoro l’osteria, luogo per me ideale, sempre al di là delle mode, dove il tempo sembra fermarsi, dove è piacevole intrattenersi con un bicchier di vino e una buona pietanza. Ho aperto il 21 ottobre del 2011, e, anche se la partenza non è stata facile, oggi ho una clientela fidelizzata. Cosa ci racconta della cucina? Prepariamo antipasti, primi, secondi sia di carne che di pesce, abbiamo sei o sette proposte per portata, non di più. È una scelta: preferisco dire al cliente che un piatto è terminato, ma essere sicuro di offrire sempre un prodotto di qualità, con materia prima fresca. Insomma, proprio il contrario di queste pizzerie gigantesche, che hanno un menù più spesso di un libro. La nostra è una cultura artigianale che non si basa su prodotti industriali. Ci parli dei suoi piatti… In primo luogo proponiamo le ricette della classica cucina veneta, che a me piaccio-
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no molto; poi ho voluto inserire qualche specialità legata alle mie origini mediterranee; ad esempio i maccheroncini con pomodoro e bufala, oppure gli spaghetti alle vongole. È una buon mix: la cucina veneta è semplice mentre quella mediterranea lo è solo apparentemente. In ogni caso per me è importante la qualità, sempre altissima. Sembra un’idea vincente: ha dei riscontri positivi? Certo, sia dai clienti affezionati che dai turisti. Questi ultimi, a volte, fanno accostamenti strani, come il parmigiano sui primi di pesce e o il cappuccino dopo l’Amarone, ciò nonostante apprezzano molto. Il turismo è una risorsa importante per Verona e, grazie a questo, siamo una delle città che ha risentito meno della crisi. Credo che l’Italia intera dovrebbe puntare sulla valorizzazione delle proprie bellezze. Il nostro è un gran paese, non lo cambierei con nessun altro.
Osterua Dal Cavvaliere
Ospit alit a’ e Buona Tavola
Lei propone un’offerta enologica molto ricca: A cosa è dovuta questa scelta? È stato mio padre a insegnarmi ad apprezzare il vino di qualità proveniente da ogni parte d’Italia. Mi piacciono le differenze, mi piace assaggiare, sono un appassionato, ma anche molto critico. Penso di avere una delle mescite più varie di Verona: sedici bianchi, ventiquattro rossi e ventuno bollicine. Il mio più grande investimento è stato puntare sulla qualità e dare a più persone la possibilità di assaggiare un bicchiere di buon vino a prezzi per tutte le tasche. Organizzate anche delle serate a tema? Una volta al mese, soprattutto d’inverno, organizziamo serate con degustazioni a cui partecipano cantine di qualità. In anteprima al Vinitaly ci saranno parecchie date e c’è molta richiesta da parte di gente che vuole assaggiare, bere, conoscere, in
particolare donne. Vuole raccontare ai nostri lettori un menù tipo? Il gusto è un fattore molto soggettivo, ma potrei proporre un antipasto di prosciutto di Parma stagionato 24 mesi con della bufala, oppure una tartare di capesante con piselli; come primo un bigolo all’asino e a seguire la tagliata di cavallo o il filetto di manzo, tenerissimo; come pesce prediligo la cernia al forno o anche i moscardini con la polentina fresca. Ha ancora, nel cassetto, un sogno che le piacerebbe realizzare? Finora ho sempre raggiunto i traguardi che mi sono prefissato, ma nella vita bisogna sempre avere un sogno, bisogna essere sempre “affamati”, come mi diceva mio padre. Mi piacerebbe aprire un ristorante un po’ particolare, ovvero, a vista, dove il cliente può scegliere il cibo da crudo, e assistere alla sua preparazione e cottura. L’ho visto a Barcellona, lì potevi scegliere il pesce, lo pesavano, ti davano il prezzo e lo cuocevano davanti a te. Sarebbe la vera vendita a peso, una novità basata sulla trasparenza che la gente sicuramente apprezzerebbe.
Patrizio Violante Osteria Dal Cavaliere Piazzetta Scala, 3- 37129 Verona Tel. 045 2227785 osteriadalcavaliere@libero.it
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Ospit alit a’ e Buona Tavola
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a grazia, l’eleganza, l’armonia dei movimenti, sono cose che non passano inosservate. E nel caso di chi ha alle spalle anni di esercizio e pratica nella danza, l’estetica del movimento diventa parte del modo di essere, un tratto chiaramente visibile. È il caso di Lia Musarra, diplomata alla Scala e prima ballerina dell’Arena, che oggi trasferisce la sua propensione per la bellezza nel mondo della ristorazione. Vuole raccontarci le sue origini? Sono nata in provincia di Messina, ma già a quattro anni mi sono trasferita con la famiglia a Genova, dove sono rimasta un decennio; in quest’arco di tempo ho cominciato a studiare danza, in una scuola molto
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L’estetica dell’accoglienza importante, diretta da Mario Porcile, scopritore di Carla Fracci. Fu lui a consigliarmi di proseguire. A otto anni, ho vinto il mio primo concorso a Roma, ma i miei genitori hanno ritenuto che fossi troppo giovane per lasciarmi nella capitale. Una volta finiti gli studi, a quattordici anni, ho partecipato e vinto un altro concorso alla Scala: stavolta i miei non hanno potuto impedirmi di rimanere a Milano. Io volevo ballare. E così alla Scala ho avuto modo di vedere e studiare da vicino grandi personaggi, come la Fracci, Nurejev, e il meglio della danza mondiale. In questa fase del mio percorso, nell’ambito di un progetto di scambio interculturale tra la Scala e il Bolshoi dedicato ai migliori talenti, ho po-
Lia Musarra
Tratt oria Al Portego
Ospit alit a’ e Buona Tavola
tuto trascorrere due anni di perfezionamento a Mosca, e quello è stato il mio trampolino di lancio. Com’era la scuola russa? Molto dura, con ritmi di otto ore al giorno di allenamento. Nel tempo rimanente si proseguivano gli studi, compresi quelli di lingua russa, e la sera, per chiudere la giornata, tutti al Bolshoi a vedere il balletto! Questi due sono stati anni intensi e bellissimi, perché quando si ama tanto la danza, non si fa fatica, per me era un divertimento e una gioia. Quali sono stati i suoi primi incarichi? Grazie a Roberto Fascilla, uno dei due primi ballerini della Scala, che a quel tempo era coreografo e direttore a Verona, sono entrata a far parte del corpo di ballo estivo. Debuttai in Arena nello Schiaccianoci con Carla Fracci. Fui notata e arrivarono vari contratti, il primo a Bologna, già come solista, e, dopo sei mesi, a Torino, come prima ballerina. Avevo solo vent’anni quando ho iniziato a girare l’Italia e l’Europa. Dopo un ritorno al festival estivo, da freelance, sono stata a Spoleto, al Festival dei Due Mondi, occasione foriera di altri contratti all’estero. Nell’84, tornata a Verona per le stagioni e per i teatri, tra Filarmonico e Arena, ho maturato l’idea che fosse tempo di stabilirmi qui. Quell’anno ho avuto l’occasione di ballare con Nureyev, ed è stato il coronamento di un bellissimo sogno.
L’ultima parte della sua carriera l’ha trascorsa a Verona? Nell’86 ho incontrato quello che ormai è il mio ex marito, un direttore d’orchestra americano, dal quale ho avuto due figli. Ci siamo incontrati a Verona perché lui doveva dirigere delle serate al Filarmonico in cui io ballavo. Eravamo entrambi molto impegnati e alla fine ho dovuto fare una scelta: rinunciare alla danza e seguire lui. A quel punto è iniziato il secondo tempo della mia vita, con la valigia in mano, in giro per teatri del mondo. Come è nata la passione per la ristorazione? Per me la cucina è cultura. Avvicinarsi a questo mondo è stato molto facile perché
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Ospit alit a’ e Buona Tavola
sono una curiosa di natura. Ho cominciato con i vini, frequentando diversi corsi, e poi sono partita con la ristorazione e ho preso il diploma. La mia gavetta è iniziata otto anni fa con il “Il ritrovo”, un locale a Negrar, nel quale ho molto osservato e appreso, limitandomi a controllare e dare spunti al mio socio; dopodiché abbiamo gestito insieme un altro locale, il “Piccolo Covo”, a Bussolengo, per sei anni, con una mia gestione diretta negli ultimi due. È stata un’esperienza formativa, perché si trattava di un locale da centoventi coperti al giorno, soltanto a mezzogiorno. La filosofia era “qualità, velocità, prezzo”. Ora “Il Portego” mi piace perché lo sento molto intimo, molto mio. A proposito, vuole raccontarci la
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sua ultima creazione? Si tratta di un locale delizioso, sulla sommità del colle di Colognola, da molti anni rinomato per la buona cucina. Con il nostro arrivo abbiamo ampliato gli spazi a disposizione creando anche – come poteva mancare? - una “sala della danza”. La nostra proposta culinaria punta alla tradi-
Lia Musarra
Tratt oria Al Portego
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zione, con il recupero di piatti “poveri” che hanno fatto la storia, come i tagliolini in brodo con fegatini, la trippa in brodo o alla parmigiana e la “panara” di polenta. Tutta la pasta è rigorosamente fatta in casa e ai nostri ospiti è particolarmente gradito il carrello dei bolliti e degli arrosti, con pearà e mostarda. Abbiamo cercato di creare un ambiente accogliente, caldo, perfetto per una cena romantica, ma ideale anche per un incontro conviviale tra amici. Qual è la filosofia che sta dietro alla sua vita? Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per passione. Avere la possibilità e la fortuna di fare quello che ci piace nella vita è la chiave per essere felici. Io non rinnego niente di quello che ho fatto, anche se non sono stati sempre tutti sorrisi e gioie. Non è stato facile vivere fuori di casa a quattordici anni, in una città come Milano, da sola, senza i miei genitori. Tornavo a casa ogni settimana, prendevo il mio treno, ripartivo da Genova alle cinque e mezza del mattino per essere alle otto pronta con le mie scarpette alla Scala. Una vita di sacri-
fici, ma anche di soddisfazioni irripetibili. Lei ha vissuto in tante città del mondo, come mai ha scelto di stabilirsi a Verona? È vero, ho avuto modo di girare molto con mio marito e di vedere i posti più belli del mondo, ma Verona era per me la città del cuore. Mi ha dato tantissimo, è stata il mio trampolino, il mio punto di riferimento, e volevo che continuasse a esserlo. Mio suocero ci regalò un terreno in Valfiorita e lì costruimmo la nostra casa. Sono rimasta a Verona perché così sentiva il mio cuore. Un artista porta con sé la sua arte anche fuori dal palcoscenico. Pensa di aver trasferito un po’ della sua sensibilità artistica anche nel campo della ristorazione? In realtà, sono riuscita a portare nella ristorazione ciò che ho imparato in giro per il mondo; ho cercato di mettere a frutto il meglio di quello che ho osservato, cercando di lasciare un ricordo grazie a un tocco speciale. Forse l’attenzione che metto nelle cose è la stessa che ho applicato nella danza, nel far arrivare al pubblico l’espressione, il gesto, lo sguardo, comunicando con corpo quello che non potevo dire a parole. Le è rimasto un sogno nel cassetto? Mi ha sempre appassionato la regia, anche quando danzavo; occuparmi della regia di un’opera potrebbe essere un gran bel sogno.
Lia Musarra Trattoria Al Portego Via G. Garibaldi, 5 - Colognola ai Colli (VR) Tel. 045 7650083 - Fax 045 6172253 info@trattoriaalportego.it www.trattoriaalportego.it
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Tartine, amore e simpatia
imone è così: simpatico, amichevole, sempre attento ai dettagli che possano mettere a proprio agio il cliente… che presto diventa un amico. Il Ciccarelli Café, quindi, sta conquistando molti affezionati sostenitori della buona cucina e della convivialità. Ci racconti un po’ la sua storia… Inizialmente la mia passione sarebbe stata un’altra: i motori. Quello delle moto, delle gare, è un mondo che da fuori è bellissimo, viverlo è meraviglioso, ma può portarti vicino a tragedie che poi ti segnano. In ogni caso, sono nato e cresciuto nell’ambiente della ristorazione. Nei pri-
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mi tempi mi sono adattato a questo mestiere che col tempo mi ha appassionato, perché ho capito di averlo nel dna. Il bello di questo lavoro è che si è sempre a contatto con la gente e c’è spazio per la creatività. Questo locale, ad esempio, è nato come “ristocafè”, è diventato wine bar, luogo di ritrovo, luogo di eventi musicali, anche culturali, e tra un po’ si trasformerà anche in struttura alberghiera. Si può sempre crescere, ci sono tantissime possibilità. Il Ciccarelli Café è un locale moderno, che potrebbe tranquillamente trovarsi a Milano: come
Simone Castioni
Ciccarelli Café
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l’ha progettato? Questo locale nasce come alternativa al ristorante in pausa pranzo. Vogliamo dare una soluzione diversa al cliente che può ordinare solo un’insalata, oppure una semplice pasta al pomodoro, ma col pomodoro fresco: un’offerta molto diversa rispetto ai classici cibi precotti. Certo, è molto impegnativo perché il mercato ti costringe a comprimere i prezzi e, se vuoi mantenere una qualità elevata, ne risentono inevitabilmente i margini. La qualità del ristorante alla portata di tutti… Esattamente. Questo era lo scopo iniziale, per quanto riguarda la pausa pranzo e non solo, perché questo, è un locale che apre alle sette del mattino e chiude alle nove di sera. Le brioche sono di nostra produzione, visto che il nostro chef è anche pasticcere, il caffé è un caffè di prim’ordine, e il personale si contraddistingue per avere una grande professionalità. Persino la scelta della musica del locale, degli eventi, non è casuale: tutto è frutto di un’attenta ricerca. È una strada difficile, perchè per esempio, chiunque è capace di vendere un vino riconosciuto da tutti come il migliore. Cosa non altrettanto semplice, è proporre un vino ugualmente ottimo, ma di nicchia, in quanto ciò significa ricercare, provare, essere attenti alle produzioni di qualità meno conosciute. Un vostro cavallo di battaglia sono le tartine… Le tartine rappresentano un pezzo di storia di Verona, perché non sono tartine qualsiasi, ma quelle di Luciano,
che è stato un punto di riferimento per migliaia e migliaia di veronesi nel punto vendita storico di via Cappello, per oltre quarant’anni. Noi le abbiamo riproposte, abbiamo voluto proprio lui e abbiamo salvaguardato la sua produzione con un marchio. Abbiamo anche inventato la tartina dolce, al momento in fase sperimentale perché piuttosto “importante” a livello calorico. Ci racconti il suo menù, le sue specialità. Offriamo un menù vario, dalla pasta alle insalate, alla carne. A breve verrà aggiunta anche una sezione vegana, proprio per andare incontro alle esigenze di più persone. Credo che questa sia la strada da seguire, per una questione di salute. Infatti non abbiamo più la pasta all’uovo, ma proponiamo la pasta di farro, o di kamut, l’orzo, la pasta di mat, che è un altro grano profumato; il costo della materia prima è diverso, ma
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Ospit alit a’ e Buona Tavola
anche il risultato lo è, in termini di freschezza e compatibilità con l’organismo. Innovazione, qualità, senza dimenticare la tradizione. Ovviamente proporre tutti i giorni il piatto tipico di Verona, il bollito con sua maestà, la pearà, per noi, per la nostra piccola attività, è impossibile, per cui la proponiamo il venerdì e il sabato a pranzo, con un ottimo riscontro. La qualità è il nostro cavallo di battaglia. Qui non c’è un prodotto, dal detersivo in poi, che non sia di qualità. Gli aperitivi? Noi proponiamo un aperitivo un po’ come dappertutto, ma la nostra differenziazione sta nella tartina e nella proposta di eventi musicali, goliardici, come cabaret, fumetti e così via, anche con la partecipazione di artisti della zona. Ci proponga una compilation dei suoi piatti preferiti… Due primi: citerei il nostro couscous, un piatto della tradizione nordafricana, che viene preparato con le verdure e viene proposto in due varianti, col pollo o con i gamberi. È un piatto completo, unico, molto apprezzato. Un altro piatto meraviglioso è la pasta al farro con i suoi vari condimenti, dal pomodoro e zucchine, alla boscaiola con salsiccia e funghi, oppure col salmone, in base alla stagionalità. Come secondi piatti, oltre al bollito, che
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non si tocca, un gran secondo è il filetto di tonno scottato con ristretto di salsa di soia e aceto balsamico, o il filetto di branzino con insalatina, tutti piatti completi, senza esagerare, né col prezzo, né con la quantità; oppure abbiamo la nostra insalata di farro e orzo con zucchine crude e bocconcini di tacchino, condito agli agrumi, poi la classica insalata di polpo, che proponiamo quando abbiamo la materia prima fresca. Come dolce abbiamo il tiramisù, la crema catalana, la torta di
Simone Castioni
Ciccarelli Café
Ospit alit a’ e Buona Tavola
mele, la torta di cioccolato e pere, dipende dall’estro dello chef. Quali esperienze lavorative l’hanno più formata? La mia gavetta è partita dal magazzino. Ho avuto la fortuna di lavorare in uno dei più grossi e complicati magazzini specializzati che c’erano, cioè quello dell’area ristorazione/bar dell’aeroporto di Verona, nel lontano 1991. È stato faticoso ma bellissimo, perché ho imparato una miriade di cose, avendo modo di vedere come lavorano tanti settori in un solo luogo, dalla cucina a un catering di tutto rispetto, con quattromila pasti al giorno: una vera catena di montaggio. E poi l’esperienza in un ambito completamente diverso, quello della concessionaria di moto, un magazzino fatto di codici, di piccoli pezzi: sembra incredibile quanto si possa portare, in termini di conoscenze, da un settore come quello motociclistico a quello della ristorazione. Dalle mie esperienze ho potuto impostare una totale collaborazione fra cucina e sala. Chi sta davanti, in prima linea, ha bisogno di chi sta dietro. È fondamentale per creare un sistema che funziona. Qual è l’aspetto del suo carattere che secondo lei è stato vincente e
cosa invece, ha dovuto sviluppare? Penso che la mia forza sia data dalla mia onestà e dalla trasparenza nei confronti del cliente: non proporrò mai alla clientela un prodotto che non mi convince. È costoso, ma sono fatto così. Negli anni ho dovuto imparare a leggere le persone, sia il cliente, sia il collaboratore: al mattino io potrei essere la persona più euforica di questo mondo, ma se arriva un cliente che ha bisogno di silenzio e del minimo indispensabile per la sua tranquillità e serenità, io devo essere sereno, proporgli in anticipo quello che desidera, prima ancora che lui lo chieda. Questo è oggi il nostro punto di forza. Insomma, ho dovuto imparare a essere anche un po’ psicologo. Progetti futuri? Stiamo ampliando il locale con una sala per riunioni e banchetti e contiamo di offrire, in breve, ospitalità con la messa a disposizione di stanze per gli ospiti.
Simone Castioni Ciccarelli Café Via Unita d’ Italia, 340 - 37132, Verona Tel. 045 8921530 info@ciccarellicafe.it
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Ospit alit a’ e Buona Tavola
C’
Il giardino delle delizie
è un’oasi alle porte di Verona, all’ingresso della Valpantena, presidiato da secoli dal castello di Montorio, dove è possibile riscoprire la ricchezza della natura e dei suoi frutti: è La Valverde, una villa cinquecentesca circondata dall’espressione più pura del paesaggio veneto. Ce ne parla Maria Giulia Da Sacco, autrice del sapiente recupero paesaggistico de La Valverde, che ha voluto diventasse un punto di incontro per chi vuole ritrovare il gusto della qualità della vita.
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Ci racconta qualcosa di lei? Sono nata a Verona, dove sono rimasta fino a diciotto anni, a contatto con la natura; qui si è creato questo legame mai interrotto. Poi mi sono trasferita a Venezia per frequentare l’università e lì sono rimasta per quasi trent’anni. A Venezia sono nati anche i miei due figli, Marco ed Enrico. Il mio ritorno a Verona risale a tre anni fa. La Valverde era qui ad aspettarmi e, quando sono tornata, è nato il progetto. Qual è stato il suo percorso? Ho studiato Architettura. Già all’epoca,
Maria Giulia Da Sacco
Villa La valverde
Ospit alit a’ e Buona Tavola
quando l’architettura del paesaggio era ancora poco conosciuta in Italia, sapevo che mi sarebbe piaciuto progettare spazi esterni, non solo giardini, ma tutto quello che sta attorno a un edificio. Già prima di laurearmi, ho iniziato la mia carriera a Milano, in uno studio di paesaggistica. Ho lavorato insieme ad Andreas Kipar, un paesaggista tedesco che poi è diventato famoso in Italia per i suoi progetti di recupero di grandi spazi. Ho vissuto un po’ nel capoluogo lombardo, poi sono ritornata a Venezia, dove per quindici anni ho esercitato la professione di paesaggista e dove ho pubblicato il libro Giardini romantici del veronese. Com’è questo mestiere? È estremamente interessante, anche se soffre ancora oggi di una certa sottovalutazione che risulta, a volte, frustrante. La complessità del paesaggio andrebbe esaminata prima di iniziare la progettazione dell’edificio che vi sarà inserito, ma in Italia questo, spesso, non avviene: il paesaggista viene chiamato quando tutto è stato più o meno deciso e risolto. Si crede che il professionista si limiti a sistemare le piante, invece deve pensare a dislivelli, percorsi, accessi, schermature... Il verde costituisce l’arredo finale. Storicamente, invece, l’architettura del paesaggio è sempre stata tenuta in grande considerazione. Sì, tra i tanti ce lo insegna, ad esempio, Palladio, che studiava con estrema cura il luogo su cui avrebbe costruito. Oggi è una pratica quasi completamente scomparsa. All’epoca, è vero, la disponibilità di spazio era tutt’altra che oggi, ma l’attenzione posta alla collocazione di un edificio rispetto alle correnti d’aria, alla luce, al suolo, ha fatto sì che molti edifici dell’antichità siano giunti fino a noi in buone condizioni,
mentre nutro forti dubbi che tante costruzioni odierne abbiano le stesse chance di sopravvivenza. Parliamo un po’ della struttura, La Valverde. Era un’azienda agricola che venne acquistata dai miei avi all’inizio dell’Ottocento. Il complesso originale risale alla fine del Quattrocento, gran parte della corte venne costruita nel Cinquecento e alcuni annessi rurali sono seicenteschi. Aveva molto terreno attorno, era una corte rurale di pertinenza dell’azienda agricola e così è stata utilizzata da quelli che l’avevano comprata. Mio padre la ereditò e negli anni Sessanta iniziò a restaurare l’intero complesso. Furono sette anni di restauro impegnativo, la casa era in condizioni disastrose e lui fece un bellissimo lavoro, anche se non era un architetto ma un pilota d’aviazione: il suo fu un restauro molto attento, grazie anche agli artigiani dell’epoca. Poi ho continuato io, sistemando le barchesse dove ora ci sono abitazioni e la vecchia tinazzara dove vorrei organizzare tutte le attività legate alla natura e al cibo. É intervenuta anche sull’esterno? Sì. Il terreno rimasto attorno alla villa
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Ospit alit a’ e Buona Tavola
era coltivato a mais da un terzista e quando nel Duemila uscirono le misure comunitarie per la riforestazione, intervenni mettendo a dimora 5485 piantine che ora sono cresciute e potranno essere tagliate al ventesimo anno. Hanno creato un ecosistema interessante che si vede dalla quantità di animali che dimorano nel boschetto. La corte è una specie di francobollo alla periferia della città, eppure è piena di lepri, fagiani, ricci e altri animali che trovano rifugio qui. Vorrei valorizzare questo luogo grazie allo stretto rapporto con il paesaggio circostante, prerogativa delle ville venete, che in tempi recenti è stata spesso tradita per favorire lo sviluppo urbanistico. Il luogo è ben mimetizzato. Molte persone restano stupite. Ora siamo sette famiglie a vivere qui, ma non lo si vede dall’esterno tanto che tutti si chiedono se questo luogo sia abitato. Quale tipo di attività vorrebbe organizzare?
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Stiamo preparando corsi di giardinaggio di diverso tipo, sull’orto naturale e sul giardino da gustare che produca frutti da utilizzare in cucina; poi vorrei creare laboratori didattici per le scuole, sia nell’orto che nel boschetto, spiegando ai bambini i diversi tipi di alberi e di utilizzo del legno, abituandoli ad amare e rispettare la natura. E poi degustazioni, con incontri tra i diversi prodotti, lavorando sempre sul rapporto tra cibo e natura. Il filo conduttore dunque è: natura unita alla qualità della vita...
Maria Giulia Da Sacco
Ospit alit a’ e Buona Tavola
querellista e ha esposto le sue opere in varie città europee; l’ultima sua mostra l’ho organizzata io a La Valverde per inaugurare gli spazi della vecchia tinazzara. Papà era pilota di caccia, ha fatto le campagne d’Africa e d’Albania, è stato prigioniero a Rodi e internato in un campo di concentramento. Era uno spirito avventuroso, capace di sfide incredibili.
Il mio obiettivo è quello di aiutare le persone a trovare prodotti di qualità, comunicando le ragioni che stanno dietro al raggiungimento di un livello elevato, e creare un luogo dove la gente sappia di poter trovare un buon prodotto, coltivato in un certo modo. La sua è una famiglia particolare e interessante: suo padre, il conte Orazio Da Sacco, era un aviatore, mentre sua madre è la pittrice Vija Spekke. Ci parla di loro? Mia mamma è lettone, venne in Italia da ragazzina insieme ai genitori perché mio nonno fu ambasciatore a Roma prima della guerra. Le vicende storiche del loro paese li portarono a vivere da esuli: mamma non poté tornare in Lettonia per più di cinquant’anni e i miei nonni, che non poterono più rivedere il paese natale, trascorsero gli ultimi vent’anni in America. Fin da bambina mamma coltivò la passione per la pittura, frequentò l’accademia a Oxford e concluse il percorso alla Cignaroli di Verona. È una brava ed esperta ac-
Villa La valverde
Maria Giulia Da Sacco Villa La Valverde Via Antonio da Legnago 21 - 37141 Verona Tel/Fax 045 526499 - Cell 338 6838998 info@valverde-verona.it
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St orie dâ&#x20AC;&#x2122;Impresa
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Federico Cozza Leaderform
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Valerio Avesani Nova System
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Aldo Faustini Rotal Met
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Alessandro Bertolini Consulente botanico
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Giorgio Tauber G.T.G. Group
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Edoardo e Daniele Martignoni Bancarella di libri e fumetti
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Prot agonist s in Verona
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St orie d’impresa Qualcosa di personale
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avalcare il presente ed essere proiettata al futuro: questa la linea guida di Leaderform, realtà italiana di punta nel settore del direct marketing e della business communication, sempre più orientata alla personalizzazione della comunicazione e all’elasticità del servizio. Federico Cozza, amministratore delegato, racconta l’evoluzione di un’azienda, esempio tangibile di come le intuizioni di un padre possono essere condivise con i figli, cooperando insieme per lo sviluppo di un successo imprenditoriale. Com’è nata l’azienda? Nel 1980 mio papà decise di rilevare una piccola azienda che produceva moduli continui, la Modulo Verona di Palazzolo di Sona. L’impegno dell’imprenditore fu fin da subito premiato con ottimi risultati, riu-
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scendo a sviluppare il business. Negli anni Novanta si scelse di scindere le attività in due realtà distinte e mio papà fondò la Leberco 2 dividendosi dal precedente socio. La Leberco 2 si occupava di stampati ed era gestita unicamente dalla famiglia Cozza. Nell’evoluzione della realtà imprenditoriale, si optò per una modifica della denominazione da Leberco 2 in Leaderform s.r.l. che poi diventò una S.p.A. Di cosa si occupa Leaderform? Il cambio della denominazione sociale coincise anche con una modifica della mission, in quanto, oltre alle linee di prodotto storiche di modulistica aziendale, ci si concentrò sullo sviluppo di una serie di prodotti inerenti al direct marketing e alla business communication. In questa fase la famiglia Cozza preparò l’azienda anche al
Federico Cozza
Leaderform
St orie d’Impresa
passaggio generazionale: le quote di proprietà furono trasferite a noi figli, mentre mamma Teresa divenne amministratore delegato e papà Luciano Presidente del Cda e rappresentante legale della Leaderform. Questi furono gli anni che caratterizzarono anche un’attenzione particolare, non solo ai cambiamenti di prodotto, ma anche di processo. L’innovazione tecnologica nel campo del digitale stava facendo grandi passi avanti, e la famiglia Cozza fu lungimirante nel cogliere queste nuove opportunità di sviluppo aziendale. Gli investimenti si susseguirono: a fianco alla stampa tradizionale furono introdotte linee di stampa innovative, frutto dello sviluppo tecnologico dell’era del digitale. L’innovazione del prodotto e del servizio ha portato Leaderform ad inserire un nuovo ramo aziendale che sta crescendo con ottimi risultati, e che si occupa dell’attività di comunicazioni “transazionali” cioè tutti gli stampati ricorrenti che arrivano nelle case degli utenti/clienti e che si possono differenziare tra facoltativi e obbligatori, come ad esempio gli estratti conti, le polizze assicurative, le fatture
delle utenze domestiche, le comunicazioni fiscali. A noi si affidano grandi colossi della produzione energetica o del mondo dell’intermediazione finanziaria per far arrivare ai loro clienti le comunicazioni. Essendo Leaderform in possesso della certificazione ISO 27001:2005, è perfettamente in grado di assicurare la massima sicurezza nella gestione dei dati. I numeri della realtà aziendale. Abbiamo centotrenta dipendenti, ci serviamo anche di lavoratori interinali per affrontare picchi di lavoro e siamo proiettati al raggiungimento della soglia dei venti milioni di euro di fatturato annuo. Per quanto riguarda la direzione aziendale, mia sorella Cristina si occupa dell’area amministrativa, io dell’area commerciale, mio papà degli aspetti organizzativi e degli acquisti. Il vostro driver strategico è l’innovazione tecnologica… Certamente, è il nostro miglior biglietto da visita. Negli ultimi due anni abbiamo puntato sulla stampa digitale: i file arrivano dai clienti su linee dedicate, i nostri programmatori li gestiscono in funzione delle esigenze, e inviano direttamente in stampa come si fa con normali stampanti. Nel nostro caso, si tratta di sofisticate apparecchiature a bobina in grado di stampare alla velocità di duecentoventi metri al minuto. Siamo i primi in Europa ad avere macchine Screen, che stampano ad una velocità paragonabile all’offset. Attualmente stiamo realizzando nuove soluzioni riferite alla conservazione e archiviazione documentale sostitutiva, mirate ai documenti di natura amministrativa. Nel futuro svilupperemo molto di più il web e l’invio di comunicazioni on-line. Possiamo dire che il segreto del vostro successo è la capacità di anticipare il futuro, arrivando sul mercato prima degli altri?
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St orie d’impresa
Un’azienda dinamica come la nostra punta a investire prima che il mercato lo richieda e poi si impegna a vendere il prodotto. La nostra filosofia è non essere mai in ritardo su ciò che richiede il cliente. Otto anni fa siamo andati alla fiera internazionale della grafica, la “Drupa”, con l’intenzione di acquistare un’altra linea offset. Alla fine siamo tornati con la prima macchina Kodak digitale a otto colori. In seguito siamo andati oltre, lasciando Kodak e puntando su Screen, che ha una tecnologia più adatta alla nostra attività, con una migliore risoluzione. Il progresso è molto accelerato: solo due anni e mezzo fa l’avviamento su una linea di stampa richiedeva cinque ore di lavoro, oggi in dieci minuti l’impianto è già a regime. Nell’ultima fiera di settore, l’anno scorso, le macchine offset erano completamente sparite. A proposito di innovazione, Leaderform ha creato iScrivito. Di cosa si tratta? Si tratta di un’App per Iphone e per Android che ci riporta al mondo retrò delle cartoline, in quanto consente di trasformare qualsiasi foto scattata con uno smartphone in
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cartoline postali personalizzate e di inviare da tutto il mondo, con un solo click, un file che viene lavorato dal nostro sistema fino alla stampa della cartolina. Quest’ultima verrà consegnata in giornata alle poste ed il destinatario, in un paio di giorni, la riceverà a casa. Siamo così riusciti ad unire l’aspetto social di questa tecnologia alla stampa, ridisegnando e reinterpretando una vecchia abitudine che ha accompagnato le vacanze degli italiani negli ultimi cinquant’anni. La vostra posizione è consolidata a livello nazionale. Come vi posizionate a livello internazionale? A livello internazionale abbiamo instaurato una collaborazione con il CPX Group, un gruppo di lavoro che riunisce le dieci aziende leader nel settore, provenienti da tutto il mondo, tra cui Stati Uniti, Giappone, Inghilterra, Europa ed Asia. Ogni sei mesi ci si incontra per scambiarci informazioni tecnologiche sull’installazione di nuovi macchinari, nuove frontiere, nuovi prodotti, nuove opportunità offerte dal mercato. Inoltre i membri del CPX hanno stretto un patto di mutuo soccorso in caso di richieste d’aiuto per crisi internazionali o calamità naturali come è accaduto con la catastrofe che si è abbattuta sul Giappone. Parliamo un po’ di lei, Federico: la scelta di seguire l’attività del padre è stata obbligata o del tutto naturale? Direi spontanea, mio papà mi ha portato con lui incontrando i vari clienti e pian piano, crescendo, mi sono appassionato. Amo il mio lavoro. Al giorno d’oggi è sempre più raro trovare nelle nuove generazioni la voglia di seguire
Federico Cozza
St orie d’Impresa
le orme dei padri. Mia sorella ed io, invece, siamo contenti, ci abbiamo creduto ed abbiamo investito molte delle nostre energie in questa azienda, che infatti è ben solida e strutturata. Parlano i risultati innanzitutto, ma anche i progetti per il futuro: l’anno scorso abbiamo chiuso con il quattro percento di aumento del fatturato e il nostro obiettivo è sempre quello di migliorare e di
trovare nuovi sbocchi e stimoli. Mi piace considerare la nostra azienda come un volano anche per l’economia locale, per questo deve essere propositiva anche nel confronto con le altre realtà imprenditoriali: ecco quindi che è nata l’idea di supportare realtà sportive come l’Hellas Verona, la Marmilanza, Baseball Team Verona, che hanno rilevanza nazionale e che posso dar lustro alla nostra bella città. Lei, che di mestiere osserva il futuro, come vede il mondo fra cinque anni? Vedo sicuramente un mondo proiettato sul digitale anche se ci sono due tendenze: da un lato c’è una fetta di popolazione, over sessanta, che non conosce e non vuole utilizzare le nuove tecnologie, e quindi continuerà ad utilizzare la carta e scrivere ancora le lettere, dall’altro ci sono le nuove generazioni che avanzano e che vivranno sempre di più in funzione del digitale. Mio papà da un anno non compra più il giornale. Proprio lui che la mattina si alzava alle sette e mezza per andare in edicola, oggi legge il giornale con il tablet e riceve tutte le sere i report della produzione, via mail, confrontandosi in tempo reale con gli altri collaboratori. Certamente, nel futuro, il digitale e l’utilizzo delle tecnologie ad esso orientate faranno la differenza.
Federico Cozza Leaderform S.p.A. Via Molina, 14 - 37060 Sona (VR) Tel. 045 6080822 - Fax 045 6080815 info@leaderform.com - www.leaderform.com
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St orie d’impresa
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I dati nelle nuvole
l made in Italy è associato alla moda, all’enogastronomia e, in generale, alla qualità della vita, eppure esistono fenomeni d’eccellenza mondiale anche in campo tecnico, tradizionale appannaggio dei paesi anglosassoni. È il caso di Nova System, azienda leader a livello internazionale nella produzione di software dedicati e di servizi di outsourcing. Un orgoglio made in Verona, anzi, come ama precisare il fondatore, Valerio Avesani, made in San Martino. Ci racconti un po’ la sua giovinezza... La vita purtroppo non mi ha permesso di fare molte scelte. Papà è mancato molto presto, qualche tempo prima che conseguissi la licenza di terza media, per cui, avendo due fratelli più giovani di me, ho dovuto sin da subito darmi da fare. La scelta della scuola fu quindi finalizzata
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a garantirmi presto un posto di lavoro; optai per l’istituto professionale degli Stimatini, dato che il settore poligrafico, in quegli anni, era in grande espansione. Dopo il diploma, che percorso ha intrapreso? Conseguito il diploma di tecnico grafico, ho cominciato a frequentare una serie di corsi alla IBM Italia, da operatore, programmatore e analista; ho poi trovato un posto di lavoro presso un centro elaborazione dati di Verona che era di proprietà della famiglia Albarelli, nota azienda di spedizioni internazionali, che forniva servizio anche ad altri grandi gruppi veronesi, tra i quali ricordo Riello e Bauli. Negli anni, queste aziende hanno organizzato dei Ced interni e io ho cominciato ad occuparmi dell’azienda proprietaria del Ced, cioè della Albarelli S.p.A. Grazie a questo lavoro, che ho fatto per una
Valerio Avesani
decina d’anni, ho imparato ogni dettaglio pratico della spedizione internazionale, poiché nel mio mestiere è necessario acquisire sempre una doppia competenza, quella informatica, ovviamente, ma anche quella relativa all’attività della società che viene informatizzata. Da responsabile del Ced, sono poi approdato all’Ufficio organizzazione, ruolo che mi ha permesso di acquisire una conoscenza molto approfondita circa il funzionamento globale di un’azienda, dato che l’informatica aveva colonizzato tutti i processi aziendali. Quando nasce l’idea di mettersi in proprio? Mio padre era un imprenditore, e credo che la voglia di mettersi in proprio, di fare qualcosa, oltre che per se stessi, anche per gli altri, sia frutto dell’influenza paterna. Nel 1981, con altri miei colleghi, decisi così di aprire una nuova società di software dedicata al settore bancario. Come si è evoluta l’azienda? Siamo stati i primi a importare in Italia i cosiddetti tele processi, ovvero il fatto
Nova System
di adoperare dei terminali collegati a un computer centrale. Grazie a questa posizione di avanguardia, l’azienda iniziò ad avere diverse commesse da istituti pubblici, municipi, comuni. Così, nel 1985, decisi di lasciare la Albarelli S.p.A. e di dedicarmi a Nova System, pur mantenendo un buon rapporto col cavalier Tullio Albarelli al quale sarò eternamente grato per tutto ciò che mi ha insegnato nel campo dell’impresa e nella vita. La mia esperienza nella spedizione internazionale ci permise di realizzare software dedicati al settore, non più su commessa, ma generalizzati. Anche in questo caso siamo stati dei precursori e i programmi hanno
avuto talmente successo da farci decidere di abbandonare il ramo bancario col quale avevamo iniziato, dedicandoci dal 1986 al settore dei trasporti internazionali. La sua azienda vanta una serie di primati nel settore delle nuove tecnologie informatiche…
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St orie d’impresa
Oltre agli esempi citati, siamo stati precursori nell’uso di linguaggi ad oggetti. Nel 1998, inoltre, abbiamo iniziato per primi in Italia ad offrire ai nostri clienti quello che oggi è sulla bocca di tutti, “la
nuvola”, il cosidetto cloud. Che cosa comporta l’utilizzo di questa tecnologia? Usare la tecnologia del cloud, significa poter offrire ai nostri clienti la possibilità di lavorare sui loro dati, in qualsiasi parte del mondo si trovino. La parola magica è “rete”; oggi abbiamo clienti in tutto il mondo, non c’è continente in cui non siano presenti diverse installazioni di Nova System ed è proprio di questi mesi l’annuncio del nuovo sistema B1, un nuovo software molto innovativo che utilizza piattaforme diverse a seconda delle necessità, fruibile anche su Iphone e Ipad. Come si presenta l’azienda oggi? Nova System oggi si compone di più aziende con specializzazioni differenti;
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Nova System Engineering è il centro di sviluppo composto dagli specialisti che sviluppano nuove tecnologie, nuovi software e quant’altro, Nova System service è la società che elargisce i servizi in cloud e quindi la server farm, l’help desk relativo all’assistenza clienti, Nova System industria invece, elargisce lo stesso servizio, a livello industriale. Infine ci sono altre società commerciali che hanno il compito di divulgare il prodotto. Quali sono le nuove frontiere dell’azienda? Le nuove sfide sono quelle di aprire degli uffici periferici in diverse nazioni emergenti, tra le quali Cina, India, Brasile, Messico, Spagna. È chiaro
che sono progetti molto difficili e costosi, ma è nella volontà dell’azienda espandersi, soprattutto con il nuovo prodotto che è stato pensato anche per l’internaziona-
Valerio Avesani
Nova System
St orie d’Impresa
lizzazione e quindi si presta bene per stare in tutti i mercati del mondo. L’auspicio è quello di trasformare Nova System in un’azienda internazionale, che dia così lavoro a tanta gente, mantenendo il capitale in Italia. Colpisce anche il fatto che la sua è un’azienda tecnica composta da eccellenze tutte italiane… Noi italiani siamo pieni di talento, abbiamo gusto, inventiva, idee. Se si pensa che il chip, che è l’elemento fondamentale del computer, è stato inventato da un genovese, ciò significa che l’Italia è un paese che può ancora dare contributi importanti all’informatica. Quando si trova a combattere la guerra della competizione internazionale, come viene percepito il fatto di essere un’azienda italiana? Veniamo accolti con una certa meraviglia. Sembra strano che un’azienda italiana sia presente con successo in un mercato tecnologico che è sempre stato americano. Quando poi vedono i contenuti dei software, le soluzioni che sono state adottate per risolvere determinati problemi, quando si rendono conto del servizio che viene erogato, puntuale, sicuro, molto ben organizzato, documentato, allora la meraviglia si trasforma in ammirazione. Lo dico con un certo orgoglio, dato che un grande pezzo del mio cuore è qui, a San Martino, il mio paese natale, dove si trovano sede aziendale, uffici e server farm.
Avendo vissuto in prima persona l’evoluzione dell’informatica, come immagina il futuro di questo settore? È difficile da prevedere, anche perché le ere in informatica, non si misurano in centinaia, ma forse in qualche decina di anni. Assisteremo probabilmente a una rapida evoluzione del cloud, mentre le nuove tecnologie porteranno ad una grandissima semplificazione del lavoro, con strumenti sempre più piccoli, sempre più potenti. Valerio Avesani Nova System Viale del Lavoro 39/A Centro Direzionale VR EST 37036 S. Martino B. A. - (VR) Tel. 045 878 8211 - Fax 045 878 8212 www.novasystems.it
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St orie d’impresa La nuova vita degli elementi
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uro lavoro, disponibilità e tenacia: queste sono le parole d’ordine che hanno permesso ad Aldo Faustini di realizzare il suo sogno di imprenditore e dar vita a Rotal Met, azienda di recupero di rottami di alluminio attiva con successo da ormai trentasei anni. Un’attività che ha richiesto molti sacrifici, ma che non ha ancora smesso di appassionarlo. Ci racconta la sua storia? Sono nato a Isola Rizza il 14 maggio del ‘48, dove ho vissuto fino a quando la mia famiglia si è trasferita a Isola della Scala.
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Mio padre faceva il contadino e io ho sempre dato una mano in famiglia: già a dieci anni il sabato e la domenica sera lavoravo in una trattoria o vendevo le caramelle al cinema, cosa che mi consentiva di vedere i film senza pagare. In seguito ci siamo spostati a San Michele Extra, dove mio padre ha continuato nella sua professione e io ho cominciato a lavorare come apprendista in una rivendita di profilati di alluminio a Basso Acquar. Un mio collega, Dino Favero, che faceva il rappresentante, ha aperto nel 1969 il suo magazzino di profi-
Aldo Faustini
Rot al met
St orie d’Impresa
lati di alluminio e mi ha voluto con sé. Ero responsabile dei magazzinieri e degli autisti, oltre a ricoprire, a mia volta, il ruolo di rappresentante, cosa che mi ha permesso di entrare in contatto con tutti i clienti che facevano serramenti di alluminio nel Triveneto. Nonostante i miei compiti fossero vari e avessi un incarico di responsabilità, non mi sentivo completamente realizzato, quindi nel 1977 ho deciso finalmente di sfruttare le relazioni commerciali e le capacità acquisite per realizzare il mio sogno: aprire un’attività in proprio, la Rotal Met. In cosa consisteva la sua attività? All’inizio ritiravo il materiale, operavo una cernita e lo portavo direttamente in fonderia a Brescia. Per un po’ ho lavorato da solo, poi ho assunto un operaio, ho comperato il primo pezzo di terreno, il primo camion e gradualmente ci siamo ingranditi. Adesso ho undici dipendenti, un autotreno, tre motrici, due “ragni” grossi, tre muletti, quattromila metri quadrati di terra e un capannone che ha sostituito la tettoia precedente. Tra i collaboratori ho avuto anche mio padre. Qual è stata la sua filosofia in questi trentasei anni di crescita? Ho sempre lavorato utilizzando le mie disponibilità economiche, un passo alla volta, investendo in azienda secondo la possibilità, senza mai strafare. Nel lavoro, poi, posso contare su validi collaboratori, e anche questo aspetto è molto importante. Credo sia fondamentale avere un buon rapporto con i propri dipendenti: parliamo, discutiamo, cerchiamo di confrontarci e se qualcosa non va si cerca una soluzione tutti insieme. Un’azienda è come una ruota, ci vuole il perno, ma se non ci fossero tutti i raggi che ci girano attorno, il perno da solo non potrebbe andare
avanti. Quali sono le maggiori difficoltà che ha trovato durante la sua carriera? Un’esperienza non propriamente piacevole è stata essere derubato del materiale: mi è successo parecchie volte perché di notte, purtroppo, lo stabilimento era incustodito. Quello che mi infastidisce di più, però, è la burocrazia, che ancora oggi, a volte, mi fa quasi passare la voglia di
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St orie d’impresa
andare avanti. Le promesse sono sempre molte, ma al momento di agire, magari solo per concedere un’autorizzazione, ci si trova davanti a un immobilismo sconfortante. Purtroppo certi giorni ho la sensazione, nonostante tutti i miei sforzi e le tasse pagate, di non aver ricevuto in cambio servizi adeguati. Di conseguenza ho deciso di conservare e mantenere quello che fin qui ho realizzato e di non allargarmi più. La sua attività finanzia anche delle associazioni sportive. Da sempre sono appassionato di ciclismo, ho anche corso a livello agonistico quando potevo. Conosco i dirigenti della federazione del ciclismo di Verona, dal presidente a tanti giornalisti dell’Arena con cui gareggiamo una volta all’anno. Spesso mi piazzo ancora davanti a molti di loro, visto che sono piuttosto allenato. Per questo mi piace l’idea di sponsorizza-
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re i giovani e di fare in modo che possano realizzarsi nello sport. Attualmente seguo quattro squadre di ciclismo, una di pallacanestro, e una quarantina di nuotatori. Si ritiene soddisfatto di quello che ha ottenuto? Mi sento realizzato. Sono una persona normalissima, con la sua dignità, che ha fatto tanti sacrifici e non ha mai voluto fermarsi. Ho sempre seguito le mie idee senza farmi influenzare da nessuno. Non ho niente da rimproverarmi, e se dovessi tornare indietro ripeterei lo stesso percorso, perché mi sembra di avere scelto quello corretto. Vivo serenamente i miei rapporti con le persone, so di essere rimasto fedele al mio principio, non mentire mai, e faccio quello che posso per aiutare chi ha bisogno. Credo nei principi dell’uomo. Cosa consiglierebbe a un giovane che avesse delle aspirazioni? Un giovane che ha voglia di fare dovreb-
Aldo Faustini
Rot al met
St orie d’Impresa
be innanzi tutto rimboccarsi le maniche: intendo che dovrebbe impegnarsi anche accettando degli impieghi non strettamente connessi al suo ramo di studi, ma che gli permetterebbero ugualmente di conoscere persone e di imparare un mestiere. Capita spesso che un giovane che si presenta per un colloquio, prima ancora di preoccuparsi di dimostrare all’azienda le sue capacità o di interessarsi a come l’azienda può formarlo, si preoccupi dello stipendio. Personalmente credo che nella vita sia necessario prima dare e poi ricevere, soprattutto in questo momento, nel quale istruire un dipendente è un costo per l’azienda. Al giorno d’oggi, purtroppo, non c’è molta disponibilità a iniziare dal basso, da lavori come il cameriere, o lo stagionale in qualche azienda agricola. Parlo per esperienza personale, non ho mai contato le ore che facevo, nemmeno quando ero dipendente: questo mi ha permesso di creare buoni rapporti con i miei precedenti datori di lavoro che durano ancora oggi. Le è rimasto un sogno nel cassetto?
Per quanto riguarda la mia attività i sogni li ho realizzati tutti. Per il momento continuo a lavorare qui, anche nell’interesse dei miei dipendenti finché me la sento e ho ancora voglia di fare. Sapere che ogni mattina devo occuparmi della mia azienda mi fa sentire vivo, quando questo non accadrà più, valuterò se sarà il caso di cedere l’attività. È sempre stato mio desiderio vivere bene a contatto con le persone che rispetto e che mi rispettano. Mi sono sposato da poco con una signora con cui c’è grande affiatamento e ho aperto un team di go-kart con suo figlio. Mi piace andare in bicicletta, occuparmi del mio giardino, girare con il camper, viaggiare. Voglio godermi il tempo che ho a disposizione in compagnia dei miei cari, non ho bisogno di altro.
Aldo Faustini Rotal Met S.r.l. Via Vigasio,133- 37135 Verona Tel. 045 541233- Fax 045 8568133 info@rotalmet.it- www.rotalmet.it
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St orie d’impresa L’uomo che scrive sul green
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l campo da golf è una struttura vivente assai complessa e delicata: occorre uno specialista molto competente per mantenerla in ottima forma. Uno come Alessandro Bertolini, ad esempio, stimato professionista, tra i migliori e più richiesti sullo scenario internazionale. L’abbiamo incontrato per farci rivelare i segreti di questa affascinante professione e abbiamo scoperto che il suo animo artistico ha molti risvolti da raccontare.
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Partiamo dalle sue origini... Sono nato a Bussolengo, il 17 novembre del 1959, ho frequentato a lungo Verona, ma mi definirei un cittadino del mondo. Da ragazzo ho studiato cercando sempre di darmi da fare: ho venduto cuscini in Arena, ho fatto l’operaio in catena di produzione delle riviste alla Mondadori, il corriere estero per la stessa azienda, il bagnino. Senza dimenticare la mia passione per l’ambito letterario e filosofico.
Alessandro Bertolini
Agecservice
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La sua scelta è scaturita da una tradizione familiare? Direi di no, è maturata ex novo dalla mia personalità. Mi è sempre piaciuta la natura. Nell’ambito della mia laurea in Scienze Forestali, non avendo mai avuto la possibilità di frequentare boschi e foreste in maniera sistematica e concreta, ho deciso di specializzarmi nella materia di studio che mi era piaciuta di più, ovvero Patologia Vegetale, cioè lo studio delle malattie delle piante. Alla laurea è seguito il dottorato di ricerca a Bologna. Questa esperienza si è rivelata un vero e proprio investimento in quanto mi ha introdotto nel settore delle malattie dell’erba, nel quale oggi sono uno specialista. Dal dottorato al mondo del golf: come è avvenuto il passaggio? Da un concorso per diventare giornalista tecnico è arrivata la proposta di entrare nel mondo del golf come tecnico commerciale. Quando ho cominciato, nell’88-’89, le cose erano molto più semplici di oggi, in quanto le conoscenze erano molto empiriche. Questo mi ha permesso di fare una gavetta indolore e di arrivare a contatto diretto con i miei clienti potenziali. Quali sono le problematiche principali che si trova ad affrontare in questo campo? Nel mio lavoro contano certamente simpatia e dialettica, ma più di tutti vale il risultato. Il campo da golf richiede un’erba che sia il più possibile verde, perché l’effetto estetico è importante, con uno scorrimento della palla regolare, la cui velocità dev’essere omogenea in qualsia-
si campo ci si trovi. Il mio lavoro è quello dello specialista che interviene sulle massime strategie a supporto di un’altra figura, quella del green keeper; si parte da un’analisi complessa di tutte le variabili del terreno e si formula un piano annuale di fertilizzazione. Secondo la mia specializzazione, inoltre, devo prevenire e curare le patologie: l’erba del green cresce in natura fino a un metro e mezzo d’altezza, mentre noi la tagliamo sistematicamente a tre millimetri, anche due volte al giorno in periodi di gare importanti. Ciò significa maggiore sensibilità a stress e malattie. Tante volte il golf è accusato di inquinare. Non è vero. Del campo da golf si può dire solo una cosa, che consuma tanta acqua; i campi da golf del Nord e del Centro Italia ne richiedono anche milleduecento metri cubi al giorno, d’estate. Ma l’inquinamento è minimo, perché noi trattiamo con i fitofarmaci solo un ettaro su sessanta di campo da golf. Ha dovuto imparare a giocare a golf? Ho provato, ma non è il mio sport. Passo tutto il giorno sui campi, per cui non riesco a farlo diventare un divertimento. Anzi, mi piace talvolta uscire completamente
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dal verde e andare nella pietra, nell’asfalto, in luoghi dove non c’è nemmeno l’aiuola cittadina, proprio perché ho bisogno di cambiare visuale. Troppo verde. Parliamo della sua produzione letteraria... Sin da piccolo ho sentito la necessità di scrivere. Nel ‘96, è uscita la mia prima pubblicazione, un libro di poesie per Gabrielli. Ho poi vinto qualche concorso. La mia vena creativa si è arenata quando è mancata mia madre, di origine ebraica, persona fondamentale per me. Ci sono stati degli anni di silenzio totale, dedicati solo al golf. Improvvisamente, però, durante un lavoro di consulenza in Sicilia sugli stadi di serie A e B, ho avuto la fortuna di essere ospitato in una bellissima villa sul mare a Scopello, e, fulminato sulla via di Damasco, ho ricominciato a scrivere. Questo mio ritorno alla scrittura si intitola Bianca e parla della morte; ne è uscita una pièce che è stata poi adattata per andare in scena nel 2007 al Camploy. Qual è la genesi della sua produzione? Sono uno scrittore in viaggio. Non posso permettermi dei tempi fissi, probabil-
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mente il fatto che io scriva deriva dalla necessità di continui spostamenti. Non ho un posto, ho tanti posti. Ultimamente ho creato una piccola antologia, dieci poesiole, scritte sul telefono. In tutto, ho creato una ventina di pièce teatrali e ho vinto un primo premio assoluto con un monologo messo in scena ad Umbria Jazz. Ho avuto alcune belle soddisfazioni; la più recente nel 2011, al Teatro Nuovo, dove è stato messo in scena un mio monologo recitato da una grande attrice, Elena Giusti, con l’ottima regia di Paolo Valerio. Che caratteristiche hanno le sue opere? Il limite delle cose che faccio è che non sono di facile realizzazione creativa. Nella messa in scena del Dizionario della polvere, ad esempio, si assiste ad un’autentica inversione visuale, laddove gli spettatori sono ospitati sul palcoscenico e guardano l’attrice che ha alle spalle la platea vuota ed illuminata. Si tratta di un brano molto forte, replicato tre volte a Milano al Teatro Libero. Il problema sono gli spazi che devono essere molto intimi ed avvolgenti. Questo limite potrebbe essere superato colonizzando scenari inusuali, ideali per rappresentare i miei lavori, come giardini, chiostri, ville, chiese, angoli suggestivi di una piazza. Ho una grande fiducia nel fatto che i miei testi arrivino al pubblico,
Alessandro Bertolini
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perché si tratta di cose vere, che suscitano sempre profonde emozioni. Non c’è mestiere, c’è verità. Qual è il filo conduttore della sua produzione? Direi la ricerca: io scrivo perché sto cercando. È come fosse una lanterna che metto davanti per vederci più chiaro, per fare più luce. Come descriverebbe il suo carattere? Come carattere sono l’incarnazione del dualismo imperfetto. O meglio, il massimo dell’imperfezione proprio perché c’è uno scontro costante tra due anime, l’una più profonda, più scura, creativa, e l’altra più razionale, metodica, che controbilancia. Per concludere, cosa ci può anticipare delle sue prossime avventure, letterarie e golfistiche? Dal punto di vista letterario sto scrivendo un racconto che potrà avere anche una chiave distributiva teatrale. Dovrebbe chiamarsi Due e venticinque, perché è l’ora di notte in cui l’ho pensato, in mezzo ad un’autostrada. Un’altra cosa che porterò avanti, una piccola antologia, che potrà intitolarsi Scritte al telefono; terza collaborazione, per me fondamentale, sarà con il violinista Michele Gazich. Il quarto e ultimo progetto riguarda Bianca, il mio brano d’esordio, il quale verrà rivisto con
l’importante collaborazione di Giovanna Scardoni e Stefano Scherini, sotto la supervisione di un grande regista. E il golf? Quest’anno, nonostante la crisi diffusa, è stato quello in cui ho lavorato di più. Forse perché sono riuscito negli anni a stabilire con i miei clienti un rapporto speciale e poco consueto. Si pensi che ho contratti in essere da ventitré anni con gli stessi clienti. È una specie di matrimonio basato soprattutto sui risultati. Grazie a questa posizione di rilievo, soprattutto all’estero, tengo regolarmente convegni e meeting, e devo dire che, in questo momento, anche per una creatività innata tipicamente italiana, io ed i greenkeeper con cui collaboro siamo sicuramente al top in ambito europeo.
Alessandro Bertolini Agec srl Via Turchia, 4 35030 Selvazzano Dentro (PD) Tel. 049 638787 info@agecservice.it
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St orie d’Impresa Il paese dei balocchi
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all’esordio come co-ideatore di Gardaland alla conduzione di un’azienda che progetta parchi divertimento a livello internazionale, da trentasette anni Giorgio Tauber lavora per dare forma ai sogni, compresi i propri: la sua Verona come la Florida, ricca di creatività e attrazioni a tema. E ora tocca all’Italia e all’Europa... Qual è la sua storia? Mi chiamo Giorgio Tauber, sono nato il 15 ottobre 1941 in Via Lastre, nel quartiere Filippini. Mi sento un veronese doc, tanto che, anche dopo aver avuto la fortuna di lavorare per sette anni a Verona presso
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la Mondadori, e sette anni a Milano, nel 1972 ho preferito tornare di corsa nella mia bella città. Ho cominciato a lavorare assai presto, per contribuire a pagare le medicine per mia madre, affetta da stenosi mitralica, ma non avevo nessuna intenzione di morire in uno stabilimento, aspiravo ad esprimere la creatività che probabilmente devo a mio padre, membro della filodrammatica della Mondadori. In quest’azienda, però, ho imparato molto, soprattutto dal dottor Calabria, che mi ha suggerito di ricordare che la giornata è divisibile in tre turni da otto ore, e di tenerne conto se volevo realizzare altri progetti
Giorgio Tauber
World Tauber Group
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pur lavorando. Com’è nato il suo coinvolgimento nel progetto Gardaland? Tornato da Milano ho lavorato per un paio d’anni sul lago di Garda, nel campeggio La Rocca del conte Rizzardi, e lì conobbi il grande ideatore di Gardaland, Livio Furini, purtroppo scomparso. Allora era un fornitore del campeggio e mi promise che un giorno mi avrebbe coinvolto in un importante progetto. Mantenne la parola nel novembre del ‘74, quando mi chiamò per fare il sopralluogo nel sito dove sarebbe sorto il parco. Dico sempre che Gardaland è il mio terzo figlio: due li avevo già, e il parco è stato inaugurato il 19 luglio 1975, proprio nove mesi dopo quella prima visita. Può raccontarci qualche aneddoto dei primi tempi? Era il 18 luglio 1975. Stavamo preparando l’apertura ufficiale del parco, prevista per le nove e trenta del giorno successivo, alla presenza delle autorità. Alle undici di quella sera si è scatenato un tremendo temporale che ha completamente distrutto la composizione floreale dell’ingresso del castello. Abbiamo lavorato tutta la notte per rimetterla a posto, e ci siamo riusciti appena in tempo: l’ultimo camion se n’è andato alle dieci, proprio mentre il prefetto, in leggero ritardo, arrivava con gli invitati per il taglio del nastro. A quel punto mi sono seduto al ristorante Sant’Anna, vicino alla stazione del treno, e ho pensato: “Ancora una volta siamo partiti bene”. La grande avventura era iniziata sui primi 120.000 metri quadrati. Mentre sviluppavate il parco, qual era il vostro sogno? Volevamo realizzare l’industria del tempo libero creando il primo parco a tema italiano, e ci siamo riusciti. Ci siamo ispirati
al primo Disneyland, quello sorto a Los Angeles, che entrambi avevamo visitato, anche se l’esperienza all’inizio mi ha un po’ spaventato, perché noi potevamo disporre di investimenti molto più esigui rispetto agli americani. In realtà siamo riusciti a ottenere qualcosa di speciale con un budget limitato, e soprattutto abbiamo avuto subito riscontri positivi da parte del pubblico, anche se il vero e proprio boom si è verificato circa tre anni più tardi. Quale filosofia ha seguito nella gestione di Gardaland? Fin da subito ho dato grande importanza all’addestramento del personale: il mio motto era “pochi ma buoni”, responsabili e pagati bene. Questa è stata un’arma vincente. Inoltre già nei primi due anni ave-
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dovuto succedere nel quinquennio successivo, dal ‘77 fino all’82. Abbiamo anche avuto una buona intuizione quando abbiamo deciso di rivolgerci al program-
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ma per bambini Bim Bum Bam per dare visibilità al parco attraverso la sigla, girata qui, quando l’importanza della pubblicità non era ancora percepita chiaramente come oggi. Dall’82 all’88, poi, sono nate le grandi attrazioni come “Magic Mountain”, “Colorado Boat” e il “Villaggio Arabo”, che allora erano all’avanguardia in Europa, nel 1988 abbiamo realizzato “La valle dei re” e nel 1992 la grande attrazione “I corsari”, che ha posizionato Gardaland nei primissimi posti in Europa. Con questa attrazione abbiamo completato il terzo nostro programma di completamento del parco. Nel ‘96, dopo ventidue anni, poco prima che iniziasse la terza espansione del Parco, questa volta verso Pacengo-Lazise, sono uscito da Gardaland e, nel 1998, ho creato la G.T.G. Group. Di cosa si tratta? È un gruppo di sette persone che si occupano di progettare, realizzare e gestire parchi a tema in giro per il mondo. L’idea iniziale parte solitamente da me, mentre i miei collaboratori si occupano della sua concretizzazione. Posso dire di essere affiancato dai migliori specialisti per quanto riguarda l’ideazione delle giostre, la creazione di scenografie e tecnologie, l’organizzazione paesaggistica, la realizzazione di effetti speciali
Giorgio Tauber
e luminosi e la gestione del marketing. Inoltre siamo amici, ci intendiamo alla perfezione e per questo lavoriamo molto bene insieme. A cosa sta lavorando in questo momento? Da tre anni stiamo seguendo la realizzazione di un nuovo parco a tema in provincia di Verona, che dovremmo inaugurare nella primavera del 2016. Purtroppo non posso rivelare molto, poiché la proprietà non ha ancora tenuto la conferenza stampa ed è molto riservata a riguardo. Quello che mi preme sottolineare è che sono molto soddisfatto che sorga in questa provincia, non tanto per fare concorrenza ai parchi già esistenti, ma perché mi stimola molto la prospettiva di poter proporre più varietà al pubblico. Bisogna considerare anche che l’idea su cui è basato lo renderà molto diverso da quelli attualmente presenti, e al divertimento coniugherà anche una finalità istruttiva. Inoltre sarà dedicato a un personaggio per me molto importante, che ho avuto l’occasione di incontrare e che mi ha veramente colpito, tanto che personalmente lo considero il vero ispiratore del progetto. Ma anche sulla sua identità desidero mantenere il segreto fino all’annuncio ufficiale, per cui bisognerà attendere ancora qualche mese. E quali sono i suoi progetti per il futuro? Mi piacerebbe riuscire ad aprire il parco dei “Cinque Temi”, che ho individuato come storia, cultura, scienza, natura e musica. Purtroppo i lavori sono attualmente in stallo, ma confido che prima o poi riusciremo a sbloccarli, anche perché la zona non è ancora provvista di simili risorse, quindi si tratta di un bacino mol-
World Tauber Group
to promettente. Se mi avessero chiesto di realizzare a Verona anche questo parco ne sarei stato molto felice, naturalmente. Per quanto riguarda l’Italia, però, sono convinto che stiamo lavorando bene, come del resto anche in Europa. Giorgio Tauber G.T.G. Group Via Barucchi 47/E - Verona Tel. 045 566586 giorgio.tauber@libero.it www.giorgiotauber.com
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Lunga vita ai libri
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ento, pioggia, sole o gelo, loro sono sempre lì, appena voltato l’angolo di via Mazzini, da più di sessant’anni a disposizione degli amanti di libri e di fumetti, veronesi e non solo. In un’epoca che vede gradualmente sparire le librerie, Edoardo e Daniele Martignoni possono vantare una vita spesa nella diffusione libraria e, nonostante tutto, sono sempre sulla breccia. Cominciamo da Edoardo: vuole parlarci di lei? Sono nato nel 1935, cittadino da sempre affezionato alla città. Mio padre, Giovanni, è stato il primo a mettere in piedi que-
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sta attività nel 1948. L’idea gli era stata consigliata da un libraio di Bologna. All’epoca avevo dodici anni, ero giovanissimo. La prima nostra sede era sotto la loggia della Camera di Commercio, dove oltre al nostro c’erano anche altri banchi, chi vendeva maglieria, chi souvenir. C’era un altro libraio di Pontremoli, un certo Galleri, che era lì da circa sessanta, settant’anni. Una vita: potrebbe aver persino incontrato Emilio Salgari quando passeggiava in centro. Poi c’è stato un incendio e ci siamo spostati nella sede attuale. È stato tra il 1950 e il 1952. I primi tempi avevamo un banco mobile, per cui era tutto un monta-
Edoardo e Daniele Martignoni
Bancarella dei libri
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re e uno smontare; in seguito il Comune ci ha concesso il posto fisso. Si è appassionato subito al libro? In realtà io amavo i fumetti, mentre mamma e papà si interessavano ai libri, con un mio fratello. Tenevo d’occhio l’edicola e mi accaparravo ogni nuova edizione, il cui prezzo oscillava in genere tra le dieci e le venti lire; ero davvero un appassionato. C’è un aneddoto che descrive bene l’amore che avevo per i fumetti: avevo i copertoni della bicicletta da cambiare e mi mancavano due giornalini, del prezzo di quaranta lire, per completare la serie. Ebbene, sono andato in giro per un mese senza bici, ma ho avuto i numeri e ho completato la serie. Li vendevo e li leggevo, mi appassionavano. Molti giovani amavano i fumetti. Me li chiedevano e io li consigliavo, ero diventato un esperto di questo genere. Nel corso del tempo la clientela è rimasta fedele? Sempre, vengono soprattutto da Verona, anche se qualcuno arriva anche da fuori città. I collezionisti cercano ancora i vecchi giornalini, mentre i giovani cercano Dylan Dog e altri titoli moderni. Di cose storiche ne abbiamo ancora molte, ad esempio il Vittorioso… C’è stato un periodo, negli anni Sessanta, Settanta, in cui il fumetto era in auge, un prodotto davvero popolare. Al giorno d’oggi è perlopiù og-
getto d’interesse da parte di collezionisti e amatori. Parliamo ora con Daniele, figlio e continuatore di Edoardo. Ha sentito anche lei la passione o è stato quasi un obbligo proseguire nell’attività? Devo dire che all’inizio mi ci sono trovato coinvolto, quasi costretto, poi col tempo mi sono appassionato quasi più di mio padre. Lavoro qui da quando ho finito le scuole medie, inizialmente solo per dare una mano, poi invece mi sono impegnato sul serio. Possiamo dire che sono qui dal 1980, una vita sulle orme del papà. Si è interessato più dei fumetti o dei libri? Forse dei fumetti, ma anche dei libri. La tradizione del libro era appannaggio dello zio. Quando ha smesso per motivi di salute, abbiamo proseguito noi. La cosa che stupisce è che siete sempre qui, all’aperto, non mancate mai... A meno che non arrivi una bufera paz-
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zesca, noi siamo sempre qui presenti. E quando succede, almeno ne approfittiamo per riposare un po’ anche noi. Vento e pioggia sono un disastro per i libri. Dal
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’48 sono passati tanti anni, abbiamo visto tante librerie aprire e chiudere. Nel campo dei libri usati, siamo arrivati per primi e siamo gli unici ad essere rimasti. Una volta, in piazza Erbe, c’era un altro banco che faceva il nostro stesso lavoro. Poi c’era un altro commerciante che chiamavano “Il Pirata”, perché aveva sempre il toscano in bocca, ma è rimasto per poco. Era sotto il portico con noi, poi l’hanno trasferito di là, a S. Rocchetto. Noi resistiamo e ci accontentiamo anche se il lavoro è diminuito. Siamo indipendenti, non abbiamo padroni, questa è la cosa più importante, nonostante le spese a cui bisogna far fronte. Come va oggi il mercato dei fumetti per collezionisti? C’è ancora molta richiesta. Diabolik, per esempio, è stato pubblicato nel ’62 e i primi numeri hanno raggiunto buone quotazioni. Il primo numero vale anche milioni. Quando nacque non andava molto, era un po’ troppo spinto, per cui ne avevano stampati pochi esemplari e quindi ora vale molto. Poi ha preso piede, tant’è
Edoardo e Daniele Martignoni
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che viene ristampato anche oggi. Un po’ come Tex, del quale i collezionisti cercano le striscette da quindici lire, non rilegate. E poi Topolino, noi abbiamo una collezione storica. Una volta c’erano dei bravissimi disegnatori. A parte le produzioni giapponesi, che piacciono solo ai ragazzini, sono sempre i classici che resistono: Tex, Dylan Dog, Diabolik, Zagor e Topolino. Tutti vivi nella memoria. Sono in molti a chiamarci, un po’ da tutta Italia. Grazie al nostro magazzino siamo in grado di soddisfare molte richieste e, quando necessario, sappiamo come rintracciare quello che ci viene richiesto. C’è stato anche il periodo dei fo-
toromanzi... Negli anni Settanta andavano molto, poi, qualche anno fa, li hanno sospesi perché non vendevano più. Sono stati sostituiti dagli Harmony, che hanno davvero un grande mercato. Quanto ai periodici, Urania e i gialli avevano molti appassionati e ancor oggi piacciono di più quelli vecchi, quando c’erano scrittori come Agatha Christie, Rex Stout, Wallace, Dickinson Carr. Il vostro è un lavoro importante, perché conserva la memoria di libri e fumetti... Quanto a quello, non c’è pericolo, ricordiamo tutti i fumetti, tutti i personaggi che sono passati nelle nostre mani.
Edoardo e Daniele Martignoni Bancarella dei libri Via Quintino Sella - Verona Tel. 338 5346121
Bancarella dei libri
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Personaggi
Dino Da SandrĂ Personaggio dei fumetti
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Emanuele Battaglia Dentista
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Luciano Gianfilippi Giornalista
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Fabio Scolari e Claudia Giagnoni Ordine delle Lame Scaligere
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Prot agonist s in Verona
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Pewrsonaggi Bertoldo versione web
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a Tommaso da Vico, passando per Bertoldo, fino al Torototela, c’è una lunga tradizione di personaggi satirici e buffi, a Verona. Forse un briciolo di pazzia fa parte del Dna scaligero e ha contribuito ad avvalorare il noto adagio “Veronesi tuti mati”. Erede di questa tradizione e frutto dell’era digitale, Dino da Sandrà è un personaggio a fumetti che sta diventando un vero fenomeno di costume, imperversando tra serate conviviali, Tv e social network. Ne parliamo col suo creatore, Nicola Brusco. Nicola, parliamo di lei... Sono nato a Caprino il primo luglio del 1977, ma ho vissuto a Bardolino, e poi a Cavaion fino alle medie e superiori. Mi sono spostato a Padova per studiare e ci sono rimasto anche per lavoro fino al 2008.
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Poi sono tornato a Verona per nostalgia. Che studi ha fatto? Fin da piccolo ho sempre smanettato col computer. Mi dicono che a sette anni mio papà mi aveva portato a casa un computerino, un M10 della Olivetti, e io mi ero messo a compilare programmini basic. Insomma è sempre stata la mia passione, insieme al fumetto; mi ricordo che da bambino desideravo avere l’influenza per rimanere a casa da scuola a leggere Topolino. Da grande ho poi scelto la facoltà di Ingegneria Informatica, ma la passione per il computer si è sempre incrociata a quella per le “nuvole parlanti”. Infatti, dopo gli studi universitari, un dottorato e un Erasmus in Irlanda, ho ripreso in mano il fumetto grazie al programma Flash, passatomi da un amico: in questo modo
Dino Da Sandrà
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ho trovato la formula ideale per esprimermi, attraverso storielle brevi ma pungenti, che coprivano lo spazio di una vignetta. Quando nasce il personaggio Dino da Sandrà? Il Dino nasce come cartone animato a scenette che ho cominciato a pubblicare sul web. La soddisfazione è stata grande perché ho avuto un sacco di visualizzazioni su Internet; il Dino ha avuto una genesi strana, all’inizio era il personaggio spalla di un mago che faceva la parodia di Vanna Marchi, ma non era ancora ben caratterizzato. Dopodiché ho deciso di costruire le vignette corredandole con dialoghi in dialetto veneto tra il Dino e il suo inseparabile compagno, “l’omino timido”, utilizzando una serie di proverbi che avevo raccolto; questa è stata la formula vincente che ha portato il Dino a diventare virale, diffondendosi in tutta Verona. Era il 2004 e alle sagre la gente mi fermava per farmi i complimenti: il Dino era diventato famoso e più vero di tanti altri personaggi. Oltretutto il nome, Dino da Sandrà, l’avevo pescato dalla tradizione. Nella tradizione, che caratteristiche aveva il Dino da Sandrà? In realtà il Dino da Sandrà del fumetto è un superamento dell’altro Dino. Il Dino della tradizione è furbo, un po’ stravagante, fuori dai canoni ordinari, non ha famiglia, non ha lavoro, gira, va sempre al bar. È un personaggio che ha sempre delle massime da dare a tutti. Questo personaggio, come fumetto, nella tradizione mancava. Ho cercato di dargli un pizzico
di personalità, moralità, rendendolo un personaggio positivo, apolitico e a-calcistico. È davvero una grossa soddisfazione aver creato un personaggio che è vivo. Al di là del Dino, che caratteristiche ha invece Nicola? Sono abbastanza schivo e timido: infatti ho proiettato queste caratteristiche nella spalla del Dino, “l’omino timido”, che è il suo miglior amico. D’altra parte, però, mi piace esprimermi, dire la mia, fare la battuta, stare in compagnia e in pubblico, e questo aspetto è tipico del Dino. Diciamo che se io dovessi dire le stesse cose del Dino non avrei la sua stessa autorità, anche
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Pewrsonaggi
perché a lui ho dato la voce grossa. Come si è sviluppata poi la cultura del Dino? Ad un certo punto il Dino ha cominciato a crescere. Un amico di Vicenza si è appassionato al punto tale da propormi di creare un’associazione e ha proposto una serie iniziative di marketing, tra cui il bollino del Dino con una scritta che recita: “Qua el Dino l’ha magnà e no l’è sta mal”, destinato a ristoranti e bar affezionati. Abbiamo costruito un sito, è nata una serie di collaborazioni con vari personaggi amanti della lingua veneta. Insomma, si sono aggiunte tante persone, e quindi abbiamo creato questa associazione per dare un contenitore a tutta una serie di iniziative, tra cui gadget, spillette, magliette. A me piace recuperare la tradizione veneta e riproporla in modo nuovo, con i filmati, Internet, Facebook. Il personaggio di Dino potrebbe essere un supporto per iniziative
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sociali o di beneficenza… L’abbiamo già fatto, abbiamo fatto una serata con L’Abeo, alla Gran Guardia. E lì è stata la prima volta che ho inscenato il Dino live. Poi abbiamo collaborato con un’associazione di Cavaion, e ho costruito un cartone animato in collaborazione con San Felice sul Panaro, per il terremoto. Ma soprattutto, ogni anno collaboriamo con un’associazione di Treviso, Team For Children, e acquistiamo materiale per i reparti di Oncoematologia Pediatrica degli ospedali della Regione. Con tutta questa popolarità, prima o poi qualcuno le proporrà di fare il sindaco di Verona... Eh, ma abbiamo Tosi che ha una grossa popolarità! Però in futuro, chissà! Adesso cosa pensa per il futuro? Ha in mente qualche nuova impresa o vuole continuare a divertirsi? Io voglio continuare a divertirmi. Adesso
Dino da Sandrà
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“la Caroline”, la sua fidanzata, preferisce andare con lui che ha qualcosa di molto grande, che è il cuore, rispetto all’imprenditore che di grande non ha niente, tranne il conto in banca. Probabilmente, dunque, il classico “fighetto” si sente un po’ attaccato dal Dino che, essendo un personaggio autentico, è molto critico rispetto alle apparenze. E per uno come Dino è facile smontare un muro di ho un paio di idee in cantiere, due padovani un po’ ebeti, che vanno in giro a fare danni e la scampano sempre. Poi se diventasse un lavoro e non più solo un hobby ne sarei felice. Occuparmi di informatica mi piace, ma il lavoro creativo mi dà grosse soddisfazioni. Occorre sottolineare comunque, che l’utilizzo di strumenti informatici per animare il Dino non è una cosa da tutti: se non avessi saputo usare Flash, il Dino non sarebbe nato, perché il fumettista tipico disegna in modo statico. Una cosa a cui tengo molto è riuscire a rimanere indipendente, riuscire a confezionare il Dino dall’inizio alla fine. Piace a tutti il Dino? In generale piace a tutti, dai bambini agli anziani, anche se da un sondaggio è emerso che a qualcuno dà un po’ fastidio. Si tratta del tipico “fighetto” che parla in italiano. C’è un ultimo cartone in cui il Dino acquista una macchina scassata invece di comprarsi la macchina nuova e alla fine
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cartapesta.
Dino Da Sandrà dino@dinodasandra.com
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Personaggi Un eclettico gentiluomo
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ottore, cuoco, marinaio, viticoltore: sono solo quattro delle innumerevoli parole adatte a spiegare Emanuele Battaglia, dentista originario di Ragusa, cresciuto sul mare e trapiantato in Valpolicella, con il cuore in laguna. Cosa può dirci di sé? Sono nato a Ragusa, ma la mia infanzia è stata segnata dal mare, perché la famiglia di mia madre proviene da Torre Archirafi, un paese in provincia di Catania tra Taormina e Acireale, dove io, unico tra i nipoti, trascorrevo le vacanze estive in casa della nonna, che abitava a trenta passi dallo scalo dei pescatori. Per questo sono cresciuto sempre con il mare in testa e la
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passione per le barche. Successivamente ci siamo spostati nella provincia di Catania, per seguire i trasferimenti lavorativi di mio padre, e solo più tardi siamo tornati a Ragusa. Nei primi anni Settanta sono arrivato a Padova per motivi di studio, poi sono finito a Verona. Avrei voluto tornare in Sicilia, ma mi sono sposato con una ragazza di Sant’Ambrogio di Valpolicella, ho cominciato a lavorare, sono nati i miei figli, perciò sono rimasto qui. Come mai ha scelto la specializzazione odontoiatrica? Alla fine degli studi c’era un’ampia scelta nell’ambito della professione medica, e il ramo che secondo me offriva spazio mag-
Emanuele Battaglia
giore era proprio l’odontoiatria. Una volta era considerata un po’ una cenerentola della medicina invece, se praticata a un certo livello, è una branca molto interessante, anche perché si tratta di una disciplina che richiede aggiornamento costante. In cosa consiste la sua attività? Ho aperto il mio studio dentistico poliprofessionale a San Floriano, poi sette anni fa l’ho trasferito a San Pietro, e sono molto soddisfatto del cambiamento. Qui ho tre collaboratori, tre assistenti e presto si unirà a noi anche mio figlio, che sta per finire gli studi. Inoltre l’immobile in cui ci troviamo ora, nonostante una partenza difficile dovuta alla necessità di sanare una situazione di abuso edilizio, si è rivelato molto prezioso perché dispone di un valore aggiunto veramente particolare: finestre panoramiche che danno sulla Valpolicella. Di conseguenza sia noi che lavoriamo, sia i pazienti sulla “temuta” poltrona, possiamo godere di una vista affascinante, che in un attimo ci riconcilia con il mondo, ci allarga il cuore. Lei ha molti interessi, oltre alla sua attività. Oltre all’amore per il
Dent ist a
mio lavoro, che secondo me è un elemento fondamentale, mi sono cimentato in tantissime attività: mi piace la scultura, lavorare la ceramica, ho sperimentato la sartoria, ho disegnato la casa in cui vivo ora, e anni fa, prima del lancio del rasoio a tre lame, avevo addirittura mandato alla Gillette il mio progetto per un rasoio a quattro lame, che però non ha raccolto l’interesse che mi auguravo. Adoro cucinare, soprattutto il pesce, sono un cultore del baccalà. Nel ’98, dopo un seminario a Roma, ho invitato a Verona, accettando una sfida, i relatori, due luminari dell’odontoiatria, e ho cucinato per
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loro e per altre otto persone un menù di pesce di una decina di portate. La più grande passione che coltivo però è quella per le barche in legno a vela latina. Questo interesse mi ha permesso oltretutto di scoprire e apprezzare la laguna di Venezia, che prima non conoscevo, grazie a una velalonga a cui sono stato invitato. Alla fine della regata ero già cotto, sia dal sole, visto che era a maggio, sia perché mi ero innamorato del territorio. Così mi sono fatto costruire una barca, una nassarola, destinata cioè alla pesca con le nasse, e l’ho chiamata Santa Lucia, un nome “diplomatico” in omaggio alla santa di Siracusa le cui spoglie,
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conservate a Venezia, hanno generato non pochi attriti tra le due città. Cosa la affascina di Venezia? Il profumo del salmastro mi ha subito riportato al mare della mia infanzia, e poi la laguna vista dalla barca ha fatto il resto, con la sua magia di paesaggi, di colori, di persone interessanti. È un luogo meraviglioso, secondo me non c’è posto più bello al mondo. Anche il pesce mi ricorda molto quello della Sicilia. Andare per il mercato del pesce è un’esperienza bellissima perché ritrovarmi immerso in atmosfere familiari, della mia infanzia, per me è veramente fonte di grande beneficio dell’anima. E poi credo che i veneziani siano i più “meridionali” tra gli abitanti del Nord: visto che devono muoversi in acqua hanno ritmi molto più lenti, tempi dilatati, e questo li rende più tranquilli. Poi per loro tutte le scuse sono buone per fare festa: nei fine settimana si inventano tutte le regate a remi del mondo per poter fare bisboccia, mangiare e bere. Li trovo molto par-
Emanuele Battaglia
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ticolari, e mi piacciono tantissimo. Lei produce anche vino? Penso che tutti gli italiani abbiano la passione del vino, perché la nostra storia passa attraverso questo tipo di cultura contadina. Mio nonno aveva le vigne, e anche mio padre possedeva un piccolo vigneto che produceva il necessario per il consumo familiare; quando sono arrivato in Valpolicella mi è quindi venuto quasi naturale produrre vino a mia volta. Di solito compro l’uva, la vendemmio, la mosto, e la imbottiglio con l’aiuto di un paio di amici nei fine settimana. Produco un Recioto di buona qualità, come mi hanno confermato alcune cantine della zona a cui l’ho fatto assaggiare, destinato soprattutto a essere regalato agli amici. Sono anche molto soddisfatto perché finalmente, dopo dieci anni, ho trovato l’etichetta perfetta. Ad essere sincero mi sono imbattuto per caso in un logo che mi è sembrato sin da subito perfetto: un’ancora, un delfino, l’iscrizione Aldus, come il mio secondo nome, e il motto Festina lente, cioè affrettati con calma, che mi descrive bene perché a me piace ponderare e agire. Solo dopo alcune ricerche ho scoperto che si tratta della marca tipografica dell’editore Aldo Manuzio, un grande personaggio della nostra cultura, troppo poco conosciuto. Comunque gli ho “rubato” il simbolo e ho aggiunto la frase della scuola medica salernitana “gli uomini bevano vino, gli animali alle fonti”. Mi sembrava molto appropriata. Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Quando mio figlio subentrerà al mio posto nella conduzione dello studio a me resterà un po’ più di tempo da dedicare alle mie numerose passioni. Sono una persona curiosa, in costante fermento: non resto mai fermo, perché se mi ritrovo senza nulla da fare tendo a deprimermi. Quando avrò finito con i miei progetti attuali dovrò subito cercare qualcos’altro con cui tenermi impegnato. Penso sia una questione di sopravvivenza.
Emanuele Battaglia info@dottorbattaglia.com
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Sol levante
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uciano Gianfilippi, giornalista con una lunga carriera al servizio esteri del Messaggero, divide il suo tempo tra le colline di Verona e le pendici del Fujiyama. Dove è nato? Sono nato a Venezia, ma mio padre era veronese. Il nome che porto ha una lunga tradizione: risale al Cinquecento quando i Gianfilippi erano sparsi tra Bardolino e Verona. Il fondo antico della Biblioteca Civica di Verona comprende molti volumi dei miei antenati. Ci trasferimmo nella città lagunare perché papà era direttore d’alberghi. Diresse prima l’Hotel Luna, vicino all’Harry’s Bar di Cipriani, e poi il
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Grand Hotel, che era situato dove adesso c’è la sede della Regione. Io lo ricordo molto bene, perché da piccolo ci abitavo. Quindi la sua giovinezza è stata veneziana? Fino a cinque anni sono stato a Venezia, poi mio padre decise di aprire, in società col vecchio Cipriani, l’albergo Villa Cortine ad Asolo, così per due anni ho abitato lì; dopodichè papà vendette e tornò a fare il direttore per la catena Jolly Hotel di Marzotto. Da giovane ho quindi girato l’Italia. Ho iniziato il liceo classico a Merano, terminandolo al Maffei, a Verona, città nella quale sono tornato dopo che mio padre aveva smesso di lavorare per
Luciano Gianfilippi
Giornalist a
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un infarto. Ho avuto una formazione speciale grazie anche alla sua lungimiranza; tra le altre cose, volle che a sedici anni passassi l’estate in un centro austriaco per studiare il tedesco: lì venivano studenti da tutta Europa, così ho conosciuto tante amiche e amici francesi, inglesi, finlandesi, svedesi… Quando ha scoperto il talento della scrittura? Mio nonno era giornalista e continuò a lavorare fino a ottant’anni. Ogni settimana, anche da pensionato, curava una rubrica di recensione sulla trasmissione Rai che si chiamava A come agricoltura. Spesso collaboravo con lui scrivendo dei pezzi che poi lui esaminava e correggeva: sono stati i miei primi approcci alla scrittura. Al liceo ho fatto esperienza nei classici giornalini scolastici e poi, dopo gli studi universitari a Padova e alcune collaborazioni con testate venete, nel 1973 mi sono iscritto all’Ordine dei giornalisti come pubblicista. Arriviamo al Giappone. Quando e perché il Paese del Sol Levante entra nella sua vita? Merito dell’amore. Trenta anni fa, a Venezia, ho sposato Sachiko Takigami. Allora scrivevo per il Gazzettino, mentre mia moglie lavorava come interior designer di navi da crociera e quindi girava per i cantieri in Grecia, Francia, quasi mai in Italia; dopo che ci siamo sposati ha abbandonato la professione per dedicarsi alla famiglia e alla pittura. Lei è giapponese, di famiglia samurai, e la tradizione prevede all’interno della famiglia una organizzazione matriarcale, e patriarcale all’esterno. Un po’ alla volta sono stato “giapponesizzato” anch’io. Certo, il primo impatto col Giappone è stato scioccante. È stato come sbarcare su Marte. Ci sono an-
dato con mia moglie dopo le nozze a Venezia, per ripetere il rito del matrimonio con la famiglia. È un mondo affascinante… Io ho sempre sostenuto che è molto importante per chi fa editoria in Italia e in Europa conoscere il mondo giapponese. Lì sono molto più avanti di noi. Per esempio i cinque principali quotidiani hanno le tirature più alte del mondo, fino a undici milioni di copie al giorno; questi giornali in Giappone vendono al novantacinque per cento le copie in abbonamento con consegna a casa o in ufficio. Dal punto di vista professionale, le è mai capitato che le chiedessero di parlare dell’Italia? Sì, ho collaborato con un importante editore giapponese che mi ha chiesto di scrivere su Venezia, in particolare sulla storia
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ventina di giornalisti italiani dal Giappone, mentre adesso i corrispondenti si contano sulle dita di una mano, Ansa compresa, perché molti sono stati spostati a occuparsi della Cina. Dopo il Gazzettino? Nel 1988 dovevo partire per il Giappone. Mia moglie era già lì e io avevo in tasca il biglietto d’aereo prenotato per tre giorni più tardi. Prima di partire, decisi di andare a Roma dall’allora
del vetro. Nel 1986 ho curato una serie di mostre su Venezia e il Veneto per la manifestazione “Ciao Italia” del Gruppo Seibu. Poi ricordo che nel 1985 ho seguito l’Expo di Tsukuba, a cui furono dedicate alcune pagine sul Gazzettino. C’è molta più curiosità sull’Italia da parte dei giapponesi che non l’inverso. Milioni e milioni di giapponesi sono venuti a conoscere l’Italia, mentre ben pochi italiani sono andati nel paese asiatico. Tra l’altro, fino al 1981 c’era una direttore del Messaggero, Mario Pendinelli, per offrirgli una specie di collaborazione dal Giappone su determinati argomenti. Lui mi guardò e mi chiese il curriculum. Alla fine mi propose di rimanere lì per sessanta giorni perché gli serviva un giornalista alla redazione esteri. Un colpo di fortuna, tanto che il caporedattore centrale, Vittorio Roidi, mi chiese, come prima cosa, chi
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Luciano Gianfilippi
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mi avesse mai raccomandato. Se fossi arrivato una settimana prima o una settimana dopo, questa cosa non sarebbe accaduta: a volte la vita è veramente strana! Era l’ottobre del 1988 e lì sono rimasto fino al 2011, quasi venticinque anni sotto il tetto del Messaggero. Mia moglie fu contenta, Roma le piaceva moltissimo. Poi, il fatto di venire dal Veneto, con il nostro modo di affrontare il lavoro, ha favorito un rapido inserimento. Di cosa si è occupato? Mi sono occupato del servizio esteri. Ho seguito tutta la guerra nella ex Jugoslavia. Sono stato anche a casa di Gheddafi. Eravamo in tre giornalisti: io, Magdi Allam di Repubblica e Antonio Ferrari del Corriere della Sera. La cosa che più mi ha impressionato erano le scritte in arabo all’entrata della casa che recitavano più o meno così: “Se sei un amico, qui a casa Gheddafi sei al sicuro, se sei un nemico, ti mettiamo al muro” e intorno schizzi di sangue. In seguito? In un periodo di crisi generale per i quotidiani, il giornale perdeva molte copie a Roma, e l’allora direttore Pietro Calabrese scelse, giustamente, di puntare sulle regioni per recuperare le copie vendute. Mi venne offerto il ruolo di vicecaposervizio in Umbria, dove siamo riusciti un po’ alla volta a crescere, anche grazie a particolari promozioni, come per esempio l’idea di vendere Il Messaggero assieme al Corriere dello Sport. È stato un successo
atipico in Italia, dato che tra i pochi quotidiani che hanno aumentato le copie vendute ci siamo stati noi, l’edizione umbra del Messaggero, e il Giornale di Vicenza che ha approfittato della crisi del Gazzettino. Ho vissuto dieci anni in Umbria, dal ’99 al 2011 durante i quali mi sono trovato molto bene, per la bellezza dei luoghi e per la qualità della vita: avevo piena autonomia di lavoro, è stato un periodo molto piacevole. Che cosa ha pianificato per il futuro? Penso di passare metà dell’anno qui a Verona, e l’altra metà in Giappone; il clima del Giappone è molto buono d’inverno, è un freddo secco. Qui ho una casa in Viale dei Colli, non tanto grande, ma bella, a dimensione giapponese dalla quale si vede tutta Verona: appena l’ho vista, col terrazzo e un pezzo di giardino, me ne sono innamorato.
Luciano Gianfilippi luciano.gianfilippi@alice.it
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Pewrsonaggi Il mestiere delle armi
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abio e Claudia sono l’anima dell’Associazione Ordine delle Lame Scaligere. Marito e moglie, lui promotore finanziario, lei dermatologa, uniti dalla passione per la rievocazione storica, la scherma e il teatro. Li abbiamo intervistati rimanendo incantati dalla loro passione per la cultura e la storia veronese, che intendono proteggere e valorizzare con un progetto molto ambizioso… Prima di tutto, presentatevi ai nostri lettori… Sono Fabio Scolari, istruttore di scherma storica medievale e presidente dell’“Ordine delle Lame Scaligere”, un’associazione che si occupa di ricercare e riprodurre le tecniche di combattimento con armi bianche in ambito medievale e rinascimentale, oltre che di rievocazione storica. Io sono Claudia Giagnoni, moglie di Fa-
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bio. Sono venuta a contatto con l’associazione proprio grazie a lui; quando ci siamo conosciuti lui era all’inizio di questa avventura, e quindi molto coinvolto da questo progetto. Io non faccio scherma, ma mio occupo principalmente dell’aspetto teatrale, cosa che ci appassiona entrambi e che si integra perfettamente con l’uso delle armi e la rievocazione storica. Fabio, da dove nascono queste passioni? Come capita spesso, mi ci sono ritrovato quasi per gioco, coinvolto dagli amici e incoraggiato dalle letture, in particolare dei romanzi epici. Era il 1996. Abbiamo iniziato a frequentare un corso di spada medievale con un maestro illustre come Giovanni Rapisardi, oggi uno dei più alti esponenti della scherma storica in Italia. Eravamo in cinque ad allenarci in una
Fabio Scolari e Claudia Giagnoni
Personaggi
piccola palestra. Proseguendo siamo diventati a nostra volta maestri, e abbiamo aperto altre scuole, undici, fra Verona e provincia. A chi sono rivolti i vostri corsi? Fino a tre anni fa, solo agli adulti, poi abbiamo pensato a degli itinerari dedicati anche a bambini e adolescenti. E la passione per la storia? È nata in un secondo momento, conseguenza dell’interesse per l’attività sportiva. Trattandosi di scherma storica, abbiamo voluto documentarci studiando i trattati del Trecento, Quattrocento e Cinquecento. Da quei testi è nata la passione per Verona, per la sua storia, per gli Scaligeri. Dove si reperiscono informazioni sulla scherma storica? Tecnicamente la scherma storica si divide in medievale e rinascimentale; il primo trattato che ne parla risale al 1290 e riguarda la scherma di origine germanica.
Ordine delle Lame Scaligere
Il primo trattato italiano risale invece al 1409, grazie al maestro friulano Fiore de’ Liberi. Da queste letture abbiamo scoperto che erano anche i monaci ad insegnare ed eseguire le tecniche, e tra gli allievi c’erano anche delle donne. La scherma comunque, veniva insegnata soprattutto ai nobili. Come si evolvono nel tempo le tecniche di combattimento? Dopo la scuola medievale e quella rinascimentale, si passa alla scherma classica del Seicento e Settecento, per arrivare alle tecniche dei giorni nostri, di stampo prettamente sportivo. La tecnica cambia man mano che compaiono le armi da fuoco, i fucili, i moschetti, con i quali non serve più un’armatura pesante. Questa evoluzione influenza la tecnica della scherma, che riduce i colpi di lama di taglio, e implica sempre di più un lavoro di punta. Si raffina il modo di tirare che adesso vediamo caratterizzato nel fioretto, nella spada e nella sciabola, che sono figlie di questa evoluzione schermistica.
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Oltre all’attività in palestra, c’è l’aspetto rievocativo… Sì, esatto. Noi ricostruiamo la tecnica grazie allo studio dei trattati in materia, cercando di riprodurla il più possibile, naturalmente trascurando l’aspetto mortale! È ovvio che le tecniche descritte erano finalizzate a far durare il duello pochi secondi, il tempo sufficiente ad abbattere il nemico. Per la didattica rievocativa e per gli spettacoli invece è necessario costruire una sequenza di movimenti tali da ottenere una resa scenografica del combattimento per il pubblico che assiste. Claudia, all’inizio ci accennava al suo ruolo nell’associazione sul versante teatrale. Può raccontarci in che cosa consiste? Dopo qualche anno dalla nascita dell’associazione, abbiamo pensato di fornire
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ai nostri atleti anche una formazione dal punto di vista teatrale per offrire al pubblico non solo una rievocazione filologicamente corretta, ma anche la possibilità di godersi il più possibile lo spettacolo. Teniamo particolarmente a questo aspetto che molti rievocatori spesso trascurano. Noi invece facciamo di tutto per coinvolgere lo spettatore, chiamandolo all’interno del nostro accampamento per avvolgerlo completamente nell’atmosfera medievale. Il fatto, poi, di insegnare la scherma puntando soprattutto a divertire i ragazzi è un nostro vanto ed è il segreto che sta dietro all’ampio seguito di appassionati su cui possiamo contare. Ci sono rievocazioni anche della parte civile? La didattica e la rievocazione riguarda anche aspetti della vita civile. Noi ci muoviamo sempre come compagnia mercenaria ma ci portiamo dietro il fabbro per sistemare le lame, le cuoche, le sarte… tutte figure della società dell’epoca. Abbiamo nel
Fabio Scolari e Claudia Giagnoni
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gruppo una cuoca che si è dedicata allo studio dei ricettari del Trecento. Quanti sono gli associati? Abbiamo un centinaio di iscritti e pratichiamo in undici scuole. È appena partito un corso di scherma storica artistica che punta molto sull’aspetto della preparazione della coreografia teatrale di un duello. Come associazione, abbiamo già organizzato dei veri e propri colossal tra i quali, C’è mondo fuor dalle mura di Verona, che ha riscosso un grandissimo successo, con trenta attori sul palco e scene corali di grande impatto. Abbiamo ricostruito alcuni momenti della vita di Cangrande, dalla leggenda attorno alla sua nascita fino ai fasti della conquista. Come rievocatori, come amanti della scherma, qual è il vostro sogno? Vorremmo che, a Verona, gli Scaligeri fossero più conosciuti di Romeo e Giulietta. È un peccato che gli eventi storici di Verona siano surclassati da un racconto di invenzione. Ci piacerebbe che i veronesi conoscessero la storia degli scaligeri, quale fosse la grandezza, il fasto all’epoca di Cangrande, che Dante cita come l’eletto, colui che avrebbe dato nuova luce
Ordine delle Lame Scaligere
all’Italia. Progetti per il futuro? Abbiamo in serbo il progetto “Verona Presidio Storico”, già proposto al Comune, che ha l’obbiettivo di costituire, in collaborazione con altre associazioni, un polo storico che dovrebbe comprendere due musei, con le ricostruzioni delle armi e dei lavori artigianali medievali e rinascimentali, un punto di ristoro con pietanze tratte da ricette antiche, un museo della birra, una biblioteca storica, una videoteca e dei laboratori per le scuole. Lo scopo è quello di diffondere il più possibile la conoscenza della storia, facendola toccare con mano agli studenti. Inoltre, il progetto vuole favorire la diffusione dei prodotti tipici del territorio, offrendo dunque concrete possibilità lavorative accanto allo scopo principale di diffusione della cultura. Ci teniamo a dire che il progetto è totalmente autofinanziato, non chiede nessun tipo di sostegno economico al Comune, anzi, darebbe alla città il massimo lustro. Ordine delle Lame Scaligere info@lamescaligere.it
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Ringraziament i e Cont att i
Un doveroso ringraziamento a quanti, tanti, hanno collaborato alla realizzazione di questa decima e storica edizione, sperando di non dimenticare nessuno. Cominciamo dalla redazione, con Giuliana Borghesani, Lia Camporin, Stefania Carniel, attivissima anche nell’organizzazione, Claudia Cecchetto, Laura Perina e Nicola Ruffo. Alcuni amici hanno preso a cuore il progetto e si sono prodigati nel ruolo di rigorosi e fantasiosi talent scout: Valerio Avesani, Nicola Beber, Roberto Bertani, Daniela Campagnola, Elena Cardinali, Renzo Casarini, Simone Castioni, Sonia Chiggio, Claudio Gallo, Enrico Marchi, Maurizio Pansarella, Armando Pisani, Alessandra Rutili, Gloriano Segalotto, Fabrizio Stringhetto, Gaetano Sturiale. Un grande ringraziamento per il sostegno e l’incoraggiamento va alla Provincia di Verona, al Comune di Verona, alla Confesercenti e all’associazione Gente e Territori. Non dimentichaimo la Riseria Riso3Erre di Castel d’Ario (MN), e il Delser Manor House, luogo di tradizione ospitalità agli eventi Excellence Book.
Infine un grazie ai protagonisti che hanno creduto in questo progetto, l’hanno sostenuto e reso possibile. Incontrarli e ascoltare le loro storie è stato un piacere.
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Cont att i
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Copyright © 2013 Emanuele Delmiglio Isbn: 978-88-96305-29-4 Interviste realizzate da Emanuele Delmiglio Progetto grafico e impaginazione: Delmiglio sas Finito di stampare nel mese di aprile 2013 presso Mediaprint - Verona