GREGORIO PRIETO e la fotografia RAER 2018
145 años de creación e innovación cultural
GREGORIO PRIETO e la fotografia
GREGORIO PRIETO e la fotografia Ministerio de Asuntos Exteriores y de Cooperación de España Ministro de Asuntos Exteriores y de Cooperación Alfonso Dastis Secretario de Estado de Cooperación Internacional y para Iberoamérica Fernando García-Casas Director de la Agencia Española de Cooperación Internacional para el Desarrollo Luis Tejada Director de Relaciones Culturales y Científicas Roberto Varela Real Academia de España en Roma Embajador de España en Roma Jesús Gracia Aldaz Consejero Cultural Ion de la Riva Directora M.ª Ángeles Albert de León Secretario Francisco J. Prados Fundación Gregorio Prieto Presidenta del Patronato M.ª Concepción García-Noblejas Santa-Olalla Vicepresidente del Patronato Gonzalo Fernández Suárez de Deza Secretario del Patronato Jesús Rubio García-Noblejas Director del Museo de la Fundación Gregorio Prieto Ignacio Muñoz González
Comisaria Almudena Cruz Yábar Coordinación general Academia de España en Roma M.ª Ángeles Albert de León Margarita Alonso Campoy Carmen Rodríguez Fdez.-Salguero Fundación Gregorio Prieto M.ª Concepción García-Noblejas Jesús Rubio García-Noblejas Ana Álvarez Morales Gestión cultural y comunicación Cristina Redondo Sangil Miguel Cabezas Ruiz Montaje exposición Marco Colucci Mino Dominijanni Alberto Fernández Emmanuele Gargano Alessandro Manca Marina Pascual Fabio Polverini Diseño gráfico Mercedes Jaén Ruiz Traducción Elisa Tramontin Impresión Tipografia Carnicella Transporte Gestiarte
Esta exposición no hubiera sido posible sin la generosidad de la Fundación Gregorio Prieto, el apoyo de la Junta de Castilla La Mancha y el esfuerzo del equipo de la Academia de España y sus colaboradores habituales: Margarita Alonso, Stefano Blasi, Miguel Cabezas, Pino Censi, Mino Dominijanni, Alberto Fernández, Alessandro Manca, Marina Laboreo, Irene Llovet, Marina Pascual, Fabio Polverini, Cristina Redondo, Carmen Rodríguez, Roberto Santos, Silvia Serra, Maria Spacchiotti, Simona Spacchiotti,Paola di Stefano, Adriano Valentino, Brenda Zúñiga.
Dopo essere state presentate presso l'Academia de Bellas Artes de San Fernando le fotografie ritornano all'Academia de España, dove in gran parte vennero scattate, per essere esposte per la prima volta in Italia. Giardini, terrazze e studi si riconoscono nelle immagini di un'Accademia in cui, oggi come ieri, i suoi creatori si affacciano ogni giorno sulla bellezza di Roma per innovare e sedurci con altri sguardi. Questa mostra si inserisce nel programma nel quale, ogni anno fino al 150.° anniversario, l'Accademia presenterà frammenti sorprendenti della sua storia e rifletterà sull'influenza di Roma su chi qui ha risieduto. Si presterà una particolare attenzione nel mostrare quei lavori, opere, progetti che siano il risultato della collaborazione tra creatori, ricercatori o gestori che dal 1873 costituiscono l'essenza dell'istituzione. Pertanto nelle parole degli stessi protagonisti conservate nell'archivio della Fundación Gregorio Prieto: “…un bel giorno la fotografia intelligente attraversò i loro cammini opposti con tale intensità che li unì in maniera sorprendente, e da questa stranissima forma all’improvviso nacque un’amicizia postista”. Nota di Prieto, s.d. (1977 circa)
“Quest’opera è di entrambi, tua nella parte spirituale, poiché tu hai ispirato non soltanto le fotografie, ma l’ultima parola delle loro letterature, e ogni cosa indovinata, ogni bell’idea che mi è venuta appartiene a te… Opera mia nella parte materiale, di sintesi, di realizzazione”. Lettera di Chicharro a Prieto, 22 di aprile (1932?)
Real Academia de España en Roma
9
Le fotografie di Gregorio Prieto ed Eduardo Chicharro a Roma Almudena Cruz Yábar, curatrice Negli anni in cui Gregorio Prieto Muñoz (Valdepeñas, 1897-1992) risiedette come pensionado presso l’Accademia di Spagna a Roma – dall’ottobre del 1928 all’ottobre del 1933 – l’artista mancego realizzò in stretta collaborazione con un altro borsista in pittura, Eduardo Chicharro Briones (Madrid, 1905-1964), una serie di fotografie affini allo spirito surrealista. In tutte appariva Prieto come protagonista di un racconto biografico immaginato, ritratto in una varietà di scene che articolavano la sua personale interpretazione dell’avanguardia, di un’eccentricità irriverente e conturbante, con una ricorrente ammirazione per il classicismo ellenistico e malinconico. Anni più tardi, Chicharro ricordava la loro associazione in questo modo: “In Accademia strinsi una grande amicizia con Gregorio Prieto, pensionado in paesaggio e, narcisista quale lui era –sempre lo è stato e continua a esserlo– e letteratoide come mi sentivo io, avviammo l’opera di fotografarlo, in mille modi diversi, tutti densi di narcisismo –non di omosessualità– di surrealismo e di poesia, in fotografie che io corredai di un rispettivo testo letterario–poetico". Confidando nell’originalità del loro progetto, si lasciarono trasportare dall’entusiasmo e dalla sperimentazione artistica. Il proposito iniziale era quello di corredare le fotografie con degli scritti poetici a esse ispirati, realizzando un libro che sarebbe servito da memoria dei loro interessi negli anni di pensión. Tuttavia alla fine il progetto sfumò e l’album non fu mai completato. Al riparo dell’Accademia sulle alture del Gianicolo, la coppia di pittori instaurava una collaborazione fotografica e letteraria difficilmente paragonabile tra gli artisti spagnoli dell’epoca.
Il pensionado nell’Accademia di Spagna a Roma L’Academia Española de Bellas Artes a Roma che accolse Gregorio Prieto ed Eduardo Chicharro nell’autunno del 1928 non era un centro artistico che caldeggiava la sperimentazione prevista dalle fotografie che avrebbero realizzato. In Italia c’era una certa avanguardia nel contesto generale del ritorno all’ordine, ma nell’Accademia spagnola prevalevano gli insegnamenti tradizionali che incoraggiavano il rispetto e l’imitazione dei maestri classici, soffocando così in modo ufficiale l’eventuale spontaneità dimostrata dai giovani artisti, nonostante gli sforzi recenti per promuovere un’apertura nei confronti dell’arte contemporanea, regolamentata sotto forma di viaggi obbligatori in Europa. Lo scarso prestigio di cui godeva l’Accademia tra gli artisti moderni non 11
Gregorio Prieto, Eduardo Chicharro, Manuel Pascual, Tomás Colón y Luis Berdejo en la Academia, 1932.
impedì al giovane Prieto di apprezzarne le qualità; la borsa di studio gli permetteva di soddisfare il suo spirito da viaggiatore e di appagare l’attrazione nei confronti della scultura greca e latina che tanto aveva ammirato nelle copie del Casón del Buen Retiro durante i suoi anni di studente. Queste ragioni furono sufficienti per trasferirsi da Parigi a Madrid e concorrere nell’inverno del 1927-1928 a un posto da pensionado; superate le prove, vinse all’unanimità la borsa di studio in pittura di paesaggio, insediandosi a Roma il 14 ottobre del 1928. Insieme a lui entrarono Tomás Colón Bauzano per la scultura, María de Pablos Cerezo per la musica ed Eduardo Chicharro Briones per la pittura di figura. Quest’ultimo ritornava a quella che era stata la sua casa per gran parte della sua vita, essendo figlio del precedente direttore dell’Accademia, il pittore Eduardo Chicharro Agüera; questo fatto gli permise di godere di determinati privilegi per prolungare il pensionado, vale a dire la concessione di proroghe, il trattamento indulgente ricevuto a dispetto della negligenza nelle consegne regolamentari e, per quanto riguarda le fotografie con Prieto, l’impunità necessaria richiesta da alcune delle irrispettose istantanee scattate nell’istituzione. Tuttavia, la sua parentela non lo dispensò dai costanti diverbi con la direzione – in particolar modo per le mancate consegne, causa alla quale si unì Prieto per solidarietà – prima con Miguel Blay e, a partire dall’aprile del 1933, anche con il nuovo direttore, lo scrittore Ramón del Valle-Inclán. Durante i cinque anni di permanenza a Roma, l’apatica Accademia servì ai due artisti come rifugio per riaffermare le proprie personali convinzioni artistiche, sperimentando la moderna esaltazione che guidava le loro opere pittoriche e le fotografie del libro che puntavano a realizzare insieme. La loro determinazione li spinse a contrastare sia Valle-Inclán, quando affermava che “gli insegnamenti di Roma giovano di più agli ar-
tisti maturi che ai giovani acerbi”, che Moreno Villa, il quale censurava: “Gregorio Prieto vuole essere, ma non osa del tutto”. Il continuo andirivieni per l’Europa, con la tutela della pensión, li riportava a Roma con un bagaglio carico delle più diverse esperienze estetiche che adoperavano poi nelle loro fotografie. Oltre a l’insistente classicismo romano e greco che appassionava Prieto, entrambi visitarono spesso Parigi per contemplare il fulgore dell’avanguardia, unendosi alla moltitudine di meteci che pullulavano nei dehors dei caffè, bramosi di conoscere la modernità che scarseggiava nei loro paesi di origine. Eduardo Chicharro si dichiarò “innamorato del Surrealismo” dopo il soggiorno nella città prima di trasferirsi a Roma nel 1928; da lì veniva anche Gregorio Prieto, che aveva usufruito di una borsa di studio della Junta de Ampliación de Estudios dal 1925 al 1927. A Parigi come a Madrid, Prieto conobbe l’avanguardia ma resistette alla smania di modernità degli artisti, pur non ignorando la libertà che in quel luogo alimentava così tanti e diversi spiriti. Di fatto, dopo aver soggiornato nella capitale francese, il suo esame per il pensionado aveva suscitato un po' di scetticismo tra i membri più reazionari del tribunale –Meléndez si ritirò poiché disapprovava la sua eccessiva avanguardia– e anche tra alcuni critici d’arte, che in maniera ricorrente lo ammonivano perché “a giudicare dal suo esame per il pensionado, si trova in un momento di pericolo; ancora pochi passi, e Prieto perderà il lume dell’assennatezza estetica e tecnica. Roma lo preserverà da questo rischio, tonificherà il suo temperamento ed eviterà a modo suo che il grande paesaggista si rovini e si smarrisca…” Alla fine il capestro dell’Accademia non riuscì a fiaccare la sua passione; al contrario, quegli anni furono forse la fase più prodigiosa e autentica della sua pittura, stimolata dai viaggi iniziatici in Italia e in Grecia e dalla comunità creativa che conobbe sul Gianicolo, specialmente dalla collaborazione con Chicharro dalla quale nacquero le fotografie.
L’amicizia tra Prieto e Chicharro. La fotografia intelligente In un primo momento le personalità dei nuovi pensionados non si compenetrarono alla perfezione. Così lo ricordava Prieto: “Gregorio era ossessionato dalle statue greco-romane e le sognava poeticamente e per questo Roma lo attrasse con entusiasmo, ed Eduardo, discepolo di suo padre, lo seguiva obbediente; come si vede erano due cammini diversi, che non potevano coincidere”. In un’altra occasione aggiunse a proposito del compagno di pensionado che “era veramente ossessionato dal diventare mio amico, ma aveva uno stile di vita e di pittura che a me non andava giù”. Nemmeno Chicharro aveva una gran concezione della pittura del collega, che una volta obiettò: “Tu non hai nessuna considerazione di me come pittore, mentre io ammiro te come temperamento artistico e come uomo che vive e gode, ma i tuoi quadri, pur non sembrandomi malvagi, sono ben lungi dal costituire l’opera di un artista che mi possa 13
con i loro amici a Cercedilla, nell’anno 1929. La pittrice galiziana orchestrava la messa in scena, realizzata con alcuni elementi improvvisati ed evocativi –soprattutto teschi di mucche– firmando con il gesso le composizioni come se si trattasse di un quadro. Tuttavia, a parte lo spirito “surrealizzante” e il narcisismo che potevano condividere entrambi i modelli, alla serie dei fratelli Mallo mancava l’intima collaborazione tra gli autori presente nelle fotografie di Chebé e Prieto; al contrario, i risultati non reggevano il confronto nella varietà di tematiche, scenari, soluzioni e sperimentazioni artistiche realizzate dai due pensionados a Roma.
interessare”. Tuttavia, in questo frangente, incontrarono sul loro cammino la fotografia intelligente, che spianò la strada a una fruttuosa amicizia. In realtà, la collaborazione fotografica svelava in entrambi degli interessi estetici e vitali comuni che non riconoscevano nei rispettivi dipinti. Chicharro –che all’epoca si faceva chiamare Chebé per distinguersi dal padre omonimo– aveva ventitré anni (otto meno di Prieto) e acconsentì a piegarsi al cospetto del bagaglio più grande del mancego, la cui forte personalità e l’accentuato narcisismo esigevano il comando, mentre lui, nell’ombra, infondeva costanza al progetto in comune. Nella loro realizzazione non imitarono un ismo in concreto né si riempirono la coscienza di inutili dubbi sul dibattito tra la fotografia diretta e quella di creazione, sfruttarono piuttosto il bacino onirico del surrealismo riaffermandone il rifiuto della volgarità e dei convenzionalismi che inorridivano la loro sensibilità vagamente romantica. Pertanto concepirono un ismo tutto loro, un postismo che riconsiderava le avanguardie storiche, con il quale vincere le reticenze dei circoli artistici tradizionali nei confronti del realismo intrinseco della fotografia, scandagliando le segrete acque della poesia. Le loro messe in scena irradiavano un lirismo avanguardista che si discostava fermamente dalla corrente pittorialista predominante nella fotografia artistica spagnola; avevano intrapreso un’iniziativa che poco si prestava ai paragoni. All’interno del panorama nazionale, il progetto di Prieto e Chicharro riscontra un programma vagamente simile nelle fotografie realizzate da Maruja Mallo e il fratello Justo durante le escursioni
Inclini all’avventura e facendo leva sul cameratismo, Chicharro e Prieto comprarono una macchina fotografica e composero delle scene a mo’ di “visioni e situazioni” tali da accendere il loro animo poetico; di tutte il protagonista era Prieto, al quale Chebé attribuisce l’ispirazione, assumendosi la responsabilità invece della parte tecnica e materiale; tuttavia indubbiamente la sua partecipazione andò ben oltre il mero scatto dell’otturatore. Il libro venne concepito come una biografia onirica, una “Vita e miracoli di Gregorio Prieto” volto a soddisfare la vanità del pittore mancego e a esaudire il suo desiderio di eternità tante volte citato. Con questo non si trattava di creare un album di selezionati ricordi di gioventù al quale ritornare anni dopo, ma di abbandonarsi perdutamente e con ebbrezza creativa a una situazione eccezionale; sognare meglio di meditare. Chicharro cedette di buon grado il ruolo di protagonista, felice di collaborare con il suo ammirato compagno.
La fotogenicità di Prieto Il nucleo di molte delle composizioni fu la fotogenicità dell’attraente Prieto, potenziata dal leggendario narcisismo dell’artista di Valdepeñas e dalla sincera ammirazione di Chebé il quale, precisando, come si è visto, che si trattò sempre di narcisismo e mai di omosessualità, non lesinava gli elogi sul suo amico. Per esaltare la bellezza giovanile di Prieto preferivano le visuali che lo favorissero, evitando le angolazioni della macchina fotografica poco convenzionali, come le inquadrature dall’alto o dal basso, che rischiavano di sminuirne il fascino. A tale scopo, allestirono ritratti compiacenti in cui lui appariva vestito da marinaio o mostrando la propria nudità, come nella foto in cui è per metà immerso in uno stagno e appoggiato a una carriola, pittorialista –romantico e letterario come un’Ofelia, sensuale come gli efebi siciliani che posarono per Wilhelm von Gloeden prima della Grande Guerra– sicuramente scattata nel giardino dell’Accademia in una torrida giornata dell’estate romana. Queste bellissime immagini congelate nel rullino fotografico influivano su una costruzione dell’identità che, naturalmente, era piena di contraddizioni. Sentendosi ancora nell’adolescenza della loro vita –sebbene 15
Prieto avesse già 32 anni– i due pensionados riscontrarono qui il desiderio sentimentale di catturare l’artista “più spirituale, meno di carne e ossa”. In buona parte, la galleria di foto è testimonianza della vanità di Prieto, del suo “egoismo sensuale, che fortunatamente è il migliore di tutti, e il più bello”, stando a quanto credeva Chicharro. Entrambi erano grandi appassionati di cinema ed erano consci della capacità di seduzione che quest’arte condivideva con l’affine fotografia; Prieto, al quale García Lorca aveva detto che sapeva rendere eterne le cose, ammirava gli immortali divi della celluloide e sognava di essere uno di loro. Sulla parete del suo studio in Accademia, accanto a una riproduzione dell’Auriga di Delfi e una Vergine della Consolazione di Valdepeñas, erano appesi un ritratto di Greta Garbo e un po’ più a sinistra il suo stesso ritratto fotografico vestito da marinaio, mentre tiene fra le mani l’uccellino di carta che appare in molte delle sue tele. È interessante notare come l’egocentrismo sprigionato da Prieto coinvolse anche il giovane Chicharro, del quale l’archivio dell’Accademia di Roma conserva una manciata di ritratti fotografici in varie pose e abbigliamenti, tra cui quello del marinaio, sebbene tutti di un tono assolutamente convenzionale. Resta il fatto che il vestito da marinaio rimase associato alla figura del Prieto di questi anni. Gli amici poeti ne avevano cantato il nome: Lorca, Alberti e il suo nostalgico Marinero en tierra (1924), e anche Cernuda nella poesia Los marineros son las alas del amor (1931). I pennelli di Prieto lo dipinsero molte volte tra le rovine classiche come simbolo del suo spirito da viaggiatore e delle sue pulsioni sensuali. In una delle fotografie con Chebé, ne indossa la limpida bianchezza e si guarda nello specchio come Narciso nello stagno. L’egolatria che trasudavano le fotografie di Prieto era parte della sua naturale inclinazione all’esibizionismo –era cosciente del suo magnetismo pur dichiarandosi un timido irredento– e così, in Italia e in Grecia, lo poterono vedere vestito da marinaio per puro piacere: “Vado per strada vestito da marinaio e quelli che mi vedono uscire da un hotel del centro mi guardano e mi riguardano finché non mi perdono di vista. Io faccio come se non notassi niente, mi sento straordinariamente bene in questo vestito bianco che, sottile e leggero, mi dà la sensazione di andare in giro nudo, avvolto dalla neve; il mio viso, il mio petto e le mie mani che risaltano come un bronzo ricoperto di neve. ‘’”. Quest’ultima associazione marinara e statuaria offre alcune delle migliori istantanee di Prieto a Roma; quella in cui la sua bianca figura risalta su un logoro angolo romano, appoggiato ai piedi di una statua decapitata, con il volto che in dissolvenza diventa pietra sotto il cappello tramite un trucco tecnico di Chebé; quella in cui appoggia i gomiti sul piedistallo di un togato mutilato, semi nascosto dietro una slanciata ragazza vestita di nero che è di spalle, alla quale si unisce poco dopo un’altra giovane con un
vestito chiaro che si cela misteriosamente dietro la pedana; o quella in cui Gregorio reclina malinconicamente il capo su una parete di mattoni sbreccati accanto a una scultura romana, mentre nel suo grembo riposa un altro marinaio, che altri non è che Manolo Pascual, lo scultore pensionado nella specialità di rotocalcografia della promoción successiva. La statua sotto cui posano i due pensionados è l’abate Luigi, una delle cosiddette “statue parlanti” di Roma, situata già all’epoca presso uno dei muri esterni di Sant’Andrea della Valle, a pochi metri dalla più famosa del17
Come quella del marinaio, la bellezza della scultura greco-latina fu sempre una costante nell’opera di Prieto, un’attrazione che ora condivideva con Chebé nella concezione delle fotografie. Per il mancego le statue classiche avevano un alone di malinconica eternità, di una perduta Età dell’Oro, in quei volumi un tempo levigati e ora “scarnificati da secoli di sadismo”, che lo seducevano in maniera folgorante. Ciò è esemplificato in maniera molto singolare nella fotografia in cui il corpo scuro di Prieto giace tra i busti classici, scattata probabilmente nei magazzini dell’Accademia. Come per Winckelmann, la nobile semplicità e la serena grandezza elleniche lo avevano catturato ancor prima di mettere piede in Italia e in Grecia. Una volta lì, rimase incantato dalla loro spontanea purezza che non richiedeva giustificazioni teoriche e si esprimeva pertanto naturalmente nella forma d’arte. Fu impellente dunque la necessità di sentire vicini gli antichi bronzi e marmi, non solo, di accarezzarli: davanti all’Efebo del museo di Agrigento poté “toccare tutto quello che ho voluto, le gambe bellissime, era piacevole accarezzare le mani e la bocca e sfiorare la qualità liscia del marmo, freddo e bello”. Il suo amico Aleixandre, conoscendo i suoi interessi, gli scrive in quel periodo della statua “che tu accarezzasti come un sogno, perché tu eri allora come un sogno della statua, quella carne che lei sognava da secoli senza potercisi avvicinare”. Una delle fotografie concepite con Chebé esprime questo desiderio di imprigionare l’eterna bellezza ellenica tra le sue braccia: quella in cui Gregorio, nudo, abbraccia la copia della Venere de’ Medici presente in Accademia. Non è il casto bacio alla figura della Storia sotto l’arco; in questo caso, appoggiando la testa sulla spalla immacolata, la sua bruna nudità la afferra dalla vita, le gambe un po' flesse. C’è un afflato di sessualità tra queste due forme opposte, carne nera e bianco gesso, che le allontana dal Pigmalione verso gli oscuri motivi che papa Innocenzo XI accampò per portare via da Roma la statua medicea originale: sosteneva che provocava in coloro che la vedevano parole e gesti lascivi, come in quel mito riferito dallo Pseudo-Luciano dell’Afrodite cnidia profanata nel suo santuario da un sodomita. Gregorio lasciò detto anni dopo: “Io ho guardato una Venere greca e l’ho desiderata”.
le statue parlanti di Roma, quella del Pasquino. Anche accanto a quest’ultima Prieto si fece fotografare come marinaio, in questo caso offrendole una corona. Il sottofondo nella scelta di queste due pietre miliari della satira urbana si ricollegava perfettamente all’allegra ribellione di andare in giro mascherato in pieno giorno facendo voltare la gente al suo passaggio e alla goliardica eversione che includeva il farsi fotografare da marinaio fingendo di urinare nei vicoli di Roma.
A Prieto piaceva vedere il proprio corpo come un bronzo greco, e insieme a Chebé sfruttò questa qualità nelle fotografie, che scattavano preferibilmente d’estate per sfruttare l’abbronzatura della sua pelle scura. Il forte contrasto cromatico tra il suo corpo e quello della Venere, utilizzato con i marmi, i gessi e anche con il biancore del vestito da marinaio, si riversa in un gioco di opposti visivamente affascinante con cui giocava la fotografia prima dell’avvento del colore. I due pittori, costretti a ridurre la tavolozza a questa gamma primaria nella concezione delle scene, tenevano conto dei simbolismi tradizionali legati alla luce e all’ombra –la vita e la morte, l’apollineo e il dionisiaco, il culto e il selvaggio, etc.– che avevano utilizzato e sovvertito altri fotografi come Man Ray in Noire et Blanche (1926) 19
e la sua successiva solarizzazione. Con Prieto, questo abbraccio a una Venere senza braccia rimanda anche alla malinconica attitudine verso la sensualità che inonda i suoi dipinti, verso un’abnegazione non corrisposta che si ricollega al terzo dei suoi temi ricorrenti, il manichino. Nella particolare trinità dell’iconografia di Prieto, insieme al marinaio e alla statua signoreggia l’ambiguo manichino già apparso nella sua tappa parigina precedente a Roma (Manichino dell’uccello, 1927, Fundación Gregorio Prieto). Nelle fotografie con Chebé sfruttarono anche questo elemento, per esempio nell’istantanea in cui Prieto abbraccia da dietro il manichino nel suo studio in Accademia, lo sguardo smarrito accanto al profilo in ombra del fantoccio. Come nella foto con la Venere, nuovamente si rappresenta il dramma dell’abbraccio impossibile dell’oggetto amato che, in modo tragico, esprime indifferenza provocando desiderio del tempo. Ancora una volta confluiscono gli elementi marinari: sul fianco di Prieto si distinguono una sirena e un’ancora che dovette “tatuargli” Chicharro. Come nei casi del marinaio e della statua, soggiace una sensazione omoerotica nell’uso del doppio che fungeva da riflesso dello stesso artista: un aspetto appropriato e quasi necessario in un narcisista conclamato come Prieto, del quale si conserva un solo autoritratto pittorico fino a quel momento, preso precisamente da una fotografia e diluito in una natura morta, Autoritratto con giroscopio (1926 ca., Fundación Gregorio Prieto). Sulla sua relazione con il manichino, Prieto scrive nel diario di questi anni: “Ho cominciato il quadro dei manichini con luce artificiale, dipingo ciò che fanno quando vado a dormire, le loro vite passive, ma comunque vite, a volte più intense di quelle delle persone fatte di carne”. Dalla quiete idonea al pensionado in pittura di paesaggio, il manichino (come la statua) in Prieto si tinge dell’amara incomunicabilità kafkiana, più vicina alla spersonalizzazione dei figurini di De Chirico che ad altri usi moderni. Tuttavia, nella sua altalenante relazione con il Surrealismo, è significativo che un elemento così rilevante nell’opera di Prieto venga enunciato da Breton già nel Primo manifesto del surrealismo come un espediente poetico esemplare: “Il meraviglioso […] partecipa oscuramente di una specie di rivelazione generale di cui cogliamo soltanto il particolare; le rovine romantiche, il manichino moderno o qualsiasi altro simbolo atto a mobilitare per un certo tempo la sensibilità umana ”.
Surrealisti sporadici Al legame spesso segnalato tra le opere di Prieto e Chicharro con il Surrealismo mancarono alcune sfumature. In questi anni romani, Chicharro si dimostrò fervente simpatizzante dell’ismo e in questo modo esprimeva all’amico Gregorio l’entusiasmo per il libro progettato insieme: “Se sono
disposto? Risposta; un po' lunga ma categorica: Io vivo in una fiamma; il mio sogno di Surrealismo è già un delirio, una passione, un Vizio, più che arte”. Dal canto suo, Prieto prendeva le distanze dal movimento francese. L’aveva scoperto a Parigi tramite le amicizie spagnole, e aveva perfino assistito nel 1925 a una delle prime mostre di pittura surrealista, e tuttavia le sue parole non risultavano elogiative: “L’altra sera sono andato con Sánchez Ventura a una mostra “supra realista”, inaugurata a “minuit” […] ma danno una sensazione di malattia quest’arte e questi tipi ambigui che intristiscono un po'”. Due anni dopo, la sua opinione non era cambiata molto –almeno nei confronti dell’aspetto più scatologico di questa pittura– se ci atteniamo alle risposte dell’amico Aleixandre: “Mi spiego questo gesto: il tuo schifo nei confronti di certe materie repellenti del superrealismo pittorico. Amico, che cosa orribile quei cotoni macchiati di pus, quei lombrichi e quei sessi raggrinziti e putrefatti. Corriamo, scappiamo! […] Voltati e non ti lasciar ingannare dalle loro voci di iene caduche, di seni flaccidi e maculati da macchie vergognose. Attento al contagio! Bada al tuo puro sangue pittorico.” Tuttavia, pur non condividendo certi aspetti del gruppo, come la putrefazione segnalata da Aleixandre, o il ferreo impegno politico, la pittura di Prieto attingeva alla base poetica del Surrealismo e lo univano a esso il rifiuto al convenzionale e la ricerca della libertà artistica come unica aspirazione legittima. Fu surrealista come Aleixandre o Lorca, senza appartenere a una fazione che non fosse la propria. La sua indole non lo indusse a militare nel movimento come accadde per altri suoi conoscenti spagnoli – riconobbe sempre la sua inettitudine alla vita da caffè, impre21
procedere inconscio della macchina. È pur vero che alcune delle “visioni e situazioni” che ispirarono le fotografie romane affondavano le radici nell’irrazionale –Chebé ammetteva di attingere alle fonti del sogno per concepirle– alla pari di altre collaborazioni contemporanee come quella tra Dalí e Buñuel in Un chien andalou (1929), pur apparendo sempre stemperate dall’abbellimento romantico della figura di Prieto che presiedeva l’album fotografico. Dalle profondità surrealiste sorsero giustapposizioni con gli elementi poetici più insoliti; a volte adornarono i ritratti di Prieto con offerte inoffensive –lumache, fiori, una cintura, una coroncina– aggiungendo qualche componente poco convenzionale, onirico e perfino alla Dalí, come la disposizione delle api sul suo volto. Non sarà l’unica occasione in cui utilizzeranno insetti sul volto di Gregorio; una volta ancora, come nella celebre immagine di André Breton con una libellula sulla fronte (Man Ray, 1935), Prieto, con il rasoio in mano come Buñuel in Un chien andalou, sta per radersi i baffi quando una grande cavalletta sulla guancia glielo impedisce. Il successo in alcune di queste trame surrealizzanti risiedeva nel contenere con sottigliezza tagliente la presenza degli elementi “sovversivi” all’interno della scena quotidiana, come qui con l’apparizione dell’insetto. Questa fu la guida seguita dal belga Paul Nougé per realizzare negli stessi anni la serie fotografica amatoriale Sovversione delle immagini, evitando così una percezione dell’immagine come ridicola, comica o semplicemente indifferente, un rischio che correvano le fotografie più eccessive del tandem Prieto-Chicharro. Il disordine che regnava nell’Accademia dopo anni di trascuratezza e ristrutturazioni interminabili – definita da Valle-Inclán “imbarazzo nazionale” e di una pochezza “più che povera, sordida” – fu tuttavia sfruttato dai due pensionados come lo scenario idoneo per le loro scorrerie fotografiche. Senza andare troppo lontano, la biblioteca, che per il suo esiguo corredo e numero di volumi “costituisce una delle più grandi vergogne dell’Accademia”, nelle parole di Valle-Inclán, offrì il fondale per la fotografia in cui Prieto è seduto in maniera stucchevole su quella che sarebbe diventata una delle “poltrone di Vienna”, parte della “sordida istituzione”. scindibile a Parigi – ma, come sottolineò Buñuel, “c’era qualcosa nell’aria”, una chiamata per “certe persone che utilizzavano ormai una forma d’espressione istintiva e irrazionale, anche prima di conoscersi gli uni con gli altri”. Nell’adattamento del Surrealismo ai loro interessi, Prieto e Chebé arginarono l’automatismo psichico puro che riduceva al minimo la partecipazione attiva dell’artista – scatenando l’apparizione automatica delle visioni allucinatorie del subconscio – anche se per il giovane Salvador Dalí la tecnica fotografica comportava implicitamente una liberazione dell’ispirazione rispetto alla tecnica manuale, ora relegata al
Il caotico ripostiglio dell’Accademia rese possibile la teatralizzazione di un certo “sonno della ragione” alla Goya, un’occhiata all’oscura soffitta dell’inconscio. In una delle istantanee, Prieto è seduto e dà le spalle a un groviglio di mobili e statue in cui si mescola l’inquietante inserimento di una donna nuda all’interno di una piccola gabbia e di un’altra donna che esce da un cesto con la testa coperta da un panno. Ne risulta una visione allucinata ed esemplare dei desideri occulti di Prieto nei confronti dell’accumulo della bellezza statuaria, inafferrabile come la donna senza volto –simile nella sua stravaganza allo spirito de Gli amanti (1928) di 23
In un’occasione, Prieto raccoglie il teschio della mucca che sta ai piedi della succitata ragazza del cesto e usando il proprio grembo a mo’ di tavolo da dissezione alla Lautréamont, la culla, la adorna di fiori e la incorona con una racchetta da tennis nel tenditore; ai suoi piedi, dispone delle carte su una tovaglia mentre sullo sfondo un manichino a terra alza una mano che sembrava spuntare dalla testa di Prieto. Come in un collage, le realtà dei diversi oggetti si incontrano in un luogo in cui si sentono a disagio e sfuggono così al loro destino e alla loro identità per accedere, con le parole di Max Ernst in allusione al famoso adagio surrealista, a “un assoluto nuovo, vero e poetico: l’ombrello e la macchina per cucire faranno l’amore”. L’attrazione per il misterioso, presente in molte delle fotografie, li condusse al loro ritratto più noto, quello utilizzato da Chicharro per la copertina del primo numero (e ultimo) della rivista Postismo nel 1945. In esso indossa una spirale e delle improvvisate corna metalliche, lo sguardo fisso sotto le sopracciglia delineate, le mani intrecciate a incorniciare una carta magicamente sospesa sopra il suo petto, la carta dei tarocchi chiamata “Il penduto” [L’impiccato]. La vicinanza e l’intensità del ritratto hanno una parentela con i mistici primi piani del tanto ammirato (Carl Th. Dreyer, 1928).
Magritte– e soffocata come la giovane nella gabbia, un’immagine che riutilizzò per la sua forza irrazionale nel Ritratto di André Breton (Fundación Gregorio Prieto).
Su questo stesso filo delle “visioni” concepite dal duo Prieto/Chebé, in un’altra delle fotografie Prieto si erge a guardiano dell’occulto; seduto su una cassa posta sopra una sedia, sorveglia con lo sguardo perso e il fucile in mano “la scatola dei misteri” che giace su un mucchio di sabbia in un angolo. Ne fecero un’altra versione con la sedia appoggiata su alcuni libri, famosa per un collage successivo in cui appare pensieroso mentre fa la guardia accanto alla testa colossale di Augusto del Cortile della Pigna del Vaticano. Poco dopo il mancego si siede sulla sabbia, i pantaloni strappati, il palmo teso come un mendicante e premendosi un pesce sulla bocca come se lo stesse suonando. Il pesce riappare in un’altra delle fotografie e questa volta sotto forma di uno stampino appeso alla cintura, uno di quegli oggetti che Prieto conservava perché gli sembravano evocativi, e che usò anche per il suo dipinto Sogno marinaro (Fundación Gregorio Prieto) come esplicito simbolo fallico. In un contesto ludico, in questa e in un’altra fotografia simile, lo accompagnano un discreto numero di elementi quotidiani che, nella stramberia dell’accumulazione, si metamorfizzano in un travestimento surrealista: sedie, una tromba, molte cornici di dipinti o un sifone.
In questo stesso luogo, in cui immaginarono Prieto addormentato accanto a un incubo uscito dalle gabbie aperte del sogno, i due compagni trovarono oggetti bizzarri e singolari che assomigliavano all’objet trouvé surrealista dei mercatini e dei rigattieri e che risvegliava in loro il sentimento del meraviglioso, come si è già detto a proposito del manichino.
A volte, l’esaltazione che permeava il progetto comune li portò al limite del bislacco, inoltrandosi sempre più verso la bellezza convulsiva surrealista, rispondendo ai requisiti di esplosivo-fissa, magico-circostanziale e, nonostante certe licenze, anche di erotico-velato, dato che Prieto e Chebé, pur avendone la tentazione, evitarono sempre l’apertamente osce25
no; si sottrae dalla lista il nudo di Prieto sdraiato sulle statue classiche, tra le quali si alzava un pugno di gesso che entrava nell’inguine, e che in un secondo momento fu convenientemente occultato con panno piegato. In questa cornice si colloca il ritratto di Prieto con la testa coperta da una rete e il sesso da una foglia di vite. Senza dubbio è una delle immagini più inquietanti realizzate dal duo; si percepisce un’umiliazione sensuale nella figura nuda del pittore immobilizzato dalle corde, accecato dalla rete, rivestito di misteriosi attributi: le trombe, la lampadina, i preservativi, la sveglia, un cuore dipinto sul petto. Precede di vari anni la bellissima violenza esercitata a Parigi dai membri del gruppo surrealista del 1938 sulla fila di manichini situata all’entrata dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo di quell’anno. Oltre ad altri fotografi, Man Ray documentò i manichini femminili imbavagliati, accecati, amputati, adornati con gli oggetti più fantasiosi comprati dai brocanteurs, coperti con un sacco come quello di Jean Arp, con la testa ingabbiata come quello di Masson o sotto una rete come quello di Marcel Jean; accanto vennero appese fotografie della poupée di Hans Bellmer, con cui condividevano una certa derivazione occulta che non era estranea a quest’immagine di Prieto. Come si è visto, nonostante le precauzioni dell’amico Aleixandre, il contagio era arrivato all’Accademia. Chicharro e Prieto rispondevano alla chiamata del Surrealismo, pur adattandolo alle loro necessità. Visitavano le soffitte dell’Accademia che li rifornivano di oggetti stimolanti per comporre le loro fotografie e adattavano la piovosa flânerie parigina dei passages alla luminosa estate romana delle rovine, girovagando sotto il sole vestiti da marinai. Condividevano con l’ismo francese un’effervescenza vitalistica incline allo scandalo, legati com’erano dall’avversione comune nei confronti dei convenzionalismi, testimoniata dalla loro passione a mascherarsi da marinai o a dipingersi la testa d’oro nelle feste eleganti. Esaltati dal loro progetto fotografico, non sorprende che Valle-Inclán, direttore dell’Accademia nell’ultimo anno del loro pensionado, “ogni volta che ci vedeva con la macchina fotografica –ricordava Prieto– diceva: ‘Ecco i due pazzoidi’”. Proprio con i figli dello scrittore, che vivevano in Accademia, scattarono un paio di foto scandalose. La prima, più contenuta, ritrae Prieto e Chicharro con i tre giovani sotto una copia in gesso di un bassorilievo classico, circondati da ritratti di antichi pensionados. Sono seduti con María Beatriz e María Flores che hanno in mano dei fiori e, nel caso di Chicharro –si intuisce lo scherno– il ritratto di José Moreno Carbonero. Nel frattempo, il piccolo Jaime del Valle-Inclán è in piedi e nudo, e regge il ritratto di un altro pensionado, tirando fuori la lingua da un buco creato nella bocca del ritrattato. Nella seconda fotografia, “Jaimecillo”, come lo chiamavano nelle loro lettere, prende il posto di protagonista di Gregorio Prieto per la prima e unica volta nelle fotografie romane e appare sdraiato a terra, nudo e con una smorfia terribile sul volto, sempre con lo stesso ritratto, ma in questo caso introducendo il proprio
pene nell’apertura sotto i baffi. Questa insolenza, un atto vandalico ad opera di un bambino di undici anni, era forse presente in altre fotografie di Chebé/Prieto, ma non ne è rimasta traccia. Tuttavia, una grande distanza li separava dalle posizioni surrealiste più ortodosse. In primo luogo, il fine ultimo del Surrealismo di trasformare il mondo non includeva, per il duo spagnolo, il pesante fardello morale e politico. Nella loro corrispondenza non si menziona mai affare pubblico, sociale o ufficiale che non sia una delle loro interminabili dispute con 27
l’uomo nuovo per recuperare la perduta grandezza italiana, un risveglio guerrafondaio pubblicizzato alla Mostra della Rivoluzione Fascista, aperta in quegli stessi anni dal 1932 al 1934 nel romano Palazzo delle Esposizioni. Ma né Chicharro né Prieto, e nemmeno il loro progetto di libro, rappresentavano questo “uomo nuovo”. Nonostante condividessero con il totalitarismo l’uso del poderoso strumento incarnato dalla fotografia, l’esaltazione del narcisismo del leader e la glorificazione della gioventù –“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, recitava l’inno fascista– l’immensa macchina fascista non radicò mai nell’umiltà della loro iniziativa, che era in fondo completamente diversa. Il loro era un individualismo edonista e poetico, senza la rivoluzione sociale che infiammava i surrealisti né la convinzione militarista e patriottica che spingeva i futuristi italiani a firmare il Manifesto della fotografia futurista nel 1930. Considerata statica e realista, la fotografia fu disdegnata dai futuristi a favore del cinema e bisognò attendere molti anni prima che uscisse un manifesto (pubblicato proprio durante il pensionado di Prieto e Chebé a Roma, di qualche mese precedente a quello della cucina futurista). Sotto la guida di Tato e Marinetti, il Futurismo proponeva quindici nuove possibilità per la fotografia di cui Prieto e Chicharro condividevano l’intento –per esempio il punto n.° 11: “La sovrapposizione trasparente e semitrasparente di persone e oggetti concreti e dei loro fantasmi semiastratti, con simultaneità di ricordo sogno”– e, tuttavia, storcevano la bocca per il sottotesto del manifesto, l’utilitarismo che mascherava l’avanzamento nelle ricerche belliche. Che ci si poteva aspettare da Marinetti, “dai baffi marci, che diceva che le portentose statue greche, come quella della Venere di Milo, la Nike di Samotracia e altri esemplari preziosissimi dell’arte antica, bisognava buttarli giù da alti dirupi, perché andassero in frantumi, perché ingrossassero le pietre dei fiumi!”
la direzione per ottenere proroghe del pensionado, o un tiepido “Viva la Repubblica!” nei giorni successivi al suo avvento. In quegli anni confusi che si vivevano in tutta Europa, rimasero apparentemente impermeabili, nonostante i continui viaggi all’estero, all’escalation bellica verso la guerra mondiale; l’Accademia, circondata da parchi e rigogliosi giardini, fu una fortezza per i due artisti. In quegli anni, mentre le posizioni politiche nella giovane Repubblica spagnola si inasprivano sempre di più, il fascismo di Mussolini promuoveva da tempo una rigenerazione attraverso
Il destino di Chebé e Prieto era un altro, il loro individualismo diffidava del settarismo in un’epoca in cui si mettevano in discussione le eccezioni, anche tra gli ismi più avanguardisti. Nel caso di Prieto, la sua peculiarità era quella di inoltrarsi nel sentiero del cattolicesimo popolare allontanandolo così ancor di più dai seguaci di Breton: se Benjamin Péret insultava un sacerdote dalle pagine di La Révolution Surréaliste, lui, dall’Accademia, nel luogo in cui secondo la tradizione religiosa era stato martirizzato il primo degli apostoli, si rifugiava presso la sua Vergine della Consolazione. “Sulla testiera del letto, al centro di tutto, la mia Vergine della Consolazione, proprio all’altezza della mia bocca, che bacio quando entro ed esco dalla mia stanza e in quel supremo istante dell’abbandono della vita per il sonno accogliente e isolato in se stesso di transitoria morte amata”. La sua religiosità era legata a doppio filo alla tradizione familiare mancega in cui era cresciuto e all’ansia di eternità che guidava la sua esistenza. Nelle fotografie concepite con Chebé in Accademia, non perse l’opportunità di includere la sua amata Vergine, la patrona di 29
Valdepeñas, nella serie della dormizione del marinaio nella vetrina delle offerte. La troviamo come lui voleva, “proprio all’altezza della mia bocca”, “lei, questa piccola immagine, impedirà che entrino nella mia stanza esseri volgari o cattivi e guiderà i miei passi per cammini ideali, portandoli sempre ad apici creativi”. Il marinaio riposa accanto a lei, circondato da altre foto, oggetti evocativi, disegni e uno dei ritratti di Gregorio marinaio, all’ombra del biancore del gesso di Benlliure.
Dietro la macchina fotografica Le visioni e situazioni del libro sognato da Chebé e Prieto si nutrivano della poesia del primo e del ricco repertorio simbolico del secondo, ma per la parte tecnica si affidavano ciecamente alla perizia di Chicharro. Come fotografo amatoriale e inquieto, sperimentò con il mezzo le composizioni e le inquadrature, ma soprattutto le doppie esposizioni. Su questo particolare scrisse Fernández Granell, attingendo ai ricordi dell’amico pensionado di Bilbao Manuel Pascual: “Chicharro ritrasse Manolo Pascual decapitato. Lo scultore appariva nella foto mentre reggeva la propria testa con la mano destra. Il trucco consistette nel sovrapporre due negativi, che erano stati scattati su uno sfondo neutro. Prima Pascual venne fotografato con la testa coperta da un panno nero. Nella seconda lastra, Pascual si nascose dietro la tenda lasciando vedere soltanto la testa attraverso una fessura, all’altezza e nel punto conveniente perché rimanesse sulla sua mano. La foto di Pascual decapitato riscosse un grande successo tra tutti i pensionados dell’Accademia”. In realtà, più che la sovrapposizione di due negativi, per le foto del libro Chebé utilizzò la doppia esposizione su uno stesso negativo, che produce un effetto fantasmagorico caratteristico di cui ci sono numerosi esempi. Con questo metodo, che per le difficoltà che comportava a volte comprometteva il risultato finale, ottenne alcune delle migliori fotografie viste finora, come per esempio quella di Prieto marinaio accanto alla statua o la versione con doppia esposizione in cui Prieto e Pascual posano accanto all’abate Luigi, le cui figure ora sfumano risultando spettrali. Nella terrazza balaustrata delle torri dell’Accademia sperimentarono queste giustapposizioni –a volte triple esposizioni– ottenendo risultati disuguali che di certo gli sembravano deludenti in generale, poiché in composizioni ben studiate come quella del marinaio sdraiato accanto al suo opposto nudo, la risoluzione tecnica falliva clamorosamente. Tuttavia, a volte le densità erano equilibrate e si otteneva l’effetto di mistero desiderato; è il caso della fotografia che si conserva soltanto nel collage Omaggio a Eduardo Chicharro (Fundación Gregorio Prieto) situata alla destra del ritratto disegnato, ripetuta in parte e modificata. Si tratta di una sovrapposizione di almeno tre esposizioni della figura di Prieto che si alza da terra, illuminata da destra in forte chiaroscuro, mentre porta alla spalla il tenditore della racchetta a mo’ di ali, e sul petto un oggetto a forma di rosone che trovarono nel ripostiglio dell’Accademia.
Un altro successo con queste immagini simultanee si ottenne mediante la sovrapposizione del corpo nudo di Gregorio su un piccolo arancio; abbandonato all’estasi come un San Sebastiano, la carne di Prieto diventa lignea come una Dafne classica nella sua metamorfosi. 31
33
35
Chicharro accettò di buon grado questo lavoro tecnico, “materiale, di sintesi, di realizzazione”, che lo metteva dietro la macchina fotografica. Risolvere queste difficoltà di esecuzione implicava un buon livello di perizia e creatività, al quale andava aggiunto un lavoro di edizione finale di ri-inquadratura per correggere difetti della composizione. Di ritorno dal negozio di sviluppo, questo nuovo compito riaccendeva il suo entusiasmo: “Che allegria andare a prendere le fotografie da D’Amico! Te le mando. Una è venuta fuori bianca, come supponevo. Altre non valgono niente, alcune sono buone. Due francamente non mi piacciono, una mi lascia perplesso. Le ho guardate e riguardate così tanto che non so più nemmeno io a cosa attenermi. Senza alcun dubbio il segreto consiste nel saperle tagliare bene. Nella prossima ti dirò qualcosa di ciò che penso sul taglio di una in particolare”.
Il libro di Prieto e Chebé Una volta cominciato a fotografare le “visioni e situazioni” per il loro libro, i risultati li incoraggiarono a continuare. Chicharro commentava infervorato: “Pensando al nostro libro anch’io mi entusiasmo e credo come te che arriverà il momento in cui lo vedremo perfetto. Ora, come dici anche tu, dobbiamo guardarlo con grande severità. Ma credo che siamo sulla strada giusta. Abbiamo fotografie veramente surrealiste e superiori come profondità di pensiero filosofico”. Non si ha notizia del formato pensato per il progetto naufragato, l’agognato libro, ammesso che abbiano iniziato a un certo punto a impaginarlo. A quanto pare, dopo aver accumulato diverse fotografie, gli venne l’idea di scrivere un correlato letterario, un complemento scritto molto libero alla già di per sé natura poetica delle immagini. Come ricorda lo stesso Prieto, “Dopo quelle prime fotografie […] giunse una fase in cui la letteratura irruppe con forza. Ci dedicammo, sia Chebé che io, a scrivere testi sulle foto”. È possibile che questa seconda fase iniziasse nella primavera del 1932, quando Chebé ammette di avere già qualcosa di scritto. In un’altra lettera a Prieto menziona l’esistenza di un prologo poetico sugli autori del libro, per il quale ha scritto un poema in prosa intitolato “Indifeso nella vita”. La poesia si ispira a un ricordo del suo compagno di pensionado –la “tristezza profonda, bella, bellissima quando a Parigi ti ho visto così solo e indifeso”– e doveva essere illustrata con una stampa in cui “l’angelo di Rembrandt fugge con forza tremenda”, rappresentando l’abbandono dell’angelo custode. Il testo riprende la fissazione sentimentale di Chebé di situare gli anni del pensionado in una bramata adolescenza; conclude così: “Così giungemmo a quell’età che io non voglio dire, in cui due giovani sono capaci di amore tra loro, due ragazzi pieni di fremiti e paura, per aver perso ormai dai loro genitori il candore che brilla come stella. Giungemmo a
quell’età in cui molti uomini che sono ancora bambini pensano al suicidio e ragazze si mettono sulla strada… Vi giungemmo, dico, senza più forze per lottare e, impauriti, per la prima volta ci sentimmo indifesi nel mondo”. L’entusiasmo nei confronti del progetto del libro sembrava maggiore in Chicharro e nella parte letteraria si impegnò di più del compagno, ciononostante la corrispondenza tra i due pensionados attesta la partecipazione attiva di Prieto in questo secondo compito creativo che Chicharro si attribuì esclusivamente. Anzi, fu lui stesso a incoraggiare l’amico mancego riguardo la sua capacità letteraria, dispiacendosi della sua insicurezza: “Ciò che mi sembra un’ingiustizia e una pazzia è che tu non abbia fiducia in te. Ma se sei un poeta! Sei il poeta che scopre le cose per la prima volta. Che ha degli occhi tali che vede pulite le cose che gli altri sporcano. Che ha un tale potere di meraviglia nelle mani che non rovina nulla di ciò che tocca. E infine, che dice le cose con l’anima e parla con la sua voce e non con quella degli altri […]. Ciò di cui noti la mancanza è senza importanza e facile da acquisire, e noi due insieme avvieremo l’opera meravigliosa della nostra iniziazione e della nostra educazione letteraria”. E continuava invitandolo a mandargli due suoi scritti, che gli sembravano “due meraviglie di surrealismo”. Pur essendoci una collaborazione letteraria, pare che i risultati di Prieto fossero minori di quelli di Chebé. Nell’archivio della Fundación Gregorio Prieto si conservano diversi fogli manoscritti che potrebbero essere composizioni originali su alcune fotografie alle quali fanno riferimento nelle loro lettere, come “Annoiato a morte”, “Divorato dai cattivi istinti”, e una battuta a macchina su “Ultimo omaggio a un marinaio”, ma la capacità di riciclaggio di Prieto impedisce di sapere se sono opera sua o di Chicharro. Quest’ultimo scritto darà un’idea del tono posato che utilizzavano a volte: “Ultimi onori a un marinaio. Marinaio, eroico marinaio, non piangere perché non possono dare nel mare sepoltura al tuo corpo. Domani verrà a te un Re con il suo seguito. Schierati in due file i soldati, lui parlerà di te con parole dolci e amorevoli e si inginocchierà accanto a te e ti solleverà il capo morto con una tela d’Olanda sottilissima e ti contemplerà nell’arco di qualche minuto. Il suo silenzio si farà legge e suonerà come campane rintoccate, e mentre il suo Stato Maggiore, gli ammiragli e i generali spargeranno ovunque fiori ed essenze, angeli ricoperti di seta e broccati intoneranno cantici in tuo onore”. E forse quest’altro di carattere più sperimentale, che comincia: “Colui che si divertì ma che non conobbe l’amore. E vuole vivere così, e tanto varrebbe che fosse morto. Rincretinito dal tanto pensare e da tanta logica e retorica vuole filosofeggiare perfino con la mollica del pane tra le sue dita, che a forza di rigirarla la trasforma in un 37
in un modo misterioso e occulto l’infausto destino del libro concepito con Gregorio Prieto; le iniziative postiste naufragarono appena nate, e la sua opera rimase in gran parte inedita alla sua morte. Per quanto ci concerne, per il lancio della rivista Postismo nel 1945 scelse non soltanto una delle fotografie di Prieto a Roma, ma incluse anche una poesia dedicata all’amico, “Resurrezione”, che è stata considerata il testo correlativo di un’altra delle immagini romane. Questa sarebbe l’unica poesia scritta in versi di quelle abbozzate dai due pensionados per il libro, attenendoci a quanto studiato finora e a ciò che è conservato nell’archivio familiare di Chicharro. Tra una moltitudine di inediti, Chebé conservò alcuni dei “poemi in prosa” scritti a Roma sulle fotografie del libro sognato, ai quali a volte si riferisce come “spiegazioni”. I titoli, che appaiono in un foglio manoscritto di Chicharro nel suo archivio, riappaiono in molti casi nella corrispondenza incrociata con Prieto e conservata nella sua fondazione, sebbene sia un compito arduo stabilire la correlazione di ogni testo con l’immagine che lo ispirò, a causa della libertà debitrice del surrealismo.
nero puzzo nauseabondo, vuole rifinire tutto come un discorso accademico e, volendo imprigionare la fresca allegria dei suoi amici, gli scivola il pesce dalla mano. Vuole limitare tutto quanto e riuscire a chiudere con una chiave d’oro tutte le sue azioni, e a forza di rigirarsi come un cane che insegue la propria coda, arriva a sputarsi nella sua stessa bocca”. Per Chebé il libro con Prieto comportò una vera e propria iniziazione. Con il tempo prevalse la vena poetica, nonostante sembrasse portarsi dietro
Di seguito riproduciamo i titoli, che rievocano quelli che accompagnano i Capricci di Goya per la sinteticità e le allusioni, e che sono illustrativi delle immagini dei due pensionados: “Pederasti in libertà”*. “Due uomini meravigliosamente nudi”. “Imprigionato nelle reti”. “La sua sepoltura”. “Nella sua più tenera infanzia”. “Indifeso nella vita”*. “Nel cielo insieme a Maria Santissima, glorificandola e glorificandosi in essa”. “Il viaggiatore”. “La società non lo capisce e lo fa arrestare”. “Imprigionato tra due angeli”. “Ultimi onori a un marinaio morto”*. “Statue pietrificate (II)”*. “Con morto sconosciuto”. “Ladri nello studio (IV e V)”. “Le belle collezioniste di Francobolli e il loro esperto domatore”. “Scherzo sanguinolento”*. “E si tagliò i capelli”*. “Soldato romano”. “L’uomo nero”. “Statue pietrificate (I)”. “Divorato dai cattivi istinti”. “L’allarme macchinista”*. “Annoiato a morte”. “In fuga dal mondo, l’Angelo resuscita morto con il suo giglio bianco”*. “Pittura pompeiana all’encaustica”. “Morto per mano delle sue stesse statue”. “Ladri nello studio (I, II e III)”. “Soldati di Sparta”. “L’anima purificata ritorna sulla terra”. “Contemplando in un acquario le meraviglie del mare”. “Passi in lontananza l’hanno fatto voltare”. “Marinaio alienato”*. “Notti a bordo”*. “L’innamorato della storia”*. “La prima comunione”*. Questa è la relazione ordinata dei titoli conservati in un foglio manoscritto di Chicharro nel suo archivio. Delle trentotto definizioni si conservano soltanto dodici testi (quelli segnati da un asterisco), pertanto c'è da chiedersi se è verosimile che i titoli si riferiscano all’insieme delle fotografie e che non tutte abbiano ricevuto la corrispondente “spiegazione” poetica, e l’ordine dei titoli potrebbe indicare una preferenza di posizionamento all’interno del libro in progetto. 39
Dopo l’Accademia “Forse tu hai già dimenticato il nostro bellissimo libro. Ma non credo. Potrebbe naufragare così la testimonianza di un’epoca meravigliosa della nostra vita? Non ricordi, Gregorio, i momenti d’arte, d’ispirazione, d’allegria e d’amore che abbiamo trascorso insieme e liberi, in compagnia soltanto della nostra macchina fotografica, dei nostri fogli e delle nostre illusioni, liberi in questa Roma piena di statue mutilate e misteriose?” Nell’autunno del 1933 si concluse il pensionado per Prieto e Chicharro. Fu lo stesso anno del cambio di direzione dell’Accademia assunta da Valle-Inclán, il quale finì col desiderare la loro partenza per i problemi che gli causavano i due pittori. Si erano aggrappati con forza alle loro borse di studio prolungandole di un anno, avevano sfruttato sino in fondo le proroghe e avevano ritardato al massimo le consegne obbligatorie, il tutto per godere dei vantaggi del pensionado, il cui posto d’onore spettava al loro amato progetto fotografico e letterario. Dentro di loro sentirono ferocemente il motto di Garibaldi: O Roma o morte. E tuttavia, la pensión giunse al termine e i due amici si separarono e il libro rimase incompiuto. “Povero libro nostro!”, si lamentava Chicharro. Ancora nel marzo del 1934 scrive a Prieto “agitatissimo” perché gli ha mandato tutti i negativi delle foto a Parigi, dove questi si è trasferito. A quanto pare, la rottura del legame romano che amalgamava la loro amicizia trascinò nella sua caduta anche il libro sognato. Eduardo Chicharro invece rimase a Roma fino al rimpatrio in Spagna nel 1943 a bordo del convoglio diplomatico noto come “il treno fantasma”. Nella sua memoria rimanevano presenti le tracce misteriose del libro e, ancora a Roma, nel 1938 mostrò le “strane fotografie” di Prieto vestito da marinaio allo scrittore César González Ruano. Una volta tornato a Madrid, ne recuperò una per la rivista Postismo (1945), ma soprattutto riscattò quello spirito nato a Roma: incitato nuovamente da un talento giovanile – questa volta il poeta gaditano Carlos E. de Ory – “si rinfrescano in me antiche forme di espressione artistica che ora si cristallizza soprattutto nella forma letteraria e comincio a scoprire che ciò che facevo quindici anni fa, e mi sembrava semplice surrealismo fallito, etc…”. Sempre più incline alla poesia, abbandonò per sempre il suo lato di fotografo. Tuttavia, la fortuna delle fotografie romane prosperò nelle mani di Gregorio Prieto, che vi ritornò molte volte. Senza i negativi originali, Prieto fece delle copie dai positivi per lavorarci a suo piacimento. In alcuni di quelli conservati nella sua fondazione si osservano ridipinture di sua mano, quasi sempre un tocco sottile di bianco e nero: un luccichio negli occhi o una lumeggiatura sulle ciglia; è difficile sapere quando le ritoccò. Non è facile nemmeno datare i collage realizzati con alcune delle immagini, ma non è probabile che siano stati fatti a Roma, dato che le “visioni e situazioni” composte da Prieto e Chebé erano già di per sé dei collage,
giustapposizioni di oggetti onirici, ma allo stesso tempo oggetti tangibili disposti attorno a Prieto o frutto delle doppie esposizioni. Sui collage grava in particolar modo quella resistenza alla biografia e alla critica che caratterizzava Gregorio Prieto. Mai menzionati nella profusa corrispondenza tra i due pensionados conservata nella Fundación Prieto, la gran parte dei collage sembra più un’operazione a posteriori; alcuni 41
fotomontaggi basilari potrebbero appartenere al progetto di libro romano, concepiti sicuramente in un modo intuitivo, forse guardando un Gregorio marinaio a cavalcioni sulla statua di un leone e provandolo sui cavalli della facciata della basilica di San Marco a Venezia, magari sistemando un altro marinaio su un nuovo scenario pompeiano o forse associando una bocca tappata alla romana Bocca della Verità. È possibile che questo processo continuasse nell’intento di rafforzare i fondi neutri di alcune delle immagini, aggiungendo la caccia al cacciatore, il paesaggio al boscaiolo, i complementi classicisti, o mettendo in rilievo quella statua un po' imprecisa con un’altra di Diana cacciatrice. Questi ultimi collage vanno di pari passo con quelli realizzati in quegli stessi anni dal suo amico, il poeta Adriano del Valle –ispirati direttamente a quelli del tedesco Max Ernst– che gli fece visita a Roma durante il suo pensionado. Con gli anni, a questi ritratti scattati da Chicharro a Roma si andò a sommare un repertorio enciclopedico con cui Prieto formò i sempre più densi collage postisti e gli allucinati popares, incastonandoci le forme classiche e religiose che sempre lo sedussero e, poco a poco, quasi tutto ciò che trasudasse una certa eternità, a volte confinando, in modo contraddittorio, con il meramente famoso (ed effimero).
43
Gregorio Prieto nell’archivio della Real Academia de España en Roma Margarita Alonso Campoy, Real Academia de España en Roma Nell’agosto del 1928 Gregorio Prieto riceveva la comunicazione, da parte del Ministero di Stato, dell’assegnazione della pensión di pittura di paesaggio presso l’Academia de España a Roma. Nonostante rivaleggiasse con altre città europee, Roma continuava ad attrarre artisti da ogni angolo del mondo e, pur tornando a essere considerata, in quegli anni, un importante centro dell’arte contemporanea, la maggior parte degli artisti finivano, volontariamente o involontariamente, per impregnarsi del suo classicismo. Prieto, che aveva trascorso a Parigi gli anni immediatamente precedenti all’arrivo a Roma, non fu un’eccezione, e visse con ammirazione e profonda intensità il periodo del suo pensionado a Roma. Cinque anni sarebbero trascorsi dall’arrivo nell’ottobre del 1928 fino alla partenza dall’Accademia nello stesso mese del 1933 e, sebbene non sia facile ricostruire il percorso di vita del mancego durante un lasso di tempo così esteso, buona parte dei dati che conosciamo provengono dai documenti conservati nell’archivio dell’istituzione. Il dossier del pensionado è composto da 69 documenti di varia natura, tra cui lettere manoscritte, resoconti di attività o cartoline, un corpus non troppo numeroso per cinque anni di vita ma che, proprio per la sua eterogeneità, permette di affacciarsi alle sue attività da diverse angolazioni. Le informazioni diventano più complete se si estende la ricerca ad altri dossier, come quello dei compagni di pensión o dei direttori Miguel Blay (1926-1932) e Ramón del Valle-Inclán. Nell’archivio prevalgono i documenti di carattere amministrativo scambiati tra i pensionados, il direttore, il segretario, l’ambasciata e il Ministero di Stato – precedente all’attuale Ministero degli Affari Esteri e di Cooperazione – dal quale l’Accademia dipende sin dalla sua fondazione nel 1873, e alle cui autorità, pertanto, doveva rispondere e dare informazioni. La consultazione dell’archivio del ministero è, infatti, altrettanto fondamentale per qualsiasi ricerca esaustiva sull’Accademia romana. Trattandosi in gran parte di documenti amministrativi, non presentano commenti o particolari di carattere privato, genere di informazione che va ricercata nei documenti conservati negli archivi personali dei pensionados, come nel caso dei diari e altri materiali di Gregorio Prieto custoditi nell’archivio della sua fondazione. Nel dossier di Gregorio Prieto conservato in Accademia risaltano due blocchi tematici, quello relativo alle visite e ai viaggi realizzati durante gli anni di pensionado, e un secondo gruppo di documenti riguardanti principalmente le richieste di proroga della pensión, i solleciti da parte delle autorità competenti per le consegne obbligatorie e le rispettive risposte dell’artista. 45
Effetto di luce. Isola di Capri. Colezione MAEC
Impressione di paesaggio grigio. Colezione MAEC
L’attività dei pensionados sottostava alle norme stabilite dal regolamento in vigore, che nel caso di Prieto era quello di recente approvazione del 1927 (lievemente modificato da quello del 1930). Tra gli obblighi dei pensionados di paesaggio si trovavano i viaggi all’estero e la consegna annuale di una serie di lavori che dovevano essere inviati al ministero per una valutazione da parte di un tribunale appositamente costituito. Allo stesso tempo, erano caldeggiate le escursioni artistiche ed era obbligatorio realizzare un viaggio di studio in una regione italiana durante il periodo estivo. Queste incombenze generano gran parte della documentazione conservata nell’archivio, tra cui spiccano, al fine di conoscere l’attività dei pensionados, i resoconti da inviare al direttore quando si trovavano fuori città, nonché quelli che quest’ultimo doveva spedire al ministero trimestralmente. Sebbene spesso non siano ben dettagliati, essendo redatti unicamente per adempiere all’obbligo, in essi si raccolgono le visite a musei, monumenti, zone archeologiche e altre escursioni in giro per l’Italia e l’estero, nonché frequenti riferimenti ai lavori artistici e, in particolar modo, agli incarichi annuali obbligatori. Fortunatamente, la Fundación Gregorio Prieto conserva la maggior parte dei suoi appunti e diari personali che arricchiscono moltissimo le scarse informazioni presenti nei documenti dell’Accademia; nei casi invece di altri pensionados non così attenti nel registrare le proprie esperienze o ai cui scritti è toccata sorte peggiore, l’archivio dell’Accademia è fondamentale per ricostruire le attività svolte durante il pensionado, un periodo di lunga durata e determinante nella formazione di questi giovani che, stando al regolamento del 1927, potevano godere di quattro anni di pensión e non dovevano superare i 30 anni di età. Non si conservano tutti i resoconti delle attività di Prieto, ma già nel primo, datato gennaio 1929, segnala la visita ai musei delle Terme, il Vaticano e di Arte Moderna, tappe comuni tra i pensionados appena giunti a Roma. Prieto intraprende, immediatamente, anche le escursioni alle principali città d’arte italiane, altrettanto abituali tra i pensionados ma
Natura morta. Colezione MAEC
particolarmente importanti per quelli di pittura di paesaggio, desiderosi di trovare scenari interessanti per i loro effetti cromatici, i giochi di luce e le tematiche, alla ricerca di un’originalità che li distinguesse da ciò che era stato fatto dai loro predecessori, come possiamo leggere nelle memorie e notizie giunte fino a noi da altri pensionados di paesaggio, tra cui José Nogué (1907-1911) o Timoteo Pérez Rubio (1922-1928). Pertanto, alla fine del 1929 Prieto era già stato ad Assisi, Venezia, Firenze, Padova, Arezzo, Sicilia, Capri, Napoli e Pompei, facendo ritorno nel frattempo a Roma dove continuava le visite ai musei. Nel secondo e terzo anno il regolamento obbligava a risiedere all’estero per alcuni mesi. Prieto si trasferisce a Parigi nell’autunno del 1929, città in cui aveva già soggiornato anni prima e nella quale tornerà nel 1930 e ancora dopo. Qualche mese prima, a maggio, era andato in Grecia. Nel 1932 si sposta di nuovo verso il nord Europa, documentando il suo passaggio per Berlino, Copenaghen e Stoccolma. I documenti raccolgono anche altri spostamenti in Italia durante i periodi di permanenza a Roma, e inoltre alcuni viaggi in Spagna per motivi familiari, turistici o per presenziare importanti eventi 47
come l’Esposizione Ibero-americana di Siviglia o l’Internazionale di Barcellona all’inizio del 1930. Questa lista di luoghi, e altri documenti a essa legati, come cartoline, certificati consolari, etc., evidenzia, oltre al suo amore per l’arte dell’Antichità classica e rinascimentale che influenzerà fortemente le sue opere di questo periodo e quelle successive, un grande interesse per quanto succedeva nelle grandi capitali europee, nonché la vitalità di questo giovane avido di viaggiare, di vedere, di sfruttare al massimo, in definitiva, l’opportunità concessagli dalla pensión. Ciò è avvalorato dalle annotazioni sui suoi diari, studiati da J. García-Luengo nella sua recente monografia sul pittore mancego, che inoltre completano con altri luoghi quelli menzionati nei documenti conservati nell’Accademia. Nascono così opere come Effetto di luce. Isola di Capri, Impressione di paesaggio grigio, Effetto di luna. Allegoria della Roma imperiale, Studio di animali – noto come Il cavallo di bronzo –, Natura morta (tutti lavori regolamentari inviati al ministero mesi dopo la conclusione della pensión e dopo aver ottenuto l’esonero dalla consegna del terzo anno), Mare di Grecia o Rovine di Selinunte.
Relazione delle attività svolte datata gennaio 1929. Archivo RAER
vamente la creatività e la smania di libertà individuale dei giovani pensionados. Due anni dopo, nel 1932, un nuovo regolamento avrebbe cercato un equilibrio tra creatività, diritti, obblighi e disciplina, esperimento che non riuscì a risolvere tutti i problemi e che lo scoppio della Guerra Civile stroncò inesorabilmente. Al tempo stesso, il desiderio di proroga della pensión e l’eccentricità o, quantomeno, la forte personalità di quasi tutti i protagonisti di quegli avvenimenti, non contribuirono minimamente alla ricerca di una soluzione conciliatoria. Pertanto, le minacce di sospensione della pensión, rese effettive in alcuni casi, le richieste di dimissioni del direttore e i ritardi, e perfino il rifiuto di consegna dei lavori obbligatori, furono gli aspetti che dominarono e resero difficili gli ultimi anni della permanenza in Accademia di Gregorio Prieto. La documentazione dimostra che Prieto aveva lavorato intensamente e prodotto molte opere, per cui, se avesse voluto, non avrebbe avuto alcun problema nel presentare i lavori obbligatori; tuttavia, per solidarietà con
Cartolina inviata dalla Grecia nel maggio del 1930. Archivio RAER
Il secondo grande blocco di documentazione raccoglie molte delle missive e note relative alle richieste di proroga nonché i solleciti per le consegne obbligatorie annuali, informazione che evidenzia i gravi dissidi che, soprattutto a partire dal 1931, Prieto e i suoi compagni di promoción ebbero con il direttore Blay, ereditati poi dal successore Valle-Inclán. Senza entrare nei dettagli di questa questione, che sfociò in scritti incrociati tra pensionados, direzione, ambasciata e ministero, la situazione alterò profondamente le relazioni tra tutti e la pace della convivenza. I motivi furono diversi ma, senza dubbio, influirono i lavori di ristrutturazione iniziati dal direttore Blay nel 1930 che disturbarono la vita dei pensionados, nonché la rigidità della normativa, ancora ottocentesca, che ingabbiava eccessi49
Nota del viaggio a Parigi nel gennaio del 1933. Archivio RAER
i compagni Chicharro e Colón, e per il suo carattere poco disciplinato, oltre che per i numerosi viaggi, non li consegnò fino a molto dopo la conclusione della sua pensión. Il regolamento del 1927 aveva stabilito che, per agevolare l’integrazione dei nuovi arrivati, ogni due anni venisse convocata soltanto la metà dei dieci posti disponibili, in modo tale che il totale fosse coperto dalla somma dei pensionados delle due convocazioni successive, che si sovrapponevano e che, pertanto, coincidevano durante i quattro anni in Accademia con due promociones diverse. Per questa ragione, per i primi due anni la promoción del 1928 fu composta soltanto dai pittori Eduardo Chicharro Briones (pittura di figura) e Gregorio Prieto (pittura di paesaggio), lo scultore Tomás Colón e la compositrice María de Pablos Cerezo. Come vediamo, non venne coperto neanche il quinto posto e, María de Pablos – primo pensionado di sesso femminile dell’istituzione – essendo accompagnata dalla madre, si vide costretta a vivere fuori dall’Accademia e non ebbe mai un buon rapporto con gli altri. Questo determinò che i legami tra i tre pensionados fossero molto stretti – realizzarono insieme alcuni dei viaggi – e che si comportassero la maggior parte delle volte con un’unità di criterio che avrebbe finito con l’allontanarli anche dai pensionados arrivati nel 1931. Ma se la stretta convivenza del trio fu una delle cause dei dissapori con il direttore e gli altri pensionados, al tempo stesso favorì la collaborazione artistica che nacque tra loro, soprattutto tra Prieto e il molto più giovane Chicharro Briones – ammirato dall’enorme capacità creativa dell’altro – e che fiorì nell’originalissima sperimentazione fotografica sviluppata congiuntamente durante il pensionado presso l’Academia de España a Roma. Osservando queste fotografie vediamo oggetti ancora presenti quando percorriamo gli spazi dell’edificio gianicolense, come ad esempio i calchi in gesso della Venere de’ Medici, l’Eros di Centocelle o lo Zeus di
Certificato consolare rilasciato a Parigi nel febbraio del 1933. Archivio RAER
Otricoli e i ritratti dei pensionados con cui appaiono mentre giocano in compagnia dei figli di Valle-Inclán, ma anche semplici sedie o piastrelle in bianco e nero, che noi che viviamo l’Accademia sappiamo essere, invece, rosse e nere; riconosciamo anche angoli rubati dall’occhio della macchina fotografica in quella frazione di secondo in cui ha immortalato alcune terrazze, la scala di ferro che porta alle torri o il vecchio stagno del giardino, cose, spazi e vissuti che continuano a circondare e a servire da ispirazione ai creatori di oggi, come all’epoca alimentarono la creatività di Gregorio Prieto.
51
Real Academia de España en Roma Piazza San Pietro in Montorio, 3 00153 Roma (Gianicolo) +39 06 581 28 06 info@accademiaspagna.org www.accademiaspagna.org
Impreso en Italia © De los textos: sus autores © De las imágenes: Fundación Gregorio Prieto (fotografías), Archivo de la Real Academia de España en Roma (documentación) y Ministerio de Asuntos Exteriores y de Cooperación (pinturas). Todos los derechos reservados. No está permitida la reproducción total o parcial de esta publicación ni su tratamiento o trasmisión por cualquier medio o método, sin la autorización previa y escrita del autor.