edited by / a cura di Michela Bassanelli - Gennaro Postiglione
Re-enacting the Past. Museography for Conflict heritage riattivare il passato. la museografia per l’eredita’ dei conflitti
ISBN 978-88-6242-064-8 Prima edizione/First edition, Giugno/June 2013 © 2013 LetteraVentidue Edizioni © 2013 per le fotografie e i testi: rispettivi autori © 2013 of photography and texts: their authors No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means (electronic or mechanical, including photocopying, recording or any information retrieval system) without permission in writing form. È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare. Book design: Francesco Trovato, Corrado Cannata Editing: Michela Bassanelli LetteraVentidue Edizioni S.r.l. www.letteraventidue.com Via Luigi Spagna, 50 L 96100 Siracusa, Italy
The book draws on the study “Beyond the Memorial: Exhibition Design for Conflict Heritage”, which is the topic of the thesis of PhD Candidate Michela Bassanelli (Doctorate Programme in Interior Architecture and Exhibition Design at Politecnico di Milano). Moreover, the work is part of the research activities of the PRIN project 2008 “The musealization and intercultural communication intervention in archaeological sites” (National Coordinator: prof. Marco Vaudetti), carried out by the MIBE group Politecnico di Milano (General Coordinator: prof. Luca Basso Peressut, Coordinator of the research topic “Conflict Archaeology”: prof. Gennaro Postiglione). The same topics have become later subject of a further investigation within the international project “REcall-European Conflict Archaeological Landscape Reappropriation” (www.recallproject.polimi.it), financed by the EC-Culture 2007 programme in 2012 (ref.: 2012 - 0927 / 001 - 001 CU7 COOP7). Prof Gennaro Postiglione is the Project Leader and PhD Candidate Michela Bassanelli is Principal Investigator of the project. Il libro prende le mosse dallo studio “Beyond the Memorial: Exhibition Design for Conflict Heritage” che la PhD Candidate Michela Bassanelli sta sviluppando come tesi di dottorato presso il Politecnico di Milano (Dottorato in Architettura degli Interni e Allestimento), all’interno delle attività di ricerca del PRIN 2008 “L’intervento nelle aree archeologiche per la musealizzazione e la comunicazione culturale” (Coordinatore Nazionale prof. Marco Vaudetti) svolte dal gruppo MIBE del Politecnico di Milano (Coordinatore generale prof. Luca Basso Peressut, coordinatore ricerca sul tema “Conflict Archaeology” prof. Gennaro Postiglione). I temi affrontati nel lavoro sono successivamente confluiti nel progetto internazionale “REcallEuropean Conflict Archaeological Landscape Reappropriation” (www.recall-project.polimi. it), finanziato nel 2012 dal programma EC-Culture 2007 (rif.: 2012 - 0927 / 001 - 001 CU7 COOP7), di cui il prof Gennaro Postiglione è Project Leader e la PhD Candidate Michela Bassanelli è il Principal Investigator.
INDICE
CONTENTS 12
INTRODUCTION Beyond the Memorial: Museography for the Conflict Heritage. Oltre il memoriale: la museografia per il patrimonio dei conflitti Michela Bassanelli
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PART 1 ARCHAEOLOGY OF CONFLICTS OF THE XX CENTURY ARCHEOLOGIA DEI CONFLITTI DEL XX SECOLO
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Sites of Memory, Sites of Oblivion: The Archaeology of Twentieth Century Conflicts in Europe Luoghi della memoria, luoghi dell’oblio: L’Archeologia dei conflitti del ventesimo secolo in Europa Gilly Carr, Marek Edward Jasinski
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Difficult Heritage Eredità Difficili Sharon Macdonald
74
The Green Hills of Black and White Rubble Le verdi colline delle macerie in bianco e nero Fernanda De Maio
88
Beyond the Gunpowder: Investigating Battlescapes Oltre la polvere da sparo: studiare i paesaggi di guerra Niko Rollman
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The Atlantic Wall: An Ambiguous Heritage L’Atlantikwall: un’eredità ambigua Inge Marszolek
126
Showing Nazism: The Embarrassing Ruins of the Thousand-Year Reich Mostrare il nazismo: le imbarazzanti rovine del Reich millenario Elena Pirazzoli
144
PART 2 MUSEUMS, MAUSOLEUMS AND MEMORIALS MUSEI, MAUSOLEI E MEMORIALI
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War Museums in Europe: Architecture and Representation Musei della guerra in Europa: architettura e rappresentazione Luca Basso Peressut
182
Oradour-sur-Glane and the Memorial Museum: A Site of Reconciliation Oradour-sur-Glane e il Museo della Memoria: un sito di riconciliazione Aldo Renato Daniele Accardi
200
WWI Memorials and Connected Commemorative Parks and Gardens in Lombardy: A System to Preserve and Valorize I monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale e i connessi giardini e parchi commemorativi in Lombardia: un sistema da tutelare e valorizzare Alberta Cazzani
214
Thresholds: American War Cemeteries as Memorials Soglie: i cimiteri di guerra americani come memoriali Clelia Pozzi
234
Intangible Geographies: The Netherlands Heritage of War Programme Geografie intangibili: il progetto olandese “Eredità di guerra” Eleonora Lupo
254
News from the Battlefront Notizie dal fronte Monica Resmini
270
PART 3 ART & CONFLICT HERITAGE ARTE & PATRIMONIO DEI CONFLITTI
276
Ruins, Archaeology and the Postcolonial Archive Rovine, archeologia e archivio postcoloniale Iain Chambers
288
A “Treatise” on Ruins: The Loving Work of Lida Abdul Un “trattato” sulle rovine: il lavoro di Lida Abdul Silvana Carotenuto
302
Magdalena Jetelová. Atlantic Wall 1994-95: Light and Shadows over the Boundary Magdalena Jetelová: Atlantic Wall 1994-95: luci e ombre sul confine Margherita Parati
320
Counter-Monument and Anti-Monument:“The Absolute Impatience of a Desire of Memory” Contro-monumento e Anti-monumento:“L’impazienza assoluta di un desiderio di memoria” Giulia Grechi
338
PART 4 MUSEOGRAPHY FOR ARCHAEOLOGICAL LANDSCAPE OF CONFLICTS La Museografia per il paesaggio archeologico dei conflitti
344
Reuse, Recover, and Musealization of the Atlantikwall: A Comparative Survey Riusi recuperi e musealizzazioni dell’Atlantikwall: esperienze a confronto Gennaro Postiglione
364
Learning From War Landscape Imparare dal paesaggio dei conflitti Giulio Testori
380
A Museum of the Territory along the “Defensive Line at the North Border” Un Museo del territorio lungo “La linea di difesa alla frontiera nord” Cristina Federica Colombo
396
Cold War Panor(a)ma: Porto Palermo Museum in Albania Panor(a)ma della guerra fredda: il museo di Porto Palermo in Albania Elisabetta Terragni
412
Carso is a Double and Invisible Landscape Il Carso è un paesaggio duplice ed invisibile Baukuh+YellowOffice
438
AUTHORS
10
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michela bassanelli
Beyond the Memorial: Museography for the Conflict Heritage.
Oltre il memoriale: la Museografia per il patrimonio dei conflitti
One day, in an art school in Rome, crowded with very polite students, who clapped their hands in a civil way and even laughed if I made witticisms, I realized that nothing of what I was telling them was getting fixed in their minds: they probably caught some information, felt some emotions, but it was as when you go to the cinema and you get out of it feeling emotional, but, after ten minutes, life goes back to its own routine. The things I told them were answers to my problems (and maybe, to those of my generation), they were not answers to their own problems. Especially, the young and the very young have uncertainties which are unknown to my generation, uncertainties which make it difficult to make plans about their own lives and, consequently, they seem to make history useless. I can neither impose my solutions to them, nor propose them. This does not concern only the youth, it pertains to everybody: how can we recall memory? How can we remember the past? This question has intrigued me since that meeting at the art school.
Un giorno in un liceo artistico di Roma affollatissimo di studenti, molto cortesi, che applaudivano civilmente e persino ridevano se raccontavo delle facezie, mi sono accorto che nulla di quello che raccontavo si fermava nella loro mente: potevano cogliere delle informazioni, ricavare anche qualche emozione, ma era come quando si va al cinema e si esce commossi, ma dopo dieci minuti la vita di ogni giorno riprende il suo dominio. Le cose che raccontavo erano risposte ai miei problemi (e magari a quelli della mia generazione), non erano risposte ai problemi loro. Soprattutto i giovani e i giovanissimi hanno insicurezze sconosciute alla mia generazione, insicurezze che rendono difficile progettare la vita e sembrano quindi rendere inutile la storia. Io non posso imporre, e nemmeno proporre loro le mie soluzioni. La cosa non riguarda solo i giovani, tocca un po’ tutti: come si richiama la memoria? Come si può ricordare il passato? Da quella riunione al liceo artistico quella domanda mi ha intrigato.
(Foa 1996, IX)
(Foa 1996, IX)
This anectode, taken from the book Questo Novecento by Vittorio Foa, expresses a complex problem in a very simple way: how to recall memory, how to remember the past in a way which is understandable by everybody, and in particular by those who have never directly lived those histories. The 20th century was the witness century 1 of the survivor man who showed the veracity of overwhelming facts and, at the same time, the absolute banality of evil. In her accurate and meticulous analysis of the Eichmann trial, Hannah Harendt highlights the dreadful normality of the individual who is accused of committing the worst human crimes: “however, Eichmann’s problem was that there were many men like him and these men were neither pervert, nor sadistic; on the contrary, they were, and still are, terribly normal” (Arendt 1963, 282). During the first 1960s, the Eichmann trial and the Frankfurt trials
Il breve racconto tratto dal libro Questo Novecento di Vittorio Foa esprime in modo molto semplice un problema complesso: come rievocare la memoria, come ricordare il passato in modo che sia comprensibile a tutti, in particolare a chi quelle storie non le ha mai vissute direttamente. Il Novecento è stato il secolo del testimone,1 dell’uomo sopravvissuto che ha mostrato la veridicità di fatti sconvolgenti e insieme l’assoluta banalità del male. Hannah Harendt nella sua attenta e minuziosa disamina del processo Eichmann mette in luce la spaventosa normalità dell’individuo accusato di commettere i reati peggiori dell’umanità: “ma il guaio di Heichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali” (Arendt 1963, 282). Il processo Eichmann e quelli di Francoforte, nei primi anni Sessanta, hanno messo in evidenza la centralità del testimone nella 13
Peace Memorial Park, Hiroshima (Ph. Michela Bassanelli)
emphasized the importance of the witness in the construction of a shared history. The body of the survivor becomes a sort of public body “mindful of the many who cannot speak anymore, who have no eyes, ears, or numbers inscribed on their skin anymore” (Tarpino 2008, 15). In the 1990s other memories are added to those of the Holocaust: the tragedy of the Desaparecidos in Argentina and the massacre of Srebrenica in Bosnia. Nowadays, the intergenerational passage is causing the last witnesses to disappear, leaving us with the ethical task of passing on the stories lived by our grandparents and great-grandparents to the new generations, giving them a stern warning not to repeat the tragedies of the past, and not to forget. Thus, how can we possibly hand down the memories of others? 14
costruzione di una storia condivisa. Il corpo del sopravvissuto diventa una sorta di corpo pubblico “memore dei tanti che non possono più parlare: che non hanno più occhi, orecchi, numeri da mostrare incisi sulla pelle” (Tarpino 2008, 15). Negli anni Novanta altre memorie si aggiungono a quella dell’Olocausto: la tragedia dei Desaparecidos in Argentina e il massacro di Srebrenica in Bosnia. Il transito intergenerazionale fa si che oggi gli ultimi testimoni vadano scomparendo lasciandoci il compito etico di tramandare le storie vissute dai nostri nonni e bisnonni alle nuove generazioni con il forte monito a non ripetere i drammi del passato, a non dimenticare. In che modo allora è possibile oggi perpetrare il ricordo degli altri? I luoghi della memoria potrebbero rappresentare i nuovi testimoni2 che con le loro
The places of the memory could represent the new witnesses 2 that, with their traces— whether tangible or intangible—become bearer of others’ values. In his reflections on collective memory, Maurice Halbwachs defines the importance of the place as a catalyzing element of the aspects of one given society: The place a group occupies is not like a blackboard, where one may write and erase figures at will. No image of a blackboard can recall what was once written there. The board could not care less what has been written on it before, and new figures may be freely added. But place and group have each received the imprint of the other. Therefore every phase of the group can be translated into spatial terms, and its residence is but the juncture of all these terms. (Halbwachs 1950, 137) The theme of the memory in relation with space is broadened at the end of World War II, when cities and landscapes look like remains of theatres of war. In the 1980s, it is Pierre Nora who defines the concept of lieux de memoire, which is also the title of his impressive work in seven volumes (1984-1992) dedicated to the founding places of the French country: “significant units, of either material or ideal order, from which the will of men or the effect of time has created a symbolic element of the memorial patrimony of a community” (Nora, 1984). Therefore, a place of memory is a space, such as a museum, a monument, a particular territory or site characterized by historical or traumatic events, which have marked it to the point of making it a container of collective memory. In her book Remembering spaces, forms and changes of the cultural memory, Aleida Asmann has dedicated an entire chapter to “the memory of the places:” places, as people, are bearers of memories, palimpsests made of a series of layers which refer to specific historical moments.3 In an even more evident way, places of trauma,4 that is, the memorial places par excellence, are characterized by multiple and different stratifications of memories linked to those people
tracce, tangibili o intangibili, diventano portatori di valori altri. Già Maurice Halbwachs nelle sue riflessioni sulla memoria collettiva definisce l’importanza del luogo come elemento catalizzatore degli aspetti di una società: Il luogo occupato da un gruppo non è come una lavagna su cui si scrivono delle cifre e delle figure e poi si cancellano. Come potrebbe l’immagine della lavagna ricordare ciò che vi si è tracciato sopra, dal momento che è indifferente alle cifre, e sulla medesima lavagna si possono riprodurre tutte le figure che si vogliono? No. Il luogo invece accoglie l’impronta di un gruppo, e ciò è reciproco. Allora tutte le pratiche del gruppo possono tradursi in termini spaziali, e il luogo che occupa non è che la riunione di tutti i termini. (Halbwachs 1950, 137) Il tema della memoria in relazione allo spazio si amplifica alla fine del secondo conflitto mondiale quando le città e il paesaggio si presentano come resti dei teatri di guerra. È Pierre Nora che negli anni Ottanta definisce il concetto di lieux de memoire, titolo della sua imponente opera in sette volumi (19841992) dedicata ai luoghi fondanti della nazione francese: “unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità” (Nora, 1984). Un luogo della memoria è quindi uno spazio, come un museo, un monumento, un particolare territorio o località caratterizzato da eventi storici o traumatici che lo hanno segnato fino a farlo divenire contenitore della memoria collettiva. Aleida Asmann ha dedicato un intero capitolo nel suo libro Ricordare, forme e mutamenti della memoria culturale alla “memoria dei luoghi:” i luoghi come le persone sono portatori di ricordi, palinsesti costituiti da una serie di strati che fanno riferimento a particolari momenti della storia.3 In modo ancora più manifesto i luoghi del trauma,4 ovvero i luoghi commemorativi per eccellenza, sono caratterizzati da molteplici e differenti stratificazioni dei ricordi legati a chi quelle esperienze le ha vissute 15
who have actually lived those experiences. In line with the above mentioned reflections, Elena Pirazzoli talks about a naked place, emphasizing the one-to-one relationship between memory and event: “the naked place is the feature which joins all ‘spaces,’ either places or non-places; it is the presence of stratification of uses, of past times, of remains, with no pretence of high historicity, but capable of recalling human events” (Pirazzoli 2010a, 46). The concept of naked place refers to an almost abstract reality, to emotions and sensations that originate from walking through a place hit by a catastrophe, even if it does not present any trace of the event, owing to the relentless passing of time. Some artists exploit the places of the memory as material for their works. They create artistic actions that highlight the symbolic value and the value of removed memory of these peculiar monuments, capable of triggering the production of meanings and values that overcome the pain of traumatic memory. Both Magdalena Jetelova and Ejdrup Hansen have performed installations on some parts of the Atlantikwall. Their aim is to underline the peculiarity of the remains and stimulate a reflection on such uncomfortable presences that define a stretch of transnational coast. Photographers José Maria Rosa and Marìa Bleda, instead, work with images; they try to catch the passing of time in their pictures, taken on the most important Spanish battlefields, leaving the watcher free to imagine the event. Similarly, the group of archaeologists named Recent ruins use photographs to record—through traces, but also through absences—the intangible memories of places. The two world wars, the genocides, and the atomic bomb have left indelible signs in the European cities and landscapes. New traces of the past mark the land, where the old imprints have vanished by now, due to neglect or desertion. The physical landscape of the places and the mental landscape of the people who took part in the wars are dotted 16
direttamente. In continuità con le riflessioni appena citate Elena Pirazzoli parla di nudo luogo sottolineando il rapporto biunivoco tra memoria ed evento: “il nudo luogo è allora quel carattere che unisce tutti gli ‘spazi,’ che siano essi luoghi o nonluoghi, è la presenza di stratificazioni d’uso, di passati, di residui, senza pretese di alta storicità, ma capaci di rendere vicende umane” (Pirazzoli 2010a, 46). Il concetto di nudo luogo rimanda ad una realtà quasi astratta, ad emozioni e sensazioni che nascono dall’attraversamento di un luogo colpito da catastrofi anche ove questo non presenti più le tracce dell’evento per lo scorrere incalzante del tempo. Alcuni artisti si servono dei luoghi della memoria come materia del loro lavoro creando azioni artistiche che mettono in evidenza il valore simbolico e di memoria rimossa di questi patrimoni particolari, in grado di sostenere la produzione di sensi e di valori che superano il dolore della memoria traumatica. Magdalena Jetelova e Ejdrup Hansen hanno realizzato entrambi delle installazioni su alcuni tratti dell’Atlantikwall per sottolineare il carattere dei reperti e stimolare un invito alla riflessione su queste presenze ingombranti che definiscono un tratto di costa transnazionale. La coppia di fotografi José Maria Rosa e Marìa Bleda lavora con le immagini cercando di cogliere, negli scatti sui campi di battaglia più importanti della Spagna, il passaggio del tempo, lasciando all’immaginazione la libertà di ricostruire l’evento. Nello stesso modo il gruppo di archeologi di Recent ruins usa la fotografia per registrare—attraverso le tracce ma anche le assenze—le memorie intangibili dei luoghi. I due conflitti mondiali, i genocidi e la bomba atomica hanno lasciato, sul territorio europeo, segni indelebili nelle città e nel paesaggio. Nuove tracce del passato marchiano la terra, là dove le vecchie impronte si sono ormai volatilizzate, per incuria o abbandono. Bunker, forti, trincee, gallerie ma anche memorie, storie, ricordi costellano il paesaggio fisico dei luoghi e il paesaggio mentale delle
Parco della Memoria Storica, exhibition inside the ruins of San Pietro Infine, © Fondazione Parco della Memoria Storica.
with bunkers, fortresses, trenches, galleries, but also memories, stories, and reminiscences. They form a difficult and traumatic part of our cultural heritage. The 20th century was the century of fear,5 the century that witnessed the worst tragedies of the entire universal history: World War I: eight and a half million casualties on the front lines, almost ten million among civilians, six million disabled. During that same period of time: genocide of the Armenians: one and a half million people killed by the Turk government. In the Soviet Russia, founded in 1917: five million deaths owing to civil war and the 1922 famine, four million victims of repression, six million deaths during the organized famine of 1932-33. World War II: over thirty-five million losses only in Europe, at least twenty-five of which in the Soviet Union. During the war, over six million victims due to the extermination of Jews, Romani, mentally handicapped.
persone che hanno preso parte ai conflitti bellici e costituiscono una parte, difficile e traumatica, del nostro patrimonio culturale. Il Novecento è stato il secolo della paura,5 quello che ha conosciuto i maggiori drammi dell’intera storia universale: Prima guerra mondiale: otto milioni e mezzo di morti sui fronti, quasi dieci milioni nella popolazione civile, sei milioni di invalidi. Durante lo stesso periodo: genocidio degli Armeni, un milione e mezzo di persone messe a morte dal potere turco. Russia sovietica, nata nel 1917: cinque milioni di morti a causa della guerra civile e della carestia del 1922, quattro milioni di vittime della repressione, sei milioni di morti durante la carestia organizzata del 1932-33. Seconda guerra mondiale: più di trentacinque milioni di morti nella sola Europa, di cui almeno venticinque in Unione Sovietica. Durante la guerra, sterminio degli ebrei, degli zingari, degli handicappati mentali: più di sei milioni di vittime. 17
Allied bombardments on civilians in Germany and Japan: several hundreds of thousand casualties. Not to mention the bloody wars fought by the European powers in their colonies, such as France in Madagascar, Indochina, Algiers. (Todorov 2001, 15) This is how Tzvetan Todorov starts a chapter entitled Our liberal democracies, highlighting, by contrast, the evil produced by the European countries, and not only them, which are now liberal democracies. Marco Revelli considers this huge number of victims as “one of the forms of the general tendency to massification of that epoch” (Revelli 2006, 10). The 20th century was the century of the homo faber, the man who only had to perform his productive function and to completely submit himself to totalitarian regimes. It was a century with an oxymoronic character, characterized by the inconsistency between purposes and tools which is evident in three events: from the twentieth-century communism, to Auschwiz seen as a “place of extreme capitulation” (Revelli 2006, 10), where people’s bodies were used and destroyed as if they were things, to the atomic bomb, where men created their own destruction. In the complex and devastating post-war panoramas, the first commemorative action was to place monuments and memorials as warnings against oblivion. Since the end of Second World War, the monument, in particular, has completely changed its intrinsic features, to the extent that its name has gradually been replaced by the term “memorial.” The word “monument” comes form Latin monumentum and monere, meaning “to remember” and it refers to an artwork whose aim is to preserve the memory of illustrious men, or great events (Milizia 1797). Encyclopaedia Treccani talks about a “sign placed to remember a person or an event: to place, to put up, to build a monument. In particular, a sculpture or a work of decorative architecture, set in public areas to celebrate illustrious people or in memory of glorious events. In some cases it rears over or contains a grave: a 18
Bombardamenti alleati della popolazione civile in Germania e in Giappone: parecchie centinaia di migliaia di morti. Senza parlare delle sanguinose guerre condotte dalle potenze europee nelle loro colonie, come la Francia in Madagascar, Indocina, Algeri. (Todorov 2001, 15) Tzvetan Todorov inizia così il capitolo intitolato Le nostre democrazie liberali sottolineando per contrasto il male prodotto dagli stati europei e non solo, oggi democrazie liberali. Marco Revelli considera questo numero spropositato di vittime come “una delle forme della più generale tendenza alla massificazione che ha caratterizzato l’epoca” (Revelli 2006, 10). Il Novecento è stato il secolo dell’homo faber dell’uomo ridotto esclusivamente alla sua funzione produttiva e al completo assoggettamento ai regimi totalitari. Secolo dal carattere ossimorico, caratterizzato dalla contraddittorietà tra mezzi e fini che si è espressa in tre vicende esemplari: dal comunismo novecentesco, ad Auschwiz come “luogo di estrema caduta” (Revelli 2006, 10) dove i corpi degli uomini sono stati usati e distrutti come cose, fino alla bomba atomica dove l’uomo ha creato la sua distruzione. Nel panorama complesso e devastante prodotto dalle guerre la prima azione commemorativa è stata quella di porre sui luoghi monumenti e memoriali con lo scopo di fungere da monito all’oblio. Il monumento, in particolare, conosce una trasformazione radicale nei caratteri intrinseci a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale tanto da essere a poco a poco sostituito dal termine memoriale. Monumento deriva dal latino monumentum e da monere “ricordare” ed ha il significato di opera per conservare la memoria degli uomini illustri, o di avvenimenti grandi (Milizia 1797). L’enciclopedia Treccani parla di “segno che fu posto e rimane a ricordo di una persona o di un avvenimento: porre, erigere, costruire un monumento. In particolare opera di scultura o di architettura decorativa, che si colloca nelle aree pubbliche a celebrazione di persone illustri o in memoria di avvenimenti gloriosi. Oppure che sovrasta o
funerary, sepulchral monument.”6 In particular, the commemorative monument, meant as one of the realizations of the monument, has “the role of reminding, in the name of a community, of painful historical events and their victims” (Pethes and Ruchatz 2002, 356). In the 20th century the monument was chosen as one of the forms of expression of totalitarian regimes, and, consequently, after 1945, we can observe a slow shift to the memorial. The shift from one commemorative form to the other does not only imply a semantic transformation, but also a change in its features. Indeed, the fundamental elements of the monument are: permanence, long duration, eternity, big dimensions, solemness. Such features are subsequently refused because of the absolute meaninglessness of the tragedies of Second World War, such as the Holocaust and the atomic bomb. Thus, the elements which start to characterize the monument are: abstraction, aphasia,7 very close relationship with the place of the event: “over the 20th century, it is possible to observe in Europe an evident transformation of the war monuments which had been largely put up especially after the First World War; commemorative monuments built to remember the catastrophe of the Second World War, indeed, are abstract in their form and universalist in their rhetoric” (Pethes and Ruchatz 2002, 357). In the first 1980s, the definite break-off of the monument was established with what is defined by James Joung as counter-monument,8 that is, the anti-monument or the opposite monument. A series of artists in charge of building monuments dedicated to the tragedies of the Holocaust propose alternative approaches, characterized by “alteration, deterioration, and disappearance” (Pirazzoli 2010b, 241). The relationship between the object and the visitor—who is prompted to think about the event—becomes crucial. The Vietnam Memorial by Maya Lin is a paradigmatic example of the shift to the countermonument. The wall, filled with the names of
contiene una tomba: m. funebre, sepolcrale.”6 In particolare il monumento commemorativo, inteso come una delle sottodeclinazioni del monumento, ha “la funzione di ricordare, a nome di una collettività eventi storici dolorosi e le loro vittime” (Pethes and Ruchatz 2002, 356). Nel Novecento il monumento è stato scelto come una delle forme di espressione dei regimi totalitari e per questo motivo dopo il 1945 assistiamo ad un lento passaggio verso il memoriale. Tra le due forme di commemorazione non c’è solo uno slittamento semantico ma anche un cambiamento nei caratteri. Gli aspetti costitutivi del monumento sono infatti permanenza, lunga durata, eternità, grande dimensione, ieraticità; aspetti che vengono successivamente rifiutati per l’assoluta mancanza di senso delle tragedie del secondo conflitto mondiale come l’Olocausto e la bomba atomica. I caratteri che iniziano a comparire sono astrazione, afasia,7 rapporto molto stretto con il luogo dell’evento: “nel corso della storia del XX secolo si afferma in Europa una chiara trasformazione dei monumenti di guerra che sorgevano in gran numero soprattutto ancora dopo la Prima Guerra Mondiale, ad opera dei monumenti commemorativi astratti nella forma e universalisti nella retorica, eretti per ricordare la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale” (Pethes and Ruchatz 2002, 357). All’inizio degli anni Ottanta viene proclamata la rottura definitiva del monumento con quelli che James Joung definisce countermonument,8 ovvero l’antimonumento o monumento al contrario. Una serie di artisti incaricati di erigere monumenti ai drammi dell’Olocausto propongono strade alternative che seguono “la mutazione, il deperimento e la scomparsa” (Pirazzoli 2010b, 241) e dove centrale diventa il rapporto tra oggetto e visitatore che viene stimolato a riflettere in prima persona sull’evento. Il Vietnam Memorial di Maya Lin si presenta quale caso paradigmatico del passaggio verso il counter-monument. Il muro colmo di nomi delle vittime 19
Parco della Memoria Storica, the ruins of San Pietro Infine, © Fondazione Parco della Memoria Storica.
the war victims disappears into the ground, as a wound inflicted to the man’s body. The visitors’ contact with the wall, while looking for and remembering their loved ones, becomes an action which signals the passage from collective memory to personal memory, creating a more intimate relationship with the memory. Jochen Gerz and Esther Shalev-Gerz, two artists with a Jewish origin, have built a monument in Hamburg “against Fascism, war and violence—and for peace and human rights.” It consists of a column, an aluminium hollow pillar, on which visitors are invited to write their own names or comments. Its peculiarity lies in the slow disappearance of the pillar into the ground, an element which reveals the monument’s distinguishing features. The counter-monument represents “a new mnemonic practice rather than an innovative vehicle, focusing on meanings and concepts, on the effort which is necessary in order to make a ‘step further’ to internalize 20
della guerra scompare nel terreno come una ferita inflitta nel corpo dell’uomo. Il contatto con il muro per cercare e ricordare i proprio cari diventa un gesto di passaggio da memoria collettiva a memoria personale creando una relazione più intima con la memoria. Jochen Gerz ed Esther Shalev-Gerz, due artisti di origine ebraica, realizzano ad Harburg un “Monumento contro il fascismo, la guerra e la violenza – e per la pace e i diritti umani.” Esso consiste in una colonna, un pilastro cavo di alluminio, dove i visitatori sono invitati a scrivere i propri nomi o commenti. La peculiarità consiste nella lenta scomparsa della colonna nel terreno, aspetto che tradisce i caratteri propri del monumento. Il contromonumento segna “una prassi mnemonica nuova più che un veicolo innovativo, concentrandosi sui significati e sui concetti, sullo sforzo necessario per fare ‘il passo oltre’ per interiorizzare le tragedie de passato, senza respingerle o negarle” (Borello, 2004). Se gli
the tragedies of the past, without rejecting or denying them” (Borello, 2004). The 1980s are indeed marked by the debate triggered by the provocative works of artists; however, it is at the beginning of the 1990s that we can observe a real explosion of memorials, memory museums, and documentation centres, both on the places directly involved in the events, and outside of them, starting the “season of commemoration.” The memento, the action of remembering again, with strength, especially since the disappearance of the survivors’ narrative voices, has turned into the renewed imperative “never again” pursued by memorials, memory museums, and commemorative monuments recently built all over Europe. In the same years, archaeologists have expanded their interests to the traces of the conflicts fought in the 20th century. This new discipline originates in the United States between the end of the 1980s and the beginning of the 1990s and later spreads in Europe, particularly in England. Archaeology of conflicts focuses its attention on remains such as bunkers, trenches, and front lines, thus stimulating reflections on the importance and the value of this widespread heritage, which characterizes the European landscape and cities. These sites are the target of a wide touristic phenomenon called dark tourism or black tourism, which refers to the practice of visiting places linked to pain and sufferance. The increasing interest towards the heritage of conflicts, which has been stirred also by these recent phenomena, has led to the necessity to elaborate a new planning process capable of performing both a museumizing and a therapeutic action. Memory parks represent an attempt to go beyond the classic commemoration, fostering a supersession of traditional modalities of passing on memories. We have seen how the counter-monument presents some features typical of going beyond: one of the peculiarities of this new approach is the direct involvement of people, with a view to interiorizing and overcoming the trauma. Antonella
anni Ottanta sono segnati dal dibattito scatenato dalle opere provocatorie degli artisti, è dall’inizio degli anni Novanta che assistiamo a una vera esplosione di memoriali, musei della memoria e centri di documentazione, sia sui siti investiti direttamente dall’evento che fuori, inaugurando la “stagione della commemorazione.” Il memento, ricordare di nuovo e con forza, specie con la dipartita delle voci narranti dei sopravvissuti, è diventato il rinnovato imperativo del “mai più”, perseguito da memoriali, musei della memoria e monumenti commemorativi sorti di recente in tutta Europa. Negli stessi anni l’archeologia ha ampliato i suoi orizzonti d’interesse verso le tracce dei conflitti bellici del ventesimo secolo. La nascita di questa nuova disciplina si colloca tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta negli Stati Uniti per poi affermarsi in Europa e in particolar modo in Inghilterra. L’attenzione posta dall’archeologia dei conflitti sui reperti come bunker, trincee e linee fortificate, ha sollecitato molte riflessioni riguardo all’importanza e al valore di questo patrimonio diffuso che caratterizza il paesaggio e le città europee. Questi siti sono oggetto di un vasto fenomeno turistico che ha assunto il nome di dark tourism o black tourism e indica la pratica di visitare luoghi legati alla sofferenza e al dolore. Il maggior interesse che si è sviluppato verso il patrimonio dei conflitti, suscitato anche da questi recenti fenomeni, ha portato alla necessaria elaborazione di nuovo processo progettuale in grado di svolgere insieme all’azione musealizzante anche una terapeutica. I parchi della memoria rappresentano un possibile approccio alla volontà di andare oltre la commemorazione classica, promuovendo un superamento delle tradizionali modalità di trasmissione dei ricordi. Abbiamo visto come il contro-monumento presenti alcune caratteristiche dell’andare oltre: uno degli aspetti costitutivi del nuovo approccio è proprio il coinvolgimento diretto delle persone con l’obiettivo di interiorizzazione e 21
Tarpino talks about a shift from a “witness agreement,” as the paradigm of the memory of the 20th century, linked to the display of the body, to a “compassion agreement” meant as sharing and re-telling the past. A new series of projects—the “memory parks”—has the aim of healing the scars present on the territory through people’s direct involvement, and of fostering a reappearance of remains and traces in objects’ and people’s life cycles. Its purpose is to help go beyond the trauma, thus becoming an opportunity to build shared memories on a transnational scale.9 Our cities and landscapes are dotted with traces of conflicts. In some cases the signs are still evident (a burnt house, bomb craters in the landscape); in others, the passing of time has cancelled the visible signs, but not the memory. Some projects of the latest years propose a new approach, using the places of the memory as witnesses of the past or of the active relationship with the visitor. Hiroshima Peace Site is a precursory project, because of the peculiarity of the tragedy that hit the entire city and caused the necessity to “memorialize” the whole area in witness of the event. In January 2011, a competition announced by the Province of Gorizia was concluded. The purpose of the competition was to design the planning of the Carso area, which saw the bloodiest battles of the First World War. Three areas have been identified, three zones that are considered remarkably important in terms of their features linked to the historical memory: Redipuglia war memorial, Monte San Michele and Doberdò Lake at Castellazzo. The project provides for interventions for each of the three areas, which are connected by a single path of the memory. The project is innovative because of its approach, which exploits the landscape and the trenches as narrative elements. Consequently, people are prompted to know the past, understand it, and elaborate it through a direct experience. Traces in the Carso area in the Gorizia Province become signs whose value has to be increased, trenches are wounds to 22
superamento del trauma. Antonella Tarpino parla di passaggio da “patto testimoniale,” quale paradigma della memoria novecentesca legato all’esibizione del corpo, al “patto di compassione” come condivisione e ri-narrazione del passato. In questo senso si colloca un nuovo filone di progetti, i “parchi della memoria,” che hanno l’obiettivo di ricucire le cicatrici presenti sul territorio attraverso un coinvolgimento diretto delle persone nei luoghi e di promuovere un ritorno di reperti e tracce nel circuito della vita delle cose e delle persone per andare oltre il trauma, diventando un’occasione per costruire delle memorie condivise a scala transnazionale.9 Le tracce dei conflitti costellano le nostre città e il paesaggio, in alcuni casi i segni sono ancora evidenti (una casa bruciata, gli scavi delle bombe nel paesaggio), in altri il trascorrere del tempo ha cancellato i segni visibili ma non la memoria. Alcuni progetti sorti negli ultimi anni propongono un nuovo approccio servendosi dei luoghi della memoria come testimoni del passato e del rapporto attivo con il visitatore. Progetto anticipatore è l’Hiroshima Peace Site, proprio per il carattere della tragedia che ha investito l’intera città e che ha provocato la necessità di “memorializzare” tutta l’area a testimonianza dell’evento. Si è concluso nel gennaio 2011 il concorso bandito dalla Provincia di Gorizia per la progettazione dell’area del Carso che ha ospitato le più cruenti battaglie del primo conflitto mondiale. Identificate tre aree ritenute di notevole importanza per il loro carattere di memoria storica, il Sacrario di Redipuglia, il Monte San Michele e il lago di Doberdò a Castellazzo, il progetto prevede interventi puntuali per ognuno dei tre ambiti collegati da un unico percorso della memoria. L’aspetto innovativo del progetto riguarda il tipo di approccio che si serve del paesaggio e delle sue tracce come elementi della narrazione. L’uomo è così spinto a conoscere il passato, comprenderlo e rielaborarlo attraverso un’esperienza diretta. Le tracce presenti nell’area del Carso goriziano diventano segni
Parque de la Memoria, Buenos Aires, (Ph. Gustavo Marquez) creative commons
be healed, war paths are routes whose aim is to spread knowledge and life. The project has a didactic-narrative role which values the knowledge and the discovery of a part of national traumatic history. Porto Palermo in Albania, by Elisabetta Terragni, Jeffrey Schnapp and Daniele Ledda, is a more recent project, which has not been realized yet. A Cold War submarine base is to be transformed into a museum space that tells the events of the Cold War through two perspectives: one will be dedicated to the local history of Albania and the other one to the history of the earth superpowers. Also in this case, the trace is impressive, not only for its dimensions (it is a 650 metres long tunnel, 12 metres high, for 4 Whiskey-class submarines, each of them 70 metres long), but also for the memory linked to a very peculiar moment in the history of Albania. Such a trace is re-inserted in the life cycle, in order to know and elaborate the past. In the first 1990s, three historical parks
da valorizzare, le trincee ferite da ricucire, i percorsi di guerra circuiti per conoscere e vivere. Il progetto possiede un ruolo didattico-narrativo che valorizza la conoscenza e la scoperta di una parte di storia traumatica nazionale. Più recente è il progetto, non ancora realizzato, per Porto Palermo in Albania di Elisabetta Terragni, Jeffrey Schnapp e Daniele Ledda. Una base sottomarina per sommergibili della Guerra Fredda viene trasformata in uno spazio museale che narra le vicende della guerra fredda attraverso due prospettive: una dedicata alla storia locale dell’Albania e l’altra relativa alla storia delle superpotenze mondiali. Anche in questo caso una traccia così ingombrante, non solo per le dimensioni (un tunnel lungo 650 metri, alto 12, per 4 Whiskeys di 70 metri ciascuno) ma anche per la memoria legata ad un momento molto particolare della storia dell’Albania, viene reinserita all’interno del circuito della vita per conoscere e rielaborare il passato. In Italia sono tre i parchi storici istituiti 23
were established in Italy, on territories hit by the roundups and slaughters: Cassino history memorial,10 the national park of peace memorial at Sant’Anna di Stazzema,11 and Monte Sole historical park.12 The first one lies in the area, within the province of Cassino, which was hit by the devastating fury of the war between the allies and the Nazi-Fascists during the Second World War. The whole hamlet of San Pietro was completely destroyed by the allied bombings and this is why it is called “the Pompeii of the 20th century.” In 2008, it was declared national monument and today it houses a museum, which spreads over the remains of the village, with the aim of offering a glimpse of the tragedy that hit it. Moreover, it is possible to walk through some paths of the memory that link the traces of the war, such as the cemeteries to the fallen and the monuments spread all over the landscape. The national park of peace memorial at Sant’Anna di Stazzema was founded in 2000 with the same aim: not forgetting, keeping memory alive. Sant’Anna was a small village slaughtered by the German troops on the 12th August 1944: 560 innocent people were massacred, most of whom were children, women, and elderly. In the park it is possible to visit the historical rebellion museum, the places, and the monuments built in memory of the dead people soon after the end of the war. The Historical Park of Monte Sole, in the province of Bologna, is characterized by a more didacticnarrative nature. It is one of the first projects which, in 1989, founded a protected area with the aim of spreading the culture of peace, especially among the younger generations, besides preserving and respecting the value of environmental heritage. In this area, in 1944 the Nazi troops killed 770 people, both partisans and civilians. In 2002, the School of Peace of Monte Sole was established,13 with the aim of promoting initiatives “for peace training, for peaceful relationships among different peoples and cultures, for a society free from xenophobia, racism, and all other forms of violence towards human beings and their 24
su territori colpiti da rastrellamenti ed eccidi dall’inizio degli anni novanta: il parco della memoria storica di Cassino,10 il parco nazionale della pace di Sant’Anna di Stazzema11 e il parco storico di Monte Sole.12 Il primo sorge nell’area compresa all’interno della provincia di Cassino colpita durante il secondo conflitto mondiale dalla furia devastatrice della guerra tra alleati e nazi-fascisti. L’intero borgo di San Pietro Infine venne completamente distrutto dai bombardamenti delle Forze alleate tanto da prendere l’appellativo di “Pompei del Novecento.” Proclamato monumento nazionale nel 2008, oggi è presente un museo che si sviluppa tra i ruderi dell’abitato con l’obiettivo di offrire uno squarcio sulla tragedia che lo aveva colpito. È inoltre possibile effettuare dei percorsi della memoria che mettono in comunicazione le tracce relative alla guerra come i cimiteri ai caduti e i monumenti diffusi nel paesaggio. Con gli stessi obiettivi del primo, non dimenticare, mantenere viva la memoria, viene fondato il parco nazionale della pace di Sant’Anna di Stazzema (2000), un piccolo paese colpito da un eccidio da parte delle truppe tedesche il 12 agosto 1944 e che aveva massacrato 560 innocenti, in particolare bambini, donne e anziani. È possibile visitare il museo storico della resistenza, i luoghi e i monumenti eretti appena terminato il conflitto in memoria delle persone scomparse. Con un carattere maggiormente didattico-narrativo il parco storico del Monte Sole nella provincia di Bologna è uno dei primi progetti che si è preoccupato di istituire nel 1989 un’area protetta con l’obiettivo, oltre alla tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale, di diffondere una cultura di pace rivolta soprattutto alle giovani generazioni. Quest’area subì l’eccidio del 1944 da parte delle truppe naziste che uccisero 770 persone tra partigiani e civili. Nel 2002 nasce la Scuola di pace Monte Sole13 con lo scopo di promuovere iniziative “di formazione ed educazione alla pace, per la convivenza pacifica tra popoli e culture diverse, per una società senza xenofobia, razzismo ed
environment”.14 The most interesting aspect of this initiative lies in the wish to elaborate the trauma, collecting stories and accounts from witnesses, creating paths through the physical remains of the slaughters. In Europe, and in particular within the International Coalition of sites of conscience,15 a network of historical sites such as museums, memorials, and documentation centres targeted at reminding traumatic events are working out a new approach. Such approach is based on the opportunity of educating young people so that they reflect on and respect human rights, in order to prevent disasters such as racism, dictatorships, and deportations from happening again. An interesting project outside of Europe is represented by the Parque de la Memoria,16 founded in Buenos Aires in 1999 to remind people of the tragedy of Desaparecidos, the victims of state terrorism in Argentina from 1976 to 1983. The park lies in a meaningful area, close to river Rio de la Plata, where soldiers threw the bodies of innocent people. The monument to the victims of state terrorism was built inside the park in 2007. It consists of a wall that divides the stretch of land that runs down to the sea; the names of all the missing people are written on the wall. The monument symbolizes the wound inflicted on society by the violence of state terrorism, and it is a space of reflection and memory. Eighteen sculptures by Argentine artists are spread all over the park; the artworks interpret the theme of terrorism and liberation. A considerable part of the project deals with education as a means of elaboration of trauma. Apart from the projects realized on the real places of the memory, in the latest years many Geoblogs have been founded, that is, websites that have the aim of creating virtual maps of the memory. Writing has been the first form of fixing information, and today the Internet is a database which can be used by anybody at any time. The Emotional Map of Antifascist Memory in Turin represents a first attempt within this field in Italy.17 In this
ogni altra violenza verso la persona umana ed il suo ambiente.”14 L’aspetto più interessante di questa iniziativa risiede nella volontà di rielaborazione del trauma raccogliendo le storie, i racconti dei testimoni, creando percorsi attraverso i reperti fisici che restano delle stragi. In Europa e in particolare all’interno dell’International Coalition of sites of conscience,15 un network di siti storici come musei, memoriali e centri di documentazione, dedicati al ricordo di eventi traumatici, sta studiando un nuovo approccio basato sull’opportunità di educare i giovani al ragionamento e al rispetto dei diritti umani, in modo da evitare il ripetersi di stragi come razzismo, dittature e deportazioni. Un progetto interessante, che si colloca al di fuori dell’Europa, è il Parque de la Memoria,16 realizzato a Buenos Aires nel 1999 per ricordare la tragedia dei Desaparecidos, vittime del terrorismo di stato in Argentina dal 1976 al 1983. Il parco sorge in un’area particolarmente significativa, vicino alle coste del fiume Rio de la Plata dove i militari avevano gettato i corpi di persone innocenti. Il monumento alle vittime del terrorismo di stato, presente all’interno del parco, viene realizzato nel 2007 ed è un muro, dove sono segnati tutti i nomi delle persone scomparse, che taglia la striscia di terra che scende verso il mare. Il monumento simboleggia la ferita lasciata nella società della violenza dal terrorismo di stato, è uno spazio di riflessione e di ricordo. Sparse in tutto il parco sono diciotto opere, sculture di artisti argentini che affrontano il tema del terrorismo e della liberazione. Una parte consistente del progetto riguarda l’educazione come strumento di rielaborazione del trauma. Accanto a progetti sui luoghi fisici e reali della memoria, da qualche anno stanno sorgendo numerosi Geoblog, ovvero siti che hanno l’obiettivo di creare mappe virtuali della memoria. La scrittura è stata la prima forma per fissare informazioni, oggi il web costituisce un archivio di dati fruibile in qualsiasi momento da chiunque. In Italia un 25
Parque de la Memoria, Buenos Aires, (Ph. Gustavo Marquez) creative commons
website it is possible to visualize the places of the memory, with a brief description of the events that took place there, and you can also share the information and comment it. The original and characteristic element of the geoblog lies in the incisiveness of the individual and real experience over the place of the memory: not only because anybody can write a piece of history related to that place, but also because when I visit or live that place, my life and my history intersect with the history of that place (Tabbia, 2008). The European project Paths of memory18 has created an online platform which offers the possibility to know all the European places of the memory connected with the First World War, the Spanish civil war, and the Second World War. It is the result of very deep research work, which reconstructs history through new technologies. Whether real or virtual, memory parks are one of the possible answers to the wish 26
primo esperimento è stato fatto con la Mappa Emozionale dei Luoghi della Memoria Antifascista a Torino.17 Nel sito è possibile visualizzare i luoghi della memoria con una breve descrizione degli eventi che li hanno caratterizzati fino a condividere le informazioni con la possibilità di commentarle. Il dato originale e caratteristico del geoblog è l’incisività dell’esperienza individuale e reale sopra i luoghi della memoria: non soltanto perchè ciascuno può scrivere un pezzo della storia di quel luogo ma perchè visitando o vivendo quel luogo, la mia vita e la mia storia si incrociano con la storia di quel luogo (Tabbia, 2008). Il progetto europeo Paths of memory18 ha creato una piattaforma online in cui è possibile conoscere tutti i luoghi della memoria in Europa legati al primo conflitto mondiale, alla guerra civile spagnola e al secondo conflitto mondiale. Si tratta di un lavoro di ricerca molto approfondito che ricostruisce la storia servendosi delle nuove tecnologie.
of going beyond mere commemoration. After the time of monuments and memorials, which mark a first action of fixing memory in established forms, today a new time has come, where actions imply a re-possession of places, of memories, and of stories, in order to elaborate the trauma. Places, with or without war traces, enable a direct relationship with the memory that is triggered by the emotions felt when walking through the parks. In 2004, Jochen Gerz realized the Future Monument and The Public Bench in Coventry, two public artworks that interact with the history of the town and with the theme of the reconstruction of a shared identity.19 The former, Future Monument, consists of a simple obelisk—the typical shape of war monuments—with some plaques on the walking floor reporting the names of the groups that used to be considered as “enemies” and are now “friends.” The importance of these two artworks lies in the designer’s wish to propose a monument that goes beyond the meaning expressed by monuments of the past, and aims at becoming an element of intercultural dialogue. If we observe the work more carefully, it is clear how all its elements—from the obelisk shape (which is not monumental at all, but has human proportions) to the material (glass) which makes it dematerialized—show a new concept of monument, based on themes such as identity, history, and dialogue. The Future Monument contains all those values and ideals that will be the basis for future approaches for those projects which deal with uncomfortable memories on a transnational scale: “The idea behind this monument is one of tolerance and reconciliation, peace and change. As often the enemies of the past become, over time, the friends of today” (Gerz 2004). In this perspective, the museographic project for uncomfortable heritage will act as a tool to elaborate and overcome the trauma; it will provide with opportunities for intercultural exchange, eliminating national boundaries, and opening up to geographical and political permeability: “when the past has not
Sia reali che virtuali, i parchi della memoria sono una delle possibili risposte alla volontà di andare oltre la semplice commemorazione. Dopo la stagione dei monumenti e dei memoriali, che segnano il primo atto di fissare la memoria entro forme stabilite, oggi si apre una nuova stagione dove le azioni implicano una riappropriazione dei luoghi, delle memorie e delle storie per rielaborare il trauma. I luoghi, con o senza tracce, consentono un rapporto diretto con la memoria che scaturisce dalle emozioni che si generano nell’attraversamento. Jochen Gerz nel 2004 realizza, per la città di Coventry, il Future Monument e The Public Bench, due opere d’arte pubblica che dialogano con la storia della città e con il tema della costruzione di un’identità condivisa.19 Il primo, Future Monument, consiste in un semplice obelisco, tipica forma dei monumenti di guerra, accompagnato da alcune placche collocate sul piano di calpestio indicanti i nomi di quei gruppi che in passato erano i “nemici” e oggi sono diventati “amici.” L’aspetto rilevante di queste due opere risiede nella volontà del progettista di proporre un monumento che vuole andare oltre il significato espresso dai monumenti passati e che si propone di diventare elemento di dialogo interculturale. Osservando meglio l’opera è evidente come tutti i riferimenti, dalla forma dell’obelisco, che non è affatto monumentale ma ha delle proporzioni umane, al materiale utilizzato (vetro) che la rende smaterializzata, mostrano un nuovo concetto di monumento che si basa su temi quali l’identità, la storia e il dialogo. Il Future Monument racchiude quindi tutti quei valori e quegli ideali che dovranno costituire la base di futuri approcci per i progetti che si occupano di memorie scomode a scala transnazionale: “The idea behind this monument is one of tolerance and reconciliation, peace and change. As often the enemies of the past become, over time, the friends of today” (Gerz 2004). In quest’ottica il progetto museografico per i patrimoni scomodi dovrà fungere da strumento per rielaborare e superare il trauma 27
been elaborated, thus it has not been understood, it has not been turned into experience, it weighs as a silent legacy, which threatens the future” ( Jedlowski 1989, 144). Therefore, memory has to be meant as an evolutionary and continuous process that connects past, present and future, and the museum, which was once a “national crypt and a commemorative cemetery” is now “a migratory network of traces and memories” (Chambers 2012, 7). English translation: Ilaria Parini
e fornire occasioni di scambio interculturale, eliminando i confini nazionali ed aprendosi ad una permeabilità sia geografica che politica: “il passato non elaborato, cioè non compreso, non divenuto esperienza, pesa come un’eredità muta, minacciosa sul futuro” ( Jedlowski 1989, 144). La memoria va intesa, quindi, come un processo evolutivo e continuo che unisce passato, presente e futuro e il museo, da “cripta nazionale e cimitero commemorativo,” diventa “una rete migrante di tracce e memorie” (Chambers 2012, 7).
Notes
Note
1. Wieworka 1998. About the figure of the witness, see also Bidussa 2009 and Di Castro 2008. 2. “The places of the memory are the new witnesses which are burdened with the traces of the past: and in the name of that imprint loaded with pathos, the space of pure extension, animated by the flowing of movement, is turned into a place” (Tarpino 2008, 20). 3. “After exploring and using spaces horizontally, we still have to explore their symbolic depth vertically. Spaces, meant as known lands and places, are explored, measured, colonized, annexed, and connected. On the contrary, the places whose depth can be explored in any square and at any time keep being a mystery” (Assmann 2002, 333-34). 4. See Assmann 2002 and Tricoli 2009. 5. Pinzani 1998. 6. Entry Monumento, in Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 471. 7. See Pirazzoli’s essay 2010b. 8. About the concept of counter-monument see: Young 1992 and Harris 2010. 9. Bassanelli and Postiglione 2011. 10. http://www.parcodellamemoriastorica.com/web/ 11. http://www.santannadistazzema.org/ 12. http://www.parcostoricomontesole.it/ 13. http://www.montesole.org/ 14. http://www.montesole.org/index.php/progetto 15. http://www.sitesofconscience.org/ 16. “The Parque de la Memoria is not only a simulacrum, a monumental celebration of desaparecidos’ tragic destiny to replace an impossible coming back to life, but it is also an attempt to make private memory join social memory” (Di Cori 2000, 111). 17. http://memoria.acmos.net 18. http://www.pathsofmemory.net/ 19. See Vickery 2003.
1. Wieworka 1998. Sulla figura del testimone si veda anche Bidussa 2009 e Di Castro 2008. 2. “I luoghi della memoria sono i nuovi testimoni, su cui grava la traccia del passato: e in nome di quell’impronta carica di pathos, lo spazio di pura estensione, animata solo dal fluire del movimento, si trasforma in luogo” (Tarpino 2008, 20). 3. “Dopo aver esplorato e utilizzato gli spazi in orizzontale, rimane ancora da esplorare la loro profondità simbolica in verticale. Gli spazi, nel senso di terre e luoghi conosciuti, sono esplorati, misurati, colonizzati, annessi e collegati. Invece i luoghi di cui si può esplorare la profondità in ogni piazza e in ogni momento continuano a mantenere un mistero” (Assmann 2002, 333-34). 4. Sul tema si veda Assmann 2002 e Tricoli 2009. 5. Pinzani 1998. 6. Voce Monumento, in Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 471. 7. Si veda il saggio di Pirazzoli 2010b. 8. Sul concetto di counter-monument si veda: Young 1992 e Harris 2010. 9. Bassanelli and Postiglione 2011. 10. http://www.parcodellamemoriastorica.com/web/ 11. http://www.santannadistazzema.org/ 12. http://www.parcostoricomontesole.it/ 13. http://www.montesole.org/ 14. http://www.montesole.org/index.php/progetto 15. http://www.sitesofconscience.org/ 16. “Il Parque de la Memoria non è soltanto un simulacro, una celebrazione monumentale del tragico destino dei desaparecidos in sostituzione di un loro impossibile ritorno alla vita; è anche un primo tentativo perché la memoria privata cominci a saldarsi con la memoria sociale” (Di Cori 2000, 111). 17. http://memoria.acmos.net 18. http://www.pathsofmemory.net/ 19. Si veda Vickery 2003.
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PART 01
ARCHAEOLOGY OF CONFLICTS of THE XX CENTURY
ARCHEOLOGIA DEi CONFLITTi dEL XX SECOLO
michela bassanelli
Since the Eighties, new research studies have been carried out in the field of archaeology which focus on the remains and traces of the war conflicts of the 20th century. Such a phenomenon is part of a wider movement, which involves the discipline of archaeology on the whole. In the first years of the 20th century, in fact, the term “archaeology” underwent semantic extension: while it traditionally referred to research studies focusing on the remains of the ancient Greek and Roman worlds,1 since the first post-war years it has extended its referents, including all the manufactured products which testify the “material culture” of a civilization. Within the new thematic declensions of classic archaeology we can find—just to quote a few—industrial archaeology, archaeology of modernity,2 archaeology of the landscape, archaeology of conflicts, and marine archaeology. Being a discipline with its own autonomy, archaeology of conflicts represents an evolution of Battlefield Archaeology and it was born between the end of the Eighties and the beginning of the Nineties in the United States. Soon after it spread in Europe, particularly in England: This is a new and interdisciplinary study of conflict and its legacies during the 20th and early 21st centuries. It is a powerful response to the complexities of modern conflict, and radically different from traditional Battlefield Archaeology. Conflict archaeology focuses on conflict as a multifaceted phenomenon, whose variety of physical traces possesses multiple meanings that change over time. It is not restricted to battlefields, or to large-scale wars between nations, but embraces every kind of conflict and its diversity of social and cultural legacies. (Saunders, 2009) The increasing interest around the topic, which is testified by recent international research projects,3 and by numerous publications,4 is connected to the painful and conflicting value of these archaeological finds, which refer to a recent unresolved past marked by the grieves of the 20th century: the two World Wars and the Cold War, on a
Dagli anni Ottanta, nel campo archeologico, nascono nuovi studi che riguardano i reperti e le tracce dei conflitti bellici del XX secolo, un fenomeno che si inserisce all’interno di un più vasto movimento che coinvolge la disciplina archeologica nel suo complesso. Nei primi anni del Novecento il termine “archeologia” conosce, infatti, un ampliamento semantico: tradizionalmente riferito alle indagini sui resti dell’antichità greche e romane,1 dal primo dopoguerra amplia i propri orizzonti d’interesse, includendo tutti i manufatti che sono testimonianza di “cultura materiale” di una civiltà. All’interno delle nuove declinazioni tematiche dell’archeologia classica si sviluppano, solo per citarne alcune, l’archeologia industriale, l’archeologia del moderno,2 l’archeologia del paesaggio, l’archeologia dei conflitti e l’archeologia marina. L’archeologia dei conflitti, come disciplina dotata di una propria autonomia, rappresenta una evoluzione della Batterfield Archaeology e nasce tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta negli Stati Uniti per poi affermarsi subito dopo in Europa, in particolar modo in Inghilterra: This is a new and interdisciplinary study of conflict and its legacies during the 20th and early 21st centuries. It is a powerful response to the complexities of modern conflict, and radically different from traditional Battlefield Archaeology. Conflict archaeology focuses on conflict as a multifaceted phenomenon, whose variety of physical traces possesses multiple meanings that change over time. It is not restricted to battlefields, or to large-scale wars between nations, but embraces every kind of conflict and its diversity of social and cultural legacies. (Saunders, 2009)3 L’interesse sempre maggiore che si sta sviluppando intorno all’argomento, testimoniato da recenti progetti di ricerca internazionali4 e da numerose pubblicazioni,5 è legato al valore conflittuale e doloroso di questi reperti che si riferiscono ad un passato recente e non risolto segnato dai lutti del Novecento: le due Grandi Guerre e la Guerra Fredda, se si pensa 31
world level, and the Yugoslav wars and many other local conflicts, on a European or Mediterranean level. Many terms have been coined in the last few years to define war heritage: dissonant heritage,5 heritage that hurts 6 and difficult heritage;7 phrases that highlight the difficulty of referring to such heritage, which is very often simply forgotten or repressed. The importance of investigating and facing such heritage is linked to the value of identity and memory that permeates it: “Having a heritage—that is, a body of selected history and its material traces—is, in other words, an integral part of having an identity, and it affirms the right to exist in the present and continue into the future” (Macdonald 2009, 2). Therefore, war heritage, whether tangible or intangible, is a resource for all future generations, as it is an integral part of a collective memory on which they can build an identity aware of their own past. Within this contest, archaeology of conflicts is a discipline that studies the past and its traumatic traces and is necessary and fundamental to define the future towards which we are moving. Thus, our time has to face the war remains8 left by our predecessors: bunkers, forts, trenches, tunnels, war fields, as well as memories, stories, and reminiscences. Archaeology of the conflicts deals with the study and investigation of the various kinds of finds in order to bring their meanings to light. Therefore, the place acquires a particular meaning: it becomes a palimpsest composed of different layers, each of which is connected to a specific and meaningful moment in history. In Berlin, for example, the problem of the debris left at the end of the Second World War was a very debated topic:9 most of it was used for the Trummerberge, the artificial hills in the city that led to a process of “resemantization of the landscape” (De Maio). The problem of the ruins does not only concern the urban context, but also the landscape: during the First World War, and the Second World War later, fortifications were built, such as trenches or bunkers, which have
ad una scala mondiale, i conflitti nei Balcani e i tanti altri conflitti locali se si pensa ad una sala europea o mediterranea. Sono molti i termini coniati negli ultimi anni per definire il patrimonio bellico: dissonant heritage,6 heritage that hurts 7 e difficult heritage;8 locuzioni che mettono in evidenza le difficoltà di rivolgersi a questo patrimonio che risulta molto spesso semplicemente dimenticato o rimosso. L’importanza di indagare e confrontarsi con queste eredità è legata al valore identitario e di memoria che le pervade: “Having a heritage—that is, a body of selected history and its material traces—is, in other word, an integral part of having an identity, and it affirms the right to exist in the present and continue into the future” (Macdonald 2009, 2) 9. Il patrimonio delle guerre, tangibile e intangibile, costituisce dunque una risorsa per le future generazioni perché parte integrante di una memoria collettiva sulla quale costruire identità consapevoli del proprio passato. In questo contesto, l’archeologia dei conflitti si presenta come disciplina che pur studiando il passato e le sue testimonianze traumatiche risulta indispensabile e fondamentale nella definizione di quel futuro verso cui inesorabilmente siamo spinti. Il nostro tempo si deve quindi confrontare con i residui bellici 10 lasciati in eredità da chi ci ha preceduto: bunker, forti, trincee, gallerie, campi di battaglia ma anche memorie, storie e ricordi. L’archeologia dei conflitti si occupa dello studio e dell’indagine dei diversi tipi di reperti per portarne alla luce significati e sensi. Il luogo acquista così un significato particolare: diventa un palinsesto formato da diversi strati ognuno dei quali associato a un particolare e significativo momento della storia. A Berlino per esempio, il problema delle macerie lasciate dalla fine del conflitto mondiale è stato un tema molto dibattuto:11 la maggior parte sono state utilizzate per le Trummerberge (cumulo di macerie), le colline artificiali presenti all’interno della città che hanno portato ad un processo di “risemantizzazione del paesaggio” (De Maio). Il
modified the territory in an indelible way. During the Second World War, Hitler’s defensive policy gave life to one of the biggest fortified lines of all times, the Atlantikwall. It was realized according to the principles of industrialization and mechanization, and its remains can still be seen today along the coasts of Atlantic Europe.10 These architectures strike us because of their “inhuman scale,” but also because of their precise idea of duration: they are constructions aimed at lasting forever (Pirazzoli). War ruins have ambivalent meanings (Marzolek): on the one hand we would like to eliminate these painful presences, but on the other we fear to lose part of our history and identity (Carr 2010). They are like scars, indelible signs on the defenceless bodies of the city and the territory. Furrows that have lost their meaning of “space of conflict” to become, maybe, a space of encounter for different identities, a space of negotiation and reconciliation: “One of the possible ways to follow is to try and reactivate, or recompose, those spaces that up to now have been mainly used as obstacles among cultures” (Zanini 1997, XVI). English translation: Ilaria Parini
problema delle rovine non riguarda solo il contesto urbano ma anche il paesaggio: la Prima Guerra Mondiale e poi la Seconda, si sono servite di fortificazioni, come trincee o bunker, che hanno modificato in modo permanente il territorio. Durante il secondo conflitto mondiale è stata in particolare la politica difensiva di Hitler ad aver dato vita ad una delle maggiori linee fortificate di tutti i tempi, l’Atlatikwall, realizzato secondo i principi dell’industrializzazione e della meccanizzazione, i cui resti sono visibili ancora oggi lungo le coste dell’Europa atlantica.12 Di queste architetture colpisce la “scala disumana” ma anche la loro precisa idea di durata: sono costruzioni realizzate per l’eternità (Pirazzoli). Le rovine belliche hanno significati ambivalenti (Marzolek), da un lato si vorrebbero eliminare queste presenze dolorose ma dall’altro emerge la paura di perdere parte della propria storia e identità (Carr 2010): sono come cicatrici, indelebili segni su quei corpi inermi che sono la città e il territorio. Solchi che hanno perso il loro significato di “spazio di conflitto” per diventare oggi, forse, uno spazio di incontro di identità diverse, uno spazio di negoziazione e di riconciliazione: “Una delle possibili strade da percorrere è allora quella che prova a riattivare, forse a ricomporre, quegli spazi che fino ad oggi sono stati usati prevalentemente come ostacoli tra le culture” (Zanini 1997, XVI).
Notes
Note
1. Bandinelli 2005. 2. Solà-Morales 1995. 3. Among the research projects, see: “Painful Heritage” a research group formed by archaeologists working for NTNU (Norwegian University of Science and Technology) and by the Falstad centre (“Norwegian Memorial and Human Rights Centre”); the European project “Cric” (Cultural Heritage and the Re-construction of Identities after Conflict) where several institutions are involved, among which University of Cambridge, Université Paris Sorbonne and Technische Universität Dresden. Also in Italy, the theme is studied by the research group IUAV (Alberto Ferlenga, Fernanda De Maio). 4. See Ashplant and Dawson 2000; Schofield 2005; Carr 2010; Theune 2011. 5. Tunbridge 1996. 6. Uzzell and Ballantyne 1998. 7. Logan and Reeves 2008; Macdonald 2009. 8. “The view of the ruins makes us fleetingly picture life in a time which is not the one described in history textbooks or presented by restoration works. It is a pure time, which cannot be dated, absent from our world of images, simulacra, and reconstructions, from this violent world where debris do not have the time to become ruins anymore” (Augé 2004, 8). 9. Maj 2003. 10. Atlantikwall is the largest defence system, both in terms of its extension – which goes from the French-Spanish border to North Cape in Norway – and in terms of the number of its constructions: 12,000 bunkers classified according to 247 different typologies. For further information on the Atlantikwall, see Bassanelli and Postiglione 2011.
1. Bandinelli 2005. 2. Solà-Morales 1995. 3. È uno studio nuovo e interdisciplinare sui conflitti e le sue eredità nel periodo che va dal ventesimo secolo fino all’inizio del ventunesimo. Si tratta di una potente risposta alla complessità del conflitto moderno, ed è una disciplina radicalmente diversa dalla tradizionale “Archeologia dei campi di battaglia.” Questo nuovo studio si focalizza sul conflitto inteso come fenomeno articolato, la cui varietà di tracce fisiche possiede molteplici significati che cambiano nel corso del tempo. Non si restringe al solo studio dei campi di battaglia, o alle grandi guerre tra nazioni, ma si occupa di ogni tipo di conflitto e delle sue diversità da un punto di vista sociale e culturale. T.d.A. 4. Tra i progetti di ricerca si segnala: “Painful Heritage” gruppo di ricerca formato da archeologi della NTNU (Norwegian University of Science and Technology) e dal Falstad centre (“Norwegian Memorial and Human Rights Centre”), il progetto europeo “Cric” (Cultural Heritage and the Re-construction of Identities after Conflict) in cui collaborano diverse istituzioni tra cui University of Cambridge, Université Paris Sorbonne e Technische Universität Dresden. Anche in Italia il tema è affrontato dal gruppo di ricerca dello IUAV (Alberto Ferlenga, Fernanda De Maio). 5. See Ashplant and Dawson 2000; Schofield 2005; Carr 2010; Theune 2011. 6. Tunbridge 1996. 7. Uzzell and Ballantyne 1998. 8. Logan and Reeves 2008; Macdonald 2009. 9. Possedere un patrimonio, ovvero un corpo dotato di storia e di tracce materiali, è, in altre parole, una parte integrante di avere una identità, e afferma il diritto di esistere nel presente e continuare nel futuro. T.d.A. 10. “La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine” (Augé 2004, 8). 11. Maj 2003. 12. L’Atlantikwall costituisce il sistema di difesa più imponente sia per la sua estensione, che va dal confine franco spagnolo fino a capo nord in Norvegia, sia per il numero di costruzioni, 12.000 bunker classificati in 247 tipologie. Per maggiori informazioni sull’Atlanticwall consultare il testo: Bassanelli and Postiglione 2011.
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References • • • • • • • • • • • • • •
Bandinelli, Bianchi R. 2005. Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica. Bari-Roma: Laterza. Bassanelli, Michela, and Gennaro Postiglione, eds. 2011. The Atlantikwall as Military Archeological Landscape. L’Atlantikwall come paesaggio di archeologia militare. Siracusa: LetteraVentidue. Carr, Gilly. 2010. “The slowly healing scars of Occupation.” Journal of War and Culture Studies 3: 249-65. Logan,William, and Keir Reeves. 2008. Places of Pain and Shame Dealing with Difficult Heritage. Londra: Routledge Macdonald, Sharon. 2009. Difficult heritage. Negotiating the Nazi Past in Nuremberg andBeyond. Londra-New York: Routledge. Maj, Barnaba. 2003. Idea del tragico e coscienza storica nelle fratture del Moderno. Macerata: Quodlibet. Saunders, Nicholas. 2009. MA in 20th Century Conflict Archaeology. Università of Bristol. Schofield, John. 2009. Aftermath: Readings in the Archaeology of Recent Conflict. NewYork: Springer. Schofield, John, Johnson, William G., and M. Beck Coleen. 2005. Matériel Culture. The archaeology of twentieth century conflict. Londra and New York: Routledge. Solà-Morales, Ignasi. 1995. Differences. Topographies of Contemporary Architecture. Barcellona: Gustavo Gili. Tunbridge, J. E. 1996. Dissonant Heritage: The Management of the Past as a Resource in Conflict. New York: John Wiley & Sons. Uzzell, David. 1989. “The hot interpretation of war and conflict.” In The natural and built environment, edited by David Uzzell, 33-47. London and New York: Belhaven Press. Virilio, Paul. 1975. Bunker archéologie. Paris: Éditions du CCI. Zanini, Piero. 1997. Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali. Milano: Bruno Mondadori.
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Gilly Carr, Marek Edward Jasinski
Sites of Memory, Sites of Oblivion: The Archaeology of Twentieth Century Conflict in Europe Luoghi della Memoria, Luoghi dell’Oblio: L’Archeologia dei Conflitti del Ventesimo Secolo in Europa
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Introduction
Introduzione
As conflict has always been part of human experience, so the study of war and conflict has always been an important objective of archaeological research since the very beginning of the discipline. This research has dominated our understanding of not just prehistoric societies and ancient civilizations, but also states of the Middle Ages and postMedieval periods. During the last decade, archaeologists have gone through the very last chronological frontier of their discipline and initiated research into 20th and 21st century archaeology, developing a particular and growing specialism in the area of conflict archaeology, currently dominated and guided by the work of Nicholas Saunders (University of Bristol, UK) and John Schofield (University of York, UK).1 Archaeology of the contemporary past has already become an important research field for archaeology. By surmounting this last chronological frontier, archaeologists have had to become more interdisciplinary, interacting to a greater extent than before with anthropology, history, politics, literature and even fine art, all to the benefit of research agendas, interpretations and outputs. As conflict archaeology has grown to become a sub-discipline in its own right, complete with specialised postgraduate courses at many universities, so archaeologists have realised that this field has, of necessity and as an unavoidable consequence of the study of war, gravitated towards the more sombre, dark and deadly aspects of the past. Conflict archaeologists often find themselves as specialists in the forgotten, the taboo and to the previously silenced narratives of conflict. Because archaeology involves (for the most part) uncovering that which no longer survives on the surface, so practitioners in this area are motivated or often called upon to bring to light sites which have been deliberately consigned to oblivion. We might term these the lieux d’oubli or sites of oblivion,
Così come il conflitto è da sempre parte dell’esperienza umana, lo studio della guerra è sempre stato un obiettivo importante della ricerca archeologica fin dagli albori di questa disciplina. Tale ricerca ha dominato la nostra visione non solo delle società preistoriche e delle civiltà antiche ma anche degli stati medioevali e dei periodi post-medioevali. Nel corso dell’ultimo decennio gli archeologi hanno varcato l’ultimissima frontiera cronologica della loro disciplina inaugurando la ricerca archeologica sul XX e sul XXI secolo, con lo sviluppo di una specializzazione, particolare e crescente, nell’area dell’archeologia dei conflitti, attualmente dominata e guidata dall’attività degli inglesi Nicholas Saunders (Università di Bristol) e John Schofield (Università di York).1 L’archeologia del passato contemporaneo è già diventata un ambito importante della ricerca archeologica. Varcando quest’ultima frontiera cronologica, gli studiosi hanno dovuto ricorrere maggiormente all’interdisciplinarità, interagendo più di prima con l’antropologia, la storia, la politica, la letteratura e anche le arti, in un’ottica finalizzata a favorire i procedimenti, le interpretazioni e i risultati del percorso di ricerca. Nel momento in cui l’archeologia dei conflitti è assurta a sotto-disciplina a tutti gli effetti, con tanto di corsi post-laurea appositi in molte università, anche gli archeologi si sono resi conto come questo ambito, necessariamente e come conseguenza inevitabile dello studio della guerra, gravitasse verso gli aspetti più oscuri, tetri e letali del passato. Gli archeologi dei conflitti si trovano spesso a specializzarsi in narrazioni dimenticate, coperte da tabù e silenzi. Dal momento che l’archeologia si occupa (perlopiù) di disseppellire ciò che non sopravvive più in superficie, gli operatori di questo settore sono spinti o spesso chiamati a riportare in luce siti che risultano deliberatamente consegnati all’oblio. Questi che si potrebbero definire lieux d’oubli o luoghi dell’oblio, sono i “siti che la memoria pubblica 37
the “sites that public memory has expressly avoided because of the disturbing affect that their invocation is still capable of arousing” (Wood 1999, 10). This concept contrasts with Nora’s lieux de mémoire,2 the sites of memory that have been embraced as part of collective memory and identity, and that articulate the heritage of any given community. These sites are characterised by a “will to remember,” which contrast with the “desire to forget” of the lieux d’oubli. The “sites of oblivion” have often been rejected and excluded both from heritage strategies and concepts of identity. To this pair of categorisations, we may also add the “sites of counter-memory,” the “times and places in which people have refused to forget” which can “rebut the memory schema of the dominant class, caste, race or nation, providing an alternative form of remembering and identity” (Legg 2005, 181). Between them, these three concepts, revolving around the central pole of memory, can be used to help us understand and analyse not just the sites that we study, but also to gain insight into the intentions, histories and motivations of the communities in which these sites exist. It should also be noted that these categorisations are not, by any means, fixed categories. Rather, they can and do change places through time, depending on political expediency and events, “memory events” (a “re-discovery of the past that creates a rupture with its accepted cultural meaning;” Etkind 2010, 4), local campaigners, archaeological fieldwork and, sometimes, a combination of these working in unison or against each other. Focusing, as we are in this chapter, on the archaeology of the legacy and heritage of war, it is useful to distinguish between these two terms. Carr (forthcoming) argues that “the debris or legacy of war only becomes ‘heritage’ when members of the population turn it into such. In other words, when people directly intervene in aspects of the past which survive into or can be recreated in the present and claim or reclaim it as part of their identity and / or collective memory (broadly de38
espressamente evita per via dell’inquietudine che il solo invocarli è ancora capace di suscitare” (Wood 1999, 10). Questo concetto è l’opposto dei lieux de mémoire di Nora,2 i luoghi della memoria che, assimilati nel ricordo e nell’identità collettiva, articolano il patrimonio di qualunque comunità. Questi siti sono caratterizzati da una “volontà di ricordare” contrapposta al “desiderio di dimenticare” dei lieux d’oubli. I “siti dell’oblio” sono stati spesso respinti ed esclusi sia dalle strategie dell’eredità che dai concetti di identità. A questo binomio di categorizzazioni possiamo poi aggiungere i “siti della contro-memoria,” “i tempi e i luoghi nei quali le persone hanno rifiutato di dimenticare,” che possono “confutare lo schema della memoria della classe, casta, razza o nazione dominante offrendo una forma alternativa di ricordo e di identità” (Legg 2005, 181). Tutti e tre questi concetti, incentrati sul polo centrale della memoria, possono esserci utili per capire e analizzare non solo i siti che studiamo ma anche per far luce sulle intenzioni, sulle storie e sulle motivazioni delle comunità delle quali questi siti fanno parte. Va anche osservato che queste categorizzazioni non rappresentano affatto categorie rigide: al contrario, possono cambiare, e appunto cambiano, localizzazione nel corso del tempo, a seconda della convenienza politica e degli eventi, “eventi della memoria” (una “riscoperta del passato che crea una rottura con il suo significato culturale accettato;” Etkind 2010, 4), degli archeologi locali, del lavoro archeologico sul campo e, talvolta, di una combinazione di questi fattori che operano all’unisono oppure in contrapposizione tra loro. Dovendo occuparci, come facciamo in questo capitolo, dell’archeologia del lascito e dell’eredità della guerra, è utile distinguere tra questi due termini. Carr (di prossima pubblicazione) sostiene che “le macerie o il lascito della guerra diventa ‘eredità’ solo quando i membri della popolazione li rendono tali. In altre parole, quando le persone intervengono direttamente sugli aspetti del passato che sopravvivono nel presente o che in esso
fined). This is done by active processes which include excavation, restoration, curation, reuse, recall and memorialisation.” If no such intervention is made, then “aspects of the past which survive into the present cannot legitimately be called ‘heritage’ and remains at the status of a ‘legacy’ and may or may not be transformed into heritage status at a later date.” The distinction between these two stages in the biography of war-related debris is crucial in understanding the processes by which sites of oblivion can become sites of counter-memory or sites of memory. While it is outside the scope of this short chapter to highlight the full range of work conducted by conflict archaeologists to date, we focus here on a selection of projects which fit within these three categories and which accord with our own research interests and projects within the archaeology of the Second World War and, more specifically, the archaeology of the German occupation of Europe.3 It will be seen that the subject of internment in one manifestation or another is one that unites many of these projects. Sites of memory Pierre Nora4 wrote that a constellation of three terms—heritage, memory and identity—has come to dominate ideological thinking for some thirty years now. To this we would add two more terms—materiality and landscape. While these two might appear at first glance to be a sub-set of the first three, this ordering can easily be reversed, so that heritage, memory and identity can be made subordinate to any study of landscape and materiality. In fact, these are all five bright stars in the firmament of any conflict archaeologist, and they wax and wane to become brighter or dimmer, more prominent or less prominent in any interpretation of 20th or 21st century conflict archaeology. Any combination of these five can be invoked to become the interpretational lens through which the practitioner can gaze through the metaphorical telescope.
possono essere ricreati e li rivendicano o recuperano come parte della loro identità e/o memoria collettiva (definita in senso ampio). Ciò si compie mediante processi attivi che prevedono scavi, restauro, cura, riuso, ricordo e commemorazione.” In assenza di tale intervento, “gli aspetti del passato che sopravvivono nel presente non si possono legittimamente definire ‘eredità’ e permangono allo stato di ‘lascito’ per essere eventualmente, ma non necessariamente, trasformati in eredità in una fase successiva.” La distinzione tra queste due fasi nella biografia delle macerie prodotte dalla guerra è cruciale per capire i processi attraverso i quali i siti dell’oblio possono diventare siti di contro-memoria o siti della memoria. Pur non potendo certo in questo breve testo accennare all’intera produzione realizzata fino a questo momento dagli archeologi dei conflitti, possiamo però presentare una selezione di progetti che rientrano in queste tre categorie e aderiscono ai nostri stessi interessi e progetti di ricerca nell’ambito dell’archeologia della Seconda Guerra Mondiale e, in modo più specifico, dell’archeologia dell’occupazione tedesca dell’Europa.3 Si potrà constatare come il tema dell’internamento nelle sue varie manifestazioni sia un elemento unificante di molti di questi progetti. Siti della memoria Come ha scritto Pierre Nora,4 da una trentina d’anni una costellazione formata da tre termini—eredità, memoria e identità—domina ormai il pensiero ideologico. A questi termini ne aggiungeremmo altri due—materialità e paesaggio, che di primo acchito potrebbero sembrare parte di un sotto-sistema dei primi tre, anche se in realtà tale ordine può essere facilmente invertito rendendo eredità, memoria e identità termini subordinati a uno studio del paesaggio e della materialità. Di fatto tutti e cinque rappresentano nel firmamento dell’archeologo dei conflitti stelle di prima grandezza che si rafforzano e 39
While cultural heritage has traditionally encompassed the tangible, the monumental and the architectural, and has rightly been criticised for being more heavily weighted towards Western concepts of heritage, it more commonly and broadly refers today as the “goods and properties of a group which help define the identity of the group” (Nora 2011, ix). As the “goods and properties of a group” can be said to encompass the sites claimed by that group, we can quickly see how concentration camps and other similar sites of suffering and brutality during the Holocaust (and the material culture found within these sites) can come to be claimed by certain groups. The war narrative of many European countries which were occupied by Nazi Germany during the Second World War has focused upon identities of victimhood and martyrdom.5 This is especially so in Eastern Europe, where the actions of the occupying army were much harsher and the repercussions for the local population and their villages, towns and cities more brutal. A large number of concentration and extermination camps were built in occupied Poland, and it is here where archaeological excavation in this field has taken the lead. The work of Andrzej Kola (University of Torún, Poland) at Bełżec and, more recently, Claudia Theune (University of Vienna, Austria) at Mauthausen has become well known in this area. These are just two scholars among a select number who have the privilege and responsibility of working at such sites in Europe, and they have helped to greatly increase knowledge about these camps. It is acknowledged that many different sources are involved in building up the picture of both the experience of internment in a concentration camp, and the sites of Nazi crimes. Documents, pictures, oral history and archaeology are all valuable, and each has different potentials.6 The material culture found through archaeological excavation of these camps can fortify national narratives of victimhood (such as recording the “martyrol40
indeboliscono facendosi più lucenti o più deboli, più visibili o meno visibili nelle diverse interpretazioni dell’archeologia dei conflitti del XX e del XXI secolo. Una qualunque combinazione di questi cinque termini può essere utilizzata come lente interpretativa che l’operatore può applicare al proprio telescopio metaforico. Se l’eredità culturale per tradizione comprendeva ciò che è tangibile, monumentale e architettonico, ed è giustamente stata criticata per il suo pesante sbilanciamento a favore dei concetti occidentali di eredità, attualmente essa è intesa in modo più comune e ampio come “beni e proprietà di un gruppo che contribuiscono a definire l’identità dello stesso” (Nora 2011, ix). Nella misura in cui si può considerare che i “beni e proprietà di un gruppo” comprendano i siti rivendicati da tale gruppo, non si può fare a meno di vedere come i campi di concentramento e altri analoghi siti di sofferenza e brutalità durante l’Olocausto (e la cultura materiale ritrovata al loro interno) possano essere rivendicati da determinati gruppi. La narrativa di guerra di molti paesi europei occupati dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale si è concentrata sulle identità delle vittime e dei martiri.5 Ciò è accaduto particolarmente nell’Europa orientale, dove le azioni dell’esercito occupante furono assai più violente e più brutali le ripercussioni sulla popolazione locale e i loro villaggi, paesi e città. Un gran numero di campi di concentramento e di sterminio furono costruiti nella Polonia occupata, regione nella quale ha preso avvio lo scavo archeologico in questo ambito. Il lavoro di Andrzej Kola (Università di Torún, Polonia) a Bełżec e, più recentemente, di Claudia Theune (Università di Vienna) a Mauthausen è assai noto in questo settore. Questi due studiosi fanno parte di un ristretto gruppo che ha il privilegio e la responsabilità di lavorare in siti di questo tipo in Europa e ha contribuito a incrementare in modo notevole la conoscenza in questi campi. È riconosciuto il fatto che,
ogy of the Jewish nation during the Second World War” Kola 2000, 69), and can become relics of powerlessness, of repression and humiliation.7 They can also act as “testimonial objects,”8 and demonstrate how the prisoners attempted to retain their individuality.9 Theune argues that because Poland was the biggest victim of the Nazi terror regime, it was important for Poles to remember the places of terror as part of collective memory. Similar sites exist in Germany, and concentration camp sites here are important both as places for Germans to come to terms with their history, and as places of warning about National Socialism dictatorship. Here they are Holocaust memorials, places of admonition and places of learning and political education.10 Sites of oblivion While camps from the Nazi regime are places of memory for Germans and Poles, those in Western Europe have, for many years, been places of forgetting and oblivion,11 often because of the associated shame of collaboration that sites of internment, deportation and torture bring. A number of relevant archaeological projects in Western and Northern Europe are exploring such camp sites at present. They involve not just concentration camp sites, but also those of Prisoners of War (POWs), the slave and forced labour camps of the Wehrmacht, the SS and the Organisation Todt (OT), and other sites of terror and violence. In the Netherlands, Robert van der Laarse (VU University, Amsterdam) has been at the centre of such research. Working with Frank van Vree, van der Laarse has directed War, Heritage and Memory—a dynamic perspective on the future of World War II and The Dynamics of Memory. The Netherlands and the Second World War in an international context. He also runs with Georgi Verbeeck (MaastrichtLeuven University) an international project Terrorscapes in Postwar Europe. Transnational
nella costruzione dell’immagine sia dell’esperienza dell’internamento in un campo di concentramento che dei siti dei crimini nazisti, siano molte e diverse le fonti di cui tenere conto. Documenti, immagini, storia orale e archeologia sono tutti strumenti importanti, ciascuno con potenziali diversi.6 La cultura materiale ritrovata grazie allo scavo archeologico di questi campi può rafforzare le narrative nazionali fondate sulle vittime (ad esempio documentando la “martirologia della nazione ebraica durante la seconda guerra mondiale” (Kola 2000, 69)), e diventare residuato di impotenza, di repressione e umiliazione.7 Tali elementi possono fungere anche da “oggetti testimoniali”8 e dimostrare come i prigionieri abbiano tentato di conservare la loro individualità.9 Claudia Theune ritiene che, essendo stata la Polonia la maggiore vittima del regime di terrore nazista, era importante per i polacchi ricordare i luoghi del terrore come parte della memoria collettiva. Siti simili esistono anche in Germania, dove i campi di concentramento sono importanti sia come luoghi nei quali i tedeschi possono rapportarsi con la loro storia, sia come luoghi di monito relativamente alla dittatura nazionalsocialista. In questo caso essi sono monumenti all’Olocausto, luoghi di ammonimento e luoghi di conoscenza ed educazione politica.10 Siti dell’oblio Mentre i campi del regime nazista sono luoghi della memoria per tedeschi e polacchi, quelli in Europa occidentale sono stati, per molti anni, luoghi del dimenticare e dell’oblio,11 spesso per via della vergogna associata alla collaborazione che i siti di internamento, deportazione e tortura suscitano. Attualmente i siti di questi campi in Europa occidentale e settentrionale sono oggetto di alcuni importanti progetti archeologici che si occupano non solo dei campi di concentramento ma anche di quelli dei Prigionieri 41
Memory of Terror and Genocide. Terrorscapes offers “an opportunity to develop and test an innovative, comparative approach to the dynamics of memory from transnational and European perspectives,” linking The Dynamics of Memory, which is “mainly focused on Dutch war memorials and heritage sites, with the work of foreign scholars.” Of particular interest to researchers in this context are Dutch concentration camps such as Westerbork, Vught, and Amersfoort. Terrorscapes will “seek to move beyond the work done to date by comparing those discourses and sites within a common analytical, political and spatial framework, allowing for a clearer assessment of the relationships between past networks of terror with modern topographies of memory.” It also aims to “critically analyse the various ways in which key sites of twentieth century terror and mass violence within Europe present, interpret, and represent the past, and the way these […] operate as vehicles […] of identity formations.” 12 In Norway, a group of researchers and students led by Marek E. Jasinski (Norwegian University of Science and Technology, Trondheim) are concerned with the issue of approximately 140,000 foreign POWs and slave workers brought to the country and stationed there by the occupying Nazis (the Werhmacht, the Organisation Todt and the SS) in a total of around 500 camps during the period of 1940-1945. More than 20,000 of these people died on Norwegian soil during the Second World War. The majority of these camps today have been erased from Norwegian cultural landscapes. Until the late 1990s, this was a neglected issue in Norwegian historical and archaeological research and also in national heritage management strategies, despite the fact that memories of the prisoners had, all this time, been alive in local communities where the camps existed. The situation changed in late 2008 when the Research Council of Norway funded the research project Painful Heritage. Cultural Landscapes of the Second World War in Norway: 42
di Guerra (POW), dei campi di schiavitù e di lavoro coatto della Wehrmacht, delle SS e dell’Organisation Todt (OT), e di altri siti di terrore e violenza. Nei Paesi Bassi, l’animatore di questo filone di ricerca è Robert van der Laarse (Università VU, Amsterdam) che, in collaborazione con Frank van Vree, ha diretto War, Heritage and Memory—a dynamic perspective on the future of World War II e The Dynamics of Memory. The Netherlands and the Second World War in an international context. Insieme a Georgi Verbeeck (Università Maastricht-Leuven), dirige inoltre il progetto internazionale Terrorscapes in Postwar Europe. Transnational Memory of Terror and Genocide. Terrorscapes offre “un’opportunità di sviluppare e sperimentare un nuovo approccio di tipo comparativo alla dinamica della memoria da prospettive transnazionali ed europee,” che collega The Dynamics of Memory, “principalmente dedicato ai memoriali di guerra e ai siti del patrimonio olandesi, con il lavoro di studiosi stranieri.” Di particolare interesse per i ricercatori in questo contesto sono i campi di concentramento olandesi come Westerbork, Vught e Amersfoort. Terrorscapes “tenterà di approfondire ulteriormente la ricerca condotta sinora ponendo a confronto quei siti e discorsi all’interno di un quadro analitico, politico e spaziale comune, consentendo una valutazione più chiara delle relazioni tra reti passate del terrore e moderne topografie della memoria.” Un altro obiettivo è “analizzare criticamente i modi diversi nei quali i principali siti del terrore e della violenza di massa del ventesimo secolo in Europa presentano, interpretano e rappresentano il passato, e il modo in cui essi […] operano come veicoli […] di formazione dell’identità. ” 12 In Norvegia, un gruppo di ricercatori e studenti guidato da Marek E. Jasinski (Università Norvegese di Scienza e Tecnologia, Trondheim) si occupa della storia dei circa 140.000 prigionieri di guerra e lavoratori coatti stranieri portati nel paese e lì tenuti dalle forze di occupazione naziste (Werhmacht,
Map showing major POW and slave worker camp sites in Norway (Image courtesy and copyright of Marianne Neerland Soleim)
Phenomenology, Lessons and Management Systems.13On the 15 June 2011 the very first camp site (Øvre Jernvann Camp for Serbian prisoners in Narvik) acquired a permanent Protection Order issued by the Norwegian Directorate for Cultural Heritage. The Øvre Jernvann Camp is a good example of war legacy and material heritage with no clear ownership—it is an example of what Price (2005) describes as “orphan heritage,” in which ownership and location are separated. A camp for Serbian prisoners, built in Norway by German Nazi occupiers is not easy to classify in terms of national heritage. It is now protected by the Norwegian Heritage Act and as such must be considered a part of Norwegian heritage of the Second World War, although some factions of present Norwegian society would find it problematic to acknowledge it as their own heritage. The majority of Serbians would most probably
Organisation Todt e SS) in un totale di circa 500 campi nel periodo 1940-1945. Di questi, oltre 20.000 morirono in territorio norvegese durante la Seconda Guerra Mondiale. Questi campi risultano oggi perlopiù obliterati dai paesaggi culturali norvegesi. Ancora a fine anni Novanta costituivano un aspetto trascurato dalla ricerca storica e archeologica norvegese così come dalle strategie di gestione del patrimonio nazionale, malgrado le memorie dei prigionieri fossero rimaste vive nelle comunità locali che avevano ospitato i campi per tutto il tempo intercorso. La situazione è cambiata a fine 2008 quando il Consiglio delle Ricerche della Norvegia ha finanziato il progetto di ricerca Painful Heritage. Cultural Landscapes of the Second World War in Norway: Phenomenology, Lessons and Management Systems.13 Il 15 giugno 2011 la Direzione Norvegese per il Patrimonio Culturale ha emanato un Ordine di Tutela per il 43
Remnants of a Soviet POW camp in Kvalvik, Norway, pointed out by a local inhabitant (Ph. Marek E. Jasinski)
also acknowledge this site as part of their national heritage of the Second World War, even though it exists in another country. The most intriguing question to consider here is, how this site would be considered in Germany: would it be embraced as part of German heritage of the 20th century or as unwanted and painful legacy of German Nazism? Forced and slave labour camps in Channel Islands illustrate the same case, although archaeological work is only beginning now, carried out in Guernsey and Jersey by Gilly Carr (University of Cambridge, UK) and in Alderney by Caroline Sturdy Colls (Staffordshire University, UK). The Channel Islands are an unusual case study in that, while they had a similar wartime experience to occupied Western Europe, they adopted a British war narrative which embraced narratives of victory over victimhood. This meant that victims of Nazism were, until recently, 44
primo di questi siti (il campo per prigionieri serbi Øvre Jernvann a Narvik). Il Campo Øvre Jernvann è un buon esempio di lascito di guerra ed eredità materiale privo di attribuzione proprietaria chiara – è un esempio di ciò che Price (2005) definisce un’“eredità orfana,” nella quale proprietà e localizzazione sono separate. Un campo per prigionieri serbi, costruito in Norvegia da occupanti nazisti tedeschi non è facilmente classificabile in quanto eredità nazionale. Attualmente è protetto dalla Legge sul Patrimonio Norvegese e in quanto tale va considerato parte del patrimonio norvegese attinente alla Seconda Guerra Mondiale, anche se alcune parti della società attuale di quel paese avrebbero qualche problema a riconoscerlo come tale. Molto probabilmente anche molti serbi riconoscerebbero questo sito, malgrado si trovi in un altro paese, come parte del patrimonio nazionale della
Concrete entrance posts to concentration camp SS Lager Sylt, Alderney, Channel Islands (Ph. Gilly Carr)
pushed out of the commemorative and memorial landscape.14 The same has applied to the OT camps in the islands. Almost all the inhabitants of Alderney evacuated to mainland Britain during the war years, leaving the Germans to build a concentration camp, three labour camps and other temporary camps on the small island, and to commit various war crimes there. This has resulted in the local population rejecting this part of their history, heritage and identity.15 In the bigger islands of Guernsey and Jersey, where a sizable proportion of the population stayed and endured occupation, it has become a very important part of local identity, and the legacy and heritage of these years are presented with pride—or rather, only some aspects of it (Carr forthcoming). Archaeological work on OT camps in the Channel Islands aims to locate the sites of these camps, survey and map them, and to excavate where possible. As the
Seconda Guerra Mondiale. La questione più interessante riguarda, però, la reazione che si potrebbe registrare in Germania: un sito simile sarebbe accolto come parte dell’eredità tedesca del XX secolo o considerato un’eredità non voluta e dolorosa del nazismo tedesco? I campi di lavoro forzato nelle Channel Islands (Isole del Canale o Normanne) esemplificano lo stesso discorso, anche se il lavoro archeologico, condotto a Guernsey e Jersey da Gilly Carr (Università di Cambridge) e ad Alderney da Caroline Sturdy Colls (Università dello Staffordshire) è solo agli inizi. Le Channel Islands sono un caso di studio insolito in quanto, pur avendo un’esperienza di guerra simile a quella dell’Europa occidentale occupata, hanno adottato una narrativa di guerra britannica che privilegiava le narrative dei vincitori rispetto a quelle delle vittime. Ciò implicava che, fino a poco tempo fa, le vittime del nazismo risultassero 45
Surviving barbed wire post from Lager Wick, Jersey, Channel Islands (Ph. Gilly Carr)
vast majority of these sites have been built over or destroyed in Guernsey and Jersey, such work is difficult. In Alderney, getting permission to even carry out this sensitive work is the chief problem, although the sites have more archaeological potential despite being wholly neglected. Norway and the Channel Islands are not the only places where scholars are active in trying to piece together the forgotten histories of the Atlantic Wall. In 2011, an informal network of European scholars, led by Gilly Carr, formed the project Re-presenting the Atlantic Wall: collateral damage in Europe and its long term impact. With current members from Germany, the Netherlands, Norway, Italy and the UK, this group seeks to explore the hidden face and neglected legacies of the Atlantic Wall: the labour camps, graves, roads, railways, and the destruction of property caused by the construction of the Wall. While the presentation of German fortifications in Eu46
espulse dal paesaggio commemorativo e celebrativo.14 Lo stesso è accaduto ai campi dell’Organisation Todt nelle isole. Quasi tutti gli abitanti di Alderney ripararono sulla terraferma britannica negli anni del conflitto, lasciando i tedeschi a costruire un campo di concentramento, tre campi di lavoro e altri campi temporanei sull’isoletta dove commisero diversi crimini di guerra. Ciò ha avuto l’effetto di portare la popolazione locale a rifiutare questa parte della loro storia, eredità e identità.15 Nelle isole più grandi di Guernsey e Jersey, dove una parte considerevole della popolazione rimase e subì l’occupazione, essa è diventata una parte molto importante dell’identità locale, e il lascito e l’eredità di quegli anni sono presentati con orgoglio—o meglio, lo sono solo alcuni aspetti (Carr di prossima pubblicazione). Il lavoro archeologico nei campi dell’Organisation Todt sulle Channel Islands punta a localizzare i siti di questi campi, sottoponendoli a rilievo a mappatura, e a realizzare scavi ove possibile. Si tratta di una procedura resa difficoltosa dal fatto che la grande maggioranza di questi siti a Guernsey e Jersey sono stati distrutti o occupati da altre costruzioni. Ad Alderney il problema principale è addirittura ottenere le autorizzazioni per eseguire questa delicata procedura, anche se i siti, pur essendo completamente trascurati, hanno un potenziale archeologico maggiore. La Norvegia e le Channel Islands non sono gli unici luoghi nei quali gli studiosi sono al lavoro nel tentativo di ricostruire le storie dimenticate dell’Atlantikwall. Nel 2011 una rete informale di studiosi europei, guidata da Gilly Carr, ha dato vita al progetto Re-presenting the Atlantic Wall: collateral damage in Europe and its long term impact. Attualmente formato da rappresentanti in Germania, Olanda, Norvegia, Italia e Regno Unito, questo gruppo punta a esplorare il volto nascosto e le eredità dimenticate dell’Atlantikwall: campi di lavoro, tombe, strade, ferrovie e la distruzione di beni provocati dalla costruzione dell’Atlantikwall. Mentre la presentazione
Command bunker at Noirmont Point, Jersey, showing the focus upon the occupiers (Ph. Gilly Carr)
rope by volunteer groups focuses today, for the most part, on bunker typology, daily life of the occupiers, or the power of the guns attached to the bunkers, those who built the bunkers are rarely acknowledged and heritage presentation is lacking at best and unethical at worst.16 A research focus on the human cost of the construction of the Atlantic Wall involves not just the sites of camps and fortifications, as already outlined, but also a turn towards Eastern Europe. The material heritage of millions of foreign POW and slave workers from at least 15 European nations (the majority of which came from the Soviet Union, Poland and Yugoslavia) that built the Nazi infrastructure in occupied Western and Northern Europe has, with some interesting and perhaps notorious exceptions, been largely neglected in cultural research. It has been estimated that approximately 12 million defeated soldiers and civilians from Nazi occupied territories were forced
delle fortificazioni tedesche in Europa da parte di gruppi di volontari si concentra oggi, perlopiù, sulla tipologia del bunker, sulla vita quotidiana degli occupanti o sulla potenza dell’artiglieria montata nei bunker stessi, raramente ci si sofferma su chi quei bunker li ha costruiti, tanto che la presentazione dell’eredità è lacunosa nei casi migliori e disonesta in quelli peggiori.16 L’interesse della ricerca per il costo umano della costruzione dell’Atlantikwall non si limita ai siti di campi e fortificazioni, come si è detto, ma si rivolge anche all’Europa orientale. L’eredità materiale dei milioni di prigionieri di guerra e lavoratori ridotti in schiavitù provenienti da almeno 15 nazioni europee (perlopiù da Unione Sovietica, Polonia e Jugoslavia) che costruirono le infrastrutture naziste nelle regioni occupate dell’Europa occidentale e settentrionale è stata, con alcune interessanti e forse famigerate eccezioni, perlopiù ignorata dalla ricerca culturale. Si stima che siano stati circa 12 milioni i soldati fatti prigionieri e i civili rastrellati dai territori occupati dai nazisti a essere forzati o comunque messi in condizione dai tedeschi di lavorare come schiavi. Questi uomini, donne e talvolta anche bambini erano spesso condotti, da tutti i paesi occupati, in regioni che si trovavano all’altro capo dell’Europa. È possibile individuare un parallelo tra gli spostamenti demografici di massa da est a ovest durante la Seconda Guerra Mondiale e le migrazioni di massa che percorrono la stessa direzione nella fase di allargamento dell’Unione Europea. Ancora una volta gli europei occidentali vedono folte schiere di immigrati arrivare dall’est europeo nelle loro città grandi e piccole. Ma come reagiscono questi gruppi di migranti ai lasciti e all’eredità del periodo di guerra che i loro connazionali hanno lasciato in quei paesaggi durante la Seconda Guerra Mondiale? La loro presenza risveglia vecchie memorie tanto negli europei dell’ovest quanto in quelli dell’est? Gli europei dell’est riconoscono come propria la dolorosa eredità del periodo bellico ancora 47
or coerced to work for the Nazi Germans as forced or slave labour. These men, women and sometimes even children were often taken across Europe, from all occupied countries. We can see a parallel between the mass population movements from East to West during the Second World War, and the mass migrations in the same direction as the EU expands. Western Europeans are once again seeing large numbers of Eastern European immigrants coming into their towns and cities. But how do these migrant groups react to the wartime legacies and heritage that their kinsmen left on landscapes during the Second World War? Does their presence reawaken old memories in Western and Eastern Europeans alike? Do East Europeans recognize the painful wartime heritage still visible in the cultural landscapes of their new home countries as their own? Which interactions will take place between immigrants and local populations in this regard? How can the painful cultural heritage of the 1940s be activated to bring together these new cultural configurations? These questions gain a particular relevance when seen against the backdrop of the recent resurgence of the Fortress Europe mentality, this time in both Western and Eastern Europe with reference to emigrants from nonEuropean countries. Sites of counter-memory Active or passive forgetting is a common feature of many places of pain or torture. We see it at 20th century POW camps;17 internment camps in Francoist Spain;18 so-called “wild” concentration camps and Folterkeller or torture chambers in Berlin;19 camps of exile on Greek islands;20 Swedish military labour-company camps;21 and detention and torture camps in Argentina.22 All such sites are witness to a less than glorious part of recent history in these countries and there has been little desire by governments to memorialise or remember the victims or their experi48
visibile nei paesaggi culturali delle loro nuove patrie? Quali interazioni si instaureranno tra immigrati e popolazioni locali in questo ambito? In che modo può essere attivata la dolorosa eredità culturale degli anni Quaranta al fine di unificare queste nuove configurazioni culturali? Questi interrogativi acquistano una rilevanza particolare se considerati nel contesto del recente ritorno in auge della mentalità da Fortezza Europa, questa volta in Europa sia occidentale che orientale, nei riguardi dei migranti provenienti da paesi non europei. Siti della contro-memoria L’oblio attivo o passivo colpisce comunemente molti luoghi di dolore o di tortura. Lo vediamo nei campi di prigionia di guerra del XX secolo;17 nei campi di internamento della Spagna franchista;18 nei campi di concentramento cosiddetti “selvaggi” e nelle Folterkeller o camere della tortura di Berlino;19 nei campi di confino sulle isole greche;20 nei campi di lavoro militari in Svezia;21 e nei campi di detenzione e tortura in Argentina.22 Tutti questi siti testimoniano un periodo certo non glorioso della storia recente di questi paesi: per questo i rispettivi governi sono refrattari a commemorare o ricordare le vittime o le loro esperienze, o il ruolo degli stessi governi come spettatori o persecutori attivi o agenti dell’internamento. Quei siti non sono fonte di orgoglio nazionale, anche laddove i soggetti internati potevano essere considerati nemici della nazione all’epoca del conflitto. Ma il fatto che questi siti siano al momento eredità trascurate non deve necessariamente sancirne lo status o la posizione definitiva nella memoria nazionale; gli archeologi sono attivamente al lavoro per operare la riscoperta e la riabilitazione di tali siti traumatici al fine di trasformarli in eredità positiva.23 È necessario, e anzi cruciale, che passi del tempo per consentire alle comunità di accettare queste trasformazioni nel loro paesaggio e nei loro lasciti di guerra. Con il tempo il dolore arrecato dall’occupazione diminuisce
ences, or the role of those same governments either as bystanders or as active persecutors or agents of internment. The sites are not sources of national pride, even when those interned have had the status of national enemies in war time. However, the position of these sites as neglected legacies need not represent their final status or position in national memory; archaeologists have been active in the rediscovery and rehabilitation of traumatic sites, turning them into positive heritage.23The passage of time is necessary and, indeed, crucial for communities to be able to accept such transformations in their landscape and of their legacies of war. The pain of occupation lessens with time and although memories are passed down through the generations, the children or grandchildren of those affected are less often held back by their inherited memories; this is why it is often they who are active in turning their history into heritage. Legg (2005) has identified the category of “sites of counter-memory” which, he argues, have been and can be used to refute dominant narratives and “contradict current attempts to craft identities of the present, and memories of the past” (2005, 197). While Legg was interested in sites which have traditionally held this identity over a long period, there is nothing to prevent sites from being transformed into sites of counter-memory. All archaeological and heritage sites have a biography after creation and are not static. Sites that have been forgotten (existing at the status of a “legacy”) can be “discovered” (and turned into “heritage”) anew, and archaeologists can be active in this process. Here we can see the political and ethical role that archaeologists can play. A team of archaeologists in Latin America exploring Clandestine Detention Centres (CDCs) attempted an archaeology “capable of rethinking and reconnecting the traumatic past with this fragmented present.” Their political-ethical place” did not “begin with an archaeological being but rather […] with a political
ma ciò non sempre accade alle memorie tramandate di generazione in generazione, tanto che i figli o i nipoti delle vittime rimangono spesso intrappolati nelle memorie ereditate e questo spesso si occupano attivamente di trasformare la loro storia in eredità. Legg (2005) ha identificato la categoria dei “siti della contro-memoria” intendendo quei siti che sono stati e possono essere usati per confutare le narrative dominanti e “contraddire i tentativi attuali di confezionare identità del presente e memorie del passato” (2005, 197). Legg si interessa a questi siti in quanto da molto tempo e tradizionalmente detentori di questa identità ma in realtà nulla impedisce che essi siano trasformati in siti della contro-memoria. Tutti i siti archeologici e detentori di eredità hanno una biografia dalla creazione in poi e quindi non sono statici. Siti che sono stati dimenticati (esistenti con uno status di “lascito”) possono essere nuovamente “scoperti” (e trasformati in “eredità”), un processo al quale gli archeologi possono contribuire attivamente. Vediamo allora qual è il ruolo politico ed etico che gli archeologi possono svolgere. Un gruppo di archeologi impegnati a studiare i Centri di Detenzione Clandestina (CDC) in America Latina ha provato a praticare un’archeologia “capace di ripensare e riconnettere il passato traumatico con questo presente frammentato.” La loro posizione etico-politica non “partiva da un essere archeologico ma […] da un’archeologia politica, che nasce quando ci chiediamo per che cosa investighiamo, dove cominciamo, per chi scaviamo e contro chi scaviamo” (Compañy et al 2011, 243). Ritenevano, cioè, che relazionarsi con gli eventi dell’orrore nel corso delle loro indagini li obbligasse a prendere una posizione non neutrale. Si tratta di un’idea interessante: un’idea sulla quale tutti gli archeologi che lavorano a siti come questi devono riflettere e, prima o poi, affrontare. Quando scaviamo, da che parte stiamo: delle vittime o dei carnefici? Ponendo che la risposta a questa domanda 49
archaeology, one that starts by asking ourselves what we investigate for, where we begin, who we dig for, and who we dig against” (Compañy et al 2011, 243). They argued that taking on board the events of horror in their investigations forced them to take a nonneutral position. This is an intriguing concept, and one that all archaeologists who work with such sites must think about and, eventually, address. When we excavate, whose side are we on, the victims or perpetrators? While the answer to this question is (or should be) obvious, we should discuss the benefits of using our “power” as archaeologists, and the potential role of archaeology as socially engaged theatre,24 to be pro-active and to draw attention to our work in this sensitive area, to encourage public debate, and to turn lieux d’oubli into sites of counter-memory, and sites of counter-memory into lieux de memoires. While such a transition is neither simple nor in the gift of archaeologists, we have an active role to play—if we want it—in its facilitation. Whether or not we should be strictly impartial in our roles, doing no more than excavating and publishing the results, is a matter for debate. When it comes to sites which have been witness to human rights abuses, do we not have a duty to do more than simply record? Conclusion Traumatic, painful and shameful issues of the past are often the most complex and disturbing elements within national identities as constructed today. Major changes in national and international politics, including the fall of ideological systems and changes in political alliances, often lead to national perceptions of past conflicts being adjusted to suit new situations. The most painful or shameful aspects of the past, and their related national legacies, are the most difficult to handle. Not all skeletons want to stay in the closet while the closet is being refashioned and reconstructed to fit the new political situation.25 50
sia (o dovrebbe essere) ovvia, dobbiamo analizzare i benefici derivanti dall’usare il nostro “potere” di archeologi, e il potenziale ruolo dell’archeologia come ambito socialmente impegnato,24 al fine di tentare attivamente di attirare l’attenzione sul nostro lavoro in questo ambito delicato, incoraggiare la discussione pubblica e trasformare i lieux d’oubli in siti della contro-memoria, e i siti della contromemoria in lieux de mémoire. Benché una transizione di questo tipo non sia né semplice, né unicamente affidata agli archeologi, noi possiamo—se vogliamo—svolgere un ruolo attivo nel renderla possibile. Possiamo o meno essere rigorosamente imparziali nei nostri ruoli, ma certo non è detto che dobbiamo esclusivamente scavare e pubblicare i risultati. Quando i siti in questione sono stati teatro di abusi dei diritti umani, non abbiamo forse il dovere di spingerci oltre la documentazione pura e semplice? Conclusioni Le fonti di traumi, dolore e vergogna del passato sono spesso gli elementi più complessi e inquietanti nell’ambito della costruzione attuale delle identità nazionali. I grandi cambiamenti nella politica nazionale e internazionale come la caduta dei sistemi ideologici e la ridefinizione delle alleanze politiche determinano spesso un riallineamento delle percezioni nazionali in base alle nuove condizioni. Gli aspetti più dolorosi o ignominiosi dei conflitti passati, e i lasciti nazionali a essi legati, sono i più difficili da trattare. Non tutti gli scheletri vogliono rimanere nell’armadio quando l’armadio è sottoposto a restauro e ricostruzione così come vuole la nuova situazione politica.25 I divari tra le memorie raccolte (individuali) e le memorie costruite collettive26 possono in molti casi diventare tali da impedire che un cambiamento di paradigma nella coscienza nazionale si compia senza difficoltà. Fino a poco tempo fa la percezione dell’eredità da parte del pubblico generale tendeva
The gaps between the collected (individual) and the constructed collective memories26 can in many cases become too large for an easy change of paradigm in the national consciousness. Until recently, the perception of heritage by the general public was most commonly “concerned with protecting the great and beautiful creations of the past, reflections of the creative genius of humanity rather than the reverse—the destructive and cruel side of history” (Logan and Reeves 2009, 1), but to rescue this darker side of the legacy of conflict is often to speak out on behalf of victims of violence, even if it is complex and controversial for both national and international heritage management. This can be more easily said than done. Not all places of pain and shame survive well archaeologically. The barracks of POW, concentration and slave labour camps are usually made of wood. The very types of site most forgotten and neglected by both heritage strategies and local communities are (not coincidentally) also the ones which do not survive well archaeologically. On the whole, they will only leave a record under three circumstances: (a) where the soil conditions are appropriate for preservation of camp structures and artefacts, e.g. at the sites of La Glacerie in Normandy27 and Stalag Luft III;28 (b) where there is a will among contemporaneous and later generations to preserve the site and its structures (and even this can cause long-term ethical dilemmas when weighing up the relative value of authenticity versus repair and reconstruction, such as at Auschwitz); or (c) where there is a will among later generations to excavate to recover and remember what is often a shameful or painful past.29 It is very rare to find sites where even two of these three conditions for survival has been fulfilled, but recent research30 suggests that this kind of work is becoming increasingly important and urgent, not least because these sites are on the edge of living memory.
molto spesso a “proteggere le grandi e belle creazioni del passato in quanto espressioni del genio creativo dell’umanità e non il suo opposto—il lato distruttivo e crudele della storia” (Logan e Reeves 2009, 1), ma recuperare questo lato più oscuro dell’eredità del conflitto significa spesso parlare per conto delle vittime di violenza, anche se ciò risulta complicato e controverso per la gestione dell’eredità sia nazionale che internazionale. Più facile a dirsi che a farsi. Non tutti i luoghi di dolore e ignominia sono archeologicamente in buona salute. Le baracche dei campi di prigionia, concentramento e lavoro coatto sono in genere di legno. Anche i tipi stessi di sito più dimenticati e trascurati sia dalle strategie del patrimonio che dalle comunità locali sono (non a caso) anche quelli che sopravvivono meno bene dal punto di vista archeologico. In generale, possono rendere testimonianza solo se si verificano queste tre circostanze: (a) le condizioni del suolo sono idonee alla conservazione delle strutture e dei manufatti del campo, come nel caso dei siti di La Glacerie in Normandia27 e dello Stalag Luft III;28 (b) esiste da parte delle generazioni contemporanee e future la volontà di preservare il sito e le sue strutture (scelta che può comunque causare dilemmi etici di lunga durata dati dalla valutazione del valore relativo dell’autenticità rispetto a quello della riparazione e ricostruzione, come ad Auschwitz); o (c) esiste nelle generazioni future la volontà di scavare per recuperare e ricordare quello che spesso è un passato ignominioso o doloroso.29 Anche se è molto raro trovare siti dove anche solo due di queste tre condizioni di sopravvivenza esistano davvero, ricerche recenti30 fanno pensare che questo tipo di lavoro sarà sempre più importante e urgente, tra le altre cose perché la memoria anche vivente di questi siti va esaurendosi. Gli autori lanciano la sfida a chi se la sente di portare avanti il lavoro archeologico nei siti dell’archeologia del XX secolo: questi progetti sono caratterizzati da un’urgenza evidente, così come evidente è l’imperativo morale ed 51
The authors throw down the gauntlet to those who would carry out archaeological work on sites of 20th century archaeology: there is an urgency to such projects, and there is also a moral and ethical imperative to such work. Such projects are not simple and they are not easy. They often face opposition from local communities. They are, however, important, politically non-neutral and rewarding, and they represent the cutting edge of Conflict Archaeology.
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etico che investe questo lavoro. Si tratta di progetti non semplici e non facili, che spesso suscitano contrarietà nelle comunità locali. E tuttavia sono importanti, politicamente non neutrali e gratificanti, e rappresentano l’esperienza più avanzata dell’Archeologia dei Conflitti. Traduzione italiana: Antonella Bergamin
Notes
Note
1. See: Saunders 2003, 2004, 2007; Saunders and Cornish 2009; Schofield et al 2002; Schofield 2005, 2009. 2. Nora 1989. 3. Carr 2010a. 4. Nora 2011, ix. 5. Lagrou 2000. 6. Myers 2008. 7. Donald 1998. 8. Hirsch and Spitzer 2006. 9. Theune 2011, 1. 10. Ivi, 3. 11. Roberts 2010; Jasinski and Stenvik 2010. 12. http://www.huizingainstituut.nl/beheer/wp-content/uploads/NIAS-TERRORSCAPES-workshop-29-11-2011.pdf 13. Jasinski and Steinvik 2010, Jasinski et al forthcoming, Jasinski 2012 forthcoming 14. Carr 2012a, 2012b. 15. Carr 2008. 16. Carr 2010b. 17. Thomas 2011; Seitsonen and Herva 2011. 18. González-Ruibal 2011. 19. Jordan 2006, 153. 20. Pantzou 2011. 21. Landzelius 2003. 22. Zarankin and Salerno 2011. 23. Farrell and Burton 2011. 24. Tilley 1989, 280. 25. Jasinski 2012 forthcoming. 26. Young 1993. 27. Early 2012. 28. Doyle et al 2012. 29. Compañy et al 2011. 30. Myers and Moshenska 2011; Mytum and Carr 2012.
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30.
Si veda: Saunders 2003, 2004, 2007; Saunders e Cornish 2009; Schofield et al 2002; Schofield 2005, 2009. Nora 1989. Carr 2010a. Nora 2011, ix. Lagrou 2000. Myers 2008. Donald 1998. Hirsch e Spitzer 2006. Theune 2011, 1. Ivi, 3. Roberts 2010; Jasinski e Stenvik 2010. http://www.huizingainstituut.nl/beheer/wp-content/uploads/NIAS-TERRORSCAPES-workshop-29-11-2011.pdf Jasinski e Steinvik 2010, Jasinski et al di prossima pubblicazione, Jasinski 2012 di prossima pubblicazione. Carr 2012a, 2012b. Carr 2008. Carr 2010b. Thomas 2011; Seitsonen e Herva 2011. González-Ruibal 2011. Jordan 2006, 153. Pantzou 2011. Landzelius 2003. Zarankin e Salerno 2011. Farrell e Burton 2011. Tilley 1989, 280. Jasinski 2012 di prossima pubblicazione. Young 1993. Early 2012. Doyle et al 2012. Compañy et al 2011. Myers e Moshenska 2011; Mytum e Carr 2012.
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Sharon Macdonald
Difficult Heritage EreditĂ Difficili
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During the second half of the twentieth century and into the twenty-first, visible markers of the past—plaques, information boards, museums, monuments—have come to populate more and more land—and cityscapes. History has been gathered up and presented as heritage—as meaningful pasts that should be remembered; and more and more buildings and other sites have been called on to act as witnesses of the past. Many kinds of groups have sought to ensure that they are publicly recognised through identifying and displaying “their” heritage. At the same time, museums and heritage sites have become key components of “place-marketing” and “image-management;” and cultural tourism has massively expanded, often bringing visitors from across the world to places that can claim a heritage worth seeing. Here I explore a particular dimension of this public concern with the past. This is what I call “difficult heritage”—that is, a past that is recognised as meaningful in the present but that is also contested and awkward for public reconciliation with a positive, selfaffirming contemporary identity. “Difficult heritage” may also be troublesome because it threatens to break through into the present in disruptive ways, opening up social divisions, perhaps by playing into imagined, even nightmarish, futures. By looking at heritage that is unsettling and awkward, rather than at that which can be celebrated or at least comfortably acknowledged as part of a nation’s or city’s valued history, my aim is to throw into relief some of the dilemmas about its public representation and reception. Doing so highlights and unsettles cultural assumptions about and entanglements between identity and memory, and past, present and future. It also raises questions about practices of selection, preservation, cultural comparison and witnessing—practices which are at least partly shared by anthropologists and other researchers of culture and social life. At its core, my book Difficult Heritage tells a story about one particular especially diffi-
A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo e fino al ventunesimo, indicatori visibili del passato come targhe, pannelli informativi, musei e monumenti hanno preso a popolare in modo sempre più capillare paesaggi rurali e urbani. La storia è stata sintetizzata e presentata come eredità—passati significativi che devono essere ricordati; e si è fatto ricorso a un numero crescente di edifici e altri siti perché agissero da testimoni del passato. Molti tipi di gruppi ricercano attivamente il pubblico riconoscimento mediante l’identificazione e l’esibizione della “loro” eredità. Al contempo, musei e siti del patrimonio sono diventati elementi chiave delle strategie di “place-marketing” e “image-management;” e il turismo culturale si è sviluppato enormemente, attirando spesso visitatori dall’altro capo del mondo verso luoghi che hanno un patrimonio che vale la pena di vedere. In questo scritto mi occupo di una dimensione particolare di tale interesse pubblico per il passato. Si tratta di quella che definisco “eredità difficile”—vale a dire un passato che, pur essendo oggi riconosciuto come significativo, è anche contestato e d’ostacolo alla riconciliazione pubblica con un’identità contemporanea positiva e di auto-affermazione. L’“eredità difficile” può essere anche turbolenta perché minaccia di irrompere nel presente in modi dirompenti, aprendo divisioni sociali, forse contribuendo a scenari futuri immaginati persino terrificanti. La mia scelta di considerare un’eredità che è inquietante e imbarazzante e non quella che può essere celebrata o quanto meno tranquillamente riconosciuta come parte della storia apprezzata di una nazione o di una città, ha l’obiettivo di porre in evidenza alcuni dei dilemmi riguardanti la sua rappresentazione e percezione pubblica. Questo processo mette in luce e sovverte i presupposti culturali e le commistioni tra identità e memoria, e passato, presente e futuro. Solleva anche interrogativi sulle pratiche di scelta, conservazione, confronto culturale e testimonianza—pratiche che sono almeno in parte condivise dagli antropologi e da altri ricercatori della cultura e della vita sociale. 57
cult heritage.1 This is the struggle with Nazi heritage—especially remaining architectural heritage—in the city of Nuremberg, Germany; a city which has, perhaps more than any other, found its name linked to the perpetration of the appalling and iconic atrocity of modernity—the Holocaust. To give an account of how Nuremberg has negotiated its difficult heritage, and how visitors to the city experience it today, I draw on a combination of historical and anthropological perspectives in order to explore changes over time as well as to try to see how different players, practices and knowledges—local and from further afield—interact, and are brought into being, to shape the ways in which the city’s past is variously approached and ignored. By telling this detailed and sometimes untidy story, my intention is also to provide a located position from which to think further about—and to some extent complicate—accounts of how Germany has faced its Nazi past and what this might mean to people today. More generally still, it is to provide some coordinates for understanding difficult heritage—wherever it is found—and its implications. Difficult heritage Wars, conflict, triumph over foreigners, the plunder of riches from overseas—these are the stuff of most national histories. Yet whether they are perceived as troubling for contemporary identity may vary considerably; and what was once seen as a sign of a country’s achievement may later come to be understood as a reason for regret. Colonialism, for example, once a source of great national pride for colonising countries has increasingly—though not unequivocally— come to be regarded as a more problematic and even shameful heritage; and many explicit depictions of colonial might now languish in museum basements. Wartime episodes that were regarded as military triumphs can also become sources of embarrassment. In Japan, for instance, the 1937 Rape of Nanking, in 58
Al centro del mio libro Difficult Heritage vi è la storia di una specifica eredità particolarmente difficile.1 Si tratta del conflitto con l’eredità nazista—in particolare l’eredità architettonica ancora esistente—nella città tedesca di Norimberga; una città che, forse più di qualunque altra, ha avuto il proprio nome legato al compimento dell’atrocità più spaventosa e iconica della modernità—l’Olocausto. Per rendere conto di come Norimberga ha gestito tale eredità difficile e di come i visitatori che accoglie la vivono oggi, utilizzo una combinazione di prospettive storiche e antropologiche allo scopo di seguire i cambiamenti nel corso del tempo oltre che di vedere come i diversi soggetti, pratiche e conoscenze—locali e di provenienza esterna—interagiscono, e sono posti in essere, per poi definire i modi in cui il passato della città risulta di volta in volta contattato e ignorato. Nel raccontare questa storia dettagliata e talvolta disordinata è mia intenzione anche definire una posizione precisa dalla quale partire per una riflessione ulteriore—e per qualche verso complicata— su come la Germania ha affrontato il passato nazista e cosa questo possa significare per le persone oggi. In termini ancora più generali, significa definire alcune coordinate per la comprensione di un’eredità difficile—ovunque essa si trovi—e delle sue implicazioni. Eredità difficile Guerre, conflitti, trionfo sugli stranieri, saccheggio delle ricchezze di oltremare sono gli elementi fondanti di gran parte delle storie nazionali. Assai più variabile è il fatto che ciò sia percepito o meno come elemento di disturbo dell’identità contemporanea, e ciò che in passato era percepito come un segno di successo di un paese può successivamente finire per essere considerato come motivo di rammarico. Il colonialismo, ad esempio, un tempo fonte di grande orgoglio nazionale per i paesi colonizzatori rappresenta in modo crescente—anche se non incondizionato— un’eredità più problematica e finanche igno-
which the Japanese Imperial Army brutally slaughtered or tortured tens of thousands of Chinese, remains a national achievement for some, and is repeated as such in school textbooks, but has become a mortifying memory for many other Japanese who know about it.2 The allied bombing of Japanese cities during Second World War, and of German cities, especially Dresden, have likewise become increasingly controversial over the years, and the subject of continued memorial and museological dispute.3 While what counts as “difficult heritage”— or indeed worthy heritage—may change, however, the idea that places should seek to inscribe what is significant in their histories, and especially their past achievements, on the cityscape is longstanding and widespread. In a pattern consolidated by European nationmaking, identifying a distinctive and preferably long history, and substantiating it through material culture, has become the dominant mode of performing identity-legitimacy. “Having a heritage”—that is, a body of selected history and its material traces—is, in other words, an integral part of “having an identity,” and it affirms the right to exist in the present and continue into the future. This model of identity as rooted in the past, as distinctively individuated, and as expressed through “evidence,” especially material culture, is mobilised not only by nations but by minorities, cities or other localities.4 Because of the selective and predominantly identityaffirmative nature of heritage-making, it typically focuses on triumphs and achievements, or sacrifices involved in the struggle for realisation and recognition. Events and material remains which do not fit into such narratives are, thus, likely to be publicly ignored or removed from public space, as have numerous monuments erected by socialist regimes or former colonisers. Or, as Ian Buruma writes of the lack of information about Nanking in Japanese school history texts, they may be “officially killed by silence” (Buruma 2002, 114). More dramatically, silencing may in-
miniosa, tanto che molte rappresentazioni esplicite di imprese coloniali si trovano per questo a languire oggi nei depositi dei musei. Anche episodi di guerra prima considerati come vittorie militari possono diventare fonti di imbarazzo. Un esempio è il Massacro di Nanchino del 1937, perpetrato dall’esercito imperiale giapponese che torturò e assassinò decine di migliaia di cinesi, e che in Giappone rimane per alcuni una vittoria nazionale e come tale è riportato nei libri di testo scolastici, mentre molti altri giapponesi che ne sono al corrente vivono questa memoria come un motivo di mortificazione.2 Allo stesso modo il bombardamento alleato durante la Seconda Guerra Mondiale delle città giapponesi e tedesche, Dresda in particolare, è diventato nel corso degli anni oggetto di controversia, finendo al centro di discussioni continue sul piano commemorativo e museografico.3 Ma, al di là di ogni valutazione, evidentemente variabile, di ciò che rende un’eredità “difficile”—o comunque degna di nota, è antica e diffusa l’idea che i luoghi debbano cercare di inscrivere ciò che è significativo delle loro storie, e in particolare delle loro realizzazioni passate, nel paesaggio urbano. In un modello consolidato dalla modalità di formazione delle nazioni in Europa, la procedura prevalente di legittimazione dell’identità è diventata l’identificazione di una storia particolare e preferibilmente lunga, e la sua concretizzazione attraverso la cultura materiale. “Avere un’eredità” —vale a dire un sistema storico selezionato e completo di tracce materiali—è, in altre parole, parte integrante dell’“avere un’identità,” e afferma il diritto di esistere nel presente e di permanere nel futuro. Questo modello di identità in quanto radicata nel passato, precisamente individuata ed espressa attraverso “testimonianze,” in particolare della cultura materiale, è mobilitato non solo dalle nazioni ma anche da minoranze, città o altre località.4 A causa della natura selettiva e prevalentemente affermativa dell’identità della formazione dell’eredità, questa si attesta in genere su trionfi e successi, o sui sacrifici richiesti dalla battaglia 59
volve the physical destruction of material heritage, such as the destruction of mosques as part of “ethnic cleansing” and the obliteration of the Oriental Institute and Bosnian National Library in Sarajevo—both home to vast archival evidence of Bosnian history— by Serb extremists during the Bosnian War.5 Yet ignoring, silencing or destroying are not always options—and the awkward past may break through in some form. This may be because the events are too recent and their effects still being felt, though recency is not a guarantee of public acknowledgment, as we will see below. It may be because some groups or individuals—“memorial entrepreneurs”— try to propel public remembrance, perhaps of events of which they were victims or which they feel morally driven to commemorate, perhaps because they fear that forgetting risks atrocity being repeated in the future.6 In some cases, groups or individuals outside the locality, and even beyond the nation, demand that past perpetrations are publicly recalled and exposed. In others, material remains of past events or regimes may defy easy obliteration and thus act as mnemonic intrusions. Archaeological finds or historical scholarship may embarrass accepted narratives. Or public recognition may be prompted by the fact that, while a troubling history may be uncomfortable, it is also of heritage-interest, attracting tourists and bringing revenue. In all such cases—which in reality are likely to be combinations of motives and actors—heritage-management is fraught with multiple dilemmas. In the field of heritage and tourism management, Tunbridge and Ashworth have devised the term “dissonant heritage” to express what they see as the inherently contested nature of heritage—stemming from the fact that heritage always “belongs to someone and logically, therefore, not to someone else” (Graham, Ashworth and Tunbridge 2000, 24)—though which may be relatively “active or latent”(1996, 21). They chart numerous kinds of dissonance, including where tour60
per la realizzazione e il riconoscimento. Accade, quindi, spesso che gli eventi e residui materiali che non confermino tali narrative siano pubblicamente ignorati o rimossi dallo spazio pubblico, come è accaduto a tanti monumenti costruiti dai regimi socialisti o da potenze dal passato coloniale. O, come scrive Ian Buruma dell’assenza di informazioni sugli eventi di Nanchino nei libri di storia scolastici giapponesi, questi fatti possono essere “ufficialmente uccisi dal silenzio” (Buruma 2002, 114). Più drammaticamente, la riduzione al silenzio può passare attraverso la distruzione fisica dell’eredità materiale, come quella ai danni delle moschee nell’ambito della “pulizia etnica” e come l’obliterazione dell’Istituto Orientale e della Biblioteca Nazionale di Bosnia a Sarajevo— entrambi custodi delle ricche testimonianze d’archivio della storia bosniaca—da parte degli estremisti serbi durante la Guerra di Bosnia.5 Ma non sempre accade che si ignori, si riduca al silenzio o si distrugga il passato scomodo, che quindi può tornare in qualche forma, magari perché gli eventi sono troppo recenti e i loro effetti ancora percepiti (anche se, come vedremo tra poco, l’appartenenza al passato recente non implica necessariamente riconoscimento pubblico), o perché alcuni gruppi o individui—i cosiddetti “imprenditori della commemorazione”—tentano di accendere il ricordo pubblico, forse di eventi dei quali sono stati vittime o che si sentono moralmente tenuti a commemorare, forse perché temono che dimenticare aumenti il rischio di ripetizione futura dell’atrocità.6 In alcuni casi, sono gruppi o individui esterni al luogo in questione, e addirittura alla stessa nazione, a esigere che fatti commessi in passato siano pubblicamente esposti e commemorati. In altri, residui materiali di eventi o regimi passati possono impedire una facile obliterazione e agire così da intrusioni mnemoniche. Ritrovamenti archeologici o studi storici possono risultare di imbarazzo alle narrative accettate. O il riconoscimento pubblico può essere suscitato dal fatto che una storia inquietante può risultare scomoda ma anche interessante
ist authorities promote a range of differing images of a place and what they call “the heritage of atrocity” (1996, ch.5), in which, they argue, “dissonance” may provoke intense emotions and be bound up with memories that have “profound long-term effects upon [a people’s] self-conscious identity” (1996, 21). Like others, Tunbridge and Ashworth distinguish between atrocity heritage that is primarily concerned with victims—for example, Nazi concentration camps or Khmer Rouge torture buildings—and that which is principally of perpetration.7 In many cases, of course, it is hard to maintain a clear distinction between sites of victims’ suffering and those of perpetration—concentration camps and torture chambers were clearly both. Nevertheless, there are places—such as, say, the Wannsee villa in Berlin or Hitler’s complex of buildings on the Obersalzburg in Bavaria—which are part of the apparatus of perpetration but not locations in which suffering was directly inflicted. These might be seen as sites of “perpetration at a distance,” to adapt some language from actor network theory.8 While all sites of atrocity raise difficulties of public presentation—including the question of how graphically suffering is depicted—there are some specific dilemmas raised by sites of perpetration at a distance. In particular, precisely because heritage-presentation and museumification are typically regarded as markers of worthwhile history— of heritage that deserves admiration or commemoration—their preservation and public display might be interpreted as conferring legitimacy of a sort.9 This is part of a “heritage effect”—a sensibility grounded in particular visual and embodied practices prompted by certain kinds of spaces and modes of display.10 Moreover, there is also the risk that such sites might become pilgrimage destinations for perpetrator admirers. This argument surfaced in the debates over the legitimacy of later public uses of the sites just mentioned, both of which incorporate educational dis-
in quanto eredità, e come tale un’attrazione turistica e dunque fonte di reddito. In tutti questi casi—che in realtà sono in genere combinazioni di motivi e attori—la gestione dell’eredità risulta irta di molteplici dilemmi. Nell’ambito della gestione dell’eredità e del turismo, Tunbridge e Ashworth hanno coniato il termine “eredità dissonante” per definire un’eredità dalla natura implicitamente controversa—derivante dal fatto che, immancabilmente, “appartenendo a qualcuno, logicamente non appartiene a qualcun altro (Graham, Ashworth and Tunbridge 2000, 24)—motivo per cui può essere relativamente “attiva o latente” (1996, 21). Gli autori documentano più tipi di dissonanza, ad esempio laddove gli enti turistici promuovono una gamma di immagini diversificate di un luogo e di quella che definiscono “l’eredità dell’atrocità” (1996, ch.5), nei quali, spiegano, la “dissonanza” può provocare emozioni intense ed essere legata a memorie che hanno “effetti profondi a lungo termine sull’identità cosciente [di un popolo]” (1996, 21). Come altri, Tunbridge e Ashworth distinguono tra eredità dell’atrocità che si occupa prevalentemente delle vittime—ad esempio i campi di concentramento nazisti o i siti di tortura dei Khmer rossi—ed eredità che riguarda principalmente i perpetratori.7 In molti casi, naturalmente, è difficile mantenere una distinzione chiara tra siti di sofferenza delle vittime e siti di perpetrazione—campi di concentramento e camere di tortura erano ovviamente l’una e l’altra cosa. Ma esistono luoghi—ad esempio la villa sul lago Wannsee a Berlino o il complesso di edifici a disposizione di Hitler sull’Obersalzburg bavarese—che fanno parte dell’apparato di perpetrazione pur non essendo luoghi nei quali si infliggeva direttamente la tortura. Questi, adattando un’espressione appartenente alla teoria dell’attore-rete, si potrebbero definire siti di “perpetrazione a distanza.”8 Al di là delle difficoltà di presentazione pubblica—come ad esempio con quanta veridicità sia lecito rappresentare la sofferenza—legate a tutti i siti dell’atrocità, vi sono 61
plays (though Hitler’s Eagle’s Nest on the Obersalzburg also, controversially, opened as a luxury hotel in 2005). In other instances, as with the site of Hitler’s bunker in Berlin, this argument has been used to prevent any kind of public marking.11 My aim is neither to try to classify different types of heritage, nor to present a general survey, as do Tunbridge and Ashworth, useful though these may be. “Difficult heritage,” as I use it here, is more tightly specified than their notion of “dissonance” insofar as it threatens to trouble collective identities and open up social differences. But beyond that, my approach here is to explore “difficult heritage” as an historical and ethnographic phenomenon—and as a particular kind of “assemblage”—rather than to establish it as an analytical category.12 This means looking at how heritage is assembled both discursively and materially, at the various players involved, at what they may experience as awkward and problematic, and at the ways in which they negotiate this. My interest here includes the kinds of assumptions that are made about the nature of heritage, identity and temporality, the terms in which debates about “difficult heritage” are conducted, what is ignored or overlooked, and how agency is accorded—all of which can be seen as constituents of what is sometimes called “historical consciousness” (which is a recognised field of historiography within Germany.13 As Jeffrey Olick has noted, the idea of “historical consciousness” usefully avoids reifying a sometimes spurious distinction between “history” and “memory” (Olick 2003, 8);14 and it directs attention not just to the content of history or memory but also to questions of the media and patterns through which these are structured, as well as where lines between, say, history and memory might be drawn in particular contexts. In some historical consciousness theorising, especially in the German tradition, there is an emphasis upon identifying universal “orientations,” in, for example, how people understand the relationship between past, present 62
alcuni dilemmi specifici impliciti nei siti della perpetrazione a distanza. In particolare, proprio perché la presentazione e museificazione dell’eredità sono generalmente considerate come indicatori di storia degna di nota—di eredità che merita ammirazione o commemorazione—la loro conservazione ed esibizione pubblica possono essere interpretate come azioni che di per sé conferiscono una sorta di legittimazione.9 Questo fa parte di un “effetto eredità”—una sensibilità fondata su particolari pratiche visive e concrete generate da certi tipi di spazi e modi espositivi.10 Non va poi dimenticato il rischio che questi siti possano diventare mete di pellegrinaggio per chi ammira i perpetratori. Questo aspetto è emerso nelle discussioni sulla legittimità degli utilizzi pubblici assegnati ai due siti appena citati, entrambi comprendenti anche allestimenti educativi (ma anche l’hotel di lusso inaugurato in mezzo alle polemiche nel 2005 al Nido delle Aquile di Hitler sull’Obersalzburg). In altri casi, come il sito del bunker di Hitler a Berlino, questa discussione ha avuto l’effetto di impedire qualunque tipo di segnalazione pubblica.11 Il mio obiettivo non è né di tentare di classificare i diversi tipi di eredità, né presentare un’indagine generale, come fanno Tunbridge e Ashworth, per quanto utili questi propositi possano essere. La definizione di “eredità difficile,” così come la uso in questa sede, ha una specifica più stringente rispetto alla loro nozione di “dissonanza” nella misura in cui rischia di turbare le identità collettive e aprire differenze sociali. Ma, a parte questo, il mio tentativo vuole esplorare l’“eredità difficile” in quanto fenomeno storico ed etnografico—e come particolare tipo di “assemblage”—piuttosto che definirla come categoria analitica:12 vuole esaminare, cioè, il modo in cui l’eredità viene assemblata a livello sia discorsivo che materiale, i diversi attori coinvolti, ciò che essi possono vivere come imbarazzante e problematico, e i modi in cui lo affrontano. Il mio interesse in questo caso si rivolge ai tipi di ipotesi che si sviluppano sulla natura, sull’identità e sulla temporalità dell’eredità, i termini nei quali sono condotti i
and future. Rather than revealing universally shared patterns, my own more modest aim is to highlight elements of a repertoire of possible approaches to difficult heritage and to chart some of their implications. That is, I seek to identify a non-exhaustive range of negotiating frames and tactics through which some kinds of past are evoked and engaged with in public culture. Unlike the universalist approach to historical consciousness, mine here is not concerned with presumed shared mental patterns but addresses the social and cultural situations and frames in which heritage—and difficult heritage—is assembled and negotiated. These situations and frames are simultaneously local and beyond local. That is, they involve specific local conditions and actors but these never act in a vacuum, even when they are actively producing “locality.” Instead, as we see below, local actions are frequently negotiated through comparisons with other places, through concepts and ideas produced elsewhere and that may even have global circulation, and through the sense of being judged by others. They are also negotiated in relation to legislation, political structures and economic considerations which are rarely exclusively local. As I am interested in heritage making and historical consciousness as social and cultural practices, I am concerned to look not just at “history products” (e.g. a heritage site) but at the practical activities and sometimes rather banal events involved in their production and consumption. I am also concerned with the sometimes messy—and sometimes strikingly consistent, rhythmic and predictable—course of negotiations, and the social alignments and identifications that such negotiations may produce. For these reasons, my focus is on a specific, in-depth case—that of Nuremberg—and my hope is that this can enable me to illuminate better some of the assumptions, oversights, silences and complexities of negotiating difficult heritage than might a wider survey. As the section below briefly indicates,
dibattiti a proposito dell’“eredità difficile,” cosa è ignorato o sottovalutato, e come è accordata l’agentività—tutti elementi che possono essere considerati come costitutivi di quella che talvolta si definisce “coscienza storica” (un ambito riconosciuto della storiografia in Germania).13 Come ha fatto notare Jeffrey Olick, l’idea di “coscienza storica” evita utilmente di reificare una distinzione talvolta spuria tra “storia” e “memoria” (Olick 2003, 8);14 e indirizza l’attenzione non solo sul contenuto della storia o della memoria ma anche su questioni dei media e i modelli attraverso i quali queste sono strutturate, oltre a dove si possono tracciare le linee di demarcazione, ad esempio, tra storia e memoria in particolari contesti. In alcune teorizzazioni della coscienza storica, nella tradizione tedesca in particolare, si registra un’enfasi sull’identificazione di “orientamenti” universali, ad esempio nel modo in cui le persone intendono la relazione tra passato, presente e futuro. Più che evidenziare modelli universalmente condivisi, il mio più modesto obiettivo è di porre in luce gli elementi di un repertorio di approcci possibili all’eredità difficile e di mappare alcune delle loro implicazioni. Tento, cioè, di identificare una gamma non esaustiva di tattiche e modelli interpretativi attraverso i quali alcuni tipi di passato sono evocati e la cultura pubblica si rapporta a essi. Diversamente dall’approccio universalista alla coscienza storica, il mio in questo caso non si occupa di presunti modelli mentali condivisi ma si rivolge alle situazioni e modelli sociali e culturali nei quali l’eredità e l’eredità difficile in particolare—è costruita e fatta oggetto di relazione. Queste situazioni e modelli sono al contempo locali ed extra-locali: implicano, cioè, condizioni e attori locali specifici che tuttavia, anche quando producono attivamente “località,” non agiscono mai in un vuoto. Le azioni locali, invece, come vedremo in seguito, sono spesso elaborate attraverso confronti con altri luoghi, attraverso concetti e idee prodotti altrove e che possono avere anche circolazione globale, e attraverso la modalità con cui sono valutate da altri. Essi sono elaborati anche in 63
Jüdisches Museum, Daniel Libeskind, Berlino 2001 (Ph. Michela Bassanelli)
however, struggles with difficult heritage are extremely widespread, and increasingly likely to result in public display. Moreover, as the Nuremberg study shows too, what goes on in any particular country or city is never culturally isolated—even if it may sometimes feel like it to those involved. Rather, the local is negotiated into being in relation—sometimes through cultural analogy, sometimes via shared concepts and practices, sometimes through the intervention of actors from outside, and sometimes through explicit opposition—to “elsewhere,” be that other cities nearby or other parts of the world. 64
relazione alla legislazione, alle strutture politiche e a considerazioni economiche che di rado sono esclusivamente locali. Dal momento che mi interesso di formazione dell’eredità e di coscienza storica come pratiche sociali e culturali, mi preoccupo di guardare non solo ai “prodotti storici” (ad esempio un sito significativo per l’eredità) ma alle attività pratiche e agli eventi talvolta piuttosto banali che hanno a che fare con la loro produzione e consumo. Mi occupo anche delle procedure di negoziazione talvolta disorganizzate—e talvolta sorprendentemente coerenti, ritmiche e prevedibili—e degli allineamenti e identificazioni
Other struggles In many countries the predominant statesupported memorial and museum culture pays little attention to difficult histories, preferring to ignore these and to tell more comfortable or self-affirming narratives. Even in recent years, for example, the destruction of Ottoman heritage in Serbia has paved the way for a nationalist representation of the past that ignores this period of history.15 More widely, however, it is noticeable that since the 1990s in particular there have been increasing attempts to publicly address problematic heritage and “difficult pasts.”16 In many cases, this is in societies that have emerged from previously repressive regimes, where publicly recognising atrocities committed may signal difference from the former regime, as well as a commitment to political openness. Thus in Cambodia, for example, there has been a wave of activity—including building museums at sites of massacre—to mark, commemorate and inform about the atrocities suffered under the Khmer Rouge.17 Similarly, in post-apartheid South Africa there is a massive ongoing movement to create new heritage sites and memorials and to alter, and sometimes dismantle, earlier ones that legitimated the apartheid regime. Opening up places such as Robben Island, the prison in which Nelson Mandela and others were held for so many years, creating an Apartheid Museum (opened in 2001) and the Slave Lodge, a museum of slavery (currently in preparation), are all part of public cultural strategy to keep alive the memory of the suffering that was endured en route to the new South Africa.18 Many former socialist countries have also swept away monuments and exhibitions of socialist periods and instead created museums that turn the spotlight onto the horrors of the recent past, as, for example, in the turning of the former secret police headquarters in Budapest into a museum,19 or of the maximum security labour camp, Perm-36,
sociali che tali negoziati possono produrre. Per queste ragioni la mia attenzione si rivolge a un caso specifico—quello di Norimberga—analizzato in profondità nella speranza che possa, meglio di un’analisi a più vasto raggio, illuminare alcune delle ipotesi, sviste, silenzi e complessità date dal relazionarsi con l’eredità difficile. Ma, come si spiega brevemente nel paragrafo che segue, le diatribe riguardanti l’eredità difficile sono estremamente diffuse e sempre più passibili di emergere all’attenzione pubblica. Inoltre, come dimostra anche lo studio su Norimberga, ciò che accade in un particolare paese o città non è mai culturalmente isolato—anche se tale può talvolta apparire a chi ne è coinvolto. Al contrario, ci si rapporta con il locale in modo da porlo in relazione—di volta in volta attraverso l’analogia culturale, concetti e pratiche condivise, l’intervento di attori dall’esterno, e un’opposizione esplicita—con l’“altrove,” quello di altre città vicine o di altre parti del mondo. Altre battaglie In molti paesi la cultura commemorativa e museale prevalente promossa dallo stato riserva scarsa attenzione alle storie difficili, preferendo ignorarle e raccontare narrative più comode o auto-affermative. Anche in anni recenti, ad esempio, la distruzione del patrimonio ottomano in Serbia ha aperto la strada a una rappresentazione nazionalistica del passato che ignora quel periodo storico.15 Più in generale, però, è rilevabile come a partire dagli anni Novanta in particolare si siano fatti più numerosi i tentativi di discutere pubblicamente l’eredità problematica e i “passati difficili.”16 In molti casi, ciò accade in società che sono emerse da regimi oppressivi, dove riconoscere pubblicamente le atrocità commesse può segnalare discontinuità rispetto al regime passato oltre che un impegno di apertura politica. Un esempio è quello della Cambogia dove si è avuta un’ondata di attività—con la costruzione di musei nei siti dei massacri—per segnalare, commemorare e informare sulle atrocità perpetrate dai 65
into the Gulag Museum in Russia.20 While in much of South America, there has been little official commemoration of the victims of twentieth-century dictatorial regimes or civil war, this is showing signs of change. In Argentina, for example, there has been a long and continuing campaign by the mothers and grandmothers of the disappeared (those who were kidnapped and mostly killed by the dictatorial regime of 1976-1983) who every Thursday meet in Buenos Aires’ Plaza de Mayo to display pictures of their vanished relatives.21 An initiative to create a lasting material commemoration, the Parque de la Memoria, on the site of a torture camp run by the military, was begun in 1996 and is ongoing. The first sculptural memorial erected there—Monument to the Victims of State Terrorism—has been judged by Andreas Huyssen to be “persuasive and moving” (Huyssen 2003, 102), though the location of the Park in the city’s outskirts and the fact that it is not yet listed on tourist itineraries or most city information suggest that it may at the same time be being marginalised in public space. Even the United States of America, which is often at the forefront of museological developments and which has opened up many, and often impressive, Holocaust museums, especially since the 1980s, has been much more nervous of directly addressing its own difficult history of slavery. A National Museum of Slavery was planned for Fredericksburg, Virginia, but this private rather than federally funded initiative, had difficulty in attracting business sponsors willing to support this socially awkward topic and has still not been completed.22 A new National Museum of African History and Culture has also been approved as part of the Smithsonian complex, its broader scope perhaps making any content on slavery more palatable.23 The failure to create a museum to slavery is all the more striking given the flourishing of museums to an atrocity that did not take place in the US—the Holocaust of Jews in 66
Khmer rossi.17 Analogamente, nel Sudafrica del dopo apartheid si registra un grande e costante movimento volto alla creazione di nuovi siti di patrimonio e monumenti commemorativi e all’alterazione, e talvolta smantellamento, di installazioni che precedentemente legittimavano il regime dell’apartheid. L’apertura al pubblico di luoghi come Robben Island, il carcere nel quale Nelson Mandela e altri sono stati imprigionati per tanti anni, la creazione di un Museo dell’Apartheid (inaugurato nel 2001) e dello Slave Lodge, un museo della schiavitù (in fase di allestimento), fanno parte di una strategia culturale pubblica che vuole tenere viva la memoria della sofferenza patita nel percorso che ha portato al nuovo Sudafrica.18 Anche molti paesi ex socialisti si sono sbarazzati di monumenti e manifestazioni di quel periodo storico creando al loro posto musei che spostano l’attenzione sugli orrori del passato recente come esemplificato dalla trasformazione in museo dell’edificio già sede della polizia segreta a Budapest19 e del campo di lavoro di massima sicurezza Perm-36 nel Gulag Museum in Russia.20 Anche in gran parte del Sud America, dove finora erano stati rari i casi di commemorazione pubblica delle vittime dei regimi dittatoriali o di guerra civile del ventesimo secolo, la situazione sembra stia ora per cambiare. In Argentina, ad esempio, è in atto da tempo una campagna promossa dalle madri e dalle nonne dei desaparecidos (persone rapite e perlopiù uccise dal regime dittatoriale del 1976-1983) che si ritrovano ogni giovedì in Plaza de Mayo a Buenos Aires per esporre le immagini dei loro cari scomparsi.21 Nel 1996 è nata un’iniziativa, tuttora in corso, per la creazione di un sito commemorativo permanente denominato Parque de la Memoria sul sito di un campo di tortura gestito dai militari. Il primo monumento realizzato in questo luogo—il Monumento alle vittime del terrorismo di stato—è stato definito da Andreas Huyssen “convincente e commovente” (Huyssen 2003, 102), anche se il Parco si trova in una zona periferica e non risulta ancora inserito negli itinerari turistici o nella documentazione che pubblicizza
Europe. While there are various factors involved here, including the political power of Jewish lobby groups in the US, it has been suggested that one reason for the emphasis on Holocaust may be that it helps to relativize the potentially more socially divisive history of slavery.24 Within Europe, colonial nations have only recently, if at all, begun any significant public addressing of the colonial past in their museums. In Belgium, for example, the Royal Museum of Central Africa has been revising its displays in recent years in order to address aspects of Belgium’s colonial history of terror alongside the display of its plunder. This has, however, been judged fairly limited by Adam Hochschild, whose critical account of the Museum’s silences was one impetus for the revision.25 Likewise, in the Netherlands, where according to James Horton and Johanna Kardux,26 “the Netherlands” role in slaveholding and slave trading was so irreconcilable with their sense of national identity that it was long erased from public consciousness, museums such as Amsterdam’s Tropenmuseum have increasingly come to include at least some appraisal of colonialism in their displays. In Britain, a British Empire and Commonwealth Museum opened in Bristol in 2002, which includes attention to slavery, with a dedicated gallery on the subject opened in 2007, as part of the 200th anniversary of the abolition of slavery, at which time an International Slavery Museum—the first museum dedicated to this subject—also opened in Liverpool.27 Giving public recognition to suffering endured by minorities within a country—especially where that suffering was inflicted by the majority or another minority—risks igniting social tensions. In the US, exhibitions such as The West as America (National Museum of American Art, Washington DC, 1991), which highlighted “the displacement of native peoples [and] the suppression of their cultures” (Dubin 2006b, 482), have caused fury among self-labelled “patriots;” and there
la città, elemento che lo fa ritenere in qualche modo marginalizzato nello spazio pubblico. Anche un paese come gli Stati Uniti, che pure si pone all’avanguardia nelle riflessioni museologiche e dove sono stati inaugurati molti, spesso imponenti, musei dedicati all’Olocausto, in particolare dagli anni Ottanta in poi, reagisce con nervosismo assai maggiore quando la discussione si sposta sul suo difficile passato di schiavismo. Il Museo Nazionale della Schiavitù, previsto a Fredericksburg in Virginia come iniziativa privata non supportata da fondi federali, non è ancora stato completato perché non riesce ad attirare sponsor commerciali disposti a schierarsi a favore di questo tema socialmente delicato.22 Il nuovo Museo nazionale della storia e della cultura africana, approvato nell’ambito del complesso dello Smithsonian Institute, copre un’area più vasta nell’ambito della quale un capitolo sulla schiavitù può forse risultare meno spinoso.23 La mancata creazione di un museo dedicato alla schiavitù è tanto più sorprendente a fronte della proliferazione di musei dedicati a un’atrocità—l’Olocausto degli ebrei in Europa, che ha avuto luogo al di fuori degli USA. Pur tenendo conto dei diversi elementi che determinano tale situazione, tra cui il potere politico delle lobby ebraiche negli USA, qualcuno ha ipotizzato che una delle ragioni di questa enfasi sull’Olocausto possa essere proprio il fatto che contribuisce a relativizzare la storia della schiavitù, potenzialmente più dirompente a livello sociale.24 Tornando in Europa, un’emersione pubblica del passato coloniale è avvenuta, tra l’altro in modo limitato, solo di recente nei musei dei paesi che hanno avuto un passato coloniale. In Belgio, ad esempio, il Museo Reale dell’Africa Centrale è da alcuni anni impegnato in un processo di revisione del proprio apparato espositivo al fine di dare spazio alle manifestazioni di terrore e di saccheggio che hanno caratterizzato la storia coloniale belga. È un impegno che Adam Hochschild, tra i fautori con la sua posizione critica sui silenzi del Museo di questo processo, ritiene ancora piuttosto limitato.25 Anche in Olanda dove, secondo James Horton 67
have been threats against the holders of collections of items relating to slavery that might be included in a museum. Yet, not giving public recognition carries its own risks too—both internally and in the eyes of the outside world. Minorities’ resentments may be fuelled by the lack of acknowledgment of wrongs perpetrated, something which has been recognised by the trend for governments to make public apologies. This began in the wake of Second World War and has in many cases been bound up with claims for financial reparation but since the 1990s has become a more globally-widespread public performance.28 The motivations and implications of this move in many parts of the world to acknowledge and publicly display “difficult heritage” are discussed further later in Difficult Heritage. As the brief discussion here indicates, struggles with difficult heritage are widespread, approaches varied, and social, political and economic implications often considerable. Despite the variety of approaches and the fact that any heritage example is singular in the particular mix that informs its realisation and reworking, there are nevertheless many parallels and connections between even disparate parts of the world. While displaying difficult heritage may be prompted by activist groups within a particular nation-state or locality, they are likely acting in awareness of what is done elsewhere, and conduct their campaigns at least partially through concepts and practices—such as, the “politics of recognition,” “commemoration of victims” and “heritage” itself—that have widespread global currency, if not necessarily identical local interpretations.29 More specifically, as Andreas Huyssen has pointed out, local struggles over the public materialization of memory—as memorials or museums—are frequently performed with reference to debates about the Holocaust, which, he suggests, acts as “a powerful prism through which we may look at other instances” (Huyssen 2003, 14). Furthermore, not only are local actions refracted through concepts 68
e Johanna Kardux,26 il ruolo “olandese” nella custodia e nella tratta degli schiavi era talmente in conflitto con lo spirito di identità nazionale da risultare per molto tempo cancellato dalla coscienza pubblica, musei come il Tropenmuseum di Amsterdam sono sempre più orientati a includere negli allestimenti almeno qualche visione critica del colonialismo. In Inghilterra è stato inaugurato a Bristol nel 2002 il British Empire and Commonwealth Museum che non manca di porre attenzione al tema della schiavitù, con uno spazio apposito inaugurato nel 2007 in occasione del duecentesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù, anno in cui è stato inaugurato a Liverpool anche un International Slavery Museum—il primo museo interamente dedicato a questo tema.27 Offrire riconoscimento pubblico alle sofferenze inflitte alle minoranze di un paese—specie laddove quelle sofferenze sono arrecate dalla maggioranza o da un’altra minoranza—può determinare l’innesco di tensioni sociali. Negli USA un’esposizione come The West as America (National Museum of American Art, Washington DC, 1991), che poneva in evidenza “il trasferimento forzato dei popoli nativi [e] la soppressione delle loro culture” (Dubin 2006b, 482), ha scatenato reazioni furiose da parte di sedicenti “patrioti,” mentre i proprietari di collezioni di oggetti relativi alla schiavitù passibili di entrare a far parte di un museo sono stati oggetto di intimidazioni. Ma altrettanto rischioso è il mancato riconoscimento pubblico—sia in ambito interno che agli occhi del mondo esterno. Il non riconoscimento dei torti perpetrati può accendere il risentimento delle minoranze, un elemento che ha influenzato l’abitudine assunta da vari governi di chiedere scusa pubblicamente. Affermatasi dopo la seconda guerra mondiale, tale abitudine è stata in molti casi accompagnata da richieste di risarcimenti finanziari ma a partire dagli anni Novanta ha assunto le dimensioni di una performance pubblica più diffusa a livello globale.28 Le motivazioni e le implicazioni in molte parti del mondo di questa tendenza al riconoscimento e all’esibizione pubblica dell’“eredità
and debates from elsewhere, they are often undertaken in awareness of a potential international—and judgmental—gaze, whether that of tourists or politicians. In dealing with “their heritage,” then, governments and heritage managers of countries or cities enter into imagined or actual negotiations not only with their own populations but often also those of other governments, potential business partners and visitors. Equally, and perhaps increasingly, places may find themselves being interpreted and evaluated—not always as they might wish—in relation to how they present their pasts.
difficile” sono approfondite più avanti in Difficult Heritage. Come indica questa breve disamina, i rapporti con l’eredità difficile sono spesso contrastati, gli approcci di tipo diverso, e le implicazioni sociali, politiche ed economica spesso considerevoli. Malgrado la varietà di approcci e il fatto che ogni esempio di eredità sia un caso a sé nella particolare combinazione che ne informa la realizzazione e la rielaborazione, si osservano comunque svariati paralleli e connessioni tra parti del mondo anche distanti. Anche se l’eredità difficile può essere esposta su iniziativa di gruppi di attivisti nel quadro di una particolare nazione-stato o località, questi molto spesso agiscono nella consapevolezza di ciò che viene fatto altrove, e conducono le loro campagne almeno parzialmente attraverso concetti e pratiche—come la “politica del riconoscimento,” la “commemorazione delle vittime” e lo stesso concetto di “eredità”—che sono diffusamente esercitati a livello globale, anche se non necessariamente con interpretazioni identiche a livello locale.29 Più specificamente, come ha sottolineato Andreas Huyssen, le battaglie locali sulla materializzazione pubblica della memoria—sotto forma di monumenti o musei—sono spesso combattute con riferimento ai dibattiti sull’Olocausto che, a suo modo di vedere, agisce come “un prisma fondamentale attraverso il quale guardare ad altre istanze” (Huyssen 2003, 14). Tra l’altro, oltre a essere filtrate attraverso concetti e dibattiti nati altrove, le azioni locali sono spesso intraprese nella consapevolezza di un potenziale sguardo—e giudizio—internazionale, attribuibile sia a turisti che al mondo politico. Nella gestione della “loro eredità,” quindi, governi e amministratori del patrimonio di paesi e città aprono negoziati immaginati o reali non solo con le loro stesse popolazioni ma spesso anche con quelle di altri governi, potenziali partner d’affari e visitatori. Questi luoghi possono trovarsi, ugualmente e forse sempre di più, interpretati e valutati —non sempre come potrebbero auspicare—in rapporto alla modalità con cui presentano il loro passato. Traduzione italiana: Antonella Bergamin 69
Notes
Note
This text is a part of the introduction of the book “Difficult Heritage” by Sharon Macdonald (Published by Routledge, 2009).
Questo testo fa parte dell’introduzione al libro “Difficult Heritage” di Sharon Macdonald (Routledge, 2009).
1. In using the term “story” I give recognition to the fact that this is, inevitably, a selective and crafted account (Clifford 1997). It is shaped by a narrative drive to explore wider questions and tell about these, rather than to provide a full documentation. Nevertheless, I have striven for empirical accuracy and the account has been constrained by the research findings and a consideration of much more “data” than can be presented here. 2. See, for example, Buruma 2002, 112-35; Yoshida 2006; Duffy 2001 and http://humanum.arts.cuhk. edu.hk/NanjingMassacre/NMGP.html. Note: Nanking is also sometimes spelled Nanjing. 3. The dispute over the display of the Enola Gay at the US National Air and Space Museum is the classical example; see Linenthal and Engelhardt 1996. See Grayling 2006 and Niven 2006a on Dresden; and on a recent dispute at the Canadian War Museum, see Dean F.Oliver “A Museum of History, a History of Remembrance,” Canadian War Museum, 27.03.2007 at www.warmuseum.ca/cwm/media/ bg_history_e.html. 4. And also individuals. Handler 1988; Macdonald 1997; the notion of “expressive individuation” is derived from Taylor 1989. 5. See, for example, Bevan 2006, which includes further examples, such as the obliteration of Serbian heritage, especially the Bridge of Mostar, by Croats. 6. The term ‘memorial entrepreneur’ is from Jordan 2006. 7. In German this distinction between “places of perpetrators” (Orte der Täter) and “places of victims” (Orte der Opfer) is widely used in commentary on the treatment of such sites. 8. See Law 1986 on the notion of “action at a distance.” 9. Macdonald 2005. 10. This is adapted from what Alpers 1991 and Kirshenblatt-Gimblett 1998, 51-4 have called “the museum effect;” see also Macdonald 2006a. 11. Porombka and Schmundt 2006 includes this and other German examples. 12. A focus on “assemblage” entails looking at the heterogeneous elements—material and discursive—involved in constituting a particular entity. Key theorists are Latour (e.g. 2005) and Deleuze and Guattari (e.g. 1987); see also DeLanda (2006), and Collier and Ong (2005), who develop the notion of “global assemblage,” which I discuss in the final chapter of this book. I have discussed assemblage theoris70
1. Nel momento in cui uso il termine “storia”[in inglese “story,” una “storia,” invece di “history,” “la” storia, NdT] riconosco il fatto che questo è, inevitabilmente, un resoconto selettivo e rielaborato (Clifford 1997): più che offrire una documentazione completa, è, cioè, informato da una spinta narrativa che vuole esplorare e approfondire questioni più vaste. Malgrado ciò ho puntato a un’accuratezza empirica e il resoconto risulta vincolato alle risultanze della ricerca e a una considerazione che in questo contesto possono essere presentati molti più “dati.” 2. Si veda, ad esempio, Buruma 2002, 112-35; Yoshida 2006; Duffy 2001 e http://humanum.arts.cuhk.edu. hk/NanjingMassacre/NMGP.html. Nota: in inglese la città può apparire sotto la doppia denominazione di Nanking o Nanjing. 3. Un esempio classico è la discussione sull’opportunità o meno di esibire l’Enola Gay al US National Air and Space Museum; si veda Linenthal e Engelhardt 1996. A proposito di Dresda si vedano Grayling 2006 e Niven 2006a; e su una recente discussione riguardante il Museo di Guerra canadese, si veda Dean F. Oliver “A Museum of History, a History of Remembrance,” Canadian War Museum, 27.03.2007 at www.warmuseum.ca/cwm/media/bg_history_e.html. 4. E anche da individui. Handler 1988; Macdonald 1997; la nozione di “individuazione espressiva” è derivata da Taylor 1989. 5. Si veda, ad esempio, Bevan 2006, che presenta esempi ulteriori, come la cancellazione del patrimonio serbo, in particolare il Ponte di Mostar, da parte dei croati. 6. Il termine “imprenditore della commemorazione” è derivato da Jordan 2006. 7. In tedesco questa distinzione tra “luoghi dei perpetratori” (Orte der Täter) e “luoghi delle vittime” (Orte der Opfer) è utilizzata ampiamente nei commenti sul trattamento di questi siti. 8. Si veda Law 1986 sulla nozione di “azione a distanza.” 9. Macdonald 2005a. 10. Si tratta di un adattamento di quello che Alpers 1991 e Kirshenblatt-Gimblett 1998, 51-4 hanno definito “l’effetto museo;” si veda anche Macdonald 2006a. 11. Porombka e Schmundt 2006 comprende questo e altri esempi tedeschi. 12. Occuparsi di “assemblage” significa considerare gli elementi eterogenei—materiali e discorsivi—coinvolti nella costituzione di una particolare entità. I principali teorici sono Latour (ad esempio 2005) e Deleuze e Guattari (ad esempio 1987); si vedano
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ing, including some of its limitations, in Macdonald forthcoming. Key theorists include Jeismann (e.g. 1985) and Rüsen (e.g. 1990, 2001, 2005). See also Macdonald 2000, Straub 2005 and Berger 1997. See also Crane 2004; Macdonald 2006. Bevan 2006; and on destruction and forgetting more generally see Forty 1999, Küchler 1999. See, for example, Kaschuba 2002; Williams 2007 on the related development of the memorial museum; and Beck-Gernsheim 1999 and Bodemann 2005 on the turn to Jewish culture in Germany. Hughes 2004. Coombes 2003; Dubin 2006a; Karp et al 2006. See the museum’s website: www.terrorhaza.hu/index3.html. Jewish groups have criticized the fact that the building’s earlier use by the Nazis is played down and the fact that some of the Communist interrogators were Jewish is played up. See: www.jewishsf.com/bk020809/i42.shtml. See Sites of Conscience website (which also lists other examples): www.sitesofconscience.org/eng/ gulag.htm. Arditti 1999. Discussed further in Macdonald 2007. For the museum’s official website see: www.usnationalslaverymuseum. See also Dann and Seaton 2001. See the project’s web-site at: http://nmaahc.si.edu/. Novick 1999. Hochschild 1998, 2005. Horton and Kardux 2004. The museums’ official websites are, respectively: www.empiremuseum.co.uk/ and www.internationalslaverymuseum.org.uk/. See Zimmerer 2006, Olick 2005, Nobles 2003, Hayner 2001, Edkins 2003. Cf. Huyssen 2003, Hoelscher 2006, KirshenblattGimblett 1998.
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anche DeLanda (2006), e Collier e Ong (2005), che hanno sviluppato la nozione di “assemblage globale” della quale mi occupo nel capitolo conclusivo di questo libro. Ho analizzato la teorizzazione dell’assemblage, e quindi anche di alcuni dei suoi limiti, in Macdonald di prossima pubblicazione. Tra i principali teorici, Jeismann (ad esempio 1985) e Rüsen (ad esempio 1990, 2001,2005). Si vedano anche Macdonald 2000, Straub 2005 e Berger 1997. Si vedano anche Crane 2004; Macdonald 2006a. Bevan 2006; e sulla distruzione e sull’oblio più in generale, si vedano Forty 1999, Küchler 1999. Si vedano, ad esempio, Kaschuba 2002; Williams 2007 sullo sviluppo correlato del museo commemorativo; e Beck-Gernsheim 1999 e Bodemann 2005 sull’attenzione alla cultura ebraica in Germania. Hughes 2004. Coombes 2003; Dubin 2006a; Karp et al 2006. Si veda il sito web del museo: www.terrorhaza.hu/ index3.html. Alcuni gruppi ebraici hanno criticato la minimizzazione dell’utilizzo dell’edificio da parte dei nazisti e la parallela sovraesposizione del fatto che alcuni degli inquisitori comunisti erano ebrei. Si veda: www.jewishsf.com/bk020809/i42.shtml. Si veda il sito web Sites of Conscience (che elenca anche altri esempi): www.sitesofconscience.org/eng/ gulag.htm. Arditti 1999. Analizzato ulteriormente in Macdonald 2007. Il sito web del museo è: www.usnationalslaverymuseum. Si veda anche Dann e Seaton 2001. Si veda il sito web del progetto: http://nmaahc. si.edu/. Novick 1999. Hochschild 1998, 2005. Horton e Kardux 2004. I siti web ufficiali dei musei sono, rispettivamente: www.empiremuseum.co.uk/ e www.internationalslaverymuseum.org.uk/. Si vedano Zimmerer 2006, Olick 2005, Nobles 2003, Hayner 2001, Edkins 2003. Cf. Huyssen 2003, Hoelscher 2006, KirshenblattGimblett 1998.
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Fernanda De Maio
The green hills of black and white rubble Le Verdi Colline delle Macerie in Bianco e Nero
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When Edmund, the child star of Germania Anno Zero, walks along Voßstrasse to sell faded relics to the American soldiers who are visiting the ruined building of the new Reich Chancellery in the summer of 1948, the area around Potsdamer Platz, though still recognizable, is invaded by debris caused by the destruction of Allied bombing. All shots and tracking shots that Roberto Rossellini filmed around the German capital are packed with these materials: ruins and rubble. Almost forty years later, Cassiel, one of the angels from Der Himmel über Berlin by Wim Wenders, accompanies the elderly poet who is unsuccessfully looking for Potsdamer Platz, and walks across an empty and overgrown lot, crossed only by the notorious wall—whose first lines had been drawn right on this ground—and an elevated road. What happened to the debris and the ruins of Berlin in the forty years that separate the two films? Where is Potsdamer Platz? Could any traces of the lost capital be hidden somewhere? Would it be possible that the pieces and fragments of the ruins might have provided, in spite of themselves, a new face to the current geography of Berlin? These questions and the story of the German mountains of debris, known as Trummerberge, provided the starting point for the research project “Ruins, rubble and debris of the theaters of war: the problems of decontamination and disposal to the configuration of new landscapes,” carried out by the research unit of the IUAV Architecture, Archaeology, landscape: theaters of war. The first results of such research will only be available in a year. Meanwhile, in this short essay I will try to connect the threads of a story—which is already partially known—to explain the architectural interest of the topic. Both the film about the debris in Berlin and the one about its abandoned and empty spaces, despite the time span that divides them, are shot in icy black and white, denouncing the dramatic state of suspension in which the German capital lived for a long
Quando Edmund, il bimbo protagonista di “Germania Anno Zero,” attraversa la Voßstrasse per vendere sbiaditi cimeli ai soldati americani in visita all’edificio in rovina della nuova cancelleria del Reich nell’estate del 1948, i dintorni di Potsdamer Platz, benché ancora riconoscibili, sono invasi dai detriti provocati dalle distruzioni dei bombardamenti alleati; tutte le inquadrature e le carrellate che Roberto Rossellini tramanda della capitale tedesca sono sature di questi materiali: rovine e macerie. Quasi quarant’anni dopo, Cassiel, uno degli angeli de il Cielo sopra Berlino di Wim Wenders, accompagnando l’anziano poeta che cerca, invano, Potsdamer Platz, attraversa un terreno vuoto e incolto su cui scorrono solo il fatidico muro—che proprio qui vide tirata la sua prima linea a terra—e una sopraelevata. Dove sono finiti i detriti e le rovine di Berlino nei quarant’anni che separano i due film? Dove è finita Potsdamer Platz? È possibile che da qualche parte esistano tracce della capitale scomparsa? Che pezzi e frammenti di quelle rovine abbiano fornito, loro malgrado, un volto nuovo alla odierna geografia berlinese? Da queste domande e dalla vicenda delle montagne di detriti tedesche, le cosiddette Trummerberge, prende spunto la ricerca “Rovine, detriti e macerie dei teatri di guerra: dai problemi di decontaminazione e smaltimento alla configurazione di nuovi paesaggi,” in cui da pochi mesi è impegnata l’unità di ricerca dello IUAV Architettura, Archeologia, paesaggi: teatri di guerra. I primi esiti di tale ricerca saranno disponibili solo tra un anno. Intanto, in questo breve saggio si vuole provare a riconnettere i fili di una vicenda, in parte anche nota, per spiegare l’interesse architettonico del tema. Tanto il film delle macerie di Berlino quanto quello dei suoi vuoti abbandonati, nonostante l’intervallo di tempo che li divide, sono girati in un algido bianco e nero che denuncia il drammatico stato di sospensione in cui per tanto tempo ha vissuto la capitale tedesca per il trauma dello smarrimento della 75
time following the trauma of the loss of its forma urbis. Today there is no trace of that austere, tragic and poignant two-colored city, which has been replaced by the new architectures of the greatest architects of the world, who, since the 1950s have reinvented the face of Berlin, and by the green hills beneath which the mountains of debris lie. The hills created from the war rubble are, no doubt, a feature of many German cities and represent, in contemporary story, one of their founding elements, not only metaphorically, but also for the role they play in the cities through a concrete redesigning work of the ground. What elsewhere has been hidden or at least silenced through the work of philological reconstruction of entire neighborhoods or the creation of new urban districts,1 in Germany has generated a specific reference system within the destroyed cities, also out of the reconstruction plans which were developed later. It almost seems that in Monaco, in Nuremberg, Berlin and in the other German cities, reconstruction had to assume the contours of a new landscape, a landscape made of the matter itself of the destroyed city, even before defining lots of the new buildings and monuments of stone, glass, steel, and concrete of the current cities. The mountains of debris are monuments of the city—where martyrs and civilian and military casualties of the Second World War are celebrated—and they are now an amazing tool capable to detect and discover a sort of archaeological layer made of the ruined architecture of the Third Reich. However, before that, they form a proper system of structuring the environment since—except in rare cases where the hill has been used as a dump for all kinds of waste in an uncontrolled manner—almost transformational of them have been turned into public parks with paths, new plantings and small ponds; besides, from an urban point of view, in several cases these hills have become the core around which new settlements have been built. In Munich, for example, one of the 76
In high freeze-frame film “Germania anno zero” (Germany, year zero), directed by Roberto Rossellini, 1948
propria forma urbis. Di quella austera, tragica e struggente bicromia nella città odierna non vi è più traccia, soppiantata dalle nuove architetture dei massimi architetti del mondo, i quali dagli anni cinquanta in poi hanno reinventato il volto di Berlino, e dalle verdi colline sotto cui si celano le montagne di detriti. Le colline fatte con le macerie di guerra sono, senza dubbio, una caratteristica di molte città tedesche e ne rappresentano, nella vicenda contemporanea, uno degli elementi fondativi non solo in senso metaforico ma per il ruolo che svolgono nelle città stesse attraverso una concreta opera di ridisegno del suolo. Ciò che altrove è stato nascosto o quantomeno messo a tacere attraverso l’opera di ricostruzione filologica di interi quartieri o la realizzazione di nuove parti urbane,1 qui ha generato uno specifico sistema di riferimenti all’interno delle città distrutte, anche a prescindere dai piani di ricostruzione messi a punto in seguito. Sembra quasi che a Monaco, a Norimberga, a Berlino e nel resto delle città tedesche, la ricostruzione abbia dovuto trovare i contorni di un nuovo paesaggio, fatto della materia stessa della città distrutta, prima ancora di definire i lotti dei nuovi tessuti edilizi e dei monumenti di pietra vetro acciaio e cemento delle città odierne. Monumenti di città ante litteram—vi si celebrano i martiri e le vittime civili e militari della
In high freeze-frame “Der Himmel über Berlin” (The sky above Berlin), directed by Wim Wenders, 1987
four mountains of rubble, the Olympiaberg, which has been built in the first aviation area of the city, became the focus point around which the great sport neighborhood of the Olympics game was built in 1972. In Stuttgart the forty-meter wide summit of the Birkenkopf hill, with fragments of cornices, columns and capitals which are visible among the grass of the lawn, has become a panoramic terrace to overlook the romantic landscape of the city and the Neckar Valley. In Nuremberg, the Silberbuch mountain and the polluted pond Silbersee rise on the foundations of the Deutsches Stadium, designed by Albert Speer, exploiting the huge reservoir already completed during the war and the fatal theory of the ruins of Speer turns into prophecy owing to its own architecture, which today at times emerges from the undergrowth. Finally, in Berlin, there are now thirteen artificial hills produced through the accumulation of waste material of the war. At first sight the appearance of these hills is the result of an accidental landscape project, made possible thanks to the backbreaking and patient work of women (trummerfrauen) and unemployed people in the capital, who, for more than twenty years, selected, among the rubble of the destroyed city, the bricks and building materials that could be used to build new buildings, from those which could only be taken to a landfill. These thirteen hills have completely transformed the landscape and in some places they have generated an
Seconda Guerra Mondiale—le montagne di detriti sono oggi uno straordinario dispositivo per la scoperta e la messa in scena di una sorta di strato archeologico fatto delle architetture in rovina del Terzo Reich. Ma prima di ciò esse formano un vero e proprio sistema di strutturazione ambientale poiché—tranne in rari casi in cui la collina è stata sfruttata come discarica di ogni genere di rifiuti in modo incontrollato—quasi sempre si assiste a una loro trasformazione in parco pubblico con sentieri, nuove piantumazioni e piccoli stagni; dal punto di vista urbanistico poi queste colline sono divenute in diversi casi il fulcro intorno a cui costruire i nuovi insediamenti. A Monaco di Baviera per esempio, una delle quattro montagne di macerie, la Olympiaberg, sorta sulla prima avio superficie della città, è diventata il rilievo intorno a cui costruire il grande quartiere sportivo delle Olimpiadi del 72. A Stoccarda i quaranta metri sommitali della collina di Birkenkopf, con frammenti di cornici, capitelli e colonne in vista tra l’erba del prato, rappresentano l’affaccio romantico sulla città e sulla valle del Neckar. A Norimberga sulle fondazioni del Deutsches Stadium di Albert Speer sorge la montagna di Silberbuch e lo stagno inquinato Silbersee sfruttando il gigantesco invaso già portato a termine durante la guerra e fatalmente la teoria delle rovine di Speer si tramuta in profezia per la sua stessa architettura che oggi, a tratti, emerge dal sottobosco. A Berlino, infine, esistono da ormai cinquant’anni tredici colline artificiali prodotte dall’accumulo di materiali di scarto bellici. A prima vista il sorgere di queste colline appare frutto di un progetto di paesaggio involontario, realizzato grazie al lavoro massacrante e paziente delle donne (trummerfrauen) e dei disoccupati della capitale, i quali per più di vent’anni selezionarono, tra le macerie della città distrutta, i mattoni e i materiali edili ancora utili nelle nuove costruzioni da quelli non più utilizzabili e quindi da conferire in discarica. Queste tredici colline hanno completamente trasformato in alcuni punti il 77
Hills of debris today; top: the mountain of the bunker Friedrichshain in Berlin; down: the Birkenkopf mountain in Stoccarda
unexpected orography. This is actually a vast planned operation of recycling and landscaping. As early as June 1945, in fact, the Office of Environmental Planning was founded in Berlin, managed by the landscape architect Reinhold Lingner from 1945 to 1950, who introduced within the plan of Hans Scharoun, the concept of landscape in the city. In the immediate post-war time, the German intellectuals who had been entrusted by the occupants of Berlin with the task of organizing the city’s reconstruction had to address various issues; one of the most difficult ones was the need to turn into a valuable operational tool to reconstruct the identity of the German cities destroyed by Allied bombing, the undoubted and widespread landscape sensitivity inherent in German culture from Romanticism onwards, and which under Nazism had assumed the aberrant result of the supremacy of the Aryan race through the Heimat movement and the Blood and 78
piatto paesaggio definendo un’orografia imprevista. Si tratta in realtà di una vasta operazione di riciclo e sistemazione paesaggistica pianificata. Già a partire dal giugno 1945, infatti, fu fondato a Berlino l’ufficio per la pianificazione del verde affidato dal 1945 al 1950 all’architetto paesaggista Reinhold Lingner, il quale introdusse all’interno del piano di Hans Scharoun, il concetto di paesaggio nella città. Tra le questioni più complesse da affrontare nell’immediato dopoguerra per gli intellettuali tedeschi preposti, dagli stessi occupanti di Berlino, a organizzare la ricostruzione, vi era quella di tradurre in strumento operativo valido a ricostruire l’identità delle città tedesche annientate dai bombardamenti alleati, l’indubbia e largamente condivisa sensibilità paesaggistica insita nella cultura tedesca dal romanticismo in poi e che durante il nazismo avevano assunto la deriva aberrante della supremazia della razza ariana attraverso il movimento heimat
Soil ideology. In other words, for Sharoun, Lingner and the collective that flanked them, beyond the mere practical problems related to the cleaning of the rubble and to the physical reconstruction of the city, it was a question of defining the new face of the German capital, starting from a reinterpretation of the positive value of the identity between nature, landscape and the German people. Such a reinterpretation was supposed to overcome issues of power and dominance of the myth of the Germanic race, which had been expressed by Fritz Todt, Alwin Seifert (leaders of the green wing of the Nazi Party) and their colleagues (Paul Schultze Naumburg to Albert Speer, Paul Bonatz etc.) in the projects for the fortifications (the Atlantic Wall, the urban fortifications), for Ordensburg and the highways of the Third Reich, through the link between technological and industrial innovation, the use of elements taken from vernacular tradition and a careful study for the inclusion of new infrastructure systems within the landscape of Germany. The project of the hills of Berlin, thus, is not exempt from this attempt to subvert the negative value that environmental awareness had taken under the Hitler regime; it becomes an instrument of obliteration of the traces of the architecture and urban planning in the Third Reich and, at the same, the strategy to define the new Imago Urbis in some German cities and in the capital in particular. The project was also an immediate practical response to the immense problems posed by the reconstruction works to the military division of Berlin into four sectors. Surely, it would have been more logical to choose huge abandoned sites outside the city as dump zones, such as, for example, old quarries etc., but Berlin’s military division made it difficult to put into practice this solution, and the final decision was to favor central areas with specific geomorphological features that would allow a project of the storage of debris in shape of hills, with no risk of polluting the vast network of rivers and groundwater in Berlin.
e l’ideologia terra e sangue. Si trattava, in altre parole, per Sharoun, Lingner e il collettivo che li affiancava, al di là dei meri problemi pratici di sgombero delle macerie e di ricostruzione fisica della città, di definire il nuovo volto della capitale tedesca a partire appunto da una reinterpretazione positiva del valore identitario tra natura, paesaggio e popolo tedesco, superando gli aspetti di mitizzazione della potenza e predominio della razza germanica che nei progetti per le fortificazioni (dal Muro Atlantico alle fortificazioni urbane), per gli Ordensburg e per le autostrade del Terzo Reich, Fritz Todt, Alwin Seifert (rappresentati dell’ala verde del partito nazista) e i loro colleghi (da Paul Schultze Naumburg ad Albert Speer, Paul Bonatz ecc.) avevano espresso nei progetti attraverso il raccordo tra innovazione tecnologica e industriale, ripresa di elementi desunti dal linguaggio della tradizione dell’architettura anonima e vernacolare e attento studio per l’inserimento dei nuovi sistemi infrastrutturali all’interno del contesto paesaggistico della Germania. Il progetto delle colline di Berlino dunque non si sottrae a questo tentativo di sovvertire il valore negativo che la sensibilità ecologica aveva assunto sotto il regime hitleriano, anzi diventa strumento della obliterazione delle tracce delle architetture e dei piani urbanistici del terzo reich e al contempo strategia per definire la nuova imago urbis di alcune città tedesche e della capitale in modo particolare. Il progetto fu nell’immediato anche una risposta pratica agli immensi problemi che la divisione militare di Berlino occupata in quattro settori, poneva all’opera di ricostruzione. Sicuramente sarebbe stato più logico scegliere come aree per queste immense discariche luoghi abbandonati esterni alla città quali per esempio potevano essere antiche cave ecc., ma proprio la suddivisione militare rendeva difficile praticare questa soluzione, così si scelse di favorire aree centrali purché da un lato le precipue caratteristiche geomorfologiche e dall’altro il progetto dello stoccaggio delle macerie consentisse la conformazione di 79
Therefore, the current location is the result of different options: some of the hills rise in flat agricultural areas and have been turned into public parks after that the transfer to landfill had profoundly changed their profile— as in the case of Volkspak Prenzelauer berg before 1969—called Oderbruchkippe, and of Dorferblick berg, south of the district of Neukölln, whose name immediately recalls a new condition for the look of the adjacent landscape, since from this 86 meters high hill you can enjoy the view of some of the Branderburg villages. Other hills are located inside nineteenth-century public parks and their story has a lot to do with the desire to remove some of the buildings which had been built to represent Hitler’s yearning for power. Some of these hills are also on the border of the notorious wall and bind in a tangible way the transition of Berlin from a city marked by the defeat to its new condition of hostage—this is the case of Rudower hohe and Dorferblick berg—while others are settled in the public parks of the former East Berlin, Humboldthöhe to Humboldthain, Mont Klamott (with the large and the small mountain of bunkers) in the park of Friedrichshain and Prenzlauer Berg. Three other mountains of rubble rise around Tempelhof Airport: Insulaner berg, and Marienhöhe to southwest, Rixdorfer Höhe in the Hansenheide park to northeast. The presence of these hills in some of the very central districts of East Berlin contradicts the assertion according to which these dumps of stone bricks and concrete iron glass can be attributed to the condition of isolation from the territory of Brandenburg, in which West Berlin lived since 1961. At the time of construction of the wall, in fact, each sector of Berlin had already seen the rise of these artificial hills, which is a further indication that this was a deliberate choice dictated by the emergency and that these hills were placed in a context of urban redevelopment aimed to outline a new Imago Urbis made of a different monumentality than the Hitler’s dream translated in Berlin through the 80
colline senza rischio per l’inquinamento della vasta rete fluviale e delle acque sotterranee di Berlino. L’attuale localizzazione quindi è il frutto di diverse opzioni: alcune sorgono in corrispondenza di piatte aree agricole e sono state trasformate in parchi pubblici dopo che la loro destinazione a discarica ne aveva profondamente modificato il profilo— è il caso del Volkspak Prenzelauer berg prima del 1969—denominato Oderbruchkippe, e del Dorferblick berg a sud del quartiere di Neukölln, il cui nome evoca immediatamente una nuova condizione per lo sguardo sul paesaggio limitrofo, poiché da questa collina alta 86 metri è possibile godere del panorama su alcuni villaggi branderburghesi; altre ancora sorgono all’interno di parchi pubblici ottocenteschi e la loro vicenda ha molto a che fare con la volontà di cancellare alcuni degli edifici partoriti dalla volontà di potenza della Germania hitleriana. Alcune di queste colline sorgono poi sul bordo del fatidico muro e legano in modo tangibile il trapasso di Berlino da città segnata dalla sconfitta a città ostaggio—è il caso di Rudower hohe e Dorferblick berg—mentre altre si insediano nei parchi pubblici della ex Berlino est, Humboldthöhe a Humboldthain, Mont Klamott (con la grande e la piccola montagna del bunker) nel parco di Friedrichshain, e la stessa Prenzlauer Berg. Altre tre montagne di detriti sorgono intorno all’aeroporto di Tempelhof: Insulaner berg e Marienhöhe a sud ovest, Rixdorfer höhe a nord est nel parco di Hansenheide. La presenza di tali colline anche nei centralissimi quartieri di Berlino est smentisce l’affermazione per cui queste discariche di pietre mattoni vetro ferro e cemento siano da attribuire alla condizione d’isolamento rispetto al territorio del Brandeburgo in cui visse Berlino ovest dal 1961. All’epoca della edificazione del muro, infatti, ciascun settore di Berlino aveva già visto sorgere questi rilievi artificiali. Segno ulteriore che si trattò di una scelta precisa dettata dalla emergenza e che a parte il caso del Tiergarten—in cui pure fu stoccata nei primi anni
Top: destruction of the bunker in the park of Friedrichshain; down: the mountains of debris covering the remains of the bunker
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First hypothesis of localization of the mountains of debris in relation to the reconstruction plan of Berlin by Hans Scharoun and Reinhold Lingner
megalomaniac plan of its architect. The only exception is the case of Tiergarten—where, in the early years after the war, a large amount of debris was stocked to cover the ruins of the giant bunkers for anti-aircraft artillery, which in 1958 was transferred to other location to allow the passage of the new surface metropolitan line. The new monumentality has an ecological character—with Tobogganing and skiing tracks, cycling and pedestrian paths—and at the same time is able to produce a reflexive sense of intimacy and distance from the recent past. More complex issues revolve around the re-semantization of the landscape which become emblematic, for example as they use ecology as an anti-Nazi key or they attempt to erase the sad memory of the Third Reich architecture, the case of the Trummerbergen in the Friedrichshain and Humboldthain parks and finally the story of Teufelberg in Grünewald, the highest 82
una gran quantità di macerie in corrispondenza del gigantesco bunker per l’artiglieria contraerea, poi dal 1958 trasferite verso gli altri rilievi per consentire il passaggio della nuova linea metropolitana di superficie—essa si collocò in un ambito di riorganizzazione urbana atta a delineare una nuova imago urbis fatta di una diversa monumentalità rispetto al sogno hitleriano per Berlino tradotto nel megalomane piano del suo architetto. Una monumentalità ecologica appunto—con piste per slittini e per lo sci, piste ciclabili e percorsi pedonali—e allo stesso tempo capace di produrre un senso di riflessiva intimità e distanza dallo scottante passato recente. Intorno alla risemantizzazione del paesaggio si agglutinano dunque questioni più complesse e diventano in tal senso emblematici rispetto per esempio ad un uso dell’ecologia in chiave antinazista e al tentativo di cancellare la triste memoria di pietra del terzo reich i casi
and most famous mountain in Berlin. About the first hills, which have been named the big Bunkerberg and small Bunkerberg and Humboldthöhe, it ought to be noted that they rise in the exact point where two out of the six sets of artillery towers and command towers had been built between 1940 and 1942 to defend the city from allied bombing; the third was built in Tiergarten park. These complexes, which were named Flakturm after the name of the guns placed on the roof terraces, were each made of the proper artillery tower, which was 40 meters high and 70x70 feet in size, and a control tower and command post which was located at a 300 meters distance—in order to prevent the smoke of the artillery from obstructing the view—and had the same height but reduced planimetric dimensions, 23x50 meters. As they had been planned as part of a larger system of urban fortifications designed by Hitler with Speer, Todt and Tamms between the 9th and the 20th of September 1940 in order to protect Berlin, Hamburg and Vienna, it was difficult to think up their location within the dense urban fabric. Therefore, the sites were chosen in the major public parks in Berlin, to build a kind of triangulation to defend the area around Potsdamer Platz where the new Chancellery and the ministries were situated, and the height of the towers was established to obviate, on a flat ground, the height of the trees. The first sketch for the architecture of these buildings, which presented a massive square or octagonal shape and vaguely looked like a medieval fortification, was drawn by the Führer and later refined by Albert Speer, while the entire section on technical issues and engineering was entrusted to Friedrich Tamms, the engineer in charge of all bridges and viaducts of the motorways of the Third Reich, by Fritz Todt. Such a defensive urban system was a real counterpart of the Atlantic Wall, and it was more effective for its propaganda purposes rather than for solving strategic problems, and, at the end of the war, the reuse of the
delle Trummerbergen dei parchi di Friedrichshain e Humboldthain e infine la vicenda del Teufelberg, nella Grünewald, la più alta e più nota delle montagne di Berlino. Delle prime, chiamate rispettivamente grosse Bunkerberg e Kleine Bunkerberg e Humboldthöhe vi è da dire che sorgono nel punto esatto in cui furono eretti tra il 1940 e il 1942 due dei sei complessi di torri di artiglieria e comando a difesa dei bombardamenti alleati, il terzo come detto sorse nel parco del Tiergarten. Questi complessi, denominati Flakturm dal nome dei cannoni ivi posti in sommità, erano costituiti ciascuno dalla vera e propria torre di artiglieria alta 40 metri e di dimensioni 70x70 metri e da una torre di controllo e comando posta a 300 metri di distanza—per evitare che il fumo dell’artiglieria impedisse la vista—della medesima altezza ma di dimensioni planimetriche ridotte a 23x50 metri. Previste all’interno di sistema più ampio di fortificazioni urbane progettato da Hitler insieme a Speer, Todt e Tamms tra il 9 e 20 settembre 1940, per proteggere Berlino, Amburgo e Vienna, era difficile ipotizzarne la dislocazione all’interno del denso tessuto edilizio. Pertanto i siti furono scelti all’interno dei grandi parchi pubblici berlinesi, per costruire una sorta di triangolazione a difesa del quartiere intorno a Potsdamer Platz in cui sorgevano appunto la nuova Cancelleria e i Ministeri, e l’altezza delle torri fu stabilita per ovviare, su un suolo allora pianeggiante, all’altezza degli alberi. Lo schizzo iniziale per l’architettura di tali edifici, dalla massiva conformazione quadrata o ottagonale e con un vago carattere da fortificazione medievale, fu di mano del führer e fu poi affinato da Albert Speer mentre tutta la parte relativa alle questioni tecniche ed ingegneristiche fu affidata da Fritz Todt all’ingegnere dei ponti e dei viadotti delle autostrade del Terzo Reich Friedrich Tamms. Vero e proprio contraltare al muro Atlantico anche questo sistema difensivo urbano aveva più scopi propagandistici che di effettiva risoluzione dei problemi strategici e già era 83
Final localization of the Trummerbergen in Berlin from a drawing of the design office chaired by R. Lingner
huge bunkers for civilian purposes such as cultural centers had already been planned, as is clear from the preparation of the compartments for the windows and from some drawings of the elevations. The cutaways of the towers presented six floors. Besides containing deposits of ammunition, the ground floor was used for the air raid shelter of the civilian population, together with the first and second floors; the third and fourth floors were generally employed as hospitals and offices, while the two top floors were reserved exclusively to soldiers. Inside the bunkers, also a large number of works of art were stored, of which over four hundred were later dispersed as a result of the fire that developed in the Friedrichshain tower few days after the entry of the Russians in Berlin. Huge amounts of concrete and steel were 84
previsto, al termine della guerra, il reimpiego degli immensi bunker a fini civili come centri culturali, come documentato dalla predisposizione in facciata dei vani per le finestre e da alcuni disegni dei prospetti. In sezione le torri presentavano sei piani; di questi, il pianterreno oltre a contenere i depositi delle munizioni era con il primo e secondo piano destinato al ricovero antiaereo per la popolazione civile, il terzo e quarto in genere erano occupati da ospedali e uffici mentre gli ultimi due piani erano riservati esclusivamente ai militari. All’interno dei bunker furono conservate anche un gran numero di opere d’arte, di cui oltre quattrocento furono poi disperse a seguito dell’incendio che subì la torre di Friedrichshain pochi giorni dopo l’ingresso dei russi a Berlino. Enormi quantità di calcestruzzo e acciaio
Localization of the Trummerbergen in relation to the river system and to the Berlin Wall.
used in these monolithic architectures and their economic cost reached extremely high figures, even though labour was performed by the prisoners and the deportees from concentration camps, who had been led into slavery. Although immediately after the war they were requested for being used as hospitals and offices, allied commands decided to destroy them, especially the towers of Berlin. Since this solution failed after several attempts (except in the case of the towers of Tiergarten) and proved incredibly expensive, it was decided to cover them and conceal them with debris of the bombed city, thus transforming them into the green hills that we can visit today. However, while the towers of the park Friedrichshain were completely buried, one of the two towers Humboldthain, specifically the artillery tower, was
furono impiegate per queste architetture monolitiche e il costo economico raggiunse cifre altissime sebbene come mano d’opera fossero impiegati i prigionieri e i deportati dei campi di concentramento ridotti in schiavitù. Benché richiestissime immediatamente dopo la guerra per allocarvi ospedali e uffici, i comandi alleati disposero, in particolare per le torri di Berlino, la distruzione. Poiché questa soluzione dopo diversi tentativi fallì (tranne nel caso delle torri del Tiergarten) e si dimostrò incredibilmente onerosa fu deciso di coprirle e occultarle con le macerie della città bombardata, trasformandole perciò nelle verdi colline che oggi visitiamo. Tuttavia mentre le torri del parco Friedrichshain sono state completamente sepolte una delle due torri di Humboldthain, quella munita dell’artiglieria, solo parzialmente distrutta, emerge con la 85
only partially destroyed; it emerges from the northern part of the hill top and has been transformed in recent times into a panoramic terrace. Since the spaces of the bunker inside the hill have been restored, the hill itself becomes the starting point of a walking tour through the underground archaeology of the Second World War and the Cold War, which, among its most significant stopovers, has the dense network of bunkers, tunnels and underground stations which were abandoned in the subsurface of Potsdamer Platz.2 The construction of these two new layers of soil, which have become symbols and open air and hypogean museums of Berlin of the twenty-first century, also concerns the Teufelberg, the hill of hell, which stands on the site where the College of Military Engineering was built. The College was planned by Albert Speer in the project for the University campus, within the larger plan of Berlin, just inside the green forest of the capital. In this case, therefore, the hill includes and submerges the building planned by the maximum architecture theoretician of the 20th century, which had been designed to become a ruin, and a new involuntary monument of the Cold War towers over the city from its 114 meters height. I am referring to the base radar with which the Americans used to spy on the Russians from the western enclave of Berlin between the years 1961 and 1989. It is now a ruined building, but it has become a tourist destination where it is possible to observe the continuous change of this city, which is eventually no longer disputed, and on which the future of Europe continues to rely. The thirteen hills in Berlin are a sort of implicit project where potential landscape features, new architectural forms and semantic and monumental values converge; they concern us not only as a historical document and tourist route with a certain aura, but as an option in the transformation of our cities, starting from what we usually consider as the pars destruens of our task of architects. 86
parte nord di sommità dalla collina ed è stata trasformata in tempi recenti in un belvedere mentre al proprio interno la collina stessa diventa con il recupero degli spazi del bunker l’inizio di una passeggiata turistica attraverso l’archeologia ipogea della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda, che tra le proprie tappe più significative ha la fitta trama di bunker, tunnel e stazioni metropolitane abbandonate nel sottosuolo di Potsdamer Platz.2 Alla costruzione di questi due nuovi strati del suolo, divenuti al contempo simboli e musei en plein air e ipogei della Berlino del XXI secolo, non si sottrae nemmeno il Teufelberg, la collina del diavolo, che sorge sul cantiere giunto all’impalcato del primo piano della facoltà di ingegneria militare prevista da Albert Speer nel piano per la cittadella universitaria, all’interno del più ampio piano di Berlino, proprio all’interno del bosco verde della capitale. In questo caso dunque la collina custodisce e sommerge l’architettura non finita del massimo teorico del novecento dell’architettura progettata per diventare rovina e sopra la collina un nuovo monumento involontario della guerra fredda domina dall’altezza di 114 metri. Si tratta della base radio con radar con la quale gli americani spiavano i russi all’interno dell’enclave occidentale di Berlino ovest tra il 1961 e il 1989; edificio in forma di rovina, anch’esso è divenuto meta per osservare il continuo mutare di questa città finalmente non più contesa da cui continua a dipendere una volta ancora il futuro dell’Europa. Sorta di progetto implicito su cui convergono potenzialità paesaggistiche, nuove forme architettoniche e valori semantici e monumentali, le tredici colline di Berlino ci riguardano non solo come documento storico e itinerario turistico dotato di una certa aura ma come alternativa nella trasformazione delle nostre città a partire da ciò che usualmente consideriamo la pars destruens della nostra attività di architetti.
Notes
Note
1. The only similar Italian project to the Schuttbergen is “Monte Stella” by Italian architect Piero Bottoni, within the QT8 area. 2. http://berliner-unterwelten.de/
1. L’unico corrispettivo italiano delle Schuttbergen tedesche che abbia assurto al valore di vera e propria costruzione architettonica è il Monte Stella di Piero Bottoni all’interno del QT8. 2. http://berliner-unterwelten.de/
References • • • • • •
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Niko Rollmann
Beyond The Gunpowder: Investigating Battlescapes Oltre la Polvere da Sparo: Studiare i Paesaggi di Guerra
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War tourism and the study of military campaigns
Il turismo militare e l’analisi delle campagne militari
Europe’s history is a history of wars. Countless generations were sent into battle. Lives and limbs were lost, cities burnt and cultural treasures destroyed. The survivors were traumatised, whole countries took decades to recover. We marvel at Europe’s cultural and economic achievements. But we can hardly imagine how much has been lost on the battlefield. Some of these wars were so devastating that one can only wonder how Europe recovered at all. Since 1945, there have been—except for the Yugoslavian bloodshed—no more wars in Europe. That is a unique achievement. But while Europe is at peace now, it still has to deal with the heritage of past wars. Battlefields, mass graves, bunkers and war monuments can be found all over Europe. And some of these sites have started to attract a problematic kind of tourism recently: people are coming to “relive” battles, “experience” bunkers and “explore” fortresses. Military tourism is, of course, an old phenomenon. But fundamental changes have occured since the 1990s: the end of the Cold War has resulted in many military facilities being given up across Europe. Local history initiatives often expressed an interest in these sites. At the same time, the tourism industry was hungrily looking for “lost places” as part of the emerging “event culture.” When it comes to the Second World War heritage, a generational shift is also playing a part: while the elder generation would, for example, associate Nazi bunkers with traumatic memories of the war and avoid such sites, younger people are keen to “have a look.” In addition, new digital graphics and animation techniques have transferred the war’s imagery from monochrome pictures into colourful, three-dimensional “experiences,” making the subject more attractive to young people. Another reason is the fact that most academics have for a long time showed little interest in military history—perhaps for
La storia dell’Europa è costellata di guerre. Gli uomini furono mandati a combattere generazione dopo generazione, molti persero la vita, altri rimasero invalidi, le città furono bruciate e i patrimoni culturali distrutti. Coloro che sopravvissero rimasero traumatizzati e occorsero decenni per ricostruire intere nazioni. Ci meravigliamo di fronte alle conquiste culturali ed economiche dell’Europa, ma possiamo a stento immaginare quanto sia andato perduto sui campi di battaglia. Alcune di queste guerre furono così catastrofiche che risulta perfino difficile capire come l’Europa sia stata in grado di riprendersi. Dal 1945 non sono più state combattute guerre in Europa (ad eccezione del massacro in Yugoslavia) e questo può essere considerato un enorme successo. Tuttavia, anche se l’Europa adesso è in pace, deve ancora fare i conti con tutto ciò che le è stato lasciato in eredità dalle guerre passate. In tutto il continente si trovano campi di battaglia, fosse comuni, bunker e monumenti di guerra e recentemente alcuni di questi luoghi hanno cominciato ad attrarre un particolare tipo di turismo: persone che visitano questi luoghi per “rivivere” le battaglie, “provare l’esperienza” del bunker ed “esplorare” le fortezze. Il turismo militare ovviamente è un fenomeno vecchio, anche se, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono avvenuti dei cambiamenti fondamentali: la fine della Guerra Fredda ha comportato lo smantellamento di molte strutture militari in diverse zone dell’Europa. Iniziative storiche locali hanno spesso dimostrato interesse nei confronti di questi luoghi e, allo stesso tempo, l’industria del turismo era all’avida ricerca di “luoghi perduti” che potessero essere parte dell’emergente “cultura degli eventi.” Per quanto riguarda il retaggio della Seconda Guerra Mondiale, bisogna tenere in considerazione anche un cambio generazionale: mentre le generazioni più vecchie, ad 89
political reasons. Especially in countries like Germany, military history is often considered a “dirty” subject. While the attitudes are perhaps not as extreme in other nations, we can safely assume that the study of military sites has been underrepresented in the academic world. This vacuum has allowed militarists, “bunker kissers” and event managers to slip in. To sum it up, the genre of military tourism, traditionally dominated by military historians, war veterans and a few dedicated “enthusiasts,” has become part of the mainstream. The results of these developments are the same all over Europe, whether at the restaging of medieval battles in Poland, at British “Air Shows” or in Nazi bunkers: war has become an exciting, colourful, action-packed spectacle, with hot dogs, beer, music and souvenir shops. It is, of course, a distorted version of war—without the noise, the dirt, the destruction, the hunger, the rats, the carpet bombing, the ethnic cleansing, the panic, the rape and the death. It is the fun version of war. What can be done about this disturbing state of affairs? It is necessary for academics to open up to military history. A first step would be to develop criteria for investigating the relevant sites. It is important to go beyond the battlefield and look at the landscape of war, the battlescape, in its totality. The spatial complexities of armed conflict have often been reduced to battlefields and objects like fortresses or bunkers. Furthermore, most accounts of war often just consist of troop strengths, weapons, tactics and the number of casualties. The study of war has to become three-dimensional, both in terms of its historical legacy and its physical heritage. A systematic investigation of a battlescape could consist of the following elements: a. Historical background b. Description of the battle (including conditions for soldiers and civilians) c. Number of military and civilian casualties d. Local implications (fate of combatants and civilians; atrocities; destruction of towns; environmental impact) e. Wider implications (military, political, 90
esempio, tendono ad associare i bunker nazisti a ricordi traumatici connessi alla guerra e, conseguentemente, a evitare tali siti, le persone più giovani sono più interessate a “dare un’occhiata.” Inoltre, grazie alle nuove grafiche digitali e alle innovative tecniche di animazione, le immagini della guerra sono state trasformate da fotografie in bianco e nero a “esperienze” colorate in tre dimensioni, rendendo il soggetto molto più attraente per i giovani. Un’altra motivazione responsabile della rinascita del turismo militare è costituita dal fatto che la maggior parte degli accademici ha a lungo dimostrato poco interesse nei confronti della storia militare, presumibilmente per ragioni politiche. La storia militare viene considerata un soggetto “sporco,” specialmente in nazioni come la Germania. Nonostante l’atteggiamento non sia estremo come in altri paesi, possiamo comunque presupporre che lo studio dei siti militari sia stato trascurato dalla comunità accademica. Questo vuoto ha permesso ai militaristi, agli appassionati di bunker (“bunker kissers”) e agli organizzatori di eventi di occuparvisi. In breve, il genere del turismo militare, che è sempre stato dominato dagli storici militari, dai veterani di guerra e da pochi “entusiasti,” è diventato parte della tendenza dominante. I risultati di questi cambiamenti sono gli stessi in tutta Europa, siano essi le ricostruzioni delle battaglie medievali in Polonia, o gli spettacoli aerei in Gran Bretagna o quelli nei bunker nazisti: la guerra è diventata uno spettacolo eccitante, colorato e pieno d’azione, da godersi insieme a panini con hot dog, birra, musica e negozi di souvenir. Naturalmente si tratta di una visione distorta della guerra—senza il rumore, la sporcizia, la distruzione, la fame, i ratti, i bombardamenti a tappeto, la pulizia etnica, il panico, gli stupri e la morte. È una versione divertente della guerra. Ma cosa si può fare rispetto a questa spiacevole situazione? È necessario che il mondo dell’accademia si apra alla storia militare. Un primo passo
historical and economic) f. Records and ressources g. Collective memory and political instrumentalisation (symbolism, importance in nation-building and forging of ethnic identities, culture of memory, relevance to the population, development of the discourse) h. Myths i. Impact on current relations between the former protagonists (including joint research projects and other types of cooperation) j. Touristic exploitation k. Open questions l. Moral judgement (a distinction between “right” and “wrong” can sometimes be made) Then there are the physical remains of particular battles or campaigns: fortresses, bunkers, gun positions, trenches, headquarters, command posts and other communication facilities, radar stations and airfields. And, of course, the battlefields, the graves, sites of atrocities, damaged and ruined buildings. The fighting also affects nature, for example by destroying forests and leaving behind shell craters. Subterranean relics are relevant as well: shells, bullets, shrapnel, bones, helmets, guns, all types of equipment and crashed aircraft may be recovered from the ground. Underground bunkers can also provide valuable information. When it comes to the culture of memory, monuments are very important. Not only do they point out certain events but, even more important, they also reveal how these events were interpreted by the ruling elites. Their artistic style provides additional information about the “spirit of the age.” It is important to remember that absence can be just as revealing as presence. Damaged or destroyed buildings are often completely demolished. New rulers topple old monuments. Missing graves also speak for themselves: the corpses left behind by beaten armies often end up in unmarked pits.
potrebbe essere quello di definire dei criteri d’analisi per studiare i siti importanti. È fondamentale andare oltre il campo di battaglia e osservare il paesaggio di guerra nella sua totalità. Le complessità spaziali del conflitto armato spesso sono state ridotte semplicemente ai campi di battaglia e ad oggetti quali le fortezze o i bunker. Inoltre, la maggior parte dei resoconti di guerra spesso narra soltanto della potenza delle truppe, delle armi, delle strategie belliche e del numero delle perdite. Lo studio della guerra, invece, deve diventare tridimensionale, sia in termini del suo retaggio storico che in quelli del suo patrimonio fisico. Un’analisi sistematica del paesaggio di guerra potrebbe essere costituita dai seguenti elementi: a. Background storico b. Descrizione della battaglia (comprese le condizioni dei soldati e dei civili) c. Numero delle perdite militari e civili d. Conseguenze locali (sorte dei combattenti e dei civili; atrocità commesse; città distrutte; impatto sull’ambiente) e. Conseguenze ad ampio raggio (militari, politiche, storiche ed economiche) f. Resoconti e risorse g. Memoria collettiva e strumentalizzazione politica (simbolismo, importanza nella costruzione della nazione e nella formazione delle identità etniche, cultura della memoria, importanza per la popolazione, sviluppo del discorso) h. Miti i. Impatto sulle relazioni attuali tra ex antagonisti (compresi i progetti di ricerca congiunti e altre forme di collaborazione) j. Sfruttamento turistico k. Dubbi l. Giudizio morale (a volte è possibile fare una distinzione tra “giusto” e “sbagliato”) Bisogna poi tenere in considerazione ciò che ancora rimane di determinate battaglie o campagne: fortezze, bunker, postazioni per sparare, trincee, quartieri generali, posti di comando e altre strutture per comunicare, 91
Many European cities still bear the scars of war - the former town centre of K端strin (now Kostrzyn) in Poland (Ph. Niko Rollmann)
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stazioni radar e piste di atterraggio. E, ovviamente, i campi di battaglia, le tombe, i luoghi in cui furono commesse barbarie, edifici danneggiati e rovinati. Inoltre, le battaglie hanno un impatto sulla natura, ad esempio distruggendo le foreste e lasciandosi dietro crateri provocati dalle granate. Anche i reperti sotterranei sono importanti: è possibile recuperare dal terreno granate, proiettili, shrapnel, ossa, elmetti, pistole e qualsiasi tipo di attrezzatura e di velivolo schiantato al suolo. Infine, anche i bunker sotterranei possono fornire informazioni di grande valore. Per quanto riguarda la cultura della memoria, i monumenti sono senz’altro molto importanti. Non soltanto testimoniano determinati eventi, ma, cosa più importante, rivelano il modo in cui tali eventi sono stati interpretati dalle elite governative. Il loro stile artistico fornisce ulteriori informazioni riguardo allo “spirito dell’epoca.” È fondamentale ricordare che l’assenza può rivelare tanto quanto la presenza. Gli edifici danneggiati o distrutti spesso vengono completamente demoliti. I nuovi governanti abbattono i vecchi monumenti. Anche l’assenza di tombe parla da sé: i cadaveri lasciati indietro dagli eserciti sconfitti spesso finivano in fosse non segnalate. Soltanto “l’inventario totale” della guerra può mostrare alle generazioni future gli orrori del conflitto armato. E questo è tanto più importante se si considera il progetto attuale del nostro continente: costruire l’unità dell’Europa. Possiamo imparare ad apprezzare il valore reale della pace solo conoscendo le carneficine delle guerre passate. Lo studio dei paesaggi di guerra costituisce una lezione di storia di enorme valore. Si possono formare nuove amicizie sui vecchi campi di battaglia, minando lo sciovinismo che ancora troppo spesso esiste sotto la superficie. Una miscela di ricerche basate su escursioni e apprendimento sotto forma di seminari in aula potrebbe attirare anche quelle persone che non sono interessate alle forme tradizionali d’istruzione. 93
Only the “total inventory” of war can expose the horrors of armed conflict to future generations. And that is also important when it comes to our continent’s ongoing project: building European unity. We can only learn to appreciate peace’s real value by understanding the carnage of past wars. The study of battlescapes is a valuable history lesson. New friendships can be forged on old battlefields, eroding the chauvinism which too often still exists beneath the surface. A mixture of excursionbased research and seminar-room learning could also attract those people who are not interested in traditional forms of education.
Berlino 1945—il retaggio storico
Berlin 1945—the historical legacy
In senso stretto, la battaglia era già iniziata nell’agosto del 1940, quando le prime bombe caddero su Berlino. Negli anni seguenti, i raid britannici e americani aumentarono costantemente, colpendo molte parti della città. La vera battaglia di Berlino, quella a terra, cominciò nel gennaio del 1945, quando i sovietici lanciarono l’offensiva finale che li avrebbe portati nella capitale tedesca. La Wehrmacht non si era mai ripresa dal disastro di Stalingrado, dall’offensiva fallita a Kursk e dalla perdita del suo Esercito Centrale nel 1944. Era a corto di carburante, in numero nettamente inferiore e non era in grado di rimpiazzare le perdite. Alcune delle ultime armi dei nazisti erano molto sofisticate, come il carro armato “Königstiger” e il cacciareattore Messershmitt 262, ma ormai non c’era più niente da fare. Quando l’offensiva sovietica iniziò il 12 gennaio, le forze naziste avevano ancora il controllo di Varsavia e di quasi tutto il territorio tedesco anteguerra. Entro la fine del mese, i sovietici avevano conquistato la capitale polacca e avevano attraversato il confine. Il fronte obsoleto dell’Ostwall fu penetrato velocemente. La fortezza di Küstrin resistette per due mesi prima di essere presa. L’ostacolo finale era costituito dai Seelower Höhen, a circa 70 chilometri da Berlino, dove le forze naziste si erano rifugiate nelle colline. Qui l’Armata Rossa subì gravi perdite, ma dopo
Let us now turn to an example for the investigation of a battlescape. It is the 1945 battle of Berlin. The Soviet capture of the city spelt the end of Nazi Germany and is one of history’s most significant events. It goes without saying that a comprehensive account of this battlescape would require a monography of its own. The aim here is simply to demonstrate the method. a) Historical background Strictly speaking, the battle had already started in August 1940, when the first bombs fell on Berlin. Over the years, the British and American raids increased steadily and affected large parts of the city. The real battle of Berlin, the one on the ground, started in January 1945, when the Soviets launched the final offensive which would take them to the German capital. The Wehrmacht had never recovered from the Stalingrad fiasco, the failed 1943 offensive at Kursk and the loss of its Central Army Group in 1944. It was desperately short of oil, hopelessly outnumbered and unable to replace its losses. Some of Nazis’ latest weapons were very advanced, like the “Königstiger” tank and the Messerschmitt 262 jet fighter. But it was all too late. When the Soviet offensive started on 12 94
Presentiamo di seguito l’esempio di uno studio di paesaggio di guerra. Si tratta della battaglia di Berlino del 1945. La presa della città da parte dei sovietici segnò la fine della Germania nazista e rappresenta uno degli eventi storici più importanti. È ovvio che un resoconto di questo paesaggio di guerra richiederebbe un’intera monografia. Lo scopo di questo esempio, invece, è semplicemente quello di illustrare un metodo. a) Background storico
January, Nazi forces still held Warsaw and had almost complete control of Germany’s prewar territory. By the end of the month, the Soviets had taken the Polish capital and crossed the German border. The obsolete “Ostwall” bunker line was quickly penetrated. The fortress of Küstrin resisted for two months before it was captured. The final obstacle were the Seelower Höhen, some 70 kilometres away from Berlin, where Nazi forces had dug themselves into the hills. They inflicted heavy losses on the Red Army. But the Soviets still broke through after a few days. By 21 April, they had reached Berlin. b) Description of the battle The battle of Berlin barely lasted a fortnight. The Soviets attacked from two sides and had the city surrounded by 25 April. Only 90,000 Germans were available to stop two and a half million Soviets and Polish support units. They were a ragged bunch of decimated Wehrmacht units, Waffen-SS, sailors, Luftwaffe staff, police units, Hitler Youth and Volkssturm. Fuel, guns, tanks, airplanes and ammunition were short. There were no coherent command structures, no functioning communication system and no capable leadership. Sometimes, the defenders were still able to strike hard: small elite units, experienced in fighting Soviet forces and with a good knowledge of the city’s topography, could launch lethal counter-attacks. But in most cases the German forces quickly crumbled, facing artillery barrages, groundattack aircraft, tanks and heavy assault guns. Berlin surrendered on 2 May. The civilians sheltered in cellars and bunkers. Occasionally, they had to emerge to find food or draw water from roadside pumps. It was there that Soviet shells had a disastrous impact, the shrapnel cutting through the queues at the pumps. The situation for the slave labourers and prisoners of war was more ambiguous. They were usually not allowed into the shelters since Germans had priority.
pochi giorni riuscì ad avanzare e il 21 aprile raggiunse Berlino. b) Descrizione della battaglia La battaglia di Berlino durò a malapena due settimane. I sovietici attaccarono da due lati ed entro il 25 aprile avevano circondato la città. C’erano solo 90,000 tedeschi per fermare due milioni e mezzo tra sovietici e unità di sostegno polacche. Erano un mucchio di disperati che provenivano dalle unità decimate della Wehmacht, delle Waffen-SS, marinai, dalla Luftwaffe, dalla polizia, dalla Gioventù Hitleriana e dalla Volkssturm. Il carburante, le pistole, i carri armati, gli aeroplani e le munizioni scarseggiavano. Non c’erano strutture logistiche di comando, nessun sistema di comunicazione funzionante e nessuna leadership capace. A volte i difensori erano ancora in grado di colpire: alcuni piccoli corpi scelti, esperti nel combattere contro le forze sovietiche e con una buona conoscenza della topografia della città riuscivano a lanciare contrattacchi letali. Ma nella maggior parte dei casi le forze tedesche soccombevano velocemente sotto le raffiche dei mitra, gli attacchi aerei, i carri armati e i pesanti attacchi d’artiglieria. Berlino si arrese il 2 Maggio. I civili si rifugiarono negli scantinati e nei bunker. Di tanto in tanto dovevano uscire in cerca di cibo o per prendere l’acqua dalle pompe ai lati delle strade ed era allora che le granate sovietiche avevano effetti devastanti, con gli shrapnel che venivano lanciati sulla gente in coda alle pompe. La situazione degli schiavi e dei prigionieri di guerra era più ambigua. Non erano ammessi nei rifugi perché i tedeschi avevano la priorità, ma sapevano che presto sarebbero stati liberati. Gli ebrei che si erano nascosti sottoterra cercavano di resistere disperatamente fino a quando il loro incubo non fosse finito (circa 1700 sopravvissero a Berlino). Inoltre c’erano i soldati che avevano già abbandonato l’esercito e si erano dati alla macchia. Gli squadroni della morte delle SS continuarono a cercare questi “disertori” fino alla fine. 95
c) Numero di perdite militari e civili È difficile stabilire quante persone morirono nella battaglia. Presumibilmente i tedeschi persero 10.000 soldati e altrettanti civili. Altre fonti parlano di 50.000 civili, o perfino 100.000. Le perdite di sovietici e polacchi dovrebbero ammontare a 360.000 tra morti, feriti e dispersi. Anthony Beevor riporta 78.291 russi uccisi e 274.184 feriti.Alcuni storici hanno sottolineato che le perdite sovietiche furono molto più numerose del necessario: diversi eserciti furono coinvolti nella battaglia e non sempre venivano coordinati bene. Tutti i generali erano ansiosi di “arrivare per primi,” incitati da Stalin, che voleva che Berlino cadesse entro il 1° maggio, e prima che potessero arrivare gli americani (i quali avevano comunque deciso, per diverse ragioni, di lasciare che fossero i sovietici a conquistare Berlino). The Klosterkirche church ruin (Ph. Niko Rollmann)
d) Conseguenze locali
But they also knew that they would be liberated soon. The Jews who had gone underground were desperate to hold on until their nightmare was finally over (some 1,700 of them survived in Berlin). Then there were the soldiers who had already given up and gone into hiding. The SS murder squads were looking for these “deserters” until the very end.
Per molti berlinesi il vero orrore della guerra cominciò dopo la battaglia. I sovietici avevano sofferto terribilmente a causa dell’invasione nazista, subendo la perdita di più di 25 milioni di persone. Una volta che le loro truppe entrarono in Germania fu “l’ora della vendetta.” Il risultato fu un’orgia di violenza e saccheggi. Vi sono infiniti resoconti di donne vittime di stupri di gruppo, violentate ripetutamente. Le vittime non erano solo giovani donne, ma anche ragazzine e anziane e perfino schiave dell’Europa dell’Est e russe. In totale, un numero di donne compreso tra 95.000 e 130.000 furono stuprate a Berlino, di cui circa 10.000 morirono conseguentemente, principalmente per suicidio.2 I soldati tedeschi sopravvissuti erano spesso maltrattati dai sovietici. Potevano scontare diversi anni nei campi di lavoro in Siberia e molti non sopravvissero in quelle dure condizioni. Gli ultimi prigionieri tornarono in Germania nel 1955. Spesso erano ridotti male e avevano difficoltà a integrarsi in una
c) Number of military and civilian casualties It is difficult to establish how many people died in the battle. The Germans may have lost 10,000 soldiers and a similar number of civilians. Other sources refer to 50,000 dead civilians—or even 100,000. Soviet and Polish casualties may amount to 360,000 dead, wounded and missing. Antony Beevor puts the Russian casualties at 78,291 killed and 274,184 wounded.1 Some historians have pointed out that the Soviet losses were unnecessarily high: several armies were involved in the battle and not always coordinated very 96
well. Each general was eager to “get there first,” pushed on by Stalin who wanted Berlin to fall by 1 May—and before the Americans might arrive (the latter had actually decided, for a number of reasons, to leave the capture of Berlin to the Soviets). d) Local implications For many Berliners, the real horror of war began after the battle. The Soviets had suffered terribly as a result of the Nazi invasion, losing over 25 million people. Once their troops entered Germany, it was “time for revenge.” The result was an orgy of violence and looting. There are countless reports of women being gang raped, being assaulted again and again. The victims were not just young women but also girls or old women—and even Eastern European and Russian slave labourers. Altogether, between 95,000 and 130,000 women were raped in Berlin. About 10,000 died as a result, mainly from suicide.2 The surviving German soldiers were often maltreated by the Soviets. They could expect several years in Siberian labour camps. Many did not survive the harsh conditions there. The last prisoners returned to Germany in 1955. They were often in a bad shape and found it hard to integrate into a society which had shifted from “total war” to “total consumerism.” The fact that they were not always welcome in their old families increased their alienation: the others had learned to cope without them, had started new lives— and did not know what to do with these bitter, prematurely aged men. As for Berlin itself: approximately 20 percent of the buildings had been destroyed or damaged beyond repair.3 Especially the inner city districts had suffered badly, some quarters being almost completely wiped out. Large parts of the infrastructure were damaged or out of action altogether. Visitors to Berlin were shocked by what they saw. But to put it into perspective: most big German cities had suffered just as much—or even more.4
società che era passata dalla “guerra totalitaria” al “consumismo totalitario.” Inoltre, il fatto che non fossero sempre i benvenuti nelle loro vecchi famiglie contribuiva ad aumentare il loro senso di alienazione: gli altri avevano imparato a cavarsela senza di loro, avevano iniziato una nuova vita e non sapevano che cosa fare con questi uomini amareggiati ed invecchiati prematuramente. Per quanto riguarda Berlino stessa, circa il 20% degli edifici erano stati distrutti o danneggiati senza possibilità di restauro.3 In particolare, i distretti più interni della città subirono gravi danni, con alcuni quartieri completamente rasi al suolo. Molte parti dell’infrastruttura furono danneggiate o messe completamente fuori uso. I visitatori di Berlino rimanevano sconvolti da ciò che trovavano, anche se la maggior parte delle grandi città tedesche aveva subito gli stessi danni, se non peggiori.4 e) Conseguenze ad ampio raggio In termini militari, la battaglia di Berlino non ebbe una particolare importanza. Il numero di soldati tedeschi uccisi o catturati fu relativamente limitato in confronto a battaglie come quella di Stalingrado o la perdita dell’esercito Centrale. Tuttavia, il significato politico fu enorme: con la caduta della capitale e la morte di Hitler, il resto del Terzo Reich crollò come un castello di carte. La battaglia non influì particolarmente sulle decisioni degli Alleati riguardo al destino di Berlino una volta terminata la guerra (come la divisione in settori), che in realtà erano già state prese nel 1944. Per quanto riguardava le persone che vivevano ancora lì, i primi anni del dopoguerra furono molto duri per loro. Inoltre, a causa della condizione di città divisa di Berlino, la sua popolazione continuò a diminuire. Berlino Ovest, circondata dal Muro a partire dal 1961, era una città che stava invecchiando, tenuta in vita solo dal flusso di lavoratori migranti e dai sussidi provenienti dalla Germania dell’Ovest. In 97
e) Wider implications Militarily speaking, the battle of Berlin only had a limited significance. The number of German soldiers killed or captured was relatively small in comparison to battles like Stalingrad or the loss of the Central Army Group. But the political meaning was all the bigger: with the fall of the capital and Hitler’s death, the rest of the Third Reich collapsed like a house of cards. The battle did not have a particular effect on the Allies’ decisions concerning post-war Berlin (like the division into sectors)—these had already been made in 1944. As for the people who still lived there: the early post-war years were very hard for them. And because of Berlin’s status as a divided city, its population continued to decline. West Berlin, surrounded by the Wall since 1961, was an ageing city, only kept alive by an influx of migrant workers and West German subsidies. On the whole, though, it was East Berlin which suffered the most enduring after-effects of war. Since the socialist economy didn’t work, the resources for systematically rebuilding the city were never available. East Berlin looked shabby and rundown until the GDR finally collapsed in 1989. f ) Significance in terms of collective memory and political instrumentalisation The battle’s culture of memory has long been “split in two” by the Cold War. Each side had its own interpretation of the events: for the Soviets, it was the story of the final triumph over the fascist invaders, culminating in the capture of the Reichstag; the victory also played an important part in legitimising the regime after the war. The officers’ mess in the Karlshorst district, where the Nazis surrendered in 1945, was turned into a museum and became one of the shrines of East Germany’s political heritage. The rape of women and other atrocities committed by Soviet soldiers were a taboo in official accounts. The fact that Stalin had ignored credible warnings of a German attack 98
generale, tuttavia, era Berlino Est che soffriva gli effetti peggiori del dopoguerra. Visto che l’economia socialista non funzionava, le risorse per ricostruire sistematicamente la città non arrivarono mai. Berlino Est aveva un aspetto dimesso e malridotto fino a quando la Germania dell’Est non collassò nel 1989. f ) Significato in termini di memoria collettiva e strumentalizzazione politica La cultura della memoria della battaglia è stata a lungo “divisa in due” dalla Guerra Fredda. Ognuna delle due parti aveva una sua versione degli eventi: per i sovietici, era la storia del trionfo finale sugli invasori fascisti, che era culminata con la presa del Palazzo del Reichstag. Inoltre, la vittoria svolse un ruolo molto importante nel processo di legittimazione del regime dopo la guerra. La sala mensa degli ufficiali nel distretto Karlshort, dove i nazisti si arresero nel 1945, fu trasformata in un museo e divenne uno dei reliquari del patrimonio politico della Germania dell’Est. Gli stupri e le altre atrocità commesse dai soldati sovietici furono un argomento tabù nei resoconti ufficiali. Anche il fatto che Stalin avesse ignorato avvertimenti da fonti attendibili riguardo a un attacco tedesco non è mai stato riscontrato nei libri di storia e la stessa cosa vale per le epurazioni che avevano indebolito malamente l’Armata Rossa prima della guerra. Nella Germania dell’Ovest si nota una situazione opposta. Le barbarie commesse dai sovietici erano spesso riportate nei racconti della battaglia, venendo talvolta strumentalizzate a favore della propaganda della Guerra Fredda. Tuttavia, i raid aerei britannici e americani su Berlino non erano quasi menzionati. La maggior parte dei tedeschi dell’Ovest sapeva che avevano avuto molta fortuna a fare parte dell’alleanza occidentale dopo la guerra e non volevano offendere i loro nuovi amici. Inoltre, ricordavano che le autorità occidentali avevano aiutato Berlino a tirare avanti durante l’embargo sovietico del 1948/49. Fu solo dopo il collasso del comunismo e la successiva
riunificazione delle due Germanie che un racconto più bilanciato sostituì la “memoria divisa.” Attualmente, la battaglia risulta essere più interessante per i turisti e gli storici che non per i berlinesi. Gli abitanti della città che dimostrano interesse nei confronti della storia tendono a concentrarsi sul regime terroristico nazista e sulle sue vittime piuttosto che sui combattimenti. L’ente principale che si occupa della battaglia di Berlino, il museo Karlshorst (vedi sopra), oggi si chiama “Museo tedescorusso” e testimonia le terribili sofferenze patite dai sovietici a seguito dell’invasione dell’ “Operazione Barbarossa.” E la maggior parte delle pubblicazioni sottolinea il fatto che Berlino sia stata il punto di partenza degli orrori che furono compiuti in Europa dopo il 1939. Nel 1945, il terrore e la distruzione tornarono a Berlino.5 g) Miti
War-damaged sculpture at the Martin Gropius building (Ph. Niko Rollmann)
also never found its way into the history books. The same went for the purges which had badly weakened the Red Army before the war. In West Germany, things were the other way round. The Soviet atrocities were often referred to in accounts of the battle, sometimes being instrumentalised for Cold War propaganda. At the same time, the British and American bombing raids on Berlin were hardly mentioned at all. Most West Germans knew that they had been very lucky to become part of the western alliance after the war—and did not want to offend their new friends. Furthermore, they remembered that the western powers had kept West Berlin going during the Soviet blockade of 1948/49. It was only after the collapse of communism and the following reunification that the “split memory” was replaced by a more balanced narrative. Nowadays, the battle is more interesting
La battaglia di Berlino ha dato origine a diversi miti che sono spesso stati riproposti nei racconti popolari: La battaglia a volte viene paragonata a battaglie “titaniche” come quelle di Stalingrado e Midway, ma in realtà si trattò semplicemente di un’operazione di rastrellamento (anche se di grande significato simbolico). L’esito della battaglia era evidente prima ancora che questa cominciasse: la maggioranza dei soldati tedeschi sapeva che la guerra era ormai giunta alla fine ed era restia a morire per una causa persa e molti di loro optarono per disertare. Anche i soldati sovietici sapevano che i combattimenti sarebbero terminati entro breve tempo e non erano disposti a rischiare le loro vite più di quanto non fosse necessario. Probabilmente le uniche persone che lottarono assiduamente furono i nazisti irriducibili, come i membri delle SS: erano responsabili di innumerevoli morti e temevano di subire rappresaglie. La stessa cosa valeva per i volontari delle Waffen-SS straniere che avevano anche meno da perdere: non solo facevano parte delle SS, ma erano anche collaborazionisti! 99
for tourists and historians than for Berlin’s citizens. Locals interested in history tend to focus on the Nazis’ terror regime and its victims rather than the fighting. The main institution dealing with the battle of Berlin, the Karlshorst museum (see above), is nowadays called the “German-Russian-Museum” and points out the immense suffering of the Soviets in the wake of the “Operation Barbarossa” invasion. And most of the relevant publications emphasize that Berlin was the starting point for the horrors which swept across Europe after 1939. In 1945, terror and destruction simply returned to Berlin.5 g) Myths The battle of Berlin has produced several myths which are often being regurgitated in popular accounts: The battle is sometimes being compared to “titanic” battles like Stalingrad or Midway. But it was essentially only a mopping-up operation (albeit one of great symbolical importance). The outcome of the battle was clear before it had started; most German soldiers knew that the war was almost over and were reluctant to die for a lost cause. Many chose to desert. The Soviet soldiers also knew that the fighting would end soon and were unwilling to risk their lives more than they had to. Perhaps the only people who fought fanatically were hardcore Nazis, like the SS. They had much blood on their hands and feared retribution. That also went for the foreign Waffen— SS volunteers who stood even less to lose: not only were they SS—but also collaborators! The storming of the Reichstag parliament building is often seen as the heroic climax of the battle. The (staged) photo of the soldier hoisting the Soviet flag there is one of the war’s iconic images. However, the Reichstag did not have a significant political function anymore after 1933, power had shifted to the Chancellery. The final acts of Hitler’s “career” were played out in its Führerbunker shelter, not in the Reichstag. 100
L’assalto al palazzo del parlamento del Reichstag è spesso considerato l’apice eroico della battaglia. La foto (in posa) del soldato che vi issa la bandiera sovietica è una delle immagini simbolo della guerra. Tuttavia, era dal 1933 che il Reichstag non svolgeva più una funzione politica significativa, ovvero dal momento in cui il potere era passato nelle mani della Cancelleria. Gli atti finali della “carriera” di Hitler ebbero luogo nel suo rifugio, il Führerbunker, e non nel Reichstag. Grande attenzione è stata rivolta agli eventi che ebbero luogo all’interno del Führerbunker, quasi come se “il crepuscolo degli dei” di Wagner si fosse svolto lì. Tuttavia, questi furono caratterizzati più dalla banalità che dal dramma: gli spazi erano angusti, umidi, maleodoranti e lontani dalla realtà che si stava vivendo al di fuori del rifugio. E mentre Hitler e alcuni dei dirigenti nazisti si uccisero, altri cercarono semplicemente di fuggire […] o si ubriacarono. Inoltre, il bunker non fu, come si potrebbe pensare, assaltato dall’Armata Rossa: quando arrivarono le soldatesse sovietiche, infatti, era già quasi completamente vuoto. Infine, il dilemma riguardo a cosa ne fosse stato del corpo di Hitler è stato da tempo risolto: fu bruciato nel cratere di una granata dopo il suo suicidio. Si è a lungo dibattuto riguardo all’allagamento del tunnel della ferrovia della S-Bahn il 2 maggio 1945. Molte persone avevano cercato rifugio lì dentro quando il soffitto fu fatto esplodere sotto il canale del Landwehrkanal, probabilmente dalle SS. Le motivazioni dietro questa operazione non sono ancora chiare. L’esplosione provocò l’inondazione della struttura e delle gallerie della metropolitana adiacenti. Una volta finita la guerra, si credeva che circa 1000 persone vi fossero annegate. Oggi, la maggior parte degli storici ritiene che le perdite furono circa 100. Infatti, il tunnel è lungo diversi chilometri, per cui il livello dell’acqua si alzò lentamente, permettendo alla maggior parte delle persone di fuggire. Il ritrovamento di un numero molto elevato di cadaveri dopo la fine della guerra può essere spiegato con il
The Soviet war memorial in the Tiergarten district (Ph. Niko Rollmann)
The events in the Führerbunker have attracted much attention—as if a Wagnerian “Götterdämmerung” had taken place there. But the main theme was banality rather than drama: conditions in the bunker were cramped, wet, smelly and detached from the reality outside. And while Hitler and some leading Nazis killed themselves, others simply tried to make their escape—or got drunk. And the bunker was not, as one might think, stormed by the Red Army: when female Soviet soldiers arrived there, it was almost empty. Finally, the question of what happened to Hitler’s body has long been answered. It was burnt in a shellhole after his suicide. Much has been made of the flooding of the S-Bahn railway tunnel on 2 May, 1945. A lot of people had sought refuge there when its ceiling was blown up under the Landwehrkanal waterway, possibly by the SS. The rea-
fatto che il tunnel era stato usato provvisoriamente come ospedale e probabilmente conteneva già molti corpi prima dell’allagamento. h) Impatto sui rapporti attuali tra ex antagonisti Le terribili conseguenze dell’invasione nazista continueranno a fare parte della memoria collettiva dell’ex Unione Sovietica per molto tempo. Analogamente, la vittoria del 1945, simbolizzata dalla presa di Berlino, costituisce una delle poche immagini positive di nazionalismo russo che ritroviamo ancora oggi. Ciò vale pure—anche se in misura minore—per gli altri ex paesi dell’Unione Sovietica: in Uzbekistan e in Turkmenistan vi sono monumenti dedicati alla guerra dell’era sovietica in buone condizioni. In uno di questi ho perfino assistito a una festa nuziale. È comunque difficile stabilire quanto il 101
sons for this action are still not clear. The blast led to a flooding of the structure and adjoining metro tunnels. After the war, it was widely believed that about 1,000 people had drowned. Nowadays, most historians agree that there were only some 100 fatalities. Since the tunnel is several kilometres long, the water would only have risen slowly, allowing most people to escape. The large number of bodies found after the war can be explained by the fact that the tunnel had been used as a provisional hospital and would already have contained many bodies before the flooding. h) Impact on current relations between the former antagonists The disastrous consequences of the Nazi invasion will remain part of the former Soviet Union’s collective memory for a long time. At the same time, the 1945 victory, symbolised by the capture of Berlin, is one of the few positive images of nationhood Russians still have nowadays. This also goes, though perhaps to a lesser degree, for the other former Soviet states: the author recently visited Uzbekistan and Turkmenistan and found the Soviet-era monuments dedicated to the war in good shape there; one of them was even visited by a wedding party as he came across it. How much the memory of the Nazi invasion still influences the attitude of the peoples of the former Soviet Union towards Germany, is difficult to determine. Germany’s public is aware of the devastating impact the Nazi invasion had on the Soviet Union. The recent 70th anniversary of Operation Barbarossa received extensive coverage in the media—with many references to Nazi atrocities. The battle of Berlin tends to be seen as a direct consequence of that invasion. The fact that the rape of German women by Soviet soldiers still seems to be a taboo in Russia, though, has sometimes raised eyebrows in Germany. On the whole, it is difficult to determine how the public attitudes towards Russia are influenced by the events of 1945. East Germans who directly 102
ricordo dell’invasione nazista influenzi ancora l’atteggiamento dei popoli dell’ex Unione Sovietica nei confronti della Germania. La popolazione tedesca è consapevole dell’impatto devastante che l’invasione nazista ebbe sull’Unione Sovietica. Il recente 70° anniversario dell’Operazione Barbarossa ha ricevuto molta copertura mediatica, con molti riferimenti alle barbarie naziste. La battaglia di Berlino tende a essere considerata la diretta conseguenza di tale invasione. Tuttavia, il fatto che gli stupri di donne tedesche da parte di soldati sovietici sembri essere ancora adesso un argomento tabù in Russia ha talvolta suscitato disappunto in Germania. In generale, è difficile capire come gli atteggiamenti della gente nei confronti della Russia siano influenzati dai fatti del 1945. I tedeschi dell’est, che subirono direttamente i comportamenti dell’Armata Rossa che avanzava, sembrano avere un’opinione della Russia più negativa rispetto ai tedeschi dell’ovest. i) Sfruttamento turistico I turisti tedeschi che visitano Berlino non sembrano essere molto interessati alla battaglia in sé e si concentrano invece soprattutto sui luoghi della repressione nazista e sui monumenti per le vittime del nazismo. Al contrario, i turisti provenienti dai paesi anglofoni spesso dimostrano interesse nei confronti della battaglia stessa. Diverse agenzie turistiche propongono escursioni connesse con la battaglia o la includono nei “Giri del Terzo Reich.” Circa cinque operatori offrono anche gite ai bunker della Seconda Guerra Mondiale. Tra questi, alcuni sono senz’altro di alto livello, mentre altri tendono ad affrontare l’argomento in modo sensazionalistico, fornendo poche informazioni generali e distorcendo il contesto storico. Ciò vale specialmente per il “turismo dell’orrore” al Führerbunker, dove a volte si possono individuare fino a quattro o cinque gruppi (anche se in effetti non c’è niente da vedere lì, considerando che i resti del bunker sotterraneo non sono visitabili).
experienced the conduct of the advancing Red Army seem to have a more negative attitude towards Russia than West Germans. i) Touristic exploitation While German visitors to Berlin are not too concerned with the battle (mainly focusing on sites of Nazi repression and monuments for Nazi terror victims), it is often of interest to tourists from English-speaking countries. Several companies offer guided tours dealing with the battle or include it in their “Third Reich Tours.” About five operators also offer tours through Second World War bunkers. While some of them maintain a high standard, others tend to approach the subject in a sensationalist way, providing little background information and distorting the historical context. That especially goes for the “horror tourism” around the Führerbunker. Up to four or five groups can sometimes be spotted at the site (although there is nothing to see there—the remains of the subterranean bunker are inaccessible). j) Open questions The biggest mysteries, the ones concerning Hitler’s body and the fate of his private secretary Martin Bormann (see below), have basically been solved. One remaining question is what happened to the Gestapo chief Heinrich Müller in 1945. He was last seen in Berlin on 1 May and subsequently went missing. It has been speculated that he went underground or was recruited by the secret service of another country. k) Moral judgement The battle of Berlin was a direct consequence of the 1941 attack on the Soviet Union, launched by a regime which was supported by a majority of Germans. The destruction which had come from Berlin returned to Berlin in 1945. But the city was also a centre of antiNazi resistance, not all Berliners who went
j) Dubbi I misteri più grandi—quelli che riguardano il corpo di Hitler e del suo segretario personale Martin Bormann (vedi oltre)—sono stati sostanzialmente risolti. Rimane ancora la questione riguardo a cosa sia successo al capo della Gestapo Heinrich Müller nel 1945. Fu visto per l’ultima volta a Berlino il 1° maggio, dopodiché risulta scomparso. Si pensa che si sia dato alla clandestinità oppure che sia stato reclutato dai servizi segreti di un altro paese. k) Giudizio morale La battaglia di Berlino fu una diretta conseguenza dell’attacco del 1941 all’Unione Sovietica, lanciato da un regime che era sostenuto dalla maggioranza dei tedeschi. La distruzione che era stata causata da Berlino tornò indietro a Berlino nel 1945. Ma la città era anche un centro di resistenza anti-nazista e non tutti i berlinesi che subirono la devastazione del 1945 erano responsabili di quanto accaduto anni prima. Ciò valeva anche per le donne violentate dai soldati sovietici. Il comportamento di questi uomini potrebbe essere spiegato dalle atrocità che avevano subito in seguito all’invasione tedesca, ma forse i loro ufficiali avrebbero potuto fare qualcosa di più per impedire gli stupri. La battaglia di Berlino fu un epilogo orribile di una storia orribile che era iniziata nel 1933. Berlino 1945—tracce fisiche Spesso non è possibile stabilire se le tracce della guerra sono conseguenza dei raid aerei commessi prima della battaglia di Berlino, oppure di quelli svolti durante la battaglia, o dei combattimenti a terra. Per questo motivo, l’elenco che segue include ogni traccia fisica della guerra visibile in città. a) Rovine In città si trovano diverse “rovine conservate” dove i danni provocati dalla guerra sono stati 103
through the 1945 mayhem were to blame for what had happened before. That also went for the women raped by Soviet soldiers. The behaviour of these men may be explained by the horrors they had experienced as a result of the German invasion—but perhaps their officers could have done more to stop the rapes. The battle of Berlin was an ugly end to an ugly story which had started in 1933. Berlin 1945—the physical remains It is often not possible to determine whether traces of the war are a result of air raids before the battle of Berlin, air raids during the battle or the fighting on the ground. For that reason, the following list includes all traces of war. a) Ruins There are several “conserved ruins” where heavy war damage has been preserved: the Gedächtniskirche church, the Anhalter Bahnhof station, the Neues Museum, the synagogue in the Oranienburger Strasse, the St. Michael church and the Klosterkirche church. Traces of the war have also been conserved in the Bundesrat building. Another example is a large building in the central Charlottenstrasse where a considerable section of the structure was missing due to the impact of war. The gap has been closed recently, but in a different style—so that an architectural “break” remains. A special case is the Kaisersaal dining hall inside the wrecked “Grandhotel Esplanade” hotel at the Potsdamer Platz. When the area was rebuilt in the 1990s, the Kaisersaal was cut out of the building and moved some 75 metres before being integrated into new architecture. Parts of another section of the Esplanade were dismantled and also integrated into a new structure while a remaining section of the front remains at its original location. There are a few “temporary ruins” left, like the Parochialkirche church, the former “Tacheles” culture centre and the former Schneider brewery at the Greifswalder Strasse.
volutamente preservati: la chiesa di Gedächtniskirche, la stazione Anhalter Bahnhof, il Neues Museum, la sinagoga in Oranienburger Strasse, la chiesa di San Michael e la chiesa di Klosterkirche. Tracce della guerra sono state conservate anche nell’edificio del Bundesrat. Altro esempio è rappresentato da un grande edificio nella via centrale Charlottenstrasse, dove mancava una parte considerevole della struttura, distrutta durante la guerra. La parte mancante è stata recentemente ricostruita, ma con uno stile diverso, in modo da lasciare una “rottura” architettonica. Un caso speciale è rappresentato dal salone da pranzo del Kaisersaal all’interno delle macerie del “Grandhotel Esplanade” a Potsdamer Platz. Quando quella zona è stata ricostruita negli anni Novanta, il Kaisersaal è stato isolato dal resto dell’edificio e spostato di 75 metri prima di essere integrato nella nuova architettura. Anche altre parti di un’altra sezione dell’Esplanade sono state smantellate ed integrate in una nuova struttura, mentre una sezione della facciata frontale è stata lasciata nella sua ubicazione originale. Sono rimaste poche “rovine temporanee,” tra le quali l’ex Ministero del Traffico, la chiesa di Parochialkirche, il centro culturale “Tacheles” e l’ex birrificio Schneider a Greifswalder Strasse. Queste strutture probabilmente saranno demolite oppure completamente restaurate nei prossimi anni. b) Edifici con fori di proiettili e segni di shrapnel È difficile determinare il numero esatto di edifici con fori di proiettili o danni causati da shrapnel. Alcuni hanno solo dei lievi segni, spesso visibili a malapena, mentre altri sono crivellati di buchi. Sono stati contati circa 30 edifici con segni chiaramente visibili. Tra questi, il Pergamon Museum, le colonne vicino alla Old National Gallery e l’edificio del Martin Gropius. La chiesa di Sophienkirche e un edificio in Sigismundstrasse costituiscono due casi speciali, in quanto i danni sono stati “evidenziati.” Danneggiamenti più leggeri sono stati conservati anche in Oderberger Strasse e
b) Buildings with bullet holes and shrapnel marks It is difficult to establish the number of buildings with bullet holes or shrapnel damage. Some of them only have a few small marks, often barely visible, while others are “peppered” with holes. The author has counted approximately 30 buildings with clearly visible marks. They include the Pergamon Museum, the columns near the Old National Gallery and the Martin Gropius building. The Sophienkirche church and a building in the Sigismundstrasse are special cases because the damage has been “highlighted” there. Lighter war damage has also been conserved in the Oderberger Strasse and at the former Schneider brewery (see above). c) Bunkers and other shelters Two of the three massive “Flakbunker” still exist. They served as air raid shelters and platforms for anti-aircraft guns. These guns were also used against Soviet troops in 1945. After the war, the Flakbunker at the Bahnhof Zoo was demolished while the other two were partially covered with rubble. Many other air raid shelters still exist in Berlin: a rough estimate would amount to some 50 bunkers and about 30 other large subterranean spaces (like brewery vaults, disused tunnels and cellars of public buildings). Four subterranean bunkers between the Potsdamer Platz and the Brandenburger Tor are of particular relevance. The area was part of the Berlin Wall’s prohibited zone before 1989. In the 1990s, the bunkers were “rediscovered”—the Führerbunker, the “Fahrerbunker” for his escort, a bunker of the Chancellery and Goebbels’s private bunker. There was a long debate about the future of these sites. Finally, they were sealed. Goebbels’s bunker and the Fahrerbunker were placed under protection in 2006. One particular bunker under the Tempelhof airport’s main building is also note-
nell’ex birrificio Schneider (vedi sopra). c) Bunker e altri rifugi Due dei tre enormi “Flakbunker” esistono ancora. Svolgevano la funzione di rifugi anti raid aerei e di piattaforme per le armi delle contraeree, che furono usate anche contro le truppe sovietiche nel 1945. Dopo la fine della guerra, il Flakbunker al Bahnhof Zoo fu demolito, mentre gli altri due furono parzialmente ricoperti di detriti. A Berlino esistono ancora molti altri rifugi antiaerei: una stima approssimativa ammonta a circa 50 bunker e circa 30 altri grandi spazi sotterranei (come cantine dei birrifici, gallerie in disuso e scantinati di edifici pubblici). Quattro bunker sotterranei situati tra Potsdamer Platz e il Brandenburger Tor sono particolarmente importanti. Quell’area faceva parte della zona proibita del Muro di Berlino prima del 1989 e i bunker sono stati “riscoperti” negli anni Novanta. Si tratta del Führerbunker, del “Fahrerbunker” per la scorta di Hitler, di un bunker per il Cancelliere e del bunker privato di Goebbels. Si è dibattuto a lungo riguardo al futuro di questi siti e alla fine si è deciso che sarebbero stati sigillati. Il bunker di Goebbels e il Fahrerbunker sono stati dichiarati luoghi protetti nel 2006. Anche un bunker situato sotto l’edificio principale dell’aeroporto di Tempelhof è particolarmente degno di nota. Pare che le fotografie scattate dagli aerei di ricognizione fossero conservate lì dentro. I sovietici usarono dell’esplosivo per penetrare all’interno nel 1945 e nell’esplosione s’incendiò tutto ciò che vi era dentro. Il calore fu così intenso che fece crollare pezzi di cemento dalle pareti. Oggi questo bunker annerito costituisce una grande attrazione per i gruppi di turisti che vengono condotti attraverso l’ex aeroporto. Gli scantinati dei palazzi residenziali erano spesso usati come rifugi improvvisati contro i raid aerei. La gente si rifugiò lì dentro anche durante i combattimenti del 1945. A volte
le cantine erano collegate a quelle delle case vicine, al fine di fornire delle vie di fuga. In alternativa, i muri venivano preparati in alcuni punti per permettere uno “sfondamento” veloce in caso di pericolo. A volte queste modifiche sono ancora visibili. Anche le colonne di sostegno aggiuntive, i muri rinforzati, le porte di metallo, le iscrizioni e la pittura fosforescente sulle pareti sono indice del loro utilizzo come rifugi antiaerei. Plaque for two German deserters murdered by the SS during the battle (Friedrichstrasse station) (Ph. Niko Rollmann)
worthy. Apparently, the pictures taken by reconnaissance aircraft were kept there. The Soviets used explosives in 1945 to gain access to the bunker. The detonation set its contents on fire and the developing heat was so intense that pieces of concrete split off the walls. The blackened bunker is a great attraction for the tour groups being led through the closed airport nowadays. Cellars of residential buildings were often used as improvised air raid shelters. People also hid there during the fighting in 1945. The cellars were sometimes connected to the cellars of neighbouring houses in order to provide escape routes. Alternatively, the walls were prepared at particular points in order to enable a quick “breakthrough” in case of danger. These modifications are sometimes still visible. Extra support columns, strengthened walls, metal doors, inscriptions and flourescent paint on the walls also indicate a former use as air raid shelters. d) Sites of terror The Nazi terror agencies like the SS, the Gestapo, the Sicherheitsdienst and the Reichssicherheitshauptamt had their headquarters at the former Prinz-Albrecht-Strasse (nowadays Niederkirchnerstrasse). During the war, the buildings were damaged to various degrees. Their remains were subsequently 106
d) Luoghi del terrore Le unità e i servizi nazisti come le SS, la Gestapo, il Sicherheitsdienst e il Reichssicherheitshauptamt avevano i loro quartieri generali nell’ex via Prinz-Albrecht-Strasse (che oggi si chiama Niederkirchnerstrasse). Durante la guerra, questi palazzi furono danneggiati in varia misura. Le loro rovine furono in seguito demolite e la zona fu “dimenticata.” Grazie all’impegno di alcune iniziative civili, quell’area ha ritrovato un posto nella coscienza collettiva negli anni Ottanta e oggi la mostra permanente della “Topografia del Terrore” ivi locata documenta il sistema del terrore nazista. Nella parte occidentale di Berlino si possono trovare due luoghi connessi alla battaglia: il complesso Olimpico e, a fianco, la collina di Murellenberg. Nel 1945, i soldati della Gioventù Hitleriana venivano allenati frettolosamente sui campi sportivi prima di essere mandati in battaglia (dove subivano pesanti perdite). Inoltre, il Murellenberg fu usato come luogo per le esecuzioni, in cui circa 230 disertori furono fucilati tra l’agosto 1944 e l’aprile 1945. Un “percorso in memoria” racconta la loro storia. Un altro luogo importante è rappresentato dall’ex parco esibizioni vicino alla stazione Hauptbahnhof. Albrecht Haushofer e altri oppositori del regime nazista furono uccisi lì il 23 aprile 1945. Nel 1972, non lontano da questo luogo, fu risolto un altro grande mistero quando i resti del segretario di Hitler, Martin Bormann, furono rinvenuti. Bormann
demolished and the area was “forgotten about.” Due to the engagement of civil initiatives, the territory found its way back into the public’s consciousness in the 1980s. Nowadays, the “Topography of Terror” exhibition documents the Nazi terror system there. Two sites with a connection to the battle can be found in the far west of Berlin: the Olympic complex and the Murellenberg hill next to it. In 1945, Hitler Youth soldiers were hastily trained on the sports ground before being rushed into battle (where they suffered heavy losses). And the Murellenberg was used as an execution site where about 230 deserters were shot between August 1944 and April 1945. A “memorial path” tells their story. Another relevant site is the former “ULAP” exhibition park near the Haupt-bahnhof station. Albrecht Haushofer and other opponents of the Nazi regime were murdered there on 23 April, 1945. Not far from this spot, a great mistery was solved in 1972 when the remains of Hitler’s secretary Martin Bormann were found. Bormann had tried to make his escape in 1945, together with Hitler’s surgeon Stumpfegger. They did not get far and committed suicide (perhaps after running into Soviet troops). Their true identity was apparently not known to the people who then buried them. After the war, it was believed that they could still be alive. The site has recently been turned into a small park with an information board explaining its history—though the references to the 1945 executions are vague. e) Graves Information on what happened to the mass graves which were dug all over Berlin in 1945 is patchy. The corpses had to be buried quickly in order to prevent diseases. Photos from the early post-war period often show graves at roadsides or in public parks. The Soviets then reburied many soldiers at their main war memorials (see below). Most of the fallen German soldiers were also reburied later on, being laid to rest in the existing cemeteries.
aveva cercato di fuggire nel 1945 insieme al medico di Hitler, Stumpfegger. Non andarono lontano e si suicidarono (probabilmente dopo essersi imbattuti nelle truppe tedesche). Pare che la loro vera identità non fosse nota alle persone che li seppellirono e dopo la fine della guerra si credeva che potessero essere ancora vivi. Il luogo è stato recentemente trasformato in un piccolo parco, dove è stato collocato un cartellone informativo contenente le informazioni storiche al riguardo (anche se i riferimenti alle esecuzioni del 1945 sono piuttosto vaghe). e) Tombe Le notizie riguardo alle tombe comuni che furono scavate in tutta Berlino risultano frammentarie. I cadaveri dovevano essere seppelliti in fretta per evitare malattie. Le fotografie scattate nel primo periodo del dopoguerra spesso ritraggono fosse ai lati delle strade o nei parchi pubblici. I sovietici in seguito ri-seppellirono molti dei loro soldati nei propri monumenti ai caduti (vedi oltre), e anche la maggior parte dei soldati tedeschi caduti furono in seguito riesumati e deposti a riposare in pace nei cimiteri. f ) Monumenti I monumenti nazisti furono presto rimossi dopo la caduta di Berlino. In seguito, i sovietici innalzarono tre monumenti enormi per commemorare i loro caduti nei distretti di Tiergarten, Treptow e Schönholz, dove sono presenti anche cimiteri per i loro soldati. Inoltre, nell’ex Berlino Est esistono diversi monumenti più piccoli volti a celebrare la vittoria sovietica, come ad esempio le targhe commemorative vicino alla stazione di Schönhauser Allee. Inoltre, un grande monumento nel parco di Friedrichshain è dedicato ai polacchi e ai tedeschi che hanno combattuto contro i nazisti. A Berlino non esistono monumenti centrali per i soldati nazisti caduti. L’opinione 107
f ) Monuments Nazi monuments were quickly removed once Berlin had fallen. The Soviets then built three huge monuments in the Tiergarten, Treptow and Schönholz districts to commemorate their dead. These sites also serve as cemeteries for Soviet soldiers. Several smaller memorials celebrating the Soviet victory still exist in former East Berlin—like several plaques near the Schönhauser Allee station. Furthermore, a large monument in the Friedrichshain park is dedicated to the Poles and Germans who fought against the Nazis. In Berlin, there are no central monuments for fallen Nazi soldiers. There is a consensus that the Wehrmacht fought on the wrong side during the war and such monuments would be seen as inappropriate. Monuments for German war casualties normally refer to civilians or people who were murdered by the Nazis—like the “memorial path” on the Murellenberg hill (see above) or a plaque at the Friedrichstrasse station which is also dedicated to executed deserters. The task of clearing up the war-damaged cities was left to Germany’s women since most of the men had been killed or crippled or were still in captivity. They were usually called “Trümmerfrauen” (“rubble women”) and became part of the country’s post-war reconstruction myth. Berlin has two monuments for them: one is located in former West Berlin and depicts a weary-looking elderly woman. The other one, in former East Berlin, shows a young girl with a male colleague. Her posture reflects a stern determination to build up the city—and, one might add, a socialist Germany. g) Explosives and other types of debris Approximately 3,000 unexploded bombs still remain in Berlin’s soil.6 In addition, shells, hand grenades, missiles and other types of ammunition are being found on a daily basis. Altogether, between 20 and 40 tons of bombs and ammunition have to be 108
generale della gente è che la Wehrmacht combatté dalla parte sbagliata durante la guerra e tali monumenti sarebbero considerati inappropriati. I monumenti per i caduti della guerra in Germania di solito sono dedicati ai civili o alle persone che furono uccise dai nazisti, come il “percorso alla memoria” a Murellenberg (vedi sopra) o una targa commemorativa alla stazione di Friedrichstrasse, che è dedicata anche ai disertori uccisi. Il compito di rimettere in ordine le città danneggiate dalla guerra fu affidato alle donne tedesche, visto che la maggior parte degli uomini erano stati uccisi o erano invalidi oppure erano ancora in prigione. Di solito venivano chiamate “Trümmerfrauen” (“donne delle macerie”) e divennero parte del mito della ricostruzione del paese nel dopoguerra. A Berlino ci sono due monumenti dedicati a loro: uno si trova nell’ex Berlino Ovest e rappresenta una donna anziana dall’aria esausta, mentre l’altro è situato nell’ex Berlino Est e mostra una giovane ragazza con un collega. La postura della ragazza riflette la determinazione di ricostruire la città e, si potrebbe aggiungere, una Germania socialista. g) Esplosivi e altri tipi di reperti di guerra Sul suolo di Berlino vi sono ancora circa 3000 bombe ineplose.6 Inoltre, ogni giorno si trovano granate, bombe a mano, missili e altri tipi di materiale bellico. In tutto, ogni anno vengono rinvenute tra le 20 e le 40 tonnellate di esplosivi.7 Fortunatamente, gli incidenti sono molto rari. Altri reperti sotterranei della guerra comprendono ossa e attrezzature militari. Inoltre, quando il regime nazista crollò, molte armi, medaglie, busti di Hitler e altri oggetti “compromettenti” furono gettati nei laghi o seppelliti e vengono a volte rinvenuti dagli operai edili o dai giardinieri. h) Case distrutte Berlino presenta ancora molti “Hauslücken” (buchi edilizi) dove i palazzi furono
retrieved every year.7 Fortunately, accidents are very rare. Other subterranean relics of the war include bones and military equipment. Furthermore, when the Nazi regime collapsed, a lot of weapons, medals, Hitler busts and other “compromising” objects were thrown into lakes or buried. Building workers and gardeners occasionally find them. h) Missing houses Berlin still has many “Hauslücken” (gaps in the housing) where buildings were destroyed during the war and not rebuilt afterwards. Their number is slowly diminishing. Two interesting references to Hauslücken can be found in the Grosse Hamburger Strasse. The artist Christian Boltanski installed commemorative plaques on the walls of the houses on both sides of a Hauslücke. They list the names of the missing house’s former residents, their occupations and for how long they lived there. Just a few metres further, markings on the ground indicate where a Jewish old people’s home once stood. The Nazis used it as a deportation centre for Jews. In 1943, the building was struck by bombs. A similar case is the synagogue in the Rosenstrasse which was completely destroyed during the war. Markings indicate where the building once stood; an information board tells its story.
distrutti durante la guerra e non furono in seguito ricostruiti. Il loro numero sta tuttavia diminuendo. Due casi interessanti di Hauslücken si trovano nella Grosse Hamburger Strasse. L’artista Christian Boltanski ha installato delle targhe commemorative sulle pareti delle case locate ai lati di un Hauslücke, su cui sono riportati i nomi delle persone che vivevano nella casa distrutta, la loro occupazione e il periodo in cui avevano vissuto lì. Pochi metri più avanti, dei segni sul terreno indicano il luogo in cui una volta esisteva la casa di alcuni anziani ebrei che era usata dai nazisti come centro di deportazione. Nel 1943 l’edificio fu bombardato. Un caso simile è costituito dalla sinagoga in Rosenstrasse, che fu completamente distrutta durante la guerra. Alcuni segni indicano il luogo in cui una volta si ergeva l’edificio e un cartellone informativo racconta la sua storia. i) Altre tracce Il marmo rosso all’interno della stazione della metropolitana Mohrenstrasse e sul monumento commemorativo sovietico nel distretto Treptow fu preso dalla Cancelleria di Hitler quando i sovietici la demolirono dopo la guerra. Inoltre, all’interno del Reichstag sono state conservate con cura le iscrizioni lasciate dai soldati sovietici dopo la vittoria nel 1945.
i) Other traces
j) Impatto sul piano regolatore della città
The red marble inside the Mohrenstrasse metro station and at the Soviet memorial in the Treptow district was taken from Hitler’s Chancellery when the Soviets demolished it after the war. Inside the Reichstag, inscriptions left by the victorious Soviet soldiers in 1945 have been carefully preserved.
A volte le zone di una città più colpite dalla guerra sono quelle dove non vi è più alcuna traccia visibile. Alcune parti di Berlino furono distrutte a tal punto che gli urbanisti poterono optare per “radere tutto al suolo” e mettere in pratica la loro visione di modernità. Si riportano di seguito due esempi. Il primo riguarda l’area intorno ad Alexanderplatz, la quale prima della guerra presentava molte costruzioni. Alla fine degli anni Sessanta, il quartiere, che era stato danneggiato dalla guerra, fu spianato con i bulldozer
j) Impact on town planning The areas most affected by war are sometimes the ones where no traces of it are vis-
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ible anymore. The destruction was so extensive in some parts of Berlin that it gave town planners the chance to “raze everything to the ground” and implement their visions of modernity. Two examples: the area around the Alexanderplatz square was heavily builtup before the war. In the late 1960s, the wardamaged quarter was bulldozed and replaced by wide open spaces and large buildings. The Potsdamer Platz square was also badly damaged during the war and completely rebuilt in the 1990s. Only the Kaisersaal (see above) and one single prewar building, the Weinhaus Huth restaurant, remind us that the Potsdamer Platz once looked completely different. Conclusion Berlin is a thriving city nowadays, even though it has still not reached its pre-war population again and suffers from high unemployment. Many Berliners are proud that their new city is being compared to the legendary metropolis it once was in the 1920s—and that Jewish life has also returned. At the same time, the echoes of the past still haunt Berlin. Perhaps it takes the famous words of Primo Levi, the Holocaust survivor, to remind us that humanity is fragile and that the shadows of war and persecution are always with us: “It has happened. Therefore it can happen again. This is the core of what we have to say” (Levi 1986). And as Alfred Buellesbach puts it with reference to Europe in his “Battlescapes” volume: Although a united Europe without borders is taken for granted by many, it has taken 2,000 years of war and conflict in Europe to reach this point. Battlefields are strong reminders of the value of a united Europe and these places should not only be remembered by military historians, but also by the general public at large. A shared awareness of a common history is needed for a European identity (Buellesbach 2009, 8). A systematic investigation of Europe’s battlefields, beyond the gunpowder and the heroism, could go one little step that way. 110
e ricostruito con ampi spazi aperti e palazzi imponenti. Anche la piazza di Potsdamer Platz subì gravi danneggiamenti durante la guerra e fu completamente ricostruita negli anni Novanta. Solo il Kaisersaal (vedi sopra) e un unico edificio anteguerra, ovvero il ristorante Weinhaus Huth, testimoniano il fatto che Potsdamer Platz una volta aveva un aspetto completamente diverso. Conclusioni Oggi Berlino è una città popolata, anche se non ha ancora raggiunto il numero di abitanti che aveva prima della guerra e presenta problemi di alti livelli di disoccupazione. Molti berlinesi sono orgogliosi del fatto che la loro città venga paragonata alla metropoli leggendaria che era negli anni Venti e anche che ci sia un ritorno di popolazione ebrea. Allo stesso tempo, la città è ancora ossessionata dai fantasmi del passato. Le parole di Primo Levi, superstite dell’Olocausto, possono aiutarci a ricordare che l’umanità è fragile e che le ombre della guerra e della persecuzione sono sempre con noi: “È avvenuto, quindi potrebbe accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire” (Levi 1999, 3). E come dice Alfred Buellesbach riferendosi all’Europa nel suo volume “Battlescapes”: Nonostante un’Europa unita senza frontiere sia un concetto dato per scontato da molte persone, ci sono voluti 2000 anni di guerre e conflitti in Europa per raggiungere questo obiettivo. I campi di battaglia sono potenti promemoria del valore di un’Europa unita e questi luoghi non dovrebbero essere ricordati solo dagli storici militari, ma anche dalla gente comune. Per costruire un’identità europea è necessaria una consapevolezza condivisa di una storia comune. (Buellesbach 2009, 8) Uno studio sistematico dei campi di battaglia in Europa, che vada oltre la polvere la sparo e l’eroismo, potrebbe rappresentare un piccolo passo in questa direzione. Traduzione italiana: Antonella Bergamin
Notes
Note
1 All this information is taken from: Jorgensen and Mann 2011; Rürup 2001; Bahm 2002 and Beevor 2002. 2 Beevor 2002. 3 Rürup 2001. 4 A good starting point for more research is the “Deutsch-Russisches Museum Berlin-Karlshorst” which documents the Nazis’ war against the Soviet Union. Further information can be found in the “Landesarchiv Berlin” city archive. The “Bundesarchiv” national archive has got a branch specifically dealing with military history, located in Freiburg (Breisgau). Information on anti-Nazi resistance is available in Berlin’s “Gedenkstätte Deutscher Widerstand” memorial centre. Russian archives are in the possession of many files seized in the east of Germany—though getting access to them is often problematic. 5 Rürup 2001. 6 Schnedelbach 2011. 7 Kopietz 2009.
1 Tutte queste informazioni sono tratte da: Jorgensen and Mann 2011; Rürup 2001; Bahm 2002 e Beevor 2002. 2 Beevor 2002. 3 Rürup 2001. 4 Un punto di partenza per svolgere ulteriori ricerche è costituito dal “Deutsch-Russisches Museum BerlinKarlshorst” che documenta la guerra nazista contro l’Unione Sovietica. Ulteriori informazioni possono essere reperite nell’archivio cittadino del “Landesarchiv Berlin.” L’archivio nazionale “Bundesarchiv” possiede una succursale, situata a Freiburg (Breisgau), che si occupa nello specifico di storia militare. Dati sulla resistenza anti-nazista sono reperibili nel centro “Gedenkstätte Deutscher Widerstand” a Berlino. Gli archivi russi possiedono molti documenti raccolti nella Germania dell’Est, anche se non è sempre semplice riuscire ad accedervi. 5 Rürup 2001. 6 Schnedelbach 2011. 7 Kopietz 2009.
References • • • • • • • • • • • • •
Bahm, Karl. 2002. Berlin 1945: Die letzte Schlacht des Dritten Reiches. Klagenfurt: Neuer Kaiser Verlag Gesellschaft m.b.H. Beevor, Antony. 2002. Berlin—the Downfall 1945. London: Penguin/Viking. Buellesbach, Alfred, and Marcus Cowper. 2009. Battlescapes. Oxford: Osprey Publishing. Eine Frau in Berlin. Tagebuchaufzeichnungen vom 20. April bis 22. Juni 1945. 2003. Frankfurt/Main: Eichborn Verlag. “Das Ende der Reichskanzlei.” 1978. Illustrierte historische hefte 1. Jorgensen, Christer, and Chris Mann, eds. 2011. Die grössten Schlachten der Menschheit. Bath: Parragon Books Ltd. Kellerhoff, Sven. 2003. Mythos Führerbunker. Berlin: Giebel Verlag. Kopietz, Andreas. 2009. “Gefährliche Blindgänger.” Berliner Zeitung, April 24. Levi, Primo. 1986. I sommersi e i salvati. Torino: Einaudi, Gli struzzi. Reichhardt, Hans. 1978. ... raus aus den Trümmern. Berlin: TRANSIT Buchverlag. Rürup, Reinhard, ed. (1995) 2001. Berlin 1945: Eine Dokumentation. Berlin: Verlag Willmuth Arenhövel. Schnedelbach, Lutz. 2011. “Der Sauerbraten musste warten: Sprengstoffalarm in Tempelhof.” Berliner Zeitung, July 25. “The Reichs Chancellery and the Berlin Bunker then and now.” 1988. After the Battle 61.
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Inge Marszolek
the atlantic wall: an ambiguous heritage L’Atlantikwall: un’eredità ambigua
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The System
Il sistema
The construction of fortifications was neither new in the 1930s and forties nor limited to Germany: especially since 1900 more and better weapon technology, as well as the development of the air-raids, made the building of bunkers from reinforced concrete necessary. It led to new systems of fortification along the borders and to the civil defense programs during Second World War, which oversaw the building of air-raid shelters mainly in larger industrial cities of the Reich. Whereas the building of the socalled East Wall (Oder-Warthe-Bogen) had already begun at the end of the twenties, it was Hitler who gave the order to reinforce the German—Polish border with concrete fortifications and corridors. This stopped in 1938 because the war strategies changed. Now the aim was the occupation of Poland, and thus the fortification of the border did not make sense. Instead the manpower of the Organisation Todt and the Reichsarbeitsdienst (RAD) were concentrated on the West. During the war, the underground tunnels in the East were used as production sites for Daimler and Maybach, as well as for forced laborers and Concentration Camp prisoners who were housed at these sites. The West Wall (Limes or Siegfried-Line) was built from 1936-1940. The huge project reflects the geopolitical strategies of Hitler, the flexibility of the planning, and the belief in the feasibility of monstrous projects. The numbers provided in the sources vary, but list from 17.000 to 20.000 bunkers. The leading figure was Fritz Todt: more than 270.000 men of the organization Todt, military companies, and the RAD together with force laborers and war prisoners were working at the fortification lines. The whole project was embedded in an enormous propaganda strategy to prepare the German population for the planned war. After the sea battle against England had been lost, and the troops of the Wehrmacht
La costruzione di fortificazioni non fu un evento né esclusivo degli anni Trenta e Quaranta, né limitato alla Germania: in particolare dal 1900 in poi la diffusione e l’affinamento della tecnologia delle armi, così come lo sviluppo dei raid aerei, aveva imposto la costruzione di bunker in cemento armato. Ne risultarono nuovi sistemi di fortificazione lungo le frontiere e i programmi di difesa civile nel corso della Seconda Guerra Mondiale ai quali faceva riferimento la costruzione di rifugi anti-aerei soprattutto nelle città industriali più grandi del Reich. Mentre la costruzione del cosiddetto Ostwall (Oder-Warthe-Bogen) era già cominciata alla fine degli anni Venti, fu Hitler a ordinare di rafforzare la frontiera tra Germania e Polonia con fortificazioni e corridoi in cemento. Tale azione si fermò nel 1938 in seguito al mutare delle strategie belliche: l’obiettivo era diventato l’occupazione della Polonia, quindi non aveva più senso fortificare la frontiera. La forza lavoro dell’Organisation Todt e della Reichsarbeitsdienst (RAD) fu allora concentrata a ovest. Durante la guerra i tunnel sotterranei sul fronte orientale furono utilizzati come siti produttivi per Daimler e Maybach, oltre che per i lavoratori coatti e i prigionieri dei campi di concentramento che in quei siti erano alloggiati. Il Westwall (programma Limes o linea Sigfrido) fu costruito tra il 1936 e il 1940: un gigantesco progetto che riflette le strategie geopolitiche di Hitler, la flessibilità della pianificazione e la fiducia nella capacità di realizzare progetti davvero mostruosi. Pur variando, i numeri forniti dalle diverse fonti si attestano infatti su cifre tra vanno dai 17.000 ai 20.000 bunker. Al centro di tutto ciò vi era Fritz Todt: le linee di fortificazione furono realizzati da oltre 270.000 uomini appartenenti all’Organisation Todt, alle compagnie militari, e alla RAD oltre ai lavoratori coatti e ai prigionieri di guerra. L’intero progetto era incastonato in una gigantesca strategia di propaganda volta a preparare la popolazione 113
had to be thrown into the Eastern front, Hitler decided to fortify the Atlantic coast in the occupied countries in the West (5000 km). Both logistics and manpower were transferred to the Atlantic from Norway to France. Instead of constructing underground corridors Fritz Todt, and later the Minister of armament Albert Speer, concentrated on the fortification of small and bigger ports and anti-aircraft batteries. Part of the Atlantic Wall as well as other huge bunkers which were planned and constructed after Stalingrad, were supposed to be production sites. The bunkers in St. Nazaire, L’Orient and others were intended for submarines, the subterranean bunker of La Coupole as a launch site for the V2. Similar shelters for production sites were also planned in cities in the Reich, for example the submarine bunker Valentin in Bremen. The civil air-raid shelter program was only started in Oct. 1940 and restricted to 61 cities. In 1941 this program was the main area of building activities in Germany and by Oct. 22nd 1941 3.4 million cubic meters of concrete had been used. The majority of workers were forced laborers and inmates of the concentration camps. In 1942 the program was scaled down to facilitate the construction of the Atlantic wall. And after 1943 only shelters in cities with armament industries were to be built. Here, the local governments of the cities were responsible. This very rough survey shows the close links between the different programs. A closer look also reveals how these programs were embedded in the National Socialist geopolitics with their racist aims. If we look at the organizations and responsibilities within, two things become clear: first the polycratic decision making process, especially crucial at the Atlantic Wall, with the competition between the Organisation Todt (OT) and the military ranks. Secondly, the enormous demand of manpower and material that are reflected. The belief in the feasibility of technological construction projects together with 114
tedesca alla guerra prevista. Perso la battaglia navale contro l’Inghilterra, e vistosi costretto a dispiegare le truppe della Wehrmacht sul fronte orientale, Hitler decise di fortificare la costa atlantica nei paesi occupati a ovest (5000 km). Strutture logistiche e forza lavoro furono trasferite sull’Atlantico passando dalla Norvegia alla Francia. Invece di costruire corridoi sotterranei, Fritz Todt e successivamente il Ministro degli Armamenti Albert Speer si concentrarono sulla fortificazione di porti grandi e piccoli e delle batterie anti-aeree. Parte dell’Atlantikwall come anche altri enormi bunker progettati e realizzati dopo Stalingrado dovevano nelle intenzioni essere siti produttivi. I bunker di St. Nazaire, L’Orient e altri dovevano servire ai sottomarini, il bunker sotterraneo di La Coupole era un sito per il lancio dei missili V2. Altri rifugi simili per siti produttivi, tra cui il bunker sottomarino Valentin a Brema, furono previsti anche in alcune città del Reich. Il programma di rifugi anti-aerei civili fu inaugurato solo nell’ottobre 1940 e limitatamente a 61 città. Nel 1941 questa iniziativa, che al 22 ottobre 1941 aveva utilizzato 3,4 milioni di metri cubi di cemento, risultava la voce principale del settore edilizio in Germania. La manodopera era perlopiù costituita da lavoratori coatti e prigionieri dei campi di concentramento. Nel 1942 il programma fu ridimensionato per agevolare la costruzione dell’Atlantikwall. E dopo il 1943 gli unici rifugi approvati per la costruzione erano quelli siti in città dove risiedevano industrie belliche, in quanto iniziative poste sotto la responsabilità delle amministrazioni municipali. Pur sommariamente questa panoramica mostra quanto le diverse iniziative fossero legate tra loro e, dopo un esame più attento, quanto fossero parte integrante della geopolitica nazionalsocialista con le sue finalità razziste. Se ci concentriamo sulle organizzazioni e le relative responsabilità al loro interno, due cose appaiono chiare: in primo luogo il processo decisionale policratico, particolarmente
the enthusiasm of engineers and other experts sheds light on the modernity of the NS regime. One engineer who worked closely together with Fritz Todt still points out: “I am very proud of the whole project” (Op de Beeck 2001). This statement reflects not only the attitude of the German engineers but also the perspective of some locals who used to work on the sites of the Atlantic Wall: “The German engineers as Baumeister des Betons,” as somebody praised the Germans in the film. (I won’t cover here the issue of collaboration which still is a highly sensitive field of cultural memory). Beside solving the logistical problems and achieving huge technological efforts, architects and engineers developed a serial production of more than 60 types of bunkers. This made it possible to construct these bunkers in rather short time. The priority of this program meant neglecting the needs of civil defense. At the core of the civil defense program was furthermore the Nazi definition of inclusion and exclusion. Forced laborers and Concentration Camp prisoners who were building the civil defense shelters were to be excluded from the protection against air raids. And their suffering in the camps as well as the murdering is not even addressed here. Furthermore, forced laborers—and a smaller number of Concentration Camp prisoners— worked on the sites of the Atlantic Wall as well, especially on the huge sites of the submarine bunkers and the V2 batterie in Omer, but also on the other construction sites: Slave labor was one of the characteristics for the NS system during the war and crucial to the realization of these construction programs.1
cruciale per l’Atlantikwall, con la competizione tra l’Organisation Todt (OT) e la gerarchia militare; in secondo luogo, l’enorme fabbisogno di manodopera e materie prime che ne consegue. La fiducia nella fattibilità dei progetti di costruzione tecnologica insieme all’entusiasmo di ingegneri e altri esperti pone in luce la modernità del regime nazionalsocialista. Anche recentemente uno degli ingegneri che lavorò a stretto contatto con Fritz Todt si diceva: “molto orgoglioso dell’intero progetto” (Op de Beeck 2001). Questa dichiarazione riflette non solo l’atteggiamento degli ingegneri tedeschi ma anche la prospettiva di alcuni locali che si trovarono a lavorare nei siti dell’Atlantikwall: “Gli ingegneri tedeschi erano Baumeister des Betons,” un elogio rivolto da qualcuno ai tedeschi nel film (non mi occuperò in questa sede del tema del collaborazionismo, aspetto ancora estremamente delicato della memoria culturale). Oltre a risolvere i problemi logistici e a realizzare imprese tecnologiche immani, architetti e ingegneri svilupparono una produzione in serie di oltre 60 tipi di bunker, cosa che rese possibile la realizzazione di queste strutture in tempi relativamente brevi. La priorità di questo programma portò a trascurare le esigenze della difesa civile, senza contare che il progetto era incentrato sulla definizione nazista di inclusione ed esclusione. Oltre a essere oggetto di violenze e assassini dei quali non ci occupiamo in questa sede, i lavoratori coatti e i prigionieri dei campi di concentramento impegnati nella costruzione dei rifugi per la difesa civile dovevano essere esclusi dalla protezione dai raid aerei. Inoltre, i lavoratori coatti—e anche un numero più limitato di prigionieri dei campi di concentramento—lavoravano anche all’Atlantikwall, in particolare nei giganteschi siti dei bunker sottomarini e delle batterie V2 a Omer, ma anche in altri cantieri: l’utilizzo di lavoratori ridotti in schiavitù, una delle caratteristiche del sistema nazionalsocialista durante la guerra, fu fondamentale per la realizzazione di questi piani costruttivi.1 115
Propaganda
Propaganda
The whole process of planning and constructing the fortifications and shelters was embedded in Nazi propaganda: Especially the Siegfried line was part of a visualized propaganda strategy to prepare the Germans for the coming war, to redefine labor and reconstruct the figure of the worker in a military and nationalist design. Since more research has been done concerning the Siegfried line, I will concentrate on this topic. Anyway, propaganda for the Atlantic Wall was mostly similar to that for the West Wall. The differences were due to the time shift and the need to propagate its invincibility especially in the occupied countries. After 1943 with the losses of Stalingrad this became even more important in order to reassure the Germans at home that an invasion was impossible. Therefore propaganda concentrated on batteries and technique, rather than on the images of the worker etc. The visualization of the Siegfried line was done in different media and through different genres. First of all the Organization Todt and the RAD had their own magazines (e.g. “Der Kamerad am Westwall”) which transported the image of the worker as a soldier or as a hero in many ways. But other magazines, like the Berliner Illustrierte Zeitung, the magazine of the DAF, and of course the newsreel which has not been researched deeply yet, joined in. Even on stamps this ideal was propagated. Without going into details, the core of these visual strategies was to redefine masculinity by virile strength and discipline: Labor and war were just two sides in the social-Darwinist struggle for life. The “Frontarbeiter,” a term which was created for the workers at the Siegfried line became the synonym for the NS model. Robert Ley, leader of the DAF, summarized some weeks before the attack on the Soviet Union (1 Mai 1941): “Labor in a National Socialist sense is not a economic concept but a ideological (weltanschauliche) thesis. Labor is the
L’intero processo di pianificazione e costruzione delle fortificazioni e dei rifugi era parte integrante della propaganda nazista: la linea Siegfried in particolare contribuiva a una strategia di propaganda che doveva preparare i tedeschi alla guerra imminente, ridefinire il concetto di lavoro e ricostruire la figura del lavoratore secondo coordinate militari e nazionaliste. Avvalendomi delle ulteriori ricerche compiute a proposito della linea Siegfried, mi concentrerò in modo particolare su questo argomento. La propaganda legata all’Atlantikwall era comunque perlopiù simile a quella legata al Westwall. Le differenze erano dovute alle tempistiche diverse e alla necessità di diffonderne l’invincibilità soprattutto nei paesi occupati. Dopo il 1943, con le perdute subite a Stalingrado, questo aspetto divenne ancora più importante al fine di rassicurare i tedeschi in merito all’impossibilità di un’invasione del suolo patrio. La propaganda si concentrava quindi sulle batterie e sulla tecnica più che sulle immagini dei lavoratori, ecc. La comunicazione visiva della linea Siegfried fu realizzata su supporti diversi e utilizzando vari generi. In primo luogo gli organi di stampa specifici della Organisation Todt e della RAD (come “Der Kamerad am Westwall”), che per molti versi veicolavano l’immagine del lavoratore come soldato o come eroe. Ma contribuirono anche altre riviste, come la Berliner Illustrierte Zeitung, organo della DAF,e naturalmente il cinegiornale del quale non è ancora stata fatta un’analisi approfondita, così come i francobolli, utilizzati anch’essi per diffondere questo ideale. Anche senza perderci in dettagli, è evidente che al centro di queste strategie visive vi era la ridefinizione della mascolinità attraverso la forza virile e la disciplina: lavoro e guerra non erano che due facce della lotta social-darwinista per la sopravvivenza. Il termine “Frontarbeiter,” creato per indicare i lavoratori impegnati sulla linea Sigfrido, divenne sinonimo del
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expression for the battle of life. [...] He (the worker at the front) is the visible synthesis between worker and soldier and as such also the visible expression of our new, revolutionary workmanship” (Hachtmann, 2010). But it was not only the visualization of the worker as a soldier but the monumentalization of the buildings itself: OT employed painters to depict the bunkers. Especially Theodor Ortner, a main painter of the OT, praised the modernity of the huge buildings. Ortner painted the bunkers as cathedrals of modern times; human beings in front of the concrete walls became nearly invisible and were to be neglected. The fortification architecture plays another important part in defining borders in a geopolitical and racist sense. Not only were, as Eckhard Gruber shows, the soldiers at the Siegfried line placed in a landscape without inhabitants, recalling the images of the First World War with their trenches and wire fences, but the border itself was visualized in maps idealizing the wall as invincible. Again, simply by building the Siegfried line the exclusion of those outside is clear. The context to other elder fortifications is clear: the Chinese Wall as well the Roman Limes comes into the mind: the official name of the West Wall was indeed Limes. Hitler and his architect Albert Speer, who became responsible for the Atlantic-Wall after the death of Fritz Todt, were especially aware that architecture could represent power and control. Monstrous building projects like the area of the Reichsparteitag in Nurenberg, the SS-Ordensburg in Vogelsang and the planned “Germania” in Berlin bear witness of the totalitarian fantasy to build for eternity. Even though the “Theory of the worth of the ruins” (Ruinenwerttheorie) is in itself a good example of how myths come to life and create a reality on their own (the theory is not, as it was considered for a longtime, an invention by Hitler, but was a postwar legitimation by Speer2 saying that the buildings of the Third Reich will stand the test of time
modello nazionalsocialista. Qualche settimana prima dell’attacco sferrato all’Unione Sovietica (1 maggio 1941) Robert Ley, responsabile della DAF, fece questa sintesi: “Il lavoro nel senso nazionalsocialista non è un concetto economico ma una tesi ideologica (weltanschauliche). Il lavoro è l’espressione della battaglia della vita. [...] Egli [il lavoratore al fronte] è la sintesi visibile tra lavoratore e soldato e come tale anche l’espressione visibile del nostro modo nuovo e rivoluzionario di lavorare” (Hachtmann, 2010). Ma non si trattava solo di visualizzare il lavoratore come soldato ma anche di monumentalizzare li stessi edifici: la Organisation Todt si servì addirittura di pittori per decorare i bunker. Uno di questi fu Theodor Ortner, uno dei pittori principali dell’OT, che elogiò la modernità di quei giganteschi edifici affrescandoli come fossero cattedrali della modernità: davanti alle pareti di cemento gli esseri umani diventavano quasi invisibili e dunque destinati a essere messi da parte. Un altro ruolo importante svolto dall’architettura delle fortificazioni riguarda la definizione dei confini in senso geopolitico e razzista. Non solo, come dimostra Eckhard Gruber, i soldati stazionati sulla linea Sigfrido si ritrovavano in un paesaggio privo di abitanti, che ricordava le immagini della Prima Guerra Mondiale con le tipiche trincee e recinzioni in fil di ferro, ma il confine stesso era visualizzato nelle carte che idealizzavano il muro come invincibile. Di nuovo, il fatto stesso di costruire la linea Sigfrido determinava chiaramente l’esclusione di chi si trovava al di fuori. Il richiamo alle fortificazioni del passato è evidente: vengono in mente sia la Grande Muraglia Cinese che il Limes romano, non a caso la denominazione ufficiale del Westwall era proprio Limes. Hitler e il suo architetto Albert Speer, che assunse la responsabilità dell’Atlantikwall dopo la morte di Fritz Todt, avevano molto acuta la consapevolezza che l’architettura poteva rappresentare potere e controllo. Progetti architettonici sovraumani come l’area 117
like the antique ruins) one may argue, that the enormous chain of bunkers at the coasts, at the borders of the Reich, and in the cities symbolize this hybris of the Nazis and may be part of the myth of the theory of the ruins. In this context I would like to quote Ernst Jünger, then a commander of the Wehrmacht at the Siegfried line. After a visit to a bunker there he wrote in his journal, published in 1942 in Gärten und Straßen: “When I had strenuously opened the enormous steel door and descended into the concrete crypt, I stood alone between machine guns, exhaust vans and hand grenades, holding my breath. Only now, I recognized this to be the home of the iron-knowing Cyclopes, missing its inner eye. Thus, I was confronted with the ‘Zeitgeist,’ whether appearing in the inside of the pyramids or the in the depth of the catacombs, which I saw as an idol lacking the swaying glimmer of technical finesse and which tremendous strength I began to accept.” Quote after (Threuter 2009, 19).3 Jüngers articulation of his emotions and fascinations does not only make a close link to configurations of the National Socialist ideology: the naturalization of the bunker— the Cyclopes, very competent about iron but without an inner eye, can be interpreted in the way that these Cyclopes, whose strength is praised, are blind to death and annihilation around them. The allusion to the pyramids can be read in more than one way: the pyramids were built by slaves, similar to the bunkers, they were sacred architecture and monuments for the deaths. The contemporary architect Friedrich Tamm, who planned some of the shelters, said, that theses sketches represented “symbols of belief and eternity of German human beings [...] true monuments of god, reminding eternity and God Almighty.” Quote after (Treuther 2009, 19). Contrary to the myth the Nazis and other fellow-travelers created themselves was the architecture in the landscape around the fortification lines. Here the barracks of the camps, their fences etc. were constructed. 118
del Reichsparteitag a Norimberga, l’SS-Ordensburg a Vogelsang e il progetto “Germania” a Berlino testimoniano della fantasia totalitaria di costruire per l’eternità. Anche se la “Teoria del valore delle rovine” (Ruinenwerttheorie) è di per sé un buon esempio di come i miti possano diventare reali e creare una realtà a sé stante (la teoria non è, come si è creduto per molto tempo, un’invenzione di Hitler, ma una legittimazione postbellica da parte di Speer,2 che affermava che gli edifici del Terzo Reich avrebbero superato la prova del tempo come le rovine dell’antichità), si potrebbe pensare che l’enorme catena di bunker sulle coste, sui confini del Reich e nelle città simboleggi questa arroganza dei nazisti e possa far parte del mito della teoria delle rovine. In questo contesto desidero citare Ernst Jünger, all’epoca un comandante della Wehrmacht sulla linea Sigfrido, che, dopo aver visitato un bunker, annotò quanto segue nel suo diario, pubblicato nel 1942 in Gärten und Straßen: “Aperta a fatica l’enorme porta d’acciaio sono sceso nella cripta di cemento, dove, trattenendo il fiato, mi sono trovato solo tra le mitragliatrici, i condotti di scarico e le bombe a mano. Solo adesso capisco che questa deve essere la casa dei Ciclopi maestri del ferro, privi dell’occhio interiore. Così mi sono trovato di fronte allo ‘Zeitgeist,’ come può apparire all’interno delle piramidi o nel profondo delle catacombe, che vedevo come un idolo privo del barlume oscillante della finezza tecnica e la cui forza terrificante ho cominciato ad accettare” (Threuter 2009, 19).3 Il modo in cui Jünger articola le proprie emozioni e ciò che lo affascina non si limita a rivelare un legame particolare con le configurazioni dell’ideologia nazional-socialista: la naturalizzazione del bunker—il fatto che i Ciclopi, tanto esperti in materia di ferro, fossero privi di un occhio interiore può essere interpretato come cecità dei Ciclopi, dei quali pure si elogia la forza, alla morte e alla distruzione che li circonda. L’allusione alle piramidi può avere molteplici letture: in
Bunker in Denmark (Ph. Gennaro Posiglione)
Bunkers as strategic architecture (Brian Hatton) and the barracks are linked together. The barracks are not visible anymore; they were built for temporary use, they were part of systems of violence and power, they represent the “other,” the heterotope spaces4 or the transit spaces as Marc Augé (1994) calls them. They are neutral, in the sense that no links to traditional relations like family and experience are written into these places. This temporary architecture constitutes the signum of the 20th century as some researches are underlining.5
modo analogo ai bunker le piramidi furono costruite da schiavi ed erano architetture sacre e monumenti ai morti. L’architetto contemporaneo Friedrich Tamm, che progettò alcuni dei rifugi, disse che quei disegni rappresentavano “simboli di fede ed eternità degli esseri umani tedeschi […] veri monumenti di dio, che ricordavano l’eternità e Dio onnipotente” (Treuther 2009, 19). L’architettura nel paesaggio circostante le linee di fortificazioni, dove furono costruite le baracche dei campi, le recinzioni, ecc., era l’opposto del mito che i nazisti e altri loro accoliti si erano creati. I bunker come architettura strategica (Brian Hatton) e le baracche sono collegati. Le baracche non sono più visibili: costruite per un uso temporaneo, facevano parte di sistemi di violenza e di potere e rappresentano l’“altro,” gli spazi eterotopi4 o 119
The Relics: Fascination in Concrete, Ambiguous Remembrance of the WAR or how to deconstruct Paul Virilio and Ernst Jünger The German cultural memory after 1945 was split. As we all know, the self-victimization of the Germans in the Federal Republic as well in the GDR was deeply rooted in the political and private memorialization. Nevertheless, West-Germans felt themselves on unsecure ground. From the seventies on memories on the Nazi era were dominated by the pictures of the atrocities. But these pictures, meant to confront the Germans with their guilt, enabled people to distance themselves from it. Thus only in the last decades we observe a linkage between the private view on violence in the everyday-life and the participation of the “normal Germans.” The relics of the war, the air-raid shelters as well as the fortifications were part of a national narrative that memorialized the German victims and suffering of the war and as such was contaminated by the knowledge of the atrocities. Only in the last decade relics of the places of NS self-celebrations where the NS system puts itself on stage are rediscovered and decoded as part of fascist topography. Examples are the Wewelsburg where Himmler celebrated the SS, or the Bückeberg where the annual Reichserntedankfest—a rural celebration—took place. This is also true for the ramparts of the Siegfried line. The core problem with these relics is that the propaganda of the Nazis is still part of the sites. The myth of the ultimate strength, or their potential for ultimate protection inscribed in these relics is still effective. I want to discuss the question of memory of which fascination was a crucial part or, —how the Germans are dealing with their colonial heritage—in two aspects. Germans in general have only started in the last decade to deal with the relics of war, more precisely with the air-raid shelters, with the Siegfried line etc. Germans in general but 120
gli spazi di transito come li ha definiti Marc Augé (1994). Sono neutri, nel senso che questi luoghi non recano iscritti legami con relazioni tradizionali come la famiglia e l’esperienza. Come alcune ricerche vanno sottolineando, questa architettura temporanea costituisce il signum del XX secolo.5 I reperti: fascino del cemento, ricordo ambiguo della GUERRA o come decostruire Paul Virilio ed Ernst Jünger La memoria culturale tedesca dopo il 1945 era scissa. Come sappiamo bene, l’auto-vittimizzazione dei tedeschi nella Repubblica Federale come nella RDT era profondamente radicata nella memorializzazione politica e privata. In ogni caso, i tedeschi occidentali sentivano di non poggiare su un terreno sicuro. Dagli anni Settanta in poi il ricordo dell’era nazista appare dominato da immagini di atrocità che, pur essendo destinate a mettere i tedeschi davanti alla loro colpa, in realtà consentivano loro di distanziarsi da essa. E quindi è solo in questi ultimi decenni che osserviamo un collegamento tra la visione privata della violenza nella vita quotidiana—e la partecipazione dei “tedeschi normali.” I reperti della guerra, i rifugi anti-aerei così come le fortificazioni facevano parte di una narrativa nazionale che commemorava le vittime e la sofferenza dei tedeschi della guerra e come tale era contaminata dalla consapevolezza delle atrocità. È solo in quest’ultimo decennio che i reperti dei luoghi delle auto-celebrazioni nazionalsocialiste dove quel sistema di potere si metteva in scena sono stati riscoperti e decodificati come parte della topografia fascista. Alcuni esempi sono il Wewelsburg dove Himmler celebrava le SS, o il Bückeberg dove si teneva ogni anno la Reichserntedankfest— una festa rurale. Lo stesso vale per i bastioni della linea Sigfrido. Il problema principale di questi reperti è che la propaganda dei nazisti è ancora parte dei siti: è, cioè, ancora vivo il mito della forza estrema, o il potenziale ruolo di protezione estrema in essi scolpito.
Bunker in Norway (Ph. Gennaro Posiglione)
also historians have for a long time neglected the history of the bunkers and fortification lines. But alongside the hegemonic discourse on memory of the scientific community, what I would call a semi-scientific community existed throughout. Local researchers, sometimes people collecting militaria, or people interested in fortification architecture from the Roman Limes to the Atlantic Wall turned to the structures without differentiating between the different societies and historical contexts. Sometimes you even find them in academia: as for example the dissertation from 2003 (2 vol.) of Thorsten Heber. Himself a lieutenant colonel of the reserve, he did a scrupulous analysis of the AtlanticWall without even mentioning forced labor, the murderous war aims of the Nazis etc. His critical remarks are refrained to whether Hitler understood that a fortification wall like this one could only be effective with the right number of soldiers who defended it. One may argue that Heber is carried away by his
Voglio passare ora alla questione della memoria e dell’elemento di fascino che ne rappresentava una parte cruciale, o di come i tedeschi vivono la loro eredità coloniale, sotto due aspetti. È solo dal decennio scorso che i tedeschi in genere hanno iniziato a occuparsi di reperti di guerra, più in particolare dei rifugi anti-aereo, della linea Sigfrido, ecc. Per molto tempo i tedeschi come popolazione ma anche gli storici hanno trascurato la storia dei bunker e delle linee di fortificazione. Ma accanto al discorso egemonico sulla memoria della comunità scientifica, è sempre esistita quella che definirei una comunità semi-scientifica. Ricercatori locali, talvolta collezionisti di militaria, o persone interessate all’architettura delle fortificazioni dal Limes romano all’Atlantikwall, che si occupavano di queste strutture senza fare differenze tra le società e i contesti storici. Talvolta alcuni loro esponenti emergono anche in ambiti accademici: ne è un esempio la tesi del 2003 (2 voll.) di Thorsten Heber, un tenente colonnello riservista che ha condotto una scrupolosa analisi dell’Atlantikwall senza mai citare il lavoro coatto, gli intenti bellici criminali dei nazisti, ecc. Le sue osservazioni critiche risultano reticenti in merito a quanto Hitler fosse consapevole del fatto che un muro di fortificazione come questo poteva garantire l’effetto desiderato solo se dotato di un numero di uomini sufficienti a sua difesa. Viene da pensare che Heber sia sopraffatto dall’ammirazione per le realizzazioni e per lo sforzo tecnico e logistico. Lo stesso accade a ricercatori non tedeschi, come Keith Mallory e Arvid Ottar (1973), che usano argomenti molto simili: pur sottolineando la concorrenza problematica tra i decisori (i militari e Speer, ecc.), arrivano alla conclusione che “malgrado il successivo fallimento dell’Atlantikwall, le sue casematte e i punti di osservazione si evidenziano, insieme alle Flaktürme [complessi di torri d’avvistamento e difesa antiaerea, NdT], ai bunker per i sottomarini U-Boot e quelli per i civili costruiti dal regime nazionalsocialista, come alcune delle costruzioni militari 121
fascination for the achievements and technical and logistic efforts. This is also true for non–German researchers who use very similar arguments, e.g. Keith Mallory and Arvid Ottar (1973). They emphasize the problematic competition between the decision makers (military and Speer etc.) but come to the conclusion that “despite the eventual failure of the Atlantic Wall, its casemates and observation posts stand out, together with the National Socialists flak towers, submarine pens and civilian bunkers, as some of the most formally ‘architectural’ military construction of the 1939-1945 war.” Colin Partridge’s book Hitler’s Atlantic Wall (1976), does not hide his fascination either. Only Anthony Saunders (2001) argues a bit more differentiated. He mentions the contribution of forced labor, but in the end fascination is stronger. The main problem here is the very narrow focus all these authors are taking. Silke Wenk concludes for the German context—but this may also be true for the European context—that the reason why the bunker architecture was ignored by art history lies in the gap (not only) art historians made between modernity and National Socialism. As a cultural historian I would like to add that this gap was a sort of self-distancing strategy from National Socialism. But to conclude, I would like to dig deeper referring again to the German writer Ernst Jünger, author of Stahlgewitter, a hymn to the link between war and technology after the First World War, and to Paul Virilio, a postmodern philosopher who discovered the relics of the Atlantic Wall as a young man already in the fifties of the last century. His well-known book Bunkerarchäologie is a text standing at the beginning of his theory of modern total wars. Virilio’s description of his archeological discoveries is very similar to Jünger’s “eisenkundigen Zyklopen” whom he quotes in his book in a rather prominent way: A whole range of cultural reminiscences came into my mind: the old Egyptian grave, the Etruscan graves, the buildings of the Aztecs […] 122
più formalmente “architettoniche” del conflitto 1939-1945.” Nemmeno il libro Hitler’s Atlantic Wall (1976) di Colin Partridge nasconde l’ammirazione dell’autore. Solo Anthony Saunders (2001) argomenta in modo un po’ più differenziato, citando il contributo riconducibile ai lavoratori coatti, anche se alla fine l’ammirazione comunque prevale. Il problema principale è il punto di vista molto limitato scelto da tutti questi autori. In merito al contesto tedesco—ma ciò potrebbe valere anche per il contesto europeo—Silke Wenk conclude che la ragione per la quale la storia dell’arte aveva ignorato l’architettura dei bunker è il divario che gli storici dell’arte (e non solo) vedevano tra la modernità e il nazionalsocialismo. Come storica della cultura desidero aggiungere che questo divario era una sorta di strategia di auto-distanziamento dal nazionalsocialismo. Ma, per concludere, vorrei riprendere e approfondire il riferimento allo scrittore tedesco Ernst Jünger, autore di Stahlgewitter [Nelle tempeste d’acciaio], un inno al legame tra guerra e tecnologia dopo la Prima Guerra Mondiale, e a Paul Virilio, filosofo postmoderno che scoprì i reperti dell’Atlantikwall da giovane già negli anni Cinquanta del secolo scorso. Il suo famoso Bunker Archaeology è un testo che si colloca alla base della sua teoria sulle guerre totali moderne. La descrizione che Virilio fa delle sue scoperte archeologiche è molto simile agli “eisenkundigen Zyklopen” di Jünger, che cita nel libro in modo piuttosto evidente: Mi venne in mente tutta una serie di reminiscenze: l’antica tomba egizia, le tombe etrusche, gli edifici degli aztechi […] mi pare che le costruzioni per l’artiglieria leggera siano identiche ai riti funerari, come se l’Organisation Todt avesse inteso organizzare uno spazio sacrale (Virilio 1992, 11). Klaus Pias, che usa la definizione di “Architextur,” sottolinea che Virilio naturalizza il bunker e parla di un mondo inabitabile e dell’immaterialità di una nuova area di guerre.6
it seems to me, that the constructions for light artillery are identic with the rites of funeral, as if the Organization Todt had intended to organize a sacral space (Virilio 1992, 11). In his text—Klaus Pias calls it an “Architextur”—underlines that Virilio naturalizes the bunker and speaks of an uninhabitable world and the immateriality of a new area of wars.6 By separating the bunkers from their historical context and linking them to the immateriality of the new total wars, Virilio, as Pias resumes, rewrites Ernst Jünger. But one may as well argue he dismantles these relics from their Nazi connotations. Wars are manmade disasters, technology has to be embedded in the history of its political and societal circumstances of production. To quote Klaus Pias “he leaves the technique to the technique historians” (Pias 2001, 51). So even in the context of the Atlantic Wall as a “colonial heritage” that memorializes the victory over Nazi Germany, the fascination and the effects of these relics are ambivalent. They are diverse and not so easily embedded in a narrative which is compatible with the needs of the European future. Thinking of the “Fortress Europe” of today, maybe we can put the Atlantic Wall in a very different perspective. To sum up Thus the Atlantic Wall is part of a map referring to dark memories in many different ways. The re-enacting of this past should make these ambivalent memories visible, referring to the myths we have to differentiate between the contemporary myths the Nazi propaganda tried to create and the myth that was created after 1945. Furthermore, there are some indications that these myths are still effective. The myths of the Nazi propaganda were rooted in an archetype of human anxiety and need for protection. This archetype and the NS myth about the fortifications are closely linked and the success of the
Come sintetizza Pias, separando i bunker dal loro contesto storico e collegandoli all’immaterialità delle nuove guerre totali, Virilio riscrive Ernst Jünger. Ma si può anche pensare che egli spogli questi reperti delle loro connotazioni naziste. Le guerre sono disastri prodotti dall’uomo, la tecnologia deve essere annidata nella storia delle sue circostanze politiche e societarie di produzione. Per citare ancora Klaus Pias, “egli lascia la tecnica agli storici della tecnica” (Pias 2001, 51). Quindi anche nel contesto dell’Atlantikwall come “eredità coloniale” che commemora la vittoria sulla Germania nazista, il fascino e gli effetti di questi reperti sono ambivalenti. Sono diversificati e non così facilmente collocabili in una narrativa che sia compatibile con le esigenze del futuro europeo. Pensando alla “Fortezza Europa” di oggi, possiamo forse inserire l’Atlantikwall in una prospettiva molto diversa. Per riassumere L’Atlantikwall è parte di una mappa che in modi molto diversi fa riferimento a memorie oscure. La rievocazione di questo passato dovrebbe rendere visibili tali memorie ambivalenti, e facendo riferimento ai miti dobbiamo differenziare tra i miti contemporanei che la propaganda nazista cercò di creare e il mito creato dopo il 1945. Vi sono inoltre alcune indicazioni che confermano come questi miti siano ancora vitali: i miti della propaganda nazista affondavano le radici in un archetipo dell’ansia e del bisogno di protezione dell’uomo. Questo archetipo e il mito nazionalsocialista delle fortificazioni sono strettamente legati e il successo dei miti storici che i nazisti tentarono di creare può essere spiegato solo ponendolo all’interno di una narrativa antecedente. Nel suo articolo per docupedia (2010), Mathias Waechter tenta di definire il mito come categoria storica: i miti raccontano storie che non sono basate su prove razionali o empiriche ma fanno appello alle emozioni. I miti non sono veicolati solo da 123
historical myths the Nazis tried to create can only be explained by embedding it into the older narrative. Mathias Waechter in his article in docupedia (2010) tries to define myth as a historical category: myths are telling stories which are not based on rational or empiric proofs but appeals to emotions. Myths are not only transferred by narratives but inscribed in relics, objects. Thus they create or stabilize perceptions of reality. The relics of the Atlantic Wall do tell various stories: they are closely linked to the racist Nazi ideology and geopolitics. But behind the Nazi history, even though these ruins are witnessing the failure—D-day was successful, they could not protect the German soldiers— they stabilize the myth that ultimate protection against war is possible at the expense of the lives of others.
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narrative ma iscritti in reperti, in oggetti. In questo modo creano o stabilizzano percezioni della realtà. I ruderi dell’Atlantikwall raccontano diverse storie: sono strettamente legati all’ideologia e alla geopolitica razzista dei nazisti. Ma dietro alla storia nazista della quale testimoniano il fallimento—il successo del D-day dimostra che non riuscirono a proteggere i soldati tedeschi—queste rovine confermano il mito che la protezione estrema dalla guerra è possibile a spese delle vite degli altri. Traduzione italiana: Antonella Bergamin
Notes
Note
1. See Lemmes 2012. 2. Fuhrmeister and Mittig 2008. 3. In German: “Als ich mit großer Mühe die ungeheure Stahltüre geöffnet hatte und in die Betongruft hinabgestiegen war, stand ich zwischen den Maschinenwaffen, den Entlüftern, den Handgranaten allein und hielt den Atem an […] Hier erst erkannte ich den Ort als Wohnsitz eisenkundiger Zyklopen, denen das innere Auge fehlt […] So war ich wie im Inneren der Pyramiden oder der Tiefe der Katakomben, dem Zeitgeist konfrontiert, den ich wie ein Idol ganz ohne den bewegten Schimmer der technischen Finessen sah und dessen ungeheure Stärke ich begriff.” 4. Foucault 1990. 5. Doßmann et al. 2006. 6. Pias 2001, 39.
1. Si veda Lemmes 2012. 2. Fuhrmeister and Mittig 2008. 3. In tedesco: “Als ich mit großer Mühe die ungeheure Stahltüre geöffnet hatte und in die Betongruft hinabgestiegen war, stand ich zwischen den Maschinenwaffen, den Entlüftern, den Handgranaten allein und hielt den Atem an […] Hier erst erkannte ich den Ort als Wohnsitz eisenkundiger Zyklopen, denen das innere Auge fehlt […] So war ich wie im Inneren der Pyramiden oder der Tiefe der Katakomben, dem Zeitgeist konfrontiert, den ich wie ein Idol ganz ohne den bewegten Schimmer der technischen Finessen sah und dessen ungeheure Stärke ich begriff.” 4. Foucault 1990. 5. Doßmann et al. 2006. 6. Pias 2001, 39.
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Elena Pirazzoli
Showing Nazism: The Embarrassing Ruins of the Thousandyear Reich* Mostrare il Nazismo: Le Imbarazzanti Rovine del Reich Millenario*
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Diese Bauwerke nicht gedacht sein für das Jahr 1940, auch nicht für das Jahr 2000, sondern sie sollen hineinragen gleich den Domen unserer Vergangenheit in die Jahrtausende der Zukunft. These buildings are not to be conceived for the year 1940, nor for the year 2000, but are to tower up like the cathedrals of our past into the millennia to come.
Diese Bauwerke nicht gedacht sein für das Jahr 1940, auch nicht für das Jahr 2000, sondern sie sollen hineinragen gleich den Domen unserer Vergangenheit in die Jahrtausende der Zukunft. Questi edifici non devono essere pensati per l’anno 1940, e neppure per l’anno 2000, ma ergersi come le cattedrali del nostro passato per i millenni futuri.
Adolf Hitler, 7th September 1937, Nuremberg
Adolf Hitler, 7 settembre 1937, Norimberga
Planning our own image for the millennia to come
Progettare la propria immagine per i millenni futuri
Hitler’s many statements aiming at singing the praises of the great Third Reich architectural projects—the “stone words” with which he wanted to inscribe history—are wellknown. Not only did they play a propagandistic or decorative role for the Nazi political vision, but they were also part of it, a fundamental and constitutional part, aiming on the one hand at formally representing the Reich, and on the other at providing the spaces for the new Nazi society. Thus, they are not simply the result of the inspiration of an artist or a failed architect (young Hitler attempted more than once to enroll at Vienna’s Academy of Art), but rather of an organic view, shared with the other hierarchs and entrusted to various designers and planners. In the 2000s (and beyond) we find ourselves not only in front of Hitler’s fixation, not only in front of Speer’s hypertrophic classicism, but rather in front of a complex and articulated phenomenon. First, there was the intention of giving a new image to the main cities (and, afterwards, also to minor centers), an image which had to be adequate to their Nazi fate. The five so-called Führerstädte—Berlin, the future Welthauptstadt Germania, capital of the Reich (and of the world), Nuremberg, city of the Parteitag, Munich, the cradle of the Nazi movement, Hamburg, the main port, and Linz, the city of Hitler’s youth, whose new beauty was supposed to eclipse Vienna—would have to undergo heavy
Sono noti i numerosi pronunciamenti di Hitler inneggianti ai grandiosi progetti architettonici del Terzo Reich, le “parole di pietra” con cui scolpire la storia. Essi non svolgevano solo un ruolo propagandistico o decorativo della visione politica nazista, ma ne erano, anzi, parte fondamentale e costitutiva, volta da un lato a dare rappresentazione formale al Reich, dall’altro a fornire gli spazi per la vita della nuova società nazista. Non sono così frutto semplicemente dell’aspirazione di un artista o architetto mancato—famosi, e dileggiati, sono i ripetuti tentativi del giovane Adolf per entrare all’Accademia di Belle Arti di Vienna—ma di un più organico pensiero, condiviso con gli altri gerarchi e affidato alle menti di numerosi progettisti. Negli anni 2000 (e più) ci troviamo di fronte non solo a una fissazione di Hitler, non solo al classicismo ipertrofico di Speer, ma a un fenomeno complesso e articolato. Innanzitutto vi era l’intento di dare una nuova veste alle città principali (e a seguire anche i centri minori), adeguata al loro destino nazista. Le cosiddette cinque Führerstädte—Berlino, la futura Welthauptstadt Germania, capitale del Reich (e del mondo), Norimberga, città del Parteitag, Monaco, culla del movimento nazista, Amburgo, il porto principale, e Linz, la città della giovinezza di Hitler, la cui nuova bellezza avrebbe dovuto oscurare Vienna—avrebbero dovuto subire imponenti distruzioni in modo da 127
destruction in order to be able to host the new buildings of representation. Huge buildings that were defined “megalomaniacal” by Speer himself in his memoirs. The projects, which were never actually realized, are impressive because of their superhuman dimension, but also because of their immeasurable perspective of duration. In fact, according to the Theorie von Ruinenwert—the “theory of the value of ruins”—developed by Speer himself in order to please Hitler,1 they would have to last beyond the Führer, beyond the Reich itself. As Canetti states, for Hitler “those buildings were first of all conceived to last forever: their aim was to strengthen people’s self-consciousness after his death” (1972, 111). Consequently, their composition materials should have been as durative as possible, such as granite, and not fragile like glass or concrete. This because they would have to show the Reich’s power even “in the form of ruins.” And their proportions had to be colossal, so that the masses could grow and reduplicate in them, perceiving, this way, a ritual and cultural dimension.2 The architects who were working on these projects, such as Paul Ludwig Troost, the young Albert Speer, but also the not so well-known Hermann Giesler, had been chosen by Hitler because their work reflected his taste, whose interpretation was thus entrusted to them. The projects were started soon after the seizure of power, but none of them was completely accomplished by 1939, when the war started. Consequently, urban and especially celebratory planning works were never realized, even if spaces had started to be prepared and the ground’s solidity tested. Such projects included the great North-South road network to Berlin, which went from the Grosse Halle, also called Kuppelberg (the dome-shaped building 290 meters high and 250 meters in diameter, designed to host congregations) to the triumphal arc (120 meters high, onto which the names of all the people who had died in the Great War— namely 1,800,000 names—would have had 128
poter ospitare i nuovi palazzi di rappresentanza. Edifici enormi, definiti “da megalomani” dallo stesso Speer nelle sue memorie. Dei progetti, rimasti tutti sulla carta, colpisce la dimensione sovraumana, ma anche la loro prospettiva di durata è ostentatamente smisurata: secondo la Theorie von Ruinenwert— la “teoria del valore delle rovine”—elaborata proprio da Speer compiacendo Hitler,1 dovevano durare oltre il Führer, oltre il Reich stesso. Come afferma Canetti, infatti, per Hitler “quegli edifici sono innanzitutto concepiti per l’eternità: devono servire a rafforzare l’autocoscienza del popolo quando egli non ci sarà più” (1972, 111). In questa visione, i loro materiali di composizione devono essere il più possibile duraturi, come il granito, e non fragili come il vetro e il cemento, poiché visti “in forma di rovine” avrebbero dovuto mostrare la potenza del Reich. E la loro scala deve essere colossale, in modo che la massa possa in essi accrescersi e ripetersi, percependo una dimensione rituale e cultuale.2 Gli architetti coinvolti in questi piani, come Paul Ludwig Troost, il più giovane Albert Speer, ma anche l’oggi meno noto Hermann Giesler, vengono scelti da Hitler in quanto i loro lavori rispecchiano i suoi gusti, di cui divengono gli interpreti principali. I progetti vengono avviati poco dopo la presa del potere, ma nessuno sarà già completamente compiuto nel 1939, allo scoppio della guerra. Di conseguenza, piani urbanistici, ma soprattutto celebrativi, come il grande asse viario nord-sud per Berlino, compreso fra la Grosse Halle, detta anche Kuppelberg—l’edificio a cupola di 290 metri di altezza e 250 di diametro destinato alle adunate—e l’arco di trionfo alto 120 metri con incisi tutti i nomi dei caduti nella Grande Guerra—1.800.000 nomi—non furono realizzati, anche se si cominciò a fare loro spazio e a testare la solidità del terreno. Fa eccezione il caso di Norimberga, dove il polo di edifici per le celebrazioni del Parteitag nel 1939 era praticamente ultimato, con lo Zeppelinfeld, la Luitpold Arena (preesistente), la Kongresshalle in forma
Seebad Prora, Rügen, 2007. (Ph. Elena Pirazzoli)
to be inscribed). Nuremberg is an exception. Indeed, the group of buildings aimed at celebrating the Parteitag in 1939 was basically completed, with the Zeppelinfeld, the (preexisting) Luitpold Arena, the Kongresshalle (which had the shape of the Coliseum and was designed by Ludwig and Franz Ruff ), the Grosse Strasse (which was paved with granite and was supposed to emphasize the link between the old town—where the Imperial Diets used to be held—and the new Stadt der Reichsparteitage). They still had to build the Märzfeld and the huge horseshoeshaped Deutsches Stadion, whose shape was a sign of Speer’s admiration for Athens stadium. As Speer testifies, “Hitler used to repeat that he would build in order to transmit the spirit of his age to posterity” (Speer 1969, 66). In the far future the great monuments’
di Colosseo (disegnata da Ludwig e Franz Ruff ), la Grosse Strasse lastricata di granito (che doveva enfatizzare il legame fra la città vecchia, sede delle Diete imperiali, e la nuova Stadt der Reichsparteitage). Rimanevano ancora da costruire il Märzfeld e l’enorme Deutsches Stadion a ferro di cavallo, debitore della fascinazione di Speer per lo stadio di Atene. Come racconta ancora Speer, “Hitler amava molto ripetere che egli costruiva per trasmettere ai posteri lo spirito del suo tempo” (1969, 66): nel futuro lontano i grandi monumenti in rovina potranno celebrare il Reich, come accade ora per le imponenti vestigia romane. Tuttavia, questi progetti più noti non sono gli unici pensati dal nazismo: non solo immensi archi di trionfo, edifici a cupola e monumentali assi viari per le parate. La 129
ruins might have celebrated the Reich, just as it happens now with the impressive Roman remains. However, these projects (which are the best-known and include huge triumphal arcs, dome-shaped buildings and monumental road networks for parades) were not the only ones conceived during the era of Nazism. Nazi urban planning also presents capillary aspects and antithetical shapes, which are at the same time more archaic and more modern. At the time of the seizure of power, Nazis readily proposed an architectural, building and urban planning which was alternative and openly opposite to the one undertaken by Weimar’s republic.3 The latter, in fact, was unmistakably characterized by the canons of modern architecture. However, the new Nazi planning was definitely not univocal. On the contrary, it presented different stylistic trends and various cliental logics. In some cases, it expressed a neo-romantic design, in others, it looked rural and vulgar, or also neoclassical, or sometimes modernist and functionalist, a trend which was common in the industrial field.4 Since the 1970s, the publications of Albert Speer’s memoirs, and later of Gitta Sereny’s interview to this seductive, opportunist and manipulative person, have probably attracted all the attention to the detriment of other aspects. Indeed, more subtle considerations on the context in which he had acted, on the participation of various architects (with very different educational backgrounds), on the capillarity and the speed of fulfillment of Nazi architectural and urban planning, have received only minor attention. Whereas many other aspects of Nazism have been thoroughly studied and the results of such studies have been translated and disseminated, the architectural-urban theme (if not strictly propagandistic or celebrative) has long been neglected, even if there were traces of it. Maybe this happened also because during the Cold War people preferred to consider Nazism, and Fascism in general, as an interlude, with no historical, social, cultural, 130
pianificazione nazista ha aspetti più capillari, e forme antiteticamente allo stesso tempo più arcaiche e più moderne. Già alla presa del potere i nazisti proponevano un programma architettonico, edilizio e urbanistico alternativo e dichiaratamente opposto a quello portato avanti dalla repubblica di Weimar,3 che era stato caratterizzato inequivocabilmente dai canoni dell’architettura moderna. Nonostante ciò il nuovo programma nazista non è affatto univoco, anzi fa convivere diverse tendenze stilistiche e varie logiche clientelari: in alcuni casi esprime una concezione neoromantica, in altri rurale e vernacolare, in altri ancora neoclassica, ma è presente anche quella modernista e funzionalista, linea diffusa nell’ambito industriale.4 A partire dagli anni Settanta la pubblicazione delle memorie di Albert Speer, seguita dall’intervista a questa personalità seduttiva, opportunista e manipolatrice fatta da Gitta Sereny, hanno probabilmente convogliato l’attenzione in modo tale che più sottili riflessioni sul contesto in cui egli aveva operato, sul coinvolgimento di diversi architetti (anche di formazione molto differente dalla sua), sulla capillarità e la velocità di realizzazione dei piani architettonici e urbanistici del nazismo, hanno ricevuto un’attenzione solo secondaria. Mentre molti altri aspetti del nazismo sono stati studiati in modo approfondito e gli esiti di queste ricerche tradotti e diffusi, il tema architettonico-urbanistico, laddove non di natura strettamente propagandistica o celebrativa, è rimasto in ombra più a lungo. Benché ne restassero le tracce. Forse questo accadde anche perché negli anni della guerra fredda si preferì vedere nel nazismo, e nel fascismo in generale, una parentesi, senza nessun legame storico, sociale, culturale, oltre che ovviamente politico, con il passato e il presente delle nazioni e aree coinvolte. Invece, l’ideologia nazista riprendeva e assumeva in sé componenti della tradizione e del passato recente tedesco ed europeo, collocandosi in una sorta di “modernità reazionaria.”5 Nel dopoguerra, però, la componente
Ordensburg Vogelsang, 2010 (Ph. Elena Pirazzoli)
and obviously political link with the past and the present of the countries and the areas involved. On the contrary, Nazi ideology resumed and took on elements of German and European traditions and of their recent past, setting itself in a sort of “reactionary modernity.”5 However, after the war, the modern feature was completely excluded from the Nazi phenomenon: “Fascism and Modernism were typically treated as intrinsically antithetic and morally unsuitable” (Betts 2002, 541).6 The cultural roots of Nazism were very articulated, deep and ambiguous, with constant references to precise, although composite, imageries. However, they all shared their belonging to mythical eras because of a powerful or occult power: from the ancient Romans to Germanic peoples, till the knights of the Teutonic Order. The various hierarchs, in their political lines, were often inspired by these different cultural imaginaries, declining them in a modern sense.
moderna venne esclusa dal fenomeno nazista: “fascismo e modernismo venivano tipicamente trattati come intrinsecamente antitetici e moralmente incompatibili” (Betts 2002, 541).6 Le radici culturali del nazismo erano molto articolate, profonde e ambigue, con costanti riferimenti a immaginari precisi benché compositi, tuttavia accomunati dall’appartenere a epoche mitiche per la presenza di un potere forte oppure occulto: dagli antichi Romani ai popoli germanici, fino ai cavalieri dell’Ordine teutonico. I diversi gerarchi, nelle loro linee politiche, in molti casi si lasciavano “ispirare” da questi differenti immaginari culturali, declinandoli in senso moderno. La formazione nazista Fu soprattutto Goebbels, influenzato da Rainer Schlösser, responsabile del settore teatrale del suo ministero, a sposare l’idea del nuovo teatro Thing: prendendo il nome dei 131
Nazi education Goebbels, who was influenced by Rainer Schlösser, was the main responsible of the theatre sector of his Ministry. He was the person who embraced the idea of the new Thing theatre: by taking the name of the ancient Germans’ gatherings, the reform of the theatre, which had been started in the first decades of the century, became nationalist, cultural, Panic and tribal. The Thingspiele would put on stage ancient choruses or new plays with an epic theme (some of them celebrated the first blackshirts’ battles). Obviously, their celebration could not take place in middle-class theatres, but required a new space, which, following Wagner’s Waldoper, had to be outdoor, surrounded by nature, with the audience standing, lit only by torches.7 Hundreds of Thingplatzen or Thingstätten were designed: every city had to have one of these “cathedrals” for the new cult. The first one was inaugurated at Halle in June, 1934; then it was the time of Heidelberg and on that occasion Goebbels claimed, “Germany’s renewal will originate from these stones!”8 However, “only” forty of them were realized, some of which can be found in the woods in Germany (or in the current Poland or Russia) to witness the Reich’s most pagan and archaic dimension. This aspect was not really appreciated by Hitler, who considered the ancient Germans’ culture as infinitely behind with respect to the Romans’, and consequently he despised it.9 The project was abruptly interrupted in 1937: not only did it not give the expected results, but it also risked generating masses of chauvinist and hardly controllable people. It is possible to find these theatres in Heidelberg, Halle, Berlin10 (and in many other cities), and in big parks and forests. Even if they are currently described by tour guides as being a German interpretation of Greek theatres, their aspect reveals a completely different descent. The reservoirs seem to be deep, almost steep; the flourishing nature that wraps their dark stones—and in 132
raduni degli antichi Germani, la riforma del teatro iniziata nei primi decenni del secolo approda a questa formula insieme nazionalista, cultuale, panica, tribale. Il Thingspiele doveva mettere in scena antichi cori o nuovi testi (in alcuni casi ricordavano le prime battaglie delle camicie brune) di tematica epica. Il luogo della loro celebrazione non poteva certamente essere il teatro borghese, quanto un nuovo spazio, che, sull’onda della Waldoper wagneriana, doveva essere all’aperto, immerso nella natura, con il pubblico in piedi, alla luce delle torce.7 Le Thingplatzen o Thingstätten furono progettate a centinaia: ogni città doveva dotarsi di una di queste “cattedrali” per il nuovo culto. La prima fu inaugurata presso Halle nel giugno 1934, poi fu la volta di quella di Heidelberg: in quell’occasione Goebbels dichiarò “Da queste pietre scaturirà il rinnovamento della Germania!”.8 Ne furono invece realizzate “solo” una quarantina, che in parte restano nei boschi della Germania (o dell’attuale Polonia o Russia) a testimoniare la dimensione più pagana e arcaica del Reich: un aspetto poco amato da Hitler, che sentiva come il mondo dei Germani fosse infinitamente arretrato rispetto a quello romano, quindi lo disprezzava.9 Il progetto fu bruscamente interrotto nel 1937: non solo non dava i risultati sperati, ma anzi rischiava di creare masse invasate poco controllabili. Presso Heidelberg, Halle, Berlino10 (e molte altre città ancora), in grandi parchi o foreste si incontrano questi teatri: benché ora vengano spesso descritti dalle guide turistiche come declinazione tedesca del teatro greco, il loro aspetto tradisce un’ascendenza completamente diversa. Gli invasi danno l’impressione di essere profondi, quasi vertiginosi, la natura rigogliosa che avvolge—e in certi casi invade e compenetra—le loro pietre scure contribuisce a renderli gotici; la stessa luce del nord, fredda, nebbiosa, li rende distantissimi dalle ariose e assolate arene classiche del Mediterraneo. Uno di questi tetri teatri Thing si trova nell’estremo nord della Germania, nell’isola
some cases it invades and penetrates them— contributes to making them gothic. The northern light itself, cold and foggy, makes them so distant from the classical Mediterranean airy and bright arenas. One of these dark Thing theatres is located in the extreme North of Germany, in the island of Rügen, and specifically in Bergen auf Rügen, in the middle of the forest behind a Bodden, a wide reflecting pool of sea water encircled by earth. Not far away, on the opposite side of this lake, there is another Nazi architectonic project— which was almost finished in 1939—called Prora. Robert Ley, the head of Kraft durch Freude (KdF, the German leisure organization “Strength through Joy”) and one of the Reich’s major promoters of building ventures, had wanted to have it designed. Prora is a resort made up of a single six-floor building, 4,5 kilometers long (although designed to spread over 6 kilometers), which overlooks the beach towards the Baltic Sea.11 Differently from the other monumental buildings that can be found in the Reich’s main cities, the Koloss von Prora, or Seebad Prora, is essentially modernist. It is made of a repeated module, a sea colony reproduced at extreme proportions. It should have been used as a summerhouse, capable of hosting over 20,000 people (plus 2,000 domestic workers), even though leisure activities for German workers should have been performed according to an appropriate foreign policy with an imperialistic style.12 In 1936 a competition for the housing complex was announced, and Speer, who was one of the commissioners, invited several architects (among whom his master, Heinrich Tessenow). The winning project, designed by architect Clemens Klotz, was declared during the Olympics. The building was supposed to spread following the line of the beach for some kilometers; moreover, the project included the construction of a wide room, the Festhalle, designed by Erich zu Putlitz, who also took part in the competition. The project for Seebad Prora was presented at the
di Rügen, precisamente presso Bergen auf Rügen, immerso nella foresta appena alle spalle di un Bodden, ampio specchio d’acqua di mare circondato dalla terra. A pochissima distanza, sul lato opposto di questo lago, si trova un altro progetto architettonico nazista, arrivato quasi al suo compimento nell’anno 1939: Prora. Concepito per volere di Robert Ley, capo della Kraft durch Freude (KdF, l’associazione dopolavoristica tedesca, “forza attraverso la gioia”) e uno dei maggiori promotori di iniziative edilizie del Reich, Prora è insieme una località e un unico edificio di sei piani di altezza per 4,5 chilometri di lunghezza (ma previsto per svilupparsi su 6 km) affacciato direttamente sulla spiaggia rivolta verso il Mar Baltico.11 Il Koloss von Prora, o Seebad Prora, diversamente dagli edifici monumentali per le città principali del Reich è essenzialmente modernista. Un modulo ripetuto, una colonia marina portata a una scala estrema. La sua funzione doveva infatti essere proprio quella di una casa per vacanze capace di ospitare 20.000 persone (più 2.000 di servizio), anche se quelle attività di svago per il lavoratori tedeschi dovevano essere fatte in vista di un’adeguata politica estera di matrice imperialista.12 Nel 1936 fu indetto un concorso per il complesso, in cui Speer, in veste di commissario, invitò vari architetti dell’epoca (fra cui Heinrich Tessenow, suo maestro). Il progetto vincitore viene proclamato durante le Olimpiadi: disegnato dall’architetto Clemens Klotz, l’edificio si sviluppa seguendo l’andamento della spiaggia per alcuni chilometri; in più, viene prevista anche l’edificazione di un’ampia aula, la Festhalle, su progetto di Erich zu Putlitz, altro partecipante al concorso. Insieme al piano per Norimberga, il progetto per Seebad Prora viene presentato all’Esposizione internazionale di Parigi nel 1937, come per mostrare un lato sociale e pacifico del Reich. Ma nelle indicazioni del concorso veniva già prevista una rapida trasformazione del complesso in ospedale militare.13 133
Ordensburg Vogelsang, 2010 (Ph. Elena Pirazzoli)
International Exhibition in Paris in 1937, together with the project for Nuremberg, as if they meant to show a social and pacific side of the Reich. However, a rapid transformation of the building complex into a military hospital was already provided for in the text of the competition.13 Robert Ley had also been assigned the task of training young Germans. To this aim, Ordensburgen were created. Their name originates from the medieval denomination of the fortresses of the Teutonic Order and they were “schools” where the future executive elites were trained. Vogelsang in Eifel (in Northern-Rhineland—Westphalia), Falkenburg am Crössinsee (in Pomerania, in current Poland), and Sonthofen, in Allgäu, (in Alpenland): the three Ordensburgen which were actually built were located West, North-East and South of Germany, as if they were meant to contain the Reich’s heart. The fourth Nazi school was supposed to be built in Western 134
Sempre a Robert Ley era stato affidato il compito dell’addestramento dei giovani: a questo proposito vennero realizzate le Ordensburgen: riprendendo la denominazione medioevale per le fortezze dell’Ordine teutonico, il nazismo creò alcune “scuole” per formare la futura élite dirigenziale. Vogelsang nell’Eifel (in Renania settentrionale-Vestfalia), Falkenburg am Crössinsee (in Pomerania, ora territorio polacco), e Sonthofen, in Allgäu, (nell’Alpenland): le tre Ordensburgen effettivamente costruite erano poste rispettivamente a ovest, nord-est e sud della Germania, come a racchiudere il cuore del Reich. La quarta scuola nazista doveva essere in Prussia occidentale, presso una vera e propria Ordensburg, ovvero la fortezza dell’ordine teutonico di Marienburg (attuale Malbork, Polonia). Hermann Giesler disegnò Sonthofen, mentre Volgesang e Crössinsee furono realizzate nuovamente su progetto di Clemens Klotz. In questi luoghi la disciplina sposava
Prussia, by a real Ordensburg, namely the fortress of the Teutonic Order of Marienburg (currently, Malbork, in Poland). Hermann Giesler designed Sonthofen, whereas Clemens Klotz projected Volgesang and Crössinsee. In such places, discipline was taught together with school and gymnastic education (horse-riding was particularly important), and military training. For these fortresses, architects used regionalist architectural and formal elements, natural and traditional materials, such as stone and wood, even though they were used in a modern way, and inserted in a general atmosphere that was pervaded with warlike and neo-romantic Middle Ages. While Sonthofen spreads itself along an area in the shade of the Alps, which is relatively plain, Vogelsang is located in the middle of a forest and its buildings symmetrically shelve along a slope heading towards a group of lakes created by a dam. For this reason, the tower, the courtyard and the main building that are on the top of the hill often seem to be enveloped by clouds and fog. Many of the planned buildings were never actually realized, such as the Haus des Wissens, the house of knowledge (which should have had impressive dimensions, 100 x 300 meters):14 once more, the proportions are immense. However, a theatre Thing was realized in the complex. Even if it is different from its more common model, it was included in the wider Ordensburg project because of its functional role in the education of the masses. Articles printed at the time of construction focus on the fact that Vogelsang—whose construction site had been started in 1934 and was concluded in 1937—stands out among the other projects of the programme of the regime.15 It was an “isolated creative fact,” achieved thanks to an architect with a “strict Nazi ideology” who was committed to “formally realizing a very new idea.” We can still read: “Here at Vogelsang we haven’t simply built, but we have also ‘shaped’, in its strictest meaning.” They had shaped spaces appropriate to shaping the future Nazi executives, immersed in places and
l’educazione scolastica e ginnica (particolare importanza aveva l’equitazione), fino a quella militare. Per queste nuove fortezze, gli architetti utilizzano elementi architettonici e formali regionalisti, materiali naturali e tradizionali come pietra e legno tuttavia declinati in senso moderno, pur inseriti in un’atmosfera generale intrisa di medioevo guerresco e neoromantico. Se Sonthofen si sviluppa in un’area relativamente pianeggiante all’ombra delle Alpi, Vogelsang è sita in mezzo alla foresta e gli edifici digradano simmetricamente lungo un declivio rivolto verso un sistema di laghi creato da una diga: per questo motivo, la torre, la corte e l’edificio principale posti sulla sommità della collina appaiono spesso avvolti da nubi e nebbia. Anche in questo caso alcuni edifici rimangono solo sulla carta, come la Haus des Wissens, la casa della conoscenza (che doveva avere dimensioni imponenti, 100 metri per 300):14 di nuovo, le proporzioni sono smisurate. Viene invece realizzato presso questo complesso un teatro Thing, diverso dal modello più diffuso, ma, per il suo valore educativo delle masse, inserito nel progetto più ampio dell’Ordensburg. Gli articoli coevi alla costruzione sottolineano come Vogelsang—il cui cantiere era iniziato dopo il primo “colpo di vanga” nel 1934 per concludersi nel 1937—spicchi fra gli altri progetti del programma prestabilito dal regime.15 Si trattava di un “fatto creativo isolato,” ottenuto grazie al lavoro di un architetto di “stretta ideologia nazionalsocialista” impegnato nel dare “realizzazione formale a un’idea nuovissima.” Si legge ancora: “Qui a Vogelsang non si è soltanto costruito, ma si è ‘formato,’ nel vero senso della parola.” Formare spazi consoni alla formazione della futura dirigenza del nazionalsocialismo, immersi in luoghi, in paesaggi, che letteralmente impetravano—nella loro conformazione naturale e geologica—l’immaginario germanico più mitico, insieme romantico e guerresco. La preparazione per la guerra appare un momento fondamentale già immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler: 135
landscapes which—in their natural and geographical conformation—literally reflected the most mythical Germanic imagination, which is at the same time romantic and warlike. War training appeared to be vital soon after Hitler’s seizure of power, as everything seemed to be heading towards that objective. Also architectural projects were addressed towards the war and even towards the power consolidation after the victory. Even though the war interrupted the realization of the monumental plans (which were expected to be completed by the early 1950s), it also contributed to starting new ones, such as the Flaktürme, the anti-aircraft gun blockhouse towers. They were impressive bunkers made of concrete, planned by architect Friedrich Tamms, who was inspired by some of the great buildings of the past (the Mausoleum of Theodoric, Castel Sant’Angelo). Their construction started in 1940, and they were located in some strategic positions in order to protect the main cities of the Reich. Each complex consisted of two towers: a combat tower (G-Turm, Gefechtsturm) and a lead tower (L-Turm, Leitturm), and they formed a triangle around the hearts of Berlin, Hamburg and Vienna. Other towers had already been planned for Bremen and Munich, but they were never built. Three kinds of G-Turm existed, with defined formal models (either as towers or fortresses), while lead towers were usually plainer. In all cases, however, concrete walls were over 3 meters thick, while their height and lengths varied from 40 meters to over 50 meters. They could host thousands of soldiers, and in the last days of the battle of Berlin also a very high number of civilians took refuge inside of them. They were completely independent as far as energy was concerned, and consequently they were capable of resisting a siege. And after the war (providing they had won it) they could—or should—have been turned into impressive monuments, covered in marbles and decorations, as symbols of a new pax germanica, since it would 136
tutto deve concorrere verso questo obiettivo. E i progetti architettonici sono rivolti anch’essi allo sforzo bellico o addirittura al consolidamento del potere dopo la vittoria. Se la guerra interrompe la realizzazione dei piani monumentali (il cui completamento era atteso per i primi anni Cinquanta), ne innesca altri: è il caso delle Flaktürme, le torri della contraerea. Imponenti bunker realizzati a partire dal 1940 su disegno dell’architetto Friedrich Tamms—che si ispirò a grandiosi edifici del passato (il Mausoleo di Teodorico, Castel Sant’Angelo)—, queste torri in calcestruzzo armato vengono posizionate in luoghi strategici per proteggere le città principali del Reich: a coppie, formate da una di combattimento (G-Turm, Gefechtsturm) e una logistica, di comando (L-Turm, Leitturm), le torri disegnavano un triangolo attorno ai cuori di Berlino, Amburgo e Vienna. Altre torri erano state progettate per Brema e Monaco, ma non furono mai realizzate. Esistevano tre tipologie di G-Turm con modelli formali definiti (in forma di torre o di fortezza), mentre la L-Turm era solitamente più semplice. In tutti i casi, le pareti di calcestruzzo armato arrivavano a più di 3 metri di spessore, le altezze e il lato variavano da 40 metri a oltre 50. Al loro interno, le torri potevano ospitare migliaia di soldati, ma a Berlino, negli ultimi giorni di combattimenti, arrivarono ad accogliere anche un altissimo numero di civili in cerca di protezione. Erano completamente autonome dal punto di vista energetico, capaci di resistere all’assedio. E una volta finita (e vinta) la guerra, avrebbero potuto—o meglio, dovuto—essere trasformate in imponenti monumenti, ricoperte di marmi e decorazioni, come simboli di una nuova pax germanica, vista la quasi impossibilità della loro demolizione dettata dalla loro possente presenza. Alla fine della guerra, invece, le Flaktürme berlinesi—in forma di fortezza—furono fatte saltare dai russi e trasformate in Trümmerbergen, vere e proprie montagne di macerie: la Gefechtsturm di Friedrichshain divenne nel 1950 in una delle
have been impossible to pull them down because of their mightiness. On the contrary, Flaktürme in Berlin, which had the shape of a fortress, were blown up by the Russians and turned into Trümmerbergen, that is, outand-out heaps of rubbles. In 1950, the Gefechtsturm, in Friedrichshain, became one of the highest hills of the city made of debris, and this is way it is called Mont Klamott (mount potsherd/junk). However, the demolition of the Flaktürme in Berlin (where the only thing that remains of them is part of the Flakturm in Humboldthain, which is completely enveloped by the vegetation) was so difficult and expensive that the Allied preferred to keep those mighty buildings in Vienna and Hamburg. Indeed, nowadays it is still possible to see them in their entirety in some parks or areas just outside the city centers, or, in the case of one of the three couples of Viennese towers, even round the corner from the Hofburg. The Flaktürme can be considered as a peculiar form of bunkers, a typology that was widely exploited by Nazism, both quantitatively and dimensionally. The Organisation Todt supervised the construction of the thousands of bunkers of the Atlantikwall, and also of the huge Bunker Valentin, near Bremen, where U-boots would have had to be assembled.16 They were mainly projects which were functionally useless, and which required a remarkable amount of resources and of workforce. Workers were available in large numbers from labor camps (Zwangsarbeiter). Millions of forced laborers were sent to camps and exploited to death in caves and construction sites. In fact, within the Reich’s systematic planning one should not forget about concentration and extermination camps. Academic and historical studies have always focused mainly on the function of these structures, rather than on their planning. As a matter of fact, the active participation on the part of architects during the moment of designing has barely been studied. However, such elements
più alte colline di residui della città, tanto da essere chiamata Mont Klamott (monte coccio/cianfrusaglia). Tuttavia la demolizione attuata a Berlino (dove resta solo una parte della Flakturm di Humboldthain, completamente avvolta dalla vegetazione) fu talmente dispendiosa e difficile che nel caso di Vienna e Amburgo si preferì tenere gli ingombranti edifici, che restano tuttora integri in alcuni parchi e aree appena fuori dal centro cittadino, o addirittura, come nel caso di una delle tre coppie di torri viennesi, addirittura a pochi passi dall’Hofburg. Le Flaktürme possono essere considerate una peculiare declinazione del bunker, tipologia ampiamente—quantitativamente e dimensionalmente—sfruttata dal nazismo: l’Organisation Todt presiedette alla costruzione delle migliaia di bunker dell’Atlantikwall, ma anche al quella di un colosso come il Bunker Valentin, nei pressi di Brema, dove dovevano essere assemblati gli Uboot.16 Progetti funzionalmente inutili, per lo più, sui quali venne convogliato un notevole ammontare di risorse e che richiesero l’impiego di molta manodopera. Ma quest’ultima era disponibile negli enormi numeri degli Zwangsarbeiter, i milioni di lavoratori coatti convogliati nel sistema dei campi, e sfruttati a esaurimento nelle cave e nei cantieri. Nella progettazione sistematicamente pianificata del Reich non si deve dimenticare proprio il sistema dei campi di concentramento e sterminio. Negli studi, la pianificazione di queste strutture è sempre stata considerata secondaria rispetto alla loro funzione, la partecipazione di architetti nel momento di concezione è stata raramente oggetto di analisi, eppure questi elementi non sono di poco conto per comprendere il significato dei campi all’interno del sistema nazista.17 I campi di prigionia non erano una novità nella storia, e conseguentemente nella storia della progettazione: per realizzare quelli nazisti si attinse a modelli tratti dall’architettura militare, penitenziaria e anche ospedaliera (psichiatrica), elaborati a partire dal Settecento e 137
should not be underestimated in order to understand the meaning of the camps within the Nazi system.17 Prison camps were not a new thing in history, and consequently in the history of planning; therefore, in order to realize Nazi camps, architects drew from models taken from military, penitentiary and (psychiatric) hospital architecture, which had been carried out since the eighth century and especially used in colonies. One might be tempted to see symbolic aspects in the camps’ structure that would allow us to understand what could never be understood (such as the terror’s spatialization). However, the camps were divided into several zones within which the different kinds of activities were strictly limited and people were taxonomically ordered according to their origin, status and hope for life. This division could be compared to certain urban plans realized by functionalist architects, which were based on the dissociation of daily life components. As Jean-Louis Cohen notes, different models were proposed also in the case of camps, from the industrial type (Auschwitz) to the fortress type (Mauthausen), with monumental elements (such as the portal) alongside functionalist and optimized aspects (such as the gas chamber-crematorium complex in the case of extermination camps). Also in this case, it is evident not only megalomaniac eclecticism, but also modern (Enlightenment-related and modernist) culture, linked to the spaces’ functionality. The inhuman proportions If we try to take into consideration the various aspects of the Nazi policies, we can see how the hypertrophic projects, the cathedrals for a new cult, the huge structures for mass leisure time, bunkers and the concentration camps’ system all originate from one single plan and they are all connected one to the other. Without slaves—who would work in granite caves as well as in the laying of 138
Flakturm in Augarten, Wien, 2009 (Ph. Elena Pirazzoli)
utilizzati soprattutto nelle colonie. Benché si possa essere tentati di leggere nella struttura dei campi aspetti simbolici che permettano di comprendere oggi l’incomprensibile—la spazializzazione del terrore—, tuttavia la zonizzazione d’insieme dei campi, all’interno dei quali i differenti tipi di attività erano rigorosamente delimitati, le popolazioni ordinate tassonomicamente secondo origine, statuto e speranza di vita, potrebbe essere paragonata a certi progetti urbani degli architetti funzionalisti, fondati sulla dissociazione delle componenti della vita quotidiana. Come sottolinea Jean-Louis Cohen, anche nel caso dei campi vengono proposti modelli differenti, che spaziano dal tipo industriale (Auschwitz) al tipo fortezza (Mauthausen), con elementi monumentali (come il portale) accanto ad aspetti funzionalisti e ottimizzati (il complesso camera a gas-crematorio nel caso dei campi di sterminio). Anche in questo caso, non solo eclettismo megalomane, ma anche la cultura moderna (illuminista e modernista) improntata alla funzionalità degli spazi.
concrete—it would not have been possible to create those immense buildings. Without the blind chauvinism of the masses, who were strengthened and united in the temples of celebration and of total war, the creation of the camps would not have been accepted.18 The superhuman conception, therefore, lies in the dimensional aspect, in the temporal perspective (the thought of the effect of their own remains on posterity as a demonstration of their own strength), but also in its social one: society was “formed” by legislatively expelling and physically destroying (the meaning of Vernichtungslager is conveyed by that nicht, that is, giving nothing back) and at the same time by molding new men, who, however, were subordinated, smashed by ideology and by its representative forms.19 The remains of these superhuman architectures give way to uncertainties, reveal ambiguities, and provoke embarrassment. Only with much difficulty, and, in any case, quite recently, museum institutions have been created inside some of them, which aim at telling their stories and explaining their meaning. In other cases they have been re-used to host the most varied activities: inside one Flakturm in Hamburg there is a media center with a disco club, several shops selling musical instruments, and rehearsal rooms, whereas a recent project intends to turn the other tower of the city into a solar power station; one of Vienna’s Flaktürme hosts the Haus des Meeres (the sea museum, an unusual choice, in Austria) while the MAK, Museum of Applied Arts, which utilizes one of them as a storage area, was not allowed to let it be used by some artists to express their art; another Viennese Flakturm is maintained as a bunker to save the members of the Austrian government in case of attacks. Prora was used for military purposes during the times of the DDR, and, after East Germany’s dissolution in 1990, some parts of it were used for some time as a hostel and as a seat for the education agency. However, nowadays we can find in the complex a quite chaotic museum on
La scala disumana Cercando di tenere insieme i diversi aspetti della politica nazista, vediamo come i progetti ipertrofici, le cattedrali per un nuovo culto, i colossi per lo svago di massa, i bunker e il sistema concentrazionario siano tutte declinazioni di uno stesso progetto, articolazioni connesse l’una all’altra: senza manodopera schiava—al lavoro nelle cave di granito come nella posa del cemento armato—non sarebbe stato possibile creare quegli immensi edifici, senza l’invasamento cieco delle masse, fortificate e unite nei templi della celebrazione e della guerra totale, non sarebbe stato possibile accettare la creazione dei campi.18 La concezione sovraumana sta quindi nell’aspetto dimensionale, nella prospettiva temporale (pensare l’effetto delle proprie rovine sui posteri come dimostrazione della propria potenza) ma anche sociale: si “forma” la società espellendo legislativamente e annientando fisicamente (nel nicht è il senso del Vernichtungslager, rendere niente) e allo stesso tempo plasmando uomini nuovi e tuttavia subordinati, schiacciati dall’ideologia e dalla sue forme rappresentative.19 I residui di queste architetture sovraumane pongono incertezze, rivelano ambiguità, e suscitano imbarazzo: solo molto difficilmente, e comunque recentemente, si sono create al loro interno delle istituzioni museali volte a raccontarne la storia e il significato. In altri casi sono state riutilizzate per ospitare le attività più disparate: un media center con discoteca, diversi negozi di strumenti musicali, sale prove e spazi per artisti in una Flakturm di Amburgo, mentre un recente progetto prevede la riconversione della seconda di quella città in una centrale energetica solare; in una di quelle di Vienna si trova l’Haus des Meeres (il museo del mare, curiosa scelta per l’Austria) mentre non è stato concesso al MAK, Museo d’arti applicate, che ne ha in uso una come deposito, di renderla oggetto di lavori mirati di artisti; un’altra Flakturm viennese viene mantenuta come bunker in cui salvare il governo austriaco in caso di attacchi. Sfruttandone la 139
Flakturm, Hamburg, 2010 (Ph. Elena Pirazzoli)
DDR and the Dokumentations Zentrum on the history of KdF-Seebad, with the permanent exhibition Macht Urlaub.20 Similarly, Ordensburgen were used for different military purposes in different times: Crössinsee and Sonthofen are both still military zones, while Vogelsang, after hosting Belgian troops for a long time, has been a state museum since 2006, with all the difficulties derived from working in a place which emanates a feeling of power, although insane. Thingstätten are used for concerts or for night celebrations of summer solstice, showing a continuity that might be naïve but is also surely unsettling. As far as the numerous bunkers of the Atlantikwall and the others scattered around Germany are concerned, some of them have been abandoned, others destroyed, and others reused for the most various functions. In most cases the buildings are empty, abandoned, not indicated, and only known to those who want to look for them. Concentration and extermination camps, instead, are better known, better preserved (with 140
vocazione, Prora ha avuto destinazione militare nella DDR, dopo la dismissione effettuata nel 1990 ha ospitato in alcune sue porzioni un ostello e la sede del provveditorato, ma ora questi usi sono cessati e nel complesso trovano spazio un museo piuttosto caotico sulla DDR e il Dokumentations Zentrum sulla storia della KdF-Seebad con la precisa esposizione Macht Urlaub.20 Lo stesso destino militare si è avuto per le Ordensburgen, diversificatosi negli anni: Crössinsee e Sonthofen sono entrambi ancora aree militari, mentre Vogelsang, dopo aver ospitato a lungo le truppe dei belgi, dal 2006 è museo statale, con tutte le difficoltà che si possono avere lavorando in un luogo che emana una sensazione di potenza, benché insana. Le Thingstätten vengono usate per concerti o in occasione di festeggiamenti notturni per il solstizio d’estate mostrando una continuità forse ingenua ma certo inquietante. La moltitudine di bunker del Vallo atlantico e gli altri sparsi per la Germania ha avuto destini variegati, dall’abbandono alla distruzione, al riuso per le funzione più diverse.
much difficulty, because of controversies and ambiguities) and more visited, although this is not true for all of them, but only for the most emblematic ones (or those which are perceived as such). The superhuman proportions of these projects and constructions, their shapes and materials (which had been chosen to last over time or not, such as bunkers’ concrete, which was merely functional, or the sheds’ wood), their places, whether it was the heart of a European metropolis or the most remote forests, all these elements testify much more than any museum built elsewhere could do. Such buildings and projects manage to keep the memory of a lost civilization alive, a society which had lost its own culture, creating a world which was archaic and future at the same time, advanced and ferocious, led by not only a Führer (and this must be emphasized). They also witness the ambiguity of the colossal and capillary dimension, emblem of inhuman power: their proportions have nothing to do with the natural scales used by the classical world, their scale is babelic, deprived of the human limits, where superhumanness and inhumanness fuse together. The remaining ruins, which is what posterity in the 2000s can see, are huge and embarrassing, intolerable, in the etymological sense of the word. The work of art Schwerbelastungskörper 12,650,000 (“the body with a heavy load”, equal to 12650 tons) by Susanne Kriemann, perfectly expresses all this and is the only tangible trace of Speer’s projects for Berlin. It was built in the area of Tempelhof to test the solidity of the sandy ground of the city; the “body” is a solid cylinder, made to be as heavy as possible. The artist has collected articles written between the years 1950 and 2005, illustrated by pictures. The pictures show a vision which gets gloomier and gloomier in time, taken from below, through the vegetation; at the same time, the numbers representing the body’s weight increase, so as to indicate a “dead weight” for Germany, loaded with unbearable and indelible meanings.
Nella maggior parte dei casi gli edifici sono vuoti, abbandonati, non segnalati, noti solo a chi li desidera cercare. Più conosciuti, conservati (con difficoltà, tra polemiche e ambiguità) e visitati sono i campi: ma non tutti, solo quelli più emblematici (realmente, o avvertiti come tali). La scala sovraumana di tutti questi progetti e costruzioni, le loro forme e materialità fatte per durare oppure no (come il calcestruzzo armato dei bunker, meramente funzionale, o il legno delle baracche), il loro luogo, che sia nel cuore di una metropoli europea o nelle più remote foreste, testimoniano molto più di quanto possa un museo realizzato altrove. Tali edifici e progetti riescono nell’intento di rendere memoria di una civiltà perduta, una società che aveva perduta la sua stessa civiltà, creando un mondo arcaico e futuro insieme, avanzatissimo e feroce, sotto la guida—va sottolineato—non solo di un Führer. E testimoniano l’ambiguità della dimensione colossale e capillare, emblema di un potere disumano: le loro proporzioni sono quanto di più distante dalla scala naturale del mondo classico, la loro è una scala babelica, priva del limite umano, in cui sovraumanità e disumanità si fondono. Le rovine che restano, cui si devono confrontare i posteri dell’anno 2000 e più, sono così ingombranti e imbarazzanti, intollerabili in senso etimologico. Esprime perfettamente tutto questo il lavoro dell’artista Susanne Kriemann—chiamato Schwerbelastungskörper—12,650,000: il “corpo dal carico pesante” equivalente a 12650 tonnellate è l’unica traccia tangibile della realtà dei progetti di Speer per Berlino. Costruito nell’area di Tempelhof per testare la tenuta del terreno sabbioso della città, il “corpo” è un cilindro pieno, realizzato in modo da essere il più pesante possibile. L’artista ha raccolto articoli scritti tra il 1950 e il 2005 e corredati da fotografie: mentre le immagini mostrano una visione via via negli anni sempre più cupa, presa dal basso, attraverso la vegetazione, parallelamente nei testi la cifra del peso aumenta, come a indicare un “peso morto” per la Germania, carico di significati insopportabili e incancellabili. 141
Notes
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1. The story about the elaboration of the “theory” in front of the demolition of pre-existing buildings in the area where the Zeppelinfeld should have been built is reported in Speer 1969, 67; see also Pirazzoli 2010, 127-8. 2. See Canetti 1972, 85-6. 3. It is not a case that also Weimar should have undergone a monumental rebuilding, as shown by the Gauforum, designed by Hermann Giesler and currently still existing. 4. See Miller-Lane 1968, 18-20. 5. See Herf ’s definition, 1986. 6. The Italian case, however, throws the opposition Fascism/modernism into crisis and for this reason it’s been considered as an exception for a long time. 7. See Mosse 1974, 160-72; Biccari 2002, 163-81 and Freschi 1997, 161-2. 8. Quoted in Mosse 1974, 170. 9. See Canetti 1972, 111. 10. Now known as Waldbühne. 11. Prora should have been the first of five such complexes. See Baranowski 2005, 130; and also Baranowski 2007. 12. See Liebscher 1999. 13. Documentations Zentrum Prora 2005, 9. 14. On whose foundations the Belgian occupying forces built the Van Dooren military camp after the war. 15. See E. Bender’s essay, I castelli dell’ordine Vogelsang e Crössinsee, August 1936, in Teut 1967, 119-22. Ersten Spatenstich. 16. For an exhaustive analysis of the Atlantikwall, see the studies coordinated by Gennaro Postiglione and Michela Bassanelli. 17. An important exception is represented by JeanLouis Cohen’s studies: see Cohen 1995, 2011. 18. It is worth noting how several camps had been built by granite caves (Mauthausen, Flossenbürg) or by zones rich in clay, because those were the raw materials necessary for the Reich’s architectural plans. 19. If we keep in mind the similarities and differences between the German and Italian regimes, it is still possible to see how such a feature strongly distinguishes Nazism from Fascism. Italians, indeed, were much more interested in a pragmatic dimension, no doubt propagandistic and often monumental, but never so hypertrophic and self-referential. 20. Translatable as “makes vacation” but also as “power vacation.”
1. Il racconto dell’elaborazione della “teoria” di fronte alla demolizione di edifici preesistenti sull’area dove sarebbe dovuto sorgere lo Zeppelinfeld è riportato in Speer 1969, 67; vedi anche Pirazzoli 2010, 127-8. 2. Si veda Canetti 1972, 85-6. 3. Non a caso, anche Weimar doveva essere interessata da un rifacimento monumentale, come dimostra il Gauforum realizzato su disegno di Hermann Giesler e tutt’ora esistente. 4. Si veda Miller-Lane 1968, 18-20. 5. Si veda la definizione di Herf 1986. 6. Il caso italiano, tuttavia, mette in crisi l’opposizione fascismo/modernismo e per questo è stato a lungo considerato un’eccezione. 7. Sul tema si vedano Mosse 1974, 160-72; Biccari 2002, 163-81 e Freschi 1997, 161-2. 8. Riportato in Mosse 1974, 170. 9. Si veda Canetti 1972, 111. 10. Ora noto come Waldbühne. 11. Prora doveva essere il primo di cinque complessi di questo genere. Si veda Baranowski 2005, 130; e anche Baranowski 2007. 12. Si veda Liebscher 1999. 13. Documentations Zentrum Prora 2005, 9. 14. Sulle fondamenta della quale, dopo la guerra, gli occupanti belgi realizzarono la caserma Van Dooren. 15. Si veda l’articolo di E. Bender, I castelli dell’ordine Vogelsang e Crössinsee, agosto 1936, in Teut 1967, 119-22. Ersten Spatenstich, letteralmente “primo colpo di vanga,” corrisponde all’italiano “posa della prima pietra.” 16. Per approfondire il tema dell’Atlantikwall, si rimanda alle ricerche coordinate da Gennaro Postiglione e Michela Bassanelli. 17. Eccezione di rilievo è data dagli studi di Jean-Louis Cohen: si veda Cohen 1995, 2011. 18. Si noti come vari campi siano stati creati presso cave di granito (Mauthausen, Flossenbürg) o presso aree ricche di argilla proprio per la necessità di quelle materie prime per i progetti architettonici del Reich. 19. Tenendo presente il complesso tema della comparazione, delle affinità e divergenze fra i regimi tedesco e italiano, è comunque possibile vedere come tale caratteristica differenzi fortemente il nazismo dal fascismo, interessato invece a una dimensione pragmatica, certo propagandistica, spesso monumentale, ma mai così ipertrofica e autofererenziale. 20. Traducibile come “fa vacanza” ma anche “potere vacanza.”
This paper draws from part of Chapter 3 (129-39), entitled ‘La scala disumana’ of the book written by the author, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Reggio Emilia: Diabasis, 2010.
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Questo saggio riprende e rielabora parte del cap. 3 (129-39) ‘La scala disumana’ del volume dell’autrice, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Reggio Emilia: Diabasis, 2010.
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Part 02
Museums, Mausoleums and Memorials
Musei, Mausolei e Memoriali
michela bassanelli
In the debate focusing on contemporary memory, in the incipit of the major texts that deal with the topic we can find two recurring terms: obsession and hypertrophy,1 which testify how such a phenomenon is a topical one, characterized by an unstoppable development. When the optimism of the 1950s and 1960s faded away and the period of social revolutions of the 1960s and 1970s was over, the new century began with a view on the past. It was above all the Second World War to mark a deep change in the forms of commemoration; it is not only the conflict that has to be remembered, but also the deportation of civilians, the barbarous acts of the war, and carpet bombings. After the period of the Nuremberg trials, which has the ethical—even more than juridical—task of shedding light on the unspeakable, a sort of reconstructive oblivion seems to have characterized the historical moment from the 1950s to the fall of the Berlin wall. Exception made for some commemorative monuments (Fosse Ardeatine in Rome, memorial for the dead of the BBPR group in Milan, various war memorials on the extermination camps) and the vast literature of war and survivors,2 setting aside or dismissing have always been the main acts aimed at rebuilding the present on the part of survivors. A sort of “dehistoricized mass culture”— probably the alter ego of a parallel tendency towards a self-celebrative memory—seems to have governed not so long ago. The year 1989 marks a cultural break— besides a historical-political one—with the subsequent era: the “memento”—remembering again, with strength, especially after the death of survivors—has become the renewed imperative “never again,” an imperative pursued through memorials, museums of memory, and commemorative monuments dedicated to the years of terror which have recently been built all over Europe. During the second half of the twentieth century and into the twenty-first, visible markers of the past—plaques, information boards, museums, monuments—have come to populate more
Nel dibattito sulla memoria contemporanea sono due i termini che si ritrovano costantemente negli incipit dei maggiori testi che affrontano il tema: ossessione e ipertrofia,1 a testimonianza di un fenomeno di grande attualità e inarrestabile sviluppo. Terminato l’ottimismo verso il progresso degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento ed esaurito il periodo delle rivoluzioni sociali degli anni Sessanta e Settanta, il nuovo secolo si apre con uno sguardo rivolto verso il passato. E’ soprattutto la Seconda Guerra a segnare un profondo cambiamento nelle forme di commemorazione; non vi è solo il conflitto da ricordare ma anche la deportazione di civili, le barbarie della guerra e i bombardamenti a tappeto. Superata la stagione di Norimberga, i cui processi hanno avuto il compito etico, più ancora che giuridico, di far luce sull’indicibile, una sorta di oblio ricostruttivo sembra aver caratterizzato il momento storico che intercorre dagli anni Cinquanta alla caduta del muro di Berlino. Pur con le dovute eccezioni commemorative (Fosse ardeatine a Roma, Monumento ai caduti dei BBPR a Milano, i diversi memoriali sui campi di sterminio) e l’amplissima letteratura di guerra e dei sopravvissuti,2 accantonare o mettere da parte è stato l’atto primordiale di rifondazione del presente da parte dei sopravvissuti. Una sorta di “cultura di massa destoricizzata”—alter ego, forse, di una tendenza parallela di una memoria autocelebrativa—sembra aver governato un tempo non lontano. L’anno 1989 segna una cesura culturale, oltre che di storia politica, con l’epoca successiva: il “memento”—ricordare di nuovo e con forza, specie con la dipartita delle voci narranti dei sopravvissuti—è diventato il rinnovato imperativo del “mai più,” perseguito da memoriali, musei della memoria e monumenti commemorativi degli anni del terrore sorti di recente in tutta Europa. During the second half of the twentieth century and into the twenty-first, visible markers of the past—plaques, information boards, museums, monuments—have come to populate more 145
and more land and cityscapes. History has been gathered up and presented as heritage as meaningful past that should be remembered; and more and more buildings and other sites have been called on to act as witnesses of the past. (Macdonald 2009, 1) In the last twenty years, sixteen museums of the Holocaust have been opened only in the United States.3 In the transnational migration of the memory, it is as if the Holocaust started to act as a metaphor for other traumatic occurrences, rather than being a specific event. Italy is an example of this global tendency: the Museum of Mafia was opened in Salemi (2010), the museum of memory of Ustica in Bologna (2007), and by 2013 the museum of Shoah will be realized in Rome under the project of Luca Zevi and Giorgio Maria Tamburini. Following the building of the many museums dedicated to the Holocaust, others were created devoted to the bombings in Dresda (2011) and Oklahoma City (1995), museums of torture, of slavery, and other political genocides in Bosnia, Ruanda, Kosovo and Cambodia. A fundamental aspect of some of these museums is their relationship with the place of the event. This is the case of Oradour-sur-Glane memorial, where the village, which had been destroyed by the Nazi troops and their devastating will, was intentionally left as a block of ruins, in memory of the tragic history (Accardi). The definition that best encompasses all museums of human suffering4 seems to be that of museums of memory, as it contains two spheres of meaning: the Memento and the Warning: The memento is not sufficient to provoke an effect of memorial on its own. It has to encompass an exhortation, a recommendation: the Warning, the link between the past and the future, a severe admonition, sometimes a worried admonishment against a potential danger, a serious loss of memory and values, which requires to raise the degree of alarm and threat, fearing the worst, a reversal of meaning, the end of history. (Padiglione 2008, 149) 146
and more land and cityscapes. History has been gathered up and presented as heritage as meaningful past that should be remembered; and more and more buildings and other sites have been called on to act as witnesses of the past. (Macdonald 2009, 1)3 Negli ultimi vent’anni solo negli Stati Uniti sono stati aperti sedici musei dell’Olocausto.4 Nella migrazione transnazionale della memoria è come se l’Olocausto, più che come evento specifico, iniziasse a funzionare come metafora per altre storie traumatiche. Anche l’Italia conferma questa tendenza globale: a Salemi è stato aperto il museo della Mafia (2010), a Bologna il museo della Memoria di Ustica (2007) ed entro il 2013 è prevista la realizzazione del museo della Shoah a Roma su progetto di Luca Zevi e Giorgio Maria Tamburini. Dopo l’ondata degli edifici dedicati all’Olocausto, sono nati quelli dei bombardamenti a Dresda (2011) e Oklahoma City (1995), i musei della tortura, dello schiavismo e di altri genocidi politici in Bosnia, Ruanda, Kosovo e Cambogia. Un aspetto fondamentale per alcuni di questi musei riguarda il rapporto con il luogo dell’evento. È il caso del memoriale di Oradur-sur-Glane, dove il villaggio, distrutto dalla volontà devastatrice delle truppe naziste, è stato volutamente lasciato come rudere in memoria della tragica storia (Accardi). La definizione che meglio racchiude tutti i musei della sofferenza umana5 sembra essere quella di musei della memoria perché contiene al suo interno due sfere di significato: il Memento e il Monito: Il memento non basta però da solo a produrre effetto da memoriale. Deve incorporare un’esortazione, un avvertimento: il Monito, il legame tra passato e futuro, ammonimento severo, talora preoccupato richiamo a un pericolo possibile, ad una perdita grave di memoria e valori, che impone di elevare il grado di allarme e minaccia, paventando il peggio, un rovesciamento del senso, le fine della storia. (Padiglione 2008, 149) Questa nuova tipologia di musei si differenzia, per contenuti, valori e oggetti esposti,
This new typology of museums is different from the war museums set up at the end of the First World War to celebrate the power of a country, in terms of content, values and exhibits (Basso Peressut). The current tendency, however, seems to testify the will to develop exhibitions connected to painful and uncomfortable themes and to plan evocativethoughtful spaces, also within war museums.5 Other architectures of memory, such as cemeteries, are updating their formats, including “visitor’s centres,” that is, museums/ documentation centres which aim at interpreting history (Pozzi). Therefore, they are not only commemorative places anymore, but spaces that try and adopt new exposition and communication strategies to go beyond the mere memory. Besides the deep transformation involving the place of memory, we can see an increasing use—not only within this context—of multimedia technologies which enable to establish virtual spaces of memory, or, as Eleonora Lupo defines them in her essay, “mnemotopes,” that is, digital spaces, “intangible geographies” which connect data, contents, documents and memories. There are people who see a risk in this proliferation of museums of memory, memorials, parks for peace: the risk of preventing humanity from their freedom of forgetting.6 The question that arises in front of such a developing phenomenon is: when shall we stop in order not to transform the exhibition of evil from a warning into banality? English translation: Ilaria Parini
dai musei della guerra nati alla fine della Prima Guerra Mondiale per celebrare la potenza di una nazione (Basso Peressut). La tendenza attuale sembra però testimoniare, anche per i musei della guerra, la volontà di sviluppare al loro interno esposizioni legate a temi dolorosi e scomodi e progettare spazi evocativo-riflessivi.6 Altre architetture della memoria, come i cimiteri, stanno rinnovando il loro format, accogliendo al loro interno “visitor’s center,” ovvero musei/centri di documentazione che hanno come finalità l’interpretazione della storia (Pozzi). Non sono più, quindi, solo semplici luoghi di commemorazione ma spazi che cercano di adottare nuove strategie di esposizione e comunicazione per andare al di là del semplice ricordo. Alla profonda trasformazione che investe i luoghi del ricordo si aggiunge il ricorso sempre maggiore, non solo in questo contesto, alle tecnologie multimediali che consentono di realizzare spazi della memoria virtuali o, come li definisce nel suo contributo Eleonora Lupo, dei “mnemotopi” ovvero spazi digitali, “geografie intangibili” che connettono dati, contenuti, documenti e memorie. C’è chi vede nella proliferazione di musei della memoria, memoriali, parchi per la pace, un rischio: di eliminare all’umanità la libertà di dimenticare.7 La domanda che sorge di fronte a questo fenomeno in pieno sviluppo è: quando sarà giusto fermarsi per non trasformare l’esposizione del male da monito in banalità?
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Notes
Note
1. See Huyssen 2003. In particular, the section “The Hypertrophy of Memory” in the introduction, pp. 3-10; Agazzi and Fortunati 2007; Macdonald 2009; Pirazzoli 2010. 2. See Sereni 1974; Levi 1986; Agamben 1998. 3. The topic of the American museums of the Holocaust deserves a separate mention in the history of this event. Since many years, the phrase Americanization of the Holocaust has been used to identify a typical phenomenon developing in the United States which has given rise to several doubts and questions on the consistency of these museums: “the attention paid to the theme of the Holocaust that has developed in the United States in quantitative and qualitative terms which cannot be compared to any other country, as well as a very vast literature (including narrative and research) on it, aroused the worry that they could also hide some worse phenomena, such as the exploitation of the diffused wish for strong feelings… or of the universality of condemnation to support the triumphalist vision of the acclaimed democratic ideals of the country” (Ruggeri Tricoli 2009, 19-20). 4. See Duffy 2004. 5. Kjeldbaek 2009. 6. Tiffany Jenkins, director of the Art and Society programme at the Institute of Ideas of London, wonders whether we should not give people the possibility of forgetting. See Panza 2011.
1. Si vedano Huyssen 2003. In particolare il paragrafo “The Hypertrophy of Memory” nell’introduzione, pp. 3-10; Agazzi e Fortunati 2007; Macdonald 2009; Pirazzoli 2010. 2. Si vedano Sereni 1974; Levi 1986; Agamben 1998. 3. Durante la seconda metà del ventesimo secolo e nei primi vent’anni di quello successivo, marcatori visibili del passato—targhe, pannelli informativi, musei, monumenti—hanno cominciato a diffondersi nel paesaggio e nelle città. La storia è stata raccolta e presentata come patrimonio significativo che deve essere ricordato, e sempre di più gli edifici e altri siti sono stati chiamati ad agire come testimoni del passato. T.d.A. 4. Il tema dei musei dell’Olocausto americani costituisce un capitolo a parte nella storia di questo evento. Da molti anni è in uso il termine di americanizzazione dell’Olocausto per identificare un fenomeno tipico degli Stati Uniti che ha creato non pochi dubbi e domande sulla coerenza di questi musei: “l’attenzione espositiva al tema dell’Olocausto, sviluppatasi negli Stati Uniti in termini quantitativi e qualitativi imparagonabili a quelli di qualsiasi altro paese insieme a una vastissima letteratura a carattere narrativo o di ricerca, suscitava la preoccupazione che in essa potessero annidarsi anche fenomeni deteriori, come lo sfruttamento del diffuso desiderio di sensazioni forti…o come la strumentalizzazione della stessa universalità della condanna per sostenere la visione trionfalistica degli acclamati ideali democratici della nazione” (Ruggeri Tricoli 2009, 19-20). 5. Si veda Duffy 2004. 6. Kjeldbaek 2009. 7. Tiffany Jenkins, direttrice dell’Art and Society programme all’Institute of Ideas di Londra, si chiede se se non si debba dare all’umanità il permesso di dimenticare. Si veda Panza 2011.
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Luca Basso Peressut
War museums in Europe: architecture and representation Musei della guerra in Europa: architettura e rappresentazione
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If we consider the many European museums that focus on war and its various representations, we can notice two distinct circumstances . On the one hand, there still exist representative models typical of museums of weapons, of the armies, and of military history, which were set up between the second half of the 19th century and the beginning of the 20th century. On the other hand, we can observe that in the last decades there has been an increase in museums that are committed to emphasizing how Europe needs to critically reinterpret its past and the conflicts that have marked it, both in a tangible and an intangible way. As far as the former are concerned, among the museums that still exist, it is worth mentioning the Landeszeughaus, the ancient Styrian Armoury in Graz, which has been part of the Universalmuseum Joanneum since 1892; the Heeresgeschichtliches Museum (the museum of military history) in Vienna, set up in 1857, which was the first example of a building that had been built for this specific purpose; the army museum in Berlin, created in 1880 in the eighteenth century Arsenal (Zeughaus), which is currently part of the Deutsches Historisches Museum that preserves several military objects coming from the old museum; the Musée de l’Armée in Paris, founded in 1905 in the seventeenth century Hotel des Invalides; the Musée Royal de l’Armée et d’Histoire Militaire in Brussels, set up in 1923, and the Tøjhusmuseet, the Danish military museum, opened in 1936 in the arsenal of Copenhagen, in a building which dates back to 1604. In these museums—in spite of various recent new arrangements—it is always possible to recognize their original features. This is the case of the Musée de l’Armée in Paris: the restoration and the new design of the rooms of the “Department Moderne - 16431870”—curated by Adeline Rispal in 2010— and the creation of the Historial dedicated to Charles de Gaulle—after the designs of Alain Moatti and Henri Rivière—do not
Guardando ai numerosi musei europei che si occupano della guerra e delle sue diverse manifestazioni, rileviamo, da un lato, il perdurare di modelli rappresentativi tipici dei musei delle armi, degli eserciti e della storia militare, fondati tra la seconda metà del XIX secolo l’inizio del XX, dall’altro alla diffusione negli ultimi decenni di musei in cui è cresciuto l’impegno a puntualizzare quanto l’Europa debba criticamente rileggere un passato di ostilità e conflitti che ha marchiato il continente in senso materiale e immateriale. Per quanto riguarda i primi ricordiamo, tra quelli oggi esistenti, Il Landeszeughaus, l’antica armeria della Stiria a Graz, dal 1892 parte dell’ Universalmuseum Joanneum; l’Heeresgeschichtliches Museum (Museo di storia militare) di Vienna del 1857, il primo esempio di edificio appositamente realizzato per questo scopo; il museo dell’esercito di Berlino, creato nel 1880 nella settecentesca armeria (Zeughaus), oggi parte del Deutsches Historisches Museum, al cui interno sono conservati molti oggetti di “militaria” provenienti dal vecchio museo; il Musée de l’Armée di Parigi fondato nel 1905 nel seicentesco Hotel des Invalides; il Musée Royal de l’Armée et d’Histoire Militaire di Bruxelles del 1923, e il Tøjhusmuseet, museo danese delle armi, aperto nel 1936 nell’arsenale di Copenhagen, edificio del 1604. In questi esempi, pur con una serie di riallestimenti recenti, è sempre riconoscibile il carattere originario dell’istituzione, come è, per esempio, nel caso parigino, dove il restauro e il nuovo allestimento delle sale del “Department Moderne - 1643-1870” curato da Adeline Rispal nel 2010 e la realizzazione nel 2008 dell’Historial dedicato a Charles de Gaulle, su progetto di Alain Moatti et Henri Rivière, non mettono in discussione il ruolo del museo che continua ad essere quello di contribuire, con le sue collezioni “al risveglio delle vocazioni militari e allo sviluppo dello spirito di difesa” (Musée de l’Armée 2010, 8). Non diversamente, il nuovo allestimento di parte dell’esposizione permanente del 151
Overall view of the Arsenal of Vienna and the Royal Museum of Arms, 1860 (© Fotoarchiv des Heeresgeschichtlichen Museums)
bring into question the role of the museum, which still aims at contributing, through its collections, to the “awakening of military vocations and the development of the spirit of defence” (Musée de l’Armée 2010, 8). Similarly, the new design of part of the permanent exhibition of the Tøjhusmuseet in Copenhagen, designed by Johan Carlsson and Tove Alderin, which was inaugurated in February 2013, focuses on the military aspects of the 21 wars that have involved Denmark in the last 500 years, with a multimedia narrative section next to an exhibition of the most important weapons of the historical collection of the museum. The Imperial War Museum of London, set up in 1917-20, is a border case. It is the first museum to introduce features which are connected to a more articulated concept of war, in relation to society (especially British). Subsequent designs have reinforced such features 152
Tøjhusmuseet di Copenhagen, disegnato da Johan Carlsson e Tove Alderin e inaugurato nel febbraio del 2013, concentra l’attenzione sugli aspetti militari delle 21 guerre combattute dalla Danimarca negli ultimi 500 anni, con una sezione narrativa multimediale affiancata da una esposizione delle armi più significative della collezione storica del museo. L’Imperial War Museum di Londra, fondato nel 1917-20, rappresenta un caso di cerniera, introducendo per la prima volta aspetti legati a un concetto più articolato di guerra in rapporto alla società (soprattutto britannica), che successivi allestimenti hanno rafforzato a scapito delle sezioni più propriamente militari che tuttavia rimangono tra i punti forti, come dimostrano anche le scelte fatte nel progetto di Sir Norman Foster di riorganizzazione della sede di Lambeth Road, incentrato su uno scenografico ridisegno della grande sala dell’atrio dove da sempre sono
Heeresgeschichtliches Museum, Vienna. First floor plan in 1890 (Handbuch der Architektur, Vierter Theil, 6 Halb-Band, 4 Heft. 1890. Darmstadt: Arnold Bergsträsser)
at the expense of the military sections. However, such sections are still among the strong points of the museum, as is clear by Sir Norman Foster’s reorganization design of the buildings of Lambeth Road, which focuses on a scenographic redesign of the large entrance hall, where the biggest and most spectacular weapons have always been exhibited.1 It is a fact that the interest in the “military machine” and in the “universal” aesthethic dimension of war and its tools (weapons, uniforms, rituals) has never faded.2 However, the development of a different perception of the role played by war in historical transformations originates in the events that have marked the change of register and scale with the traumas of the two world wars. Since then, the representation of wartime events could no longer be limited to traditional factors connected to the rhetorics of the country, to the myth of the “imagined community,”3 of the “beautiful war” carried out in the name of the continuity of those values which are considered as permanent in their historical development.4 As Nick Merriman observes, “the apparent certainties of modern thought, such as origin, evolution, progress, traditions, and value become replaced by the concepts of transformation, discontinuity, rupture, disorder and chaos” (2000, 300). Therefore, the discontinuities and contradictions of contemporary age need to be tackled starting from the terrible events of the “short century.” Indeed, in the twentieth century the idea of the past was seriously shaken by the blows of a “natural
esposte le armi più grandi e spettacolari.1 A fronte dell’interesse mai sopito per la “macchina militare” e per la dimensione estetica “universale” della guerra e dei suoi strumenti (armi, divise, cerimoniali),2 l’affermarsi di una diversa visione del ruolo che la guerra svolge nelle trasformazioni storiche trova le sue ragioni nell’insieme di eventi che hanno segnato il cambio di registro e di scala con il trauma delle due guerre mondiali del secolo scorso. Da allora la rappresentazione dei fatti d’arme non può più essere circoscritta ai fattori tradizionali legati alla retorica della nazione, al mito della “comunità immaginata,”3 della “bella guerra” fatta in nome della continuità di valori considerati costanti nel loro divenire storico.4 Se, come ha scritto Nick Merriman, “concetti apparentemente certi del pensiero moderno, quali origini, evoluzione, progresso, tradizione, valori sono stati rimpiazzati dai concetti di trasformazione, discontinuità, rottura, disordine e caos” (2000, 300), le cesure e le contraddizioni insite nell’età contemporanea vanno affrontate proprio partendo dalle terribili vicende che appartengono al “secolo breve,” quel Novecento in cui l’idea di passato ha subito la scossa più tremenda, soggetta ai colpi di una “storia naturale della distruzione”5 che ha smantellato concettualmente e fisicamente i retaggi di una vicenda umana progressiva e positivamente orientata.6 La dimensione di massa delle due grandi guerre del secolo scorso e i numeri che ne sono oggettiva testimonianza,7 sono caratteri 153
Tøjhusmuseet, Museum of the Royal Arsenal, Copenhagen. View of the museum interior in the first half of the 20th century (© SFHM Creative Commons)
history of destruction”5 that demolished the legacy of a human progressive and positive process, both conceptually and physically.6 The epic dimensions of the two twentieth century world wars and the data that testify these proportions7 are the clear sign of an age when the individual was dramatically turned into an anonymous cog, first in the economical-productive machinery, and later in the military one. This happened both 154
evidenti di un’epoca in cui, sia nelle democrazie che nei regimi totalitari, si è imposto il dramma dell’individuo trasformato in anonimo ingranaggio della macchina economicoproduttiva prima e militare poi, con tutte le terribili conseguenze che ne sono derivate. La battaglia della Somme, il bombardamento di Dresda, la bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, l’Olocausto sono quattro momenti che simbolicamente rappresentano l’acme di
Tøjhusmuseet, Museum of the Royal Arsenal, Copenhagen. Design of the new section “Danish wars”, by JAC.TA Collaboration - Johan Carlsson, Tove Alderin, 2013 (photo courtesy by JAC.TA Collaboration)
in democratic countries and in totalitarian regimes, with terrible consequences in both cases. The battle of the Somme, the bombing of Dresden, the atomic bombs on Hiroshima and Nagasaki, and the Holocaust are four events that symbolically represent the climax of a ruthless violence which originates from the scientific-technological progress that can be interpreted as the extreme outcome of the modern age.8 A large-scale efficient logic and a militarized industrialization—which was extended to economics, to the production of artifacts, and to the organization of deportations and exterminations—resulted in millions of victims being hit by “the negativity that houses in society, the negativity that presented itself in its widest historical dimensions” (Wahnich 2011, 49). It is a gloomy representation, where the names and faces of the
una violenza spietata prodotta da quel progresso scientifico-tecnologico che possiamo leggere come esito estremo dell’età moderna.8 Una logica efficientista di grande scala, una industrializzazione militarizzata estesa alle economie, alla produzione di manufatti, all’organizzazione di deportazioni e stermini, hanno scatenato sul corpo di milioni di vittime il “negativo che alberga nelle società, quel negativo che si è così presentato nella sua massima ampiezza storica” (Wahnich 2011, 49). E’ una cupa raffigurazione dove nomi e volti di singoli individui, composti in mosaici di innumerabili tasselli, creano l’immagine di una moltitudine che restituisce la portata di eventi la cui portata è, soprattutto per le generazioni più giovani, quasi inconcepibile. Se onore, gloria, patriottismo, orgoglio, eroismo, dovere erano le parole che appartenevano 155
Foster + Partners, Masterplan for the redevelopment of the Imperial War Museum, London. Vision of the new entrance hall (© Foster + Partners)
single individuals compose a mosaic made up of countless tiles. Altogether, they create the image of a multitude that conveys the range of those events, which can hardly be imagined, especially by the younger generations. Honour, glory, patriotism, heroism, duty were the words that belonged (and still do so) to the museums of the armies and of military history. New words, such as abjection, cruelty, monstrosity, horror, extermination, genocide, atrocity, degradation, humiliation, bereavement, pain, shame, anguish, rage, hate, and ignominy are connected to the representation of museums dedicated the history of the wars of the twentieth century. This semantic evolution indicates a breach in the interpretation of war and its meaning in relation with society, populations, and people, be they soldiers or civilians. 156
(e appartengono) ai musei degli eserciti e di storia militare, nuove ben diverse parole—abiezione, crudeltà, mostruosità, orrore, sterminio, genocidio, atrocità, degradazione, umiliazione, lutto, sofferenza, vergogna, angoscia, collera, odio, ignominia…—si legano alle rappresentazioni nei musei dedicati alla storia dei conflitti armati del secolo scorso. Questa evoluzione semantica evidenzia una cesura nella interpretazione della guerra e del suo significato in rapporto alla società, ai popoli, alle persone, siano essi combattenti o civili. Si tratta di una trasformazione profonda: da musei il cui carattere era tecnico e celebrativo (tecnologia delle armi e valori nazionali), si è passati a musei il cui carattere è prevalentemente antropologico, sociale e di riflessione su eventi i cui segni sono tuttora presenti nella memoria e nella sensibilità comune,
Militärhistorisches Museum der Bundeswehr, Dresden, architectural design by Daniel Libeskind, museography by Holzer Kobler and HG Merz, 2011. View from the outside (photo Hufton+Crow, courtesy by Studio Daniel Libeskind)
It is a deep transformation. Once, museums had a technical and celebratory character (technology of weapons and national values). The new museums, instead, are mainy characterized by an anthropological and social approach, and focus on events whose signs are still fixed in the memory and in the sensitivity of people, as well as in the landscapes where the same people carry out their everyday lives. Europe is studded with remnants of the recent wars: trenches and walkways, fortifications, bunkers, shelters, concentration and extermination camps, cemeteries, memorials and monuments, steles and tombstones, and, obviously, remains of bombed buildings that still mark cities and territories. The case of the Neues Museum in Berlin is emblematic. Indeed, after more than half a century of abandon, its ruins have been turned, with the restoration done by David Chipperfield, into a prime example of representations of the “disasters of the war.” The museum focuses on ancient art and archaeology; however, the evidence of the modern war archaeology is underlined by the preservation of the ruins of the building, which are shown in their
così come nei paesaggi in cui si svolge la vita quotidiana. L’Europa è costellata dei “reperti” delle guerre recenti: trincee e camminamenti, fortificazioni, bunker, rifugi, campi di concentramento e sterminio, cimiteri, memoriali e monumenti, steli e lapidi e, naturalmente, rovine di edifici bombardati che ancora oggi segnano città e territori. Emblematico è il caso del Neues Museum di Berlino le cui macerie, dopo più di mezzo secolo di abbandono, sono state trasformate, con il restauro curato da David Chipperfield, in una delle più esemplari rappresentazioni dei “disastri della guerra.” In un museo che si occupa di arte e archeologia antica, l’evidenza della moderna archeologia di guerra è infatti sottolineata dalla conservazione dei resti esibiti nel loro rapporto con la ricostruzione, quale testimonianza degli effetti delle distruzioni che hanno colpite le città europee negli anni della seconda guerra mondiale. Qui si afferma il fatto che, in un modo o nell’altro, ancora oggi “la guerra domina lo spazio dei musei in gran parte delle rappresentazioni pubbliche della storia e continuerà a farlo” (Winter 2012b, 150). 157
Militärhistorisches Museum der Bundeswehr, Dresden. View of the historical section (© Bundeswehr/ MHM)
relationship with its reconstruction, in order to testify the devastating effects that hit European cities during the Second World War. In this way, it is clear that, in some way or another, “war dominates museum space in much of the public representation of history and will continue to do so” (Winter 2012b, 150). Considering the massive range of the events, creating convincing museum representations is not an easy task. Aphasia made it impossible to narrate the unspeakable for a long time, as Winfried Sebald stated while speaking about the removal of the references to the events connected to the bombings in German cities during the final phase of World War II in the works by German writers.9 Such condition of aphasia keeps marking our memories, either directly or indirectly, as open wounds that have not healed. The legitimization given by a museum to the representation of a historical fact is 158
Di fronte a fatti di tale portata, il compito di creare rappresentazioni museali convincenti non si presenta affatto facile. L’afasia che ha reso per molto tempo impossibile narrare l’inenarrabile, come ha sottolineato Winfried Sebald, parlando della rimozione nelle opere degli scrittori tedeschi dei fatti legati al trauma dei bombardamenti subiti dalle città tedesche durante la fase finale della seconda guerra mondiale,9 è una condizione che continua a segnare le memorie che appartengono a tutti noi, direttamente e indirettamente, come ferite aperte e non rimarginate. La legittimazione che un museo dà alla rappresentazione di un fatto storico è socialmente e culturalmente (e anche politicamente) rilevante. Il museo ha l’impegno sociale di comunicare, con gli strumenti e i dispositivi che gli sono propri, il divenire della ricerca storica. Solo nel museo, in quanto luogo che
Militärhistorisches Museum der Bundeswehr, Dresden. View of the new wing (photo Hufton+Crow, courtesy by Studio Daniel Libeskind)
socially and culturally (and also politically) relevant. Museums have the social task of communicating, with their tools and devices, the development of historical research. Moreover, the museum is a place that “engages the body of the visitor” (Wanich 2011, 58), a place where representations are put up. Therefore, it is only in the museum that it is possible to create a more direct confrontation, involved
“impegna il corpo del visitatore” (Wanich 2011, 58), e dove le rappresentazioni sono messe in scena, si può creare un confronto più diretto e partecipato con le memorie e le emozioni delle persone. In questo senso l’azione culturale dei musei di guerra è fondamentale per mantenere viva l’attenzione della società verso le questioni morali sollevate dalla guerra, in un processo di elaborazione 159
Museum Nationaal Monument Kamp Vught, architectural design by Claus en Kaan Architecten, museography by Marcelwoutersontwerpers, 2002. View of the museum’s exterior with model of the camp (photo courtesy by Marcel Wouters)
with people’s memories and emotions. Within this context, war museums’ cultural action is essential to keep society’s attention alive towards the moral issues raised by the war, in an elaboration process that tackles memory, commemorations and education.10 Architectures and exhibition designs must contribute to the creation of this new awareness. The different outcomes are the expression of political and cultural choices of whoever decides to create and manage these museums: nations, regions, communities, and local groups. At the same time, they are the result of the capacity of the people who plan the spaces and forms of this kind of communication (architects and exhibition designers). They must be able to interpret the topic with particular sensitivity, when they face the problem of interpreting facts whose drama goes beyond the limits of consolidated museographic languages. Three examples of 160
che si misura con la memoria, la commemorazione e l’educazione.10 Architetture ed allestimenti espositivi devono concorrere alla costruzione di questa consapevolezza, e le risposte che in questo senso vengono date sono, nella loro differenza caso per caso, espressione di scelte politiche e culturali di chi questi musei decide di creare e dirigere: nazioni, regioni, comunità e gruppi locali. Ma al contempo sono anche il frutto della capacità di chi progetta gli spazi e le forme di questa comunicazione (architetti ed exhibition designer) di saper interpretare il tema con particolare sensibilità, nel momento in cui si fronteggia il problema della rappresentazione di fatti la cui drammaticità travalica i limiti dei linguaggi museografici consolidati. Tre esempi di musei recenti possono chiarire questo punto. A Dresda il paradosso che la città, la notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945, sia stata quasi
Museum Nationaal Monument Kamp Vught. Museum floor plan.
recent museums will explain this. The bombings in Dresden during the night between the 13th and 14th February 1945 almost completely destroyed the city, but they did not even touch the nineteenth century Arsenal (the only military building in the city) and its Militärhistorisches Museum.11 Such a paradox has been highlighted by the “wedge” that Daniel Libeskind has inserted in the solid classic nature of the museum building, directing its vertex towards the historical centre, which is the place that was most damaged: a landscape that visitors can observe from the observatory located on its top. The wedge has also been referred to as “bow of a ship breaking through an iceberg,” (with a clear reference to the Titanic), “arrow,” “meteorite,” “ax,” “splinter” (of bomb). It characterizes the new museum and “creates a question mark about the continuity of history and what it means” (Libeskind 2010). This representation of the break in historical continuity is also evident in the museum exhibition design by Holzer Kobler and HG Merz. The spaces of the old building are devoted to the representation—both chronologically and by themes—of German military history, starting from the 14th century. The new wing, instead, is dedicated to the effects of wars in society: politics and use of force, war and pain, war and technologies, protection and destruction, etc.; visitors follow a path that crosses crooked and stretched spaces, which accentuate their psyco-physical discomfort.12
completamente distrutta e l’ottocentesco Arsenale (l’unica presenza militare in città) con il suo Militärhistorisches Museum11 non sia stato neppure sfiorato è messa in evidenza dal “cuneo” che Daniel Libeskind ha incastrato nella solida classicità dell’edificio del museo, orientandone il vertice verso il centro storico, dove si è verificata la massima devastazione: un paesaggio che il visitatore può vedere dall’osservatorio che si trova alla sua sommità. Definito di volta in volta anche “prua di nave che spezza un iceberg” (con evidente riferimento al Titanic), “freccia,” “meteorite,” “ascia,” “scheggia” (di bomba), l’intervento, che caratterizza la nuova sistemazione del museo, pone con forza “un punto interrogativo sulla continuità della storia e su ciò che questo significa” (Libeskind 2010). Questa rappresentazione della frattura della continuità della storia appare anche nella organizzazione espositiva del museo concepita da Holzer Kobler e HG Merz. Negli spazi del vecchio edificio è presentata, cronologicamente e per temi, la storia militare tedesca, a partire dal secolo Quattordicesimo; nella nuova ala si affrontano gli effetti delle guerre sulla società: politica e uso della forza, guerra e sofferenza, guerra e tecnologie, protezione e distruzione, ecc.; il tutto in un percorso che attraversa spazi sghembi e tesi che accentuano il senso di disagio psico-fisico di chi li percorre.12 Analogamente alle altre architetture 161
Nationaal Monument Kamp Vught. “Stolen Freedom” room (photo courtesy by Marcel Wouters)
As happens in other museum architectures by Libeskind, any nostalgic and sanitized view of history is put into question, with a research consistence that can also be observed in the other war museum designed by the American architect of Polish descent, namely the Imperial War Museum North in Manchester. Here the “shards” of the Earth, which has been metaphorically destroyed by wars, are recomposed in a shape that reminds us of the past (and maybe future) ruins caused by any war. The sense of a catastrophe which emanates from the building is accentuated by an exhibition space where films and pictures, that show the effects of wars in various parts of the world, are screened onto the walls dramatizing the narrative. This space, as a consequence, is filled with images, lights, and dazing sounds. The museum of the concentration camp of Herzogenbusch, or Kamp Vught in the 162
museali di Libeskind viene qui messa in discussione ogni visione nostalgica ed edulcorata della storia, con una coerenza di ricerca che è visibile nell’altro museo della guerra progettato dall’architetto americano di origine polacca, l’Imperial War Museum North di Manchester, dove i “cocci” di un globo terrestre metaforicamente distrutto dalle guerre si ricompongono in una forma che ricorda le macerie passate (e forse future) che ogni guerra provoca sulla Terra. Il senso di catastrofe che promana dall’edificio è accentuato da uno spazio espositivo dove su grandi pareti vengono proiettati filmati e fotografie che mostrano gli effetti dei conflitti in varie parti del mondo, creando un ambiente immersivo di immagini, luci, e suoni frastornanti che drammatizzano la narrazione. In maniera diversa, il museo del campo di concentramento di Herzogenbusch, o Kamp Vught in Olanda, realizzato nel 2002 dallo
Museum Nationaal Monument Kamp Vught. Room for reflection (photo courtesy by Marcel Wouters)
Netherlands, was set up in 2002 by the architectural firm Claus en Kaan. It is a parallelepipedon with eight rooms, with few views on the surrounding greenery and on a big model of the camp made in concrete, which is located outside. The museum stands out due to a minimalist language that recalls the theme of silence, of the threshold and the boundary between exterior and interior, of the wall, of the fence. The use of bricks underlines the physical and symbolic contextuality in respect to the camp, making the representation more appropriate than ever. The museum design, curated by Marcel Wouters, narrates the history of the camp and of the Nazi occupation of the Netherlands, whereas temporary exhibitions tackle contemporary ethical issues, such as the good and the evil, discrimination, and prejudices. The design matches the architecture: it is essential but efficient in conveying the message, and it
studio Claus en Kaan (un parallelepipedo contenente otto stanze, con solo alcuni affacci sul verde circostante e su un grande modello del campo in cemento posto al di fuori), si distingue per un linguaggio minimalista che evoca il tema del silenzio, della soglia e del confine fra esterno ed esterno, del muro, della recinzione. Figurazione in questo caso più che mai appropriata, dove l’uso del laterizio sottolinea la contestualità fisica e simbolica rispetto al campo. L’allestimento, curato da Marcel Wouters, racconta la storia del campo e dell’occupazione nazista dell’Olanda, mentre mostre temporanee affrontano da un punto di vista contemporaneo temi etici quali il bene e il male, la discriminazione e i pregiudizi. Si tratta di un allestimento in tono con l’architettura, essenziale ma incisivo nel trasmettere il messaggio, particolarmente pensato per la sensibilizzazione e l’educazione dei giovani, su che cosa questi luoghi sono stati, dei diversi ruoli degli “autori, vittime e spettatori” e delle motivazioni dei crimini perpetrati negli anni della guerra sul suolo europeo nel nome di una ideologia terribile (Wouters 2009, 285-86). Per ultimo l’Historial di Péronne del 1992 (“il solo museo di guerra francese a introdurre esplicitamente una dimensione europea,” Wahnich e Tisseron 2001, 55) offre, forse per la prima volta, una rappresentazione della guerra—in questo caso la Prima Guerra Mondiale—come drammatica esperienza comune: tra i soldati delle tre principali nazioni belligeranti (Francia, Germania, Inghilterra), così come tra le popolazioni coinvolte nelle battaglie della Somme e che si sono trovate a condividere stessi destini, smascherando l’ideologia nazionalista e belligerante del “noi” contro gli “altri.” Questa umanizzazione della guerra è espressa dall’architettura di Henri Ciriani, posta in aderenza alla struttura militare del castello di Péronne, da cui si entra nel museo. Tra castello e museo lo stacco linguistico è deciso: ai bastioni e alle murature massicce si oppone la leggerezza di un’architettura semplice, permeabile, serena (i cui 163
Historial de la Grande-guerre, Péronne, architectural design by Henri Ciriani, museography by Adeline Rispal, Jean-Jacques Raynaud and Louis Tournoux, 1992. View from the lake (photo by J.-M. Monthiers, courtesy by Henri Ciriani)
has been conceived with the specific aim of making young people aware of what these places were and of the various roles played by the “perpetrators, victims and observers” and of the reasons behind the crimes committed on the European soil during the years of the wars, in the name of a terrible ideology (Wouters 2009, 285-86). Finally, the Historial de Péronne, founded in 1992 (“the only French war museum with an explicit European perspective,” Wahnich and Tisseron 2001, 55), for the first time represents war—in this case, World War I—as a dramatic common experience. An experience shared by the three main fighting countries (France, Germany, England), as well as by the populations involved in the battles of the Somme, doomed to the same fate, unmasking the nationalistic and belligerent ideology presenting “us” versus “the others.” Such humanization of the war is well expressed by Henri Ciriani’s architecture, which is adherent to the military structure of the Castle of 164
riferimenti a Le Corbusier e al suo “museo a crescita illimitata” sono espliciti), che si specchia con la grazia di un pavillon des délices nel lago del parco che circonda il castello, quasi a sdrammatizzare la gravità del tema della guerra. L’architettura trova corrispondenza, entro i suoi spazi espositivi luminosi e concatenati, in un allestimento (progettato da Adeline Rispal, Jean-Jacques Raynaud e Louis Tournoux), altrettanto misurato. I rapporti fra gli oggetti, lo spazio architettonico e l’allestimento sono basati su un doppio registro definito dall’intersezione di due “piani narrativi:” il piano orizzontale per gli aspetti militari con la presenza delle fosses—sorta di bacheche aperte ricavate dentro i pavimenti, dove sono in mostra armi e divise dei tre corpi combattenti, adagiate come caduti nel fondo di una trincea—e il piano verticale per quelli civili, della vita di chi fu coinvolto nella guerra senza essere un soldato, con bacheche contenenti un numero contenuto di oggetti e documenti della vita di individui e famiglie.13
Historial de la Grande-guerre, Péronne. First floor plan
Péronne, where the entrance to the museum is located. The difference between the castle and the museum is sharp: the ramparts and the thick walls are in contrast with the lightness of a simple, permeable, peaceful architecture (which clearly recalls Le Corbusier and his “museum of endless growth”), which mirrors in the park’s lake that surrounds the castle, with the grace of pavillon des délices, as if it aimed at downplaying the gravity of the theme of the war. The features of the building of the museum are reflected in an equally sober exhibition design (by Adeline Rispal, Jean-Jacques Raynaud and Louis Tournoux), with its bright and connected exhibition spaces. The relationships among the objects, the architectural space and the exhibition design are based on a double register which is defined by the intersection of two “narrative planes:” the horizontal plane for the military aspects, with the fosses—a sort of open showcases in the floors, where weapons and uniforms of the three fighiting forces lie as if
Sono, questi, oggetti anonimi, i soli sopravvissuti di quei fatti, che attivano, con e oltre la loro semplice presenza fisica, un sistema di riferimenti più complesso, coniugando registro cognitivo e registro emozionale nella narrazione di eventi che hanno visto più di un milione di morti e un territorio devastato dai combattimenti. Nell’insieme la sensazione è di una rappresentazione semplice e diretta dei fatti, il cui messaggio sotteso e senza retorica è quello della riconciliazione fra popoli e persone prima ancora che fra stati o nazioni14. L’Historial di Péronne ci porta a una ulteriore considerazione che riguarda i site-based museums: musei che si collocano nei luoghi in cui la storia è avvenuta, dove la ”memoria lavora” (Nora 1984, x), e che da questa condizione traggono forza simbolica ed eloquenza comunicativa. Qui i musei operano come “stazioni” dei pellegrinaggi sui siti che furono lo scenario di eventi bellici, dove la cultura materiale della guerra è oggetto di 165
Historial de la Grande-guerre, Péronne. View of the “1914-1916” room (photo by Yannick Vernet)
they were fallen soldiers at the bottom of a trench—and the vertical plane for the civilians, for the people who were involved in the war without being soldiers, with showcases that contain objects and documents of individual persons and families.13 These nameless objects are the only survivors of those facts, and with their physical presence they trigger a more complex reference system, combining the cognitive and the emotional registers in the narration of events that caused over a million dead people and the devastation of a territory. Altogether, the representation of the events is simple and direct, and its implicit and unrhetorical message aims at the reconciliation among the various populations 166
conservazione e valorizzazione. La topografia dei territori di guerra estende lo spazio museale, attivando una operazione di mappatura nella memoria dei visitatori, una mappatura fisica e cognitiva che agisce a diverse scale: dal singolo oggetto ai molteplici “luoghi della memoria.” Al contempo l’autenticità dei monumenti, dei memoriali, dei cimiteri, dei resti diffusi rafforza il senso di verità che è incorporato dagli oggetti esposti dentro i musei, il loro valore di testimonianza,15 con una strategia dello spazio che rende il museo parte di un paesaggio dalla molteplice fenomenologia espositiva. L’edificio dell’In Flanders Fields Museum di Ypres, la medioevale Lakenhalle, il
William Newzam Prior Nicholson, “Canadian Headquarters Staff”, 1918. The painting illustrates five general officers and one major of World War I in front of a view of the bombed cathedral and Lakenhalle in Ypres (courtesy by Canadian War Museum / Musée canadien de la guerre, Ottawa)
and people, rather than among countries or nations.14 The Historial of Péronne makes us take into consideration the case of site-based museums, which are museums that are located on the site where the event took place, where “memory works” (Nora 1984, x), and which take symbolic strength and communicative eloquence from this condition. Such museums work as “pilgrimage stations” on the sites that witnessed war events, where the material culture of war is an object of preservation and valorisation. The topography of war territories expands the museum space, triggering a mapping operation in the visitors’ memory, a physical and cognitive cartography which
Mercato dei tessuti quasi totalmente distrutto dal fuoco di artiglieria durante la Prima Guerra Mondiale e ricostruito dal 1930 al 1967, è esso stesso rappresentazione degli effetti devastanti degli eventi bellici. Con il supporto del nuovo allestimento (2012), l’obiettivo del museo è oggi quello di incoraggiare i visitatori a visitare i paesaggi di guerra intorno a Ypres. Come dichiara l’attuale curatore del museo, Piet Chielens, “il paesaggio svolge il più duraturo ruolo di testimonianza della grande guerra. Oggi, non possiamo più sentire testimoni, ma siamo in grado di visitare i luoghi in cui la guerra è successa. La regione racconta la storia.” Realizzare musei di guerra riferiti a e nei 167
acts on various levels: from the single object to the multiple “places of memory.” At the same time, the authenticity of monuments, of memorials, of cemeteries, of the disseminated remains reinforces the sense of truth which is embodied by the exhibits inside museums, their witnessing value,15 with a strategy of the space that makes the museum part of a landscape that has a multiple expository phenomenology. The building of the In Flanders Fields Museum at Ypres (the medieval Lakenhalle, the Cloth Hall, which was almost totally destroyed by the artillery during World War I and rebuilt from 1930 to 1967,) is itself a representation of the devastating effects of war events. The new exhibition setting (2012) aims at encouraging visitors to visit the landscapes of the war around Ypres. As Piet Chielens, the current curator of the museum, states “the landscape plays the last testimony to the great war. We cannot hear any more witnesses, but we can visit the places where it happened. The region tells the story.” The realization of war museums in the sites of battles also originates from a desire to legitimize and perpetuate local history. In such places, the past and its conflicts become a tool to claim one’s identity and sense of belonging, as in the case of museums (and/ or memorials) of the Resistance, of deportations, or of the massacres committed by the Nazi armies which are disseminated all over France and Italy.16 These museums tend to spread their message through the commemoration of the victims and of the gestures of the people who fought for freedom, as the expression of the social fabric that is rooted in those places. The purpose of these site-based museums is to build a network of cognitive relationships, in order to increase the keys to understanding events, causes and effects. Consequently, these widely spread connections need to find the interpretation and communication keys which can help people understand the palimpsest through architecture’s symbolic 168
luoghi di eventi bellici risponde altresì a un desiderio di legittimazione e di perpetuazione della storia locale. Qui il passato con i suoi conflitti diventa strumento di rivendicazione identitaria e di senso di appartenenza, come è nel caso dei musei (e/o memoriali) della resistenza, delle deportazioni o dei massacri condotti dagli eserciti nazisti, diffusi in Francia e in Italia,16 musei che tendono a veicolare questi messaggi attraverso la commemorazione delle vittime e degli atti dei combattenti per la libertà in quanto espressione del tessuto sociale che ha le sue radici in quelle terre. Se la finalità dei musei immersi nei siti che sono stati scenario di conflitti armati è quella di costruire una rete di relazioni conoscitive, di aumentare le chiavi di comprensione dei fatti, delle cause e degli effetti, ancora una volta queste connessioni che si estendono a misura ampia nei territori devono trovare nei caratteri simbolici dell’architettura, così come negli assetti museografici degli spazi espositivi, le chiavi interpretative e comunicative in grado di amplificare la comprensione del palinsesto. In questo senso, nel Centre de la Mémoire a Oradour-sur-Glane, nel Museo-memoriale sulla resistenza di Vassieux-en-Vercors e nel Museo della Grande Guerra di Meaux, il rapporto con il paesaggio è particolarmente sottolineato dalle forme degli edifici. A Oradour-sur-Glane le rovine del villaggio distrutto dalle SS nel 1944 sono state conservate a memoria dell’eccidio, mentre il Centre de la Mémoire, costruito nel 1999 su progetto di Yves Devraine, si affianca a questa sorta di sito archeologico inserendosi con discrezione nel terreno da cui emergono le lastre in acciaio arrugginito che segnano l’ingresso al museo e che svettano sul tettoterrazza del museo affacciato verso i resti del villaggio, a rappresentare “le ferite indelebili lasciate da tutti i genocidi” (Poulot 2008, 28). Il museo-memoriale di Vassieux-enVercors del 1994, progettato dallo studio Groupe-6, ricorda la Resistenza e gli eccidi
In Flanders Field Museum, Ypres. View of the new exhibition display, 2012 (© In Flanders Field Museum)
characters, as well as in the exhibition spaces of the museum. Within this context, the relationship between museum and landscape is particularly highlighted by the shape of the buildings of the Centre de la Mémoire at Oradour-surGlane, the Memorial-museum of the Resistance at Vassieux-en-Vercors and the Museum of the Great War at Meaux. The ruins of Oradour-sur-Glane, a village destroyed by the SS in 1944, have been preserved to testify the massacre that took place there. The Centre de la Mémoire, which was planned by Yves Devraine and built in 1999, lies next to this sort of archaeological site. It discreetly integrates with the land from which some iron rusty slabs emerge to indicate the entry to the museum. These plates also stand out against the sky on the terraced roof of the museum, which overlooks the remains of the village, representing “the indelible wounds left by all genocides” (Poulot 2008, 28).
nazisti del 1944 nel villaggio e nel massiccio del Vercors nelle Alpi del Rodano. L’edificio, con le sue forme sinuose, è modellato secondo le linee di livello del Col de la Chau su cui sorge, mimetizzandosi tra il verde e le rocce (le stesse tra cui si rifugiavano i partigiani), dominando il villaggio e il paesaggio del “Site National Historique de la Résistance en Vercors” di cui fa parte come un vero e proprio osservatorio a presidio della memoria. Inaugurato l’11 novembre 2011, anniversario della firma dell’armistizio di Compiégne, il Musée de la Grande Guerre di Meaux si fonda sulla collezione di Jean-Pierre Verney, esperto nel campo della prima guerra mondiale. Si tratta di circa 50mila oggetti che documentano la vita quotidiana nelle trincee dei combattenti e l’evoluzione delle tecniche di guerra e dei modi di condurre gli scontri, tra il 1914 (prima battaglia della Marna), quando ancora lo stile era quello delle guerre ottocentesche e il 1918 (seconda battaglia 169
Mémorial de la Résistance en Vercors, Vassieux-en-Vercors, architectural plan by Groupe-6, 1994 (photo courtesy by Groupe-6)
The Memorial-Museum of Vassieuxen-Vercors was set up in 1994, following a project by studio Groupe-6. It commemorates the Resistance and the Nazi massacres committed in 1944 in the village and in the Vercors massif in the Alps of the Rhone. The curvy building follows the level lines of the Col de la Chau, where it is located. It hides among the green and the rocks where partisans used to take refuge, dominating the village and the landscape of the “Site National 170
della Marna), con l’affermarsi delle nuove tecnologie delle armi che saranno poi le protagoniste della seconda guerra mondiale. L’architettura, progettata da Christophe Lab, è una ampia piastra orizzontale che emerge dalla collina su cui si trova, un frammento estruso di paesaggio, una faglia tettonica sollevata sotto cui si trova una piazza coperta e l’ingresso al museo. L’immagine è quella dei campi di battaglia sottoposti alle forze distruttrici della guerra, alle cicatrici
Museo Storico della Resistenza, in S. Anna di Stazzema, museography by Pietro Carlo Pellegrini, 2005. Map and view (photo by Pietro Savorelli, courtesy by P. C. Pellegrini)
Historique de la Résistance en Vercors,” of which it is part, as a watchdog to preserve memory. The Musée de la Grande Guerre of Meaux was opened on the 11th of November 2011, on occasion of the anniversary of the Armistice Day of Compiégne. It is based on Jean-Pierre Verney’s collection, an expert of World War I. It includes about 50,000 objects that testify the soldiers’ daily lives in trenches and the evolution of war techniques
lasciate da bombe e scavi di trincee. All’interno si fa ampio uso della multimedialità, di ricostruzioni d’ambiente di una trincea e di un campo di battaglia, con una galleria dedicata a “corpo e sofferenze,” l’esposizione di carri armati, cannoni, camion, aerei sospesi ai soffitti nella grande sala centrale, con le armi da fuoco e gli oggetti della vita quotidiana nelle trincee presentate in una sala nel tradizionale accrochage di panoplie dense ed esteticamente composte 171
Musée de la Grande Guerre, Meaux, architectural design and museography by Atelier Christophe Lab, 2011. General plan and plan perspective
and battle management between 1914—before the Marne battle, when battles were still fought in the style of the nineteenth century—and 1918—second Marne battle, when new weapons technologies had started to be used, and would later be increasingly used during World War II. The building of the museum was designed by Christophe Lab: it is a thick, wide horizontal slab that emerges from the hill, like an extruded fragment in the landscape, a tectonic fault above a covered square and the entrance to the museum. It conveys the image of the battlefields that endured the destroying forces of the war, of the scars left by bombs and trenches. Inside the museum, multimedia tools are widely used to recreate the setting of a trench and a battlefield. A gallery is dedicated to “body and pain,” and tanks, cannons, and trucks are displayed in the big central room, where airplanes hang from the ceiling, whereas firearms and objects of daily life in the trenches are exhibited in a room in the traditional setting up of solid panoplies, both on the walls and in showcases. The instructive and scenographic tone of the exhibition is indicative of the purpose of the museum, which aims at attracting a wide public circuit, even in relation with the close Disneyland 172
su pareti e in bacheche. Il tono divulgativo e scenografico dell’esposizione mostra quanto lo scopo del museo di Meaux sia quello di attivare un ampio circuito di pubblico, anche in connessione con la non lontana Disneyland Paris, con cui è stata attivata una criticata partnership.17 Del resto in Francia, i recenti interventi di riallestimento o di nuove edificazione di musei dedicati alla Prima Guerra Mondiale, si inseriscono in un ampio programma di celebrazioni in occasione del centenario del suo inizio,18 con il dichiarato scopo di incrementare il turismo di guerra nelle regioni che ne furono teatro.19
Musée de la Grande Guerre, Meaux. View of the covered square with entrance to the museum (photo by Philippe Ruault, courtesy by Atelier Lab)
Paris, with which it has established a criticized partnership.17After all, in France the recent interventions of re-designing or building of museums devoted to World War I are part of a wide programme of celebrations of the centenary of its start,18 with the declared aim of increasing war tourism in the regions which witnessed it.19 Indeed, the relationship between war museums (and sites) and war tourism is the core of a highly debated issue concerning the modalities of representation of the topics and the spectacularization of the exhibitions, which go along with the increasing liking of sensationalism and trivialization. Among the first ones to follow this trend, it is worth mentioning the Mémorial-Cité de l’Histoire pour la Paix, which was opened in 1988 in Caen, a town connected to the events of the landing of the Allies in Normandy. The exposition is addressed to the
In verità, quello del rapporto fra musei (e siti) di guerra e turismo di guerra è una questione al centro di un acceso dibattito che riguarda anche il modo in cui le modalità di presentazione dei temi e la spettacolarizzazione delle esposizioni assecondano un certo gusto diffuso per il sensazionalismo e la trivializzazione. Tra i primi, il Mémorial-Cité de l’Histoire pour la Paix aperto nel 1988 a Caen, città legata alle vicende dello sbarco alleato in Normandia, ha scelto questa via. L’esposizione, dedicata al grande pubblico e alle scolaresche (un terzo degli oltre 400.000 visitatori all’anno), si connota per ricchezza di temi legati alla Seconda Guerra Mondiale in Europa e nel mondo (il mondo prima e dopo il 1945, gli aspetti militari e sociali della guerra, la vita durante l’occupazione nazista, i genocidi, la Resistenza, il D-Day, la guerra fredda, le culture della pace…), mentre l’allestimento 173
Musée de la Grande Guerre, Meaux. View of the main hall (photo by Philippe Ruault, courtesy by Atelier Lab)
wide public and to schoolchildren (about one third of over 400,000 visitors a year). It is characterized by a richness of themes linked to World War II in Europe and in the world (the world before and after 1945, military and social aspects of the war, life during the Nazi occupation, genocides, Resistance, D-Day, the Cold War, peace cultures…). The exhibition design makes use of environment reenactments with music and sounds, the most recent ICT systems, performaces and projections, which accompany visitors with a multisensorial ecstatic approach. On the coast close to the museum, there is also a building where a film about the landing in Normandy is projected, superimposing on the panoramic views of the battles sites as they are now. Therefore, the museum and the surrounding territory look like a big theme park aiming at entertaining rather than reflecting. The touristic use of the past and of cultural 174
fa ampio uso di ricostruzioni d’ambiente con musica e suoni, uso dei più recenti sistemi di ICT, momenti performativi e proiezioni accompagnano il visitatore in un approccio polisensoriale e affabulante. Nei pressi, lungo la costa, vi è anche uno spazio per proiezioni a 360 gradi dove è mostrato un film sullo sbarco in Normandia che si sovrappone a vedute panoramiche dei luoghi di battaglia così come sono oggi. Il museo e il territorio circostante si presentano così come un grande parco tematico orientato più all’intrattenimento che alla riflessione. L’uso turistico del passato e dei patrimoni culturali si presenta oggi, in generale, come una medaglia dalla doppia faccia: quella che allarga la conoscenza della storia a un uditorio ampio e diversificato, e quella che guarda alla creazione di un’economia di consumo della cultura in grado di sostituirsi alle industrie tradizionali che vanno via via scomparendo.
heritage currently looks like a medal with two sides: on the one hand, it spreads history knowledge to a wider and diverse audience; on the other hand, it aims at creating a cultural economy able to replace the traditional industries which are slowly disappearing. However, it is not yet clear whether it is possible to pursue both these purposes in case of controversial and sensitive topics—such as the case of topics related to conflicts—while respecting a common memory of pain and sufferance. Conclusions The cultural, social, and political aims of museums make it necessary to continuously wonder about the meaning of the heritage left by the twentieth century and its consequences on contemporary reality. This implies continuous negotiations between the past and the present while comparing individual and collective memories and historical research, which must keep the dialectics of the various positions alive. Overcoming the “divided memories” that have dramatically marked the populations of the European continent is an essential requirement to build the political and cultural identity of Europe. This can only be achieved through a complete narrative of the recent past and an institutionalization of a shared memory. As Chiara Bottici observes, “If Europeans look at their past, how do they recognize themselves? They can only recognize themselves as former enemies. The image of European wars, and in particular of World War II, is extremely strong in the perception of the past by European citizens. Europeans’ perception of the past cannot simply reproduce national triumphalistic models of collective education. The dimensions of the catastrophe of World War II are such that the common European memory cannot be built upon the idea of triumph, but it must start from the raising of awareness of the catastrophe” (Bottici 2010, 339).
Quanto questi due obiettivi, nel caso di temi controversi e sensibili, quali sono quelli legati ai conflitti, siano entrambi perseguibili nel rispetto di una comune memoria di sofferenze e dolore non è del tutto chiaro. Conclusioni La finalità culturale, sociale e politica della comunicazione museale richiede una continua interrogazione sul senso che l’eredità dei conflitti del XX secolo esprime nei confronti della realtà contemporanea, in una continua negoziazione fra passato e presente e su un piano, quello del confronto tra memoria individuale e collettiva e ricerca storica, che deve mantenere viva la dialettica delle diverse posizioni. Il superamento delle “memorie divise” che hanno drammaticamente segnato i popoli del continente europeo, requisito fondamentale per la costruzione dell’identità politica e culturale dell’Europa unita, non può prescindere da una compiuta narrativa del passato recente e dalla istituzionalizzazione di una memoria partecipata. Come ha rilevato Chiara Bottici, “Se gli europei guardano al loro passato, come si riconoscono? Gli europei non possono che riconoscere se stessi come ex nemici. L’immagine delle guerre europee, e in particolare della Seconda Guerra Mondiale, è estremamente forte nella percezione del passato da parte dei cittadini europei. La percezione del passato degli europei non può semplicemente riprodurre i trionfalistici modelli nazionali di educazione collettiva. Le proporzioni della catastrofe rappresentata dalla seconda guerra mondiale sono tali che la comune memoria europea non può costruirsi sull’idea di trionfo, ma deve partire dalla consapevolezza della catastrofe” (Bottici 2010, 339). I musei dedicati alla storia dei conflitti europei partecipano (o dovrebbero partecipare), con i loro modi e dispositivi di rappresentazione, della costruzione di questa consapevolezza attraverso una “politica della memoria” che, senza sacralizzazioni né volgarizzazioni, 175
With their tools and representation devices, museums dedicated to the history of European wars take part (or, should take part) in the raising of such awareness through a “policy of memory” that, with no sacralizations or vulgarizations, must involve all cultural institutions, including those devoted to the education of the younger generations. This happens because, as the last human witnesses are passing away, events are increasingly interwined only with their historical representations. Thus, the role of war museums is crucial. Indeed, they bridge the gap between the generation of people who lived during the wars or perceived them through direct testimonies, and the generation of people who perceive them as distant historical events. Moreover, war museums must convey the transnational value of those events. It is a fact that there were soldiers from other continents (America, Africa, Australia) who fought alongside Europeans, taking part in a common history that transcends any geographical border. Because of the dynamics of cultural multiplicity, of migrations and mobility, these museums are today collective archives of histories and cultures that belong to a past in need of continuous revisitations. Such revisitations depend on different points of view, on the European political, social and cultural changes which occurred after 1989, and which saw the start of further wars in the Balcanic area,20 that raise delicate question of thin line that differentiates military actions and peace interventions. A questioning awareness about the wars that were fought among people who now live together in the same territories can help us better understand the importance (and fragility) of peace and freedom, and of the establishment of the European Union based on mutual respect and on the rejection of the war as a solution to controversies. The role of museums in the pursuit of a common identity and citizenship has to be based also on the representation of the tragic events of the twentieth century, their nature, and their 176
Museo Audiovisivo della Resistenza, Fosdinovo, museography by Studio Azzurro, 2000 (photo courtesy by Studio Azzurro)
deve vedere coinvolte tutte le istituzioni culturali, tra cui quelle deputate alla educazione e formazione delle giovani generazioni. Questo perché, mano a mano che i testimoni scompaiono, gli eventi sono sempre più solamente intrecciati con le loro rappresentazioni storiche. Il ruolo dei musei della guerra è a questo punto cruciale, per il loro porsi a ponte fra generazioni, quelle che le guerre le hanno vissute o ne hanno avuto una percezione tramite testimonianze dirette, e quelle che le avvertono come fatti storici a loro lontani. In più i musei della guerra devono anche far comprendere la valenza transnazionale di quegli eventi, se pensiamo anche alla presenza di soldati da almeno altri tre continenti (America, Africa, Australia) che combatterono fianco a fianco con gli europei rendendoli partecipi di una storia comune che travalica
Museo Audiovisivo della Resistenza, Fosdinovo, museography by Studio Azzurro, 2000 (photo courtesy by Studio Azzurro)
consequences (though such representation might be subject to continuous revisitations and multiple interpretations and narrations). The question “how can war be represented in museums?” has to be put to visitors in such a way so as to make them active and performing subjects of this representation. It is not only a matter of displaying objects, but of being at the service of a story or a theoretical purpose, in a transverse critical context of knowledge and with a wide engagement for their elaboration. Again: also architecture and museography have to contribute with their qualities to this pursuit of truth whose purpose is to “turn memory into public and political actions against what is left of totalitarian or racist spirits” (Déotte 2001, 27).
ogni confine geografico. La dinamica della molteplicità culturale, delle migrazioni e della mobilità, fa sì che questi musei siano oggi gli archivi collettivi depositari di storie e culture appartenenti a un passato che richiede di essere continuamente rivisitato alla luce di differenti punti di vista, anche pensando ai cambiamenti politici, sociali, economici e culturali europei seguiti al 1989, che hanno tra l’altro visto l’avvio di una stagione di ulteriori conflitti nell’area Balcanica,20 per i quali si pone la delicata questione della linea sottile che differenzia azioni militari e interventi di pace. Attraverso una interrogativa presa di coscienza delle guerre combattute tra popoli che ora vivono mescolati sullo stesso suolo, si può meglio comprendere l’importanza (e la fragilità) della pace e della libertà, e dell’affermarsi dell’Europa Unita sulla base del mutuo rispetto e sul rifiuto della guerra come soluzione alle controversie. Il ruolo dei musei verso una ricerca di una identità e cittadinanza comune deve affermarsi anche su una rappresentazione (pur soggetta a continue rivisitazioni e a multiple letture e narrazioni) dei tragici eventi del Novecento, della loro natura, e delle loro conseguenze. La domanda “come si può rappresentare la guerra nei musei?” deve essere portata al pubblico dei visitatori in maniera tale che essa sia di questa rappresentazione soggetto attivo, performante. Non si tratta solo di esporre degli oggetti ma di mettersi al servizio di una storia o di un proposito teorico, in un contesto critico di trasversalità dei saperi e con un coinvolgimento ampio per la loro elaborazione. Di nuovo: anche l’architettura e la museografia hanno il compito di contribuire, con le loro prerogative, a questa ricerca di verità il cui senso è quello di “trasformare la memoria in azione pubblica e politica contro ciò che rimane ancora di spirito totalitario o razzista” (Déotte 2001, 27).
English translation: Ilaria Parini 177
Notes
Note
1. For an exhaustive description of the foundation of the Imperial War Museum see Kavanagh 1988. The museum was set up to celebrate the wars of the British Empire. After World War II, it added sections about civilians’ lives during the bombing, and in 2000 it opened an important exhibition on the Holocaust. The museum is closed now because of maintenance works and will open again in 2014, with a renovated gallery on World War I. 2. Such interest is confirmed by the presence of ICOMAM (International Committee of Museums and Collections of Arms and Military History) within ICOM. ICOMAM’s main purpose is to “encourage scientific research about arms and armour and military collections, both in specialized and general museums, and in military collections” (http://www. klm-mra.be/icomam/). 3. Anderson 1983. 4. Rekdal 2013. 5. Sebald, 2004. 6. See concepts such as dissonant heritage (Ashworth and Tunbridge 1996), and difficult heritage (Macdonald 2009), which problematize the operations of selection, interpretation, and representation of cultural heritage. 7. The data are impressive, though they are not certain yet: during World War I, out of a total number of 16.5 million casualties, over 6.5 were civilians; during World War II, only in Europe, out of a total number of about 35 million fallen, 19 million were civilians. 8. Bartov 2000; Todorov 2000. 9. “If those born after the war were to rely solely on the testimony of writers, they would scarcely be able to form any idea of the extent, nature, and consequences of the catastrophe inflicted on Germany by the air raids” (Sebald 2004, 69-70). 10. Whitmarsh 2001; Williams 2007. 11. The complex of the Arsenal and the military museum, one of the most important of that time, was built in 1873. The intervention of restoration and re-organization of the museum was funded by the army of the German Federal Republic. Indeed, they had the merit of facing the foundation of a military museum in the light of the current debate concerning war representation. The museum was opened in 2011. 12. Pieken 2012. 13. Jay Winter, a historian of World War I who has taken part in the scientific design of the Historial, talks about a “geometry of the memory” which is organized in a “horizontal access to the memory and mourning” and in a “vertical access to hope,” as the
1. Sulla formazione dell’Imperial War Museum vedi Kavanagh 1988. Il museo nato per celebrare le guerre dell’Impero Britannico, nel secondo dopoguerra si è rinnovato con sezioni sulla vita dei civili durante i bombardamenti e con l’apertura nel 2000 di una importante mostra sull’Olocausto. Il museo è attualmente chiuso per lavori e riaprirà completamente nel 2014 con, tra l’altro, una rinnovata galleria della prima guerra mondiale. 2. Questo interesse è confermato dalla presenza in seno all’ICOM dell’ICOMAM (International Committee of Museums and Collections of Arms and Military History), il cui scopo principale è quello di “incoraggiare la ricerca scientifica su armi, armature e collezioni militari, sia in musei specializzati che di carattere generale, sia in collezioni militari” (vedi il sito web http://www.klm-mra.be/icomam/). 3. Anderson 1983. 4. Rekdal 2013. 5. Sebald, 2004. 6. Si pensi a concetti quali dissonant heritage (Ashworth e Tunbridge 1996), e difficult heritage (Macdonald 2009), che problematizzano le operazioni di selezione, interpretazione e rappresentazione dei patrimoni culturali. 7. I dati -seppure ancora incerti- sono impressionanti: nella prima guerra mondiale su un totale di 16 milioni e mezzo di morti, più di 6 e mezzo furono civili: nella seconda guerra mondiale, solo in Europa, su un totale di circa 35 milioni di morti, 19 milioni furono civili. 8. Bartov 2000; Todorov 2000. 9. “Se le generazioni del dopoguerra volessero limitarsi alle testimonianze degli scrittori, troverebbero difficoltà a farsi un’idea dello svolgimento, dell’estensione, della natura e delle conseguenze che assunse la catastrofe abbattutasi sulla Germania con i bombardamenti aerei” (Sebald 2004, 69-70). 10. Whitmarsh 2001; Williams 2007. 11. Il complesso dell’Arsenale con il museo militare, uno dei più importanti dell’epoca, fu realizzato nel 1873. L’intervento di recupero e riorganizzazione del museo è stato finanziato dall’esercito della Repubblica Federale Tedesca, a cui va dato il merito di avere affrontato il tema di rifondare un museo militare alla luce del dibattito attuale sulla rappresentazione della guerra. Il museo è stato inaugurato nel 2011. 12. Pieken 2012. 13. Jay Winter, storico della prima guerra mondiale che ha partecipato alla elaborazione del progetto scientifico dell’Historial, parla di “geometria della memoria” che si organizza in un “accesso orizzontale,
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dialogue between two representations of violence (Winter 2012a). See also Winter 2006. Brandt 2004. Boursier 2005; Kjeldbæk 2009. Among the most recent ones it is worth mentioning the Museo Audiovisivo della Resistenza at Fosdinovo (in the Italian province of Massa Carrara), located in a small building of a former mountan settlement. Its multimedia design, curated by Studio Azzurro in 2000, focuses on the testimonies of survivors and Partisans. Another museum that ought to be mentioned is the Museo Storico della Resistenza of S. Anna di Stazzema, which is dedicated to the massacre of 560 civilians committed by the Nazi in 1944. It was opened in 1991 inside the old building of the primary school of the village. The new design, curated by Pietro Carlo Pellegrini in 2005, defines a “path of pain,” which is materialized by the long, split enfilade that recalls a film sequence and ends in the “Room of the massacre,” totally painted in red. Offenstadt 2012. See the website “Mission Centenarie 14-18” (http:// centenaire.org/fr). Chrisafis 2011. Wahnich 2007.
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quello del ricordo e del lutto” e in un “accesso verticale, quello della speranza”, come dialogo fra due rappresentazioni della violenza (Winter 2012a). Si veda anche Winter 2006. Brandt 2004. Boursier 2005; Kjeldbæk 2009. Tra i più recenti ricordiamo il Museo Audiovisivo della Resistenza in provincia di Massa Carrara a Fosdinovo, ricavato in un piccolo edificio di una ex colonia montana, il cui allestimento multimediale, curato da Studio Azzurro nel 2000, è incentrato sulle testimonianze dei sopravvissuti e dei Partigiani, e il Museo Storico della Resistenza di S. Anna di Stazzema dedicato all’eccidio di 560 civili da parte dei Tedeschi nel 1944, aperto nel 1991 all’interno della vecchia struttura delle scuole elementari del paese. Il nuovo allestimento del 2005, curato da Pietro Carlo Pellegrini, definisce un “percorso del dolore,” materializzato dalla lunga, spezzata enfilade che ricorda una sequenza filmica e che culmina nella “Sala dell’eccidio” completamente dipinta di rosso. Offenstadt 2012. Vedi il sito web “Mission Centenarie 14-18” (http:// centenaire.org/fr). Chrisafis 2011. Wahnich 2007.
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Aldo Renato Daniele Accardi
Oradour-surGlane and the Memorial Museum: a site of reconciliation Oradour-sur-Glane e il Museo della Memoria: Un Sito di Riconciliazione
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Introduction
Introduzione
Le XIX siècle voit l’extension du musée qui finira par englober toutes les productions de la vie humaine, même les plus humbles.
Le XIX siècle voit l’extension du musée qui finira par englober toutes les productions de la vie humaine, même les plus humbles.
(Bazin 1967, 195)
(Bazin 1967, 195)
Following the recent re-appraisal of the definition of a museum (XXI General Assembly ICOM, Seoul 2004), the International Council of Museums has extended the area of interest of museums to fully embrace any kind of testimony and emphasising the fact that above and beyond the undeniable relationship with the setting in which they emerge, these testimonies are the property of the entire human race. Consequently, all the theories developed in the museological and museographical fields acknowledge a certain power in even the most humble exhibited object,1 a power that is evident in the implicit didactic capacity of contributing to the shaping of public awareness. In fact, according to these theories, in various verified contexts,2 the act of exhibiting confers to the object an “over-addition of meaning,”3 arousing in the beholder what might be termed as awareness of self, a condition which offers every individual the possibility of opening up to the self-identification of “we.”4 The general public, including single and diverse individualities, builds up acknowledgement of the self by experiencing space and the forms contained therein.5 There are many examples in which the natural evolution of symbolic forms (accompanying the evolution from “I” to “we”) has managed to reinforce, or even create, collective self-identification and a sense of belonging to a given territory.6 Beautifully laid-out indoor museums are often given the credit for launching the socalled “strategy of identity;” they include the countless museums of “local culture,” which, in line with Walter Benjamin’s thinking,7
Con il più recente riesame della definizione di museo (XXI Assemblea generale ICOM, Seul 2004), l’International Council of Museums estende l’oggetto d’interesse dei musei, abbracciando in toto le testimonianze di qualsiasi natura e puntando l’attenzione sulla loro condizione di appartenenza all’umanità intera, oltre che sull’imprescindibile relazione all’ambiente in cui questa si è costituita. In tale direzione, tutte le teorie maturate in ambito museologico e museografico riconoscono un potere alle cose esposte1—anche le più “umili”—ravvisato nell’implicita capacità didattica di contribuire alla formazione della pubblica coscienza. Difatti, secondo tali teorie, in più sedi verificate,2 l’atto dell’esporre conferisce agli oggetti una “sovraddizione di significato,”3 tale che possa suscitare in chi li osserva il cosiddetto riconoscimento del “sé,” condizione in cui risiede già la possibilità di aprire ogni individuo all’autoidentificazione del “noi.”4 Il grande pubblico, costituito dalle singole e diverse individualità, matura un riconoscimento del sé sperimentando lo spazio e le forme in esso contenute.5 Molti gli esempi nei quali la naturale evoluzione delle forme simboliche—che accompagna l’evoluzione dall’“io” al “noi”—sia riuscita a rafforzare, e addirittura a creare, l’autoidentificazione collettiva e il senso di appartenenza ad un dato territorio.6 Il merito di mettere in atto la cosiddetta “strategia dell’identità” viene di sovente riconosciuto ai molto bene allestiti musei indoor, tra i quali la serie sterminata di musei del “locale,” che, in linea con il pensiero di Walter Benjamin,7 hanno potuto giocare un ruolo significativo nello sviluppo della coscienza 183
The ruins of the village of Oradour-sur-Glane as they are today (Ph. Aldo R. D. Accardi)
have been able to play a significant role in the development of national awareness. It was Benjamin himself who stressed the fact that museums, as sanctums of continuity, could also re-present attestations of barbaric events by exhibiting testimonies from various cultures,8 with particular reference to the mise en scène of the “heritage” of those countries, whose historic and cultural legacy is marked by cruelty and racial abuses. Man’s past is allencompassing and for this reason it must also be accepted in its most obscure and painful aspects. The much yearned-for continuity must be guaranteed without offering discounts to memory, which entails traversing a community’s most sorrowful times;9 otherwise, appealing to the duty of memory risks merely remaining a vain obligation. Here museography makes its entrance, by proposing to describe the passage 184
nazionale. Ma proprio Benjamin sottolinea come i musei, luoghi della continuità, nell’esibire le testimonianze delle varie culture, possono anche rievocare testimonianze di avvenute barbarie,8 in particolar modo se ci si riferisce alla mise en scène del “patrimonio” di quei paesi, il cui retaggio storico e culturale è segnato da varie crudeltà e prevaricazioni razziali. Il passato dell’umanità è omnicomprensivo e per questo deve essere accettato anche nei suoi lati più oscuri e sofferenti. La tanto vagheggiata continuità deve essere garantita senza fare sconti alla memoria, passando dunque anche attraverso le pagine più tristi di una comunità,9 altrimenti l’esortazione al dovere di memoria rischia di essere soltanto un vano imperativo. Qui interviene la museografia, che propone il racconto del passaggio da un “passato accettato” a un futuro migliore tutto da scrivere.10
from an “accepted past” to a better future still-to-come.10 There are museums in every corner of the world, which have sprung up not only in order to guarantee continuity of memory, but also to overcome the pain caused by various war-crimes, such as those perpetrated during the Second World War, for example; these include the Hiroshima Peace Memorial Museum, the Nagasaki Atomic Bomb Museum, the Osaka Peace Center and the cathartic “exhibition of pain,” the “Enola Gay,” created by the Smithsonian on the fiftieth anniversary of the Hiroshima bomb; although it deals with quite a different subject, the more recent exhibition by Arata Izosaki, for the Japanese Pavilion at the 1996 Venice Biennale, might be included in the same framework, since it has the catastrophic Kobe earthquake as its object (1995). The United States11 certainly stand out among the countries that have believed most strongly in the potential for museums to contribute to the construction and/or reconstruction of their national history (as well as overcoming traumas from the past.12 The American scholar James E. Young, in analysing the conscious or unconscious process through which the idea of the Holocaust takes on a symbolic form, has pointed out how the necessary tutelage of national identity can only be achieved through the memory of every form of suffering, however traumatic it might be:13 “Jews, no less than other American ethnic groups, began to reassert their national identity, turning no less than other groups to their memory of mass suffering” (Young 1993, 348). Thus far we have been referring to experiences of indoor musealization. Today it is clear that the objective of presentation strategies cannot disregard the profound link existing between museum and territory, a territory that corresponds to the “space” inside which the objects of memory have taken shape.14 The landscape, the environment and the context today take on a specific
Ricordiamo ad esempio quei musei, presenti in tutto il pianeta, sorti per garantire la continuità della memoria, ed altresì per superare il dolore inflitto dai diversi crimini di guerra, come ad esempio quelli perpetrati durante il secondo conflitto mondiale; tra questi l’Hiroshima Peace Memorial Museum, il Nagasaki Atomic Bomb Museum, l’Osaka Peace Center ed il catartico allestimento “del dolore,” l’“Enola Gay,” realizzato dalla Smithsonian in occasione del cinquantesimo anniversario della bomba di Hiroshima; pur trattando un argomento assai differente, si inserisce nella stessa cornice anche il più recente allestimento ideato da Arata Izosaki per il Padiglione nipponico della Biennale di Venezia del 1996, avente come oggetto il catastrofico evento sismico di Kobe (1995). Però, tra i paesi che maggiormente hanno creduto nella potenzialità dei musei di contribuire alla costruzione e/o ricostruzione della storia nazionale—oltre che al superamento dei traumi del passato11—di sicuro primeggiano gli Stati Uniti.12 Lo studioso americano James E. Young, nell’analizzare il processo conscio o inconscio per cui l’idea dell’Olocausto assume una forma simbolica, ha fatto risaltare come la necessaria tutela dell’identità nazionale può realizzarsi solo attraverso la memoria di ogni forma di sofferenza, anche se traumatica:13 “Jews, no less than other American ethnic groups, began to reassert their national identity, turning no less than other groups to their memory of mass suffering” (Young 1993, 348). Finora abbiamo fatto riferimento ad esperienze di musealizzazione indoor. Ma oggi si comprende che l’oggetto delle strategie di presentazione non può prescindere dal considerare il profondo legame che esiste tra museo e territorio; un territorio che corrisponde a quello “spazio” dentro al quale si sono formati gli oggetti della memoria.14 Il paesaggio, l’ambiente, il contesto, assumono oggi una valenza eccezionale, che non li definisce più come mera cornice di ciò che accolgono, ma—al pari dei musei—come 185
connotation, which no longer sees them as a mere framework for what they possess, but (in the same way as museums) as places for “object memory,” “ethnic memory,” the longue durée, objects as bearers of signs contained within. Many of the experiences in projecting over the last few years are in fact distinguished by their attention to the subject of the landscape, especially those that have had to deal above all with sites containing ruins that have recently emerged or with yet-tobe-explored archaeological areas. In these cases the actual surrounding context has become the interpretative key in the musealization of the whole, and is channelled towards processes of structured show-casing and conservation; the precise aim is to avoid both the debasement of the existential landscape and the gradual consequent loss of collective memory.15 In contemporary research on themes of musealization (both indoor and outdoor), the most prominent aspect is that of interpretation, which, in parallel with the growing affirmation of new paradigms of “museal memorisation,”16 is shifted towards new models of communication; these now respond not so much to a scientific function as to the requirements for presentation to the general public.17 However, when a comparison is made with the past and the territory of the communities that have a “painful memory,” all interpretative operations need to be carried forward with the utmost caution.18 Oradour-sur-Glane and the Centre de Mémoire Within the mechanisms of memory-oblivion that characterise every form of social stability, the operations for musealization of a specific territory can contribute quite usefully to the “elaboration of trauma,” especially if interpreted as single devices on which to rely, in order to transform into “shared commemoration” those lacerating events that the community is not able to overcome.19 As the experience of the Memorial Charles 186
luoghi della memoria oggettuale, della memoria etnica, della longue durée, degli oggetti portatori di segni in essi contenuti. Molte delle esperienze progettuali degli ultimi anni si contraddistinguono difatti per l’attenzione dedicata ai temi del paesaggio, soprattutto quelle che hanno dovuto confrontarsi con siti di rovine emerse o luoghi con giacimenti archeologici ancora inesplorati. In questi casi, lo stesso contesto circostante è divenuto la chiave interpretativa nella musealizzazione dell’insieme, ed ha incanalato verso processi di valorizzazione e conservazione strutturati con il preciso intento di evitare tanto lo svilimento del paesaggio esistenziale, quanto la conseguente perdita graduale della memoria collettiva.15 Nella ricerca contemporanea intorno ai temi della musealizzazione—sia indoor, sia outdoor—l’aspetto maggiormente rilevante è quello dell’interpretazione, che, parallelamente alla crescente affermazione dei nuovi paradigmi di “memorizzazione museale,”16 viene spostata verso nuovi modelli di comunicazione, non più direttamente rispondenti ad una funzione scientifica, quanto piuttosto alle esigenze di presentazione al pubblico.17 Tuttavia quando ci si confronta con il passato ed il territorio delle comunità che hanno una “memoria sofferente,” qualsiasi intervento interpretativo non può che essere portato avanti con molta cautela.18 Oradour-sur-Glane e il Centre de Mémoire All’interno dei meccanismi di memoria-oblio che caratterizzano ogni forma di stabilità sociale, gli interventi di musealizzazione di uno specifico territorio possono contribuire utilmente nella “elaborazione del trauma,” specie se interpretati come unici espedienti ai quali affidarsi per trasformare in “commemorazione condivisa” quegli eventi laceranti che la comunità non è in grado di superare.19 Come insegna l’esperienza del Memoriale Charles de Gaulle a Colombey, l’interpretazione museale può determinare un livello di
Façade of the Centre de la Mémoire (Ph. Aldo R. D. Accardi)
de Gaulle at Colombey teaches, museal interpretation can determine a level of revenue from tourism that often risks damaging the more important “duty of memory.”20 Each new museum, as a place of construction of community identity, should in fact play an educational role, using every tangible and intangible aspect; it should both instruct and spark off debate and reflection, but also carry out a civil role, foster awareness and stimulate emotions. At the village of Oradour-sur-Glane, martyrized by the SS Das Reich division in June 1944, these issues were raised with particular intensity, especially when it was decided to install a Centre de Mémoire near the ruined village, which was initially received by the community as a controversial presence. However, the Centre, with its refined layout, aroused in the community in question
redditività turistica, che spesso rischia di prevaricare sul più atteso “dovere di memoria.”20 Ogni nuovo inserimento museale, in quanto luogo di costruzione dell’identità comunitaria, deve in realtà espletare un ruolo educativo, usando ogni aspetto tangibile e intangibile, sia per ammaestrare, sia per innescare discussioni e riflessioni, ma altresì per esercitare un ruolo civile, promuovere una coscienza critica e incentivare emozioni. Ad Oradour-sur-Glane, villaggio martirizzato dalla divisione SS Das Reich nel giugno del 1944, tali questioni si sono poste con un’intensità particolare, soprattutto quando, nei pressi del villaggio in rovina, si è deciso di installare un “Centro della Memoria,” che fu recepito in principio dalla comunità come una presenza controversa. Il Centro invece, con i suoi ricercati allestimenti, suscita nella comunità cui si riferisce, ma non soltanto in 187
Entrance of the Centre de la Mémoire (Ph. Aldo R. D. Accardi)
(and not only this one) sensations of recovery of mislaid memory, and offered itself up as a place of conciliation, in which to trigger precise identitary dynamics.21 Historians and philosophers had already made evident the gulf between the identitary intent of the memory and the accounts which had been re-constructed from documents.22 Paul Ricœur himself describes the extent to which history has not emerged unscathed from the contributions of persons who have denied historians the ability to grasp what they have actually lived through.23 In fact, it is not unusual for the historian’s work to disappoint the memories of those who have been direct witnesses to events. Commemorative architecture has produced some of the most important and astonishing works of this century (museums, memorials, monuments and cemeteries), 188
essa, il recupero della memoria rimossa, proponendosi come un luogo di conciliazione, presso il quale innescare precise dinamiche identitarie.21 Storici e filosofi avevano già reso evidente lo scarto tra l’intento identitario della memoria ed i racconti costruiti a partire dalle documentazioni.22 Lo stesso Paul Ricœur afferma quanto la storia non sia stata indenne dagli interventi di soggetti che hanno negato agli storici la capacità di rendere conto del loro vissuto.23 Difatti, non è inconsueto che il lavoro dello storico abbia deluso il ricordo di chi è stato testimone diretto degli eventi. L’architettura commemorativa ha prodotto alcune delle opere più importanti e più stupefacenti di questo secolo—musei, memoriali, monumenti e cimiteri—opere nelle quali ogni progettista ha dovuto investire se stesso in modo particolare, cercando di tradurre
works in which each architect has had to strive in his/her own particular way, in an attempt to translate “extreme” feelings, whilst holding him/herself back a little, so that his/ her architectonic footprint does not overwhelm the gravity of the commemorative architecture; unfortunately, this has not always happened. Sarah Farmer expresses this innate ambiguity in the “memorial construction” of the massacre: scientifically highlighting the plurality of memories can in fact upset the affirmation of an “official” memory.24 Which memory should the Centre, therefore, have represented? There was concrete evidence that the power of the testimonies would be superior to any potential historical reconstruction and that the request for memory would certainly not be a request for historical documentation. In cases such as Oradour’s, there is always a real risk of coming up against exaggerated symbolism, in an affected re-evocation, or even worse, of offending the sensitivity of communities that have lived through these traumas. The range of expressions aroused by the “commemorative rite” is shared by all humanity, and could be translated not only into precise aesthetic and iconographic choices (hardly ever fully satisfying) but also into various strategies for representing the profound differences in the way of “fearing” and at the same time of “censuring,” which every community has developed for tackling traumas caused by wars.25 In 1942, Oradour-sur-Glane, a municipality in Vichy France, came under the direct control of Germany. Only two years later, the Nazis, in intensifying their operations to squash resistance, decided to impart a “condemnation,” as a warning, in the very heart of the problem area. So, on June 10th, 1944, the 4th Panzer Grenadier Regiment Der Führer of the Das Reich division, surrounded Oradoursur-Glane and sanctioned the extermination of the inhabitants of the village.26 That same night the village was looted and almost completely razed to the ground.27 The event was
sentimenti “estremi” e tenendosi qualche passo indietro, affinché la sua impronta architettonica non soverchiasse la pregnanza dell’architettura commemorativa, ma questo, purtroppo, non sempre è accaduto. Sarah Farmer esprime quest’ambiguità insita nella “costruzione memoriale” del massacro: mettere in evidenza scientificamente la pluralità di memorie può difatti turbare l’affermazione di una memoria “ufficiale.”24 Dunque, di quale memoria il Centro avrebbe dovuto farsi portavoce? Parecchi segnali annunciavano che la forza delle testimonianze sarebbero state superiori a ogni possibile ricostruzione storica e che la richiesta di memoria non sarebbe stata di certo una richiesta di documentazione storica. In casi come questo di Oradour, è sempre vivo il rischio di incorrere in un’esasperazione simbolica, in una leziosa rievocazione o, cosa peggiore, di oltraggiare la sensibilità delle comunità che quei traumi hanno vissuto. La varietà di espressioni suscitate dal “rito commemorativo,” consuetudine propria dell’intera umanità, può difatti tradursi sia in precise scelte estetiche e iconografiche, quasi mai del tutto soddisfacenti, sia in diverse strategie atte a rappresentare le profonde differenze del modo di “temere” e al tempo stesso di “censurare,” che ogni comunità ha maturato nei confronti dei traumi che sono conseguiti dagli eventi bellici.25 Nel 1942 Oradour-sur-Glane, comune nella Francia di Vichy, passò sotto il diretto controllo della Germania. Appena due anni dopo, i Nazisti, nell’intensificare le operazioni di soppressione della resistenza, decisero di impartire, come monito, una “condanna” nel cuore dell’area problematica. Così, il 10 giugno del 1944, il 4° Reggimento Panzer Grenadier Der Führer della divisione Das Reich circondò proprio Oradour-sur-Glane e sancì lo sterminio degli abitanti del villaggio.26 Nella stessa notte, il resto del villaggio fu saccheggiato e quasi completamente raso al suolo.27 L’evento fu immediatamente interpretato come una manifestazione della 189
View of one of the exhibition space at of the Centre de la Mémoire (Ph. © CMO - Centre de la Mémoire d’Oradour-sur-Glane)
immediately interpreted as a manifestation of German barbarism and gratuitous violence inflicted on an “innocent population.”28 After the war had ended, the voices describing what had happened at Oradour could not be placated, and kept being raised incessantly until the events of June 10th, 1944, were classified as le plus monstrueux des crimes de la guerre, in a period in which the genocide of the Jews in Europe had not yet been amply documented.29 By October 1944, an official committee of the mémoire had already begun to be concerned about the eventual fate of the village and first of all proposed the reconstruction of the buildings that had been reduced to rubble. However, the idea was abandoned when General Charles de Gaulle, the head of the provisional government of the Republic, made known his decision to preserve the ruins of the village in the exact state in which 190
barbarie tedesca e della violenza gratuita inflitta ad una “popolazione innocente.”28 Anche a guerra conclusa, le formulazioni in merito a ciò che avvenne ad Oradour non si placarono, anzi furono amplificate fino a quando l’evento del 10 giugno 1944 non venne classificato come le plus monstrueux des crimes de la guerre, proprio in un periodo in cui il genocidio degli ebrei d’Europa era ancora poco documentato.29 Già dall’ottobre del 1944, un Comitato ufficiale della mémoire iniziò a preoccuparsi del destino del villaggio e propose in prima battuta la ricostruzione degli edifici ridotti a rudere. L’idea fu però abbandonata, poiché sopraggiunse la decisione del Generale Charles de Gaulle, comandante del Governo provvisorio della Repubblica, di conservare le rovine del borgo nel preciso stato in cui gli abitanti le avevano scoperte all’indomani del dramma: il cosiddetto “punto zero,” ciò che i
the inhabitants had found them the day after the dramatic events: the so-called “point zero,” called Stunde Null by the Germans. Since then, the preservation of the ruins has witnessed numerous operations in terms of consolidation, restoration and, finally, musealization; these have inevitably altered their original appearance. At Oradour-sur-Glane, although the ruins have gradually undergone changes as a result of erosion and protective operations, a great evocative power and strong emotional impact still remain. From the interpretative point of view, the musealization of a “war ruin” must respond to criteria that differ greatly from those employed in the more customary archaeological conservation operations en plein air, bearing in mind that the risk of their undesirable trivialisation is always around the corner. Interpretation takes on another angle in the specific case of ruins caused by seismic activity; earthquakes, in fact, can lead to the transformation of a city, its open spaces and structures, reducing buildings to piles of rubble, accumulated debris, and mark a dramatic shift in significance.30 All signs disappear; everything becomes substance.31 It also worth mentioning that the characteristics of these places of memory have furthered the architectonic debate regarding a search for the “settlement principle” of “the new,” which might be capable of helping the new museal structure (also indirectly and without misleading interpretation) connect with the tragic context of reference, i.e. the “crystallized” landscape of an entire contemporary village in ruins. In 1999, President Jacques Chirac dedicated a visitors’ centre to Oradour-sur-Glane and re-named the site “Village Martyre.”32 This Centre de la Mémoire 33 is the outcome of an international competition launched in October 1993; the competition programme stipulated that the building ought to have a modest image (probably alluding to the wish to restrict the height of the structure) and that the internal tour of the museum should mainly have an
tedeschi chiamano Stunde Null. Si comprende però che la conservazione delle rovine, da allora ad oggi, ha visto numerosi intereventi di consolidamento, di restauro e, in ultimo, di musealizzazione, i quali inevitabilmente ne hanno modificato l’aspetto d’origine. Ad Oradour-sur-Glane, sebbene le rovine si trasformino progressivamente per effetto dell’erosione e degli interventi di protezione, si conserva un grande potere evocativo e un forte impatto emozionale. Dal punto di vista interpretativo, la musealizzazione di una “rovina di guerra” non può che rispondere a criteri molto differenti da quelli impiegati nelle più consuete operazioni di conservazione en plein air dell’archeologia, senza considerare che il rischio di un’indesiderata trivializzazione delle stesse è sempre dietro l’angolo. L’interpretazione assume un’ulteriore angolazione nello specifico caso di rovine generate da eventi sismici. I terremoti producono difatti una trasformazione della città, dei suoi spazi, delle sue strutture, riducendo gli edifici ad ammassi di macerie, a cumuli di semplice materia, e segnano un drammatico passaggio di significato.30 Scompaiono i segni e tutto diviene sostanza.31 Si consideri inoltre, che le caratteristiche di questi luoghi della memoria hanno suscitato un approfondimento del dibattito architettonico in merito alla ricerca di un principio insediativo del “nuovo,” che fosse capace di far dialogare, anche indirettamente e senza fuorvianti interferenze, la nuova struttura museale con il tragico contesto di riferimento, ossia con il paesaggio “cristallizzato” di un intero villaggio “contemporaneo” in rovina. Nel 1999, il Presidente Jacques Chirac dedicò un centro visitatori a Oradour-sur-Glane e ribattezzò il sito come “Village Martyre.”32 Il Centro, detto “Centre de la Mémoire” 33 è il frutto di un concorso internazionale lanciato nell’ottobre del 1993. Il programma del concorso stabiliva che l’immagine dell’edificio doveva essere modesta— alludendo probabilmente alla volontà di non sviluppare una struttura in elevazione—e che il percorso 191
educational role. The chosen équipe was led by the set-designer Yves Devraine,34 who had just finished working on the Memorial at Caen.35 Given that the village was to be maintained in its ruined condition, the new intervention had its fulcrum in the creation of a semi-hypogeous museal building, along a stretch of natural compluvium located between the ruins of the village and the new urban centre of Oradour. At the street-level, i.e. above the covering of the interred building, a parvise in echelon formation acts as a linking node between the two sites. The parvise is brutally punctuated by the presence of interwoven metal blades; these are meant to symbolise the inexorable advance of violence, but at the same time indicate the presence of the museum (which is otherwise invisible if one is approaching from the village) and direct visitors towards the entrance. This captivating “sculpture” of blades36 is the only element standing out above the plane of the ruins; it accommodates a long flight of steps to access the lower level, opening out to the valley of the river Glane, whose landscape is reflected on the large glass perimeter façade. During the descent the visitors are already experiencing a feeling of “seizure,” of “constriction,” brought on by the imposing presence of Cor-Ten steel walls, which are merely the altimetrical extension of the two blades in the parvise; from above they stick into the ground below, providing a lodging for the ramp. Inside, the suggested tour itinerary, sub-divided into five museographic phases, advances like a chemin de fer linking documents, iconography, texts and audio-visuals. The sophisticated lighting maintains an atmosphere of continuous semidarkness, so as to foster a state of intimate meditation that places the visitors in the best possible conditions to receive the “painful” message of the martyrs of Oradour. The sequence of architectonic spaces, the lay-out and the exhibits contribute to returning appropriate emotion of the event. From the hall, already saturated with images of the Führer, 192
museografico all’interno avrebbe dovuto avere in prevalenza una funzione pedagogica. L’équipe selezionata fu diretta dallo scenografo Yves Devraine,34 il quale proveniva già dalla realizzazione del Memoriale di Caen.35 Dato per assunto che il villaggio doveva essere mantenuto nelle condizioni di rovina, il nuovo intervento vede il suo fulcro nella realizzazione di un edificio museale semiipogeo, innestato lungo un tratto di compluvio naturale compreso tra le rovine del villaggio ed il nuovo centro abitato di Oradour. Al livello del piano stradale, ossia sopra la copertura dell’edificio interrato, un sagrato a scacchiera funge da nodo di collegamento tra i due siti. Il sagrato è interrotto brutalmente dalla presenza di lame metalliche intrecciate, atte a simboleggiare l’inesorabile avanzata della violenza, ma al contempo segnalano la presenza del museo—altrimenti invisibile a chi proviene dal villaggio—e indirizzano il pubblico verso l’ingresso. Questa suggestiva “scultura” di lame36 costituisce l’unico elemento in elevazione oltre il piano delle rovine ed accoglie una lunga scalinata di accesso al livello inferiore, aperto sulla vallata del fiume Glane, il cui paesaggio si riflette sulla grande facciata perimetrale di vetro. Durante la discesa, i visitatori assaporano già una sensazione “sequestrante,” di “costrizione,” resa dalla presenza suggestiva di imponenti muri di acciaio Cor-Ten, i quali altro non sono che l’estensione altimetrica di due delle lame presenti nel sagrato, che dall’alto s’infliggono nel terreno sottostante dando sede alla rampa. All’interno il percorso, suddiviso in cinque momenti museografici, si sviluppa come un chemin de fer che riunisce documenti, iconografie, testi e audiovisivi. Il raffinato gioco d’illuminazione mantiene un’atmosfera di continua penombra, così da favorire uno stato di intima meditazione che predispone i visitatori nella condizione di ricevere al meglio il messaggio “sofferente” dei martiri di Oradour. La sequenza degli spazi architettonici, l’allestimento e la selezione delle cose esposte, contribuiscono alla restituzione
View of one of the exhibition space at the Centre de la Mémoire (Ph. © CMO - Centre de la Mémoire d’Oradour-sur-Glane)
visitors make their own way towards the first section, devoted to the arrival of the Nazis during the Vichy period and ending with the declaration of war; all this is accompanied by valuable graphic and multimedia support. This is then followed by an exhibition entitled “Terreur à l’Est/Terreur en Limousin.” Here, the allegorical contrast between the black of the heavy metal walls and the white of the light panels positioned in front of them, points towards the experiencing of two worlds directly opposed to each other; the black is a world of “terror” linked to the rise of Nazism in Europe, whose violence is revived in a scale-model showing the most atrocious moments of mass hangings carried out by the “Das Reich” division in the years that preceded the barbarism throughout France; the white, on the other hand, hinting at calmness, evokes a reassuring image of
emotiva dell’evento. Così, dalla hall, già satura di immagini del Führer, ci si avvia verso la prima sezione dedicata all’avvento del Nazismo in Germania nel periodo di Vichy e si chiude con la dichiarazione di guerra, il tutto narrato da un supporto grafico e multimediale di notevole resa. Segue l’allestimento intitolato “Terreur à l’Est/Terreur en Limousin.” Qui, il contrasto allegorico tra il nero delle ponderose pareti metalliche e il bianco dei pannelli leggeri posti di fronte ad esse, indirizza verso la sperimentazione di due mondi messi drammaticamente in opposizione: il nero è un mondo di “terrore” legato all’avvento nazista in Europa, la cui violenza rivive in un plastico che inscena i momenti più atroci delle impiccagioni di massa, attuate dalla divisione “Das Reich” negli anni che precedono la barbarie in terra francese; mentre il bianco, di richiamo 193
View of the indoor exhibition of the Centre de la Mémoire (Ph. © CMO - Centre de la Mémoire d’Oradoursur-Glane)
the original village of Oradour, immortalised in the shots of a few moments of daily life, which hark back to the peculiarities of villages in Limousin in the thirties. The abovementioned sequence of images showing the village in the pre-massacre phase was deemed indispensible for providing visitors with further educational reference material and also reveals the widespread affection for eco-museology in France. The expository project continues with the presentation of the consequences of the dramatic events, i.e. an account of the Oradoursur-Glane massacre, described in a short 12-minute film, in which, apart from images of the village razed to the ground, there is a running commentary describing the merciless military actions of the Waffen-SS and alternating spoken testimonies by survived victims with statements from the accused. 194
alla “pacatezza,” evoca un’immagine rassicurante dell’originario villaggio di Oradour, immortalato negli scatti di alcuni momenti di vita quotidiana, che rimandano alle peculiarità dei villaggi degli anni Trenta presenti nel Limosino. L’anzidetta sequenza d’immagini che mostra il paese nella fase ante-massacro—giudicata indispensabile per le ragioni pedagogiche di fornire maggiori riferimenti ai visitatori—palesa altresì quell’attaccamento all’ecomuseologia tanto amata in Francia. Il progetto espositivo prosegue con la presentazione delle conseguenze del dramma, ossia il racconto del massacro d’Oradoursur-Glane, evocato da un filmato della durata di soli dodici minuti, in cui, oltre alle immagini del villaggio raso al suolo, scorre un testo che racconta la spietata attività militare della Waffen-SS e riporta brani incrociati delle testimonianze delle vittime scampate e
This is a reconstruction of the sequence of events that nobody “was able to witness” in its entirety. From here we move on to the hall of the “Reconnaissance Nationale et Reconstruction,” which is based around the complicated historical-evolutive chain of events, which from National Acknowledgement of the drama eventually led the martyred community to the construction of the new village of Oradour. This rather gruelling “emotional tour” is rounded off by the “Vers réflexion” exhibition, a great semi-circular space for meditation. The atmosphere of sublimation is amplified by a blue light overhead, which, through a slit in the ceiling, sweeps along the curved wall, at the base of which there is a long, continuous bench inviting the general public to pause for meditation.37 Under the bench, a further play of diffused lighting produces a visual separation between the floor and the surrounding walls, thus adding a lighter touch to the structure and a more profound sense of contemplation. Visitors will be able to linger and view twenty lit-up zones, positioned at floor-level, with screens displaying citations and messages of peace, and summoning the visitors to reflect intimately. The whole exhibition is characterised by the unavoidable impression of a “work in progress,” which imposes the formulation of a tale with mobile frontiers and invisible limits (Fouché 2002, 133). The aim of an operation of musealization such as the one carried out at Oradour-surGlane lies in the idea of conservation and transmission of the witness’s memory, endeavouring to come as close as possible to the “authentic” memory. However, it is clear that the ruins of Oradour have an “objective” emotional impact; the Centre de Mémoire (seen as a gateway to knowledge of the ruins themselves) proposes an “interpretation” of the events that took place, the veracity of which can only be confirmed by documents (which by definition are objective). It is impossible to give an interpretation that might assuage the sensitivity and expectations of those who
delle deposizioni degli imputati. Si tratta di una ricostituzione dello svolgimento di un avvenimento che nessuno “ha potuto vedere” nella sua interezza. Da qui si accede alla sala della “Reconnaissance Nationale et Reconstruction,” tutta incentrata sul complicato iter storico-evolutivo, che dal Riconoscimento Nazionale del dramma ha condotto la comunità martire alla costruzione del nuovo villaggio d’Oradour. “Vers réflexion” è invece il grande spazio semicircolare di meditazione, il cui allestimento chiude questo assai arduo “tour emozionale.” L’atmosfera di sublimazione viene amplificata da una luce azzurra zenitale, che, attraverso una feritoia nel soffitto, spiove lungo la parete curvilinea, alla base della quale si trova una lunga seduta a sviluppo continuo, che invita il pubblico alla sosta meditativa.37 Sotto la panca, un ulteriore gioco d’illuminazione diffusa produce uno stacco visivo tra pavimento e pareti circostanti, conferendo così maggiore leggerezza della struttura ed un più profondo senso contemplativo. Il pubblico in sosta si troverà ad osservare venti postazioni luminose, collocate a filo della pavimentazione, i cui schermi riproducono citazioni e messaggi di pace, selezionati per invitare chi osserva ad un’intima riflessione. In generale, tutto l’allestimento è definito dall’inevitabile caratteristica del “non-compiuto,” che impone la formulazione di un racconto dalle frontiere mobili e dai limiti invisibili (Fouché 2002, 133). Il fine di un’operazione di musealizzazione come quella condotta ad Oradour-sur-Glane risiede nell’idea di conservazione e trasmissione della memoria dei testimoni, tentando di avvicinarsi il più possibile alla memoria “autentica.” Tuttavia, si comprende che se le rovine di Oradour suscitano un impatto emozionale “oggettivo,” il Centro della Memoria—inteso come porta di accesso alla conoscenza delle rovine stesse—propone invece una “interpretazione” dei fatti accaduti, la cui veridicità può essere confermata soltanto dai documenti, oggettivi per definizione. Nella consapevole impossibilità di 195
(even indirectly) have lived through these dramatic events (either because they have “inherited” these accounts, which have been handed down to them, or because they have experienced the “signs” and the history of their own land). The Centre de Mémoire, being aware of this, distances itself to some extent and treats every potential reconstruction with a more cautious and manifest probablement... (Fouché 2002, 135) On the other hand, the demand to create other Centres de Mémoire or actual Holocaust museums, also advertises a need for redemption with regard to crimes against humanity, a real “processing of guilt” (Ruggeri Tricoli 2000, 21), which cannot be and must not be restricted to an austere reaction based on silence; “a building, a poem, a song or a film, whatever their level of populism, are surely always better than a refined silence that dictates a sense of superiority when we are dealing with the Holocaust and with those who still promote it by pretending to deny it” (Dannat 2002, 53).
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dare un’interpretazione che soddisfi le sensibilità e le attese di chi quei drammi ha vissuto anche indirettamente—sia perché “ereditati” dai racconti tramandati, sia perché sperimentati nei “segni” e nella storia del proprio territorio—il Centro della Memoria prende in qualche misura le distanze e affronta ogni possibile ricostruzione con un più cauto e palese probablement... (Fouché 2002, 135). D’altro canto, l’esigenza di realizzare Centri della Memoria o veri Musei dell’Olocausto, esprimono anche la necessità di redenzione nei confronti dei crimini dell’umanità, una vera e propria “elaborazione della colpa” (Ruggeri Tricoli 2000, 21), che non può e né deve essere limitata ad un’austera reazione basata sul silenzio: “un edificio, un poema, una canzone o un film, qualunque sia il loro livello di populismo, sono sicuramente sempre meglio dell’elegante silenzio che può dettare un senso di superiorità quando si ha a che fare con l’Olocausto e con coloro che ancora oggi lo promuovono fingendo di negarlo” (Dannat 2002, 53).
Notes
Note
1. Baiburin 1997. 2. One needs to remember that the activities of monitoring and testing the responses from the general public to stimuli coming from museums are part of the managerial routine of every museum that defines itself as such. 3. Naturally, the concept of over-addition co-exists alongside the contrasting one of subtraction, the theorization of which, supported by a large number of international museums, owes its origins to the studies by Maria Clara Ruggieri Tricoli; Ruggieri Tricoli 2000. 4. There is an interesting comparison with numerous studies on the sense of belonging developed in the sphere of dynamic psychology, but even more interesting are the implications that these theories have had for the museum; Russell 1994. 5. A “structuralist” theory of the museum as acknowledged in Piaget and Inhelder 1947. 6. Kaplan 1994. 7. Benjamin 1993. 8. Ibidem. 9. Ruggieri Tricoli 2000. 10. Farmer 1994. 11. Neal 1998. 12. James E. Young, Professor of Judaic Studies at the University of Massachusetts at Amherst , individuates a declination of the role assumed by ethnic memory in the various Holocaust memorials and museums, affirming, in particular, that the American sensitivity towards reconstruction of national history has developed mainly since the Second World War, and especially following the Shoah. In fact, the Holocaust has led the American people, and consequently its museums, towards a painful “elaboration of mourning”, that is very different from the “ambiguous” elaboration in German and Polish museums, but also different from the “rhetorical” and emphatic” elaboration occasionally encountered in Israeli museums; Young 1993. 13. Young 1993. 14. Assmann 1992. 15. Accardi 2008. 16. Ruggieri Tricoli 2005. 17. Nardi 2004. 18. Accardi 2010. 19. Ruggeri Tricoli 2007. 20. Dupront 1987. 21. Ruggeri Tricoli 2007. 22. We are referring in particular to Pierre Laborie and Paul Ricœur; cfr. Laborie 1993 e Ricœur 2000. 23. Ricœur 2000. 24. Farmer 1994.
1. Baiburin 1997. 2. Si tenga presente che le attività di monitoraggio e di verifica delle riposte del pubblico agli stimoli provenienti dai musei, rientrano nella routine gestionale di ogni istituzione museale che possa definirsi tale. 3. Naturalmente il concetto di sovraddizione coesiste con quello contrapposto della sottrazione, la cui teorizzazione, supportata da una vasta gamma di realtà museali internazionali, si deve agli studi di Maria Clara Ruggieri Tricoli; Ruggieri Tricoli 2000. 4. Interessante il confronto con i numerosi studi in merito al senso di appartenenza maturato nell’ambito della psicologia dinamica, ma soprattutto il risvolto che tali teorie hanno avuto nella pratica museale: Russell 1994. 5. Una teoria “strutturalista” del museo riconosciuta in Piaget 1976. 6. Kaplan 1994. 7. Benjamin 1993. 8. Ibidem. 9. Ruggieri Tricoli 2000. 10. Farmer 1994. 11. Neal 1998. 12. James E. Young - professore di Studi Giudaici presso l’Università del Massachusetts ad Amherst - individua una declinazione del ruolo che la memoria etnica assume nei diversi memoriali e musei dell’Olocausto, affermando in particolare che la sensibilità statunitense verso la ricostruzione della storia nazionale sia maturata maggiormente a partire dalla seconda guerra mondiale, soprattutto a seguito della shoah. L’Olocausto ha difatti portato il popolo americano, e di conseguenza i suoi musei, ad una dolente “elaborazione del lutto” molto differente dall’ “ambigua” elaborazione dei musei tedeschi e polacchi, ma anche diversa da quella “retorica ed enfatica” talvolta riscontrata nei musei israeliani; Young 1993. 13. Young 1993. 14. Assmann 1992. 15. Accardi 2008. 16. Ruggieri Tricoli 2005. 17. Nardi 2004. 18. Accardi 2010. 19. Ruggeri Tricoli 2007. 20. Dupront 1987. 21. Ruggeri Tricoli 2007. 22. Ci riferiamo in particolar modo a Pierre Laborie e Paul Ricœur; cfr. Laborie 1993 e Ricœur 2000. 23. Ricœur 2000. 24. Farmer 1994. 25. Texier, Dartoux 2007. 26. Alla carneficina sono sopravvissute soltanto sei persone, mentre sono deceduti 205 bambini, 240 donne 197
25. Texier, Dartoux 2007. 26. Only six people survived the massacre, whilst 205 children, 240 women and 197 men died. 27. Farmer 2004. 28. Fouché 2008. 29. Ibidem. 30. The case of Poggioreale (Sicily) certainly represents one of the most indicative examples of this phenomenon. 31. Isozaki 1997. 32. The “Centre de Mémoire” at Oradour-sur-Glane was opened following the creation of the “Mémorial pour la paix de Caen” and the “Historial de Péronne”, opened to the general public a short time before, and also the “Maison des enfants d’Izieu”, inaugurated by the President of France in April 1994. 33. There have been many queries about its name since the conception of the new museographic installation. However, the term “Centre de Mémoire” found agreement on all sides, the local community, the town council and the National Association of Families of Martyrs. The choice of the word “mémoire” was decisive, also because of the notoriety brought by the publication of the text by Pierre Nora (Les lieux de mémoire, 1984), which better rendered the impression of a public institution at the service of collective memory, a sign of “continuity” and maintenance of the message to be diffused; Nora 1984. 34. L’équipe, as well as Yves Devraine, included the landscape painter Bernard Lassus and the architects Jean-Louis Marty and Antonio Carriléro. 35. One can clearly deduce from the home page of the web-site Memoriale di Caen, a Museum for Peace, the willingness of the institution to show how much an understanding of the world imposes knowledge of one’s own history cf. web-site: www.memorialcaen.fr. 36. The tangle of metal blades clearly recalls Le Naufrage de l’Espérance (1823/24) by Kaspar David Friedrich, the emblematic painting of German romanticism housed in the Kunsthalle, Hamburg, but it is mainly an unintended nod to the painting on the part of the architects. 37. To this end, we might mention the so-called “Halls of Remembrance” in countless museums of the Holocaust, all created with very similar intentions to the one told here; so we might cite one example, the United States Holocaust Memorial Museum in Washington, in which its “Hall of Remembrance,” with its hexagonal floor-plan, is defined by walls (here, too, treated as blades separated by a trace of light) that restore serenity and harmony to the context and enhance its sense of meditation; cf. Lipstadt 1993. 198
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e 197 uomini. Farmer 2004. Fouché 2008. Ibidem. Il caso di Poggioreale di Sicilia rappresenta certamente uno degli esempi più indicativi di questo fenomeno. Isozaki 1997. L’apertura del “Centre de la Mémoire” di Oradour-sur-Glane fece seguito alla realizzazione del “Mémorial pour la paix de Caen” e dell’ “Historial de Péronne”, aperto al pubblico poco tempo prima, così come della “Maison des enfants d’Izieu” inaugurata dal Presidente della Repubblica francese nell’aprile del 1994. Sin dal concepimento della nuova installazione museografica, nacquero molti interrogativi sulla sua denominazione. Tuttavia la locuzione “Centro della Memoria” mise d’accordo ogni parte in gioco, comunità locale, municipalità e l’Associazione nazionale delle famiglie dei martiri. Determinante è stata la scelta del termine “memoria,” il quale, anche per merito della notorietà accreditata dalla pubblicazione del testo di Pierre Nora (Les lieux de mémoire, 1984), meglio restituiva l’impressione di un’istituzione pubblica al servizio di una memoria collettiva, segno di “continuità” e di mantenimento del messaggio da divulgare: Nora 1984. L’équipe, oltre a Yves Devraine, comprendeva il paesaggista Bernard Lassus e gli architetti Jean-Louis Marty e Antonio Carriléro. Già dalla home page del sito Internet del Memoriale di Caen, un museo per la Pace, si evince la volontà dell’istituzione di mostrare quanto la comprensione del mondo imponga una conoscenza della propria storia; cfr. sito Internet: www.memorial-caen.fr. Il groviglio di lame di metallo ricorda apertamente Il naufragio della speranza nei ghiacci (1823/24) di Kaspar David Friedrich, l’emblematico quadro del romanticismo tedesco conservato nella Kunsthalle di Amburgo, ma è un rimando all’opera non consciamente auspicato dai progettisti. Ricordiamo a tal proposito le cosiddette “Sale della Rimembranza” dei moltissimi musei dell’Olocausto, tutte creati con intenzioni molto simili a quelle fin qui raccontata, pertanto citiamo, uno per tutti, lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, in cui la sua “Hall of Remembrance,” a pianta esagonale, è definita da pareti—anche qui trattate come delle lame separate da una traccia di luce—che restituiscono la serenità e l’armonia del contesto e ne moltiplicano la sensazione di raccoglimento; cfr. Lipstadt 1993.
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alberta cazzani
WWI memorials and connected commemorative parks and gardens in Lombardy: a system to preserve and valorize. I Monumenti ai Caduti della Prima Guerra Mondiale e i Connessi Giardini e Parchi Commemorativi in lombardia: Un Sistema da Tutelare e Valorizzare
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At the end of the First World War people felt the need to honor the memory of the numerous soldiers who gave their lives for their Country. Towns and villages in every part of Italy wanted to commemorate their heroes by building monuments, steles, memorial stones and memorials. Moreover, due to a law issued in 1922, a tree was planted to honor every fallen soldier. This shaped memorial avenues and parks commemorating them with living and growing features. Not only in the most important towns, but also in small villages, less complex memorials were built, commemorative avenues and gardens were set up and sometimes public buildings were dedicated to the memory of the dead. Erecting memorials was often a popular way to understand the terrible tragedies that had occurred during War time. There were different reasons to build memorials: to reveal private pain, to demonstrate public gratitude and to remember, but also to demonstrate some examples for future generations and to exalt the war, in line with the Fascist principles. A recent inventory analyzes the First World War memorials and the connected commemorative parks and gardens built in the districts of Brescia, Milan, Monza and Brianza. The research was carried out by the Architectural Design Department of the Politecnico of Milan for the Lombardy Region as part of the activities focused on knowledge and enhancement of the Heritage of the First World War.1 Almost one thousand sites are listed: they represent an exceptional system of historical, architectural, cultural and landscape value that characterizes our cities and villages. This system needs to be better preserved and promoted to remember a fundamental moment of Italian and European history and to build a future of integration and peace.2 The inventory produced some important
Alla conclusione della Prima Guerra Mondiale si manifesta la volontà di celebrare la memoria dei numerosi Caduti. Città, paesi e frazioni in tutta Italia decisero di ricordare i propri eroi con la costruzione di monumenti, steli, targhe, mausolei. Inoltre, ai sensi di una legge stipulata nel 1922, si stabilì di piantare un albero in memoria di ogni Caduto, formando dei viali e/o parchi delle Rimembranze per perpetuare il ricordo attraverso un elemento vegetale e quindi vivo. Non solo nei più importanti Comuni, ma anche nei piccoli paesi furono così costruiti monumenti dai caratteri costruttivi più o meno complessi, realizzati viali e giardini delle Rimembranze, talvolta dedicati edifici pubblici. La volontà di erigere dei monumenti, spesso di derivazione popolare spontanea, nacque dal comune desiderio di dare un senso alla strage che si era compiuta, ma le ragioni della loro realizzazione risultano molteplici: l’esigenza di esprimere un dolore privato, la riconoscenza e la commemorazione pubblica, la necessità di ricordare connessa alla volontà di presentare degli esempi per le generazioni future, ma anche la ferma intenzione ad esaltare la guerra, in linea con i principi fondanti del Fascismo. Un recente censimento dei monumenti ai Caduti della Prima Guerra Mondiale e ai connessi giardini e parchi commemorativi nelle province di Brescia, Milano e Monza e Brianza svolto dal Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano per conto della Regione Lombardia nell’ambito delle azioni finalizzate alla conoscenza e valorizzazione del patrimonio della Prima Guerra Mondiale1 ha individuato complessivamente quasi un migliaio di siti che costituiscono un eccezionale sistema di valore storico, architettonico, culturale e paesaggistico che caratterizza le nostre città e paesi e che necessita di essere meglio tutelato e promosso per ricordare un momento fondamentale della storia del nostro paese e dell’Europa e per costruire un futuro di integrazione e di pace.2 201
Some of the Lombardy listed memorials are examples of different recognized typologies.
results, not only in terms of quantity (967 listed sites: 841 memorials and 126 commemorative parks and gardens in the 395 analyzed villages and towns) but also in quality. Some of the monuments present great architectural and artistic value and many remembrance parks, gardens and tree-lined paths are definitely remarkable in terms of their botanical and landscape significance. The monuments—which have been created since the 1920s—are buildings (such as schools, chapels, memorials, ossuaries), sculptures and simpler sites such as obelisks, steles, columns, or memorial stones. They have occasionally been designed by famous architects (like Giovanni Muzio, Giuseppe Terragni, Gian Carlo Maroni), sculptors and artists (such as Carlo Bonomi, Tullio Borsato, Claudio Botta, Valentino Casali, Pietro Clerici, Luigi Contratti, Edoardo De Albertis, Alberto Dressler, Alessandro Laforet, Franco Lombardi, Arrigo Minerbi, Alfredo Sassi), but most of them have been created by local, created by local artisans. Deeper investigations are necessary in order to study and compare their historical characters and peculiarities. The listed memorials present different typologies: they often emphasize verticality as a symbol of the energy of life, victory, tension to the sky and to a greater reality. With reference to verticality, one of the most used typologies is the obelisk, an 202
Dal censimento emergono alcuni importanti risultati, non solo in termini quantitativi—si sono complessivamente individuati nei 395 comuni indagati quasi un migliaio di siti (esattamente 967 siti di cui 841 monumenti e 126 parchi o viali delle Rimembranze)— ma anche in termini qualitativi. Infatti alcuni dei monumenti presentano un notevole valore architettonico e artistico, e molti parchi, giardini commemorativi e viali delle Rimembranze possiedono un elevato interesse botanico e paesistico. Il patrimonio dei monumenti rilevati è molto variegato: essi coprono un vasto arco cronologico, perché realizzati a partire dagli anni Venti fino a esempi molto più recenti e presentano diverse tipologie. Si sono, infatti, individuati edifici (scuole, cappelle, memoriali, ossari), monumenti scultorei e manufatti più semplici quali obelischi, steli, cippi, colonne, lapidi. Nella maggior parte dei casi non si è individuato l’autore: in proposito si sono identificati circa un centinaio di architetti, ingegneri, scultori e pittori che hanno realizzato uno o più dei monumenti censiti. Solo occasionalmente si tratta di famosi architetti (quali Giovanni Muzio, Giuseppe Terragni, Gian Carlo Maroni) o di noti scultori e artisti (come—tra gli altri—Carlo Bonomi, Tullio Borsato, Claudio Botta, Valentino Casali, Pietro Clerici, Luigi Contratti, Edoardo De Albertis, Alberto Dressler, Alessandro Laforet, Franco Lombardi, Arrigo Minerbi, Alfredo Sassi), mentre in prevalenza si tratta di professionisti e artigiani meno conosciuti che hanno lavorato soprattutto a livello locale, spesso non firmando le opere. Si tratta di un settore della ricerca che certo merita degli approfondimenti per meglio analizzare la complessità delle tematiche iconografiche e valutare gli esiti espressivi di maggiore qualità. I monumenti individuati presentano diversificate tipologie: essi spesso hanno uno sviluppo lungo l’asse verticale che simboleggia la spinta vitale, la vittoria, la tensione verso il cielo e verso una realtà superiore. Con
ancient symbol that recalls strong Roman Age. The obelisk is an element easier to construct than a sculpture memorial, therefore more affordable. The stele represents a similar category, even if it is usually more elaborated and smaller than an obelisk. Steles are often made of stone, with a pyramid shape decorated with a bronze bas-relief containing war symbols (like helmets with crossed guns) and usually they present a five points star on the top (the Star of Italy), which represents the Italian Army. Other symbols include a cross, a flame or a bronze eagle, representing force, value and dignity. Another widespread typology is the sculpture monument, mainly made of bronze. The connected iconography includes different types of subjects and compositions which refer to death, heroism, glory (often represented with soldiers and foot-soldiers) and victory, particularly the winged victory related to the Greek God Nike, a symbol of triumph. War artifacts are often used to decorate the monuments and they can be original or reproductions, like helmets, guns, artillery, bombs. The fallen are also remembered with commemorative chapels, usually located in municipal cemeteries or, rarely, close to a shrine and ossuary. Memorial stones and tablets are of course the most widespread and are found in almost every village. These memorials are usually made of stone or bronze with the dedicatory inscription, the dates of the beginning and the end of the First World War and the list of the fallen, sometimes with the soldier’s military rank and portrait photo. Memorial stones can include bas-reliefs with a winged victory, eagles, war symbols (5 points stars, helmets, guns, heavy artillery) or decorative elements (laurel crowns, olive branches, palm leaves). In some towns, following the advice of learned persons and the rules issued by law in 1927, it was decided to guarantee the memory of Dead Soldiers by constructing public
riferimento alla verticalità una delle tipologie maggiormente utilizzate è quella dell’obelisco, simbolo antico, evocatore della vincente epoca romana, elemento monolitico di facile realizzazione rispetto a un monumento scultoreo e quindi anche economicamente più vantaggioso. Categoria assimilabile all’obelisco è quella della stele, in genere più elaborata e di dimensioni più contenute. Queste opere, quasi sempre in pietra e con struttura piramidale, sono spesso caratterizzate da bassorilievi in bronzo, rappresentativi di una simbologia legata alla guerra (come ad esempio elmetti con fucili incrociati) e di solito presentano sulla sommità una stella a cinque punte (la stella d’Italia), evocativa dell’esercito, oppure una croce, una fiamma o ancora un’aquila in bronzo, simbolo di forza, valore, dignità. Un’altra tipologia molto diffusa è il monumento scultoreo, realizzato nella maggior parte dei casi in bronzo. L’iconografia correlata comprende soggetti e composizioni di diverso genere, riferiti al tema della morte, dell’eroismo, della gloria (spesso rappresentati con soldati e fanti) e della vittoria (in particolare la vittoria alata con riferimento alla divinità greca, Nike, simbolo del trionfo). Connessi ai monumenti si trovano frequentemente reperti bellici (originali o riprodotti) come elmetti, cannoni, bombe. I Caduti sono anche ricordati con cappelle commemorative, situate per lo più all’interno dei cimiteri comunali o, più raramente, con sacrari e ossari. La tipologia certamente più diffusa è quella di targhe e lapidi, presente in quasi tutti i Comuni. Tali opere, di solito realizzate in pietra o in bronzo, riportano l’iscrizione dedicatoria e le date di inizio e fine della Prima Guerra Mondiale, seguite dall’elenco dei nomi dei Caduti, talvolta accompagnati dal grado militare e dalle fotografie-ritratto. In alcuni casi le targhe sono corredate da bassorilievi con raffigurazioni quali la Vittoria Alata, aquile, simboli bellici (stelle a cinque punte, elmetti, fucili) o elementi decorativi (corone d’alloro, rami d’ulivo, foglie di palma). 203
Salò (IT), lake front promenade: the monument to the Fallen has an important role in the urban settlement of the town.
utility buildings, such as hospitals, churches, aqueducts and, especially, schools. Regarding schools, sometimes the whole building is considered as the First World War memorial, whereas in other cases memorial tablets with the list of the dead soldiers were placed on the facade of the school, and in other cases different kinds of memorials were located in the area in front of the school entrance. The important urban role of the First World War memorials can be understood taking into consideration the original planned location. In most cases, the memorials were set in significant urban spaces like main squares, parish church squares, public areas connected with City Halls or other public buildings or in relevant symbolic sites like cemeteries or in the surroundings of battlefields. Therefore, memorials were perceptive elements with a high visual impact in the urban settlement: the steles and the obelisks constituted the fulcrum of the town squares and they were often real landmarks. 204
In alcuni Comuni—accogliendo gli inviti espressi da alcuni uomini di cultura e le disposizioni di legge del 1927—si decise di garantire il ricordo perenne dei Caduti attraverso la realizzazione di edifici di pubblica utilità, quali ospedali, chiese, acquedotti, ma soprattutto scuole. A proposito delle scuole, talvolta l’intero edificio è considerato il monumento ai Caduti della Grande Guerra, in altri casi sulla facciata della scuola sono apposte targhe che riportano la lista dei Caduti e in altri casi ancora monumenti di diverse tipologie sono posizionati nello spazio antistante l’ingresso della scuola. L’importanza attribuita ai monumenti dedicati alla Prima Guerra Mondiale è riscontrabile anche dalla localizzazione in origine pianificata. Nella maggior parte si tratta di luoghi che ricoprono una grande rilevanza sia a livello urbano—piazze principali, sagrato della chiesa parrocchiale, spazi pubblici comunali antistanti al municipio o ad altri edifici pubblici—sia a livello simbolico come
Meda (IT): the high impact memorial of significant architectural value, connected with a large green space.
The role of memorials often changes, in both spatial and perceptive ways, due to the urban development in the last decades and the consequent transformation of urban settlements. Even if the memorial is still located in its original location (as is documented by comparing the current photos with historic postcards) it is often no longer an urban landmark, but instead a simple urban feature sometimes totally disconnected from the urban context. Considering the vast and diversified First World War memorial heritage, there are many celebrative sites where the vegetation is often an essential component. Sometimes the vegetation is joined with monuments and buildings as a principal feature; some other times the vegetation is role to previously mentioned Remembrance avenue and parks. These sites are green architectures with memory and celebration functions. These commemorative green spaces have an important role in the urban landscape
i cimiteri e, in casi eccezionali, in prossimità dei luoghi di battaglia. I monumenti costituivano così un elemento visivo e percettivo di grande impatto nel contesto urbano: le steli e gli obelischi costituiscono il fulcro delle piazze cittadine e spesso rappresentano un vero e proprio marcatore del territorio. Con lo sviluppo urbano degli ultimi decenni e la conseguente trasformazione dell’impianto delle città, il ruolo del monumento è spesso mutato, sia spazialmente che percettivamente. Anche se in molti casi—come risulta evidente dal confronto con le foto e le cartoline d’epoca—il monumento è rimasto nella posizione originaria, esso da elemento compositivo urbano significativo è diventato semplice elemento di arredo, fino a risultare in alcune situazioni completamente slegato dal contesto urbano. Considerando il vasto e diversificato patrimonio monumentale legato alla Grande 205
A Remembrance avenue and park that still conserve historic vegetal and commemorative elements.
but they have not been well studied yet. The number of commemorative green spaces is very high as almost every village in Italy, including the smallest ones, has a memorial joined with trees or plantings. Often commemorative green spaces are connected with other green spaces, creating a network of avenues, public gardens, lake or river shores, public promenades, etc. The Remembrance parks and avenues were set up following a law issued in 1922, based on an idea by Dario Lupi who was the Public Education undersecretary. They are memorials designed using only vegetation that has a symbolic meaning: an avenue or a park was set up, in all the Italian municipalities, planting an individual tree naming every Dead Soldier who had served his Country. The Public Education Department issued specific guidelines (Ministero della Pubblica Istruzione, Norme per i viali e parchi della Rimembranza, circolare n.73, Bollettino 206
Guerra, va evidenziata una enorme quantità di architetture celebrative in cui la materia vegetale è molto spesso presente come componente essenziale, sia in piazze alberate, giardini, viali in cui sono inseriti gruppi scultorei che nel caso di arredi vegetali anche modesti connessi a sculture, ossari, tombe, cippi, targhe, croci. In altre situazioni gli individui vegetali assumono direttamente funzioni di trasmissione della memoria, come nei già menzionati viali e nei parchi delle Rimembranze propriamente detti che risultano costruzioni vegetali per commemorare i Caduti e celebrare la storia patria. Questi spazi verdi commemorativi—di notevole valore per il paesaggio urbano— sono ancora scarsamente esplorati dalle ricerche storiche e non risultano esserci specifici censimenti ad essi dedicati. Il numero di questi beni è certamente assai più alto di quanto possa apparire ad una prima riflessione: pressoché ogni centro urbano, anche il
Ufficiale n.52, 28 dicembre 1922)3 to define detailed design rules for the commemorative parks and avenues, involving schools and municipalities and promoting local executive committees. The rules concerned planting techniques, recommended that all the commemorative avenues should have “a uniform and recognizable design in every Italian location,” defining the materials (wood), the dimensions and the colors (white, red and green, that is, the colors of the Italian flag) of the 3 “rulers” which were supposed to support the trees that had just been planted and contain (the white ruler, higher than the other 2) the enameled iron label indicating the Fallen soldier’s name. Also the text of the label followed a format: “in memory of (military rank, first name, last name), Fallen during the First World War (date) at (location).” The Department provided also a list of tree species to be used, considering the Northern, Central, Southern Italian climate zones: particularly for the North of Italy “pines, firs, cypresses, oaks, beeches, horse chestnuts” were recommended. Remembrance avenues were planted throughout Italy in a significant quantity: there were 1084 Remembrance parks and avenues had been already set up by 1923, only one year after they had been established, while 5735 executive committees had already been founded. In most municipalities, the names of the fallen of the the Second World War were later added, increasing and sometimes redesigning the Remembrance avenues and parks. Today, in many cases only the name of “Remembrance street” has been kept, but the trees and the labels are gone. In some other villages these sites are still considered as a heritage connected with the local community and the Remembrance avenues have been restored and also remade. In these cases the historical and architectural features of the Remembrance avenues have changed, using
più piccolo, possiede un proprio monumento commemorativo ed esso era spesso nel passato correlato a elementi vegetali. Si nota inoltre di frequente un forte intreccio fra spazi verdi con funzioni commemorative delle patrie memorie con altri tipi di spazi a verde: il viale, la piazza, il giardino o l’aiuola del monumento ai Caduti, il viale del cimitero, il viale o il parco delle Rimembranze, l’accesso alla chiesa e a spazi dedicati al culto, il lungolago o lungofiume, vanno a formare sistemi articolati che si snodano nel territorio urbano e lo caratterizzano. In particolare i Parchi e Viali della Rimembranza vengono costituiti per iniziativa del sottosegretario alla pubblica istruzione, Dario Lupi, nel 1922.3 Si tratta di monumenti commemorativi costruiti unicamente con materia vegetale che acquista significato simbolico: nei Comuni veniva piantato un viale o un parco composto da tanti individui arborei quanti erano i caduti della Grande Guerra che quella comunità aveva da commemorare, ognuno con una targa che ne riportava il nome. Il Ministero con una specifica circolare (Ministero della Pubblica Istruzione, Norme per i viali e parchi della Rimembranza, circolare n.73, Bollettino Ufficiale n.52, 28 dicembre 1922) diede una serie di indicazioni dettagliate per la progettazione e la costruzione dei viali e dei parchi commemorativi, coinvolgendo le scuole, i provveditorati agli studi e le amministrazioni comunali in comitati esecutivi. Le istruzioni entravano nel merito delle tecniche di piantagione e di coltivazione, si preoccupavano che tutti i viali presentassero “un aspetto uniforme e caratteristico nelle diverse località d’Italia,” prescrivendo i materiali (legno), le dimensioni e il colore (bianco, rosso e verde della bandiera) dei tre “regoli” che dovevano formare il riparo degli alberi appena piantati e che dovevano accogliere (il regolo bianco, più alto degli altri), le targhette con il nome dei caduti (in ferro smaltato). Anche il testo delle targhette era rigidamente predeterminato: “in memoria del (grado, nome, cognome) 207
A commemorative label of a Remembrance avenue and a War artifact used to decorate the Remembrance park in Toscolano Maderno (BS).
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caduto nella Grande Guerra (data) a (nome della battaglia).” Le specie arboree andavano scelte all’interno di una gamma consigliata, preparata dal Ministero in relazione al clima delle zone nord, centro e sud della penisola; in particolare per l’Italia settentrionale erano indicati ad esempio: “pini, abeti, cipressi, querce, faggi, ippocastani.” L’impianto dei viali delle Rimembranze interessa l’intero territorio italiano in modo quantitativamente significativo: i parchi e viali della Rimembranza già inaugurati nel 1923, ossia solo un anno dopo la loro istituzione, sono 1084, mentre i Comitati per la loro costruzione sono a quella data ben 5735. Nella maggior parte dei Comuni ai Caduti della Prima Guerra furono aggiunti anche i nomi di quelli della Seconda Guerra Mondiale, con ampliamenti e anche con la riprogettazione dei viali. Oggi spesso delle Strade della Rimembranza si conserva solo il nome della via e la vegetazione arborea e le targhette sono scomparse, ma talvolta tali siti costituiscono ancora un patrimonio sentito dalla collettività e i viali sono stati restaurati e anche rifatti. In questi ultimi casi sono spesso stati mutati fortemente i caratteri architettonici storici, utilizzando materiali e forme differenti per le targhette, rinnovando a volte totalmente l’impianto vegetale e utilizzando specie botaniche del tutto diverse da quelle prescritte storicamente, anche non ad alto fusto, con risultati a volte assai modesti. Il censimento sopra citato, svolto in alcune province della Regione Lombardia ha evidenziato che i monumenti ai Caduti sono spesso considerati più per il loro ruolo commemorativo che per la loro importanza artistica: in tal senso potranno essere opportuni dei collegamenti con i numerosi studi che hanno prevalentemente analizzato le liste dei Caduti, connettendole alle notizie biografiche e alle vicende dei Caduti stessi, oltre che alle azioni belliche e alle strategie militari. Ulteriori utili approfondimenti dovranno interessare la committenza di questi
different materials and shapes for the labels, also totally renewing the vegetal settlement and using different botanical species than the historical ones, sometimes replacing trees with shrubs, with modest results. The above mentioned Inventory, which was carried out in some of the Provinces of the Lombardy Region, shows that the War memorials are often considered more for their commemorative and symbolic values than for their artistic importance. This research must be connected also with other studies that have been made analyzing the dead soldiers’ lists and the soldiers’ life stories, war actions and battle strategies. Moreover, it ought to be remembered that often the memorials are considered like isolated sites and not for their essential role in the urban settlements of our villages and towns. This inventory has also carefully analyzed the vegetation features and the gardens joined with the memorials, as they embed not only historical and architectural values, but also a lot of potentialities, like public green spaces and ecological corridors. Although, the monuments are often well preserved, but the green elements are missing and consequently an important component of the memorials design has been lost. Therefore, the goals of this inventory are focused on promotion and enhancement of this heritage, like an exceptional system of historical, architectural, cultural and landscape value that characterizes our cities and villages. A specific methodology was created for the inventory of the First War memorials and connected commemorative parks and gardens in the provinces of Brescia, Milan, Monza and Brianza. The research was organized in different steps: a specific form was designed, the municipalities were involved in the research, historic documentation and bibliographic information was gathered, the sites were investigated with specific surveys to evaluate their present condition, and,
interventi di memoria e dei relativi manufatti celebrativi. Va inoltre ricordato che spesso i monumenti ai Caduti sono considerati come oggetti singoli e non per il ruolo fondamentale che svolgono nel disegno dell’impianto urbano delle nostre città e dei nostri centri minori. Il censimento ha analizzato con particolare attenzione gli arredi vegetali e i giardini celebrativi connessi ai monumenti perché essi possiedono non solo valori storici e architettonici, ma anche notevoli potenzialità come spazi a verde pubblico e corridoi ecologici. Purtroppo spesso i monumenti appaiono ben conservati, mentre gli elementi vegetali sono scomparsi—o considerevolmente ridotti—con la conseguente perdita di importanti componenti dell’impianto storico del sito. Tenuto conto di queste considerazioni, gli obiettivi che l’inventario si prefigge sono di promozione e valorizzazione del patrimonio censito, da considerare come un eccezionale sistema di interesse storico, architettonico, culturale e paesaggistico che caratterizza altamente le nostre città e i nostri paesi. La ricerca è stata organizzata in diverse fasi: si è definita una specifica scheda, si sono contattati i Comuni coinvolti nel censimento per collaborare all’indagine, si sono raccolti e analizzati documenti storici-archivistici e dati bibliografici, si sono visitati i siti con uno specifico sopralluogo per valutarne la situazione attuale e si sono infine compilate le schede con gli allegati di supporto. Il censimento è quindi finalizzato alla salvaguardia dei monumenti ai Caduti, degli elementi vegetali, dei parchi e viali delle Rimembranze connessi e al contesto con cui i monumenti interagiscono. Esso non si limita, pertanto, alla sola individuazione e descrizione dei siti, ma pone in evidenza i rapporti con l’intorno e i problemi di conservazione che ogni bene presenta, fornendo alle amministrazioni pubbliche alcuni suggerimenti e indicazioni per la loro salvaguardia e gestione. In proposito la scheda appositamente definita per questa indagine riporta 209
A Remembrance park in Gavardo (IT): memorial stones are complemented with green features 210
finally, the forms were filled in, listing 967 sites. This census is useful to preserve memorials and connected vegetal features, Remembrance parks and avenues and the context around them. It is not only limited to recognize and describe the sites, but it underlines the relationship with the context identifying conservation problems and defining preservation and management proposals and standards for the public bodies. In this regard, the specifically developed form includes not only data like localization, address, typology, the presence of the Fallen list, the dedication, the date of construction and the author, but also texts about the relationship with the context, the conservation and management problems that have been detected and information that has been gathered about recent restoration treatments and current maintenance criteria. The form includes bibliographical, archival and documentary references, as well as current photos and other significant materials aimed at better explaining the site. The evaluation of the conservation level was defined during the survey and also— when it was possible to gather some historical documents—compared the present situation with the historical photos in order to detect possible additions and changes that the memorial or the Remembrance avenue/ park might have undergone. Due to these factors, the form is a useful tool to systemize data about architectural, vegetal, decorative components, artistic and material features, the level of conservation and decay of the memorials and to analyze all the necessary information to judge their values and potentialities, taking into consideration also the relationship with the context and their role in the different urban settlements. Particular attention in this inventory has been dedicated—as previously mentioned— to the detection and listing of the Remembrance parks and avenues, as these sites, more than memorials, present decay and alteration
quindi oltre a dati circa la localizzazione, l’indirizzo, la tipologia, la presenza della lista dei Caduti, l’intestazione, la data di realizzazione e l’autore—se noti—anche descrizioni riferite alla lettura del contesto e ai problemi di conservazione e gestione rilevati, riferendo informazioni—se reperite—riguardo recenti interventi di restauro e relative ai criteri di manutenzione in atto. Riferimenti bibliografici, archivistici e documentari completano la scheda cui sono allegati—oltre a delle fotografie recenti—i materiali di supporto ritenuti maggiormente significativi per una migliore comprensione del sito. Per la valutazione dello stato di conservazione, oltre ad una valutazione visiva durante il sopralluogo, si è cercato di eseguire—quando è stata reperita della documentazione—un confronto tra lo stato attuale e quello delle immagini storiche per indicare eventuali aggiunte o modifiche che hanno interessato il monumento o il viale/parco delle Rimembranze. La scheda risulta quindi uno strumento per sistematizzare informazioni circa le componenti architettoniche, vegetali e di arredo, i caratteri artistici e materici, la consistenza e lo stato di degrado dei singoli monumenti e considerare tutti i dati necessari per una attenta valutazione degli elementi di valore e delle potenzialità, esaminando anche il rapporto con il contesto e il ruolo esercitato in quel particolare ambito urbano. Una particolare attenzione in questo inventario è stata dedicata, come già evidenziato, all’individuazione e alla relativa schedatura dei parchi e dei viali delle Rimembranze che—più dei monumenti—presentano problemi di degrado e alterazione e sono in molti casi ormai scomparsi o poco considerati. Si tratta di un patrimonio di notevoli potenzialità sia per il valore culturale e commemorativo che tali siti possiedono, sia per le valenze naturalistico-ecologiche, importante risorsa come verde pubblico. Va infine evidenziato che non si ritiene il lavoro di inventario finito: ogni censimento, come noto, è da considerare comunque un 211
problems and they are often lost or little considered. They are, instead, a heritage with many potentialities thanks both to their cultural and commemorative value and to their natural-ecological significance, as an important resource like public green spaces. Finally, we need to remember that we cannot consider this inventory completed as every census is an ongoing process that cannot have a definite and stable conclusion, but it needs to be updated and enlarged. It is necessary to develop programs that continually improve, according to the new goals and new research findings and additions. The setting up of a digital database to group the Inventory forms will allow web investigation and future updating, providing a useful tool to access this dynamic and complex process. This method should favor the approach to this heritage not only by scholars and specialists, but also by students and other people interested in the subject. The described First World War Memorials Inventory provides the Lombardy Region, local bodies, different involved municipalities, passionate and interested people with a knowledgeable reference about the quantity of listed sites and their cultural, historical, artistic, architectural, landscape characteristics and also their conservation and management problems. For these purposes it is important to define regional standards and guidelines to better know, conserve and manage these sites, involving local administrations and people to remember a fundamental moment of Italian and European history and to build a future of integration and peace. Particularly, we suggest that the network of commemorative green spaces should be increased, setting up new public gardens and planting trees enabling everyone to honor and respect our past and to pass on - through live plants the memory and the gratitude for so many sacrificed lives. 212
processo che non può avere una conclusione definitiva e stabile e che deve prevedere continui aggiornamenti e integrazioni secondo le finalità che si manifestano, secondo gli approfondimenti e gli ampliamenti del campo di studio. La predisposizione di una banca dati digitale per raccogliere le diverse schede, permetterà la consultazione via web e futuri aggiornamenti, costituendo indubbiamente un utile strumento per tale processo dinamico e complesso. Ciò dovrebbe consentire di avvicinare a questo patrimonio non solo lo studioso o lo specialista, ma anche gli studenti o le persone interessate a questo tema. Questo primo inventario fornisce alla Regione Lombardia, agli enti locali, alle diverse amministrazioni comunali coinvolte, agli appassionati e a tutti gli interessati, un riferimento conoscitivo sia della quantità di beni che sono presenti sul territorio e del loro interesse culturale, storico, artistico, architettonico, paesistico, sia dei problemi di conservazione e gestione che essi presentano. In proposito si ritiene importante che siano presto definiti a livello regionale dei criteri di intervento, delle linee guida per meglio conoscere, conservare e gestire questi siti, coinvolgendo le amministrazioni locali e tutta la popolazione, per ricordare un momento fondamentale della storia del nostro paese e dell’Europa e per costruire un futuro di integrazione e di pace. Nello specifico la proposta potrebbe essere quella di incrementare la rete dei giardini commemorativi, prevedendo nuovi spazi di verde pubblico e piantando nuovi alberi e viali delle Rimembranze, capaci di coinvolgere ognuno nel ricordo e nel rispetto del nostro passato e di trasmettere— con piante vive—la memoria e la gratitudine per quella grande quantità di vite sacrificate.
Notes
Note
1.
1. Gruppo di lavoro: Alberta Cazzani, responsabile, Domenico Chizzoniti, Monica Resmini, Camillo Sangiorgio, Lionella Scazzosi, Aurora Scotti Tosini, con Marina Attanasio, Simona Basilico, Barbara Cavalieri, Lavinia Leoni, Arianna Rigamonti, Alessandra Santangelo, con la collaborazione di Marco Balbi, per conto della Regione Lombardia, Istruzione, Formazione e Cultura nell’ambito delle azioni finalizzate alla conoscenza e valorizzazione del patrimonio della Prima Guerra Mondiale. 2. Si veda in proposito Cazzani 2012. 3. Si veda Lupi 1923.
2. 3.
Research group: Alberta Cazzani, research leader, Domenico Chizzoniti, Monica Resmini, Camillo Sangiorgio, Lionella Scazzosi, Aurora Scotti Tosini, with Marina Attanasio, Simona Basilico, Barbara Cavalieri, Lavinia Leoni, Arianna Rigamonti, Alessandra Santangelo, with the collaboration of Marco Balbi for the Lombardy Region—Education, Formation, Culture Departmnet, as part of the activities focused on the knowledge and enhancement of the First World War heritage. See Cazzani 2012. See Lupi 1923.
References • •
Cazzani, Alberta, ed. 2012. I monumenti e i giardini celebrativi della Grande Guerra in Lombardia. Il censimento per le province di Brescia, Milano e Monza Brianza. Regione Lombardia, Politecnico di Milano, Società storica per la Guerra Bianca, Udine: Paolo Gaspari Editore. Lupi, Dario. 1923. Parchi e Viali della Rimembranza. Firenze: Bemporad.
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Clelia Pozzi
Thresholds: American War Cemeteries as Memorials Soglie: I Cimiteri di Guerra Americani Come Memoriali
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There are buildings that exert a special fascination at some moments in history. Public interest increases, the number of tourist visits rises, and the architectural discourse becomes—or returns to be—seduced by their allure. At times, this phenomenon affects entire categories of buildings, as if their architectures and the ideas embedded in them were capable of resonating more deeply with the needs of the present. Today this is the case with American war cemeteries. In the past decade the occurrence of meaningful anniversaries of the First and Second World Wars have coincided with a renewed public interest in the architectures of the war. Intense commemorations have been held at war cemeteries throughout Europe, and especially at American military cemeteries, where visits have reached exceptional levels. Just to give few examples, in 2009 the American cemetery at Colleville-sur-Mere in Normandy witnessed more than 9000 visitors on the 65th commemoration of the D-Day landing and over a million visitors during the whole year, while the cemetery of Aisne-Marne registered nearly 4000 visitors on the day of the 90th commemoration of the First World War Battle of Belleau Wood.1 The fascination with American war cemeteries, however, extends beyond the anniversary of the Normandy landings and the commemoration of the Armistice, for visits to these sites have increased steadily over the past decades, and are expected to rise further in the years to come.2 Historians have variously interpreted this phenomenon as the pressure to summon up the testimonies of war survivors before their time has passed, as a response of the public to media exposure on war and war history, or as a coping mechanism with parallel anxieties associated with the post 9/11 world order. Yet, this outburst of historical interest in war cemeteries also seems to be simultaneous with an extraordinary proliferation of memorial buildings dedicated to wildly divergent themes. The scale of this phenomenon is so impressive that it has earned itself the
Ci sono edifici che esercitano un fascino speciale in determinati momenti storici. L’interesse pubblico cresce, il numero di visite aumenta, e la disciplina architettonica si lascia sedurre—o torna a lasciarsi sedurre—dalle loro suggestioni progettuali. Talvolta questo fenomeno riguarda intere categorie di edifici, come se le loro architetture e le idee iscritte in esse fossero in grado di entrare in una risonanza più profonda con i bisogni del nostro tempo. Credo che oggi questo sia il caso, tra gli altri, dei cimiteri di guerra Americani. Negli ultimi decenni, il ricorrere di anniversari significativi della Prima e Seconda Guerra Mondiale ha coinciso con un rinnovato interesse nelle architetture e nei luoghi della guerra. Commemorazioni intense si sono tenute nei cimiteri militari di tutta Europa, e in particolare nei cimiteri di guerra Americani, dove il numero di visitatori ha raggiunto livelli senza precedenti. Per fare qualche esempio, nel 2009 il cimitero Americano di Colleville-sur-Mer in Normandia ha ospitato più di 9000 visitatori nel giorno della 65° commemorazione del D-Day e oltre un milione di visitatori nell’intero anno, mentre il cimitero di Aisne-Marne ha registrato circa 4000 visitatori nel giorno della 90° commemorazione della battaglia di Belleau Wood.1 La fascinazione con i cimiteri Americani, tuttavia, si estende al di là della sola celebrazione degli anniversari dello sbarco in Normandia e dell’Armistizio della Grande Guerra, dal momento che le visite a questi luoghi sono aumentate con regolarità negli ultimi decenni e si prevede che aumentino ulteriormente negli anni a venire.2 Gli storici hanno interpretato in vario modo questo fenomeno come una risposta al bisogno urgente di raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti prima che il tempo faccia il suo corso, come una reazione del pubblico alla prolungata esposizione mediatica su temi e storie di guerra, o come un meccanismo di coping nei confronti di ansietà analoghe associate all’ordine mondiale post 9/11. Eppure, questo picco di interesse storico per i cimiteri di guerra sembra 215
Oise-Aisne American Cemetery, First World War. The burial area is divided into four rectangular plots by wide paths. The memorial is a curving colonnade, flanked at the ends by a chapel and a map room. (© American Battle Monuments Commission, Arlington, VA).
title of “memorial mania,” as the art and cultural historian Erika Doss has recently put it (2010). This is especially true of the United States, where, Doss claims, the phenomenon takes the form of an “obsession with issues of memory and history” and manifests “an urgent desire to express and claim those issues in visibly public context” (Doss 2010, 2). Thus, memorials to the victims of terrorism, of slavery, civil rights activists, and many more testify to an unresolved search for visual forms of mourning that seems to indicate a larger cultural trend towards heightened public feeling and affection. Without disparaging the cogency of historical analyses, I want to argue that the recent interest in American war cemeteries cannot simply be explained as a tale of historical re-enchantment. Rather, it is a symptom of 216
anche essere simultaneo ad una straordinaria proliferazione di edifici memoriali dedicati a temi differenti—memoriali per le vittime del terrorismo, della schiavitù, per i diritti civili, e molti altri ancora. La scala di questo fenomeno è così impressionante da essersi guadagnata il titolo di “memorial mania,” come recentemente avanzato dalla storica dell’arte e storica della cultura Erika Doss. È una mania che interessa in particolar modo gli Stati Uniti, dove, secondo Doss, il fenomeno assume la forma di una vera e propria “ossessione con le questioni della memoria e della storia” e manifesta “un desiderio urgente di esprimere e riconquistare tali questioni allo spazio pubblico” (Doss 2010, 2). In altri termini, quel che si cela dietro a questa mania è una ricerca irrisolta di espressioni visive del lutto, che testimonino in gesti artistico-architettonici un
something more profound, which relates the very nature of these sites to the current impulse of memorialization: the American war cemeteries’ being memorials in and of themselves. Adducing one such internal cause, rather than external, circumstantial ones, as an explanation for the fortune enjoyed by war cemeteries, implies believing that the architectures of these sites is per se capable of manifesting and addressing collective desires better than other memorials. And in order to assess this, we will now need to retrace the path of the historical formation of war cemeteries and come to terms with reasons and implications of their design. In the aftermath of the Great War, the American War Department initiated a policy of military burial on the battlefields of Europe as an alternative to repatriation. It was an unprecedented and a highly controversial decision, and the resolutions adopted by the newly formed federal organization entrusted with the management of this enterprise (the American Battle Monuments Commission (ABMC)) were just as much controversial. It didn’t take long, in fact, after the Commission’s appointment, before heated debates started to arise about the nature of its operations, beginning with the project which envisioned the rearrangement of the graves built right after the battles, to design in their place new cemeteries with officially-approved, coordinated architectural and iconographic programs. Eight permanent cemeteries were built after the First World War, and eleven after the Second. Arguably, this decision reveals something more than the mere provision of burial facilities—something that could be interpreted as an attempt at reclaiming the cemeteries from the condition of inevitable “by-products” of the war, and engraft upon them some sort of manifesto. One such possibility has been explored by Ron Robin in his study on American military cemeteries and embassies (1992), where he interprets the decision to build cemeteries on foreign soil as a political one, in that it represented
più vasto trend culturale verso forme intensificate di sentire pubblico. Cosa mette in relazione i cimiteri di guerra Americani e questa mania? Senza porre in questione la veridicità delle analisi storiche, voglio sostenere che il recente interesse per i cimiteri di guerra Americani non può semplicemente essere spiegato come un racconto di re-incantamento storico. Piuttosto, è un indice di qualcosa di più profondo, che collega la natura di questi luoghi al bisogno (o mania) di ricordare: l’essere del cimitero di guerra come memoriale in sé e per sé. Se vogliamo addentrarci in questa affermazione, addurre una tale motivazione “interna”—piuttosto che ragioni esterne e circostanziali—per spiegare la fortuna dei cimiteri di guerra, implica la convinzione che le loro architetture siano esse stesse in grado di manifestare e rispondere a desideri collettivi meglio di altri memoriali. Ma per verificare questa convinzione, sarà ora necessario ritracciare il percorso della formazione storica di questi luoghi per fare i conti con ragioni e implicazioni delle loro architetture. Le origini della questione dei cimiteri militari Americani vanno cercate nel finire del primo conflitto mondiale, quando il Dipartimento di Guerra Statunitense diede il via ad una politica di sepoltura in suolo Europeo dei caduti come alternativa al rimpatrio delle salme. Fu questa una decisione senza precedenti e molto controversa, tanto quanto controverse furono le iniziative dell’organizzazione federale incaricata della gestione dell’iniziativa: l’American Battle Monuments Commission (ABMC). Non passò molto tempo, infatti, dalla nomina della Commissione perché sorgessero accesi dibattiti riguardo alla natura delle sue operazioni, a cominciare dal progetto di riordino delle tombe realizzate in corso di battaglia e dalla costruzione di nuovi cimiteri accomunati da un programma architettonico e iconografico ufficiale e coordinato. Come conseguenza di questo progetto, otto cimiteri permanenti furono costruiti dopo la Prima Guerra Mondiale, e undici dopo la Seconda. 217
an attempt of the government to assert its authority over the masses, and pursue broad strategic objectives through the design of its own “enclaves.” Whereas death used to belong to a private intimate sphere, here, Robin argues, its meaning and ceremony were being forcefully refashioned and dramatized by the government as a way of “demanding extraordinary privileges in the postwar era” (Robin 1992, 33). The vicissitudes of the American military cemeteries as harbingers of political messages have already been recounted in Robin’s volume, and I do not mean here to provide any sort of summary. What I will try to do, instead, is to offer the reader an iteration of the fundamental findings of Robin’s study to unveil the implications they bear for our understanding of the American war cemeteries as memorials. If approached from a political perspective, the architectures of the ABMC for the first and second generations of cemeteries embody, on nearly every level, the appropriation of death to national goals. More precisely, the design solutions can be read as attempts at erasing the sense of individuality from the cemeteries by presenting the dead as cogs in a collective war machine (60). The first trace of this resemantization can be observed on the ground: a clear separation is invariably laid out between the camposanto with the graves and the commemorative chapels and monuments. The graves—white countless crosses, repeated identical to one another in large blocks of rows—imprint a grid on the lawn, where each point dissolves—“inconspicuous in itself ” (Moore 1917, 494)—and is reabsorbed in the larger order of the whole. This act of inscription is consistent with the original precept according to which the cemetery should be “something more than a patch of white” (Moore 1921)3: it establishes a field condition out of which the chapels emerge in their state of exception. Moreover, if we move from this planimetric inscription to the plane of representation, such state of exception is intensified by a hierarchical play of 218
Molto probabilmente questa decisione nascondeva qualcosa di più della semplice dotazione di spazi di sepoltura—qualcosa che può essere interpretato come un tentativo di risollevare i cimiteri dalla condizione di inevitabile “prodotto collaterale” della guerra, ed inscrivere su di essi una sorta di manifesto. Una tale possibilità è stata esplorata da Ron Robin nel suo studio sui cimiteri militari e le ambasciate Americane del dopoguerra (1992), in cui la costruzione di cimiteri su suolo straniero è interpretata come un atto politico per il suo rappresentare un tentativo del governo di affermare la propria autorità sulle masse e perseguire obiettivi strategici attraverso il progetto dei propri “enclaves.” Dove ordinariamente la morte apparteneva ad una sfera intima e privata, qui, sostiene Robin, il suo significato e la sua cerimonia subirono un rimodellamento drammatico e forzato da parte del governo per “esigere privilegi straordinari nel dopoguerra” (Robin 1992 33). Se le vicissitudini dei cimiteri militari Americani come luoghi politici sono già raccolte nel volume di Robin, il mio intento non è quello di proporne qui una semplice iterazione. Ciò che voglio offrire, piuttosto, è una meditazione sulla natura dei cimiteri a partire dalle osservazioni di Robin, al fine di svelare le implicazioni di queste ultime per una lettura dei cimiteri di guerra Americani come memoriali. Iniziamo con un’analisi storico-formale. Se analizzate in prospettiva politica, le architetture dell’ABMC per la prima e seconda generazione di cimiteri incarnano, su quasi ogni livello, la riappropriazione della morte a scopi nazionalistici. Più precisamente, le soluzioni progettuali adottate possono essere interpretate come un tentativo di cancellare il senso di individualità dai cimiteri presentando i caduti come semplici ingranaggi in una macchina di guerra collettiva (60). Sul terreno si trova la prima traccia di questa risemantizzazione: una chiara separazione è invariabilmente tracciata tra il camposanto con le tombe da un lato, e le cappelle e i monumenti commemorativi dall’altro. Le tombe—una distesa di croci
Lorraine American Cemetery, Second World War. The burial area is arranged in nine plots in an elliptical design. The memorial stands on a plateau at the entrance of the cemetery. (© American Battle Monuments Commission, Arlington, VA).
figuration and abstraction that builds upon the ideological divide between man and state. The crosses are immaculate in their sheer marble volumes, their engravings bearing nothing but the soldiers’ names, ranks, and death dates. It is the enactment of a sort of “elemental simplicity,” to use a phrase dear to Simon Schama (2011), which seems to be just plain and deliberately numbing rather than serving as a sign for something else. On the other hand, the rich iconographic apparatus of the commemorative architectures is dense with symbolism and allusions. Statues and bas-reliefs portraying the nation and its values, mosaic compositions with salvific messages, medallion-type maps consecrating the theatres of war—all these devices offer a visual commentary to the sites that is elegiac and propagandistic at the same time.
bianche, ripetute identiche l’una all’altra fila dopo fila—imprimono una griglia sul terreno, dove ogni punto si dissolve—“incospicuo in se stesso” (Moore 1917, 494)—ed è riassorbito nel più vasto ordine del tutto. Questo atto di iscrizione risponde al precetto originario che voleva il cimitero come “qualcosa di più di una campitura bianca” (Moore 1921)3, e vi riesce generando uno sfondo uniforme contro il quale le cappelle si stagliano nel loro stato di eccezione. E ancora, se ci muoviamo da questa iscrizione planimetrica al piano della rappresentazione, tale stato di eccezione è intensificato da un gioco gerarchico di figurazione ed astrazione che si costruisce sulla divisione ideologica tra uomo e stato. Da un lato le croci marmoree, immacolate, sono volumi puri, stereometrici; gli epitaffi, laconici, non riportano altro che il nome, il rango e la data di morte dei soldati. 219
Normandy American Cemetery Visitor Center, SmithGroup. The west faรงade with the path leading from the visitor center to the cemetery. (Ph. Casper Moller)
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E’ la messa in atto di una “semplicità elementare”—per usare una formula cara a Simon Schama (2011)—che sembra essere immediata e deliberatamente omogeneizzante piuttosto che servire come segno per qualcosa d’altro. Dal canto suo, invece, il ricco apparato iconografico delle architetture commemorative è denso di simbolismi e allusioni. Statue e bassorilievi raffiguranti la nazione e i suoi valori, composizioni a mosaico con messaggi salvifici, medaglioni che consacrano i teatri di battaglia—tutti questi dispositivi offrono un commento visuale ai cimiteri che è elegiaco e propagandistico al tempo stesso. Per meglio immaginare cosa ha avuto luogo in questa divisione, dobbiamo ricordare che questo era il momento del dopoguerra Americano in cui arte e architettura di stato erano misurate in termini della loro capacità di operare come segni di rassicurazione, stabilità e comunicabilità. Non deve sorprendere, allora, che la scelta architettonica ricadesse sulla tradizione Beaux-Arts e il suo vocabolario leggibile e classicheggiante, mentre soluzioni astratte fossero respinte come “alienanti” per il loro essere un ostacolo alla comprensione da parte delle masse (Robin 1992, 107). Sull’onda di questo pensiero, allora, si potrebbe proporre che la pura astrazione delle croci e della loro griglia costituisse il tentativo ultimo di obliterare l’individualità dei morti. In altri termini, era una spersonalizzazione deliberata costruita sul principio di standardizzazione, ma mascherata da modalità di sepoltura egalitaria. Se questa morte muta e indifferenziata ci rende inclini alla nostalgia per una condizione in cui la commemorazione dei caduti ruotava attorno alla loro umanità, tale nostalgia sarà probabilmente intensificata dall’evoluzione 221
In order to better imagine what took place in this divide, we should remember that this was the moment when governmentsponsored art and architecture were measured in terms of their capacity to function as signposts of reassurance, stability and communicability. It is no wonder, then, that the architecture of choice was one that fed on the Beaux-Arts tradition and its legible, classicizing vocabulary. Abstraction, for that matter, was said unfitted to elicit identification in the masses, hence mostly dismissed as “alienating” (Robin 1992, 107). Having that in mind, one could propose that the sheer abstraction of the crosses, their grid and dull engravings constituted the ultimate attempt at obliterating the individuality of the dead. It was a deliberate estrangement built on standardization, but disguised as an egalitarian mode of burial. If this mute undifferentiated death inclines us to nostalgia for a condition in which the commemoration of the fallen accounted for their humanity, such nostalgia is likely to be intensified by the development of the cemeteries’ iconographic and architectural program that took place from the First to the Second World War. The contours of this evolution are complex and manifold. For our purposes, it will suffice to begin by mentioning that chapels and monuments of the first generation of cemeteries preferred “polite” forms of figuration and symbolism rather than aggressive ones. Statues of brave soldiers, armored knights, goddess-like personifications of allied forces—these rhetorical features were nothing more than an embodiment of the heroic spirit of the nation. The fact that such heroism was portrayed in instances of personal effort should not misguide us into thinking that individuals were being celebrated per se. Rather, the portrayal of individual sacrifice retained an instrumental role in the spectacularization of wartime events only inasmuch as individuals served as a synecdoche for the state: in order for the United States to be remembered for its heroic 222
subita dal programma iconografico ed architettonico dei cimiteri tra la prima e la seconda Guerra Mondiale. I contorni di questa evoluzione sono complessi e molteplici. Per la nostra discussione sarà sufficiente menzionare che cappelle e monumenti commemorativi della prima generazione favorirono forme “educate” di figurazione ad altre più aggressive. Statue di soldati coraggiosi, cavalieri in armatura, raffigurazioni delle forze alleate sotto forma di dee—questi elementi retorici non volevano essere nient’altro che personificazioni dello spirito eroico della nazione. Il fatto, poi, che tale eroismo fosse raffigurato attraverso esempi di sacrificio personale non deve sviarci al punto di indurci a credere che gli individui fossero celebrati di per se. Piuttosto, la rappresentazione del sacrificio personale manteneva un ruolo fondamentale nella spettacolarizzazione degli eventi di guerra solo nella misura in cui operava come sineddoche per lo stato: il sacrificio eroico dei soldati Americani serviva come avamposto e indice per la celebrazione del ruolo eroico degli Stati Uniti nello scenario internazionale. I cimiteri della Prima Guerra Mondiale portano questo principio iscritto nelle loro architetture. Varcato l’ingresso del cimitero, siamo confrontati dalla vista della cappella memoriale—ma la cappella è fuori della nostra presa, situata nel punto più lontano dall’entrata. Per raggiungerla dobbiamo camminare tra i filari di tombe, come se per trovare il senso della storia dovessimo prima fare i conti con la morte degli individui. Solo qui, all’estremità del sito, è finalmente svelata la retorica della nazione, e come già sappiamo è una retorica che chiama i suoi uomini a raccolta per mettere in scena una rappresentazione corale e posata della nazione. Un cambiamento radicale avvenne nei cimiteri della Seconda Guerra Mondiale, dove il primato degli Stati Uniti nella nuova scena internazionale fu attestato mediante simboli e immagini quanto meno espliciti. Aquile monumentali, armi da fuoco in azione, scene di efficienza militare, superiorità tecnologica
role in the international arena, the heroic sacrifice of its dead had to come first. The cemeteries of the First World War bear this principle inscribed in their design. Upon entering the cemetery’s gates, the visitor is confronted with the sight of the memorial chapel. But the chapel is out of reach, situated as it is at the farthest from the entrance. Only after walking through rows of graves does the visitor reach the chapel, as if one had to face the reality of death first, in order to make sense of history. There, at the end of the site, the rhetoric of the nation is finally revealed, and, as we already know, it is one that gently summons men to the performance of the nation. But a radical change occurred in the cemeteries of the Second World War, where the primacy of the United States in the new world scene was now attested through symbols and figures that were explicit at the least. Colossal eagles, firing weapons, scenes of military efficiency, technological superiority, and resurrection transformed chapels and monuments into ostentatious displays of war triumph. Yet, the triumph of the nation was built at the expense of individuality. The depersonalization of death reached here its extreme consequences as the representation of the individual effort was suppressed for the collective one, and the dead were denied their status of “soldiers” in favor of a more communal “comrades-in-arms.” The transformation we witness here was prompted by a strategic revision imposed by the ABMC—one that did not spare the planimetric configuration of the cemeteries either. The ABMC’s anteposition of national goals to individual sacrifice, in fact, went so far as to demand the relocation of the memorial chapels at the entrance of the sites, in order to confront visitors with the “official” interpretation of the war and its significance before they could see the graves. On these grounds, one would not have to twist the interpretation too much to agree with Robin that this was a literal and metaphorical attempt at “overshadowing the individual graves sites” (127).
e resurrezione trasformarono cappelle e monumenti in ostentazioni del trionfo di guerra Americano. Ma una tale celebrazione del trionfo della nazione fu messa in atto a spese del senso di individualità. La depersonalizzazione della morte raggiunge infatti qui le sue estreme conseguenze: la rappresentazione del sacrificio individuale è soppressa a favore del sacrificio comune, e ai morti è negato lo stato di “soldati” per un collettivo “compagni in armi.” La trasformazione a cui assistiamo fu sollecitata da una revisione strategica imposta dall’ABMC che non risparmiò nemmeno la configurazione planimetrica dei cimiteri. L’anteposizione degli scopi nazionali al sacrificio individuale, infatti, giunse al punto di imporre la ricollocazione delle cappelle memoriali all’ingresso del cimitero, in modo tale da confrontare il visitatore con l’interpretazione “ufficiale” della guerra e del suo significato ancora prima di accedere alle tombe. Date queste premesse, non è necessario forzare tanto l’interpretazione per convenire con Robin che questo fosse un tentativo letterale e metaforico di “mettere in ombra le tombe individuali” (127). Per proseguire con una lettura politica dell’architettura cimiteriale, sembra possibile dedurre dall’argomentazione di Robin che le cappelle assumono un ruolo privilegiato nella logica di memorializzazione delle tragedie della guerra—più delle tombe stesse. (Se il layout dei cimiteri non è prova sufficiente per convincerci, un altro determinante si troverà facilmente nell’enfasi posta sulla retorica delle cappelle in opposizione alla laconicità delle croci.) In un certo senso, è come se per Robin le cappelle fossero deputate alla trasmissione della memoria, mentre le tombe servissero come elementi associati, mostrando, per così dire, la traccia fisica della tragedia da ricordare. Le implicazioni di una tale lettura sono semplici ma profonde: invece di commemorare le vittime della guerra, le tombe sono viste come elementi al contorno di monumenti che commemorano la guerra stessa. Ma è questo ciò che i cimiteri di guerra 223
To keep with a political reading of the cemetery architecture, it seems plausible to infer from Robin’s argument that the chapels assumed a privileged place in the logic of memorialization of the war tragedies, more so than the graves themselves. (If the layout of the cemeteries is not sufficient to convince us of this, another determinant will easily be found in the emphasis placed upon the rhetoric of the chapels as opposed to the laconicism of the crosses.) In a way, for Robin it is as if the chapels were asked to act as official deputies of memory, while the graves were expected to serve as adjunct, exhibiting, as it were, the physical trace of the tragedy that needed to be memorialized. The implications of this reading are simple but profound: instead of memorializing the victims of the war, the cemetery is seen to function as a supporting contour for monuments that memorialize the war itself. But is this really what all American war cemeteries stand for? Surely, this interpretation is highly contentious, for it seems to rely excessively on the functioning and meaning of the cemetery’s parts, while overlooking the functioning of the cemetery as a whole. Furthermore, I believe a counter-argument is possible, and in order to present it I now want to leave the ground of historical analysis and propose a speculation on the memorial nature of American war cemeteries as such. In order to assess the war cemetery’s inherent nature as memorial, I want to try to think of the relation between its two polarities—the grave and the commemorative chapel—through the relation between the notions of “bare life” and “good life” in Giorgio Agamben’s book Il potere sovrano e la nuda vita (1995).4 Agamben’s book opens with the analysis of the distinction laid out in Aristotle’s Politics between bare life (τὸ ζῆν) and good life (τὸ εὐ ζῆν), where the former stands for mere biological life—the life of the body that is born, grows and is “exposed to death” (88; my emphasis)—and the latter is the just or political life—the enlightened life of the member of the πόλις. The heart of 224
Americani rappresentano veramente? Senza dubbio un’interpretazione di questo genere è fortemente controversa, poiché sembra fare eccessivo affidamento sul funzionamento e sul significato delle “parti” del cimitero, mentre trascura il funzionamento del cimitero come “tutto.” E ancora, credo che un contro-argomento sia possibile, e per esplorare questa possibilità voglio ora lasciare il campo dell’analisi storica e proporre una meditazione sulla natura memoriale dei cimiteri di guerra Americani in quanto tali. Per accertare la natura intrinseca del cimitero come memoriale, voglio provare a pensare la relazione tra le sue due polarità— tombe e cappelle commemorative—attraverso la relazione tra “vita nuda” e “vita buona” presentata nel testo di Giorgio Agamben Il potere sovrano e la nuda vita (1995).4 Il testo di Agamben apre con l’analisi della distinzione tra vita nuda (τὸ ζῆν) e vita buona (τὸ εὐ ζῆν) illustrata nella Politica di Aristotele, dove il primo termine indica la mera vita biologica—la vita del corpo che nasce, cresce ed è “esposto alla morte” (46; enfasi mia)—mentre il secondo indica la vita giusta o politica—la vita illuminata, civile, dei membri della πόλις. Il cuore del ragionamento di Agamben ruota attorno alla relazione originale tra questi due termini—una relazione che non può essere di mera opposizione. Trattarla come nient’altro che un’opposizione, infatti, vorrebbe dire fraintendere la natura del limite che divide vita nuda e vita politica, e presupporre che la vita politica possa svilupparsi come “altra” o indipendente dalla vita nuda. Piuttosto, sostiene Agamben, tra le due esiste una “soglia” che denota una relazione di “esclusione inclusiva,” un’esclusione “che è al tempo stesso un’inclusione” della vita nuda nella vita politica (Agamben 1995, 7). Con questa formula egli descrive un movimento dalla vita nuda alla vita politica che non può essere completato, un’evoluzione di un termine nell’altro che non può mai essere interamente realizzata, né essere interamente assente. Ecco Agamben: La politica si presenta […] come la struttura
Normandy American Cemetery Visitor Center, SmithGroup. A sound-image installation from the exhibition, recounting the death of one of the soldiers buried in the cemetery (Ph. Ali Adair).
Agamben’s argument focuses on the original relation between these two terms—a relation that cannot be one of mere opposition. To treat this as nothing more than an opposition, in fact, means to misunderstand the nature of the boundary that divides bare life and political life, and to assume that political life can develop as “other” or independent of bare life. Rather, Agamben claims, a “threshold” lies between the two, which describes a relation of “inclusive exclusion,” an exclusion “which is simultaneously an inclusion” (Agamben 1995, 7). With this formula he describes a movement from bare life to good life that cannot be completed, an evolution of one term into the other that can neither be fully realized, nor be fully absent. Here follow Agamben's words: Politics […] appears as the truly fundamental structure of Western metaphysics insofar as it occupies the threshold on which the relation between the living being and the logos is realized.
in senso proprio fondamentale della metafisica occidentale, in quanto occupa la soglia in cui si compie l’articolazione fra il vivente e il logos. […] Vi è politica, perché l’uomo è il vivente che, nel linguaggio, separa e oppone a sé la propria nuda vita e, insieme, si mantiene in rapporto con essa in un’esclusione inclusiva. (1995, 11) Secondo Agamben, allora, la vita nuda è necessariamente parte della vita politica dal momento che rappresenta ciò che la vita politica non è più e al tempo stesso è già sempre, una condizione dell’essere dalla quale l’uomo della πόλις non può mai propriamente separarsi. Che questa non sia un’opposizione, l’abbiamo già accertato. Ma non è nemmeno una dialettica. Come ci ricorda Andrew Norris sulla scorta di Agamben, infatti, “solo la vita politica è veramente vissuta […], solo lei può parlare veramente,” mentre “la vita nuda è muta ed indifferenziata” (Norris 2000, 41). È come se i due momenti non fossero comparabili—il primo è relazionale, il secondo 225
Normandy American Cemetery. The exhibition path in the visitor center attaches a story to each cross. (Ph. Ali Adair).
[…] There is politics because man is the living being who, in language, separates and opposes himself to his own bare life and, at the same time, maintains himself in relation to that bare life in an inclusive exclusion. (Agamben 1998, 8) According to Agamben, then, bare life necessarily partakes in good life insofar as it represents what good life no longer is, and yet always already is, both at the same time. We already know that this is not an opposition. But it is not a dialectic, either. As Andrew Norris reminds us after Agamben, in fact, “it is only political life that is truly lived […], that can truly speak,” while “bare life is mute and undifferentiated” (Norris 2000, 41). It is as if the two moments were not comparable—the first is relational, the second unrelational—and yet they relentlessly define themselves one against the other. And despite their continuous cross-fertilization, a synthesis can never be reached. It is an unresolved dialectic, so to speak. 226
non-relazionale—, eppure, inesorabilmente, si definissero l’uno contro l’altro. E nonostante questa continua mutua fertilizzazione, una sintesi non può mai essere raggiunta. E’ una dialettica non risolta, per così dire. C’è un’analogia strutturale tra la dialettica non risolta descritta da Agamben e il modo in cui funzionano i cimiteri di guerra Americani. Per cominciare, non sarà difficile leggere le cappelle memoriali come una materializzazione della vita politica, buona, civile, e le tombe come una trasposizione letterale della vita nuda—la “vita esposta alla morte” come l’abbiamo definita. E ancora, nel contrasto tra l’eloquente figuratività delle cappelle memoriali e la pura astrazione delle croci possiamo sentire echeggiare l’affermazione Agambiana che solo alla vita politica è permesso parlare, mentre la vita nuda rimane muta e indifferenziata. Da qui, allora, non ci vorrà molto per realizzare che il cimitero stesso funziona sulla nozione di soglia. Ciò che in principio
There is a structural parallel between this unresolved dialectic described by Agamben and the way the American military cemeteries work. To begin with, it is not difficult to read the memorial chapels as a materialization of the political, good life, and the graves as a literal transposition of the bare life—the “life exposed to death” as we have called it. Moreover, in the Agambian claim that political life is allowed to speak, while bare life remains mute and undifferentiated, we can hear echoing the eloquent figurativity of the chapels and the sheer abstraction of the crosses. Hence, it will not take long to realize that the cemetery itself functions on the notion of threshold. What was first presented as a clear-cut separation between the chapels and the graves may look as if it was an opposition, but we know that it is not: chapels and graves entertain a relationship of inclusive exclusion. Indeed, the quasi-theatrical hiatus between chapels and graves allows us to think of them as distinct things that nonetheless map onto one another. In the absence of the graves— read bare life—there would be nothing to memorialize, no political vindication of the American effort. Conversely, in the absence of a political context—read good life—the sea of crosses could not rise to the status of political signifier. Chapels and crosses stand in a relationship of mutual interdependence. Each part fulfils its own, proper task, and each particular finds its meaning in both itself and what lies beyond itself—hinting at some sort of resolution which at this point of our discussion cannot be grasped, yet. It is only by moving past the idea of the chapel as a deputy of memory, and embracing the cemetery as inclusive exclusion of parts, that we can begin to see war cemeteries functioning as memorials. To acknowledge the threshold between graves and chapels, in fact, means to become aware of the relationship between man and nation—a relationship where, for the moment, the nation’s narrative is already explicit, while man’s is present yet not fully developed, as it is simply
era presentato come una separazione netta tra cappelle e tombe può avere l’aspetto di un’opposizione, ma noi sappiamo che non è tale: cappelle e tombe intrattengono una relazione di esclusione inclusiva. Lo iato quasi teatrale tra cappelle e tombe, infatti, ci permette di pensarle come entità distinte che ciò nonostante si mappano l’una sull’altra. In assenza delle tombe—si legga vita nuda—non vi sarebbe nulla da commemorare, nessuna rivendicazione politica dello sforzo bellico Americano. Viceversa, in assenza di un contesto politico—si legga vita buona—la distesa di croci non potrebbe assumere il ruolo di significante politico. Tra i due momenti esiste una relazione di interdipendenza. Ogni elemento assolve al proprio compito, e ogni particolare trova il proprio significato in se stesso e in ciò che giace al di fuori di se stesso—alludendo ad una sorta di risoluzione che a questo punto della nostra discussione non può ancora essere colta. È muovendo oltre la concezione delle cappelle come depositarie della memoria, e abbracciando l’idea del cimitero come esclusione inclusiva di parti, che possiamo iniziare a leggere i cimiteri di guerra Americani come memoriali. Prendere atto della soglia che divide tombe e cappelle, infatti, significa divenire consapevoli della relazione tra uomo e nazione, dove ogni elemento si mappa sull’altro. Se analizziamo questa relazione, dobbiamo riconoscere che, per il momento, la narrativa della nazione è già esplicita, mentre quella dell’uomo è presente ma non ancora del tutto sviluppata—semplicemente è. Ma questa disparità non deve preoccuparci, perché, come vedremo presto, restituendo ai cimiteri la dimensione individuale della morte saremo in grado si evocare, riprocessare e rendere ragione del destino dei caduti sullo sfondo storico-politico delle loro azioni. È in questo atto di memoria, complesso ed emozionale, che risiede la natura dei cimiteri di guerra Americani come memoriali. Questo mi riporta alla nozione di “memorial mania” di Erika Doss. I memoriali, 227
there. However, this unevenness should not bother us, for, as we will soon see, if we try to regain the individual dimension of death to the cemeteries we will be able to evoke, reprocess and account for the fate of the dead against the historical-political backdrop of their actions. It is in this complex, emotional act of remembrance that the nature of American war cemeteries as memorials lies. This takes me back to Erika Doss’s notion of “memorial mania.” Memorials, she argues, are “archives of public affect” whose material form and narrative content embody feelings like anxiety, grief, gratitude and shame” (Doss 2010, 13). In this sense, our interpretation of the American war cemeteries as memorials should not have problems fitting Doss’s profile. Yet, she continues, each memorial is also “framed by sociotherapeutic notions that trauma can be represented and must be cured, hence the affirmation of hope, healing, renewal and closure in design elements such as reflecting pools, waterfalls, manicured lawns, and clusters of trees” (146). But if this is true, and if, as Agamben warned us, the threshold we have discussed is “hopelessly unstable” (Norris 2000, 45), how are we to put to rest the anxieties that haunt the American military cemeteries? What kind of design element can approximate some kind of closure for the relentless passage of bare life into political life? In other words, how can we reconcile individual and national narratives and transform war cemeteries into healing memorials? An answer to our questions may come from an initiative just recently introduced by the ABMC. Pressured by the exceptional affluence of visitors—and perhaps affected by Doss’s “memorial mania”—in June 2001 U.S. Congressmen David Obey and John Murtha and the ABMC proposed the construction of an interpretative visitor center at the American cemetery of Colleville-sur-Mer in Normandy. In period of time of five years, a project by SmithGroup architects was selected and completed, and the building was finally 228
sostiene Doss, sono “archivi di emozioni pubbliche” la cui forma materiale e il cui contenuto narrativo incarnano sentimenti quali ansie, dolore, gratitudine e vergogna (Doss 2010, 13). In questo senso, allora, non sarà certo improprio parlare di cimiteri di guerra Americani come memoriali. Eppure, Doss continua, ogni memoriale è anche “inquadrato da nozioni socioterapeutiche in base alle quali il trauma può essere rappresentato e va curato, di qui le affermazioni di speranza, guarigione, rinnovamento e chiusura in elementi architettonici come specchi d’acqua, cascate, manti d’erba curati, e boschi di alberi” (146). Ma se questo è vero, e se—come Agamben ci ha messo in guardia—la soglia che abbiamo discusso è “irrimediabilmente instabile” (Norris 2000, 45), come possiamo mettere a riposo le ansietà che infestano i cimiteri di guerra Americani? In altre parole, come possiamo riconciliare narrative individuali e nazionali e trasformare i cimiteri di guerra in memoriali di guarigione? Una risposta alle nostre domande potrebbe arrivare da un’iniziativa introdotta di recente proprio dall’ABMC. Sotto la spinta dell’eccezionale numero di visitatori—e forse per effetto della “memorial mania” descritta da Doss—nel giugno 2001 l’ABMC e i deputati del governo statunitense David Obey e John Murtha hanno proposto la costruzione di un visitor center interpretativo per il cimitero Americano di Colleville-sur-Mer in Normandia. Nell’arco di cinque anni un progetto dello studio SmithGroup Architects è stato selezionato, sviluppato e costruito, e quindi inaugurato nel 2007 in occasione del 63° anniversario dello sbarco del D-Day.5 Quello che ci interessa maggiormente qui è che il Normandy Cemetery Visitor Center non è un fenomeno isolato. Uno sguardo al report annuale dell’ABMC per il 2010 rivela che questo episodio è parte di un più vasto progetto di costruzione di visitor centers come musei per raccontare le storie di coloro che sono sepolti nei cimiteri dell’ABMC.6 Quattro altri progetti sono tuttora in corso
inaugurated in 2007 on the day of the 63rd anniversary of the D-Day landing.5 What interests us most here is that the Normandy Cemetery Visitor Center is not an isolated phenomenon. If we look at the ABMC Annual Report for 2010 we can see that this episode is part of a larger project of construction of interpretative visitor centers as museums for telling the stories of those who lie buried in the ABMC cemeteries.6 Four other projects are already underway at the Cambridge cemetery in England, the Sicily-Rome cemetery in Italy, the Meuse-Argonne cemetery in France, and the Flanders Field cemetery in Belgium, where new visitors centers will be built and existing facilities renovated to “attach faces and stories to the cold casualty numbers” (Greenbaum 2011). “The fate of the free world once rested upon their shoulders. Now, come and share their journey and hear their stories,” an ABMC’s advertising video recites (ABMC 2011). If we consider it from our perspective, it is an operation of no small consequences. The interposition of a third element in the graves-chapels relationship ipso facto calls for a recalibration of the existing balance. But what is crucially important for us is that such recalibration is constitutively involved with the narration of individual stories. To “attach faces and stories” to the graves means to break the unrelational muteness of the crosses and raise the status of man to the same level of the nation’s, which is nothing less than activating the threshold that lies between bare and political life. And indeed, the Normandy visitor center tries to do just that, starting from its very location. Situated outside of the cemetery’s perimeter, the visitor center serves as a new gateway to the site, establishing a circulation sequence that diverts attention form the memorial building—the former entrance, now exit—to the graves—our first encounter out of the visitor center. It is a rerouting that confounds the original orientation of the site by anteposing the encounter with bare life to the one with political life.
al cimitero di Cambridge in Inghilterra, al cimitero Sicilia-Roma in Italia, al cimitero Meuse-Argonne in Francia, e al cimitero Flanders Field in Belgio, dove nuovi visitor centers affiancheranno le strutture esistenti per “associare volti e storie al freddo numero di vittime” (Greenbaum 2011). “Un tempo i destini del mondo libero poggiarono sulle loro spalle. Ora vieni a condividere il loro viaggio e ad ascoltare le loro storie”—così recita un video pubblicitario dell’ABMC (ABMC 2011). Se considerata dalla nostra prospettiva, questa operazione è di non poco conto. L’interposizione di un terzo elemento nella relazione tombe-cappelle ipso facto impone una ricalibrazione degli equilibri esistenti. Ma quel che è cruciale per noi è che tale ricalibrazione sia costitutivamente connessa con la narrazione di storie individuali. Associare “volti e storie” alle tombe, infatti, significa rompere il mutismo non-relazionale delle croci ed innalzare lo status dell’uomo allo stesso livello di quello della nazione—il che non significa altro che attivare la soglia che giace tra vita nuda e vita politica. Non a caso il Normandy Cemetery Visitor Center prova a fare proprio questo, a cominciare dalla sua posizione. Situato al di fuori del perimetro del cimitero, il visitor center serve da nuova entrata al sito, creando una sequenza circolatoria che sposta l’attenzione dall’edificio memoriale—la precedente entrata e nuova uscita—verso le tombe—il nostro primo incontro fuori dal visitor center. E’ un reindirizzamento che confonde l’orientamento originario del sito anteponendo l’incontro con la vita nuda a quello con la vita politica. Ma il processo inverso ha luogo all’interno delle gallerie del visitor center, dove la sequenza narrativa inizia con il contesto geopolitico di Operazione Overlord, e quindi muove attraverso la scala nazionale e collettiva, per culminare con le storie personali dei caduti proprio prima di lasciare l’edificio per accedere alle tombe. Nell’insieme, il cimitero funziona su un movimento dalla politica 229
However, the reverse process takes place in the galleries of the visitor center, where the sequence of exhibition narratives begins with the geopolitical context of Operation Overlord, and then moves through the national and collective scales, to culminate with the personal stories of the dead, right before leaving the building out to the graves. As a whole, the site operates on a transition from politics to man, to man again, and then back to politics, which captures the relative priority of the graves, while also retaining the necessary reminder that both politics and man are part of one and the same story. It is an endless oscillation that reveals the inevitability of the inclusive exclusion of parts in the act of remembrance. A palpable sense of being locked into the relentless dialogue of man and politics is also present in the exhibition, where a mix of narrative texts, photos, films, artifacts and interactive displays maps individual stories of courage and sacrifice onto the larger history of the Allied forces. The superimposition is quite literal, with personal items vouching for collective narratives, images from the cemeteries coupling with oral accounts of the war, and names of the victims echoing in the distance as the chronicle of the D-Day landing unfolds. There can be no doubt that the fundamental quality of the historical experience is being profoundly transformed as a result of this recentering around human stories. The history to which the visitor is exposed before entering the cemetery is no longer an “official,” propagandistic version of it, but a complex matrix that—as Erika Naginski remarks—weaves a discussion of, on one hand, “competing claims of lamentation and instruction” (Schama 2011) on which all war memorials can be said to depend, and on the other something far more intimate: the recounting of an unfathomable personal loss (Naginski 2011). A passage from K. Michael Hays’s reflection on the act of representation seems to capture the sense of this refolding of history: the narrative “does not attempt to 230
all’uomo, ancora all’uomo, e poi ancora alla politica, che cattura la relativa priorità delle tombe pur ricordando che politica e uomini sono entrambi necessariamente parte della medesima storia. È un’oscillazione senza fine che rivela l’inevitabilità dell’esclusione inclusiva delle parti nell’atto del ricordo. Un senso palpabile del restare sospesi nel dialogo incessante tra uomo e politica è anche presente all’interno della mostra, dove un insieme di testi, foto, video, artefatti e display interattivi rappresenta storie individuali di coraggio e sacrificio nel più largo contesto delle vicende storiche delle forze Alleate. La superimposizione è alquanto letterale, con oggetti personali che diventano indice di narrazioni collettive, racconti orali della guerra sovraincisi su fotografie scattate nel cimitero, e i nomi dei caduti che risuonano in lontananza mentre davanti al visitatore si dispiega la cronistoria dello sbarco del D-Day. Non può esserci alcun dubbio che la qualità fondamentale dell’esperienza storica sia profondamente trasformata per effetto di questo ricentramento attorno alle storie dei caduti. La storia cui il visitatore è esposto prima di entrare nel cimitero non è più una versione “ufficiale,” propagandistica. È piuttosto una complessa matrice che, come osserva Erika Naginski, intesse un discorso tra “rivendicazioni antagoniste di lutto e insegnamento” (Schama 2011) da cui si può dire dipendano tutti i memoriali di guerra, e, d’altro canto, qualcosa di ben più intimo: il racconto di una perdita personale incommensurabile (Naginski 2011). Un passaggio da una riflessione di K. Michael Hays sull’atto del rappresentare sembra cogliere al meglio il senso di questo “ripiegamento” della storia: la narrativa “non vuole passare come indiscutibile, ma piuttosto tenta di mettere a nudo i congegni della sua stessa costruzione in modo che il visitatore sia incoraggiato a riflettere criticamente sui modi particolari, parziali in cui essa è stata costituita, i modi particolari in cui essa ha luogo” (Hays 2009, 55). Gran parte del potere suggestivo della nuova esperienza
pass itself off as unquestionable, but rather to lay bare the devices of its own formation so that the viewer will be encouraged to reflect critically on the particular, partial ways in which it is constituted, the particular ways in which it takes place” (Hays 2009, 55). Much of the power of this experience, then, lies exactly in this: the awareness that, as we walk through the graves, we are no longer simply in a military cemetery, we are also stepping on the grave of a man. Whether this evokes memory of the individual that we have come to know, of the life he once had, of the battle that cost his life, or of the cause and the nation he died for, is unprescribed. Memory thrives, free from restraints, because of this lack. The museum’s emphatization of the cemetery’s threshold brings us to the brink where memory is heightened by an intrusion in the personal sphere that was so forcefully suppressed in the past. For when a soldier becomes more than just a name, we empathize, and this visceral experience unleashes memory from the designed remembrance to which it was confined. Even if one such memorialization is still feebly inadequate to offer closure from the tragedy of the war, nonetheless it approximates a form of relief in the encompassment of both history and stories, political and bare life. This is the closest we can get to explaining sorrow and resolving it for us. Perhaps this is the reason of today’s fascination with American war cemeteries: no other memorial is as intimate and political as a cemetery. What is sure, as Doss reminds us, is that people are still haunted by the victims of their wars, and the search for ways of mourning has not reached its end. Maybe, an answer to this quest can come from these cemetery-memorials, which hold a presence for their subjects without reifying nationalistic tropes of the past. By exposing the threshold that used to lie hidden, and folding history onto itself, these sites do what other can’t: to paraphrase Cecil Balmond, they finally allow each point of the grid the “charmed life” it deserved and lost.7
di visita attivata dal museo, allora, risiede proprio in questo: la consapevolezza che, mentre camminiamo tra le tombe, non siamo più semplicemente in un cimitero militare, stiamo anche camminando sulla tomba di un uomo. Che ciò evochi memorie dell’individuo che abbiamo imparato a conoscere, della sua vita passata, della battaglia che gli è costata la vita, o della causa e della nazione per cui si è sacrificato, non è prescritto. La memoria prospera, libera da costrizioni, proprio per questa mancanza. L’enfatizzazione della soglia operata dal museo ci porta al limite in cui l’atto del ricordare è intensificato da un’intrusione nella sfera personale che era stata energicamente soppressa in passato. Quando un soldato diviene più di un nome, noi empatizziamo, ed è solo in questa esperienza viscerale che la memoria si libera dal ricordo “progettato” al quale era stata confinata. Se una commemorazione di questo tipo non è ancora sufficiente per offrire una sorta di chiusura alle tragedie della guerra, nondimeno approssima una forma di sollievo nel suo comprendere storia e storie, vita politica e vita nuda. Questo è quanto di più ci si possa avvicinare a spiegare il dolore della guerra e a risolverlo. Forse è proprio questo il motivo della fascinazione odierna con i cimiteri di guerra Americani: nessun altro memoriale è tanto intimo e tanto politico quanto un cimitero. Quel che è certo, come Doss ci ricorda, è che le persone sono ancora tormentate dalle vittime delle loro guerre, e che la ricerca dei modi possibili per esternare questo lutto non è ancora giunta ad una fine. Una risposta a questa ricerca forse può venire proprio da questi cimiteri-memoriali, che materializzano i propri soggetti senza reificare tropi nazionalistici del passato. Mettendo in mostra la soglia che giaceva nascosta, ripiegando la storia su se stessa, questi luoghi riescono dove altri non arrivano: parafrasando Cecil Balmond, concedono finalmente ad ogni punto della griglia quella “vita meravigliosa” che meritava e che ha perso.7 231
Notes
Note
1. See United States European Command, http:// www.eucom.mil/article/20540/americans-frenchgather-recognize-historic-belleau. 2. Le Figaro reports a 3.5% increase in visits over the last five years alone (Gautier 2011). Joseph Zimet, deputy director of the French Directorate of Memory Heritage and Archives, confirmed these data in a report issued to the President of the French Republic in September 2011 (Zimet 2011). He also prefigured a peak of visits in 2014 on occasion of the centenary of the beginning of the First World War, an event for which Zimet and the Directorate have planned an international commemoration program. 3. Charles Moore—chairman of the Commission of Fine Arts (C.F.A.) and responsible, in good part, for the design of the American war cemeteries of the early 1920s—here referred to the whiteness of the crosses. 4. English version: Agamben, Giorgio. 1998. Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life. Translated by Daniel Heller-Roazen. Stanford: Stanford University Press. 5. As reported in the Architectural Record, SmithGroup’s design proposal was selected from a pool of candidates that included I.M. Pei, Michael Graves, and H3—names whose fame is probably indicative of the importance attached by the ABMC to the visitor center project. See Stephens 2008. 6. It is significant that in 2010 the goal of providing “an inspirational and educational visitor experience through effective outreach and interpretive programs” has become the number one priority of the ABMC, as evidenced by the Report (ABMC 2010, 9). Strategies for increasing the public reach of the interpretive initiative and encouraging visitation to the cemeteries include “leverag[ing] upcoming milestones […] as D-Day, Memorial Day, Veterans Day, 100th anniversary of WWI, 70th anniversary of WWII, and the 2012 London Olympics” (9). It is also worth pointing out that similar initiatives are underway at the British military cemeteries of the First and Second World War, managed by the CWGC—Commonwealth War Graves Commission. Interpretative visitors centers have already been built at the Thiepval Memorial and Cemetery to the Missing on the Somme (2004) and at the Tyne Cot Military Cemetery near Passchendaele (2006), while the visitor center of the Lijssenthoek Military Cemetery is expected to open in September 2012. As in the American case, these initiatives testify to the steadily growing number of visitors to military cemeteries and the manifest interest in getting to know the stories of those who lie buried there. 7. See Balmond 2002, 372.
1. Vedi United States European Command, http:// www.eucom.mil/article/20540/americans-frenchgather-recognize-historic-belleau. 2. Le Figaro riporta un incremento costante del 3.5% negli ultimi cinque anni (Gautier 2011). Questi dati sono stati confermati da Joseph Zimet, vice-direttore del Direttorato Francese della Memoria Patrimonio e Archivi, in un report sottoposto al Presidente della Repubblica Francese nel Settembre 2011 (Zimet 2011). Zimet ha anche prefigurato un picco di visite nel 2014 in occasione del centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale—un evento per il quale Zimet e il Direttorato hanno preparato un programma di commemorazione internazionale. 3. Charles Moore—presidente della Commission of Fine Arts (C.F.A.) e responsabile, in buona parte della progettazione dei cimiteri di guerra Americani all’inizio degli anni Venti—si riferiva qui al candore delle croci. 4. Versione Inglese: Agamben, Giorgio. 1998. Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life. Translated by Daniel Heller-Roazen. Stanford: Stanford University Press. 5. Come è riportato in Architectural Record, la soluzione progettuale di SmithGroup è stata selezionata da un pool di candidati tra cui figuravano I.M.Pei, Michael Graves e H3—firme la cui fama è probabilmente indicativa dell’importanza attribuita dall’ABMC al progetto del visitor center. Vedi Stephens 2008 6. È significativo che nel 2010 l’obiettivo di fornire “un’esperienza di visita educativa ed ispiratrice mediante efficaci programmi di outreach e programmi interpretativi” sia divenuta la prima priorità per l’ABMC, come indicato nel report annuale della commissione (ABMC 2010, 9). Strategie per rafforzare la divulgazione pubblica di queste iniziative interpretative ed incoraggiare le visite ai cimiteri includono il “fare leva su prossime importanti ricorrenze […] quali l’anniversario di D-Day, Memorial Day e Veterans Day, il 100° anniversario della Prima Guerra Mondiale, il 70° anniversario della Seconda Guerra mondiale, e le Olimpiadi di Londra del 2012” (9). È anche opportuno notare che iniziative simili sono parallelamente in corso nei cimiteri militari Britannici della Prima e Seconda Guerra Mondiale gestiti dal CWGC—Commonwealth War Graves Commission. Visitor centers interpretativi sono già stati costruiti al Memoriale e Cimitero dei Dispersi della Somme a Thiepval (2004) e al Cimitero Militare di Tyne Cot presso Passchendaele (2006), mentre l’inaugurazione del visitor center del Cimitero Militare di Lijssenthoek è prevista per Settembre 2012.
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In modo analogo ai casi Americani, queste iniziative testimoniano una crescita costante del numero di visitatori ai cimiteri militari, e manifestano il diffuso interesse di conoscere le storie di coloro che qui sono sepolti. 7. Balmond 2002, 372. References • • • • • • • • • • • • • • • •
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Eleonora Lupo
Intangible geographies: The Netherlands Heritage of War Programme Geografie Intangibili: Il Progetto Olandese “eredità di guerra”
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Introduction
Introduzione
The project of unveiling individual and collective memory is a complex matter in contemporary society, which is used to storing, archiving and saving memory and history on digital supports with a potentially endless capacity of storage, but is paradoxically characterized by a low sensitivity towards the activation of that memory, its socialization, and its circulation. According to Misztal (2003) “digital technology, interactive media and information systems […] expand and problematize the status of memory” (2003, 392): unlimited access and re-writing of supports decrease the evidence and reliability of memory itself. This concept has been prophetically defined also in 1986 by Fausto Colombo as “imperfect archives,” referring to the process of “oblivion” that sometimes follows the one of archiving when the certainty of conservation allows us not to remember and therefore causes to forget. This is even truer when memory and history refer to a difficult memory, such as a painful or controversial one. This is the case of war memories. In fact, when they are not subject to collective amnesia or removal, in the best cases they remain locked in their capacious repositories and archives. This way they show a weak inclination to develop awareness towards modalities of knowledge, fruition and experience of this unpleasant and disputed past and historical memory, which indeed could be a potential extraordinary way for mutual understanding and collective supranational identity building. Despite some criticisms about promoting suffering memorials,1 as pointed out by Duffy, it is a fact that suffering memories can be transformed into “significant contribution to the struggle for human right” (2001, 121), and this is probably one of the reasons for which war time commemoration has become a “truly popular concept” (Duffy 1997, 453). In addition, digital technologies are shaping new ways and conforming new “spaces”
Il progetto del disvelamento della memoria, individuale e collettiva, è materia complessa della contemporaneità, caratterizzata da una sempre più sviluppata tensione ad archiviare e conservare memoria (su supporti e sistemi di storage digitali potenzialmente eterni e dalla capacità infinita) e paradossalmente da una scarsa sensibilità ad attivare tale memoria, socializzarla e metterla in circolo. Secondo Mistzal (2003), le tecnologie digitali, i media interattivi e i sistemi informativi espandono e problematizzano lo status della memoria: accesso illimitato e riscrivibilità dei supporti inficiano l’evidenza e l’affidabilità della memoria stessa. Fausto Colombo, già nel 1986, ha profeticamente definito questo concetto attraverso il paradigma dell’“archivio imperfetto,” per significare lo stretto rapporto tra memoria e oblio mediato dall’archivio, nel momento in cui la garanzia della conservazione ci legittima a non ricordare, e quindi facilita a dimenticare. Questo è ancora più vero quando memoria e storia si riferiscono a una memoria difficile, perché dolorosa o controversa. È questo il caso delle memorie di guerra, che quando non assoggettate ad amnesia o rimozione collettiva, nel migliore dei casi rimangono confinate all’interno degli archivi, dimostrando così una scarsa propensione a sviluppare una consapevolezza verso modi di conoscere, valorizzare e fruire tale memoria, che invece potrebbe essere un formidabile strumento di comprensione reciproca e costruzione di una identità collettiva sovra-nazionale. Nonostante alcune posizioni critiche1 rispetto alla promozione di memoriali legati a momenti di sofferenza collettiva, come intuito da Duffy, “memorie dolorose possono essere trasformate in un significativo contributo nella lotta per i diritti umani” (2001, 121), e questo è probabilmente uno dei motivi per cui le commemorazioni della guerra sono diventate “un concetto davvero popolare” (Duffy 1997, 453). 235
to access, make understandable and experienceable, use and participate to collective history and memory, and even negotiating and rewriting them, making the form of the archive evolve into more interactive and narrative systems, helpful to handle difficult memories, too. Within this context, this essay presents a case study, namely the Heritage of War Programme developed in the Netherlands, which tries to overcome the gap between memory and history, preservation and fruition modalities in the context of an undoubtedly traumatic heritage like the one of the State of the Netherlands during WWII. This programme demonstrates how the use of digital narration can also activate the process of re-elaboration of war history which is necessary to defuse or “de-activate” its more traumatic aspects, in order to convey it to a wider public, through digital exhibition. Therefore, in general, the object of analysis deals with the idea of designing strategies and digital technologies for the contemporary interpretation and meaningful narration of cumbersome memories, which result in the creation of digital spaces that connect data, contents, documents and memories experience: they will be defined as intangible geographies of “mnemotopos.” War memories and/as “difficult” heritage: the Heritage of War patrimony War heritage is undoubtedly a difficult heritage to deal with. “Difficult heritage” (“a past that is recognised as meaningful in the present but that is also contested and awkward for public reconciliation with a positive, self-affirming, contemporary identity,” Macdonald 2009, 1) is an expression used by Sharon MacDonald in her study about the city of Nuremberg, facing concrete traces and remains of an awful Nazi past after 1945. The reasons for this difficulty seem obvious: war is a traumatic event that is unpleasant or even painful to remember. The action of forgetting 236
Inoltre le tecnologie digitali offrono nuove modalità per accedere, rendere comprensibile, esperibile e partecipare a storia e memoria collettiva, anche consentendo una sorta di riscrittura e negoziazione delle stesse, facendo evolvere in questo modo l’archivio verso un sistema più interattivo e narrativo, potenzialmente utile a maneggiare anche contenuti difficili. In questo quadro, questo saggio presenta un caso studio, il programma Heritage of War, sviluppato in Olanda, che cerca di superare il divario tra storia e memoria e tra modalità di conservazione e fruizione, nel contesto di un patrimonio indubbiamente traumatico, come quello della nazione olandese durante la seconda Guerra mondiale. Questo programma dimostra come l’uso di narrazioni digitali possa attivare quel processo di rielaborazione della storia della Guerra necessario a disattivare o “disinnescare” i suoi aspetti più traumatici per veicolarli al pubblico attraverso delle mostre digitali. In modo più generale dunque il tema di analisi riguarda le possibilità di progettare strategie e tecnologie digitali per interpretare e narrare in modo contemporaneo e significativo memorie scomode, attraverso la creazione di spazi digitali che connettono dati, contenuti, documenti e esperienze: in questo saggio li definiamo “geografie intangibili” o “mnemotopos.” Le memorie della Guerra come difficile eredità: il patrimonio del progetto “Heritage of War” Il patrimonio culturale legato alla Guerra è indubbiamente un patrimonio difficile da trattare. “Patrimonio difficile” (“un passato che è riconosciuto come significativo nel presente, ma anche contestato e imbarazzante da parte del pubblico in relazione ad una positiva e contemporanea affermazione dell’identità” Macdonald 2009,1) è una espressione coniata da Sharon Macdonald nel suo studio sulla città di Norimberga, impegnata
has been necessary for individuals and communities to remove their loss of dignity and their suffering, but also to omit, at national scales too, blames and faults of some groups and communities towards others. However, it is not only cultural war heritage to be considered difficult. Other factors are connoted this way, too: 1. Painful or shameful aspects. All the undoubtedly cumbersome and sad historical events and all the unexpectedly embarrassing and troublesome memories due to cyclical changes of perspective, values or frames of reference (such as, a past characterized by anachronistic aims of domination based on racial superiority claims), are included in this group; 2. Controversial aspects. As Macdonald points out “heritage may also be troublesome because it threatens to break through into the present in disruptive ways, opening up social division.” (Macdonald 2007, 1) This group includes heritage whose legitimacy or “truth” is still disputed: an example can be the discussion of second generation immigrant communities about their memories of cultural integration, as they generally tend to take distance from the life conditions of the first immigrants and are more inclined to reporting inequalities and injustices.2 3. Dispersion, fragmentation. This group includes all residual and isolated memories, those scattered for material and physical circumstances or those which have been deliberately scrapped, whose singularity, dislocation, de-contextualisation, absence of relation or disconnection does not make it easy to recognize and acknowledge them. Even if the reasons are various and different, all these factors usually lead to processes of heritage denial. Nevertheless, the dynamics of memory change from one generation to the next: while temporal proximity urges forgetting, a greater distance requires an attempt to understand these difficulties. In addition, often a difficult heritage
nell’affrontare le tracce concrete del suo passato nazista dopo il 1945. Le motivazioni di tale difficoltà appaiono ovvie: la guerra è un evento traumatico spiacevole e doloroso da ricordare. L’oblio è stato necessario per individui e comunità per rimuovere perdita di dignità e sofferenza, e anche per omettere, anche a scala nazionale, colpe e responsabilità di alcuni gruppi nei confronti di altri. Tuttavia non è solo il patrimonio culturale relativo alla guerra ad essere considerato difficile. Altri fattori possono attribuirgli questa connotazione: 1. Aspetti dolorosi o inconfessabili. Eventi storici indubbiamente scomodi o tristi e memorie imbarazzanti e problematiche sulla base di ciclici cambiamenti di prospettiva o di quadro di riferimento (ad esempio un passato contrassegnato da anacronistici obiettivi di dominazione basata su superiorità razziale), fanno parte di questo gruppo; 2. Aspetti controversi. Come MacDonald sottolinea, “il patrimonio culturale può essere problematico perché minaccia di irrompere nel presente in maniera disruptiva, creando divisioni sociali” (Macdonald 2007, 1). Il patrimonio la cui legittimità o verità è contesa fa parte di questo gruppo: un esempio è la messa in discussione delle memorie relative ai processi di integrazione culturale da parte delle seconde generazioni di immigrati, che generalmente tendono a prendere le distanze dalle condizioni di vita degli immigrati di prima generazione e sono più propensi a denunciare ingiustizie e disuguaglianze.2 3. Dispersione e frammentazione. Memorie residuali e isolate, quelle disperse per circostanze materiali e fisiche, o quelle deliberatamente frammentate e parcellizzate, la cui decontestualizzazione ed assenza di relazioni o connessioni, non facilita un appropriato riconoscimento, sono incluse in questo gruppo. Anche se per ragioni diverse, questi fattori portano tutti a processi di negazione e rifiuto del patrimonio culturale. Tuttavia le dinamiche del ricordo cambiano da una generazione all’altra: laddove la vicinanza temporale 237
undergoes complex and controversial processes of “institutionalisation” or rationalisation: this is one of the primary causes of wide dissonances and disjunctions between history and memory, which requires deeper understanding too. Generally, memory is associated with individual past and history with a less personal point of view3 so they obviously may not coincide, but the question is more complex. In particular, we focus on differences between history and collective memory. Even if history and memory are strictly intertwined (historiography feeds on memory, memory is built around the context of history), history is something that happened, therefore is fixed, whereas memory is in continuous evolution (it “lives” and consequently is subject to changes).4 So, memory is an active element, while history should be unique, objective and impartial, a past that can be abstracted from identity. “As people have been distanced from the processes that affect their daily lives, past has been promoted as something which is completed and no longer contingent upon our experiences in the world” (Walsh 1992, 2). On the contrary, according to Halbwachs (1950), memory does not entail an absolute past: the past exists as a reconstruction, in function of the needs of the present. This reconstruction is eminently collective, because memories take shape and place in a social context and are therefore conditioned by social interactions: collective memory generates when events and places are meaningful for a social group. Collective memory is characterised by the “re-constructability” or re-enactment: past facts are re-built within the categories of contemporary. This is the reason why collective memory is more linked with the construction of identity rather than history: memory is a continuously practiced tradition and feeds the identity of a social group through appropriation, while history starts when memory ceases, and where memory dissolves or more precisely, is fixed and objectivised in a formula, canonised 238
spinge verso la rimozione, una maggiore distanza è più propensa a cercare di comprendere tali difficoltà. In aggiunta spesso il patrimonio culturale scomodo è soggetto a controversi processi di istituzionalizzazione o razionalizzazione: questa è una delle cause principali della distanza e disgiunzione tra storia e memoria, ponendo un’altra questione che necessita di essere affrontata. Generalmente la memoria è associata ad un passato individuale, laddove la storia rappresenta un punto di vista meno personale,3 motivo per il quale possono non sempre coincidere, ma la questione è più complessa. In particolare la nostra attenzione è rivolta alle differenze tra storia e memoria collettiva. Sebbene storia e memoria siano strettamente correlate (la storiografia si nutre di memoria, la memoria si costruisce intorno a quanto veicolato dalla storia) mentre la storia è qualcosa che è stato, dunque è fissa, la memoria è in continua evoluzione (è viva e soggetta a cambiamenti).4 Dunque la memoria è un elemento attivo, mentre la storia dovrebbe essere unica, oggettiva e imparziale e ricostruire un passato che le permetta di essere astratto dall’identità. “Dal momento in cui le persone prendono le distanze da ciò che ha influenzato a loro vita quotidiana, il passato può essere promosso come qualcosa in sé conclusa e non più contingente rispetto alla nostra esperienza del mondo” (Walsh 1992, 2). Al contrario secondo Halbwachs (1950) nella memoria non esiste un passato assoluto: il passato è sempre funzione del presente ed esiste solo come costruzione, in quanto ricordato e in quanto rispondente a determinate esigenze del presente. Questa ricostruzione è eminentemente collettiva, in quanto “i ricordi non possono che formarsi nell’ambito sociale di riferimento ed essi sono continuamente condizionati dalle interazioni all’interno del quadro sociale:” la “memoria collettiva” infatti si genera quando una persona, un evento, un luogo risultano significativi per il gruppo sociale. La memoria collettiva
in an exegesis or celebrative “tradition,” because its original meaning has been lost. Also, identity is a dynamic “cultural product” that relies on memory and results from the choice of factors and categories which are relevant according to the moment.5 Consequently, the past, as space of action of memory, becomes a repository of cultural scenarios, an archive to refer to according to necessity.6 To simplify the problem, we can say that history is the institutionalisation of memory promoted by bodies such as the public system (institutions, mass media), the legal system, the education system (schools), and the cultural system (museums). This representation of the past7 is the result of a process of selection of a limited portion of heritage influenced by various contextual factors, such as politics, culture, power, ideology, in which often museums function as “facilitators” or mediators. This representation goes beyond the simple conservation of history, up to the point of simulating it or reconstructing it, through, according to Hobsbawn, “invented traditions.” Invented tradition is a set of practices, normally governed by overtly or tacit accepted rules and of a ritual and symbolic nature, which seek to inculcate certain values and norms of behaviours by repetition, which automatically implies a continuity with he past. In fact, where possible, they normally attempt to establish continuity with a suitable historical past (Hobsbawn 1983, 1). Thus, invented traditions often present frictions with the shaping and structuring of what has been defined “collective memory.” Concerning a difficult heritage, it is often necessary to add to this structural selection process a deliberate process of forgetting. Walsh calls this mediation of painful pasts “collective amnesia.” People need help in order to forget a painful recent past or to omit faults and blames. Even the legal instrument of amnesty brings this removal to a public level of forgetfulness (in fact, amnesia and amnesty share the
dunque è caratterizzata da ricostruibilità: gli eventi passati sono ricostruiti all’interno delle categorie del presente. Questo è anche il motivo per cui la memoria collettiva è più connessa alla costruzione dell’identità rispetto alla storia. La memoria è continuamente praticata e nutre l’identità di un gruppo sociale attraverso l’appropriazione, mentre la storia comincia quando la memoria cessa e laddove si dissolve, o meglio viene fissata e oggettivata in una determinata formulazione (o de-formazione), canonizzandola in una tradizione, che, poiché il senso originario delle forme si è perso, ne fa la sua esegesi o semplicemente la celebra. Anche l’identità è un prodotto culturale dinamico che si basa sulla memoria ed è il risultato della scelta di fattori e categorie di volta in volta rilevanti.5 Di conseguenza, il passato, come spazio d’azione della memoria, diventa un deposito sincronico di scenari culturali, un archivio cui fare riscorso secondo necessità.6 Per semplificare potremmo dire che la storia è l’istituzionalizzazione della memoria promossa da sistemi quali quello pubblico (istituzioni, mass media), legale, educativo (scuole), culturale (musei). Questa rappresentazione del passato7 è il risultato di una selezione di una porzione limitata del patrimonio, influenzata da fattori contestuali quali politica, cultura, potere, ideologia, processo nel quale spesso i musei funzionano da facilitatori o mediatori. Tale rappresentazione va oltre la semplice conservazione della storia, fino a simularla o ricostruirla, attraverso quelle che Hobsbawn definisce “invented traditions.” Le tradizioni inventate sono un insieme di pratiche, governate da regole apertamente o tacitamente accettate, dalla natura simbolica e rituale che mirano a inculcare certi valori e norme di comportamento tramite la ripetizione, che automaticamente implica una continuità con il passato. Infatti, ove possibile, cercano di stabilire una continuità con un passato storico (Hobsbawn 1983, 1). Di conseguenza tali tradizioni inventate 239
same etymology, from the greek amnesìa, composed of the privative prefix a- meaning “not,” plus mimnèskein, which means “to make somebody remember something” and mnestis, which means “remembrance”). Isolated and obscured, the real memories clash with their institutionalisation and rationalisation in history, often conducted from a monolithic perspective, without any dissenting voice, and using a mediated and hetero-representation in which the memories owners are usually not directly involved. “However, the search for a unified memory can become an impossible proposal of indemnity act for past traumas” (Pavone 2000, 44): plurality and self-representation seem to offer a possible solution. Therefore, in considering the case study Heritage of war, our aim is to underline its focus on a patrimony made of war memories and not of war history, or precisely in the capacity of the project of unveiling and recalling memories (and especially difficult memories) within history; this happens through appropriate dynamic forms of representation, because these memories are not static and their interpretation may change and need to be re-contextualized to be understood. The Heritage of War Programme has sought and collected all those memories connected to the legacy and patrimony linked to the Second World War in the Netherlands. The “difficulty” of such a task lies in the unpleasantness of this past but also in the fragmentation and dispersion of its memories: they refer, in fact, to the whole soil of the country and not to specific battlefields or warfronts; sometimes they are even not localised or localisable. The program was started in 2007 by the Ministry of Health, Welfare and Sport of the Netherlands with the objective of “harvesting” all those memories and smaller histories within the grand war narrative, of transforming the multifaceted nature of the conflict into a lasting source of reflection and of ensuring that these stories can be preserved and 240
spesso presentano frizioni con la formazione e strutturazione di ciò che viene definito memoria collettiva. Relativamente al patrimonio difficile, è necessario aggiungere, a questo processo strutturale di selezione, un deliberato processo di rimozione. Walsh chiama questa mediazione di un passato doloroso “amnesia collettiva.” Le persone hanno bisogno di dimenticare un passato recente doloroso e omettere colpe o vergogne. Persino lo strumento legale dell’amnistia porta questa rimozione ad un livello pubblico (infatti amnesia ed aministia condividono la stessa radice etimologica, dal greco amnesìa, composta da a- privativa più mimnèskein “fare ricordare” and mnestis “ricordo”). Isolate e oscurate le memorie reali si scontrano con la loro istituzionalizzazione e razionalizzazione nella storia, spesso condotta da una prospettiva monolitica, che esclude voci dissenzienti, e usando una rappresentazione mediata ed esterna in cui i depositari della memoria non sono direttamente coinvolti. “Tuttavia la ricerca di una memoria unificata è una proposta di indennizzo impraticabile in relazione ai traumi del passato” (Pavone 2000, 44): pluralità e rappresentazione diretta possono costituire una possibile soluzione. Quindi l’obiettivo, nell’analizzare il caso studio Heritage of War, è sottolineare il suo focus su un patrimonio fatto di memorie e non di storia, o più precisamente la capacità del progetto di svelare e richiamare memorie (specialmente memorie difficili) all’interno della storia; tutto ciò attraverso forme di rappresentazione dinamica, poiché tali memorie non sono statiche e la loro interpretazione cambia e necessita di essere ri-contestualizzata per essere compresa. Il programma Heritage of War ha ricercato e raccolto le eredità legate alla Seconda Guerra Mondiale in Olanda. La “difficoltà” di questo patrimonio risiede sia nella dolorosità di questo passato, ma anche nella dispersione e
kept being told to the future generations. The programme truly offers a new perspective on this past. What does the Dutch heritage of war consist of ? There are physical traces together with intangible memories: on the one hand this patrimony is made of a very large number of documents, like original diaries, photographs, letters, magazines, and newspaper collected by the State Agency for War documentation (which was set up three days after the liberation). However, it is mainly made of stories that belong to people who, in few years, will not be able to tell their stories any more. Therefore, the physical objects function as supports for an intangible memory that is connected with two main aspects: the resistance to German domination and the Japanese occupation of Dutch East Indies. The documents make it evident how the understanding of war has changed with time: from disaffection (the state agency was dismounted, and physical traces like concentration camps and prisons were demolished), to a public interest in military history and Resistance (focused on the stereotyped image of a brave and heroic nation that did not acquiesced to German occupation), to a contemporary more critical position, devoted to remembrance and commemoration of the victims of the war. This adjustment of the collective memory has been based on the feeling of people who lived throughout the occupation. Thanks to the Heritage of War programme, all these dispersed documents and archives have been collected and digitalised, so as to prevent them from their deterioration, many war survivors have been interviewed and a centralised access web platform has been designed, but above all, through the means of “digital exhibitions,” an open and dynamic system of interpretation and narration of all this material has been created, due to the awareness of the continuous changeability of the meaning of war heritage, as shown by the latest 50 years of Dutch history.
frammentazione delle sue memorie: esse si riferiscono infatti a tutto il paese e non a uno specifico campo di battaglia o fronte e a volte non sono localizzate né localizzabili. Il programma è stato avviato nel 2007 dal Ministero Olandese della Salute, Welfare e Sport con l’obiettivo di raccogliere tutte quelle memorie e piccole storie all’interno della grande narrativa della guerra, con l’obiettivo di trasformare la multi sfaccettata natura del conflitto in occasione di riflessione e per assicurare che queste storie possano essere conservate per essere trasmesse alle generazioni future. Il programma offre effettivamente una nuova prospettiva su questo passato. In cosa consiste il patrimonio culturale olandese legato alla guerra? Si tratta sia di tracce fisiche che di memorie immateriali: da un lato questo patrimonio è costituito da una grande quantità di documenti originali quali diari, fotografie, lettere, riviste, giornali che sono stati collezionati dall’Agenzia di Stato per la Documentazione della Guerra (agenzia costituita subito dopo la liberazione). Ma principalmente è costituito da storie che appartengono a persone che in pochi anni non saranno più in grado di raccontarle. I documenti e gli oggetti fisici funzionano come supporti stabili di una memoria intangibile legata principalmente a due aspetti: la resistenza alla dominazione tedesca e l’occupazione giapponese delle Indie Orientali Olandesi. Attraverso i documenti è evidente come la comprensione della guerra è cambiata nel tempo: dal disinteresse (quando l’agenzia per la documentazione viene chiusa e tracce fisiche come campi di concentramento vengono demoliti) si è passati ad un interesse pubblico in storia militare e della resistenza (concentrato verso una immagine stereotipo di nazione eroica che non si sottomette alla occupazione tedesca) fino ad arrivare ad una posizione contemporanea più critica, interessata al ricordo e alla commemorazione delle vittime della guerra. Questo affinamento della memoria collettiva è avvenuto anche sulla base delle sensazioni delle persone che 241
War “narrations” and/as history re-elaboration: the Heritage of War design strategy The Heritage of War Programme was started in 2007 and completed in 2009. It was initiated by the Ministry of Health, Welfare and Sport, which is in charge, within the Department of victims and remembrance of the Second World War, of the archives of the War Aftercare department. Before the programme was started, the access to the archives was provided only by paper-based indexes. Since these cards had become particularly fragile, a digitalisation project was financed in order to preserve notes in pencil, colour codes or other references that were fading. This first action, financed by the ministry and implemented by the Dutch Red Cross, caused an interest for war-related collections in the Netherlands, starting from the name of the State Agency for War documentation, which was changed into Netherland Institute for War Documentation: a large number of photos belonging to the institute, as well as to war resistance museums, were digitalised in a “Second World War Image Bank,” thanks, also in this case, to the financial support of the ministry. The aim of this action was to safeguard these contents and make them accessible to a much wider public. This is how the idea of a national collection of war heritage was born: the ministry initially responsible for the care of the victims also assumed the care of their legacy and launched the Heritage of War Programme. This has been metaphorically defined the “harvest” of various documents: photos, printed materials like newspapers and magazines, written documents like private diaries and letters, camp drawings, audiovisual materials, archives, other objects, historical buildings and memorials, personal testimonies have been collected thanks to the programme. The ministry opened a call for application for a subsidy directed to all the institutions that manage war-related heritage and archives. The priority criteria for application were “to preserve 242
hanno vissuto l’occupazione. Grazie al programma Heritage of War, tutti questi documenti e archivi sono stati raccolti e digitalizzati con l’obiettivo di preservarli dal deterioramento, molti sopravvissuti sono stati intervistati ed è stata progettata una piattaforma web di accesso centralizzato, ma soprattutto, attraverso alcune “mostre digitali” si è creato un sistema aperto di interpretazione e narrazione di tutti questi materiali, con la consapevolezza della continua mutevolezza del significato del patrimonio legato alla guerra, così come dimostrato dal corso degli ultimi 50 anni di storia olandese. Le narrazioni della Guerra come rielaborazione delle storia: la strategia progettuale del programma “Heritage of War” Il programma Heritage of War è iniziato nel 2007 ed è stato completato nel 2009. È stato avviato dal Ministero Olandese della Salute, Welfare e Sport, che è responsabile, con il Dipartimento delle vittime e della commemorazione della Seconda Guerra Mondiale, degli archivi del dipartimento dell’assistenza post- bellica. Prima del programma l’accesso agli archivi era possibile solo grazie a indicizzazioni cartacee. Poiché questi materiali stavano diventando particolarmente fragili, è stato finanziato un progetto di digitalizzazione con l’obiettivo di preservare appunti a matita, codici cromatici e altre referenze che stavano sbiadendo. Questa prima azione, finanziata dal ministero e dalla croce rossa, ha rinnovato l’interesse per le collezioni legate alla guerra, causando anche la trasformazione dell’Agenzia di Stato per la Documentazione della Guerra, in Istituto Nazionale per la Documentazione: una grande quantità di foto dell’istituto e dei musei della resistenza sono stati digitalizzati in una banca dati digitale sulla seconda guerra mondiale, sempre grazie ad un finanziamento del ministero, anche in questo caso con l’obiettivo di conservare e rendere accessibili al pubblico questi contenuti.
Heritage of War Home page (screen shot from www.tweedewereldoorlog.nl)
valuable material from and about Second World War, make it more accessible and encourage applications of heritage material for a wider public” (Ministry of Health, Welfare and Sport of Netherland 2010, 10) in order to create a national collection. More than 140 projects have been financed in four subsidy rounds and the result is a digital WWII infrastructure available on line at http:// www.tweedewereldoorlog.nl/ with direct and centralised access to the material. The web database provides links to all the collection with access to a huge volume of information, according to different themes. Three main themes have been considered for the collection: Dutch East Indies, Atlantic Wall and Wartime Memorials. The public-oriented application focus is one of the most interesting aspects of the programme: the sharing of heritage traces (from personal diaries and testimonies, oral history, pamphlets, illegal and resistance publications, war time newspapers, films and
Nacque così l’idea di una collezione nazionale del patrimonio culturale legato alla guerra: il ministero, inizialmente responsabile solo per l’assistenza delle vittime, si fece carico anche del loro lascito e lanciò il programma “Heritage of War.” Il programma si è da subito connotato come raccolta di vari documenti: foto, materiali a stampa come quotidiani e giornali, documenti scritti come diari privati e lettere, disegni, materiali audiovisivi, archivi, testimonianze personali etc. sono stati collezionati grazie al programma. Il ministero ha quindi aperto una call di finanziamento rivolta a tutte le istituzioni che si occupavano di patrimonio e archivi legati alla guerra. I criteri prioritari per la candidatura erano “preservare il materiale relativo al patrimonio culturale della guerra, renderlo maggiormente accessibile e incoraggiarne sue applicazioni per il pubblico” con l’obiettivo di creare una collezione nazionale. In quattro diverse tornate di finanziamenti, più di 140 progetti sono stati finanziati e il 243
Spatial metaphor and consultation of different media contents of the first digital exhibition (screen shot from www.tweedewereldoorlog.nl)
audio recordings) gave rise to controversial debates and discussions on how and under which perspective this heritage should be considered and interpreted. Contextualisation has been the main issue to depict the subject of the Second World War without any definitive closure. Providing an objective and coherent background of circumstances and historical events to documents, objects and people have been considered crucial for a meaningful public oriented application that could accompany the public and help them identify and empathize with the heritage, without imposing any main subjective point of view. On the other hand, the “Eye witness Accounts” framework emplied a considerable work of recording audiovisual testimonies of personal experiences, opening up to an oral history that had to be plural and choral as much as possible. This was done with the intent of going beyond the simple documentation of this meaningful heritage, thanks to a narrative approach, which could serve as a 244
risultato è una infrastruttura digitale sulla Seconda Guerra Mondiale consultabile on line all’indirizzo http://www.tweedewereldoorlog.nl/, che permette un accesso diretto e centralizzato a tutti i materiali. Il database fornisce collegamenti alla collezione permettendo di accedere ad un consistente volume di informazioni, selezionabili sulla base di diversi temi. Tre sono gli argomenti principali considerati: Indie orientali olandesi, il Vallo Atlantico e i memoriali di guerra. Le applicazioni rivolte a pubblico sono uno degli aspetti più interessanti del programma: la condivisione di questo patrimonio (dai diari, alla storia orale, alle pubblicazioni illegali, ai giornali del tempo, alle registrazioni audio e video) ha aperto il dibattito e la discussione su come e con quale prospettiva questo patrimonio avrebbe dovuto essere considerato e interpretato. È stato quindi necessario contestualizzare l’argomento della seconda guerra mondiale per descriverlo in maniera non “definitiva:” fornire un background di
tool for actualising and negotiating the perception of war history and memory for the Netherland’s population. Narrating heritage, in fact, is a complex matter: according to the Centre for research in memory, narrative and history of the Brighton University,9 the complexity lies in the necessity to emphasize the plural “histories,” the relationships between present and past, the presence of subordinate and marginalized histories, archiving practices and popular memory. These plural histories have been identified by the center as community history, focusing on the social life of a community, oral history/life history, forms including oral testimony, autobiographical writing, reminiscence work, the creation of images, construction of songs and performance of actions often referring to marginalized histories (“silenced by historical research”) with no public visibility and public history, semi-official and public reconstruction of history in formalized structures. The process through which “individuals, groups and societies remember, rework, bury or forget aspects of the past in order to make sense of, repair or reconstruct the present”10 makes these three levels of history interact with one another and generates the cultural memory of a community. Somehow, people “make use” of history, re-elaborating it. According to Agamben (2005), in order to deactivate conventional uses and behaviors, a “profanation action” is necessary. And in order to create new actualized narrations of a heritage it is often necessary to de-activate its perception among people. This is even truer for war heritage re-elaboration for narration purposes, because of its unpleasant aspects. However, it is possible to outline some strategies for defusing its traumatic features, sense making and re-contextualizing its values and qualities into new narratives. The Heritage of War Programme, in particular, adopted an articulated strategy aiming at giving back the dignity of an identity patrimony to a large quantity of data and documents by means of:
circostanze ed eventi storici coerenti a obiettivi a documenti, oggetti e persone, è stato infatti cruciale per realizzare applicazioni orientate al pubblico che potessero aiutare i fruitori a comprendere ed entrare in sintonia con il patrimonio, senza tuttavia imporre alcun punto di vista principale. Contestualmente, l’azione “Eye fitness Accounts,” ha comportato un consistente lavoro di registrazione audiovisiva di testimonianze relative ad esperienze personali, aprendo il progetto verso una storia orale il più possibile plurale e corale. Tutto ciò con l’intento di andare oltre la semplice documentazione, grazie all’uso di un approccio narrativo che potesse servire come mezzo per attualizzare e negoziare la percezione della storia e delle memorie della guerra tra la popolazione olandese. Narrare il patrimonio culturale è una materia complessa: secondo il Centre for research in memory, narrative and history della Brighton University9 la complessità della materia è data dalla necessità di enfatizzare, attraverso il progetto della narrazione, la pluralità delle storie, le relazioni tra presente e passato, la presenza di storie minori e marginalizzate, di pratiche di archiviazione e memoria popolare. Le diverse forme che la storia può assumere sono state identificate dal centro come community history, che si concentra prevalentemente sulla vita sociale delle comunità, oral history/life history, forme diverse di testimonianza orale, scritti autobiografici, performances, riferite principalmente a storie marginalizzate che non hanno visibilità sul piano pubblico, e public history, costruzione pubblica e semi-ufficiale della storia, attraverso l’inserimento in strutture formalizzate. Il processo attraverso cui “individui, gruppi e comunità ricordano, ricostruiscono o dimenticano aspetti del passato con lo scopo di dare senso o ricucire il presente”10 fa interagire questi tre livelli per generare la memoria culturale di una comunità. In qualche modo le persone “fanno uso della storia,” rielaborandola. Secondo Agamben (2005) per disattivare usi e comportamenti convenzionali 245
- picturing a frame that can function as a comprehensive background where it is possible to re-contextualize the single, weak or unknown elements which would otherwise be difficult to be understood and appreciated; - making connections among data and documents that could offer unconventional, different perspectives or unexpected paths and stories; - making out a story from a single ignored document, exploiting its narrative and emotive potential, i.e. by storytelling; - engaging people in telling their stories in order to promote self-representation. This strategy is founded on a trans-scalar approach, which was already defined as zoom-in/zoom-out fruition modality of a physical territory. In this experience mode the connections among the elements and the flux of narration are conceived in order to allow a systemic but detailed view by continuous changes of scale of the focus of attention. It is in fact possible to shift from the single document dimension to the big war narrative, from a personal testimony of specific situations to public events or public and institutional representation of the same events (for example, by official radio recording), from precisely localized facts in time and places to a complete timeline and map of the Netherlands country during wartime. In this intangible space users can move as in a conceptual geography, exploring the connections of this landscape of memories, challenging their understanding of war history stereotypes, using these “mnemotopos” as places of dialogue with the past and others’ visions, when entering the more narrative sections. Below follows the detailed description of the narrative part of the Heritage of War infrastructure, from which it will be even clearer how visual metaphor design can work in dismounting conventional representations in favour of more open-ended and personal experiences of war heritage.
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è necessario un atto di “profanazione.” Allo stesso modo per creare nuove e più attuali narrazioni di un patrimonio è spesso necessario disattivare il modo in cui viene percepito dalle persone. Questo è ovviamente molto più vero per rielaborare con scopi narrativi il patrimonio difficile legato alla guerra, a causa dei suoi aspetti spiacevoli. Tuttavia è possibile delineare alcune strategie per “disinnescarne” gli aspetti più drammatici, costruire un senso e riconstualizzare i suoi valori e qualità in nuove narrazioni. Il programma Heritage of War in particolare, ha adottato una strategia molto articolata per restituire dignità di patrimonio identitario a un gran numero di dati e documenti, attraverso: - la ricostruzione di una cornice che funzioni da sfondo per contestualizzarvi elementi isolati, deboli o sconosciuti, altrimenti difficili da apprezzare e comprendere; - la creazione, tra dati e documenti, di connessioni in grado di offrire prospettive, percorsi e storie interessanti e inaspettate; - l’uso dello storytelling per sfruttare il potenziale emotivo e narrativo dei documenti derivandone delle storie; - il coinvolgimento delle persone nel raccontare la loro storia e promuovere la rappresentazione di sé. Questa strategia si è basata su un approccio transcalare che altrove abbiamo definito come modalità di fruizione di un patrimonio attraverso una logica di zoom-in/zoom-out. In questa modalità di esperienza le connessioni tra elementi e il flusso della narrazione sono concepiti per permettere una visione sia complessiva che dettagliata attraverso continui cambi di scala del focus di attenzione. Infatti è possibile passare dal singolo documento alla dimensione storica, dalla testimonianza personale all’evento pubblico o la rappresentazione istituzionale dello stesso (attraverso per esempio registrazioni radio), da eventi puntualmente localizzati ad una timeline completa della storia olandese durante la guerra. È uno spazio immateriale e
“The first five days of war” exhibition visual metaphor and spatial simulation strategy (screen shot from www.tweedewereldoorlog.nl)
War heritage and/as “intangible geographies” of “mnenotopos:” the Heritage of War digital exhibitions design A relevant part of the Heritage of War on line platform is dedicated to digital exhibitions. These exhibitions have been conceived as a narrative architecture built around archive materials, useful to provide another modality of access to the heritage. The exhibitions are designed to mediate the access to the heritage contents on the basis of thematic paths and focuses, enabling a more involving experience but at the same time ensuring the possibility to consult the original source and make direct search in the database. Basically, they function as advanced interfaces to the contents, proposing selected key entry points to the database. They are continuously implemented, and new exhibitions have been and are expected to be added in the future, to support plural voices and interpretations. The exhibitions adopt different metaphors
fluido dove i fruitori possono muoversi come all’interno di una geografia concettuale, esplorando le connessioni di un “paesaggio di memorie,” mettendo in discussione la loro interpretazione degli stereotipi della storia della guerra, usando questi “mnemotopos” (luoghi della memoria) come spazi di dialogo con il passato e con visioni altre. Dalla descrizione dettagliata della parte più narrativa del progetto Heritage of War sarà chiaro come il progetto di metafore visive può essere molto efficace nello smontare le rappresentazioni più convenzionali a favore di esperienze personali più “aperte” del patrimonio relativo alla guerra. Il patrimonio della Guerra come geografia intangibile di “mnemotopos:” le mostre digitali del progetto Heritage of War Una parte rilevante della piattaforma on line Heritage of War è dedicata a mostre digitali. 247
“The first five days of war” exhibition timeline map (screen shot from www.tweedewereldoorlog.nl)
as storytelling strategies, and take strongly into consideration visualisation as a powerful means to create suggestions and evocation useful to de-activate stereotyped representations of war and to propose different perspectives and narratives. They result to be intangible spaces of memory narration, dialogue, experience and performance. We call them “mnemotopos,” literally places of memory, where the Latin world “topos,” differently from the lieux de mémoire11 identify conceptual, rather than physical, places, closer to terms like topics, questions, arguments. Nevertheless, they all have different spatial metaphors, too. Similarly to the exhibition design of physical places, these topics have been considered as dialogue between the “objects” (in the sense of contents) exhibited and the forms of spaces in which they are presented in order to tell a story according to the intended didactic interpretation.12 This attention to users is expressed by a mix of narrative and performative approach applied to a digital exhibition: “exhibition 248
Queste mostre sono state concepite come architetture narrative costruite intorno ai materiali d’archivio e funzionali a fornire una diversa modalità d’accesso a tale patrimonio. Esse sono state progettate per mediare l’accesso ai contenuti sulla base di alcuni focus tematici, abilitando quindi una esperienza più coinvolgente ma allo stesso tempo permettendo sempre di consultare la fonte originale e di fare ricerche dirette nel database. Funzionano dunque come interfacce ai contenuti proponendo di punti di ingresso selezionati. Le mostre sono continuamente implementate e, nel tempo, se ne sono aggiunte di nuove con l’idea di offrire voci e interpretazioni plurali. Differenti strategie di storytelling sono state utilizzate e la visualizzazione è stata considerata uno strumento utile a creare suggestioni ed evocazioni funzionali a scardinare le rappresentazioni stereotipate della guerra a favore di nuove e diverse prospettive e narrative. Così concepite le mostre risultano essere spazi intangibili di narrazione della memoria,
design creates a storyline (formatting, storytelling and collage-narrative) and potentially emotive contents in order to engage visitors. [...] The performative approach incorporates experience design [...] in order to catch the visitors” (Dern 2006, 16-17) and make them interact and participate. Thus, the design of the exhibitions prove the effectiveness of the application of design competences like visual communication design, interaction design and strategic design too, in the construction of an enriched visitor experience that is enabled remotely on a heritage which is mainly intangible. The first digital exhibition, called Heritage of War, uses an informative and didactic metaphor on war histories: it visually represents the search for and the consultation of archival materials through a spatial metaphor simulating a slide projection screen and slide show. This choice responds to the aim of underlining the need of searching and retrieving the events and protagonists of the war with a certain grade of detachment and distance, useful to picture the big frame in a sort of “safe” environment. This exhibition offers different sections (whose browsing is possible thanks to a navigation bar) about textual documents, videos, photo galleries and it is always possible to access the primary source and archive of the document presented, to go deep into the research. The second exhibition, entitled “The first five days of the war,” instead, uses a different metaphor, more narrative and experiential, re-creating a subjective experience of the events of the first days of the war, within the simulation of a domestic interior as spatial metaphor. The interior is explorable and activable: objects like the radio, some portraits, or the newspaper can be selected in order to start audio and video contents. An air raid opens the section re-enacting the more frightening moments of the war beginning after the radio and newspaper announcement. This choice
di dialogo, esperienza e performance: li definiamo “mnemotopos,” letteralmente luoghi della memoria, con l’accezione della parola latina topos, che a differenza dei lieux de mémoire11 identifica spazi più concettuali che fisici e crea una analogia con il temine “topico.” Tuttavia questi spazi usano metafore spaziali allo stesso modo di mostre progettate in luoghi fisici: esiste infatti una relazione tra oggetto della mostra (i contenuti esibiti) e la forma dello spazio in cui sono presentati, con lo scopo di raccontare una storia secondo una interpretazione ben precisa.12 Questa attenzione ai fruitori è espressa attraverso un equilibrio tra approccio performativo e narrativo applicati ad una mostra digitale: “l’exhibition design usa un approccio narrativo quando crea una storia attraverso lo storytelling, e contenuti emotivi per coinvolgere i visitatori. [...] L’approccio performativo incorpora il design dell’esperienza per catturare i visitatori” (Dern 2006, 16-17) e farli interagire e partecipare. Le competenze di design applicate alla progettazione di una mostra dunque (come visual design, interaction design e design strategico) si rivelano efficaci nell’arricchire l’esperienza dei fruitori del patrimonio culturale quando essa avviene in maniera mediata e il patrimonio è principalmente intangibile. La prima mostra digitale si intitola “Heritage of war” e usa una metafora didattica ed informativa sulle storie della guerra: l’intento è di rappresentare visivamente la ricerca e consultazione di materiali d’archivio e la metafora spaziale scelta simula una proiezione di diapositive su un telo. Questa scelta risponde all’obiettivo di sottolineare il bisogno di ricercare eventi e protagonisti della guerra con un certo grado di distacco, in modo da contestualizzare la guerra in una sorta di ambiente neutro e controllato. La mostra è strutturata in diverse sezioni (che è possibile navigare attraverso una barra) contenenti testo, audio, video, foto, ed è sempre possibile consultare la fonte d’archivio dei documenti 249
offers the possibility to put in a personal and subjective context official and institutional documents otherwise silent and not fully understandable or simply non-emotional. From the navigation bar it is possible to shift from the subjective narrative to the visualisation of a dynamic historical timeline, which simulates and localises on a map of the countries the events of the first days of the war and related archive documents (video, audio, texts). Also in this section, it is possible to pass from the visualisation of the single document to the access and consultation of the specific archive from which it comes. The third exhibition, entitled “The liberation,” presents a narrative metaphor linked to collective experience and memory of the end of the war. It is therefore spatially organised as a stage where different overlapping layers evocate the multiplicity of histories and memories, and at the same time the techniques of searching and retrieving contents by scrolling these layer positions moving them from the back to the front in order to activate their contents and documents (photo, audio, video). Also in this section there is a dynamic historical timeline that localises the events of the last days of the war on a map. The fourth exhibition, called “The Forced Fleet,” is about the ships that were forced to fight during the war. It places them in a setting that can be navigated to explore war contents with this particular thematic lens. The narrative metaphor is a visual evocation of sea and waves through which it is possible to access interviews and documents. Conclusion The Heritage of War Programme and digital exhibitions provide an example of dealing with the war heritage both at a political level and at a public oriented application level too, with the aim of stimulating a collective discussion about this heritage values through storytelling. In the Netherlands, stories were 250
presentati così come approfondire la ricerca. La seconda mostra si intitola “I primi cinque giorni di guerra” e usa una metafora più narrativa ed esperienziale, ricreando l’esperienza degli eventi dei primi giorni della guerra attraverso la simulazione realistica di una soggettiva in un interno domestico. L’interno è esplorabile e attivabile: oggetti come una radio, ritratti appesi ai muri, un quotidiano, se selezionati, attivano contenuti audio e video. La riproposizione della scena di un raid aereo apre la sezione, richiamando i momenti più drammatici dell’inizio e annuncio dell’entrata in guerra tramite radio e giornali. Questa scelta narrativa offre la possibilità di collocare in una esperienza soggettiva documenti ufficiali ed istituzionali altrimenti silenti o poco comprensibili o semplicemente freddi e a-emozionali. Dalla barra di navigazione presente è comunque possibile passare dalla narrazione soggettiva a una visualizzazione della timeline della guerra che localizza sulla mappa della nazione tutti gli eventi e i relativi documenti d’archivio. Anche in questa sezione è possibile passare dalla visualizzazione di un singolo documento alla consultazione dell’archivio dal quale proviene. La terza mostra si intitola “La liberazione” e presenta una metafora narrativa atta a rappresentare l’esperienza collettiva della fine della guerra. È organizzata spazialmente come un palcoscenico dove diverse quinte sovrapposte evocano la molteplicità di storie e memorie e allo stesso tempo permettono la ricerca di contenuti scorrendo avanti e indietro tra i vari livelli per attivare contenuti e documenti. Anche in questa sezione è presente una timeline che localizza in una mappa gli eventi degli ultimi giorni di guerra. La quarta mostra si intitola “La flotta armata” e riguarda la storie e storie delle navi che hanno combattuto durante la guerra: esse sono navigabili ed esplorabili attraverso alcune lenti tematiche. La metafora narrativa è evocativa, raffigurando il mare e le sue onde come contesto per accedere a interviste e documenti.
“The first five days of war” exhibition visual metaphor and spatial simulation strategy (screen shot from www.tweedewereldoorlog.nl)
hidden and dispersed in different archives, and they were characterized by controversial aspects and omissions. Through the web infrastructure this past has been re-enacted in the individual and collective memory, initiating in the Netherlands a reflection on the Second World War legacy which is far from being concluded and is likely to be re-discussed from time to time. Besides its strong points (the enriched accessibility and fruition enabled by its design), the projects presents aspects that could be further improved: first of all, the language, because the platform is now only provided in Dutch, while the presence of an English version would widen its attractiveness; the modality of experience could be open not only to the web, but to geo-localisation in physical places too, using portable devices and smart technologies of augmented realities, and above all more dialogic and open to contributes from the visitors, allowing them to add their personal comments and stories. Whereas the national
Conclusioni Il programma Heritage of War e le sue mostre digitali, costituiscono un esempio di come sia possibile trattare il patrimonio culturale legato alla guerra ad un livello sia politico che orientato verso il pubblico, con l’obiettivo di stimolare una discussione collettiva sui valori di questo patrimonio. In Olanda si trattava di storie disperse in differenti archivi e caratterizzare da omissioni e aspetti controversi. Attraverso l’infrastruttura web questo passato è stato riattivato nella memoria collettiva e pubblica, provocando una riflessione sulle eredità della Seconda Guerra Mondiale che è ancora lontana dall’essere conclusa e piuttosto suscettibile di essere ri-discussa di volta in volta. Accanto ai suoi punti di forza (accessibilità e fruizione potenziati dall’azione progettuale) il progetto presenta aspetti che potrebbero essere migliorati: primo fra tutti la lingua, poiché la piattaforma è solo in olandese, mentre la presenza di una versione 251
scale of the programme itself is certainly a best practice to follow for its systematic approach, it should be considered an opportunity to move forward, towards the potentiality of a trans-national and possibly European heritage.
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inglese ne amplierebbe la capacitĂ di attrazione; la modalitĂ di esperienza potrebbe essere aperta non solo al web ma a contenuti geo-localizzati in spazi fisici reali e accessibili tramite dispositivi portatili, come smart phones o tablets; e soprattutto il sistema potrebbe essere piĂš dialogico ed aperto ad accogliere contributi dei visitatori, permettendogli di aggiungere e linkare loro storie e commenti. La stessa scala nazionale del programma, mentre rappresenta una best practice a livello nazionale per il suo approccio sistematico, potrebbe essere considerata una base da ampliare a scala sovra-nazionale, come opportunitĂ per sviluppare un possibile patrimonio europeo.
Notes 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.
See Jenkins 2005. See Kuo Wei Tchen and Sevcenko 2011. Lubar 1997. Nora 2006. Sen 2006. Appadurai 1986. Walsh 1992. http://arts.brighton.ac.uk/research/centre-for-research-in-memory-narrative-and-histories. http://arts.brighton.ac.uk/research/centre-forresearch-in-memory-narrative-and-histories/ academic-overview/cultural-memory See Lupo 2009. Nora 1997. Dern 2006.
Note 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.
Si veda Jenkins 2005. Si veda Kuo Wei Tchen and Sevcenko 2011. Lubar 1997. Nora 2006. Sen 2006. Appadurai 1986. Walsh 1992. http://arts.brighton.ac.uk/research/centre-for-research-in-memory-narrative-and-histories. http://arts.brighton.ac.uk/research/centre-forresearch-in-memory-narrative-and-histories/ academic-overview/cultural-memory Si veda Lupo 2009. Nora 1997. Dern 2006.
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Monica Resmini
News from the battlefront Notizie dal Fronte
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The countries involved in the First World War, which broke out in 1914, had initially thought that the conflict would be over quickly. However, it turned out to be quite the opposite, and this became evident already within the second year. The war was stressful both psychologically and physically. Soldiers were under constant pressure during the raids and long periods of inactivity, when they were overwhelmed with boredom. The war was also devastating in terms of casualties. The battles between the artillery and the thousands of infantrymen sent against enemy lines resulted in horrific slaughters, to the extent that claiming that an entire generation was wiped out would not be an exaggeration.1 The thick network of military roads and mule tracks that connect forts, trenches, bulletproof posts, caves, galleries, lodgings for the troops and warehouses that remain on the site demonstrates the coexistence of human life and technology.2 It was a well thought-out series of structures that expanded along the Alps on the Italian front, at an altitude that sometimes was superior to 3000 metres. The apparatus had to be adapted to the orographic and morphological environment, making the most of natural reliefs and folds where the ground was particularly hostile and not easily adaptable. Strategic requirements and the need to protect both men and artillery led to the creation of complex systems excavated either in rock or underground, which were “structures on the brink of what is geological and what is geographic” (Padovani 2006, 70). The relevance and cultural value of this concrete evidence of the Great War are widely recognised. It is a historical heritage, which also includes some significant personal records: documents, diaries, letters, photographs and films. It is a vast and stimulating cultural heritage, comprised of the entire knowledge of those who built this complex war machine.3 “The material heritage, without the immaterial one, is like external skin or inert matter, they are objects but not things” (Kieshenblatt 2006, 7).
Perché ho voluto narrare così minutamente queste sciocchezze? Perché saranno interessanti da qui a trent’anni. In questo libro (…) sono contenute molte notizie di piccole cose, tanto più importanti in quanto sfuggiranno alla Storia. (C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia)
Secondo le previsioni di tutti i paesi coinvolti, la Prima Guerra Mondiale avrebbe dovuto essere di breve durata, invece, il conflitto scatenatosi nel 1914 già l’anno successivo si rivelò l’opposto, trasformandosi in una guerra logorante sia dal punto di vista fisico che psicologico. I soldati erano costantemente messi sotto pressione sia durante i combattimenti, sia durante le lunghe pause, quando era la noia a sopraffare. Una guerra devastante anche dal punto di vista delle perdite umane. Le battaglie tra artiglieria e masse di fanti lanciate contro le linee avversarie, causarono una vera e propria carneficina, tanto da far parlare della scomparsa di un’intera generazione.1 Presupposto ed esito di questi scontri tra fattore umano e fattore tecnologico, sono gli innumerevoli segni lasciati sul territorio: una fitta rete di strade militari e mulattiere che collegano forti, trincee, postazioni blindate, caverne, gallerie, alloggi per le truppe, magazzini.2 Un articolato apparato di strutture che, per quanto riguarda il fronte italiano, si estendeva prevalentemente sull’arco alpino, a quote che talvolta superavano i 3000 metri, costringendo ad adattarsi alla situazione orografica e morfologica, sfruttando i rilievi e gli avvallamenti naturali, là dove il terreno era particolarmente ostile e duro da lavorare. Esigenze tattiche e la necessità di proteggere uomini e artiglierie, portarono alla creazione di complessi sistemi scavati nella roccia o nel sottosuolo “architetture poste al confine tra il geologico e il geografico” (Padovani 2006, 70). L’importanza e il valore culturale delle testimonianze materiali della Grande Guerra 255
The physical remains of war are not enough for us to feel the fear of battle, the smell of death, or the difficulties in having to survive in the cramped rooms in trenches and shelters. “The experience of war, any war, is only accessible to those who live through it” (Tzamova 2011, 153). Similarly, Emilio Lusso declares that “It was only us who knew the truth, as it was in front of our eyes” (Lussu 2000, 112). If we want to present an accurate picture of the evidence of the Great War, it is of paramount importance to analyse the true origin and personalities of the works constructed during the war. The relationship between the conflict’s tactic-strategic needs and the technical knowledge that infused substance and form can be examined and brought to light through archival documents and written sources. As stated during a recent conference held in Colico, “War studies […] should never neglect the the study of technology, of the applied arts and of the soldiers’ daily life, both in times of war and in times of peace” (Balbi 2011, 38). At the same conference, Combat Archaeology was brought to discussion, a discipline relating to the military activity as a whole, and does not only deal with forts, trenches, shelters, posts in caves, barracks, hospitals, storehouses, airstrips and so on.4 The construction and maintenance of an effective war front was only possible with significant economic, material and human resources. During the First World War, the succession of threatening events one after the other and the amount of work brought on by the conflict demanded the necessary employment of civil labour on the sites in order to support the technical-military staff.5 As Antonio Gibelli notes, “forms of synchronised organization and handling of machines, materials and men are put into practice” they show “how the war is industrialised and, therefore, modern” (Gibelli 2007, 104). One may use two kinds of sources to define the technical knowledge adopted to solve the problems that arose during the conflict, as well as the actions and responses of the people 256
sono ampiamente riconosciuti. Si tratta di un patrimonio storico nel quale è compresa anche una significativa componente immateriale: documenti, diari, lettere, fotografie, filmati. Un’eredità culturale densa e stimolante, costituita dai saperi e dalle conoscenze di chi ha costruito questa complicata macchina da guerra.3 “Il patrimonio materiale, senza quello immateriale, è una buccia, o è materia inerte, sono oggetti ma non cose” (Kieshenblatt 2006, 7). Le tracce fisiche della guerra non ci restituiscono i sentimenti di paura legati alla battaglia, l’odore della morte, i disagi della convivenza forzata all’interno degli spazi ristretti delle trincee e dei ricoveri, “l’esperienza della guerra, di qualunque guerra è accessibile soltanto a quelli che l’hanno vissuta” (Tzalmova 2011, 153), come ci ricorda anche Emilio Lussu “La verità vera l’avevamo solo noi, di fronte ai nostri occhi” (Lussu 2000, 112). Un’accurata conoscenza delle testimonianze della Grande Guerra non può prescindere da analisi finalizzate al recupero della genesi e del carattere reali di questi manufatti. Attraverso i documenti archivistici e no (fonti orali) si possono esaminare e far emergere, gli aspetti del rapporto tra le esigenze tatticostrategiche del conflitto e il sapere tecnico materiale che dà loro sostanza e forma. Come ribadito in un recente convegno tenutosi a Colico, “gli studi in materia bellica […] non [devono] mai prescindere dallo studio della tecnologia, delle arti applicate e della vita quotidiana, in tempo di guerra, ma anche di pace, dei militari” (Balbi 2011, 38). Nella stessa occasione è stata ricordata la Combact Archaeology, disciplina che da qualche anno studia l’attività militare nel suo complesso, quindi non solo forti, trincee, ricoveri, postazioni in caverna, ma anche quanto costruito nelle retrovie a supporto del fronte (caserme, ospedali, depositi, campi d’aviazione, ecc.).4 Ora, costruire e mantenere efficiente il fronte era possibile solo grazie all’impiego di considerevoli risorse economiche, materiali e
Barracks for soldiers (© Gadda 2002: 85)
involved in the military machine in at various levels.6 While there exist official sources, i.e. documents in the military archives, there are also the diaries and memoires of those who “really went through the war.” The events recorded in diaries do not provide us with a technical history of the fortifications; nonetheless, the technical history cannot avoid taking into due consideration the stories told by those who took part in the events.7 Both privates and reserve officers felt the need to tell the horrors of war and the kind of life that people led on the front. At times the diaries of officers, who were usually well-educated middle-class citizens,8 describe fortifications, barracks, shelters and topographic surveys, and occasionally one might find drawings of them. Among the witnesses of the war whose writings were subsequently published, Carlo Emilio Gadda, Alberto Alpago Novello, Paolo Caccia Dominioni ought to be be mentioned.9 They were all young architect/engineer officers who put their technical skills to use during the conflict. It is likely that their shared role as “war designers” also helped them not to “lose themselves” mentally, and to continue with their former occupations despite the situation, keeping a bond with “what used to be before.” These diaries, which were quite accurate, mention “both military and everyday life and also the writers’ impressions, comments and emotions, which were sometimes furious as well as liberating” (Serafini 2008, 240). They include drawings, maps and cartoons.
umane. L’incalzare degli eventi e la mole di lavori imposti dal conflitto, costrinsero all’assunzione di manodopera civile da impiegare nei cantieri a supporto del personale tecnico militare.5 Prendendo a prestito le parole di Antonio Gibelli, possiamo osservare come vengano messe in atto “forme di organizzazione e di movimentazione sincronizzata di macchine, materiali, uomini” che palesano “il carattere industriale della guerra e con ciò la sua modernità” (Gibelli 2007, 104). Per cercare di delineare quali sono state le conoscenze tecniche adottate a risoluzione dei problemi che il conflitto creava, le azioni e i comportamenti degli individui coinvolti ai diversi livelli della gerarchia militare,6 utilizziamo, tra le varie disponibili, due tipologie di fonti. Le fonti ufficiali, rappresentate dai documenti degli archivi militari, e i diari e le memorie di coloro che la guerra “l’hanno fatta.” Le vicende raccontate nei diari non sono la storia delle fortificazioni, ma la storia delle fortificazioni non può fare a meno di quella narrata dai partecipanti all’evento.7 L’esigenza di raccontare gli orrori della guerra e lo stile di vita che si svolgeva al fronte, accomuna soldati semplici e ufficiali di complemento. I diari di questi ultimi, uomini in genere più colti e appartenenti alla media e piccola borghesia,8 si connotano, in alcuni casi, per la descrizione e la presenza di disegni di fortificazioni, baracche, ricoveri e rilievi topografici. 257
Damioli-type barracks (Š ISCAG, GIA, fald. 570, fasc. 1) 258
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Damioli-type barracks under construction © Museo Guerra Bianca di Temù)
The “Giornale di guerra e prigionia” (the Journal of War and Imprisonment)10 written by the young infantry second lieutenant Carlo Emilio Gadda (from the 24th of August 1915 to the 31st of December 1919), is a very typical example of these types of account. Gadda, more than other soldiers, “applies a meticulous, consistent and analytical description of the techniques [...] used, the methods, the trenches, in other words, all the physical factors: this description is extremely thorough, which is a sign of his bourgeois upbringing” (Mazzacurati 1986); “there is almost a joy in depicting the elements with a technical precision, even though they are just drafts, and certainly not technical drawings from an engineer” (Vela 2010, 541). The information provided by Gadda about the military structures perfectly matches the official archival documents that integrate the “data” explaining why the works were built. 260
Tra le testimonianze edite vanno sicuramente segnalate quelle di Carlo Emilio Gadda, Alberto Alpago Novello, Paolo Caccia Dominioni,9 tutti giovani architettiingegneri-ufficiali che nel corso del conflitto hanno potuto mettere al “servizio della causa” le loro competenze tecniche. E, forse, l’impegno progettuale era per loro un modo per non “perdersi,” per continuare a esercitare, malgrado la situazione, la propria professione, e mantenere un legame con “il prima.” In questi diari compilati più o meno meticolosamente, vengono narrati “tanto gli eventi militari e di vita vissuta quanto le proprie impressioni, i propri commenti, i propri sfoghi a volte tanto rabbiosi quanto liberatori” (Serafini 2008, 240), corredati da disegni, cartografie, vignette. Emblematico di questo modo di raccontare è il “Giornale di guerra e di prigionia,”10che il giovane sottotenente di fanteria Carlo Emilio Gadda scrisse dal 24 agosto 1915 al 31 dicembre 1919. Più degli altri suoi colleghi, Gadda, “compie una meticolosa, continua, analitica descrizione delle tecniche […] usate, dei mezzi, delle trincee, insomma di tutti i fattori materiali: e questa descrizione vien compiuta mediante l’esattezza, figlia della natura borghese” (Mazzacurati 1986); “quasi la gioia della precisione tecnica della raffigurazione […] pur trattandosi non più che di uno schizzo, non certo di un disegno tecnico ‘da ingegnere’” (Vela 2010, 541). Le notizie fornite da Gadda circa la struttura dei manufatti militari, trovano puntuale riscontro nella documentazione archivistica ufficiale, che integra “il dato” informandoci sulle ragioni che stanno alla base della loro realizzazione. Lo scrittore si sofferma, specialmente, su due tipologie, quelle da lui maggiormente esperite: la baracca e il ricovero nei pressi della trincea. “Ponte di Legno, 27 novembre 1915 […] L’organizzazione va compiendosi” (Gadda 2002, 68) con queste poche parole Gadda
Barracks for officers (© Gadda 2002: 206-207)
The writer focuses his attention in particular on two kinds of structures, namely, the ones that he had helped to implement: the barracks and the shelters near the trenches. “Ponte di Legno, 27th of November 1915 […] The organization is about to be concluded” (Gadda 2002, 68). With these few words Gadda summarises the entire workings for setting up the logistics apparatus that supported the army. Two years later, from 1915 to 1917, the site was provided with all the necessary structures to support the front. The warehouses had to provide and then distribute all the building materials and tools for the work related to each single army corp. Near the warehouses, which were located close to the main train stations, various sites for repairing and building barracks were created, as were many sawmills for manufacturing wooden boards. Within these open air spaces and warehouses there were delegated
riassume tutto il lavoro di predisposizione dell’apparato logistico a supporto dell’esercito. Nell’arco di due anni, dal 1915 al 1917, il territorio viene dotato di tutte le strutture necessarie per alimentare il fronte. I depositi dovevano provvedere a distribuire tutti i materiali da costruzione e gli attrezzi necessari per i lavori di pertinenza dei singoli corpi d’armata. Accanto ai depositi, ubicati in corrispondenza delle principali stazioni ferroviarie, furono realizzate officine per la riparazione e la costruzione di baracche e allestite numerose segherie per la produzione di tavole di legno. Al loro interno, questi parchi/ depositi erano divisi in aree destinate ai laboratori, ai baraccamenti i cui singoli elementi venivano accatastati, a magazzini per tettoie ricoveri. Dalle officine uscirono migliaia di telai per trincee e cavalli di Frisia, sagome pieghevoli per l’avanzamento in galleria nella neve, pezzi di ricambio per teleferiche, pali a 261
Shelter in the trench (© Gadda 2002: 122)
areas for laboratories and barracks, where different kinds of material were stored. From these sites thousands of looms, Chevaux-defrise (folding portable frames used to block a breach in another barrier), spare parts for cableways, mast poles to carry electricity and metal parts for small windmills near the front were produced. The materials were then transported by lorries, usually twice a day. The lorries provided materials to the working sites that were closer to the front in order to maintain each sector’s supply of the defence mechanisms.11 Ponte di Legno, 31st of December 1915 […]. We were in the wooden barracks where the platoon had moved. These barracks are among the many built by the Corps of Engineers or the contracting companies; they are made of wood, with a shape that recalls a glasshouse, with two rows of beds, one close to the ground andtwo more rows at a height of a metre and a half; the barracks have a double wall, with an external coating of tar paper: they are very comfortable for the sixty of us. (Gadda 2002, 84) Providing accommodation for the troops 262
traliccio per il trasporto dell’energia elettrica, elementi metallici per l’impianto di piccole segherie avanzate, ecc. I materiali venivano trasportati con autocarri che, con una media di due viaggi al giorno, fornivano il materiale alle zone di lavoro più avanzate, garantendo in tal modo attivo ogni settore del meccanismo di difesa.11 Ponte di Legno, 31 dicembre 1915 […] Eravamo nella baracca di legno dove s’era trasportato il plotone. Questa baracca è una delle tante costruite dal genio o da ditte appaltatrici: in legno, a forma di serra, con due file di giacigli a fior di terra e due a un metro e mezzo dal suolo; a doppia parete, con rivestitura esterna di carta catramata: vi si sta benone, in sessanta circa. (Gadda 2002, 84) L’alloggiamento delle truppe rappresentò un problema di difficile soluzione a causa dell’elevato numero di soldati (cui si aggiungevano anche i civili addetti ai lavori) da ricoverare. Inoltre, il continuo spostamento del fronte richiedeva ogni volta la consegna di materiali per la costruzione di nuove baracche, non essendo conveniente demolire
was a very difficult task due to the high number of soldiers plus the civilians that were employed to work. Moreover, since the front line moved constantly, it was necessary to transport the materials for building new barracks each time; the old barracks were never dismantled. In order to choose the most appropriate structure for the differing ground height levels, some specific studies were carried out both by the numerous building sites and by the most relevant manufacturing companies. A particular model was necessary: it had to be easily transported along the mountains and also be able to be assembled where it was impossible to lay a flat base due to the steep mountain walls. Damiol Company provided special barracks for these needs, which were used regularly, and whose model ca be seen in various photographic records.12 Another problem arose when the barracks had to be placed on glaciers, because the base covered with snow was not secure. The most suitable structure was believed to be made of wood, being robust, light and crush-proof.13 Besides these dismountable barracks distributed along the 1st army’s area (5000 objects), the same number was also assembled directly on the front. Monte di Busibollo, 15th October 1916 […] On the 6th of October we started opening a clearing for the soldiers’ barracks; the men had to work very hard with their pickaxes to remove enormous blocks of stones (some of them are even 3 square metres wide). This was the main nuisance […] other men were appointed to finish building the officers’ barracks with a wooden structure, walls made of boards, the external surface made of pine trunks (10-15 cm). The officers’ barracks have a shape similar to the one represented in the picture […] The troops’ barracks are also finished: we just need to receive the material for the roof, and then it will soon be ready: I designed the officers’ barracks, copying the structure used for the troops, with a central corridor and two rows of beds one above the other: I decided to leave the rows distant from
quelle esistenti. La scelta della soluzione migliore da utilizzare alle diverse altitudini, derivò da studi fatti sia dalle varie officine-cantieri annessi ai depositi, sia dalle principali aziende produttrici. Vi era la necessità di disporre di un modello che, oltre ad essere facilmente trasportabile in alta montagna, potesse essere collocato in punti ove le pareti scoscese di granito non consentivano lo scavo di piazzole di posa. A queste esigenze rispose la baracca prodotta dalla ditta Damioli, la cui adozione e diffusione è testimoniata da moltissime fotografie.12 Un altro problema era rappresentato dai baraccamenti da porre sui ghiacciai, in quanto il sedime innevato è soggetto a inevitabili cedimenti: la struttura ritenuta più adatta era in legno, robusta, leggera e non deformabile.13 Accanto a queste baracche smontabili distribuite in più di 5000 esemplari nella zona della 1a Armata, ne furono realizzate un numero altrettanto elevato, direttamente al fronte. Monte di Busibollo, 15 ottobre 1916 […] Il giorno 6 [ottobre] si iniziò lo spiazzo per la baracca degli uomini, con penosi lavori di piccone per la rimozione di enormi blocchi (alcuni fino a 3 metri cubi) che costituivano la carogneria principale […]. Altri uomini furono impegnati a finire la baracca ufficiali con struttura in legno, pareti in assi, rivestimento esterno in tronchi di pino di 10-15 cm. La baracca ufficiali […] ha la forma centrale, data dalla figura […]. Anche la baracca della truppa è a buon punto: se ci danno il materiale di copertura la finiremo presto: l’ho progettata io, copiando la solita struttura delle baracche per truppa, con corridoio centrale, e due file di giacigli sovrapposte: le lasciai distanti (la fila superiore dalla sottostante) 1 metro e mezzo circa, per modo che gli uomini che dormono sotto siano ben comodi. La parete è alta 3 metri: col tetto si arriva a 4 e mezzo: c’è dunque sufficiente aria. Lateralmente vi sono delle file di finestre di cm. 35-40 di altezza, per 80 di larghezza. Tale tipo di finestre sdraiate è normale in queste baracche in legno, e così pure sono le finestre 263
Austro-Hungarian fortified position (© Gadda 2002: 195)
each other, so that the men that sleep below are comfortable too. The wall is 3 metres high, 4 metres and a half if we consider the roof: therefore there is enough air to ventilate the room. On the side there are rows of windows 35.40 metres high and 80 metres wide. This kind of horizontal window is typical of such wooden barracks, as are the windows in the officers’ barracks, since the glass comes in standard sizes and is rather small without a movable frame. It would take too much effort to build windows of a different size. The roof of our barracks is made of corrugated zinc-plated iron and the ceilings are made of Eternite slabs. (Gadda 2002, 206) The barracks were supposed to provide accommodation behind the lines, while on the battlefield the soldiers slept in the shelters. 264
della baracca ufficiali: poiché occorre applicare i vetri,di dimensioni stabilite e piuttosto piccole, senza telaio mobile, che implicherebbe lavori di falegname troppo lunghi. Il tetto della nostra baracca è in lamiera di ferro zincato a ondulazioni, i soffitti delle camere in lastre di eternit. (Gadda 2002, 206) Se nelle retrovie l’alloggio era garantito dalle baracche, sul campo di battaglia i soldati erano sistemati in ricoveri. Secondo le disposizioni contenute nei manuali e nelle sinossi emanate periodicamente dall’Intendenza Generale, i ricoveri dovevano essere in caverna oppure blindati, per garantire la protezione dai tiri di artiglieria. Ma in molti casi tali disposizioni vennero disattese: in questa lotta, che era anche contro il tempo,
According to the instructions laid out both in manuals and in the informative letters occasionally issued by the General Administration, the shelters had to be either in caves or armoured to protect the men against bullets from the artillery. Often these instructions had to be disregarded: at war (a war also against time) one had to make a virtue of necessity and, consequently, that meant building a shelter using the available materials. And when the building materials became scarce, soldiers had to make the most out of what nature provided. They tried to obtain the best results using as few materials as possible.14 Gadda himself testifies this necessary process of adaptation: 22nd June 1916, in a trench on the eastern slope of the Monte Magnaboschi […] Today I have enlarged an excavated shelter that we had started to build yesterday, pushing my men harder. The shelter should protect us from the heavy bombing attacks. I always try to think carefully about what I am doing: in armouring and repairing the defence of the two posts of my section I had boulders and branches put in front of them since the ground is rocky, also with some pine trees and bushes, and behind those I had sacks of dirt arranged specifically because the sacks are very noticeable even from afar […]. My shelter is based on a small rocky protrusion which is 1.29 metres high and is surrounded by a small wall made of sacks of dirt; it covers an area of approximately 1.5 x 2.5 square metres. It is covered by a tarpaulin, which is held up with branches and the floor is made of pine branches that keep the dampness away a little at night. (Gadda 2002, 112-113) And again: Cesùna, 29th June 1916 […] My division and I together with the battalion command are in a kind of puddle that has two walls made of grassy slopes and a rocky high wall that allows us to move away from the enemy shooting […] My lodgings are on a base made of stones and dirt, with a cloth held together with trimmed pine branches: today I have improved the floor, paving it roughly with the rocky slabs that I took
bisognava fare di necessità virtù e quindi procurarsi un riparo utilizzando ciò che si aveva a disposizione, e quando anche i materiali da costruzione incominciarono a scarseggiare, si dovettero sfruttare le possibilità offerte dalla natura, mirando ad ottenere i massimi risultati col minor dispendio possibile di mezzi.14 Uno spirito di adattamento imposto, ampiamente testimoniato anche da Gadda: 22 giugno 1916, in trincea, sulla falda orientale del Monte Magnaboschi […] Oggi ingrandii, spronando i miei uomini al lavoro, un ricovero a scavo incominciato ieri, per premunirci contro eventuale bombardamento dei grossi calibri […]. Io cerco sempre di pensare a quello che faccio: nel blindare e apprestare a difesa i due postamenti della mia sezione misi davanti i sassi e le frondi (perché il terreno è roccioso con qualche pino e cespuglio) e dietro sacchi a terra, essendo questi visibilissimi da lontano […]. Il mio ricovero poggia a un piccolo salto di roccia dell’altezza di m. 1,20 ed è cinto da un muricciolo di sacchi a terra e sassi, che comprende un’area di m.2 1,5 x 2,5 all’incirca […]. È coperto da un telo a tenda, sostenuto da rami, e il pavimento è fatto con fronti di pino che mi salvano un po’ dall’umidità durante la notte. (Gadda 2002, 112-113) E ancora: Cesùna 29 giugno 1916 […]. Io sono con la mia sezione e col comando di battaglione […] in una specie di pozza che à (sic) due pareti a declivio erboso, e una rivolta in modo da defilarci ai tiri nemici,a parete di roccia […]. Il mio abituro è sito su un piedistallo di sassi e terra ed è costituito da una tenda retta da rami di pino sfondrati: oggi ho migliorato il pavimento, lastricandolo rozzamente di tavole di sasso, tolte alle divisioni, fatte in lastre, tra prato e prato: sòpravi rami e paglia. (Gadda 2002, 121) Infine: Campiello, 31 agosto 1916 […]. Oggi piove schifosamente […]. Il mio alloggio poggia per due lati alla roccia muschiosa, da cui colano rigagnoli nella camera, per altri due è fatto di sacchi tesi su bastoni di legno che costituiscono le colonne del tempio. Il tetto, con buchi e sgocciolature è 265
from the walls that separate the lawns: I laid branches and straw. (Gadda 2002, 121) Finally: Campiello, 31st August 1916 […] Today it is raining, annoyingly. My lodgings lay on the musky rocks in two parts where water leaks into the room. On the other two parts there are sacks laid on wooden sticks, like the pillars of a temple. The roof, with leaking holes,, is partly made of corrugated iron, partly of tarpaulin. The floor is lined by streams of water that make it muddy […] Of course it is smaller than me and I can’t stand up: inside there is an uncomfortable bed that could perfectly work as a sackcloth. (Gadda 2002, 169) Gadda was not really interested in describing the trench in detail, even if the trench might be considered as a symbol of the Great War, a fundamental topic in every literary genre dedicated to this period and a recurrent subject in photography and film.15 The only description that appeared in the newspaper “Giornale” is related to an enemy post that he was able to observe while it was built: Canòva, 25th September 1916 […]. Their (the enemy) first lines are now extremely secure: they are armoured with wide timbers and boards, which I think are covered by corrugated iron, they are provided with sophisticated loopholes […]. I have the impression that from the trench, one can access small excavated caves within the mountain. The trench is well divided into segments by special crosspieces that protect it from cannon balls […] The inclined angle below the trench is steep […] at the bottom […] there is the line of the chevaux-de-Frise of barbed wire: once the building works have been completed, you can notice how extraordinary these posts are. And we let them do this! (Gadda 2002, 195) Gadda’s positive evaluation with regards to the enemy was shared also by the Italian Supreme Command, so that instructions were then circulated among the army corps on the front giving information about the procedures and techniques adopted by the Austrian-Hungarian army in building trenches.16 Arminio Enrichi, an artillery captain, had 266
in parte in lamiera, in parte di telo a tenda: il pavimento è solcato da corsi d’acqua che ne fanno uno strato melmoso […]. Naturalmente più basso di me e non posso starci in piedi: dentro v’è una branda mal comoda, che può funzionare da cilicio. (Gadda 2002, 169) Alla trincea, simbolo della Grande Guerra, tema cardine di ogni genere letterario dedicato a questo periodo, soggetto privilegiato della fotografia e filmografia,15 Gadda non riserva un’analoga rilevanza grafica. L’unico disegno presente sul “Giornale” riguarda una postazione avversaria, che egli può osservare in costruzione: Canòve, 25 settembre 1916 […]. Le sue [nemiche] linee prime costituiscono oggimai delle vere ridotte: sono blindate con travature di grossi pali e d’assi, credo coperte di lamiere, hanno feritoie bellissime […] Credo poi che dalla trincea si acceda a cavernette scavate addentro nella montagna. La trincea è ben divisa in segmenti da opportuni traversoni che la proteggono da eventuali infilate di cannone […]. L’angolo di pendenza sotto la trincea è ripido […] in fondo […] è la linea dei cavalli di Frisia o dei reticolati: si vede quindi come siano formidabili queste posizioni, una volta terminati i lavori. E noi glie li (sic) lasciamo fare! (Gadda 2002, 195) Il giudizio positivo di Gadda nei confronti delle linee fortificate nemiche era condiviso anche dal Comando Supremo italiano, tanto che modi e tecniche impiegate dall’esercito austro-ungarico nella costruzione di trincee vennero divulgati tramite circolari a tutti i corpi d’armata impegnati sul fronte.16 Diverso l’atteggiamento del capitano di artiglieria Arminio Enrichi che nel suo “Piccolo giornale,” con estrema diligenza descrive e disegna (in scala!) alcune trincee presenti nel territorio tra i fiumi Torre e Isonzo. La disposizione di testo e immagine, ordinatissima e asettica, richiama i manuali e le sinossi delle accademie militari, sui quali l’Enrichi ha studiato negli anni di formazione a Modena e nei successivi corsi per allievi ufficiali.17 Un altro modo di vedere e di raccontare, magari meno raffinato, ma certamente più
a different approach. In his “Piccolo Giornale” (“Small Journal”) he describes and even draws to scale some trenches present on the territory between the Torre and Isonzo rivers, with extreme accuracy. The organised layout of text and images recalls the manuals and synopses from the military academies where Enrichi had studied during his education in Modena and subsequently during the officer cadets training.17 Corporal Enrico Goretti wrote his diary with a different style and point of view. If he is less refined, he is certainly more spontaneous. As a civilian he was an illustrator and through his drawings he describes life in the trenches, the fear of bombs, the daily fatigue brought on by the fortification work.18 He is definitely better with images than words, which sometimes are just simple captions. In conclusion, it is evident that the aforementioned sources are examples of the many memories left by the war that cause one “to relive the past.” A museum, i.e. a place where all these traces, both material and immaterial are brought together as “a system for a wider contemplation” (Bassanelli 2011, 21) cannot ignore such memories. If it is true that the reasons and decisions that led to the creation of the structures essential to the Great War do not have a tangible reality now, it is also true that, without them, the war as we know it would not have existed.
immediato è quello che ritroviamo nel diario del caporale Enrico Goretti. Di professione artista decoratore, trasmette attraverso il disegno—che talvolta prevale sullo scritto riducendo quest’ultimo a semplice didascalia—la vita della trincea, la paura dei bombardamenti, la fatica giornaliera dei lavori di fortificazione.18 In conclusione appare evidente come le fonti qui considerate, rappresentano una delle tante memorie scaturite dalla guerra e al pari delle altre, contribuiscono a “re-enacting the past.” Un museo inteso come luogo in cui tutti questi segni, materiali e immateriali, vengono messi “a sistema per una lettura allargata” (Bassanelli 2011, 21) non può ignorarle. Perché se le ragioni e le decisioni che hanno portato alla realizzazione di tutti i manufatti della Grande Guerra non hanno una spiccata fisicità, è pur vero che senza di loro, la fisicità stessa non esisterebbe.
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part 03
Art & Conflict Heritage Arte & Patrimonio dei conflitti
michela bassanelli
In July 1970, artist Robert Filliou, a French member of the Fluxus group, within the context of an exhibition at Aix-la-Chapelle proposed an exchange of “monuments to the dead” between Germany, Belgium and Holland. The meaning of the proposal lies in the reflections that originate from some fundamental themes, such as peace, reciprocal respect, and shared collective memory. The aims of such an act are clearly expressed in the declaration of intent of the work: reconciling European identity through a strong action capable of creating a precedent that can be extended to all continents; honouring the memory of the victims; reminding the future generations of the futility and horror caused by nationalisms, uniting European cities.1 After almost thirty years, a similar project, in terms of content, was realized by Jochen Gerz: “The future monument” (1998). In this case, the work does not consist of an exchange of “monuments to the dead,” but in the realization of an obelisk in the city of Coventry2 with some plaques at its feet with the following inscriptions:
Nel luglio 1970 l’artista Robert Filliou, esponente francese del gruppo Fluxus, propone nell’ambito di un’esposizione ad Aix-laChapelle, uno scambio di alcuni “monumenti ai caduti” tra Germania, Belgio e Olanda. Il significato di questo gesto risiede nella riflessione che si genera su alcuni temi fondamentali come la pace, il rispetto reciproco e la memoria collettiva condivisa. Nella dichiarazione d’intenti dell’opera sono espressi chiaramente i principi che governano l’atto: riconciliare l’identità europea attraverso un azione forte capace di creare un precedente che si estenda a tutti i continenti, onorare la memoria delle vittime, ricordare alle generazioni future la futilità e l’orrore provocato dai nazionalismi, generare un’unione tra le città d’Europa.1 Dopo quasi trent’anni un progetto simile nei contenuti, viene realizzato da Jochen Gerz: “The future monument” (1998). Non si tratta come nel primo caso di uno scambio di “monumenti ai caduti” ma della realizzazione di un obelisco nella città di Coventry2 dove ai suoi piedi sono state collocate delle placche con le seguenti iscrizioni:
To our German friends To our Spanish friends To our Russian friends To our American friends To our British friends To our French friends To our Turkish friends
To our German friends To our Spanish friends To our Russian friends To our American friends To our British friends To our French friends To our Turkish friends
The names of the various national groups were indicated by the inhabitants of the city, who were asked to name the nations which were enemies of their country in the past; the names of the eight most commonly mentioned nations were chosen to be inscribed in the plaques. The idea behind the project is one of tolerance, reconciliation, and exchange. The two works show how art has always dealt with topics linked to conflicts among peoples, such as genocides, fights and repressions, serving as a tool of reflection, as well
I nomi dei vari gruppi nascono da un’azione di collaborazione con gli abitanti della città chiamati in prima persona a fare un elenco delle nazioni che erano state nemiche del loro paese nel passato; tra tutti sono stati scelti gli otto nomi più ricorrenti. L’idea che sta alla base del progetto è tolleranza, riconciliazione e scambio. Le due opere mostrano come l’arte, da sempre, si sia interrogata su temi legati ai conflitti fra popoli, come guerre, genocidi, lotte e repressioni, ponendosi come strumento di riflessione e, in alcuni casi, anche come 271
as, in some cases, as a tool to elaborate the trauma. This was the focus of the 7th Berlin Art Biennial (2012), which, not by chance, was entitled “Forget Fear,”3 and had an intentionally strong political character, specifically wanted by its curator, Artur Zmijewski. Among the projects that were exhibited, it is worth mentioning “Berlin-Birkenau,” by Lukasz Surowiec, a young Polish artist. It is not simply a memorial as we intend it in its classical meaning, and it gives way to new stimuli for reflection. The artist planted in several places in Berlin 320 birch trees taken from the Nazi concentration camp in Auschwitz-Birkenau, and other small plants were shown at Kunst-Werke, where everyone had the possibility to take one, assuring their willingness to take care of it: “All this—Surowiec claimed—creates a personal memorial whose survival depends on each and every one of us, a living monument for the victims of the Holocaust, so that they will not be forgotten” (Lepri 2012, 35). When the Second World War was over, at a time when the need for forgetting was prevailing, artists faced the theme of the broken memory4 and of the trauma5 through three main lines of action. Some artists, such as, for example Christian Boltanski, Naomi Tereza Salmon and Fabio Mauri, have worked around the concept of memory as loss. Christian Boltanski’s artworks make use of objects—which are often stacked or heaped up—in order to highlight the concept of losing something: bodies, memories, knowledge. His works aim at emphasizing an absence, as in the project of the “Maison Manquante” (1990) where the artist has decided to write on the border wall of a house the names of the people that used to live what today is an empty space between two buildings, in order to make history visible. The series of pictures “Asservate” (1995) by Naomi Tereza Salmon fixes the images of the objects for daily use of the victims of the genocide in an almost aseptic way: “they are monuments of the memory, silent witnesses of the murder” (Assmann 272
strumento di rielaborazione del trauma. Questo ruolo è anche al centro dell’attenzione della settima Biennale d’arte di Berlino (2012) che non a caso si intitola: “Forget Fear,”3 una Biennale voluta dal curatore Artur Zmijewski fortemente politica. Tra i progetti in mostra, “Berlin-Birkenau,” di Lukasz Surowiec, un giovane artista polacco: si tratta di un memoriale che va oltre il significato classico del termine, aprendo nuove strade e nuovi spunti di riflessione. In diversi luoghi di Berlino l’artista ha piantato 320 betulle provenienti dal campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau e altre piccole piantine sono esposte nel Kunst-Werke con la possibilità per chiunque di prenderne una, assicurando la volontà di averne cura: “Tutto questo—dice Surowiec—crea un memoriale personale la cui sopravvivenza dipende da ciascuno, un monumento vivente per le vittime dell’Olocausto perché non siano dimenticate” (Lepri 2012, 35). Alla fine del secondo conflitto mondiale, in un momento dominato dall’esigenza di un oblio collettivo, sono stati gli artisti ad affrontare in modo provocatorio il tema della memoria spezzata4 e del trauma5 attraverso tre linee d’azione principali. Alcuni artisti, come ad esempio Christian Boltanski, Naomo Tereza Salmon e Fabio Mauri, hanno lavorato sul concetto di memoria come perdita. I lavori di Christian Boltanski si servono di oggetti, spesso accatastati e ammucchiati, per sottolineare il concetto di perdita di qualcosa: di corpi, di ricordi, di sapere. Le sue opere vogliono mettere in evidenza un’assenza, come nel progetto della “Maison Manquante” (1990) dove l’artista decide di collocare sul muro di confine di una casa, i nomi delle persone che abitavano quello che oggi è il vuoto tra i due edifici, rendendo così visibili i segni della storia. Il ciclo di fotografie “Asservate” (1995) di Naomi Tereza Salmon imprime in modo quasi asettico le immagini degli oggetti quotidiani delle vittime del genocidio: “monumenti del ricordo, sono testimoni muti del delitto” (Assmann 2002, 419). Anche
2002, 419). Also Fabio Mauri has dedicated many of his artworks to the themes of war, Fascism, Holocaust, and recovery of the historical memory. His most meaningful work is “Muro Occidentale o del Pianto” (1993), and consists of a 4-metre high wall made up of old and worn out suitcases, the symbols of every exile and diaspora. In the Eighties, other artists worked on the theme of negation of the monument as an outdated and meaningless classical form. James Young defined such works as countermonuments,6 a sort of anti-monuments or opposite monuments. One of the most representative examples is “Monument Against Fascism” (1986), by Esther and Jochen Gerz. It is a monument that was designed to disappear into the ground of the city and the citizens were invited to write comments on the pillar: “This is the meaning of what Gerz refers to as “public authorship:” making of public art a place for social dialogue, considering it not a mere activity to produce objects, but a shared process” (Grechi). This artwork, as well as many others, amongst which “Aschrott’s Fountain” (1987) by Horst Hoheisel and “Und ihr habt doch gesiegt” (1988) by Hans Haacke, express the desire to go beyond mere commemoration, in order to promote a process of elaboration of and reconciliation with the memory. In the last few years, some artists have focused on the ruins of the war, the material forms of the conflicts that characterize our landscapes. The Atlantikwall has been the object of Magdalena Jetelova’s (1994-95) and Ejdrup Hansen’s (1995) performances. In the first case, the artist projected some passages taken from the book Bunker Archeology, by French philosopher Paul Virilio (1975), on the bunker’s coarse surface, proposing a new interpretation of this changing border (Parati). In her works, Lida Abdul deals with the themes of the devastation of the war, in particular focusing on the concept of “ruin” and trying to find a potential form of healing. In What We Saw Upon Awakening, the artist
Fabio Mauri dedica molte delle sue opere ai temi della guerra, del fascismo, dell’Olocausto e del recupero della memoria storica. L’opera più significativa è “Muro Occidentale o del Pianto” (1993), una parete alta quattro metri formata da valigie vecchie e consumate simbolo di ogni esilio e diaspora. Altri artisti hanno lavorato negli anni Ottana al tema della negazione del monumento come forma classica ormai superata e senza significato. James Young ha definito queste opere counter-monument,6 una sorta di anti-monumento o monumento al contrario. Uno degli esempi più rappresentativi è il “Monument Against Fascism” (1986) di Esther e Jochen Gerz, un monumento creato per scomparire all’interno del terreno della città dove i passanti erano chiamati a lasciare dei commenti sulla colonna: “Questo è il senso di quella che Gerz chiama “public authorship:” fare della pratica artistica il luogo di un dialogo sociale, considerandola non come attività produttrice di oggetti, ma come processo condiviso” (Grechi). Quest’opera insieme a molte altre come la “Fontana di Aschrott” (1987) di Horst Hoheisel e “Und ihr habt doch gesiegt” (1988) di Hans Haacke, esprime la volontà di andare oltre la semplice commemorazione per promuovere un processo di rielaborazione e riconciliazione del ricordo. Negli ultimi anni l’attenzione di alcuni artisti ha riguardato le rovine, la forma materiale dei conflitti che caratterizza i nostri paesaggi. L’Atlantikwall è stato oggetto delle performances di Magdalena Jetelova (199495) e Ejdrup Hansen (1995). Nel primo caso l’artista ha proiettato sulla superficie ruvida dei bunker delle frasi tratte dal libro Bunker Archeology del filosofo francese Paul Virilio (1975) proponendo una ri-lettura di questo confine in trasformazione (Parati). Lida Abdul nelle sue opere affronta i temi della devastazione della guerra, in particolare riflettendo sul concetto di “rovina” e cercando di trovare una possibile forma di guarigione. In What We Saw Upon Awakening l’artista ha 273
has created a surreal vision of the deconstruction of a ruin: “what she is concerned about is the reality of the gesture—followed by the camera—of a group of men who pull on long ropes against the sky of Kabul—a constellation of rays, their intersections, a whole community involved, the sweat, the strength, the strain, the animation, the ceremonial act of love for stones” (Carotenuto). English translation: Ilaria Parini
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creato una visione surreale della decostruzione di un rudere: “ciò che le importa è la realtà del gesto, ripreso dal video, che vede irradiare le funi contro il cielo di Kabul—una costellazione di raggi, il loro incrocio, una comunità coinvolta, il sudore, la forza, lo sforzo, l’animazione, l’atto cerimoniale d’amore verso la pietra” (Carotenuto).
Notes
Note
1. http://artthrob.free.fr/wordpress/?p=1320 2. The city of Coventry was one of the first English cities to be bombed during the Second World War. For this reason, it is considered as a special place where the themes of the ruins, pain, reconstruction and reconciliation live together. 3. The title of the 7th Berlin Biennial is “Forget Fear.” The topics dealt with concern art and politics: “We want to present an impressive form of art, an art that opens the way to realize politics. These artworks – as Zmijewski explains — create political events, whether they face urgent social problems or they are connected on a long term basis to the policy of memory” (Lepri 2012, 35). 4. Tarpino 2008. 5. Ruggeri Tricoli 2009. 6. Yung 1992.
1. 2.
3.
4. 5. 6.
http://artthrob.free.fr/wordpress/?p=1320 La città di Coventry è stata una delle prime città inglesi ad essere bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale. Per questo motivo è considerata come un luogo speciale in cui convivono i temi della rovina, del dolore, della ricostruzione e riconciliazione. Il titolo della settima Biennale di Berlino è “dimenticare la paura.” I temi che affronta riguardano l’arte e la politica: “Vogliamo presentare un’arte che lasci il suo segno, che apra uno spazio per la realizzazione della politica. Queste opere—spiega Zmijewski—creano eventi politici, sia che affrontino problemi urgenti della società o siano legate più a lungo termine alla politica della memoria” (Lepri 2012, 35). Tarpino 2008. Ruggeri Tricoli 2009. Yung 1992.
References • • • • •
Assmann, Aleida. 2002. Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale. Bologna: Società Editrice il Mulino. Lepri, Paolo. 2012. “Occupy Biennale, a Berlino l’arte è politica.” Corriere della Sera. April 29. Ruggeri Tricoli, Maria C. 2009. Trauma. Memoriali e musei fra tragedia e controversia. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore. Tarpino, Antonella. 2008. Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani. Torino: Einaudi. Young, James. 1992. “The Counter-Monument: Memory Against Itself in Germany Today.” Critical Inquiry 18 (2): 267- 96.
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Iain Chambers
Ruins, Archaeology and the Postcolonial Archive Rovine, Archeologia e Archivio Postcoloniale
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… there exists no historical community that has not been born out of a relation that can, without hesitation, best be likened to war. What we celebrate under the title of founding events are, essentially, acts of violence legitimated after the fact by a precarious state of right.
… non esiste comunità storica che non sia nata da una relazione che, senza esitazione, può essere assimilata alla guerra. Ciò che celebriamo sotto l’etichetta di eventi fondativi sono, essenzialmente, atti di violenza legittimati a posteriori da un precario stato di diritto.
(Ricœur 2006, 79)
(Ricœur 2006, 79)
For, contrary to what one might think at first sight, the breaking of tradition does not at all mean the loss or devaluation of the past: it is rather likely that only now the past can reveal itself with a weight and an influence it never had before.
Perché, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare a prima vista, la rottura della tradizione non significa affatto la perdita o la svalutazione del passato: è anzi probabile che solo adesso il passato si possa rivelare con un peso e un’influenza che non aveva mai avuto prima.
(Agamben 1994, 162)
(Agamben 1994, 162)
If battlefields, war cemeteries, monuments, mausoleums and museums are physically the most obvious symbolic sites of a conflict heritage, there is also the altogether more insidious evidence that can be traced in wider, non-European, landscapes that have been riven and racialised by conflicts over the interpretation and representation of the past. The subordination of others to a particular telling of time and place, often through the deployment of racialising categories of power and value, where as Fanon reminds us in Black Skin, White Masks, to be “black” is already to be marked as the subordinated, introduces the centrality of European colonialism and imperialism to the making of modernity. This is to open up the past, its archives, monuments and processes of museumification, to novel and frequently unauthorised questions. Here, for example, certain postcolonial artistic practices and works provide and provoke a transversal passage over this terrain. To nominate a racialised space is precisely to cast considerations beyond provincial European conflict and its aftermath. To introduce race into the landscapes, memory and archives of the past, is insist on the colonial fashioning of the modern world. Behind the European strife of the Twentieth
Se campi di battaglia, cimiteri di guerra, monumenti, mausolei e musei sono fisicamente i siti simbolici più ovvi di un’eredità dei conflitti, esistono anche testimonianze assolutamente più insidiose, individuabili nei paesaggi più vasti, non europei, che sono stati divisi e razializzati dai conflitti sull’interpretazione e sulla rappresentazione del passato. La subordinazione degli altri a una particolare narrazione di tempo e luogo, spesso attraverso il dispiegamento di categorie razializzanti di potere e valore, nell’ambito della quale, come ci ricorda Fanon in Black Skin, White Masks, essere “neri” è già essere marchiati come subordinati, introduce la centralità del colonialismo e dell’imperialismo europeo nella costruzione della modernità. Si tratta allora di aprire il passato, i suoi archivi, monumenti e processi di musealizzazione, a interrogativi nuovi e spesso non autorizzati. In questo caso, ad esempio, determinate pratiche artistiche e opere postcoloniali offrono e provocano un passaggio trasversale su questo terreno. Nominare uno spazio razializzato significa proprio formulare considerazioni al di là del conflitto provinciale europeo e delle sue conseguenze. Introdurre la razza nei paesaggi, nella memoria e negli archivi del passato significa 277
century, shaped and shattered by world wars and genocide, lie the longer and deeper history of European colonialism and its imperialist apotheosis in the violent bio-politics of racist profiling and the governance of the non-European world that came home with a vengeance in the Shoah. This often unacknowledged inheritance is inscribed in the very bodies and lives that were rendered the subordinate objects of a European subjectivity. Beyond the obvious request at this point to reconfigure the historical past to accommodate, respond and take responsibility for the structural occlusion and omission of the colonised world as an actor and maker of the modern world, lies the trauma of a truncated memory. If in the depths of time there lies an archaeology of past matters, we also know that they remain, acknowledged or not, pertinent to the present. The contemporary is marked by an image of time that is always lacerated, creased and incomplete. Memory is precisely the image of the presence of that absence. As such, memory as the exercise of representation and repression reveals the “fundamental relation of history to violence” (Ricœur 2006, 79). In this sense, the radical review of the representation of the past through a postcolonial critique or a postcolonial art practice cannot simply be limited to reconsidering physical objects, now located in a diverse heuristic space. Rather, in populating the present, such bodies, memories and lives come to be profoundly interlocked in “the problematic of the representation of the past” (Ricœur 2006, xvi). This, and setting Paul Ricœur in conversation with Georges Didi-Huberman, is to encounter the “enigma of an image.” For images, even those we are most accustomed to, are loaded with time; that is, with more time that any of us can contain or comprehend.1 The power of the images lies in its potential to explode the present and exceed the consensual manner of its framing. Hence the art work—as a piece of sound or visual installation, as a novel or a painting—promotes this 278
insistere sulla modellazione coloniale del mondo moderno. Dietro il conflitto europeo del ventesimo secolo, formato e frantumato da guerre mondiali e genocidio, scorre la più lunga e profonda storia del colonialismo europeo e della sua apoteosi imperialista nella violenta bio-politica della discriminazione razzista e del governo del mondo europeo che ha avuto nella Shoah una ripercussione incredibilmente violenta. Questa eredità spesso non riconosciuta è inscritta fin nelle vite e nei corpi che sono stati resi oggetti subordinati a una soggettività europea. Al di là della richiesta, a questo punto ovvia, di riconfigurare il passato storico in modo che sia ammessa, riscontrata e fatta oggetto di responsabilità l’occlusione e omissione strutturale del mondo colonizzato come attore e fautore del mondo moderno, si pone il trauma di una memoria troncata. Se nelle profondità del tempo giace un’archeologia delle questioni passate, sappiamo che esse rimangono, riconosciute o meno, pertinenti al presente. Il contemporaneo è segnato da un’immagine del tempo che è sempre lacerata, sgualcita e incompleta. La memoria è esattamente l’immagine della presenza di quella assenza. Per questo, la memoria come esercizio della rappresentazione e della repressione rivela la “relazione fondamentale della storia con la violenza” (Ricœur 2006, 79). In questo senso, la revisione radicale della rappresentazione del passato attraverso una critica o una pratica artistica postcoloniale non può semplicemente limitarsi a riconsiderare oggetti fisici oggi collocati in uno spazio euristico differenziato. Nel loro popolare il presente, questi corpi, memorie e vite finiscono invece per essere profondamente intrecciati nella “problematica della rappresentazione del passato” (Ricœur 2006, xvi). Questo, e porre Paul Ricœur in conversazione con Georges Didi-Huberman, significa incontrare l’“enigma di un’immagine.” Perché le immagini, anche quelle alle quali siamo più abituati, sono cariche di tempo; di più tempo, cioè, di quanto ciascuno di noi possa
explosive potential. The body of the native, the indigenous, the non-European, invariably non-white, but no longer a dumb object, has today become a subjective and subjecting force that can bend and fold the imposed script of a prevalent historical and cultural intelligibility into another narrative, another telling of time and an new, unsuspected “ecology of citizenship.” Perhaps, it is important to insist at this point that the critical operation proposed here does not lie in recovering forgotten and negated artefacts, or registering an unsung history, but rather in radically reconfiguring the history we have, precisely in order to install the intervals and silences that disturb its coherence and deviate its teleology. In this scenario we touch “the legitimation of the duty of memory as a duty of justice” (Ricœur 2006, 89). The modern museum, its collections, displays and catalogues, inevitably casts its gaze backwards while seeking to dialogue with the present. It is the site of histories, memories, often of nostalgia and imagined communities. To intersect this backward trajectory with the imperatives of the present, proposing future configurations destined to uproot earlier authoritative gazes and curatorial certainties, is consciously to consider the museum as an inevitable ruin and to draw critical energy from this corpse-like condition. The references here are clearly to Walter Benjamin, and not simply to the famed angel of history staring backwards on the accumulated debris of the past while being blown ineluctably into the future, but also to the Baroque idea of the ruin as a cut or fold in time that shatters the fragile linearity of historicism. A disruption and multiplication of time finds in the ruin the accommodation of other tempos and the spaces that accommodate others. As a multiple, hence heterotopic, rather than a homogeneous utopian, space, the museum, opened to the language and prospects of ruination, secretes an unsuspected pact between the poetics of the European Baroque
contenere o comprendere.1 Il potere delle immagini sta nel potenziale di esplodere il presente e oltrepassare la modalità consensuale del suo inquadramento. In questo senso l’opera d’arte—in quanto installazione sonora o visiva, romanzo o pittura—promuove questo potenziale esplosivo. Il corpo del nativo, dell’indigeno, del non europeo, immancabilmente non bianco, ma non più oggetto muto, è diventato oggi una forza soggettiva e assoggettante che può piegare e ripiegare la sceneggiatura imposta di un’intelligibilità storica e culturale prevalente in un’altra narrativa, un altro racconto del tempo e una nuova, insospettata “ecologia della cittadinanza.” Forse è importante insistere a questo punto sul fatto che l’operazione critica qui proposta non consiste nel recuperare manufatti dimenticati e negati, o nel registrare una storia non celebrata, ma nella radicale riconfigurazione della storia che abbiamo, proprio al fine di inserire gli intervalli e i silenzi che ne disturbano la coerenza e ne deviano la teleologia. In questo scenario tocchiamo “la legittimazione del dovere della memoria come dovere di giustizia” (Ricœur 2006, 89). Inevitabilmente il museo moderno, con le sue collezioni, i suoi allestimenti e cataloghi, rivolge lo sguardo indietro anche quando cerca dialogare con il presente. È sito di storie, memorie, spesso di nostalgia e comunità immaginate. Incrociare questa traiettoria retrospettiva con gli imperativi del presente, proponendo configurazioni future destinate a sradicare sguardi autorevoli e certezze curatoriali del passato, significa considerare coscientemente il museo come un’inevitabile rovina e trarre energia critica dalla sua condizione cadaverica. Evidentemente ci riferiamo qui a Walter Benjamin, e non solo al famoso angelo della storia che volge lo sguardo indietro sulle macerie accumulate del passato pur essendo ineluttabilmente sospinto verso il futuro, ma anche all’idea barocca della rovina come taglio o piega nel tempo che frantuma la fragile linearità dello storicismo. Una disgregazione e moltiplicazione del tempo 279
and the contemporary coordinates of planetary postcoloniality. In both, individual subjectivity is displaced by claims of alterity and a mortality that exceeds the individual will. Perhaps the recognition that historical and anthropological “objects” housed in the Occidental archive have now refused such a status and insist on their rights to subjectivity and worlding the world anew from other perspectives is similar in measure to the shattering European “discovery” of both the New World and a heliocentric universe in the Sixteenth century. Perhaps. In both cases, a cut is exercised on an existing body of knowledge and power. In the resonance between the poetry of John Donne and Derek Walcott, lies the registration of worldly excess that interrogates and interrupts the stilled edification of the past organised around the positive progress of the self. At this point, it might be instructive to turn back into the spirals of the Baroque accompanied by a stranger, for example, Frantz Fanon. It has been, above all, Fanon who has taught us, as much as Foucault, about the objectification of bodies, histories and cultures, their classification and organisation in systems of power and knowledge. Of course, what Fanon teaches us is that these grids apply not only internally to Europe, but also to the non-European world that, once colonised, set in play the global formation of the modern world. These considerations alert us to geography and place, to the spatial distribution of powers and the asymmetrical exercise of knowledge. Any object, monument or museum, just like any memory or history, is inevitably caught and suspended in these networks. It is in this space, still evolving, that the work of postcolonial artists, acquires it critical edge. The art and aesthetics that emerges in this vector is not, of course, merely the symptom of this manner of thinking and perceiving the world. It does not merely drag into view and hearing the previously occluded, forgotten and negated: the return of the repressed, 280
trova nella rovina lo spazio dove collocare altri ritmi e spazi che ne ospitano altri. Come spazio multiplo, quindi eterotopico, piuttosto che omogeneo e utopico, il museo, aperto al linguaggio e alle prospettive di rovina, nasconde un patto insospettato tra la poetica del barocco europeo e le coordinate contemporanee della postcolonialità planetaria. In entrambe, la soggettività individuale è soppiantata da rivendicazioni di alterità e mortalità che oltrepassano la volontà individuale. Forse il riconoscimento che gli “oggetti” storici e antropologici custoditi nell’archivio occidentale abbiano ormai rifiutato tale status e insistano sui loro diritti alla soggettività e a proiettare il mondo in modo nuovo da altre prospettive è di una magnitudo paragonabile alla dirompente “scoperta” europea del Nuovo Mondo da un lato e di un universo eliocentrico dall’altro nel XVI secolo. Forse. In tutti e due i casi, si esercita un taglio su un corpo esistente di conoscenza e di potere. Nella risonanza tra la poesia di John Donne e quella di Derek Walcott si registra un eccesso mondano che interroga e interrompe l’edificazione placata del passato organizzata intorno al progresso positivo del sé. A questo punto, potrebbe essere istruttivo tornare alle spirali del barocco accompagnati da un estraneo, ad esempio, Frantz Fanon. È stato soprattutto Fanon ad averci insegnato, insieme a Foucault, l’oggettivazione dei corpi, delle storie e delle culture, la loro classificazione e organizzazione in sistemi di potere e conoscenza. Naturalmente, ciò che Fanon ci insegna è che queste griglie si applicano non solo all’Europa ma anche al mondo non europeo che, una volta colonizzato, ha messo in moto la formazione globale del mondo moderno. Queste considerazioni ci allertano verso la geografia e il luogo, la distribuzione spaziale dei poteri e l’esercizio asimmetrico della conoscenza. Ogni oggetto, monumento o museo, così come ogni memoria o storia, incappa inevitabilmente e resta sospeso in queste reti. È in questo spazio, ancora in evoluzione,
colonial world in the coordinates of the present. The challenge of this art lies precisely in the willingness to engage with the colonising heritage itself, with its languages, technologies, aesthetics and ethics, rerouting them through the altogether more disturbed spaces and places of a modernity that has not been, and is not always, authorised by Europe. Here the framing of both the past and the present exceeds a single point of view consigned to an institution or an individual. Such a proposal clearly does not seek to cancel the past, or simply to substitute the prevalent version with an alternative; rather, it seeks to reconfigure that past in a manner that renders it present, complex, incomplete and open to interpretations yet to come. It may well be the case that institutional practices are unable to respond to this altogether more open and unstable sense of time and place. For it proposes an uneven and discontinuous history of gaps and silences, holes that can be registered but never filled. As in Wim Wenders’ sky over Berlin (Der Himmel uber Berlin, 1987), there is a past, a memory, too vast to be owned, or rendered transparent. Considered as a ruin, and the site of mourning and potential reworking, the past and its institutional representations, is neither closed nor conclusive. The historical space becomes the place and site of an impossible recovery. Figuring the traces of absences that constitute a sedimented presence—negated, displaced—postcolonial art promotes a reconfiguration of the history and culture that previously refused the claims of the occluded on the present and the future. This means to re-propose and re-present the historical past—its framings and explanations—as a apparatus of power, and render critical the institutional labels of history, culture, tradition and identity that it sustains. It is surely more significant at this point to abandon the prevalent narrative in the gardens of historicism and to lean into the margins, there to catch the whiff of a counter-historiography. Today, it is impossible to
che l’opera degli artisti postcoloniali acquista spessore critico. L’arte e l’estetica che emerge in questo vettore non è, naturalmente, solo il sintomo di questo modo di pensare e percepire il mondo. Non si limita a trascinare alla luce e all’ascolto ciò che in passato era occluso, dimenticato e negato: il ritorno del represso mondo coloniale nelle coordinate del presente. La sfida di questa arte sta proprio nella volontà di affrontare la stessa eredità colonizzante, con le sue lingue, tecnologia, estetica ed etica, deviandole attraverso gli spazi e i luoghi decisamente più disturbati di una modernità che non è stata, e continua a non essere, autorizzata dall’Europa. In questo caso l’inquadramento simultaneo di passato e presente oltrepassa un punto di vista univoco consegnato a un’istituzione o a un individuo. Tale proposta chiaramente non punta a cancellare il passato, o semplicemente a sostituire la versione prevalente con una alternativa; punta invece a riconfigurare quel passato in modo da renderlo presente, complesso, incompleto e aperto a interpretazioni ancora inespresse. È molto probabile che le pratiche istituzionali siano incapaci di rispondere a questa visione del tempo e del luogo assolutamente più aperta e instabile perché propone un storia irregolare e discontinua di fessure e silenzi, buchi che possono essere registrati ma mai colmati. Come nel cielo sopra Berlino di Wim Wenders (Der Himmel uber Berlin, 1987), si tratta di un passato, di una memoria, troppo vasti per essere appropriati, o resi trasparenti. Considerato una rovina, e sito di lutto e potenziale rielaborazione, il passato e le sue rappresentazioni istituzionali non è mai chiuso o conclusivo. Lo spazio storico diventa il luogo e il sito di un recupero impossibile. Nel ricostruire le tracce di assenze che costituiscono una presenza sedimentata—negata, rimossa—l’arte postcoloniale promuove una riconfigurazione della storia e della cultura che in passato rifiutava le rivendicazioni degli occlusi in merito al presente e al futuro. Ciò significa riproporre e ripresentare il passato storico—i suoi inquadramenti e 281
pretend to narrate the past, to explore the archive, to mine memory, after Nietzsche and Freud, after Gramsci and Benjamin, after Derrida and Foucault, as though we are dealing with dead objects to be grasped and revealed in the seemingly neutral language of a knowledge—“history” —guaranteed by the scholarly protocols of the human and social “sciences.” All of these terms—history, human, archive, memory, social, science—are susceptible to interrogation, interruption, contestation and reconfiguration. Recently, the Italian philosophy Roberto Esposito has rightly suggested that the necessary contestation of this historicist reasoning should be cast further back to the initial chapters of Occidental modernity to include Nicolò Machiavelli, Giordano Bruno and Giambattista Vico: all thinkers who based their thinking on the contingent and the complexities that escape both subjective and conceptual arrest.2 Opposed to an immunology sought in the conceptual solidity of the Cartesian subject, the Hobbesian state and their subsequent reconfirmation by historicism and its liberal epistemology, we find ourselves confronting the unguaranteed and dynamic renewal of individual and collective potentialities without the protection of conservative concepts that seek to still time and control contingency. Registering the traces of an other history, the history of silence and oblivion, the aesthetic gesture is simultaneously an ethical one. Re-proposing and reconfiguring a past in the light of the excluded is to transform the art object into a subjectivising force in which we are invited not so much to think of art, but rather to think with art. The Kantian divide between the observing subject and the object contemplated is here undone as we are carried into another space, sustained in another telling of time and place: a new and unsuspected right to narrate. It is not accidental that so much postcolonial art is not simple figural, restricted to painting and sculpture, but increasingly tends towards the 282
spiegazioni—come apparato di potere, e rendere critiche le etichette istituzionali di storia, cultura, tradizione e identità che esso sostiene. È sicuramente più significativo a questo punto abbandonare la narrativa prevalente nei giardini dello storicismo e spingersi ai suoi margini per cogliere il sentore di una controstoriografia. Oggi è impossibile fingere di narrare il passato, esplorare l’archivio, scavare nella memoria, dopo Nietzsche e Freud, dopo Gramsci e Benjamin, dopo Derrida e Foucault, come se fossimo di fronte a oggetti morti da afferrare e rivelare nel linguaggio apparentemente neutro di una conoscenza—la “storia”—garantita dai protocolli accademici delle “scienze” umane e sociali. Tutti questi termini—storia, umano, archivio, memoria, sociale, scienza—sono suscettibili di interrogazione, interruzione, contestazione e riconfigurazione. Recentemente il filosofo italiano Roberto Esposito ha giustamente proposto di spostare ancor più indietro nel passato la necessaria contestazione di questo ragionamento storicista, fino ai capitoli iniziali della modernità occidentale così da includere Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno e Giambattista Vico: tutti pensatori che fondarono il loro pensiero sul contingente e sulle complessità che sfuggono la sospensione sia soggettiva che concettuale.2 Contrari a un’immunologia ricercata nella solidità concettuale del soggetto cartesiano, dello stato hobbesiano e la loro conseguente riconferma da parte dello storicismo e della sua epistemologia liberale, ci troviamo ad affrontare il rinnovamento non garantito e dinamico di potenzialità individuali e collettive senza la protezione di principi conservatori che puntano a fermare il tempo e controllare la contingenza. Nel registrare le tracce di un’altra storia, la storia del silenzio e dell’oblio, il gesto estetico diventa al contempo gesto etico. Riproporre e riconfigurare un passato alla luce degli esclusi significa trasformare l’oggetto artistico in una forza soggettivizzante nella quale siamo invitati non tanto a pensare all’arte quanto a pensare con l’arte. Il divario kantiano tra
multimedial in which audio-visual installations are transformed into multisensory, even disorientating, environments. At this point we return to the Nietzschean proposal that aesthetics is not, as Kant insisted, about disinterested contemplation. Aesthetics is about power, about the power of art and the magical violence that was feared by Plato and embraced by Artaud. Also, and by no means separate from that magic, art is about the networks of power in which we all suspended, sustained and explained. This is simply, but crucially, to argue that art is not about the disinterested object of beauty but, subtracted from metaphysics and returned to life, is a violent disturbance. Art is necessarily an anti-social activity that refuses to reproduce the consensus, and ultimately, in refusing to remain the object of subjective contemplation, stages a critique of humanism. As Giorgio Agamben has put it, the problem of art today is the destruction of the aesthetic (Agamben 1994, 65). While Agamben muses on the fall-out of this destruction, and the fact that it might simply lead to the dissipation of all possibilities of comprehending art, that is, the end of the practice and perspective of art itself; it might be the case to transfer the question to a more extensive map. The disenchantment and destruction of the Kantian aesthetic, and the irreversible disturbance in the subjectobject relationship of power, brought on by the art work that exceeds our conceptual control, is perhaps best understood as an allegory of a world that is irreducible to a singular point of view. A world in which other bodies, lives, histories and cultures were reduced to objects of aesthetic and intellectual contemplation, were reduced to military, economical, political and academic discipline, is part of a colonial enterprise that is now unwinding. The excavation of that history of power and museumology, of its archiving powers and violence, can hardly be said to be complete; it has only just begun. To register that violence—“the violence of the archive itself,
soggetto che osserva e oggetto contemplato risulta quindi annullato nel momento in cui siamo trasportati in un altro spazio, sostenuti in un altro racconto del tempo e del luogo: un diritto nuovo e insospettato di narrare. Non è un caso che tanta arte postcoloniale non sia puramente figurativa, limitata a pittura e scultura, ma sempre incline a un multimediale nel quale le installazioni audio-video sono trasformate in ambienti multisensoriali anche disorientanti. Torniamo a questo punto alla proposta nietzschiana secondo la quale l’estetica non è, come sosteneva Kant, contemplazione disinteressata. L’estetica è potere, il potere dell’arte e la magica violenza temuta da Platone e auspicata da Artaud. L’arte riguarda anche, e in modo per nulla separato da quella magia, le reti di potere nelle quali siamo tutti sospesi, sostenuti e spiegati. Ciò significa semplicemente, ma in modo cruciale, sostenere che l’arte non riguardi l’oggetto disinteressato della bellezza ma che essa, sottratta alla metafisica e restituita alla vita, sia un disordine violento. L’arte è necessariamente un’attività anti-sociale che rifiuta di riprodurre il consenso, e in ultima istanza, nel rifiutare di rimanere oggetto di contemplazione soggettiva, mette in scena una critica dell’umanesimo. Come ha scritto Giorgio Agamben, il problema dell’arte oggi è la distruzione dell’estetica (Agamben 1994, 65). Mentre Agamben medita sulla ricaduta di questa distruzione, e sul fatto che potrebbe semplicemente portare alla dissoluzione di tutte le possibilità di comprendere l’arte, vale a dire alla fine della pratica e della prospettiva dell’arte in quanto tale, è forse il caso di trasferire la questione su una mappa più estesa. La disillusione e la distruzione dell’estetica kantiana, e l’irreversibile sovvertimento della relazione di potere soggetto-oggetto compiuto dall’opera d’arte che sfugge al nostro controllo concettuale trova forse l’interpretazione migliore come allegoria di un mondo che è irriducibile a un punto di vista univoco. Un mondo nel quale altri corpi, vite, storie e 283
as archive, as archival violence” (Derrida 1998, 7)—is to register an epistemological cut or wound on the body of the modern occidental subject that has rendered the world and its inhabitants an object. As Frantz Fanon frequently pointed out, the “epistemological violence” (Gayatri Chakravorty Spivak) of coloniality cuts both ways. If colonial violence on others betrayed a planetary intention, it also seeded the structural violence of global modernity in which we ourselves are subjugated and subjectified. This is not to return art, now stripped on humanist illusions, to a simple renovation. Rather, the art discourse itself, as practice and institution, as gallery space and museum archive, as aesthetic and commercial value, is pushed beyond the critical confines of self-confirmation. It is deterritorialised. Today, “our appreciation of art necessarily begins with our cancellation of art” (Agamben 1994, 65); it is, as it were, under erasure. It is in this altogether less guaranteed space that a postcolonial cut exposes art, along with the memories and histories that vibrate in the image, to the tempos and spatialities of an altogether less controlled territory. This is the postcolonial cut, perhaps barely acknowledged, occasionally tacked on as an innovative turn or, more simply, ignored, and yet structurally inscribed in a modernity that is not only of our making. Uncoupling art from the Kantian aesthetics, and acknowledging art working3 in a composite planetary modernity, is to subvert art by art. For the question of art, the histories and memories sustained in the image, become part of a wider critical detour that takes us into a postcolonial problematic. Here the potential and power of the image— as artistic practice, as presumed aesthetic object, as historical testimony—has now to respond to an altogether more worldly series of coordinates. The critical guarantees of an aesthetic secured in the measurements of Occidental humanism and the abstract rule of its reason becomes itself a ruin, an archive: 284
culture sono stati ridotti a oggetti di contemplazione estetica e intellettuale, alla disciplina militare, economica, politica e accademica, fa parte di un’impresa coloniale che si sta ora smontando. Non si può certo dire che lo scavo di questa storia di potere e museologia, dei suoi poteri e violenza d’archivio sia completo: è appena cominciato. Registrare quella violenza—“la violenza dell’archivio stesso, come violenza, come violenza d’archivio” (Derrida 1998, 7)—significa registrare un taglio o una ferita epistemologica nel corpo del soggetto occidentale moderno che ha reso il mondo e i suoi abitanti un oggetto. Come ha spesso sottolineato Frantz Fanon, la “violenza epistemologica” (Gayatri Chakravorty Spivak) della colonialità è un’arma a doppio taglio. Se la violenza coloniale sugli altri tradiva un’intenzione planetaria, seminava anche la violenza strutturale della modernità globale nella quale noi stessi siamo soggiogati e soggettivizzati. Non si tratta di ridurre l’arte, ormai spogliata di illusioni umaniste, a semplice ristrutturazione. Il discorso artistico in sé, come pratica e istituzione, come spazio espositivo e archivio museale, come valore estetico e commerciale, è invece spinto oltre i confini critici dell’auto-conferma. È deterritorializzato. Oggi, “per apprezzare l’arte dobbiamo necessariamente partire dal cancellare l’arte” (Agamben 1994, 65); si tratta, di fatto, di un’obliterazione. È in questo spazio assolutamente meno garantito che un taglio postcoloniale espone l’arte, insieme alle memorie e alle storie che vibrano nell’immagine, ai ritmi e alle spazialità di un territorio assolutamente meno controllato. Questo è il taglio postcoloniale, forse a malapena riconosciuto, occasionalmente etichettato come una svolta innovativa o, più semplicemente, ignorata, eppure strutturalmente iscritta in una modernità che non è frutto solo della nostra azione. Far divorziare l’arte dall’estetica kantiana, e riconoscere il lavoro artistico3 in una modernità planetaria composita, è sovvertire l’arte attraverso l’arte. Perché la questione dell’arte, delle storie e memorie sostenute
it is certainly not cancelled, but neither can it be restored. At this point, as Giorgio Agamben has pointed out, the archive becomes a permanent interrogation of the status of the original and the metaphysical assumptions that saturate it.4 The transformation of the image-objects into words and explanation, into discourse, becomes altogether more fraught. To interrupt the discursive frame is to permit the transit and translation of a body of words into another, inconclusive, space that troubles, disrupts and exceeds the museum and the monument’s desire for conceptual stability and semantic stillness. In this dissemination and dispersal of the object’s referentiality, we are left, as Jacques Derrida reminds us, with a trace of what can never be recovered yet still persists in time as an interrogation, a potential interruption. The presence of this trace splits and divides the present, and memory becomes the rupture of organised time. Time is ruffled, folded, split and cut: Since the past is constituted not after the present that it was but at the same time, time has to split itself in two at each moment as present and past, which differ from each other in nature, or, what amounts to the same thing, it has to split the present in two heterogeneous directions, one of which is launched towards the future while the other falls into the past […] Time consists of this split […]. (Deleuze 1989, 65) In a multimedia installation from 1997— Relocating the Remains (subsequently transformed into a book and accompanying CD-ROM: Piper 1997) the black British artist Keith Piper reworks the scattered inheritance and memories of the black Atlantic into an alternative telling of modernity.5 Via sound and image we are drawn into an uncomfortable and disturbing series of passages in which the usually marginalised phenomena of modernity, generally relegated to an unfortunate socio-economic detail, is re-centred. Race, racism and the diaspora accompanying the journey into slavery become
nell’immagine, diventano parte di una deviazione critica più ampia che ci porta a una problematica postcoloniale. Qui il potenziale e il potere dell’immagine—come pratica artistica, come presunto oggetto artistico, come testimonianza storica—deve ora rispondere a una serie di coordinate nettamente più secolari. Le garanzie critiche di un’estetica assicurata alle misure dell’umanesimo occidentale e alla regola astratta della sua ragione diventa a sua volta una rovina, un archivio: certamente non è cancellata ma nemmeno può essere restaurata. A questo punto, come ha fatto notare Giorgio Agamben, l’archivio diventa un’interrogazione permanente dello status dell’originale e delle ipotesi metafisiche che lo saturano.4 La trasformazione degli oggetti-immagine in parole e spiegazione, in discorso, diventa assolutamente più inquieta. Interrompere il quadro discorsivo significa permettere il transito e la traduzione di un corpo di parole in un altro spazio non conclusivo che turba, dissesta e oltrepassa il museo e il desiderio del monumento di stabilità concettuale e fermezza semantica. In questa disseminazione e dispersione della referenzialità dell’oggetto, rimaniamo, come ci ricorda Jacques Derrida, con una traccia di ciò che non potrà mai essere recuperato eppure persiste ancora nel tempo come un interrogativo, una potenziale interruzione. La presenza di questa traccia separa e divide il presente, e la memoria diventa una rottura del tempo organizzato. Il tempo risulta sgualcito, piegato, diviso e tagliato: “dato che il passato è costituito non dopo il presente che è stato ma simultaneamente, il tempo deve separarsi in due in ogni momento come presente e passato, che differiscono l’uno dall’altro per natura o, cosa che si traduce nello stesso risultato, deve separare il presente in due direzioni eterogenee, una lanciata verso il futuro e l’altra ricadente nel passato […] Il tempo è formato da questa separazione […]” (Deleuze 1989, 65). In un’installazione multimediale del 1997— Relocating the Remains (successivamente 285
the trope of telling the history of Occidental modernity: the realisation of its political economy, of its democracies and cultural formations around the shores of the modern Atlantic world. Here Africa and the Americas, geographically distanced from Europe, and seemingly peripheral to metropolitan concerns and lives, become dramatically proximate. More than that, these apparently distant shores and histories are revealed to be integral to a modernity that has historically and culturally sought to marginalise, subordinate, if not to cancel and negate, such matters. The temporal and physical distances calculated by geography and Greenwich are overlaid and confuted by maps of bio-political power that render the subordinate, subaltern and enslaved body intimate: the pristine corpus of the West turns out to have always been inhabited by others. The rationalisation of goods and bodies—on the slave ship, in the plantation system and its anticipation of factory labour—promotes a capitalist accumulation that realises the political economy of the modern Atlantic world, and, ultimately, planetary modernity. This world of obscured labour requisitions the present with the unwelcomed work of memory. He or she who was once simply othered and objectified as “black,” slips out and beyond the hierarchies of “race” to challenge the categories and concepts that reduced him or her to bondage. As a “song of freedom” (Bob Marley), the workings of art redeem the past from the chains of “mental slavery” (ibid), promoting forgotten bodies, histories and lives to interrogate and interrupt the present. Dead matter becomes a living archive. The forgotten and forsaken line memory with an unsolicited insistence. That dark time returns and the body of the past refuses burial. Just as with a baroque tombeau, there emerges out of the recesses of time another time; a time sustained in fragments— of sounds and signs, of voices and lives, of remainders and reminders—that punctuate the present. Through such holes in time, cuts in 286
trasformata in un libro con CD-ROM: Piper 1997) l’artista inglese nero Keith Piper rielabora l’eredità e le memorie disperse dell’Atlantico nero in un serie scomoda e inquietante di passaggi nei quali risultano ricentrati i fenomeni normalmente marginalizzati della modernità,5 in genere relegati a sconveniente dettaglio socio-economico. Razza, razzismo e la diaspora che accompagna il viaggio nella schiavitù diventano il tropo del racconto della storia della modernità occidentale: la realizzazione della sua economia politica, delle sue democrazie e formazioni culturali intorno alle coste del mondo atlantico moderno. Qui l’Africa e le Americhe, geograficamente distanziate dall’Europa, e apparentemente periferiche rispetto agli interessi e alle vite metropolitane, diventano drammaticamente prossime. Non solo, queste coste e storie apparentemente distanti sono rilevate come parte integrante della modernità che ha storicamente e culturalmente tentato di marginalizzare, subordinare, se non cancellare e negare, tali questioni. Le distanze temporali e fisiche calcolate dalla geografia e da Greenwich sono coperte e confutate dalle mappe del potere bio-politico che rendono intimo il corpo subordinato, subalterno e schiavizzato: il corpo immacolato dell’occidente risulta essere da sempre abitato da altri. La razionalizzazione di beni e di corpi—sulla nave negriera, nel sistema delle piantagioni e nel suo precorrere il lavoro industriale—promuove un’accumulazione capitalista che realizza la politica economica del mondo atlantico moderno e, in ultima istanza, della modernità planetaria. Questo mondo di lavoro oscurato requisisce il presente con l’opera non benvenuta della memoria. Gli uomini e le donne che in passato erano semplicemente “altri,” oggettivizzati come “neri,” scivolano al di fuori e oltre le gerarchie della “razza” fino a sfidare le categorie e i concetti che li avevano ridotti in catene. Come una “song of freedom” (Bob Marley), il lavorio dell’arte redime il passato dalle catene della “mental slavery” (ibid),
the narrative seeking a self-confirming conclusion, Piper’s work leaves us suspended in the crisscrossing of passages between an unregistered and unreconciled past and a future justice. The present fragments, for there is no consolation, no conclusive return home. Or, rather, it is precisely this condition, critically cut and historically set adrift from the comfort of previous moorings that now becomes our home.
promuovendo corpi, storie e vite dimenticate al fine di interrogare e interrompere il presente. La materia morta diventa un archivio vivente. I dimenticati e gli abbandonati rivestono la memoria con un’insistenza non richiesta. Quel tempo oscuro ritorna e il corpo del passato rifiuta la sepoltura. Come in un tombeau barocco, un altro tempo emerge dai recessi del tempo; un tempo sostenuto a frammenti—di suoni e segni, di voci e vite, di resti e mementi—che punteggiano il presente. Attraverso questi buchi nel tempo, tagli nella narrativa che cerca una conclusione auto-confermante, l’opera di Piper ci lascia sospesi nel reticolato di passaggi tra un passato non registrato e non riconciliato e una giustizia futura. Il presente si frammenta, perché non esiste consolazione, nessun ritorno a casa definitivo. O meglio, la nostra casa diventa ora proprio questa condizione, criticamente tagliata e storicamente mandata alla deriva dal conforto di precedenti approdi. Traduzione italiana: Antonella Bergamin
Notes
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Didi-Huberman 2000. Esposito 2011. Ettinger 2006. Agamben 1994. Piper 1997.
Didi-Huberman 2000. Esposito 2011. Ettinger 2006. Agamben 1994. Piper 1997.
References • • • • • • • • •
Agamben, Giorgio. 1994. L’uomo senza contenuto. Macerata: Quodlibet. Deleuze, Gilles. (1985) 1989. Cinema 2: The Time-Image. Translated by Hugh Tomlinson and Robert Galeta. Minneapolis: University of Minnesota Press. Ettinger, Bracha. 2006. The Matrixial Borderspace. Minneapolis: University of Minnesota Press. Derrida, Jacques. 1998. Archive Fever. A Freudian Impression. Translated by Eric Prenowitz. Chicago: University of Chicago Press. Didi-Huberman, Georges. 2000. Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des Images. Paris: Éditions de Minuet. Esposito, Roberto. 2011. “Fortuna e politica all’origine della filosofia italiana.” California Italian Studies 2 (1). Accessed April 24, 2012. http://escholarship.org/uc/item/5ht7n7p4 Piper, Keith. 1997. Relocating the Remains. London: Institute of International Visual Arts. Tolia-Kelly, Divya Y. 2010. Landscape, Race and Memory. Farnham: Ashgate. Ricœur, Paul. 2000. La mémoire, l’histoire, l’oubli. Paris: Edition du Seuil. Translated by Kathleen Blainey and David Pellauer as Memory, History, Forgetting (Chicago: University of Chicago, 2006). 287
Silvana Carotenuto
A “Treatise” on Ruins: the Loving Work of Lida Abdul Un “Trattato” sulle Rovine IL lavoro di Lida Abdul
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Ruin is not a negative thing. First, it is obviously not a thing. One could write [...] a short treatise on the love of ruins. What else is there to love, anyway? One cannot love a monument, a work of architecture, an institution as such except in an experience itself precarious in its fragility: it has not always been there, it will not always be there, it is finite. And for this very reason one loves it as mortal, through its birth and its death, through one's own birth and death, through the ghost or the silhouette of its ruin, one’s own ruin [sa ruine] – which it already is, therefore, or already prefigures. How can one love otherwise than in this finitude?
La rovina non è una cosa negativa. Innanzitutto, non è evidentemente una cosa. Si potrebbe scrivere [...] un breve trattato sull’amore per le rovine. D’altronde, cosa si può amare di un altro? Si può amare un movimento, un’architettura, un’istituzione come tale solo nell’esperienza a sua volta precaria della sua fragilità. Essa non è sempre stata là, non sarà sempre là. È finita. E per ciò stesso la si ama come mortale, attraverso la sua nascita e la sua morte, attraverso il fantasma o la sagoma della sua rovina, della mia – che dunque essa è o prefigura di già. Come amare altrimenti se non in questa finitezza? Da dove verrebbe altrimenti il diritto di amare, l’amore per il diritto?
(Derrida 2003, 144)1
(Derrida 2003, 144)1
Lida Abdul is a young but already affirmed artist who works in multimedia art; I would like to present her work as if it constituted a brief “Treatise” on ruins, by trying to show how the “fragility” which Jacques Derrida speaks about, is the object—actually, the “subject”—of her creative love.2 Lida Abdul was born in 1973, in Kabul, Afghanistan, “a land that needs much attention” as she claims (Serminato, 2006). During the Russian invasion, she emigrated to India, to Germany, then to the United States, Los Angeles, where she studied art, philosophy, and political science, and where she presented her first works. After the Taliban fall, Abdul went back home, and moved to live in Kabul. The experience—some would say that the “ruin is experience itself ”3—of exile and of her going back home have intensely marked Abdul’s artistic meditation: she has discovered that the fact of belonging to more than one world, and of being a “guest” in the countries that hosted her, where she never resided permanently, but always productively, enriched her sensibility, intelligence, strength and attention. Indeed, such condistions exposed her to a “provisionality” that, although difficult to live in, linked her to a vast, global, and creative actuality. “In-betweeness,” says
Lida Abdul è una giovane ma affermata artista che opera nell’arte multimediale; vorrei presentarne il lavoro come un breve “Trattato” sulle rovine, cercando di mostrare quanto la “finitezza” di cui parla Jacques Derrida sia l’oggetto—il soggetto, in realtà—del suo amore creativo.2 Lida Abdul nasce nel 1973, a Kabul, in Afghanistan, in “una terra che necessita tanta attenzione” dice l’artista (Serminato, 2006); durante l’invasione russa, emigra in India, in Germania, quindi negli Stati Uniti, a Los Angeles, dove studia arte, filosofia e scienze politiche, e dove espone le sue prime opere; dopo la caduta dei talebani, Abdul torna a Kabul e vi si trasferisce stabilmente. L’esperienza—se è vero che “La rovina è l’esperienza stessa”3— dell’esilio e del difficile ritorno “a casa” ne segna la meditazione in modo intenso: l’artista scopre che l’appartenenza a più mondi e culture, che l’essere “ospite” nelle terre che l’ospitano e in cui risiede mai stabilmente ma sempre produttivamente, in realtà, arricchiscono la sua sensibilità, la sua intelligenza, la forza e l’attenzione, esponendola a una “provisionalità” che, per quanto complessa da vivere, può legarla creativamente a una attualità vasta, globale, nomade e creativa—l’“in-betweeness,” dice Abdul, sta divenendo “norma” nel 289
Lida Abdul, Dome, 2005. Single-channel digital video , 4 minutes 50 seconds, 4:3, colour, sound. Courtesy the artist and Anna Schwartz Gallery
Abdul, is becoming the norm today.4 This made her perceptive of a singular, specific and unique focus: the “empty” and “blank” spaces, that “nothing” that leaves behind a trace of its own ruin: In my work, I try to juxtapose the space of politics with the space of reverie; the space of shelter with that of the desert. I try to perform the “blank spaces” that are formed when everything is taken away from people. How do we come face to face with “nothing” with “emptiness” where there was previously something. I was a refugee myself for several years, moving from one country to another, aware that at every juncture I was a guest, who at any moment might be asked to leave. The refugee’s world is a portable one, allowing for easy movements between borders. It is one that can be taken away as easily as it was given: provisionally and with little anxiety on the part of the host. (Abdul, 2007)5 The lived experience, the received and 290
tempo presente4—rendendola percettiva, in modo acuto, a un focus specifico e unico—i “vuoti,” gli “spazi bianchi,” il “nulla” che lascia dietro di sé la traccia della sua rovina: Nel mio lavoro, cerco di giustapporre lo spazio della politica allo spazio del sogno: lo spazio del rifugio con quello del deserto. Cerco di mettere in opera gli “spazi vuoti” che si formano quando si sottrae qualcosa alla gente. Il modo in cui ci confrontiamo con il “niente,” il “vuoto,” là dove prima c’era qualcosa. Io stessa sono stata una rifugiata per molti anni, muovendomi da un paese a un altro, consapevole che a ogni giuntura avrebbero potuto chiedermi di andarmene. Quello del rifugiato è un mondo portatile, che permette una certa mobilità tra le frontiere. E’ un mondo che si può perdere semplicemente come è stato acquisito; in modo provvisorio, con poca ansietà da parte dell’ospite. (Abdul, 2007)5 L’esperienza vissuta, l’ospitalità ricevuta e quell’offerta alla poetica della rovina: Abdul
offered hospitality to a poetics of ruins— Abdul loves what is lost and what remains, the fragmentation, the impossibility of closing history by erasing the uniqueness of the rest—without subjecting the love for ruins to any simple didactic or ideological vindication, but by offering it as a chance of art, experimentation, and experience: “the ruins […] carry for me the memory of something lost, yet at the same time they are reminders of what is no longer there. A fragment. Yet complete in its own way because any attempt to fix it, will erase its uniqueness. It teaches nothing, except that what was once is gone and the only way to approach it is through art without direct reference to an event” (MacGilp, 2007). Abdul’s question is clear: “Why can’t a ruin itself be transformed into a meditation on something other […] a visual or sculptural poem that one hopes will open up new spaces for rethinking about society, about ethics and identity itself ?” (Abdul, 2007b). The visual or sculptural poem, the opening of new spaces for rethinking society, ethics and identity—the “Treatise” of Abdul’s love for the ruins is dedicated to this project of creation, opening and reflection: the first chapter is dedicated to the ruin and diasporic identity; the Afghani society and the ruining of its country open the second chapter; the ethics of care and attention to the material, human and historical remains, close its recent performative writing. In this essay, I will only present some of the pages of this “Treatise,” focusing briefly on Abdul’s American production, and on the works she produced in Afghanistan, and highlighting a detaching movement from the ruins where Abdul sees the emergence of new lines of experimentation (in fact, an increase in responsibility)—so that her art can keep the critical and political commitment of her visuality persistently open to the future. I would like to anticipate that, just like “the ruins order and deconstruct,” the chapters of Abdul’s “Treatise” order her artistic production, and, at the same time, they also
ama ciò che è perso, ciò che resta, la frammentazione, l’impossibilità di chiudere la storia cancellando l’unicità del “resto”—senza assoggettare l’amore per la rovina a facili didattismi o a politiche rivendicative, ma offrendolo come una occasione d’arte, di sperimentazione, di esperienza: “le rovine […] per me portano il ricordo di qualcosa che si è perso, e anche allo stesso tempo sono ‘remainders’ di ciò che non è più là. Un frammento. Ma completo a suo modo, perché ogni tentativo di fissarlo ne cancella l’unicità. Esso non insegna nulla, tranne che ciò che esisteva una volta se ne è andato, e il solo modo di avvicinarlo è tramite l’arte che non fa diretto riferimento a alcun evento” (MacGilp, 2007). La domanda di Abdul è chiara e forte: “Perché non è possibile trasformare la rovina in una meditazione su qualcos’‘altro’ […] in un poema visuale o sculturale che, si spera, aprirà nuovi spazi per ripensare la società, l’etica e la stessa identità?” (Abdul, 2007b). Il poema visuale e sculturale, l’apertura di nuovi spazi per ripensare la società, l’etica e l’identità—il “Trattato” d’amore per le rovine di Abdul si dedica a questo progetto di creazione, di apertura e di riflessione: la rovina e l’identità diasporica intitolano il primo capitolo; la società afgana e la rovina della sua terra aprono il secondo mondo trattato; l’etica di cura e di attenzione per i resti materiali, umani e storici, chiude la sua recente scrittura performativa. Vorrei qui aprire soltanto qualche pagina di questo “Trattato,” suddividendolo in una breve lettura dell’iniziale produzione americana dell’artista, in una trattazione delle opere realizzate al ritorno a Kabul—vividamente espressive della vicinanza di Abdul con il disastro della sua terra d’origine—per indicare, infine, il movimento di distanziamento dalla stessa rovina e cogliervi l’emergenza di linee di fuga (in realtà, un intensificarsi di responsabilità) con cui l’arte di Abdul cerca di mantenere aperta la vocazione autobiografica, critica e politica, della sua arte. Vorrei soltanto anticipare che, se “la rovina ordina e decostruisce,” i capitoli del “Trattato” 291
animate, disorder, and deconstruct it, thanks to an intellectual vivacity, an attention to the forms of her technique (the video, and the time of its construction), the return—a fold, a wound, the artistic re-flection—to the places of the ruin itself, which, in its ruining process, allows Abdul’s art to remain open to newness and to otherness. Autobiography in ruin Jacques Derrida, by dealing with the art of drawing, states that “at the origin comes ruin; ruin comes to the origin, it is what first comes and happens to the origin, in the beginning” (Derrida 2003,87).6 Lida Abdul begins her “Treatise” starting from herself, placing her identity on the threshold of the ruins of all foundations: one of her first works is entitled “Self portrait” (1997), and shows the artist with two eggs on her eyes—the image seems to be a reference to Piero Manzoni (Caragliano-Cervasio 2007, 20); in fact, it suggests a structural “blindness,” a quasiorganic expropriation, which is cultural and technical, and, in any case, linked to an internal vision that searches for its ruined trait, moving blindly into the world. This is the start, the beginning of her love for ruins—for instance, those related to the “book,” to “culture:” in “Four Month Performance” (1998), Abdul tears the pages of a book leaving its borders intact—the action is a ruined memory of her uncle whose books had to be burned to protect him from the Afghani police; at the same time, it indicates that culture can be an “empty box” where we can engrave new signs, new languages, and new visions. These could be “gendered” acts, as in “My city has no monuments,” (1999) where a man mistreats a woman who is destroying the copies of some classical pieces of art; in “The Black and White Wheel” (2001), the picture of the mosque where the artist used to go when she was a child comes out from the mouth of the same woman; in “Global Porn” (2004), from the same mouth honey comes out. These 292
di Abdul ordinano lo sviluppo della sua arte, e, allo stesso tempo, lo animano, lo disordinano, lo decostruiscono, in virtù di una vivacità intellettuale, di un’attenzione alle forme specifiche della tecnica del video e del tempo della sua costruzione, il ritorno—una piega, la piaga, la ri-flessione artistica—sui luoghi della rovina, in un loro stesso rovinarsi che permette alla creazione di aprirsi al nuovo e all’altro. Autobiografia in rovina Jacques Derrida, esprimendosi sull’arte del disegno, afferma che “All’origine vi fu la rovina. All’origine accade la rovina, la rovina è ciò che accade per prima cosa, all’origine dell’opera” (Derrida 2003, 87).6 Lida Abdul inizia il suo “Trattato” a partire da sé, dalla posizione di un’identità posta sulla soglia della rovina di ogni fondamento o fondamenta: una delle prime opere è intitolata “Self Portrait” (1997), e immortala l’artista con gli occhi coperti da due uova—l’immagine può riferirsi a Piero Manzoni (Caragliano-Cervasio 2007, 20); in realtà, sembra suggerire una “cecità”— “blindness”—strutturale, un’espropriazione quasi-organica, certo culturale e tecnica, in ogni caso legata a una visione interna, alla ricerca di un tratto rovinoso e rovinato, che si muove a tentoni nel mondo. E’ l’inizio, il cominciamento, dell’amore per le rovine—ad esempio, quelle che riguardano il “libro,” la cultura: in “Four Month Performance” (1998), Abdul strappa le pagine di un testo, lasciandone intatto il bordo—l’azione è la memoria rovinosa dei libri dello zio, distrutti per salvaguardarlo dalla polizia afgana, ma anche l’indicazione che la cultura non è altro che una “scatola” vuota entro cui poter incidere altri segni, altri atti, lingue diverse, attenzioni nuove. Saranno gli atti della differenza di genere, come mostra “My City Has No Monuments” (1999), in cui un uomo tratta violentemente una donna che strappa le foto di alcune opere d’arte classiche; dalla bocca della stessa donna, in “Global Porn,” fuoriesce del miele; in “The Black and White Wheel” (2001), dalla stessa
brief works, in fact, announce that there can be a critical refusal of a religious, male and patriarchal culture, but that, at the same time, this can also mark the emergence of a technique, the technical apparatus of the “wheel:” in “House Wheel” (2003) Abdul drags a small house, the toy of a portable house—the ruin is original, it resides at the origin, allowing its own reflection in acts of destruction and critique but, also, a creativity linked to the “provisionality” of the biographical experience of the one who feels, experiences and loves the ruins. From “miniature” to “real size” In 2005, Abdul was invited to the Venice Biennale, in a pavilion dedicated to Afghanistan for the first time. Actually, Abdul had in the meantime moved to Kabul, as she decided to live among the ruins of her country. Her passage through the various countries of her diaspora, her coming back “home,” and her proximity to the disaster, in fact, have unavoidably left evident traces inscribed in the artist’s sensibility. While commenting on the differences between her American production and her recent works, Abdul explains: At the time I couldn’t go to Afghanistan because of the Taliban. The performances that I made in LA were works that I wanted to make in Afghanistan, but I couldn’t make them there. The situation was really bad. The people that I knew that were filmmakers and were going there were under disguise, they were hiding and they were in the veil. I still wear a veil when I go, but they were having a very hard time […] Between 1998 and 2000, all of my work directly and indirectly deals with Afghanistan and it deals with my relationship to the country. I wanted to go back after the fall of the Taliban and it was an incredible experience for me. The place that I grew up in had completely changed, and visually it was really disturbing, in the work that I had made in Los Angeles, I was making miniatures in a sense, and when I went back to Afghanistan the ideas that I had been
bocca esce la foto della moschea frequentata dall’artista da piccola. Il titolo di questa opera, in realtà, annuncia che, al di là del rifiuto della cultura religiosa, maschile e patriarcale dell’infanzia, c’è al contempo la possibilità di intravedere l’emergere di una tecnica, l’apparato tecnico della “ruota:” in “House Wheel” (2003), Abdul trascina dietro di sé una piccola casa, il giocattolo di una dimora portatile—la rovina è originale, risiede all’origine, permettendo la sua ri-flessione in atti di distruzione e di critica, e, insieme, in una creatività legata alla “provisionalità” dell’esperienza biografica di chi la sente, la vive, e la ama. Dalla miniatura al “real size” Nel 2005, Abdul è invitata alla Biennale di Venezia, in un padiglione per la prima volta dedicato all’Afghanistan. In effetti, l’artista si è nel frattempo trasferita a Kabul, decidendo di vivere tra le rovine della sua terra d’origine. Il passaggio tra i mondi, il ritorno “a casa” e la prossimità col disastro, in realtà—non potrebbe essere diversamente—lasciano tracce inscritte nella sensibilità creativa di Abdul. Parlando della “differenza” tra la produzione americana e quella recente, l’artista spiega: Al tempo non potevo andare in Afganistan perché c’erano i talebani. Le performance le ho fatte a Los Angeles erano lavori che avrei voluto fare in Afganistan, ma non le potevo fare li. La situazione era veramente brutta. Le persone che conoscevo a casa erano registi e si travestivano, si nascondevano, portavano il velo [...] Io stessa porto il velo quando ci vado, loro in ogni caso erano in condizioni molto difficili […] Tra il 1998 e il 2000, tutto il mio lavoro direttamente o indirettamente tratta dell’Afganistan e della mia relazione con il paese; dopo la caduta dei talebani sono voluta tornare ed è stata una esperienza incredibile. Il luogo dove sono cresciuta era completamente cambiato; visualmente ho avuto realmente un senso di enorme disturbo; nel lavoro fatto a Los Angeles, facevo delle miniature in un certo senso; quando sono tornata in Afganistan, le idee su cui avevo lavorato—sull’architettura, 293
working through—ideas about architecture, and performance and the body—could actually be made in real scale. They were real ruins at real size. That was mind-blowing. It was incredible to stand next to a building and to be able to do something to it. (Hopkins, 2007) While she was in exile, everything depended on the memory, the “miniature,” the ruin as a game at a distance; differently, when facing the real destruction, dimensions change, and the real measure of the disaster appears without mediation: Abdul is near the ruins, feeling the urgent need to take care of them, to “do” something to the remains. The second chapter of her “Treatise” opens with the works that delineate her singular countersignature in comparison to/inside/in favour of a poetics of ruins. The initial sign appears in the video “Whitehouse” (2005), where Abdul covers the remains of a house recently bombed in Kabul with white paint. Against a clear and blue sky, the whiteness of the ruins gives hospitality to the artist who, dressed in black, in three days, stubbornly covers with the signs of her art what history has produced with its obstinate determination to destruction. Is Abdul wasting paint in a world that needs everything? In fact, she is presenting video art to her people, somehow opening its ceremonial time to a the Afghan culture, which is not “fluent” in this technique: When I was painting that house white there were a lot of people going by, and they thought that I was crazy. [Laughter] They were thinking, you are wasting all of this colour, this paint. I felt bad at the same time because many people in Afghanistan don't have enough to eat and I am painting this piece white, this rubble. It wasn’t really necessary. There were some people who stood around for two or three days to watch the whole process, which was interesting because at the very end they understood the project. For instance, the man whose back I painted in the film watched the performance for two or three days and I asked him to be a part of the piece. At the end he said that he understood. In Afghanistan we don’t have this concept of video or 294
e sulla perfomance e il corpo—potevano essere realizzate su scala reale. Erano rovine reali a grandezza reale. Un’esperienza fortissima. Era incredibile stare accanto a una costruzione in rovina, ed essere capace di operare su di essa. (Hopkins, 2007) Ciò che avveniva nell’esilio era il ricordo, la “miniatura,” la rovina come gioco a distanza; a confronto con la distruzione, le dimensioni cambiano, la misura reale del disastro appare senza mediazioni: Abdul è lì, vicino alla rovina a grandezza reale, e sente l’impegno necessario, doverosamente e umanamente deciso a “fare” qualcosa con i resti. Il secondo capitolo del trattato sulle rovine di Abdul si apre sulle opere che tratteggiano il delinearsi della “firma” dell’artista a confronto/ sulle/dentro/a favore delle rovine. Il segno iniziale è in “Whitehouse” (2005), un’opera video in cui Abdul dipinge, con pennellate di pittura bianca, i resti di una casa abbattuta da un bombardamento a Kabul. Contro un cielo aperto e luminoso, il biancore delle rovine ospita l’artista, vestita di nero, che, per tre giorni, instancabilmente, testardamente, copre con il segno della sua arte ciò che la storia ha prodotto con l’ostinata determinazione alla distruzione. Sta forse sprecando la pittura in un mondo che ha bisogno di tutto? In realtà, l’artista sta presentando l’arte-video al suo popolo, in un qualche modo aprendone il tempo cerimoniale alla cultura afgana, poco “fluente” nella lingua di tale tecnica: Quando dipingevo la casa di bianco le persone che passavano, pensavano che ero pazza (ride). Pensavano, stai sprecando tutto questo colore, questa pittura. Mi sono sentita male al tempo perché molti in Afganistan non hanno il cibo, e io dipingo questo pezzo di bianco. Non era necessario. Eppure, alcuni sono rimasti a guardare l’intero processo per due o tre giorni, e la cosa interessante è che alla fine hanno capito il processo. Per esempio, l’uomo la cui schiena dipingo nel film, aveva osservato la performance per due o tre giorni, così gli ho chiesto di essere parte della performance. Alla fine ha detto d’aver compreso. In Afganistan, non abbiamo questo concetto
new-media art. It is something that is new and is just beginning to be introduced. There is a long tradition of literature, poetry and cinema, so Afghans really understand those mediums and they are very fluent in them, but they are not as fluent in video. (Hopkins, 2007) Against the background of the ruin, a woman paints some stones; a man, whose back is painted white, finally “understands.” Understanding, in fact, is a process, an ethics of care and resistance, through dreams, or reveries, to the global politics that imposes its force of law upon a whole world. In “What we saw upon awakening” (2006) a group of men, tied in a common and physical effort, pull some ropes knotted to the ruin of a house. What are they doing? Are they protecting the house, or contributing to its final demise? Abdul keeps the answer suspended—what really matters is the reality of the gesture, recorded by the camera, the ropes irradiating through the sky, the interrelation or engagement of a community, the effort, the sweat, the strength, the animation, the ceremonial love for stones—mainly an architectonic icon in the West, but that, in Islam, constitute precious material for memory and commemoration. At the end of the video, the men make a hole in the ground, and they bury a big, naked, and fragile stone in it— like a corpse buried directly in the ground. Abdul explains her commemorative logic of the ruin: I have a problem with monuments. For instance, the Vietnam Wall in Washington and other monuments that I have seen in Europe which deal with the war are problematic for me. I feel that they give easy answers to complex questions. They also cover things up. The ruins as ruins in White House preserve the history. You can’t just say, “Oh, let’s build a monument for that” It is far more complex. The pieces are almost like rituals as well, they are real performances, and the performers and I are going through the process at the same time. That in itself is a kind of mediation on the idea of the monument to the war. (Hopkins, 2007)
di video o di nuovi media. È nuovo; comincia adesso ad essere introdotto. C’è una lunga tradizione di letteratura, poesia e cinema, così che gli afgani possono capire questi mezzi e essere fluenti; non lo sono nell’arte video. (Hopkins, 2007) Contro lo sfondo della rovina, una donna dipinge delle pietre; un uomo, la cui schiena è coperta di pittura bianca, infine “comprende.” La “comprensione,” in effetti, è un processo, un atto etico di cura e di resistenza, tramite il sogno o la “reverie,” alla politica globale che impone la sua forza di legge a un intero panorama umano e reale. In “What we saw upon awakening” (2006) un gruppo di uomini, uniti in uno stesso sforzo fisico, tirano delle funi imbrigliate alla rovina di una casa. Che cosa fanno? Ne stanno proteggendo il definitivo rovinarsi, oppure vogliono sancirne la caduta? Abdul mantiene la risposta sospesa—ciò che le importa è la realtà del gesto, ripreso dal video, che vede irradiare le funi contro il cielo di Kabul—una costellazione di raggi, il loro incrocio, una comunità coinvolta, il sudore, la forza, lo sforzo, l’animazione, l’atto cerimoniale d’amore verso la pietra—prevalentemente un’icona architettonica in Occidente, ma, che è, nell’Islam, una preziosa materia di memoria e di commemorazione—alla fine dell’opera, gli uomini fanno un buco nella terra, e vi seppelliscono una grande pietra, nuda, fragile, e mortale, come un corpo defunto interrato direttamente nel terreno. Abdul spiega la propria logica “commemorativa” della rovina: Ho un problema con i monumenti. Per esempio, il Muro del Vietnam a Washington e altri monumenti che trattano della guerra e che ho visto in Europa, per me sono problematici. Sento che hanno risposte semplici a domande complesse. Coprono le cose. Le rovine in quanto rovine in “White House” preservano la storia. Non si può dire: “beh, ci costruiamo un bel monumento.” La cosa è di gran lunga più difficile. Le opere sono come rituali, delle vere performance, e coloro che vi partecipano e io stessa ne attraversiamo il processo. Ciò è in se stesso una specie di mediazione sull’idea del monumento di guerra. (Hopkins, 2007) 295
The following work by Abdul materialises this kind of “mediation” by involving the Afghani children in her art: “Brick Sellers in Kabul” (2006) shows a group of restless children, while queuing, with bricks in their hands, against a freezing wind, fixed on the arid land. What are they doing? What kind of game of ruins is taking place? George Bataille would say that “It is painful to have nothing other than ruins, but this does not mean to posses nothing, but to maintain with one hand what the other one gives” (Bataille 1978, 213-4). In Abdul’s art, the bricks seem to move from hand to hand; the kids are sitting on the bricks, the weight of the stones is straining their arms; they are waiting to sell the bricks, and receive their wages; the world will pay for their recovery of the bricks, which will be used to build new constructions, which, in turn, will be subject to the decay of time, human action, the cruellest destruction of military weapons.7 History inflicts its ruining work; the future of a people participates to a possible reconstruction; time advances; stones mobilize. The only things that is left is, perhaps, an economic exchange, against the innocence of a whole generation of victims of history. In truth, history has already destroyed history—ancient, archaic, ancestral history: in “Clapping with stones, Bamiyan” (2005) Abdul films another ceremony—a group of men who carry stones in their suits; with the stones, they produce a sound (the worlds of Abdul are often, if not always, silent, as if the ruin could be expressed only with the end of language!), a music, an enchanting song, against the remains of the immense stony figures which survived time, until the destroying action of the Taliban. On the side of art, through the chant humanity can order its painful ceremonial, attentive to what is missing, and able to love what remains—if only in memory!
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Una specie di “mediazione:” l’opera successiva di Abdul realizza tale mediazione coinvolgendo nella ripresa del video i bambini afgani—“Brick Sellers of Kabul” (2006) mostra delle creature in fila, ognuna con dei mattoni tra le mani, che aspettano irrequieti e infreddoliti, contro un vento gelido, fissi sulla terra arida—cosa aspettano? Quali rovine di gioco sono in atto? George Bataille, al proposito, direbbe che “È doloroso non possedere più altro che rovine, ma ciò non significa non possedere più nulla, bensì trattenere con una mano ciò che l’altra dà” (Bataille, 1978, 2134). Nell’opera di Abdul, i mattoni sembrano spostarsi da mano a mano; su di essi i bambini si siedono, il peso delle pietre stanca le loro braccia—i bambini attendono di vendere le pietre, e di ricevere il compenso per la loro attesa; il mondo premierà il loro recupero delle pietre per costruire altre costruzioni, a loro volta esposte alla rovina del tempo, all’azione umana, alla distruzione delle armi di guerra.7 La storia infligge le sua opera rovinosa, il futuro di un popolo partecipa alla possibile ricostruzione, il tempo avanza, le pietre si mobilitano—resta, forse, solo il cambio sociale ed economico, realizzato a danno di un’innocenza in rovina, un’intera generazione di vittime della storia. In realtà, la storia ha già distrutto la storia—quella antica, mitica, ancestrale: in “Clapping with Stones, Bamiyan” (2005) ciò che il video di Abdul registra, è un’altra cerimonia—un gruppo di uomini trasporta delle pietre nei vestiti scuri; con esse, essi cominciano a produrre un suono (i mondi rovinosi di Abdul sono spesso silenziosi, come se la rovina si esprimesse nella fine del linguaggio!), una musica, un canto incantatorio, di contro ai resti delle immense figure di pietra sopravvissute al tempo fino all’azione devastatrice dei talebani. Sul versante dell’arte, tramite il canto, l’umanità sa ordinare il proprio cerimoniale di dolore, attento alla mancanza, e capace di amare ciò che resta—pur se solo nella memoria!
The artistic re-solution
La risoluzione artistica
This is how the third chapter of Abdul’s “Treatise” opens: after the reflection on the ruin of identity, following the recording of the process of care for the ruined stone (hospitality of art, the “net” of attention, the human and economic exchange, the ceremonial chant as mourning and testimony), the artistic gaze moves away from the stone for a while (the future developments of Abdul’s art are not known, and are consequently rich in their potential).8 Following the experimental trend, if the stone has been painted, given space, buried, exchanged and celebrated, it can bloom from the earth that hosts it and be transformed into something alive: “Tree” (2005) celebrates this natural power—once again, after a group of men has gathered to cut down a tree, its trunk is carried towards an unknown place—maybe there, it will recreate the oikos, a dwelling, the fire, the place where it will be possible to retrace a community, its aggregation, the warmth of a sense, the warming of the senses. What Abdul is concerned about is not to provide answers, construct references or establish references— what matters to her, on the contrary, is the process, the time, the survival through the horror—if we are exposed to it, then, extraordinarily, it will be horror itself, the disaster, the ruin that will offer their special “gift:” “Dome” (2006), is the beautiful video that focuses on a child who dances inside a ruined dome, a round, roofless construction. The camera follows his dance with special attention, in wandering intensity: the event, inscribed in her “Treatise,” is in fact due to chance, “sheer” chance; it takes place in front of Abdul’s camera without any expectation, plan or anticipation9—the child simply dances, offering his ritual of survival to the place he lives in (or not) and to the video that controls him (or not)—the miracle of life lets itself happen, illuminating the air and the horizon, free, hosting a chance of resistance to death.
Così si apre il terzo e ultimo capitolo del “Trattato” di Abdul—dopo la riflessione sulla rovina dell’identità, dopo la registrazione del processo di cura verso la pietra rovinata (accoglienza dell’arte, rete d’attenzione, scambio umano ed economico, canto cerimoniale quale lutto e testimonianza), lo sguardo abbandona la pietra per un po’ (sconosciuti, e perciò in potenza, sono gli sviluppi dell’arte di Abdul).8 Sulla scia dell’attenzione sperimentale, se la pietra è stata dipinta, accolta, sepolta, scambiata, cantata, dalla terra che la ospita può fiorire la sua trasformazione in “albero:” “Tree” (2005) celebra questa potenza naturale—qui un gruppo di uomini sega un albero e, ancora con uno sforzo fisico e collettivo, ne trasporta il tronco verso un luogo non specificato—forse lì, esso servirà a ricreare l’oikos, la dimora, il focolare, il luogo dove ritracciare una comunità, un’aggregazione, il calore di un senso, e il riscaldamento dei sensi? Ad Abdul non interessa fornire risposte, costruire referenze o stabilire referenze; le sta a cuore invece il processo, il tempo, la sopravvivenza attraverso l’orrore—esponendosi a esso, straordinariamente, sarà l’orrore stesso, il disastro, la rovina, a offrire i suoi “doni” speciali: “Dome” (2006) è un bellissimo video che si concentra su un bimbo che danza all’interno di una costruzione senza tetto, un duomo circolare, a cielo aperto. La camera-video di Abdul segue la danza, soffermandosi sullo sguardo intenso del bambino rivolto all’aria limpida sopra di lui, con una meraviglia unica e singolare: l’evento che l’amore del “Trattato” di Abdul riprende è dovuto al caso, al “puro” caso—la chance di questa visione accade, si rovina dinanzi allo sguardo dell’artista senza previsione, attesa, o aspettativa:9 il bambino, semplicemente, danza, offrendo il suo piccolo rituale alla sopravvivenza del luogo che (non) abita, e del video che (non) lo controlla; il “miracolo” della vita si lascia accadere, irradiandosi nell’aria e nell’orizzonte, libero, solo ospitale di una chance di resistenza alla morte. Può seguire, 297
Lida Abdul, Dome, 2005. Single-channel digital video, 4 minutes 50 seconds, 4:3, colour, sound. Courtesy the artist and Anna Schwartz Gallery
It can, then, follow the miracle of art, without any meaning (if “meaninglessness” has already inscribed its original violence and force), as if to imprint its last and authorial countersignature: in “White Horse” (2006), Abdul’s loving “Treatise” closes its pages on a man who paints a horse (a dear animal in Afghani culture),10 the white paint covers its brown skin so as to enable the living surface to transport the signs of art through the landscape, among humans. It is not the artist to paint the surface of the ruin any more; it is a simple man, who does not cover the whole body of the horse, but only half of it—art cannot and does not want to act as a healing force, but as an act of love that wants to enhance the wound, by trying to cover it in order to better highlight it, so as to carry it elsewhere, where, perhaps, it can claim its transformation: 298
allora, il miracolo—senza senso (se il “senzasenso” ha già iscritto la sua violenza originaria e distruttrice) dell’arte, come a sancire una firma ulteriore, una contro-firma ultima e autoriale: in “White Horse” (2006), il “Trattato” d’amore per le rovine di Abdul chiude le sue pagine su di un uomo che dipinge di bianco il corpo di un cavallo (animale molto amato nella cultura afgana),10 a metà—la pittura ricopre il pelo scuro dell’animale, lasciando che la sua superficie viva, naturale, animale, trasporti i segni dell’arte sulla terra, nel “landscape,” tra gli esseri umani. Non è più l’artista a dipingere la rovina, ma un uomo qualunque; egli non ricopre interamente il corpo del cavallo, ma solo un suo lato; l’arte non vuole né può darsi a cicatrice delle ferite, ma solo come l’atto d’amore che ne sa valorizzare il taglio (la taglia), che vuole provare a coprirlo—per meglio evidenziarlo— nella finitezza della sua visione, augurandosi di
Whatever transformation art has the potential to bring about cannot be immediately seen. It’s an invisible process simultaneously cathartic and active. I feel that only if people engaged with one another through their art, culture and music, and genuinely resist trying to reduce the other to what is familiar to themselves, a lot of change can come about. (McGilp, 2007)11 The “Petition” Lida Abdul’s “Treatise” ends on the body of the half painted horse. In truth, by observing the white material that refuses to close on its line, in the incomplete coverage of the surface that inscribes and carries art elsewhere, I realize that, maybe, I have been wrong in thinking of Abdul’s love for the ruins as a “Treatise.” The ruin she loves does not ruin only her identity, the miniature of her memory, the real size of her experience and artistic resolution; it first and foremost ruins writing, its present and presence, life, borders, memory, real and imaginary icons. In truth, I should not have thought of a “Treatise” but, by partaking the love for the rests of history and humanity, I should only have signed the fragile and instable trait of Abdul’s appeal to the future, her “Petition” to “an imagined world, or maybe to the indication of another world, not completely new, but that exists somewhere between the destroyed world and the world-to-come” (Caragliano-Cervasio 2007, 160). Only by addressing the futureto-come, the signs of the love for the ruin may find the right place where to inscribe the resonance of its appeal throughout the world, to favour of the encounter among humans, to hope in future times that will promise peace and life.12
trasportarlo altrove, dove poter, forse ed infine, rivendicare la sua trasformazione: Qualsiasi trasformazione che l’arte abbia il potenziale di far emergere può non essere immediatamente visibile. E’ un inevitabile processo, allo stesso tempo catartico e attivo. Soltanto se le persone si coinvolgeranno l’un l’altro grazie alla loro arte, cultura e musica, resistendo genuinamente alla tentazione di ridurre l’altro al familiare, potranno avverarsi molti cambiamenti. (McGilp, 2007)11 La “Petizione” Il trattato di Lida Abdul si chiude qui, sul corpo dipinto a metà dell’animale così amato dalla sua gente. In realtà, osservando la striscia di pittura che si rifiuta di chiudersi nella completezza della linea, nella copertura incompleta della superficie viva che la iscrive e la trasporta, comprendo, infine, che forse ho sbagliato a pensare all’amore di Lida Abdul per le rovine come a un “Trattato:” la rovina che l’artista ama, non rovina solo la sua autobiografia, la miniaturizzazione della memoria, la misura reale dell’esperienza, la risoluzione artistica; essa rovina in primis la scrittura, la chiusura dell'arte, il presente e la presenza, la vita, i bordi, i giocatoti-memorie, le icone reali e inquietanti. Forse, effettivamente, non avrei dovuto pensare ad un “Trattato,” ma, accogliendo l’amore per i resti della storia e dell’umanità, avrei solo dovuto firmare il tratto fragile, instabile ed aperto, di una richiesta inviata al futuro del mondo, condividendo la “Petizione” di Lida Abdul rivolta a “un qualche mondo immaginato, o forse l’indicazione di un altro mondo, non completamente nuovo ma che si trova da qualche parte fra quello distrutto e quello a venire” (Caragliano-Cervasio 2007, 160). Solo rivolgendosi al futuro a-venire, i segni dell’amore per le rovine potranno trovare il luogo giusto per iscrivere l’appello e la sua risonanza attraverso i luoghi del mondo, nell’incontro tra gli esseri, con la speranza di altri tempi, carichi di promesse di vita e di pace.12 299
Notes
Note
1. See also Royle 1995. 2. Lida Abdul’s website has been recently closed; some of her works can be viewed at “Global Feminims,” Brooklyn Museum http://www.brooklynmuseum. org/eascfa/feminist_art_base/gallery/lida_abdul. php; “In the Factory” http://www.youtube.com/ watch?v=Qb-68F-08p0. 3. The quotation is from Derrida (1993, 69); here, however, I am referring to the beautiful text by E. Cavada (2003), who uses Derrida’s treatment of the “ruin” as the privileged motif of his deconstruction, also ispired by W. Beniamin, of the photograph of the bombed-out Holland House Library in London, taken in 1940. 4. “I belong to many worlds and they each enrich who I am and I guess some would say that this is a recipe for anxiety because you don’t know where you belong. I’d answer that living in between allows me perspectives that are denied to those who are consoled by notions of country of land etc. I do think that this in-betweenness is slowly becoming the norm” L. Abdul, interview with Kim Dhillon, March 2007. http://www.an.co. uk/artists_talking/artists_stories/single/351947. 5. See also Borrelli, Di Cori 2010. 6. See also Johnstone 2011. 7. See also Sgreva 2012. 8. Actually, the recent project by Abdul consists in the work “In Transit,” announced in Caragliano, R., and S. Cervasio, eds. (2007, 162): “I would like to bring a destroyed and rusty Soviet plane as a part of a sculpture”, and that, the artist realized in 2008, at Giorgio Persano Gallery in Turin, Italy, as “the poetic fantasy of a group of children who try to make an old soviet plane, full of bullets, fly. ‘The work’, the artist explains, ‘functions both as a performance and a film. I have worked with almost seventy children from five to nine. These children close the plane’s bullet holes with cotton, then, with some ropes, they try to make it fly in the sky as if it was a kite.” See http://www.giorgiopersano.org/mostra/in-transit/ 9. Abdul explains: “I was searching that day, I don’t know what I was searching for. But I found (the boy) and it was just such a joy because he was just in his own world, dancing in the ruins.” Read more: http://www.theage.com.au/entertainment/artand-design/finding-art-and-hope-in-the-ruins20100219-okeh.html#ixzz1qKsF3mmB. 10. See the narration of the national game butkashi in the reportage by Saira Sha, The Story Teller’s Daughter, London: Penguin 2003. 11. See also Derrida 2010. 12. See the splendid photographic portofolio “Un ‘altro’ Afghanistan.” by Monika Bulaj, East, 31, 2010.
1. Vedi anche Royle 1995. 2. Il website di Lida Abdul è stato recentemente cancellato; per visionare alcune sue opere, vedi “Global Feminims,” Brooklyn Museum, in: http://www.brooklynmuseum.org/eascfa/feminist_art_base/gallery/lida_abdul.php; “In the Factory” http://www. youtube.com/watch?v=Qb-68F-08p0 3. L’espressione è in Derrida 2003, 92; qui mi preme rimandare al bellissimo saggio di Cavada (2001, 35-60), dove l’espressione diventa motivo principale della lettura decostruttiva, ispirata a W. Benjamin, della fotografia del Holland House Library bombardata a Londra nel 1040. Il testo di Cavada fa ovviamente riferimento alla traduzione inglese di Derrida (1993, 68-69). 4. “Appartengo a molti mondi e ognuno arricchisce chi sono; qualcuno potrebbe dire che è una ricetta per curare l’ansietà perché non sai a che posto appartieni. La mia risposta sarebbe che vivere ‘tra’ mondi a me permette prospettive negate a coloro i quali si consolano con le nozioni di terra, paese, etc. Sono convinta che questo vivere ‘tra’ mondi stia lentamente diventando la norma.” L. Abdul, intervista con Kim Dhillon, Marzo 2007, in: http://www.a-n. co.uk/artists_talking/artists_stories/single/351947 5. Vedi anche Borrelli, Di Cori 2010. 6. Vedi anche Johnstone 2011. 7. Vedi Sgreva 2012. 8. In realtà, il progetto recente di Abdul consiste nell’opera “In Transit,” che l’artista annuncia in Caragliano, R., and Cervasio S, eds. (2007, 162): “Mi piacerebbe portare un aereo sovietico distrutto e arrugginito come parte di una scultura e questo è quello su cui sto cercando di lavorare al momento”, e che realizza alla galleria Giorgio Persano di Torino, Italia, nel 2008, come “la fantasia poetica di un gruppo di bambini che cercano di far volare un vecchio aereo russo crivellato di colpi d’arma da fuoco. ‘Il lavoro’, spiega l’artista, ‘funziona sia come performance che come film. Ho lavorato con circa settanta bambini dai 5 ai 9 anni. Questi bambini riempiono di cotone ogni singolo buco della fusoliera dell’aereo, poi con delle funi tentano di alzarlo in cielo come un aquilone’ ”, in: http://www.giorgiopersano.org/mostra/in-transit/ 9. “Cercavo quel giorno, non so cosa stessi cercando. Ma ho trovato (il ragazzo) ed è stata un gioia perché era proprio nel suo mondo, danzando nelle rovine”, in: http://www.theage.com.au/entertainment/artand-design/finding-art-and-hope-in-the-ruins20100219-okeh.html 10. Vedi il reportage di Shah 2004. 11. Vedi Derrida 2010. 12. Vedi lo splendido speciale fotografico “Un ‘altro’ Afghanistan” di Monika Bulaj, 2010.
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Margherita Parati
Magdalena Jetelovรก. Atlantic Wall 1994-95: Lights and shadows over the border Magdalena Jetelovรก. Atlantic Wall 1994-95: Luci e ombre sul confine
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The installation
L’opera
The bunkers on the Danish coast of Jutland. The book “Bunker Archaeology” by the French philosopher Paul Virilio. A laser projector. A photographic camera. These are the materials that Magdalena Jetelová used to create her installation “Atlantic Wall” between 1994 and 1995. The bunkers she worked on are part of the 12,000 fortification lines that were built between 1942 and 1944 along the Atlantic coast of Europe under Hitler’s will. Their aim was to defend the territory occupied by the Third Reich and to avoid a possible attack by the allies from the ocean. The paramilitary organization led by general Fritz Todt was in charge of this defence line construction. In only three years all European coasts, from Norway to south France, had been equipped with 247 different bunker typologies. These bunkers are concrete monoliths, anthropomorphic, shaped by the specific function they had. They are more like objects. They have no foundations, and balance exclusively on their barycentre. Specifically, the bunkers on the Jutland beach have moved from their original position, due to the sand erosion by the ocean water. These big objects have moved, they have reversed upside down, towards the water. Magdalena Jetelová projected some sentences, taken from the book “Bunker Archeology” by the French critic and philosopher Paul Virilio, over these monoliths. This book was published for the first time in 1975. It offers a brilliant interpretation on the nature of the Atlantic Wall bunkers. Written as an objective archaeological documentation, but at a same time it embodies a passionate photographic and philosophical quality. In the first part of the book he looks at the bunkers as mysterious, funeral architectures, making a comparison with Egyptian or Etruscan graves. He highlights their modern shape, which is the result of a strict relationship between their form and their function. The understanding of their original
I bunker sulla spiaggia dello Jutland, in Danimarca. Il testo “Bunker Archeology” del filosofo francese Paul Virilio. Un proiettore a luce laser. Una macchina fotografica. Con questi materiali l’artista ceca Magdalena Jetelová realizza tra il 1994 e il 1995 la sua installazione “Atlantic Wall.” I bunker su cui l’artista lavora fanno parte della linea di 12.000 fortificazioni costruite tra il 1942 e il 1944 lungo la costa atlantica del continente europeo per volere di Hitler, con lo scopo di difendere i territori occupati dal Terzo Reich da un possibile attacco degli alleati. L’incarico di costruire questa immensa linea difensiva era stato affidato all’organizzazione paramilitare guidata dal generale tedesco Fritz Todt. In tre anni la costa europea atlantica, dalla Norvegia fino al sud della Francia, viene attrezzata con 247 tipologie differenti di fortificazioni. I bunker sono architetture monolitiche in cemento pluriarmato, antropomorfe, forgiate sulla specifica funzione che dovevano svolgere. Prevale la loro natura oggettuale. Senza fondamenta, l’equilibrio del loro stare dipende esclusivamente dal loro baricentro. Nello specifico, i bunker della costa danese dello Jutland si sono mossi dalla loro posizione originale, a causa dell’erosione delle spiagge da parte dell’acqua dell’oceano. Questi grandi oggetti si sono spostati, rovesciandosi su loro stessi o raggiungendo l’acqua del bagnasciuga. Su questi monoliti in cemento l’artista Magdalena Jetelová ha proiettato delle frasi tratte dal testo “Bunker Archeology” del filosofo e critico francese Paul Virilio, pubblicato per la prima volta nel 1975. Il testo offre un’illuminante riflessione sulla natura dei bunker dell’Atlantic Wall, osservati con l’oggettività e la curiosità tipiche dell’archeologo, con lo sguardo appassionato del fotografo e con la lucidità propria del filosofo. Nella prima parte del testo Virilio guarda ai bunker come ad architetture misteriose, funerarie, paragonandole a stele egizie o a tombe 303
© Magdalena Jetelová. “Atlantic Wall, 1995“. Technical Assistance: Werner J. Hannappel, Essen (Photographs), Jakob T. Valvoda (Laser)
function is what makes them repulsive at first approach. In the second part of the book, the author goes deep into his reasoning, reflecting on the evolution of military strategies and technologies in the XXth Century, from trenches to orbital space. From strategies based on the territory’s domain conquered through horizontal military occupation, of which the Atlantic Wall is the last insane evidence; to the air force units, discovering the third dimension and overcoming any defence line, where speed wins over strength; to the nuclear science discoveries, which, in combination with the media, have demonstrated that even the possibility to act is already a demonstration of power. Military technology has become static and instantaneous, due to the implementation of invisible technologies, and space is the new 304
etrusche. Ne sottolinea la modernità architettonica, la cui essenzialità è conseguenza della stretta aderenza della forma alla funzione specifica, anche se proprio la traccia visibile del loro scopo è ciò che li rende “repulsivi” a chi vi si accosta. Nella seconda parte del testo l’autore amplia il ragionamento, esaminando l’evoluzione delle strategie e soprattutto delle tecnologie militari nel corso del Ventesimo secolo, dalla guerra di trincea alla contesa dello spazio orbitale. Da strategie militari basate sul possesso territoriale conquistato con l’occupazione fisica, orizzontale, di cui l’Atlantic Wall è l’ultima delirante testimonianza; all’occupazione aerea, della terza dimensione spaziale che scavalca la linea difensiva, dove la velocità si impone sulla forza; fino all’affinamento della scienza nucleare combinata alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa istantanei, che rendono anche solo la
frontier to be conquered, with its mechanical inhabitants: the satellites, human mind’s sophisticated prosthesis. Myth, technology and history are part of the evocative description of this architecture. Magdalena Jetelová has worked on this text, selecting parts, words and sentences and paraphrased them in order to create the script of her installation. Thus, the book of Paul Virilio is an integral part of the artists’work. The altered quotations are projected on the surfaces of the bunkers, with deliberate neutral framings of their shape. This is done in order to perceive them more as dark masses rather than architectural facades. There is only one frontal framing of a bunker with a sentence that reveals the dramatic sense of the installation: ABSOLUTE WAR BECOMES THEATRALITY.
These are some of the words projected on the concrete surfaces of the bunkers and the beach landscape where they are set: AN EMPTY ARK LITTLE TEMPLE MINUS THE CULT AN OBJECT TENDED TO BECOME A SUBJECT THE BATTLE AGAINST TELLURIC AND COSMIC FORCES THE DISAPPEARENCE OF THE BATTLEGROUND AREA OF VIOLENCE THIS WAITING BEFORE THE INFINITIVE OCEANIC EXPANSE THE ESSENTIAL IS NO LONGER VISIBLE A RAPTURE BETWEEN VIOLENCE AND HUMAN TERRITORY THE SPEED CONFIRMS EVERYTHING ABSOLUTE WAR BECOMES THEATRALITY
The words have been projected on the landscape using a laser beam projector, following the shapes of the volumes on the backdrop. Thus, you can perceive the combination of the plasticity of the concrete and
possibilità di agire una dimostrazione di forza. La tecnologia militare terrestre diviene quindi immobile e istantanea, supportata da tecnologie invisibili (radar, laser, elettroni), mentre il margine di nuove conquiste si allarga nello spazio, popolato da oggetti meccanizzati, i satelliti, protesi della sofisticata mente umana. La potenza evocativa di queste architetture è quindi colta nella sua dimensione mitica, tecnica e storica. Su questo testo Magdalena Jetelová ha lavorato, selezionando dei passaggi, delle parole, delle frasi, e parafrasandole per costruire il copione della sua installazione. Il testo di Virilio è quindi parte integrante dell’opera dell’artista. Le frasi elaborate sono state proiettate sulla superficie dei bunker, scegliendo volutamente angolature neutre, dove in primo piano fosse la massa scura dell’oggetto bunker e non il suo prospetto architettonico. L’unica inquadratura frontale è quella di un bunker, della tipologia adibita allo sparo, su cui è impressa la frase che rivela il senso drammaturgico dell’installazione: ABSOLUTE WAR BECOMES THEATRALITY.
Queste quindi le parole proiettate a cavallo tra la superficie in cemento dei bunker e il paesaggio della spiaggia che li ospita: AN EMPTY ARK LITTLE TEMPLE MINUS THE CULT AN OBJECT TENDED TO BECOME A SUBJECT THE BATTLE AGAINST TELLURIC AND COSMIC FORCES THE DISAPPEARENCE OF THE BATTLEGROUND AREA OF VIOLENCE THIS WAITING BEFORE THE INFINITIVE OCEANIC EXPANSE THE ESSENTIAL IS NO LONGER VISIBLE A RAPTURE BETWEEN VIOLENCE AND HUMAN TERRITORY THE SPEED CONFIRMS EVERYTHING ABSOLUTE WAR BECOMES THEATRALITY 305
the letters, without impacting the high definition projection. Text becomes ephemeral material, it becomes light, in a dialogue with the other elements of the composition: water, earth and concrete. However, the scenography was only directly visible by the artist, the photographer and the technicians who helped setting up the equipment. The composition was recorded with a camera. Therefore, the photographs are the only evidence of this secret performance which was performed without a real audience. “Atlantic Wall” exists only through photographic traces. The photographs of the installation have been exhibited several times. The first exhibition was in 1994 at the Museum Lemvig in Denmark; the second time Jetelová’s photographs were presented in the Derry’s Orchard Gallery from March to April 1998 in Northern Ireland; and, more recently, in 2007, they were part of the exhibition entitled “Magdalena Jetelová, Der Neue Raum” at the Kunsthalle Recklinghausen, in Recklinghausen, Germany. This last exhibition was especially interesting because of its sequence in space. The exhibition design invaded all the four floors of the gallery. In the under-ground floor, among the various stores and corridors, a sound installation was placed, producing street and water noises; the ground floor was flooded with 42.000.000 litres of water reflecting the vibrant light projections placed on the walls. On the first floor the photographs of three installations based on the use of laser light, included “Atlantic Wall,” were put on show in dark rooms. The walls of the room on the second and top floor were covered with quotations from the book of Paul Virilio, the letters were written with a special paint which can only be perceived when enlightened by a UV spotlight. The spot was moving, forcing the visitor to follow a random appearance of the text. In one of the rooms on the first floor, ten 306
Le parole sono state proiettate sul paesaggio con un proiettore a luce laser, deformandosi per seguire le volumetrie e le curve delle superfici che fanno loro da sfondo. Alla plasticità del cemento segue la plasticità delle lettere, che grazie all’uso del laser sono visibili con altissima precisione e nitidezza. Il testo diventa materia effimera, luce, che dialoga con gli altri elementi che compongono la scenografia dell’opera: acqua, terra e cemento. Ma la messa in scena di questo evento è stata visibile direttamente solo all’artista, al fotografo e ai tecnici che hanno collaborato alla sua realizzazione. Questa composizione è stata, infatti, registrata attraverso degli scatti fotografici, che rimangono l’unica testimonianza della performance avvenuta in assenza di un reale pubblico. “Atlantic Wall” non esiste se non come traccia fotografica. Le fotografie dell’installazione sono state allestite in diverse occasioni, la prima nel 1994 presso il Museum Lemvig in Danimarca, la seconda presso la Derry’s Orchard Gallery tra marzo e aprile del 1998 in Irlanda del Nord e più recentemente, nel 2007, all’interno di una mostra personale dedicata all’artista dal titolo “Magdalena Jetelová, Der Neue Raum” realizzata nella Kunsthalle Recklinghausen, a Recklinghausen in Germania. Particolarmente suggestivo è l’allestimento di quest’ultima mostra, dove erano presenti diverse opere dell’artista, tra cui “Atlantic Wall.” L’allestimento ha utilizzato i quattro livelli su cui si sviluppa lo spazio della galleria. Nel piano interrato, dove ci sono spazi di servizio e magazzini, è stata progettata un’installazione sonora, dove rumori di strada e gocciolii di fondo erano amplificati da casse; il piano terra è stato allagato da 42.000.000 di litri di acqua su cui si riflettevano, vibrando, le pareti invase da proiezioni luminose; il primo piano è stato dedicato all’esposizione delle fotografie di tre installazioni dell’artista, accomunate dall’uso della luce laser; nella stanza del terzo piano alcune frasi del testo di Paul Virilio sono state trasferite sulle pareti con una vernice visibile
© Magdalena Jetelová. “Atlantic Wall, 1995“. Technical Assistance: Werner J. Hannappel, Essen (Photographs), Jakob T. Valvoda (Laser)
photos of the “Atlantic Wall” installation were exhibited as light boxes hanged on the walls. The backlighting system reproduces the same effect as the sharp laser light used for the installation, underlining the materiality of light itself. In this part of the exhibition, which was dedicated to the interiority of the landscape expressed by the artist’s works (Der Innerraum der Landschaft), two other installations realised with a similar process were exhibited. The first one, called “Iceland Project,” was realized in 1992: using the same technique, a laser line is drawn first on a map and later on the landscape defining the geographical border between two continental plates, the European and the American one. The friction between the two plates gave birth to the Atlantic ridge, a mountain system that is visible over the sea level for 350 kilometres only in Island. The second installation on show, called “King’s Cross,” was realized in 1996. The same white laser line is used, but in this
solo se illuminata da uno spot ai raggi UV, che ruotava nella stanza, costringendo il visitatore a spostarsi e a seguire con lo sguardo il testo che appariva e scompariva. Dieci fotografie dell’installazione realizzata sui bunker dello Jutland sono state allestite come light boxes, appese alle pareti di una stanza buia al secondo piano della galleria. La retroilluminazione delle immagini ricostruiva l’effetto nitido e tagliente della luce laser usata per l’installazione, mettendo in forte evidenza la sua natura materica. Nella stessa sezione della mostra, dedicata all’interiorità del paesaggio espressa dalla poetica dell’artista (De Innernraum der Landscahft), sono state allestite due altre opere/installazioni, realizzate seguendo lo stesso processo. La prima è “Iceland Project” del 1992, dove con la stessa tecnica, utilizzando un raggio di luce laser, viene disegnato prima sulla mappa e poi sul paesaggio il confine tra le due zolle continentali, del continente americano e europeo, dove si è formata la catena montuosa della dorsale Atlantica, che 307
© Magdalena Jetelová “Crossing King’s Cross, 1996”. Technical Assistance: Werner J. Hannappel, Essen (Photographs), Jakob T. Valvoda (Laser)
work it draws the line of the future TGV high speed trains rack starting in London in the King’s Cross area, and connecting Great Britain with the European continent. The line, which is sharp and precise on the map, bends in three-dimensional on the landscape, folds itself to follow the shapes of the old sheds and the old railways of the exindustrial area. In these three installations “the light line,” which is physically present on the ground, is perceived as a temporal line, too. As in the bunker project, past episodes are connected with present and future transformations. The composition of these installations is caught through photographs, as photography is the medium, the visual language that Magdalena Jetelová has chosen to document and communicate the moment of the event. This choice creates a double connection with the landscape where the event occurs, both in space and time. 308
solo in Islanda emerge in superficie per 350 km. La seconda installazione è “King’s Cross” del 1996. Un raggio di luce laser bianca traccia il percorso della futura linea di treni ad alta velocità (TGV) che sorgerà nella zona di King’s Cross a Londra, collegando l’isola britannica con il continente europeo. La linea, netta e precisa sulla carta, plastica e tridimensionale nella realtà, si piega ad accompagnare le sagome dei vecchi stabilimenti, capannoni e binari dismessi che popolano l’ex area industriale. In tutti e tre i casi, la linea di luce, fisicamente tracciata sul terreno, diviene anche linea temporale, ricucendo avvenimenti passati alle trasformazioni presenti e future. La composizione di queste installazioni viene catturata dalla fotografia, scelta dall’artista come medium, linguaggio visivo, per documentare e comunicare al pubblico l’istante dell’evento, enfatizzando così la sua relazione sia spaziale sia temporale con il paesaggio in cui viene realizzato.
The artist
L’artista
In the process that led to the “Atlantic Wall” installation we can find some topics related to the personal origin and history of the artist. Magdalena Jetelová was born in 1946 in Semily, a town of 10,000 inhabitants in the north of the Czech Republic, close to the borders with both Poland and Germany. Her country had a difficult history filled with invasions, fragmentations and conflicts. It was occupied by the Nazis first, and later by Communists. The Czech Republic became an independent country for the first time, in 1993, after the pacific division of the ex-Czechoslovakia into the Czech and Slovak Republics. Magdalena Jetelová grew up in this turbulent period, within a controversial political environment, under the pressure of dominant political parties and in a territory surrounded by empires willing to expand their domain. She started her studies in Prague, at the Academy of Sculpture, and later moved to Milano for a couple of years to attend courses at the Accademia di Brera. She then moved back to Prague, where she graduated in 1978. Jetelová started to work in Eastern Europe, and distinguished herself as an activist artist presenting her first installations out of the official museum systems, which was much more influenced by political choices rather than by truly cultural interests. After the Second World War there was a short period of political freedom, the so called Prague Spring of 1968, but it did not take long till the Communists arrived. They started to suppress every democratic initiative, finally resulting in the occupation of Czechoslovakia by the Soviet authorities. While doing so, they imposed very strict rules. This political development is reflected in the early work of Jetelová. Her first installations recall the memories of a cosmopolitan feeling she experienced in Prague during this very short period of the Prague
Nel processo di costruzione dell’installazione “Atlantic Wall” riecheggiano temi cari all’artista, legati alla sua origine e alle sue esperienze personali. Magdalena Jetelová nasce nel 1946 a Semily, città di 10.000 abitanti nella regione settentrionale dell’attuale Repubblica Ceca, molto vicina sia al confine con la Polonia che a quello con la Germania. La storia del suo paese è una storia travagliata, di invasioni, frazionamenti e conflitti. Invasa e controllata dai nazisti prima e dai comunisti poi, la Repubblica Ceca ha finalmente raggiunto un’autonomia di stato solo nel 1993, dalla scissione pacifica della ex Cecoslovacchia in Repubblica Ceca, appunto, e Slovacchia. Magdalena Jetelová è cresciuta quindi in un clima politicamente difficile, di continue pressioni e ripercussioni dei gruppi politici dominanti sulla popolazione di un paese circondato da potenze desiderose di inglobarne il territorio nei propri confini giurisdizionali. L’artista comincia il suo percorso di formazione a Praga presso l’Accademia di Scultura, si trasferisce in Italia per due anni, frequentando i corsi dell’Accademia di Brera di Milano, per ritornare poi a Praga e conseguire il diploma nel 1978. Magdalena Jetelová comincia quindi a lavorare nei paesi dell’est Europa, distinguendosi per l’attivismo delle sue installazioni al di fuori dei circuiti museali istituzionali, cui l’accesso è veicolato da strategie più politiche che culturali. Infatti, finita la Seconda Guerra Mondiale e dopo la breve parentesi di liberazione politica, la cosiddetta Primavera di Praga del 1968, ogni tentativo riformista e democratico viene castrato dalle autorità sovietiche con un’occupazione armata della Cecoslovacchia e con l’imposizione di riforme “normalizzanti.” Sono questi gli anni delle prime installazioni dell’artista che attraverso il linguaggio dell’arte cercano di esprimere ancora quel sentimento cosmopolita che per un breve periodo si è potuto 309
© Magdalena Jetelová “Marking by Smoke”, Praga, 1983-84 310
Spring, a feeling that was shared with people all around Czechoslovakia. Jetelová decided to avoid the institutional cultural system to work in the streets, in the countryside between Poland and ex-Czechoslovakia. A reflection on domain, limit and boundaries was present in installation such as “Marking by Smoke,” realized in 1983-84, when the artist built some wooden huts in the countryside out of Prague and she burnt them spreading clouds of an intense red colour. Another example is the series of sculptures with the shape of big chairs that remind easily of a throne and its ideology of domination. The artist installed these works of art both in the landscape and in the Museum of Decorative Arts in Prague in 1981 (“Herabsteingender Sthul”-“Descendig Chair”). The atmosphere of social oppression in those years caused an emigration flow from the East to the West. Magdalena Jetelová was one of the people who decided to move away, and she went to West Germany in 1985. This forced migration deeply influenced her personal life and her carrier. The theme of borders, in their territorial and political understanding, and the issue of delocalization, formed her strong poetic feeling. This is clearly evident in the works she realized at the beginning of the 90s. In “Domestication of a Pyramid,” which was exhibited in Wien, Berlin, Prague and Dublin between 1991-1994, she invades the museums’ spaces with a hill of red soil covering works of art and architectural elements. In 1996 in Barcelona with the installation “Dislocation” for the Museum of Contemporary Art (MACBA) the artist selected and removed some tiles of the façade of the building designed by Richard Meier and she installed the pieces in different urban spaces, hanged them to a tree in the Ramblas or placed them on damaged buildings or even made them float on the water. The meaning of borders is thus investigated through these actions of displacement, of de-territorialization. The artist extracts
respirare a Praga così come nel suo paese di origine. L’artista rimane volutamente lontana dai circuiti istituzionali di rappresentanza culturale e opera per le strade, nelle campagne, a cavallo tra Polonia ed ex-Cecoslovacchia. I temi della dominazione, del limite e del confine vengono espressi in istallazioni quali “Marking by Smoking” del 1983-84, in cui l’artista costruisce delle strutture in legno, simili a capanne, nelle regioni periferiche di Praga per poi bruciarle, diffondendo così nell’aria un fumo dalla forte colorazione rossastra; o la serie di sculture dalla forma di grandi sedie fuori scala, facilmente assimilabili all’immagine di un trono e alla sua ideologia di dominazione, che vengono installate sia nel paesaggio che, nel 1981, nel Museo di Arti Decorative di Praga (“Herabsteingender Sthul”-“Descendig Chair”). Il forte clima di oppressione sociale genera in quegli anni una grande ondata di emigrazione della popolazione verso Ovest e anche Magdalena Jetelová si sente costretta a spostarsi in Germania Occidentale nel 1985. Questa migrazione forzata lascia un segno profondo nella sua vita personale e nella sua carriera. I temi del confine, nella sua accezione territoriale e politica, e della de-localizzazione entrano prepotentemente a fare parte della sua poetica. Questo si legge chiaramente nelle opere della prima metà degli anni Novanta. In “Domestication of a Piramid,” allestita a Vienna, Berlino, Praga e Dublino, tra il 1991 e il 1994, una massa di terra rossa invade gli spazi dei musei e delle gallerie, sotterrando parte dell’architettura che la ospita. Nel 1996 a Barcellona con l’opera “Dislocation” per il Museum of Contemporary Art (MACBA) l’artista campiona e rimuove alcune parti della facciata del museo, progettato da Richard Meier, e le distribuisce in diversi spazi urbani, appendendoli a edifici evanescenti, incastrandoli tra gli alberi di una Ramblas o addirittura facendoli galleggiare sull’acqua. Il senso del confine è indagato in queste installazioni attraverso azioni di displacement, 311
elements from their original context to place them as intruders in other contexts, re-territorializing them, so as to create a migration of both objects and contents towards new possible meanings. In these years she developed the installations described in the first paragraph, such as “Iceland Project” and “Atlantic Wall,” where the influence of the first example of American Land Art could be also perceived. I am referring to the first installations by Michael Heizer or Walter De Maria.1 Underlining and re-drawing with light geographical boundaries, Magdalena Jetelová questions the meaning of delimitations, evoking the transitional character of the political, ideological or institutional manmade boundaries. Underneath many of her installations, a reflection on the idea of territory emerges, where the geographical and natural boundaries are overlapped by movement and change, and limitations are imposed by man. The power of Magdalena Jetelová’s installations, and specifically of “Atlantic Wall,” stems from her investigating the relationship between landscape and man, between territory and architecture.
di de-territorializzazione, che estrapolano degli elementi dal loro territorio di appartenenza, per introdurli come intrusi, ri-territorializzandoli, in contesti altri, facendo migrare oggetti e contenuti verso significati nuovi. In questi anni si collocano anche le installazioni già citate precedentemente, “Iceland Project” e “Atlantic Wall,” in cui si sente forte l’influenza della prima Land Art americana, in particolare delle opere di Micheal Heizer e di Walter De Maria.1 Sottolineando, ridisegnando con la luce confini geografici Magdalena Jetelová mette in discussione il senso della demarcazione, evocando il carattere transitorio dei confini politici, ideali e istituzionali creati dall’uomo. Sottesa a molte delle opere di Magdalena Jetelová vi è quindi una riflessione sul concetto di territorio, dove ai confini geografici naturali si sovrappongono, si spostano e si ridefiniscono i confini imposti e costruiti dall’uomo. La potenza evocativa delle installazioni, e in particolare dell’opera “Atlantic Wall” scaturisce dall’indagine del rapporto tra paesaggio e uomo, tra territorio e architettura.
Lights and shadows over the border
Inquadrare l’installazione nel profilo più generale dell’artista e della sua poetica è fondamentale per coglierne significati e sfaccettature. L’interesse di Magdalena Jetelová per gli avvenimenti storici, di fronte ai quali, in qualità di artista, si sente investita di una responsabilità attiva, emerge da un’intervista rivoltale da Pavel Laska, in occasione di un convegno tenutosi al MAK di Vienna nel 2001. L’artista infatti afferma: Artists will be agents of creative energy and the seismographs of society. […] What interests me much more is an interactive encounter with the past. (Noever 2001, 11-15)2 “Atlantic Wall,” tra le numerose opere realizzate da Magdalena Jetelová, è carica di una potenza evocativa particolare che, a mio avviso, scaturisce dai rimandi profondi tra le vicende della storia personale dell’artista e il
A contextualization of Jetelová’s “Atlantic Wall” installation helps us understand her artistic profile and her poetic approach. Magdalena Jetelová declares her interest for historical happenings, which results in an active responsible attitude. This becomes apparent in an interview Jetelová had with Pavel Laska, during a Symposium held at the MAK in Wien in 2001. On that occasion Jetelová claimed: Artists will be agents of creative energy and the seismographs of society (Noever 2001, 11) What interests me much more is an interactive encounter with the past (Noever 2001, 15) Among the many installations by Magdalena Jetelová, “Atlantic Wall” has a particular strong evocative power, which, according to 312
Luci e ombre sul confine
me, derives from the encounter of her personal history as an artist with the specific history of the bunkers of the Atlantic coast. On the one hand, there is the nomadic condition in which she was forced to live, which has influenced her life and sensibility; on the other hand, there are those relicts of the Nazi dream for omnipotence. Both of them are witnesses of two periods of suffering and repression. Sharing these universal feelings, the two histories vibrate in an encounter, which is signed by the borrowed words of a third important person unrelated to the contexts, Paul Virilio. The interwining between the two lived experiences, of people and objects, creates a stratification of significance. This is presented both in the material and immaterial dimensions of the installation. Without any doubt, light is a material that plays an essential role: the light of the laser beams superimposes on the heavy concrete surface of the bunkers and the silent landscape. Light can be seen here as a technical instrument able to ensure the best definition and clearness even at a far distance from the source. Laser is the acronym of Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation and it is the result of a process of amplification based on electro stimulation of the emission of protons. This technical interpretation of the laser reveals another point in common between the installation of the artist and the book by Paul Virilio used as a reference. The letters on the bunkers are projected with the same laser beam that was used as a symbol of the advancement in the military technology. This technical development resulted effectively in the easy defeat of the defence line of the Atlantic Wall. In this particular case Virilio talks about “electronic war” (Virilio 1994, 31): “Electron, neutron—the space of war moves from the physical and geophysical environment to the microphysics of waves and electromagnetic radiations” (Virilio 1994, 199). Light and radar can be considered as materials of the 20th century spirit.
passato specifico dei bunker della costa atlantica. Da un lato la condizione di emigrante, di nomade forzata, che ha influenzato il suo vissuto e la sua sensibilità artistica, dall’altro i “relitti” del sogno di onnipotenza nazista, sono entrambi testimonianze di due periodi storici seganti dalla sofferenza e dalla repressione. Proprio nel condividere questo passato difficile le due realtà risuonano nell’installazione che rimanda così a una condizione universale di pensiero, suggellata dalle parole di Virilio, quindi di una terza voce, estranea al contesto specifico di entrambi. Questo intreccio tra i due vissuti, della persona e dei manufatti, si traduce in una stratificazione di significati, legati sia alla dimensione fisica sia a quella immateriale proprie dell’installazione. Il materiale su cui si gioca il senso dell’opera è senza dubbio la luce. La luce proveniente dai proiettori laser, che si sovrappone alla pesantezza del cemento e alla lentezza del paesaggio. La luce da un lato può essere interpretata come elemento tecnico, figlio di una tecnologia che permette di ottenere la massima definizione anche a distanza elevata dalla fonte illuminante. Il laser, il cui termine è l’acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, è frutto di un processo di amplificazione ottica basato sulla stimolazione di emissione di protoni. Ed è anche in questa lettura tecnica del fascio luminoso che si coglie forte l’eco tra l’azione di Magdalena Jetelová e il testo di Paul Virilio di cui si nutre il suo ragionamento. Nell’installazione i bunker sono colpiti dalla luce laser, simbolo di quell’avanzamento nella tecnologia anche militare che ha decretato il facile superamento della linea difensiva dell’Atlantic Wall. Virilio parla infatti a questo proposito di “guerra elettronica” (1994, 31): “Electron, neutron—the space of war moves from the physical and geophysical environment to the microphysics of waves and electromagnetic radiations” (1994, 199).3 Luce e radar possono essere considerati materiali figli dello spirito del Ventesimo secolo. 313
© Magdalena Jetelová. “Atlantic Wall, 1995“. Technical Assistance: Werner J. Hannappel, Essen (Photographs), Jakob T. Valvoda (Laser)
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Writing about light’s materiality and symbolic value brings back memories of a project made by the young architect Albert Speer. It had a completely different aim compared to the Czech installation of Magdalena Jetelová. Yet, there is a strong parallelism in the use of light as a material. Speer was the official architect of the Third Reich and Hitler was specifically interested in his “theory of the value of ruins,” according to which the Nazi architecture should have been classical, prefiguring its remembrance in the minds of future generations. For the Congress of the Party, held in Nuremberg on the 11th of September 1937, Albert Speer surrounded the stadium with 150 antiaircraft spotlights able to enlighten objects even at 6 km distance. 150 beams of light and energy became columns, walls of an endless room, projected towards the sky, expressing the Nazi power. The so-called “Lichtdom,” this cathedral of light, was the dream of a night, as Speer said, it was switched on and then switched off at the sunrise. But this image remained imprinted in the memory of people, which is a much more long-lasting shelter than any other stone architecture (Speer 1971, 81). The poetic power of light, beyond its technical quality, is written in its immaterial and ephemeral nature. Magdalena Jetelová installation recalls both these qualities. But apart from being the material of a projection on the surfaces of the bunkers, light is also necessary to record the process of the installation through photography, which originates from the dialogue between shadow and light. The pictures taken by Paul Virilio in the summer of 1965 documented his archaeological expedition and became part of his narration. The pictures of the “Atlantic wall” installation fixed it in one moment and became an archive of the overlapping materials and meanings of these objects built by humans into the landscape. When the laser projection is switched off, the photos remain to witness the event and to communicate it 316
Queste considerazioni sulla potenzialità materica e simbolica della luce riportano alla memoria un progetto del giovane Albert Speer, in cui l’architetto ha adottato la luce come materiale, anche se con finalità e scopi molto diversi rispetto all’installazione dell’artista ceca. Speer, architetto per eccellenza del Terzo Reich, era particolarmente amato da Hitler per la sua “teoria delle rovine,” secondo cui l’architettura del partito avrebbe dovuto essere concepita in stile classico, prefigurando la grandiosità della sua futura trasmissione come rovina nei secoli. Per il Congresso del Partito, tenutosi la notte dell’11 Settembre del 1937, Albert Speer circondò lo stadio di Norimberga, architettura ispirata all’Altare di Pergamo in Turchia e capace di contenere più di 200.000 persone, con 150 riflettori da contraerea in grado di illuminare fino a 6000 metri di distanza. 150 fasci di luce e di energia divennero colonne, pareti di luce di una stanza infinta, diretta verso il cielo, espressione della totalità della potenza nazista. Il “Lichtdom,” questa cattedrale di luce fu “la fantasmagoria” di una notte, per citare le parole dello stesso Speer, si accese e si spense con l’alba, ma rimase impressa nella memoria, materiale più resistente all’erosione del tempo di quanto non lo sia un’architettura di pietra. (Speer 1971, 81) La natura immateriale ed effimera della luce disvela la sua forte c arica poetica, oltre la sua prestazione tecnica. Nell’installazione di Magdalena Jetelová sono enfatizzati entrambi questi aspetti. La luce, oltre ad essere materia della proiezione sui bunker, è anche condizione necessaria per la restituzione dell’evento tramite la fotografia, che dal contrasto luce e ombra nasce. Se nel testo di Virilio le fotografie dei bunker, da lui scattate nell’estate del 1965, documentano la sua ricognizione archeologica e sono una parte necessaria del suo discorso, le fotografie dell’installazione “Atlantic Wall” fissano in un istante e documentano la sovrapposizione di materiali e di significati su questi oggetti dell’uomo nel paesaggio. Quando l’installazione si spegne, rimane la fotografia a testimoniarne l’esistenza
through a visual language to the public, who can only observe it in galleries or museums. As previously seen, in the exhibition “Magdalena Jetelová, Der Neue Raum,” organized in Recklinghausen, the retro-illuminated pictures became light sources to enlighten the dark rooms, pushing even further the emphasis on light and its conceptual materiality. The art of communication uses the same toolset as the art of war: Stemming from the militarization of science and not only that of industry, we will see emerging a little later, prolonging the old radar, the innovation of “arms of communication”—electromagnetic arms capable of decoying the enemy as well as of guiding projectiles to their targets. (Virilio 1994, 199) Magdalena Jetelová went on working to explore the possibilities of using light. Issues described in the book by Virilio remain in many cases an evocative reference, also in later installations. This is evident in the process “Song Line 75°36'52'',” developed in Melbourne in 1998-99. As she desired to trace an ideal line to connect the Australian city to New York, she placed some big spotlights in the urban places that had a physical or conceptual connection with America, asking the inhabitants to suggest any place they perceived as “other.” The spotlights had enough power to be seen from a satellite, so that the picture of the ensemble of the spots could be visible only from the space. The image was intentionally recalling the typical “dot paintings” of the local aboriginal culture. If light could be seen as the evocative material of “Atlantic Wall,” one of the key interpretations we could read is its strict connection with different ideas of boundaries. We can recognize once again a stratification of meanings. The Atlantic coast is the geographical limit of the European continent, between earth and the ocean towards America. The defence line made out of 12,000 bunkers, including the Jutland camp, was the military boundary that defined the
e a comunicarla attraverso il suo linguaggio visuale al pubblico, che la può osservare solo nelle gallerie e nei musei. Ma qui, nel caso per esempio della mostra “Magdalena Jetelová, Der Neue Raum,” allestita a Recklinghausen, la fotografia retroilluminata diventa fonte di luce nella stanza buia, continuando il gioco di rimandi e l’enfasi concettuale data a questo materiale. L’arte della comunicazione utilizza gli stessi strumenti dell’arte della Guerra. Stemming from the militarization of science and not only that of industry, we will see emerging a little later, prolonging the old radar, the innovation of “arms of communication”–electromagnetic arms capable of decoying the enemy as well as of guiding projectiles to their targets. (Virilio 1994, 199)4 Lo studio della luce nelle sue componenti tecniche e simboliche è stato portato avanti negli anni da Magdalena Jetelová e le parole di Virilio sembrano essere rimaste impresse nel suo vocabolario poetico. È del 1998-99 l’installazione “Song Line 75°36'52''” a Melbourne. Con l’idea di marcare una linea ideale che colleghi la città australiana a New York, l’artista posiziona in alcuni punti strategici della città dei proiettori di luce abbastanza potenti da poter essere visibili da satellite. I proiettori vengono installati in luoghi urbani, suggeriti anche dai cittadini, dove è presente e si percepisce un richiamo alla cultura “altra” americana. L’immagine d’insieme degli spot luminosi è visibile solo da satellite e richiama volutamente i dot paintings della cultura aborigena locale. Se la luce è la materia evocativa di “Atlantic Wall,” l’interpretazione del senso del confine è una delle sue chiavi di lettura più forti. Anche in questo caso è possibile riconoscere nell’installazione una stratificazione di significati. La costa atlantica è il confine geografico che definisce il limite del continente europeo, della terra verso l’acqua dell’oceano e verso l’America. La linea di fortificazione costituita dai 12.000 bunker, di cui quelli della spiaggia dello Jutland fanno parte, era il confine militare di demarcazione che definiva il territorio occupato, assumendo quindi un valore strategico e politico. Stimolarci, come fa l’artista, 317
occupied territory, with a strategic and political purpose. Nowadays, the stimuli coming from the installation enable us to look at these bunkers considering them as a temporal boundary, between past and present, a boundary created by the natural process of history. In this rethinking, we gain more critical distance. In the installation, the shift in time is empowered by the displacement of the lost function of the bunkers and their movement from their original position. The displacement is physical and conceptual as well. The bunkers were built to defend an occupied land, but besides defending and observing the horizon, they embodied the power of a nation, simply through their presence in the landscape. While nature today silently erodes these objects, Magdalena Jetelová created an ephemeral scenography made of de-territorialized words and light. The installation is a theatrical scene without any public, only the actors are present. Concrete objects speechlessly move through the landscape and through our memory. The script of this drama is a possible re-reading, the sign of a re-interpretation of a “landscape in transformation.”2 But this transformation is part of a historical and natural process. Jetelová’s installation is a first possible re-appropriation of our awareness, which overcomes the difficult memory indirectly connected to these artefacts of war. In this sense the installation opens the field for future actions to re-enact these objects in our present. This is why breaking boundaries doesn’t necessarily mean deleting frontiers. It means cracking and fracturing the boundary as much as possible, the limit that it creates, in order to transform it in an ever-increasing border, where differences can take place. Inhabiting the threshold could thus mean inhabiting and building this third place, whose center passes inside of it and inside of us, so that we ourselves become borderline men. (Zanini 1997, 14) 318
ad osservare oggi questi bunker fa risaltare anche la dimensione temporale del confine tra passato e presente, che il procedere della storia genera, rendendoci consapevoli della maggiore distanza critica del nostro sguardo. Nell’installazione a sottolineare questo scarto temporale è l’enfatizzazione della delocalizzazione cui i bunker dello Jutland sono soggetti, svuotati ormai della loro funzione e spostati dal loro giacimento originale. De-localizzazione fisica quindi, ma anche di senso. Nati come oggetti stranieri in un territorio occupato, i bunker, oltre che difendere e osservare l’orizzonte, mettevano in scena il potere del partito, marcando con la loro presenza il territorio. Mentre oggi la natura si riappropria di questi oggetti, l’installazione dell’artista, attraverso la proiezione di parole de-territorializzate dal testo originale, crea una scenografia effimera, un effetto teatrale, dove non c’è pubblico, ma solo gli attori, questi oggetti di cemento e il loro lento e silenzioso movimento nel paesaggio e nella memoria. Questa drammaturgia è una ri-lettura, mette in scena e testimonia la possibilità di re-interpretare un “paesaggio in trasformazione.”5 Ma questa trasformazione è parte di un processo storico e naturale. Il confine su cui l’artista si è soffermata per un istante, è un confine che lei dimostra, oggi, essere aperto. Se la natura si riapproprierà lentamente di questi bunker, la sua installazione è una prima riappropriazione della consapevolezza di poter superare la memoria scomoda che li lega alla Guerra totale che li ha generati. “Atalntic Wall” apre in questo senso la strada a future e possibili azioni di ri-appropriazione di questo patrimonio, spesso volutamente dimenticato. Scrive Piero Zanini: Ecco perché rompere i confini non implica necessariamente la cancellazione delle frontiere. Significa infrangere, sfrangiare il più possibile il confine, il limite che esse stabilisce, per trasformarlo in un margine sempre più ampio, dove dare un luogo alle differenze. Abitare la soglia vorrebbe dire, allora, abitare e costruire questo terzo luogo il cui centro passa al suo interno e dentro di noi per diventare noi stessi uomini di confine. (1997, 14)
Notes
Note
1. Micheal Heizer and Walter de Maria realized their first Land Art Installation during their trip to the Mojave Desert in California, in 1968. Magdalena Jetelová’s work was surely influenced by this tension towards an endless landscape as an expression of freedom .I am referring to installations such as “Mile Long Drawing” in the Mojave Desert in 1968 by Walter De Maria or “Isolated Mass, Circumflez ‘9 of Nine Nevada Depression, Massacre Dry Lake” in Nevada by Micheal Heizer in 1968. 2. This is the title of the solo exhibition of the artist realized between July and October 2010 at the Kunsthalle Mannheim in Koln: “Magdalena Jetelová, Landscape of Transformation.”
1. Nel loro viaggio nel deserto di Mojave in California, nel 1968, Micheal Heizer e Walter de Maria realizzano le loro prime installazioni che diventeranno riferimenti chiave per la cosiddetta Land Art. La tensione verso il paesaggio infinito come forma di libertà materiale e concettuale ha sicuramente influenzato il lavoro di Magdalena Jetelová. Faccio riferimento in particolare a opere come “Mile Long Drawing” nel Mojave Desert del 1968 di Walter De Maria o “Isolated Mass, Circumflez ‘9 of Nine Nevada Depression, Massacre Dry Lake” nel Nevada di Micheal Heizer sempre dello stesso anno. 2. “Gli artisti sapranno attivare energia creativa, lavorando come sismografi della società (…) quello che mi interessa maggiormente è un incontro interattivo con il passato.” T.d.A. 3. “elettroni e neutroni – la spazialità della guerra si muove dalla sua dimensione fisica e geofisica a quella microfisica delle onde elettromagnetiche e delle radiazioni.” T.d.A. 4. “dalla militarizzazione della scienza e non solo dell’industria, nel giro di poco tempo vedremo emergere, come prolungamento del vecchio radar, l’innovazione di nuove “armi di comunicazione” – armi elettromagnetiche capaci di decodificare il nemico così come di indirizzare proiettili verso i loro bersagli.” T.d.A. 5. Proprio questo è il titolo della mostra personale dedicata all’artista, realizzata tra Luglio e Ottobre del 2010 presso la Kunsthalle Mannheim di Colonia: “Magdalena Jetelová, Landscape of Transformation.”
References • • • • • •
Lorenz, Ulrike. 2010. Magdalena Jetelová: Landscape of Transformation. Colonia: Wienand. Noever, Peter. 2001. The Discursive Museum. Ostfildern: Hatje Cantz. Ullrich, Ferdinand, and Hans-Jürgen Schwalm. 2007. Magdalena Jetelová. Der Neue Raum. Bönen: DruckVerlag Kettler. Speer, Albert. 1971. Memorie del III Reich. Milano: Bruno Mondadori. Virilio, Paul. 1975. Bunker archéologie. Paris: Éditions du CCI. Translated by George Collins as Bunker Archeology (New York: Princeton Architectural Press, 1994). Zanini, Piero. 1997. Significati del Confine. Milano: Bruno Mondadori.
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Giulia Grechi
Counter-monument and anti-monument: “the absolute impatience of a desire 1 of memory” Contro-Monumento e Anti-Monumento: “L’Impazienza Assoluta di un Desiderio di Memoria”1
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Policies of remembering: the reverse of memory
Politiche del ricordo: il rovescio della memoria
To articulate the past historically does not mean to recognize it “the way it really was.” It means to seize hold of a memory as it flashes up at a moment of danger.
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato davvero.” Vuol dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo.
(Benjamin 1997, 27)
(Benjamin 1997, 27)
Is it possible to de-monumentalize History? Is a monument still a monument, when it lacks “monumentality”? I will discuss these issues starting from some artistic practices, which aim at re-appropriating the narrative processes of historical, political and visual building of memory, and to violate, on the aesthetic/ethic level, the locations destined to preserve and “show” public memory, that is, the performative process of building public memory through the very act of displaying it. In his analysis of the counter-monument as an artistic strategy to negate and invert the aesthetics and the narratives of traditional monuments, James E. Young (1992) articulates his theory starting from the acknowledgment of the civic and historical role of the monument as a “mnemonic marker,” a tangible reminder that organizes, together with other devices, the individual and the communal access to the memory of an often untreatable or traumatic past, re-elaborated and transformed into History. The monument, in particular, enables to connote certain places in the urban space according to a specific temporal sense: a suspended temporality (the “empty and homogeneous time” of Benjamin) apt to the elaboration of myths and narratives which might legitimize and reinforce a community’s identity. The monument is ambiguously positioned in this dynamic: on the one hand it supports the process of memorialization that aims at creating a collective memory, which is a strong necessity for all the imagined communities; on the other hand, it hinders it, removing all the non-manageable, the unacceptable and the
è possibile de-monumentalizzare la Storia? è possibile un monumento privo di monumentalità? Intendo discutere queste questioni a partire da alcune pratiche artistiche, che si propongono di riappropriarsi dei processi narrativi di costruzione storica, politica e visuale della memoria, e di violare sul piano estetico/etico i luoghi deputati alla conservazione della memoria pubblica e alla sua “mostrazione,” cioè al processo performativo della costruzione di una memoria pubblica attraverso l’atto stesso del metterla in mostra. Nella sua analisi del contro-monumento come strategia artistica di negazione o inversione dell’estetica e delle narrazioni dei monumenti tradizionali, James E. Young (1992) articola il suo discorso proprio a partire dal riconoscimento del ruolo civico e storico del monumento come “mnemonic marker,” come segno tangibile che, insieme ad altri dispositivi, organizza l’accesso dell’individuo e di una comunità al ricordo di un passato, un passato spesso intrattabile o traumatico, rielaborato e trasformato in Storia. Il monumento, in particolare, permette di connotare alcuni luoghi, nello spazio urbano, in un senso temporale specifico, un tempo sospeso (il “tempo vuoto e omogeneo” di cui parla Benjamin), funzionale all’elaborazione di miti e narrazioni che legittimino e puntellino l’identità di una comunità. Il monumento si pone in maniera ambigua di fronte a questo processo, da un lato sostenendo la memorializzazione tesa alla costruzione di una memoria collettiva, una forte necessità di ogni comunità immaginata; dall’altro lato bloccandola, rimuovendo tutto ciò che di intrattabile, inaccettabile 321
traumatic contents from past events, translating “the reality of historical narrative to the level of the symbolic, removing it from the realm of current ethical dilemma” (Vickery 2012, 7). In this sense, the kind of memory articulated by the monument, as happens in every archival device, concerns memory-building as much as its removal: a process of forgetting-building, a sort of active amnesia of those parts of the past which might somehow fracture a coherent and positive vision, the dominant narrative of History, or which remain confined in the sphere of the unaccountability and the unrepresentability. In this way, the ethical, difficult and carnal gesture of remembering a shared traumatic past, which is impossible both to narrate and to forget, is transferred by authoritarian means from the citizen or the community to the monument, which is now attributed the disincarnated and ritual task of reminding. The artistic strategy of the counter-monument often deals, precisely, with the deconstruction and the inversion of the aesthetic forms and the narratives displayed by the traditional monument. The artists involved in such processes often work from the recognition of the powerful rhetoric of the traditional monument, according to which the symbolic level manifested by the monument is at first officially sustained, and then naturalized, secured through the standardization of visual tropes, which become recognizable and accepted by the community because of their assumed self-evidence. It is from the very deconstruction of the visual rhetoric of the canonical monument that the Costa Rican artist Sila Chanto started working at her project on memorial plaques, Inversion Historica.2 Sila Chanto is interested in deconstructing the social production strategies for forgetting, which produce, at the same time, what the artist calls a “selected memory.” After mapping and selecting the memorial plaques of the cities San José, in Costa Rica, and Cuenca, in Ecuador, 322
e traumatico vi è negli eventi del passato, traslando “the reality of historical narrative to the level of the symbolic, removing it from the realm of current ethical dilemma” (Vickery 2012, 7). In questo senso la memoria articolata dal monumento, come in ogni dispositivo archiviale, ha a che fare tanto con la costruzione del ricordo, quanto con la sua rimozione, con un processo di costruzione della dimenticanza, una sorta di amnesia attiva di quelle parti del passato che per qualche ragione costituirebbero una frattura nella visione unitaria e positiva, nella narrazione dominante della Storia, o che restano nell’ambito dell’irraccontabile o dell’irrappresentabile. Così il gesto etico e sofferto, carnale, del ricordare un comune passato traumatico, impossibile da raccontare ma anche da dimenticare, viene trasferito in maniera autoritaria dal cittadino o dalla comunità al monumento, delegando ad esso il compito rituale e disincarnato del ricordo. La strategia artistica del contro-monumento spesso si occupa precisamente di decostruire o invertire le forme estetiche e le narrazioni messe in scena dal monumento tradizionale. Gli artisti che si occupano di questi processi spesso lavorano a partire dal riconoscimento della potente retorica del monumento tradizionale, per la quale il livello simbolico espresso dal monumento viene prima sostenuto ufficialmente, istituzionalizzato, e quindi naturalizzato, fissato attraverso la standardizzazione di tropi visuali, che diventano riconoscibili e accettati dalla comunità grazie alla loro presunta auto-evidenza. è proprio a partire dalla decostruzione della retorica visuale del monumento tradizionale che l’artista del Costa Rica Sila Chanto ha iniziato a lavorare al suo progetto sulle targhe commemorative, Inversion Historica.2 Sila Chanto è interessata a decostruire le strategie di produzione sociale della dimenticanza, che contemporaneamente producono quello che l’artista definisce “ricordo selettivo.” Dopo aver mappato e selezionato le targhe
the artist, directly on the spot, takes an impression of each plaque onto a cotton cloth. The cloth is thus impressed with the same inscription which is on the plaque, yet specularly reversed. The counter-plaques which are obtained by this process are then mounted in several parts of the city, or next to the original plaques, and padded so as to make them take the shape of soft pillows, nailed to a wall at the four corners. Sila Chanto is suggesting here a strategy for the appropriation and the overturning of the narratives and the aesthetics of canonical memorial plaques, not necessarily by developing a counter-narration, but rather preferring an ironic and de-sacralising approach. The construction of an ambiguous dialectic between distance and proximity, through the impression/inversion and the displacement of the plaques (in both a symbolic and a literal sense), makes the opaque rhetoric of the traditional monument transparent. The doubling of the plaques also produces their decontextualization and removal to a different symbolic place (which is public, too, of memory and imagination). The deconstruction of the memorial narratives materialized by the plaques is obtained through their re-proposition in the shape of disturbing doubles, which challenge the cool, hard, monolithic consistence of the stone, through a light and soft material, which translates their forms into an intimate, fragile and delicate everyday object. These plaques and their doubles, thus, make the inseparable obverse and reverse of the politics of remembering visible. This brings to light how much the often shapeless plasticity of the intimate, subjective and private memory of each individual belonging to a community is captured in the processes of memorialisation, at worst removed or rendered invisible, at best translated into a public history and nailed to a wall.
commemorative presenti nella città (San José in Costa Rica e Cuenca in Ecuador), l’artista prende di ognuna, direttamente in situ, una impronta su una tela di cotone. La tela verrà così impressa della stessa iscrizione della targa, però rovesciata specularmente. Le controtarghe così ottenute vengono poi montate in diverse parti della città o accanto alla targa originale, imbottite in modo da prendere una forma morbida di cuscino, inchiodato a un muro ai quattro angoli. Sila Chanto propone qui una strategia di appropriazione e di rovesciamento della narrazione e dell’estetica della targa commemorativa tradizionale, non necessariamente sviluppando una contro-narrazione, ma privilegiando un approccio ironico e desacralizzante. La creazione di una dialettica ambigua tra distanza e prossimità, attraverso l’impressione/inversione e lo spiazzamento (in senso letterale e simbolico) delle targhe, rende trasparente la retorica opaca del monumento tradizionale. La duplicazione delle targhe produce anche la loro de-contestualizzazione e il loro spostamento in un differente luogo simbolico (altrettanto pubblico, della memoria e dell’immaginazione). La decostruzione delle narrazioni memoriali che le targhe incarnano è ottenuta attraverso la loro riproposizione in forma di doppi perturbanti, che sfidano la freddezza, la durezza e la monoliticità della pietra attraverso l’uso di un materiale morbido e leggero, che ne trasla la forma in quella di un oggetto quotidiano, intimo, delicato, fragile. Le targhe e i loro doppi rendono così visibili il recto e il verso, inseparabili, delle politiche del ricordo. è il portare alla luce quanto la plasticità spesso informe della memoria intima, soggettiva, privata, di ogni individuo che appartiene a una comunità sia catturata nei processi di memorializzazione, nel peggiore dei casi rimossa o invisibilizzata, nel migliore dei casi tradotta in una Storia pubblica e inchiodata a un muro.
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Jochen Gerz and Esther Shalev-Gerz, Mahnmal gegen Faschismus (Monument against Fascism), column of galvanized steel with a lead coating (12m x 1m x 1m), Hamburg, 1986. © Jochen Gerz, VG Bild-Kunst, Bonn 2012. Photographer credit: Kulturbehörde, Hamburg. Courtesy: Gerz studio.
The vanished monument and the invisible monument
Il monumento scomparso e il monumento invisibile
History is the object of a construction, whose site is not that of homogeneous and empty time, but one filled with now-time.
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’adesso.
(Benjamin 1997, 46-47)
(Benjamin 1997, 46-47)
We, however, “are not ashamed of staring into the unsayable,” even at the risk of discovering that what evil knows of itself, we can also easily find in ourselves.
Noi invece “non ci vergogniamo di tenere fisso lo sguardo nell’inenarrabile,” anche a costo di scoprire che ciò che il male sa di sé, lo troviamo facilmente anche in noi.
(Agamben 1999, 33)
(Agamben 1998, 30)
The counter-monument is only one out of the possible strategies to challenge the logic and the functions of the traditional
Quella del contro-monumento è solo una delle strategie possibili, per contestare la logica e le funzioni del monumento tradizionale.
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monument. The process of criticizing and deconstructing the monumentality and the demagogy of the memorialisation processes is bound to what Jonathan Vickery (2012) defines “the counter-monument era,” which has developed since the fall of Berlin Wall in 1989, and is connected, somehow, to the rhetoric of the decline of the grand narratives in the late modernity. A large number of artists are working on the criticism of the aesthetical and political narrations that power literally inscribes on the body of the traditional monument. This artistic strategy, according to Vickery’s analysis, can follow two modalities: the first (which I call the “counter-monument strategy”) aims to deconstruct and subvert the authority of the traditional monument, and to unmask the hidden removals under the marble skin of the institutionalized memory; the second one is interested in affirming an ethical gesture, which consists in thinking of the monument not as a form of art, but as a cultural form, extremely useful for a community, which can also function differently, unconventionally. In this second case, it is about freeing the monument from the monumentality which has been attributed to it (with all its appendances: monolithicism, grandness, authority, closure); about reinterpreting its “public” function not in the sense of “institutional” or “state-controlled,” but in the sense of “the public benefit;” about deactivating the traditional functions of the monument and reactivating them differently, radically reflexively and relationally. This is precisely the meaning that the German artist Jochen Gerz3 attributes to his work on the concept of the anti-monument: “in my life and in my work I always search for a certain degree of dependence, I wanted to be dependant on my life, I wanted to be dependant on my society. Freedom has no meaning outside all this. I wanted to doubt, to criticize my society, but I wanted to remain inside my society and depend on it […]. I wanted art to be a sign of my dependance” (Gerz 2011, 185).
Il processo di critica e decostruzione della monumentalità e della demagogia dei processi di memorializzazione è legato a quella che Jonathan Vickery (2012) definisce “l’era del contro-monumento,” sviluppatasi a partire dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, e legata in qualche modo alla retorica del declino delle grandi narrazioni nella tarda modernità. Molti artisti stanno lavorando sulla critica delle narrazioni estetiche e politiche che il potere inscrive letteralmente sul corpo del monumento tradizionale. Questa strategia artistica, secondo l’analisi di Vickery, può darsi due modalità: la prima (che ho chiamato “strategia del contro-monumento”) tende a decostruire e sovvertire l’autorità del monumento tradizionale e a smascherare il fatto che ci sono delle rimozioni nascoste sotto la pelle marmorea della memoria istituzionalizzata; la seconda è interessata all’affermazione di un gesto etico, che consiste nel pensare il monumento non come una forma d’arte, ma come una forma culturale estremamente utile per una comunità, che può anche funzionare in modi diversi da quello tradizionale. In questo secondo caso, si tratta di liberare il monumento dalla monumentalità che gli è stata attribuita (con tutti i suoi portati di monoliticità, grandiosità, autorità, chiusura); di reinterpretare la sua funzione “pubblica” non nel senso di “istituzionale” o “statale,” ma nel senso di “nel pubblico interesse;” di disattivare le funzioni tradizionali del monumento e di riattivarle in modi nuovi, radicalmente riflessivi e improntati alla relazionalità. Questo è precisamente il senso in cui l’artista tedesco Jochen Gerz3 intende il suo lavoro intorno al concetto di anti-monumento: “nella mia esistenza e nella mia opera perseguo sempre un certo grado di dipendenza, volevo essere dipendente dalla vita, volevo essere dipendente dalla mia società. La libertà non ha senso al di fuori di questo. Volevo dubitare, criticare la mia società, ma volevo essere all’interno della mia società e dipendente da questa. Non potevo esserne al di fuori […]. Volevo che l’arte fosse un segno 325
Gerz does not like his works to be defined counter-monuments: the artist prefers the prefix anti, as its etymological meaning suggests “instead of,” rather than “the opposite of,” namely the possibility that, through his work, some alternative, or simply possible visions and narratives might emerge, which differ from the institutional ones in modality, contents and in the “authorized” speaking subjects. At a conference held at the Festival of Contemporaneity in Faenza in 2011, Jochen Gertz started his talk claiming that “nobody can choose their past:” the artist first lived under Fascism, and later experienced Communist dictatorship in his country, East Germany. Thus, when commissioned by the Hamburg City for a work on the fascist past of the city, in the mid 90s, Gerz was rather perplexed: he believed that it was “horrible” to monumentalize that past, rendering it inoffensive, “domesticating” it into stone. When the group of patrons (almost 40 people, among whom cultural operators, political representatives and citizens) made their request clear, Gerz decided to accept: “we do not want anything that we might like. We do not want anything easy for us. We do not want anything easy to keep. It must keep open the wound of memory” (Gerz 2011, 186). The “Monument Against Fascism,” carried out with Esther Shalev-Gerz and purposefully positioned in a suburban, commercial area rather than in a symbolic place in the city, consists in a twelve meter high square column, whose surface is made of a lead and is completely bare. A panel invited passers-by to sign on the column against Fascism, with a pen made of steel; as the space was being filled with signs, the column was lowered into the ground, swallowing the signatures and leaving free space for new ones to gradually fill it. Ten years later the monument disappeared into the ground, with all the signatures (a great number of which had been erased) and the signs covering it (swastikas, neo-Nazis writings and various graffiti), becoming entirely invisible, except for the top 326
della mia dipendenza” (Gerz 2011, 185). Gerz non ama che ci si riferisca ai suoi lavori chiamandoli contro-monumenti: il prefisso anti- che l’artista predilige è legato a una sfumatura etimologica che sottolinea l’“invece” di, piuttosto che il “contrario di,” cioè il permettere, attraverso il suo lavoro, che emergano visioni e narrazioni alternative o semplicemente possibili, diverse rispetto a quelle istituzionali nella modalità, nei contenuti e nei soggetti “autorizzati” a parlare. Jochen Gerz, durante una conferenza presso il Festival del Contemporaneo svoltosi a Faenza nel 2011, ha iniziato il suo intervento dicendo che “nessuno può scegliersi il proprio passato:” l’artista ha vissuto prima sotto il Fascismo e poi ha assistito per quarant’anni alla dittatura comunista nel suo Paese, la Germania Est. Così quando, alla metà degli anni ’90, lo chiamarono per una commissione nella città di Amburgo chiedendogli di lavorare proprio sul passato fascista della città, Gerz era piuttosto perplesso: riteneva fosse “orribile” monumentalizzare quel passato, renderlo inoffensivo, addomesticandolo nella pietra. Quando il gruppo di committenti (circa 40 persone tra operatori culturali, rappresentanti politici e cittadini) specificarono la loro richiesta, Gerz decise di accettare: “non vogliamo niente che piaccia a noi. Non vogliamo niente che per noi sia facile. Non vogliamo qualcosa che sia facile da mantenere. Deve tenere aperta la ferita della memoria” (Gerz 2011, 186). Il “Monument Against Fascism,” realizzato insieme a Esther Shalev-Gerz e posizionato volutamente non in un luogo simbolico della città, ma in una zona periferica e commerciale, consiste in una colonna quadrata alta dodici metri, dalla superficie di piombo completamente spoglia. Un testo invitava i passanti a lasciare sulla superficie della colonna la propria firma contro il Fascismo, con una penna di acciaio, e man mano che lo spazio si fosse riempito di segni, la colonna sarebbe stata sprofondata nel terreno, inghiottendo le firme apposte e lasciando spazio libero da
Jochen Gerz and Esther Shalev-Gerz, Mahnmal gegen Faschismus (Monument against Fascism), column of galvanized steel with a lead coating (12m x 1m x 1m), Hamburg, 1986. © Jochen Gerz, VG Bild-Kunst, Bonn 2012. Photographer credit: Kulturbehörde, Hamburg. Courtesy: Gerz studio.
riempire progressivamente di nuove firme. Dieci anni dopo, il monumento era completamente scomparso nel terreno, con tutte le firme (molte delle quali erano state cancellate) e i segni che lo ricoprivano (svastiche, scritte neo-naziste e graffiti di vario genere), diventando del tutto invisibile, tranne che per la sommità della colonna con le ultime firme, e l’invito iniziale: We invite the citizens of Harburg, and visitors to the town, to add their names here to ours. In doing so, we commit ourselves to remain vigilant. As more and more names cover this 12 meter tall lead column, it will gradually be lowered into the ground. One day it will have disappeared completely, and the site of the Harburg monument against fascism will be empty. In the end, it is only we ourselves who can rise up against injustice. (Vickery 2012, 9) Il luogo che lo aveva ospitato diventava così “un luogo ordinario, sporco, pubblico e difficile” (Gerz 2011, 187) e il monumento, 327
Jochen Gerz, 2146 Steine – Mahnmal gegen Rassismus / Das unsichtbare Mahnmal (2146 stones - Monument against racism / The Invisible Monument), 2146 engraved paving stones (50 X 70 m), Saarbrücken, 1993. © Jochen Gerz, VG Bild-Kunst, Bonn 2012. Photographer Credit: Martin Blanke, Berlin and Gerz studio. Courtesy: Gerz studio. 328
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of the column, filled with the latest signatures and the initial invitation: We invite the citizens of Harburg, and visitors to the town, to add their names here to ours. In doing so, we commit ourselves to remain vigilant. As more and more names cover this 12 meter tall lead column, it will gradually be lowered into the ground. One day it will have disappeared completely, and the site of the Harburg monument against fascism will be empty. In the end, it is only we ourselves who can rise up against injustice. (Vickery 2012, 9) The place that had hosted it, thus, became “an ordinary, dirty, public and difficult place” (Gerz 2011, 187) and the monument, with its disappearance, returned the commission directly to society: “art cannot make its job. We, all, are monuments” (Gerz 2011, 187). This is the meaning of what Gerz calls “public authorship:” to make the artistic practice the place of social dialogue, holding it not as an activity of object production, but as a shared process, producing relationships and even objects, which nevertheless, here, function in a discursive and exchange modality. The issue of public authorship, in which the New Genre Public Art4 has long shown interest, is about the shifting of the artistic production towards a reticular model, shared and participated by all the actors of the process: the artist, the authorities or the institutions, as well as the public or the community (who is identified every single time in every specific work). In this sense, the artist gives up the uniqueness of his authorial voice, taking on, instead, the role of the translator of a space of meaning, not necessarily keeping control on the meanings emerging from the process, but rather taking on the responsibility of guaranteeing their coming out.5 This particular form of authoriality that is taking shape, which is shared and comes “from the grass-roots,” is able to transmit other narratives, also in conflict with the dominant ones, or, in any case, to articulate and give sound to unheard voices. In this sense, counter- and anti-monuments are always memorials, not 330
nel suo scomparire, restituiva la commissione direttamente alla società: “l’arte non può fare il suo lavoro. Noi, tutti, siamo i monumenti” (Gerz 2011, 187). Questo è il senso di quella che Gerz chiama “public authorship:” fare della pratica artistica il luogo di un dialogo sociale, considerandola non come attività produttrice di oggetti, ma come processo condiviso, produttivo di relazioni o anche di oggetti, che tuttavia qui hanno valore innanzitutto nella loro funzione discorsiva e nell’essere veicolo di scambio. La questione dell’autorialità pubblica, sulla quale da tempo la New Genre Public Art4 sta riflettendo, è nello slittamento verso un modello reticolare della produzione artistica, condiviso e partecipato da tutti gli attori che entrano nel processo: l’artista, le autorità o le istituzioni e il pubblico o la comunità (identificata di volta in volta in ogni specifico lavoro). In questo senso l’artista rinuncia all’unicità della sua voce autoriale, assumendo piuttosto il ruolo di traduttore di uno spazio di senso, senza avere necessariamente il controllo sui significati che emergeranno nel processo, ma assumendosi la responsabilità di assicurare che possano emergere.5 La particolare forma di autorialità condivisa e “dal basso” che si configura, può veicolare altre narrazioni, anche conflittuali rispetto a quelle dominanti, o comunque può articolare e dare suono a voci rimaste inascoltate. In questo senso, i contro-monumenti e gli anti-monumenti sono sempre dei memoriali, non in senso celebrativo o commemorativo o contemplativo, ma nel senso dell’attivazione di processi di memoria che comprendano in loro stessi anche le fratture, i conflitti di punti di vista non conformi sul passato, o sul modo di raccontarlo. Soprattutto se il passato di cui si parla costituisce per una comunità un ricordo difficile da trattare: “if you do works like mine—monuments against fascism or racism in countries like Germany where the issues are so tensely felt—what is important is to keep the discussion going” (Gerz 2004, 656). Far sì che il dialogo prosegua e si
in a celebrative or commemorative sense, but in the sense of the activation of memory processes, which involve in themselves also the fractures, the conflicts of non-conventional points of view on the past or on the way to narrate it. Especially if this past represents, for a community, a difficult remembrance to handle: “if you do works like mine—monuments against Fascism or racism in countries like Germany where the issues are so tensely felt—what is important is to keep the discussion going” (Gerz 2004, 656). To keep the discussion going and continuously growing is of crucial importance, in order to sustain a form of emersion of affects, even if conflicting. What has been defined by some critics as “vandalism” against Gertz’s monument (namely, the erasure of a great number of signatures, as well as the neo-Nazi signs and the swastikas), thus remaining inside the authoritarian and incorporeal paradigm of the traditional monument, is the very sign of that “anxiety of representation” (Vickery 2012, 5), which encounters an ethical dilemma, a pivotal one for a society that is coping with an awkward, traumatic past: the problem of how to recognize, visualize or narrate historical events that, on principle, are considered unrepresentable. It is about that “mechanism of disimagination” mentioned by Didi-Huberman about the Nazi extermination-camps, and the advisability of translating the remembrance of that past into a form of imagine-imaginaryimagination. In Didi-Huberman’s opinion, it is necessary to refute the unimaginable: to give a form to this unimaginable, to oppose the Nazi gesture that congeals testimony with the reason that “nobody will ever think that all this has happened.” According to the French philosopher, the discourse of the unimaginable is articulated starting from two different and symmetrical modes: “one proceeds from an aestheticism that often fails to recognize history in its concrete singularities. The other proceeds from a historicisms that often fails to recognize the image in its formal specificities” (Didi-Huberman 2008, 26). Both these
alimenti continuamente è cruciale per sostenere una forma di emersione di affetti anche conflittuali. Quello che alcuni critici hanno definito come “vandalismo” sull’anti-monumento dei Gerz (la cancellazione di molte delle firme o le scritte neo-naziste e le svastiche) restando precisamente dentro il paradigma autoritario e incorporeo del monumento tradizionale, è precisamente il segno di quella “anxiety of representation” (Vickery 2012, 5) che coglie un dilemma etico fondamentale per una società che si trova a fare i conti con un passato ingombrante e traumatico: il problema di come riconoscere e visualizzare o raccontare dei fatti storici che sono considerati irrappresentabili per principio. Si tratta di quel “meccanismo della disimmaginazione” di cui parla Didi-Huberman a proposito della rappresentabilità dei campi di sterminio nazisti, e dell’opportunità di tradurre in una forma di immagine-immaginario-immaginazione il ricordo di quel passato. Secondo Didi-Huberman è necessario confutare l’inimmaginabile: dare una forma a questo inimmaginabile, opponendosi al gesto nazista che congela la testimonianza con la motivazione “nessuno mai crederà possibile che sia accaduto tutto questo.” Secondo il filosofo francese il discorso dell’inimmaginabile si articola a partire da due regimi differenti e simmetrici: “uno è quello di un estetismo che tende a misconoscere la storia nelle sue concrete singolarità. L’altro è quello di uno storicismo che tende a misconoscere l’immagine nelle sue specificità formali” (Didi-Huberman 2005, 43). Questi due regimi sono entrambi coagulati nel monumento tradizionale e precipitano insieme nelle politiche del ricordo ad esso connesse. L’anti-monumento di Gerz fa collassare sia il discorso estetizzante che quello storicizzante, e i portati retorici di entrambi. Its aim was not to console but to provoke, not to remain fixed but to change, not to be everlasting but to disappear, not to be ignored by passers-by but to demand interaction, not to remain pristine but to invite its own violation 331
modes are congealed into the traditional monument, and both come to a head in the policies of remembering that are connected to it. Gertz’s anti-monument makes both the discourses of aestheticism and historicism collapse, with their connected rhetoric. Its aim was not to console but to provoke, not to remain fixed but to change, not to be everlasting but to disappear, not to be ignored by passers-by but to demand interaction, not to remain pristine but to invite its own violation and desanctification, not to accept graciously the burden of memory but to throw it back at the town’s feet. (Young 2000, 138-139). It is no accident that the reactions to the 2146 Stones—Monument against Racism, the “invisible” monument created in 1993 by Gertz in Saarbrücken (Germany), were all about Gertz’s presumed “irreverence” of representing the very invisibility of the invisible object, the unthinkable and unrepresentable object par excellence. In this case, thanks to the support by the Jewish local communities, the artist was able to track the names of all the Jewish cemeteries existing in the area before the Third Reich. The 2,146 cemeteries names were carved onto pavement stones that had been previously removed from the avenue opposite Saarbrücken Provincial Parliament. The stones, once removed and carved, were subsequently put back into their places, with the carving turned downward. This work initially began without any public commission, stemming from the artist’s collaboration with some students of the city, who, unbeknownst to the local institutions and the citizens, worked with him at nights at the removal, the carving and the resettling back of the stones: Nobody saw what had happened, nobody knew about this work. No commission, no budget, no artists, no spectators.[…] You couldn’t see anything […]. It is an invisible work, but not an incomprehensible one. It simply says that if there are so many Jewish cemeteries here, there must be a great number of people living here, because no artist could ever invent a cemetery. At that time, 332
and desanctification, not to accept graciously the burden of memory but to throw it back at the town’s feet. (Young 2000, 138-139). Non è un caso che le reazioni al 2146 Stones—Monument against Racism, il monumento “invisibile” realizzato da Gerz a Saarbrücken, in Germania, nel 1993, siano state centrate sulla presunta irriverenza di aver rappresentato proprio l’invisibilità dell’oggetto invisibile, impensabile e irrappresentabile per eccellenza. In questo caso, con l’aiuto delle comunità ebraiche del luogo, l’artista è stato in grado di rintracciare i nomi di tutti i cimiteri ebraici presenti nella zona prima del Terzo Reich. I nomi dei 2.146 cimiteri sono stati incisi sulle pietre pavimentali precedentemente rimosse dal viale di fronte alla sede del Parlamento Provinciale di Saarbrücken. Le pietre rimosse e poi incise sono state successivamente riposizionate nello stesso luogo, con la parte incisa rivolta verso il basso. Questo lavoro inizialmente era nato senza una commissione pubblica, in seguito alla collaborazione dell’artista con alcuni studenti della città, che hanno lavorato con lui di notte, all’insaputa delle istituzioni locali e della cittadinanza, alla rimozione delle pietre, alla loro incisione e al loro riposizionamento: Nessuno vide quello che era successo, nessuno seppe di quest’opera. Nessuna commissione, nessun budget, nessun artista, nessuno spettatore. […] Non si vedeva niente […]. è un’opera invisibile, ma non incomprensibile. Dice semplicemente che se qui ci sono così tanti cimiteri ebraici, ci devono essere molte persone che ci vivono, perché nessun artista inventerebbe un cimitero. All’epoca, nei primi anni novanta, trovammo 64 comunità ebraiche in Germania, ma non molti ebrei che ci vivevano. (Gerz 2011, 188-189) Quando le persone che percorrevano quel viale hanno iniziato a percepire che le pietre erano sconnesse e la misteriosa questione è finita sui quotidiani locali, l’artista ha informato il governo regionale, che ha votato con una esigua maggioranza il completamento dell’opera, commissionandolo retrospettivamente
Jochen Gerz, 2146 Steine – Mahnmal gegen Rassismus / Das unsichtbare Mahnmal (2146 stones - Monument against racism / The Invisible Monument), 2146 engraved paving stones (50 X 70 m), Saarbrücken, 1993. © Jochen Gerz, VG Bild-Kunst, Bonn 2012. Photographer Credit: Martin Blanke, Berlin and Gerz studio. Courtesy: Gerz studio.
at the beginning of the 90s, we found 64 Jewish communities in Germany, but not many Jewish lived there. (Gerz 2011, 188-189) When the people walking that avenue started perceiving the disconnected stones, and when the mysterious question ended in the local newspapers, the artist informed the regional government, which, with a narrow majority, voted for the work to be completed, retrospectively commissioning it to the artist. When the invisible monument was inaugurated, a great number of people asked for a sign which would signal its presence; since then, Schlossplatz, as it was called formerly, has been called Platz des Unsichtbaren Mahnmals
all’artista. Quando il monumento invisibile è stato inaugurato, molte persone hanno chiesto un segnale che indicasse la sua presenza, e da allora la piazza del Castello, come precedentemente si chiamava, è stata ribattezzata come Piazza del Monumento Invisibile. La questione paradossale di un monumento invisibile sottolinea nuovamente la crucialità del regime di visibilità e della strategia di mostrazione alla quale sono legati i processi di memorializzazione di un passato traumatico nel monumento tradizionale. Nelle parole di Didi-Huberman: Per sapere occorre immaginare. […] Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci 333
(Square Of The Invisible Monument). The paradoxical issue of an invisible monument underlines, once again, the paramountcy of a regime of visibility, as well as the “exhibitionary” strategy, to which the processes of memorialisation are tied, through the inscription of traumatic pasts onto the traditional monument. In Didi-Huberman’s words: In order to know, we must imagine for ourselves [...] Let us not invoke the unimaginable. Let us not shelter ourselves by saying that we cannot, that we could not by any means, imagine it to the very end. We are obliged to that oppressive imaginable. It is a response that we must offer [...] Thus, images in spite of all: in spite of the hell of Auschwitz, in spite of the risks taken. [...] Images in spite of all: in spite of our own inability to look at them as they deserve. (DidiHuberman 2003, 3) Such examples of disappeared or invisible anti-monuments force the person who is looking at them, carving on them, perceiving them in their absence, to face the void they open; they compel the eye to close and look inward, challenging the invisibility and memorability regime to which it is obliged when facing the traditional monument; they contest the compulsory remembering of the past, which is supposed to be possible only through a sweetened or authoritarian exhibition. All the more so, because this is not only about the first-hand memory of those for whom that past had once been a present (the witnesses), but about the “post-memory” that Marianne Hirsch defined as a secondary memory, one that was laboriously built through conflicts by the generations following the direct witnesses of a traumatic historical event that is yet to be elaborated.6 Through his work, Gertz is mainly interested in supporting the incessant and complex emergence of a post-memory, which necessarily requires an extended and fully fractured temporality. The artist’s strategy is paradoxical: it is the strategy that Appadurai defines “a policy of patience, constructed 334
dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi modo ci proviamo, è un compito che non possiamo assumerci, che non potremo mai assumerci – anche se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiamo provarci, dobbiamo confrontarci con questa cosa difficile da immaginare. […] Immagini malgrado tutto, allora: malgrado l’inferno di Auschwitz, malgrado i rischi corsi. […] Malgrado la nostra incapacità di guardarle come meriterebbero. (Didi-Huberman 2005, 15) Questi esempi di anti-monumenti, scomparsi o invisibili, forzano il soggetto che li guarda, li incide o li percepisce nella loro assenza, nel vuoto che aprono; forzano l’occhio a chiudersi verso il dentro, sfidando il regime stringente di visibilità e di memorabilità in cui è costretto davanti al monumento tradizionale; contestano la costrizione al ricordo del passato che si presume possa avvenire solo attraverso la sua mostrazione in una forma edulcorata o autoritaria. Tanto più che non si ha a che fare solo con la memoria di prima mano di coloro per i quali quel passato un tempo è stato un presente (i testimoni), ma con quella “post-memory” definita da Marianne Hirsch come una memoria secondaria, costruita in maniera estremamente faticosa e conflittuale dalle generazioni successive a quella dei testimoni diretti di un evento storico traumatico, che ancora deve essere elaborato.6 Gerz è interessato principalmente a sostenere attraverso il suo lavoro l’incessante e complessa emersione di una post-memoria, che richiede necessariamente una temporalità estesa e densa di fratture. La strategia dell’artista è una strategia paradossale: quella che Appadurai definisce “una politica della pazienza costruita lottando contro la tirannia dell’emergenza” (2011, 479), la sola in grado di sostenere la temporalità lunga necessaria al compiersi di trasformazioni culturali profonde e di nutrire il lento lavoro di erosione dell’organizzazione sociale della certezza. Gerz inserisce dunque un elemento di conflittualità nelle narrazioni istituzionali, nell’istituzionalizzazione del benjaminiano
against the tyranny of emergency” (2001, 30), the only one capable of sustaining the longstanding temporality required to fulfil deep cultural transformations, and of feeding the slow work of wearing away the social organization of certainty. Gertz, thus, inserts an element of conflict into the institutional narratives, into the institutionalization of Benjamin’s “state of exception,” simply by involving individuals, who are called for interaction or for a more radical sharing of the authoriality of the artistic process, here intended as space for dialogue and emergence. This dynamic enables to situate one’s own subjectivity in any point of the prevailing narration, expressing different levels of conflicts and, above all, intertwining the intimacy of personal experiences or remembering with the institutional policy of remembering, literally inscribing one’s own corporeity in the corpus of History, letting the monument incorporate the trace of this gesture. This involvement of the unique corporeity of individuals (who, for example, perceive the stones in front of Saarbrücken Provincial Parliament as they become disconnected under their feet, thus perceiving the very memory on which their civic identity is based, symbolically vacillating), helps in the emergence of non-envisaged affects, which are often unexpressed by History in the way this is officially represented. The resentment, which is “born from the impossibility for somebody’s will to accept that something has happened, from its incapacity to reconcile itself with time and its ‘so it was’” (Agamben 1999, 71), or the shame of facing an imagery of one’s own past, which is impossible to avoid and to leave behind, or to protect oneself from, unless overcoming oneself and becoming the very subject of the vision, who must “respond to what deprives him/her of speech” (Agamben 1998, 99). An imagery that cannot be unacknowledged in any case; one that, in the very painful ambiguity of recognizing it familiar and strange at the same time, in the impossibility of
“stato d’eccezione,” semplicemente attraverso il coinvolgimento degli individui, chiamati a interagire o più radicalmente a condividere l’autorialità del processo artistico come spazio di dialogo e di emersione. Questa dinamica permette di collocare le proprie soggettività in un punto qualsiasi della narrazione dominante, esprimendo diversi livelli di conflittualità e soprattutto intrecciando l’intimità delle esperienze o dei ricordi personali con le politiche istituzionali del ricordo, inscrivendo letteralmente la propria corporeità nel corpus della Storia, facendo sì che il monumento incorpori la traccia del loro gesto. Questo chiamare in causa la corporeità dei singoli individui (che ad esempio sentono le pietre di fronte al Parlamento Provinciale di Saarbrücken farsi improvvisamente sconnesse sotto i piedi, sentendo simbolicamente vacillare la memoria sulla quale si regge la loro identità civica) contribuisce all’emersione di affetti non contemplati e spesso inespressi dalla Storia ufficialmente rappresentata. Il risentimento che “nasce dall’impossibilità per la volontà di accettare che qualcosa sia accaduto, dalla sua incapacità di riconciliarsi col tempo e col suo ‘così è stato’” (Agamben 1998, 65) o la vergogna del trovarsi davanti agli occhi un immaginario del proprio passato impossibile da scansare, rispetto al quale non è possibile alcuna posizione di distanza o di sicurezza, tranne la sopraffazione del percepirsi come soggetto della visione, del dover “rispondere per ciò che gli toglie la parola” (Agamben 1998, 99). Un immaginario che in nessun caso è possibile dis-conoscere, e che proprio nell’ambiguità angosciosa del riconoscerlo contemporaneamente estraneo e familiare, nell’impossibilità dell’uscita di sicurezza dell’accettazione o del rifiuto, genera un’apertura, una frattura nel racconto della Storia, che va ben oltre il senso della testimonianza: “ciò che ci sta ora davanti è un essere al di là dell’accettazione e del rifiuto, dell’eterno passato e dell’eterno presente—un evento che eternamente ritorna, ma che, proprio per questo, è assolutamente, eternamente 335
escaping it by accepting or refusing it, generates an opening, a fracture in the narration of History, that goes far beyond the meaning of testimony: “What lies before us now is an entity beyond acceptance and refusal, beyond the eternal past and the eternal present—an event that returns eternally but that, precisely for this reason, is absolutely, eternally unassumable. Beyond good and evil we cannot find the innocence of becoming, but, rather, a shame that is not only without guilt but even without time” (Agamben 1998, 94-95). We can thus ask, with Agamben, what happens when the individual occupies the empty place left by the subject, the space of enunciation. The signature or the writing, the subject’s engraving on the surface of the monument, do not guarantee the truth of any enunciation, and besides, there is no statement, no enunciation to be validated in this archival device, in the rhetorical strategy of the anti-monument. The signature, the sign, rather guarantee the presence of an exceeding matter, non-reducible to any device of normalization or or memorialization, a carnal, affective, political matter. Rather than a memory, it is the emergence of a different temporality, which escapes any attempt at disciplining it in policies of remembering or in monumental definitions of History: what Agamben defines a remaining time. The track of the gesture, which is first inscribed, kept, apparently made eternal on the forms of the monument, is thus dispersed, sunk into invisibility (namely, in a different realm of visibility) with the monument itself, which is called to testify nothing more than the un-archivability of the matter it represents, “its exteriority with respect to the archive – that is, the necessity by which [...] it escapes both memory and forgetting” (Agamben 1999, 158), in order to open up to the present and the forthcoming possibility of other narratives. English translation: Alessandra De Angelis 336
inassumibile. Al di là del bene e del male non sta l’innocenza del divenire, ma una vergogna non solo senza colpa, ma, per così dire, senza più tempo” (Agamben 1998, 94-95). è possibile dunque chiedersi, con Agamben, cosa succede quando l’individuo viene ad occupare il posto vuoto (liberato) del soggetto, lo spazio dell’enunciazione. La firma o la scritta, l’incisione del soggetto sulla superficie del monumento, non garantiscono della verità di nessun enunciato, e del resto non c’è nessuna affermazione, nessun enunciato a cui conferire veridicità in questo dispositivo archiviale, nella strategia retorica dell’antimonumento. La firma, il segno garantiscono piuttosto della presenza di una materia che eccede, che è irriducibile a qualsiasi dispositivo di normalizzazione o di memorializzazione, una materia affettiva, carnale, politica. Più che di un ricordo, si tratta dell’emersione di una diversa temporalità che sfugge a qualsiasi tentativo di irreggimentarla in una politica del ricordo o in una definizione monumentale di Storia: quello che Agamben definisce un tempo restante. La traccia del gesto così, prima inscritta, conservata, apparentemente eternata sulle forme del monumento, viene immediatamente dispersa, sprofondata nell’invisibilità (cioè in un diverso regime di visibilità) col monumento stesso, chiamato a testimoniare di nient’altro che dell’inarchiviabilità della materia di cui tratta, “della sua esteriorità rispetto all’archivio—cioè del suo necessario sfuggire […] tanto alla memoria che all’oblio” (Agamben 1998, 147), per aprire la possibilità presente e futura di altri racconti.
Notes
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1. 2. 3. 4. 5. 6.
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Derrida 2005, 3. See: http://inversionhistorica.blogspot.it/ www.jochengerz.eu See Kwon 2004. See Gerz 2004. See Hirsch 1997.
Derrida 2005, 3. Si veda: http://inversionhistorica.blogspot.it/ www.jochengerz.eu Si veda Kwon 2004. Si veda Gerz 2004. Si veda Hirsch 1997.
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part 04
Museography for Archaeological Landscape of Conflicts
La Museografia per il paesaggio archeologico dei conflitti
michela bassanelli
Bunkers, trenches, and tunnels are only some of the many tangible traces that conflicts leave on the landscape. There also exist intangible elements, such as stories and memories, which are not physically evident, but are impressed on the memory of places. The traces and ruins of the wars are out-andout archaeologies of memory, which involve wide parts of the territory and cities, forming a very precious cultural and material heritage.1 Whereas archaeology aims at studying and investigating archaeological finds, museography aims at collecting, storing, and, eventually, spreading them. In the last few years, perhaps also with a view to the anniversary of the First World War (1914-2014), many places that witnessed tragic battles have been rediscovered. The Defence Line of the Northern Border, also known as Cadorna Line, is an example: for some years it has been the object of a series of projects that propose a new collocation of the archaeological finds and the creation of touristic paths. In the territories where battles were fought or where military searches took place (for example, during the Second World War, at Marzabotto or Sant’Anna di Stazzema) the wounds inflicted by such events are still alive. Indeed, Aleida Asmann maintains that places are some of the memory mediators that, together with writings, images, and bodies, enable to preserve and pass on the memory, even after a phase of collective oblivion.2 It is as if there existed a particular relationship between the place and the memory, which reactivates the reminiscences present in it. Elena Pirazzoli defines this concept as naked place, that is, “a feeling aroused when walking through that place, an aspect capable of causing a cluster of emotions, memories, connections” (2011). The works of photographers Maria Rosa and Marìa Bleda highlight the theme of the relationship between place and memory: the images, which portray the most important battlefields in the history of Spain, narrate the various stories that overlap as time passes by. For Pirazzoli, the naked
Bunker, trincee e gallerie sono solo alcuni dei reperti tangibili che i conflitti lasciano sul paesaggio. Esistono anche elementi intangibili, come storie e ricordi, che non hanno evidenza fisica ma che comunque sono impressi nella memoria dei luoghi. Le tracce e i reperti dei conflitti sono vere e proprie archeologie della memoria che investono ampie parti di territori e città, formando un’eredità culturale e materiale molto preziosa.1 Se l’archeologia ha come obiettivo lo studio e la conoscenza dei reperti, la museografia ha quello della loro raccolta, archiviazione e, infine, divulgazione. Negli ultimi anni, forse anche in previsione dell’anniversario della Prima Guerra Mondiale (1914-2014), sono stati riscoperti numerosi luoghi teatro di tragiche battaglie. Un esempio è la Linea di Difesa della Frontiera Nord, comunemente conosciuta come Linea Cadorna, che da alcuni anni è oggetto di alcuni progetti che propongono una risistemazione dei reperti e la creazione di sentieri turistici (Colombo). Nei territori dove sono state combattute battaglie o che hanno subito rastrellamenti, come nel corso della Seconda Guerra Mondiale a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema, sono ancora impresse le ferite di queste avvenimenti. I luoghi sono, infatti, per Aleida Asmann alcuni dei mediatori della memoria, che insieme alla scrittura, alle immagini e al corpo, consentono di conservare e tramandare il ricordo anche dopo una fase di oblio collettivo.2 È come se esistesse un rapporto particolare tra luogo e ricordo che scatena una riattivazione delle memorie in esso presenti. Elena Pirazzoli definisce questo concetto con il termine di nudo luogo, ovvero “una sensazione sollevata dall’attraversamento del luogo, è quell’aspetto capace di suscitare un grumo di emozioni, ricordi, associazioni” (2011). Nel lavoro della coppia di fotografi Maria Rosa e Marìa Bleda emerge il tema del rapporto tra luogo e memoria: le immagini, che hanno come oggetto i campi di battaglia più importanti nella storia della Spagna, raccontano le diverse narrazioni che 339
place is stronger than a monument, because of its connection with time and the event, it is a palimpsest made of layers of memories that emerge while crossing it. The feelings we feel in places such as Hiroshima, Auschwitz, and Marzabotto are fraught with meaning; the place “is simply there, it exists, we can see it, touch it, walk through it” (Pirazzoli 2010, 44). Places are special memory mediators because they have a particular relationship with time: the place changes, but it keeps being there, and consequently it has a memory that goes beyond the individual’s short term memory, it is a latent memory that resurfaces whenever it is necessary, while it keeps being hidden whenever it is not. Among the new tendencies in the field of museography, in the last few years some projects have been undertaken which involve the landscapes where wars took place, in an innovative way. In particular, the need to recover a direct relationship with these places is combined with a diffused and reconciliatory museography. The museographic project, indeed, is not simply meant as a tool of knowledge, preservation, communication, and enhancement of the traces in the landscape or urban territories, but also as a potential therapy to overcome the bereavement connected to it. Its innovative elements are: “the idea of a diffused (and in situ) musealization that differs from the classical and stereotyped forms of memorialization, such as the museum, the mausoleum, the memorial; the idea that diffused musealization is not equal to a ‘showcase’ of finds, traces, and debris, but to their return to the life cycle of things and people; thus, the idea that diffused musealization implies a re-appropriation of places, memories, and stories” (Bassanelli and Postiglione 2012, 189). Finds represent a sort of ransom to the loss of memory and can be used to bring other stories to light and to build some shared memories at a transnational scale, thus becoming tools for inclusive, rather than conflicting, processes. The concept of diffused museum is extended 340
si sovrappongono nello scorrere del tempo. Il nudo luogo per Pirazzoli è più forte di un monumento, proprio per il suo legame con il tempo e l’evento, è un palinsesto costituito da stratificazioni di memorie che emergono nell’attraversamento dello stesso. Le sensazioni che si avvertono nei luoghi come Hiroshima, Auschwitz, Marzabotto sono dense di significato, il luogo “semplicemente c’è, esiste, si può vedere, si può toccare, si può percorrere” (Pirazzoli 2010, 44). I luoghi sono mediatori speciali della memoria perché hanno un rapporto particolare con il tempo: il luogo si modifica ma resta, proprio per questo ha una memoria che si spinge oltre quella a breve termine dell’individuo, è una memoria latente che riaffiora quando ne ha necessità, e quando non lo richiede, rimane nascosta. Tra le nuove tendenze in atto in campo museografico si assiste, negli ultimi anni, alla nascita di alcuni progetti che coinvolgono in maniera innovativa i paesaggi che sono stati oggetto di conflitti nel passato. In particolare l’esigenza di recuperare un rapporto diretto con i luoghi si coniuga con una museografia diffusa e riconciliatoria. Il progetto museografico viene infatti inteso non solo come strumento di conoscenza, conservazione, comunicazione e valorizzazione delle tracce diffuse nei paesaggio o nei territori urbani, ma anche come possibile terapia per il superamento del lutto ad essi connesso. Gli elementi a nostro avviso di novità sono rappresentati da: “l’idea di una musealizzazione diffusa (e in sito) che non coincide con le forme classiche e stereotipate della memorializzazione: museo, mausoleo, memoriale, l’idea che l’azione di musealizzazione diffusa non coincida con una ‘messa in vetrina’ di reperti, tracce e macerie quanto piuttosto un loro ritorno nel circuito della vita delle cose e delle persone, l’idea quindi che l’azione di musealizzazione diffusa implichi una riappropriazione dei luoghi, delle memorie e delle storie” (Bassanelli and Postiglione 2012, 189). I reperti rappresentano un riscatto alla perdita della memoria e possono essere utilizzati per
and becomes a real project which, on the one hand, deals with the preservation of memories and, on the other one, enables them to be used by the community: “The musealization of places becomes a strategy of intervention, acting as a catalyst for projects to enhance the historical sediments in the territory” (Basso Peressut, 2007). In Italy, for example, the competition entitled “Carso 2014+,” announced by the Province of Gorizia, has been recently concluded. The competition aimed at presenting a potential model to approach the heritage of conflicts. The objective set by the local administration was to create an outdoor museum where all the elements of history (from the original trenches, which are still there, to the shrine built in the 1930s) and of memory (from the bloody battles to the local populations’ refusal to fight) would integrate with the natural environment of the Carso mountains, through a network of courses and interventions capable of creating a connection among the territory, memories, and populations. Also in Albania, a competition for a Cold War Museum in the submarine base of Porto Palermo has been recently concluded. The competition was won by Studio Terragni, with Jeffrey Schnapp and Daniele Ledda. Porto Palermo was an uncomfortable relic of the Albanian history, which will now become the heart of a latent history that will be brought to light again. English translation: Ilaria Parini
portare alla luce altre storie e per costruire delle memorie condivise a scala transnazionale, divenendo strumenti di processi inclusivi invece che conflittuali. Il concetto di museo diffuso si amplia e si presenta come vera azione progettuale che da un lato si occupa della conservazione delle memorie e dall’altro le rende fruibili per la collettività: “Il museo nei luoghi diventa strategia di intervento, ponendosi come catalizzatore di progetti di valorizzazione dei sedimenti storici presenti sul territorio” (Basso Peressut, 2007). In Italia, ad esempio, si è concluso recentemente il concorso “Carso 2014+,” bandito dalla Provincia di Gorizia, che presenta un possibile modello di approccio verso il patrimonio dei conflitti. L’obiettivo identificato dall’amministrazione locale era creare un museo a cielo aperto dove gli elementi della storia (dalle trincee ancora presenti al sacrario realizzato negli anni trenta) e della memoria (dalle cruenti battaglie al rifiuto di andare in battaglia delle popolazioni locali) si integrassero con l’ambiente naturale delle montagne del Carso, attraverso una rete di percorsi e di interventi in grado di creare un collegamento tra territorio, memorie e popolazioni. Anche in Albania è terminato recentemente il concorso per un museo della Guerra Fredda nella base sottomarina di Porto Palermo, vinto da Studio Terragni con Jeffrey Schnapp e Daniele Ledda. Un reperto scomodo della storia albanese diventato il fulcro di una storia che era latente e che ora è portata nuovamente alla luce.
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Note
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1. See Bassanelli and Postiglione 2011. 2. See Assmann 2002.
1. Si veda Bassanelli and Postiglione 2011. 2. Si veda Assmann 2002.
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GENNARO POSTIGLIONE
Reuse, recover, and musealization of the Atlantikwall: a comparative survey Riusi recuperi e musealizzazioni dell’Atlantikwall: esperienze a confronto
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The studies on the reuse and salvage interventions, as well as on the state of abandonment, of the Atlantikwall, the huge defence infrastructure built by the Nazis during World War II, testify how the many traces and the countless artefacts disseminated along the European Atlantic coasts represent a presence which is still somehow burdensome.1 Most of the Atlantikwall was actually never used, and, after Hitler’s defeat, due to its transnational character, it became national heritage of the eight countries that are crossed by it (France, United Kingdom/Channel islands, Belgium, the Netherlands, Germany, Denmark and Norway), each of which has implemented various policies and management practices. However, it is worth noting that, until recent times, apart from some interventions for the preservation of the military use of some of the structures and the musealization of some sites with a particular historical value, barely any attention had been paid to the reuse and salvage of such military heritage, which is so loaded with painful connotations. Nevertheless, the situation has changed over the years. Above all, spontaneous and diffused interventions have been carried out, mainly targeted at the speculative salvage of the bunkers’ volume layouts. This is mainly due to their strategic positions, but also to the impossibility to demolish them, as this would be excessively expensive. Moreover, some interventions have also been performed within the museal context, even if to a lesser extent. Such works are addressed to the safeguard and the transmission of some structures with a particular collective value for the local communities.2 Just in the last fifteen years, a new trend has been observed. This is due both to the military closedown which started in Europe with the dissolution of the Soviet Union, and, above all, to the growing awareness about the fact that the last witnesses of those events would soon disappear, and this would probably mean that the many stories related to the years of the conflict would be forgotten. The salvage and reuse of many structures belonging to the
La ricognizione compiuta sugli interventi di recupero e riuso, ma anche sullo stato di abbandono, di quell’immensa infrastruttura difensiva, realizzata dai Nazisti durante la Seconda Guerra mondiale, denominata Atlantikwall, evidenzia come le numerose tracce e i tantissimi manufatti sparsi lungo le coste atlantiche dell’Europa costituiscano una presenza per certi versi ancora ingombrante.1 Per la maggior parte mai entrato in funzione, il Vallo dell’Atlantico, con il suo carattere transnazionale dopo la sconfitta di Hitler diviene patrimonio nazionale degli otto stati che attraversa (Francia, Regno Unito/Channel Islands, Belgio, Olanda, Germania, Danimarca e Norvegia), ognuno dei quali ha assunto negli anni proprie politiche e pratiche di gestione. Si può però affermare che, fino a tempi recenti, fatti salvi da una parte gli interventi di conservazione dell’uso militare di alcune strutture e dall’altra la musealizzazione di alcuni siti e di particolare valore storico, non ci sia stata una grande attenzione verso il riuso e il recupero di questo patrimonio militare dai caratteri così dolorosamente connotati. Una condizione che, col passare degli anni, si è modificata. Sono stati realizzati soprattutto interventi spontanei e diffusi, orientati al recupero speculativo delle volumetrie dei bunker (stimolati per lo più dalla loro posizione strategica ma anche dalla impossibilità di qualsiasi demolizione, eccessivamente onerosa per essere sostenibile), e—in misura molto contenuta—interventi di tipo museale, orientati alla salvaguardia e alla trasmissione di alcune strutture di particolare valore collettivo per le comunità locali.2 Solo negli ultimi quindici anni si è registrato un nuovo orientamento, dovuto sia alla dismissione militare avviatasi in Europa con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, sia soprattutto alla consapevolezza crescente che gli ultimi testimoni di quelle vicende sarebbero in breve tempo scomparsi col rischio di far cadere nell’oblio le tante storie legate agli anni del conflitto. Con questo chiaro obiettivo, il recupero e il riuso di molte strutture 345
Atlantikwall have been performed with this specific aim, either turning the buildings into a museum, or proposing more flexible functional programmes with a general purpose of reconciliation and elaboration of the trauma connected to them. The most interesting design situations are observable within such contexts, where the confrontation and the frictions between the memories of a history that is still alive and the objectives of the new programmes trigger and suggest different modes of intervention. Such strategies make the design actions on those heritages which are defined as painful or difficult3 particularly interesting not only for those researchers that deal with preservation and salvage of existing structures, but also with those investigating architecture per se. The Atlantikwall4 Being an integral part of the Third Reich military politics, the fortifications system of the Atlantikwall belongs to the various infrastructurization works developed by the Nazis along the Atlantic coast during the years of the war. However, it was only in 1942,5 when the German troops moved to the Eastern front line in the Russian theatre of war6 that the Atlantikwall became a real defence line to contrast the potential and feared Allied landing.7 The colossal undertaking, which was mainly realized in two years, consists of the following: about 12,000 buildings (instead of the planned 15,000) which stretch between the Pyrenees and North Cape, along 6,000 km of coastline, with an average penetration depth within the territory of at least 5 km. A massive construction site, perpetually revised, entrusted to the Todt Organization (OT)8 which, after the death of Fritz Todt, was led by Albert Speer.9 The workforce involved in the gigantic building plan of the Atlantikwall came mainly from German enterprises and from the populations of the occupied countries, called to cooperate with OT through some 346
appartenenti all’Atlantikwall è avvenuto, ed è ancora in corso, o convertendo gli edifici a museo o proponendo programmi funzionali più flessibili con una generale intenzione di riconciliazione e di elaborazione del trauma ad essi connesso. Ed è proprio in questi casi che si registrano le situazioni progettuali più interessanti, dove il confronto e le frizioni tra le memorie di una storia ancora viva e gli obiettivi dei nuovi programmi innesca e suggerisce modalità diverse di intervento; strategie che rendono le azioni progettuali sui patrimoni definiti dolorosi o difficili3 di particolare interesse non solo per la ricerca che si occupa di conservazione e recupero dell’esistente, ma anche per quella architettonica tout court. L’Atlantikwall4 Parte integrante della politica bellica del Terzo Reich, il sistema fortificato si inserisce nelle diverse attività di infrastrutturazione della costa atlantica sviluppate dai nazisti durante gli anni del conflitto. Solo a partire dal 19425 però, in concomitanza dello spostamento delle truppe tedesche sul fronte orientale nel teatro di guerra russo,6 l’Atlantikwall diventa di fatto una linea di difesa per contrastare l’eventuale temuto sbarco alleato.7 Questi i numeri della ciclopica impresa, per la maggior parte realizzata nel corso di due anni: circa 12.000 edifici (a fronte dei 15.000 previsti) che si sviluppano tra i Pirenei e Capo Nord, lungo circa 6000 km di costa, con una profondità media di penetrazione all’interno del territorio di almeno 5 km. Un immenso cantiere, perennemente in aggiornamento, affidato all’Organizzazione Todt (OT)8 alla cui guida succede, dopo la morte di Fritz Todt, Albert Speer.9 La manodopera impiegata nel gigantesco programma edilizio dell’Atlantikwall proviene in larga parte dalle imprese tedesche e dalle popolazioni delle nazioni occupate, chiamate a collaborare con l’OT attraverso delle comuni gare d’appalto, ma fa anche largo
Hanstholm Museum Centre, project by CUBO Arkitekten © Museums Center Hanstholm
calls for competitive bids. However, OT also employed prisoners and deportees of various nationalities,10 forced to hard labour and kept in specific concentration camps built close to the areas to be fortified.11 As to produce fortification systems saving as much money as possible but with a fast execution time, the Atlantikwall bunkers were realized following a specific catalogue of standardized prototypes of designs. Such designs were collected in a manual (Regelbauten), specifically drawn up by OT, which was necessary to make the colossal fortification plan (Bauprogramme) fast and effective. The plan had been developed by Hitler and his closest collaborators, and it aimed at planning the defensive interventions along the whole Atlantic coastline.12 Recent musealizions Among the most recent interventions of musealization it is worth mentioning the project by the Hanstholm Documentation
ricorso a prigionieri e a deportati di differenti nazionalità,10 costretti al lavoro forzato e trattenuti in appositi campi di concentramento realizzati in prossimità delle aree da fortificare.11 Per produrre sistemi fortificati con la massima economia e con altrettanta rapidità d’esecuzione, i bunker dell’Atlantikwall sono realizzati seguendo un preciso catalogo di piante-tipo standardizzate raccolte in un unico manuale (Regelbauten), appositamente redatto dalla OT, indispensabile a rendere rapido e attuativo l’imponente programma di fortificazione (Bauprogramme), elaborato da Hitler e dai suoi più stretti collaboratori, che ha il compito di pianificare gli interventi difensivi lungo tutto litorale atlantico.12 Musealizzazioni recenti Tra gli interventi di musealizzazione più recenti bisogna citare il progetto del centro di documentazione sull’Atlantikwall di Hanstholm,13 ad Hansted, nel Nord-est della 347
View of the interior space, project by CUBO Arkitekten, © Museums Center Hanstholm
Centre on the Atlantikwall,13 in Hansted, in the North-East of Denmark, which includes gun batteries, two cannons – plus a third one located in Møvik (in the South of Norway) – capable of defending the strait of Skagerrak, the only access to the Baltic Sea.14 The Hanstholm Museum Centre has an indoor outbuilding museum space and a wide outdoor museum, and it represents a unique example as its project takes on its own formal and architectonic value. In 1998, a national architecture competition was announced, which was won by studio CUBO Arkitekten in Aarhus. The proposed solution did not envision any interventions on the buildings of the colossal bunker Hanstholm II: the designers, in fact, only put close to it a thin and long body which was made of the same material as the bunkers, and partially recalled some of their typological and building patterns. Basically, the two structures dialogue at a distance. There is no real 348
Danimarca, che comprende oltre a numerose batterie, due giganteschi cannoni in grado, insieme ad un terzo collocato a Møvik (nel Sud della Norvegia), di presidiare lo stretto di Skagerrak, unica porta di accesso al mar Baltico.14 Con un annesso spazio museale al chiuso e un ampio museo all’aperto, il Centro Museale di Hanstholm costituisce un esempio unico poiché il progetto assume un proprio e autonomo valore formale e architettonico. Nel 1998 viene lanciato un concorso nazionale di architettura che lo studio CUBO Arkitekten di Aarhus si aggiudica. La soluzione proposta non interviene sulle strutture del gigantesco bunker Hanstholm II: i progettisti si limitano infatti ad accostarvi un corpo stretto e lungo che in parte riprende, oltre al materiale, alcuni motivi tipologici e insediativi degli stessi bunker. In sostanza, le due strutture dialogano a distanza, e non c’è un vero progetto di recupero delle strutture
“Concrete agriculture”, proposal for the reuse of the Keroman base, interior view, © Peter Beard LANDROOM
plan for the salvage of the existing structures, but rather an expansion aiming at performing the new functions with a view to keeping the new separate from the existing, and attributing to the new building the role of the vestibule of the cannon of Hanstholm II. Besides the approximately 3,000 square metres of museum and archive space, the project includes an outdoor articulated path which makes it possible to move along the dozens of posts spread over the area of the fortress. On the outside, however, no new structures have been introduced and visitors move along former trenches.15 The international competition “Carso 2014+” moved in the same direction, although it had more innovative features. The competition called for designs for an outdoor museum of the First World War on the Gorizian Carso. It was won by studio Burgi, whose designers developed the plan following a general strategy of re-appropriation of that landscape,
esistenti, quanto piuttosto un ampliamento destinato ad accogliere le nuove funzioni con l’obiettivo di tenere ben distinto il nuovo dall’esistente, facendo assumere al nuovo edificio il ruolo di grande vestibolo del cannone di Hanstholm II. Il progetto comprende, oltre ai circa 3.000 mq di spazi museali e di archivio, un articolato percorso all’aperto che consente di muoversi per le decine di postazioni distribuite sull’area della fortezza: all’esterno però non sono state introdotte nuove strutture e il visitatore si muove tra quelle che erano le vecchie trincee.15 In questa direzione, ma con accenti più innovativi, si muove anche il concorso internazionale “Carso 2014+” per un museo all’aperto della Prima Guerra mondiale sul Carso goriziano che lo studio Burgi, risultato vincitore, ha sviluppato secondo una generale strategia di ri-appropriazione di quel paesaggio così intriso di storie dolorose, facendo 349
“Concrete agriculture”, proposal for the reuse of the Keroman base, section, © Peter Beard LANDROOM
which is so imbued with painful stories, making use of elements that are typical of military architecture. New trenches have been dug in the territory in order to build new exploration paths of the Carso landscape, just as some caverns have been salvaged so that they could house a hypogeal museum of the battles on the Isonzo. Basically, the theme of the fruition of this landscape with very strong features has become the main element of all the museographic and outfitting interventions, stimulating a dialogue between the fruition structures and the storytelling.16 The intervention performed on the submarine basis Valentine in Bremen, instead, is characterized by completely different features.17 Indeed, since May 2011, the basis, which had been realized by the Nazis between the years 1938 and 1945 largely through hard labour works,18 has become the Denkort Bunker Valentin (Memorial Submarine Bunker Valentin), with the aim of commemorating the victims of the seven concentration camps in the region Bremen-Farge. The main aim is to reinforce the theme of the memory of those events, giving life to the project of one of the greatest transformations in the use of a heritage area connected to the Second World War, destined to become one of the last monuments devoted to remembering the atrocities committed by the Nazis. This was necessary, but maybe also anachronistic because of its modalities, which seem to be meeting the need to solve an impossible debt with history rather than looking at the future in a different way. Indeed, monumentalization risks becoming the first step towards oblivion, with its implicit delegation and deresponsibilization devices: places and documents are 350
ricorso a elementi tipici dell’architettura militare. Nuove trincee sono state scavate nel territorio per andare a costruire nuovi percorsi di esplorazione del paesaggio carsico, così come alcune caverne sono state recuperate per accogliere un muso ipogeo delle battaglie sull’Isonzo. In sostanza il tema fruitivo di questo paesaggio dai caratteri molto forti è divenuto l’elemento portante di tutti gli interventi museografici e allestitivi, innescando un dialogo tra strutture fruitive e racconto della storia.16 Di segno opposto, invece, l’intervento di cui è oggetto la base sottomarina Valentine di Bremen.17 Dal maggio 2011 infatti, la base, realizzata dai nazisti tra il 1938 e il 1945 facendo largo uso di lavoro forzato,18 è diventata il Denkort Bunker Valentin (Sito Memoriale Bunker Valentin) per commemorare le vittime dei sette campi di concentramento presenti nella regione Bremen-Farge. L’obiettivo principale è di rafforzare il tema della memoria di quegli eventi, dando vita al progetto di una delle più grandi trasformazioni d’uso di un patrimonio della Seconda Guerra destinato a divenire uno degli ultimi monumenti dedicati a ricordare le atrocità perpetrate dai nazisti. Necessario ma forse anacronistico per le modalità, che sembrano rispondere più alla necessità di saldare un impossibile debito con la storia che a quelle di guardare al futuro in modo diverso: la monumentalizzazione infatti rischia di diventare il vestibolo dell’oblio con il suo implicito dispositivo di delega e di deresponsabilizzazione: luoghi e documenti sono chiamati a sostituire quel compito esistenziale esclusivamente umano che è il ricordare. Una esperienza di presa in carico delle proprie responsabilità
required to replace the existential duty to remember, which is exclusively human. It is an experience which implies taking charge of one’s own responsibilities and must evolve towards shared and conciliatory modalities that make it possible to elaborate forgotten memories connected to difficult heritage. For this reason, owing to its curatorial features and for the type of interventions, the project seems to belong to another historical moment of the second post-war period.19 Reuses and recover In the projects of reuse, the lack of emphasis on the past and its recollection or the marginal presence of devices connected to memory and spaces related to history-telling can sometimes be due to curatorial and design choices aiming at attributing new values to such artefacts that are so connoted from a cultural point of view. After being long imprisoned by a painful history which has kept them hostages, bunkers and other artefacts related to conflicts, not only those of the Atlantikwall, sometimes seem to be the object of interventions of reuse with therapeutic implications. This is not only the case of actions linked to reuse for residential and private purposes, where the interventions build a merely utilitarian relationship with what already existed, eluding or completely ignoring history. Indeed, it also happens in all those cases when the positive wish to reintegrate military structures in a daily use is the main aim of the policies and practices of reuse. The ordinary features of life get the upper hand over the extra-ordinary ones of the military buildings, desacralizing them, in a process that moves in
che deve evolversi verso modalità condivise e conciliatorie che permettano l’elaborazione di quelle memorie rimosse sempre collegate ai patrimoni difficili. Per questo motivo, il progetto appare appartenere, per contenuti curatoriali e per carattere degli interventi, ad un altro periodo della storia del secondo dopoguerra.19 Riusi e recuperi Nei progetti di riuso, la mancanza di enfasi sul passato e sulla sua evocazione o la presenza marginale di dispositivi legati alla memoria e di spazi legati al racconto della storia, possono talvolta costituire delle scelte curatoriali e progettuali utili a fare emergere nuovi valori per questi manufatti così culturalmente connotati. Imprigionati per lungo tempo da una storia dolorosa che li ha tenuti in ostaggio, bunker e altri manufatti legati ai conflitti, non solo quelli dell’Atlantikwall, sembrano in alcuni casi oggetto di interventi di recupero dalle implicazioni terapeutiche. Non si tratta solo dei casi legati al recupero a uso residenziale e privato, in cui gli interventi instaurando un rapporto di tipo spiccatamente utilitario con le preesistenze, aggirano o ignorano del tutto la storia, ma anche di tutti quei casi in cui la volontà positiva di reintegrare le strutture belliche all’uso quotidiano è l’obiettivo principale delle politiche e delle pratiche di riuso. L’ordinario della vita prende il sopravvento sullo stra-ordinario delle costruzioni militari, desacralizzandole, in un processo che si muove in una direzione opposta a quello della musealizzazione, rendendole cioè nuovamente disponibile all’uso.20 351
Proposal for the reuse of the Keroman base, first prize, section, © Paczowski et Fritsch Architectes
the direction opposite to musealization, thus making them available to use.20 Probably the most emblematic example within this context, also due to its wide international involvement, is represented by the architecture competition announced by the District of Lorient (Morbihan) under the aegis of UIA (International Union of Architects), with a view to investigating the potential scenarios of reuse of the submarine basis built by the Nazis in Keroman. The basis consists of three buildings, with twenty-one alveoli aimed at accommodating the submarines and a total surface equal to 60,623 square metres, which, since the post-war period, have represented an embarrassing as well as cumbersome presence along the water front of the city. A presence that some enlightened administrators have been able to see also as a special resource available to citizens.21 The competition envisioned three prizes and six mentions, and nine groups stood out of the 192 participants. Very different visions emerged, which adopt specific techniques and strategies in order to improve the whole area destined to become – as the competition required – a touristic and natural park. The design plans all aim at contrasting, up to the point of eliminating, the invasive and conflicting dimension of the massive military structure, 352
Probabilmente il caso più emblematico in tal senso, anche per l’ampio coinvolgimento internazionale, è costituito dal concorso di architettura, bandito dal Distretto di Lorient (Morbihan) sotto l’egida della UIA (Unione Internazionale degli Architetti), con lo scopo di sondare i possibili scenari di riuso della base sottomarina costruita dai nazisti a Keroman. Si tratta di tre edifici, per un totale di ventuno alveoli destinati ad accogliere i sottomarini e una superficie complessiva di 60.623 mq, che dal dopoguerra hanno rappresentato un’imbarazzante quanto ingombrante presenza lungo il water front della città. Una presenza che alcuni illuminati amministratori hanno saputo vedere anche come risorsa spaziale a disposizione della cittadinanza.21 Tre premi e sei menzioni, in tutto sono nove i gruppi che si distinguono tra i 192 partecipanti al concorso. Ne emergono visioni molto diverse tra loro che mettono in campo tecniche e strategie specifiche per riqualificare l’intera area destinata, come richiesto nel bando, a parco turistico e naturale. Tutti gli sforzi progettuali sono diretti a contrastare, fino ad eliminarle, la dimensione invasiva e quella conflittuale dell’immensa struttura bellica che con la sua mole ciclopica occupa un ruolo centrale nell’impianto del
which, with its gigantic size occupies a central role in the plant of the new park. The projects are all characterized by great audacity, as they intervene in a significant way on the submarine basis, with expansions and demolitions which aim at opening the area both towards the seafront and towards the inland, in order to give continuity to the urban park required by the announcement. Most interventions seem to have taken into due consideration the physical features of what already existed. Indeed, the planning and special choices apparently are driven by an active dialogue with the existing structures, a negotiation made of addictions, subtractions, or alterations, which are sometimes quite remarkable. In this sense, it is surely the most significant and profitable case of reuse, which, however, has never been actually realized, and it has not even managed to affect either the practice or the theoretical speculation connected to reuse and salvage interventions of difficult heritages.22 The case of Dora I, one of the two submarine bases in the port of Trodnheim in Norway, is somehow similar. Dora I started being built by the Germans in 1940, together with Dora II,23 which was never finished, and Dora III, which was never even started, and it was the victim of a lack of urban policies connected to the salvage of the port. Dora
nuovo parco. I progetti si caratterizzano tutti per grande audacia, intervenendo in maniera consistente sulla base sottomarina, con ampliamenti e demolizioni miranti ad aprire l’area sia verso il fronte marino sia verso quello interno, per dare continuità al parco urbano richiesto dal bando. Il tema che accomuna la maggior parte degli interventi è l’aver considerato la preesistenza per i suoi caratteri fisici, facendo derivare le scelte progettuali e spaziali da un serrato dialogo con le strutture esistenti, una negoziazione fatta di addizioni sottrazioni o alterazioni anche consistenti. In questo senso, sicuramente il caso più significativo e proficuo di recupero non museale di un patrimonio bellico che però, purtroppo, è rimasto solo sulla carta senza neppure riuscire, inspiegabilmente, a incidere né sulla prassi né sulla speculazione teorica relativa agli interventi di riuso e recupero dei patrimoni difficili.22 Per certi versi analogo è il caso di un’altra base sottomarina, una delle due presenti nel porto di Trodnheim in Norvegia, Dora I. Realizzata dai tedeschi a partire dal 1940, insieme alla mai completata Dora II23 e a Dora III, mai neppure iniziata, la base è stata ostaggio di una sostanziale mancanza di politiche urbane relative al recupero del porto. Dora I (di proprietà di una società privata 353
Basecamp Nesheim, Bunkerologi, 2005, © Bunkerologi
I (which has belonged to a private company since 1960s) has been used as a storage and archive and it was only in 2007 that salvage plans started being designed and, at the same time, funds started being allocated with a view to transforming the port into a touristic and cultural area. The envisioned interventions also fully involved the megastructure of the basis, which was one of the project areas of the 10th edition of the international competition for young architects Europan.24 The programme elaborated within the context of the competition moves towards a strong cultural reconversion or the port area and of the basis itself, by limiting its use to the State Archive and vacating the other alveoli in order to design them for activities and initiatives connected to the creative and cultural industry. Even though within the competition Europan 10 there was also a winning design project which concerned the bunker, no concrete action has been performed on it. The project25 proposed a reuse which respected 354
dagli anni sessanta) è stata utilizzata sin dai primi anni sessanta come deposito e archivio e solo a partire dal 2007 iniziano a essere sviluppati piani di recupero e ad essere parallelamente stanziati fondi per trasformare il porto in un area di interesse turistico e culturale. Interventi che investono in pieno anche la megastruttura della base che diviene una delle aree di progetto della decima edizione del concorso internazionale per giovani architetti Europan.24 Il programma elaborato per il concorso spinge nella direzione di una forte riconversione culturale dell’area portuale e della base stessa, limitandone l’uso al solo Archivio di Stato e liberando tutti gli altri alveoli per destinarli ad attività e iniziative legate all’industria creativa e culturale. Nonostante ci sia stato un progetto vincitore del bando Europan 10 anche per quest’area, nessuna azione concreta è stata intrapresa sul bunker. La proposta25 proponeva un riuso rispettoso delle strutture originarie della base, suggerendo la demolizione di sopraelevazioni
Concrete Mashrooms, MA dissertation of Gyler Mydyti and Elian Stefa, Politecnico di Milano, http://blog. concrete-mushrooms.com/?page_id=112
the original structures of the basis. It suggested demolishing building extensions and vehicular ramps which, along the years, had completely distorted the nature of the building itself, in order to give a new formal integrity to the structure. However, it would not pervert its character, or insert any elements aiming at telling its story.26 Within the frame of reuse interventions from the bottom up, instead, it is worth mentioning the initiatives performed by Bunkerologi,27 an association founded in 2005 in Lista, in the South of Norway, which has for some years undertaken various actions targeted at exploiting some bunkers for touristic purposes, in partnership with the local administration. Such interventions limit to the parasitic – and easily removable - expansion of the structures necessary to the recreational exploitation of the bunkers, without changing their plant. However, they transform them, through some pilot interventions, into overlooks, saunas, temporary shelters, bird
e rampe carrabili che negli anni avevano completamente stravolto la natura dell’edificio, per dare una nuova integrità formale alla struttura. Ma senza di fatto stravolgerne il carattere né inserendo elementi destinati a raccontarne la storia.26 Nel quadro degli interventi di riuso dal basso, invece, è interessante mettere in luce le iniziative intraprese da Bunkerologi,27 una associazione sorta nel 2005 a Lista, nel sud della Norvegia che in partenariato con l’amministrazione locale ha da alcuni anni intrapreso diverse azioni per lo sfruttamento turistico di alcuni bunker. Interventi che si limitano all’aggiunta parassitaria, e facilmente removibile, delle strutture necessarie allo sfruttamento ludico dei bunker senza modificarne l’impianto, ma trasformandoli attraverso interventi pilota in belvedere, saune, ricoveri temporanei, bird watching cabin, ecc.28 Su questa stessa linea si muove anche il progetto di recupero e riconversione delle centinaia di migliaia di bunker che 355
“Ospitare le differenze. Progetto di un mercato nell’U-boot bunker di Saint Nazaire, Francia”. MA dissertation of Claudia Brunelli, Valeria Bormolini and Margherita Parati, Politecnico di Milano.
watching cabins, ecc.28 The project of reuse and reconversion of the hundreds of thousands of bunkers that are scattered along the Albanian coast moves in the same direction. The name of such project is Concrete Mashrooms;29 it started in 2010 with a degree thesis defended at the Politecnico of Milano and it was also presented at the 13th Venice Architecture Biennale in 2012. The idea of the project is to guarantee the fast and effective reconversion of the bunkers – through an equipment kit – into small rooms of a huge diffused hotel.30 A manual-catalogue, with great communicative efficiency, contains all the strategies and tactics of the project, which, however, shows its limits as it deals with the domestication of such military structures with repulsive features with excessive flippancy and a rather kitsch approach. Within the field of design plans which are not part of a real research project, Ospitare le differenze,31 a project by another group of students from Politecnico of Milano, seems to be more effective. The group is investigating 356
punteggiano la costa dell’Albania. Concrete Mashrooms,29 questo il nome del progetto partito nel 2010 con una tesi di laurea al Politecnico di Milano e presentato anche alla XIII Biennale di Architettura di Venezia nel 2012. In questo caso, l’idea è di assicurare, ricorrendo ad un kit di attrezzature, la rapida ed efficace riconversione dei bunker in piccole stanze di un immenso albergo diffuso.30 Un manuale-catalogo, di grande efficacia comunicativa, raccoglie le strategie e le tattiche del progetto che però mostra i propri limiti proprio nel fatto di prendere con leggerezza eccessiva e con un certo approccio kitsch l’addomesticamento di queste strutture belliche dai caratteri così respingenti. Più efficace, nel campo delle speculazioni progettuali prive di una reale commessa, Ospitare le differenze,31 un lavoro di un altro gruppo di studenti del Politecnico di Milano che perlustrano la possibilità di trasformare la grande base sottomarina di St. Nazaire in Francia in un grande mercato delle culture, stressando l’interesse e l’obiettivo di
the possibility of turning the large submarine basis of St. Nazaire in France into a great cultural market, highlighting the interest in and aim at acting, through the interventions of the proposed design plan, on the subversion of the perception and fruition of the basis: from a confined place, excluded from city life, to a centre of commercial, recreational, and cultural activities. Both the parasitic introduction of some leisure facilities, such as a cinema and a library, besides a traditional market, and the proposal to intervene with deep cuts in the colossal structure in concrete, show the real possibility of planning actions capable of exchanging a dialogue with the existing structures in a useful and appropriate way.32 Artistic actions and abandonment Apart from the actions for spontaneous or planned reuse, other projects with a mainly artistic character, aiming at stimulating the raising of new awareness, have been observed
agire, attraverso gli interventi della proposta progettuale, su una inversione di percezione e di fruizione della base: da luogo confinato ed escluso dalla vita della città a polo di attività commerciali, ludiche e culturali. Sia l’introduzione parassitaria di alcune strutture di servizio, quali cinema e biblioteca, oltre a quelle tradizionali di un mercato, sia la proposta di intervenire con tagli profondi nella ciclopica struttura di calcestruzzo, onde sconfiggerne l’impossibile distruzione, mostrano la concreta possibilità di azioni progettuali in grado di dialogare con l’esistente in maniera utile e appropriata.32 Azioni artistiche e abbandono Accanto alle azioni di riuso spontaneo o pianificato, negli anni, si sono registrate sui patrimoni di guerra, non solo dell’Atlantikwall, azioni progettuali di natura prevalentemente artistica finalizzate a sollecitare lo sviluppo di nuove consapevolezze. La ricchezza dei casi che è possibile mappare, 357
House built on a bunker, Batteria Gneisenau La Percée, Casle, Guernsay, © P. Bourgaize.
over the years on military heritage, not only of Atlantikwall. The cases that are possible to identify are so many that it is clear how difficult heritages represent a privileged field in artistic practices. Indeed, they are the only ones capable of facing the themes and contents that such heritages preserve, bypassing the negative load that usually overbears, sometimes to the point of neutralizing, any concrete salvage action. Such theme is exhaustively dealt with in this book, in the section entitled Art & Conflict Heritage. Finally, if we consider the various actions which the Atlantikwall underwent and is still undergoing, we cannot but mention the high degree of abandonment of most of its buildings. Apart from a selected group of emblematic cases, in fact, the bunkers of the Atlantikwall are not subject to any planned intervention of salvage or conservation. 358
mostra come i patrimoni difficili rappresentino un campo privilegiato delle pratiche artistiche, le uniche in grado di affrontarne i temi e i contenuti in essi preservati aggirandone il peso negativo che solitamente prevarica, talvolta neutralizzandola, qualsiavoglia concreta azione di recupero. Il tema è affrontato in maniera ampia proprio in questo volume nella sezione Art & Conflict Heritage. In ultimo, considerando le diverse azioni di cui l’Atlantikwall è stato oggetto e continua ad essere oggetto, non si può non citare il vasto grado di abbandono in cui versano la maggior parte delle sue strutture. Al di fuori del circuito di un selezionato gruppo di casi emblematici, infatti, i bunker del Vallo Atlantico non sono oggetto di alcuna attenzione né di recupero né di conservazione. Se si escludono i casi eccezionali della Norvegia,33 dove le tracce del Vallo Atlantico sono state
Bunker 599, Rietveld Landscape and Atelier de Lyon, Amsterdam, 2010, © Rietveld Landscape
Exception made for Norway,33 where the traces of the Atlantikwall have been included in a large campaign for the enhancement and restoration of the whole national military heritage, and, partially, of France, where the local DRACs (Direction régionale des affaires culturelles) have started a census of the structures present on their territories, the thousands of structures scattered along the European Atlantic coast are mainly unknown and left in a state of complete abandonment.34 An attempt for a systematic approach, if only to the identification of a limited number of websites, has been made by the project The Atlantic Wall Linear Museum. As a matter of fact, it has highlighted its transnational value, not only because the structures are scattered along various countries, but mostly because they are considered as European shared heritage. The initiative,
inserite in una ampia campagna di rilievo e restituzione di tutto il patrimonio militare nazionale, e in parte della Francia, dove le DRAC locali hanno iniziato un censimento puntuale delle strutture presenti nei propri territori, le migliaia di strutture di cui è costellato il litorale atlantico europeo sono per lo più ignote oltre ad essere lasciate in uno stato di totale abbandono.34 Un tentativo di approccio sistematico, almeno relativamente all’identificazione e riconoscimento anche se solo di un numero limitato di siti, è stato compiuto dal progetto The Atlantic Wall Linear Museum che ne ha messo in evidenza il valore transnazionale, non solo perché effettivamente sparse in paesi diversi ma soprattutto perché interpretate come patrimonio europeo condiviso. L’iniziativa, che ha reso disponibili in rete un insieme consistente di dati, si configura come primo vero museo dell’Atlantikwall, considerando la rete l’unico luogo in cui il progetto di costruire una Festung Europa può trovare ancora la sua originaria unità almeno narrativa.35 Azioni estensive e sistematiche di demolizione sono state compiute esclusivamente in Germania, dove all’opposto di quanto accaduto altrove, i bunker sono stati per la quasi totalità distrutti, cancellandone qualsiasi traccia che potesse suscitare ricordi di questo periodo buio della storia tedesca. L’urgenza e il peso insostenibile della memoria ha imposto una rigorosa azione di pulizia e rimozione che ha tenuto la stessa storia tedesca ostaggio del silenzio per un passato impossibile da accettare o semplicemente ricordare. Ci sono voluti diversi decenni perché nuove generazioni riprendessero in mano i fili della storia per ricucirne gli strappi e le omissioni. L’abbandono appare essere in ultima analisi lo strumento prescelto, per una scelta talvolta obbligata, cui affidare la demolizione di tutte quelle tracce del Vallo Atlantico, ancora tante, presenti sul territorio europeo. Impossibili da rimuovere a causa della possente struttura costruttiva che rende qualsiasi operazione di questo tipo estremamente onerosa e lunga, i 359
which has made a considerable amount of data available on the net, presents itself as the first real museum of the Atlantikwall. Indeed, it considers the web as the only place where the project of building a Festung Europa can still find its original unity, al least a narrative one.35 Extensive and systematic actions of demolition have been performed exclusively in Germany, where, contrarily to what happened elsewhere, bunkers have been almost completely destroyed, erasing any trace that could trigger memories about that dark period of German history. The urgency and the unbearable load of memory have imposed a rigorous action of cleanliness and removal, which has kept German history itself hostage of the silence for a past that is impossible to accept or even remember. It took many decades for the new generations to take the threads of history and sew its snags and omissions. Ultimately, abandonment seems to be the preferred tool for the choice, which is sometimes forced, to demolish all the many traces of the Atlantikwall that are still on the European territory. The bunkers are impossible to remove, because of their massive building structures which make any such operation extremely expensive and long. As a consequence, they have been left at the mercy of nature, which has soon taken possession of them, and is slowly transforming them, eroding their structures but, most of all, their perception. Moss, plants, water, and other agents are the instruments of a process of forced naturalization of elements that are extraneous to the territories where they have been inserted, by form, collocation, and materials. In fact, the reasons why they exist are connected exclusively to strategic necessities of visual and defensive control of the battlefront: that endless stretch of sea and sky between the coastline and the skyline, from the Pyrenees to North Cape. English translation: Ilaria Parini 360
bunker vengono lasciati all’azione della natura che rapidamente se ne è appropriata e che lentamente ne sta trasformando la consistenza, erodendone prima che le strutture la stessa percezione. Muschi, piante, acqua e altri agenti sono gli strumenti di un processo di naturalizzazione forzata di elementi completamente atopici, per forma collocazione e materialità, rispetto ai territori in cui sono inseriti, essendo le ragioni della loro esistenza dettate esclusivamente dalle necessità strategiche di controllo visivo e difensivo del campo di battaglia: quella sterminata fascia di mare e di cielo compresa tra la linea di costa e quella dell’orizzonte, dai Pirenei fino a Capo Nord.
Notes
Note
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Winter 1995. Caruth 1995. Macdonald 2009. The Atlantikwall, which literally means Fortification of the Atlantic, is often wrongly translated into French as Mur de l’Atlantique and into English as Atlantic Wall: it is not a wall, but a defensive fortification which never takes the shape of a wall, not even ideally. The focal point of the system is represented by the “fortified territories, that is, those places which might potentially be the main landing places for enemies”. First of all, thus, the big ports along the coast, as stated in the excerpt of war directive n. 40 of the 23rd of March, 1942, which ratified the beginning of the building of the Atlantikwall. Trevor-Roper 1965. In 1942 the Sudwall was added, that is, the fortification of the French coastline on the Mediterranean. A paramilitary undertaking which was entrusted with all the public works realized in Germany and in the occupied territories, from the motorways of the Reich to all the military infrastructures, and which will be directly involved in all the extermination operations in the Eastern European countries. Even though Speer was at the head of the Todt Organization, he was not really involved in the construction of the Atlantikwall, as he entrusted Xaver Dorsh with it, who was already chief engineer at OT before Speer started working there. See Di Folco, Guarino V. 2010. Labour camps in the Channel Islands were particularly hard, as the deportees were forced to work in inhuman and violent conditions (Carr 2012). The prisoners who were mostly used by OT for hard labour works are Russians, Poles, and Spanish political (Desquesnes, 2003). As far as the construction of the Atlantikwall is concerned, the matter of the forms of collaboration on the part of undertakings, as well as the matter of the exploitation of forced workforce are still largely debated, and scholars do not all agree on those questions. See also Prieur 2010. Rolf, 1988. http://www.museumscenterhanstholm.dk This site is particularly meaningful because of the presence of two structures which house a large calibre cannon each: Hanstholm II with bullets of calibre 380, and fire power over 50 km, capable of completely closing Skagen Strait, thanks to its twin bunker built in Norway, and Hanstholm I with calibre 170, which was necessary to control the close coasts (Andersen, 2006). Andersen 2006. http://www.carso2014.it
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Winter 1995. Caruth 1995. Macdonald 2009. L’Atlantikwall, letteralmente Vallo Atlantico, viene spesso tradotto erroneamente con Mur de l’Atlantique nei testi francofoni e Atlantic Wall in quelli di lingua inglese: non si tratta infatti di un muro bensì di un vallo difensivo che non assume mai neppure idealmente la forma del muro. Baricentro del sistema sono i “territori fortificati, ovvero quei luoghi suscettibili di costituire i punti di sbarco principali del nemico”, in primo luogo dunque i grandi porti lungo la costa, come recita l’estratto dalla direttiva di guerra n° 40 del 23 marzo 1942 che di fatto sancisce l’avvio della costruzione del vallo Atlantico. Trevor-Roper 1965. Nel 1942 si aggiunge il Sudwall, la fortificazione della riva francese sul Mediterraneo. Un’impresa paramilitare cui sono affidati tutti i lavori pubblici realizzati in Germania e nei territori occupati, dalle autostrade del Reich fino a tutte le infrastrutture di guerra, e che nei paesi dell’Est parteciperà anche direttamente alle operazioni di sterminio. Speer, nonostante fosse a capo della Organizzazone Todt, è in realtà poco implicato nella costruzione dell’Atlantikwall che delega a Xaver Dorsh, già capo ingegnere alla OT prima del suo arrivo. Si veda Di Folco, Guarino V. 2010. Particolarmente duri sono i campi di lavoro nelle Channel Islands dove i deportati sono costretti a condizioni di lavoro disumane e violente (Carr 2012). Sono soprattutto alcune categorie di prigionieri a essere impiegati nel lavoro forzato per l’OT: russi, polacchi e prigionieri politici spagnoli (Desquesnes, 2003). Relativamente alla costruzione dell’Atlantikwall, la questione delle forme di collaborazionismo delle imprese come quella dello sfruttamento della manodopera coatta sono aspetti ancora molto dibattuti, che non trovano tutti gli studiosi allineati sulla stessa posizione. Si veda anche Prieur 2010. Rolf, 1988. http://www.museumscenterhanstholm.dk Ciò che rende particolarmente significativo questo sito è la presenza di due strutture che ospitavano ciascuna un cannone di grande calibro: Hanstholm II per proiettili di calibro 380, e una potenza di fuoco superiore ai 50 km, in grado di chiudere completamente – grazie al bunker gemello costruito in Norvegia - lo stretto di Skagen, e Hanstholm I di calibro 170, necessario a controllare la costa più prossima (Andersen, 2006). Andersen 2006. 361
17. http://www.denkort-bunker-valentin.de 18. “In just twenty months – from summer 1943 to spring 1945 – a bunkered submarine shipyard was born in Bremen-Farge. Up to 10.000 forced laborers – civilian forced laborers from Eastern and Western Europe, Soviet prisoners of war, Italian military internees, concentration camp prisoners and inmates of the labor re-education camps of the Bremen Gestapo – were working under extreme pressure day and night on the enormous construction site. Various camps within a radius of six kilometers of the bunker were used for housing. Malnourished and debilitated people built the bunker in 12-hour shifts of hard labor. Approximately 2,000 laborers died as a result of the physically strenuous work, inadequate care and inhumane living conditions in the camps. Only 1,144 victims are known by name.” (from Denkort Bunker Valentin website - http://www.denkort-bunker-valentin.de/ accessed in May 2012). 19. Marszolek 2008. 20. Bassanelli 2013. 21. Prost 1998. 22. http://www.archdaily.com/47022/europan-10-results/ 23. “The construction of Dora II started in 1941. Due to the in general complicated supply situation OT did not man- aged to finish more than 65% of the building before the war ended. Dora II is to day in use as a local shipyard. Ships are still docked in the remains of the submarine pen. The work on Dora III newer got under way” (Excerpt from the brochure Europan 10: Trondheim_Norway, 2009). 24. http://www.europan-europe.com/ 25. The project with the motto “Proscenium“ (entry: EU 031), presented by Marianna Rentzou (GR), Alexandros Gerousis (GR), Beth Hughes (AU), Konstantinos Pantazis (GR), won the first prize, but, in spite of the fact that the regulations of the competition established that the winning project be realized, the design project has not been put into practice yet. 26. Kjelmeland 2005. 27. http://www.bunkerologi.no 28. http://ebookbrowse.com/gdoc.php?id=315813532 &url=78c23731f25f1aa4f3a40129df73d76c 29. http://www.facebook.com/concretemushrooms 30. Mydyti 2012. 31. http://www.lablog.org.uk/2008/11/14/ ospitare-le-differenze 32. Brunelli, Parati 2011. 33. Wilberg 2000. 34. Toulier 1996. 35. Postiglione 2006.
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16. http://www.carso2014.it 17. http://www.denkort-bunker-valentin.de 18. “In just twenty months – from summer 1943 to spring 1945 – a bunkered submarine shipyard was born in Bremen-Farge. Up to 10.000 forced laborers – civilian forced laborers from Eastern and Western Europe, Soviet prisoners of war, Italian military internees, concentration camp prisoners and inmates of the labor re-education camps of the Bremen Gestapo – were working under extreme pressure day and night on the enormous construction site. Various camps within a radius of six kilometers of the bunker were used for housing. Malnourished and debilitated people built the bunker in 12-hour shifts of hard labor. Approximately 2,000 laborers died as a result of the physically strenuous work, inadequate care and inhumane living conditions in the camps. Only 1,144 victims are known by name.” (dal sito web di Denkort Bunker Valentin - http://www. denkort-bunker-valentin.de/ visitato nel mese di marzo 2012). 19. Marszolek 2008. 20. Bassanelli 2013. 21. Prost 1998. 22. http://www.archdaily.com/47022/europan-10-results/ 23. “The construction of Dora II started I 1941. Due to the in general complicated supply situation OT did not man- aged to finish more than 65% of the building before the war ended. Dora II is to day in use as a local shipyard. Ships are still docked in the remains of the submarine pen. The work on Dora III newer got under way” (Estratto dalla brochure Europan 10: Trondheim_Norway, 2009). 24. http://www.europan-europe.com/ 25. Il progetto con motto “Proscenium“ (entry: EU 031), presentato da Marianna Rentzou (GR), Alexandros Gerousis (GR), Beth Hughes (AU), Konstantinos Pantazis (GR), si aggiudica il primo premio e nonostante il regolamento del concorso imponga la realizzazione del progetto vincitore, la proposta è rimasta per ora solo sulla carta. 26. Kjelmeland 2005. 27. http://www.bunkerologi.no 28. http://ebookbrowse.com/gdoc.php?id=315813532 &url=78c23731f25f1aa4f3a40129df73d76c 29. http://www.facebook.com/concretemushrooms 30. Mydyti 2012. 31. http://www.lablog.org.uk/2008/11/14/ ospitare-le-differenze 32. Brunelli, Parati 2011. 33. Wilberg 2000. 34. Toulier 1996. 35. Postiglione 2006.
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Giulio Testori
Learning from war landscape Imparare dal Paesaggio dei Conflitti
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This was something unheard of: an immense, populated landscape of thousands of acres of fields and roads and farmhouses becoming a monument to an event which had taken place there.
This was something unheard of: an immense, populated landscape of thousands of acres of fields and roads and farmhouses becoming a monument to an event which had taken place there.
( Jackson 1980a, 93)
( Jackson 1980a, 93)
The American Civil War was not over yet, when the desire to declare the Gettysburg battlefield a monument was already widespread. As a matter of fact, the monument of the Gettysburg battlefield is assumed to be a warning, a guide for the future of the American nation. However, unlike many other monuments that are inspired by the same principle, this is not exhortative in the traditional sense: it is a vast environmental area in which historical memory is recalled without expressing an educational purpose that tells us what to do, but it simply explains the battle.2 John Brinckerhoff Jackson (1980a) fundamentally emphasizes the fact that it is possible to track down two basic principles in the need to store things and events of the past. The former is defined as principle of continuity: the space and the language used for the monument, memorial or historic site, want to communicate and establish with our society an agreement, a union of values and purposes between a primacy of the past and the present. On the contrary, the latter is a principle of discontinuity: the attention of the present is not addressed to a hero, an event or a political figure but to a vernacular past, a golden age which is now over and at which we look with nostalgia, as a concluded event. This is the case where the space is planned and organized as a re-enactment, old cities are arranged according to an idea of a certain era, statues, plaques and monuments are dedicated to anonymous figures: the unknown soldier, the unknown fisherman etc. These two principles that influence and shape the urban or natural landscape can
Non era ancora finita la Guerra di Secessione americana che già era diffuso il desiderio di dichiarare il campo di battaglia di Gettysburg un monumento. In effetti il monumento del campo di battaglia di Gettysburg parte dal presupposto di essere un monito, una guida per il futuro della nazione americana, ma a differenza di molti altri che si ispirano allo stesso principio questo non è un monumento esortativo in senso tradizionale: è un immensa area ambientale in cui il ricordo storico viene rievocato senza esprimere una volontà di tipo educativo che ci dice cosa fare, semplicemente spiega la battaglia.2 John Brinckerhoff Jackson (1980a) sottolinea che è possibile rintracciare due principi base nella necessità di conservare cose ed eventi del passato: uno è definito di continuità, lo spazio e il linguaggio utilizzati per il monumento, memoriale o luogo storico vogliono comunicare e stabilire con la nostra società un patto, un unione di valori ed intenti tra un primato del passato ed il presente. L’altro principio è invece definito di discontinuità, l’attenzione del presente non è rivolta ad un eroe, un fatto o personaggio politico ma ad un passato vernacolare, ad un’età dell’oro ormai andata e a cui si guarda con nostalgia, come un evento ormai concluso; è questo il caso in cui lo spazio è progettato ed organizzato come una rievocazione, vecchie città vengono allestite secondo un’idea di una certa epoca, statue, targhe e monumenti vengono dedicati a personaggi anonimi: l’anonimo soldato, l’anonimo pescatore ecc. Questi due principi che influenzano e modellano il paesaggio urbano o naturale possono essere generalmente collegati a due 365
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Frame, main structures and alteration traces of WWI and WWII, war pressure on European territories (Ph. Giulio Testori)
be generally related to two different cultural attitudes: the first one, for example, may be characteristic of a society with a Latin culture, whereas the second is typical of an English society in which an individualistic attitude prevails. It is interesting to notice how in various examples Jackson always analyzes the landscape in terms of its relationship to cultural elements, such as religion or others, rather than technically talking about it as something related to economy, functions and productivity. In the cases described above, both where an attitude of continuity with the past prevails and in case of discontinuity, the meaning of history for the present human being seems to be less true without the preservation of the remains of the past. This seems particularly important also for the locations of the two World Wars, taking into consideration the price which has been paid by Europe in terms of human lives, constraints, denied rights and futures, destructions and pollution of natural and urban territories, and of resources in general. Therefore, today it seems necessary to pay greater attention to the memory and identity of these spaces in relation to the cultural and conservative project implemented for them. Every age needs to have ruins restored and preserved to tell people about their present identity,3 and this is grounded in a principle of the public interest which is felt and solved in different ways and forms according to the various epochs.4 It is probably inevitable that every epoch transfigures and transcends these places transforming them either into exhortative monuments often doomed to oblivion or into tourist centres, where the war is only a background set up for meetings for adults who play at dressing up in uniforms, marching and drinking beer, for example during the celebrations for the D-Day.5 Thus, the risk for these places seems to be double: on the one hand the danger of neglect and oblivion, on the other the transformation into a paradoxical phenomenon already known and implemented in other 368
atteggiamenti culturali diversi, il primo può essere caratteristico di una società di cultura latina, il secondo ad una società in cui prevale un atteggiamento di tipo individualista come quella anglosassone. E’ interessante notare come Jackson, nei diversi esempi trattati, analizzi il paesaggio sempre in termini di rapporto a fattori culturali come ad esempio la religione, piuttosto che parlarne tecnicamente in rapporto all’economia, a funzioni e produttività. In entrambi i casi sopra descritti, sia in quello in cui prevalga un atteggiamento di continuità con il passato che in quello di discontinuità, il significato della storia per l’uomo del presente sembra meno vero senza la conservazione dei resti del passato. Ciò sembra particolarmente rilevante anche per i luoghi delle due Guerre Mondiali in relazione al prezzo pagato dall’Europa in termini di vite umane, di costrizioni, diritti e futuri negati, distruzioni e inquinamento di territori naturali ed urbani, di risorse in generale. Sembra dunque necessario porre oggi una maggiore attenzione alla memoria ed identità di questi spazi in rapporto al progetto culturale e conservativo messo in atto per questi stessi. Ogni tempo ha bisogno di rovine da restaurare e conservare per parlare all’uomo della sua identità presente;3 ciò trova fondamento in un principio dell’interesse pubblico sentito e risolto con modi e forme diverse nelle epoche.4 E’ probabilmente inevitabile che ogni epoca trasfiguri e trascenda questi luoghi trasformandoli o in monumenti esortativi destinati poi spesso all’oblio, o in centri turistici dove la guerra è solo uno sfondo allestito per raduni di adulti che giocano a vestirsi in uniforme, a marciare e bere birra come ad esempio accade nelle celebrazioni del D-DAY.5 Il rischio per questi luoghi sembra dunque duplice, da una parte il pericolo dell’abbandono e dell’oblio, dall’altra la trasformazione in un fenomeno paradossale già conosciuto ed in atto in altri luoghi di grande interesse storico culturale, dove le azioni di valorizzazione passano da un estremo atto conservativo fino
WWI, Italian front, elements of landscape near Jamiano, Gorizia, Italy (Ph. Giulio Testori)
places of great historical and cultural interest. In such places the actions of enhancement go from one extremely conservative act up to the transfiguration of the meaning of the place; both cases very often involve a restriction of the cultural or daily use of the goods themselves, as pointed out by Rem Koolhaas in the exposition “Preservation” at the Venice Biennale of Architecture 2010. Nowadays the occupation of these spaces implies interpreting and communicating them. The flexible and experimental nature of the preparation project lends itself to the use of multiple disciplines, taking on different aspects and values depending on the circumstances. This is the reason why it may provide an alternative form of architectural communication6 and consider whether, in a universe where everything revolves around communication and market, the project may return a different view, an experience which
alla trasfigurazione del significato del luogo; entrambi i casi comportano molto spesso una limitazione d’uso culturale o quotidiano dello stesso bene, come sottolineato da Rem Koolhaas nell’esposizione “Preservation” alla Biennale di Architettura di Venezia del 2010. Occupare oggi questi spazi comporta interpretarli e comunicarli, forse proprio il carattere flessibile e sperimentale del progetto di allestimento, prestandosi all’uso di più discipline e assumendo diversi aspetti e valori a seconda dei casi, può garantire una alternativa forma di comunicazione dell’architettura6 e riflettere se in un universo in cui tutto è comunicazione e mercato, il progetto possa restituire un diverso sguardo, un’esperienza necessaria per comprendere cosa e come siano questi luoghi. Nell’analizzare le trasformazioni degli spazi bellici, Paul Virilio (1975) descrive come il mondo militare, per raggiungere i propri 369
Sequence: Siegfried line near Hollerath, Aachen, Germany (Ph. G. Testori)
is necessary to understand what and how these places are. In his analysis of the transformations of war spaces, Paul Virilio (1975) describes how the military world has supported the development of other branches of knowledge and technologies in order to achieve its purposes. For example, the need to deploy troops, communicate, move quickly and remove obstacles has supported the development of infrastructures and a new knowledge of the area through topography. It is as if the progress of armaments and military mobilization had created a new representation of space, a new form and use of the territory. This performative aspect returns a view of reality where war, architecture and landscape influence one another until they merge together. Within this context, J. L. Cohen (2011) documents how the first two World Wars were able to catalyse energies and progress for architecture 370
scopi, abbia supportato lo sviluppo di altri saperi e tecnologie. Ad esempio la necessità di schierare le proprie truppe, comunicare, muoversi velocemente e diminuire gli ostacoli ha supportato lo sviluppo di infrastrutture e di una nuova conoscenza del territorio attraverso la topografia; è come se il progresso degli armamenti e della mobilita militare abbia generato una nuova rappresentazione dello spazio, una nuova forma e uso e del territorio. Questo aspetto performante restituisce una visione della realtà dove guerra, architettura e paesaggio si influenzano l’un l’altro fino a confondersi. Continuando a ragionare su questo aspetto, Jan Louis Cohen (2011) documenta come le prime due Guerre Mondiali riuscirono a catalizzare energie e progresso per l’architettura e permettere così al movimento Moderno di affermarsi definitivamente abbracciando un modello basato sulla funzionalità, l’economia, il mercato. Dunque sembrerebbe che la
and thus enable the Modern movement to definitely assert itself, embracing a model based on functionality, economy, and market. So it would seem that the war, in addition to its destructive connotations, also acquires a privileged position to know and change the world. Since the First World War, this epic connotation, which connects war, culture and adventure, will be used by the armed forces themselves to advertise the recruitment and, as highlighted by Diller + Scofidio (2011), in this way the theme of the journey will start to merge with the war. From this moment on the practice of tourism will continuously intersect with the war and with constantly growing associations: tourism of war sites, war whose target is tourism, equipment, military and tourist mobility, etc. A promise of adventure that for the front line soldier will translate in reality into immobility, boredom, fear, cold, death. In these same years, in which this kind of communication starts to be used, the first military intelligence services are created: first of all, they must get to know their enemy and not surprisingly they often develop reliefs and mapping of the enemy lines. Within this context, it is interesting to note how the military world sees and represents the territory; Jackson, who enlisted in the American Intelligence during Second World War, provides an interesting description of this aspect across the European landscape: “Armies do more than destroy, they create an order of their own. It was strange to observe how both sides superimposed a military landscape on the landscape of devastation. It was even more strange, I thought, to see how military landscape resembled the old pre-technological landscape, especially in the way it organized space” ( Jackson 1980b, 12). The author emphasizes that the land transformation for military purposes is even more evident if you look at a military map that describes the same area; space and traditional order seem to be arranged in a totally new form: the maps show enemy lines, places of command,
guerra, oltre alle sue connotazioni distruttive, acquisisca anche una posizione privilegiata per conoscere e cambiare il mondo. A partire dalla Prima Guerra Mondiale questa connotazione epica che mette in rapporto guerra, cultura e avventura sarà utilizzata dalle stesse forze armate per pubblicizzare il reclutamento e, come sottolineato da Diller + Scofidio (2011), il tema del viaggio comincerà così a confondersi con la guerra. Da questo momento in poi la pratica del turismo si intersecherà con questa continuamente, stabilendo relazioni con diversi contesti: turismo dei luoghi di guerra, guerra che ha come bersaglio il turismo, equipaggiamento e mobilità militare e turistica, ecc. Una promessa di avventura che per il soldato del fronte si tradurrà nella realtà in staticità, noia, paura, freddo, morte. In questi stessi anni, in cui si comincia a utilizzare tale tipo di comunicazione, nascono anche i primi servizi informativi militari, in primo luogo questi hanno il compito di conoscere il nemico e non a caso spesso sviluppano rilievi e mappature delle linee avversarie. Al riguardo è interessante notare come il mondo militare veda e rappresenti il territorio; Jackson arruolato nell’Inteligence americana nel corso della Seconda Guerra Mondiale, fornisce un’interessante descrizione di quest’aspetto sul paesaggio europeo: “Armies do more than destroy, they create an order of their own. It was strange to observe how both sides superimposed a military landscape on the landscape of devastation. It was even more strange, I thought, to see how military landscape resembled the old pre-technological landscape, especially in the way it organized space” ( Jackson 1980b, 12). L’autore sottolinea come la trasformazione del territorio a scopo bellico è ancor più evidente se si guarda una mappa militare che descrive lo stesso; lo spazio e l’ordine tradizionale appaiono organizzati in forma totalmente nuova: le mappe evidenziano le linee nemiche, i luoghi di comando, i baraccamenti, i punti di osservazione, i depositi, le vie di comunicazione ferroviaria, stradale e telefonica; il territorio è 371
Sequence: La Somme battlefield, France (Ph. G. Testori)
barracks, observation points, stores, and road, railway and telephone lines of communication; the territory is divided into sectors and the different types of line hierarchize it. The territory’s population is replaced by a very different one: thousands of people trained to do, go and eat where and how they are told. These substitutive people do not stand for themselves according to the place where they live, but according to the commander or regiment they belong to. Moreover, they rarely know the names of places and tend to replace them with nonsense words; a greater number of symbols on the map, thus, indicates the soldiers’ smaller familiarity and knowledge of the history of that area. On the contrary, they often have a greater awareness of the surrounding landscape and environment than ordinary people have; very often, soldiers on the battlefield live in conditions that are more primitive compared to those of a civil society; this leads to develop an adaptive instinct to 372
diviso in settori e gerarchizzato secondo diversi tipi di linea. La popolazione del territorio viene sostituita da un’altra molto diversa: migliaia di uomini addestrati a fare, andare e mangiare dove e come gli viene detto. Questa popolazione sostitutiva non indica se stessa in base a dove vive, ma in base a quale comandante o reggimento appartiene; raramente conosce i nomi dei luoghi e tende a sostituirli con parole di nonsenso; una maggior quantità di simboli sulla mappa è indice quindi della minor familiarità e conoscenza della storia di quel territorio da parte dei soldati. Al contrario questi hanno spesso una consapevolezza del paesaggio e dell’ambiente circostante maggiore rispetto a quella della gente comune; molto spesso i soldati sul campo di battaglia vivono in condizioni più primitive rispetto a quelle della società civile, ciò induce a sviluppare un istinto adattativo al territorio simile a quello di un predatore, oltre alla vista, il soldato sviluppa un maggiore senso
territory similar to that of a predator: in addition to the sight, soldiers develop a greater sense of smell, hearing, touch, thus increasing the chances of collecting information to better orient themselves. In peacetime, the relation between meteorology, moon phases and topography does not say anything concerning the unevenness of the soil or the density of a wood, while for a soldier fighting in the front line this relation is essential to survival. The front line soldier develops the knowledge and ability to interpret and use the land, which is completely different compared to the one inhabited by the population.7 The aspects briefly described hitherto about war sites are just some of the features that can identify the uniqueness of a landscape determined by an increasing number of common factors: morphologic, anthropogenic (economic, cultural, religious, linguistic), ecologic and geographic, which are stratified in time and memory. More precisely, as Teresa Galí claims when referring to battlefields (2005), these are special areas, because they are places that overlap and incorporate others: parts of mountains, valleys, rivers, cities, etc. In a period when the assets of the twentieth century Europe are outdated, these old and disused areas tend to disappear and new others are introduced with different relations. In this time of transition and transformation, it may be important to understand to what extent the pressure of war may have affected the various European landscapes and how this may have influenced the future destiny of these same areas, both physically and culturally. Indeed, this may help us discover and highlight some unknown features of these landscapes that contribute to define their identity, to trace the directions of future scenarios. With regard to the above, it appears that today what misses is an overview of the features and the relations expressed by these particular places, a collection of cases that returns a set of views on these issues. A method of inquiry in order to investigate these places
dell’olfatto, dell’udito, del tatto aumentando così le possibilità di raccogliere informazioni di orientarsi maggiormente. In tempi di pace il rapporto tra meteorologia, fasi lunari e topografia non dice nulla rispetto all’asperità del terreno o alla densità di un bosco, mentre per un soldato che combatte in prima linea questo rapporto diventa essenziale alla sopravvivenza; il soldato di prima linea sviluppa una conoscenza e una capacità di lettura ed uso del territorio totalmente diversa rispetto alla popolazione che lo abita.7 Gli aspetti fin qui sommariamente descritti sui luoghi di guerra sono solo alcuni dei caratteri che possono identificare l’unicità di un paesaggio che è determinato da un numero di fattori comuni sempre maggiore: morfologici, antropici (economici, culturali, religiosi linguistici), ecologici e geografici che si stratificano nel tempo e nella memoria; più precisamente come definito per i campi di battaglia da Teresa Galí (2005), questi sono spazi particolari, in quanto sono luoghi che si sovrappongono e ne inglobano altri: parti di montagna, di valli, di fiumi, parti di città ecc. In un periodo in cui gli assetti dell’Europa del Novecento sono ormai sorpassati, questi vecchi e dismessi spazi tendono a scomparire e se ne introducono dei nuovi con diverse relazioni. In questo momento di transizione e trasformazione comprendere quanto la pressione dell’evento bellico abbia potuto incidere sui diversi paesaggi europei e quanto ciò abbia potuto condizionare il destino futuro di questi stessi territori, sia dal punto di vista fisico che culturale, potrebbe essere un aspetto importante per scoprire ed evidenziare alcuni caratteri sconosciuti di questi paesaggi che concorrono a delineare la loro identità, a tracciare le direzioni di futuri scenari. In relazione a quanto sopra scritto, sembra che oggi manchi un quadro generale dei caratteri e delle relazioni espresse da questi particolari luoghi, una raccolta di casi che restituisca una serie di viste su questi aspetti. Un metodo di indagine, per guardare questi luoghi, potrebbe essere simile a quello utilizzato per 373
Sequence: Atlantic Wall near Calis, France (Ph. G. Testori)
could be similar to the one used by Iñaki Ábalos for battlefields (2005); an X-ray, a frame that shows the skeleton of the different war sites across Europe and then overlay it with other landscape features, morphologic, anthropogenic, ecologic, geographic, etc. and so try to visualize relations, dynamics, scales, and transformation moments; finally, try to verify the mechanisms of mutual influence. The knowledge of these characteristics, especially the last mentioned one, must however be achieved not only through a series of radiographs or frames, but also through a leap in scale that enables to know and understand how the different elements of the system behave and relate to one another. These elements are arranged in sequences and then in sums of sequences, and they can evaluate the different facets of reality: transformations, memory, influences undergone. For example, a few of these sequences may reconstruct how some elements of this previously radiographed war skeleton relate to 374
i campi di battaglia di Iñaki Ábalos (2005); una radiografia, un frame che mostri l’ossatura dei diversi spazi bellici sul territorio europeo per poi sovrapporla agli altri caratteri del paesaggio (morfologici, antropici, ecologici, geografici, ecc.) e così cercare di visualizzare rapporti, dinamiche, scale, e momenti delle trasformazioni; infine verificare i meccanismi di influenza reciproca. La conoscenza di questi caratteri e di quest’ultimo in particolare, deve essere però acquisita non solo attraverso una serie di radiografie o frames, ma anche attraverso un salto di scala che permetta di conoscere e comprendere come i diversi elementi del sistema si comportano e si relazionano tra loro; questi elementi ordinati in sequenze e poi, in somme di sequenze possono restituire le diverse sfaccettature del reale: trasformazioni, memoria, influenze subite. Ad esempio alcune di queste sequenze potrebbero ricostruire come parti di ossatura bellica, radiografata in precedenza, si rapportino alle trasformazioni geografiche subite, ai progetti
the geographic transformations undergone, celebration projects of war, reuse or recycling of the same, overlapping or insertion of other elements from the skeleton, conservation projects, contemporary projects, etc. Thus, two dimensional scales, sets and elements, which relate and intertwine repeatedly to build a picture that outlines how and what these places are. In this regard, a first research delineation performed adopting this point of view is reported below.
di celebrazione dell’evento bellico, al riuso o riciclo di questo stesso, a sovrapposizioni o innesti di altri elementi dell’ossatura, ai progetti conservativi, ai progetti contemporanei, ecc. Dunque due scale dimensionali, insieme ed elementi, che si relazionano e intrecciano ripetutamente per costruire un quadro che delinei come e cosa siano questi luoghi. Al riguardo, viene riportata di seguito, una prima delineazione di indagine adottando questo punto di vista.
Frames: early observations of the framework of World War I and II
Frames: prime osservazioni sull’ossatura della Prima e Seconda Guerra Mondiale
The First World War, as is well known, was unexpectedly a permanent war determined by the inefficient tactical organization of the armies compared to the devastating capabilities of new technologies, such as the machinegun. For about 4 years, millions of people, economic investment and structures found themselves pressed on circumscribed parts of the territory and during those years those territories were shaken by trenches, barbed wire, explosions and fires, transforming in this way their use and appearance. On the contrary, the Second World War was a highly mobile war, where the front line aimed to dissolve the conflict spreading it throughout the territory, even in the urban space. The nature of this war is principally due to the general development of aviation over the First World War and a more tactical awareness with respect to new technological possibilities. If in the First War adaptation, reuse and construction of new fortifications and infrastructure was relevant, the Second World War has a striking productive capacity of these systems, in terms of technology and dimension, a considerable reduction of time in development and construction due to the use of labour force too. To what extent all this is evident in the contemporary European landscape or how these events have affected its development does not seem to be so easily recognisable: signs, alterations and
La Prima Guerra Mondiale, come noto, fu inaspettatamente una guerra stanziale determinata dall’inefficiente organizzazione tattica degli eserciti rispetto alle capacità devastanti delle nuove tecnologie, come ad esempio la mitragliatrice. Per circa quattro anni milioni di uomini, investimenti economici e strutture si trovarono a premere su parti di territorio circoscritte; durante quegli anni quei territori vennero sconvolti da trincee, filo spinato, esplosioni ed incendi trasformandone l’uso e l’aspetto. La Seconda Guerra Mondiale fu al contrario una guerra di grande mobilità, dove la linea del fronte tese a dissolversi diffondendo il conflitto su tutto il territorio, anche nello spazio urbano; il carattere di questa guerra è da imputare principalmente al grande sviluppo dell’aviazione rispetto alla Prima Guerra Mondiale e ad una maggiore consapevolezza tattica rispetto alle nuove possibilità tecnologiche. Se nel primo conflitto mondiale l’adattamento, il riuso e la costruzione di nuove fortificazioni e infrastrutture fu rilevante, il secondo vede un’impressionante capacità produttiva di questi sistemi dal punto di vista tecnologico e dimensionale, una considerevole riduzione dei tempi di sviluppo e costruzione grazie anche all’uso di mano d’opera forzata. Quanto tutto ciò oggi sia evidente nel paesaggio europeo contemporaneo o quanto questi eventi abbiano influito sul suo 375
destructions tend to be reabsorbed from the soil, memorials and monuments have become invisible to the eye of the passer-by,8 the war railways and roads have been converted and absorbed in the new urban centres, the rest is very often purposely left to begin a new life and forget the horrors of war. A first image arranges the profile of the European territory without geographic, physical or political features, only the main elements and traces of the First World War’s skeleton, in blue colour, and the Second’s, in red colour, are reported; accurate, straightforward fortifications, fortified cities , points of logistics, harbours, airports, radio and radar communication, traces of land alteration.9 In this first stage land interconnections (roads, canals, railways) are excluded. The image presents how the pressure of this framework across Europe is more focused on some areas and actually it returns a photograph of what is described above: the structures of the First World War cover the whole of Europe getting higher density towards the centre and the traces of land alterations are concentrated almost only in this point. On the contrary, the structures of the Second World War appear mainly structured in a linear manner and are concentrated only in a few places in a consequential way, whereas land alterations are spread all over the continent. Sequences: searching for elements and relationships Italy, lower Isonzo: the pressure of two armies, consisting of about 240,000 soldiers from the Royal Army and the Habsburg Empire built, fought and destroyed in a limited time, 26 months, day and night, on a very narrow area of land between the eastern side of the river Isonzo, Monfalcone, Gorizia and part of the current line of the Slovenian-Italian border, about 198 sq km; with a density of about 1212 soldiers / sq km, which corresponds to the size and density similar to, for example, the current district of the City of Verona. 376
sviluppo sembra non essere così facilmente delineabile: i segni, le alterazioni e le distruzioni tendono ad essere riassorbite dal terreno, i memoriali e i monumenti con il tempo sono diventati invisibili all’occhio del passante,8 le ferrovie e le strade di guerra sono state convertite e assorbite nei nuovi agglomerati urbani; il resto molto spesso è stato volutamente abbandonato per cominciare una nuova vita e dimenticare gli orrori della guerra. Una prima immagine inquadra il profilo del territorio europeo privo di elementi geografici fisici o politici; vengono riportati solo i principali elementi e tracce dell’ossatura della prima guerra mondiale, colore blu, e della seconda, colore rosso: fortificazioni puntuali, lineari, città fortificate, punti di logistici, porti, aeroporti, strutture di comunicazione radio e radar, tracce di alterazione del terreno;9 sono esclusi in questo primo momento le interconnessioni terrestri: strade, canali, ferrovie. L’immagine presenta come la pressione dell’ossatura sul territorio europeo sia maggiormente concentrata su alcune aree, di fatto restituisce una fotografia di quanto descritto sopra: le strutture della Prima Guerra punteggiano l’intero territorio europeo acquistando maggiore densità verso il centro, le tracce di alterazione del territorio sono concentrate quasi unicamente nei pressi questi sistemi fortificati. Al contrario le costruzioni della Seconda appaiono strutturate linearmente ed insistono solo su alcuni luoghi in modo consequenziale, le alterazioni sul territorio sono invece disseminate su tutto il continente. Sequenze: ricercando elementi e rapporti Italia, basso Isonzo: la pressione di due eserciti, composti da circa 240.000 soldati tra Regio Esercito ed Impero Asburgico hanno costruito, combattuto e distrutto in un periodo di tempo limitato, 26 mesi, giorno e notte, su un’area di territorio molto ristretta compresa tra il lato orientale del fiume Isonzo, Monfalcone, Gorizia e parte dell’attuale linea di confine italo-slovena, 198 kmq circa;
During the last century this territory suffered a strong pressure because of the war and military events. Ruins, monuments and trenches from the First World War, memorials to the Second World War Resistance Movement and control structures of the first years of the Cold War are widespread traces that intersect and overlap so to create a network of precise memories that quietly coexists with the modern organization of the territory. State Road 55, Vallone Road: the road links Gorizia with Duino, it passes through and overlaps with this network of remains of the Isonzo Battles, of the partisan Resistance of the Second World War, and of the boundary structures which have by now been abandoned. The route of the road was already broadly in place during the first conflict, and in 1928 it comes under the competence of the AASS, now Anas, and it is perhaps at this moment that the road is redrawn the way it looks like today, a continuous row of cypress trees interspersed with monuments to the fallen and to the events of the First World War. This can be read as a linear system that winds through the trenches and binds the memory of these places in the present time, the commemorative elements show a nostalgic style in tune with the monuments of the Risorgimento,10 the size and language of these precise items are opposed to the proud and heroic ones used in the nearby Sacrario degli Invitti in Redipuglia by Giovanni Greppi and Giannino Castiglioni, 1935. The composition of this system concludes with buildings and logistic structures, such as a water tank of the Habsburg army now converted to irrigate a vegetable garden, and even ruins of war cemeteries, trenches, shelters and small fortifications that were unable or unwilling to find a new use. Today some new elements (red totems placed along the road and the surrounding landscape) renew the passers-by’s attention pointing out places and paths of the open-air museum of the Great War.
con una densità di circa 1212 soldati/kmq, dimensioni e densità simili ad esempio all’attuale Comune di Verona. Questo territorio nel corso del secolo scorso ha subito una forte pressione da parte di eventi bellici e militari. Ruderi, trincee e monumenti della Prima Guerra, memoriali alla resistenza della Seconda Guerra e strutture di controllo degli anni della Guerra Fredda sono tracce diffuse che si incrociano e si sovrappongono a creare una rete di ricordi puntuali che convive silenziosamente con l’organizzazione odierna del territorio. SS 55, strada del Vallone: collegando Gorizia con Duino la strada passa e si sovrappone alla rete di resti delle Battaglie dell’Isonzo, della resistenza partigiana della Seconda Guerra Mondiale, delle strutture di confine ormai abbandonate. Il tracciato della strada già in buona parte esistente durante il primo conflitto diventa poi nel 1928 di competenza dell’AASS, oggi Anas, ed è forse in questo momento che la strada viene ridisegnata come appare oggi; un continuo filare di cipressi intervallato da monumenti ai caduti ed ai fatti della Prima Guerra. Questa può essere letta come un sistema lineare che si snoda tra le trincee e lega la memoria di questi luoghi al presente; gli elementi commemorativi presentano uno stile nostalgico in continuità con i monumenti degli eventi risorgimentali,10 le dimensioni e ed il linguaggio di questi elementi puntuali si contrappone a quello fiero ed eroico usato nel vicino Sacrario degli Invitti di Redipuglia di G. Greppi e G. Castiglioni (1935). Concludono la composizione di questo sistema, costruzioni e strutture logistiche come ad esempio una cisterna d’acqua dell’esercito Asburgico ora convertita per irrigare un orto; ed ancora ruderi di cimiteri di guerra, trincee, ricoveri e piccole fortificazioni che non hanno potuto o voluto trovare un nuovo utilizzo. Alcuni nuovi elementi, dei totem rossi seminati lungo la strada ed il paesaggio circostante, rinnovano oggi l’attenzione del passante indicandogli luoghi e percorsi del Museo all’aperto della Grande Guerra. 377
The road passes through what is called the Karst of Comeno, a plateau at a height of 200-400 meters above sea level with peaks up to 600 m.a.s.l. The plateau is a limestone tableland whose chemistry allows the karst formation: the rainwater leads to rock corrosion forming depressions of land, called dolinas, and deep crevices in which water is channelled so that it forms a landscape made up of hypogean caves and subterranean rivers. However, on the surface this peculiar phenomenon forms a barren landscape devoid of a superficial hydrography and vegetation adapted to the arid environment; in these places the use of land for agricultural purposes is only allowed in limited areas. The uniqueness of such an environment led to many of the behaviours and results obtained during the XI Isonzo battles in the First War. State Road 55, Km 4-5: the picture frames some of the elements of the current landscape; cultivated woody lands, and urban areas with old constructions (in black colour) and new ones (in gray colour). Road 55 is highlighted, in yellow, as a narrative element of the landscape, as a commemorative system made up of punctual monuments, rows of cypresses, historical/hiking paths of the Great War. This set of elements may be the beginning of the sequence to frame the relationship between contemporary aspects and uses of the land regarding the organization of war space, in red.
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La strada attraversa quello che viene definito il Carso di Comeno, un altopiano di 200-400 s.l.m. con vette fino ai 600 s.l.m. L’altopiano è un esteso tavolato calcareo la cui composizione chimica permette la formazione del fenomeno carsico: il dilavamento dell’acqua piovana porta alla corrosione della roccia formando depressioni del terreno dette doline e profonde fenditure in cui l’acqua si incanala per formare un paesaggio ipogeo composto da grotte e fiumi sotterranei. Tale peculiarità forma invece in superficie un paesaggio brullo privo di un’idrografia superficiale e di una vegetazione adattata all’arido ambiente; in questi luoghi l’uso del terreno a fini agricoli è permesso solo in ristrette aree. La particolarità di tale ambiente determinò molti dei comportamenti e dei risultati ottenuti durante le XI battaglie dell’Isonzo nel corso della Grande Guerra. SS 55, Km 4-5: l’immagine inquadra alcuni degli elementi del paesaggio odierno; superfici boschive, coltivate e urbane di vecchia, in nero, e nuova costruzione, in grigio. La strada 55 è evidenziata, in giallo, come elemento di racconto del paesaggio, come sistema commemorativo composto da monumenti puntuali, filari di cipressi, percorsi storico/ escursionistici della Grande Guerra; questo insieme di elementi può costituire l’inizio della sequenza per inquadrare il rapporto tra aspetti e usi contemporanei del territorio rispetto all’organizzazione dello spazio bellico, in rosso.
Notes
Note
1. This work is based on the early results of a Ph. D. thesis which has not been completed yet ( Villard d’Honnecourt, III cycle, international Doctorate in Architecture, Università Iuav di Venezia), on the relationship between war and landscape 2. See Jackson 1980a. 3. Ibid. 4. See Settis 2005. 5. See Rumiz 2004; http://www.repubblica.it/2004/f/ sezioni/esteri/sbarconormandia/sbarconormandia/ sbarconormandia.html 6. Altarelli 2005. 7. Jackson 1980b. 8. Pirazzoli 2010. 9. The image was processed from: London Geographical Institute,1914, Daily mail war map, 1: 5.385.600, London : George Philip & Son, London Geographical Institute. Published in Natkiel, Richard, and Peter Young. 1974. Atlante della Seconda Guerra Mondiale. Milano: Arnoldo Mondadori edizioni; and in Atlante Enciclopedico Touring volume 5 storia moderna e contemporanea (1990), 1:15.000.000. Milano: Touring Club Italiano. 10. See Pisani 2011.
1. Il lavoro rappresenta un primo risultato della ricerca per la tesi di dottorato (Villard d’Honnecourt, III cycle, international Doctorate in Architecture, Università Iuav di Venezia) che indaga la relazione tra paesaggio e guerra. 2. Si veda Jackson 1980a. 3. Ibidem 4. Si veda Settis 2005. 5. Si veda a tal proposito: Rumiz 2004; http://www. repubblica.it/2004/f/sezioni/esteri/sbarconormandia/sbarconormandia/sbarconormandia.html 6. Altarelli 2005. 7. Jackson 1980b. 8. Pirazzoli 2010. 9. L’immagine è stata elaborata da: London Geographical Institute, 1914, Daily mail war map, 1: 5.385.600. London : George Philip & Son, London Geographical Institute. In Natkiel, Richard, and Peter Young. 1974. Atlante della Seconda Guerra Mondiale. Milano: Arnoldo Mondadori edizioni; e in TCI, 1990, Atlante Enciclopedico Touring volume 5 storia moderna e contemporanea, 1:15.000.000. Milano: Touring Club Italiano. 10. Si veda Pisani 2011.
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Cristina Federica Colombo
A museum of the territory along the “Defensive Line at the North Border” Un Museo del Territorio lungo “la Linea di Difesa alla Frontiera Nord”
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Wild bushes, brushwood and layers of leaves and debris have been for a long time the only company of most of the defensive artifacts of a complex and wide system of fortifications, built in the alpine area along the Italian-Swiss border mainly in the years of the First World War. Only a few works have been rescued from the oblivion that followed the end of their strategic interest, primarily thanks to sporadic private initiatives. Until recently, such structures were usually visited by occasional tourists and enthusiasts and were often victims of negligence and deterioration, due to the behaviour of people who didn’t understand their historical value and accelerated the effects of natural elements. However, they have recently aroused new attention, as a result of the commitment of a growing number of devotees, local associations and, above all, the protection provided by new specific laws. The Defensive Line at the North Border is commonly, but improperly, known as Cadorna Line, a denomination which comes after the name of General Luigi Cadorna, Chief of Staff of the Italian Army during the war and the building of fortifications. However, the project was the outcome of a long planning process that began right after the national unification and was reviewed several times in order to adapt it to the political and tactical changing strategies, in the unstable system of European alliances. The establishment of the Kingdom of Italy in 1861 immediately brought the need to defend the northern border of the nation to the attention of the Italian Corps of Engineers. Numerous studies had been carried out over the years but none of them was enacted before 1911, with the only exception of the construction of defensive barricades near the main pass towards the Po Valley. Nonetheless, that same year the Department of Defence devised a new plan, extended from Ossola to the Orobie chain, to protect the frontier with Switzerland, which was entrusted to the Milan division of the Corps of
Rovi, sterpaglie e strati di foglie e detriti hanno costituito per molto tempo la sola compagnia di larga parte dei manufatti di un complesso e capillare sistema di fortificazioni militari costruito sull’arco alpino e prealpino lungo il confine italo-svizzero, principalmente in occasione della Prima Guerra Mondiale. Dall’oblio che è seguito al venir meno del loro interesse militare e strategico, si sono salvate solo poche opere, per lo più grazie a iniziative sporadiche e private. Meta di rari curiosi e studiosi e spesso vittima dell’incuria e del degrado dovuto alla condotta di persone che non ne comprendevano il valore storico, che hanno accelerato l’azione degli elementi naturali, da alcuni anni ha suscitato una nuova attenzione, grazie alla dedizione di un crescente numero di appassionati, associazioni locali ed enti, ma soprattutto alla tutela garantita da nuove e specifiche legislazioni. La Linea di Difesa alla Frontiera Nord è comunemente conosciuta con l’appellativo improprio di Linea Cadorna, dal nome del Generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano negli anni del conflitto e della sua realizzazione, ma è l’esito di un lungo processo di pianificazione strategica che iniziò all’indomani dell’unificazione nazionale e fu più volte ridiscusso per adeguarlo al mutare dell’assetto politico e tattico, nel quadro instabile delle alleanze europee. La creazione del Regno d’Italia nel 1861 pose immediatamente all’attenzione del Genio Militare la questione della difesa del confine settentrionale del Paese. Numerosi studi vennero compiuti negli anni ma, se si eccettua la costruzione di opere di sbarramento dei principali valichi d’accesso alla Pianura Padana, essi restarono puntualmente inattuati fino al 1911, quando l’Ufficio di Difesa dello Stato formulò un nuovo schema di protezione alla frontiera svizzera lungo il versante ticinese, dall’Ossola alle Orobie, e ne affidò la realizzazione al Genio Militare di Milano. Nel corso del 1915, infine, l’Italia dichiarò la mobilitazione generale e guerra all’Austria-Ungheria e ciò diede un deciso impulso ai lavori. 381
Engineers. In 1915, Italy ordered a general mobilization, then declared war on AustriaHungary; those occurrences considerably quickened the construction works. The Italian High Command established a defensive line with advance and rearward garrisons, made up by entrenchments, artillery bunkers, barracks, shelters and hundreds of kilometers of carriage roads, mule tracks and paths, primarily gathered in the flanking heights of the Pre-Alps in the provinces of Varese, Como and Lecco and built taking advantage of the morphology of the land and using local materials. The course of the war let the Italian-Swiss border seem more and more secure, to the extent that artillery pieces were moved from the Verbano sector to the Isonzo fighting line, since April 1917. The defeats of the Austro-Hungarian Army on the Italian front ( June 1918) and the German troops on the Western one ( July 1918) eliminated the necessity to guard the area once and for all. Consequently. the fortifications sat unused and undamaged, and they were left neglected exception made for few isolated maintenance works in the interwar period. During the Second World War part of the structures harboured smugglers, fled prisoners, partisans, German and Italian units, and the fort placed in San Martino Valcuvia gained a doleful notoriety on the 13th of November 1943, when its bunkers hosted the first battle of the Italian Resistance, in which Nazi-Fascist forces had the upper hand over a group of partisans known as “Esercito italiano—Gruppo Cinque Giornate—San Martino di Vallalta—Varese,” commanded by Lieutenant Colonel Carlo Croce.1 The end of the invasion risk along the Swiss border marked a contradictory fate for the artifacts of the Defensive Line at the North Border: the outbreak of the war in other sectors of the front allowed them to be preserved intact, but it also determined their relinquishment and a consequent slow wrecking, due to natural and human factors. 382
Il Comando Supremo italiano fissò una linea difensiva con presidi avanzati e arretrati, composta da trinceramenti, postazioni per batterie, baraccamenti e centinaia di chilometri di strade rotabili per l’artiglieria, mulattiere e sentieri, per lo più concentrati lungo le pendici prealpine nelle Province di Varese, Como e Lecco e realizzati sfruttando la morfologia del terreno e materiali reperiti in loco. Con l’evolversi delle operazioni belliche, tuttavia, si ritenne il confine italo-svizzero sempre più sicuro e di conseguenza, a partire dall’aprile del 1917, le artiglierie furono trasferite dal settore Verbano al fronte principale dell’Isonzo. La sconfitta austro-ungarica sul fronte italiano (giugno 1918) e quella tedesca sul fronte occidentale (luglio 1918) fecero venire definitivamente meno la necessità di difendere questo tratto di territorio. Le fortificazioni rimasero così inutilizzate ed intatte, lasciate in stato di abbandono salvo qualche raro intervento di manutenzione tra le due guerre. Durante la Seconda Guerra Mondiale, parte delle strutture ospitò contrabbandieri, prigionieri fuggiti, partigiani, reparti tedeschi e italiani e il forte di San Martino Valcuvia ebbe un triste momento di notorietà il 13 novembre 1943, quando tra i suoi bunker si svolse la prima battaglia della Resistenza e le forze nazifasciste ebbero il sopravvento sul gruppo di partigiani del gruppo “Esercito italiano—Gruppo Cinque Giornate—San Martino di Vallalta—Varese” comandati dal Tenente Colonnello Carlo Croce.1 La cessazione del pericolo di invasione lungo il confine svizzero segnò per le opere difensive della Frontiera Nord un futuro contraddittorio: se per un verso lo scoppio della guerra su altri fronti consentì una sopravvivenza intatta ai manufatti, ne determinò anche il declino e una conseguente lenta distruzione ad opera di fattori naturali e antropici. Si sta, tuttavia, verificando una netta inversione di tendenza grazie all’impegno di appassionati, studiosi e all’iniziativa delle amministrazioni locali, Comunità Montane, Comuni e Province, supportate dalla Regione
View of the interior of the cave-battery, Monte Piambello, Varese (Ph. Cristina F. Colombo)
However, a reversal has been recently occurring, thanks to the work of devotees, scholars and local government institutions (mountain communities, municipalities and provinces), supported by the Region and the State. They are, in fact, publicizing the existence of the system of fortifications by publishing papers, pieces of writing and brochures, restoring their most preserved and accessible parts. A first outcome of their efforts was the realization of nine tourist and didactic routes equipped with pointing up signs and briefly presented by a map and an essential description at each starting point, besides the creation of a small visitor center in Marzio. Maps and illustrative material are also available in town halls and local public administrative offices, as well as in a dedicated website. The whole project was partly sponsored by the Cross-border Cooperation Program Interreg III/A Italy-Switzerland
e dallo Stato, che stanno provvedendo a renderne nota l’esistenza grazie alla pubblicazione di testi ed opuscoli e a segnalare e puntualmente, a recuperare, i tratti meglio conservati e più agibili. Una prima concretizzazione del loro impegno nella Provincia di Varese è stata la nascita di nove itinerari di visita corredati da cartelli indicatori e brevemente illustrati da mappe e cenni descrittivi nel punto di partenza di ciascun percorso, presentati anche in depliant informativi disponibili presso le Comunità Montane, gli enti locali e in un apposito sito internet e la creazione di un piccolo visitor center a Marzio, resi possibili dai finanziamenti del Programma Interreg III/A di Cooperazione Transfrontaliera Italia-Svizzera 2000-2006. Lo stesso piano di sovvenzione ha consentito, inoltre, la realizzazione di un vasto progetto censimento di manufatti di interesse storico chiamato “Un Webgis per l’area transfrontaliera,” guidato 383
Observation post at Monte Derta, Varese (Ph. Cristina F. Colombo)
2000-2006, which also made it possible to perform a wide mapping of artifacts of significant historical interest called “Un Webgis per l’area transfrontaliera,” led by Provincia del Verbano Cusio Ossola. These initiatives were further developed in the following Program Interreg VI Italy-Switzerland 2007-2013 with “Forti e Linea Cadorna: dai sentieri di guerra alle strade di pace,” aimed at promoting and enhancing the stretches of the defensive line which flank the frontier in both countries, with a view to an integrated tourism and focusing on few pilot-projects to restore some of the most remarkable structures. Similar undertakings were subsequently carried out in Piedmont and Valle d’Aosta, with French and Swiss partners, in TrentinoAlto Adige with Swiss and Austrian ones, in Veneto with Austrians and in Friuli Venezia Giulia with Austrians and Slovenians.2 384
dalla Provincia del Verbano Cusio Ossola. Queste iniziative hanno trovato continuità nella successiva fase Interreg VI Italia-Svizzera 2007-2013, con “Forti e Linea Cadorna: dai sentieri di guerra alle strade di pace,” che si pone l’obiettivo di promuovere e valorizzare in vista di un turismo integrato i tratti di linea che costeggiano il confine delle due nazioni, a partire da progetti-pilota di recupero di alcuni manufatti emblematici. Operazioni analoghe, poi, sono state messe in atto in Piemonte e Valle d’Aosta con partner francesi e svizzeri, in Trentino-Alto Adige, con svizzeri e austriaci, in Veneto con austriaci e in Friuli Venezia Giulia con austriaci e sloveni.2 Cresce, al contempo, il numero dei seminari, delle giornate di studio, delle ricerche e delle pubblicazioni scientifiche curate da istituti universitari e musei, miranti a produrre una letteratura rigorosa e precisa, ma anche a creare le premesse per un approccio
In the meanwhile, there is a growing number of seminars, study-days, research studies and scientific publications edited by academies and museums, which aim at laying the foundation for a multidisciplinary and highlevel approach to the protection of this kind of heritage. Even if we do not consider the laws in force on the enhancement of the legacy of the Great War—Law 78/2001 “Tutela del Patrimonio Storico della Prima Guerra Mondiale” and their implementation decree, and Lombardy Regional Law 28/2008—we should acknowledge the progress done towards the draft of operational criteria, essential for a coordination of the interventions on the entire territory. They are the prerequisites for common lines of action to preserve the Defensive Line at the North Border and for a constructive dialogue with other Italian and foreign realities. The Directorate-General for Education and Culture of the Lombardy Region financed several improvement projects concerning military and memorial routes, such as the “Cadorna Line” and the Guerra Bianca.3 The cooperation with people involved in the safeguard of other coeval military systems and the sharing of the know-how and the experience gained studying them or through pilot-projects already undertaken, could considerably ease the census of artifacts and the selection of the places that are worth being included in visit routes and suitable for didactic activities, due to their architectural value, their museographical or historical interest or their uniqueness. Above all, a similar teamwork could guarantee the creation of synergistic, or maybe even shared, informative platforms. A step forward in that direction was represented by the project “Rivalutazione dei sentieri storici e naturalistici nell’area delle Alpi Retiche” in the area of Stelvio National Park, still financed by the program Interreg III/A Italy-Switzerland 2000-2006, in which Lombardy, Alto Adige and Switzerland
pluridisciplinare e di alto livello al tema della salvaguardia di questo patrimonio. Senza entrare nel merito delle norme legislative vigenti in materia di promozione dei lasciti della Grande Guerra—basti citare la Legge 78/2001 “Tutela del Patrimonio Storico della Prima Guerra Mondiale,” con il relativo decreto attuativo, e la Legge Regionale della Regione Lombardia 28/2008—occorre riconoscere i passi compiuti in direzione della stesura di criteri operativi indispensabili per una coordinazione degli interventi sull’intero territorio lombardo e non, che costituiscono i presupposti per azioni omogenee atte a conservare le opere del sistema difensivo della Frontiera Nord e gettano le basi per un dialogo costruttivo con le realtà italiane e di altre nazioni. Nell’ambito dei progetti di valorizzazione territoriale promossi dalla Direzione Generale Istruzione, Formazione e Cultura della Regione Lombardia figurano iniziative che riguardano le vie militari e i percorsi della memoria quali la “Linea Cadorna” e le zone teatro della Guerra Bianca.3 La collaborazione con coloro che si occupano della tutela di altre opere militari coeve e la condivisione di conoscenze e delle esperienze maturate studiando l’esistente e attraverso i progetti pilota già intrapresi faciliterebbe notevolmente il lavoro di censimento, mappatura e individuazione dei luoghi che più si prestano a essere inseriti in itinerari di visita e ad essere oggetto di iniziative didattiche, in virtù del loro valore architettonico, dell’interesse museografico e storico e della loro spettacolarità. Una simile intesa garantirebbe, soprattutto, la possibilità di creare piattaforme informative quantomeno sinergiche, se non comuni. Un passo in questa direzione è stato fatto nel territorio del Parco dello Stelvio con un progetto sempre finanziato dal programma Interreg III/A Italia-Svizzera 2000-2006, “Rivalutazione dei sentieri storici e naturalistici nell’area delle Alpi Retiche,” che ha visto la collaborazione di Lombardia, Alto Adige e Svizzera per il restauro dei manufatti locali e la 385
collaborated to restore a part of the system and gather documentary material. However, a lot remains to be done in order to achieve a full coordination of the interventions and a comprehensive perspective, as demonstrated by the fragmentation of information concerning Interreg endowments allocated in the last few years to support the enhancement and preservation actions on the First World War fortifications, or the lack of links in websites dedicated to local projects to what is located outside the regional boundaries. Paradoxically, borders can still limit the sharing of knowledge: walls fall, customs disappear, but the idea of margin is still deep-rooted. Knowledge is the prerequisite for the preservation and enhancement of these unacknowledged traces of our past. Tearing these artifacts away from oblivion, from neglect, from a progressive divestment, to return the dignity they deserve to them, ensuring them protection and wider visibility, so that they can become part of a cultural and touristic heritage available to everyone. Stopping their deterioration and promoting their fruition, avoiding precipitate, expensive, useless and distorting reconstruction works. (Belotti 2009, 10) Knowing (conoscere) means being aware of the existence of something and having a wide and deep cognition of it. The next step in the preservation of fortified systems and the assets of the material culture is to make them recognized (ri-conoscere), that is, to make something people already knew, but had fallen into indifference, identifiable again. Furthermore, it means making the artifacts distinguishable without any doubt and making their value and their intrinsic contents appreciated. Finally, it means overcoming the concept of habit and involving the local population in a conscious fruition, so to stimulate a constant care and monitoring. The musealization of wide fortified lines, however, rises at least two complex questions. The wide territorial extension of these systems causes the elements that form them to 386
raccolta di materiale documentario. Rimane, tuttavia, molto da fare per giungere a una piena coordinazione degli interventi e a un’ottica di sistema, come dimostrano la frammentarietà delle informazioni riguardanti le sovvenzioni Interreg erogate negli ultimi anni per sostenere azioni di valorizzazione e conservazione dei lasciti della Prima Guerra Mondiale e l’impossibilità di trovare nei portali dei progetti locali rimandi a ciò che si trova al di fuori dei confini giuridici regionali, che ancora oggi riescono a bloccare, paradossalmente, lo scambio di informazioni: cadono i muri, spariscono le dogane, ma l’idea di limite è tuttora radicata. La conoscenza è la premessa indispensabile per la conservazione e la valorizzazione di queste misconosciute tracce del nostro passato. Strappare queste opere all’oblio, all’abbandono, alla progressiva spoliazione, per riconsegnare loro la dignità che meritano, garantendone tutela e maggiore visibilità, affinché esse entrino a far parte del patrimonio culturale e turistico disponibile a tutti. Arrestarne il degrado e promuoverne la fruizione, senza lasciarsi trascinare in avventate, quanto costose, inutili e deformanti operazioni di ricostruzione. (Belotti 2009, 10) Conoscere significa avere notizia dell’esistenza di una cosa e averne una cognizione ampia e approfondita. Il passo successivo da compiere per la conservazione dei sistemi fortificati, come dei beni della cultura materiale, è far sì che vengano ri-conosciuti, ovvero rendere di nuovo identificabile ciò di cui già si aveva nozione ma che era caduto nell’indifferenza, permettere di distinguerlo con sicurezza e, dunque, di apprezzarne il valore e i contenuti anche intrinseci; significa, altresì, superare il concetto di abitudine e coinvolgere la popolazione locale in una fruizione consapevole, tale da indurre un’attenzione e una vigilanza costanti. La musealizzazione di grandi opere fortificate, tuttavia, pone almeno due ordini di difficoltà. Accanto a questioni legate all’estrema estensione territoriale di questi complessi, che fa sì che gli elementi di cui si compongono
Lugano Lake seen from the observation post at Monte Derta, Varese (Ph. Cristina F. Colombo)
fall under the jurisdiction of numerous and different authorities, often difficult to coordinate, due to their diverse sensitivity, unequal availability of resources or to purely political reasons. Besides, they are made up of structures that can, by their very nature, only occasionally function as a centre of attraction for a cultural tourism and can be easily reached even by people lacking proper training. Although we should commend isolated interventions on sites of particular interest, because of their architecture, of the natural environment where they are set and of the historical facts in which they were involved, it is necessary to pay attention to the details and, at the same time, to a much wider view. The artifacts that form complex defensive systems (such as the ones at the North Border in Italy and the correspondent ones built along the same frontier on the Swiss and Austrian soil, just to refer to the area and
ricadano sotto la giurisdizione di un alto numero di enti differenti, spesso difficili da coordinare perché divisi da diversa sensibilità, da ineguali disponibilità di risorse o da ragioni meramente politiche, occorre riconoscere che sono formati, per loro stessa natura, da costruzioni che solo occasionalmente sono in grado di per sé di fungere da polo attrattore per un turismo culturale e possono essere facilmente raggiungibili da persone prive di un’adeguata preparazione. Seppure si debbano lodare interventi su singoli luoghi particolarmente significativi per la loro architettura, per il contesto ambientale nel quale sono inseriti o per le vicende che li hanno visti protagonisti, occorre lavorare al contempo sul dettaglio e su una visione notevolmente più ampia. I manufatti che compongono sistemi difensivi articolati come le opere della Frontiera Nord in Italia e quelli corrispettivi eretti lungo lo stesso confine sul suolo svizzero e austriaco, 387
the epoch considered—many others could be cited, among all the Hindenburg Line or the later Maginot Line and Atlantic Wall, but the list would lengthen considerably widening the time span) must be regarded first and foremost as part of an organic and large scale plan, where every unit has a limited value in itself, but gains importance from the entirety. A similar awareness makes it possible also to catch at best the uniqueness of every single element, which meet, by virtue of their position, typology or features, precise requirements responding to war strategies and was planned according to the morphology of the land, to the available materials and the skill, sometimes even the fancy, of the civilian or military manual laborers who made them.4 The integration between the fortifications and the environment where they are located, which makes them almost invisible, favors their insertion in tours that include other natural and human-built sites. All together they form a network rich in historical references. Since ancient times, pre-Alpine passes were transition and meeting points for people of different cultures, descents and traditions, and valleys were inhabited by populations who left deep traces on the territory, sometimes noticeable and evident, other times smaller and hidden, even if still significant. Besides renowned monuments, churches, and villas, there are ancient terraces—evidence of lost agricultural practices— old pastures, erratic boulders interwoven with unnumbered legends, rock carvings which go back to rituals and beliefs almost fully effaced but still echoed in local folk customs, remains of fortresses and outpost of all ages, buildings of a close industrial and proto-industrial past. The history of these areas and the identity of their inhabitants, therefore, cannot cannot but consider and preserve these little signs with care and cleverness. This way, an aprioristic and non selective conservation could be avoided through a comparison with other realities, the involvement of people with different expertise and competences, and most 388
per limitarci alla regione e all’epoca prese in esame—molti altri potrebbero essere citati, tra tutti la Linea Hindenburg o i successivi Linea Maginot e Atlantic Wall, ma l’elenco si allungherebbe considerevolmente allargando lo spettro temporale—devono essere pensati prima di tutto come parte di un progetto armonico di ampia scala, nel quale ogni unità ha valore in sé molto limitato ma trae la sua forza dal tutto. Una simile consapevolezza permette anche di cogliere al meglio la singolarità di ogni elemento, che risponde, per posizione, tipologia e caratteristiche, a direttive precise stabilite dall’alto in funzione delle strategie belliche, ma che è stato disegnato sul territorio non solo in base alla morfologia locale, ma anche ai materiali reperibili e alla maestria, talvolta persino al vezzo, delle manovalanze militari e civili che li hanno edificati.4 L’estrema integrazione delle fortificazioni con i luoghi in cui sorgono, che giunge al punto di renderle quasi invisibili, agevola la loro inclusione in itinerari di visita che comprendano altre emergenze di tipo naturalistico e antropico, con le quali concorrono a formare una trama ricca di rimandi storici. Fin dall’antichità i valichi prealpini sono stati luoghi di transito e contatto di popolazioni di culture, origini e tradizioni differenti e le valli sono state abitate da genti che hanno lasciato profonde tracce sul territorio, talora evidenti e innegabili, altre volte più lievi e nascoste, anche se non per questo marginali. Accanto a rinomati monumenti, edifici di culto e ville, convivono antichi terrazzamenti che testimoniano pratiche agricole ormai scomparse, vecchi alpeggi, massi erratici attorno ai quali sono state intessute innumerevoli leggende, incisioni che richiamano riti e credenze quasi del tutto cancellate, di cui però è rimasta attraverso i secoli qualche eco in usanze locali, resti di fortezze e avamposti di ogni epoca, opere del vicino passato industriale e proto industriale. La storia di queste zone e l’identità stessa dei loro abitanti, dunque, non può prescindere da una lettura e da un’attenta e intelligente
of all the awareness that a strong link with the territory is fundamental. The systematization of a high number of assets, located in wide areas and different jurisdictions, in order to preserve and promote them requires, as mentioned above, an adequate overall planning, targeted and consistent intervention measures. A broad museum network, addressed first of all to the local population and only secondarily to an external audience, could add a diverse set of significant elements to the existing range of museums, which is already rich and vary. The new attractions usually do not possess the necessary features to function as traditional expositive centers, but they are essential to identify and keep the traditions of a place alive, with an eye to the future developments rather than to the relics of the past. Similar ideas are also in line with the recent trends of the tourism sector, which are more and more geared to routes alternative to the traditional ones, integrating cultural heritage and excellences with wine and food, fine handicraft, entertainment, landscape, and the chance to practice sport and excursions. In this sense, mallets, water mills, fortresses, and trenches all concur in writing humble but unique chapters of the everyday story of people living in the lands where the “Cadorna Line” extends. Official chronicles neglects these aspects, as everybody knows. Yet, they are very important in an age that moves towards a cultural standardization. They help us understand that a strong radication to a territory is not so much the result of factors of birth, but of the awareness of its past and its present. The hill of San Giuseppe in CassanoValcuvia, in the province of Varese, is an emblematic example which can explain the degree of relationship between the structures belonging to the Defensive Line at the North Border and older presences to people who are not familiar with the areas under consideration. Cassano Valcuvia is an ancient settlement situated in the northern side of the valley, at
tutela di questi piccoli segni, che può sfuggire alla trappola di una conservazione aprioristica e non selettiva e dell’immobilità solo con il confronto con altre realtà e con il coinvolgimento di professionalità diverse e persone competenti, ma soprattutto a partire dalla coscienza della necessità di recuperare un forte legame con il territorio. La messa a sistema di un elevato numero di beni da preservare e promuovere, localizzati su aree vaste ed estese a giurisdizioni diverse, necessita, come si è detto, di un’adeguata programmazione d’insieme e di un corpo di misure di intervento mirate e coerenti. Una rete ecomuseale di scala geografica ampia, rivolta in primis alla popolazione locale e solo secondariamente al mondo esterno, potrebbe essere volta ad affiancare all’offerta di musei attuale, tra l’altro già ricca e diversificata, un secondo insieme che coinvolga elementi di differente natura che, pur non avendo le caratteristiche peculiari per divenire o costituire parte di centri espositivi di tipo tradizionale, sono fondamentali per la definizione e la conservazione delle tipicità e delle tradizioni del luogo con una prospettiva che si apre al divenire e non rimane legata alle sole vestigia del passato. Questi concetti sono, peraltro, in linea con le tendenze attuali del settore turistico, che sono sempre più volte alla ricerca di itinerari alternativi ai circuiti tradizionali, che integrino alle eccellenze e ai beni “culturali,” quelli eno-gastronomici, l’artigianato di qualità, l’intrattenimento, il paesaggio e la possibilità di praticare sport ed escursioni. In questo senso, magli, mulini, forti, trincee concorrono tutti a scrivere capitoli umili ma unici delle vicende quotidiane delle genti delle terre nelle quali di estende la “Linea Cadorna,” aspetti che com’è noto sfuggono alle cronache ufficiali ma che sono tanto più importanti in un’epoca in cui vi sono pressanti spinte verso l’omologazione culturale e che aiutano a comprendere che il radicamento a un luogo non è frutto tanto di fattori di nascita, quanto della consapevolezza del suo passato e del suo presente. 389
Ridotto San Giuseppe fortified complex, Cassano Valcuvia, Varese (Ph. Cristina F. Colombo)
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Un esempio emblematico per chiarire a coloro che non conoscono da vicino le aree in esame il grado di relazione tra le opere della Linea di Difesa alla Frontiera Nord e più antiche preesistenze è il colle di San Giuseppe presso Cassano Valcuvia, in provincia di Varese. Cassano Valcuvia è un borgo antico che sorge nella parte settentrionale della vallata, ai piedi del Monte San Martino. Ad est dell’edificato si erge un piccolo colle, detto San Giuseppe, al culmine del quale, dopo aver percorso una strada scandita da cappelle della Via Crucis, si trovano una piccola e antica chiesa e il sistema di fortificazioni che costituiscono il “Ridotto San Giuseppe,” parte di un complesso più ampio, per lo più facilmente raggiungibile e ben conservato, che si estende dal fondovalle alle pendici del Monte San Martino, dove sorgono osservatori, batterie in caverna, camminamenti e trincee. La vocazione religiosa del colle risale al XIII-XIV secolo, quando fu costruita una chiesa con il titolo di parrocchia dedicata a San Cassiano. Nel corso del tempo quel ruolo fu assunto da un edificio di culto di maggiori dimensioni collocato al centro dell’abitato e la piccola chiesa prese la denominazione con la quale è conosciuta oggi. Una sequenza di trincee cinge la vetta della collina e la chiesa di san Giuseppe e si collega a un sistema di gallerie sotterranee scavate nella roccia, nelle cui pareti lasciate a vista è possibile ancora scorgere alcune delle mine e micromine con le quali sono state realizzate, e a postazioni di artiglieria leggera, direzionate in modo da coprire un angolo di tiro completo. I manufatti difensivi all’aperto sono stati costruiti in calcestruzzo ed approntati affinché i fucilieri potessero posizionarsi al di fuori dello spazio di passaggio, su di un ripiano e protetti da un muro all’interno del quale sono state ricavate nicchie per oggetti personali e munizioni. Le opere che andavano a formare il Ridotto non si fermavano qui: vi era una seconda linea di trincee coperte più bassa, oggi perduta, che, seguendo l’andamento del terreno, 391
the foot of Monte San Martino. East of the settlement rises a hillock, known as San Giuseppe, on top of which there is a little and old church and the system of fortifications that form “Ridotto San Giuseppe,” which can be reached after walking along a road marked by the shrines of Via Crucis. Ridotto San Giuseppe is part of a wider complex, mostly easily accessible and well preserved, extended from the bottom of the valley to the summit of Monte San Martino, where there are observation posts, cave or armoured posts, communication and defensive trenches. The religious vocation of the hill dates back to XIII-XIV centuries, when a parish church was built and consecrated to San Cassiano. Over time that role was taken by a bigger place of worship located in the centre of the village and the small church was renamed as we know it today. A sequence of trenches encircles the summit of the hill and the church of San Giuseppe, and it connects with a system of underground tunnels dug into the rock, with sides in the raw where some of the mines and micro-mines used to hollow them out are still visible. It is also linked to light artillery posts, oriented in order to cover a full shot angle. The outdoor defensive structures were made of concrete and designed so that riflemen could be positioned on a step outside the passageway, protected by a wall with crannies for personal items and munitions. The artifacts that form the complex did not stop there: a second line of covered trenches, which has gone lost, followed the profile of the ground at a lower altitude, extending along the north-west side of the hill; a third one was at a still lower level on the east side and it is possible to visit it partially nowadays. Ridotto San Giuseppe has been largely restored, secured and made accessible by the municipality, which proved to be particularly sensitive and attentive to the value of this complex and to the necessity of popularizing it, further than just maintaining it. The authorities organize guided tours, run mainly 392
Ridotto San Giuseppe fortified complex, Cassano Valcuvia, Varese (Ph. Cristina F. Colombo)
by volunteers, for tourists and students and didactic activities directed to school children, who can become aware of the history of the territory they inhabit and presumably learn to respect it. The completeness of the military buildings of Ridotto San Giuseppe and the fact that they are so easy to reach, make this place particularly suitable for making the defensive line known to people who are not familiar with such a type of systems and allowing them to understand their nature and their conformation. Furthermore, the presence of a religious building and war constructions makes this site striking and unique and loads it with meanings that go far beyond the plain architectural value of the structures. A place of worship and a complex planned to fight, which fortunately has never seen a war except for the echo of bombs and the smoke of Vallalta, share the calmness of this small hill, providing a warning that we do not need to explicate. As the ongoing projects are demonstrating, the restoration and the promotion of these artifacts could be the premises for launching alternative and new tourist routes, almost exceptional or at least rare, destined to be enjoyed by a limited number of people of a middle-high cultural level. Moreover, they would provide a significant contribution to the socio-cultural development of local communities, making them aware and proud of their identity, careful of the preservation of every peculiarity of the land where they live and willing to dialogue with different realities.
si estendeva sul versante nord-orientale della collina, e una terza a un livello ancora inferiore e parzialmente visitabile, sul lato orientale. Il Ridotto è stato in gran parte restaurato, messo in sicurezza e reso fruibile dall’amministrazione comunale, che si è rivelata particolarmente sensibile e attenta al valore di quest’opera e alla necessità di farla conoscere, oltre che di conservarla. Principalmente attraverso il lavoro di volontari, organizza visite guidate per turisti e studenti e attività didattiche dirette ai bambini delle scuole, che possono così prendere coscienza della storia del territorio in cui vivono e, presumibilmente, imparare ad averne rispetto. La completezza dei manufatti del Ridotto e la facilità con cui vi si può accedere rendono questo sito particolarmente adatto a far conoscere la linea difensiva anche a persone che non hanno familiarità con questo tipo di sistemi e a permetter loro di comprenderne la natura e l’articolazione. La compresenza di un edificio religioso e di costruzioni belliche, inoltre, rende suggestivo e unico questo posto e si carica di significati che vanno ben oltre il semplice valore architettonico o materiale delle opere. Un luogo di culto e una struttura pensata per combattere, ma che fortunatamente non ha mai visto la guerra se non per l’eco delle bombe e il fumo di Vallalta, convivono nella quiete di questa piccola collina, lanciando un monito che non credo occorra esplicitare. Come stanno dimostrando i progetti già avviati, il recupero e la promozione di tali manufatti possono creare la premessa per l’avvio di circuiti turistici alternativi, nuovi e pressoché unici nel loro genere o per lo meno rari, legati ad una fruizione di nicchia ma fatta da persone di livello culturale medio-alto. Inoltre, garantirebbero un contributo importante allo sviluppo socio-culturale delle comunità locali, rendendole consapevoli e fiere della propria identità, attente alla conservazione del territorio che abitano in tutti gli aspetti che lo caratterizzano e aperte verso il dialogo e il confronto con realtà differenti. 393
Notes
Note
1. See Campodonico 1949. 2. See Cross-border Cooperation Program Interreg III/A Italy-Austria 2000-2006, Interreg IV Italy-Austria 2007-2013, Interreg III/A ItalyFrance 2000-2006, Interreg III/A Italy-Slovenia 2000-2006. 3. The name “Guerra Bianca” (White War) refers to the battles fought along the Italian-Austrian front during the First World War. A scientific team, coordinated by John Ceruti and sponsored by the Lombardy Region and local associations, realized the Integrated Cultural Park “La Guerra Bianca: il suo territorio, le sue genti” (White War: its land, its people), which accompanies the existing Adamello White War Museum, founded in Temù (Brescia) in 1974. The team is also in charge of the project “Defensive lines and great alpine fortifications from Napoleon to the Great War in Lombardy. Study, survey, mapping and georeferencing for an integrated plan of valorization of contemporary fortifications.” 4. The first artifacts were well refined, built with care for details and sometimes embellished with artistic elements which remind of the Liberty style. The subsequent fortifications, instead, were rougher and sometimes incomplete because of the haste, the increasing economic hardship and the imperious need for labour on the Trentino front. The local population was involved directly in the construction of these structures: it was difficult, in fact, to find a sufficient number of workers among soldiers and militarize staff to employ in sites, due to their continuous transfers towards the fighting line. As a consequence, works had been contracted out to private companies which employed civil people. The firms set in Varese stood out for their carefulness and they got jobs also for some fortifications to be realized in Veneto.
1. Si veda Campodonico 1949. 2. Si rimanda ai Programmi Interreg III/A di Cooperazione Transfrontaliera Italia-Austria 20002006, Interreg IV di Cooperazione Transfrontaliera Italia-Austria 2007-2013, Interreg III/A di Cooperazione Transfrontaliera Italia-Francia 2000-2006, Interreg III/A di cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2000-2006. 3. Con l’appellativo di “Guerra Bianca” si vogliono indicare i combattimenti che interessarono il settore lombardo del fronte Italo-Austriaco durante la I Guerra Mondiale.Una equipe scientifica, coordinata da John Ceruti e patrocinata dalla Regione Lombardia e da enti ed associazioni locali, si è prodigata per l’attuazione del Parco Culturale Integrato “La Guerra Bianca: il suo territorio, le sue genti,” che va ad affiancare l’esistente Museo della Guerra Bianca in Adamello, sorto a Temù (Brescia) nel 1974; si occupa, inoltre, del progetto “I sistemi difensivi e le grandi opere fortificate alpine tra Napoleone e la Grande Guerra in Lombardia. Studio, rilevazione, mappatura e georeferenziazione per un piano integrato di valorizzazione delle fortificazioni contemporanee lombarde.” 4. I primi manufatti erano ben rifiniti, eseguiti con attenzione per i dettagli e, talvolta, persino con l’inserimento di spunti artistici secondo lo spirito Liberty; in seguito, tuttavia, la maggior fretta, le crescenti ristrettezze economiche e l’impellente bisogno di manodopera sul fronte trentino produssero fortificazioni più rozze e, a volte, incomplete. La costruzione di queste opere coinvolse in modo diretto la popolazione locale poiché la difficoltà di reperire manovalanza sufficiente da impiegare nei cantieri, a causa del continuo trasferimento verso il fronte di soldati e personale militarizzato, fece sì che i lavori fossero dati in appalto a numerose ditte private che impiegavano maestranze civili; tra di loro emersero le varesine per la cura con cui portavano avanti l’opera e ciò fece sì che esse ricevettero commesse anche per le fortificazioni venete.
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References • • • • • • • • • •
Battaglia del San Martino. Sessantesimo anniversario 1943-2003. Tredici luoghi storici per non dimenticare lungo il sentiero “Gruppo Cinque Giornate.” 2003. Provincia di Varese. Assessorato al marketing Territoriale e Identità Culturale. Belotti, Walter. 2002. Le testimonianze della Grande Guerra nel settore bresciano del Parco Nazionale dello Stelvio. Sondrio: Bonazzi Grafica. ———. 2004. Dallo Stelvio al Garda. Alla scoperta dei manufatti della Prima Guerra Mondiale, vol. I. Breno (BS): Tipografia Camuna S.p.a. ———. 2005. Dallo Stelvio al Garda. Alla scoperta dei manufatti della Prima Guerra Mondiale, vol. II. Breno (BS): Tipografia Camuna S.p.a. ———. 2009. Le batterie corazzate. I sistemi difensivi e le grandi opere fortificate in Lombardia tra L’Età Moderna e la Grande Guerra, vol. I. Breno (BS): Museo della Guerra Bianca in Adamello. Campodonico, Enrico. 1949. “Il gruppo del San Martino e la battaglia del 13-15 novembre 1943.” In Il Movimento di Liberazione in Italia, edited by Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, 27-36. Rassegna Bimestrale di Studi e Documenti. Corbella, Roberto. 2004. Le fortificazioni della Linea Cadorna tra Lago Maggiore e Ceresio. Varese: Macchione Editore. Trotti, Antonio, ed. 2011a. “La valorizzazione delle fortezze moderne dell’arco alpino.” Quaderni del Museo, vol. I. Conference proceedings, Forte Montecchio Nord, Colico, 18 ottobre 2009, Varese: Museo della Guerra Bianca in Adamello. ———. 2011b. Le grandi opere in caverna alla Frontiera Nord. I sistemi difensivi e le grandi opere fortificate in Lombardia tra L’Età Moderna e la Grande Guerra, vol. II. Varese: Museo della Guerra Bianca in Adamello. Viviani, Raffaele, and Roberto Corbella. 2000. La Linea Cadorna. Val d’Ossola, Lago Maggiore, Val d’Intelvi, Lago di Como, Valtellina. Varese: Macchione Editore.
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Elisabetta Terragni
COLD WAR PANOR(A)MA: Porto Palermo Museum in Albania PANOR(A)MA DELLA GUERRA FREDDA: Il Museo di Porto Palermo in Albania
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Maps and their territories are never congruent; on the contrary, it is precisely their ambiguous relationship that renders the landscape legible or the map uncertain. Not only is the shape of a place revealed in the contours of a map; it is also divided by many invisible signs. Borders, administrative districts, energy networks, and innumerable other lines of demarcation carve up the territory, dispersed across and registered on maps. Each one of them weaves a network of salient traits and invisible connections, so that we cannot be sure as to how and to what extent they correspond to one another. In this sense, each map is an invention that presupposes its own point of view and the particular selection of elements it represents. Whereas it helps users find their bearings, because the map is always “oriented” with respect to the landscape it represents, only this confirms its accuracy. Whereas the authoritativeness of cartography is measured through the landscape, the reality of the country is marked by strengths and powers beyond the map. Whether imaginary or symbolic, they shape the place and determine its nature.1 When in the summer of 1906 Carlo Emilio Gadda (1893–1973), together with friends and his brothers, drew up a map of the orchard next to the villa Longone al Segrino, he created within its confines an imaginary topography: a fantastic world of dukedoms, kingdoms, and earldoms established by the clever Duke of Sant’Aquila in the wake of long and exhausting wars.2 What began as the game of a thirteen-year-old boy became increasingly complex, as the detailed mapping of these states (which Carlo endowed with toponyms and documents) underwent continuous transformation as well as obsessive redrawing of boundaries. It was an introspective and dimensionless world, where borders established the limits of the dukedom, but not the relationship with the external world, which in the game did not exist. Amid the constant flux of events and toponomy, the delicate balance between earldoms and dukedoms, between princesses and
Una mappa e il suo territorio non sono mai congrui, anzi è proprio il loro ambiguo rapporto che rende leggibile il paesaggio o incerta la mappa. Non solo la configurazione del luogo trova riscontro nei suoi lineamenti, ma tanti segni invisibili la dividono. Le frontiere, i distretti amministrativi, le reti energetiche e tante altre demarcazioni incidono il territorio, si disperdono o si registrano sulle carte. Ognuna tesse una rete di tratti salienti e connessioni invisibili da lasciare incerto come e quanto corrispondono tra loro. In questo senso ogni mappa è una invenzione che presuppone un punto di vista e una precisa scelta tra gli elementi che ricorda. Questa aiuta ad orientarsi perché è sempre “orientata” rispetto al paesaggio che rappresenta, ma solo questo può dare conferma della sua accuratezza. Mentre l’autorevolezza cartografica si misura col paesaggio, la realtà del Paese è segnata da forze e poteri ben al di fuori della carta. Non importa se immaginari o simbolici questi plasmano il luogo e ne determinano la natura.1 Quando nell’estate del 1906 Carlo Emilio Gadda, insieme ad amici e ai fratelli disegna la mappa del frutteto attiguo alla villa di Longone al Segrino, crea all’interno di questi confini una topografia immaginaria. Un mondo fantastico di ducati, regni e contee creato dopo lunghe ed estenuanti guerre dall’abile governo del duca di Sant’Aquila, il tredicenne Carlo.2 Il gioco si fa complesso e la minuziosa mappatura degli stati, arricchita dal corredo gaddiano di toponimi e documenti è in continua mutazione così come l’ossessivo ridisegno dei suoi confini. E’ un mondo introverso e senza dimensione dove i confini stabiliscono il limite del ducato ma non la relazione con il mondo esterno che nel gioco non esiste. Nel continuo mutare degli eventi e della toponomastica, tanto il delicato equilibrio tra contee e ducati, tra principesse e signori è cangiante, quanto l’esterno rimane uniforme e indefinito. L’esclusione di questo mondo “oltre il giardino”3 altera il senso delle proporzioni e la percezione dello spazio, che potrebbe essere minuscolo o immenso come solo un bambino 397
Carlo Emilio Gadda, “I’ll make a small sketch of this post, probably not topographically correct, but so as to give a certain idea of the place and to allow people to recognize it”(Ph. Gadda, 1991:72)
lords were altered, while the world outside remained uniform and indefinite. The exclusion of this world “oltre il giardino (beyond the garden)” altered the sense of the proportions and the perception of space,3 which could be miniscule or immense, as only a child can imagine it. A decade later, the obsessive design and definition of Gadda’s own position re-emerged in the more arduous and real theatre of war. Under the pseudonym “Duke of Sant’Aquila,” he fixed in words and drawings the fragments of the deteriorating topography of Karst as he experienced it first hand. They were framed snapshots, a means of remembering how things transpired, in which the memory reconstructs the place of passage, “perhaps not topographically exact, but capable of giving a certain idea of the place, so that it can be recognized”(Gadda 1991, 72-73)— thus, a map. At the age of nineteen, Stendhal 398
lo immagina. Un decennio più tardi l’ossessivo disegnare e definire la propria posizione riemerge nel più arduo e reale teatro di guerra. Con lo pseudonimo del Duca di Sant’Aquila Gadda fissa nelle parole e nei disegni i frammenti dell’estenuante topografia del Carso vissuta in prima persona. Sono istantanee circoscitte, un modo di ricordare come sono andate le cose, dove la memoria ricostruisce il luogo di passaggio, “non forse topograficamente esatto, ma tale da dare un’idea certa del luogo e da permetterne il riconoscimento” (Gadda 1991, 72-73), dunque una mappa. Anche Stendhal, un altro che sognava di appartenere ad una nobiltà immaginaria, attraversando diciannovenne le Alpi con le truppe di Napoleone, disegnava le postazioni. Con pochi tratti dava un’impressione precisa di colli alpini, baite e mulattiere, con tanto di elementi nascosti e trappole per gli invasori.4 Con la penna si
(1783–1842), who also dreamt of belonging to an imaginary nobility, while crossing the Alps with Napoleon’s troops drew the various military posts. In just a few strokes he managed to give a clear impression of the Alpine hills, chalets, and mule tracks, which held many hidden elements and traps for invaders.4 With the pen he found his bearings in a confused and dangerous countryside, even before being able to describe it. Stendhal and Gadda were forced to move through minefields, confined among military posts rather than freely wandering through the land. They were trapped by nefarious obstacles, blocked by heavy trucks, and worn out by military labors. The boundaries of their geographies were pre-established, prejudged, and unalterable or elusive, but always codified. The dimensions of the army’s movements, expanding or contracting according to military logic, imperceptible to the eye and the ear, nonetheless constituted grave, even insurmountable limits to existence itself. The military strategies of the young Gadda and the war on the plateau as the lieutenant experienced it: were they, or were they not the same thing? If we think in terms of territory, then the answer is yes. Because the relationship between the game and the truth corresponds to that between model and reality. According to standard military practice, events are followed by gathering around a model of a theatre of war. The scope of operations is defined in terms of advances and retreats, hegemony or cession, victory or defeat. When the “territory” is subdued by its own forces, it falls under an impartial gaze; in other words, it moves from a state of dispute to one of pacific detachment, becoming “landscape” again. The lines that divided it and steeped it in blood can disappear, trenches can be leveled, bridges rebuilt, and the populace restored. With peace—either imposed or accepted—the map is redrawn as that of a unified territory. Just as war divides and peace unites, so the vision of the territory changes and the lines of the map are altered.
orientava in una confusa e pericolosa campagna, ben prima di essere capace di descriverla. Stendhal e Gadda erano costretti a muoversi in terra minata, confinati tra posizioni militari invece di poter vagare liberi nella geografia. Erano immobilizzati tra ostacoli nemici, bloccati da mezzi pesanti ed esausti dalla fatica militare. I termini della loro geografia furono tutti pre-stabiliti, pre-giudicati e immovibili o sfuggenti, ma sempre codificati. I movimenti dell’esercito, espansione o contrazione a secondo la logica militare, non erano dimensioni accessibili all’occhio e all’udito, ma costituivano severi, anzi insuperabili, limiti dell’esistenza stessa. Le strategie militari in miniatura del giovane Gadda e la guerra sulle alture che il luogotenente visse, furono o no, la stessa cosa? Se si pensa in termini territoriali, la risposta è si, perché il rapporto tra il giuoco e la verità corrisponde a quello tra modello e realtà. Secondo la provata pratica dei militari gli avvenimenti vanno seguiti radunandosi intorno ad un modello del teatro di guerra. Lo scopo degli eserciti si definisce in termini di avanzate e ritirate, di egemonia o cessione, di vittoria o sconfitta. Quando il “territorio” è domato dalle proprie forze, si sottopone ad una visione imparziale, in altre parole ricade da uno stato di contestazione a uno di pacifico distacco diventando di nuovo “paesaggio.” Le linee che lo dividevano e lo insanguinavano possono svanire, le trincee spianate, i ponti ricostruiti, le popolazioni restituite. Con la pace—imposta o accettata—la mappa va ridisegnata come quella di un territorio unificato. Come la guerra spacca e la pace unisce, così la visione del territorio cambia e i lineamenti della mappa mutano. Giuseppe Pagano (Pogatschnig) che fu ufficiale durante la campagna dei Balcani, assume un punto di vista molto in alto sull’Adriatico da dove abbozza una visione che espande la costiera yugoslava nella sua estensione da Venezia fino a Corfù.5 Questa vista a volo d’uccello abbraccia tutte le terre in un solo colpo d’occhio e le unisce in un “territorio coloniale” ove i posti di svago invadano i rinomati 399
Pagano, Notes for a touristic organization in Dalmatia, 1942 (Ph. Domus 1947)
The architect Giuseppe Pagano (1896– 1945), while serving as an officer during the Balkans Campaign during the Second World War, assumed a position high above the Adriatic Sea from which he sketched a view spanning the Yugoslavian coast from Venice to Corfu.5 Such a bird’s eye view encompassed all the countries in a single glance and joined them in a “colonial territory” where resorts invaded renowned historical places. It was quite disconcerting, the “peace” obtained by absorbing various neighboring villages, and likewise, the notion of their territories united under one or another aquila, but always in the clutches of a predatory bird. Albania was not governed by the Duke of Sant’Aquila, but by Count Galeazzo Ciano (1903–1944), Minister of Foreign Affairs and the son-in-law of Mussolini, who in 1939 made his solemn entry into capital city of Tirana.6 Ciano had demonstrated his 400
luoghi storici. E’ assai sconcertante la “pace” stabilita inglobando diversi paesi vicini e pensando i loro territori uniti sotto un’aquila o un altro, ma sempre negli artigli di un rapace. Non era il Duca di Sant’Aquila a governare l’Albania, ma il Conte Galeazzo Ciano, ministro degli esteri e genero di Mussolini, che nel 1939 fece anche la sua solenne entrata a Tirana.6 Ciano si dimostrò entusiasta già nell’ottobre 1938 quando il senatore Prampolini gli consegnò il “suo magnifico studio sulla bonifica integrale del Paese. Giudica le terre litoranee molto superiori alle nostre, e, senza esagerati ottimismi, pensa che dalla sola zona di bonifica si potrebbero portare in Italia due milioni di quintali di grano” (Galeazzo Ciano 1980).7 In quanto frammento nell’ampio arco del Mediterraneo l’Albania fu una terra appropriata alla finzione di un Impero moderno per il quale Pagano proietta, nel 1942, sul
enthusiasm already in October 1938 when senator Prampolini gave him “his exceptional study on the integral reclamation of the country. He deems the coastal lines far superior to ours, and, without being too optimistic, he thinks that it would be possible to take two million quintals (two hundred million kilos) of wheat to Italy just from the drainage area.”7 For being such a small piece of the wide arc of the Mediterranean, Albania was an adequate land for the fiction of a modern Empire for which in 1942 Pagano projected his postwar vision on the Albanian battleground, where tourist centers, seaports, and communication lines were distributed between the land and the sea. The point of view was upside down: his photographs taken from a high vantage point on the Albanian coast helped the images suppressed by memory to re-emerge on the other side of the Adriatic Sea. It is a double
terreno di guerra, la sua visione post-bellica nella quale i centri turistici, gli scali marini e le linee di comunicazione si diramano tra terra e mare. Il punto di vista è rovesciato, le sue fotografie prese dall’alto, sulla costa albanese, aiutano le immagini soppresse dalla memoria a riemergere sull’altro lato dell’Adriatico. E’ una doppia prospettiva che riflette l’animo diviso nella condizione della guerra tra il ruolo di civile a cui spera ritornare e la divisa che ha l’obbligo di servire. Un paese piccolo, accerchiato da nemici reali o immaginari che siano, si circonda di difese e prepara la fuga verso il suo interno. In Svizzera, ancora oggi s’incontrano le tracce degli ostacoli eretti al nemico (come lunghe file di cunei in formazione contro i mezzi corrazzati) e gli enormi rifugi alpini da utilizzare, nell’estrema eventualità di un’invasione nemica, come réduit, come ultima roccaforte 401
Map of Panorma Bay, 2011 (Ph. Elisabetta Terragni: Studio Terragni Architetti, Installation and Architecture; Jeffrey T. Schnapp, Meta Lab(at) Harvard, Curator- in-Chief; Daniele Ledda xy comm, Graphics)
perspective, which reflects the spirit divided in wartime between the role of the civilian to which he hoped to return, and the uniform he was obliged to serve. A small country, under siege by enemies (real or imaginary), surrounded itself by defenses and prepared to escape toward its interior. In Switzerland, we can still today see the traces of obstacles erected to deter enemy invaders, such as the long rows of Drachenzähne or dragon’s teeth, anti-tank fortifications, and the enormous Alpine refuge, the Réduit National, which in the extreme situation of an enemy invasion, would have to be the last stronghold of resistance. Just as Albania was strewn with pillboxes, hundreds of thousands of defensive posts installed throughout the country, the Swiss dug tunnels and fortresses in the depths of the Alps, even if during the Cold War they remained unaligned, their borders were no longer in danger, and consequently their political situation became a cultural condition. Among Western bloc countries, Switzerland 402
di resistenza.8 Pari all’Albania seminata di pillboxes—centinaia di migliaia di punti di difesa sparsi ovunque—gli svizzeri hanno scavato tunnel e fortezze nel profondo delle Alpi, anche se poi durante la Guerra Fredda rimasero al di fuori di ogni alleanza e non più in pericolo ai confini, la condizione politica divenne condizione culturale. All’interno del blocco dei paesi dell’Ovest, il Paese non era più sotto minaccia diretta, ma la mentalità della sua popolazione subì il trauma di un mondo spezzato in due. Ad illustrazione di questo travaglio lo scrittore elvetico Herrmann Burger (1942-1989) inventò una storia di disarmante immediatezza descrivendo nei minimi particolari una cura per rimettere le anime inquiete in uno stato di equilibrio e di pacifico benessere. I pazienti, sdraiati su letti speciali, entravano nel profondo di questi tunnel—ormai privi di funzione militare—a subire una misteriosa irradiazione capace di placare il loro spirito inquieto. Solo nel profondo (di un passato elvetico) e nello spessore
Proposal of the entrance to Panorma Tunnel, 2011 (Ph. Elisabetta Terragni: Studio Terragni Architetti, Installation and Architecture; Jeffrey T. Schnapp, Meta Lab(at) Harvard, Curator- in-Chief; Daniele Ledda xy comm, Graphics)
was no longer under direct threat, but its population suffered the trauma of a world torn into two halves. This was well illustrated by the Swiss writer Hermann Burger (1942–1989), who invented a story characterized by a disarming immediacy, which described in minute detail a “cure” capable of restoring equilibrium and peaceful well-being to those troubled souls. Patients reclining on special beds entered deep into the tunnels—which no longer had any military function—and submitted to a mysterious radiation therapy capable of relieving their restless spirits. Only in the depth (of a Swiss past) and in the massiveness of the Alpine rocks could they recover their health. Entitled Die künstliche Mutter (The Artificial Mother), Hermann Burger’s 1982 novel riveted readers with this return to the places of the last defense—which were by then moot— to heal the world.8 The previous year, in Albania, writer Ismail Kadaré imagined a government that interpreted, classified, and archived the dreams of each of its citizens. In this way,
delle rocce alpine riguadagnavano la loro salute. Intitolato La madre artificiale, il romanzo del 1982 colpì i suoi lettori con questo ritorno ai luoghi dell’ultima difesa, ma ormai di superflua natura, per guarire il mondo.9 In Albania, l’anno precedente, lo scrittore Ismail Kadaré si inventava un governo che intepreta, classifica e archivia i sogni di tutti i suoi cittadini, creando una cassaforte della vita privata e psicologica che avrebbe rinforzato l’autorità dei dirigenti fin nel profondo di ogni anima.10 Tra i pillboxes sparsi su tutto il suo territorio e il solitario tunnel di Porto Palermo regna lo stesso antagonismo. Aggressione e difesa, concentrazione e dispersione sono le due facce del potere tra percezione e dissimulazione. Oggi pochi militari rimasti presidiano questa base, inaccessibile e remota, in una calma sospesa che è già memoria. Un assoluto controllo su tutto il territorio fu l’ossessione di Enver Hoxha, che fece costruire una ragnatela fitta e indistinta, flessibile e duratura per respingere il nemico di 403
Reinforced main entrance door of Panorma Tunnel, 2010 (Ph. Studio Terragni Architetti)
they created a strongbox to contain private and psychological lives, extending the authority of the state to the depth of each and every soul.9 Between the pillboxes scattered throughout the land and in the solitary tunnel of Porto Palermo, the same opposition can be felt. Attack and defense, concentration and dispersion are the two faces of power between perception and suppression. Today, few soldiers guard this base, inaccessible and remote, suspended in a kind of tranquility that is already of the past. Absolute control over the entire territory was the obsession of Enver Hoxha (1908– 1985).10 This is why he had a thick and indistinct net built, a net which was flexible and long-lasting, aiming at driving the enemies back.11 Indeed, this was an absurd, as well as unfeasible, strategic operation, just like the idea of invading the minds of citizens in order to control even their most intimate and unconscious moments: their dreams. However, no matter how absurd the intention might have been, it was supported and implemented 404
turno.11 Un’operazione strategica tanto assurda quanto irrealizzabile, come l’idea di entrare nella mente dei cittadini per controllare anche il momento più intimo e inconscio, quello del sogno. Ma per assurda che fosse la proposizione, questa era sostenuta ed eseguita da una macchina militare e burocratica in cui tutto, senza eccezioni, era predisposto, classificato e archiviato. Quando questo “tutto” cominciò ad emergere dagli archivi, scavato dalla determinazione degli Albanesi di conoscere il passato recente, ecco che il processo si inverte. Così il meccanismo della memoria riavvolge la bobina della registrazione ad un’altra velocità che permette di pensare, di riesaminare il passato come se tornasse ad essere presente. Il suo ritorno è quello di una doppia esposizione, un sovrapporsi del passato (represso) col suo fantasma (revenant). Quello che per tanto tempo fu solo sentito dire prende corpo, quello che era temuto diventa luogo aperto a tutti. Come nel palazzo di Tabir Saraj, la fortezza
by a military and bureaucratic machine where everything, barring nothing, was established, classified, and archived. When all this started to emerge from the archives, owing to the Albanians’ strong desire to learn about their recent past, the process was inverted. So, the mechanism of the memory rewinds the coil of the recording at another speed, allowing the people to think of and elaborate the past as if it was present again. Its comeback implies a double exposition: an overlapping of the (repressed) past with its (revenant) ghost. That which had only been heard about for a long time became real; that which had been feared became a place open to all. As with Tabir Saraj, Kadaré’s Palace of Dreams, which was known to all even though no one had ever succeeded in getting near it, so it was best to use the name by which Panorma Bay, Gjiri i Panormes, was known to sailors along with everyone else, even though no one had ever been there except the ex-convicts who built it and the servicemen who settled there. Panorma Bay, as is stated in the seaman’s book, is the largest on the coast from Saranda to Vlorë, and it is able to accommodate all kinds of vessels. Its waters are deep and free of underwater hazards. In the middle of the bay, the depth can reach eighty to one hundred meters. The bay is protected by the offshore winds. It is more open to the southwest and southeast. The winds blow in these two directions, especially during the winter, often above twenty meters per second. The bay is characterized by an off-shore breeze at night, which can be mixed with snow.12 The topographical features are carefully described, and the invisible and atmospheric aspects are as well. The map changes with the seasons and the instability of natural elements. Only one element remains unaltered in this changing geography, a Warning: any and all ships of the Republic of Albania, and also foreign ships, are forbidden to enter the bay and to dock at the piers of Palermo Bay, even in the event of storms. The landscape as the protagonist of real or
dei sogni di Kadaré che tutti conoscevano ma nessuno riuscì ad avvicinarsi, così è meglio usare il nome dei naviganti per la Baia di Panorma (Gjiri i Panormes), conosciuta da tutti benché nessuno ci sia mai stato, eccetto gli ex-prigionieri che l’hanno costruita e i militari che lì erano stanziati. La baia di Panorma, come descritto nel libro dei naviganti, è la più grande lungo tutta la costa, da Saranda fino a Valona ed è idonea per la permanenza di tutte le navi. Le sue acque sono profonde e pulite dai pericoli sottomarini. E’ circondata da montagne alte fino a 500 metri. Appena si entra nella baia, nel mezzo, la profondità può arrivare fino a 80-100 metri. La baia è protetta dai venti del suolo. E’ più aperta nella direzione sud-occidentale e sud-orientale. I venti di queste due direzioni soffiano specialmente durante l’inverno, spesso sopra i 20 m/s. I venti caratteristici sono la brezza che soffia di notte dal suolo verso il mare, mescolata anche con il vento della neve.12 La descrizione è attenta agli aspetti topografici come a quelli invisibili e atmosferici e si compone in una mappa che muta con le stagioni e l’instabilità degli elementi naturali. Solo un elemento rimane fisso in questa mutevole geografia, un Avvertimento: è proibita l’entrata nella baia e l’approdo nei moli della baia di Palermo per tutti i tipi di nave della Repubblica di Albania e straniere, anche in tempesta. Il paesaggio come protagonista della guerra reale o immaginaria, si rivela essere il teatro di una grande psicomachia: i tunnel passano sotto terra e portano a nascondigli, i portali che danno accesso erano invece da camuffare. Il camoufflage mira alla truffa, serve a di-rottare l’occhio e a dissimulare la realtà. E’ all’osservatore che si indirizza quella soglia tra natura e fortificazione, occultandone la presenza. Quell’immane portone, fatto di tonnellate di calcestruzzo imperniato sulla roccia, segna e dissimula la natura del lungo tunnel che attraversa l’intera penisola. I sommergibili e i torpedo, un tempo nascosti nella sua profondità, giacciono altrove in abbandono. I macchinari e le tracce di vita hanno ceduto 405
Terragni, Museum Panorama of the Cold War 2011, Act III (Ph. Elisabetta Terragni: Studio Terragni Architetti, Installation and Architecture; Jeffrey T. Schnapp, Meta Lab(at) Harvard, Curator- in-Chief; Daniele Ledda xy comm, Graphics)
imaginary war reveals itself as the theatre of a great psychomachia: tunnels run underground and lead to hiding places, while entrance portals had to be camouflaged. Camouflage aims to deceive—diverting sight and dissembling reality. Addressing itself to the observer at threshold between nature and fortification, it conceals the presence of the latter. That immense main entrance, tons of concrete on a rock foundation, marks and covers up the nature of the long tunnel that runs through the whole peninsula. The submarines and the torpedoes, once hidden in its depth, now lie derelict elsewhere. Machinery and other traces of life have surrendered to rust, the slow decline of technology, and the erasure of history. As emblem, the submarine perfectly embodies the contradictions inherent in the political-territorial reality of Albania of the time. 406
alla ruggine, al lento degrado della tecnologia, al superamento della storia. Come emblema, il sommergibile incarna perfettamente le contraddizioni insite nella realtà politico territoriale dell’Albania di allora. Costruito su modello tedesco della Seconda Guerra in un cantiere sovietico, di seguito mantenuto con apparecchiature cinesi e oggi consegnato alla rottamazione, il sommergibile subì fisicamente la trama delle guerre e la spartizione del mondo nella seconda metà del ventesimo secolo. Il suo nascondiglio tra due baie dell’Adriatico tradisce le ansie e le ossessioni di un regime predisposto a vivere il trauma dell’abbandono e della persecuzione. Come se fosse una pillbox movibile, il sottomarino rappresenta l’ultima dispersione del potere e la più densa forma di armamento. In vista di un Museo della Guerra Fredda,
Terragni, Museum Panorama of the Cold War 2011, Act II (Ph. Elisabetta Terragni: Studio Terragni Architetti, Installation and Architecture; Jeffrey T. Schnapp, Meta Lab(at) Harvard, Curator- in-Chief; Daniele Ledda xy comm, Graphics)
It was constructed on a German model of the Second World War in a Soviet shipyard, subsequently maintained with Chinese machinery, and today has been slated for scrapping; it physically suffered the traumas of the wars and the division of the world in the second half of the 20th century. Its hideout between two bays in the Adriatic Sea reveals the anxieties and obsessions of a regime inclined to live the trauma of abandonment and persecution. Like a mobile pillbox, the submarine at once represents the last gasp of power and the most physical form of its armament. In the project for a Museum of the Cold War, installed in the original locus of its military reality, we have chosen to open the tunnel to visitors and bringing the submarine back to its depth.13 The den of power—which had a defensive function—will be uncovered, its
sistemato nel luogo stesso della sua originaria realtà militare, abbiamo scelto di aprire il tunnel ai visitatori e di riportarlo nella profondità del traforo.13 Il covo del potere che servì a scopo difensivo sarà scoperto, i suoi attrezzi ridotti a campionari industriali e il passaggio tra la baia e il mare aperto per la prima volta e accessibile a imbarcazioni civili. Come nascondiglio il tunnel era per natura invisibile e inaccessibile—e lo rimarrà anche su google map—ma diverrà nuovamente teatro degli “atti” che hanno scandito il secolo. Nel nostro progetto l’esperienza del visitatore sarà divisa in sette ambienti, il I e il VI fungono da transizione tra l’interno e l’esterno, tra il paesaggio pristino e il mondo sotterraneo della ex-base militare. Il VII atto conclude il percorso in navigazione nella baia verso la fortezza di Ali’ Pasha. Gli atti II-V, invece, sono di carattere 407
World map imagined by a twelve-year-old Albanian girl, 1992, re-pieced together in 2012 (Ph. Studio Terragni Architetti 2012)
instruments reduced to industrial specimens, and the passage between the bay and the sea will be opened for the first time to nonmilitary vessels. Since it was a hideout, the tunnel was invisible and inaccessible (and it will remain so, also on Google Maps), but it will become again the theatre of the “acts” that marked the century. In our project, the visitor’s experience will take place in seven acts. Acts I and VI enact transitions between the interior and the exterior, between the pristine landscape and the underground world of the former military base. Act VII marks the end of the itinerary, where visitors are free to continue across the bay toward Ali’ Pasha’s fortress. Acts II to V, on the other hand, have a historical and documentary character. They follow one another in the depth of the tunnel and introduce the visitors to a panoramic view of the Cold War, divided between two perspectives that literally speak, one wall to another. The first represents Albania’s perspective, tracing the country’s history from 1946, when the Popular Republic was founded, until 1992, when the Democratic Party took control. The second expresses the ramified perspectives of the various superpowers. While walking along the tunnel, an overwhelming structure created at great human expense, its character shifts as it becomes a kind of shrine to the memory of such tolls. It is a place of memory and interment, where the visitor embarks upon a Dantesque journey through Hades before turning back to “look at the stars.”14 But the place of memory is also a site of history, strewn with the machines of 408
storico-documentario. Si susseguono nella profondità del tunnel e introducono il visitatore ad una visione panoramica della guerra fredda, divisa tra due prospettive che dialogano letteralmente tra una parete e l’altra. La prima prospettiva riflette quella dell’Albania e rintraccia la storia del paese dal 1946, anno di nascita della Repubblica Popolare, fino al 1992, anno il cui il Partito Democratico assunse il potere. La seconda prospettiva si dirama a livello mondiale tra i superpoteri. Camminando lungo il tunnel, la schiacciante opera, creata con costi umani di notevole peso, muta carattere e diventa una specie di sacrario che conserva il ricordo di questi costi. Si tratta di un luogo di memoria e di sepoltura dove il visitatore s’imbarca in un viaggio dantesco attraverso gli inferi prima di torna a “rivedere le stelle.”14 Ma il luogo della memoria è anche sito della storia, irto di macchine di guerra in vari stadi di degrado che manifestano in
Alighiero Boetti, World map, 1979 (© Los Angeles County Museum)
war in various stages of decline, which physically testify to the inexorable passing of time and the mercilessly changing world. It will thus be a specific place that simultaneously recalls its character as a target and shelters ghosts that will depart. Since it is a museum with a global perspective, the passage through the tunnel will be like a spyglass on modern history, but also an inventory of the world inside Albania. Speed is our strong point: we have issued the challenge of realizing this immersive experience in a short time, with the active collaboration of Albanian citizens who built the tunnel, who worked there, who piloted its submarines, who issued orders and obeyed them, some of whom are still working in the military, some who are not, and together with them, new generations who were born after the fall of the regime and are returning to Albania, determined to learn about their past and to dream about their future. The tangible evidence of a map of the geography of the world seen by a twelve-yearold Albanian during her first year at school in the United States recalls the Italian artist Alighiero Boetti, who divided the world according to the national flags and altered the territory in the wake of geopolitical events, freighting their objective meaning with psychic latency.15 In tracing the notes, many are blank areas representing unknown countries. Potential enemy countries of Albania topple over the edge and join the world of ghosts. The sea and the empty spaces are blurred, the surface of the water expanding with the anxiety of an invasion that never took place. The world seen through the eyes of an Albanian girl changes its shape, and similarly, the tunnel will be transformed into a place of memory that will open Albania to its recent history. When the doors of the Palace of Dreams are opened wide and the “cure” in the depth of the tunnel is administered, the world will nevermore be as it was. Instead of fixing moments of the past, this museum will smash the strongbox of suppressed memories and illumine the darkness of history.
forma fisica l’implacabile passaggio del tempo e l’impietoso mutamento del mondo. Sarà dunque un luogo preciso che richiama il suo carattere di bersaglio e allo stesso tempo ospita fantasmi che non lo abbandoneranno mai. In quanto Museo di una trama mondiale, il passaggio nel tunnel si presenterà come cannocchiale della storia moderna, ma altrettanto come repertorio del mondo interno albanese. La velocità è la nostra arma, abbiamo lanciato la sfida di realizzare questa esperienza immersiva in tempi brevi con l’attiva collaborazione dei cittadini albanesi che hanno costruito il tunnel, che lì hanno lavorato, che hanno manovrato i suoi sottomarini, stipulato i suoi atti di comando, impartiti gli ordini e obbeditogli. Insieme a loro, chi ancora attivo nell’esercito e chi no, nuove generazioni nate dopo la dissipazione del regime ritornano in Albania e sono determinate a conoscere il proprio passato e a sognare il futuro. La tangibile testimonianza di una mappa della geografica del mondo visto da una dodicenne albanese al suo primo anno di scuola negli Stati Uniti ricorda l’artista italiano Alighiero Boetti che divideva il mondo a seconda delle bandiere nazionali e ne cambiava il territorio a seguito degli avvenimenti geopolitici, caricando di latenza psichica il loro oggettivo significato.15 Nel tracciare i ricordi tante sono le macchie bianche che rappresentano i paesi ignoti. Cadono nel nulla le nazionalità potenzialmente avversarie dell’Albania e macchiano il globo di fantasmi. Il mare e i vuoti si confondono, la superficie d’acqua si espande come l’ansia di un’invasione che non avvenne mai. Il mondo visto da una ragazza albanese ne muta la sagoma e così il tunnel, una volta trasformato in luogo della memoria, aprirà l’Albania alla sua storia recente. Quando le porte del Palazzo dei sogni saranno spalancate e la “cura” nel profondo del tunnel somministrata, il mondo non sarà più come prima. Questo museo, invece di immobilizzare momenti del passato, sfonderà la cassaforte delle memorie soppresse e illuminerà il buio della storia. 409
Notes
Note
1. See Buci Glucksman 1996. 2. Roscioni 1997, 74. 3. The expression is taken from the title of the 1997 film Being There, distributed in Italy as Oltre il giardino (Beyond the Garden), directed by Hal Ashby, with Peter Sellers playing the role of a gardener confined all his life to a private property, suddenly catapulted into the role of presidential advisor who knows the world only from the inside of the garden and through television. 4. Marin 1999. 5. Giuseppe Pagano Pogatschnig, Architetture e scritti, ed. Franco Albini, Giancarlo Palanti, and Anna Castelli (Milan: Editoriale Domus). On p. 8 of the appendix “Appunti per una organizzazione turistica della Dalmazia, 1942,” a sketch by Pagano is reproduced which apparently illustrates the cell where he was held prisoner in the Castello di Brescia from which he escaped in 1944. There are also photographs of Pagano wearing traditional Albanian clothing at the seaside. 6. See Fischer 2004. 7. Galeazzo Ciano, Diario 1937–1943, ed. Renzo De Felice (Milan: Rizzoli, 1980), passim. 8. Hermann Burger, Die künstliche Mutter (Frankfurtam-Main: S. Fischer Verlag, 1982). 9. Burger 1982. 10. Communist leader and commander-in-chief of Albania's military from 1944 until his death in 1985, and prime minister from 1944 to 1954. 11. First the North Atlantic Treaty Organization (NATO) and the Soviet Union (USSR), and later, China. Albania joined the Warsaw Treaty in 1955, withdrew six years later, following China, from which it detached itself in 1978, falling into an increasing state of isolation. 12. According to the Albanian navigation training manual Udhezues Lundrimi (1981), “Gjiu Panormes,” p. 1. 13. See Foppiano 2011. 14. Porto Palermo, Panorama della Guerra Fredda, Albania, June 2011; see http://www.terragni.eu. 15. For Boetti’s maps, see Alighiero Boetti: Game Plan, ed. Lynne Cook, Mark Godfrey, and Christian Rattemeyer (Madrid: Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, New York: Museum of Modern Art, and London: Tate Modern, 2011), pp. 218–229. The map of the world according to a twelve-yearold Albanian girl, Adra Bubesi, who emigrated to the United States and earned a degree in architecture from the Anne and Bernard Spitzer School of Architecture, City College of New York (CCNY), is reproduced.
1. Si veda Buci Glucksman 1996. 2. Roscioni 1997, 74. 3. L’espressione riprende il titolo del film Being There, distribuito in Italia come “Oltre il giardino,” diretto da Hal Ashby, 1997, con Peter Sellers nel ruolo di un giardiniere rinchiuso a vita in una proprietà privata e improvvisamente catapultato nel ruolo di consigliere presidenziale che conosce il mondo solo dall’interno del giardino e grazie alla televisione. 4. Marin 1999. 5. Si veda Pagano Pogatschnig 1947. In appendice “Appunti per una organizzazione turistica della Dalmazia, 1942.” Alla p. 8 si trova uno schizzo di Pagano che “illustra la cella dove fu rinchiuso al Castello di Brescia,” e dalla quale evase nel ’44. Come ricordo personale ci sono anche scatti di Pagano in costume albanese sulla costiera dell’Albania. 6. Vedi Fischer 2004. 7. Dall’esame dei Diari risulta chiaro il profondo interessamento di Ciano nell’Albania e nella sua completa integrazione nello stato fascista. 8. http://en.wikipedia.org/wiki/ National_Redoubt_(Switzerland) 9. Burger 1982. 10. Kadaré 1981. 11. La NATO, l’Unione Sovietica prima, e la Cina poi. L’Albania entrò nel Patto di Varsavia nel 1955, per poi uscirvi appena sei anni dopo, seguendo la Cina, da cui si distaccò nel 1978 per precipitare in un isolamento sempre più totale. 12. Frasi colte dalla guida di navigazione albanese Udhezues lundrimi, capitolo “Gjiu Panormes,” s. l., 1981 13. Si veda Foppiano 2011. 14. Porto Palermo, Panorama della Guerra Fredda, Albania, giugno 2011 (vedi sito web www.terragni.eu) 15. Per le mappe di Boetti vedi ultimamente Alighiero Boetti, Game Plan, London: Tate, 2011, 218-229; la mappa del mondo secondo la memoria di una ragazza albanese dodicenne, Adra Bubesi, emigrata negli Stati Uniti ed oggi laureata in architettura alla Anne e Bernard Spitzer School of Architecture, City College New York, è qui riprodotta.
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References • • • • • • • • • •
Buci Glucksman, Christine. 1996. L’Oeil cartographique de l’art. Paris: Galilée. Burger, Herrmann. 1982. Die künstliche Mutter. Frankfurt/M.: Fischer. Fischer, Bernd J. 2004. L’Anschluss italiano, La guerra in Albania (1939-1945). Nardò: Besa. Foppiano, Anna. 2011. “Liberare la voce dei luoghi/ Allowing sites to speak.” Abitare 517 (11): 94-103. Gadda, Carlo Emilio. 1991. Taccuino di Caporetto. Diario di guerra e di prigionia (ottobre 1917 – aprile 1918). Milano: Garzanti. De Felice, Renzo, ed. 1980. Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943. Milano: Rizzoli. Kadaré, Ismail. 1981. Nepunesi i pallatit te endrrave. Translated by Barbara Bray as The Palace of Dreams (London: Vintage, 1993). Marin, Louis. 1999. “Images dans le texte autobiographique: la Vie de Henry Brulard de Stendhal.” In L’écriture de soi, edited by Pierre-Antoine Fabre, 63-82. Paris: Presses universitaires de France. Pagano Pogatschnig, Giuseppe. 1947. Architetture e scritti a cura di Franco Albini, Giancarlo Palanti e Anna Castelli. Milano: Editoriale Domus. Roscioni, Gian Carlo. 1997. Il Duca di Sant’Aquila. Infanzia e Giovinezza di Gadda. Milano: Mondadori.
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Baukuh + YellowOffice
Carso is a double and invisible landscape Il Carso è un Paesaggio Duplice ed Invisibile
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It is a double landscape because exceptional geological conditions and exceptional historical memories live together in a single territory, to which different figures correspond: one figure of nature and one figure of history. It is an invisible landscape because the natural phenomena and the historical traces, which have been accumulated on this territory, are not immediately recognizable and do not translate into spectacular and easy to communicate images. Carso is a complex landscape, endowed with a specific inertia and a specific resistance. Its figures should be able to appear without being misconceived or simplified. The project should allow the figure of memory and the figure of nature to interweave without merging. Carso should maintain its identity and remain a slow, grave and inevitably difficult territory, without becoming inhospitable because of that reason. Carso is not only a nice and pleasant place where people can walk during springtime, it is also a place marked by one of the greatest catastrophes of the European history, a place which cannot avoid testifying the events which populated it. Carso is still a place crowded with trenches, monuments, and cemeteries. These awkward objects, which are proper stumbling blocks (Romani 9:33), should not be concealed or embellished; on the contrary, they should be inserted into a complex system, able to alternate places of leisure with places of memory. Indeed, these functions are not incompatible (as is testified by the unforeseeable success of the Holocaust memorial by Eisenman in Berlin as a playground) and they are able to live together, building up a complex experience of the territory. The year 2014 will be the 100th anniversary of the beginning of World War I. The passing of time has dimmed the emotions felt for the 600.000 people killed during that war, thus making it possible to imagine a figure for this territory which is less univocally based upon the war events. During this period,
È un paesaggio duplice in quanto eccezionali condizioni geologiche ed eccezionali memorie storiche convivono in un unico territorio, a cui corrispondono figure differenti: una figura della natura ed una figura della storia. È un paesaggio invisibile perché i fenomeni naturali e le tracce storiche accumulate su questo territorio non sono immediatamente riconoscibili, non si traducono in immagini spettacolari e facili da comunicare. Il Carso è un paesaggio complesso, dotato di una specifica inerzia e di una specifica resistenza. Le sue figure devono poter apparire senza essere fraintese o semplificate. Il progetto deve consentire alla figura della memoria e alla figura della natura di intrecciarsi senza confondersi. Il Carso deve mantenere la sua identità, rimanere un territorio lento, grave, inevitabilmente difficile, senza per questo diventare inospitale. Il Carso non è solamente un luogo bello e piacevole in cui passeggiare in primavera, è anche un luogo segnato da una delle più grandi catastrofi della storia europea, un luogo che non può evitare di testimoniare gli eventi che lo hanno popolato. Il Carso rimane un luogo affollato di trincee, monumenti, cimiteri. Questi oggetti scomodi, vere e proprie “pietre di inciampo” (Romani 9, 33) non devono essere occultati o abbelliti, ma inseriti in sistema complesso, capace di alternare luoghi di svago con luoghi di memoria. Queste funzioni infatti non sono incompatibili (come testimonia ad esempio l’insospettabile successo come playground del memoriale all’Olocausto di Eisenman a Berlino) e possono convivere costruendo un’esperienza complessa del territorio. Nel 2014 saranno trascorsi cento anni dall’inizio della Grande Guerra. Il passare del tempo tende a smorzare l’emozione per i 600.000 caduti, consentendo di immaginare per questa regione una figura meno univocamente basata sugli eventi bellici. In questo periodo si sono alternate differenti stagioni del ricordo, che hanno coinciso con le 413
Reconquest of the Carso_view (Image by baukuh, YellowOffice, D’Appolonia S.p.A., Stefano Pelluso, Steven Geeraert)
different seasons of remembrance have alternated, which coincide with the main phases of the Italian history. Different styles of the memory have alternated, producing different stories and different machines of memory (cemeteries, monuments, memorials). The Fascist twenty-years era followed the uncertain period immediately after the end of the war, producing an exploitable and univocal reading of the war experience; after the Second World War, the Republic produced another reading, which was its exact opposite; finally, starting from the ’80s, a critical revision of the Resistance and a new cultural mood produced a new story, which might possibly be more accurate but is certainly less participated. This new story, which right now appears only as an amended and weaker version of its much more staunch previous stories, needs to be clarified even through new interpretations and transformations of the places, through new architectures intended as vision and memory machines. Carso is a place to be explored and studied, it is a place for meditation and remembrance, a landscape which has to be crossed slowly, while paying attention to it. This intrinsic 414
principali fasi della storia d’Italia. Differenti stili di memoria si sono alternati, producendo differenti racconti e differenti macchine della memoria (cimiteri, monumenti, sacrari). All’incerto periodo immediatamente successivo alla Grande Guerra ha fatto seguito il ventennio fascista con una lettura strumentale ed univoca dell’esperienza bellica, quindi il dopoguerra repubblicano ne ha disegnato un’altra, del tutto opposta; a partire dagli anni Ottanta, infine, una revisione critica della Resistenza ed un nuovo clima culturale hanno prodotto un nuovo racconto, forse più accurato, ma certamente meno partecipato. Questo nuovo racconto, che al momento appare solo come una versione emendata e indebolita di assai più convinti racconti precedenti, ha bisogno di essere precisato anche attraverso nuove interpretazioni e trasformazioni dei luoghi, attraverso la costruzione di architetture, intese come macchine della visione e della memoria. Il Carso è luogo da esplorare e da studiare, è un luogo per meditare e ricordare, un paesaggio da attraversare lentamente e con attenzione. Questa, intrinseca, lentezza del paesaggio carsico non deve essere sostituita
slowness of the landscape should not be replaced in order to produce an instantly consumable place; on the contrary, the slowness should be used to build complex and multi-faceted paths. The multiplicity of stories, natural phenomena and people, which are currently acting in Carso, should appear in the landscape. The project should find the appropriate tools to transform natural phenomena and stories into figures, in order to transform the territory into a landscape. With respect to this, the project is mainly a system project, a way of establishing connections, linking points and making places accessible and recognizable. The project should enable the Carso inhabitants to modify its figure, adapting it to its contemporary reality and it should allow its visitors to freely and responsibly move into it. Indeed, because of its complexity, the Carso cannot envisage a simple and univocal touristic fruition; instead it should plan a project for a culturally conscious tourism, involving its visitors in a wide and multi faceted story. The Carso is populated by natural elements and historical traces: dolines, caves, trenches, cemeteries, monuments. There is a multitude
per produrre un luogo immediatamente consumabile, ma usata per costruire percorsi molteplici e complessi. La molteplicità delle storie, dei fenomeni naturali e degli attori che attualmente operano sul Carso deve apparire nel paesaggio. Il progetto deve trovare gli strumenti per trasformare i processi naturali e le storie in figure; trasformare il territorio in paesaggio. In questo senso il progetto è anzitutto un progetto di sistema, un modo per stabilire connessioni, collegare punti, rendere accessibili e riconoscibili i luoghi. Il progetto deve rendere possibile agli abitanti del Carso di modificarne la figura adattandola alla sua realtà contemporanea e deve rendere possibile ai visitatori di muoversi agevolmente e responsabilmente al suo interno. Il Carso, infatti, vista la sua complessità, non può immaginare una fruizione turistica semplice ed univoca, ma deve immaginare un progetto di turismo culturale consapevole, coinvolgendo i visitatori in una narrazione ampia e molteplice. Il territorio del Carso è popolato di elementi naturali e di tracce storiche: doline, grotte, trincee, cimiteri, monumenti. Si tratta di una moltitudine di elementi puntiformi (anche le trincee non compongono lunghe linee riconoscibili alla grande scala, definendo piuttosto una intricata geografia di punti), che compongono un campo piuttosto omogeneo, in cui la molteplicità dei segni non corrisponde ad una gerarchia netta. Su questo territorio agiscono popolazioni molto differenti: i residenti, le associazioni locali, le associazioni di reduci, gli appassionati di trekking, di mountain bike, di parapendio, di guerra simulata. Le associazioni di volontari si prendono cura del territorio attraverso varie iniziative: accompagnando gratuitamente i turisti alla scoperta dei luoghi, mappando e mettendo in sicurezza le grotte, 415
of point-like elements (even the trenches do not compose long large scale recognizable lines, but they rather define an intricate geography of points) composing a rather homogeneous field, in which the multiplicity of marks does not correspond to any clear hierarchy. Very different populations act in this territory: inhabitants, local associations, associations of veterans, trekking enthusiasts, mountain bikers, paragliders, simulated warriors. The associations of volunteers take care of the territory through several initiatives: they accompany tourists across the places without any charge, mapping and securing the caves, conducting a census of the inscriptions left by the soldiers, etc. The Carso is the subject of an endless historiographic activity (at all levels, from the local to the international one, from the amateur to the most rigorously scientific one). The Carso is the subject of the scene of a huge amount of publications: bulletins, brochures, newspapers, memoirs, novels, essays. All this is continuously reshaping the Carso as a territory of memory. This set of publications (from the most authoritative to the most over ambitious ones) contributes to keeping alive a continuously evolving memory. The Carso’s ability to produce literature is somehow parallel with its inability to produce landscape. The swarming literary activity connected to the Carso could work as a model in order to imagine a similar production of landscape. Our project imagines a simple and intuitive way to allow this multitude of persons to contribute to a collective transformation of the territory. The different associations preserve their own identities and at the same time they produce a common figure. Our project imagines a way to allow all of these subjects to produce landscape with their activities. New paths create a system together with the existing ones and guarantee access to and easy communication among different places; a system of big flags signals these points and makes them visible at the scale of 416
censendo le iscrizioni lasciate dai soldati, ecc. Il Carso è il soggetto di una sterminata attività storiografica (a tutti i livelli, da quello locale a quello internazionale, da quello amatoriale a quello più rigorosamente scientifico). Il Carso è il soggetto o lo scenario per una immensa quantità di pubblicazioni: bollettini, opuscoli, giornali, memorie, romanzi, saggi. Tutto questo continuamente ridisegna il Carso come un territorio della memoria. Questo insieme di pubblicazioni (dalle più autorevoli alle più velleitarie) contribuisce a mantenere viva una memoria in continua evoluzione. La capacità di produrre letteratura del Carso è in qualche modo parallela alla sua incapacità di produrre paesaggio. La brulicante attività letteraria che coinvolge il Carso può funzionare come modello per immaginare una simile produzione di paesaggio. Il nostro progetto immagina un modo semplice ed intuitivo per consentire a questa molteplicità di soggetti di contribuire ad un’opera collettiva di trasformazione del territorio. Le differenti associazioni conservano la propria identità e allo stesso tempo producono una figura comune. Il nostro progetto immagina un modo per consentire a tutti questi soggetti di produrre paesaggio con la propria attività. Nuovi percorsi mettono a sistema i tracciati esistenti e garantiscono l’accesso e la facile comunicazione tra i differenti luoghi, un sistema di grandi bandiere segnala questi punti e li rende visibili a scala territoriale. Il paesaggio si popola di emblemi leggeri ed eleganti, che sottolineano alcuni luoghi e compongono un campo unitario e mutevole. Proponiamo di realizzare un’infrastruttura che consenta ai differenti usi del territorio di essere messi a sistema: un nuovo circuito ad anello connette i sentieri esistenti, definendo una rete di possibili percorsi. L’anello principale è percorribile a piedi, in bici o in automobile. Lungo l’anello si dispongono aree di sosta e collegamenti con la rete di percorsi esistente. Questo sistema si collega a tutti i principali elementi storici e naturali che
Reconquest of the Carso_plan (Drawing by baukuh, YellowOffice, D’Appolonia S.p.A., Stefano Pelluso, Steven Geeraert)
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The viewpoint of Castellazzo Doberdò. Drawings by baukuh, YellowOffice, D’Appolonia S.p.A., Stefano Pelluso, Steven Geeraert
the territory. The landscape fills up with light and elegant emblems, which mark some places and compose a unitary and mutable field. We propose to realize an infrastructure which allows the different uses of the territory to compose a system: a new circular path connects the existing tracks, defining a net of possible paths. The main ring can be covered by foot, bike or car. Rest areas and links to the net of the existing paths are placed along the ring. This system is connected to all the main historical and natural elements which make the Carso territory rich. Various secondary paths come off the new ring (CAI tracks, tracks of the Open-air Museum of the War and didactical paths which lead to the sinkholes, to the caves, to the trenches, to the stones, to the inscriptions). The Redipuglia memorial, the new open-air museum in San Michele and the new outlook tower in Doberdò line up along the new ring. The new system of paths is easily accessible and smoothly practicable even for the oldest visitors or the ones with limited walking ability. The path is precisely signalled according to all the different possible directions and transportation means. The new system of paths allows visitors to experience the territory and at the same time it allows the associations to populate it with signs, making a 418
arricchiscono il territorio del Carso. A partire dal nuovo anello si staccano vari percorsi secondari (sentieri CAI, sentieri del “Museo all’aperto della grande guerra,” percorsi didattici diretti alle doline, alle grotte, alle trincee, ai cippi, alle iscrizioni). Lungo il nuovo anello si attestano il sacrario di Redipuglia, il nuovo museo all’aperto di San Michele e la nuova torre panoramica di Doberdò. Il nuovo sistema di percorsi è facilmente accessibile ed agevole da percorrere anche per i visitatori più anziani o con ridotte capacità motorie. Il percorso è segnalato con precisione secondo i differenti possibili percorsi, carrabili, ciclabili e pedonali. Il nuovo sistema di percorsi consente di fare esperienza e di scoprire il territorio e allo stesso tempo consente alle associazioni di popolarlo di segni facendo apparire una nuova figura. Il paesaggio viene punteggiato di bandiere. Ogni associazione corrisponde ad una bandiera. Le grandi bandiere, alte 10 m, emergono al di sopra della vegetazione e compongono un campo molteplice e allo stesso tempo unitario. Le bandiere impiegano colori ed icone differenti per le varie associazioni e sono organizzate per campi tematici (ambito naturale, ambito storico, ambito sportivo, ecc…). Le bandiere, come elemento militare e allo stesso tempo leggero, giocoso, contribuiscono a costruire
new figure appear. The landscape is punctuated with flags. Every association corresponds to a flag. The big flags (ten meters high) come out of the vegetation and, at the same time, compose a multiple and unitary field. The flags sport different colours corresponding to the associations and they are organized by thematic fields (area of nature, area of history, area of sport, etc.) The flags, which are at the same time military but also light, playful elements, contribute to building a landscape which is conscious of the memories deposited on top of it and simultaneously an open, mutable and festive one. The flags can be connected with places, associations or events. The flags compose a landscape which is able to mutate in the course of time. Their number can increase, thus testifying the presence of new associations, registering new activities, stressing the presence of further places. The flags compose a complex landscape, which is animated by several energies and is able to grow in the course of time, outlining new combinations of colours and figures. The flags compose a light landscape, which joins the territorial elements without distorting their identity or forcing a univocal interpretation; at the same time the flags define a system which is immediately visible and recognizable as a unity. The flags are supported by ten-meters high poles. The poles are made by black painted metal circular pipes. The poles are made by an industrial process, which enables to reduce the production costs. The flags are made of a synthetic fabric and their size is 2 by 3 meters. A dedicated graphic project defines their colours and the symbols which can appear on their surface. The costs of production of the poles are covered by the local authorities, which provide the associations with the poles for free, besides installing the flags under their jurisdiction. The production and the installation of the flags depend on the associations, which can request the permission to install their flag. In this way the costs can be at least partially charged to the associations.
un paesaggio consapevole delle memorie depositate su di esso, e al tempo stesso aperto, mutevole, festoso. Le bandiere possono essere associate a luoghi, associazioni o eventi. Le bandiere compongono un paesaggio che potrà mutare nel tempo. Il loro numero può crescere, testimoniando la presenza di nuove associazioni, registrando nuove attività, sottolineando la presenza di ulteriori luoghi. Le bandiere compongono un paesaggio complesso, animato da molteplici energie, capace di crescere nel tempo delineando nuove combinazioni di colori e di figure. Le bandiere compongono un paesaggio leggero, che si aggiunge agli elementi disposti sul territorio senza stravolgerne l’identità o forzarne una interpretazione univoca, e allo stesso tempo definiscono un sistema immediatamente visibile e riconoscibile come unità. Le bandiere sono sostenute da aste alte 10 metri. Le aste sono composte da un tubo a sezione circolare di metallo verniciato di nero. Le aste sono realizzate industrialmente attraverso un processo standardizzato che consente di limitare i costi di produzione. Le bandiere sono realizzate in tessuto sintetico ed hanno una dimensione di 2x3 metri. Un apposito progetto grafico definisce i colori e i simboli che possono comparire sulle bandiere. I costi di produzione delle aste sono a carico degli enti locali, che, oltre a impiantare le bandiere di propria competenza, forniscono gratuitamente le aste alle associazioni. La produzione delle bandiere e l’impianto è a cura delle associazioni, che possono fare richiesta di istallare la propria bandiera. In questo modo i costi possono essere, almeno parzialmente, a carico delle associazioni. Il nuovo museo all’aperto del Monte San Michele L’area del museo all’aperto del Monte San Michele è attualmente poco attraente. L’insieme risulta estremamente episodico, e questo carattere finisce per svilire anche gli oggetti esposti. Il nostro progetto propone di 419
The new open-air museum of Monte San Michele The area of the open-air museum of Monte San Michele is not so attractive at the moment. The complex looks extremely fragmentary and, consequently, the exhibited objects turn out to be debased too. Our project proposes to give back unity to the building complex and to redefine its links with the landscape in which it is placed; the project tries to give a certain monumental dignity to the objects of the collection, even if it acknowledges that the exhibited objects are valuable as documents only. The museum area occupies a strategic position inside the Carso. In fact, it is not a case that the position was chosen as the location for crucial military installations. This role in the plateau constitutes the assumption of our intervention. As a matter of fact, we propose to re-establish clear relations between the embrasures, the new museum, the open-air spaces and the plateau. The new system is composed of four parts: the entrance and the administration (placed in the spaces of the existing museum), the embrasures, the panoramic square between the Antiquarium and the library, the park of the War. The porch and the panoramic square are placed at the extremes of the main axis of the embrasures, almost translating the underground geography of the military installations in a visible geometry. In this way, the sprawled pieces which make up the museum are reunited in order to compose a unitary figure. The sequence establishes a precise relation with the Carso landscape: the panoramic square is opening towards South-East, the plateau and the Trieste gulf. The new Museum works in a linear way. The entrance square, the porch, the ticket office, the embrasures, the square with the Antiquarium are lined up along a clear and spectacular sequence. The porch introduces to the visit to the embrasures, the panoramic square appears at the end of the underground 420
restituire unità al sistema di edifici, di ridefinirne i legami con il paesaggio in cui si inserisce, e di attribuire dignità monumentale agli oggetti della collezione, pur riconoscendo il valore unicamente documentario degli oggetti esposti. L’area del museo occupa una posizione strategica all’interno del Carso. Non a caso fu scelta per localizzarvi cruciali istallazioni militari. Questo ruolo dell’area all’interno dell’altopiano costituisce il presupposto del nostro intervento. Proponiamo infatti di ricostruire dei rapporti chiari a scala territoriale tra le cannoniere, il nuovo museo, gli spazi aperti e la distesa dell’altopiano. Il nuovo sistema si compone di quattro parti: l’ingresso e gli edifici amministrativi collocati negli spazi dell’attuale museo, le cannoniere, la piazza panoramica compresa tra l’antiquarium e la biblioteca, e il parco della Grande Guerra. Il portico e la piazza panoramica si dispongono ai due estremi dell’asse principale delle cannoniere, quasi a tradurre in una geometria visibile la geografia sotterranea delle istallazioni militari. In questo modo, i pezzi sparsi che attualmente compongono il museo vengono riuniti a comporre una figura unitaria. La sequenza stabilisce un preciso legame con il paesaggio del Carso: la piazza panoramica si apre verso sud-est, sull’altopiano e sul golfo di Trieste. Il nuovo museo funziona in modo lineare. La piazza di ingresso, il portico, la biglietteria, le cannoniere, la piazza con l’antiquarium si dispongono lungo una sequenza chiara e spettacolare. Il portico introduce alla visita delle cannoniere, la piazza panoramica appare alla conclusione del percorso sotterraneo: una improvvisa, luminosa apertura sul paesaggio si mostra al termine del percorso buio che si sviluppa all’interno delle cannoniere. Le cannoniere funzionano come straordinaria anticamera della piazza aperta sul paesaggio. La piazza è definita da due semplici edifici disposti ai suoi margini: una biblioteca di due piani ed un antiquarium a quattro livelli che raccoglie armi ed altri cimeli bellici.
path: a sudden and light opening towards the landscape emerges at the end of the dark path inside the embrasures. The embrasures work as an extraordinary anteroom of a square overlooking the landscape. The square is defined by two simple buildings along its sides: a two-levels high library and a fourlevels high Antiquarium where weapons and other war relics are stored. Both buildings entirely occupy the North-East and SouthWest sides of the square. The library is a thin two-levels high building: the Antiquarium is a high open-air shelf, completely filled with cannons, ambulances, trucks, cars and ammunitions. The new museum of Monte San Michele works as a storage of memories. It is conceived as an open-air museum, composed by big pieces of furniture disposed in strict relation with the landscape in which they are inserted. The Antiquarium contains all the relics which are now sprawled in the museum area. The Antiquarium works as a big cupboard containing the bulky industrial products which have been left there by the war: a big amount of sturdy and heavy objects, which are valuable more as evidences than as artistic or documentary pieces. The exhibited pieces, although modest, are lined up accurately in order to compose an orderly and imposing whole. The simple repetition of the pieces attributes monumental value to the collection. The few pieces of the collection which need some protection are placed at the ground floor of the library building, inside bespoken cases which embrace the entrance space. When coming from the embrasures or the open-air museum, the big shelf of the cannons defines one of the sides of the square with precision; however, if observed from the front, the Antiquarium appears to be extremely transparent and totally open toward the woods beyond it. A vast multifunctional room is located below the square: it is an extremely simple space, overlookinglandscape through a big central window. The room is extremely
Entrambi gli edifici occupano interamente i lati nord-est e sud-ovest della piazza. La biblioteca è un sottile edificio di due piani; l’antiquarium è un alto scaffale a cielo aperto, interamente occupato da cannoni, autoambulanze, camion, automobili, munizioni. Il nuovo Museo del Monte San Michele funziona come un deposito di memorie. Il museo è pensato come museo a cielo aperto, fatto di grandi elementi di arredo disposti in stretta relazione col paesaggio in cui si inseriscono. L’antiquarium contiene tutti i reperti attualmente sparsi nell’area del museo e funziona come un grande armadio contenente gli ingombranti prodotti industriali abbandonati dalla guerra, una gran quantità di oggetti robusti e pesanti, che valgono più per il loro carattere di testimonianza che per il loro valore artistico o documentario. I pezzi esibiti, per quanto modesti, vengono allineati accuratamente a comporre un insieme composto ed imponente. La semplice ripetizione dei pezzi attribuisce valore monumentale alla collezione. I pochi pezzi della collezione che necessitano protezione sono collocati al primo piano dell’edificio della biblioteca, in apposite teche che avvolgono lo spazio di ingresso. Arrivando dalle cannoniere o dal museo all’aperto, il grande scaffale dei cannoni definisce con precisione una quinta della piazza; tuttavia, se osservato frontalmente, l’antiquarium è estremamente trasparente, completamente aperto sul bosco dietro di sé. Al di sotto della piazza trova spazio una ampia sala multifunzionale, uno spazio estremamente semplice, aperto sul paesaggio con una grande finestra centrale. La sala è estremamente flessibile, e potrà ospitare piccoli eventi, rappresentazioni, feste, letture, convegni. Nella stagione estiva ulteriori manifestazioni potranno essere organizzate nella piazza affacciata sul paesaggio. L’attuale parcheggio viene trasformato in una piazza che, liberata dal traffico di attraversamento dell’attuale strada, diventa luogo privilegiato per la vista sulla valle dell’Isonzo verso Nord, mentre il nuovo tratto di strada 421
flexible and will be able to host small events, performances, parties, lectures and meetings. During the good season, additional events will be organized using the square overlooking the landscape. The existing parking space will be transformed into a square which will be freed from traffic and will become the privileged place where to look at the Isonzo valley towards North; the new road will be realized at the foot of the earthwork which contains the square, exploiting the existing section of the terrain. At the beginning and at the end of the new piece of the road there will be two parking spaces plus one dedicated to buses, which will be linked with the higher square through two ramps. The biggest ramp will work as an access point for emergency vehicles. The porch is composed by a reinforced concrete roof supported by a set of regularly spaced pillars: the span is 2.4 meters for an overall length of about 58 meters and a depth of 5 meters. The porch frames the two modest existing buildings: the guardian house and the current museum. Being seven meters high, the porch is slightly towering above the two buildings, inserting them into a precise architectural frame and establishing a relation among them. The porch gives unity and monumentality to these two buildings without radical alterations. Besides, the porch allows to connect all the different levels of the access system of the new open-air museum, composed by the entrance square, the entrance to the embrasures, the ticket office and the cafeteria, plus the level where the paths start from. Its structure is supported by a concrete slabs surface as wide as the roof. This surface starts at the level of the existing square (+261,6 meters) and reaches the level of the platform where the cafeteria is located (+262,6 meters). The alterations to the existing buildings are limited to a renovation of the outer walls and a partial modification of the inner organization. Concerning the outer walls, we propose 422
viene realizzato alla base del terrapieno che contiene la piazza, sfruttando l’andamento esistente del terreno. All’inizio e alla fine del nuovo tratto di strada si trovano due parcheggi di attestazione ed un punto di arrivo per i bus, collegati con la piazza sopraelevata attraverso due piani inclinati. La rampa che collega in parcheggio più grande con la piazza serve anche come punto di accesso per i mezzi di soccorso. Il portico è composto da una copertura in cemento armato sorretta da una serie di pilastri con passo regolare di 2,4 metri per una lunghezza complessiva di circa 58 metri e una profondità di circa 5 metri. Il portico inquadra i due modesti edifici esistenti, la casa del custode e l’attuale museo: la sua altezza di 7 m supera infatti di poco i due edifici, inserendoli all’interno di una cornice architettonica definita e mettendoli in relazione tra di loro. Il portico attribuisce unità e monumentalità a questi due edifici modificandone l’aspetto senza procedere a radicali trasformazioni. Il portico, oltre ad essere il dispositivo di inquadramento dei due edifici, consente di raccordare le quote dei differenti livelli del sistema di accesso al nuovo museo all’aperto, composto dalla piazza di ingresso, l’accesso alle cannoniere, le quote di ingresso della biglietteria e della caffetteria e il piano da cui partono i percorsi. La sua struttura appoggia su di una superficie della stessa larghezza della copertura realizzata in lastre di cemento prefabbricato che, partendo dalla quota di + 261,6 m s.l.m. della piazza esistente si piega dolcemente fino a raggiungere la quota di +262,6 m s.l.m. della piattaforma su cui si appoggia la caffetteria. Gli interventi sui due edifici esistenti sono limitati da una parte ad una ristrutturazione delle pareti perimetrali e, dall’altra, ad una parziale modifica dell’organizzazione interna. Per quanto riguarda le pareti perimetrali, prevediamo di eliminare i rivestimenti lapidei, di togliere le inferriate esistenti ed allargare puntualmente le finestrature per adattarle alle nuove funzioni ed infine di intonacare le
to get rid of the stone cladding, to remove the grilles from the openings, to enlarge some of the windows in order to adapt them to the new functions and to plaster the walls. Concerning the inner partitions, we propose to carry out minimal modifications in order to transform the current guardian house into a ticket office and info point, as a proper reception centre for the new open-air museum of San Michele. Once the new structure will be ready, the current museum will be turned into a cafeteria with an outside deck, where it will be possible to rest and to look at the landscape. The renovation project of the museum envisions an intermediate transformation phase which allows to preserve the collection in the existing building up to the moment when the new one is ready. The realization of a simple and adaptable exhibition space will be calibrated through the modifications of the outer walls and the new windows and it will be easily convertible in the future cafeteria through a series of small interventions. The tunnels will be secured but they will keep being empty because of the enormous problems which would be encountered by setting up a proper museum in these spaces; thus, the tunnels will just show themselves in all their spectacularity. An elevated metallic platform, composed by modular 1.4 x 2 meters elements, will cross the main axis of the embrasures, connecting the porch to the panoramic square. The platform will be larger in the points where the tunnel connects with the rooms for the cannons, creating observation places. Additional platforms will run through the two cross tunnels. The platform, provided with power sockets for lights and multimedia equipment and with connections for vertical panels, will be configured as a free infrastructural platform which will make it possible to occasionally transform the tunnels into amazing spaces for events of temporary exhibitions. The three buildings, which define the panoramic square, are entirely comprised in
pareti. Per quanto riguarda invece la partizione interna dei due edifici intendiamo operare minime modifiche dell’organizzazione interna per trasformare l’attuale casa del custode in biglietteria ed info point, vero primo punto di accoglienza del nuovo museo all’aperto del San Michele. L’attuale museo, una volta realizzato la nuova struttura, sarà trasformato in una caffetteria con terrazza dove potersi fermare ed ammirare il paesaggio. Il progetto di ristrutturazione del museo prevede una fase di trasformazione intermedia che permetta di mantenere la collezione museale nell’edificio fino alla costruzione delle nuove strutture. La realizzazione di uno spazio espositivo semplice ed adattabile sarà calibrato con le modifiche delle pareti perimetrali e le nuove finestrature e facilmente riconvertibile nella futura caffetteria attraverso pochi interventi. Le gallerie vengono messe in sicurezza, ma restano vuote a causa degli enormi problemi che presenterebbe l’allestimento di un vero museo in tali ambienti, mostrando così solo se stesse in tutta la loro spettacolarità. Una pedana rialzata in acciaio, realizzata con elementi modulari di dimensioni 1.4 x 2 metri, corre lungo l’asse principale delle cannoniere che connette il portico con la piazza panoramica. Nei punti in cui la galleria incontra le “stanze” per i cannoni la pedana si allarga con delle piattaforme di osservazione e dove invece incontra le due gallerie trasversali si snoda lungo queste fino ai punti più sicuri ed accessibili. La pedana, attrezzata con prese elettriche per luci e strumenti multimediali e con punti di ancoraggio per pannelli verticali, si configura come una piattaforma infrastrutturale “libera” che permette di trasformare occasionalmente le gallerie delle cannoniere in scenografici luoghi per ospitare alcune particolari esposizioni temporanee ed eventi. I tre edifici che definiscono la piazza panoramica sono interamente compresi in un cubo di 24 m di lato. Gli edifici sono realizzati in cemento armato, le ringhiere e le reti sono di metallo verniciato. La porta della 423
a cube with a 24 meters side. The buildings are made of reinforced concrete, while handrails and nets are made of painted metal. The door of the library is of yellow painted metal and the big glass surface on the first floor is partially reflective. The complex of buildings meets rigorous sustainability standards, though without sporting an ostensively sustainable aesthetic: the shelf is open-air, the objects are covered but the exhibition space does not need any air-conditioning. The multifunctional room is partially underground, thus limiting heat losses. Only the 150 square meters library has to be airconditioned as a conventional building. Therefore, the peculiar organization of the museum will allow considerable savings in the management of the building. The use of geothermic energy will be taken into consideration. From the panoramic square, it is possible to go back to the museum entrance through the main open-air path, which is almost flat (+265 meters) and runs along the side of the embrasures; the path is made of prefab concrete slabs and crosses the thick forest which covers the mountain. A second system of open-air paths starts from the porch and unravels in the park of the Great War which surrounds the area of San Michele. A circuit, which is mainly composed of existing tracks, systematizes all the elements of the territory and configures itself as a path of history and memory while running in the Carso landscape. Stones, monuments, trenches and panoramic spots are signalled along the circuit by a series of prefab concrete slabs platforms, which suddenly appear in the clearings of the thick forests. In these platforms, some concrete benches (50 x 50 centimetres in section) and some yellow painted metallic information totems allow the visitors who are walking the circuit to rest and learn, to observe and meditate. The two biggest platforms are placed East and West of the embrasures mountain, in 424
biblioteca è in metallo verniciato di giallo, la grande vetrata della biblioteca al primo piano è parzialmente riflettente. Il sistema di edifici corrisponde a rigorosi criteri di sostenibilità (pur senza sfoggiare un aspetto ostentatamente sostenibile): lo scaffale è aperto, gli oggetti esposti sono coperti, ma lo spazio espositivo non ha bisogno di essere climatizzato. La sala multifunzionale è parzialmente interrata, con conseguente limitazione delle dispersioni termiche. Soltanto la biblioteca (circa 150mq) deve essere climatizzata come un normale edificio. La particolare organizzazione del museo consentirà quindi notevoli risparmi nella gestione dell’edificio. È prevista la realizzazione di una sonda geotermica per sfruttare il differenziale termico dell’acqua di falda. Dalla piazza panoramica è possibile ritornare all’ingresso del museo attraverso il percorso all’aperto principale, pressoché in piano alla quota di + 265 m s.l.m, che corre lungo il fianco del monte delle cannoniere; il percorso attraversa il fitto bosco che copre il monte ed è realizzato in lastre di cemento prefabbricato. Un secondo sistema di percorsi all’aperto che parte dal portico si snoda lungo il parco della Grande Guerra che circonda e permea l’area del San Michele. Un circuito, costituito per la maggior parte da sentieri esistenti, mette a sistema tutti gli elementi presenti nel territorio e si configura come un percorso della storia e della memoria che si staglia tra il paesaggio del Carso. Cippi, monumenti, trincee e punti panoramici sono segnalati lungo il circuito da una serie di piattaforme, realizzate in lastre di cemento prefabbricato, che improvvisamente appaiono nelle radure del fitto bosco. Delle panche in cemento armato a sezione quadrata 50x50cm e dei totem informativi in metallo verniciato di giallo posizionati nelle piattaforme permettono al visitatore che percorre il circuito alla ricerca dei segni della storia di sostare ed imparare, osservare e riflettere.
straight relation with the openings of the tunnels, almost to underline the underground geometry by setting up a visible geography, where even the porch and the panoramic square play a role. Their strategic position, where the Carso rock is surfacing and staging terrific backgrounds, as well as their size, allow them to be used also as spaces for events and artistic performances. The western platform is also the arrival point of the path which links the open-air museum of San Michele with the main circuit. The project of the new museum of Monte San Michele could be realized in phases. The planned interventions are indeed easily separable. The realization of the new parking and the transformation of the existing one into an elevated square, the realization of the entrance porch and the renovation of the current museum and of the guardian house, the renovation of the embrasures, the realization of the square, of the Antiquarium, of the library and of the multifunctional room and finally the realization of the park could be undertaken in this order and adapt to the economical resources which will be available over time. Given that the new museum will be realized as an element which is detached from the existing one, the project allows not to stop the exhibition activity. Indeed, the collection will be exposed in the current spaces till the new structures will be completed. The renovation of the existing museum and the change of its function will take place only when the new museum spaces is ready. The realization of the elevated entrance square and the porch, as first moves, will make it possible to modify the current image of the museum without undertaking temporary interventions which wouldn’t fit with the final configuration of the system. On the contrary, these first interventions will make a coordinated and unitary transformation strategy visible.
Le due piattaforme più grandi, ad est e ad ovest del monte delle cannoniere, sono posizionate in chiara relazione alle aperture delle gallerie quasi a rimarcare, come il portico e la piazza panoramica, la geometria sotterranea attraverso la costruzione di una geografia visibile. La loro posizione strategica, dove l’affiorare prepotente della roccia carsica costruisce quinte scenografiche suggestive, e la loro dimensione permette a queste due piattaforme di diventare anche luoghi per eventi e performances artistiche. La piattaforma più ad ovest è inoltre il punto di arrivo del percorso che collega l’area del museo all’aperto del Monte San Michele con l’anello principale. Il progetto del nuovo Museo del Monte San Michele può essere realizzato per fasi. Gli interventi previsti sono infatti facilmente separabili. La realizzazione del nuovo parcheggio e la sistemazione dell’attuale parcheggio in piazza sopraelevata, la realizzazione del nuovo portico d’ingresso e la ristrutturazione dell’attuale museo e della casa del custode, il restauro delle cannoniere, la realizzazione della piazza, dell’antiquarium, della biblioteca e della sala multifunzionale e infine la realizzazione del parco possono susseguirsi in questo ordine e possono adattarsi alle risorse economiche che si renderanno disponibili nel tempo. Ipotizzando la realizzazione del nuovo museo come elemento staccato dall’attuale, il progetto consente inoltre di non avere periodi di inattività. La collezione sarà infatti visitabile all’interno dei locali attuali fino alla realizzazione delle nuove strutture. Il restauro e il mutamento di destinazione d’uso di questi spazi avverranno solamente quando i nuovi spazi museali saranno disponibili. La sistemazione della piazza sopraelevata di ingresso e la realizzazione del portico, come primo intervento, consentirà di modificare l’immagine attuale del museo senza realizzare interventi temporanei, incompatibili con la configurazione finale del sistema, dando invece visibilmente inizio ad una strategia di trasformazione coordinata ed unitaria. 425
The panoramic viewpoint of Castellazzo and Lake Doberdò
L’area del belvedere di Castellazzo e Doberdò Lago
In the Carso region, the area of Doberdò stands out because of the phenomenon of the aquifers in outcrop from which the “lake” originates. This phenomenon determines the succession of spectacular natural stages, which change according to the different seasons. The surface of the “lake” is occupied by a series of “paintings” over time. We propose to create a naturalistic circuit which links Lake Doberdò with the Sabrici swamps, the Pietrarossa lake, the village of Doberdò, the Cooperativa Rogos museum and the panoramic observatory. The new naturalistic circuit is linked to the main circuit close to the village, involving it in this process of re-appropriation of the territory. New paths link Castellazzo Gradina with Lake Doberdò and the new panoramic observatory, defining a proper system of places, which are no more independent and scattered but inserted in a global strategy of territorial use. The new furniture of the park—which mainly consists of circular seats on top of which the existing territorial paths are drawn—is placed in the level lands created by the slow erosion of the Karstic stone. Special care has been reserved to the paths over the water in Doberdò. The new pontoons lay over the place making it possible to get in touch with the mutable hydro-geological phenomena which the lake is able to offer. The pontoons become gauges of the natural phenomenon of the aquifers in outcrop during the different seasons, thus acquiring a didactical value which explains the entire Karstic system. The new panoramic tower overlooks the plateau and Lake Doberdò. The tower emerges from the landscape of the Karstic plateau defining a place from which it is possible to observe the peculiar phenomena which make the “lake” Appear and disappear. Therefore, the tower overlooks a mutant landscape and a lake which is sometimes invisible. The
L’area di Doberdò si contraddistingue dall’intero territorio per il fenomeno di affioramento delle acque che da origine al “lago.” Questo fenomeno determina la successione di spettacolari “allestimenti” naturali che mutano nelle diverse stagioni. Una serie di “quadri” viene ad occupare nel tempo la superficie del “lago.” Proponiamo di creare un circuito naturalistico che colleghi il Lago di Doberdò - le paludi di Sabrici—il lago di Pietrarossa con il nucleo abitato di Doberdò Lago—il centro Museo Cooperativa Rogos—l’Osservatorio Panoramico. Il nuovo circuito naturalistico viene unito all’anello principale nei pressi del Nucleo abitato, coinvolgendolo a questo processo di ri-occupazione del territorio. Nuovi percorsi collegano Castellazzo Gradina con il Lago di Doberdò e il Nuovo Osservatorio Panoramico, definendo un vero e proprio sistema di luoghi, non più indipendenti e dispersi, ma inseriti in una strategia globale di uso del suolo. I nuovi arredi, principalmente sedute circolari su cui vengono disegnati i tracciati esistenti sul territorio, vengono collocati nei pianori che si sono costituiti con il lento fenomeno di erosione della pietra carsica. Particolare cura è stata posta per i percorsi sull’acqua di Doberdò. I nuovi pontili si adagiano sul luogo e permettono di entrare a stretto contatto con i mutevoli fenomeni idrogeologici che il lago è in grado di offrire. I pontili diventano dei misuratori del fenomeno naturale di affioramento delle acque nelle diverse stagioni assumendo quindi un valore didattico ed esplicativo dell’intero sistema carsico. La nuova torre panoramica si affaccia sull’altopiano e sul lago di Doberdò. La torre emerge nel paesaggio dell’altopiano carsico definendo un luogo da cui osservare i singolari fenomeni che determinano la comparsa e la scomparsa del “lago.” La torre si affaccia quindi su un paesaggio mutante, su un lago talvolta invisibile. L’enigma del lago (talvolta assente) diventa il
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mystery of the lake which is not always there becomes the reason for building the tower. A place where people wait, a suspended place, somehow elusive. The new tower faces this surprising place, creating both a vision tool, and an object which is marking a place, a sign at the level of the territory. The new tower is composed of two parts which are linked at the base: a vertical tower, with an hydraulic lift (with a speed of 0.15m/s), and an oblique tower with a staircase suspended in the void and directed towards the sky. The vertical tower provides informative material describing the geological condition of the region. While ascending the tower inside the lift, the visitors move along a wall which illustrates such condition. The oblique light coming from the top enlightens the wall where the informative material is exposed. The oblique tower contains a staircase directed towards the sky. The panoramic viewpoint is only the extreme part of the staircase, which ideally continues. The walls of the stairs, which contain the large beams supporting the overhang, are higher than two meters. The visitors going up the stairs are deprived of the possibility to observe the landscape. The vision opens up only at the extremity. Suddenly the walls, which define the perimeter of the stairs, end and the visitors can take a 360 degrees look around the landscape. The two towers define two observation points and produce a light tension between these two places, which are similar but separated. The two towers are in equilibrium (also statically, because the vertical tower acts as a counter weight for the oblique tower, which is suspended in the void). Visitors, who go up the stairs, reach a vertiginous and emotional point, as if they were hovering over the forest and the plateau. The towers are entirely made of pre-compressed reinforced concrete. The large base, which is necessary in order to balance the momentum of the oblique tower, appears as a trace, a big slab of concrete stuck into the ground.
tema per la costruzione della torre. Un luogo dell’attesa, sospeso, in qualche modo sfuggente. La nuova torre si misura con questo luogo sorprendente, costruendo sia uno strumento della visione, quanto un oggetto che segna un luogo, un segno a scala territoriale. La nuova torre è composta da due parti unite alla base: una torre verticale, che accoglie un ascensore idraulico (velocità 0,15m/s) ed una torre obliqua, percorsa da una scala sospesa nel vuoto e proiettata verso il cielo. La torre verticale accoglie materiale che illustra la condizione geologica dell’altipiano carsico. Salendo con l’ascensore, i visitatori si muovono lungo una parete allestita in modo da raccontare la condizione geologica della regione. Le informazioni scorrono davanti ai visitatori come lungo un grande pannello illustrato di cui è possibile osservare i dettagli salendo lentamente con l’ascensore. La luce radente dall’alto illumina la parete su cui sono esposti i materiali informativi. La torre obliqua accoglie una scala diretta verso il cielo. Il punto panoramico è solamente l’estremità della scala, che, idealmente, prosegue. Le pareti laterali della scala, che contengono all’interno le ampie travi necessarie a sostenere lo sbalzo, superano i 2 m di altezza. I visitatori che salgono lungo la scala sono privati della possibilità di osservare il paesaggio. La visione si apre solamente alla sommità. Improvvisamente le pareti che definiscono i bordi della scala verso il cielo si fermano e lo sguardo può spaziare a 360° sul paesaggio. Le due torri definiscono due punti di osservazione e producono una leggera tensione tra questi due luoghi, simili ma separati. Le due torri sono in equilibrio (anche staticamente, la torre verticale funziona come contrappeso per la torre obliqua sospesa nel vuoto). I visitatori che salgono lungo la scala arrivano in un punto vertiginoso ed emozionante, sospesi a precipizio sul bosco e sull’altopiano. Le torri sono interamente realizzate in cemento armato precompresso. Il grande basamento necessario a bilanciare il momento della torre obliqua appare come una traccia, una grande lastra di cemento incastrata nel terreno. 427
From the viewpoint of Castellazzo Doberdò, image by baukuh, YellowOffice, D’Appolonia S.p.A., Stefano Pelluso, Steven Geeraert
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The panoramic area in the Redipuglia memorial The Carso front is the bloodiest among all the fronts in the conflict between Italy and the Hapsburg Empire during the First World War: more precisely, it is the only front in which the conflict between these two countries assumes the traits of that carnage, which happened mostly along the French-German front in proportions unthinkable before that moment. The outcome is almost exclusively determined by the sheer mass of human beings and industrial means employed. The peculiarity of the Carso in the conflict between Italy and the Hapsburg Empire is largely determined by its geomorphologic features: a plateau with scanty vegetation and without relevant physical obstacles, at least compared with the front in Veneto and Trentino. In other words, the war in Carso, somehow, was not like the heroic one of the Italian Alpine troops but the mass one of the infantrymen, who were sent by their officers to be slaughtered. This is the reason why the Carso front became a hecatomb for both the arrays. So, while the war was still going on, it was necessary to begin a vast campaign for building temporary cemeteries; when the war ended, it was the case to provide a definitive burial to the dead. Among the monuments which were built during the first years after the First World War, the extraordinary Redipuglia Cimitero degli Invitti no doubt stands out: a series of concentric circles, sprinkled by individual burials, adorned with war relics and accompanied by various mottos on life, death, war, and homeland. The national size of the Carso front and of the bloodshed which took place there emerged in all its proportion in January 1920, when a competition targeted at building an Infrantryman Monument in Monte San Michele was published. The monument has never been built. Nevertheless, the competition put on the agenda the issue of
L’area panoramica sul Sacrario di Redipuglia Quello del Carso è il fronte più sanguinoso del conflitto tra Italia e Impero Asburgico nel corso della Grande Guerra: ed è, in particolare, l’unico fronte in cui il conflitto tra i due paesi assume i tratti di quella carneficina, compiuta soprattutto sul fronte franco-tedesco in dimensioni sino a quel momento impensabili, il cui esito è determinato pressoché esclusivamente dalla massa di essere umani e di mezzi industriali impiegati. La peculiarità del Carso nel conflitto tra Italia e Impero Asburgico è determinata in ampia misura dalle sue caratteristiche geomorfologiche: un altopiano dalla vegetazione sparuta e privo—per lo meno se comparato al fronte veneto e trentino—di ostacoli fisici di particolare rilevanza. Quella che è stata condotta sul Carso, in altri termini, non è stata la guerra in qualche misura ancora eroica degli Alpini, ma quella di massa dei Fanti, mandati dai superiori a farsi ammazzare gli uni dagli altri. È per questa ragione che il fronte del Carso ha assunto per entrambi gli schieramenti i tratti di un’ecatombe. A guerra ancora in corso fu pertanto necessario intraprendere una vasta campagna di costruzione di cimiteri provvisori; a guerra conclusa, si trattò di assegnare una sepoltura definitiva, in perpetuo, ai caduti. Tra i monumenti sorti nei primi anni del dopoguerra spicca senza dubbio, a Redipuglia, lo straordinario Cimitero degli Invitti: una serie di gironi concentrici costellati di sepolture individuali, ornate con residuati bellici e accompagnate da motti disparati sulla vita, la morte, la guerra e la patria. La dimensione nazionale del fronte carsico e del sacrificio di sangue qui compiuto per la Patria emerge però in tutta la sua portata quando, il gennaio 1920, viene bandito un concorso per il Monumento al Fante da erigersi sul Monte San Michele. Il monumento non sarebbe mai stato costruito. Ma il concorso pose all’ordine del giorno il problema che la commemorazione dei caduti stava 429
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From the viewpoint of Castellazzo Doberdò. Image by baukuh, YellowOffice, D’Appolonia S.p.A., Stefano Pelluso, Steven Geeraert 431
remembrance of the fallen in post-war Italy: no more as a necessity to be fulfilled but as a key issue in the political debate. Not by chance, the veto on the realization of the winning project, by Eugenio Baroni, was put by Mussolini himself, as he was against a monument which was more focused on the bloody sacrifice than on the celebration of the victory. Meanwhile, after the march on Rome, the political scene radically changed. As a result, it was the Fascist regime to realize the biggest Italian memorial to the fallen of the First World War. However, many years had passed after the end of the war and a new one was about to come. The Carso, as the other fronts, was politically exploited: showing the number of fallen soldiers assumed the form of parading the greatness of the achieved victory and of the glorious destiny which the Italian, and above all Fascist people were going to face. The fallen of the First World War were no more a warning but an example to be followed and to be exceeded too. Not by chance in 1938, just before the Second World War begun, the Redipuglia memorial was inaugurated, substituting the Cimitero degli Invitti on the hill beside, the latter being considered not enough martial any more. Nevertheless, Giovanni Greppi and Giannino Castiglioni designed a memorial whose shape completed the process of de-personalization of death; a memorial which—through the obsessive repetition of the formula pronounced during the Fascist ceremony of the roll-call: “Presente!” —translated the sacrifice of the fallen infantrymen in pure Fascist terms. The Carso, the most tremendous Italian front of the First World War, thus became the place of the biggest memorial, which sings hymns to the war while calling the Italian people to the coming one. Yet, the Redipuglia memorial shows how architecture enjoys a lucky ambiguity and is often open to carry extraneous meanings, sometimes even opposite to the ones it was conceived and realized. 432
assumendo nell’Italia del dopoguerra: non più una necessità da espletare, ma un nodo del dibattito politico. Non a caso, il veto sull’effettiva realizzazione del progetto vincente di Eugenio Baroni venne posto da Benito Mussolini in persona, avverso a un monumento che poneva la deplorazione del sacrificio di sangue compiuto in primo piano rispetto alla celebrazione della vittoria conseguita. Nel frattempo, dopo la marcia su Roma, lo scenario politico è radicalmente mutato. È così il regime fascista a realizzare il più grande dei sacrari italiani (e non solo) ai caduti della Prima Guerra Mondiale. Sono però trascorsi molti da anni dalla fine della guerra, e una nuova guerra è in corso di preparazione. Il Carso, come il resto del fronte, viene ora strumentalizzato politicamente: mostrare la massa dei soldati caduti assume l’obiettivo di esibire la grandezza della vittoria ottenuta e del destino, anch’esso lastricato di vittorie, che attende il popolo italiano e soprattutto fascista. I caduti della Prima Guerra Mondiale non costituiscono più un monito, ma un esempio da seguire e, anzi, da superare. Non a caso, poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1938), viene inaugurato il Sacrario di Redipuglia, a sostituire—sulla collina di fronte—il Cimitero degli Invitti, ormai considerato non sufficientemente marziale. Malgrado tutto, Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni progettano un sacrario che nelle sue stesse forme porta a compimento il processo di spersonalizzazione della morte e che— tramite l’ossessiva ripetizione della formula pronunciata nella cerimonia fascista dell’appello: “Presente!”—traduce il sacrificio compiuto dai fanti caduti in termini puramente fascisti. Il Carso, il fronte più tremendo della Prima Guerra Mondiale combattuta dagli italiani, viene così a ospitare il più grande dei sacrari che inneggiano a quella guerra, chiamando il popolo italiano a una guerra prossima ventura. Eppure, proprio il Sacrario di Redipuglia mostra come l’architettura goda di una felice ambiguità e sia spesso disponibile a farsi portatrice di significati estranei, e persino
The Redipuglia memorial, dedicated to the Third Army and to the Duke of SavoiaAosta Emanuele Filiberto, preserves 100,000 bodies which were collected from the temporary war cemeteries sprawled on the plateau. Every year, on the 4th of November, the celebration for the end of the First World War takes place in the memorial. This ceremony is directly recorded on the monument, reporting the positions which have to be taken by political and military authorities inside an extremely precise choreography. Therefore, the complex is not only a monument, but also the scene of an important ritual, which is part of the Italian history and becomes a chance to reflect on the past of the Republic. Coming from the West, as the Italian army did during the First World War, the memorial rises on the natural entrance of the Carso plateau and could be considered as an independent monument, as well as a starting point for a new path which enters the plateau. The monument maintains its role and its figure but at the same time establishes a relation with the new paths and consolidates its link with the landscape in which it is inserted. In this way the monument stops being an object which is only related to the history of Carso but it binds with the Carso nature too. In order to achieve this result, it is necessary to define a transitional place where to move from the solemn monumentality of the memorial to the complexity of the natural environment; it is necessary to create space for a quiet place, which is not competing with the monument and at the same time it is not ignoring its grave language. A decompression chamber must be built in order to allow the visitor to move from such an emotionally dense place as the memorial towards the more ordinary Carso landscape, without erasing the experience of the monument. Our project proposes to build a pause, an empty, silent, suspended place, which relates the memorial to the surrounding nature. We propose to realize a vast open-air
opposti, a quelli per cui era stata concepita e realizzata. Il Sacrario di Redipuglia, dedicato alla Terza Armata e al Duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta custodisce 100.000 salme raccolte nei cimiteri di guerra temporanei sparsi nell’altopiano. Ogni anno, il 4 novembre, vi hanno luogo le celebrazioni per l’anniversario della conclusione della Grande Guerra. Questa cerimonia è direttamente registrata sul monumento, su cui sono annotate le posizioni che le massime autorità politiche e militari devono assumere all’interno di una coreografia estremamente precisa. Il complesso non è quindi solamente un monumento, ma è anche la scena di un importante rituale che appartiene alla storia d’Italia e diventa occasione una riflessione sul passato della Repubblica. Il Sacrario sorge nel luogo di ingresso all’altopiano carsico per chi arriva da ovest (come accadde all’esercito italiano durante la Grande Guerra) e può essere considerato, oltre che come monumento indipendente, come punto di partenza per il nuovo percorso che si sviluppa nell’altopiano. Il monumento conserva il suo ruolo e la sua figura, ma allo stesso tempo si mette in relazione con i nuovi percorsi e rafforza il suo legame con il paesaggio in cui si inserisce. In questo modo il Sacrario cessa di essere un oggetto unicamente legato alla storia del Carso, ma si mette in relazione anche con la natura del Carso. Per fare questo è necessario definire un luogo di passaggio tra la solennità monumentale del Sacrario e la complessità dell’ambiente naturale, fare spazio ad un luogo quieto, che non entri in competizione con il monumento e che allo stesso tempo non ne ignori il linguaggio severo. Si tratta di costruire una camera di decompressione che lasci al visitatore la possibilità di muoversi da un luogo denso di emozioni come il Sacrario ed di inoltrarsi verso il più quotidiano paesaggio del Carso senza cancellare l’esperienza del monumento. Il nostro progetto propone di costruire una pausa, un luogo vuoto, silenzioso, sospeso, che metta in relazione il Sacrario e la natura circostante. 433
square room, 100 meters per side, partially dug into the hill and defined by six meters high stone walls along three sides. The open-air room widens beyond the top of the memorial, whose terminal buildings defines the fourth side of the room with their back. The room accepts the precise geometry of the memorial but allows nature to invade its space. There is no floor, only the Karstian rubble and some emerging stones wherein weeds and little shrubs grow freely as they do in the rest of the plateau. The room shows the final state of the geological evolution: the ground emerges and a new vegetation state appears. The square room is partially dug into the hill; inside the room, both the landscape and the memorial disappear. The room creates a pause, conceals the surrounding elements and suspends them for some minutes, creating a lapse in the path connecting the memorial to the nature. The room is defined on three sides by a reinforced concrete wall which is clad by Karstian stones, possibly the same that is dug out during the excavation. Along the eastern side, opposite to the memorial, the wall sports an opening which makes it possible to enter a ramp going up the hill, where a stone is located. Apart from the stone, this area does not envisions any architectural interventions and only the panoramic spots are cleaned up and made accessible. The room allows a better access to the exhibition spaces on both sides of the chapel; they preserve the collection of photographic portraits of the 100.000 fallen. We do not propose to realize a new, big parking on the top of the hill but only to renew the existing one. Indeed, we consider it essential to enter the system through the memorial, without inverting the way of the tour. As a consequence, we propose to keep using the current parking areas as the main infrastructure for the visitors. We propose to plant a new forest of birch trees at the base of the hill where the “Cimitero degli Invitti” is located (the first cemetery 434
Proponiamo di realizzare un’ampia stanza quadrata a cielo aperto, di 100 m di lato, parzialmente scavata nella collina e definita su tre lati da muri in pietra di 6 m di altezza. La stanza a cielo aperto si apre alle spalle della sommità del Sacrario che, con il retro degli edifici terminali, definisce il quarto lato della stanza. La stanza accetta le geometrie nette del Sacrario, ma si lascia invadere dalla natura. Non c’è pavimento, solo il pietrisco carsico e le rocce affioranti, in cui erbacee e piccoli arbusti si sviluppano liberamente come in tutto il territorio dell’altopiano. La stanza espone lo stadio finale dell’evoluzione geologica; la terra affiora e compare un nuovo stato vegetazionale. La stanza quadrata è leggermente scavata nella collina, all’interno della stanza il paesaggio (come anche il Sacrario) scompare. La stanza produce una pausa, sottrae alla vista gli elementi circostanti e li sospende per qualche minuto, creando un intervallo nel percorso che connette il Sacrario e la natura. La stanza è definita su tre lati da un muro in cemento armato rivestito di pietra carsica, possibilmente la stessa cavata durante lo scavo. Sul lato orientale, opposto al retro del Sacrario, si apre una porta nel muro, che da accesso una rampa che conduce ad un cippo posto alla sommità della collina. Questa area, oltre al cippo, non prevede interventi architettonici, solamente i punti panoramici vengono ripuliti e resi agevoli. La stanza consente inoltre un migliore accesso alle sale museali a destra e sinistra della cappella (dove si conservano la collezione di ritratti fotografici dei 100.000 caduti). Viene prevista la sostituzione di tutti i segni architettonici e gli elementi di arredo posti alle spalle della cappella e degli spazi annessi. Proponiamo di non realizzare un nuovo grande parcheggio alla sommità della collina, ma di risistemare solamente il parcheggio esistente. Riteniamo infatti essenziale considerare il Sacrario come punto di ingresso al sistema, senza invertire il percorso di visita. Conseguentemente proponiamo di continuare a utilizzare le attuali aree a parcheggio come principale supporto infrastrutturale per i visitatori.
The panoramic area in the Redipuglia memorial. Image by baukuh, YellowOffice, D’Appolonia S.p.A., Stefano Pelluso, Steven Geeraert
of the Italian soldiers, built during the war). The new lay out plans to use the axial organization only for the elements which are strictly linked to the memorial. Indeed, the current situation, in which the monumental axis organizes even the ancillary functions, ends up trivializing the monument. We propose to make a clear distinction between the geometry of the memorial and the auxiliary spaces, inserting the parking spaces and the entrances in a much softer design, which is entirely included in the new gentle figure of the birch trees forest. The entrance areas are reorganized, rationalizing the existing spaces. A unitary surface connects the parking, the museum/restaurant and the “Parco delle Rimembranze” with the entrance to the memorial. The surface is the projection of the planting pay-out of the forest of birch trees, on top of which the new design of the stone floor is traced out. This new square is not trying to create a centrality, it is only a flexible junction which recomposes the different directions of all the urban fragments close to the memorial. A new information point is located in the place where the geometries of the paving change.
Proponiamo la piantumazione di un nuovo bosco di betulle ai piedi della collina del “cimitero degli invitti” (il primo cimitero dei soldati italiani, realizzato ancora durante la guerra). La nuova sistemazione prevede di limitare l’organizzazione assiale agli elementi strettamente legati al sacrario. Infatti, l’attuale prosecuzione dell’asse monumentale ad organizzare anche le funzioni accessorie finisce per banalizzare il monumento. Proponiamo di distinguere nettamente le geometrie del sacrario e degli spazi accessori, includendo parcheggi ed accessi in un disegno molto più morbido e interamente compreso nella figura dolce del nuovo bosco di betulle. Le aree di accesso sono ri-organizzate, razionalizzando gli spazi esistenti. Una superficie unitaria unisce il parcheggio, il museo/ristorante, il Parco delle Rimembranze con l’ingresso al Sacrario. La superficie è la proiezione di un sesto di impianto di un rimboschimento di betulle in cui viene tracciato il disegno della nuova pavimentazione in pietra. Questa nuova piazza non vuole creare una centralità, essa è solo una giunzione flessibile che ricompone le diverse direttrici dei frammenti urbani che si incontrano nei pressi del Sacrario. Un nuovo punto informazione si colloca nel punto in cui cambiano le geometrie delle pavimentazioni. 435
autori
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Aldo Renato Daniele Accardi Aldo R. D. Accardi (1968), Architect, has a PhD in the field of Recovery of the Ancient Contexts, the subject of which is the Musealization of International Archaeological Sites. He has published various scientific papers about Museography, Archaeological Museography and Interiors, including essays in books, articles in magazines and Acts of National and International Congresses. He has a post-graduate degree in Museography awarded at the École de Muséographie du Louvre. He has participated in various international competitions in architecture, has staged scientific exhibitions and has gained considerable professional experience in Interior Design and in the field of indoor and outdoor Musealization. Currently he is the Holder of a Research Grant in the field of Contemporary architectural language in the musealization of historical interiors. He teaches Interiors and Musealization of archaeological sites at the Faculty of Architecture in Palermo and Museography at the Faculty of Letters and Philosophy in Palermo. He also teaches at the International Summer School on European Prehistory (ISSEP) in Nurri. Michela Bassanelli Arch. Ph.D. Candidate in Interior Architecture and Exhibition Design at DAStU-Departement of Architecture and Urban Studies, Politecnico di Milano. Graduated in Architecture at the Politecnico di Milano (2010) with a Thesis “Geografie dell’abbandono. Il caso della valle di Zeri,” dealing with the phenomena of rural villages abandonement in Tuscany and the study of possible strategies for revival and rehabilitation. The work was Awarded with Lunigiana Storica Prize as the best study on its territory for 2010. She collaborates with the professor Gennaro Postiglione on the research project about “Italian Borghi dismission” (to develop an understanding useful to elaborate strategies for possible re-active-actions) and “Museography for Difficult Heritage”, a research on war remains both in urban contexts and cultural landscapes developed within the framework of PRIN 2008 - ‘The intervention in archaeological areas for activities related to museums and cultural communication’ (National Coordinator prof. Marco Vaudetti) performed by the MIB Group at Politecnico di Milano (coordinated by prof. Luca Basso Peressut). Luca Basso Peressut Full Professor, has been member of the PhD in “Architecture of Interiors” at the Politecnico di Milano since 2000. He is director of the II level Master held by the Politecnico di Milano “IDEA in Exhibition Design,” Director and Member of the Scientific Committee for the International Architecture Workshop “Villa Adriana” since 2003, Member of the Scientific Committee for the National Conference of Interiors” 2005, 2007 and 2010; member of the Scientific Board of the
Aldo Renato Daniele Accardi Aldo R. D. Accardi (1968), architetto, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Recupero dei Contesti Antichi con una tesi dal titolo La Gestione museale dei siti archeologici, sullo sfondo delle esperienze internazionali. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche sulla Museografia, sulla Museografia archeologica e sull’Architettura degli Interni, tra cui saggi in libri, articoli su riviste e Atti di Congressi Nazionali e Internazionali. Ha conseguito una specializzazione in Museografia presso l’École de Muséographie du Louvre. Ha partecipato a diversi concorsi di progettazione, ha allestito mostre a carattere scientifico ed ha acquisito una cospicua esperienza professionale nella progettazione d’interni e arredamento e nell’ambito della museografia indoor e outdoor. Oggi, titolare dell’Assegno di Ricerca dal titolo Elementi del linguaggio progettuale contemporaneo nella musealizzazione degli interni storici, è Docente di Architettura degli Interni e di Musealizzazione dei siti archeologici, presso la Facoltà di Architettura di Palermo, di Museografia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, e insegna presso l’International Summer School on European Prehistory (issep) di Nurri. Michela Bassanelli Architetto, Dottorando in Architettura degli interni e Allestimento presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani (DAStU) del Politecnico di Milano. Si laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano nel 2010 con la tesi: “Geografie dell’abbandono. Il caso della valle di Zeri”, tesi vincitrice del Premio Lunigiana Storica 2010. Collabora con il Professor Gennaro Postiglione nell’ambito di alcuni progetti di ricerca: “la dismissione dei borghi in Italia” elaborando possibili strategie di sviluppo per questi territori, “Museografia per “Difficult heritage,” un progetto di ricerca sui reperti di guerra sia in contesti urbani che nel paesaggio sviluppato all’interno del progetto PRIN 2008—“L’intervento nelle aree archeologiche per attività connesse alla musealizzazione e alla comunicazione culturale” (Coordinatore nazionale prof. Marco Vaudetti) svolto dal gruppo MIB del Politecnico di Milano (Coordinato dal prof. Luca Basso Peressut). Luca Basso Peressut Professore ordinario, membro del Dottorato di Ricerca in Architettura degli Interni e Allestimento dal 2000. E’ direttore del Master IDEA-Exhibition design del Politecnico di Milano; direttore e membro del comitato scientifico del Workshop Internazionale di Architettura “Villa Adriana” dal 2003; membro del comitato scientifico della Conferenza Nazionale “Interiors” 2005, 2007 e 2010; membro del Consiglio scientifico del Museo Tridentino di Storia Naturale, Trento; membro del comitato scientifico della rivista “Exporre ”; membro del 439
Museum Tridentino di Storia Naturale, Trento; member of the Scientific Committee of the magazine “Exporre;” member of the Scientific Board of Museography of Edifir Publisher, Florence and consultant for the magazine “Area” since 1997. baukuh+YellowOffice baukuh produces architecture. Designs are independent from personal taste. No member of baukuh is ever individually responsible for any project which goes out from the office. Working without a hierarchical structure and without a stylistic dogma, baukuh produces architecture out of a rational and explicit design process. This process is based on the critical understanding of the architecture of the past. The knowledge encoded in the architecture of the past is public. Starting from this public knowledge, it is possible to solve whatever architectural problem. YellowOffice was founded in March 2008 as a studio for landscape and landscape urbanism design. The activities covered by Yellow Office comprehend the several scales of the landscape design process: from urban planning (new cities) to private parks; from fragments of urban centres to territorial parks; from re-naturalization of discarded zones to valorisation of naturalistic relevant areas. The professional objective of Yellow Office is to combine the needs of appearance and functionality to ecological requirements, giving innovative and recognizable solutions trough a consolidated method of design approach. Silvana Carotenuto Silvana Carotenuto is an Associate Professor at the University of Napels L’Orientale, where she also directs The Centre for Postcolonial Studies. Her main interests are Deconstruction, Visual Studies and Female Writing. She has recently been working on arts and technologies of exiled women (Isea 2011, Istanbul). Her publications include La lingua di Cleopatra. Traduzioni e sopravvivenze decostruttive (Marietti, 2009). Gilly Carr Dr Gilly Carr is a University Senior Lecturer and Academic Director in Archaeology at the Institute of Continuing Education, University of Cambridge, UK. She is also a Fellow and Director of Studies in Archaeology and Anthropology at St Catharine’s College, Cambridge. Her areas of research include the new field of Occupation Archaeology, which she has coined and developed; and the archaeology of POWs, where she works with former civilian internees from the Channel Islands. Her publications in this area include Creativity Behind Barbed Wire and Prisoners of War: Archaeology, memory and heritage of 19th and 20th century mass internment, which she has co-edited with Harold Mytum. 440
Comitato Scientifico di Museografia di Edifir Editore, Firenze e consulente per la rivista “Area” dal 1997. baukuh+YellowOffice baukuh produce architettura. I progetti sono indipendenti dal gusto personale. Nessun membro di baukuh è individualmente responsabile di un progetto che viene prodotto dallo studio. Lavorando senza una struttura gerarchica e un dogma stilistico, baukuh produce architettura tramite un processo progettuale razionale ed esplicito. Tale processo è basato sulla comprensione critica dell’architettura del passato. La conoscenza codificata nell’architettura del passato è pubblica. A partire da tale conoscenza pubblica è possibile risolvere qualsiasi problema architettonico. YellowOffice è stato fondato nel Marzo 2008 come studio di paesaggismo e disegno urbano. Le attività coperte da YellowOffice comprendono le numerose scale della progettazione del paesaggio: dai master plan (nuove città) ai parchi privati; da frammenti di centri urbani ai parchi territoriali; dalla rinaturalizzazione di zone dismesse alla valorizzazione di aree naturalistiche rilevanti. L’obiettivo professionale di YellowOffice è di combinare le necessità estetiche e la funzionalità con i requisiti ecologici, creando soluzioni innovative e riconoscibili attraverso un metodo consolidato di approccio alla progettazione. Silvana Carotenuto Silvana Carotenuto insegna Letteratura Inglese Contemporanea all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, dove dirige il Centro di Studi Postcoloniali. I suoi interessi di ricerca sono la decostruzioni, gli studi visuali e la scrittura femminile. Recentemente si è interessata alla questione del rapporto tra arte e esilio nella poetica delle donne (Isea 2011, Istanbul). Tra le sue recenti pubblicazioni, La lingua di Cleopatra. Traduzioni e sopravvivenze decostruttive (Marietti, 2009) Gilly Carr Gilly Carr è University Senior Lecturer e Academic Director in Archaeology presso l’Institute of Continuing Education dell’Università di Cambridge. Inoltre è Fellow e Director of Studies in Archaeology and Anthropology al St Catharine’s College di Cambridge. Le aree di ricerca delle quali si occupa comprendono il nuovo ambito dell’Archeologia dell’Occupazione, da lei stessa creato e sviluppato; e l’archeologia dei Prigionieri di Guerra, del quale si occupa in collaborazione con ex internati civili delle Channel Islands. Tra le sue pubblicazioni in questo ambito: Creativity Behind Barbed Wire and Prisoners of War: Archaeology, memory and heritage of 19th and 20th century mass internment, che ha co-curato con Harold Mytum. Altri progetti di ricerca di cui si
Other research projects include the heritage and memory of resistance, and in the archaeology of the slave and forced worker camps of the Atlantic Wall.
occupa riguardano l’eredità e la memoria della resistenza e l’archeologia dei campi di schiavitù e lavoro coatto dell’Atlantikwall.
Alberta Cazzani Architect, PhD in Conservation of the Architectural Heritage, assistant professor of Architectural Conservation at the Politecnico di Milano where she teaches Urban Restoration (course), Conservation of Architectural and Urban Heritage and Interior Design and Architectural Conservation and Rehabilitation (workshops). Research focus mainly on the issues related to the preservation and conservation of architectural heritage, especially in relation to cultural landscapes (rural landscapes, vernacular architectures, historic routes, trails, parks and gardens) and historic centers and districts, developping inventories and analysis of historic sites; cultural landscape reports, management and valorization criteria and guidelines. On these topics she participates in research activities of Department of Architectural Design (Research Group: Architectural Heritage and Landscape Preservation and Management) - researching on behalf of several public bodies (such as: Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Regione Lombardia and several regional parks) and she is author or editor of many papers and books.
Alberta Cazzani Architetto, dottorato in Conservazione dei Beni Architettonici, ricercatore confermato di Restauro presso il Politecnico di Milano dal gennaio 2005. Svolge la propria attività didattica presso il Politecnico di Milano, corso di Restauro urbano, Laboratorio di Restauro: Restauro urbano; Laboratorio di Progettazione degli Interni e Conservazione del Costruito: Restauro architettonico. Svolge la propria attività di ricerca occupandosi in particolare dei problemi della tutela e conservazione del patrimonio diffuso, relativamente al paesaggio culturale (paesaggio agrario paesaggio periurbano, architetture vernacolari, giardini storici e viabilità storica) e ai centri storici, realizzando inventari, studi e rilievi e definendo piani e linee guida per la conservazione, valorizzazione e gestione di tale patrimonio. Su questi temi ha svolto ricerche per conto di diversi enti pubblici (tra cui: Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Regione Lombardia e diversi parchi regionali, province ed enti locali), ha collaborato a progetti di ricerca di livello nazionale e internazionale ed è autore o curatore di numerosi saggi e libri.
Iain Chambers Professor of Cultural and Postcolonial studies at the “Orientale” University of Naples where he has extended his work on interdisciplinary and intercultural analyses to the formation of the modern Mediterranean. He was a member of the Centre for Contemporary Cultural Studies at the University of Birmingham. He is the author of Urban Rhythms: pop music and popular culture (1985), Popular Culture. The metropolitan experience (1986), Border dialogues. Journeys in postmodernity (1990), Migrancy, culture, identity (1994), Hendrix, hip hop e l’interruzione del pensiero (with Paul Gilroy) (1995), Culture after humanism (2001); and most recently, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted Modernity (2008). He is also editor with Lidia Curti of The Post-colonial question. Common skies, divided horizons (1996,) and the volume Esercizi di Potere. Gramsci, Said e il postcoloniale (2006). Several of these titles have been translated into various languages, including Italian, Spanish, German, Japanese and Turkish. His most recent publication is Mediterraneo Blues. Musiche, maliconia postcoloniale, pensieri marittimi (2012).
Iain Chambers Professore in studi culturali e postcoloniali all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, proponendo un approccio interdisciplinare e interculturale alle problematiche storiche, culturale e politiche del Mediterraneo e alla formazione della modernità occidentale. È membro del Centro di studi culturali contemporanei all’Università di Birmingham. É autore di Urban Rhythms: pop music and popular culture (1985), Popular Culture. The metropolitan experience (1986), Border dialogues. Journeys in postmodernity (1990), Migrancy, culture, identity (1994), Hendrix, hip hop e l’interruzione del pensiero (with Paul Gilroy) (1995), Culture after humanism (2001); di nascita più recente, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted Modernity (2008). È anche editore con Lidia Curti di The Post-colonial question. Common skies, divided horizons (1996,) and the volume Esercizi di Potere. Gramsci, Said e il postcoloniale (2006). La maggior parte di questi testi sono stati tradotti in varie lingue che includono italiano, spagnolo, tedesco, giapponese e turco. La sua più recente pubblicazione è Mediterraneo Blues. Musiche, maliconia postcoloniale, pensieri marittimi (2012).
Cristina Federica Colombo Architect, graduated on December 2006 from Politecnico di Milano with a museographical thesis titled “Via Verde Varesina Diffused Museum.” She is currently pursuing a Ph.D. in Interior Architecture and Exhibition Design at Politecnico di Milano. In
Cristina Federica Colombo Architetto, ha conseguito la Laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel dicembre 2006, con una tesi a indirizzo museografico dal titolo “Museo Diffuso della Via Verde Varesina.” È attualmente iscritta al corso di Dottorato in Architettura degli Interni e Allestimento al 441
the meantime, she is assistant lecturer of Prof. Luca Basso Peressut in Interior Architecture and Museography courses, being involved in several didactic activities as in national and international research projects, like MeLA (European Museums and Libraries in/of the Age of Migrations). She is member of the editorial board of the architectural web-magazine vistalaterale, promoted by the Faculty of Architecture of Naples “Federico II.” In October 2007-January 2008 she had been lecturer at a cycle of conferences on the theme of contemporary museums at Daverio Public Library (Varese). Fernanda De Maio Architect, Associate Professor in Architectural Composition at Iuav, University of Venice. After the master degree at Faculty of Architecture of Naples in 1996, she attended the Akademie Schloss Solitude in Stuttgart. She’s Phd in Urban Planning. As a component of the study Na.o.Mi. has participated in several national and international architectural competitions, obtaining reports and awards. She has also take part in several workshops as a teacher, she partecipated to seminars, exhibitions and competitions of architecture. She was part of the research team for the Prin Iuav 2006-2007 “small airports.” Since 2008 is part of the boarding of the international PhD Villard d’Honnecourt, where She edited the book entitled “New European identity.” In 2009 she was the chair of the research “Greek-Roman architecture and archeology” with Monica Centanni. From 2010 she’s the coordinator of a new research unit “Architecture and archaeology of landscape: theaters of war and of the international seminary “Progettazione Villard.” Giulia Grechi Giulia Grechi holds a PhD in “Theory and social research” at the University La Sapienza (Rome, Italy). Her Phd thesis, “The embodied representation. An ethnography of the body between colonial stereotypes and contemporary art,” examined the works of the Afro-American artists Lorna Simpson and Kara Walker, focusing on colonial representation, the concept of embodiment and emotions as field of knowledge’s production. She teaches Photography – social communication at the Fine Arts School of Brera (Milan, Italy), Visual anthropology and Sociology of communication at the European Institute of Design (IED) in Rome. She is editor-in-chief of the on-line journal roots§routes—research on visual culture. She is currently research fellow at “L’Orientale” (Naples, Italy) as a member of the EU Project “Mela—European Museums in an Age of Migrations,” where she is working on the relation between museums, contemporary anthropology and contemporary art. Her research interests include anthropology, cultural and post-colonial studies, with a focus on contemporary art and on representations of the body. 442
Politecnico di Milano, dove collabora come assistente con il Prof. Luca Basso Peressut in corsi di Architettura degli Interni e Museografia ed è coinvolta in attività didattiche e in progetti di ricerca nazionali e internazionali, tra cui MeLA (European Museums and Libraries in/ of the Age of Migrations). È membro della redazione della rivista on-line di architettura e cultura vistalaterale, promossa dalla Facoltà di Architettura dell’Università “Federico II” di Napoli. Tra l’ottobre 2007 e il gennaio 2008 è stata relatrice a un ciclo di conferenze sul museo contemporaneo alla Biblioteca del Comune di Daverio (Varese). Fernanda De Maio Architetto, Professore Associato di composizione architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia. Dopo la laurea alla Facoltà di architettura di Napoli nel 1996 è stata borsista dell’Akademie Schloss Solitude di Stoccarda. È dottore di ricerca in Progettazione urbana. Come componente dello studio Na.o.Mi. ha partecipato a diversi concorsi di architettura nazionali e internazionali, ottenendo segnalazioni e premi. Oltre ad aver preso parte come docente a svariati workshop, ha curato seminari, mostre e concorsi d’architettura. È stata componente del gruppo di ricerca Iuav per il Prin 2006-2007 “Piccoli aeroporti.” Dal 2008 fa parte del collegio docenti del dottorato internazionale d’architettura Villard d’Honnecourt, nell’ambito del quale ha curato la pubblicazione del lavoro di ricerca svolto durante il I ciclo con un libro dal titolo “Nuova identità europea/New European Identity.” Nel 2009 è responsabile dell’unità di ricerca Iuav “Architettura e archeologia greco-romana” insieme a Monica Centanni, confluita poi nel 2010 nella nuova unità di ricerca Iuav “Architettura e archeologia dei paesaggi: teatri di guerra” di cui è attualmente responsabile. Dal 2010 è coordinatore del Seminario internazionale di “Progettazione Villard.” Giulia Grechi Giulia Grechi è dottore di ricerca in “Teoria e ricerca sociale” presso l’Università La Sapienza di Roma. La sua ricerca: “La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra stereotipi coloniali e arte contemporanea,” analizza il lavoro delle artiste afroamericane Lorna Simpson e Kara Walker, con un focus sulla rappresentazione coloniale, il concetto di incorporazione, e le emozioni come luogo di produzione di conoscenza. è docente di Fotografia – comunicazione sociale all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano), di Antropologia Visuale e Sociologia della comunicazione allo IED-Istituto Europeo di Design di Roma. è caporedattore della rivista on line roots§routes—research on visual culture. Attualmente è assegnista di ricerca all’Università L’Orientale di Napoli come membro del Progetto EU “Mela—European Museums in an Age of Migrations,” all’interno del quale
Marek Edward Jasinki Marek E. Jasinski is Professor Dr. of Archaeology at the Institute of Archaeology and Studies of Religion at the Norwegian University of Science and Technology in Trondheim. His main research interests have been Medieval and Post-Medieval Archaeology of the European Arctic; Maritime Archaeology; and Conflict Archaeology. He has been leader and Norwegian co-leader of several major research projects in Norway, Russia, Greece, Argentina, Mexico, United Arab Emirates and Bulgaria. During the last three years he has been leading the interdisciplinary project ‘Painful Heritage: Cultural landscapes of the Second World War in Norway. Phenomenology, Lessons and Management Systems.’ He is the author and co-author of approximately 200 publications. Eleonora Lupo Designer, Assistant professor, School of Design, Politecnico di Milano. Ph.D. in Industrial Design and Multimedia Communication at the Indaco Dept. of Politecnico di Milano. She’s part of the Research Unit “DeCH. Design for Cultural Heritage” and member of the scientific board of the HumanitiesDesignLab, funded by Dip. Indaco, Politecnico di Milano. In 2008 Visiting Researcher at the School of Design Hong Kong Polytechnic University. Involved in many research programs (see: http://designview.wordpress.com/): scientific coordinator of “Autentico Contemporaneo Milanese” funded by Politecnico di Milano (2011-2012), scientific coordinator of “Inspired by Beijing Opera” funded by Fondazione Ada Ceschin Pilone (2010), member of the national research “Design for Cultural Heritage between History, Memory, Knowledge” funded by Italian University and Research Ministry (2010-2011), member of the EUropean research “MeLa European Museums in an age of migration,” funded by European Community (20112015). Research interests are focused on the innovative role of design as strategic and community centred approach in the enhancement of tangible and intangible Cultural Heritage. Sharon Macdonald Professor of Social Anthropology in the School of Social Sciences, University of Manchester and she is primarily concerned with questions of how cultural heritage is made, re-made, used and experienced and how this variously invokes, substantiates or challenges collective identities and memories. She is interested in the making of heritage policy and the workings of cultural institutions; and in what happens when policy meets practice and past meets present. Her research has focused especially on Europe, though she is also interested in questions concerning the globalization of heritage. In 2009 she finished a book about negotiating Nazi architectural heritage in Nuremberg post-1945. This brought together
indaga la relazione tra musei, antropologia e arte contemporanea. I suoi interessi di ricerca includono l’antropologia, gli studi culturali e postcoloniali, l’arte contemporanea e le rappresentazioni della corporeità. Marek Edward Jasinki Marek E. Jasinski è Professore di Archeologia presso l’Istituto di Archeologia e Studi della Religione del’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia di Trondheim. I suoi interessi principali come ricercatore sono: l’archeologia medioevale e post-medioevale dell’Artico europeo, l’archeologia marittima e l’archeologia dei conflitti. È stato responsabile e co-responsabile per la Norvegia di molti importanti progetti di ricerca condotti in Norvegia, Russia, Grecia, Argentina, Messico, Emirati Arabi Uniti e Bulgaria. Da tre anni guida il progetto interdisciplinare ‘Painful Heritage: Cultural landscapes of the Second World War in Norway. Phenomenology, Lessons and Management Systems’. È autore e co-autore di circa 200 pubblicazioni. Eleonora Lupo Designer, Ricercatore presso la Scuola del Design del Politecnico di Milano. PhD in Disegno industriale e comunicazione multimediale. È parte della Unità di ricerca: “DeCH. Design for Cultural Heritage” e membro del coordinamento scientifico dello HumanitiesDesign Lab, finanziato dal Dip. Indaco, Politecnico di Milano. Nel 2008 è stata Visiting Researcher presso la Hong Kong Polytechnic University School of Design. Collabora a diversi progetti di ricerca (vedi http://designview. wordpress.com/): Responsabile scientifico di “Autentico Contemporaneo Milano,” finanziato dal Politecnico di Milano (2011-2012), Responsabile scientifico di “Inspired by Beijing Opera” finanziato dalla Fondazione Ada Ceschin Pilone (2010), Membro Ricerca nazionale “Il design del patrimonio culturale fra storia memoria e conoscenza. L’immateriale, il virtuale, l’interattivo come materia di progetto nel tempo della crisi,” finanziato dal MIUR (2010-2011), membro della ricerca Europea “MeLa Museums in the age of migrations,” finaziato dalla comunità Europea (2011-2015). I suoi interessi di ricerca ruotano intorno al ruolo innovativo del design come approccio startegico e community centred per la valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale. Sharon Macdonald Professoressa in Antropologia Sociale presso la Scuola di Scienze Sociali dell’Università di Manchester, si occupa principalmente di questioni legate all’uso, ri-uso del patrimonio culturale come elemento legato all’identità e alla memoria collettiva. È interessata alla realizzazione di politiche sui beni culturali e al lavoro delle istituzioni culturali, in particolare in ciò che accade quando 443
historical and ethnographic work to explore some of the struggles, actions and inactions over time. It was part of a broader exploration of how to understand and cope with ‘difficult heritage’. She actually involved into the project “Memorylands.” Inge Marszolek Born 1947, studied History and French at the universities of Bochum and Berlin, teaches cultural history at the Institute for Cultural Sciences at the university of Bremen and member of the Centre for Media, Communication and Information. 1999/2000 fellow am International Institute for Holocaust Research in Yad Vashem, 2001 visiting professor at Koebner Center for German History and at Hebrew University in Jerusalem. Fields of research: History of the workers’ movement in Germany, media history, History of the Nationalsocialisme, Memory and Representation and Visual History of the Cold War. Margherita Parati PhD Candidate in Interior Architecture and Exhibition Design at the DAStU-Departement of Architecture and Urban Studies, where she is collaborates for the EU Project “MeLA- European Museums in an Age of Migrations.” Final degree in Architecture at the Politecnico di Milano. Thesis Title: “Hosting diversities: reconversion of an u-boot bunker into an open market, Saint Nazaire, France.” Supervisors: Prof Gennaro Postiglione, Prof Arturo Lanzani. The project is about the reconversion of a bunker, part of the Atalntikwall, a strategic fortification built during the WWII. The bunker was one of the submarine base of the German navy, the Kriegsmarine. She has studied also at the Technische Universiteit of Eindhoven, in The Netherlands. She has collaborated with Fondazione Prada di Milano for the solo Exhibitions “On Otto” by Tobias Rehberger and “Turn into me” by Nathalie Djurberg. From 2008 she has been working for Beatrice Borasi Architect in Milano. Elena Pirazzoli PhD in History of Art, journalist and researcher, collaborates with some historical institutes and foundations (especially Fondazione Fossoli – Carpi; Istoreto – Torino). She is assistant coordinator of the project Recall—European Conflict Archaeological Landscape Reappropriation led by Politecnico of Milano. She is also member of Centro TraMe (Traumas and Memories) and the Seminar of Narrative Theory of the University of Bologna. She writes for several reviews. Her research field lies between Memorial Studies and Visual Studies, pointing attention to the theme of memorial sites and forms, interweaving an historical approach with the analysis of the artistic and architectural practices which act in relation both with the 444
la politica incontra la pratica e il passato incontra il presente. La sua ricerca si è focalizzata soprattutto sull’Europa, ma è anche interessata a questioni riguardanti la globalizzazione del patrimonio. Nel 2009 ha terminato un libro sulla negoziazione del patrimonio architettonico nazista a Norimberga dopo il 1945. Questo lavoro ha unito storia e etnografia nell’esplorare alcune delle lotte e azioni nel corso del tempo. Il libro faceva parte di una più ampia ricerca su come comprendere e affrontare i patrimoni scomodi. Attualmente è coinvolta nel progetto “Memorylands.” Inge Marszolek Nata nel 1947, ha studiato Storia e Francese all’università di Bochum e Berlino. Insegna storia culturale all’Istituto di Scienze Culturali all’università di Bremen ed è membro del centro per i media, la comunicazione e l’informazione. 1999/2000 è stata borsista presso l’Istituto Internazionale di ricerca sull’Olocausto a Yad Vashem. Nel 2001 è stata visiting professor al Koebner Center for German History e al Hebrew University in Jerusalem. Temi di ricerca sono: storia del movimento operaio in Germania, storia dei media, storia del Nazionalsocialismo, della memoria e della rappresentanza e della storia visiva della guerra fredda. Margherita Parati Architetto, Dottorando in Architettura degli Interni e Allestimento presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani (DAStU) del Politecnico di Milano, dove collabora al progetto europeo “MeLa- European Museums in an Age of Migrations.” Si laurea in architettura presso il Politecnico di Milano nell’ottobre 2008, con la tesi “ospitare le differenze: progetto di un mercato nella base u-boot di saint Nazaire, Francia,” insieme a Claudia Brunelli e Valeria Bormolini. Relatore Prof. G. Postiglione, co-relatore Prof. A. Lanzani. La tesi affronta la delicata questione del riuso di un bunker, ex base per i sottomarini della marina militare tedesca, il bunker fa parte dell’Atlantik Wall, linea di fortificazioni costruite durante la seconda guerra mondiale. Frequenta, come erasmus, la Technische Universiteit di Eindhoven, in Olanda. Dal 2006 collabora con giovani artisti e gallerie d’arte contemporanea per la realizzazione di installazioni e allestimenti. Con la Fondazione Prada di Milano ha partecipato alla realizzazione della mostra personale di Tobias Rehberger “On Otto,” e di Nathalie Djurberg “Turn into me.” Ha collaborato con gli studi “lgb architetti” a Pavia e “Costruzioni Italiane” a Milano e dal 2008 presso lo studio di architettura Beatrice Borasi Architect, specializzato in progetti di architettura di interni, allestimenti e ingegnerizzazione di opere di arte contemporanea.
events’ traces and with the constitution of new signs for commemoration. Gennaro Postiglione Associate Professor in Interior Architecture at Politecnico di Milano (teaching activity: www.lablog.org.uk) where he is also member of MIB-Museum Interiors and Built Environment Research Unit at the Department of Architecture and Urban Studies (DAStU). From 2004, within the thematic area of “Acting upon the Existent”, is promoter of PUBLIC ARCHITECTURE @ POLIMI, an interdisciplinary research & operative group that puts the resources of Architecture in the service of the Public Interest. On-going works: “REcall-Conflict Archaeological Landscape Reappropriation” (www. recall-dow.eu), a research on war remains both in urban contexts and cultural landscapes granted by EC-Culture 2000 programme; “MeLA: Museums and Libraries in/ for the Age of Migrations” (www.mela-project.eu), a research on Museums and Identities in the forthcoming Europe granted by EU-FP7 programme; “Geografie dell’abbandono” (Geographies of dismissions), an investigation on Italian Borghi (Hamlets) dismission (www. abarchive.info). Clelia Pozzi Clelia Pozzi is a PhD student in Architectural History and Theory at Princeton University. She graduated in Architecture at Politecnico di Milano, and received a Master in Design Studies in History and Philosophy of Design from Harvard Graduate School of Design. She recently served as Research Associate at Politecnico di Milano, where she collaborated to the European research project MeLa—European Museums in an age of migrations. Within MeLa, she conducted research on national museums and co-edited the book Museums in an Age of Migrations: Questions, Challenges, Perspective. Before collaborating to MeLa, Clelia worked in architectural offices in Milan and served as Agnes Mongan Curatorial Intern at the Harvard Art Museum/ Busch-Reisinger Museum in Cambridge, MA. She is the recipient of the 2011 Dimitris Pikionis Award from Harvard Graduate School of Design, and the 2008 Pier Daniele Melegari Award from the Accademia Lombarda di Scienze e Lettere. Monica Resmini Phd in Architectural History at Università degli Studi di Roma “La Sapienza” and Temporary Professor of History of ancient and modern Architecture at Politecnico di Milano. She holds a research grant about “Paesaggi alpini tra storia e memoria, percorsi di pace e di guerra.” Subject of study are the cultural and material heritage of the Great War in Lombardy, examined through research in the Italian military archives. Member of research
Elena Pirazzoli Elena Pirazzoli (Bologna 1975), PhD in Storia dell’arte, si occupa di cultura visuale e temi memoriali. Giornalista e ricercatrice, collabora con il Politecnico di Milano come assistente coordinatore del progetto REcall—European Conflict Archaeological Landscape Reappropriation. È inoltre membro del Centro TraMe—Traumi e memorie del Dipartimento di Discipline della comunicazione dell’Università di Bologna e del Seminario di teoria della narrazione, legato alla Facoltà di Lingue dello stesso ateneo. Partecipa a ricerche e progetti coordinati da alcuni istituti storici della Resistenza e della società contemporanea (Bergamo, Torino e Modena) e con la Fondazione Fossoli di Carpi; scrive per alcune riviste (come “Il Mulino” e “Abitare”). È autrice di saggi e articoli incentrati sul nesso fra ricordo, tracce degli eventi ed elaborazione artistica (visiva, architettonica, narrativa, cinematografica), fondendo l’approccio storico con quelli degli studi memoriali e della cultura visuale. Gennaro Postiglione Professore Associato in Architettura degli Interni e Allestimento presso il Politecnico di Milano (www.lablog. org.uk). Le sue ricerche si focalizzano prevalentemente sugli interni domestici, sulla museografia e sul rapporto tra memoria collettiva e identità culturale. È promotore dal 2006 del gruppo di lavoro PUBLICARCHITECTURE@POLIMI che mette le risorse dell’architettura al servizio dell’interesse pubblico. Ricerche in corso: Conflict Archaeologies - possibili museografie per le eredità dei conflitti del Novecento (www.recall-dow.eu); European Museums in an Age of Migrations – “l’europeizzazione” dell’Europa e l’ibridazione delle culture come agenda necessaria nella ridefinizione del Museum complex (www.mela-project.eu). Clelia Pozzi Clelia Pozzi è dottoranda in Architectural History and Theory alla Princeton University. Ha conseguito una Laurea Specialistica in Architettura al Politecnico di Milano e un Master in Design Studies in History and Philosophy of Design alla Harvard Graduate School of Design. È stata recentemente ricercatrice associata al Politecnico di Milano, dove ha collaborato al progetto Europeo MeLa—European Museums in an Age of Migrations con una ricerca sui musei nazionali nell’età della migrazione e co-editando il volume Museums in an Age of Migrations: Questions, Challenges, Perspectives. Prima di collaborare a MeLa, Clelia ha lavorato come architetto in diversi studi milanesi ed è stata Agnes Mongan Curatorial Intern presso l’Harvard Art Museum/ Busch-Reisinger Museum di Cambridge, MA. Ha ricevuto il Dimitris Pikionis Award 2011 dalla Harvard Graduate School of Design, e il Premio Pier Daniele 445
group of the Architectural Design Department (DPA) of the Politecnico di Milano which, on behalf of the Lombardy Region, she has worked on the inventory of the First World War monuments built in Brescia, Milano and Monza Brianza provinces. In this context, she studied the military cemeteries and shrines. Niko Rollmann Niko Rollmann was born in 1971 in Germany, spending his youth in Hamburg and London. Having read History and Politics at London’s Queen Mary College and Berlin’s Humboldt University, he started working in the field of adult education. Currently, he is the director of Berlin’s “Robert-Tillmanns-Haus” educational facility and also works as a freelance writer/historian. His main fields of study are subterranean historical architecture, bunkers, cultural memory and 20th century German history. In 2007, he was awarded an “Innovation in Adult Education” prize by the German Institute of Adult Education for his seminar on the history of Berlin’s underground architecture. Giulio Testori Ph. D. candidate in ‘Villard d’Honnecourt’ International Doctorate in Architecture. He’s focusing his research thesis on the relationship between wars and landscapes in Europe. He graduated in 2007 in Architecture with a graduation thesis on the central archaeological area of Roma (thesis director A. Ferlenga). Since 2007 He is a tutor for some workshops involved on the relationship among architecture and archaeologies and from 2011 He is a collaborator of the research unit Architettura, archeologia, paesaggi: Teatri di Guerra, Università Iuav di Venezia. In 2008 He worked for Piero Sartogo Architects in Roma on international contests and projects development. He graduated in 2004 in Heritage Conservation (Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali) and from 2003 to 2007 He collaborated with Soprintendenza di Venezia for some building restorations. Elisabetta Terragni Elisabetta Terragni (Studio Terragni Architetti,) is working on projects of repurposing abandoned infrastructures and on the conversion of degraded and neglected areas to new public use. A transatlantic team, based in Italy and the USA, has been formed by Elisabetta Terragni (Studio Terragni Architetti; Installation and Architecture), Jeffrey T. Schnapp, (Meta Lab(at) Harvard; Curator- in-Chief ); Daniele Ledda xy comm (Graphics); plus a team of collaborators from partner museums and technical consultants in the areas of sound, lighting, and stage design. Emails, Skype, Twitter, Facebook and Second Life are some of the channels of collaboration employed to fill the gaps between 446
Melegari 2008 dall’Accademia Lombarda di Scienze e Lettere. Monica Resmini Dottore di ricerca in Storia dell’architettura presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e professore a contratto in Storia dell’architettura antica e moderna presso il Politecnico di Milano. Titolare di un assegno di ricerca relativo a “Paesaggi alpini tra storia e memoria, percorsi di pace e di guerra.” Oggetto di studio sono le testimonianze culturali e materiali della Grande Guerra in Lombardia, esaminate attraverso ricerche presso gli archivi militari italiani. Membro del gruppo di ricerca del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura che, per conto della Regione Lombardia, si è occupato del censimento dei monumenti ai Caduti della Prima Guerra Mondiale costruiti nelle province di Brescia, Milano, Monza Brianza. In questo ambito ha studiato i cimiteri e sacrari militari. Niko Rollmann Niko Rollmann è nato nel 1971 in Germania, e ha trascorso la sua giovinezza ad Amburgo e Londra. Dopo aver insegnato Storia e Politica al Queen Mary College di Londra e presso la Humboldt University di Berlino, ha iniziato a lavorare nel campo dell’insegnamento per gli adulti. Attualmente è il direttore della “Robert-Tillmanns-Haus” di Berlino e lavora come scrittore/storico free-lance. I suoi principali campi di interesse sono l’architettura storica sotterranea, i bunker, la memoria culturale e la storia tedesca del XX secolo. Nel 2007 è stato insignito del premio “Innovazione nell’insegnamento per gli adulti” dall’Istituto tedesco di insegnamento per gli adulti per il suo seminario sulla storia dell’architettura sotterranea di Berlino. Giulio Testori Dottorando presso il programma internazionale ‘Villard d’Honnecourt’ dell’Università IUAV di Venezia. Tema della ricerca è il rapporto tra paesaggio e guerra in Europa. Si laurea nel 2007 in Architettura con una tesi su “Roma, L’area archeologica centrale, idee, trasformazioni e frammenti di progetto,” relatore prof. A. Ferlenga. Dal 2007 collabora alla didattica all’interno di alcuni workshop sul rapporto tra architettura e archeologia e dal 2011 fa parte del gruppo di ricerca Architettura, archeologia, paesaggi: Teatri di Guerra (IUAV). Nel 2008 ha collaborato presso lo studio Sartogo Architetti Associati di Roma, lavorando allo sviluppo del progetto esecutivo della nuova sede della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna e su concorsi. Nel 2004 si laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali e dal 2003 al 2007 ha lavorato con la Soprintendenza di Venezia sul restauro di alcuni monumenti.
face-to-face- meetings. Terragni is an associate professor at the City University of New York. She regularly collaborates with emerging teams of architects and designers in the U.S. and Italy. Her work has been included in the Exhibition Recycle at the MAXXI Museum, Rome (2011-12). English translation: Ilaria Parini
Elisabetta Terragni Elisabetta Terragni (Studio Terragni Architetti) lavora a progetti di riuso e riconversione di infrastrutture abbandonate in luoghi di uso collettivo. Un team internazionale formato da Elisabetta Terragni (Studio Terragni Architetti; Installazioni e Architettura), Jeffrey T. Schnapp, (Meta Lab(at) Harvard (Curatore); Daniele Ledda xy comm ( Grafica); lavora tra gli Stati Uniti e l’Italia insieme a collaboratori e specialisti per l’acustica, l’illuminazione e la scenografia. Emails, Skype, Twitter, Facebook and Second Life sono alcuni dei mezzi utilizzati per colmare le distanze e assorbire differenze di fuso orario. Terragni e’ Professore Associato alla City University of New York. Collabora regolarmente con team di ricerca in architettura e design in Italia e negli Stati Uniti. Il suo lavoro è stato incluso nella mostra Re-Cycle Strategie per l’Architettura la Citta’ e il Pianeta, al Maxxi di Roma (2011-12).
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Finito di stampare nel mese di Giugno 2013 per conto di LetteraVentidue Edizioni S.r.l. presso lo Stabilimento Tipolitografico Priulla S.r.l. (Palermo)