Ravenna festival magazine 2018

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Ravenna Festival Magazine

ISSN 2499-0221

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Edizione 2018 la rivista ufficiale del

EDIZIONI E COMUNICAZIONE

WE HAVE A DREAM IL VIAGGIo DELL’AMICIzIA A KIEV RINNoVA IL SoGNo DELLA MUSICA CHE UNISCE PoPoLI E CULTURE

E con il Macbeth, sul podio dell’orchestra del Maggio Fiorentino, Riccardo Muti festeggia i 50 anni di una straordinaria carriera artistica

all’interno

Edizione 2018

Musica classica e contemporanea: dirigono Marshall, Gergiev, Davis, Fray, Conlon • Concerti di The Sixteen, Accademia Bizantina, Simply Quartet, Duo Gazzana • Danza contemporanea da Bill T. Jones a Emio Greco. Roberto Bolle & Friends • Musical: Kiss me, Kate di Cole Porter • Fra pop e jazz, David Byrne, 100 chitarre elettriche, Bollani, Ute Lemper e omaggio a Lucio Battisti • Nuove drammaturgie con Franco Branciaroli, Albe, Fanny & Alexander, Bucci e Sgrosso, Nerval Teatro Including English abstracts of articles


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Sommario Ravenna Festival Magazine 2018

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We have a dream Viaggio dell’amicizia a Kiev • Nelle vene dell’America Il canto ritrovato della cetra • I sing the body electric

Sogni e bisogni Rinascite dopo tragedie e oppressioni L’aspirazione di riscatto affidata ad arte e poesia

Lotte di liberazione e diritti civili La testimonianza di Angela Davis ............................................................da pag. 13

Canzoni e paesaggi On the road again Qualche nota sulle lyrics di Bob Dylan ............................................................da pag. 27

Sinfonie Quel doppio genio di Bernstein Omaggio al grande artista americano nei concerti diretti da Marshall, Davies e Conlon Tendenza all’assoluto di Valerij Gergiev ............................................................da pag. 34

Viaggi dell’Amicizia Muti missione Kiev Doppio concerto in Ucraina e a Ravenna nel segno della fratellanza attraverso la musica Omaggio a Valentin Silvestrov Partecipazione straordinaria di John Malkovich ............................................................da pag. 40

Anniversari Dal Macbeth di Verdi a Paganini Il maestro Muti festeggia il sodalizio col Maggio Fiorentino e cinquanta anni di carriera magistrale Omaggio al violinista Ruggiero Ricci ............................................................da pag. 46

Note meditative Voci mistiche e remote armonie Musica sacra, antica e da camera dal barocco al contemporaneo ............................................................da pag. 49

Musica e spiritualità Il canto ritrovato della cetra Il senso della libertà fra arte e potere ............................................................da pag. 58

Stile Broadway Torna in scena Kiss me, Kate! Il musical capolavoro di Cole Porter ............................................................da pag. 68

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Sommario Ravenna Festival Magazine 2018

Sulle corde I sing the body electric Quattro giorni e cento musicisti all’insegna della chitarra elettrica ............................................................da pag. 73

Jazz, Pop, Avanguardia Dalle canzoni d’autore al minimalismo David Byrne, Terry Riley, Stefano Bollani, Ute Lemper, Orchestra di Piazza Vittorio e un omaggio ai successi di Lucio Battisti ............................................................da pag. 81

Visioni in ballo Danze classiche e contemporanee Dal galà di Bolle & Friends al progetto Ric.Ci passando per Emio Greco e Bill T. Jones ............................................................da pag. 93

Nuove drammaturgie

FORLÌ Via G. Regnoli 33 Tel. 0543 1771113 La Granadilla Forlì Aperto tutti i giorni dalle 9 alle 19 Mercoledì aperto fino alle 22 con Aperitivo-Cena Sabato dalle 9 alle 15 Chiuso la domenica

L’intimità, il dolore, la follia In scena Fanny&Alexander, Teatro delle Albe, Franco Branciaroli, Nerval Teatro, Bucci e Sgrosso ..........................................................da pag. 104

Immaginario Sguardi diversi sull’America Dall’arte di impegno civile degli anni 60/70 ai diari fotografici di Alessandra Dragoni ..........................................................da pag. 116

Genius Loci

www.lagranadilla.it

San Giacomo ex chiesa palcoscenico A Forlì un poliedrico spazio culturale nello storico complesso di San Domenico ..........................................................da pag. 126

Cartellone e informazioni ..........................................................da pag. 129

Ravenna Festival Magazine

RIVISTA UFFICIALE DEL RAVENNA FESTIVAL

FAENZA Via Marescalchi 13/15 Tel. 0546 680565 La Granadilla Aperto tutti i giorni dalle 9 alle 19 Martedì aperto fino alle 22 con Aperitivo-Cena Giovedì dalle 9 alle 15 Chiuso la domenica

Autorizz. Tribunale di Ravenna n. 1426 del 9-2-2016

DIRETTORE RESPONSABILE: Fausto Piazza In redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Serena Garzanti, Luca Manservisi Maria Cristina Giovannini (grafica senior), Gianluca Achilli (grafica). Collaboratori: Erica Baldini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Matteo Cavezzali, Francesco Della Torre, Anna De Lutiis, Bruno Dorella, Francesco Farabegoli, Enrico Gramigna, Simona Guandalini, Linda Landi, Marina Mannucci, Serena Simoni, Attilia Tartagni, Roberto Valentino. La rivista è realizzata in collaborazione con la Direzione del Ravenna Festival. Si ringraziano in particolare Fabio Ricci, Giovanni Trabalza, Stefano Bondi, Giorgia Orioli. Referenze fotografiche: Tom Arber, Alberto Calcinai, Jenny Carboni, Piero Casadei, Daniele Casadio, Alessandra Dragoni, Umberto Favretto, Enrico Fedrigoli, Fabrizio Fenucci, Giovanni Gestal, Getty Images, Evandro Inetti, Emra Islek, Silvia Lelli, Roberto Masotti, Attilio Marasco, Maurizio Montanari, A. Poiana, Eleonora Rapezzi, Dale Smith, Mario Spada, Arnaud Stephenson, Andrej Tarkovskij, Liza Voll, Susan Wides, Wikipedia Commons, Fabrizio Zani (e altri non rintracciati che si ringrazia). In copertina una foto del Maestro Riccardo Muti di Silvia Lelli Editore: Edizioni e Comunicazione srl - www.reclam.ra.it Viale della Lirica 43 - 48121 Ravenna. Tel. 0544 408312. DIREZIONE GENERALE: Claudia Cuppi STAMPA: Grafiche Baroncini srl - Sede di Imola (BO)

Per i mesi di luglio e agosto i locali saranno aperti dalle 9 alle 15 ad eccezione dei giorni dell’Aperitivo-Cena

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istituzioni

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Riflessioni e progetti nelle parole del sindaco Michele De Pascale, presidente di Ravenna Manifestazioni

Un futuro in musica nella città del Festival

DI CHIARA BISSI

Eletto nel dicembre 2017 alla guida dell’organo di indirizzo politico amministrativo di Ravenna Manifestazioni, il sindaco Michele De Pascale siede nel consiglio di amministrazione con il vicepresidente Mario Salvagiani e i consiglieri Livia Zaccagnini, Giuseppe Alfieri e Davide Ranalli. La nomina arriva dopo la modifica dello statuto della fondazione che definisce e specifica le responsabilità nella gestione delle attività di produzione e promozione culturale, rafforzando il ruolo politico del primo cittadino distinto dalle scelte artistiche. Il Comune con voto del consiglio comunale ha adottato uno schema di convenzione che individua nella fondazione lo strumento per la realizzazione di una sorta progetto culturale di natura teatrale e musicale che riconosca nel Teatro Alighieri un’unità di produzione e un centro di relazioni e collaborazioni locali, nazionali e internazionali. Il Teatro Alighieri infatti è il luogo di produzione e rappresentazione dei cartelloni di Ravenna Festival, della Trilogia d’Autunno e delle stagione di lirica e balletto, ma è anche a disposizione per 120 giornate di progetti culturali di altri soggetti convenzionati con il Comune. La fondazione è chiamata almeno una volta all’anno ad impegnarsi in una coproduzione con uno dei soggetti culturali convenzionati per garantire linfa alle tante energie presenti in città. Della nuova architettura istituzionale costruita per reggere le sfide del futuro e di molto altro parla direttamente il sindaco Michele De Pascale mentre si alza il sipario sull’edizione 2018 di Ravenna festival. La promozione di attività culturali e la valorizzazione del patrimonio storico monumentale sono vocazioni obbligate per Ravenna, ma l'ambito musicale e gli enti teatrali italiani hanno subito nel tempo forti contrazioni delle

La Fondazione

Nuovo statuto, assetto, nomine per Ravenna Manifestazioni Il 2018 ha segnato un’evoluzione istituzionale della Fondazione Ravenna Manifestazioni a cui fa capo il Ravenna Festival. Dopo trent'anni è stato infatti rinnovato lo Statuto della Fondazione, la cui prima stesura risaliva al 1987, per adeguare l'organismo di gestione sia alle mutate normative che alle nuove esigenze di direzione e programmazione culturale. Così il nuovo assetto allinea Ravenna Manifestazioni ad altri enti simili a livello regionale e nazionale. L'attuale organigramma dell'ente è oggi costituito da un cda formato dal sindaco Michele De Pascale (presidente), Mario Salvagiani (vicepresidente), Livia Zaccagnini, Giuseppe Alfieri e Davide Ranalli (consiglieri). Il sovrintendente è Antonio De Rosa (nella foto). Nei ruoli ausiliari al cda sono insediati: Marcello Natali (segretario generale), Roberto Cimatti (responsabile amministrativo), Giovanni Nonni, Mario Bacigalupo, Angelo Lo Rizzo (revisori dei conti). Gli attuali soci della Fondazione sono: Comune di Ravenna, Provincia di Ravenna, Camera di Commercio, Fondazione Cassa di Risparmio, Confindustria, Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato, Arcidiocesi, Fondazione Arturo Toscanini.

risorse, allora la città come può preservare il proprio impegno a favore della musica? «La valorizzazione della musica e del teatro per Ravenna sono elementi identitari. Naturalmente il nostro costante impegno è perché si metta in campo in questo senso un’azione di incremento delle risorse a livello locale, nazionale e internazionale; in ogni caso la nostra città continuerà sempre ad investire. Va comunque detto che negli ultimi anni la capacità e la grande qualità dell’offerta del Festival sono state in grado di incrementare le fonti di finanziamento anche a livello nazionale. In questa direzione sempre di più vanno promossi e sviluppati strumenti come l’art bonus in grado di >>


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istituzioni Ravenna Festival Magazine 2018

incentivare e stimolare le imprese a investire in cultura».

«Come il principale Festival musicale del nostro paese».

Con la recente modifica dello statuto cosa è cambiato nel rapporto fra Comune e Ravenna Manifestazioni e che ruolo ha il sindaco come presidente? «Se possibile il rapporto tra Comune e Fondazione è ancora più forte e stiamo sviluppando molte nuove sinergie. Il ruolo del sindaco e presidente è quello di rappresentare la Fondazione a livello locale e nazionale, di adoperarsi perché vi siano tutte le condizioni sociali ed economiche perché ne possano essere incrementate le azioni, creare relazioni con tutti gli altri soggetti dell’offerta culturale e tenersi lontano quanto più possibile dalle scelte di direzione artistica, che devono essere totalmente libere e in capo ai grandissimi professionisti di cui la Fondazione dispone».

Le stagioni nei mesi invernali, ma soprattutto il festival in estate e la Trilogia d'Autunno ampliano anche in termini turistici l'offerta della città. Quali strumenti è possibile mettere in campo per aumentare flussi e presenze di qualità? «Il turismo culturale è la grande frontiera del futuro, ce lo confermano anche i dati sulle presenze nella città d’arte che registrano un trend molto positivo. La capacità di attirare un turismo colto e amante dell’arte, rendendo la nostra città una tappa importante anche per chi visita classiche mete culturali come Firenze e Venezia, tiene insieme il nostro patrimonio con la nostra offerta di spettacolo dal vivo. Il nostro teatro è un vulcano di attività durante tutto l’anno, il Festival rende unica l’estate ravennate con un tripudio di eventi. La Trilogia è intervenuta in una stagione inconsueta e da quel momento il nostro autunno è cambiato radicalmente, tant’è che anche l’amministrazione ha deciso di collocare le grandi mostre in questo periodo. Il rapporto con il Festival è in continua evoluzione, proprio di recente gli ho affidato una sfida in stile “mission impossible” di cui avremo modo di parlare presto…». m

Il teatro Alighieri è il fulcro delle attività culturali e delle produzioni di Ravenna Manifestazioni che peso pensa dovrebbe avere nel contesto nazionale e internazionale e con le energie della città? «Il teatro Alighieri è ormai riconosciuto come uno dei più importati teatri italiani che durante l’anno sa trasformarsi e cambiare veste tantissime volte, dalla danza al contemporaneo, alla prosa, alle stagioni di opera, agli eventi del Festival, al jazz, ai tantissimi momenti della città che trovano nel teatro la loro casa. Uno spazio dei ravennati nel quale ogni anno si esibiscono i migliori artisti del mondo». Il rapporto fra la città e il Ravenna Festival è stato spesso oggetto di dibattito, cosa ne pensa? «Il Ravenna Festival non potrebbe esistere senza la nostra meravigliosa città, ma va detto che dopo quasi trent’anni, Ravenna non sarebbe più la stessa senza il suo Festival che ha saputo cambiarne il volto, renderla una città più aperta e internazionale e che è stato in grado anche di modificare alcuni tratti del nostro carattere un poco riservato, abbattendo quei muri che a volte vengono artificiosamente costruiti tra locale e internazionale e tra tradizione e contemporaneità». Come immagina Ravenna festival tra dieci anni?

In alto, il sindaco di Ravenna Michele De Pascale (nella pagina precedente, ritratto con la presidente del Festival Cristina Mazzavillani Muti) Qui a fianco, il Teatro Alighieri prima dell’inizio di uno spettacolo

The Mayor and President of Ravenna Manifestazioni: «A Musical Future for Festival’s Homeland» The mayor of Ravenna Michele De Pascale is the President of the Board of Directors of the foundation Ravenna Manifestazione which has the task to organize a musical and theatrical project through Teatro Alighieri, a centre of local, national and international cooperation and production. «The enhancement of music and theatre is part of the identity of Ravenna – says the Mayor in the interview on this subject. – Our town will keep on investing on this. My role in the Foundation is creating relationships for the cultural growth of the town without interfering with artistic direction. As a matter of fact, Teatro Alighieri is one of the most important Italian theatres as it changes and transforms itself many times during the year, going from ballet to contemporary theatre, from opera to jazz». About the strict relationship

between Ravenna and the Festival he underlines: «The Festival could not exist without our wonderful town, but after thirty years, Ravenna would not be the same without the Festival. It has knocked down walls between local and international artists and between tradition and innovation. I think in ten years it will be the most important music Festival in Italy». Ravenna Festival is also important for cultural tourism which, according to De Pascale, represents «future» for this economic field. «Our theater is a volcano of activities during all year long, Ravenna Festival makes our summer unique and the Autumn trilogy has transformed a season that had never been a touristic period, before. That is also why we are now organizing also big exposition events in those months».


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«We have a dream» La rinascita di ogni popolo afflitto da tragedie e oppressioni Un'aspirazione di riscatto affidata a musica, arte e poesia DI ANNA DE LUTIIS

“We Have a Dream” è il titolo della XXIX edizione di Ravenna Festival. È immediato il collegamento con le parole di Martin Luther King, pronunciate nel discorso il 28 agosto 1963: Martin Luther King saluta la folla convenuta al Lincoln Memorial, durante la Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà. «Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro Paese. Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia». Iniziò così ma si rese subito conto che non occorrevano lunghi discorsi ma parole che facessero da sintesi al desiderio del popolo dei neri. Accanto a lui Mahalia Jackson, la grande cantante gospel che aveva aperto la manifestazione, gli urlò: «Parla del sogno, Martin! Parla del sogno!». E le parole suonarono pesanti come macigni, universali come il desiderio di ogni uomo: “I have a Dream”. Sono passati cinquant’anni e ancora oggi vengono ripetute in America e in tutto il mondo. Con

Martin Luther King al Lincoln Memorial saluta la folla durante la marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà, nell’agosto del 1963. Fu in quell’occasione che il reverendo pronuncio il discorso segnato dal memorabile “I have a dream”. In basso, la nipote di Martin Luther King, Yolanda Renee; schiavi di colore nelle piantagioni di cotone del Sud degli Stati Uniti; un dipinto di Gustave Boulanger sul mercato degli schiavi

un discorso spontaneo Martin aveva espresso il desiderio del “suo” popolo, riassumibile in tre parole: All, Here, Now, vogliamo tutto, qui, ora. Cinquanta anni dopo il suo assassinio avvenuto nel 1968, la nipote di Martin Luther King, Yolanda Renee, 9 anni, è salita a sorpresa sul palco della marcia per il controllo delle armi a Washington, nel mese di marzo 2018, e ha citato Martin dicendo: «Mio nonno aveva un sogno, che i suoi quattro figli non fossero giudicati per il colore della loro pelle ma per il loro carattere. Io ho

un sogno che questo sia un mondo senza armi. Spargete la voce in tutto il paese, noi saremo una grande generazione». La frase di Martin, “I have a dream”, ha fatto il giro del mondo, è stata protagonista di tanti momenti, in paesi diversi, perché la sete di uguaglianza e libertà non ha confini. Era già nelle menti e nei cuori dei neri d’America, ma allora era un sogno lontano perché era ancora incombente il ricordo di quando erano trasportati in catene dall’Africa e venduti al migliore offerente che diventava padrone dei loro corpi e

delle loro vite. Nei campi di cotone cercavano di dimenticare il loro destino aiutandosi con il canto. “Nelle vene dell’America” è uno dei temi che Ravenna Festival intende declinare, percorsi di un canto, di una musica che si è sviluppata a partire dal ‘700. Una orgogliosa storia di riscatto, che comincia nei campi di cotone della Virginia e finisce per correre lungo le strade di Detroit. Una lunga battaglia per il riconoscimento di diritti tanto fondamentali da essere, oggi, dati per scontati, quando in realtà sono stati conquista recente, pagata a caro prezzo. Il movimento di emancipazione degli afroamericani è stato accompagnato, nel suo secolare processo, dalla Black Music. Una ideale colonna sonora, tutta da scoprire con brani che richiamano il “lamento nero” del blues, quello nato lungo le sponde del Mississippi ma che si è espressa in disparati generi musicali in gran parte nati negli Sati Uniti. Infatti per musica afroamericana, chiamata per l’appunto black music, e un tempo nota come race music, si intende un termine usato per una varietà di generi musicali derivanti o influenzati dalla cultura degli afroamericani – dagli Spiritual ai Gospel, dal Blues al Jazz, allo Swing, dal Blues al Rock, dal Rhythm and blues al Soul fino al Funk, Rap e Reggae – che per molto tempo sono stati una minoranza etnica rispetto alla popolazione degli Stati Uniti. >>


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Le prime versioni, quelle cantate dagli schiavi, erano ancora tipiche canzoni polifoniche, retaggio di centinaia di gruppi etnici dell’Africa occidentale e sub-Sahariana ed esprimevano concetti semplici e disperati: Jump down, turn around, pick a bale of cotton / Jump down, turn around, pick a bale a day / Oh Lordy, pick a bale of cotton / Oh Lordy, pick a bale a day. Salta giù, gira attorno, raccogli una balla di cotone / Salta giù, gira attorno, raccogli una balla al giorno / Oh Signore, raccogli una balla di cotone / Oh Signore, raccogli una balla al giorno In alto, da sinistra, Michael Jackson e Lionel Richie; Whitney Houston; Joan Baez; Qui sopra: un dipinto di J. W. Waterhouse dedicato al racconto del Decamerone di Giovanni Boccaccio, e sotto, un ritratto di Dante Alighieri del pittore Alberto Sughi. Entrambi i poeti, Boccaccio e Dante, scrissero i loro capolavori durante una fase estremamente traumatica della loro vita: la peste e l’esilio. Sotto, a sinistra, un libro mastro della vedndita degli schiavi in America.

Sono i work-songs, caratterizzati da un solista, che intonava il brano e ne cantava le varie strofe, ed il coro che rispondeva con una breve frase ad ogni strofa del solista, simili ai canti

delle nostre mondine nelle risaie. Dall’incontro degli schiavi con il cristianesimo nacquero gli spirituals, in seguito nacquero anche i gospels o “canti del Vangelo”, anch’essi di argomento sacro. A differenza degli spirituals, molto lenti, i gospels assunsero un ritmo più veloce, più ritmato. Molte musiche sono cambiate da quel lontano 1963. “We shall overcome” – noi ci riusciremo – è l’inno del movimento guidato da Martin Luther King, ma ben presto diventa l’inno di ogni protesta. È stato l’inno della rivoluzione di velluto a Praga, l’inno degli studenti spagnoli contro la dittatura franchista. Dal ‘63, nei decenni successivi, grandi musicisti, cantautori, cantanti, hanno sposato il tema dei diritti civili per i neri e furono scritte le più belle canzoni che i giovani hanno adottato quale manifesto di ribellione e desiderio di giustizia, non solo per i neri. Bob Dylan ha cantato “Blowin’ in the wind” How many roads must a man walk down / before you can call him a man? / The answer, my friend, is blowin’ in the wind Quante strade dovrà percorrere l’uomo / Prima di essere considerate Uomo? / La risposta, amico mio, è nel vento. mentre Joan Baez raccontava la disperazione di un destino segnato all’origine, una vita distrutta dalla fatica, con “All my trials” Hush little baby, don’t you cry, / You know your mother was born to die / All my trials, Lord, soon be over Taci, piccolo, non piangere, / Sai che tua madre è nata per morire / Tutte le mie sofferenze, Signore, presto finiranno. >>


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Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta gli artisti di maggior successo del periodo che salirono alla ribalta sono stati afroamericani come Michael Jackson, Prince, Whitney Houston e Lionel Richie, provenienti da gruppi o debuttanti già come solisti, fautori di un altro genere, l’Electronic dance music, che mescolava elementi Bubblegum pop alla Disco, alla House, al Synthpop e alla New Wave chiamato Dance pop, che diede origine al New Jack Swing nella seconda metà del decennio. Ma la black music nell’immaginario collettivo è quella suonata lungo le sponde del Mississippi, l’atmosfera che, come sottolinea Franco Masotti, direttore artistico di Ravenna Festival, si cercherà di ricreare anche lungo il delta del Po. Scrive Sherwood Anderson nel romanzo Dark laughter (Riso nero):«Il grosso fiume lento che striscia giù per una immensa valle tra montagne lontane… I negri che cantano, negri che ballano, negri che portano pesi sul capo, negre che fanno bambini, mezzo bianchi i bambini».

Possiamo affermare, dunque, che anche da situazioni drammatiche può nascere la bellezza, nella poesia, nella musica e anche la cetra, arcaico strumento simbolo dell’armonia, può ritrovare la sua voce, come suggerisce l’altro tema che declina il titolo della XXIX edizione del Ravenna Festival. Lo sottolinea la presidente della manifestazione Cristina Mazzavillani Muti: «Si può riemergere dopo aver “toccato il fondo”, seguendo lo spiraglio di luce che fa sperare nel futuro. Allora si tornerà ad ascoltare il canto della cetra, un canto ritrovato, per superare le sconfitte della vita». Prima bisogna superare dolore e sconfitte altrimenti non accadrà. Ce lo conferma Quasimodo: E come potevano noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore. Anche Sebastiana Nobili, nel libro La consolazione della Letteratura, dimostra che due grandi capolavori come la Divina Commedia di Dante Alighieri e il Decamerone di Boccaccio, nascono rispettivamente da un trauma: per Dante il dolore dell’esilio, per Boccaccio la


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peste; entrambi attingono al potere consolatorio della parola. Nei momenti più difficili, quando le circostanze tendono a distruggere la dignità umana ci si aggrappa a qualcosa di più spirituale. Ce lo racconta Primo Levi nel libro Se questo è un uomo, quando per evadere dalla durezza dei lavori nel lager nazista cerca nella sua memoria il canto di Ulisse, dall’Inferno dantesco: Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e canoscenza. E l’argomento diventa anche momento di condivisione con altri prigionieri e di sollievo. Se Levi cercava di evadere dall’orrore con i versi di Dante, molti musicisti, anch’essi prigionieri nei diversi campi di sterminio, riuscirono a non dividersi dalla loro musica, continuando a scriverla con ogni mezzo, su qualsiasi pezzo di

carta o di stoffa capitasse nelle loro mani. È stata la scoperta di Francesco Lotoro che in questi anni ha cercato, trascritto ed eseguito in concerto con la sua Orchestra di Musica Concentrazionaria le partiture composte dagli internati nei campi di concentramento della seconda Guerra mondiale, uomini e artisti di diverse origini e un repertorio enorme di melodie, canzoni, sinfonie, concerti, creati da ebrei, zingari, prigionieri politici, soldati e ufficiali francesi, russi, polacchi, olandesi, belgi, inglesi, italiani, e perfino militari americani bianchi e neri con i loro ritmi blues. Musicisti che componevano mentre il mondo intorno a loro era una prigione dalla quale la maggior parte non uscirono vivi. Dunque gli orrori della guerra, ieri come oggi, la schiavitù >>

A sinistra, in alto, festa per la caduta del muro di Berlino; in basso, una veduta del sito di Palmira, oggi semi devastato dal conflitto in Siria. In questa pagina, sopra, un quartiere di Aleppo ridotto in macerie dalla guerra; qui sotto, su un muro della città siriana i versi del poeta Nizar Qabbani

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generata dalla dittatura, non riescono ad annullare la libertà dello spirito che esplode infrangendo ogni barriera. Non una cetra ma una possente orchestra festeggiò la caduta del muro di Berlino, quando il 25 dicembre del 1989 il grande maestro Leonard Bernstein, eseguì l’Inno alla gioia che oggi rappresenta la colonna sonora dell’Europa unita. Ed è la musica, ancora una volta, a scaturire dalle macerie: Giovanni Allevi ha appena presentato il brano musicale No words, composto il 24 agosto 2016 ad Ascoli Piceno, la mattina dopo la terribile scossa di terremoto che ha cancellato centinaia di vite e raso al suolo diversi paesi a pochi chilometri da dove l’artista si trovava con la sua famiglia. «L’ho scritto per sfogare quel dolore perché sono state colpite anche persone che conoscevo ed anche perché non si

smetta mai di porre l’attenzione sul problema del terremoto e dei terremotati». Per raccontare un dramma come questo, quando non ci sono parole, no words, c’è la musica. Sarà anche per la Siria, martoriata, parzialmente distrutta nelle sue bellezze che parlano di antiche civiltà, a ritrovare l’armonia della vita nella musica e nella poesia? Chi ha avuto la fortuna di vedere Palmira nel suo splendore, nella luce del tramonto, quando i media hanno mostrato l’abbattimento di parte dei suoi monumenti, ha provato una grande angoscia. Sempre in Siria, ad Aleppo quasi totalmente distrutta, poche settimane fa, il mondo ha conosciuto i versi di uno fra i più grandi poeti in lingua araba del secolo scorso, Nizar Qabbani, perché qualcuno li ha scritti con inchiostro rosso su un muro di Aleppo Est, prima di

essere costretto a fuggire: Amami... lontano dalla terra della repressione, lontano dalla nostra città sazia di morte e segue la data di Aleppo assediata, ultimo giorno 15/12/2016. Il poeta, nato a Damasco nel 1923, ha sempre cantato, le donne e la sua terra: È dall’infanzia che cerco / di raffigurare il mio paese. / Ho disegnato case / ho disegnato tetti / ho disegnato volti. / E minareti dorati ho disegnato/ e strade deserte / dove sdraiarsi per lenire la stanchezza. / Ho disegnato una terra chiamata metafora, / la terra degli arabi. La voce della poetessa Maram-al Masri, nata a Lattakia, sulle rive del Mediterraneo (ma vive a Parigi), affronta concretamente un problema ad oggi irrisolto: Le donne come me / non sanno parlare; / la parola le rimane / di

Da sinistra, il poeta siriano Nizar Qabbani e la potessa, anch’essa siriana ma parigina d’azione Maram-al Masri. Lo studioso e compositore Francesco Lotoro che ha scoperto e trascritto una serie di brani e canzoni creati da musicisti internati nei lager nazisti

traverso in gola come una lisca / che preferiscono inghiottire. / Le donne come me / sanno soltanto piangere / a lacrime restie / che improvvisamente / rompono e sgorgano / come una vena tagliata. Ogni angolo del mondo è stato e continua ad essere teatro di tragedie per questo ci si augura che il sogno di ogni uomo, lo stesso di Martin Luther King, possa realizzarsi e che il mondo possa vivere in pace, come un unico popolo, un unico mondo, “All the world will live as one” come cantava John Lennon nella sua celebre canzone Imagine. m

The Dream of Peoples who are going through a Tragedy: a Possible Redemption through Music and Poetry “We have a dream” is the title of the XXIX edition of Ravenna Festival. The connection to Martin Luther King's speech on August, 28th 1963 at the Lincoln Memorial is self-evident. Martin's sentence «I have a dream» has been known all over the world, it has been protagonist in many different moments and different countries because thirst for freedom and equality has no borders. At the time, it was a dream far to come true for black people in Usa remembered too well the way they had been brought in chains from Africa and sold as slaves to masters who could decide of their bodies and their lives. In the cotton fields, they sang to try to forget their destiny. “In the veins of America” is one of the themes Ravenna Festival wants to explore, a proud story of ransom that started in Virginia cotton fields and ended up in Detroit streets. The Afro-American people liberation movement has been linked to Black Music through centuries. An ideal soundtrack to be discovered going from rock to pop, from blues to jazz. We have so many different genres sprout from what we call Black Music: Spiritual, Gospels, Jazz, Swing, Rhythm and Blues, Rock and Roll, Soul, Rap and Reggae. At the beginning, their work-songs were character-

ized by a solo voice singing a stanza while the choir would answer with a short sentence, just like it happened in the songs sung by “mondine” (women workers) in Italian rice fields. When slaves met Christianity they developed “spirituals” and later on “gospels”. Music has changed since 1963. “We shall overcome” was the hymn of the movement led by Martin Luther King, but soon became the hymn of any protest. Since 1963 many musicians have shared the battle for human rights, artists like Bob Dylan in his “Blowing in the wind” or Joan Baez in “All my trials”. Between the end of the Seventies and the beginning of the Eighties many Afro-American artists achieved success: Michael Jackson, Prince, Whitney Houston, Lionel Richie. They played Electronic dance music mixing Bubblegum pop, Disco, house, Synthpop and New Wave. New Jack Swing originated from Dance pop. But in public imagination, black music is the one played on Mississippi River, and the artistic director of Ravenna Festival has explained how the Festival will try to recreate that same atmosphere on the delta of the Po River. The lesson we can learn is that beauty can sprout from dramatic situations, as the other theme of

this edition of Ravenna Festival suggests. The examples are explained by Cristina Mazzavillani Muti: Dante would write his Commedia after his exile, Boccaccio would create his Decameron after the plague and Primo Levi told us how musicians kept on composing even inside Nazi prison camps. For years, Francesco Lotoro has been searching, transcribing and playing, with his Orchestra di Musica Concentrazionaria, pieces composed in Nazi camp during Second World War. An enormous amount of melodies, symphonies, songs, concerts that were created by Jews, Gypsies, political prisoners, French soldiers and officers, Russians, Polish, Dutch, English, Italian people and even American black and white soldiers. On December 25th 1989, Bernstein celebrated the Fall of the Berlin Wall playing Beethoven’s Ode to Joy, which has become the European hymn. Giovanni Allevi played at Ascoli Piceno on August 24th 2016, the morning after a terrible earthquake. Will music help also Syria to find an harmony? Any place in the world has been and still is a theater of tragedies, that's why we still hope that every man's dream, Martin Luther King's dream, can come true.


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Tutte le lotte di liberazione dovranno unirsi in una lotta costante e globale per la libertĂ

Angela Davis in un ritratto d’epoca (Getty Image)


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testimonianze Ravenna Festival Magazine 2018

«E quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna e non lo riscriveremo più, a meno che lo ritroviamo un’altra volta» Bertolt Brecht, Vita di Galileo, scena IX

DI MARINA MANNUCCI

Il 30 settembre 2017 Angela Yvonne Davis, attivista e docente universitaria, nel dialogo avuto con la giornalista e filosofa Ida Dominijanni, al Teatro Comunale di Ferrara, durante il Festival di Internazionale, ha affermato che, malgrado le tante difficoltà, i tempi che stiamo vivendo sono entusiasmanti: «Non sappiamo mai quale sarà il risultato delle nostre lotte. Non abbiamo la sfera di cristallo per leggere il futuro. Non abbiamo garanzie. Negli anni sessanta lottavamo per trasformare il mondo in senso rivoluzionario. Ci battevamo per cambiamenti radicali, per cancellare il razzismo, pensavamo che presto il capitalismo sarebbe finito nei musei, avevamo sviluppato una coscienza femminista e volevamo sconfiggere la misoginia. E dove siamo nel 2017? Di sicuro non dove pensavamo che saremmo stati. Ma è molto importante farsi ispirare dal passato, mantenere viva la memoria. Tutte le lotte sono collegate tra loro. Le lotte del passato che non hanno raggiunto i loro obiettivi devono diventare le lotte del futuro. È per questo che oggi combattiamo il razzismo, cerchiamo di liberare il mondo dal sessismo, ci opponiamo al capitalismo. È un bene che le lotte continuino, che passino da una generazione all’altra. Spesso le persone mi chiedono se questo mi deprime, mi chiedono se l’impegno del passato non sia stato vano, e io rispondo di no, che il nostro impegno è stato fondamentale ed è per questo che non lo rimpiangerò mai. Anche perché vedo i ragazzi e le ragazze che oggi hanno ripreso quelle lotte e mi rendo conto che sono molto più capaci di noi, che hanno strumenti intellettuali migliori dei

nostri. E penso che sia un periodo meraviglioso per avere vent’anni. E anche per essere vecchi». Nata a Birmingham in Alabama nel 1944, Angela Davis, una delle principali esponenti del movimento americano per i diritti civili, studiosa di filosofia, allieva di Adorno e di Marcuse, a partire dagli anni Sessanta è stata in prima linea nella lotta degli afroamericani contro il razzismo e la repressione. Dopo l’assassinio di Martin Luther King aderì al partito comunista, si avvicinò al movimento delle Black Panthers e condusse una lunga campagna a sostegno dei detenuti nelle carceri californiane. Nel tempo ha affiancato all’attività politica anche l’insegnamento accademico, ha scritto numerosi saggi di storia sociale e di denuncia politica. Attualmente Angela Davis insegna Storia della Coscienza all’università della California, dove dirige anche il Women Institute. Durante i decenni di “glaciazione” neoliberista, ha continuato a battersi con passione per la libertà. I suoi studi sulle donne, sui lavoratori e sulle persone di colore hanno contribuito a tenere vive, durante i governi di Reagan e di Bush, una prospettiva, un’analisi e una pratica radicali. Nel suo libro, Freedom Is a Constant Struggle (trad. it di Valentina Salvati, La libertà è una lotta costante. Ferguson, la Palestina e le basi per un movimento, a cura di Frank Barat, con una prefazione di Cornel West, Milano, Ponte alle Grazie, 2018), Angela Davis riflette sulla militanza politica, ponendo l’accento su un punto fondamentale: tutte le lotte di liberazione sono interdipendenti, da quelle che prendono a oggetto le discriminazioni di classe, di genere, di razza, in base alla >>

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Sopra: Immagine dal video Free Angela and all political Prisoners, 2012, Lionsgate Home Entertainment’s. Foto per gentile concessione di Angela Davis Sotto: Shepard Fairey, To the Power and Equality, poster, 2007

nazionalità, all’orientamento sessuale o alle abilità fisiche e mentali, fino all’ambientalismo e persino all’animalismo. Il nome di questa idea è complicato, «intersezionalità», ma la sostanza è molto semplice: «è impossibile raccontare davvero quella che si ritiene la propria storia senza conoscere le storie degli altri. E spesso scopriamo che le storie degli altri in definitiva sono le nostre». I meccanismi dell’oppressione, dell’esclusione e dello sfruttamento sono perciò gli stessi, e le lotte possono essere efficaci solo se si uniscono. Tenendo fede alla sua intuizione fondamentale, Davis affronta qui un’ampia gamma di fenomeni, la violenza domestica e di genere, la violenza della polizia statunitense sui neri, le speculazioni delle multinazionali, l’occupazione dei territori palestinesi, la situazione delle carceri e li collega in un vero programma di lotta globale per i diritti essenziali: a un’adeguata alimentazione, all’istruzione, alla salute, alla casa, al lavoro, a

un’esistenza pacifica e dignitosa. In definitiva, alla libertà. Frank Barat, coautore del libro, attivista per i diritti umani, scrive nell’introduzione al volume: «Quando mi è venuta l’idea di pubblicare un libro con Angela Davis, il mio principale intento era che parlassimo della nostra battaglia di attivisti. Che provassimo a definirla in termini reali e concreti. A comprendere cosa significa per le persone che vi prendono parte. Dove e come comincia? Finisce mai? Quali sono i fondamenti essenziali per costruire un movimento? Che significa da un punto di vista materiale, filosofico e psicologico? Ritenevo essenziale discutere con lei di questa lotta, perché Angela rappresenta per me, e per molti altri, una fonte di conoscenza e d’ispirazione, e dobbiamo imparare dalle sue esperienze e avvalerci delle lezioni che offrono, qualunque sia la battaglia che ci vede coinvolti. […] Ci interessava capire come intessere legami con le altre lotte sociali […] Come rendere veramente globale la


MARIANI PASSATELLI PAG RFM:Rafest mastro 08/05/18 18.39 Pagina 1

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lotta, una lotta in cui ciascuno, in ogni angolo del pianeta, si assuma un compito e comprenda il proprio ruolo. […] Angela è la prova vivente del fatto che è possibile sopravvivere, resistere e superare l’enorme forza del potere delle multinazionali e dello Stato che mirano ostinatamente alla distruzione del singolo individuo influente a cui si ispira la solidarietà collettiva. È la prova vivente che il potere del popolo funziona, che un’alternativa è possibile, che lottare può essere bello ed entusiasmante. È qualcosa di cui, in quanto esseri umani, dobbiamo fare esperienza». Angela Davis chiude il suo libro incitandoci a dire no con spiriti concordi, comune intelletto e con i nostri molti corpi perché «le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano». Con il trionfo del pensiero unico, le lotte sociali si sono trasformate in insurrezioni spontanee in cui il tempo storico viene sospeso. Gli Indignados, la “primavera araba” del 2011, il movimento Occupy Wall Street e Occupy Gezi, le esperienze italiane dei NoTav e dei teatri occupati, sono movimenti che hanno rifiutato le deleghe perché il loro obiettivo era la costruzione di una dimensione comune di esistenza.

Sono state esperienze di corpi in rivolta che, nell’essere insieme, hanno creato le condizioni per un nuovo modo di pensare e agire la politica. Nel libro Spartakus. Simbologia della rivolta, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2000, Furio Jesi scrive della rivolta come di un «improvviso scoppio insurrezionale [...] che di per sé non implica una strategia, a differenza della rivoluzione, coordinata e orientata alla presa del potere». Mentre il tempo della rivoluzione è lineare, storico, la rivolta sospende il tempo e instaura «un tempo in

All the Struggles for Freedom will have to Unite in a Constant and Global Struggle In her last book Freedom is a constant struggle the world-renowned activist and scholar Angela Y. Davis underlines the connections between struggles against state violence and oppression throughout history around the world. She stresses the importance of previous struggles, highlights connections and analyzes today's struggles against racism, sexism, capitalism. All struggles are connected including those to fight sexual, economic, racial discriminations and those to defend disabled people's rights, animal rights, or environment. As the mechanism of oppression, exploitation and exclusion are the same, struggles can be successful if they are interconnected. She uses to say that «This is a wonderful period to be twenty, but also to be old». Angela Y. Davis is a political activist, scholar, author, and speaker and today is Distinguished Professor Emerita at the University of California, Santa Cruz and directs the Women Institute. With the advent of the “single thought”, social struggles have become spontaneous uprisings where historical time is suspended. The indignados, Arab Springs, Occupy Wall Street and Occupy Gezi, Italian NoTav movements have refused the instruments of delegation because their aim was to build a common dimension of existence. They have been experiences of rioting bodies that, in being together, have created the conditions for a new way of thinking and acting politics. In contemporary times the action of occupying public spaces, as Federica Castelli explains, becomes an inaugural act to re-found horizontal practices of community.

Angela Davis in una foto recente. Nella foto piccola la copertina del libro di Angela Davis Freedom Is a Constant Struggle, traduzione in italiano di Valentina Salvati (Milano, Ponte alle Grazie, 2018)

cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia». Nell’articolo Non chiamatele rivoluzioni. Spazi urbani e nuove forme della politica, pubblicato sulla rivista on-line “Doppiozero”, Federica Castelli, sempre riguardo alle lotte urbane degli ultimi anni, scrive che si «contraddistinguono per il loro spostamento rispetto all’ottica tradizionale della presa di potere e del percorso istituzionale; non mirano al potere, ma istituiscono nuovi spazi politici […] fuori dalla logica della sovranità […] puntano al mutamento delle pratiche e del simbolico diffuso, disinvestendo di senso la conquista del potere istituzionale e ufficiale». S’impongono sempre più

modalità politiche che puntano a pratiche orizzontali: «I corpi nelle piazze ricreano le condizioni del vivere lo spazio pubblico: dormono e vivono nella piazza, si prendono cura dello spazio attorno a loro e si curano l’uno dell’altro dando vita a relazioni di uguaglianza di cui denunciano l’assenza nell’ambito politico ed economico. Ri-fondano simbolicamente lo spazio pubblico, in un gesto di riappropriazione, risignificazione e potenziamento dello spazio urbano». Nella storia contemporanea, l’azione dell’occupare spazi pubblici, secondo Federica Castelli, s’impone come gesto inaugurale, per rifondare le pratiche delle comunità e «si costituisce come istituzione del comune, realizzando un’alternativa politica e sociale, una città nella città». m


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On the road again

Qualche nota su Bob Dylan

«With no direction home» Bob Dylan, Like a Rolling Stone, da Highway 61 Revisited, 1965

DI ALBERTO GIORGIO CASSANI

Chi non avesse mai letto tutti i testi1 delle canzoni del premio Nobel della letteratura 2016 Bob Dylan, al secolo Robert Allen Zimmerman, potrebbe credere che le lyrics del più grande cantautore della storia trattino principalmente di temi sociali, di pacifismo e di anelito al cambiamento. Costui avrebbe di certo ragione se la maggioranza delle canzoni del folksinger di Duluth (Minnesota) sviluppasse gli argomenti delle celeberrime Blowin’ in the Wind, Masters of

War, A Hard Rain’s A-Gonna Fall e The Times They Are A-Changin’. In realtà, la maggior parte delle canzoni di Dylan tratta di amori infelici, o meglio del ricordo di un amore lontano, perduto e che non può più ritornare (valga per tutte, l’ultima strofa di I Threw It All Away, da Nashville Skyline, Columbia, 1969: «Così, se trovi chi ti dà tutto il suo amore, / prenditelo al cuore, non lasciarlo scappar via, / perché una cosa è certa, / finirai per farti male / se butterai tutto via»). E, in generale, questo tono malinconico pervade anche tutti

gli altri motivi presenti nei testi delle sue canzoni. L’altro grande tema – e gli amori infelici hanno molto a che fare anche con questo – è la strada (street, road, highway). Non c’è da meravigliarsi, dal momento che, fin dalla Beat generation e dal romanzo iconico di questo movimento, On the road di Jack Kerouac (1957), questa infrastruttura – al tempo stesso metafora, simbolo, stile di vita – è stata al centro della cultura americana, fin dalla (sanguinosa) conquista del west. E la ferrovia, nello specifico la First Transcontinental Railroad, completata nel 1869, non è stata che l’anticipazione della leggendaria U.S. Route 66, la capostipite delle highway (strade a carattere nazionale), aperta l’11 novembre 1926, >>

Michael McClure, Bob Dylan e Allen Ginsberg, San Francisco, 1965. © Photo Dale Smith


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canzoni e paesaggi

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che inizialmente collegava Chicago con la spiaggia di Santa Monica in California e resa celebre, appunto, dal romanzo di Kerouac. Le strade conducono a dei luoghi e questi sono protagonisti delle liriche di Dylan, ma più come metafore, come topoi, che come riferimento specifico a una precisa identità locale. Potremmo individuare una serie di questi tropi legati all’universo della spazializzazione dylaniana: la città e la campagna; l’Ovest e l’Est e il Nord e il Sud; la città (city, town); arrivare e partire (ma nel mondo di Dylan sono più le partenze che gli arrivi, e le soste in un posto sono sempre molto brevi). Naturalmente, è appena il caso di dirlo, dal primo album del 1962, Bob Dylan, all’ultimo (inteso come album di canzoni firmate da lui), Tempest, del 2012, ci sono stati inevitabili cambiamenti all’interno della poetica del cantautore americano. Qui vogliamo solo tracciare qualche invariante. Uno dei testi fondanti è la >> seconda traccia del primo

Alcuni originali dei testi delle canzoni di Dylan A sinistra, Bob Dylan, Central Park, New York, 10 febbraio 1965

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long playing di Dylan (Bod Dylan, Columbia, 1962), la celebre Talking New York, evidente omaggio a Woody Guthrie, un uomo «venut[o] con la polvere e svanit[o] con il vento» (Song to Woody, dodicesima traccia), ma anche testo autobiografico che racconta i primi anni di Dylan nella Grande Mela: «Venuto via dal West selvaggio, / dalle città che amavo di più, / credevo di averne visti di alti e bassi, / finché sono arrivato a New York Town. / Gente che scendeva sottoterra, / palazzi che salivano su in cielo». Ma NYC non è la “promise land” – ricordiamo che Bob Zimmermann è di origini ebraiche, anche se, alla fine degli anni Settanta-inizio Ottanta, si è convertito al cristianesimo, con un entusiasmo che ha sconcertato i suoi fans; fervore che però, col tempo, è andato spegnendosi a fronte di un sempre più evidente atteggiamento di pessimistico scetticismo. Lo conferma la sestina finale: «Così una mattina che il sole era caldo / anche da New York me ne sono andato via. Mi sono calato il berretto sugli occhi / e ho puntato verso i cieli d’Occidente. / I miei saluti, New York». La difficoltà di vivere a NYC è confermata, se ce ne fosse bisogno, dal ritornello di Hard Times in New York Town (The Bootleg Series Vol. 9: The Witmark Demos, 1962-1964,

Columbia, 2010): «Sono tempi duri qui in città / per chi vive a New York Town». Pure l’intera seconda sestina ne è una prova: «Cara vecchia New York che ti accoglie così bene, / da Washington Heights fino a Harlem e più giù. / Una frotta di gente che ti turbina intorno, / che quando ti va bene sono calci e appena ti va male sono pugni». Qualunque altro posto è preferibile a NYC: «Faccio cambio con la Ca-li-for-ni-a e il suo smog, / con l’Oklahoma e le sue pianure impolverate, / con le miniere delle Montagne Rocciose e le loro grotte piene di terra, / sarà sempre più pulito che a New York» (Hard Times in New York Town, cit.). Alla dura città dell’Est che impedisce a chiunque di mantenersi dritto – «appena fuori da New York in piedi torno a stare» (ivi) –, sembra dunque contrapporsi la dolce vita di Frisco, pur se gli accenni alla capitale del movimento hyppie, nei testi di Dylan, sembrano essere più che altro un topos quasi scontato: «Mi avevi detto che andavi a Frisco a starci un paio di mesi. / San Francisco mi è sempre piaciuta, ci sono stato a una festa, una volta» (Maybe Sunday, da Knocked Out Loaded, Columbia, 1986). Ancora, a maggior conferma: «È vero, di San Francisco / non ricordo niente, / non mi ricordo >> nemmeno di El Paso» (She’s Your

A sinistra: Copertina dell'album The Freewheelin' Bob Dylan, Columbia, 1963. A destra: Bob Dylan nel “lontano” 1966


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canzoni e paesaggi

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Lover Now, da The Bootleg Series Voll. 1-3: Rare and Unreleased, 1961-1991, Columbia, 1991). E, infine: «San Francisco mi sta bene, / ti prendi del bel sole. / Ma io sono abituato a quattro stagioni / e la California ne ha una sola» (California, da NCIS: The Official TV Soundtrack, CBS, 2009). Un altro mito solare della cultura dei Sixties è il Messico e in generale il sud della California, il New Mexico, ma anche questi luoghi, nei testi dylaniani, non sembrano essere degli Eden, se non come luoghi di fuga e di perdita: «Siamo arrivati a San Antonio dopo un viaggio durato tutta notte, / abbiamo dormito vicino all’Alamo e la tua pelle era tenera e lieve. / Poi in Messico sei andata a cercare un dottore e non sei più tornata» (Brownsville Girl, scritta con Sam Shepard, da Knocked Out Loaded, cit.); «Vado ad Acapulco, ci vado come in fuga» (Goin’ to Acapulco, da The Basement Tapes, Columbia, 1975).

In qualche occasione, al contrario, l’Ovest appare come un possibile buen retiro: «Sì, questo è un addio, mio dolce amore, / partirò alle prime luci del mattino. / Me ne andrò sul Golfo del Messico / o sulla costa della California / […] C’è un posto dove forse posso andare, / nel Messico, laggiù fra le pianure. / Si dice che ci viva brava gente, / non ti chiedono nient’altro che il tuo nome» (Farewell, The Bootleg Series Vol. 9, cit.). Oppure: «Andate laggiù dove il sole e la terra si toccano, / cercate i crateri e le forre dove scrosciano cascate. / Nevada, New Mexico, Arizona, Idaho» – nonostante gli ultimi tre versi della sestina sembrino equiparare questi stati a tutti gli altri: «se ogni stato dell’unione vi entrerà fin dentro al cuore, / allora morirete sulle vostre gambe / prima di andare sottoterra» (Let Me Die in My Footsteps, The Bootleg Series Voll. 1-3, cit.). Scetticismo confermato da due versi di Long Time Gone (The

On the road again Some notes on Bob Dylan Those who have not read all the songs written by the Nobel Prize for Literature Bob Dylan, aka Robert Allen Zimmeman, could think that most of the lyrics of the greatest songwriter in history talk about social problems, pacifism and will to change. In fact, the great majority of Dylan’s songs speak about unhappy love stories, or the memory of a far away love that cannot come back. The other big issue is the street, the road, the highway. No wonder as, since the Beat Generation and the iconic novel of this movement – On the road by Jack Kerouac (1957) –, this infrastructure – which is at the same time a metaphor, a symbol, a lifestyle – has been at the center of American culture. Roads lead to places and those places are protagonists in Dylan’s lyrics where they become metaphors, topoi: cities and countryside, West and East, North and South, leaving and arriving. Of course since his first record in 1962, Bob Dylan, to his latest in 2012, Tempest, there have been unavoidable changes in his poetics, but we would simply like to trace some invariant elements. One of the founding text is the second track of the first album, the well known Talking New York, an homage to Woody Guthrie. In Dylan’s view, Nyc is not a promised land. He prefers Frisco, an almost too obvious topos for those years. Another sunny myth in the Sixties is Mexico and South California, New Mexico, but Dylan does not seem to find here his “paradise” either, he considers them as places of escape and loss. The immensity of Us is often stressed by Dylan and the homeless Dylan has traveled many times the “waste land” between the two compass points that are the alpha and the omega of the American nation. In the end, though, this eternal pilgrimage does not seem to have any sense nor aim, as you can see from his most disenchanted verses. But, in the end, what can a great poet give us but disenchantment and melancholy?

Bob Dylan in una foto recente.

Bootleg Series Vol. 9, cit.): «Tante città, tanta gente diversa, / che poi alla fine sono tutti uguali». La vastità del territorio degli States è più volte evidenziata in Dylan da versi come: «È lunga la strada che va dal Golden Gate / alla Rockefeller Plaza e all’Empire State» (Hard Times in New York Town, cit.); e ancora: «Così sono qui sull’autostrada, / andrò fin dove mi arrivano gli occhi. / Dal ponte del Golden Gate / alla Statua della Libertà» (Down the Highway, da The Freewheelin’ Bob Dylan, Columbia, 1963). E l’homeless dylaniano, «sul bordo della strada» (Long Time Gone, cit.), o «sul lato in ombra della strada» (Don’t Think Twice, It’s All Right, I and I, ivi e Infidels, Columbia, 1983), ha percorso infinite volte, chiedendo un passaggio, la “waste land” che si stende tra i due punti cardinali che segnano l’alfa e l’omega della nazione americana: «Sono stato all’Est, sono stato all’Ovest, / e là dove i venti ruggiscono neri» (Red River Shore, da The Bootleg Series Vol. 8: Tell Tale Signs: Rare and Unreleased, 1989-2006, Columbia, 2008).

Alla fine, però, quest’eterno peregrinare (ritorna un topos della cultura ebraica), non sembra aver scopo né senso, come trapela dai versi più disillusi di Dylan: «Hai cercato lavoro e dei soldi / e hai fatto la strada per niente» (Ballad of Hollis Brown, da The Times They Are A-Changin’, Columbia, 1964); «e l’antica strada vuota è troppo morta per sognare» (Mr. Tambourine Man, da Bringing It All Back Home, Columbia, 1965); «Ho ripreso la mia lunga strada vuota, dove vado non lo so nemmeno io» (Don’t Think Twice, It’s All Right, I and I, cit.). Cosa può donarci un grande poeta, se non disincanto e malinconia? m

Note 1 Le traduzioni dei testi delle canzoni citate sono tratte da Dylan, Lyrics 1961-1968, a cura di Alessandro Carrera, Milano, Feltrinelli, 2016; Dylan, Lyrics 1969-1982, a cura di Alessandro Carrera, Milano, Feltrinelli, 2016; Dylan, Lyrics 1983-2012, a cura di Alessandro Carrera, Milano, Feltrinelli, 2017.


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sinfonie

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

Quel doppio genio fra creazione e interpretazione di Leonard

Bernstein

Il festival rende omaggio al multiforme artista americano, nel centenario della nascita, con l’esecuzione di alcune sue importanti composizioni da parte di eccellenti Maestri quali Wayne Marshall, Dennis Russell Davies, James Conlon Sopra un ritratto del direttore d’orchestra e compositore Leonard Bernstein; a destra, il Maestro russo Valerij Gergiev

DI

ENRICO GRAMIGNA

Tra le varie definizioni della parola genio, probabilmente somma potenza creatrice dello spirito umano è quella che più intimamente si lega alla figura di Leonard Bernstein. Il musicista statunitense, del quale ricorre quest’anno il centesimo anniversario della nascita, fu, infatti, oltre che tra i più fini interpreti del Novecento, anche un apprezzatissimo compositore che ebbe l’ardire di cimentarsi in tutti i generi compositivi, dai più tradizionali come la sinfonia e l’opera, a quelli più innovativi come le colonne sonore e il balletto. Questa dicotomia tra esecutore e creatore era una condizione che rendeva Bernstein un «uomo doppio», come era solito dire, cioè era come avere «due uomini diversi chiusi nello stesso corpo». Proprio questa separazione interiore era uno dei punti di forza della grande capacità comunicativa del musicista: l’indispensabile >>


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sinfonie Ravenna Festival Magazine 2018

Valerij Gergiev tendenza all’Assoluto Il Maestro russo sul podio dell’Orchestra del Teatro Mariinskij con un programma dedicato a Mussorgskij, Debussy, Rachmaninov «Večnaja, edinaja, nedelimaja, pravoslavnaja, christoljubivaja» (eterna, unica, indivisibile, ortodossa e amante di Cristo). Questa è la patria nelle parole, pronunciate da Kirill, arcivescovo di San Francisco della Chiesa Ortodossa Russa all’estero, nel 2005. Tutto ciò sottende a un ideale di unione nell’Assoluto di là dalla distanza fisica da esso: proprio questo è il vero tema del concerto che l’8 giugno andrà in scena al Palazzo Mauro de André. Protagonista di quest’appuntamento di Ravenna Festival sarà l’Orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, guidata da Valerij Gergiev. Il direttore russo è un esempio di quella tendenza all’Assoluto che la Russia ha inteso come sua prerogativa innata: dopo aver studiato con un pioniere quale Ilya Musin e aver assistito un monumento nazionale quale Jurij Temirkanov (al quale nel 1988 succedette come direttore artistico proprio dell’Orchestra del Mariinskij) Gergiev si è affermato come una delle più importanti bacchette del panorama mondiale. L’idea di unità nella lontananza è anche il filo rosso che lega i brani in programma sul palco ravennate: Modest Mussorgskij fu uno dei più ferventi musicisti impegnati nella determinazione della musica nazionale russa. Il suo spirito avanguardista non gli permise di essere appieno compreso in vita, nonostante ciò, la grandezza delle sue opere venne riconosciuta ben oltre la madrepatria tanto che i celebri Quadri di un’esposizione, per pianoforte, furono tradotti nel linguaggio orchestrale da Maurice Ravel. Proprio un altro compositore francese affiliato alla Société Nationale de Musique, Claude Debussy, comprese e ammirò le composizioni di Mussorgskij, tanto da esserne fortemente influenzato durante la scrittura delle proprie opere tra le quali spicca il Prélude à l’après-midi d’un faune. Il richiamo all’unità nella lontananza è presente anche nella produzione di Sergej Rachmaninov, compositore fuggito dalla Russia zarista a pochi giorni dalla Rivoluzione d’ottobre: le Danze sinfoniche op.45 sono, infatti, uno degli esempi più fulgidi dell’amore indivisibile che lega il popolo russo alla madrepatria. m

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James Conlon

necessità di unire i punti di vista di questi due uomini interiori rendeva possibile l’universalità del messaggio veicolato dal direttore e compositore. Nel primo centenario della nascita non poteva Ravenna Festival non omaggiare il musicista statunitense, grande faro della musica del XX secolo. A far vivere le musiche di Bernstein saranno, sul palco del Palazzo Mauro De André, tre direttori tra i più apprezzati e specializzati nell’esecuzione della letteratura musicale statunitense e novecentesca. L’inglese Wayne Marshall sarà protagonista, insieme all’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, il 4 giugno quando risuoneranno le note di Three Dance Episode estratti dal musical On the Town. Proprio questo fu il primo musical, genere anglo-americano che sintetizza l’esperienza teatrale europea, composto da Bernstein nel 1944, a cui seguirono altri titoli prima di giungere ad una delle più note composizioni del compositore statunitense, West Side Story, vera pietra miliare della musica d’oltreoceano del Novecento, tanto da essere capace di varcare i confini di Broadway ed essere rappresentata molte volte in tutta Europa. Oltre alla musica >>

Wayne Marshall

Riflettori puntati sull’Orchestra Giovanile Cherubini e su quella Nazionale della Rai Oltre a composizioni di Bernstein, i direttori Marshall, Davis e Conlon propongono pagine musicali di Ravel, Glass, Pärt, Britten e Dvorák Le celebrazioni per il centenario della nascita di un grande pilastro della musica quale è stato Leonard Bernstein saranno uno dei motivi d’interesse del Ravenna Festival 2018. Proprio per omaggiare la produzione del compositore statunitense, ai brani da lui composti verranno affiancate altre pagine importanti, come a sottolineare l’ascesa del musicista nell’olimpo dei grandi. Wayne Marshall e l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini eseguiranno tre brani tra i più importanti della produzione di Maurice Ravel, l’Alborada del Gracioso e Le Tombeau de Couperin, originariamente per pianoforte e successivamente assurti ad esempio della maestria del compositore francese nell’arte dell’orchestrazione, e La Valse, poema coreografico originariamente abbozzato come una celebrazione della famosa danza prima dell’esperienza che il musicista visse durante la Grande Guerra che ne mutò il punto di vista. Il Novecento è stato il terreno fertile per le sperimentazioni: tante sono state le correnti musicali che si sono avvicendate e il minimalismo è stato, ed è tuttora, uno degli ultimi esempi di questi sviluppi sonori. Philip Glass è stato uno dei più importanti esponenti di questo ramo della musica d’avanguardia prima di prenderne progressivamente le distanze: la sua produzione spazia dalla musica da camera a quella per orchestra. Quest’ultima declinazione dell’impegno compositivo del musicista statunitense è particolarmente numerosa tanto da oltrepassare nel 2012 le colonne d’Ercole poste da Beethoven con le sue 9 sinfonie e, proprio nel concerto diretto da Dennis Russell Davies alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, ci sarà la prima nazionale della Sinfonia n.11. L’ultimo appuntamento con la musica di Leonard Bernstein, con protagonisti James Conlon e l’Osn Rai, sarà un tripudio del Novecento. Lo stile compositivo di Arvo Pärt, musicista estone, si può certamente definire personale, intriso di quella sacralità dovuta all’approfondimento del canto gregoriano rielaborato nell’idea minimalista. La prima tra le sue composizioni che si ascrive a questo personalissimo stile è Cantus in memoriam Benjamin Britten, composta nel 1976. A questo seguirà uno dei brani più noti di Benjamin Britten, la Sinfonia da Requiem op.20, scritta dal compositore inglese agli albori della Seconda Guerra Mondiale alla quale cercò di contrapporsi con la forza delle idee musicali, come il musicista dichiarò in un’intervista rilasciata durante il periodo di composizione. L’idea di novità, sarà, infine sintetizzata dall’opera più nota e significativa della produzione di Antonín Dvořák, la Sinfonia n.9 Dal Nuovo Mondo op.95, compendio della idea musicale europea e delle caratteristiche sonore degli Stati Uniti subito prima dell’esplosione novecentesca. m


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Bernstein and synphonic music around the world

teatrale, Leonard Bernstein fu compositore anche di musica strumentale e, nel lungo elenco, spiccano le tre sinfonie: la Sinfonia n.2 The Age of Anxiety sarà protagonista il 16 giugno, addomesticata dalla bacchetta di Dennis Russell Davies alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini. Questa composizione per orchestra e pianoforte, affidata per l’occasione alle sapienti dita di Emanuele Arciuli, è immagine dell’omonima opera di Wystan Hugh Auden, vincitrice del premio Pulitzer nel 1948. Le scelte timbriche del musicista americano ricreano i meandri psicologici delle parole del poeta aprendosi a un gioco di luci ed ombre che rispecchia l’idea fondamentale di tutto il brano. L’ultimo appuntamento con il

Il direttore Dennis Russell Davies; sopra il pianista Emanuele Arciuli

compositore sarà, invece, il 7 luglio quando l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, guidata dal proprio direttore principale James Conlon, affronterà l’Ouverture da Candide, pagina più nota dell’unico cimento operettistico di Leonard Bernstein. Il carattere hollywoodiano di questa composizione è quanto di più adeguato al pirotecnico intreccio della trama, fondata sulla celebre novella di Voltaire, vertice dell’ingegno dello scrittore illuminista. Un’eredità importante, quella di Bernstein, che merita particolare attenzione: grazie alla felice ricorrenza è possibile rendere davvero il giusto merito a uno tra i più grandi artisti del secolo scorso. m

Leonard Bernstein was both a great musician and a composer, he was a sort of a “double man”. Ravenna Festival could not but homage his genius in the hundredth anniversary of his birth: three among the most appreciated conductors in interpreting XX century Us music will be on stage to revive his music. Wayne Marshall will be conduct the Orchestra Giovanile Luigi Cherubini on June 4th and perform “Three Dance Episode” taken from the musical On the Town. Among Bernstein's instrumental music there are three symphonies: Symphony n.2 “The Age of Anxiety” will be performed on June 16th by Orchestra Giovanile Luigi Cherubini conducted by Dennis Russell Davies. This composition for orchestra and piano will be executed by Emanuele Arciuli. The last appointment with Bernstein will be on July 7th: the Orchestra Sinfonica Nazionale Rai, conducted by James Conlon, will perform l'Ouverture from “Candide”. Also music by other important composers will be performed to homage Bernstein memory. Wayne Marshall and the Orchestra Giovanile Luigi Cherubini will play three pieces by Maurice Ravel, l’Alborada del Gracioso, Le Tombeau de Couperin, and La Valse. The XX century has been a time for experimentation: Philip Glass is one of the most important avant-garde artist, he wrote both camera music and many symphonies. In the concert conducted by Dennis Russell Davies the Orchestra Giovanile Luigi Cherubini will perform his Symphony n. 11, as a national premiere. The third appointment is again with James Conlon e the Rai Orchestra for a XX century jubilation: the program starts with Arvo Pärt's unique and one of the best known piece by Benjamin Britten, the Symphony Requiem op.20; the concert will end with Antonín Dvořák' Simphony .9 «Dal Nuovo Mondo» op.95. «Večnaja, edinaja, nedelimaja, pravoslavnaja, christoljubivaja» (eternal, unique, indivisible, orthodox and Christ loving). This is a definition of homeland according to Kirill, archbishop of the Russian Orthodox Church in San Francisco. This means an ideal union in the absolute overcoming distance and is the real theme of the concert that will be played on June 8th at Palazzo Mauro de André. The Orchestra of the Theater Mariinskij from San Petersburg conducted by Valerij Gergiev will play Modest Mussorgskij’s “Pictures at an Exhibition” and Sergej Rachmaninov's “Symphonic Dances”.


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Muti missione Kiev Si rinnova il sogno della fratellanza dei popoli attraverso la musica DI ENRICO GRAMIGNA

Alle Menschen werden Brüder, l’umanità intera si affratelli: questo è il messaggio che Ludwig van Beethoven, grazie alle parole di Friedrich Schiller, inserì nella sua celebre Nona sinfonia. “Le vie dell’Amicizia”, iniziativa nata nel 1997 in seno al Ravenna Festival, è indubbiamente una delle realtà più aderenti a questo messaggio, creando “ponti di fratellanza” tra luoghi e culture differenti. Partita dal primo concerto a Sarajevo, ferita dalla guerra balcanica, questa idea arriverà quest’anno in un’altra tra le più importanti capitali dell’area slava che, da qualche anno, sta vivendo momenti di tensione: Kiev. La sua ricca e prestigiosa storia affonda le radici almeno alla fondazione della Rus’ di Kiev, primo stato slavo organizzato, sorta sul finire dei IX secolo. Non è un caso, inoltre, che un compositore così legato all’idea nazionale della cultura musicale come Modest Mussorgskij termini una delle sue composizioni più emblematiche, i celeberrimi Quadri da un’esposizione, con La grande porta (Nella capitale Kiev) rendendo un omaggio che sfocia nella sacra adorazione della città eletta Madre delle Città Russe fin dal X secolo. In questo contesto è facile capire la simbologia nell’unione tra due popoli, prima che tra due città capitali quali Kiev e Ravenna. Il primo ponte sarà proprio il

Riccardo Muti continua a sostenere con i suoi concerti alla guida dell’Orchestra Giovanile Cherubini, l’ideale missione di portare attraverso la musica un messaggio di pace e fratellanza in Paesi tormentati da conflitti e tensioni sociali e religiose. Quest’anno il festival di Ravenna sarà gemellato con Kiev, la capitale dell’Ucraina


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Ravenna Festival Magazine 2018

Il viaggio delle “Vie dell’Amicizia“ approda nel 2018 in Ucraina con il consueto doppio concerto (a Ravenna e Kiev) che oltre ad unire cori e orchestrali dall'Italia e dal paese dell'est accoglie la presenza straordinaria dell'attore John Malkovich Cucina aperta a pranzo e a cena. Chiuso il giovedì concerto che il Maestro Riccardo Muti dirigerà prima in Ucraina, l’1 luglio, e poi in Italia, il 3 luglio, alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini unita all’Orchestra e Coro dell’Opera Nazionale di Ucraina. Il repertorio di questi due appuntamenti è concettualmente separato in tre parti: la prima di esse si rivolge all’aspetto più sacro che caratterizza le due città, con

l’esecuzione di due dei Quattro pezzi sacri scritti da Giuseppe verdi (Stabat Mater e Te Deum). Quale spartiacque del concerto sarà eseguita un’importante pagina dall’indubbio peso non solo culturale, ma anche politico: commissionato durante la Seconda Guerra Mondiale con l’incarico di omaggiare una figura eminente del panorama >>

Omaggio al compositore ucraino Valentin Silvestrov fra incontri e concerti I ponti, però, sono strutturalmente costruiti da due spalle, ognuna di esse da un lato del ponte. La seconda delle spalle che costituisce il legame tra l’Italia e l’Ucraina, in questa edizione del Ravenna Festival, è da ricercarsi nell’incontro che Ravenna avrà con Valentin Silvestrov, musicista ucraino, il 3 luglio presso la Sala del Refettorio del Museo Nazionale, e la sua musica, il 4 luglio, quando, nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe, l’Orchestra e il Coro dell’Opera Nazionale di Ucraina omaggeranno l’ottuagenario compositore con un concerto diretto da Mykola Diadiura. I brani in programma (Elegia e pastorale, Cantata n.4 e Canti liturgici) afferiscono tutti a un contesto sacro-naturalistico che trova nella scrittura stessa di Silvestrov la pulizia dalle scorie avanguardiste più scandalose, volte più all’atto stesso della trasgressione che a un significato organico e contestualizzato, al fine di ritrovare all’interno della composizione in sé l’unità veicolata dalla melodia, vera forma della musica secondo l’idea del musicista ucraino. m

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statunitense, il Lincoln Portrait di Aaron Copland è una composizione che unisce all’orchestra sinfonica nella sua veste più ampia la voce recitante, che nelle esecuzioni in oggetto sarà quella del celebre attore John Malkovich. Questa composizione si conclude con le parole del discorso che il celebre presidente pronunciò a Gettysburg nel 1863 e nel quale

Lincoln proclamava l’uguaglianza degli esseri umani, dichiarando che la Guerra di Secessione Americana aveva portato alla rinascita della libertà. L’ideale di libertà è vivo e pulsante anche nell’ultima delle tre sezioni nelle quali si articola il concerto, dove sono le pagine del Nabucco di Verdi ad essere le vere protagoniste. Libertà per gli ebrei, popolo oppresso durante

la cattività babilonese, ma anche libertà per un popolo, quello italiano, che all’epoca della composizione dell’opera era alla ricerca dell’unità, ancora diviso in tanti stati governati da diverse casate europee: immancabile in questa selezione di arie e cori il celeberrimo Va pensiero, evidentemente vicino all’anelito di libertà che animava l’Italia risorgimentale. m

Sopra, il Coro e l’Orchestra dell’Opera Nazionale diUcraina. Sotto: uno splendido scorcio della città di Kiev


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Albo d'oro

Tutti i “ponti dell’amicizia” da Sarajevo a Kiev 1997 SARAJEVO Centro Skenderija 1998 BEIRUT Forum di Beirut 1999 GERUSALEMME Piscina del sultano 2000 MOSCA Teatro Bolshoi 2001 EREVAN - ISTANBUL Palazzo dell’Arte e dello Sport - Convention & Exhibition Centre 2002 NEW YORK Ground Zero - Avery Fisher Hall (Lincoln Center) 2003 IL CAIRO Ai piedi delle Piramidi 2004 DAMASCO Teatro Romano di Bosra 2005 EL DJEM Teatro Romano di El Djem 2006 MEKNÈS Piazza Lahdim 2007 CONCERTO PER IL LIBANO Roma, Palazzo del Quirinale 2008 MAZARA DEL VALLO Arena del Mediterraneo 2009 SARAJEVO Olympic Hall Zetra 2010 ITALIA-SLOVENIA-CROAZIA Piazza Unità d’Italia, Trieste 2011 NAIROBI Uhuru Park 2012 CONCERTO DELLE FRATERNITÀ Pala De Andrè, Ravenna 2013 CONCERTO PER LE ZONE TERREMOTATE DELLl’EMILIA Piazza della Costituente, Mirandola 2014 REDIPUGLIA Sacrario Militare, Fogliano di Redipuglia 2015 OTRANTO Cattedrale di Otranto 2016 TOKYO Teatro Bunka Kaikan Metropolitan Theatre 2017 TEHERAN Bagh-e Melli 2018 KIEV Piazza Sofiyska della Cattedrale di Santa Sofia

Il fascino di “essere“John Malkovich L'attore americano sul palco del festival a fianco di Muti come voce recitante nel Lincoln Portrait di Aaron Copland DI ERIKA BALDINI

«Mi dica, qual è lo strano potere che John Malkovich emana?» (Lotte - Essere John Malkovich, regia di Spike Jonez, 1999) La risposta potrebbe essere intricata come la trama del film ma se guardate John Gavin Malkovich, e se lo ascoltate, tutto è molto più semplice. Malkovich ha ciò che si chiama fascino. In entrambi i significati che ne da il dizionario: potere seduttivo ma anche influsso malefico che si credeva proprio dello sguardo di adulatori o affetti da qualche morbo. L’elegante Signor Malkovich, volto e corpo al servizio dell’arte, è versatile, interprete prediletto di ruoli inquieti ed ambigui, eternamente sospeso tra la luminosità di un sorriso gentile e uno sguardo fosco. Mai ruolo fu più calzante del Dott. Jekyll e Mr.Hyde del film Mary Really di Stephen Frears. Americano di origini croate, classe 1953, alto, fisico statuario (lui che era un adolescente grassotello dimagrito a forza di volontà e Jelly-O), una voce particolare – definita da “The Guardian“ come wafting, whispery, and reedy –, regista e produttore teatrale e cinematografico (la Smith-Malkovich ha prodotto film come il pluripremiato Juno), musicista per hobby, fashion designer (nel 2002 ha fondato la sua casa di moda Mr. Mudd e si disegna da solo gli abiti), imprenditore (è confondatore, assieme allo stilista Riccardo Rami, della boutique concept-store e ristorante OpificioJm a Prato, mentre a Lisbona è co-proprietario di un locale), ma soprattutto attore. Dai piccoli palcoscenici universitari a Chicago – dove con l’amico attore Gary Sinise fonda la compagnia Steppenwolf Theater – da Broadway, dove vince il primo prestigioso premio Obie nell’83, al grande schermo: Malkovich appare in più di 70 film. Il debutto

– dopo un ruolo non accreditato in Un Matrimonio (1978) di Robert Altman – è nel 1984 con Le stagioni del cuore di Robert Benton, per il quale viene subito nominato agli Oscar come miglior attore non protagonista; seguono Urla del silenzio di Roland Joffé, Lo zoo di vetro diretto da Paul Newman e L’impero del sole di Steven Spielberg. Tra le fine degli anni ‘80 e i primi ‘90 Malkovich raggiunge infine la fama mondiale. Per Frears è il perfido Valmont de Le relazioni pericolose, per Bernardo Bertolucci il languido Moresby de Il tè nel deserto (sul set conosce la futura moglie e madre dei suoi figli Nicoletta Peyran), Woody Allen lo scrittura per Ombre e Nebbia; per l’amico Sinise è il povero Lennie nella versione cinematografica del romanzo di Steinbeck Uomini e Topi. Nel 1994 viene nuovamente candidato agli Oscar per Nel centro del mirino di Wolfgang Petersen. Instancabile, l’attore recita in produzioni mainstream così come per piccole opere indipendenti, nei generi più svariati, per la tv anche, ma più di ogni altra cosa collabora coi più grandi: Manoel de Oliveira, Antonioni, Jane Campion, Volker Schlöndorff, Raúl Ruiz, Luc Besson, Robert Zemeckis, Antoine Fuqua, Mike Figgis, Clint Eastwood, i fratelli Coen... In Italia lavora con Liliana Cavani e Gabriele Salvatores, con Laura Morante gira il suo debutto dietro la macchina da presa, Danza di sangue (2002). Tantissimo cinema, ma Malkovich rimane fedele al suo primo amore: il teatro. Frequenti i ritorni alla Steppenwolf, sia come attore sia come regista, e la partecipazione a progetti internazionali come recital ed opera, dove affascinare con la potenza della sola voce. Malkovich sarà la voce recitante di Lincoln Portrait di Aaron Copland, nell’ambito del concerto “Le vie dell’Amicizia”, con l’orchestra Cherubini e l’Orchestra dell’Opera Nazionale di Ucraina dirette dal Maestro Riccardo Muti, il 3 luglio al Pala De André di Ravenna. m

The “Roads of Friendship” lead to Kiev The “Vie dell'amicizia” (Roads of Friendship) project is involving this year Kiev, one of the most important Balcanic capitals which is going trough a difficult period. The first "bridge" will be on July 1st in Ukraine when Riccardo Muti will conduct the Orchestra Giovanile Cherubini together with the National Orchestra and Choir of Ukraine. They will play Verdi's Four Sacred Pieces (Stabat Mater and Te Deum), the Aaron Copland's Lincoln Portrait intepreted also by the actor John Malkovich in the role of the narrator; and pages from Verdi's Nabucco. The concert will be replied in Ravenna on July 3rd at Pala de Andre.

Homage to the Ukraine composer Valentin Silvestrov

Concerto delle “Vie dell’Amicizia” a Teheran nel 2017

Besides the Roads of Friendship, another event will establish a connection between Italy and Ukraine in the name of Valentin Silvestrov. His music will be played on July 3rd in the Sala del Refettorio at Museo Nazionale and on July 4th in the Basilica di Sant'Appollinare in Classe: the Orchestra and Choir of the Ukraine National Opera will pay homage to the octogenarian composer in a concert conducted by Mykola Diadiura.


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E nel Macbeth di Verdi

in forma di concerto si esalta il rapporto fra parole e musica Il Maestro Muti ha scelto questo titolo per celebrare, alla guida dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, i cinquant'anni del sodalizio con la compagine toscana che ha dato il via a una carriera magistrale DI ENRICO GRAMIGNA

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L’opera lirica è forse l’espressione più importante della cultura musicale degli ultimi due secoli e vero titano di quest’arte è Giuseppe Verdi. Il Cigno di Busseto è stato il compositore che più di ogni altro ha incarnato gli ideali del Risorgimento, unendo l’Italia intera con le sue arie. Decima in ordine cronologico di composizione, Macbeth è uno degli ultimi prodotti dei celebri anni di galera, chiamati così proprio dal compositore emiliano in virtù del fatto che si sottopose incessantemente al lavoro, firmando contratti prima di concludere le opere precedenti: in questa opera appare chiaro il

lavoro che poi caratterizzerà anche il proseguimento della sua attività operistica, ossia l’interesse per tutte le varie componenti della creazione, dal soggetto alla musica fino ai testi da musicare per i quali, pur non occupandosi direttamente della versificazione, riserverà numerose attenzioni proprio perché fortemente occupato a ricercare strenuamente l’intimo rapporto tra parola e musica. Macbeth è la prima opera verdiana ricavata da un soggetto shakespeariano e questo filo che collega l’italiano al Bardo non stupisce perché proprio la capacità di definizione psicologica dei personaggi caratteristica dello scrittore inglese è anche una delle migliori

Riccardo Muti and Verdi's Macbeth Macbeth is one the works Verdi wrote during what he called his “years of prison” when he would work unrelentingly. IT is the first of Verdi's works taken from Shakespeare. The link between the English poet and the Italian musician is not surprising: they both were interested in a deep definition of characters' psychology. So this is one of his most symbolic operas that marked the shift from a lyric musician to a man of theatre. On July 15th, at Palazzo Mauro de André, Riccardo Muti will conduct the concert of Verdi's Macbeth with Luca Salsi playing Macbeth, Vittoria Yeo as Lady Macbeth, Fracesco Meli in the role of McDuff, and Riccardo Zanellato as Banco.

Muti and the Tribute to Ruggiero Ricci

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On July 28th, the Teatro Alighieri will be the perfect stage to celebrate the American violinist Ruggiero Ricci, dead in 2012 and born one century ago. One of his students, Wilfried Hedenborg, will play Paganini’s Concert. n. 4, introduced by the overture of Rossini’s “Viaggio a Reims” and followed by Ludwig van Beethoven’s Symphony n. 7 op. 92 by. Riccardo Muti will conduct the concert.


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frecce che Verdi può portare al suo arco. La complessità dei personaggi della tragedia incentrata sulla brama di potere è un richiamo forte per il desiderio verdiano di approfondimento psicologico in relazione al mondo sonoro interiore del personaggio: nasce così una delle opere più emblematiche del cambiamento di Giuseppe Verdi, da operista a uomo di teatro, come lui stesso si definiva. Il Palazzo Maurò De André sarà, il 15 luglio, il palcoscenico dove, in forma di concerto, si addenserà ancora una volta la tragedia. Importanti saranno i protagonisti della vicenda: Luca Salsi, nei panni di Macbeth, e Vittoria Yeo, già applauditissima Lady Macbeth nel 2016 proprio a Ravenna, Francesco Meli, che debuttò proprio con quest’opera nel 2002 nel ruolo di Macduff, e Riccardo Zanellato, basso tra i più affermati, interpreterà Banco. La guida dell’Orchestra e del Coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretto da Lorenzo Fratini, sarà affidata al Maestro Riccardo Muti

che, nel 1974, già direttore della compagine toscana, debuttò con questo importante titolo verdiano. Questo concerto ha quindi anche l’intento simbolico di festeggiare, a cinquant’anni dal sodalizio del Maestro con il Maggio Musicale Fiorentino – portato avanti fra 1968 e il 1980 – l’avvio di una straordinaria carriera magistrale, che lo ha portato ad essere fra i più stimati ed acclamati direttori d’orchestra del mondo. Da segnalare che proprio la partitura del Macbeth verdiano sarà anche tema di studio della quarta edizione della “Muti Italian Opera Academy“, dedicata all’alta formazione di giovani aspiranti alla direzione d’orchestra, in programma a Ravenna fra la fine di luglio e i primi di agosto. m

A sinistra il Maestro Riccardo Muti sul podio dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino

APERTO TUTTE LE SERE PRENOTAZIONE CONSIGLIATA

A destra, il violinista dei Wiener Wilfried Hedenborg

Un omaggio a Ruggiero Ricci, italoamericano virtuoso del violino Di tutt’altro tenore il concerto che vedrà protagonista lo stesso Maestro Muti omaggiare il violinista statunitense (di origini italiane) Ruggiero Ricci, scomparso nel 2012, a cento anni dalla nascita. Ricci fu un virtuoso di prima grandezza, memorabili le sue registrazioni delle composizioni di Niccolò Paganini tra le quali spicca quella dei 24 Capricci per violino solo, grande esempio di incredibile efficacia e aderenza al carattere più profondo di queste composizioni. Il teatro Alighieri, il 28 luglio, sarà il palcoscenico perfetto per festeggiare questo immenso musicista che si dedicò anche alla didattica: proprio uno dei suoi allievi al Mozarteum di Salisburgo fu Wilfried Hedenborg (da tempo strumentista dei Wiener Philharmoniker) che per l’occasione imbraccerà un violino costruito in memoria del maestro per suonare una delle pagine che più di tutte hanno contrassegnato la carriera di Ricci, il Concerto n.4 di Paganini. A fare da prolusione alla pagina paganiniana sarà la notissima Ouverture dall’opera Il viaggio a Reims di Gioacchino Rossini, di cui è nota la grande amicizia con il violinista e compositore genovese. Chiuderà questo appuntamento la Sinfonia n.7 op.92 di Ludwig van Beethoven, non a caso la più estrosa tra le nove sinfonie del genio di Bonn, nella quale persino Wagner vedeva «l’apoteosi della danza», perfetta conclusione della celebrazione di un musicista straordinario come fu Ruggiero Ricci. m

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note meditative

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Intimi ascolti fra voci mistiche, remote armonie e atmosfere raccolte Musica sacra, antica e da camera con i cori Voces Suaves, Graindelavoix, Heinawanker, Ludus Vocalis, The Sixteen, i duo Gazzana, Davies-Namekawa e Auskelyte-Pezzi, il Quartetto del Teatro alla Scala e il Simply Quartet

DI ENRICO GRAMIGNA

L’ensemble corale ravennate Ludus Vocalis che sarà protagonista nell’antica basilica di Sant’Agata di uno degli appuntamenti della rassegna di liturgie domenicali “In templo Domini”

Ciò che definisce l’importanza di un festival musicale non è solamente la rilevanza degli eventi principali, ma anche, e forse soprattutto, la capacità degli appuntamenti che delineano la struttura di una rassegna. L’edizione 2018 del Ravenna Festival propone tanti approfondimenti soprattutto declinati in chiave sacra: vi è, infatti, una particolare attenzione alla musica che nei riti religiosi riveste ruoli importanti. La prima rassegna interna a questo festival che si occupa di musica sacra è

quella dedicata all’animazione del luogo che, più di ogni altro, rappresenta Ravenna nel mondo, la Basilica di San Vitale che sarà il luogo nel quale, dall’1 giugno al 5 luglio sarà possibile ascoltare i vespri, uno dei più importanti momenti dell’ufficio delle ore. La seconda rassegna di musica sacra, invece, sarà In Templo Domini, interamente dedicata alla liturgia nelle basiliche ravennati: il 10 giugno sarà la Basilica di Sant’Apollinare in Classe a ospitare l’Ensemble Voces Suaves che animerà la liturgia domenicale con le note di Monteverdi, Marenzio e

Gesualdo, tre astri del periodo Cinque-Seicentesco. Guillaume Dufay sarà il protagonista del secondo appuntamento, il 17 giugno, quando il gruppo vocale fiammingo Graindelavoix farà risuonare nella Basilica di San Vitale i grandi capolavori del compositore più famoso d’Europa del Quattrocento. Dall’Estonia proviene l’Ensemble Heinavanker che, il 24 giugno nella Basilica di San Vitale, oltre ad animare la liturgia con musiche del più celebre compositore della seconda >>


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Fra sacro (e profano) le musiche all'ora dei Vespri Appuntamenti in prima serata a San Vitale e al Museo Nazionale Ravenna Festival celebra anche quest’anno un patrimonio d’arte, musica e fede unico al mondo, grazie alla collaborazione con l’Opera di Religione dell’Arcidiocesi di Ravenna-Cervia. La più amata delle basiliche bizantine – uno degli otto monumenti di Ravenna riconosciuti patrimonio dell’Umanità dall’Unesco – accoglie dall’1 giugno al 5 luglio, ogni giorno al momento del Vespro (ore 19) concerti di musica sacra, con nuove produzioni, proposte selezionate attraverso un bando internazionale e collaborazioni con realtà e artisti del territorio: un’inestimabile esperienza di bellezza, che anche nel 2018 il festival offre al visitatore per il simbolico biglietto da 1 euro. Apre la rassegna Hermann (1 giugno, 3-6 giugno), sacra rappresentazione per controtenore, tre viole da gamba bassa, cornetto e voce recitante, commissionata al compositore Paolo Baioni e ispirata alla singolare vita del monaco Ermanno il Contratto. Segue il concerto al fortepiano di Tullia Melandri – Riscoprire il suono di Schumann (2 giugno) – il primo dei due appuntamenti in programma al Refettorio del Museo Nazionale. Si torna a San Vitale con Sacri ottoni (7-10 giugno), il programma proposto dai Romagna Brass e dedicato a Giovanni Gabrieli, massimo esponente della Scuola Veneziana del XVI secolo. Dall’Olanda il Duo Serenissima – soprano e liuto – con La diva reclusa (11-15 giugno), per riscoprire la vita (e la musica) di due religiose seicentesche estremamente colte e creative; gli stessi artisti saranno anche al Refettorio per un omaggio a Giulio Caccini nel IV centenario della morte (17 giugno). Il Coro dell’Associazione Consorti Dipendenti del Ministero degli Affari Esteri presenterà lo Stabat Mater di Girolamo Abos, una suggestiva pagina del Settecento napoletano (16 giugno); mentre David Brutti e Nicola Lamon, rispettivamente cornetto e organo, si addentreranno nel Seicento stravagante, con un percorso geografico e storico nella poetica della meraviglia (18-20 giugno). Un salto nella seconda metà dell’Ottocento, in compagnia del duo mezzosoprano e organo La DiStileria con Omaggio a Rheinberger, oggi sconosciuto ai più ma musicista dal profilo ricco e articolato (21 e 22 giugno). Ancora un duo per Dialoghi bachiani, pagine celebri e diverse di Bach, ripensate e reinterpretate per violino e violoncello (23 e 27 giugno). Una realtà centrale nella crescita culturale e musicale della città, il Coro dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Giuseppe Verdi” presenterà Liszt e Pärt, sacre consonanze (2426 giugno), mentre l’Ensemble La Dafne guiderà il pubblico a Candia, crocevia di culture, la capitale di Creta che fu punto d’incontro fra culture musicale tra XVI e XVII secolo (28-30 giugno). Conclude il viaggio Piero Bonaguri con un ricchissimo omaggio alla musica sacra per chitarra classica, Il repertorio sacro: dal Medioevo a oggi (1-5 luglio).

generazione della scuola fiamminga, Johannes Ockeghem, porterà a Ravenna il suono della musica popolare estone. L’1 luglio l’appuntamento sarà col coro ravennate Ludus Vocalis impegnato a far risuonare, a un lustro dalla scomparsa, le musiche di Domenico Bartucci nella Basilica di Sant’Agata Maggiore. Chiuderà questa rassegna la Cappella Musicale della Cattedrale di Reggio Emilia che eseguirà, durante la celebrazione presieduta dall’Arcivescovo di Ravenna, la Missa sine nomine di Aurelio Signoretti.

In alto da sinistra: Quartetto Teatro alla Scala, Justina Auskelyte, il Duo Gazzana A sinistra, un concerto di musica vocale nella basilica di San Vitale nell’ora del Vespro

Continuando ad analizzare la programmazione si potrà individuare una particolare attenzione della XXIX edizione del Ravenna Festival verso la spiritualità declinata secondo l’antico ed il moderno. Il 9 giugno l’Ensemble vocale Voces Suaves, nella Basilica di San Francesco, eseguirà un florilegio di brani legati all’approfondimento testuale e semantico dei mondi ultraterreni della Divina Commedia: tra i compositori eseguiti non mancheranno Merulo, Monteverdi e Marenzio, ma anche la contemporanea Joanne Metcalf. Al fiammingo Jean Hanelle e alla tradizione musicale cipriota si vota il concerto che il 17 luglio vedrà i Graindelavoix valorizzare, nella cornice della Basilica di San Vitale, il repertorio che il compositore nato intorno al 1380 seppe valorizzare nell’isola mediterranea. Grande attesa ci sarà anche per il gruppo inglese The Sixteen che il 20 giugno nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe darà


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voce a musicisti attivi in circostanze contrarie alle loro idee religiose o politiche, dal Cinquecento ad oggi. Sarà invece il 24 giugno che l’Ensemble Heinavanker, nella Basilica di San Vitale, celebrerà il primo centenario della rivendicazione dell’autonomia estone dalla Russia, intonando canti tradizionali e composizione

del proprio direttore Margo Kõlar. Particolarmente interessante sarà l’appuntamento Tre fedi un solo Dio, in scena nella Basilica di San Vitale il 12 luglio, quando canti tradizionali maroniti, ebraici sefarditi e cristiani si intrecceranno per dar vita ad un’idea unitaria di canto devozionale. La musica da camera è sempre

stato uno dei fiori all’occhiello di ogni edizione di Ravenna Festival e anche quest’anno gli appuntamenti promettono ascolti interessanti, ottimi per ogni palato. Domenica 10 giugno il Quartetto del teatro alla Scala si cimenterà in un percorso che dalla Boemia di Dvorák, volerà oltreoceano verso le sonorità di Barber prima

di ritornare nell’Europa estone di Arvo Pärt. Sarà, invece, completamente statunitense l’incontro, il 17 giugno nel Chiostro della Biblioteca Classense, tra i pianisti Dennis Russell Davies e Maki Namekawa che vedrà, oltre all’esecuzione di musiche di Jarrett e Glass, la lettura in chiave >>


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pianistica del genio di Stravinskij. La musica da camera è sperimentazione e l’incontro tra l’arpa di Xavier de Maistre e le nacchere di Lucero Tena getterà una luce nuova alla musica spagnola grazie alla fusione di due mondi così lontani eppure affini, il 25 giugno nel Chiostro della Biblioteca Classense. Lo stesso luogo, il 27 giugno, sarà teatro del più tradizionale l’appuntamento col Quartetto Klimt che eseguirà musiche di Schubert, Mahler, Schnittke e Schumann racchiudendo tra di esse una composizione contemporanea dell’italiano Corghi, come legame tra il passato e il futuro. Il Duo Gazzana sarà impegnato in un omaggio a Valentin Silvestrov, le cui musiche saranno il piatto principale al quale faranno da contorno composizioni di Bach, Mozart e Ysaÿe, il 2 luglio nella Sala del Refettorio del Museo Nazionale,

spazio che vedrà anche l’esecuzione di una “integrale” delle opere di Brahms per violino e pianoforte, l’8 luglio, affidata ai giovani e promettenti Justina Auskelyte e Cesare Pezzi. Chiuderà questa maratona cameristica il Simply Quartet, vincitore del primo premio al 7° Concorso Internazionale di Musica da Camera Joseph Haydn, che il 13 luglio, nel Chiostro della Biblioteca Classense, eseguirà pagine tra le più famose scritte da Haydn, Bartók e Schubert. m

In alto da sinistra: il coro Heinavanker, Dennis Russell Davies e Maki Namekawa Al centro, il Simply Quartet In basso, Voces Suaves

Sacred music and camera musicians In 2018 Ravenna Festival Edition there are many events dedicated to sacred music: in the Basilica di San Vitale from June 1st to July 5th audience will be able to listen to “Vespri”. The second review is “In templo Domini”: on June 10th, in the Basilica di Sant'Appollinare in Classe, the Ensemble Voces Suaves will play Monteverdi, Marenzio eand Gesualdo. On June 17th, Guillaume Dufay will be the protagonist of the performance of the Flemish vocal group Graindelavoix in the Basilica di San Vitale where, on June 24th, also the Ensemble Heinavanker will perform their Estonian sounds. On July 1st the Ravenna choir Ludus Vocalis will play Domenico Bartucci in the Basilica di Sant’Agata Maggiore. The last concert of this review is with the Cappella Musicale della Cattedrale di Reggio Emilia playing “Missa sine nomine” by Aurelio Signoretti. On June 9th the Ensemble vocale Voces Suaves, in the Basilica di San Francesco, will play pieces about otherworldly worlds in the Divine Comedy by Merulo, Monteverdi, Marenzio, and the contemporary Joanne Metcalf. On July 17th a concert dedicate to the Flemish Jean Hanelle and tradition of Cyprus with Graindelavoix in the Basilica di San Vitale. The English The Sixteen will perform on June 20th in the Basilica di Sant’Apollinare in Classe a selection of composers who had different religious believes. On June 24th, the Ensemble Heinavanker, in the Basilica di San Vitale, will celebrate the first century of the demand of independence of Estonia from Russia singing traditional songs and a composition by their own conductor Margo Kõlar. On July 12th, in the Basilica di San Vitale, we will have once again "Three faiths in one God" where traditional Maronite, Sephardi and Christian music will mix together. Camera music has always been very important in Ravenna festival programs. On June 10th, the Quartet from La Scala will perform at the Chiostro della Biblioteca Classense, the same place where on June 17th the piano players Dennis Russell Davies and Maki Namekawa will play Jarrett, Glass, and Stravinskij. Xavier de Maistre's harp and Lucero Tena's castanets will mix together on June 25th and on june 27th the Quartetto Klimt will play Schubert, Mahler, Schnittke and Schumann. The Duo Gazzana will pay homage to Valentin Silvestrov on July 2nd in the Sala del Refettorio del Museo Nazionale where there will also be a performance of Brahms' works for violin and piano on July 8th with Justina Auskelyte and Cesare Pezzi. The Simply Quartet will close the review on July 13th in the Chiostro della Biblioteca Classense playing Haydn, Bartók e Schubert.


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concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

La complessa

incompiutezza dell'Arte della Fuga Intervista al Maestro Ottavio Dantone che sul podio di Accademia Bizantina si cimenta al festival con la celebre partitura di Bach DI ENRICO

GRAMIGNA

La culla culturale ravennate ha visto la nascita di molteplici realtà nel corso dei secoli. Una di queste, fondata nel 1983, è ancor oggi uno dei più bei fiori del panorama musicale internazionale: Accademia Bizantina. L’appuntamento del 10 luglio offrirà al pubblico ravennate l’opportunità di ascoltare dal vivo una tra le opere speculative più profonde di Johann Sebastian Bach, l’Arte della Fuga. Proprio intorno a questo evento il Maestro Ottavio Dantone, direttore dell’Accademia Bizantina ha risposto a qualche domanda. L’Arte della Fuga si ascrive alla produzione più speculativa tra le composizioni di Johann Sebastian Bach. Lasciata incompiuta, essa è un mistero per molti: qual è la chiave di lettura che lei e Accademia Bizantina proporrete? «La fuga è certamente una delle forme musicali più complesse e quest’opera rappresenta probabilmente l’apice delle possibilità umane in questo tipo di composizione, ma è pur sempre musica. La sfida per chiunque scriva una fuga è di riuscire a scrivere qualcosa di bello, pur col vincolo rappresentato dalle moltissime regole formali e contrappuntistiche, altrimenti resterebbe una forma musicale arida e priva di contenuti. Noi abbiamo cercato di rendere chiara e trasparente la fitta polifonia tra le voci e, nel contempo, di cercare di far emergere gli affetti e le innumerevoli emozioni presenti in quest’opera ineguagliabile». Proprio questo concerto sarà all’interno di una cornice eccezionale, la Basilica di Sant’Apollinare in Classe. C’è un significato simbolico nella composizione bachiana, un rimando all’Onnipotente? «Si sa che Bach ha fatto ricorso molto spesso alla retorica e a una complessa simbologia nelle sue opere. Ritengo, però, che non si debba cedere alla tentazione di cercare nella sua musica un’addizione o un supplemento di

significati credendo di leggere più di quello che esiste per natura. Il Kantor, per sua forma mentale e religiosa, era certamente propenso a rimandare a Dio il frutto delle sue fatiche, ma a mio parere, il vero significato simbolico e religioso dell’Arte della Fuga sta nella sua incompiutezza. Bach non conclude questo lavoro proprio nel momento in cui avrebbe potuto toccare simbolicamente vette riservate all’assoluto divino: forse in quel momento si ferma per lasciare a Dio ciò che è di Dio». La scelta dell’organico con cui eseguire l’Arte della Fuga è certamente uno dei nodi cruciali. Quali sono state le linee che vi hanno guidato verso la scelta di un quartetto d’archi con l’aggiunta di due tastiere, abbandonando così altre formazioni? «Personalmente ritengo che la scelta degli strumenti nell’Arte della Fuga non sia un grande mistero. Non capisco, infatti, perché sia necessario dover fissare un organico in un’opera dove, palesemente, non è richiesto. Il significato di questa musica trascende qualsiasi strumento e ogni epoca. La nostra scelta tiene conto del fatto che sono necessari due strumenti a tastiera. Avere un organo e un cembalo permette di avere varietà timbrica sia nei brani solistici, sia nel basso continuo. Il quartetto d’archi, oltre a rappresentare la naturale riduzione a parti reali del nostro ensemble, garantisce la possibilità di comunicare dinamiche, espressioni e affetti». Quest’anno Accademia Bizantina taglia il 35esimo anno di attività: com’è cambiata l’orchestra dagli esordi a oggi? «Nel corso di tutti questi anni ci sono stati molti cambiamenti e nuovi innesti, ma credo che all’interno del gruppo ci sia ancora molta voglia di nuove esperienze insieme, con l’arricchimento dettato da una crescente consapevolezza estetica e di linguaggio». Accademia Bizantina si è affermata

nel mondo come un faro nell’interpretazione storicamente informata. Il pubblico italiano, fino a qualche anno fa, era piuttosto refrattario a questo genere di approccio: com’è oggi la recezione di questa prassi esecutiva? «Grazie all’evoluzione sempre crescente della qualità esecutiva e tecnica degli ensemble barocchi, questa musica è sempre più compresa, recepita e apprezzata dal pubblico sia italiano che estero. La filologia, o come si dice oggi “interpretazione storicamente informata” non è altro che l’utilizzo di un linguaggio chiaro e coerente che permette all’ascoltatore di provare oggi le stesse intense emozioni del passato». Quali sono i prossimi appuntamenti e i prossimi progetti discografici di Accademia Bizantina? «Abbiamo appena realizzato diverse incisioni discografiche di musica strumentale, vocale e operistica. Ci aspettano concerti e

tournée in Europa, America e Asia, nonché il proseguimento del progetto di registrazione della Vivaldi Edition per Naïve e altro ancora». L’orchestra è emanazione del proprio direttore, ma ci sono progetti che non può, per sua natura, realizzare. Dove sarà impegnato, Maestro Dantone, senza l’Accademia? «Credo che le potenzialità dell’Accademia Bizantina vadano molto oltre il repertorio settecentesco che è usa affrontare. Abbiamo già fatto molte incursioni nell’opera romantica e abbiamo progetti che ci porteranno a eseguire autori come Schumann e Mendelssohn. Come direttore ho legami e impegni con altre realtà tra le quali la Scala di Milano, l’Opera di Zurigo, Dresda, ma è mia intenzione per il futuro rendere sempre più stabile ed esclusiva la collaborazione con la mia orchestra che rappresenta la naturale emanazione di me stesso e delle mie aspirazioni». m

The Incomplete Art of Fugue On July 10th at the Basilica di Sant'Apollinare in Classe, Accademia Bizantina will perform one of the most speculative and profound works by Sebastian Bach: the Art of the Fugue. Accademia Bizantina has been performing baroque musicfor 35 years, it has recorded albums and played concerts all around the world and the conductor Ottavio Dantone is also working at the moment with Teatro della Scala, the Zurich Opera, Dresda, even if he says he wants «to work more and more with my own orchestra, that is still looking for new experiences». Over the years they have already enlarged their activity from the XVIII century music to romantic music. And they say that philological music is today much more appreciated by people both in Italy and abroad. About the “Art of Fugue”, Dantone answers: «It certainly is one of the most complicated forms of music and it probably represents the apex of human possibility for this kind of composition, but it is music. We have tried to make the thick polyphony among voices clear and transparent and at the same time let the many present emotions emerge. In my opinion, the true symbolic and religious meaning of the Art of the Fugue is its being incomplete: maybe Bach decided to stop in order to give God what is God's». About the choice of instruments he adds: «The meaning of this music transcends any instrument and any time. One organ and one harpsichord will allow to have timbre variety, while the string quartet will grant the possibility to communicate expressions and feelings».


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doppio ruolo

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

Mozart e Bach

interpretati al pianoforte ...e con la bacchetta Conversazione con il solista e direttore d'orchestra David Fray, impegnato al festival alla tastiera ma anche alla guida dell’orchestra Cherubini DI ENRICO GRAMIGNA

Pluripremiato pianista francese, David Fray è una di quelle personalità interessanti capaci di coniugare lo spirito apollineo e quello dionisiaco trovando un’efficace sintesi sulla tastiera. Nella XXIX edizione del Ravenna Festival sarà protagonista dell’appuntamento del 26 giugno al teatro Alighieri dove sarà alla testa dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini con la quale eseguirà i concerti BWV 1052 e BWV 1055 di Johann Sebastian Bach e il concerto K 491 di Wolfgang Amadeus Mozart. Maestro, cos’è che ha guidato la scelta dei brani in programma per il concerto al teatro Alighieri del prossimo 26 giugno? «Non c’è stato un progetto particolare, tutto parte dalla volontà di proporre un programma senza direttore, quasi a sottendere l’idea di fare musica da camera e instaurare un legame diretto con i bravissimi musicisti dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini». È vero che la figura del direttore d’orchestra si è imposta nell’Ottocento, tuttavia, eseguire i concerti rivestendo sia il ruolo di solista sia quello di direttore è sicuramente un’aderenza filologica. È a questa idea che si ascrive la scelta di ricoprire il doppio ruolo? «Il repertorio per pianoforte e orchestra che si può affrontare senza direttore è abbastanza limitato: Bach, Mozart e forse i concerti giovanili di Beethoven. Si è pensato quindi di ideare un concerto diviso in due parti, la prima dedicata a due opere bachiane e la seconda a uno dei più bei concerti scritti da Mozart. Questi brani sono stabilmente nel mio repertorio da diverso tempo e proprio per questo motivo ho creduto di avere un certo grado di maturità che mi permettesse di ricoprire al meglio il doppio ruolo di pianista e direttore». Cosa significa, per un fine interprete come lei è, eseguire una trascrizione per tastiera ed

orchestra di Bach? «Domanda difficile. Bisogna partire dal fatto che Bach ha utilizzato tutte le tastiere a lui note, organo, clavicembalo, virginale, ma purtroppo non ha mai avuto la possibilità di conoscere un fortepiano come quello che, invece, Mozart, per esempio, suonava. In tanti brani si può vedere come non sia il timbro specifico dello strumento ciò che interessi veramente a Bach, ma il senso del colore. Una certa scuola interpretativa, influenzata dalle esibizioni e registrazioni di Glenn Gould, riduce tutto a poli opposti, bianco-nero, ma questa idea non mi ha mai soddisfatto, ho sempre pensato ci fosse altro. Vista la quantità (oltre che la qualità) delle trascrizioni bachiane, ritengo sia giusto pensare che fosse la varietà di colore quella a cui ambisse il compositore tedesco». Ritiane, quindi, che, nonostante il pianoforte modernamente inteso non esistesse ancora ai tempi di Bach, esso possa essere considerato un valido strumento per leggere la sua poetica? «Certo approcciarsi alla letteratura di questo periodo suonandola su uno strumento che all’epoca era ancora in fase di sviluppo non è facile. Non tutta la letteratura clavicembalistica, per contro, è adatta, a mio avviso, all’esecuzione sul pianoforte; ritengo che le composizioni di Scarlatti o di celebri clavicembalisti francesi quali Couperin e Rameau trovino la loro piena essenza nell’esecuzione su tastiere storiche, mentre per le composizioni di Bach, questa necessità viene a mancare». Data la grande differenza dovuta all’evoluzione dello strumento, come si può leggere il pianismo mozartiano sulla tastiera moderna? «Per Mozart l’idea che deve guidare l’interprete è, a mio avviso, il pensiero operistico. Il pianoforte è uno strumento capace di cantare, ossia valorizzare la melodia, anche se non è semplice e immediato come su altri strumenti, tuttavia è proprio l’idea teatrale che può guidare verso un’adeguata miscela dei colori, delle dinamiche e, perché no, del pedale».

Quali sono i Suoi progetti per il futuro? Ha in programma tournées, dischi? Rimarrà sul versante concertistico o lavorerà anche a progetti cameristici? «Il futuro. Noi musicisti, purtroppo, siamo abituati a sapere cosa dovremo suonare tra due anni, ma io, attualmente, voglio concentrarmi sul presente. Che per me oggi significa Bach. Ho un grande amore per questo compositore e nel futuro prossimo suonerò le Variazioni Goldberg, le sei sonate per violino e clavicembalo (con Renaud Capuçon, ndr) e ancora i concerti a 2, 3 e 4 tastiere. Proprio questi ultimi due progetti saranno anche tradotti in incisioni discografiche che vedranno la luce a partire dal prossimo anno». Da giovane, ma ormai navigato artista, come vede il futuro della musica colta, non solo in Italia, ma in Europa e, perché no, nel mondo? «Chissà. Nella mia esperienza personale posso dire che le sale da concerto che frequento sono sempre piene perché, alla fine, sono convinto che in un mondo tumultuoso come il nostro ci sia davvero il bisogno di un’oasi come

solo la musica può offrire. In molti dicono che bisognerebbe reinventare i concerti, invece io sono del parere opposto, cioè penso che si debba resistere, come paradigma di quale peso possano avere sia il suono sia il silenzio. Bisogna compiere un atto di resistenza al mondo». Quindi è dell’idea che in futuro ci sarà ancora spazio per la musica colta? «Certo, questo mondo sta disumanizzando tutto portando agli estremi ogni cosa, tuttavia la civiltà esiste ancora. Rendere accessibile l’arte senza però snaturarla può essere una direzione nella quale lavorare. Personalmente ritengo che tanto si possa fare lavorando sui bambini dai 4 ai 9 anni: l’istruzione della musica in questa fascia d’età è molto carente, proprio quando non esiste ancora bisogno di etichette, ma si esperisce il mondo intero. Seminare l’idea dell’arte a questa età trova terreno fertile, invece, purtroppo questa fortuna ce l’hanno in pochi. Arrivati all’adolescenza, i ragazzi non hanno più desiderio di imparare, ma di omologarsi. L’errore di oggi è, a mio avviso, di lavorare sull’arte troppo tardi». m

Mozart and Bach for piano and... baton The French piano player David Fray is able to combine the Apollonian and Dionysian spirits. On June 26th he will perform at Teatro Alighieri, conducting the Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, Bach's concerts BWV 1052 and BWV 1055 and Mozart's concert K 491. A choice, he explains, dictated by the idea of proposing a program «without the conductor». And the piano repertoire you can perform without conductor is quite limited: Bach, Mozart and maybe some young Beethoven. «I have been playing these pieces for a long time» he adds. How does such a fine interpreter like David Fray approach a Bach's transcription for keys? «Bach has used all the keys he knew - organ, harpsichord - but unfortunately he never had the chance to know a fortepiano like the one Mozart played. Considering the amount and the variety of Bach's transcriptions, I think he mainly aimed at variety in color. I know that approaching past literature with an instrument that did not exist at the time scores were composed is not easy. And not all harpsichord literature can be performed with a piano, but this is not the case with Bach's». When you play Mozart, Fray adds: «you have to think at opera». Plans for the future? «I want to concentrate on present times, which mean Bach for me. I will play Goldberg Variations and concerts 2, 3 and 4, which will also be recorded». «Do we still need art music? I think we do, as in such a loud world like the one we live in I think we need an oasis like the one only music can offer. We have to fulfill an act of resistance: we have to make art accessible without distort it. We have to work with kids from 4 to 9 years, before they become teen agers when their desire is not anymore to learn but to conform to others».


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musica e spiritualità

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

Il canto ritrovato della cetra

Conversazione con il direttore artistico Angelo Nicastro su musica colta e popolare, libertà creativa e spiritualità, arte e potere

Vaso attico con suonatori di cetra (V sec. a.C.)

DI

ATTILIA TARTAGNI

La cetra è per antonomasia lo strumento musicale che accompagna il canto e l’ispirazione poetica, il più diffuso nell’antichità classica. Collegata al dio Apollo, la cetra si identifica nell’ellenismo come lo strumento di maggior prestigio in cui vengono convogliati ideali di bellezza e di virtù. Si legge nell’Iliade: ...Alle tende venuti ed alle navi / de’ Mirmidòni, ritrovar l’eroe / che ricreava colla cetra il cor. / cetra arguta e gentile che la traversa / avea d’argento… Nicastro, al di là dell’etimologia e delle sue antichissime origini, che cosa rappresenta questo strumento nella storia della musica? «La cetra è la musica stessa, la

sua rappresentazione mitica, metafisica e mistica. La sezione del Ravenna Festival richiama l’antico mito di Orfeo, che al suono della cetra varcò l’oltretomba ed è emblematica del potere della musica di aprire le porte dell’anima e di sconfinare nel metafisico, ma rimanda anche ad immagini bibliche connesse al delicato rapporto fra l’espressione artistica e il potere». Perché canto ritrovato della cetra? «Il titolo di questa sezione di Ravenna Festival richiama l’incipit del Salmo 136 Super flumina Babylonis: «Lungo i fiumi di Babilonia, lì sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre», citazione biblica che appare

anche nel celebre coro del Nabucco, “Va pensiero”. E’ un’immagine fortemente simbolica del dolore muto dei deportati ebrei, incapaci di levare i loro inni di lode a Dio, che ritorna ancor più cruda nei celebri versi di Salvatore Quasimodo coniati col cuore oppresso dall’occupazione nazista «Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese /, oscillavano lievi al triste vento». Dopo l’immane tragedia di Auschwitz, Adorno scrisse che nessuna forma d’arte era più possibile e si teorizzò la morte dell’arte.» Ammutolire di fronte alla deportazione, al sopruso, al potere totalitario è un tema antico e sempre attuale. Perché entra nel Festival? «Già lo scorso anno, ricordando i

cento anni trascorsi dalla Rivoluzione d’Ottobre, scegliemmo come titolo emblematico del Ravenna Festival “Il rumore del tempo”, citazione del libro di Julian Barnes dedicato a Dmitrij Shostakovich e al suo controverso e sofferto rapporto col potere sovietico. Paradossalmente proprio all’interno di quello stesso opprimente sistema totalitario, sono emersi una serie di compositori che hanno sperimentato e percorso nuove strade che, in controcorrente rispetto al progressivo inaridirsi della spinta innovativa delle avanguardie storiche, hanno riposto al centro il primato della musica come forma di una bellezza ricercata e desiderata, come profonda e irrefrenabile esigenza di espressione umana. >>


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The hotel Cappello is in Palazzo Bracci, one of the most interesting building dating back to Renaissence in the historical center of Ravenna. The Restaurant offers a local cuisine reinterpreted by the chef in seasonal meat and seafood menus. The cellar offers a wide selection of local and national wines. The Hotel has seven rooms, each showing different ancient frescoes.

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musica e spiritualità

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

In alto da sinistra: Apollo Citaredo, (I sec. d.C.) Affresco della necropoli etrusca di Tarquinia ( V sec. a.C.) Affresco raffigurante una donna romana che suona la cetra (I sec. a.C.). Dipinto di Lawrence Alma Tadema, Saffo e Alceo (1881) Sotto: veduta aerea della Cittadella di Aleppo (Siria)

La cetra ha ritrovato il suo canto. A questi autori e alla loro musica sarà dedicata una serie di appuntamenti di questa edizione Ravenna Festival». Lei fa riferimento alla musica come espressione e racconto che ha il potere metafisico di toccare corde intime profondissime e di spalancare orizzonti di bellezza e spiritualità. Perché tanta musica del Novecento si è negata a questa funzione? «L’esigenza di nuovo, il bisogno di rompere col passato per affermare nuove istanze e la ricerca di modalità che consentissero di liberarsi da forme che si riteneva avessero fatto il loro tempo ed esaurito le proprie potenzialità e la loro ragion d’essere, ha portato ad un progressivo radicalismo e ad una

ideologizzazione che hanno condotto a rifiutare a priori tutto ciò che avesse anche solo la parvenza di un rimando al passato; ogni forma di consonanza, di accenno melodico o di rimando tonale veniva bollato come reazionario. Il procedimento compositivo, lo schema mentale adottato come principio di genesi di un’opera dal compositore, è diventato sempre più avulso dall’esito sonoro, fine a se stesso, il suo ermetismo un vezzo di cui compiacersi. La ricerca di una libertà dalle forme del passato si è progressivamente involuta di fatto in una schiavitù totale rispetto a quello che possiamo considerare un nuovo principio di forma (anche se ritenuto una nonforma); il giusto rifiuto di tutto ciò che aveva un sapore accademico ha prodotto nuovi formalismi dove si è spacciata per musica anche tanta mediocre applicazione di sterili tecniche compositive; l’astrusità è stata spesso spacciata come il segno distintivo di un linguaggio rivolto ad un pubblico di competenti o pseudo tali». Bell’argomento la comunicazione fra compositore e pubblico. Per chi opera il musicista?

«Credo che un compositore debba scrivere innanzitutto per se stesso e per una sua intrinseca esigenza interiore. Tanto più questa esigenza è autentica tanto più la sua musica avrà un carattere di universalità. L’involuzione del linguaggio cui abbiamo accennato è certamente una delle cause che sta all’origine della distanza che, oggi come non mai, si è venuta a creare col pubblico». Parliamo dei compositori contemplati dal Festival 2018 che hanno tentato di ricucire questo rapporto. «Sono musicisti che hanno sperimentato la pesantezza dei sistemi totalitari del secolo scorso portandone le ferite nella propria carne. Ampio spazio sarà dato al compositore ucraino Valentin Silvestrov che avremo di persona a Ravenna Festival al ritorno dal nostro “viaggio dell’amicizia” che quest’anno ci porterà proprio a Kiev, città natale di Silvestrov. Per farsi un’idea della portata di questo autore, vorrei citare quel che hanno detto di lui la poetessa russa Ol’ga Sedakova e il compositore estone Arvo Pärt: “Silvestrov è un artista sorprendentemente indipendente della nostra epoca. Non prende in considerazione ciò che viene chiamato “nostro tempo” o “contemporaneità” e di cui, chissà perché, tutti sanno tutto. Ad esempio, che ormai non può più esistere l’armonia. Come pure la bellezza...”; “Se mi chiedessero di fare il nome di un compositore contemporaneo, il primo che pronuncerei è quello di Sil’vestrov. Valentin è senza alcun dubbio il compositore più interessante di oggi, anche se la maggioranza riuscirà a capirlo solo molto più tardi...”. Lo stesso Teodor Adorno lo aveva in altissima considerazione fin dai

tempi difficili della censura sovietica quando era stato estromesso dell’Unione dei compositori ucraini per “turbativa all’ordine pubblico”. Scrisse di lui: “La mia impressione su Silvestrov è che sia una persona realmente molto dotata. Non posso condividere l’obiezione di alcuni puristi, secondo cui la sua musica sarebbe troppo espressiva...”. Nei tre giorni a lui dedicati saranno eseguiti due concerti; il primo dal Duo Gazzana (violino e pianoforte) nella Sala del Refettorio del Museo Nazionale il 2 luglio con un programma composito di brani del nostro autore e rimandi al passato e alle fonti ispiratrici di Valentin Silvestrov, da Bach a Mozart, a Ysaÿe; il secondo, interamente monografico, il 4 luglio a Sant’Apollinare in Classe vedrà coinvolti Orchestra e Coro dell’Opera Nazionale di Ucraina in Elegia e pastorale per orchestra d’archi e pianoforte, Cantata n. 4 per voce, archi e pianoforte, Canti liturgici. E’ inoltre previsto un incontro con il compositore uscraino in dialogo con Konstantin Sigov, docente di Filosofia Contemporanea all’Università di Kiev. Nel corso dell’incontro il 3 luglio alle ore 17,30 nella Sala del Refettorio del Museo Nazionale, lo stesso Silvestrov eseguirà alcune sue composizioni per pianoforte. Altri protagonisti di rilievo degli appuntamenti con “Il canto ritrovato della cetra” saranno autori certamente più noti al pubblico quali Alfred Schnittke e Arvo Pärt». Uno degli appuntamenti previsti avrà come titolo proprio l’incipit del già citato salmo Super Flumina Babylonis... >>


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concerti

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«Si, il Salmo 136, appunto, che evoca la tragedia del popolo ebraico di fronte alla distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. e il conseguente esilio babilonese. Il celebre salmo, musicato da innumerevoli autori nel corso della storia della musica, sarà presentato nell’intonazione che ne ha dato Philippe de Monte (compositore fiammingo del XVI sec.) all’interno del programma proposto dal celebre Ensemble vocale britannico The Sixteen,

The Recovered Sound of Zither. A conversation with the artistic director Angelo Nicastro Zither is by definition the instrument accompanying songs and poetic inspiration, the most widespread in the ancient times, related to the God Apollo. The artistic director Angelo Nicastro explains: «zither is music itself, its mythical and mystical representation. The section dedicated to zither in Ravenna Festival recalls the ancient myth of Orpheus who crossed the threshold of the Underworld. But the title also recalls the incipit of “Psalm 136 Super flumina Babylonis”, which appears also in Nabucco. It is a strong image of the mute pain of deported Jewish people. After Auschiwtz, Adorno wrote that “no form of art was possible anylonger”». Why does this Festival deal with this idea? «Zither has recovered his chant. During communist regimes, many authors have experimented and produced new music. A series of events of the Ravenna Festival will be dedicated to them». Why did so much XX century music give up the function to open new horizons of Beauty? «The exigencies of novelty has brought to a progressive radicalism that has made artists refuse everything that seemed to recall past times. The composing process has become more and more detached from the sound outcome and its being abstruse has become something to be pleased with. New formalisms have considered sterile composing techniques as music. I think musicians should compose for themselves, for their interior need to do so. The more authentic the need is, the more universal their music will be. I think one the composers who worked to compose this fracture is Valentin Silvestrov, to whom we will dedicate a series of events: Duo Gazzana (violin and piano) in the Sala del Refettorio del Museo Nazionale on July 2nd while on July 4th in Sant’Apollinare in Classe there will be the Orchestra and choir of the National Opera in Ucraina. There will be also a meeting with Valentin Silvetrov together with Konstantin Sigov on July 3rd at 17.30 in the Sala del Refettorio del Museo Nazionale, when Silvestrov will play his pieces for piano». There will also be space for Siria on June 15th a Biblioteca Classense with "The splendour of Aleppo" when Razek-François Bitar, with Salim Saroueh (violin), Bakri Maslmani (qanun), Georges Saade (riqq e darbuqa) and Paolo Scarnecchia as narrator. Other evens are: Basilica di San Vitale – June 17th – Vespri Ciprioti with Graindelavoix, conductor Björn Schmelze. Chiostro della Biblioteca Classense - June 25tho - Xavier de Maistre (harp), Lucero Tena (castanets). Chiostro della Biblioteca Classense - June 27th - Quartetto Klimt. . S.Vitale - July 12th - Three faiths for on God with Patrizia Bovi, Fadia Tomb Ei-Hage and Francoise Atlan. On June 20th The Sixteen, conducted by Hary Christophers in S.Apollinare in Classe.

diretto da Harry Christophers con musiche di Arvo Pärt, William Byrd, Philippe de Monte, Thomas Tallis, John Taverner a Sant’Apollinare in Classe il 20 giugno. Non fu facile “far risuonare la cetra” neppure per William Byrd cattolico attivo alla corte anglicana di Elisabetta I né per Arvo Pärt che, quattro secoli dopo, nell’Estonia dominata dal potere sovietico, si scontrò duramente con la censura». L’area geografica del vicino oriente, è purtroppo ancora teatro drammatico di sanguinosi conflitti, le cetre ancora pendono dai salici piangenti. «Ad Aleppo, devastata da cinque anni di guerra e ridotta a cumulo di macerie, dedicheremo un concerto che avrà come protagonisti alcuni musicisti siriani fuggiti dalla loro terra; leveranno le loro cetre come auspicio di rinascita di quello che è stato un centro culturale e cosmopolita straordinario per il ricchissimo patrimonio di canti liturgici e devozionali delle varie comunità che vi convivevano. Il 15 giugno alla Biblioteca Classense “Lo splendore di Aleppo” presenterà i canti d’amore e di lode delle comunità siro-cristiana, armena, musulmana e giudaica intonati da Razek-François Bitar, controtenore originario di Aleppo, accompagnato da Salim Saroueh al violino, Bakri Maslmani al qanun, Georges Saade al riqq e darbuqa, e con Paolo Scarnecchia in veste di narratore» . Seguono gli altri altri importanti appuntamenti che completano la sezione de “ll canto ritrovato


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concerti

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della cetra”: alla Basilica di San Vitale il 17 giugno i Vespri Ciprioti con musiche di Jean Hanelle e della tradizione cipriota eseguite da Graindelavoix, direttore Björn Schmelze. Al Chiostro della Biblioteca Classense il 25 giugno concerto di Xavier de Maistre (arpa) e Lucero Tena (nacchere), con musiche di Mateo Pérez de Albéniz, Antonio Soler, Enrique Granados, Jesús Guridi, Francisco Tárrega, Manuel de

Falla. L’ottantenne Lucero Tena, regina del flamenco, alle nacchere con il giovane francese Xavier De Maistre: due generazioni a confronto sulla via di inesplorate sonorità strumentali. Sempre al Chiostro della Biblioteca Classense il 27 giugno si esibisce il Quartetto Klimt; Al centro del programma l’esecuzione ravvicinata del frammento del quartetto che il giovane Mahler, allievo del conservatorio di Vienna, scrisse

come esercitazione nel 1876 e il quartetto composto nel 1988 da un maturo Alfred Schnittke, ispirato dall’audacia formale e armonica di quel frammento mahleriano. Infine a San Vitale il 12 luglio Tre Fedi un solo Dio: dalla musica della chiesa maronita d’Oriente alla tradizione ebraica saferdita, dalla tradizione sufi alle preghiere della mistica Ildegarda di Bingen, sacre vocalità con Patrizia Bovi, Fadia Tomb Ei-Hage e Francoise Atlan. m

Sopra, da sinistra: Xavier de Maistre e Lucero Tena, Duo Gazzana, Quartetto Klimt, l’ensemble Graindelavoix. il coro The Sixteen A sinistra, nella foto sotto le cantanti Patrizia Bovi, Fadia Tomb El-Hage, Francoise Atlan


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Verdi, ancora Verdi, fortissimamente Verdi La Trilogia d'Autunno del festival torna per la terza volta a mettere in scena le opere del genio di Busseto. Un inedito Nabucco e il riallestimento di Otello e Rigoletto con l'esperta regia di Cristina Mazzavillani Muti e un cast di giovani voci e musicisti DI ATTILIA TARTAGNI

Verdi, ancora Verdi, fortissimamente Verdi. È la terza trilogia ravennate dedicata al massimo compositore di opere e di canto lirico in morte del quale (1901) il poeta D’Annunzio scrisse: «Diede una voce alle speranze e ai lutti, pianse ed amò per tutti». Essa contempla tre momenti essenziali della carriera e del linguaggio verdiani dal formidabile impatto su pubblico e critica. Nabucco (1842) aprì, dopo l’insuccesso di Un giorno di regno, la straordinaria carriera del compositore; Rigoletto (1851), parte della Trilogia Popolare, fu a giudizio dell’autore la sua opera più riuscita, Otello (1887), fu composto da un ultrasettantenne Verdi, sollecitato da Arrigo Boito e dall’editore Giulio Ricordi, a qualche lustro da Aida. Verdi nei suoi cinquanta anni di carriera ha monopolizzato la scena teatrale e ha lasciato un solco profondissimo nella storia della musica, rinnovando e rinnovandosi. We have a dream, titolo del Festival 2018, calza perfettamente alla sua carriera. Nativo di Busseto (Parma), di umili origini, ci fu chi, credendo nel suo talento, ne finanziò gli studi e gli esordi a Milano prima che una serie di successi, costruiti a ritmi folli di lavoro nei cosiddetti “gli anni di galera” destinati ad affrancarlo dal bisogno, affermassero Verdi anche oltralpe. Musicista di levatura europea, acclamato a Parigi, a Londra e a San Pietroburgo, rimase sempre legato alle origini trovando nelle terre parmensi ristoro e ispirazione. Per Rigoletto (1851), libretto di Francesco Maria Piave su soggetto tratto da Le roi s’amuse di Victor Hugo, Verdi si scontrò con la censura perché accettasse un protagonista deforme. Egli era solito battersi con determinazione per il diritto dell’autore di affermare le sue scelte e difenderle quando entravano stabilmente in repertorio. Otello, dal dramma omonimo di Shakespeare, è l’opera della tarda maturità, quando il clima culturale, economico, sociale è totalmente mutato, trionfano comunicazioni e tecnologie e l’Italia è finalmente unita forse anche un po’ grazie alla

sua musica. Per la prima volta Verdi non prevarica il librettista Boito, poeta di grande spessore, e imbocca una via nuova che esula dalle forme chiuse e dagli schemi precedenti preludendo alla svolta definitiva di Falstaff, suo testamento umano e artistico. Nabucco (anno 1842) su libretto di Temistocle Solera, rappresenta il primo pieno successo e l’apertura di una carriera straordinaria. Per Verdi che meditava di abbandonare la musica dopo la perdita per malattia dei due figli e della giovane moglie, deluso anche professionalmente, fu una rinascita. Del libretto di Solera, quasi impostogli a forza dall’impresario Merelli, lo colpirono subito i versi del “Và pensiero” e da essi partì per comporre l’opera ispirata alla Bibbia, sua lettura costante. Le prove di Nabucco, coordinate dal compositore (non

Quadro dall’Otello messo in scena a Ravenna nel 2013, per la regia di Cristina Mazzavillani Muti, che sarà riallestito in occasione della Trilogia d’Autunno 2018

c’erano ancora i registi) durarono una quindicina di giorni incantando gli astanti. Verdi pagò di tasca propria per infoltire la schiera dei coristi della Scala, conscio della centralità del popolo e del coro dall’afflato universale in quell’opera biblica baciata dalla fortuna. «I costumi raffazzonati alla meglio riescono splendidi! Scene vecchie, riaccomodate dal pittore Perroni, sortono invece un effetto straordinario: la prima scena del tempio in specie produce un effetto così grande che gli applausi del pubblico durano ben dieci minuti!» (da A. Pougin, cronista dell’epoca). Le tre opere, affidate alla regia di Cristina Mazzavillani, affiancata dal solito cast tecnico d’eccezione nell’esecuzione dell’Orchestra Giovanile Cherubini, usciranno da un work in progress che prevede casting per la scelta delle voci e prove giornaliere volte a dare forma e anima a ogni rappresentazione. Dei tre capolavori verdiani, Rigoletto e Otello (sul palco dell’Alighieri rispettivamente il 24, 28 novembre e 1 dicembre; 25, 29 novembre e 2 dicembre) sono riallestimenti di produzioni già messe in scena da Cristina Mazzavillani Muti a Ravenna. Per il Nabucco (23, 27, 30 novembre) si tratta di una creazione scenica del tutto inedita per la fucina operistica del festival ravennate. m

The Autumn Trilogy dedicated to Verdi A third trilogy dedicated to Giuseppe Verdi will be staged in Ravenna in Autumn 2018 and it will include: Nabucco (1842), Rigoletto (1851), Othello (1887). Verdi's career was unique and extraordinary: he was acclaimed in Paris, London, SaintPetersburg, but he kept going back to his origins, in Parma's surrounding, to find rest and inspiration. Francesco Maria Piave’s libretto of “Rigoletto” was taken from Victor Hugo’s “Le roi s'amuse” and Verdi risked to be censored because of the deformed protagonist. “Othell”o, taken from Shakespeare’s tragedy, is the work Verdi wrote in his age of old maturity when Italy had been at last unified. “Nabucco”, based on Temistocle Solera's libretto, represents the composer’s first success, a rebirth after the death of two children and his young wife. The three operas will be directed by Cristina Mazzavillani Muti and played by the Orchestra Giovanile Cherubini. Nabucco 23td, 27th, 30th November, at 20.30. Rigoletto 24, 28 November, 1 December at 20.30; Othello 25th November and 2nd December at 15.30; 29th November at 20.30


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Ancora alla scoperta delle energie (e dei sogni) dei più giovani lavorare in seno alla nostra comunità – sottolinea Cristina Mazzavillani Muti – e voglio continuare questo percorso, che in modi diversi ha sempre accompagnato il mio modo di essere. Un Festival che voglia essere un punto di riferimento per tutti coloro che amano la musica e l’arte non vive soltanto di grandi interpreti internazionali e grandi produzioni, ma anche di sensibilità e attenzione per quelle giovani energie creative che germogliano proprio sotto i nostri occhi». Energie che non solo germogliano, ma crescono: molti dei ragazzi che hanno già partecipato all’iniziativa nel 2017 si sono infatti ripresentati quest’anno offrendo così l’occasione per valutare assieme il cambiamento. m

Per il secondo anno consecutivo il festival ha incontrato i ragazzi fra gli 8 e i 18 anni che hanno risposto all’invito di Cristina Mazzavillani Muti e che sono saliti a decine sul palcoscenico del Teatro Alighieri per il percorso “Alla scoperta delle energie creative della Romagna”, condividendo la propria passione con la Direzione del Festival, ma anche con il pubblico che ha assistito alle audizioni. L'iniziativa – avviata nel 2017 – ha dato seguito ad uno straordinario censimento delle giovani energie del territorio avviata nel 2017, a cui è offerta la possibilità di mettersi in gioco su un prestigioso palcoscenico e di ricevere suggerimenti e consigli; una chance per la città di scoprire i nuovi paesaggi della creatività, una geografia composta di sogni e dedizione. Alla chiamata hanno risposto in tanti che si sono esibiti – come previsto dal format delle audizioni – senza limiti alle discipline artistiche presentate né ai contenuti. Chi al pianoforte e chi alla batteria, altri al violino, alla

tromba o alla chitarra; sulle punte o misurandosi con la danza contemporanea, l’hip hop, la break-dance… C’è chi ha cantato – dalla lirica alla musica pop – e chi ha recitato, chi ha scelto il jazz, chi invece la musica elettronica. Tutti con un sogno ma anche con una possibilità di cimentarsi, su di un vero palcoscenico, con un pubblico attento, e di farsi conoscere. «Mettere in campo queste energie è il sistema più fecondo per

Tornano le matinèe dedicate a Dante con spettacoli agli Antichi Chiostri Francescani Si rinnova con i consueti appuntamenti giornalieri dall'1 giugno al 5 luglio, negli spazi degli Antichi Chiostri Francescani, la rassegna Giovani artisti per Dante. Ogni mattina, accanto alla Tomba di Dante, si tiene un omaggio al Poeta. Così il Ravenna Festival – in collaborazione con la Società Dante Alighieri – favorisce l’incontro fra la straordinaria eredità linguistica, letteraria e culturale di Dante e la nuova generazione di artisti, le cui creazioni e invenzioni contribuiscono al programma quotidiano di eventi nel cuore della “zona dantesca”. Sul cammino verso il 2021, settimo centenario della morte di Dante a Ravenna, sono previsti spettacoli nati dall’incontro con il mondo della scuola e con le realtà artistiche del territorio, accanto a proposte selezionate attraverso un bando internazionale. Protagonista, sempre, Dante: letto e riletto attraverso tutti i linguaggi performativi, a testimonianza dell’inesausta vitalità della sua opera. In calendario La profezia di Dante proposta dagli studenti del Liceo Artistico “NerviSeverini”; Caronte… ad astratti furori di Stellario Di Blasi; Dante ad Auschwitz di Sergio di Benedetto; Dante is back di Marco Di Giorgio; Durante - Canzoni surreali sulla Divina Commedia di EQU. Inizio delle performance alle ore 11.


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«Brush up your Shakespeare!» una commedia musicale degli equivoci Va in scena, grazie all'allestimento della compagnia Opera North, Kiss me, Kate! di Cole Porter, fra i più amati musical di Broadway del primo dopoguerra

DI ERIKA BALDINI

Brush up your Shakespeare / Start quoting him now / Brush up your Shakespeare / And the women you will wow / Just declaim a few lines from Othella / And they’ll think you’re a hell of a fella... cantano due sguaiati gangster al protagonista maschile della commedia musicale Kiss Me, Kate!, invitando forse il capocomico a ripassare Shakespeare quando la realtà dell’esistenza non brilla come quella del teatro. Musiche di Cole Porter, libretto di Samuel e Bella Spewack, Kiss Me, Kate! (dopo un anteprima a Filadelfia) debuttò al New Century Theatre di Broadway il 30 dicembre 1948. Fu subito un trionfale successo di pubblico e di critica:

Nella foto in alto, gli artisti della compagnia Opera North impegnati nelle prove del musical

oltre 1.000 rappresentazioni, la vittoria ai prestigiosi Tony Awards. Perfetto ed insuperato esempio di teatro nel teatro, il musical racconta le vicende di Fred Graham, attore e regista, e della sua ex-moglie attrice Lilli Vanessi, nuovamente assieme per mettere in scena, tra baruffe e ripicche, la commedia shakespeariana La bisbetica domata. Le loro tempestose vite amorose sono destinate a scontrarsi, attizzate dall’attuale nuovo flirt di Fred, Lois Lane, e dal suo fidanzato Bill, ballerino della compagnia. Il disastro sembra inevitabile quando gli scagnozzi di una bisca clandestina provano a recuperare dall’innocente Fred un debito di gioco che Bill ha contratto falsificando la firma del regista. Brush Up Your Shakespeare, non è il brano più famoso scritto da Porter per la commedia. Another Opening Another Show, Too Darn Hot o Wunderbar lo sono certamente di più ma con Brush Up, il celebre compositore americano – musicista malinconico in continua >>

Kiss me, Kate! the musical by Cole Porter Kiss me, Kate! – music by Cole Porter, script by Samuel and Bella Spewack – was performed for the first time in Broadway on December 30th, 1948. It was an immediate success: it was replayed more the 1000 times and won many prizes. The musical tells the story of the actor and director Fred Graham and his former wife, the actress Lilli Vanessi. They are together as they have to put on stage Shakespeare's comedy Taming the Shrew. Porter and Mr. and Mrs Spewach “updated” their personal Shakespeare imaging a theatre company engaged in staging the comedy in an old Baltimore: a backstage musical full of jokes, scuffles, dances and coups de theatre. This musical is today considered a watershed in the history of musical comedies as songs are not isolated, but they are part of the structure of plot and characters. On June 7th, 8th, 9th the comedy will be represented at Teatro Alighieri (a national première) by the company Opera North, from the Grand Theatre of Leeds. The company aims at refreshing theatre classics. What could be more interesting than staging Shakespeare revisited by Cole Porter? Edward Goggin, Revival Director says: «More than 140 people will come to Ravenna (49 technicians, 25 member of the Choir of the Orchestra, 43 members of the Opera North Orchestra, 25 artists among dancers, actors)». The new production is very respectful of the original and the visual part is also faithful to the 1948 version. The stage is divided in two, and the difference between the part representing the stage and the one that is the backstage is very much stressed by a different use of colors. Goggin adds: «Extraordinary Shakespeare's intuitions about human relationships and his dramatic exploration are timeless. Also Porter's intelligence stands the test of time».


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fuga dalla mediocrità del quotidiano – rivela l’essenza del suo lavoro: la celebrazione della gioia e della follia della vita in teatro, la farsesca e a tratti divertente battaglia tra i sessi, l’omaggio allo spirito brillante ed universale di Shakespeare. Fu l’attrice teatrale Bella Spewach – protagonista col marito di un precedente lavoro di Porter (Leave It To Me, 1938) – a proporre all’artista una collaborazione per creare una versione musicale de La bisbetica domata. Tantissimi autori, in epoche e con stilli differenti, hanno “rinfrescato” Shakespeare traendo spunto ed ispirazione, ossequiando o copiando, riscrivendo e attualizzando le commedie e le tragedie del favoloso drammaturgo

inglese. Si ripassa, si modernizza un’idea, una storia, una verità. Chi è di casa a teatro non scappa: prima o poi incontra l’immortale Bardo. Porter e gli Spewach “attualizzarono” il loro personale Shakespeare rappresentando non La bisbetica domata ma bensì una compagnia teatrale che, in una datata Baltimora, mette in scena La bisbetica domata: un vero e proprio backstage musical tra schermaglie amorose, balletti e colpi di scena. L’opera oggi viene considerata unanimemente uno spartiacque della commedia musicale della prima metà del ‘900, dove le canzoni non sono numeri isolati ma nervatura e struttura di trama e personaggi. Porter in realtà pensava che Shakespeare fosse troppo

“poetico” per il suo stile, ma aveva lavorato bene con Bella, erano amici (anche se in seguito i loro rapporti andranno deteriorandosi) e accettò l’ingaggio. Così il compositore ritornò agli applausi e al grande successo a 57 anni, dopo alcuni flop a teatro, quando molti davano per definitivamente esaurito il suo estro creativo, e mentre la vita non gli arrideva: combattuto com’era tra il dolore e il rischio di un amputazione alle gambe, conseguenza di un grave incidente, e l’assistenza amorevole alla moglie ammalata. Lui che aveva cominciato a scrivere per divertimento operette all’età di dieci anni, lui che assieme a Gershwin e Berlin diventerà nume tutelare di Broadway e del più

classico cinema hollywoodiano, farà dello Shakespeare commediante un’aria di briosa leggerezza nei giochi della seduzione. Paladina del teatro musicale, vivace organizzazione che sfida i preconcetti sull’opera, la compagnia Opera North fa capo al Grand Theatre di Leeds, ma presenta anche stagioni regolari in diverse altre città e la sua orchestra è spesso in tour. Tra i suoi obiettivi c’è quello di far respirare nuova vita ai classici del palcoscenico. Quale sfida più intrigante in questo 2018 che riportare in scena Shakespeare rivisitato da Cole Porter? Il risultato di questo frizzante incontro si vedrà al teatro Alighieri di Ravenna dal 7 al 9 giugno, in

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anteprima nazionale. Edward Goggin, Revival Director del musical (Opera North aveva già trionfalmente portato in scena Kiss Me, Kate! tre anni fa con la regia di Joe Davies, confermato anche qui) fornisce un po’ di numeri dell’impresa: «Le persone che verranno a Ravenna sono oltre 140 (49 tecnici, 25 del Coro dell’Opera, 43 sono i membri dell’Orchestra Opera North, 25 gli artisti ospiti, ballerini, attori, creativi). Questa produzione è stata creata per Opera North nel 2015 e ha avuto un periodo di prove molto lungo. Per questa nuova edizione avremo trascorso cinque settimane in studio a provare, in media 33-42 ore a settimana, seguite da prove sul palco di circa 45 ore. Nel 2015 ci sono stati 17 spettacoli a Leeds,

Newcastle, Salford Quays e Nottingham. Nel 2018, abbiamo previsto 6 spettacoli al Leeds Grand Theatre, 4 a Ravenna, 12 al London Coliseum e 5 al Festival del Teatro di Edinburgo». La produzione ha approcciato Kiss Me, Kate! con rispetto, avvalendosi dell’edizione critica della colonna sonora curata da David Charles Abell e Seann Alderking, sorretta da una lettura basata su manoscritti originali ritrovati a Manhattan. Anche la parte visuale è fedele agli intenti originali precisa sempre Goggin: «lo scenografo Colin Richmond ha diviso il palco in due, contrapponendo decisamente il mondo del backstage di Baltimora al mondo in scena del musical La bisbetica. Il mondo sul palcoscenico è pieno di colori

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di vedere i nuovi artisti affrontare i grandi ruoli. Anche l’intelligenza di Porter resiste alla prova del tempo e si basa meno, rispetto ad alcuni dei suoi contemporanei, su riferimenti che sarebbero stati divertenti al momento della scrittura. Alcuni dei suoi testi sono ancora abbastanza audaci, anche per gli standard moderni!». m

Nelle foto in alto, alcune scene e retroscena nelle lunghe e intense fasi prova della compagnia inglese Opera North per la produzione del musical di Cole Porter “Kiss me, Kate!”


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sulle corde

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We sing the body electric

Quattro giorni e 100 musicisti all'insegna della chitarra elettrica

Così Ravenna sarà invasa da una miriade di artisti pronti ad imbracciare lo strumento che ha fatto la storia della musica del Novecento Con un concertone finale a Palazzo San Giacomo di Russi DI BRUNO DORELLA

«Nel 1982 ho organizzato il concerto di Glenn Branca a Ravenna, con 4 chitarre: una follia per l’epoca. All’inizio della performance c’erano circa 200 persone, alla fine 5 o 6. Da allora mi è rimasta la curiosità di provare ad organizzare un evento per larghi ensemble di chitarre elettriche». Così il benemerito Franco Masotti mi descrive l’origine di questa idea, una

quattro giorni che porterà fra Ravenna e Russi alcune delle composizioni più ardite dedicate a questo strumento così fortemente connotato col rock. Mi dice Masotti che la stessa cosa accadde un paio d’anni dopo con Rhys Chatham, un altro di quelli che legherà il proprio nome alla composizione per chitarra elettrica. Chissà chi se ne ricorda qui a Ravenna. Io nel 1982 ho 9 anni e vivo a Milano, non prenderò una chitarra in mano

A sinistra Luca Nostro; a destra Eugenio Finardi

prima del 1985. Verrò a conoscenza del compianto Glenn Branca (scomparso recentemente) e di Chatham, così come del minimalismo, attraverso il fondamentale lavoro di divulgazione compiuto dai Sonic Youth, che portano questi compositori all’attenzione del mondo del rock negli anni 90. In pratica succede questo: la band di Thurston Moore e Kim Gordon, >>

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all’epoca le vere star del rock alternativo, dopo una serie di album fortunatissimi (Goo, Dirty, Experimental Jet Set.., Washing Machine), inizia a mischiare le carte, pubblicando album meno accessibili (A Thousand Leaves) ed una serie di uscite autoprodotte su SYR (Sonic Youth Records) con materiale al limite del criptico. La quarta di queste uscite, nel 1999, è SYR4:

Goodbye 20th Century, e contiene esecuzioni di materiale di compositori del XX secolo, come John Cage e Steve Reich. La critica si divide, ma l’intento divulgativo è pienamente raggiunto. Noi rockettari entriamo in contatto con il magico mondo del minimalismo (Reich, ma anche Terry Riley, John Adams, La Monte Young eccetera) e della classica contemporanea, in particolare

Fender Vintage: pezzi storici e memorabilia di un marchio mito della chitarra elettrica In occasione degli eventi musicali del festival “Cento chitarre. I sing the body electric” dal 16 al 24 giugno al Palazzo Rasponi dalle Teste di Ravenna (piazza Kennedy) è allestita la mostra “Fender Vintage, la chitarra che ha fatto la storia del rock”. L'esposizione, grazie ai pezzi e ai memorabilia prestati dal Museo Fender di Flavio Camorani e Michela Taioli, ripercorre il periodo d’oro della celebre ditta fondata in California da Leo Fender, attraverso tutti i modelli di strumenti elettrici ed amplificatori costruiti dal 1946 al 1974, anno della sua cessione ad altra società. Sinonimo di qualità, ecletticità ed artigianalità, la Fender Factory divenne leader mondiale della musica, creando strumenti musicali tutt’ora in uso; produsse la prima chitarra elettrica e il primo basso elettrico della storia.Un viaggio imperdibile nella storia della musica, attraverso oltre 100 chitarre, con le loro custodie originali, insieme a cataloghi, manifesti, documenti, fotografie. La mostra, a ingresso libero, è aperta al pubblico tuti i giorni dalle 15 alle 19; sabato, domenica e festivi dalle 11alle 19.

appunto quella legata agli ensemble chitarristici. Ed è così che si forma un “gusto” che accomuna i grandi compositori minimalisti a Branca, Chatham e compagnia noiseggiante. Perché, soprattutto agli inizi, questi ultimi avevano più a che vedere col punk, il CBGB’s e la New York più underground, che con l’accademia. Insomma, eravamo più vicini alla No Wave che alla Classica Contemporanea. Mi sono sempre chiesto come sia avvenuto il passaggio dagli scantinati ai teatri. E di nuovo mi viene in aiuto Masotti, chiudendo sorprendentemente il cerchio: in buona parte, questo avviene proprio grazie al potere mediatico dei Sonic Youth (e dell’enorme eminenza grigia David Byrne) che, così come aprono ai rockettari le porte del minimalismo, aprono ai reietti le porte delle accademie. Va beh, magari non la porta principale, forse qualche porta di servizio, ma intanto qualcosa succede. Il resto lo fa New York, con le sue connessioni pazzesche. Il fatto che questo giro musicale sia fortemente legato a tutte le altre forme d’arte d’avanguardia, in particolare al teatro ed alle arti figurative (leggi: la Factory di Andy Warhol), scardina porte, più che aprirle. Quando parliamo di New York, parliamo di un posto di incontri incredibili. Una delle foto che mi hanno cambiato la vita ritrae Alice Cooper che chiacchiera amabilmente con Salvador Dalì. Il primo, stivali sul

Da sinistra: Antonio Gramentieri, Bruno Dorella, Vince Vallicelli

tavolo e birra in mano, il secondo col solito sguardo spiritato. Un fermento trasversale che forse solo la Parigi di inizio 900 ha potuto vantare. E così non stupisce che gli stessi Sonic Youth decidano di fare un album a nome Ciccone Youth, dopo aver visto che quella tizia che girava per il CBGB’s in braccio a Michael Gira era in copertina sulle riviste di costume di tutto il mondo, con lo pseudonimo di Madonna... Ora però sto divagando, ma il contesto storico è questo, e le prime composizioni di Glenn Branca sono di poco precedenti ai primi successi della Ciccone, e a New York la distanza tra Madonna e Glenn Branca è più o meno due sgabelli al bancone del CBGB’s, e la connessione può essere un brindisi con Gira. Tornando alla commistione tra cattedre e cantine, c’è da dire che il trattamento non è stato uguale per tutti. Se Steve Reich è considerato un Compositore Americano con le maiuscole, lo stesso non si può dire per l’outsider La Monte Young, e paradossalmente nemmeno per Philip Glass, forse il più famoso di tutti. E se è vero che certa musica così informale poteva essere concepita “only in America”, è anche vero che la consacrazione di Reich avviene in Europa, grazie al giro di Darmstadt, prima ancora che negli Stati Uniti. Ma intanto la frittata è stata fatta, è pure venuta buona, e da allora abbiamo sdoganato la chitarra elettrica. Paradossalmente, lo sdoganamento della musica elettronica era avvenuto già molto prima, ma questa è un’altra storia. Venendo al programma della quattro giorni di Ravenna Festival dedicata alla >>


COMUNE COMACCHIO PAG RFM.qxd:RFM 17/05/18 16.31 Pagina 1


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concerti

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chitarra elettrica, dal 19 al 22 giugno, questo sarà aperto dal solo di Luca Nostro, dal titolo “Electric Guitar In My Life”, con musiche di Fausto Romitelli, Steven Mackey (da non confondersi col quasi omonimo

chitarrista dei Pulp..), David Lang (premio Pulitzer), Michele Tadini, Maurizio Pisati, Jacob TV, Steve Reich ed Alessandro Ratoci. Lo stesso Luca Nostro curerà, anche col ruolo di chitarra solista, i tre grandi eventi dei giorni

We sing the Body Electric: 4 Days and 100 Musicians «In 1982 I organized a concert of Glenn Branca in Ravenna with four guitars: it was a crazy idea at the time. At the beginning there were almost 200 people in the audience, at the end maybe 5 or 6. Since then, I have been wondering how it could be an event for a large ensemble of electric guitars». Franco Masotti, artistic director of Ravenna Festival, describes how the idea was originated: four days in Russi with the most daring compositions dedicated to guitar, an instrument that has been for a long time connected to rock music only. In 1982 I was nine and lived in Milan, I would start playing guitar in 1985. I would discover Branca, Chatham and minimalism through Sonic Youth, who brought these composers to the attention of the rock world in the Nineties: a new “taste” - that put together the great minimalist composers to Branca, Chatham and noise musicians - had started to spread. At the beginning, in fact, they were closer to Cbgb's and underground New York rather than to academia. And I had always wondered how they went from garages to theatres. Franco Masotti helped me understand: much was due to Sonic Youth's media power. The consecration though was not the same for everybody: nor the outsider La Monte Young neither Philip Glass - the most famous of all - are considered American Composers with capital letters as Steve Reich is. For what concerns the four days in Russi, we will have the opening with Luca Nostro’s solo “Electric Guitar In My Life”, including scores by Fausto Romitelli, Steven Mackey, David Lang (Pulitzer prize), Michele Tadini, Maurizio Pisati, Jacob TV, Steve Reich and Alessandro Ratoci. Luca Nostro will be the solo guitar in the three following big events: “Bryce Dessner Night”, with the String Quartet Nous and the drum quartet Blow Up Percussion. “Reich and Beyond” will be dedicated to Steve Reich, with 12 electric guitars, 2 basses, 2 pianos and 2 drummers. On June 22nd, there will be 100 electric guitars playing Elliot Cole’s “Unknowable City No. 5”, Glenn Branca’s “Lesson no. 1” and Michele Tadini’s “In A Blink Of A Night”. Each evening also an extra solo: I will personally present a “Concert For Lonely Guitar”, Massimo Ceccarelli will present “Electric Bass In My Life” with music by Scodanibbio, Morricone, Grillo, LaFaro, Ronchetti and, in the end, there will be Antonio Gramentieri with his alter ego Don Antonio.


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concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

seguenti: la “Bryce Dessner Night” (qui la confusione col chitarrista dei The National è giustificata, sono in effetti la stessa persona), col quartetto d’archi Nous e quello di percussioni Blow Up Percussion. “Reich and Beyond” sarà ovviamente dedicata soprattutto a Steve Reich, con 12 chitarre elettriche, 2 bassi, 2 pianoforti e 2 percussionisti. Dovrebbe essere eseguita anche la splendida “Electric Counterpoint”, resa celebre dall’esecuzione di Pat Metheny. E visto che gli ensemble crescono, il grande evento diventa quello del 22 Giugno, con 100 chitarre elettriche ad eseguire “Unknowable City No. 5” di Elliot Cole, “Lesson no. 1” di Glenn Branca (rieccolo che entra dalla porta principale), ma soprattutto “In A Blink Of A Night” di Michele Tadini, composizione straordinaria dove il minimalismo formale si sposa col massimalismo dell’ensemble. Rockin’ 1000 presterà all’evento buona parte delle braccia, e curerà un Medley finale. In aggiunta ad ogni serata (tranne l’ultima, per ovvi motivi logistici) un “solo” più snello: il sottoscritto presenterà un “Concerto Per Chitarra Solitaria (dove un viaggio in acque placide diventa naufragio)”, Massimo

Ceccarelli presenterà “Electric Bass In My Life” con musiche del compianto Scodanibbio, Morricone, Grillo, LaFaro, Ronchetti ed altri, ed infine Antonio Gramentieri col suo alter ego Don Antonio. In questi ultimi anni dal mondo accademico vengono alcune delle vibrazioni più fresche che ci siano in giro, mentre il rock pare in una fase di involuzione reazionaria, probabilmente a causa della mancanza di ricambio generazionale. Un’amica che invece frequenta il circuito della dance mi ha detto qualche giorno fa, col suo accento romanesco “le chitare le dovrebbero vietà.. so’ tanto antiche...”. Ecco, mi piace pensare che proprio ampliandosi verso mondi diversi, magari anche passando attraverso la frangia più aperta e sperimentale dell’accademia, la chitarra elettrica possa togliersi la patina di strumento “antico” connotato solamente col rock, per tornare viva, plasmabile ed adattabile ad ogni tipo di musica. m

A sinistra, l’Ensemble Parco della Musica A destra, il Quartetto Noûs Anche loro protagonisti degli eventi musicali dedicati dal festival alla chitarra elettrica

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escursione

concerti

Ravenna Festival Magazine 2017

Dal Mississippi al Po con il concerto trekking a suon di blues Camminata lungo gli argini, la salina e i casoni da pesca delle valli di Comacchio, fra natura, musica e convivialità

DI CHIARA BISSI

Appuntamento fisso della lunga programmazione del festival, ormai da 9 anni, torna il concerto trekking, un evento musicale in natura che l’edizione 2018 propone nelle Valli di Comacchio. Realizzato da Trail Romagna in collaborazione con la fondazione Ravenna Manifestazioni il concerto chiude idealmente il 24 giugno il progetto Le 100 Chitarre Elettriche We Sing the Body Electric un’avventura musicale tra Ravenna, Russi e Cervia, all’insegna del rock e del blues. Un viaggio del Festival nelle vene dell’America che prosegue sulle sponde del Mississippi e raggiunge idealmente quelle del Po, per un incontro fra i delta dei due fiumi. Lasciate le contaminazione bluesmediterraneo di Antonio Gramentieri Don Antonio di sabato 23 a Porto Garibaldi, con due interpreti della musica italiana come Eugenio Finardi e Bobby Solo e con Vince Vallicelli, domenica a partire dalle 15,30 il concerto trekking, quest’anno anche bike, conduce a piedi e in battello fino alle antiche saline dove, fra fenicotteri rosa e casoni, si erge il posto di guardia estense, la cinquecentesca Torre Rossa. In scena al casone Serilla la chitarra di Don Antonio, il contrabbasso di Roberto Villa, i sassofoni di Franz Valtieri e le

percussioni di Vince Vallicelli. L’inedito contesto è l’emblema della vita degli uomini delle valli, che attraverso stazioni di pesca potevano dedicarsi alla cattura delle anguille nel labirintotrappola del lavoriero. La scoperta di un ambiente vallivo fra i più belli in Italia e la musica, nel finale lasceranno il posto all’immancabile momento gastronomico della tradizione, al Bettolino di Foce. L’esperienza in natura per il festival ricorre di anno in anno e il concerto trekking approda in un’altra cattedrale della natura dalle linee orizzontali tra cielo e mare. Il programma come detto inizierà con una passeggiata ad anello dalla stazione di pesca Foce e toccherà le antiche saline dove si erge la Torre rossa, un posto di guardia estense che oggi diventa un punto d’osservazione privilegiato. Edificata nella seconda metà del Cinquecento, faceva probabilmente parte di un’antica fortezza a pianta poligonale, dotata di bastioni, demoliti attorno al 1940. Nel corso dei secoli ha subito ampliamenti, demolizioni e cambi di destinazione d’uso. Il sale come è noto ha segnato la storia di Comacchio, la presenza dell’oro bianco e la posizione strategica hanno portato benessere ma anche conflitti e devastazioni. La vendita del sale viene ricordata dal cosiddetto Patto di Re Liutprando del 715 d.C., a Comacchio

un museo racconta la storia della città e il rapporto conflittuale con Venezia che nel 932 distrugge l’abitato e le saline, per favorire il sale di Chioggia. Un conflitto che vedrà l’apice nel 1482 - 83 quando Comacchio fu rasa al suolo. Nel 1598 con la fine del Ducato Estense, per volontà di papa Clemente VIII, infine venne autorizzata la produzione di sale nelle valli comacchiesi. In età napoleonica tale attività fu rilanciata dopo un periodo di stallo grazie a un progetto seguito

dall’ingegnere Gerard de Bayon, dal capo salinaro Bonnet e da alcuni esperti comacchiesi secondo un disegno ancor oggi visibile. Dal 1882 la Salina venne gestita direttamente dallo Stato e nel corso dei decenni subì diversi cambiamenti. L’intesa attività dei salinari permise la nascita di una comunità, con abitazioni, chiesa e luoghi di incontro. Nel 1985 il Ministero delle Finanze decretò la chiusura della Salina di Comacchio estesa per 500 ettari. Tornando al percorso lasciate le saline è previsto il ritorno al punto di partenza tra capanni da pesca, fenicotteri rosa, una ricchissima avifauna selvatica, 300 specie fra le quali il gabbiano corallino, la sterna comune, ed estensioni di salicornia, limonio e tamerici. Lì parte il battello per raggiungere i tradizionali casoni dedicati alla pesca delle anguille e ascoltare il concerto all'insegna del blues del nostro Delta (con Don Antonio alla chitarra, Roberto Villa al contrabbasso, Franza Valtieri al sax e Vince Vallicelli alle percussioni). Al ritorno, al Bettolino di Foce, ricavato all'interno di un antico casone da pesca con un camino per la cottura dell’anguilla la giornata si chiude con un momento conviviale dedicato ai piatti tipici della cucina valliva. m

From Mississippi to Po with the Trekking Concert The Ninth edition for the trekking concert at Ravenna Festival organized by Romagna Trail will take place in the Valli di Comacchio on June 24th. It will ideally close the project of the 100 guitars (see pages 73-77) and it will be a journey from Mississippi to Po River with the Mediterraneanblues contaminations by Antonio Gramentieri on Saturday 23rd at Porto Garibaldi with Eugenio Finardi, Bobby Solo and Vince Valicelli. On Sunday the concert will start at 15.30 and the audience can choose to how to reach the Ancient salt works: they can walk, go by bike or by boat among flamingos, many different types of plants and birds, and the Red Tower, dating back to the XVI century. Here Don Antonio (guitar), Roberto Villa (double bass), Franz Valtieri (sax) and Vince Valicelli (drums) will play the concert. Between sky and sea, in a horizontal and unique landscape where you can spot the ancient "casoni"- buildings dedicated to the fishing of eels, typical of these lands. In the end, a convivial break will take place at Bettolino della foce.


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multietnica

concerti

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Ravenna Festival Magazine 2018

Orchestra di Piazza Vittorio sintonia di mille suoni Gran festa in musica, tutta da ballare, a Palazzo San Giacomo, con la compagine meticcia romana DI

ROBERTO VALENTINO

Quello del Ravenna Festival del 23 giugno a Palazzo San Giacomo di Russi è un appuntamento particolare, all’insegna dell’incontro fra una moltitudine di suoni, ben amalgamati fra loro grazie alla regia di Mario Tronco, tastierista degli Avion Travel e in questo caso ideatore e leader di una formazione musicale che è molto più di una semplice orchestra.L’Orchestra di Piazza Vittorio, così chiamata proprio perché è nata in uno dei luoghi simbolo della Roma multietnica, in un quartiere dove gli italiani sono oggi minoranza, riunisce infatti musicisti originari di paesi (Italia, Cuba, Argentina, Ecuador, Tunisia, Senegal) e background diversi. L’Orchestra di Piazza Vittorio, il cui esordio ufficiale risale al 2002, è fulgido esempio dell’intreccio, possibile e sempre auspicabile, di culture, tradizioni, memorie, sonorità antiche e nuove, strumenti sconosciuti, melodie universali, voci dal mondo. La sonorità dell’orchestra è unica: è una fusione di musiche tradizionali mescolate con rock, pop, reggae e altro ancora. L’organico varia, i musicisti vanno e vengono e quindi anche la musica assume via via sfumature differenti. Ma c’è una filosofia di fondo che crea sempre, per un’alchimia inspiegabile, qualcosa di assolutamente magico che nei concerti raggiunge la sua massima espressione: «Quando l’orchestra lavora alla scrittura di una canzone, pensa naturalmente a come funzionerà sul palco. È sul palco che questo gruppo si è formato, è cresciuto e ha costruito il proprio linguaggio», racconta Mario Tronco, «Due sono gli aspetti fondamentali: il Viaggio e l’Incontro. Il viaggio dei musicisti dalla terra nativa verso Roma. L’incontro dei musicisti e dei loro

repertori. Il viaggio dell’Orchestra per strade nuove, in tour in Italia e nel mondo. Nel corso di un viaggio i luoghi cambiano, ma anche i viaggiatori. Le performance live, negli anni hanno aiutato i musicisti a conoscersi e capire se stessi come artisti, definendo le musica dell’Orchestra e allargando il suo repertorio. Lo scrittore Jean Genet diceva di sentirsi vivo solo quando incontrava altre persone. È questa l’idea su cui si fonda l’Orchestra di Piazza Vittorio». Dal salvataggio dello storico Cinema Apollo, che rischiava di diventare una sala giochi, a vari progetti di disparata ispirazione, anche dal mondo della musica classica (come Il flauto magico mozartiano, trasformato in un racconto contemporaneo ambientato in una società multirazziale), l’Orchestra di Piazza Vittorio non è mai venuta meno alla propria natura, ai propri scopi, promuovendo la ricerca e l’integrazione, facendo conoscere al grande pubblico repertori musicali diversi, costituendo

anche un mezzo di recupero e di riscatto per musicisti stranieri che vivono a Roma, a volte in condizioni di emarginazione culturale e sociale. L’Isola di Legno, il disco che l’orchestra presenta in concerto, è il risultato di un lavoro che dura da oltre quindici anni ed è la fotografia del percorso musicale del gruppo sulla forma canzone: i musicisti dell’Orchestra di Piazza

Vittorio sono autori ed interpreti di queste canzoni, che parlano di loro e che assomigliano a loro. Il contatto con la gente fa il resto, fa esplodere un’energia e una forza comunicativa che non molti altri organismi musicali possono vantare di possedere. L’Orchestra di Piazza Vittorio è il frutto di una visione, di un sogno che si è tramutato in bellissima realtà. m

The Orchestra di Piazza Vittorio: a Mix of Sounds from the World On June 23rd Palazzo San Giacomo will be the stage for the Orchestra of Piazza Vittorio, conducted by Mario Tronco. The Orchestra was born in 2002 in one of the most multicultural place in Rome – an area where Italians are a minority – and since then it has gathered musicians from many different countries and backgrounds (Italy, Cube, Argentina, Ecuador, Tunisia, Senegal). Since its foundation it has been a brilliant example of the possible mix of cultures, traditions, memories, ancient and modern sounds. The sound of this orchestra is unique: it blends traditional music with rock, pop, reggae and much more. In Tronco’ words: «Two elements are crucial for us: journey and meeting. There are the musicians’ journey from their native countries to Rome and the meeting of musicians and their repertoires». The record the Orchestra will play, “L'isola di legno”, is the result of a work that has been going on for 15 years.


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tropicale

concerti

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Ravenna Festival Magazine 2018

Brasil meu grande amor Bollani fra chorro e samba DI

Show del pianista accompagnato dai musicisti brasiliani del suo ultimo album Que Bom

ROBERTO VALENTINO

Dopo la parentesi partenopea di Napoli Trip, Stefano Bollani torna ad uno dei suoi più grandi amori: il Brasile. E lo fa, ovviamente, alla sua maniera, fuori da ogni schema e cliché, sia su disco che in concerto. Freschissimo di stampa è Que Bom, album che, inaugurando la nuova etichetta discografica (Alobar) fondata dallo stesso pianista, rinverdisce appunto il legame, già di per sé saldo, con il composito mondo della musica brasiliana. Ma a differenza di Carioca, disco del 2007 in cui Bollani rileggeva brani di autori più o meno storici dello choro e del samba (da Nelson Cavaquinho a Chico Buarque, da Monica Salmaso a Ze’ Renato), nel nuovo album ci sono pezzi quasi tutti suoi: «Quelli di Que Bom sono brani che ho scritto un po’ ovunque nel mondo, ma che guardano a quel sincretismo, al suono avvolgente delle percussioni brasiliane, a quella vitalità ed energia uniche. Avevo molta voglia di farmi circondare dalle percussioni perché il pianoforte fa parte della loro stessa tribù. Sono da sempre innamorato della musica brasiliana, che utilizza l’armonia del jazz sposandola con ritmi di origine africana», racconta lo stesso musicista milanese di nascita ma toscano di adozione. Que Bom è stato registrato in trasferta, in quel di Rio De Janeiro, nel dicembre 2017, insieme a Jorge Helder al contrabbasso, Jurim Moreira alla batteria, Armando Marçal e Thiago de Serrinha alle percussioni (i primi tre erano già coinvolti in Carioca), gli stessi musicisti con i quali Bollani si esibirà venerdì 13 luglio al Palazzo Mauro de André di Ravenna. Nell’album sono anche presenti diversi ospiti di riguardo. In primis Caetano Veloso – «la voce più straordinaria ed emozionante che ci sia» secondo Bollani – che inter-

preta in italiano ben due brani, uno suo dal titolo “Michelangelo Antonioni” e un inedito di Bollani “La nebbia a Napoli”. Un altro grande ospite, João Bosco – «energia pura che mi incanta sin da quando ero ragazzino» – canta la sua “Nação”. E poi ci sono, ad arricchire le trame sonore del disco, Hamilton de Holanda al mandolino (o meglio al bandolim), vecchia

conoscenza di Bollani con cui ha inciso più di un progetto, e Jaques Morelenbaum al violoncello, un nuovo importante amico che invece collabora con Stefano per la prima volta. Per Que Bom Bollani ha fatto ricorso a tutta la sua maestria pianistica, alla sua intelligenza, al suo estro, anche nei titoli dei brani, tipo “Uomini e polli” e “Ho perduto il mio pappagallino”.

Meu Grand Amor, Brazil Bollani between chorro and samba Stefano Bollani goes back to one of his greatest passions: Brazil. And he does it following his own out of schemes style, without clichés, both in recording studios and on stage. Unlike Carioca, issued in 2007, where Bollani reinterpreted famous pieces from choro and samba, in this new album almost all songs are original. Bollani explains: «I wrote the pieces collected in Que Bom all over the world, but they all concern the syncretism, the embracing sounds of Brazilian drums, that unique vitality and energy». Que Bom was recorded in Rio de Janiero in December 2017 together with Jorge Helder (double bass), Jurim Moreira (drums), Armando Marçal and Thiago de Serrinha (drums), the same musicians Bollani will perform with on July 13th at Palazzo Mauro de André in Ravenna. This "Back to Brasil" represents a new step in the discovery of the rich and multifaceted Brazilian music universe.

E se in Napoli Trip faceva capolino anche un pizzico di elettronica, qui è tutto squisitamente acustico, con le percussioni che creano un tappeto ritmico e coloristico ricco ma mai prevaricante. Questo back to Brasil non ha certo nulla di revivalistico e men che meno il sapore di “minestra riscaldata”: rappresenta semmai una nuova tappa nel processo di conoscenza di un universo musicale dalle mille sfaccettature quale è appunto quello del Brasile. E, peraltro, Bollani non è proprio uno cui piace ripetersi. Troppo vasta è, infatti, la sua sfera di interessi: dalla canzone italiana (con in cima alle preferenze l’amatissimo Carosone) a Frank Zappa, dal prog rock dei King Crimson a infinite altre influenze musicali (classica compresa), letterarie e cinematografiche. E poi, anzi sopra ogni cosa, non va mai dimenticato, c’è il jazz, solida base da cui parte ogni sua escursione, c’è l’improvvisazione, veicolo ideale per far decollare la fantasia in ogni direzione. m


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pietre miliari

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

Il compositore Terry Riley, il suo capolavoro “In C“ è stato pubblicato nel 1964

DI FRANCESCO FARABEGOLI

Qualche tempo fa si è seriamente cominciato a parlare di minimalismo nei termini di una filosofia dell’esistenza, di ispirazione orientale, legata all’idea di spogliarsi gradualmente di tutto ciò che è superfluo e/o ci tiene ancorati all’interno di una perenne celebrazione del passato. Come tutte le correnti di pensiero applicate al lifestyle anche quella minimalista è stata trattata dalle riviste di area generica con una generosa razione di prese in giro, il che ha contribuito –immagino- a relegarla più alla dimensione di un culto esoterico. Non che nella vita di tutti i giorni, sia chiaro, non capiti di sentir pronunciare la parola “minimale” o “minimalista”. Spesso, verrebbe da dire, fuori

contesto: lo si applica indistintamente a qualunque prodotto dell’uomo caratterizzato da un briciolo di sobrietà, senza andare a vedere come e quanto il prodotto in questione rispetti i canoni esecutivi esposti nel Manifesto Minimalista degli anni ’60. Questo slittamento dei significati è stato possibile per due motivi: da una parte il significato delle parole tende ad evolversi nel corso del tempo, inglobando definizioni più generiche per poter utilizzare i termini con maggior frequenza (esempio se si usa l’aggettivo “minimale” al posto di “povero”, in certi contesti, si dà l’idea di sapere di cosa si sta parlando); dall’altra non esiste nessun Manifesto Minimalista. La definizione “minimal art” viene usualmente fatta risalire al lavoro di Richard Wollheim, filosofo

dell’arte che intorno alla metà degli anni sessanta utilizzò la parola “minimal” per riferirsi al lavoro di alcuni artisti dell’epoca. Più che a un’idea o un obiettivo, la parola “minimalista” definisce un approccio, legato in qualche misura all’idea di ridurre un numero infinito di possibilità, in qualche misura, in qualche maniera, nel momento di realizzare un’opera –limiti strutturali, avvicinamento al reale, sobrietà e quant’altro. La definizione piacque, abbastanza da soppiantare altri tentativi di definire lo stesso approccio e da superare tutti i confini intorno a cui era stata concepita. Di lì a poco si sarebbe utilizzato il termine con cognizione di causa parlando di prodotti artistici provenienti da altre epoche –il gancio con i readymade di Duchamp era già nelle premesse, ad

Terry Ryley's IN C and the Essence of Minimalism Today the word “minimal” or “minimalist” is used to describe no matter what product shows some sobriety, without considering how much the product respects the canons of the Minimalist Manifesto dating back to the Sixties. This happens on one side because word meaning always shifts and evolves over time and, on the other side, because there has never been such Minimalist Manifesto. The definition “minimal art” is originally connected to the art philosopher Richard Wollheim who used this word to describe some artists’ work. “Minimalism” concerns an approach more than an idea or an objective, it has to do with the idea of reducing an infinite number of possibilities. In many creative fields, the critical application of this approach has meant crucial developments. It has happened in literature, and in music. The definition of minimalism in music is rather minimalist. It is impossible to speak about it without quoting four names: LaMonte Young, Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley. Funny sub-note: one of the main differences among these four composers concerns the way they dress. Glass is the elegant one,

Lamonte Young is the one dressed up like a biker, Steve Reich wears a baseball cap and Steve Reich reminds us of an eastern monk. The common use of the word “minimalist” describes skinny products, with massive doses of silence, dramatic reduction of instrumental talent display, employ of a limited number of instruments and musicians. But there is another parallel approach that produces music that is not skinny nor silent, like Terry Riley’s most famous work In C. Technically, it is a score consisting in 53 musical phrases that musicians can play very freely (they can skip some or repeat them); it should be performed by a group of more or less 35 musicians but it can be played also by smaller or bigger bands; the length is included between 45 and 90 minutes. It is a unique and crucial work where the idea of minimalism has to do with freedom and not deprivation. In Riley's work there are few rules and much freedom around them. So, any time someone plays In C has to start from the beginning, from the score, and has to build his own world and every time In C is different.

esempio- e in forme espressive altre rispetto alle arti visive. Così, in molti campi espressivi, l’applicazione critica dell’idea di minimalismo ha portato a sviluppi fondamentali, imprescindibili per definire il presente di quelle forme. La letteratura, ad esempio, e anche la musica. La definizione musicale di minimalismo è piuttosto minimalista. O meglio, si parla e sparla e riparla di minimalismo in ogni salsa, ma quando si inchioda la definizione ad un discorso storico è praticamente impossibile parlarne senza citare LaMonte Young, Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley. Qualunque altra forma di musica per cui si è usata la definizione “minimalista” con un briciolo d’insistenza può essere fatta risalire ad almeno uno di questi quattro nomi. Una volta arrivati a questi nomi, viene un po’ difficile ridurre ulteriormente, e diventa un po’ più faticoso far risalire un artista a LaMonte Young e NON a Terry Riley. Nota divertente: una delle principali distinzioni nell’estetica di questi quattro compositori è legata allo stile dell’abbigliamento di ognuno di loro. Ad esempio Philip Glass è quello vestito relativamente bene (il che, unito al fatto di essersi parzialmente smarcato dal ruolo di caposcuola del minimalismo, tende a farlo citare meno degli altri tre); LaMonte Young è quello vestito da biker, Steve Reich ha il cappellino da baseball e Terry Riley è quello vestito come un monaco orientale. Questo, naturalmente, stando alle foto che circolano dei musicisti in questione, poche e perlopiù ingenerose. L’uso comune della parola “minimali-


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pietre miliari

concerti

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Ravenna Festival Magazine 2018

Terry Riley, In C e l’essenza

del minimalismo

RESTAURI - ANTIQUARIATO di Elisa Cantoni

DORATURE - LACCATURE - DECORAZIONI

L’opera è eseguita al festival per ensemble con strumentisti delle scuole musicali di Forlì, Faenza e Ravenna, a cura di Tempo Reale

smo” applicato alla musica tende a identificare come “minimalisti” prodotti scarni, contrassegnati da generose dosi di silenzio (reale o simulato), drastiche riduzioni degli sfoggi di perizia strumentale, impiego di un numero molto limitato di strumenti/musicisti – una scuola di pensiero che per certi versi parte da Glass o Cage, e arriva a dischi di sostanziale silenzio come possono essere quelli di gente come Taku Sugimoto. E non ci piove, sia chiaro, che questo sia minimalismo, ma c’è un altro approccio che si muove in parallelo e produce musica tutt’altro che silenziose o scarne. Prendete ad esempio l’opera più famosa di Terry Riley, In C. Tecnicamente In C è una partitura composta da 53 frasi musicali che i musicisti possono suonare con margini di arbitrarietà (saltarne alcune, ripeterle a piacere); l’esecuzione è pensata di base per un gruppo di circa 35 musicisti ma realizzabile con gruppi più o meno numerosi; la durata è indefinita ma consigliata per un tempo totale dai 45 ai 90 minuti. Uno dei punti fondamentali del lavoro è legato alle modalità con cui è realizzato, e introduce un discorso importante legato al minimalismo di cui, in effetti, si parla spesso: oltre all’opera viene fornito uno spaccato di base della modalità con cui l’opera è pensata. L’altro discorso importante che riguarda il minimalismo di In C è ovviamente quello legato alla casualità: la libertà del musicista attorno alle poche regole scritte (la partitura è un paio di pagine) non solo è prevista, ma cruciale per lo sviluppo dell’opera. Le premesse, unite al sapore generale della musica, l’hanno resa un libro di

testo fondamentale. In C è tutt’altro che un’opera silenziosa e quieta, e in effetti l’umore della musica è molto simile a quello che risuona in musiche che tradizionalmente vengono considerate tutt’altro che minimaliste – il prog rock, ad esempio, o l’avant jazz. Per sua natura è un’opera fondamentale e unica: se ne può trovare traccia ovunque ma individuare epigoni diretti è piuttosto difficile. Ricostruire l’onda lunga della sua influenza, e dell’opera di Riley in generale, nel contemporaneo può essere allo stesso tempo eccitante e frustrante. Lo stesso Riley, da parte sua, ha sempre cercato di schermirsi nel merito – il suo modo di vivere la musica ha sempre avuto a che fare con la spiritualità, un’idea che in seguito (A Rainbow In Curved Air) ha affrontato a viso aperto, facendola diventare il centro di un sistema di pensiero musicale intorno a cui hanno gravitato tantissimi artisti – spesso con risultati pazzeschi. Poi abbiamo visto slittare l'idea di minimalismo, e nel linguaggio di tutti i giorni usiamo la parola per definire un concetto di privazione. Dentro l'opera di Riley di privazione ce n'è poca: ci sono poche regole, questo sì, e c'è molta libertà attorno a quelle regole. Si cerca d'individuare il nucleo centrale di una musica e si esplorano le infinite possibilità di costruire qualcosa attorno a quel nucleo. Così, ogni volta che qualcuno ri-esegue In C, è tenuto a ricominciare dall'inizio, dalla partitura. E poi è tenuto a costruire il proprio mondo, e ogni volta In C è diversa. Se vi va bene come definizione di minimalismo, per me non c'è problema. m

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album

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concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

Il ritorno di David Byrne tra classe e leggerezza

DI LUCA

MANSERVISI

È un album in fin dei conti leggero, il nuovo di David Byrne. A dispetto di quello che si poteva forse immaginare dal titolo (American utopia), dai collaboratori (oltre venti – e tutti maschi, tanto che Byrne si è sentito in dovere di scusarsi pubblicamente) o di quanto ci si potrebbe aspettare da un artista di quasi 70 anni che ha fatto la storia della musica contemporanea (e a cui la musica peraltro è sempre stata stretta) o più semplicemente da un disco nuovo di David Byrne qualcosa come quattordici anni dopo il precedente. Leggero, da intendersi non nella sua accezione negativa, ma come risultato ricercato dallo stesso autore che ha scelto innanzitutto di proseguire nel campo musicale in cui è più esperto – una sorta di comfort zone secondo alcuni – tra pop raffinato, elettronica, world music, funk bianco e i consueti ritmi che sembrano omaggiare (come nel bel singolo Everybody's Coming To My House) anche i Talking Heads, da lui fondati 44 anni fa. Un “dettaglio” che è giusto tenere a mente ascoltando quest’album per sottolineare la meritoria, quasi ossessiva, voglia di restare comunque continuamente “attaccato” alla contemporaneità, a

partire dai suoni realizzati in particolare a tu per tu con un altro mostro sacro come Brian Eno. Una contemporaneità ricercata anche nei testi, forse il lato davvero sperimentale del disco uscito lo scorso marzo: dieci piccole storie tra sarcasmo, cinica ironia, passaggi surreali che hanno a che fare con il paradiso dei polli o il pensiero dei cani, il tutto per rispondere a domande da sempre care a Byrne, tra il “chi siamo” e il “dove stiamo andando/vivendo” (a cui in realtà a questo giro risponde

pure: “We're only tourists in this life / Only tourists but the view is nice / And we're never gonna go back home”) e allo scopo di trovare il lato positivo e una via d’uscita anche ai momenti peggiori (oltre che una sorta di reazione al capitalismo, pare di capire). Fino a quasi un’esortazione, al culmine emotivo dell’album: «There’s only one way to read a book / And there’s only one way to watch tv / Well there’s only one way to smell a flower / But there’s millions

Style and Lightness: David Byrne is back The new David Byrne's album is a light work, despite the title (American Utopia), despite the partners, despite what you could expect from a 70 years old artist who has made the history of music. Refined pop, electronic, world music, white funk and usual rhythms reminding Talking Heads mix together in a strongly contemporary work. The most experimental element is probably to be looked for in lyrics: ten short stories full of cynical irony, sarcasm, surreal moments dealing with chickens' paradise or dogs' thought. The aim is to answer the same old questions about who we are and where we are going (and this time he also gives an answer: "We're only tourists in this life/Only tourists but the view is nice/And we're never gonna go back home”). In the end, an album in perfect (even too much) David Byrne's style. The author will be at Ravenna Festival on July 19th during his world wide tour with a show that seems to be “the most ambitious he has staged since Stop Making Sense”.

of ways to be free». È stato lo stesso Byrne, presentando il disco alla stampa, a confermare come le sue nuove canzoni parlino «della nostra vita oggi, di un sistema, quello americano, che per decenni è stato un esperimento. Pieno di difetti, ma che teneva viva la sensazione che negli Stati Uniti fosse possibile sognare, costruire un futuro, convivere e sviluppare delle idee. Beh, quell'esperimento è a un passo dal collasso e allora mi sono chiesto che cosa possiamo fare in concreto per vivere meglio, esiste una nuova via per questo mondo? Non ho risposte, ma speranze sì». L'album, in definitiva, piacerà (e sta piacendo) ai fan di Byrne, proprio per il suo essere Byrne al 100 percento. Pure troppo, potrebbero dire gli altri, a un passo dal cliché. A salvarlo, probabilmente, oltre che la sua classe innata, i collaboratori che si è scelto, in primis il genietto dell’elettronica Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) che incupisce quel tanto che basta l’album regalando due vere e proprie chicche (This is That e la conclusiva, malinconica, Here). Byrne presenterà il disco al Ravenna Festival il 19 luglio, nel tour mondiale di quello che dice essere «lo spettacolo più ambizioso che abbia mai fatto da Stop Making Sense». m


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recital

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

Ute Lemper, una voce piena di fascino e rabbia DI

ROBERTO VALENTINO

L’America raccontata, o meglio cantata, da una voce che sa porgere note e parole con una intensità che oggi non conosce molti pari. È la voce di Ute Lemper, artista ormai di casa al Ravenna Festival che con il suo recital Glamour And Rage in America calcherà il palcoscenico del Teatro Diego Fabbri di Forlì, il 16 luglio, per il secondo dei due appuntamenti dedicati alla canzone, o al song per dirla all’americana, d’autore. Glamour And Rage in America è un recital con una impronta molto precisa: coadiuvata dal pianista Vana Gierig, dal violinista Cyril Garac, dal contrabbassista Romani Lecuyer e dal percussionista Todd Turkisher, la cantante tedesca prende per mano l’ascoltatore e lo accompagna in un viaggio andata e ritorno tra eroi e antieroi, vincitori e vinti, tra Angeli e Demoni, momenti di puro intrattenimento targati Broadway e Hollywood e altri in cui il canto si trasforma in urlo di protesta e liberazione. Insomma, con questo concertospettacolo Ute Lemper rende omaggio al fascino ma anche alla rabbia che la canzone a stelle strisce custodisce e trasmette. Il versante di osservazione è quello al di qua dell’Atlantico e non mancano quindi sorprese, degne di un’interprete eclettica che sa scegliere sempre bene i repertori in cui cimentarsi. Si parte con “One For My Baby”, canzone tratta dal film The Sky’s The Limit (in italiano Non ti posso dimenticare) del 1943, inizialmente intrepretata da Fred Astaire e resa ancor più celebre da Frank “The Voice” Sinatra, e si conclude il viaggio con un medley dai musical Chicago e Cabaret, entrambi siglati Kander &Ebb. Nel mezzo ci sono “The Laziest Girl in Town” scritta da Cole Porter e interpretata pure da Marlene Dietrich; “I Have Grown

Accustomed To Her Face” da My Fair Lady; “September Song” di Kurt Weill e canzoni che rimandano al filone cantautorale che dal Bob Dylan di “Blowin’ In The Wind” porta al Tom Waits di “Purple Avenue”.

L’America cantata, da Broadway a Hollywood fino alle song di protesta, da un’artista di raffinata impronta teatrale

Ma c’è ancora molto altro e tra questo altro non si può trascurare quella che con tutta probabilità è la più toccante e intensa denuncia cantata contro il razzismo, “Strange Fruit”. Fu composta da Abel Meeropol e subito la fece sua Billie Holiday, con la sua vocalità

carica di dolore, di speranze deluse. «Gli alberi del sud danno uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici, un corpo nero dondola nella brezza del sud, strano frutto appeso agli alberi di pioppo», cantava l’immortale Billie e canta ora la grande Ute, imprimendovi, qui come altrove, il suo inequivocabile marchio di fabbrica. Un marchio fatto di versatilità ma anche di profonda adesione, di passionalità, di gusto spiccatamente teatrale. È grazie a tutte queste sue doti naturali, affinate col tempo, che Ute Lemper ha potuto sviluppare una carriera che l’ha vista confrontarsi con materiali oltremodo diversi, anche con la danza di Bejart (per lei il coreografo francese creò il balletto La mort subite) e di Pina Bausch, con il melodismo post-minimalista di Michael Nyman, con il nuevo tango di Astor Piazzolla, con la poesia stralunata di Charles Bukowski (che troviamo anche in Glamour And Rage in America) e quella d’amore di Pablo Neruda. Un’artista a tutto campo dunque, applaudita nei teatri più prestigiosi, come La Scala e il Piccolo di Milano, il Barbican Centre, la Royal Festival Hall, la Queen Elizabeth Hall e l’Almeida Theatre di Londra, il Lincoln Center di New York. l’Opéra Comique di Parigi. E ovunque lei canta, lascia sempre il segno. m

Ute Lemper, a charming and raging voice In this show the Us are told, or better say sung, by a voice able to give notes and words an unparalleled intensity. It is Ute Lemper's voice. The artist will be back at Ravenna Festival to perform her recital “Glamour and Rage in America” on July 16th, in Forlì at Teatro Fabbri (the second event the Festival dedicates to songwriting). “Glamor and Rage in America” has a very clear imprint: the German singer will take by hand the audience through a journey in Us among heroes and antiheroes, winners and losers, angels and evils, Hollywood and Broadway style enter-

tainment and protest. She will be accompanied by the piano player Vana Gierig, the violin player Cyril Garac, the double bass player Romani Lecuyer, and the drummer Todd Turkisher. Among the songs she will sing there are “One for my Baby” (from the movie The Sky’s The Limit), a medley from the musicals Chicago and Cabaret by Kander &Ebb, “The Laziest Girl in Town” by Cole Porter; “I Have Grown Accustomed To Her Face” from My Fair Lady; “September Song” by Kurt Weill, “Blowin’ In The Wind” by Dylan, “Purple Avenue” by Tom Waits.


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canzoni d’autore

concerti

Ravenna Festival Magazine 2018

A Forlì, omaggio a Battisti con la voce di Peppe Servillo e la band di Girotto Marcotulli, Di Castri, Bosso e Barbieri

DI ROBERTO VALENTINO

Ravenna Festival 2018 dedica due appuntamenti alla canzone d’autore, riservando il ruolo di apripista a un omaggio a Lucio Battisti, nel ventennale della sua scomparsa,

Pensieri e Parole supergruppo jazz canta Lucio

in programma lunedì 9 luglio al Teatro Diego Fabbri di Forlì. Un omaggio particolare, dal titolo appropriatissimo di Pensieri e parole, che conserva l’anima di canzoni indimenticabili – da “Il mio canto libero” a “E penso a te”, da

“29 settembre” all’immancabile “Emozioni” – ma che profuma di novità, di jazz per la precisione. A riannodare i pensieri e le parole di Battisti è la voce, carismatica e teatrale, di Peppe Servillo, non più solo “front man degli Avion

Travel”. E con il cantante partenopeo c’è un manipolo di jazzisti che vede schierati il sassofonista di origine argentina Javier Girotto (nell’occasione anche responsabile degli arrangiamenti), il trombettista Fabrizio Bosso, la pianista

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canzoni d’autore

concerti

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Ravenna Festival Magazine 2018

Rita Marcotulli, il contrabbassista Furio di Castri e il batterista Mattia Barbieri. Con molti di loro Servillo ha già dato vita ad altri tributi a colossi della musica italiana, come egli stesso ricorda: «Dopo Uomini in frac e Memorie di Adriano, dopo un Modugno felice e il Celentano del clan, abbiamo deciso con Pensieri e parole di reinterpretare l'autore più intimo, lirico e personale della canzone italiana, Lucio Battisti. Cantare nuovamente le sue canzoni, da Mogol a Panella, è la possibilità per noi di rileggere una nostra storia minore e quotidiana che tanto ci suggerisce e commuove». Servillo e compagni non si limitano certo a “coverizzare” Battisti, lo rileggono, lo reinterpretano, a volte lo reinventano persino, ma sempre con rispetto e soprattutto amore. «Si corre il rischio di museificare certi grandi autori, mentre è necessario riproporli, non solo per nostalgia e passatismo», osserva sempre Peppe Servillo, «Battisti era popolare e sofisticato, italiano e solitario, costruttore e inventore di una canzone che resta intimamente patri-

monio di tutti, incrociando sensibilità e pensieri musicali diversi». Battisti rivestito di jazz forse a qualcuno potrà, almeno di primo acchito, non piacere. Ma nel jazz ciò che conta è l’inventiva del momento, il saper cogliere da ogni melodia l’essenza per modellarla attraverso un’arte che si chiama improvvisazione. Pensieri e parole contiene tutti i crismi della sfida, anche un po’ folle. E la sfida sta proprio nel cercare di vivificare nuovamente canzoni già per conto loro ricche di originalità, sia nei testi che nella musica. Rita Marcotulli, pianista di fama planetaria che ha anche a lungo collaborato con Pino Daniele, Fabrizio Bosso, anche lui non esente da incursioni nel mondo della canzone (Cammariere e Concato), e tutti gli altri questa sfida l’hanno raccolta. Il risultato è musica che valica i confini della canzone e del jazz, che aspira a qualcosa di differente senza mai tradire del tutto il materiale originario. Lucio Battisti era uno a cui i luoghi comuni non piacevano ed è quindi giusto ricordarlo con la libertà che lui stesso ha sempre perseguito. m

Thoughts and Words in jazz The first of the tributes Ravenna Festival pays to Italian Songwriting is on July 9th, in Forlì, and is dedicated to Lucio Battisti. The homage, called Thoughts and Words, has a taste of jazz and involves Naples’ singer Toni Servillo, the jazz player Javier Girotto, the trumpet player Frabizio Bosso, the piano player Rita Marcotulli, the contrabass player Furio di Castri, and the drummer Mattia Barbieri. Servillo and co. do not simply play Battisti's songs, they reread them, they reinterpret them, they even reinvent them, with respect and love. «Sometimes – Servillo says – you run the risk to mummify these great authors, while we have to re-propose them, not only because we are moved by nostalgia and conservation. Battisti was popular and sophisticated, he invented songs that today are everybody's legacy». Thoughts and Words is thus going to be an interesting and crazy challenge.


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visioni in ballo

danza

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Tutto l’incanto dell’infanzia A tu per tu con il coreografo Emio Greco autore, assieme al regista Pieter Scholten, di Apparizioni, spettacolo onirico dedicato all’ancestrale universo dei bambini DI ROBERTA BEZZI

Per la terza volta, il danzatore brindisino Emio Greco sarà tra i protagonisti della danza al Ravenna Festival e – per celebrare il bel rapporto con l’ex capitale bizantina che ha scoperto e molto apprezzato – porterà una prima nazionale: Apparizione. Si tratta della prima parte del dittico Kindertotenlieder che porterà in scena, il 29 giugno (alle 19 e alle 22) al Teatro Alighieri di Ravenna, il Ballet National de Marseille e il ICK di Amsterdam, con la partecipazione del Coro Infantil de la Sociedad Coral de Bilbao. Emio Greco, che tipo di spettacolo potrà aspettarsi il pubblico? «Un riuscito mix delle varie arti, fra cui musica, danza, canto e immagini, in cui nel complesso la parte visiva occuperà più di metà dello spettacolo. Pieter Scholten e io abbiamo tratto ispirazione dai Canti dei bambini morti composti da Gustav Mahler tra il 1901 e il 1904, un monumento della musica per creare un libero adattamento per un coro di bambini e pianoforte. L’infanzia così prende un posto maggiore in scena, come a volerci ricordare i tanti drammi anche attuali che vedono i più piccoli direttamente coinvolti. Basti pensare a quanto sta accadendo in Siria o nel Mediterraneo o nel mondo intero». In quale misura i bambini possono “guidarci” verso la luce? Cosa significa recuperare il bambino che è dentro di noi? «All’infanzia si associano alcune belle caratteristiche umane come la spontaneità, la curiosità e l’innocenza, come punti di riferimento che perdiamo crescendo. Apparizione non solo dà voce ai bambini, ma dona loro anche uno spazio di realizzazione. Nel complesso è uno spettacolo onirico, una storia non aneddotica, un puzzle di possibili storie in cui il bambino è al centro dell’apparizione». Al contrario, la seconda parte del ditti-

co si intitolerà Sparizione e debutterà a fine anno… «Sì. Cercheremo di unire il gesto fisico e digitale. I danzatori in carne e ossa si confronteranno con le immagini artificiali e immortali dei bambini. La scenografia unirà realtà e illusione, materiale e incorporeo. Ci chiederemo qual è il posto occupato dalle tecnologie nella nostra esistenza e quale impatto esse hanno sui corpi». Il lavoro perpetua il sodalizio con il regista e drammaturgo olandese Pieter Scholten, nato nel 1995. Come vi siete conosciuti? «Durante uno spettacolo di ricerca in un piccolo teatro di Amsterdam. Da subito abbiamo avviato un percorso attraverso il linguaggio del corpo, alla ricerca di una nuova forma di danza. Già un mese e mezzo dopo eravamo in studio per creare un laboratorio di idee. Un lavoro che sfociò nella nostra prima creazione artistica, Bianco che

segnò una rivoluzione nel mondo della danza a cui stessi eravamo impreparati». E così vi siete affermati nel panorama della danza internazionale. Dove finisce il suo lavoro e inizia quello di Scholten? «Difficile stabilire il limite. Con il tempo ci siamo un po’ avvicinati, ma le differenze tra noi restano quasi sempre le stesse e riguardano in particolare il modo di organizzare le scelte artistiche. Io sono portato a tenere aperti i progetti e cercare nuove possibilità. Lui invece ha più bisogno di strutture rigide che tendono a chiudere e contenere, in cui però ragionare ancora. In questo siamo complementari. Ci occupiamo tutti i giorni dei nostri spettacoli, luci, scene, coreografia, ci piace spostare i limiti della danza, articolare pensieri, spazi, concetti visivi, abbandonare la danza per poi ritornarci, stimolati spesso da altre forme d’arte».

The Enchantement of Childhood For the third time, the dancer from Brindisi Emio Greco will be at Ravenna Festival where he will perform a national premiere: Apparizione (June 29th at 7 p.m and 10 p.m) at Teatro Alighieri. It is the first part of a diptych, that will see the cooperation of Ballet National de Marseille and ICK Amsterdam and the participation of the Coro Infantil de la Sociedad Coral de Bilbao. Greco explains that the show will be «a mix of arts, such as music, dance, singing and images. Pieter Scholten and I have taken inspiration from the Songs of the Death Children by Gustav Mahler. Childhood has a main role on the stage, to remind us of present tragedies involving children, like in Syria or in the Mediterranean sea». While in the second part - Sparizione (on stage at the end of the year) - true dancers will confront with digital images of children. Once again Emio Greco is working with the Dutch director and playwright Pieter Scholten. The two of them have been working together for ages and Greco explains how distinguishing the line between his work and Scholten's is a hard work. «We like to shift the limits of dancing through thoughts, spaces, visual concepts». Asked about his choice to leave Italy, he admits: «Here I would have had many more difficulties. There are a lot of talented artists, but they have little space to express themselves because of a cultural policy that stops any new movement to sprout. I love Italy, but unfortunately for young people who want to have success there is no choice but going to North Europe». What is dancing for Emio Greco? «Dancing is a wonderful sum of tries and failures. It is not easy to keep the balance, but from precariousness and weakness can come out all its strength».

Molti addetti ai lavori sostengono che per un coreografo italiano sia molto difficile riuscire a guadagnarsi una fama internazionale. Lei, che vive all’estero da oltre 25 anni, crede che arrivare al successo sarebbe stato possibile in Italia? «Avrei avuto certamente molte più difficoltà, in quanto il nostro paese non offre le giuste condizioni per poter garantire a un artista una carriera longeva. I talenti non mancano, per cui il problema non è di creatività, ma di possibilità di esprimersi. I problemi veri sono la mancanza di continuità nella direzione artistica dei teatri e di una linea politica culturale, la cattiva distribuzione delle risorse, l’uso ormai inflazionato delle sovvenzioni a posteriori che costringono le compagnie a indebitarsi e i produttori a essere molto cauti. Una situazione che taglia le ali a chi ha talento e che impedisce la nascita di un movimento creativo vero e proprio». Quindi, lei consiglierebbe ai giovani di oggi di espatriare… «Si, e mi rammarica dirlo, tanto più che come tutti quelli che nascono al sud, sono abituato alla tradizionale fuga verso il nord Italia. Ma per i ragazzi che vogliono riuscire, oggi è più che mai necessario uscire dal nostro paese e andare nel Nord Europa. Non sono tanto le scuole di prestigio a mancare, quanto le compagnie e le produzioni in cui poter lavorare. Se si esclude la carriera accademica, non ci sono molte possibilità. Mi duole il cuore ammetterlo perché la mia passione per l’Italia è grandissima». Come quella per la danza… Cosa rappresenta per lei? «La danza è una bellissima somma di tentativi, anche di insuccessi. Ed è una passione animata da pensieri belli e utopici. Non è facile restare in equilibrio, ma spesso dalla precarietà e dalla debolezza viene fuori tutta la sua forza». m


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dramma coreografico

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DI LINDA LANDI

MILANO MARITTIMA

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e

14 luglio 2018 ore 20.30

Circolo Tennis, Milano Marittima

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PROGRAMMA VENERDÌ 13 LUGLIO 20.30 Inizio Torneo 22.00 Premio Ambiente

“Vip Amici del Mare” 23.30 Cena Hotel Mare Pineta

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SABATO 14 LUGLIO 13.00 Buffet “Bagno Paparazzi 242”

(Invitati Vip, Autorità, Sponsor) 20.30 Inizio torneo 23.00 Premiazioni 24.00 Buffet Discoteca Pineta Luxury

(Invitati Vip, Autorità, Sponsor) In caso di pioggia si gioca al coperto Info: Tel.0544 973015 - Cell. 335 6252032 info@vipmaster.com Organizzazione Mario e Patrick Baldassarri

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Un collage penetrante e appassionato, nove danzatori che si stagliano sul palco nel comune intento di tracciare un profilo struggente, un iter scosceso dal profondo contenuto politico: in scena al Pala de André l’11 luglio A letter to my nephew. Il Ravenna Festival porta così in città il superbo lavoro di Bill T. Jones, poliedrico artista statunitense, incentrato sulla vita del nipote Lance, tra dipendenza dalla droga e malattia, una composizione emozionale che proietta lo spettatore in un concorso di movimento, inventiva, musica. Come in ogni produzione di Jones, l’arte non è mero veicolo di comunicazione, ma si fa strumento di lotta politica e ideale, foriera di contenuti che possano scuotere la platea riportandola a una primigenia riflessione su ciò che è giusto e per cui abbia senso lottare. Attraverso l’affascinante mix di musica dal vivo composta da Nick Hallett, la fantasia dell’autore compartimenta l’esperienza in scena attraverso immaginifiche cartoline, arrivate da una mistica Europa dove tutto è possibile, tratteggiando la figura di Lance T. Briggs in ogni sua forma. E la concreta aderenza al reale porta ogni spettacolo ad essere un unicum

riscritto per la specifica realtà, geografica e temporale, entro la quale lo si mette in atto, per calare gli spettatori ancora più addentro la vicenda, che assume così un contesto sempre nuovo e più vivo attraverso il tempo, con attenti riferimenti a cultura locale e costumi. Figura dall’incredibile talento poliedrico, Jones negli oltre trentacinque anni di attività della sua compagnia, la Bill T. Jones/Arnie Zane Dance Company, ha perseverato incessantemente nel predicare il potere aggregativo dell’arte, medium che produca comunità nel reciproco interesse di condividere sentimenti e valori. Con lo specifico intento di addentrarsi in tempi sociali e politici, a partire da la guerra, l’Olocausto, l’immigrazione, per arrivare all’identità di genere e all’Aids, argomento quest’ultimo che lo ha purtroppo toccato da vicino in passato. Nato in Florida e cresciuto in una numerosa famiglia contadina, è nello Stato di New York dove si trasferisce prestissimo che comincia a coltivare la passione per le rappresentazioni teatrali, trovando all’Università, con Arnie Zane, quel sodalizio personale e artistico che sarà decisivo per la sua crescita: è del 1973 l’American Dance Asylum, collettivo che sarà preludio alla stagione che li vedrà


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dramma coreografico

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Ravenna Festival Magazine 2018

L’ardente poetica di Bill T. Jones Con A letter to my nephew l’artista americano distilla, fra musica e movimento, un’intensa denuncia civile e ideale

proiettati come protagonisti del fertile panorama newyorchese. La nascita della loro personale compagnia nel 1982 e la morte di Zane nel 1988 saranno poi i passaggi cardine di un percorso umano e teatrale che ha fatto di Jones un punto di riferimento per una pervicace – da omosessuale e sieropositivo dichiarato – lotta ai diritti, in una continua ricerca della sperimentazione, non dimentica di lavori incentrati sul multimediale e sul digitale. Attuale direttore del New York Live Arts, non si contano i riconoscimenti ricevuti nel corso degli anni, spazian-

do dal Premio MacArthur “Genius” nel 1994 al Kennedy Center Honors nel 2010. Una carriera la sua incredibilmente prolifica, con più di centoventi lavori all’attivo e un numero continuo di collaborazioni che lo hanno portato ovunque nel mondo a esercitare la sua attività di coreografo, regista, autore, danzatore. Lo spettacolo in scena al Pala de Andrè rappresenta un’occasione imperdibile per cogliere lo spirito tutto della sua poetica, in una rappresentazione moderna figlia di tutta l’esperienza maturata in anni di lavoro ardente e indefesso. m

Bill T. Jones’ Passionate Poetics A letter to my nephew by Bill T. Jones is a passionate collage with a strongly political content that nine dancers will perform on July 11th at Pala de André. This magnificent work is about Lance's nephew, about his drug addiction and disease; it is a strong emotional experience for the audience, accompanied by Nick Hallett's live music. Once again, Jones' art is not a mere mean of communication, but becomes a way to endure a political struggle. Every show is an unicum as it is every time re-written to adhere to the geographical, historical and temporal situation where it is performed so that it becomes every time a new show that pays attention to local culture. Bill T. Jones is the present director of New York Live Arts and has been awarded with countless prizes along his career such as the McArthur "Genius" in 1994 and the Kennedy Center Honors in 2010. He has had an incredibly prolific career and has put on stage more than 120 shows all over the world.

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ROBERTA BEZZI

Sarà un’ospite d’eccezione come Roberto Bolle a chiudere, quest’anno, il Ravenna Festival con uno spettacolo che ha girato – e gira tuttora – trionfante tra i luoghi più suggestivi d’Italia.

L’appuntamento con il galà “Roberto Bolle and Friends” è per domenica 22 aprile alle 21.30, al Pala De André di Ravenna. L’étoile dei due Mondi, come è stato da molti definito per essere al contempo étoile del Teatro alla Scala di Milano e

principal dancer dell’American Ballet Theatre di New York, è già stato sul palcoscenico del festival, nel 2007, quando al suo fianco c’era Alessandra Ferri per il suo farewall tour. C’è ancora riserbo sul cast e il programma che lo stesso Bolle sta preparan-

do, ma come sempre il miglior ambasciatore della danza italiana coinvolgerà alcuni tra i nomi più importanti del panorama tersicoreo internazionale, per offrire al pubblico una serata di danza al suo massimo livello. Roberto Bolle, cosa rappresenta

V ia Canalazz o, 2/A - R avenna


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Roberto Bolle

I magnifici passi della stella dei due mondi Conversazione con il celebre primo ballerino del Teatro alla Scala e dell’American Ballet Theatre di New York, che chiuderà in bellezza il festival con la sua spettacolare antologia del balletto classico “Bolle & Friends” la danza per lei? «La danza è la mia vita, e non potrebbe essere diversamente per tutto ciò che mi ha dato. Guardo il mondo intero come fosse una danza, con un suo ritmo, una sua armonia, una sua coreografia».

Per molti lei è l’incarnazione della “Danza“ ed è un bel modello, un mito, per tanti giovani. Una bella soddisfazione… «Sì, e una gioia immensa. Ma anche una grande responsabilità che porto avanti con serietà e tanto orgoglio».

Lei stai facendo tanto per “sdoganare” la danza classica, per farla diventare popolare e apprezzare dal grande pubblico, come dimostrato anche dal recente ”Danza con me” in tv su Rai Uno. Qual è il segreto per arrivare al cuore di tutti?

«Credo che per raggiungere il pubblico più vasto possibile, sia necessario dare spazio alla danza di qualità che ha in sé il potenziale per incantare tutti. Quello che cerco di fare io è di liberarla da quella etichetta di >> “arte di nicchia” che

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le è stata imposta e portarla alla gente, senza per questo “abbassarlaâ€?. GalĂ in piazza, spettacoli in televisione e adesso anche “OnDanceâ€?, un evento che stiamo preparando vanno in questa direzione. L’intento è quello di offrire una visione della danza moderna e contemporanea in grado di parlare e interagire con l’attualitĂ Âť. Cosa sarĂ â€œOnDanceâ€?? ÂŤUna grande festa della danza che ho voluto organizzare a Milano dall’11 al 17 giugno. Una settimana dove la danza letteralmente regnerĂ su Milano con spettacoli, workshop gratuiti di diversi generi coreografici – io stesso, per la prima volta, terrò una lezione di classica – flashmob, camp estivi, mostre e tanto altro. Tenetevi aggiornati su www.ondance.it e iscrivetevi: c’è sicuramente un’iniziativa anche per voi!Âť. Durante la sua lunga e ricca carriera, ha avuto l’opportunitĂ di interpretare tanti ruoli e di ballare in scena con numerosi ed eccellenti artisti. Qual è il ruolo che piĂš l’emoziona e con quali partner ha un feeling maggiore? ÂŤSono molti i ruoli a cui sono legato emotivamente. Prediligo i ruoli interpretativi e drammatici come Onegin o Des Grieux, ma non nego che una delle emozioni piĂš intense e speciali della mia vita l’ho provata interpretando

un ruolo senza storia: Bolero di BĂŠjart. Oggi ci sono molte colleghe con le quali coltivo una bellissima intesa, a cominciare da Alessandra Ferri e Svetlana Zakharova, due ballerine divine. Poi ci sono Polina Semionova e Melissa Hamilton che amo molto e che ho chiamato anche nel mio programma televisivo. Ricordo anche Nicoletta Manni, la bel-


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danza

Ravenna Festival Magazine 2018

lissima prima ballerina del Teatro alla Scala di Milano e tutto un nuovo gruppo di giovani danzatori scaligeri che cerco di coinvolgere in tutti i miei progetti: da Timofej Adrjashenko a Nicola Del Freo, a Gioacchino Starace e altriÂť. Ha avuto l’occasione di conoscere tante celebritĂ a livello mondiale, di qualsiasi ambito. Quale personaggio le è rimasto piĂš nel cuore? ÂŤTanti. Da Papa Giovanni Paolo II a Lady Diana, passando da Sting che quest’anno ha sospeso un tour per venire a raccontare insieme a me nel programma la

bellissima storia di Ahmad Joudeh‌ e poi tanti, tanti altri. Sono stato fortunato, la mia arte mi ha permesso di conoscere umanitĂ uniche e prezioseÂť. Cosa le piacerebbe fare fra dieci anni? Dirigere una grande compagnia, fondarne una propria? Roberto Bolle è giĂ un brand‌ ÂŤRimarrò sempre nell’ambito della danza, questo è sicuro. Mi piacerebbe lavorare coi giovani e mettere a frutto l’esperienza che questo mio percorso incredibile mi ha permesso di sviluppare. E poi continuare nella mia missione di promuovere l’arte della danza ovunqueÂť. m

Roberto Bolle, the Extraordinary Ăˆtoile between two Worlds The extraordinary ĂŠtoile Roberto Bolle will close, this year, Ravenna Festival with his gala on July 22nd at Pala de AndrĂŠ. In this interview, the ĂŠtoile of Teatro La Scala and principal dancer of the American Ballet Theatre in New York explains how ÂŤdancing is my life and it could not be otherwise considering everything it has given meÂť. About being an example for many young people, he adds: ÂŤIt is a big responsibility that I carry on with reliability and prideÂť. What is the secret way to reach everybody's heart? ÂŤI think we need to give much space and attention to quality dancing which has the potentiality to be appreciated by everyone. I would like to offer a modern and contemporary vision of ballet that can interact with present timesÂť. About his favorite role he does not denies that he has felt one of the most exciting feeling in interpreting BĂŠjart’s BolĂŠro. Many are the partners he has a ÂŤwonderful harmonyÂť with, such as Alessandre Ferri and Svletana Zakharova, Polina Semionova and Melissa Hamilton, but also Alessandra Manni from La Scala and many young Milan dancers he often involves in his ballets. Among the many celebrities he has known he remembers in particular Pope Joan Paul II, Lady Diana, and Sting. His future in ten years? ÂŤI would like to work with young dancers and I will surely 0keep on with my mission to spread ballet everywhereÂť.

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concerti danza

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Tango glaciale: reloaded del progetto postmoderno firmato da Mario Martone DI LINDA LANDI

Il progetto Ric.Ci (Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni ’80/’90) ideato e diretto da Marinella Guatterini dal 2013 ci ha abituato alla riscoperta dell’eccellenza creativa di una delle più prolifiche stagioni della coreutica contemporanea italiana. Non stupisce quindi la scelta di annoverare tra le proposte di questa stagione del Ravenna Festival (in scena il 1 luglio al Teatro Alighieri) Tango Glaciale Reloaded (19822018), riallestimento a cura di Raffaele di Florio e Anna Redi dello storico progetto per la regia di Mario Martone, una prima nazionale “ricaricata” che pare non soffrire il passaggio di ben 36 anni di storia dello spettacolo, per via della grande sperimentalità di cui è intrisa: Martone la definisce icasticamente “una macchina del tempo” che naturalmente e senza forzature accoglie “tre giovani danzattori” non ancora venuti al mondo ai tempi della prima stesura collocata agli albori dei sovrabbondanti Eighties, quando sul palco, a cambiare il corso della scena italiana, c’erano Andrea Renzi, Tomas Arana e Licia Maglietta del collettivo Falso Movimento. «Ho rivisto il debutto a Napoli, al Teatro Nuovo, con le case dei Quartieri tutte

puntellate, una foresta di pali di legno comparse all'indomani del terremoto, e la fila di spettatori così lunga da arrivare fino a via Toledo – racconta il regista dopo aver accolto la proposta di riprendere il Tango – Gli amici, emozionati e sorpresi, consapevoli più di noi che quello spettacolo avrebbe avuto lunga vita, tutti a darci

coraggio, a trasmetterci amore. E quella lunga vita è un fiume di ricordi, Tango Glaciale ci portò in mezzo mondo (chi era mai salito su un aereo?), venne visto a New York da Martin Scorsese, Laurie Anderson e Andy Warhol, a Londra, a Gerusalemme, a San Francisco, non si contano le città. A Roma al Quirino e

Martone’s Tango glaciale Reloaded Since 2013, the project called “Ric.Ci - Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni 80/90”, directed by Marinella Guatterini, has been re-proposing the creative excellence of one of the most prolific periods of dancing. In this frame, on July 1st at Teatro Alighieri, we will see Tango Glaciale Reloaded (1982-2018): Raffaele di Florio and Anna Redi will stage Mario Martone’s original project, a “reloaded” premiere that does not seem to be aging. On stage there will be three dancers who were not even born when the show was performed for the first time, with a great success. Scenes change every five minutes, the show tells the movements of three people sharing the same house. We can follow them while they move in and out twelve different rooms - kitchen, living room, bathroom, swimming pool, roof... - in a domestic adventure.

prima alla Biennale di Venezia lo spettacolo era stato uno sconquasso, la gente gremiva le platee come a un concerto rock». Questi i fasti dell’epoca, e ancora oggi la produzione suggellata dalla collaborazione con la Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini e la Fondazione della Danza/Aterballetto, a quanto pare, ci porta, attingendo al passato della ricerca firmata Artaud, un sapore fresco di futuro e i lumi della preveggenza: una pioggia di rimandi, dalla new wave ad altri frutti squisitamente figli del tempo, con la media di un cambio di scena ogni cinque minuti, racconta infatti i movimenti dei tre inquilini di una stessa casa. Li seguiamo mentre si spostano in dodici diversi ambienti cucina, salotto, bagno, piscina, tetto… - in una vera e propria avventura domestica in continuo, febbrile divenire, grazie ad effetti di luci e proiezioni che trasfigurano lo spazio con sorprendente dinamismo. Questo Tango Glaciale Reloaded tutto è insomma fuorché un’operazione passatista. Piuttosto, fantascientifica: un atto di fede nei confronti dell’immaginazione, vista come forza salvifica e chiave di interpretazione di un mondo che si trasforma in modo incontrollabile e frenetico, un mondo in cui “si vola tra le stelle, si comunica attraverso parole esplose”. m

Il riallestimento, 35 anni dopo l’originale con Falso Movimento, dello spettacolo che rivoluzionò negli anni Ottanta la scena italiana e internazionale


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Erodiade fra vuoto e solitudine

La fame di vento di DI LINDA LANDI

«Urtando l'aldilà con il balzo del pensiero» Stéphane Mallarmé raccontava l’eleganza fatale del suo conturbante incompiuto dramma biblico, Hérodiade. Nel 1993 Julie Ann Anzilotti con l’omonimo spettacolo Erodiade – Fame di Vento (in scena al Teatro Alighieri il 18 giugno) incontrava quelle stesse pagine che più tardi, nel 2017, saranno ricostruite secondo la nota formula messa a punto da Marinella Guatterini per il progetto “Ric.Ci Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni ’80/’90”. Fedele alla ripartizione in sei scene che ricalca l’opera letteraria, la produzione si deve alla fiorentina e allora neonata Compagnia XE di teatrodanza

che, tra spiriti maligni e benigni, angeli e tormenti interiori, mette in scena la metamorfica catarsi nella solitudine di Salomé (chiamata da Mallarmé con il nome della madre, Erodiade) aprendo la narrazione dal preludio al dramma, per portarla fino ai momenti successivi alla decollazione del Battista accompagnata dalla carismatica voce di Gabriella Bartolomei sulla intensa partitura musicale, tra gli altri, di Paul Hindemith. Un lavoro che, dalla stampa dell’epoca, venne definito visionario, potente, commovente e onirico, rappresentato al Ponchielli di Cremona per un altro progetto firmato da Marinella Guatterini, che ora chiude il cerchio tornando a lei sotto l’etichetta di Ric.Ci. «Ho voluto seguire la scansione

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del poema non rinunciando però a portare il dramma fino a quel punto di liberazione che forse anche lo stesso Mallarmé aveva intravisto nel suo finale sospeso – spiega Anzilotti definendo la “fame di vento” della protagonista che, come le suggerì un’intuizione dell’artista Alighiero Boetti – vuole e ottiene qualsiasi cosa, ma poi resta più sola e vuota di prima, ancora alla ricerca di qualcosa che le dia un po’ di pace». Una Salomè-Erodiade spogliata dei suoi lati più sensuali, quella di Anzilotti, che rinuncia allo stereotipo più classico per focalizzarsi su di una tensione introspettiva molto contemporanea che, negli Anni ’90, per la coreografa italoamericana fu preludio all’indagine su altre figure femminili intensamente rivolte allo


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Progetto Ric.Ci: torna in scena 25 anni dopo il debutto il dramma coreutico di Julie Ann Anzilotti, ispirato all’opera di Mallarmé con le mirabili scenografie di Alighiero Boetti spirituale, come Giovanna d’Arco o Giuditta. Un doveroso inciso è da dedicare a chi firma le eleganti scenografie: proprio il Boetti grande artista concettuale, uno Jedi del visibile diviso tra industria e natura innamorato del tempo, dello spazio e dei numeri. Realizzato a solo un anno dalla sua morte, il prezioso fondale rosso con sipario, dà un’efficace prova del felice clima di scambio creativo e collaborazione tra diverse arti che permane in salute all’inizio degli Anni ’90 e che

riporta quasi tutti i protagonisti che furono anche nel riadattamento di oggi. Boetti stesso rilevò quella fame di vento della protagonista che la definisce, e definisce anche lo spirito di vorace ricerca e introspezione che permea l’opera. In linea con la vocazione della coreografa toscana, nel cui percorso figura una formazione in ambito psicologico che si sviluppa parallelamente e in integrazione alla carriera sul palcoscenico. m

A visionary and contemporary Erodiade On June 18th at Teatro Alighieri, Marinella Guatterini will bring back on stage 1993 “Erodiade - Fame di Vento” by Julie Ann Anzilotti, taken from Stéphane Mallarmé's Hérodiade, thus continuing the project called “Ric.Ci - Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni 800/90”. The original show was produced by the Company XE from Florence that put on stage the metamorphic catharsis in Salome’s solitude (she was called Hérodiade after the name of Mallarmé’s mother) among evil and good spirits, angels and interior agonies. According to the press review of the time the show was visionary, powerful, moving, and dreamlike. A Salome-Erodiade without her most sensual elements, that gives up classic stereotype and focuses instead on a very contemporary introspective tension. The elegant set design is by the conceptual artist Alighiero Boetti.

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teatro

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L’Amica geniale, dal romanzo alla scena con Fanny&Alexander DI FEDERICA ANGELINI

La storica compagnia Fanny&Alexander sta lavorando a un progetto in quattro parti dedicato al best seller di Elena Ferrante, L'Amica geniale, un testo che, caso più unico che raro per gli autori contemporanei italiani, è arrivato a conquistare perfino gli Stati Uniti, nonostante sia pubblicato da una piccola casa editrice come e/o e la vera identità dell'autrice sia più o meno ignota, e comunque mai ufficilamente rivelata. Dopo aver un lungo lavoro su Ada di Nabokov e sul ciclo de Il Mago di Oz, è dunque questa Storia di un’amicizia la nuova la nuova sfida per la pluripremiata compagnia di teatro contemporaneo. Al Ravenna Festival, il 5 luglio al Teatro Alighieri, vedremo la seconda parte di questo lavoro, dopo che la prima ha girato un po’ in tutta Italia riscuotendo l’apprezzamento della critica. Abbiamo chiesto a Chiara Lagani, che nè è ideatrice e interprete (insieme a Fiorenza Menni) e a Luigi De Angelis, ideatore e regista, di raccontarci qualcosa di più del progetto. Perché questo testo, cosa vi ha

Secondo atto di un progetto in quattro parti della compagnia ravennate sul best seller di Elena Ferrante

My Brilliant Friend: from book to stage The comtemporary theatre company F&A is working on a new project based on Elena Ferrante' best seller My Brilliant Friend. We have asked them to tell us more about this secondo step of a four chapters work that will debut at Ravenna Festival on July 5th at Teatro Aligheri. «Ferrante's work has something epic – explains Chiara Lagani, actress and creator of the show – and is able to build a passionating relationship between the reader and the carachers. Everyone has had his o her brilliant friend. My “brilliant friend” is and has been Fiorenza Menni (the other interpreter and creator of the show)». They also explain that readers will maybe discover something more of their way to consider that work as theatre is useful in reactivating archetypes. They have benne faithful to Ferrante's words except for some natural openings lead by readers' curiosity: where did the two lost dolls of the first book end up? In this second chapter there will also be an enlargement of the story to the Naples metropolitan area and we will see transformations of society due to the economic boom. The author's anonymity? «We respect it as it seems a choice based on a genuine wound».

colpito in modo particolare? Chiara: «L’opera della Ferrante ha un respiro epico, in più riesce a concretizzare una relazione appassionante tra il lettore e i personaggi della storia, che finiscono per vivere come fantasmi familiari. Leggere è dunque frequentarli, approfondire la loro e la propria conoscenza. Il meccanismo guida che regola l’amore per la vicenda delle due amiche geniali è certo segnato dal processo dell’identificazione: le figure divengono specchio riflettente delle proprie ossessioni, delle proprie fragilità e dei propri desideri. Ognuno ha avuto un’amica geniale, e qui ritrova parte della

propria storia. In particolare a me è capitato di rivedere nell’amicizia tra Lila ed Elena il riflesso di quella che mi lega all’attrice che è con me sulla scena, Fiorenza Menni. La storia che con Luigi De Angelis abbiamo deciso di racccontare parla anche dell’amicizia tra me e Fiorenza». Cosa scopriranno i lettori della Ferrante dal vostro spettacolo? Cosa vi aspettate di mostrare loro di nuovo? E come hanno reagito quelli che hanno visto il primo spettacolo? Chiara: «Scopriranno, forse, qualcosa di più del loro stesso possibile modo di guardare a quell’opera. Credo che non esista, in fondo, un’opera che possa mostrare di più di un’altra opera: esistono i processi di contiguità e le riattivazioni mitiche, però, e il teatro si propone sempre come un grande riattivatore archetipico. Chi ha visto il primo capitolo della nostra Storia di un’amicizia, generalmente, è entrato in questo meccanismo di riconoscimento desiderante. Tra i pochi che non avevano ancora letto L’Amica geniale, alcuni ci hanno confessato di volerlo subito fare». Come avete lavorato rispetto alla parola della Ferrante? Chiara: «Il lavoro sul testo d’origine è di assoluta fedeltà alla pagina scritta. Penso ai nostri corpi come a una specie di superficie tridimensionale vivente in cui si scrive e si compone il racconto, che è fatto di parti recitate e di un archivio di gesti che appartengono alla tradizione coreografica che più amiamo. Ci sono poi alcune fuoriuscite dall’opera matrice, che sono i varchi

Due immagini dallo spettacolo “Da parte loro nessuna domanda imbarazzante“, primo capitolo del progetto in quattro parti dei Fanny&Alexander, liberamente tratto dai quattro romanzi di Elena Ferrante pubblicati da e/o


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naturali che il desiderio apre a tutti i lettori: la curiosità fondativa che ti fa chiedere, ad esempio, dove siano finite le due bambole perdute nello scantinato nero dalle due amiche bambine». Cosa cambia tra il primo spettacolo già portato in scena un po’ in tutta Italia e questa seconda “puntata” che invece debutta a Ravenna? Come proseguirà il progetto teatrale? Luigi: «Il progetto teatrale si compie con questa seconda puntata che conterrà anche la prima, come primo movimento o atto. Il nostro desiderio è quello di far esperire allo spettatore un viaggio, un bagno nelle diverse temperature, colori e snodi cruciali della tetralogia di Elena Ferrante tramite un vero e proprio prisma emozionale, che non disdegna le sfumature storiche, gli affondi nei mutamenti e nelle fratture di mezzo secolo d’Italia, ma che riverbera e s’ininnerva nelle pieghe di un’amicizia di 60 anni. Il secondo movimento di quella che sarà la tappa ravennate coinciderà con l’allargamento di orizzonte del romanzo, dal rione all’Italia intera, passando per l’area metropolitana napoletana, il boom economico, le proiezioni e storture a esso connesse, attingendo a universi visivi e sonori del mondo reale, a gestualità e coreografie che appartengono ormai alla storia della danza mondiale e che hanno connotato quegli anni in movimento, in trasformazione, in cerca di nuovi confini culturali, e che hanno

attinto così tanto proprio dai cambiamenti sociali e culturali in atto in quel tempo». Secondo voi perché questo testo ha conquistato un pubblico mondiale, cosa non frequente per gli autori italiani? Luigi: «Perché parla a tutte e a tutti, a prescindere dal ceto sociale, al di là di longitudini e latitudini. Ognuna, ognuno abbiamo un’amica o un’amico geniale o l’abbiamo avuto, o persiste in noi come un’ombra. Parla della ricerca di un’identità, di una forza del carattere, di un femminile alle prese con le difficoltà sociali e culturali del proprio tempo, parla di legami simbiotici che avvelenano e nutrono il nostro quotidiano. Parla della perdita dei confini e anche dei mutamenti profondi di un paese tramite le metamorfosi di due corpi e anime tra esse per sempre interconnesse». Vi piacerebbe conoscerla? Cosa ne pensate della sua scelta di anononimato? E delle “indagini” fatte da alcune grandi testate per rivelarne l’identità? Luigi: «Le indagini su Elena Ferrante sono per noi assolutamente volgari. Avvertiamo in questa scelta di anonimato una ferita genuina da rispettare, da cui è scaturita fino a ora solo tanta bellezza. Perché dover violare questo voto di silenzio, questo velo, questa scomparsa enigmatica che hanno generato fino ad ora opere autonome, che non necessitano di alcun complemento biografico»? m

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Antigone riletta in musica vessillo della ribellione DI

MATTEO CAVEZZALI

La tragedia di Antigone è riletta da Elena Bucci, attrice Premio Duse nel 2016, e Marco Sgrosso per il Ravenna Festival in Antigone Quartet Concerto Una lettura in musica con musiche originali eseguite dal vivo alle tastiere e al violino da Dimitri Sillato che dialoga con la voce di Bucci e Sgrosso. Al centro dell’opera di Sofocle scritta duemila cinquecento anni fa si discute di un tema sempre vivo perché parte dell’essere umano, ovvero il rapporto tra la rigidità della legge e la soggettività umana dell’etica. L’etica, senza diritto, non ha forza; la giustizia degli uomini, priva di una solida guida morale, finisce per tradursi nel suo contrario. Elena Bucci e Marco Sgrosso de “Le Belle Bandiere” interpreteranno tutti i personaggi del testo sofocleo. Le loro parole, immerse nell’evocativa luce dell’Antico Porto di Classe (10 e 11 luglio), ritroveranno l’antica profondità ritmica grazie al contributo sonoro di Raffaele Bassetti e alle musiche originali di Sillato, storici collaboratori della compagnia di Russi. Elena Bucci e Marco Sgrosso raccontano così la loro scelta di cimentarsi con questo classico del teatro e della poesia: «Grande tragedia di contrasti, l’Antigone di Sofocle ci ha colpito soprattutto per la straordinaria nettezza nell’affrontare un tema mitico ma di

sconcertante attualità, messa in risalto dalla semplicità poetica di una lingua frammentata e lontana e tuttavia capace di attraversare i secoli, le mode, i mutamenti effimeri, senza nulla perdere dello splendore diretto della sua comunicatività e del suo andamento asciutto e ritmico che non sembra aspettare altro che la musica. Entriamo nel mondo della tragedia greca guidati dalle suggestioni e dal mistero che la avvolge, dal fascino delle rovine, dalle domande intorno alla complessità di un linguaggio dove la parola è anche musica e gesto. Immaginiamo una partitura basata sul testo di Sofocle, ma con un’attenzione anche a più recenti riscritture della tragedia, da quella di Jean Anouilh a quella di Bertolt Brecht, che testimoniano della forza di un mito che continua ad affascinare ed inquietare. Dall’esito felice dello spettacolo di qualche anno fa, nasce questa nuova edizione dove gli attori sono soltanto in due in scena, ma molti di più nella moltiplicazione di illusioni e personalità che offre il teatro. Raccontano con rinnovato stupore l’antica storia della lotta tra due fratelli per la supremazia, della pietosa sepoltura di Eteocle per mano di Antigone contro la legge del nuovo re Creonte. Ritroviamo la dolce Ismene che vuole dissuadere l’irriducibile sorella, il fidanzato Emone che affronta con lucida passione il padre Creonte per difen-

Antigone “Read” in Music, a Symbol of Freedom Antigone's tragedy is interpreted by Elena Bucci (Duse Prize in 2016) and Marco Sgrosso in “Antigone Quartet Concert - a music reading” in the Ancient port of Classe on July 10th and 11th. Original music is by Dimitri Sillato. Bucci and Sgrosso explain: «Sophocles’ Antigone is a tragedy of contrasts and struck us for its extraordinary clarity in dealing with a mythical but still contemporary issue using a far away and fragmented language that has been able to survive centuries, fashions, ephemeral changes, and it has maintained the direct splendor of its efficacy in communicating. Our show will be based on Sophocles’ text but it borrows also from more recent rewritings of the tragedy, like Jean Anoulih's and Brecht's. Recordings, electronic music and sensors sound mix with words and support, provoke, contrast actions in a contemporary blending of languages. We think that this story can still hint at the need to ask ourselves what good laws are. We find here a precious and old idea: nobody can take away the freedom to give up to everything, even life, in order to defend a utopia». Elena Bucci will also take part to the meeting with the anthropologist and classicist Maurizio Bettini about the meaning of dreams in Ancient Rome on July 14th.

Protagonisti nell’antico Porto di Classe Elena Bucci e Marco Sgrosso con le musiche dal vivo di Dimitri Sillato

dere l’amata e le sue ragioni. Diventano tutti loro, si trasformano nelle guardie impaurite e attonite, nel saggio veggente Tiresia, nel coro che osserva, disquisisce, approva, disapprova. La lingua nobile accoglie le suggestioni dei dialetti romagnoli e napoletani. Registrazioni, musica elettronica e suono ai sensori si miscelano alle parole e sorreggono, provocano, contrastano le azioni, aiutando il salto verso una commistione contemporanea dei diversi codici linguistici della musica, del teatro e della danza. Antigone è stata un vessillo di molti cambiamenti, lotte, nuove visioni, ribellioni ad un potere rigido e oppressivo. Ci pare che, in questo presente, questa storia sempre viva possa alludere anche alla necessità di interrogarsi su cosa siano le buone leggi, su quanto debbano abbracciare la complessità delle relazioni umane, su quanto sia importante fare tesoro delle tradizioni senza che diventino però una prigione, su come uno slancio coraggioso fino alla morte possa cancellare contrasti e inimicizie fino a portare un intero popolo ad una nuova e più ampia comprensione. Ritroviamo in Antigone un pensiero caro e desue-

to: nessuno può togliere la libertà di rinunciare a tutto, anche alla vita, per difendere un credo, un'idea, un’utopia. Il teatro garantisce la sopravvivenza di un rito collettivo attraverso il quale la comunità si ritrova a sentire e a pensare insieme, ad interrogarsi attraverso sollecitazioni non soltanto intellettuali o filosofiche, ma anche fisiche ed emotive: diventa così entusiasmante ritrovare queste parole come accadeva un tempo, in un luogo della natura, alla luce del tramonto, nel mutevole trascolorare dal giorno alla notte. La tessitura del suono avvolge e racconta, come se fossimo presenti alla veglia per Antigone, alla veglia per il corpo di Polinice e a quella per molti altri insepolti che chiedono di non essere dimenticati, alla veglia per una nostra antica identità che vuole essere ritrovata». Elena Bucci inoltre parteciperà ad una conversazione con l’antropologo e classicista Maurizio Bettini, dal titolo “Alle porte dei sogni”, sulla dimensione onirica vista dagli antichi romani come messaggio divino, metafora dell’oscurantismo, simbolo della vanità della vita, svelamento di traumi infantili e utopia. m


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Lettere a Nour, sguardo intimo sull’Islam In prima nazionale al festival l’adattamento teatrale italiano del romanzo dello scrittore franco-marocchino Rachid Benzine. Protagonisti il grande Franco Branciaroli e la giovane attrice Marina Occhionero. Del testo e della messa in scena ne parla il regista Giorgio Sangati DI IACOPO GARDELLI

Giorgio Sangati, classe 1981, è il regista di Lettere a Nour, primo adattamento teatrale italiano dell'omonimo libro di Rachid Benzine, islamologo franco-marocchino. Come vuole la migliore tradizione letteraria francese, si tratta di un romanzo epistolare, incentrato sulla storia di un padre, intellettuale islamico progressista, e di sua figlia, Nour, che giovanissima scappa in Iraq per combattere nello Stato Islamico. Uno scontro allo stesso tempo religioso e famigliare, che ci aiuta a scavare più a fondo per comprendere le ragioni di una scelta incomprensibile ai nostri occhi di occidentali blasé. Abbiamo chiesto al regista veneto il suo sguardo per prepararci alla prima nazionale dello spettacolo, ospitata dal Ravenna Festival (il 14 giugno al Teatro Alighieri), che vedrà in scena Franco Branciaroli e Marina Occhionero. Il testo di Rachid Benzine non è stato ancora tradotto in italiano. Come l'ha incontrato? «Il punto di partenza è la visione da parte di Claudio Longhi, direttore di ERT, della messa in scena

francese ad Avignone. Da lì è nata l'idea che si potesse trattare di un materiale interessante anche per il pubblico italiano». Cosa l'ha colpita di questo testo? «Il testo ha il pregio di affrontare il problema all'interno dell'Islam. I due protagonisti non sono di religioni diverse e per di più hanno punti di vista che difficilmente prenderemmo in considerazione. Siamo abituati a parlare di orrore da una parte e ragione dell'altra: il testo ci mette in una posizione più scomoda come spettatori, perché ci fa superare l'etichetta dell'incomprensibile». Una visione meno manichea del fenomeno. «Assolutamente. Questo anche perché il testo affronta la Storia attuale attraverso una storia famigliare. Le vicende personali, nel rapporto fra padre e figlia, non sono secondarie rispetto alle scelte che portano Nour a partire. La biografia diventa il grimaldello per parlare di una questione spinosa». La sinossi dello spettacolo mi ha ricordato, mutatis mutandis, American Pastoral di Philip Roth. «Il riferimento a Roth è giustissimo: allarga la questione dal punto di vista religioso a quello generazionale. Il padre ha cresciuto Nour proteggendola dal dolore e dalla sofferenza. Quando Nour arriva ad avere un'autonomia, ha l'esigenza di rompere questo meccanismo di rimozione; e lo fa come spesso succede a quell'età, andando alla ricerca dell'opposto, buttandosi nella vita – e quindi nel dolore, nella morte. Tutto ciò ha una valenza generazionale». In che senso? «Questa nuova generazione cerca un coraggio, un'azione che la generazione precedente aveva

cristallizzato per motivi sociali ed economici. Il padre di Nour era giovane quando l'Europa era in costruzione, in piena espansione economica. Il mondo di oggi ha perso questa stabilità: è diventato anacronistico averne fiducia. Nour, al contrario, si butta nella mischia». Lettere a Nour è un romanzo epistolare. Come ha adattato questa forma al teatro? «Le lettere non hanno forma dialogica, sono come piccoli monologhi. Occorre capire che differenza c'è fra i due scriventi, in che modo ricevono queste lettere. Il flusso di comunicazione non è bilanciato. Il mio lavoro è consistito nella ricostruzione di uno spazio interiore: mi piace pensare che queste lettere siano come delle visite, momenti di una grande intimità, che addirittura supera quella del dialogo diretto. Le lettere lavorano di sponda: non dicono tutto quello che vorrebbero comunicare, e ciò le rende ancora più vere. L'obbiettivo è portare sulla scena questo effetto narrativo». Lo spettacolo affianca un mostro sacro come Branciaroli con una giovane promessa, la Occhionero. Come ha lavorato su questa coppia? «La differenza fra i due diventa calzante per questo testo. Branciaroli è davvero un mostro sacro, ha un'esperienza incredibile sui palcoscenici. Dall'altra abbiamo un'attrice promettente, ma che ha calcato molte meno scene. Nella metafora teatrale i due traslano a un altro livello lo scontro generazionale raccontato nel libro».

Per quanto riguarda le musiche? «Sul palco, in scena con gli attori, ci sarà un trio ravennate, i Mothra di Fabio Mina, Peppe Frana e Marco Zanotti, che si muove sul confine tra sonorità occidentali e orientali. L'idea è che si crei una scenografia sonora: raccontare l'esperienza di Nour attraverso una vibrazione musicale, contrapposta a un silenzio occidentale che sa di morte». Dice che il testo parte da un punto di vista interno all'Islam, ma mi pare che si possa dire che è anche interno all'Europa. «Esatto. Noi occidentali non siamo diversi dal padre, che non si smuove dalla sua posizione culturale e geografica. Nour gli chiede di avvicinarsi, di vedere coi suoi occhi: questo rifiuto alla comprensione è analogo quello che commettiamo noi europei. Nour dice che la sua volontà è quella di realizzare ciò che il padre le ha insegnato – il testo fa spesso riferimento ad una teologia della liberazione islamica che aveva avuto un certo successo politico negli stati arabi. Sappiamo come è andata». Come mai il padre non parte mai alla ricerca della figlia? «È una bellissima domanda a cui temo di non avere una risposta. Dal testo di evince che non lo fa e non lo prende mai in considerazione, a riprova del fatto che non si salva nessuno, nemmeno il padre, figura sicuramente più vicina all'autore. Questo dimostra la grande raffinatezza intellettuale di Benzine, un teologo aperto, che non


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Ravenna Festival Magazine 2018

The English Centre Scuola di lingua inglese dal 1971

difende le sue posizioni ad oltranza». Secondo lei perché non parte? «Credo che sia una critica all'eccessiva razionalità occidentale. Viviamo una scissione fra il parlare della vita e viverla. Nour la vive, in modo drammatico e discutibile. Il padre si protegge, si costruisce una torre d'avorio: quella protezione, che potrebbe sembrare puramente passiva, è in realtà un'aggressione alla figlia. Fare del bene, paradossalmente, può nascondere azioni molto violente; e viceversa, azioni violente possono nascondere un atteggiamento liberatorio». Cosa intende? «L'Occidente, come il padre, pensa di salvarsi proteggendosi dall'irrazionalità. Ma non c'è nessuna salvezza nella rimozione. Censurarla significa farla emergere in forme violente». Un approccio del genere non rischia di de-responsabilizzare la scelta dei foreign fighters? «No. Non c'è un giudizio esterno sul

percorso di Nour. È lei stessa a rendersi conto che il movimento a cui ha aderito, lungi dall'essere un moto di liberazione e di rinnovamento, è corrotto alla radice. Una frase del testo dice: «L'Occidente e lo Stato Islamico non sono che due facce della stessa medaglia». È un'epifania di Nour, che arriva solo alla fine di un percorso drammatico che modificherà la sua esistenza». Comprendere non significa giustificare. «Esatto. Comprendere significa rompere uno stereotipo e avere il coraggio di prendere un punto di vista diverso. È la grande qualità del teatro; le risposte le darà il pubblico». m

In alto, lo scrittore Rachid Benzine; nella pagina a sinistra, in alto, il regista Giogio Sangati e l’attore Franco Branciaroli

“Letters to Nour” , a Deep Insight in Islam Giorgio Sangati, born in 1981, is the director of Letters to Nour, the first Italian adaptation of Rachid Benzine's novel. It is an epistolary novel including a father, who is a progressive Islamic intellectual, and his very young daughter Nour, who has fled to Iraq to fight with the Islamic State. In Ravenna we will see the national premiere with the legendary Franco Branciaroli and the young promising actress Marina Occhionero. There will also be live music with Mothra Trio (Fabio Minna, Peppe Frana and Marco Zanotti) from Ravenna. We talked about the show with the director. «The text has the merit to deal with such a big issue within Islam. We are used to divide it between what is fair and what is horror, the text forces us in an uncomfortable position as it makes us overcome the label of what is usually considered inexplicable. The private relationship between father and daughter has much to do with the reasons why Nour leaves. It also has to do with a generation gap, as this new generation is looking for courage, an action that the previous generation had crystallized for social and economic reasons». «Letters are like short monologues. I have tried to build an inner space: I like thinking that these letters are like visits, moments of a great intimacy, even superior to that of a dialogue». «As Westerners, we are not different from the father who never moves from his cultural and geographical position: he refuses to understand the way we often do. The father's choice not to go in search of his daughter is maybe a critic to extreme Western rationality. We are divided between speaking of life and living it. Nour lives it, in a dramatic way. The father protects himself, he builds an ivory tower around himself. Understanding does not mean judging, but breaking up a stereotype and having the courage to assume a different point of view. It is the great quality of theater: answers will be given by the audience».

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Ravenna Festival Magazine 2018

Un monologo delle Albe scritto da Luca Doninelli con Ermanna Montanari per la regia di Marco Martinelli

Maryam la donna dell’incontro

DI IACOPO GARDELLI

Aveva debuttato nel gennaio del 2017 a Napoli. Dopo più di un anno, il monologo delle Albe dedicato a Maryam, la Maria del mondo islamico, torna a casa al Rasi di Ravenna, ospitato all'interno del Ravenna Festival (il 6 e 7 luglio). Ne abbiamo parlato con Marco Martinelli, regista dello spettacolo scritto dall'autore lombardo Luca Doninelli e interpretato da Ermanna Montanari, per capire meglio come interpretare questa complessa figura religiosa che riesce ad accomunare i fedeli di due culti ritenuti sempre più distanti. Luca Doninelli ha scritto il testo appositamente per il Teatro delle Albe, giusto? «Luca aveva già scritto un “San Giovanni” per Sandro Lombardi e un “Giuda” per Massimo Popolizio; ha voluto completare la trilogia con un ritratto di Maria, affidandolo alla voce di Ermanna». Come avete affrontato il testo? «In realtà, quando Luca ci ha inviato la prima stesura del testo, l'abbiamo rispedita al mittente! Stimiamo tantissimo Luca, come persona e come autore; ma alla prima lettura non abbiamo sentito il teatro. Si rischiava di

parlare solo di teologia, di fare catechismo. Lui è stato molto paziente con noi, lo ha sempre detto che lavorare a questo monologo è stata per lui una scuola. Insomma, in maniera un po' crudele, abbiamo rifiutato altre quattro o cinque versioni. Quindi ci siamo incontrati da lui, a Milano, e abbiamo cercato di capire cosa non funzionasse e perché». Cosa avete capito? «Luca ci raccontò del suo viaggio a Nazareth, alla Basilica dell'Annunciazione. Là aveva visto le donne mussulmane andare a pregare Maria – che loro chiamano “Maryam”, come recita la 19a sūra del Corano. Abbiamo capito che quello doveva essere il punto di partenza: le preghiere terribili di queste madri. C'è chi chiede vendetta, chi chiede castigo, chi chiede disperatamente la ragione della morte del figlio. Così, assieme a Luca, abbiamo trovato la strada della scrittura e sono nati i quattro monologhi: tre preghiere e un momento finale, quello dell'apparizione della stessa Maryam». Da questa partenza, come vi siete mossi? «Una volta trovata la strada giusta, abbiamo lavorato di alchimia per comporre il testo con gli altri linguaggi che lo formano: la

musica di Luigi Ceccarelli, la regìa del suono di Marco Olivieri, l'impianto visivo (scena, costumi, proiezioni), anche grazie all'apporto di Tahar Lamri». Come vi ha aiutato Lamri? «Assieme a lui abbiamo deciso di utilizzare la scrittura coranica, che è diventata un elemento visivo fondamentale per questo spettacolo. Grazie alla sua traduzione del testo uno spettatore di

lingua araba può seguire il flusso delle storie. Ma c'è anche un uso della scrittura che diventa quasi un elemento di fascinazione divina: durante lo spettacolo, ad esempio, la parola “misericordia” viene montata come un vero quadro, come un'icona visiva». Chi è Maryam per voi? «Maryam è la donna dell'incontro. È un ponte tra due religioni. Abbiamo sentito la necessità di

Maryam, a Woman who is a Bridge between two Cults After the debut in Naples in 2017, the monologue by Teatro delle Albe dedicated to Maryam, the Mary of Islam, is back home, at the Teatro Rasi for Ravenna Festival on July 6th and 7th. The text is written by Luca Doninelli, interpreted by Ermanna Montanari and directed by Marco Martinelli, whom we have interviewed to better understand this religious figure who is a bridge between two different cults. «We have asked Luca – says Martinelli – to rewrite the text five or six times before finding the starting point: his journey to Nazareth when he saw Muslim women pray Maryam, as they call Mary. They were mothers who had seen their children die; their prayers were terrible. The show is made of four monologues: three prayers and the final one, when Maryam appears. Once we had the text we worked on an alchemy with Luigi Ceccarelli’s music, Marco Olivieri’s sound direction, scenes, costumes, images. Tahar Lamri helped us with Quranic Writing, a use of writing that becomes an element of divine fascination. Who is Maryam? She is the woman of meeting, a bridge between two religions. Women love her because she knows their pain, as she has seen her son die. It is a love unknown to power». And in the end, commenting the title of Ravenna Festival, Martinelli adds: «In the middle of violence, we have to keep alive the possibility of a different existence. This is our dream».


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Ravenna Festival Magazine 2018

Maryam è la Maria dei musulmani, recita la 19a sura del Corano. «È un ponte fra due religioni... In un momento storico in cui il sacro e la violenza sono spesso la stessa cosa... Si uccide in nome di dio, laddove dio ha sempre detto il contrario... In mezzo alle violenze, dobbiamo tenere viva la possibilità di un’esistenza diversa... È questo il sogno che portiamo».

fare questo lavoro perché viviamo in un momento storico in cui, per diverse ragioni, il sacro e la violenza sono spesso la stessa cosa. Si uccide il nome di dio, laddove dio ha sempre detto il contrario, dal nostro punto di vista. È una questione di interpretazione». Maryam offre una consolazione a questo dolore? «Maryam non offre né consolazione, né giustificazione. Doninelli, da credente, scrive una cosa che potrebbe stupire altri cristiani. A un certo punto Maryam dice che non ha mai perdonato Dio per aver fatto morire suo figlio. Per questo motivo, davanti al dolore inconsolabile delle altre madri, dà loro un abbraccio, un bacio. Sa che possono amarla proprio perché lei non ha tirato giù dalla croce suo figlio. Se l'avesse fatto, non sarebbe altro che una beata, una potente

tra le altre, una privilegiata. Così le madri la amano di un amore sconosciuto ai macellai, ai becchini, ai sommi sacerdoti, ai procuratori generali. Maryam offre un amore sconosciuto al potere. Non si tratta di consolazione: è l'abbraccio che tutti ci diamo davanti alla morte». Il tema del Ravenna Festival di quest'anno è tratto dalla famosa frase di Martin Luther King, “I have a dream”. Qual è il sogno che porta questo testo? «Una delle nostre immagini guida, da sempre, è proprio una frase di Martin Luther King: «Anche se sapessi che domani il mondo verrà fatto a pezzi, pianterei comunque un melo». Esattamente questo ci dicono i Vangeli da duemila anni a questa parte: in mezzo alle violenze, dobbiamo tenere viva la possibilità di un'esistenza diversa. Ed è proprio questo il sogno che portiamo». m


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teatro

Ravenna Festival Magazine 2018

Una stralunata

sinfonia beckettiana Viaggio nell’immaginario di Beckett e Giacometti ideato da Maurizio Lupinelli ed Elisa Pol. In scena cinque straordinari attori diversamente abili DI MATTEO CAVEZZALI

Sinfonia Beckettiana di Nerval Teatro è un viaggio nell’immaginario di Samuel Beckett e Alberto Giacometti, ideato da Maurizio Lupinelli e Elisa Pol, con in scena i ragazzi diversamente abili con cui lavorano continuativamente da oltre dieci anni. Lupinelli, per anni figura di riferimento del teatro ravennate oggi ha spostato la sede del suo lavoro a Castiglioncello, in Toscana. Il Ravenna Festival ha ospitato numerosi suoi lavori, quest’anno si tratta di una coproduzione originale fra la compagnia e il festival, che va in scena “in prima” il 21 giugno al Teatro Alighieri. Lupinelli ci racconta questo nuovo lavoro partendo proprio dai cinque attori diversamente abili che lo interpretano. «È un progetto che rientra nel laboratorio permanente di Castiglioncello in cui dal 2006 teniamo un laboratorio stabilmente con dei ragazzi diversamente abili. Lavoriamo su vari testi di Beckett. Nel 2011 facemmo uno spettacolo che si intitolava Attraversamenti al festival “InEquilibrio di Armunia”. Abbiamo continuato a lavorare con loro senza mostrare più niente al pubblico. Il

bello di questo laboratorio è che possiamo prenderci i nostri tempi per lavorare e cresce assieme senza la frenesia di dover arrivare a un debutto. Il percorso è per noi stessi, per i ragazzi, e solo quando ce n’è l’esigenza si apre anche allo spettatore. Parlando con Angelo Nicastro del Ravenna Festival è nata l’idea di portare i ragazzi nuovamente a Ravenna. Il Festival ci aveva già ospitato anni fa con Che cosa sono le nuvole? e così è nata la Sinfonia Beckettiana con i nostri attori e due musicisti». È uno spettacolo tra teatro e musica sul rapporto tra Beckett e Giacometti – entra nei particolari Maurizio Lupinelli –. I due erano grandi amici. Quando Beckett allestì per la prima volta Aspettando Godot chiamò Giacometti a realizzare l’albero che è al centro della scena, dall’altra parte Giacometti aveva scelto il volto così espressivo di Beckett come soggetto per diverse sue opere. Poi i due litigarono perché Beckett voleva per la scenografia un albero realistico e Giacometti lo fece con le foglie di pietra. All’inizio si arrabbiò, ma poi Giacometti gli spiegò che secondo lui era molto realista e alla fine lo tenne così. Oltre a questa collaborazione i due artisti hanno molti aspetti comuni: come rileggevano la realtà, l’uso

Nerval Teatro plays their Beckett’s Symphony Beckett's Symphony by Nerval Teatro is a journey inside Beckett's and Alberto Giacometti's consciousness made by Maurizio Lupinelli and Elisa Pol and interpreted by the physically challenged actors they have been working with for ten years in Tuscany. «It is a show – Lupinelli explains –about the relationship of Beckett and Giacometti. They were very good friends. When Becket staged Waiting for Godot for the first time, he asked Giacometti to make the tree that is at the center of the scene, on the other side, Giacometti used Beckett's expressive face for many of his works. They had very much in common: the way the read reality, the use of pauses, bodies, empty spaces. They had the same perception of silences and empties that I found in physically challenged actors.The show has been conceived for a place like Teatro Alighieri: a huge, empty space». The Arvo Part’s and Valentin Silvestrov’s music will be played by the piano player Matteo Ramon Arevalos and the violin player Stefano Grullo. The actors are Paolo Faccenda, Gianluca Mannari, Francesco Mastrocinque, Federica Rinaldi, Cesare Tedesco.

delle pause, dei corpi e degli spazi vuoti. Avevano la stessa sensibilità per i silenzi e il vuoto che ho trovato negli attori diversamente abili. Uno dei nostri ragazzi fa una camminata in cui pare veramente di vedere “l’uomo che marcia” di Giacometti». «È un lavoro pensato per una cornice come l’Alighieri: uno spazio immenso e vuoto, abitato da queste figure stralunate – sottolinea l’autore e regista –. Tutto questo con le musiche di Arvo Pärt e Valentin Silvestrov suonate al pianoforte da Matteo Ramon Arevalos e al violino da Stefano Grullo. Arevalos, magro e longilineo come un personaggio beckettiano, è venuto in Toscana e ha lavorato anche lui con i ragazzi, partendo proprio dalla musica e dal suono. Il mio lavoro teatrale

con i disabili è un’esperienza è nata a Ravenna nel 1997, poi proseguita fuori. Ora tornare a Ravenna e portarli in un cartellone importante come quello del Ravenna Festival all’interno del teatro Alighieri è per loro e anche per me una grande gioia». Gli attori sono Paolo Faccenda, Gianluca Mannari, Francesco Mastrocinque, Federica Rinaldi, Cesare Tedesco ed è proprio grazie alla loro spontanea e disarmante leggerezza che le visioni di Beckett e Giacometti rivivranno nitide sulla scena. E come diceva Estragone in Aspettando Godot: «Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano». Ma chi, noi o loro? m


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colonna sonora

musica e cinema

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La Corazzata Potemkin è un capolavoro pazzesco DI FRANCESCO

DELLA TORRE

Torna anche nel 2018, nella programmazione del Ravenna Festival, il graditissimo connubio tra musica e cinema, in un'unica affascinante proiezione in calendario il 13 giugno al Teatro Rasi. SI tratta del celeberrimo film La Corazzata Potemkin che per l’occasione sarà musicato dal vivo dai compositori di Edison Studio, gruppo di compositori ed ensemble elettroacustico italiano, specializzato nella ri-sonorizzazione di film storici. Proiettato a Mosca per la prima volta nel 1925, La Corazzata Potemkin non solo è il capolavoro del regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, ma anche un caposaldo della cinematografia moderna e di gran parte del cinema europeo dell'ultimo secolo. Quando uscì il film fu censurato in gran parte dei paesi europei (Germania in primis) e tornò a circolare solo dopo la Seconda guerra, tanto da risultare a fine anni cinquanta tra i dodici migliori film di tutti i tempi, mentre nel 1990 per un altro gruppo di critici fu addirittura il migliore. E, soprattutto, con buona pace del ragionier Fantozzi, è un film molto breve, perché dura poco più di un'ora. Per chi non conoscesse la trama, la vicenda è ambientata nel 1905 a Odessa a bordo dell'incrociatore Potemkin, dove grazie al marinaio Vakulinchuk scatta una vera e propria rivoluzione, che coinvolgerà l'intera città di Odessa, con annesso lo spargimento di sangue.

Metafora della Rivoluzione Russa con numerose licenze poetiche che il cinema consente e incoraggia. Su questa operazione, la

domanda che sorge spontanea è: quali sono i motivi, gli stimoli e le chiavi di lettura di realizzare una nuova colonna sonora, crea-

Music for the Masterpiece The Battleship Potemkin To celebrate the link between music and cinema, Ravenna Festival is organizing a unique event on June 13th at Teatro Rasi: the showing of Sergej Michajlovič Ėjzenštejn' The Battleship Potemkin sounded by Studio Edison. The film was first shown in 1925 but then censored in most of the European countries - as it was a metaphor of Russian Revolution - until the end of II World War. It has ever since been universally considered a masterpiece. After the first original Edmund Meisel’s score, the employ of Dmitrij Šostakovič's music and the Pet Shop Boys’

British pop version, the Studio Edison has made an extraordinary work of research for this new sound track. They have asked two Russian actors to play the texts of captions while the musical part mixes rock and electronic sounds. Edison Studio in composed by Luigi Ceccarelli, Fabio Cifariello Ciardi and Alessandro Cipriani who have worked on this project with Vincenzo Core, with the contribution of Giacomo Piermatti (double bass) e and Core's electric guitar. The actors are Andrej Maslenkin and Svetlana Kevral.

Lo storico film di Sergej Ejzenstejn proiettato con una inedita sonorizzazione live di Edison Studio ta dai musicisti di Edison Studio, dopo la prima partitura originale di Edmund Meisel, dopo il successivo utilizzo delle sinfonie di Dmitrij Šostakovič e, in modo del tutto singolare e rigorosamente pop, dopo la versione degli inglesi Pet Shop Boys (nel 2004)? La sonorizzazione del film muto più all’avanguardia della storia del cinema è stata riscritta nel 2017 con un'abilità senza precedenti, perché Edison Studio ha effettuato una ricerca su dialoghi e sonorità originali (quelle di Meisel), sui possibili rumori di scena analizzando il film e soprattutto sulle teorie di Ėjzenštejn sul montaggio audiovisivo del film stesso. Ingaggiati due attori russi, lo studio musicale romano ha usato le loro voci sui testi delle didascalie e tramite la post produzione in studio sono stati così creati gli effetti delle voci corali, facendo risultare il film come una pellicola sonora a tutti gli effetti. Il miracolo riesce perché nella Corazzata Potemkin ora si sente tutto: dal rifiuto dei marinai di mangiare la carne avariata, al grido prima in incoraggiamento poi successivamente di dolore di Vakulinchuk, passando per il rumore dei passi degli eserciti nella celeberrima scena della scalinata. La parte prettamente musicale è curata nei minimi dettagli, mescolando sonorità rock ad accorgimenti di stampo elettronico, con inedite atmosfere che permettono allo spettatore un'affascinante percezione di sensi e sonorità. Edison Studio è un collettivo formato da Luigi Ceccarelli, Fabio Cifariello Ciardi e Alessandro Cipriani, che hanno realizzato questo lavoro in collaborazione con Vincenzo Core e con l'ausilio del musicista Giacomo Piermatti (contrabbasso) e della chitarra elettrica dello stesso Core. Gli attori che hanno prestato le voci sono Andrej Maslenkin e Svetlana Kevral. Il progetto è promosso e sostenuto dalla Cineteca di Bologna. m


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arti visive Ravenna Festival Magazine 2018

Utopie e impegno civile nell'arte americana degli 60-70

DI SERENA SIMONI

L’eredità del sogno di Martin Luther King è condivisa oggi da milioni di persone: l’appello contenuto in I have a dream ha lasciato tracce profonde nelle coscienze, creato movimenti e leggi internazionali sul tema dei diritti civili senza però aver avuto il potere di giungere alla realizzazione di un mondo giusto. Ma chi crede nel sogno e

Furono gli artisti e le artiste al margine del sistema ad incarnare nel loro lavoro richieste di uguaglianza, il rispetto delle differenze, la denuncia della violenza vissuta sulla propria pelle Le performance e le opere di Adrian Piper, Barbara Hammer, Martha Rosler

possiede la passione che lo sostiene sa che il cammino è senza fine e che nessun diritto conquistato è dato per sempre o può difendersi da solo. L’arte internazionale ha spesso risposto all’idea di una società meno disparitaria tematizzando i nodi irrisolti della società contemporanea man mano che si presentavano agli angoli del globo: dalle fotografie dei rifugiati e dei conflitti in Africa di

In alto, da sinistra: Barbara Hammer, Dyketactics, 1974, frame Barbara Hammer, Nitrate kisses, 1992, frame da film Barbara Hammer, Nitrate kisses, 1992, frame da film. A sinistra: Barbara Hammer, ritratta in epoche diverse

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arti visive Ravenna Festival Magazine 2018

Sebastião Salgado alle opere con spunti autobiografici dell’artista Ai Weiwei, detenuto per motivi di libertà di espressione in Cina, dalle videoinstallazioni sui prigionieri di Guantanamo di Laurie Anderson alla serie di opere realizzate da Jenny Holzer sugli stupri etnici nella guerra della ex Jugoslavia, il mondo dell’arte ha corrisposto alla necessità di prendere una posizione, scuotere le coscienze e porre domande fin da quel lontano 1963. L’anno del discorso di King era lo stesso della morte del presidente John Kennedy che col pastore protestante condivideva la necessità di lottare per diritti allargati a tutte le persone in suolo americano. Nel 1963 l’arte statunitense recepì solo in parte il messaggio ideale contenuto nelle parole dei due massimi esponenti dei diritti civili

in Usa: è difficile ritrovarne l’eco nelle opere della Pop Art, una tendenza più attenta alla critica del processo di mercificazione e al rapporto fra realtà e rappresentazione, in particolare all’iconicità creata dai nuovi media. Furono piuttosto gli artisti e le artiste al margine del sistema ad incarnare nel loro lavoro le richieste di una maggiore uguaglianza nel rispetto delle differenze e a denunciare la violenza vissuta sulla propria pelle. Afroamericani, omosessuali e donne sono le categorie – spesso intersecate nella stessa persona – che presero parola più timidamente negli anni ‘60, poi sempre più di frequente e in modo massiccio nel decennio successivo. Nel 1965 ad Harlem viene fondato il Black Arts Movement, un gruppo collegato al movimento Black Power, di cui fanno parte

uomini e donne provenienti dagli ambiti della musica, della letteratura, poesia e danza. Per i pochi artisti visivi presenti – come gli afroamericani Emilio Cruz e Oliver Lee Jackson – il problema non è tanto affrontare nel proprio lavoro il tema dell’uguaglianza quanto affermare il diritto ad esprimersi e ottenere le stesse possibilità di esporre dei colleghi bianchi. Per le artiste afroamericane le possibilità di rendere visibile il proprio lavoro sono ancora più basse nonostante ai vertici dell’attivismo ci siano politiche del calibro di Angela Davis o intellettuali come Toni Morrison e Alice Walker. Per questo motivo nel 1971 un gruppo di donne fonda il gruppo “Where We At” (WWA) che condivide la riflessione sulla marginalità del loro lavoro e presenza sia in campo artistico che in settori

In questa pagina: Martha Rosler, Semiotics of the Kitchen, 1975 (video) Nella pagina a fianco, dall’alto: Martha Rosler, Cleaning the Drapes from House Beautiful: Bringing the War Home, 1967–1972; photomontage Adrian Piper, I am the locus #5, 1975 Adrian Piper, The Mythic Being, Cycle I: 6/6/70, 1974

verosimilmente più vicini come quello del femminismo bianco. Inizia in questi anni la riflessione sulle discriminazioni che oppongono uomini a donne e donne ad altre donne. Nella scala delle diseguaglianze si comprende che la questione dei diritti collega la questione femminile a quelle di ambito sociale e di razza in un incrocio in


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cui è necessario tener conto di tutti gli aspetti che solo apparentemente mettono gli emarginati sullo stesso piano. Occorrerà aspettare le generazioni più giovani per ottenere una visibilità meno evanescente e precaria del WWA, a cominciare dalla newyorkese Adrian Piper (1948) che – non ancora diplomata alla scuola di Visual Arts – partecipa nel ‘63 alla grande marcia su Washington ascoltando dal vivo le parole di Luther King. Fin dalle sue prime performances l’artista dirige l’interesse nei confronti della xenofobia a livello personale e sociale ma è la serie degli Autoritratti politici ad esprimere in modo chiaro il tema della percezione di sé in relazione a quella degli altri e alle convenzioni sociali. L’immaginario collettivo nella sua versione ridotta e limitante diventa il bersaglio su cui agire per portare a consapevolezza le immagini convenzionali che si hanno del “diverso” tramite performances e installazioni che si prolungano fino agli anni ‘80. Nella serie intitolata Mythic Being (1974-75) Piper si camuffa e si trasforma nello stereotipo immaginario del maschio afroamericano indossando maglietta nera, jeans, occhiali, parrucca e baffi, con cui aggirarsi per le strade di New York. Vengono registre le reazioni delle persone incontrate casualmente in una serie di immagini fotografiche poi ritoccate con interventi pittorici e sovrascritte che invitano gli spettatori a riflettere sui meccanismi identitari alla base del rifiuto. Come Piper anche Martha Rosler (New York 1943) ha un deciso background di attivismo civile e politico: la sua carriera inizia con una serie di venti fotomontaggi realizzati fra il ‘67 e il ‘72 in cui le illustrazioni edulcorate tratte da riviste femminili si contamino con altre sulla guerra del Vietnam riprese da giornali come “Life”. I corpi dei vietnamiti uccisi o i soldati Usa che fumano in attesa di un attacco convivono con aspirapolveri e cucine ultimo modello, ricordando all’America che la guerra fa parte di un presente difficile da rimuovere. Influenzata dalla cultura Pop, la riflessione sul potere delle immagini dei media viene messa

sotto analisi da Rosler, convinta che la televisione costituisca uno dei veicoli principali per la creazione di mitologie quotidiane pericolosamente negative. Gli stereotipi femminili forniti dalle riviste per soli uomini e dai giornali di moda costituiscono il materiale grezzo su cui ricreare assemblaggi e fotomontaggi allo scopo di denunciare l’equivalenza fra donna e pezzi di carne o beni di consumo. Spesso i lavori dell’artista utilizzano la pratica dell’estraniamento brechtiano, un meccanismo che senza modificare la realtà ma isolando dal contesto l’immagine porta alla consapevolezza gli spettatori. È il caso del divertentissimo video Semiotics in the Kitchen del ‘75 in cui l’artista si presenta dietro ad un tavolo mentre sillaba il nome di ogni utensile che prende in mano mimandone l’utilizzo. I gesti comuni del tagliare o sminuzzare vengono enfatizzati in modo esagerato mentre gli oggetti vengono utilizzati per funzioni improprie o inesistenti in modo da ridicolizzare questa sorta di lezione in cucina e le associazioni convenzionali fra donna-cucinatelevisione-scuola. La strategia ironica che caratterizza il video come gran parte del lavoro di Rosler lascia talvolta il passo ad una maggiore severità quando si tratta di parlare dei diritti dei senzatetto o degli immigrati, argomenti affrontati a più riprese in una serie di lavori successivi: testi, immagini e fotografie in bianco e nero vengono allestiti insieme evitando qualsiasi presenza di persone o di particolari retorici. Rosler preferisce non riprendere gli homeless per lavorare solo sui luoghi e denunciare le loro condizioni in un quartiere interamente trasformato in dormitorio a cielo aperto (The Bowery; Two Inadequate Descriptive Systems; 1974-75). In linea con la richiesta di riconoscimento dei diritti che passano attraverso differenze di colore della pelle, condizioni sociali e di genere, giungono anche le prime forti prese di posizione sulla questione dell’orientamento sessuale. Nel 1969 a seguito del raid della polizia al Stonewall Inn, un famoso ritrovo gay al Greenwich >>


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arti visive Ravenna Festival Magazine 2018

A sinistra: Adrian Piper, I embody everything you must hate and fear, 1975 A destra: Adrian Piper, ritratto

Village, le comunità LGBT (lesbian-gay-bisex-transgender) si uniscono dando vita al primo movimento politico per il riconoscimento dei loro diritti che vengono dichiarati in una grande manifestazione di piazza. Nel 1970, in occasione del primo anniversario dai fatti del Greenwich, si dà inizio alle prime manifestazioni del Gay Pride a New York, San Francisco e Chicago, che proseguono nel tempo estendendosi in tutto il mondo. Fra i primi lavori creativi che danno spazio a queste tematiche va ricordata la filmmaker Barbara Hammer, nata a Los Angeles nel 1939, che dopo una laurea in psicologia nei primi anni ‘70 studia filmografia al’Università di San Francisco. Fin dagli inizi di questo decennio le sue produzioni sono pioneristiche per il tema – l’identità lesbica – e per riflessione sui mezzi tecnici. Sulla base di una critica alle modalità tradizionale delle proiezioni, Hammer sperimenta schermi di grandissimo formato e proietta su supporti inusuali come palloni, soffitti, pavimenti e altri spazi architettonici, spingendo il pubblico a muoversi e a rendere la propria visione completamente attiva. Fra i vari film estremamente provocatori realizzati dall’artista va ricordato Dyketactics (1974), un montaggio di 110 riprese riassunto

in 4 minuti in cui l’erotismo lesbico viene eplicitato attraverso immagini che evidenziano gli aspetti di tenerezza, sensibilità e delicatezza che intercorrono fra le amanti. Ma l’opera considerata migliore dalla Hammer è molto più recente: il film documentario Nitrate Kisses, girato nel 1992, analizza la repressione e la marginalizzazione delle persone LGBT fin dall’epoca della Prima Guerra Mondiale tramite interviste a quattro coppie omosessuali appartenenti a differenti generi e identità razziali. Le storie private, raccontate dalla viva voce degli uomini e delle donne protagonisti, si mescolano alle riprese di uno dei primi film storici a tema omoerotico (Lot in Sodom, 1933) e a immagini della comunità LGBT. Lo scopo è recuperare una storia difficile e passata sotto silenzio, sottraendola all’oblio. Nonostante lo scopo lodevole, il film ha raccolto critiche non solo dai conservatori ma anche da parte di alcuni esponenti della comunità omosessuale americana che hanno criticato alcune delle immagini edulcorate di Hammer che tendono a sostituire nuovi stereotipi a quelli vecchi. Il problema non è da poco ma data l’importanza della questione dei diritti si può concordare con Machiavelli e col fatto che talvolta il fine giustifica i mezzi. m


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Utopia and Civil Commitment in 60s and 70s American Art The legacy of Martin Luther King's dream is today shared by millions of people. But those who believe in that dream know that there is not an end to the struggle and that any conquered right is not given forever nor can be defended without defending other rights. International art has often acted to spread the idea of a less unequal society: from the pictures of refugees and wars in Africa by Sebastiao Salgado to autobiographical works by Ai Weiwei, from Laurie Andersson’ video installations on prisoners in Guantanamo to Jenny Holzer's work on ethnic rapes in former Jugoslavia war. It all started in that far away 1963, the same year King made the “dream speech” and Kennedy was killed. In 1963, though, Usa art only partially incorporated the ideal message of Kennedy and King's words: it is hard to find their echo in Pop Art. Only marginal artists embodied in their work demands for a greater equality: Afro-American, homosexual and women. In 1965, in Harlem, the Black Arts Movement was founded including artists coming from music, literature, poetry and dancing. For the few present visual artists the main problem was to affirm their right to express themselves and expose their works just like their white colleagues. For Afro-American artists the possibilities to make their work visible were even less. That's why in 1971 a group of women founded Where We Are At. But we had to wait for younger generations to find a less evanescent visibility, like Adrian Piper and his Political self-portraits. Also Martha Rosier came from civic and political activism. Influenced by pop culture she would work on the power of mass media in communicating stereotypes. Her use of irony disappeared when she dealt with homeless and immigrants rights, like in The Bowery; Two Inadequate Descriptive Systema; 1974-75). In 1969, after police raids in Stenewall Inn (a famous gay hangout in Greenwich Village), Lgbts communities united to fight for their rights. In 1970 Gay Pride started in New York, San Francisco and Chicago. Among the first artists to deal with these themes there was Barbara Hammer, born in Los Angeles in 1939. Among their most famous works there are “Dyketatctis” (1974) and “Nitrate Kisses” filmed in 1992.

Riconosciuto dall’Accademia Nazionale dei Sartori


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immaginario Ravenna Festival Magazine 2018

Alessandra Dragoni e la piccola, grande America che ci riguarda Antologia di scatti dal progetto Americana, diario di viaggi negli States dove la fotografa ravennate raccoglie piccoli archetipi visivi fra “privato” ed esperienze estetiche condivise DI SABINA GHINASSI

Nelle foto del servizio, una selezione di immagini “catturate” da Alessandra Dragoni in diversi viaggi negli Stati Uniti (Georgia, Florida, California e New York) dal 1986 al 2016, raccolti nel progetto artistico “Americana”. Le foto sono il “cahier de vie” , legate alla sezione “Nelle vene dell’America” dell’edizione 2018 del Ravenna Festival

Nel 1973 il fotografo americano Stephen Shore presentò le immagini di American Surfaces, raccolte durante un lungo viaggio attraverso gli States: con la sua fotocamera 35 mm e le pellicole a colori aveva registrato paesaggi, luoghi, persone, pasti consumati, camere di motel per due anni. Il suo progetto era assolutamente anticonvenzionale per i tempi perché, sino a quel momento, la fotografia a colori era intesa solo come strumento per la moda e la pubblicità. Shore, giovanissimo ma forte di relazioni maturate all’interno della Factory di Warhol e di una personale al Moma nel ’71, invece sperimentò le possibilità che gli offriva la fotografia a colori, costruendo le immagini sulle

realtà anonime e sugli esseri umani che le attraversavano, attraverso una prospettiva diversa, essenzialmente anti aulica, che prediligeva momenti e luoghi assolutamente banali. Quella banalità ordinaria, attraverso l’obiettivo fotografico, acquistava nuova dignità, dando allo spettatore di sperimentare tutto quello che normalmente lo circondava da un punto di vista radicalmente diverso. Shore fu anche l’unico a usare il colore tra i New Topographics, il gruppo di fotografi che aprì la strada alla fotografia di paesaggio contemporanea in tutto il mondo. Quasi contemporaneamente a Shore anche William Egglestone con la sua Fotografia Democratica e Joel Sternfeld con i progetti American Prospects e


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Stranger passing iniziarono i loro viaggi nel profondo degli States, raccontando l’ossimoro della convivenza lacerante tra urbanizzazione e ruralità, la frattura straziante nel paesaggio americano tra la prospettiva minima e il grande respiro, la definitiva e dolorosa perdita della wilderness e, con lei, dell’innocenza e del sogno americano. Insieme a loro anche lo svizzero Robert Frank, con il progetto The Americans, estrasse “il cuore triste dell’America”, fermando gli americani così come erano, grazie a una fotografia deliberatamente imperfetta e libera, caratterizzata da immagini apparentemente sfocate, sporche e imprecise, tanto “maleducate” da essere più volte rifiutate dalla Magnum e da “ Life”, prima di diventare uno dei punti di riferimento della fotografia contemporanea per la loro intensa e incandescente poesia intrisa di realtà. In questo solco, con opportune differenze, ma anche allineamenti (soprattutto con Frank), si inscrivono le fotografie di Alessandra Dragoni, cahier de vie di quest’edizione di Ravenna Festival. Sono una selezione del progetto Americana, realizzato in Georgia, Florida, California e a New York, e sono state esposte al Cisim di Lido Adriano nel dicembre 2017, insieme – e sarebbe piaciuto al Robert Frank beat e amico di Keruac – a un contest di poetry slam. Americana è un diario di viaggi distanti, dal 1986 al 2016, diventato per l’artista una sorta

di raccolta di piccoli archetipi del nostro dizionario visivo. Si tratta di una narrazione che a che fare con mappatura/sedimentazione visiva del tutto personale, fatta di rimandi, riverberi, ritorni, delicati hommages e rievocazioni che, come tutto il percorso artistico di Dragoni, mettono in relazione il sé interiore e privato con esperienze più condivise. Dentro puoi ritrovare Jim Jarmush, ma anche Paris-Texas di Wenders, insieme a Frank e a tutto ciò che costituisce il mix speciale del linguaggio, personalissimo, di Alessandra Dragoni che trasforma il gesto fotografico, sempre, in una sorta di abbraccio affettivo, colloquiale e di prossimità, accogliendo gli errori e le mancanze come soglie di bellezza da decifrare. «La fotografia dei quattro ragazzi e il cagnolino è stata fatta a Santa Cruz, in California. Sono arrivata lì dopo un forte temporale, c’era una luce epica, questo sì. La foto era lì davanti a me, si trattava solo, appunto, di portarla a casa», ha spiegato l’artista a proposito di una delle immagini scelte per raccontare l’I have a Dream di Ravenna Festival 2018. Una foto epica che è metafora della wilderness del paesaggio americano che sopravvive nonostante noi, e diventa folgorante e magnifica apparizione davanti alle fragili storie umane, piccoli fremiti dentro un grande paesaggio. In quella fotografia c’è ancora spazio per il Sogno: si tratta solo di “portarlo a casa” di nuovo. Nomadica per vocazione, Dragoni >>


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immaginario Ravenna Festival Magazine 2018

ha un curriculum tutto speciale che l’ha portata da Ravenna in Olanda, poi a Parigi, poi a Fabrica di Benetton con gli artisti Adam Broomberg e Olivier Chanarin e, in seguito, a Milano come fotografa free lance e photo editor per molti magazine importanti come “Marie Claire”, “D-la Repubblica delle Donne”, “Amica”. Alcuni anni fa è tornata a Ravenna, per destino, scelta e amore, come se il cerchio dovesse, in qualche modo, chiudersi. Ma anche a Ravenna ha continuato a viaggiare, a

coltivare gli “ incontri fondamentali”, primo fra tutti quello con Guido Guidi all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, che le ha trasmesso, o le ha fatto riscoprire, quello sguardo mosso da precisione e rigore estetico, quella semplicità densa e profonda sulle cose del mondo. Da queste connessioni fatali hanno preso vita più progetti, sempre intimi, lenti e silenziosi, Map de Tendre personale di immagini in grado di unire la trasfigurazione antiretorica e gentile della normalità quotidiana alla visione intensa e

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mai banale degli istanti preziosi che incastonano le nostre esistenze. Così Dragoni, anche se sta ferma, rimane in qualche modo sempre per strada e continua a indagare sulle distanze minime, con grazia da entomologo innamorato dei suoi piccoli insetti: At 14, il progetto su quell’età di transito che sono i quattordici anni, attraverso un linguaggio a metà strada tra Sanders e l’evocazione affettiva, Piccoli Fatti che mi riguardano, Kids, Se Ba, libro d’autore che rievoca lo stupor degli occhi di un bambino sull’ordinaria bellezza del mondo, e poi lo

spazio espositivo My Camera, crocevia di esperienze e visioni, e tante altre cose ancora, non ultimo l’attività di fotografa per brand fashion. Nei suoi viaggi distanti nel tempo Dragoni racconta la sua America, fatta di tumbleweeds che rotolano nella polvere alla ricerca d’acqua, di insegne usurate dal tempo, di città, campagne, di middletown e ghetti, di motel improbabili con piscina, di persone fermate nella loro quotidianità, allegre e strazianti, attraverso un’estetica simile alla wabi sabi giapponese nella celebrazione della bellezza

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immaginario 125 Ravenna Festival Magazine 2018

Alessandra Dragoni and her Small, Big America

transitoria e semplice delle cose. Qui, negli States di Dragoni, è tutto meravigliosamente transitorio, pulito anche se sporco e imperfetto, evocativo nell’assenza di sovrastrutture retoriche, banalmente elementare ma intensamente poetico. Dragoni ha infatti una forte attitudine narrativa: lo storytelling rientra sempre nei suoi progetti grazie agli spaesamenti solo in apparenza casuali, alle strategie minime ma rigorose che attraversano come un fil rouge le immagini e si fanno densitĂ lirica, parola

affettiva, abbraccio, assonanza di cuori e di sguardi. In queste fotografie rientra tutto il “il dizionario visivo� dell’artista, ma anche il nostro: frames emotivi di situazioni attraversate, guardate con la coda dell’occhio come distrattamente eppure registrate con perizia da archivista, sedimentate, riguardate, mescolate alla vita e riscoperte ancora una volta. Anti enfatica e anti epica, Dragoni, paradossalmente, diventa con Americana la narratrice di una piccola, grande America universale che la riguarda e riguarda anche tutti noi. m

In 1973 the American photographer Stephen Shore presented the images of American Surfaces where he preferred moments and places belonging to banal everyday life, giving them a new dignity. The audience could experience things they would normally see in a complete different way. Also William Egglestone - through his “Democratic photography� – and Joel Sternfeld – through his projects “American Prospects� and “Stranger Passing� - started their journey in the depth of the States, showing the oxymoron of the excruciating coexistence of urbanization and rural areas, the lost of wilderness and of the innocence of the American dream. The Swiss Robert Frank showed the “sad heart of America� through a free and intentionally flawed photography. Alessandra Dragoni’s pictures, cahier de vie of this Ravenna Festival, belong to this tradition. They are a selection from the project called “Americana� achieved in Georgia, Florida, California and New York from 1986 to 2016, and they are a collection of small archetypes of our visual dictionary. Dragoni transforms her photographical gesture into a sort of collective hug where flaws and mistakes are thresholds of a beauty to be deciphered. Her peculiar career has brought her from Ravenna to Holland, Paris, Benetton’s Fabrica and then Milan. Back in Ravenna, she has opened her own gallery, My Camera. Her aesthetics is similar to the Japanese Wabi Sabi in celebrating the simple and temporary beauty of things. Dragoni has a strong narrative attitude in the choice of only apparently casual disorientations, of minimal but rigorous strategies that run through images like a fil rouge and become lyric density. Dragoni’s work is anti epic and anti emphatic; “Americana� is the storyteller of a small, big America that is universal and concerns all of us.

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genius loci Ravenna Festival Magazine 2018

La chiesa di San Giacomo palcoscenico ideale a Forlì per l’Orchestra Cherubini Vasto spazio poliedrico del complesso culturale di San Domenico, oltre a funzioni espositive, dopo i lavori di adeguamento acustico, si configura come un vero e proprio auditorium DI

CHIARA BISSI

Scelta da Ravenna Festival come una delle mete, ormai consuete, del proprio viaggio musicale, la città di Forlì consolida la collaborazione con la manifestazione nel 2018, ospitando due eventi concertistici all’interno della programmazione estiva e un appuntamento “speciale” il 6 ottobre, data che celebra con un concerto sinfonico il completamento dei lavori di adeguamento acustico della Chiesa di San Giacomo, vasto spazio espositivo ma ora anche auditorium a tutti gli effetti, inserito nel complesso storicoculturale di San Domenico. In scena per l’occasione l’Orchestra giovanile Luigi Cherubini, che – fondata da Riccardo Muti nel 2004 – accoglie, in continuo rinnovamento, giovani strumentisti italiani sotto i 30 anni. Sul podio Vladimir Ovodok, il giovane direttore bielorusso, selezionato fra gli studenti della prima edizione dell’Italian Opera Academy di Muti nel 2015, e già alla guida della Cherubini nella “Trilogia d’Autunno“, in scena al Teatro Alighieri nell’ambito dell’edizione 2017 del Ravenna Festival. La restituzione del complesso di

San Domenico di piazza Guido da Montefeltro ha consegnato alla città un centro propulsivo di attività, contenuti e opportunità in campo artistico e culturale di caratura quanto meno nazionale. Il restauro da subito si lega alla possibilità di riorganizzare il sistema museale cittadino. Curatori del progetto sono l’ar-

San Giacomo becomes an Ideal Stage for the Orchestra Cherubini in Forlì On October 6th a Ravenna Festival concert will celebrate the ending of the sound adaptation works in the church of San Giacomo, part of San Domenico complex. The Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, founded by Riccardo Muti in 2004 for under 30 years old musicians, will be conducted by Vladimir Ovodok, the young Belorussian artist chosen among the students of the first Muti's Italian Opera Academy. The adaptation project has been realized by the architects Gabrio Furani; Lucchi &Biserni with Wilmotte&Associé have worked on the interiors. The main idea has been to rebuild the facade without decoration to reestablish the full volumes of the original church. The original wooden roofing has been rebuilt. San Domenico structures dates back to XIII century and the church of San Giacomo is today an auditorium, a conference hall, an art gallery. It was expropriated by the Napoleonic Army and then definitely acquired by the State in 186667. Over the years it has been a military hospital, barracks and, later on, the theater for the academy of Filodrammatici, and also a factory. The original church was expanded between the XV and XVI century. The present condition is mainly due to XVII century interventions.

chitetto Gabrio Furani per il restauro delle strutture architettoniche, e lo studio Lucchi & Biserni con Wilmotte & Associés, per il recupero degli interni e l’allestimento degli spazi espositivi. Una operazione condotta grazie a un accordo di programma che hanno visto coinvolto il ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione e il Comune di Forlì. L'allestimento è stato realizzato con il contributo della fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Nel 2005, con una mostra dedicata al pittore rinascimentale forlivese Marco Palmezzano, è iniziato l’avventura culturale del complesso, che negli anni ha moltiplicato gli sforzi e gli eventi espositivi. L'intervento di recupero della chiesa di San Giacomo si è svolto dal 2007 al 2015, quando il convento è già completato, gran parte della Pinacoteca trasferita, e le grandi mostre animano gli spazi restaurati. L’idea progettuale è stata quella di una ricostruzione della facciata senza apparato decorativo per una piena restituzione della volume-

tria dell’edificio religioso. Viene ricostruita la copertura in legno originaria. Ma non la volta crollata, che resta accennata mediante l'inserimento di centine lignee. L'opera è appaltata dal Comune di Forlì mentre l'allestimento è stato realizzato ancora una volta con il contributo della fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Il complesso di San Domenico risale al XIII secolo nel nucleo originale, la chiesa di San Giacomo è oggi adibita ad auditorium, sala convegni e a spazio espositivo in continuità con le grandi mostre annuali ospitate nell’area del convento o per mostre dedicate. Sempre il convento ospita inoltre la sede della Pinacoteca e dei musei civici. Il complesso ha subito nei secoli significative modifiche, fino al periodo napoleonico quando la chiesa fu espropriata per usi militari, per poi essere definitivamente acquisita dallo Stato nel 1866-67. Diventerà ospedale militare, gendarmeria, e, in seguito, teatro per l’accademia dei Filodrammatici, infine una fabbrica. Il fenomeno di degrado


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genius loci 127 Ravenna Festival Magazine 2018

Nella pagina a fianco, una veduta dell’interno della ex chiesa di San Giacomo allestita in funzione di auditorium e grande sala conferenze Qui a sinistra, lo spazio vuoto per ospitare mostre e installazioni artistiche. Da notare l’accurata ricostruzione della volta dopo il crollo del 1978 A destra, una veduta dell’esterno con la facciata ricostruita “al grezzo“, senza l’originario apparato decorativo

è culminato nel 1978 con il crollo di parte della copertura e della facciata meridionale. La chiesa originale fu ampliata tra il XV secolo e l'inizio del XVI secolo diventando a navata unica. Di quell’epoca è anche la la costruzione del vicino oratorio di San Sebastiano, progettato dall’architetto e disegnatore forlivese Pace Bombace, un tempo sede della confraternita dei Battuti Bianchi. L’insediamento originario era

composto da una piccola chiesa a tre navate lunga 36 metri. Dopo la morte del beato Salomoni viene aggiunta l'omonima cappella, e fra il XIII e il XV secolo l'originario spazio tripartito viene modificato in un'unica grande navata e allungato (57,5 x 17 metri). In quell’epoca appaiono decorazioni e arredi di pregio a partire dalla cappella Albicini. Agli inizi del XVIII secolo l’impronta neo-

classica impose nuovi lavori e l’aula venne ampliata in larghezza, arretrata la facciata, raggiungendo le dimensioni attuali ( 68 x 22,80 metri ): l'abside allargata ed allungata. Le decorazioni a stucco furono affidate ad Antonio Martinetti. Lo stato attuale è in gran parte frutto dell'intervento settecentesco. La chiesa di San Giacomo dalla riapertura nel 2015 ha ospitato eventi musicali di respiro interna-

zionale, un’intensa attività convegnistica, mostre fotografiche – su tutte quelle di Steve McCurry e di Sebastião Salgado – fino all’istallazione ambientale di Mustafa Sabbagh e una sezione della mostra, in chiusura il 17 giugno, “L'Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio” che ha segnato, con notevole successo di pubblico, la stagione espositiva 2018 del centro artistico di San Domenico. m

via Naviglio Zanelli, 6 Sant'Alberto (RA) Tel. 0544 528214 via Reale, 21 Alfonsine (RA) Tel. 0544 83022

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Il cartellone 129 Ravenna Festival Magazine 2018

lunedì 4 giugno

martedì 12 giugno

Palazzo Mauro de André, ore 21

Artificerie Almagià, ore 21.30

NELLE VENE DELL’AMERICA

NELLE VENE DELL’AMERICA

ORCHESTRA GIOVANILE LUIGI CHERUBINI WAYNE MARSHALL direttore

TERRY RILEY | IN C PER ENSEMBLE

musiche di Maurice Ravel, Leonard Bernstein, George Gershwin concerti

a cura di Tempo Reale concerti

> pag. 84

> da pag. 36

mercoledì 13 giugno martedì 5 giugno

Teatro Rasi, ore 21

Chiostro della Biblioteca Classense, ore 18

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

VIA SANCTI ROMUALDI 2018

LA CORAZZATA POTËMKIN (1925)

IL SOGNO E LA STORIA

con la colonna sonora “live” di Edison Studio

relatore Prof. Paolo Naso incontri, letture/eventi quotidiani

musica e cinema

> pag. 114

> pag. 14

giovedì 14 giugno giovedì 7, venerdì 8 e sabato 9 giugno

Teatro Alighieri, ore 21

Teatro Alighieri, ore 20.30 (sabato 9 anche ore 15.30)

LETTERE A NOUR

NELLE VENE DELL’AMERICA | IL MUSICAL

di Rachid Benzine (traduzione di Anna Bonalume)

KISS ME, KATE

regia di Giorgio Sangati con Franco Branciaroli e Marina Occhionero

OPERA NORTH (UK) musiche e testi di Cole Porter musical

teatro

> pag. 108

> pag. 68

venerdì 15 giugno venerdì 8 giugno

Chiostro della Biblioteca Classense, ore 21.30

Palazzo Mauro de André, ore 21

IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

ORCHESTRA DEL TEATRO MARIINSKIJ DI SAN PIETROBURGO VALERIJ GERGIEV direttore

LO SPLENDORE DI ALEPPO concerti

sabato 16 giugno

musiche di Claude Debussy, Modest Musorgskij, Sergej Rachmaninov concerti

> da pag. 36

> pag. 58

Palazzo Mauro de André, ore 21 NELLE VENE DELL’AMERICA

sabato 9 giugno Basilica di San Francesco, ore 21

QUIVI SOSPIRI Ensemble vocale Voces Suaves, organo Aki Noda-Meurice concerti

> da pag. 49

ORCHESTRA GIOVANILE LUIGI CHERUBINI DENNIS RUSSEL DAVIES direttore EMANUELE ARCIULI pianoforte musiche di Leonard Bernstein, Philip Glass concerti

> da pag. 36

domenica 10 giugno

domenica 17 giugno

Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ore 10

Basilica di San Vitale, ore 10.30

IN TEMPLO DOMINI

IN TEMPLO DOMINI

GRAINDELAVOIX

ENSEMBLE VOCALE VOCES SUAVES liturgie nelle basiliche

> da pag. 49

liturgie nelle basiliche

> da pag. 49

domenica 10 giugno

domenica 17 giugno

Chiostro della Biblioteca Classense, ore 21.30

Basilica di San Vitale, ore 21.30

QUARTETTO DEL TEATRO ALLA SCALA

IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

musiche di Arvo Pärt, Samuel Barber, Antonín Dvořák

VESPRI CIPRIOTI | GRAINDELAVOIX

concerti

> da pag. 49

concerti

> pag. 58


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130

Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2018

domenica 17 giugno Chiostro della Biblioteca Classense, ore 21.30 NELLE VENE DELL’AMERICA

DENNIS RUSSELL DAVIES MAKI NAMEKAWA piano duo musiche di Keith Jarrett, Philip Glass, Igor’ Stravinskij concerti

> da pag. 36

lunedì 18 giugno Teatro Alighieri, ore 21

ERODIADE - FAME DI VENTO (1993-2017) coreografia Julie Ann Anzilotti scene Alighiero e Boetti danza

> pag. 102

da martedì 19 a domenica 24 giugno LE 100 CHITARRE ELETTRICHE con la partecipazione di PMCE - Parco della Musica Contemporanea Ensemble in collaborazione con Fondazione Musica per Roma e Rockin’1000

martedì 19 giugno Artificerie Almagià, ore 21.30 ELECTRIC GUITAR IN MY LIFE Luca Nostro chitarra elettrica (PMCE) CONCERTO PER CHITARRA SOLITARIA Bruno Dorella chitarra elettrica

SETTORI RESIDENZIALE/ INDUSTRIALE/ MEDICALE Riscaldamento / Condizionamento / Idro sanitari Energie rinnovabili / Ricambio e trattamento aria Adduzione gas metano / Antincendio Assistenza caldaie e bruciatori Impianti a biogas e biomassa / Impianti di processo Impiantistica su piattaforme di estrazione gas

mercoledì 20 giugno Artificerie Almagià, ore 21.30 BASS IN MY LIFE Massimo Ceccarelli basso e contrabbasso (PMCE) BRYCE DESSNER NIGHT Luca Nostro chitarra elettrica (PMCE) Quartetto Noûs, Blow up Percussion

giovedì 21 giugno Artificerie Almagià, ore 21.30 REICH AND BEYOND PMCE direttore Tonino Battista DON ANTONIO PLAYS DON ANTONIO Antonio Gramentieri chitarra elettrica, chitarra baritono e lap steel

venerdì 22 giugno Russi, Palazzo San Giacomo, ore 21.30 LE 100 CHITARRE ELETTRICHE in concerto In a Blink of a Night

Tesco s.r.l. Via G. Ferraris 1 - 48123 Ravenna Tel +39 0544 456536 - Fax +39 0544 456537 tesco@tescoimpianti.it

musiche di Elliot Cole, Michele Tadini, Glenn Branca, Rockin’1000 medley Jimi Hendrix-Led Zeppelin

sabato 23 giugno Porto Garibaldi, porto canale, ore 19


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Il cartellone 131 Ravenna Festival Magazine 2018

GUITARS IN BLUES Porto Garibaldi, piazzale Paradiso, ore 21.30 SUNSET ADRIATICO BLUES con la partecipazione di Vince Vallicelli batteria e percussioni e Eugenio Finardi chitarra e voce

domenica 24 giugno Valli di Comacchio, Bettolino di foce, ore 15.30 CONCERTO TREKKING & BIKE concerti

> da pag. 73

mercoledì 20 giugno Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ore 21 IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

THE SIXTEEN Super Flumina Babilonys concerti

> da pag. 58

giovedì 21 giugno Teatro Alighieri, ore 21

SINFONIA BECKETTIANA ideazione Maurizio Lupinelli, Elisa Pol pianoforte Matteo Ramon Arevalos, violino Stefano Gullo mercoledì 20 giugno Sala Corelli ore 11, incontro con la compagnia Nerval Teatro teatro

Beauty

> pag. 113

venerdì 22 giugno Ravenna, piazza Unità d’Italia, ore 18

OMAGGIO AD ALIRIO DIAZ “Non solo elettriche” concerti

Trattamenti estetici avanzati con HiFu e radiofrequenza

> pag. 73

sabato 23 giugno Russi, Palazzo San Giacomo, ore 21.30

ORCHESTRA DI PIAZZA VITTORIO concerti

> pag. 81

domenica 24 giugno Basilica di San Vitale, ore 10.30 IN TEMPLO DOMINI

ENSEMBLE HEINAVANKER liturgie nelle basiliche

> da pag. 49

domenica 24 giugno Basilica di San Vitale, ore 21.30

ENSEMBLE HEINAVANKER Nei 100 anni dalla nascita dell’Estonia concerti

> da pag. 40

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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2018

Al servizio di cittadini e aziende

lunedì 25 giugno Chiostro della Biblioteca Classense, ore 21.30 IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

XAVIER DE MAISTRE arpa LUCERO TENA nacchere musiche di Mateo Pérez de Albéniz, Antonio Soler, Enrique Granados, Jesús Guridi, Francisco Tárrega, Manuel de Falla concerti

> da pag. 58

martedì 26 giugno Teatro Alighieri, ore 21

ORCHESTRA GIOVANILE LUIGI CHERUBINI DAVID FRAY direttore e pianista

U N A M I C O F O RT E

musiche di Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart concerti

> pag. 56

mercoledì 27 giugno Chiostro della Biblioteca Classense, ore 21.30 IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

QUARTETTO KLIMT musiche di Franz Schubert, Gustav Mahler, Alfred Schnittke, Azio Corghi, Robert Schumann concerti

> pag. 58

venerdì 29 giugno Teatro Alighieri, doppio spettacolo ore 19 e ore 22 BALLET NATIONAL DE MARSEILLE & ICK

APPARIZIONE prima parte del dittico Kindertotenlieder ideazione e coreografia Emio Greco e Pieter C. Scholten danza

> pag. 93

domenica 1 luglio Basilica di Sant’Agata Maggiore, ore 11.30 IN TEMPLO DOMINI

LUDUS VOCALIS per traslochi e movimentazioni

liturgie nelle basiliche

una scelta sicura COOPERATIVA FACCHINI RIUNITI SOC. COOP. - CO.FA.RI. Via Bacci, 44 - RAVENNA Tel. 0544.452861 Fax 0544.688821 Sezione traslochi: tel. 0544.453632 e-mail: cofari@cofari.it

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> da pag. 49

domenica 1 luglio Teatro Alighieri, ore 21

TANGO GLACIALE RELOADED (1982-2018) progetto, scene e regia Mario Martone danza

> pag. 101

da lunedì 2 a mercoledì 4 luglio IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

OMAGGIO A VALENTIN SILVESTROV


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Il cartellone 133 Ravenna Festival Magazine 2018

lunedì 2 luglio Sala del Refettorio del Museo Nazionale, ore 21 DUO GAZZANA musiche di Valentin Silvestrov, Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Eugène Ysaÿe

martedì 3 luglio Sala del Refettorio del Museo Nazionale, ore 17.30 INCONTRO CON VALENTIN SILVESTROV

mercoledì 4 luglio Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ore 21 ORCHESTRA E CORO DELL’OPERA NAZIONALE DI UCRAINA concerti

> da pag. 40

domenica 1 luglio Kiev, piazza Sofiyska della Cattedrale di Santa Sofia

martedì 3 luglio Ravenna, Palazzo Mauro de André, ore 21 UN PONTE DI FRATELLANZA ATTRAVERSO L’ARTE E LA CULTURA

LE VIE DELL’AMICIZIA: RAVENNA-KIEV RICCARDO MUTI direttore JOHN MALKOVICH voce recitante Orchestra e Coro dell’Opera Nazionale di Ucraina Orchestra Giovanile Luigi Cherubini maestro del coro Bogdan Plish musiche di Giuseppe Verdi, Aaron Copland concerti

> da pag. 40

giovedì 5 luglio Teatro Alighieri, ore 21 E/FANNY & ALEXANDER

STORIA DI UN’AMICIZIA liberamente tratto dalla tetralogia di L’amica geniale di Elena Ferrante, Edizioni E/O ideazione Luigi De Angelis, Chiara Lagani, Fiorenza Menni con Chiara Lagani e Fiorenza Menni teatro

> pag. 104

venerdì 6 e sabato 7 luglio Teatro Rasi, ore 21 ERMANNA MONTANARI / TEATRO DELLE ALBE

MARYAM testo Luca Doninelli, in scena Ermanna Montanari, musica Luigi Ceccarelli, ideazione, spazio, costumi e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari martedì 26 giugno Sala Corelli ore 17.30, “ante Maryam” dialogo con gli autori e i protagonisti Luca Doninelli, Tahar Lamri e Marco Martinelli teatro

> pag. 110


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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2018

sabato 7 luglio

mercoledì 11 luglio

Palazzo Mauro de André, ore 21

Teatro Alighieri, ore 21.30

NELLE VENE DELL’AMERICA

NELLE VENE DELL’AMERICA BILL T. JONES / ARNIE ZANE COMPANY

ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE DELLA RAI JAMES CONLON direttore musiche di Leonard Bernstein, Arvo Pärt, Benjamin Britten,

A LETTER TO MY NEPHEW coreografia Bill T. Jones danza

> pag. 94

Antonín Dvořák concerti

giovedì 12 luglio

> da pag. 36

Basilica di San Vitale, ore 21.30

domenica 8 luglio

IL CANTO RITROVATO DELLA CETRA

Basilica Metropolitana, ore 11

TRE FEDI UN SOLO DIO

IN TEMPLO DOMINI

voci Patrizia Bovi, Fadia Tomb El-Hage, Françoise Atlan

CAPPELLA MUSICALE DELLA CATTEDRALE DI REGGIO EMILIA

oud, liuto Peppe Frana salterio, percussioni Gabriele Miracle

liturgie nelle basiliche

concerti

> da pag. 49

> da pag. 58

venerdì 13 luglio

domenica 8 luglio

Palazzo Mauro de André, ore 21

Sala del Refettorio del Museo Nazionale, ore 21

STEFANO BOLLANI QUE BOM

LE TRE SONATE PER VIOLINO E PIANOFORTE DI BRAHMS

con Jorge Helder contrabbasso, Jurim Moreira batteria,

Justina Auskelyte violino, Cesare Pezzi pianoforte concerti

Armando Marçal percussioni, Thiago da Serrinha percussioni concerti

> pag. 83

> da pag. 49

venerdì 13 luglio lunedì 9 luglio

Chiostro della Biblioteca Classense, ore 21.30

Forlì, Teatro Diego Fabbri, ore 21

SIMPLY QUARTET

PENSIERI E PAROLE

musiche di Franz Joseph Haydn, Béla Bartók, Franz Schubert

OMAGGIO A LUCIO BATTISTI

concerti

Peppe Servillo voce, Javier Girotto sax, Fabrizio Bosso tromba, Furio Di Castri contrabbasso, Rita Marcotulli pianoforte, Mattia Barbieri batteria

> da pag. 49

sabato 14 luglio Antico Porto di Classe, ore 19

concerti

> pag. 90

martedì 10 e mercoledì 11 luglio Antico Porto di Classe, ore 19

ALLE PORTE DEI SOGNI conversazione di Maurizio Bettini con la partecipazione di Elena Bucci incontri, letture/eventi quotidiani > pag. 107

ANTIGONE QUARTET CONCERTO elaborazione drammaturgica, mise en espace e interpretazione di Elena Bucci e Marco Sgrosso musiche originali eseguite dal vivo alle tastiere e al violino di Dimitri Sillato teatro

> pag. 107

domenica 15 luglio Palazzo Mauro de André, ore 21 GIUSEPPE VERDI

MACBETH RICCARDO MUTI direttore Macbeth Luca Salsi, Banco Riccardo Zanellato,

martedì 10 luglio

Lady Macbeth Vittoria Yeo, Dama di Lady Macbeth Antonella

Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ore 21

Carpenito, Macduff Francesco Meli, Malcolm Riccardo Rados, Medico

JOHANN SEBASTIAN BACH

Adriano Gramigni

L’ARTE DELLA FUGA

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Accademia Bizantina, Ottavio Dantone cembalo e direzione

maestro del coro Lorenzo Fratini esecuzione in forma di concerto

concerti

> pag. 54

opera

> da pag. 40


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Il cartellone 135 Ravenna Festival Magazine 2018

lunedì 16 luglio Forlì, Teatro Diego Fabbri, ore 21 NELLE VENE DELL’AMERICA

UTE LEMPER Glamour and Rage in America concerti

> pag. 88

mercoledì 18 luglio Teatro Alighieri, ore 21 OMAGGIO A RUGGIERO RICCI NEL CENTENARIO DELLA NASCITA

ORCHESTRA GIOVANILE LUIGI CHERUBINI RICCARDO MUTI direttore WILFRIED HEDENBORG violino musiche di Gioachino Rossini, Niccolò Paganini, Ludwig van Beethoven concerti

> da pag. 40

giovedì 19 luglio

Palazzo Mauro de André, ore 21 NELLE VENE DELL’AMERICA

DAVID BYRNE | AMERICAN UTOPIA TOUR concerti

> pag. 86

domenica 22 luglio Palazzo Mauro de André, ore 21.30

ROBERTO BOLLE AND FRIENDS danza

> pag. 96

L’omaggio al Poeta

Giovani artisti per Dante da venerdì 1 giugno a giovedì 5 luglio Antichi Chiostri Francescani, ore 11

Suoni e mistiche voci

Vespri a San Vitale da venerdì 1 giugno a giovedì 5 luglio Basilica di San Vitale, ore 19


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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2018

Trilogia d’autunno

Giuseppe Verdi venerdì 23, martedì 27 e venerdì 30 novembre Teatro Alighieri, ore 20.30

NABUCCO dramma lirico in quattro parti, libretto di Temistocle Solera Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Pietro Borgonovo

sabato 24, mercoledì 28 novembre e sabato 1 dicembre

Biglietteria Modalità e orari Prevendite Il servizio di prevendita comporta la maggiorazione del 10% sui prezzi dei carnet e dei biglietti (maggiorazione che non sarà applicata ai biglietti acquistati al botteghino nel giorno di spettacolo). • www.ravennafestival.org • Cassa di Risparmio di Ravenna • Circuito Vivaticket • Info Point Bologna Welcome piazza Maggiore 1/e, tel. +39 051 231454 • IAT Cervia via Evangelisti 4, tel. +39 0544 974400 • IAT Marina di Ravenna piazzale Marinai d’Italia 17, tel. +39 0544 531108 • IAT Milano Marittima piazzale Napoli 30, tel. +39 0544 993435 • IAT Punta Marina Terme via della Fontana 2, tel. +39 0544 437312 • IAT Ravenna Piazza San Francesco 7, tel. +39 0544 482838 • IAT Ravenna Teodorico via delle Industrie 14, tel. +39 0544 451539

Teatro Alighieri, ore 20.30

RIGOLETTO melodramma in tre atti, libretto di Francesco Maria Piave Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Hossein Pishkar

domenica 25, giovedì 29 novembre e domenica 2 dicembre Teatro Alighieri, domenica 25 novembre e 2 dicembre ore 15.30 giovedì 29 novembre ore 20.30

OTELLO

Disclaimer La Fondazione Ravenna Manifestazioni declina qualsiasi responsabilità che possa derivare dalle caratteristiche, dalla qualità e dai prezzi dei biglietti che non siano stati regolarmente acquistati attraverso i canali distributivi autorizzati (www.ravennafestival.org e Circuito Vivaticket). Associazioni, agenzie e gruppi Alle agenzie e ai gruppi (minimo 15 persone) sono riservati specifici contingenti di biglietti e condizioni agevolate. Ufficio Gruppi: tel. +39 0544 249251 - gruppi@ravennafestival.org Informazioni generali Gli abbonamenti, i carnet e i singoli biglietti acquistati non possono essere rimborsati, non sono nominativi e possono essere ceduti ad altre persone. Tariffe ridotte riservate a: Associazioni liriche, Cral, insegnanti, under 26, over 65, convenzioni.

dramma lirico in quattro atti, libretto di Arrigo Boito Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Nicola Paszkowski

regia e ideazione scenica Cristina Mazzavillani Muti

BIGLIETTERIA / BOX OFFICE Teatro Alighieri via Mariani 2, Ravenna Tel. +39 0544 249244 - tickets@ravennafestival.org Orari dal 28 maggio: dal lunedì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 18. Domenica dalle 10 alle 13.

Info & Servizi Punto d’incontro All’interno degli uffici di Ravenna Festival è stato creato un accogliente punto di incontro dove è possibile entrare liberamente e ricevere informazioni su tutte le attività del Festival ma non solo. Un modo per essere vicino alla cultura della città. Qui sarà possibile leggere i quotidiani, avere a disposizione la rassegna stampa, acquistare i programmi di sala, prepararsi agli spettacoli con ascolti e visioni. Dal 28 maggio: tutti i giorni dalle 9.30 alle 13 e dalle 16 alle 19. Il pullmann del Festival Per gli spettacoli al Pala De André, sarà attivo un servizio di trasporto gratuito (andata e ritorno) dalla Stazione Ferroviaria: Stazione - Pala De André - Stazione / 2 corse - ore 20.15 e 20.30. Servizio taxi Stazioni di sosta: Stazione Ferroviaria - Piazza Farini | Piazza Garibaldi. Uffici festival Gli uffici di Ravenna Festival si trovano in via Dante Alighieri 1, a pochi passi dal Teatro Alighieri.

Nelle sedi di spettacolo Pala de André: da due ore prima dell’evento, altri luoghi: da un’ora prima dell’evento.

Il festival aggiornato in tempo reale sui social network Il Ravenna Festival è presente anche sui social network, con aggiornamenti e approfondimenti sugli spettacoli della XXIX edizione. La pagina Facebook conta più di 30mila follower, mentre il profilo Twitter, aggiornato in tempo reale dagli utenti, fornisce notizie ancora prima dei siti di informazione. Su Youtube e Instagram invece sono presenti rispettivamente i video e le foto di estratti degli spettacoli.


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Ravenna Festival Magazine

ISSN 2499-0221

COVER 2018 COSTA 7,5MM.qxp:Layout 1 21/05/18 16.58 Pagina 1

Edizione 2018 la rivista ufficiale del

EDIZIONI E COMUNICAZIONE

WE HAVE A DREAM IL VIAGGIo DELL’AMICIzIA A KIEV RINNoVA IL SoGNo DELLA MUSICA CHE UNISCE PoPoLI E CULTURE

E con il Macbeth, sul podio dell’orchestra del Maggio Fiorentino, Riccardo Muti festeggia i 50 anni di una straordinaria carriera artistica

all’interno

Edizione 2018

Musica classica e contemporanea: dirigono Marshall, Gergiev, Davis, Fray, Conlon • Concerti di The Sixteen, Accademia Bizantina, Simply Quartet, Duo Gazzana • Danza contemporanea da Bill T. Jones a Emio Greco. Roberto Bolle & Friends • Musical: Kiss me, Kate di Cole Porter • Fra pop e jazz, David Byrne, 100 chitarre elettriche, Bollani, Ute Lemper e omaggio a Lucio Battisti • Nuove drammaturgie con Franco Branciaroli, Albe, Fanny & Alexander, Bucci e Sgrosso, Nerval Teatro Including English abstracts of articles


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