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ISSN: 2038-3282

Anno III Numero 2 - Aprile 2011


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EDITORIALE 04

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La strada per le competenze: un percorso tutt’altro che facile di Stefania Nirchi Ospite Scientifico Prof.ssa Teresa Serra Università degli Studi “La Sapienza” di Roma Scelte strategiche tra etica e politica

RUBRICHE SIPARIO

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Tra storiografia e didattica della storia. Modelli e problemi di Agnese Rosati

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Parlare in pubblico: questione di esercizio di Massimiliano Cavallo

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Formare nello spazio della rete di Stefania Nirchi

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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo della agenzie educative Parte terza. Educazione prosociale e scuola di Savina Cellamare

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Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. Parte terza: eziologia e modelli interpretativi di Alessia Giangregorio

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Aggressione, violenza, abuso. La risposta della pedagogia dell’emergenza. Parte prima: i fattori umani e situazionali di Francesca Giangregorio

FEATURESSPAZIO A

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I mille volti della violenza di Teresa Serra

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La strada per le competenze: un percorso tutt’altro che facile

di Stefania Nirchi A leggere gli innumerevoli documenti relativi alla questione delle competenze, nonché le recenti indicazioni per la scuola superiore sembrerebbe venir fuori un percorso già battuto da viaggiatori esperti che lascia poco margine a maggiori spiegazioni in merito. Tuttavia, i docenti, mai come in questo momento storico, che attanaglia e mina costantemente il loro ‘stare a scuola’ sanno che in questo viaggio verso la diffusione delle competenze, c’è poco di scontato, ma ci si muove, invece, su di un terreno che ha bisogno ancora di riflessioni. Una riflessione che è quanto mai necessaria, per dirla con Marcel Crahay1, per il solo fatto che il termine competenza raggruppa opinioni tradizionalmente opposte le une alle altre. Almeno in apparenza, tale concetto costituisce un compromesso tra le aspettative dei datori di lavoro, per i quali è importante ampliare il saper fare, e quelle delle correnti pedagogiche sviluppatesi dal 1886 al 1990 sotto l’influenza del pragmatismo di Dewey, per le quali è importante sviluppare il poter fare. Ciò che appare evidente, anche sulla

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scorta delle molteplici interpretazioni che se ne danno, è la mancanza di una sicura teoria dell’apprendimento per competenze e il prevalere di una logica comune che considera risolto il problema della valutazione con la semplice attribuzione di voti secondo il modello ministeriale; quando invece l’incertezza di fondo rappresenta un campanello d’allarme che deve far sentire nell’immediato l’esigenza di muoversi con discernimento nella costante ricerca di un dibattito più analitico sull’argomento e che permetta a tutti coloro che operano nella scuola a vario titolo, di ragionare sul concetto di competenze portandone in evidenza punti forti e punti deboli. I docenti che in questi anni hanno imparato molto bene a restare a galla nel mare agitato della scuola, all’infrangersi di ogni onda hanno risposto restando aggrappati allo zoccolo duro rappresentato dal loro sapere affrontare le mareggiate che, a ritmi alterni, si abbattono sul nostro sistema d’istruzione, rischiando di mandarli alla deriva. La cautela che si richiede allora tocca più punti della questione. Poiché il nastro di partenza per la certificazione delle competenze è al via, è opportuno riflettere sul fatto che, pur riconoscendo tutta l’importanza al “valore aggiunto” realizzato da ciascuna scuola e alla necessità di munirsi di standard che attestino l’efficacia del sistema di insegnamento-apprendimento attuato, è oltremodo doveroso ricordare, come del resto attestano i risultati delle indagini PISA e INVALSI, l’esigenza di non sottovalutare l’entroterra socioculturale che ciascun ragazzo porta con se e dal quale dipendono fortemente i propri risultati scolastici. Certamente il cammino fortemente rigido e lineare che caratterizza ancora spazio-classi, orari, discipline di studio della scuola italiana non aiuta nella ricerca di una propria autonomia e rende difficile anche qualunque tipo di confronto e comparazione tra un istituto e l’altro. Qualcosa in merito ci suggerisce lo studio francese sulla rilevazione degli “indicatori di risultato” che funge da stimolo per condurre eventuali parallelismi con dovuta attenzione. L’indagine partendo dall’impor-


tanza di misurare il rapporto tra dati di input e dati di output e outcome di ciascuna unità scolastica ci mette in guardia dal considerare migliore la scuola che si adopera per una selezione dei dati in ingresso e che si contraddistingue per un favorevole bacino di utenza, ma ci spinge a lodare l’istituto scolastico che pur situato in periferia e nonostante livelli iniziali svantaggiosi conduce i suoi allievi ad ottenere risultati d’apprendimento positivi. In questo caso sì che sarebbe equo misurare le competenze raggiunte. E la nostra scuola è in grado di farlo? È capace oggi di coinvolgere ancora gli studenti, attori centrali nel processo di insegnamento apprendimento? Rimangono dubbi in merito se a tutt’oggi le pratiche in classe continuano ad essere lezione frontale e corsa a finire il programma. Quelli appena enunciati sono solo alcuni dei dubbi che travolgono gli insegnanti e gli esperti di settore che da anni dibattono su queste questioni, e molti altri sono quelli che non trovano spazio, per l’economia del discorso, in questo editoriale. Mi preme,

tuttavia, dire a conclusione di queste brevi riflessioni, che l’urgenza di riformare il sistema d’istruzione italiano, connotativa di qualunque compagine governativa, fa accelerare su questioni cruciali, quali quelle sulle competenze, tralasciando di fornire ai docenti il giusto supporto, ma semplicemente perché, in uno stile tutto italiano, è più semplice seguire le mode del momento. L’approdo per i docenti sarà una situazione nota ai più: non si andrà al cuore del problema discutendo su come certificare le competenze in termini di efficacia ed efficienza, ma solo una pratica burocratica di riempitura di moduli. Ancora una volta il silenzio degli insegnanti urlerà il proprio disagio per l’ennesima proposta calata dall’alto. Note: 1 Intervento al seminario romano della Fondazione Treelle Pericoli, incertezze e incompletezza della logica delle competenze, traduzione e sintesi dell’articolo “Dangers et incomplétude des connaissances”, apparso sulla rivista Revue Française de Pédagogie n. 154 (2006).

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Scelte strategiche tra etica e politica

Prof.ssa Teresa Serra Università degli Studi “La Sapienza” di Roma Scelte tragiche per sottolineare sia la difficoltà sia la sofferenza che accompagnano certe de-

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cisioni. E in realtà tutti i temi di cui si occupa la bioetica, eutanasia, trapianti, procreazione clonazione ecc, oltre a colpire l’immaginario collettivo, creano un disagio psicologico perché mettono l’uomo di fronte ad una responsabilità per la quale non esistono né criteri universalizzabili, né regolarità utili precedentemente datesi. Ogni decisione di carattere giuridico su questi temi è alla fine astratta e comunque basata su un’opinione che rispecchia posizioni ideologiche o religiose o morali non assolutizzabili in termini di verità. Se si vuol superare l’astrattezza l’unico modo è vivere i problemi nella quotidianità con senso di responsabilità. Cosa che fanno appunto medici e infermieri quotidianamente messi a contatto, ad es., col problema della morte e col rapporto tra morente e familiari o con i problemi connessi alle possibilità che la tecnica offre anche in relazione al soddisfacimento di desideri personali quali quello della maternità. I temi di cui deve occuparsi la bioetica mettono l’uomo di fronte al senso della vita e


della morte mostrandogli la sua fragilità e la sua finitudine in un momento in cui la scienza sembra invece dargli la possibilità tecnica di sconfiggere, o, per lo meno, padroneggiare in parte molti aspetti della vita naturale, padroneggiare soprattutto la sofferenza. Viviamo in un tempo storico in cui sembra imporsi un modello culturale che tende a rifiutare dolore, sofferenza, morte e a mettere in primo piano il diritto alla felicità da raggiungersi con ogni mezzo che renda possibile soddisfare i propri desideri. Eppure se la società rimuove, maschera o allontana l’idea della sofferenza cercando di padroneggiarla, non fa che generare o testimoniare la paura della sofferenza e dell’inappagamento. È lo scandalo della sofferenza e del dolore che la società avanzata, tutta protesa verso il diritto alla felicità e al benessere, non può sopportare. Proporre l’eutanasia, ad es., come soluzione al dolore e alla sofferenza potrebbe significare plasmare una società dove non c’è più spazio per la solidarietà e la condivisione, per l’accettazione

del male e del dolore. È così che si mettono in competizione tra di loro, non so fino a che punto lecitamente, sofferenza e dignità. La qualità della vita lo richiede mandando forse definitivamente in soffitta due vecchi modi di pensare del nostro mondo occidentale, l’uno cristiano, relativo alla valle di lacrime in cui l’uomo sarebbe gettato, e l’altro relativo alla speranza che sempre esiste finché l’uomo è in vita. I temi della bioetica sono correlati ad un mutamento profondo del paradigma all’interno del quale è stata finora concettualizzata l’idea della naturalità con i suoi momenti indefettibili della nascita, della morte, e correlativamente anche dell’idea stessa della vita; soprattutto sono correlati ad un mutamento profondo della stessa terapia che diventa invasiva della vita quotidiana proprio grazie alle possibilità che si suppone che la tecnica ci offra. Le premesse da cui occorre partire sono appunto il significato della vita e della morte, il significato di qualità della vita e qualità della morte, il significato stesso di natura, ma soprattutto le implicazioni sociali di tutte le scelte che si devono fare in questo campo in quanto coinvolgano non solo il soggetto decidente ma altri soggetti. E sono premesse, anche queste, che coinvolgono opzioni di fondo non sempre universalizzabili. Per cominciare a discutere su questo tema così difficile suppongo che si debba partire dal ripensamento del rapporto natura-storia-tecnica e quindi riflettere a fondo su quello che può scaturire dalla completa istituzionalizzazione e artificializzazione del mondo e dell’uomo contemporaneo. Sono molti, infatti, gli interrogativi che insorgono di fronte alla prospettiva di un uomo che, sempre più soggetto a protesi, trapianti, manipolazioni, potrebbe diventare programmabile e programmato, scomponibile e ricomponibile, sia nelle sue caratteristiche fisiche che in quelle psichiche (Cfr. Teresa Serra, L’uomo programmato, Torino, Giappichelli, 2003). Le domande che sorgono non riguardano solo gli aspetti tecnici, sempre in sviluppo e

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quindi imprevedibili nelle loro caratteristiche specifiche e nelle possibilità che aprono, ma anche quegli aspetti che attengono alla possibilità di una regola dell’agire in relazione a questi interventi e sono domande che attengono al problema dell’identità dell’uomo e del rapporto tra tecnologia e vita umana, ma anche alle conseguenze che, sul piano sociale, possono ingenerare regolamentazioni su questi temi. Le domande che sorgono riguardano non solo le conseguenze che possono comportare gli interventi sul soggetto umano sia come singolo sia come specie, che pure sono rilevanti, quanto anche il significato che può assumere il diritto che si arroga l’uomo di essere colui che decide della vita e della morte di se stesso o di altri uomini in termini di una regolamentazione che, scissa da una progettualità coerente, detta le sue stesse regole e si realizza in itinere, senza la possibilità di previsione di tutte le conseguenze a cui una regolamentazione astratta può condurre. Secondariamente, all’interno di questo rapporto, mi sembra che occorra riflettere sul significato di dignità della vita e sulla difficoltà che si possa dare un significato univoco all’espressione «vita degna di essere vissuta», tenendo presente anche e soprattutto l’aspetto soggettivo e quindi i molteplici meandri della psiche umana. Chi può decidere cosa sia vita degna di essere vissuta se non il singolo soggetto? Ma come anche il singolo soggetto decide? Quali sono i criteri in base ai quali si può definire la qualità della vita o l’intensità della sofferenza e del dolore? Chi controlla o garantisce che dietro le decisioni che toccano la sfera degli altri non vi siano interessi di vario tipo? Scorciatoia per ridurre la spesa pubblica o comunque motivi economici di vario tipo? Da qui un insieme di problemi. 1. Nel paradigma dell’artificialità lo stato ha di fronte un individuo che è ormai artificializzato e artificiale (il che è particolarmente evidente quando si tratta del momento tera-

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peutico. È sotto gli occhi di tutti la generalizzazione della ospedalizzazione e comunque della necessità di intervenire per la cura sul singolo individuo - corpo e mente - che il singolo lo voglia o meno) e quindi deve fare i conti con le possibilità che la tecnologia offre. Il che tocca anche il problema dei limiti che incontra, può incontrare o deve incontrare, ogni intervento statale nel contesto della decisione relativa all’esasperazione della visione terapeutica (e quindi non solo all’eutanasia ma anche all’accanimento nella cura istituzionalizzata delle malattie, senza necessariamente arrivare fino a quello che è oggi definibile come accanimento terapeutico) i limiti, cioè, ad un intervento normativo che insiste su un aspetto della libertà umana o dell’inviolabilità dell’essere umano che è particolarmente delicato e che ci porta al problema del perché considerare inviolabile l’essere umano. 2. In relazione alla decisione sulla possibilità di proseguire il cammino della vita umana o comunque l’intervento terapeutico a chi spetta tale decisione? Il diritto alla vita è un diritto indisponibile? Se è disponibile lo è in maniera assoluta o tale disponibilità è soggetta a limiti? Se è soggetta a limiti a chi spetta definire questi limiti? 3. È evidente che le risposte possono variare a seconda della visione dell’uomo e della vita che si ha. Il che porta, comunque, sempre ad un approfondimento del tema della libertà e della coscienza, quindi al tema dell’etica e, ancora, al tema del rapporto individuo-stato che, nel caso specifico, è fortemente complicato dal fatto che non è possibile attuare una generalizzazione in relazione alla decisione drammatica che è sempre risposta ad un problema individualissimo. Il problema è, per così dire, “tarato” o “condizionato”, o reso estremamente più complicato e difficile, dalla unicità e irripetibilità di ogni situazione che non è possibile tipizzare e quindi normare in termini generali e astratti, a pena di invadere in maniera eccessivamente pesante e quindi


inaccettabile la sfera della libertà e della volontà del singolo e quindi di creare ingiustizia. Ci dobbiamo chiedere se la legge sia in grado di governare e regolare situazioni di eccezione dotate «di un profilo individuale, irripetibile, emozionale, non analogabile a nessun altro profilo» (Francesco D’Agostino, Parole di bioetica, Torino, 2004, p. 78). 4. Ciò posto il problema può essere affrontato innanzitutto come problema individualissimo che resta relegato nell’ambito della coscienza individuale dei soggetti coinvolti? E va da sé che tra i soggetti coinvolti la precedenza va al malato e non a colui che deve intervenire sul malato, al nascituro e non a colui che desidera mettere al mondo un figlio ecc. Individualissimo e contestualizzato nella situazione ambientale fisica e psicologica del momento per cui anche il testamento biologico può presentare problematicità. È problema che coinvolge anche la comunicazione non distorta sia soggettivamente che oggettivamente tra tutti i soggetti coinvolti, alcuni dei quali non possono intervenire. 5. Oltre ad essere un problema morale e religioso, nel momento in cui se ne invoca da più parti la possibilità, diventa, però, un problema politico, con tutte le difficoltà che sotto questo aspetto incontra, un problema politico che si intreccia con la possibilità che ha il diritto di intervenire in queste materie, quindi anche un problema giuridico dal momento che tra i compiti del diritto c’è sia quello della qualificazione di atti come illeciti, sia quello di dare delle regole di comportamento. Nota D’Agostino che non a caso, in questo campo, finora al giurista è stato riservato uno spazio assolutamente residuale «quello della cristallizzazione normativa di opzioni assunte sul diverso piano dei valori alla cui fedele traduzione in formule giuridiche egli dovrebbe dedicare tutte le sue energie» (p. 223). Ma è possibile cristallizzare quando vi sia un’opzione prevalente se non comune. In tempi di politeismo dei valori ciò diventa più complesso. Più do-

mande che risposte, comunque. Non intendo toccare qui il problema della finitudine umana che pure è collegato col tema della naturalità, e che, in realtà, è anche strettamente connesso col tema dell’intervento umano in momenti molto delicati della vita. Vorrei solo sottolineare il peso della responsabilità dell’uomo che si estende in campi finora in decidibili. Nell’attuale situazione ognuno di noi si deve assumere tutta intera la responsabilità della sua vita. Ma dobbiamo anche capire fino a che punto la completa artificializzazione e generalizzazione della spedalizzazione possa impedire questa assunzione di responsabilità. E la stessa richiesta di una regolamentazione giuridica in questi campi non esprime un bisogno di demandare la responsabilità di queste scelte tragiche ad altri, cioè alla legislazione statale? Mi pare che ogni discorso sulle scelte tragiche debba anche partire dalla decisione se riconoscere o meno al soggetto un diritto a decidere se accettare la completa burocratizzazione e artificializzazione della sua vita che si dà nella pratica di una spedalizzazione generalizzata. Ma anche questo aspetto è stato reso complicato in passato dal riconoscimento che in ordinamenti morali ma anche in ordinamenti giuridici si è fatto del principio della indisponibilità della propria vita, che è sempre un vivere in comune, come, d’altra parte, è complicato, ma in senso opposto, dalla pratica di popoli che vede gli anziani e gli ammalati, ormai di peso alla società, allontanarsene per andare a morire. Anche su questo punto il paradigma della modernità modifica i contorni dell’indisponibilità e, nell’ottica di una prospettiva soggettivistica e atomistica, che espunge a favore del diritto di ognuno il dovere verso se stessi e gli altri, conduce alla difesa della disponibilità non solo del proprio corpo ma anche di quello altrui. Note: 1 Relazione tenuta alla Manifestazione La Nottola di Minerva, Il sabato di Montecompatri organizzata dal Centro per la filosofia italiana.

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Tra storiografia e didattica della storia. Modelli e problemi

di Agnese Rosati Questo discorso intende fornire elementi di riflessione e di analisi su alcuni aspetti che divengono motivo di studio in un approccio pedagogico e didattico, poiché individua delle “questioni aperte”, tracce e piste di ricerca che necessitano di risposte e sollecitano attenzione in quanto volte a rafforzare il senso della propria identità civile, storica e politica, in vista di un’educazione alla cittadinanza di ampio respiro, tale da accogliere la dimensione interculturale ponendo così fra i suoi obiettivi l’apertura, l’uguaglianza e la coesione sociale (L. Amatucci, 2011). Pertanto, nell’economia del contributo, sarà chiarito che cos’è in primo luogo la storia, a che cosa serve, come si fa e come si insegna, entrando pertanto nel merito dei contenuti disciplinari e della didattica. Per definire la storia, intesa come sapere e scienza dell’uomo nel pensiero di Mario Mencarelli (1978) e forma di cultura in Cassirer, potremmo usare tante definizioni elaborate nel tempo da quei filosofi e storici che contribuiscono ad esaltarne la dimensione “spirituale”, non perché si tratti di un sapere astratto

o metafisico, se è vero che l’uomo ne è il protagonista, quanto per sottolinearne il movimento dialettico. Sicuramente nella storia trovano espressione il fare e l’agire individuale e collettivo, per rivelarsi avventura della vita umana, ben più, dunque, di un’arida somma di date e una ricostruzione di fatti e avvenimenti, pur se di indiscutibile importanza. Quello storico è un sapere che rivela la sua scientificità nel momento in cui definisce possesso di un preciso ambito di indagine, contraddistinto da un lessico specifico e, soprattutto, da un’attenta metodologia. Conoscere il passato serve, vuol dire padroneggiare gli strumenti cognitivi e culturali senza i quali non si dà senso di cittadinanza, dimensione indispensabile per il nuovo protagonismo, auspicato da Hanna Arendt, e per l’action di cui sottolineava l’importanza il filosofo Blondel. Maturare coscienza storica significa avere coscienza del tempo in cui viviamo, in vista della formazione integrale di uomini e donne che possono dare il proprio contributo per un millennio alternativo (F. Frabboni, 2005), nel quale sarà loro offerta la possibilità di progettazione di senso della vita (Ibidem, p. 31), per il delinearsi di un nuovo esser-ci, orizzonte nel quale risalterà il progetto esistenziale (G. Marcel, 1964, p. 40) della persona. Ciò dà per implicito il possesso di una matura coscienza del mutamento sociale e culturale, con un’adesione alla realtà che rende il soggetto consapevole, facendogli cogliere pienamente il tempo della vita secondo una visione positiva e propositiva tale da superare il vuoto e il nichilismo che negano il riconoscimento di valori, ostacolano possibilità espansive future all’essere umano e conducono, in maniera pressoché inevitabile, alla mesta rassegnazione. Avere coscienza della Stimmung rende possibile al soggetto la contestualizzazione dei problemi, in una vivace capacità di problematizzare che obbliga ad un costante allenamento alla critica (D. Antiseri, 1999) che fa

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cogliere il legame, o meglio l’eterno confluire, fra fatti, periodi, problemi e idee. Quel passato che non passa, non cessa mai di esistere per rendersi eterno presente, non costituisce, difatti, una dimensione perduta poiché in connessione con il presente nel quale si rivela, per “consacrarsi” in un futuro non distante. Il passato ha il sorprendente potere di gettare costantemente luce sul presente, illuminando l’uomo nel tempo della sua esistenza nella quale il peso della memoria potrà farsi prezioso strumento per non dimenticare, poiché dimenticando si perdono tasselli di vita, attimi importanti che si sovrappongono nel “regno dello spirito” che, per Bergson, è la memoria. Attraverso la memoria i fatti ritrovano vitalità, parlano, dichiara Burckhardt, e rivelano in questo modo la significatività che a loro appartiene. La memoria finisce per testimoniare la sua forza di coesione nella collettività, ma in sua assenza predomina il vuoto, come se il sistema nervoso non fosse più in grado di codificare e rievocare le informazioni possedute, sulle quali conoscenze e saperi si consolidano e servono per maturare consapevolezza e abilità sociale. Saper cogliere le situazioni “al volo”, nelle dinamiche più complesse, in un processo di codificazione/ de-codificazione di segnali che fa vivere interazioni umane, diviene sinonimo di intelligenza sociale per Daniel Goleman (2006), nonché prevenzione di quell’autismo sociale che per lo studioso deriva da rapporti freddi, impersonali, anonimi e aridi, segno di un cambiamento negativo a livello culturale che si riflette anche nelle relazioni umane. Ipercomplessità, cambiamento, liquidità (Z. Bauman, 2006) e “primato del nulla” (G.Marcel, 1964), finiscono per diventare tratti dominanti il proprio tempo storico, a cui bisogna opporre resistenza con il continuo esercizio di una razionalità scientifica alla quale la storia come disciplina e scienza dell’uomo e per l’uomo abitua. Il metodo, difatti, in quanto ragione e via da seguire nel percorso di cono-

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scenza, invita all’onestà perfetta, una trasparenza che emerge nella ricerca di tracce, documenti e testimonianze. Nella storia dell’uomo astrazione e interpretazione si alternano per la lettura della realtà che da fenomeno, qual è inizialmente, diviene fatto di coscienza. L’arte di riscrivere la storia che nella definizione di Campanella è la storiografia, dà il suo contributo e permette di individuare la significatività nel processo di definizione del discorso storico, il quale si articola attraverso


la comparazione delle situazioni, quindi delle inferenze, la comparazione dei metodi per leggere e spiegare le tracce, per giungere poi alla comparazione dei contenuti rispondenti ai problemi avvertiti nel tempo. La storiografia riunisce, non dimentica né emargina gli aspetti della realtà per contribuire piuttosto a delineare il senso del passato. “La storia deve essere sempre ripensata e reinterpretata dalle generazioni viventi” (K. Löwith, 2004, p. 22), e questo tentativo di comprensione è necessa-

rio per spiegare l’agire e il patire degli uomini (Ibidem, p.23) collocato nella prospettiva di un senso del futuro per Spengler, che rende la storia, nella visione di Toynbee, un interessante “colloquio” fra sfide e risposte. La formazione di concetti, l’applicazione di schemi cognitivi, la valutazione dell’adeguatezza delle informazioni ed il legame fra presente, processi storici e dati, tramite la storiografia si rendono modalità privilegiate di conoscenza della storia, attraverso modelli che prendono forma da abbozzi teorici, quali sono inizialmente, per articolarsi in schemi rappresentativi e funzionali, prodotti da una sedimentazione storica. I modelli storici sono improntati alla continuità, che anima la cosiddetta “storia totale” in un’ottica di lunga durata, e alla discontinuità, espressione di processi dinamici di mutamento tali da porre in risalto micro e pluralità di storie. I modelli della didattica (L. Cottini, 2008) per obiettivi, concetti, progetti e sfondi integratori, permettono di procedere nell’insegnamento del “sapere” storico attraverso una didattica che si fa “viva”, perché coinvolgente in vista di un apprendimento capace di suscitare entusiasmo nello studente, per dare risposte a dubbi e problemi che, pur se radicati nel proprio presente, hanno una loro genesi. Ecco allora che la storia si apre alla vita, in un insegnamento che rifiuta lo sterile ricerchismo e l’arido nozionismo, inevitabilmente conduttori a quel sovraccarico cognitivo (A. Calvani, 2009) che poco produce in termini di abilità e di apprendimento umano. Privilegiare un insegnamento aperto, critico e costruttivo, in grado di non cadere nelle trappole della monolinearità del tempo storico, sensibile alle fratture descritte da Kosloswkij (1991), vuol dire affermare la pluralità dei periodi storici, con i loro spazi, i problemi storiografici e le letture che danno considerazione alla stessa dilatazione della storia che sa farsi locale come globale e planetaria, secondo un approccio interdisciplinare che accoglie economia, politica, filosofia, etica e diritto.

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Una didattica per problemi tiene conto della laboriosità della mente che si prodiga in ipotesi e congetture le quali danno conto di teorie che, ricorda Popper, necessitano comunque di essere costantemente falsificate. La didattica per concetti, i quali si articolano fra di loro producendo strutture e mappe, se rende possibile, osserva Damiano (1993), l’unione fra saperi e linguaggi, consente altresì di trasformare il mondo in saperi, contestualizzati per mezzo di categorie analitiche e pragmatiche. L’elaborazione di mappe concettuali richiede la scelta di contenuti con i quali identificare un problema, in base alle attitudini e alle preconoscenze degli allievi, tali da dar conto dei loro schemi pregressi. In questo modo verranno compiute operazioni concettuali importanti per lo sviluppo cognitivo degli allievi, in quanto obbligati ad ordinare, enumerare, catalogare e definire. Attualmente acquisisce un rinnovato interesse anche l’attività laboratoriale, valorizzata dalla stessa riforma Gelmini per l’Università, che fa di uno spazio fisico il luogo della ricerca e della documentazione, contribuendo alla definizione di uno scenario mentale aperto a percorsi e sentieri di ricerca. Indipendentemente dalle scelte di metodo che spettano all’educatore nella contingenza del contesto educativo, ogni allievo dovrà comunque essere attivamente coinvolto nel processo di ricerca, per rendersi costruttore del suo sapere, quindi in grado di usare testi storici, di articolare le informazioni in proprio possesso, con una spiccata propensione a tematizzare e problematizzare. Analisi, sintesi e rielaborazione personale non divengono degli obiettivi e delle capacità attese nel processo di apprendimento, quanto naturali abilità che derivano dall’esercizio cognitivo. Sono gli strumenti cognitivi ed intellettuali che permetteranno allo studente di leggere la realtà nei suoi molteplici aspetti, usando agevolmente quei documenti che saprà interrogare e comprendere per formulare

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un giudizio personale. Chiaramente un apprendimento di questo tipo non vale solo per la storia, ma per tutti quei saperi che, se posseduti e fatti propri, si traducono in un “saper essere al mondo”, in un esercizio di pensiero autonomo e critico che stimola la metacognizione, ovvero l’abilità di costruire concetti, modelli e reti, ma che, soprattutto, nasce dall’allenamento razionale che dà senso alla prospettiva totale dell’uomo, in quanto soggetto capace di apprendimento che sa afferrare le conoscenze, poiché le comprende e le assimila con la propria mente (L. Trisciuzzi, 2001).Questo del resto è il valore ed il riscontro di un apprendimento concretamente significativo. Riferimenti Bibliografici: AMATUCCI L., Educare alla cittadinanza nella società multiculturale. Gli sviluppo dell’intercultura, Roma, Anicia, 2011; ANTISERI D., Didattica della storia. Epistemologia contemporanea, Roma, Armando, 1999; BAUMAN Z., Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006; CALVANI A., Teorie dell’istruzione e carico cognitivo. Modelli per una scuola efficace, Trento, Erickson, 2009; COTTINI L., (a cura di), Progettare la didattica: modelli a confronto, Roma, Carocci Faber, 2008; DAMIANO E., L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, Roma, Armando, 1993; FRABBONI F., Società della conoscenza e scuola, Trento, Erickson, 2005; GOLEMAN D., Intelligenza sociale, Milano, Rizzoli, 2006; KOSLOWSKI P., La cultura postmoderna. Conseguenze socio-culturali dello sviluppo tecnico, Milano, Vita e Pensiero, 1991; LÖWITH K., Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Il Saggiatore, 2004; MARCEL G., L’uomo problematico, Torino, Borla, 1964; MENCARELLI M., La storia una scienza dell’uomo per la scuola di base, Brescia, La Scuola, 1978; TRISCIUZZI L., (a cura di), Dizionario di Didattica, Firenze, Edizioni ETS, 2001.


Parlare in pubblico: questione di esercizio

di Massimiliano Cavallo1 “Non tanto mi dispiace la sostanza quanto il modo del suo discorso”, fa dire Shakespeare ad Ottavio Cesare nel suo “Antonio e Cleopatra”. E quante volte, infatti, ci capita di ascoltare qualcuno che ha da dire delle cose interessanti ma le dice in modo sbagliato, senza trasmettere emozioni o con un tono incongruente. E ci capita non solo in politica ma nella vita di tutti i giorni: pensiamo al banale dialogo tra marito e moglie in cui il marito chiede “dove sono le mie camicie?” e

lei risponde “sono nel cassetto”. Leggendolo col tono diverso si potrebbe pensare al marito nervoso che non trova le sue camicie e alla moglie che, infastidita, gli risponde che sono nel cassetto, dove sono sempre state! E’ per questo che tra i tre livelli della comunicazione, verbale, non verbale e paraverbale, questi ultimi due contano più del primo. I politici, ovviamente, sono convinti del contrario e che il contenuto, quello che hanno da dire, conti di più, portandoli spesso a compiacersi delle proprie parole davanti a platee assonnate. Gli studi del prof. Albert Mehrabian, addirittura datati 1967, hanno dimostrato che in una normale comunicazione l’efficacia delle parole è pari soltanto al 7% del totale complessivo. Il 38% è dato invece dall’importanza del paraverbale, dal modo cioè in cui si pronunciano le parole, dal tono, dal timbro, dal volume e dall’inflessione della voce. Ben il 55% è dato invece dall’impatto del linguaggio non verbale, del corpo, dal contatto con gli occhi, dai movimenti del corpo,

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delle mani, dai supporti visivi, etc. L’oratore che convince è quindi colui che usa il proprio corpo e la propria voce come armi potenti e utili per attirare l’attenzione o sottolineare i passaggi più importanti. A rendere più difficile il nostro discorso, soprattutto nella fase cosiddetta “rompighiaccio”, c’è la paura di parlare in pubblico. Quella sensazione che ci attanaglia e ci impedisce di essere naturali e sciolti. E può quindi capitare di avere tachicardia o addirittura tremori, di non permettere alla nostra voce di essere chiara e o di avere quei vuoti di memoria che ci fanno entrare nel panico. In uno studio effettuato in Inghilterra la paura di parlare in pubblico è risultata al primo posto tra le fobie degli intervistati, precedendo addirittura la paura di calamità naturali e quella delle malattie. E d’altronde anche uno degli oratori più esperti come Cicerone ammise di avere paura di parlare in pubblico. E’ quindi evidente che il primo modo per superare questa paura è quello di averne consapevolezza, considerare cioè la paura come qualcosa di assolutamente naturale e che nulla ha a che vedere con le nostre insicurezze. Al contrario, questa adrenalina, può essere sfruttata in modo positivo: è quello che si chiama eustress (eu: in greco, buono, bello). E’ quello tonico, uno stress ordinario, positivo, utilizzabile per “caricare” le pile. E’ indispensabile alla vita, si manifesta sotto forma di stimolazioni ambientali costruttive ed interessanti, è quello che ci fa tenere alta l’attenzione quando corriamo veloci in auto. Diversi sono i modi per superare la paura di parlare in pubblico e mi piace ricordarne due. Si tratta innanzitutto di avere un approccio positivo verso il proprio discorso. Spesso capita di immaginarsi andare sul palco come su un patibolo, pieni di ansie e di paure. Ci facciamo un’immagine di noi negativa, ci concentriamo sui sintomi dello stress, amplifichiamo il leggero tremore della nostra

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gamba, dimenticandoci che dietro il leggio nessuno lo noterà. Più frequentemente, ci concentriamo sulle nostre parole perché abbiamo paura dei vuoti di memoria e, appena ce ne dimentichiamo una, anche se ininfluente ai fini del nostro discorso, la nostra mente resta ferma là (“ecco! Ho dimenticato di dire quella cosa”) e rischia di farci dimenticare il resto. Allora la prima soluzione è quella di avere un approccio positivo verso il nostro eloquio, fare quello che viene chiamato il ponte sul futuro e immaginarsi terminare il discorso tra gli applausi. Per fare questo basta ancorarsi ad un evento del passato in cui abbiamo dimostrato di essere sicuri di noi e richiamare quello stato d’animo, quasi in automatico come il cane di Pavlov, rivivendo su di se quella sensazione di sicurezza (può trattarsi di un esame andato bene, della conquista di una donna bellissima, di una promozione di carriera, etc). L’altro modo per superare la paura di parlare in pubblico è quello più banale ma il più efficace: esercitarsi. Solo attraverso l’esercizio possiamo superare la paura di parlare in pubblico e possiamo diventare padroni delle tecniche del linguaggio non verbale e paraverbale di cui parleremo su queste pagine. E se n’era accorto anche Quintiliano, quando circa duemila anni fa disse: “Sono principalmente la consuetudine e l’esercizio a dare origine all’abilità oratoria”. Note: 1 Nelle prossime uscite continueremo a capire insieme come migliorare il proprio modo di parlare in pubblico, analizzando i tre livelli della comunicazione. Se volete approfondire qualche aspetto in particolare scrivete a massimiliano.cavallo@gmail.com


Formare nello spazio della rete

di Stefania Nirchi ‘Il simbolo del nostro nuovo secolo è la rete, la rete senza centro, né orbita, né certezze; è una connessione infinita di cause; è l’archetipo che rappresenta ogni cosa perché ogni cosa vi può appartenere, ogni intelligenza, ogni economia e ogni uomo, ogni famiglia, insomma qualsiasi cosa appaia interessante. Lo spazio di Internet viene visto come ‘vivo’, vivo di una presenza collettiva, brillante, attiva e umana. Ogni singolo utente diventa una singola parte di un pensiero collettivo, non esiste un drive al pensiero ma il pensiero ‘emerge’ e si autorganizza sui contributi di ogni singolo utente’. (1) Così Derrick De Kerckhove, Antropologo e direttore di Mc Luhan Program-presso l’Università di Toronto, tratteggia lo stare nella rete, abitandone lo spazio. Uno spazio allestito per incontrarsi attraverso il linguaggio, definito da Heidegger la casa dell’essere, linguaggio/ legein che prima ancora che trasmettere contenuti funge da unione. La rete in questo modo consente di abbandonare il paradigma della comunicazione come trasmissione, per avvicinarsi a quello della comunicazione come incontro. L’abitare vive così il suo significato più profondo, quello che attiene alla questione del senso, dell’identità della relazione: dare un ordine e una direzione allo spazio circostante a partire dai significati condivisi; convertire il caos in cosmo; iscrivere la propria biografia e quella della comunità nel paesaggio della rete; predisporre uno spazio di prossimità e di in-

contro dove fare formazione. L’edificio dunque dove si svolge quest’ultima è un luogo qualsiasi: quello da dove l’individuo accede al sistema. Lo studente telematico infatti può essere visto come un moderno Ulisse, che durante il suo viaggio entra ed esce liberamente da ambienti di apprendimento differenti da quelli tradizionali, ma non per questo meno significativi. ‘La Rete e i suoi ambienti più che come luoghi alternativi alla realtà ‘reale’ vanno concepiti come scenari di azione, come situazioni e sceneggiature di cui il soggetto è protagonista accanto ad infiniti altri (Rivoltella, 2001, p.48). ‘Le nuove tecnologie sono un passo oltre nella possibilità dei media di rendersi invisibili e trasparenti all’utente, dal momento che permettono la costruzione di veri e propri ambienti cognitivi a più dimensioni, ordinati in modo spaziale e non temporale, all’interno dei quali il sensorio dell’uomo distingue con sempre maggiore difficoltà quale realtà, quella ‘effettuale’ o quella ‘virtuale’, i sensi gli restituiscono” (Ferri, 2002, p.124). In altri termini nella formazione in rete, gli spazi virtuali sono soprattutto spazi di relazione, luoghi dove sono il dialogo e lo scambio, a rappresentare il collante, lo zoccolo duro capace di fornire alla mente gli elementi per l’ipostasi, la rappresentazione concreta di una realtà astratta. Come fa notare Banzato (2003, p. 61): ‘gli spazi virtuali relazionali spesso non hanno nessuna correlazione con il piano spa-

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ziale in cui ci troviamo. Noi in continuazione passiamo attraverso ‘i mondi possibili’ in un costante dialogo tra reale e virtuale senza con questo confonderci nelle relazioni o con le persone. Il dialogo che si svolge nella rete è quindi capace di creare i presupposti per lo sviluppo di esperienze sociali efficaci e tangibili che diventano centrali per lo sviluppo di processi cognitivi e di apprendimento’. L’apprendimentoinsegnamento in rete, sulla base di queste brevi riflessioni, avviene in uno spazio che è completamente simbolico, si caratterizza cioè per la bidimensionalità del testo sullo schermo (Ferri, 2002). Anche se oggi la comunicazione multimediale estende ed integra il codice alfabetico con altri codici (visivo, iconico, sonoro, ecc.), rimane comunque centrale il ruolo della scrittura non solo nella trasmissione del contenuto, ma in questo caso anche nella definizione del contesto, nell’allestimento dello spazio. Il testo è il tessuto che consente la costituzione della rete. Anche etimologicamente la parola testo deriva dal latino tèxtum, dal verbo tèxere: tessere, intrecciare2. Ed è infatti il canovaccio delle parole, delle relazioni che per verba si strutturano in rete, a rappresentare l’ambiente sociale all’interno del quale le persone si incontrano. Questo spazio è quindi, prevalentemente simbolico e alfabetico e pertanto richiede la conoscenza di codici di codifica e di decodifica. La parola scritta come supporto alla comunicazione in rete presenta infatti analogie, ma anche forti differenze sia rispetto all’oralità, sia alla scrittura a stampa. Molti studiosi di comunicazione evidenziano che la computer mediated communication, o CMC determina il delinearsi di nuovi modelli comunicativi e consente lo sviluppo di importanti e nuove fenomenologie interrelazionali, oltre a venire identificata con un medium molto diverso da quelli tradizionali. Anche se la comunicazione scritta, da un punto di vista semiologico, appare priva dei tipici elementi extralinguistici dell’incontro in presenza (visivo espressivi, prossemici, ecc.), sul piano pragmatico si caratterizza come fortemente

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orientata a stimolare la spontaneità e quindi il manifestarsi di relazioni emotive. La CMC nell’offrire spazio di parola senza limiti, senza censure, senza necessità di mostrare o svelare direttamente la completa identità dell’attore viene spesso percepita come aumento della propria libertà di espressione dando luogo ad un fenomeno sostanzialmente inedito che è quello di riuscire a ridurre i timori e le differenze3. Infatti si riscontra un incremento nella partecipazione tra studenti e una quantità di prodotti di qualità elaborati dagli stessi. In altre parole il computer offre una sorta di semi anonimato che porta gli utenti ad atteggiamenti più disinibiti ed a sentirsi maggiormente sicuri di se. Fenomeno che consente maggiore partecipazione e disponibilità all’incontro con altri utenti. Secondo la Harasim (1990), la computer mediated communication fornisce un ambiente argomentativo particolarmente efficace per l’apprendimento collaborativo offrendo a studenti ed insegnanti un accesso a nuove idee, prospettive ed informazioni attraverso la costruzione di punti di vista diversi su uno stesso esempio. Si può asserire dunque che la particolarità di questo tipo di comunicazione, a metà strada tra linguaggio scritto e orale, è fortemente orientata a stimolare relazioni, anche di tipo emotivo da cui consegue la possibilità di sviluppare uno spiccato senso di appartenenza sociale. Il testo elettronico prodotto dalle interazioni attraverso la CMC si presenta estremamente duttile, articolato, dalla natura composita (alfabeto, immagini, suoni), corredato di funzioni ipertestuali ed interattive che lo differenziano in larga misura dal testo stampato, dattiloscritto o semplicemente chirografo. I nuovi testi si presentano come qualcosa di intrinsecamente aperto, incompiuto, suscettibile di modifiche, interconnesso con altri testi, con testi di altri autori in un rimando continuo che spesso rende difficile l’attribuzione ad un solo autore. Anzi: il testo elettronico, ed in particolare quello online, si presta a continui riusi, a redazioni multiple, a lavori


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in equipe, a scritture progressive. Per questi ed altri motivi, l’elemento centrale su cui su basa la formazione in rete è oggi dato dal prevalente utilizzo della comunicazione testuale scritta. In pratica, l’esperienza di apprendimento avviene in un luogo virtuale accessibile continuativamente, costituendo di fatto un repertorio di “conoscenza condivisa”, una “knowledge base”, preziosa per ogni successivo accesso. Imparare diventa così una trattativa continua dell’individuo all’interno della propria comunità di lavoro mediante l’utilizzo della lingua scritta come sistema conversazionale (Pontecorvo et. Al., 2004, p. 270). Il rispetto di criteri formali a cui obbliga la scrittura porta a sviluppare processi riflessivi e metacognitivi nel momento della stesura, e - allo stesso tempo - permette anche a coloro che stanno cominciando un nuovo percorso di apprendimento, di impadronirsi del patrimonio prodotto da coloro che li hanno preceduti. La scrittura consente cioè di apprendere attraverso la partecipazione alle pratiche della comunità (Wenger, 1998; Lave, Wenger 1991). Partecipazione che è consentita ad ogni livello e dimensione, compreso a chi si aggira ai bordi periferici delle comunità (ai neofiti, agli assenti), che hanno così la possibilità di scegliere tempi e modi adeguati, per entrare a pieno titolo nel gruppo. Ci sono, naturalmente, suggestioni vygotskijane nella prospettiva dello spingersi oltre, da parte di ogni studente-apprendista, all’interno della propria zona di sviluppo prossimale, grazie al supporto offerto dai colleghi più esperti. Processo questo che non prevede necessariamente studenti abili accanto a studenti meno capaci, quanto momenti continui di scambio di ruolo, tra apprendisti ed esperti, nei diversi momenti del lavoro in rete. La logica è, ancora una volta, quella dell’apprendimento come processo situato e distribuito dove ‘la costruzione di conoscenze, la soluzione di problemi non sono processi che avvengono solo nella mente di ciascuno, ma si basano su

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pratiche sociali. Il pensiero si realizza all’interno di una comunità di persone che svolge determinate pratiche. L’apprendimento viene quindi concepito in termini di un processo di partecipazione individuale alle pratiche strutturate socialmente’ (Mason, 1998, p.75). In questa prospettiva è il sistema nel suo insieme a connotarsi come formativo, riducendo così in maniera significativa il ruolo del docente come attore centrale da cui dipende la capacità del gruppo di apprendere. Lavorare con strumenti informatici ‘da soli, e ancor più in gruppo, è un’azione più sotto il controllo dello studente che dell’insegnante. È in questo punto che l’introduzione dei computer realizza un importante obiettivo: portare l’apprendimento da un processo di semplice assimilazione ad un processo di costruzione attiva […]. Se il lavoro collaborativo supportato dal computer viene ad investire i processi di costruzione mentale dello studente e i processi di appropriazione del significato, ne consegue che i processi mentali richiesti siano non automatici e quindi controllati dallo studente’ (Salomon, 1992). In conclusione, quindi, le tecnologie consentono di ripensare l’apprendimento come processo sociale, di ridurre le distanze cognitive tra docenti e discenti, oltre che consentire, rispetto alla didattica tradizionale, ricadute sull’apprendimento stesso tutt’altro che inferiori. Ne consegue una riproduzione nella rete di molte delle dinamiche relazionali vissute nel contesto reale di appartenenza (Rheingold, 1994; Lévy, 1997), con la creazione di nuove reti socio-relazionali fra individui (Barrett, 1991) e modelli educativi di costruzione della conoscenza per nulla irrilevanti.


Note: 1 Intervento di Derrick De Kerckhove, Alla ricerca dell’intelligenza connettiva, tenuto al Convegno Internazionale, “Professione giornalista: nuovi media, nuova informazione”; 2 Sul concetto ‘tessuto della rete’ si veda Formare attraverso la rete: la scrittura dei material didattici per l’E-learning, in S. Nirchi, ‘Formazione e-learning e percorsi modulari. La scrittura dei materiali didattici’, cap. III, Roma, Anicia, 2009, pp. 65-109; 3 Naturalmente, assieme agli aspetti positivi, la CMC, comporta anche alcuni rischi e problematiche che sono stati ben evidenziati da autori come la Turkle (1997) e la Wallace (2000). Riferimenti Bibliografici: BANZATO M., Apprendere in rete, Modelli e strumenti per l’e-learning, Torino, UTET, 2003; DE KERCKHOVE D., Nel web l’individuo e la massa non si oppongono più, convivono, in ‘Telèma’, Fondazione Ugo Bordoni, n.17/18, estate/autunno 1999, pp.27-32; FERRI P., Teoria e tecniche dei nuovi media. Pensare formare lavorare nell’epoca della rivoluzione digitale, Milano, Guerini Studio, 2002; BARRETT E.; (1991), The society of text. Hypertext, Hipermedia and the social Construction of Information, The MIT Press, Cambridge, 1991;

HARASIM L., Online education: perspectives on a new environment, New York, Praeger, 1990; LAVE J., WENGER E.C., Situated Learning. Legitimate peripheral participation, Cambridge MA, Cambridge University Press, 1991; LÉVY P., Il virtuale, Milano, Feltrinelli, (ed. orig. 1993), 1997; MASON R.D., Models of Online Courses, proceedings of conference Networked Internet Learning: Innovative Approaches to Education and Training Through the Internet, University of Sheffield. Anche in ALN Magazine, vol. 2, n. 2, ottobre 1998; PONTECORVO C., AJELLO A.M., ZUCCHERMAGLIO C. (a cura di), Discutendo si impara. Interazione sociale e conoscenza a scuola, Roma, Carocci, 2004; RHEINGOLD H., Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio, Milano, Sperling & Kupfer, 1994; RIVOLTELLA P.C., Comunicare in Internet. Linee per l’elaborazione di un modello teorico, in ‘TD’, Edizioni Menabò, Ortona, n. 22, 2001, pp. 45-53; SALOMON G., What does the design of effective CSCL require and how do we study its effects?, in ‘ACM SIGCUE Outlook’, 21 (3), 1992, pp. 62-68; WENGER E.C., Communities of practice. Learning, meaning, and identity, Cambridge MA, Cambridge University Press, 1998.

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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo della agenzie educative Parte terza. Educazione prosociale e scuola

di Savina Cellamare Introduzione Agli studi ormai classici che hanno evidenziato la natura sociale dell’essere umano e il possesso delle relative competenze già in età precoce (cfr. Bolby, 1982; Dunn, 1990), si sono aggiunti nell’ultimo decennio i contributi delle neuroscienze, che hanno messo in luce l’azione dei mirror, o neuroni a specchio. Questi neuroni, che assolvono allo specifico compito di leggere le situazioni di interazione sociale, si attivano sia quando si agisce direttamente in un contesto sia quando si osserva l’azione compiuta da altri (cfr. Gallese, 2003; Rizzolatti - Sinigaglia, 2006). Questa scoperta, oltre a evidenziare le sofisticate modalità neurofisiologiche che presiedono e regolano la capacità di entrare in relazione e di governare l’interazione attraverso determinati meccanismi, quali la comprensione delle azioni e delle intenzioni altrui, ha gettato nuova luce sullo stretto legame di interdipendenza che si ha tra la sfera cognitiva e quella socio-relazionale. Le ricadute educative, ma anche didattiche, di

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questi studi sono sicuramente interessanti ma anche piuttosto impegnative per gli educatori; sollecitano infatti «a riflettere sulla possibilità di favorire relazioni sociali positive attraverso l’educazione non solo delle abilità sociali, ma anche delle abilità cognitive; educazione questa che rappresenta il fine istituzionale della scuola» (Ciairano, 2008, p. 10; cfr. anche Bonino - Ruffiemma, 2007), istituzione alla quale spetta «il merito di essere un contesto che conta, e al tempo stesso la responsabilità di offrirsi come risorsa importante anche in ambienti sociali relativamente poveri di stimoli familiari» (Di Norcia - Pastorelli, 2008, p. 173). La stretta interazione tra processi cognitivi e interattivi è stata rilevata a partire dalla scuola dell’infanzia. Di qui l’importanza di una educazione alla prosocialità che accompagni il percorso educativo, formativo e didattico di un bambino fin dall’inizio della sua vita scolastica, ovvero della sua partecipazione a un microcosmo nel quale amplia la rete sociale oltre i confini della famiglia nucleare (genitori e fratelli) e allargata (nonni, zii, cugini), per includervi altri adulti significativi (gli insegnanti, il personale della scuola) e i coetanei con i quali condivide lo status di scolaro. La nuova struttura sociale della quale fa parte implica la necessità di ridefinire spazi, tempi e modi della relazione; gli è richiesto inoltre di coinvolgersi in compiti e attività definiti dall’insegnante. In altri termini si può dire che il bambino è chiamato a rispondere alle sollecitazioni ambientali con una flessibilità di pensiero e di azione per lui probabilmente nuova, attraverso la quale possa «elaborare una più complessa rappresentazione cognitiva del compito, che tiene conto sia del proprio ruolo sia di quello dell’altro» e realizzare «un maggiore decentramento dall’immediatezza del contesto, il quale permette a sua volta la realizzazione di una progettualità in grado di tenere conto della globalità della situazione, superando così un agire impulsivo e frammentario» (Bonino - Cattellini, 2005, pp. 66 - 67). Come afferma Vecchio «la scuola rappresenta


senza dubbio il terreno ideale in cui bambini e adolescenti, oltre ad apprendere contenuti cruciali per il loro sviluppo e la loro formazione, possono sperimentare le attività necessarie per costruire relazioni significative sia con gli adulti sia con i coetanei. L’esperienza scolastica può favorire lo sviluppo di comportamenti prosociali attraverso la promozione di valori che mirano alla considerazione e al sostegno dell’altro, nonché allo sviluppo e al potenziamento di competenze connesse alla prosocialità, facendo leva sulla relazione con gli insegnanti e con i compagni» (Vecchio, 2008, p. 51). Per promuovere questa particolare competenza, la cui complessità si è delineata nei precedenti contributi (cfr. n. 4/2010, n. 1/2011 di questa rivista) la scuola deve predisporre interventi che creino le condizioni favorevoli allo sviluppo di un orientamento prosociale verso i compagni ma anche verso l’intera comunità scolastica. È noto infatti che il senso di appartenenza verso un comunità è un fattore che, oltre ad aumentare la motivazione all’apprendimento, influisce positivamente sulla disponibilità dei singoli a ricercare soluzioni costruttive ai conflitti, contrastando l’insorgenza di condotte violente e prevaricanti (cfr. Salomon - Battistich, 1997). Per guidare il bambino verso lo sviluppo di una stile di vita prosociale è necessario promuovere l’acquisizione della capacità di osservare il proprio modo di essere e di fare nella relazione. Sapersi osservare La capacità di autosservazione è in rapporto dialettico con la capacità di autocontrollo; l’autosservazione può essere definita infatti come la capacità che una persona possiede di osservare il proprio modo di agire nell’interazione con altri, allo scopo di identificare la presenza o meno di elementi indesiderati o inadeguati rispetto alla normale attività di un altro individuo o di un gruppo. L’impiego di questa tecnica all’interno di un intervento educativo mirato all’acquisizione di abilità prosociali permette

a chi la utilizza di rilevare e valutare le abilità da sottoporre a modifica, costruendole ex novo oppure operando per il loro miglioramento. E’ comunque opportuno tenere presente che l’esigenza di rivestire contemporaneamente il ruolo dell’osservatore e dell’osservato posta dall’autosservazione non è facile da gestire; chi la attua può tendere infatti ad attivare dei meccanismi psicologici di ridimensionameto dei propri limiti, funzionali alla difesa della propria autostima. Per questo motivo è di fondamentale importanza il feedback sociale, che a scuola l’alunno riceve dall’insegnante in risposta alla propria prestazione. Questa informazione di ritorno dovrebbe articolarsi su due livelli: il primo per offrire conferme psicologiche del valore dell’alunno come persona, indipendentemente dalle capacità dimostrate; il secondo livello, che opera parallelamente al primo, dà invece informazioni oggettive e realistiche sulle prestazioni emesse, allo scopo di guidare la conoscenza consapevole del funzionamento individuale. L’osservazione e l’analisi delle proprie modalità di azione nella relazione interpersonale accresce negli individui, anche molto giovani, la consapevolezza dei propri punti deboli ma anche degli aspetti di sé positivi, e li pone in condizione di riflettere prima di agire. La verbalizzazione di sentimenti, impressioni e idee facilita la valutazione e la presa di decisione del soggetto su quali siano le azioni, le parole, i gesti più appropriati alla situazione o al contesto. Queste operazioni concorrono all’attivazione di percorsi di automodificazione intenzionale e positiva, fondati sulla sostituzione consapevole e voluta delle capacità inadeguate e non solo sull’inibizione di queste. È un aspetto che merita un’attenta considerazione in risposta all’esigenza, da più parti affermata, di rendere i bambini parte attiva nel processo di co-costruzione di sé come persona, partecipandovi consapevolmente. La dimensione della consapevolezza sottolinea perciò il ruolo attivo che un soggetto svolge nel processo educativo nel quale è coinvolto e del

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quale non è semplicemente oggetto; la capacità di autosservazione è quindi il risultato di un apprendimento, al pari delle abilità prosociali alle quali deve condurre. L’autosservazione costituisce pertanto il primo gradino per procedere alla stutturazione di un adeguato repertorio di abilità prosociali, o alla sostituzione di un’abilità inadeguata. Perché ciò avvenga però è necessaria una ristrutturazione cognitiva, che permetta al soggetto di identificare una abilità mancante o carente, condizione senza la quale non sarebbe possibile impegnarsi nella ricerca di modalità d’azione positive e procedere alla loro successiva attuazione. In un programma di intervento è perciò opportuno affiancare all’autosservazione l’uso di altre due tecniche, il problem solving e il role playing. Ciascuna di esse assolve a specifiche funzioni: mentre l’autosservazione conduce al riconoscimento del proprio comportamento, attraverso il role play e il problem solving si agisce per graduale e consapevole sostituzione delle abilità inadeguate. Il problem solving Lo sviluppo della capacità di problem solving è certamente una delle finalità più importanti del processo educativo e didattico, inscindibilmente legata al compito prioritario della scuola di insegnare agli allievi a pensare in modo chiaro e costruttivo. Si può dire che è «un atto di intelligenza, nella misura però in cui quest’ultimo non consiste solo nel comprendere una spiegazione fornita da altri, ma comporta un partecipazione attiva e creativa, un qualche elemento di scoperta personale» (Petter, 1992, p. 9398). Lavorare alla soluzione di un problema che riguarda eventi reali impegna appunto gli allievi nell’attività di pensare. e questo dà loro modo di una acquisire o affinare la capacità di generalizzare ciò che apprendono ad altri problemi che presentino le stesse caratteristiche formali (cfr. Gagné -Briggs, 1990; Novak, 2001). La soluzione di problemi è uno stile di indagine e di scoperta che non riguarda solo specifici

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ambiti o settori ritenuti difficili o problematici; è invece è una dimensione dell’attività cognitiva che investe tutti i compiti e le attività in cui una persona è implicata, e che affronta usando i piani e le strategia a sua disposizione per raggiungere l’obiettivo atteso. L’investimento di energie e risorse nella ricerca di alternative si differenzia in base alla complessità del problema, la cui soluzione dipende in buona parte dal modo in cui questo viene posto. Esistono infatti due categorie di problemi, il limite tra le quali è spesso sfumato: i problemi ben definiti e i problemi mal definiti. Nei problemi ben definiti sono chiari sia la situazione iniziale sia l’obiettivo da raggiungere. Sono invece problemi mal definiti quelli che non danno informazioni sufficienti per la loro soluzione, né forniscono al soggetto che li affronta criteri univoci in base ai quali decidere se la soluzione ricercata è stata raggiunta. Le strategie attraverso cui elaborare una soluzione vengono infatti suggerite al solutore dai dati che possiede sul problema. L’insieme di tali dati, che possono essere di diversa natura (materiale, verbale, simbolica) e combinarsi in vario modo, costituisce l’ambiente del compito. Le informazioni attinte dall’ambiente del compito vengono codificate e interpretate dal soggetto in base alle sue strutture di conoscenza, dando luogo ad una rappresentazione che prende il nome di spazio del problema. Questo si costruisce «attraverso processi di comprensione, nel senso che tale rappresentazione è prodotta da ciò che il solutore capisce dei dati e dell’obiettivo del problema, nonché delle strategie da usare: la comprensione dipende sia da meccanismi generali, sia dalla conoscenza che il solutore ha dello specifico settore cui attiene il problema» (Boscolo, 1986, p. 172). Lo spazio del problema è una dimensione modificabile, problema che si riconfigura per effetto dei tentativi di comprensione e di soluzione che vengono messi in atto dal solutore. Quando la comprensione di un problema è compromessa dalla non corretta formulazione delle informazioni o delle istruzioni, queste agiscono come fattori fuorvianti nella ricerca


della soluzione strategica più idonea, allontanano così la possibilità di raggiungere una soluzione soddisfacente o rendendone più faticoso il conseguimento. Possiamo prendere come esempio una situazione tipo della vita quotidiana in cui si manifesta una incoerenza, più o meno evidente, tra il tono di voce benevola che accompagna un’espressione sarcastica. In casi come questo la comprensione del messaggio potrebbe incontrare seri ostacoli, perché «il processo di comprensione assume un particolare rilievo nei processi di trasformazione, in cui la situazione iniziale deve essere trasformata in un’altra situazione che è l’obiettivo del problema [... ] Si possono individuare due aspetti nella comprensione: il primo riguarda la costruzione di una rappresentazione cognitiva, il secondo riguarda la comprensione delle operazioni che portano alla soluzione» (Boscolo, 1986, pp. 173-174). E' perciò evidente come la corretta comprensione delle informazioni relative a un problema non sia una condizione sufficiente perché si pervenga alla soluzione del problema stesso. Al solutore sono infatti richiesti due tipi di conoscenza: la conoscenza schematica, che riguarda i dati del problema (es. individuare l’emozione espressa in un volto), e la conoscenza strategica, che si riferisce invece agli obiettivi, ai percorsi e alle modalità idonee al raggiungimento della soluzione. La comprensione dell’organizzazione che regola gli aspetti di un problema rende possibile il transfer della strategia trovata, cioè la sua applicazione a situazioni nuove. Questo aspetto è rilevante in ogni situazione di apprendimento ma assume una valenza ancora maggiore se riferito ad abilità, come quelle prosociali, che per il loro carattere di trasversalità favoriscono l’interdisciplinarietà e la generalizzazione a tutti i contesti di vita. Stabilire parallelismi tra situazioni attuali e precedenti, generalizzare soluzioni implica, oltre alla capacità di autosservazione, la capacità di ragionamento analogico; questa viene attivata ad esempio nella presentazione di pro-

blemi in forma di storie, una modalità didattica molto utilizzata nella scuola dell’infanzia. Le ricerche hanno infatti dimostrato come bambini di quattro anni siano già in grado di cogliere le analogie e di sviluppare una soluzione analogica attraverso la proiezione di un problema su un altro che, pur non presentando le stesse caratteristiche del primo, richiede le stesse strategie di soluzione. Il role play Tra le diverse tecniche di simulazione il role play, o gioco dell’assunzione di ruoli, è ampiamente utilizzato in percorsi di apprendimento finalizzati all’acquisizione di effettive competenze sociali in quanto costituisce un’esperienza di interazione spontanea, nel corso della quale si simula una micro sequenza; all’interno di questa la persona è libera di scegliere il modo o i modi in cui “giocare il ruolo”. Questa tecnica, nota nell’ambito della formazione, è ampiamente diffusa anche nel contesto scolastico, ad esempio nella forma del “facciamo finta che”, in quanto è realizzabile sia in coppia sia in piccolo gruppo. Inoltre la somiglianza con la drammatizzazione la rende familiare sia agli insegnanti sia agli allievi, senza che per questo perda la sua specificità scadendo nella semplice rappresentazione di un qualcosa. La sua attuazione infatti è in funzione della realizzazione di un apprendimento, cioè al conseguimento di un dato obiettivo. Un elemento importante, che differenzia il role play da altri tipi di simulazione, è il suo carattere di metodo attivo, attraverso il quale i problemi proposti, oltre ad essere discussi, vengono affrontati e gestiti a livello pratico mediante la riproduzione dell’evento e del contesto relazionale ed emotivo in cui questo accade. I partecipanti al role play ricoprono il ruolo di attore e di osservatore, poiché le due esperienze forniscono loro informazioni di tipo diverso. L’attore infatti fa esperienza delle capacità e delle difficoltà, -emotive, comunicative o altro - che possono insorgere in lui in quel particolare contesto. L’osservatore invece esercita ed affina la capacità di analizzare le differenti

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reazioni osservate, le abilità possedute ed esibite dall’attore in rapporto alle situazioni; inoltre opera confronti ed esprime opinioni sulle strategie possibili, infine decide quali attivare. In base a questi elementi è facile comprendere come il role play rappresenti un training particolarmente utile nell’acquisizione e nello sviluppo delle abilità sociali. La sua attuazione deve avvenire rispettando una sequenza che prevede una serie di passi procedurali: • la rilevazione e la definizione di una situazione interpersonale che ricorre spesso tra i partecipanti; • la simulazione dell’episodio critico da parte di due partecipanti in veste di attori. Sarà chiamato ad esibire un’abilità prosociale chi invece ricorre più di frequente a modalità disfunzionali; ad esempio, il soggetto aggressivo interpreterà il ruolo dell’aggredito, questo allo scopo di fargli sperimentare quali conseguenze la propria aggressività genera per gli altri; • la ripetizione della situazione di interazione, fornendo però al soggetto carente di abilità prosociali un modello positivo da osservare; • la ripetizione della simulazione invertendo i ruoli giocati dagli attori. In questa fase il soggetto con comportamento disfunzionale viene istruito a manifestare una condotta prosociale adeguata. E’ importante che questa risposta riceva un feedback, che può essere dato dall’analisi dell’interazione videoregistrata. Poiché molto probabilmente si procederà alla costruzione delle abilità desiderate per approssimazioni successive, questa fase potrà essere ripetuta, avendo cura di rinforzare adeguatamente i progressi verso la riproduzione del modello. I diversi momenti della sequenza sono intercalati da spazi di discussione, durante i quali si procede all’analisi guidata e sistematica sia degli errori commessi sia delle prove superate con successo. Questa ricostruzione analitica del percorso è facilitata dall’uso di strumenti

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o materiali che aiutino a conservare traccia dei processi realizzati (es. disegni, video ecc.); il ricorso a elementi concreti infatti, oltre ad agevolare una rievocazione dettagliata, permette di evidenziare i punti di forza e gli aspetti di miglioramento. In questo modo si favorisce l’assunzione di una chiara consapevolezza sulle scelte e le azioni che hanno portato all’esito atteso o dei fattori che invece non hanno funzionato. L’offerta di situazioni simulate in cui osservare e osservarsi, analizzare e prendere decisioni è quindi di fondamentale importanza per promuovere già dalla prima infanzia lo sviluppo di un pensiero flessibile, che permette di affrontare con competenza e produttivamente sia le diverse situazioni di interazione sociale sia i compiti cognitivi. La flessibilità di pensiero è «un costrutto complesso, costituito da numerose componenti, quali la pianificazione […], la capacità di individuare soluzioni alternative […], il controllo dei comportamenti diretti al raggiungimento di un obiettivo […], il cambiamento delle strategie e dei piani. Queste componenti rimandano a loro volta a differenti processi, come l’inibizione […], l’interferenza […], la tensione selettiva, la memoria di lavoro […]» (Bonino - Ciairano, 1997, p. 18). La letteratura ha identificato due tipi flessibilità, una di tipo spontaneo e l’altra di tipo narrativo. La prima si attua nei casi in cui la persona produce autonomamente diversi tipi di risposte, si parla invece di flessibilità reattiva quando il soggetto modifica le proprie risposte a seguito di una data richiesta ambientale o sulla base di un segnale che questo invia. La flessibilità di pensiero è stata ripetutamente indagata in rapporto a molti e diversi aspetti dello sviluppo e i diversi contributi hanno portato a ritenere che svolga un ruolo centrale nell’attivazione e nella regolazione dell’interazione sociale con i pari. Inibire e superare l’automatismo «sembra infatti essere un’abilità necessaria nella cooperazione, che richiede solo la capacità di bloccare risposte primitive, come l’aggressività, ma anche di trovare so-


luzioni nuove, diverse da quelle abituali e individuali, le quali tengano conto anche della presenza del compagno e delle sue esigenze […]» (Bonino - Ciairano, 1997, p. 19). L’azione della scuola Poiché, come è noto, l’intervento precoce facilita sia la corretta impostazione del processo di formazione della persona sia la possibilità di una generalizzazione ampia e trasversale degli apprendimenti, la scuola dell’infanzia costituisce un terreno privilegiato su cui operare intenzionalmente, attraverso percorsi educativo-didattici intenzionalmente costruiti per agevolare lo sviluppo socio-cognitivo del bambino. Se infatti si allestiscono condizioni di apprendimento che favoriscono nei piccoli alunni la possibilità di cogliere precocemente gli aspetti caratterizzanti un comportamento, positivo o negativo, proprio o di altri, ne deriverà l’acquisizione di «una particolare finezza discriminativa, presupposto necessario alla consapevolezza, che costituisce la base dell’analisi del comportamento e del cambiamento. Tutto ciò non solo nei rapporti circoscritti all’ambiente scolastico, ma all’intera gamma di relazione» (Guasco - Trapani, 1992, pp. 23 - 24). Il legame di interdipendenza tra ambito cognitivo e sfera socio-relazionale, nonché l’azione regolativa dell’una sull’altra, appaiono quanto mai evidenti se si analizzano le quattro aree fondamentali di abilità di cui un bambino socialmente competente dovrebbe essere in possesso, ovvero: le abilità di auto espressione; le abilità interpersonali gratificanti per gli altri; le abilità di autoaffermazione e le abilità di comunicazione. Ciascuna di queste si articola in sottoabilità, che è facile riconoscere come altrettanti obiettivi didattici, cognitivi e relazionali. Le abilità autoespressive sono infatti quelle che consentono la comunicazione di sentimenti e opinioni propri, di contenuti positivi rispetto a sé, mentre le abilità interpersonali gratificanti per gli altri implicano l’espressione di contenuti positivi rispetto a terzi. Non è detto che il possesso delle une vada di pari passo con il possesso delle altre. Si può essere infatti capaci di

riconoscere un pregio o una qualità positiva in un altro ma non saperla riconoscere in se stessi o non saperla esprimere, ad esempio perché si ha poca capacità di autosservazione e autovalutazione (componente cognitiva) non necessariamente perché si è poco autoefficaci (per i fattori psicologici cfr. qtimes, n. 1/11). Anche l’abilità di autoaffermazione, che si manifesta attraverso la capacità di fare richieste, o anche di esprimere il proprio grado di accordo o di disaccordo con un’altra persona senza subire pressioni implica l’attivazione di processi di selezione, decisione e scelta che appartengono alla sfera cognitiva. Lo stesso si può dire per le abilità di comunicazione, che permettono di cogliere i diversi aspetti della comunicazione stessa, conferendole il carattere di conversazione e non di soliloquio, cosa non possibile in assenza di un’adeguata capacità di controllo e di autoregolazione. Il programma P.A.P.E.C. Le abilità appena presentate costituiscono l’ossatura del programma P.A.P.E.C. (Plan para la Aplicacion de la Prosocialidad en Escuelas de Catalunya). Questo curricolo, specifico per la scuola dell’infanzia, è il risultato di un lavoro di ricerca, iniziato nei primi anni ottanta, condotto da studiosi della Facoltà di Psicologia dell’Università Autonoma di Barcellona in collaborazione con educatori e insegnanti, mossi dalla convinzione che il campo educativo sia un terreno privilegiato per operare in vista di una trasformazione sociale a lungo termine. Il programma è molto noto e ha trovato numerose applicazioni nella nostra scuola dell’infanzia per la chiarezza della sua articolazione che, attraverso una struttura scevra da elementi ideologici, definisce operativamente abilità, conoscenze e condotte caratterizzanti uno stile di interazione prosociale (cfr. Roche - Salfi –Barbara, 1991; Roche, 1997; www.prosocialità.it). Il P.A.P.E.C. può essere visto come un insieme di indicazioni concrete ma non restrittive, utili a formare persone capaci di relazionarsi positivamente e produttivamente con un ambiente sociale pluralistico e in costante evoluzione. é

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finalizzato all’incremento delle abilità prosociali e delle abilità cognitive in esse implicate e si caratterizza per la facilità di comprensione e per la sua flessibilità; tali elementi ne consentono l’adattamento per un’applicazione efficace in contesti diversi, lasciando ampio margine alla decisionalità insegnante (per un modello e un

programma di intervento destinato ad alunni di età superiore cfr. Roche, 2002). Il curricolo si articola in undici sezioni; ciascuna corrisponde alle abilità componenti il comportamento prosociale, delle quali fornisce una definizione (Tabella 1)

SEZIONE: COMPONENTE Definizione A: Valutare positivamente l’altro Scoprire ed attribuire valori positivi al modo di essere e di agire degli altri; B: Empatia Capacità di provare i pensieri ed i sentimenti degli altri, fino a farli propri; percepire lo stato dell’altro, fino a sentire e predire con certezza i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue azioni; C: Espressione dei sentimenti Trasmissione sia verbale che fisica di emozioni, sentimenti, stai d’animo...; D: Assertività Affermazione di se stessi all’inizio e durante un’azione o attività nel rispetto dell’interlocutore; E: Creatività Processo dinamico di ricerca e scoperta per il raggiungimento di nuove percezioni e soluzioni di problemi; F: S.E.H.A.R.I. (sensibilizzazione e addestramento alle abilità e ai modelli comportamentali di relazione interpersonale) Forme, norme o strategie di condotta socialmente utili e desiderabili nella interazione con gli altri; G: Non aggressività e non competitività Esclusione di azioni intenzionalmente tese a danneggiare gli altri (aggressività); esclusione di azione di lotta o contrapposizione con altri per il raggiungimento di uno stesso obiettivo; H: Modelli positivi azioni osservate che attivino o facilitino la realizzazione di condotte prosociali per imitazione o identificazione; I: Collaboratività Eliminazione di antagonismi attraverso sforzi tesi al raggiungimento di obiettivi comuni a gruppi o persone; L: Aiuto Azione verbale utile indirizzata a qualcuno per supportarlo nella realizzazione di un compito; azione non verbale che fornisce assistenza fisica per il raggiungimento di un obiettivo; supporto attraverso gesti o parole di incoraggiamento, simpatia o lode, per alleviare il disagio di altri; M: Condivisione Dare o prestare oggetti, proprietà o risorse propri presupponendone una certa perdita. Tabella 1 - Struttura del programma P.A.P.E.C. e definizione delle sue componenti (Cellamare, 1999).

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Ogni sezione viene descritta esplicitandone la relazione con il programma complessivo e definendo l’obiettivo specifico. Inoltre sono offerte agli insegnanti che adottano il curricolo le indicazioni pragmatiche, denominate sinteticamente I.P., corredate dalla proposta di U.P., ovvero di Unità Prosociali specifiche, strutturate per conseguire i diversi obiettivi. L’intero programma può essere efficacemente descritto attraversa una tabella sinottica (Tabella 2).


PROGRAMMA P.A.P.E.C.: SEZIONE Relazione con il Programma Obiettivo spcifico I.P. per l’insegnante A: Valutare positivamente l’altro La valutazione positiva dell’altro facilita il mettersi in relazione con lui e il prestargli aiuto.

Incrementare l’attribuzione di valori positivi nei confronti degli altri.

B: Empatia Riconoscimento dello stato di necessità dell’altro perché si attivi una condotta prosociale.

Agire come modello attribuendo valori positivi agli altri; esortare gli alunni a fare lo stesso e a non discriminare nessuno.

Stimolare le capacità empatiche del bambino nelle relazioni con gli altri.

Uso di strategie idonee e stimolare gli alunni alla loro applicazione.

Gioco in cui si descrivono le qualità di un alunno; racconto; esecuzione di un disegno;

Esprimere frequentemente i propri sentimenti e accettare quelli dei bambini.

Incrementare le abilità di autoespressione e autoaffermazione.

Accettare e gratificare le iniziative dei bambini; mostrare le proprie iniziative.

Incrementare la creatività nella soluzione di problemi.

Fornire molti e diversi materiali per svolgere le attività; eliminare gli atteggiamenti di insicurezza che riducono la capacità creativa ma stimolarne l’espressione.

Incrementare la capacità di rapporto interpersonale.

Fornire modelli validi di autocontrollo, autonomia, gentilezza; promuovere l’autostima del bambino.

Diminuire ed eliminare la competitività e l’aggressività;

Insegnare giochi non aggressivi e non competitivi; usare un linguaggio che non rinforzi queste condotte; applicare una disciplina induttiva.

Riconoscere modelli positivi ed agire conformemente ad essi;

Proporsi come modello prosociale; analizzare un programma televisivo o un racconto.

Incrementare condotte collaborative;

Adattare il lavoro alle possibilità di ciascuno; favorire le iniziative dei gruppi; lodare le iniziative di collaborazione.

Incrementare le condotte di aiuto;

Accettare l’aiuto dei bambini e fare in modo che si sentano utili; promuovere e rinforzare le iniziative di aiuto.

Incrementare le condotte di condivisione.

Essere modello e favorire esperienze di condivisione; porre richieste adeguate al bambino; predisporre un ambiente favorevole.

C: Espressione dei sentimenti Il riconoscimento dei propri sentimenti favorisce l’empatia nei confronti degli altri e viceversa. D: Assertività La prosocialità presuppone l’essere capaci di iniziativa e decisione nel portare avanti la propria azione intervenendo sugli altri. E: Creatività Trovare alternative diverse per realizzare nuove condotte prosociali.

F: S.E.H.A.R.I. Apprendimento di abilità e di modelli prosociali attraverso un programma specifico. G: Non aggressività e non competitività La prosocialità esclude competitività e aggressività, alle quali è alternativa; H: Modelli positivi L’emissione di azioni prosociali è favorita dall’osservazione di modelli positivi; I: Collaboratività il gioco collaborativo favorisce lo sviluppo della capacità di mettersi in relazione con gli altri; L: Aiuto L’aiuto volontario senza attesa di gratificazione è insito nella prosocialità; M: Condivisione La condivisione presuppone un elevato grado di prosocialità, in quanto implica la perdita di qualcosa in nostro possesso senza la contropartita di un guadagno osservabile.

Tabella 2 - Descrizione del programma P.A.P.E.C. (Cellamare, 1999, adattamento da Roche, Salfi, Barbara, 1991).

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Alcuni esempi di Unità Prosociali Per mostrare esempi concreti circa l’applicazione in situazione didattica del curricolo possono essere utilizzate due U.P. elaborate dal gruppo di ricerca autore del P.A.P.E.C. e riferite alle sezioni A e H (Roche- Olivar 1997). Come mostra la Tabella 1, la prima sezione considerata è relativa alla componente “valutare positivamente l’altro”, mentre la sezione H ha come oggetto i “modelli positivi”. Tutte le U.P. elaborate dai ricercatori costituiscono delle proposte di attività/intervento per gli insegnati, che potranno adattarle alla propria situazione e all’ambiente in cui operano, in rapporto alle risorse umane e materiali di cui dispongono e alle specifiche esigenze educativo-didattiche. Per la sezione A, l’U.P. prevede giochi in cui i bambini, guidati dall’insegnante –che assume il ruolo di modello quando l’attività lo richiede- descrivono le qualità osservate in un compagno. Prima di compiere questa operazione occorre però addestrare i partecipanti a vedere e a riconoscere le qualità partendo da oggetti. L’unità didattica si articola quindi in tre segmenti. Il primo, mirato al riconoscimento degli oggetti, propone ai bambini il gioco del « Vedo, vedo...cosa vedo?», che può essere organizzato nel modo seguente: Tempo di svolgimento: 10 minuti. Spazio per l’attività: la sezione (aula). Materiali: blocchi logici e materiali colorati. I.P. (istruzioni prosociali):l’insegnante dispone i materiali al centro di un cerchio formato dai bambini e dà il via al gioco dicendo: «Vedo un pezzo di colore blu, quadrato, piccolo e sottile». Il bambino che pensa di aver individuato l’oggetto si segnala alzando la mano; dopo essere stato invitato dall’insegnante lo prende e lo mostra. L’insegnante quindi chiede ai bambini: «E’ blu?»; ottenuta la risposta affermativa si serve di altre domande per richiamare l’attenzione dei bambini sulle caratteristiche dell’oggetto già enunciate. Esaurite le risposte invita il gruppo ad applaudire il bambino che ha identificato l’oggetto e lo loda.

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Il passo successivo è l’identificazione delle qualità presenti nelle persone attraverso l’attività dal titolo Le qualità di..., che prevede: Tempo di svolgimento: 20 minuti. Spazio per l’attività: la sezione. I.P.: l’insegnante e un bambino si siedono al centro del cerchio formato dal gruppo, quindi l’insegnante chiede agli alunni di dire qualità positive del compagno seduto vicino a lui. Tra le qualità indicate dagli alunni l’insegnate dovrà sottolineare quelle che indicano il possesso di abilità prosociali. Il terzo passo consiste nel favorire il trasferimento della capacità di identificare e descrivere qualità su altre situazioni. Per raggiungere questo obiettivo si organizza l’attività denominata Il murale, condotta secondo le modalità di seguito elencate: Tempo di svolgimento: 20 minuti. Spazio per l’attività: la sezione. Materiali: fotografie, disegni. I.P.: l’insegnate suddivide i materiali, che possono essere stati prodotti dai bambini stessi, in due gruppi, dei quali uno comprenderà immagini piacevoli che mostrano situazioni di gioco, di aiuto ecc., l’altro illustrerà situazioni di molestia o di violenza. I bambini dovranno descrivere le situazioni rappresentate nelle immagini. Per quanto riguarda la sezione H (modelli positivi) viene proposta un’unità prosociale attraverso la quale potenziare la capacità di osservazione, di riconoscimento e di analisi di modelli. L’U.P. è suddivisa in due segmenti. Nel primo l’attività consiste nell’ Analisi di un cartone animato o di un film. Lo spazio per l’attività è anche in questo caso la sezione, ma il tempo di svolgimento non è definito I materiali da proiettare sono scelti tra filmati già noti ai bambini oppure sono selezionati dall’insegnante. Le istruzioni prosociali prevedono che prima della proiezione del filmato il docente spieghi ai bambini cosa dovranno analizzare. Durante la visione egli


propone e stimola commenti sui modelli positivi e negativi, evidenzia le circostanze delle loro azioni e le conseguenze che hanno prodotto. Successivamente, attraverso domande, favorisce e verifica la comprensione delle situazioni proposte e delle dinamiche che regolano lo svolgimento del racconto. In seguito l’insegnate guida l’analisi vera e propria del filmato ponendo domande specifiche (cosa è accaduto a? perché il personaggio ha reagito in tal modo? cosa avrebbe potuto fare per ottenere ciò che voleva?). Successivamente (segmento due) attraverso l’utilizzo del role play, attuato secondo le modalità già descritte, l’insegnante sollecita i bambini a riprodurre modelli di azione prosociale. Conclusioni Le abilità prosociali, pur essendo parte del curricolo implicito di ciascuno, non fanno parte della dotazione genetica di una persona, ma sono il risultato di una serie complessa e articolata di apprendimenti, che investono la totalità dell’individuo e si strutturano a partire dalla prima infanzia nel rapporto con le agenzie educative. La scuola, benché investita della funzione istituzionale di offrire proposte educativo-didattiche intenzionalmente ed esplicitamente organizzate per trasmettere valori, atteggiamenti e condotte prosociali non dovrebbe essere sola a operare in tal senso. A questo processo infatti «dovrebbero contribuire, con la loro influenza sociale, anche altre istituzioni primarie della società, come la famiglia, la comunità e i mezzi di comunicazione» (Roche Olivar, 2002, p.16), la cui azione sarà oggetto di riflessione nel prossimo contributo.

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Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività. Parte terza: eziologia e modelli interpretativi

di Alessia Giangregorio Introduzione Come evidenziato nei precedenti contributi, il DDAI è caratterizzato da due dimensioni psicopatologiche primarie, cui si sommano sintomi secondari dati dall’interazione delle dimensioni primarie stesse (cfr. qtimes, n. 3-4/2010, n. 1/2011). Lo scopo del presente articolo è analizzare a quali fattori è possibile ricondurre le manifestazioni disfunzionali proprie del DDAI. Nel corso del tempo molti studiosi si sono impegnati per offrire dei modelli interpretativi in grado di consentire una migliore analisi e comprensione di un fenomeno la cui diffusione appare sempre maggiore. Negli ultimi anni si sono imposti all’attenzione della comunità scientifica, in particolare, gli studi condotti da Barkley, il cui modello è attualmente il più accreditato a livello internazionale, da Sergeant e da Sonuga-Barke, ciascuno dei quali ha assegnato una diversa rilevanza alle differenti componenti eziologiche. Come per tutti i quadri clinici complessi anche rispetto al DDAI non è possibile fare ri-

ferimento a una causa univoca, ma occorre invece prestare attenzione a un insieme di fattori convergenti. Questi fattori, di carattere neuropsicologico, ereditario e ambientale giocano infatti un ruolo peculiare nel determinare la predisposizione al disturbo e l’espressione dei sintomi correlati. A partire dalla considerazioni di tali variabili numerosi studiosi hanno cercato di offrire un quadro interpretativo del DDAI il più completo possibile, evidenziando la presenza di deficit specifici. Le ipotesi eziologiche Le principali cause del DDAI sono riconducibili a elementi di natura neurobiologica ed ereditaria; tuttavia è bene sottolineare l’importanza che assume l’ambiente in cui il bambino vive e viene educato nel contribuire a determinare la severità del disturbo e l’insorgenza di determinati disordini associati, considerati come i maggiori predittori di rischi evolutivi e di prognosi negative. Analogamente a quanto avviene per altri disturbi psichiatrici è quindi verosimile che i fattori genetici determinino la predisposizione al disturbo, mentre l’attivazione di tale predisposizione può essere sollecitata da variabili ambientali ed educative (cfr. Inglese - Riccioli - Romano, 1998). Ipotesi neuropsicologiche L’ipotesi che alla base del DDAI vi sia un danno neuropsicologico appare, tra le diverse proposte, come la più consistente. Il disturbo sembrerebbe, infatti, causato da un difetto evolutivo nei circuiti cerebrali che sono alla base dell’inibizione e dell’autocontrollo; tale danno pregiudicherebbe anche altre importanti funzioni cerebrali necessarie per il mantenimento dell’attenzione, tra cui la capacità di posticipare le gratificazioni immediate in vista di un successivo e maggiore vantaggio, con ripercussioni facilmente prevedibili sul piano sociorelazionale. Attraverso l’utilizzo di Tecniche di Risonanza Magnetica Nucleare è stato inoltre possibile evidenziare come alcune strutture cerebrali,

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quali il circuito prefontostriatale dell’emisfero destro del cervello (costituito dalla corteccia prefrontale e da due gangli basali, quali il nucleo caudato ed il globo pallido), parte del corpo calloso e il verme del cervelletto (e quindi il lobo frontale addetto alla pianificazione e all’organizzazione del comportamento) dei bambini con DDAI, presentino un volume inferiore rispetto ai soggetti normali del 4-10%; è una differenza che appare significativamente correlata con alterazioni nella capacità di inibire la risposta motoria a stimoli ambientali. Queste informazioni sono molto importanti, in quanto le aree in questione sono deputate alla regolazione dell’attenzione. La corteccia prefrontale destra, infatti, è coinvolta nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé e del tempo. Il nucleo caudato e il globo pallido agiscono interrompendo le risposte automatiche, per consentire una decisione più accurata da parte della corteccia e per coordinare gli impulsi che attraverso i neuroni raggiungono le diverse regioni della corteccia stessa. L’esatto ruolo del verme del cervelletto non è stato ancora chiarito, ma indagini recenti fanno ritenere che abbia a che fare con l’essere più o meno motivati. Un danno a carico del lobo frontale, in quanto determina un’alterazione delle funzioni esecutive, provoca quindi comportamenti caotici, impulsivi e disorganizzati come quelli ravvisabili in soggetti con DDAI (cfr. Fedeli, 2006). Attraverso l’utilizzo di altre metodologie specifiche, quali l’Elettroencefalogramma (EEG) e la Tomografia ad Emissione di Positroni (P.E.T.), si è potuto inoltre osservare come tali regioni del cervello mostrino tempi di attivazione più lenti, a fronte anche di un minor consumo di glucosio - che è la principale fonte di energia del cervello - e richiedano quindi un maggiore apporto di ossigeno per il loro funzionamento. Ma non solo. Gli esami hanno permesso anche di rilevare che da queste regioni partono numerose fibre ner-

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vose che collegano la corteccia cerebrale ad altri organi sottostanti appartenenti al sistema limbico, coinvolto nella modulazione delle emozioni e nella regolazione delle risposte impulsive. Queste fibre hanno un’importante funzione di controllo delle emozioni, della motivazione e della memoria; ciò spiegherebbe quindi le difficoltà di attenzione e di controllo emotivo, l’iperattività, la scarsa motivazione e l’uso inadeguato delle capacità di memoria da parte di questi bambini (cfr. Albanese, 1991; Fiammetti, 2007; Zuddas et al., 2008). Bisogna precisare che le indagini mediche citate, così come altre metodologie adottate, non servono ad accertare la presenza o meno del DDAI, in quanto non mettono in luce evidenti segni clinici di carattere patologico; tali strumenti non sono quindi utili ai fini di una diagnosi, ma hanno consentito comunque di accrescere la conoscenza del disturbo, permettendo ad esempio di poter affermare con certezza l’incidenza consistente di fattori genetici nell’eziologia della malattia (circa il 70%), senza prescindere dall’importanza del contesto socio-culturale nell’andamento della stessa (circa il 30%). Componente genetica Alcuni studi sembrano avvalorare l’ipotesi che i fenomeni fin qui esposti siano imputabili a una disfunzione di alcuni dei geni normalmente attivi durante lo sviluppo della corteccia frontale e dei nuclei della base (strutture, queste ultime, che svolgono importanti funzioni motorie) e attualmente si ritiene che il DDAI sia un disturbo poligenico. Non esiste, infatti, un unico gene coinvolto, ma più geni difettosi che possono determinare problemi nella produzione dei neurotrasmettitori o nella funzionalità dei lobi frontali. Il disturbo tuttavia si manifesta solo quando questi geni interagiscono. La presenza nel soggetto di un solo gene difettoso non è quindi sufficiente al manifestarsi del disturbo. In particolare sono state scoperte delle alterazioni nei geni che codificano il trasportatore della dopamina


(DAT1) e il recettore per la dopamina (DRD4), che determinano quantitativi anomali della dopamina stessa. Il fatto che ci siano tali alterazioni genetiche è molto rilevante, in quanto le aree cerebrali della corteccia frontale e del nucleo caudato sono modulate da due neurotrasmettitori quali, appunto, la dopamina e la noradrenalina. La dopamina, in particolare, è prodotta dai neuroni per inibire o modulare l’attività di altre cellule nervose e soprattutto di quelle coinvolte nell’emozione e nel movimento; è infatti il responsabile chimico della capacità di concentrazione, delle emozioni positive e dei sentimenti di felicità. Nei bambini con DDAI si riscontrano invece livelli di dopamina inferiori rispetto alla norma, caratteristica che potrebbe essere dovuta alla velocità eccessiva con cui i loro neuroni catturano la dopamina presente nello spazio intrapsichico. In altre parole nei soggetti con DDAI i livelli di dopamina e noradrenalina risultano inferiori in quanto queste vengono accumulate troppo velocemente nella regione presinaptica, impedendogli così di passare nella sinapsi. Il processo neurochimico risulta pertanto incompleto; ciò provoca lo sviluppo dei sintomi di disattenzione e soprattutto di impulsività e iperattività, dovuti al fatto che i lobi frontali non riescono a comunicare con le altre strutture del Sistema Nervoso Centrale (SNC) per portare avanti i loro compiti. Per questo motivo, nei casi in cui la severità dei sintomi è tale da richiedere il contenimento farmacologico, si procede alla somministrazione di psicostimolanti - in particolare il Ritalin - che agiscono rallentando l’assorbimento di queste sostanze da parte dei neuroni, così che questi possano compiere tutto il loro percorso senza accumularsi nella regione presinaptica, che dovrebbe invece rimanere sgombra. La condizione indotta dal farmaco determina, di conseguenza, un miglioramento nelle manifestazioni sintomatiche. Bisogna invece considerare che l’attività della dopamina aumenta in modo naturale e automatico (e quindi senza l’ausilio di farmaci) in risposta ad una stimola-

zione mentale o fisica; per questo motivo i soggetti con DDAI riescono a concentrarsi meglio dopo un’attività fisica o in situazioni di emergenza. Sembra infatti che molte persone che operano in servizi di emergenza, come i vigili del fuoco, o che comunque sono impegnate in lavori a rischio, come i motociclisti, soffrano di questo disturbo (cfr. Di Pietro - Bassi - Filoramo, 2001; Zuddas, 2008). La presenza di tali alterazioni genetiche ha portato gli studiosi a compiere numerose ricerche, in base alle quali il DDAI risulta essere in larga parte un disturbo ereditario. Si è infatti constatato come il rischio di sviluppare il deficit sia notevolmente maggiore in soggetti con genitori o fratelli (in particolare se gemelli monozigoti) affetti dalla medesima patologia, con una percentuale di rischio tra il 50% e il 90%. Il DDAI costituisce quindi uno dei disturbi psichiatrici con più elevata ereditabilità (cfr. Vio et al., 2006; Torrioli, 2006). I difetti a livello genetico e della struttura cerebrale osservati in questi soggetti, infine, determinano i comportamenti tipici del disturbo, in quanto agiscono alterando il funzionamento delle funzioni esecutive e comportando quindi la riduzione della capacità di inibire i comportamenti inadeguati e di auto controllarsi. Questo elemento secondo Russell A. Barkley rappresenta il deficit centrale nel disturbo, in quanto compromette la capacità di operare adeguati scambi a livello ambientale ed interpersonale (cfr. Giusti - Lupinacci, 2000), come vedremo più avanti. Fattori ambientali e appresi Se è vero che i fattori genetici possono predisporre al disturbo, è altrettanto vero che la sua attivazione è influenzata anche da fattori ambientali. A questo proposito Barkley distingue tra due fattori eziologici che definisce ambiente condiviso e ambiente non condiviso. Per ambiente condiviso si intendono le variabili sociali, come lo stato socio-economico dei genitori, il clima familiare nel loro insieme, il regime alimentare e, infine, tutte quelle ca-

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ratteristiche comuni ai membri della famiglia. L’espressione ambiente non condiviso indica invece i fattori di natura biologica non ereditari (come le modificazioni fisiologiche posteriori alla nascita) e le modalità interattive caratteristiche tra il genitore e il figlio specifico. Quest’ultima categoria di elementi, in particolare, sembrerebbe incidere sullo sviluppo del disturbo, mentre la prima interverrebbe sul suo mantenimento. Tra i fattori di rischio non genetici che possono essere in qualche modo legati al DDAI rientrano, inoltre: • la nascita prematura, con un’età gestazionale precedente alla 32ª settimana; • il basso peso alla nascita,inferiore ai 2,5 kg; • l’indice Apgar inferiore a 6; • episodi emorragici poco prima, durante o nelle ore immediatamente successive al parto. In merito va evidenziato che tutti i bambini nati pretermine presentano un’emorragia cerebrale anche minima, in particolare quelli con l’Apgar inferiore a 6; • l’uso di alcool e tabacco da parte della madre durante la gravidanza; • problemi di salute della madre durante la gestazione; • l’esistenza di lesioni cerebrali, soprattutto nella corteccia frontale, e di problemi di salute del bambino nei primi anni di vita; • l’esposizione a elevate quantità di piombo nella prima infanzia (cfr. Barkley, 1999; Corbo et al., 2003). Ulteriori fattori ambientali che possono incidere sulle manifestazioni del disturbo sono costituite dalla presenza di: • condizioni socio-economiche svantaggiate; • un basso livello educativo-culturale della madre; • condizioni di stress familiare, tra cui quali alcolismo, depressione, soprattutto materna, personalità antisociale dei genitori; • conflitti nella coppia genitoriale; • alterazioni nelle relazioni genitori-bam-

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bino, con problemi derivanti da un atteggiamento del genitore verso il figlio direttivo e critico, caratterizzato da un’eccessiva rigidità; • assenza di un genitore; • interazioni precoci di carattere iperstimolante e intrusivo; • situazioni di maltrattamento. Per quanto riguarda le componenti apprese, un’influenza determinante è svolta dalle regole domestiche, dalla presenza di un ambiente caotico che non permette di fare una selezione delle informazioni in ingresso, da esperienze di gratificazione della frettolosità nei compiti e nelle risposte, nonché da esperienze negative legate all’aver atteso la gratificazione stessa a lungo o invano. Tali esperienze possono di conseguenza determinare l’acquisizione di uno stile motivazionale orientato alla fretta e all’impulsività (cfr. Masi, 2005). Secondo alcuni ricercatori, infine, si può ipotizzare che la crescita esponenziale dei casi di DDAI negli ultimi decenni sia imputabile all’aumento dei ritmi di vita, generatrice di una sovrastimolazione che incide negativamente sui soggetti già predisposti all’iperattività. Non sono invece state riscontrate sperimentalmente delle connessioni tra DDAI e intolleranze alimentari, allergie ed esposizione alla televisione, benché non manchino posizioni a sostegno di queste tesi. Non tutti i bambini che soffrono di intolleranze alimentari o di allergie, infatti, presentano sintomi di DDAI e viceversa. Per quanto riguarda l’esposizioni alla televisione non ci sono prove circa il fatto che questa possa rappresentare una concausa nell’insorgere del disturbo, ma si è notato che i bambini con DDAI riescono a trascorrere molto tempo davanti alla TV, così come davanti al computer, in quanto, benché si tratti di attività sedentarie, forniscono un’elevata quantità di stimolazione in tempi rapidi. Inoltre la visione di cartoni animati, dalle trame solita-


mente elementari, così come il giocare con i videogiochi, non richiede un grande impegno né uno sforzo attentivo prolungato. L’esposizione protratta nel tempo alla TV, quindi, non è più considerata, come in passato, un fattore causale, ma si tende a interpretarla prevalentemente come una conseguenza del disturbo (cfr. Vio - Mazzocchi - Offredi, 2006). Modelli interpretativi del DDAI Nella letteratura internazionale dagli anni Settanta a oggi è possibile riscontrare la presenza di molteplici modelli interpretativi che cercano di spiegare il complesso intreccio di pattern che intervengono nel causare i deficit cognitivi e comportamentali riscontrabili nel DDAI. Tra questi rientrano anche il modello di Still, che vede la causa del disturbo in un deficit del controllo morale e nella mancanza di volizione, oppure le posizioni che mettono l’accento sulla presenza di un non meglio precisato Danno Cerebrale Minimo. Si tratta di argomentazioni che hanno rivestito una grande importanza in quanto hanno costituito i presupposti per il progresso delle ricerche, ma che appaiono ormai da molto tempo superate e sulle quali pertanto non appare opportuno soffermarsi. È invece interessante analizzare, in via introduttiva e sintetica, alcuni modelli teorici sviluppati tra gli anni ’70 e gli anni ’90, quali quelli proposti dai già citati Barkley, Sergeant e Sonuga-Barke. Il modello cognitivo-comportamentale di Russell A. Barkley A Russell A. Barkley si deve lo sviluppo nel 1997 del modello cognitivo-comportamentale, che è ancora oggi il riferimento teorico più accreditato a livello internazionale per l’analisi e comprensione del DDAI. L’autore pone l’accento sulla presenza di un deficit nell’inibizione che si manifesta a 360°, investendo ogni contesto di vita, determinando non solo un disturbo dell’attenzione e del comportamento, ma anche un danno a livello delle funzioni esecutive, definite come «processi neuropsi-

cologici che permettono o facilitano l’autoregolazione umana, portando il comportamento sotto l’influenza del tempo (passato come confronto e futuro come progettazione)» (Inglese - Riccioli - Romano, 1998, p. 139). Tale danno si riflette nelle manifestazioni comportamentali caratteristiche del disturbo stesso, come ad esempio la mancanza di auto-controllo e di organizzazione del comportamento. In particolare, Barkley ritiene che il deficit nell’inibizione del comportamento abbia origine da fattori genetici e dallo sviluppo neurologico piuttosto che da componenti puramente sociali, i quali ne influenzano tuttavia l’espressione (cfr. Usai, 2005). Questo approccio assegna quindi un ruolo fondamentale all’inibizione comportamentale, in quanto permetterebbe di: bloccare le risposte che richiedono un rinforzo immediato; far cessare le risposte che il soggetto attiva automaticamente in ogni circostanza; ritardare la risposta stessa; limitare l’interferenza di altri eventi. Tramite la posposizione delle risposte automatiche si viene a creare uno spazio di latenza tra stimolo e risposta che consente l’attivazione di funzioni esecutive quali la memoria di lavoro, la regolazione delle emozioni/ motivazioni/arousal, il discorso interiore e l’analisi-sintesi delle situazioni, che consentono di autoregolare il comportamento sulla base di rappresentazioni interne, così da poter massimizzare le conseguenze a lungo termine rispetto a quelle immediate. È pertanto opportuno soffermarsi a precisare il ruolo svolto dalle funzioni esecutive per chiarire l’alterazione indotta dalla presenza del deficit nell’inibizione comportamentale. La memoria di lavoro è coinvolta in ogni aspetto di pensiero e di problem-solving; interviene in tutte le situazioni in cui è necessario trattenere le informazioni per portare a termine un compito e permette alla mente di concentrarsi su un problema particolare per provare a risolverlo (ad esempio leggere e tenere a mente ciò che si legge, sostenere una conversazione, suonare). Questa memoria è

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anche di importanza centrale nel fornire al comportamento tempestività e orientamento in vista di uno scopo, in quanto consente di effettuare processi di retrospezione, previsione e pianificazione. Può quindi essere definita, in termini generali, come il “ricordarsi come si fa”, attraverso la creazione di un collegamento tra i fatti contingenti e le conoscenze ed esperienze pregresse, così da poter giungere effettivamente alla soluzione del problema; il suo funzionamento è pertanto influenzato dalla memoria a lungo termine. Nei bambini con DDAI il deficit della memoria di lavoro determina una diminuzione del senso del tempo, ossia una difficoltà a organizzare nel tempo il proprio comportamento, soprattutto se non è possibile ottenere immediatamente ricompense o premi. Questi soggetti manifestano, inoltre, difficoltà nel conservare il ricordo degli eventi e una riduzione della capacità di retrospezione e di previsione, in quanto nell’affrontare un compito complesso non riescono a ritenere le istruzioni che gli vengono fornite e a ricordare nella sequenza corretta i passi che è necessario compiere nello svolgimento del compito stesso (Giusti - Lupinacci, 2000). Per quanto riguarda la regolazione delle emozioni/motivazioni/arousal, l’inibizione delle risposte impulsive immediate determina anche l’inibizione delle iniziali risposte emotive a queste legate. Ciò consente di ritardare le manifestazioni comportamentali ed emotive, permettendo di attuare condotte auto-dirette che modifichino la risposta all’evento. Poiché le emozioni comportano un arousal fisiologico e uno stato motivazionale, secondo Barkley il deficit nell’autoregolazione delle emozioni determina anche un deficit nell’autoregolazione di questi aspetti, che rivestono un ruolo fondamentale nel processo di regolazione perché attivano l’input necessario a iniziare e perseguire un comportamento finalizzato. La mancanza di regolazione degli impulsi fa sì, ad esempio, che molti soggetti con DDAI incontrino difficoltà durante la prima infanzia nell’acquisire il controllo degli

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sfinteri, oppure si dimostrano estremamente voraci nell’accostarsi al cibo. In questi bambini il danno a tale livello determina inoltre l’esibizione pubblica di tutte le proprie emozioni, nell’incapacità di operare censure e di comprendere l’opportunità o meno di manifestare gli stati emotivi con appropriatezza. Tendono altresì a mostrare una maggiore reattività emozionale a situazioni sgradevoli e a sperimentare maggiormente affetti negativi, esprimendone gli indicatori comportamentali caratteristici. In particolare, secondo Barkley, i soggetti in questiona legano le loro motivazioni e spinte più a situazioni contingenti che a progetti pensati (cfr. Barkley, 1999). L’inibizione comportamentale permette anche l’interiorizzazione del linguaggio, che rende possibile il comunicare con gli altri ma anche con se stessi, determinando la capacità di riflessione, la costruzione di regole che guidino il comportamento, la pianificazione delle azioni e l’autocontrollo. Dal punto di vista evolutivo questa funzione è inizialmente svolta in modo esterno (ad esempio i bambini piccoli parlano tra sè ad alta voce per richiamare alla mente un compito), per poi essere interiorizzata tra i 4 e i 6 anni a mano a mano che avviene lo sviluppo del sistema nervoso centrale, dando così luogo al discorso autodiretto. I bambini con DDAI, invece, non raggiungono queste capacità a causa del deficit dell’inibizione comportamentale, che implica una minore disponibilità del tempo a disposizione per la riflessione interiore; di conseguenza si hanno eccessi nelle verbalizzazioni, così come nella manifestazione dei comportamenti, con una marcata tendenza a parlare troppo, una minore riflessione prima dell’azione e un linguaggio autodiretto meno elaborato e meno orientato da regole; ne consegue che l’influsso del linguaggio nel controllo del comportamento viene inficiato (cfr. Barkley, 1999). L’analisi e sintesi delle situazioni (o ricostruzione), infine, rappresenta la capacità di scomporre le condotte osservate nelle loro componenti per poi ricombinarle in nuovi


comportamenti tesi a uno scopo e operare quindi delle generalizzazioni. Tale capacità è ovviamente favorita dall’inibizione comportamentale, che crea uno spazio all’interno del quale è possibile operare questa scomposizione e la successiva ricomposizione delle unità comportamentali, costruendo nuove sequenze di azione attraverso la sintesi di elementi noti, un processo fondamentale nella soluzione dei problemi. I soggetti con DDAI hanno una limitata capacità di esaminare i propri comportamenti e di elaborarne di nuovi; ciò porta alla perseverazione e all’incapacità di risolvere i problemi, perché, non essendo in grado di analizzarne le diverse componenti, non riescono a riorganizzarli in una strategia funzionale alla risoluzione della situazione in oggetto; continuano pertanto ad adottare un medesimo schema in circostanze differenti, a prescindere dall’esito dell’azione. Le funzioni esecutive rivestono quindi un ruolo centrale, in quanto permettono di inibire schemi comportamentali istintivi e di modulare e verificare l’attività attraverso la capacità sia di retrospezione e previsione sia di controllo delle emozioni e della motivazione; da questo dipende la capacità di impegnarsi nelle attività senza distrarsi e compiendo tutti i passaggi necessari per realizzare gli obiettivi prefissati. Le funzioni esecutive rendono quindi possibile lo sviluppo dell’autoregolazione, che appare carente nei bambini con DDAI. Questi soggetti, infatti, hanno grande difficoltà nel regolare:

• il processo di pianificazione e soluzione dei problemi (problem solving); • il livello di autostima (la considerazione di sé si pone sui due estremi “sono bravissimo”/ “non so fare nulla”); • il comportamento nelle interazioni adeguandosi al rispetto delle norme sociali; • il comportamento motorio (soprattutto in presenza di iperattività); • la tendenza a rispondere in modo impulsivo; • la capacità di rispondere positivamente ad alcune emozioni (ad esempio di fronte a rabbia o a frustrazione); • il livello di motivazione e l’impegno; • la capacità di concentrazione e attenzione sostenuta (cfr. Giusti - Lupinacci, 2000). Le funzioni esecutive, pertanto, ricoprono un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo, basti pensare, ad esempio, che consentono di pianificare un obiettivo senza dover memorizzare ogni volta tutte le fasi necessarie per raggiungerlo; la presenza di alterazioni a questo livello disturba quindi l’interazione con l’ambiente e comporta difficoltà relazionali. Il danno dell’inibizione comportamentale presente nei bambini con DDAI impedisce pertanto il corretto esercizio delle quattro funzioni presentate, limitando di conseguenza le capacità auto-regolative e determinando un’alterazione nell’organizzazione, nella predizione e nel controllo del comportamento.

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Concludendo, è necessario sottolineare che l’approccio di Barkley non è applicabile a quei soggetti che non presentano iperattività e che rientrano perciò nel sottotipo con disattenzione predominante. Tale modello postula inoltre la necessità di un intervento di tipo cognitivo-comportamentale sul bambino, coadiuvato dalla predisposizione di un percorso per i genitori (Parent Training) e dalla realizzazione di apposite strategie e attività in contesto scolastico. Sostiene quindi la necessità di un’azione educativa integrata, condotta in un’ottica di rete (cfr. Barkley, 1999). Il modello energetico-cognitivo di Joseph Sergeant Il modello energetico-cognitivo è stato sviluppato da Joseph Sergeant e dai sui collaboratori negli anni ‘90 e, come il modello di Barkley, punta l’attenzione prevalentemente sugli aspetti cognitivi. Secondo questa impostazione nel DDAI si assisterebbe alla presenza di un danno in tre livelli cognitivi organizzati gerarchicamente: • il livello sovraordinato è quello del sistema di controllo, che coordina le azioni ed è sede delle funzioni esecutive, identificato da Sergeant con la rappresentazione mentale del compito, la pianificazione, il monitoraggio, l’inibizione, il deferimento di una risposta e l’individuazione e correzione degli errori; • il livello dei meccanismi energetici di sforzo/attivazione, costituiti da tre pool, ossia dallo sforzo (che mette a disposizione del soggetto l’energia necessaria per svolgere un compito), dall’arousal (che rappresenta l’energia necessaria per fornire risposte rapide) e dall’attivazione (ossia l’energia necessaria per mantenere la vigilanza). Questo livello è influenzato dallo stato di allerta, dalla fatica o dalla mancanza di sonno e dall’intervallo tra gli stimoli. In particolare nei bambini con DDAI le performance diminuiscono quando intercorre un intervallo di tempo prolungato tra gli

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stimoli, e quindi tra l’avvio dell’azione e l’obiettivo, a causa di un’alterazione della capacità di regolare lo sforzo in base alle richieste; • il livello dei meccanismi di elaborazione ed esecuzione della risposta, quali la decodifica, la processazione e la risposta motoria. Anche secondo la concettualizzazione energetico-cognitiva, quindi, il DDAI sarebbe caratterizzato da un deficit del controllo inibitorio, benché non sia chiaro quali processi siano compromessi e quali risultino invece intatti (cfr. Fedeli, 2008). Il modello a “due vie” di Edmund Sonuga-Barke Quello elaborato da Sonuga-Barke nel 1992 è un modello interpretativo di tipo prevalentemente motivazionale, che mette insieme gli elementi della disinibizione e dell’attesa della gratificazione. Si parla in questo caso di modello “a due vie”, in quanto da un lato il DDAI viene considerato come un disordine della regolazione del pensiero e dell’azione e dall’altro come uno stile motivazionale con caratteristiche cognitive acquisite. Per questa impostazione i sintomi del DDAI non costituiscono tanto l’espressione di un alterazione del sistema inibitorio, quanto piuttosto l’espressione funzionale di uno stile motivazionale, per cui il bambino, potendo scegliere, ricerca una gratificazione immediata a scapito dell’attesa. Nei casi in cui non sia invece possibile evitare la posticipazione della gratificazione, questi soggetti tendono ad attuare dei comportamenti finalizzati a ridurre la percezione del tempo di attesa, come ad esempio muoversi o distrarsi. Nell’interpretazione di Sonuga-Barke, quindi, il comportamento disattento, impulsivo e iperattivo costituirebbe l’espressione funzionale della ricerca di soddisfazione immediata - indipendentemente dal fatto che questa sia superiore a quella che si riceverebbe aspettando - e di eliminazione dei tempi di attesa, collegate a una differente percezione della gratificazione


e del tempo. Rispetto al fattore tempo, in particolare, nei bambini DDAI si riscontra una notevole variabilità intra-individuale nell’organizzazione temporale delle attività motorie, che determinerebbe l’alterazione nella sincronizzazione senso-motoria. Tale situazione sarebbe attribuibile all’assenza di strategie funzionali alla posticipazione della gratificazione più che alla sensibilità nei confronti della ricompensa in sé, una tendenza molto forte correlata con i sintomi del DDAI. L’integrazione di fattori sia di carattere cognitivo sia di stampo motivazionale nell’interpretazione del disturbo, fa sì che la proposta di Sonuga-Barke, sebbene non sia la più nota, appaia comunque maggiormente completa rispetto alle altre (cfr. Nigg et al., 2006). Conclusione L’articolazione e complessità del DDAI non emerge solo dall’esame della sintomatologia, principale o secondaria, a questo associata, ma anche dall’approfondimento dei molteplici fattori che contribuiscono alla sua eziopatogenesi. È inoltre emerso come i diversi modelli interpretativi differiscano rispetto all’enfasi posta sugli aspetti eziologici (cognitivi o motivazionali), pur mostrando numerosi punti di contatto. Tali modelli, che non si autoescludono, offrono pertanto numerosi spunti di riflessione non solo rispetto la pratica terapeutica, ma anche riguardo la predisposizione di percorsi educativi che, a partire proprio da una maggiore comprensione del disturbo, sostengano il soggetto con DDAI e coloro che interagiscono con lui nei diversi contesti di vita, al fine di promuoverne l’adattamento e l’integrazione. Riferimenti Bibliografici: ALBANESE A., I gangli motori e i disturbi del movimento, Padova, PICCIN, 1991; BARKLEY A. R., Deficit di attenzione e iperattività, in “Le Scienze” 21(1999)365, 71-77; CORBO S. et al. (a cura di), Il bambino iperattivo e disattento. Come riconoscerlo ed intervenire per aiu-

tarlo, Roma, Franco Angeli, 2003; DI PIETRO M. - BASSI E. - FILORAMO G., L’alunno iperattivo in classe. Problemi di comportamento e strategie educative, Trento, Erickson, 2001; FEDELI D., La sindrome di Pierino. Il controllo dell’iperattività, Firenze, Giunti, 2006. FEDELI D., Il deficit d’attenzione con iperattività, in COTTINI L. - ROSATI L. (a cura di), Per una didattica speciale di qualità. Dalla conoscenza del deficit all’intervento inclusivo, Perugia, Morlacchi Editore 2008, 173-194; FIAMMETTI R., Il linguaggio emozionale del corpo, Roma, Edizioni Mediterranee, 2007; GIUSTI L. - LUPINACCI L., Il disturbo dell’iperattività. ADHD. Trattamenti dell’impulsività e della disattenzione nello sviluppo “ Quaderni A.S.P.I.C.”, Roma, A.S.P.I.C., 2000; INGLESE R. - RICCIOLI E. - ROMANO F., Disturbo sa deficit di attenzione e iperattività, in “Psicologia Psicoterapia e Salute” 4(1998)2-3, 129-144; MASI G., Seminario ADHD e patologie correlate. Firenze 19/04/2004, in “A.I.D.A.I. Newsletter” 20(2005)1, 1-9; NIGG J. T. - HINSHAW S. P. - HUANG-POLLOCK C., Disorders of Attention and Impulse Regulation, in CICCHETTI D. - CHOEN D. J. (a cura di), “Developmental Psychopathology”, Chichester, John Wiley & Sons 2006, 358-403; TORRIOLI Maria G., Il Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività, in FUNDARÒ C. (a cura di), “La pediatra… entra in classe”, Strumenti/Medicina/Contributi, Milano, Vita e Pensiero, 2006, 236-244; USAI M. C., Deficit di controllo del comportamento, in ZANOBINI Mirella - USAI M. C., “Psicologia della disabilità e della riabilitazione. I soggetti, le relazioni, i contesti in prospettiva evolutiva”, Roma, Franco Angeli, 2005, 153-168; VIO C. - MARZOCCHI G. M. - OFFREDI F., Il bambino con deficit di attenzione/iperattività. Diagnosi psicologica e formazione dei genitori, Trento, Erickson 2006; ZUDDAS A. - LECCA L. - PUDDU Carmen, Neurobiologia dell’ADHD, in CAMPOLONGO F. (a cura di), “La testa altrove. Indagine sul Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività ADHD (Attentino Deficit and Hyperactivity Disorder)”, Trento, IPRASE del Trentino, 2008, 43-62.

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Aggressione, violenza, abuso. La risposta della pedagogia dell’emergenza. Parte prima: i fattori umani e situazionali

di Francesca Giangregorio Introduzione L’attenzione per il moltiplicarsi di fatti di cronaca che hanno come epicentro la violenza verso altri, che per le loro caratteristiche personali o sociali assurgono al ruolo di vittime, non sempre si traduce in riflessioni che preludono ad azioni costruttive, capaci di produrre l’effettiva modificazione di un esistente, dato dal ripetersi di azioni criminose, che allarma e preoccupa. Il disorientamento e la costernazione che derivano dalla sensazione di una diffusa tendenza alla prevaricazione e alla sopraffazione sembra portare verso una considerazione indifferenziata delle molte forme di violazione dell’integrità e della dignità della persona che possono verificarsi. È una possibilità che merita attenta considerazione, poiché potrebbe scaturirne una confusione dai risvolti sociali preoccupanti, soprattutto verso quelle manifestazioni violente che ancora oggi impattano sul “comune senso del pudore”, come i reati a sfondo sessuale, ai quali non sempre si associa con sufficiente energia la parola crimine. Ogni azione criminosa è una transazione che, seppure nella sua brutalità e disfunzionalità,

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definisce inequivocabilmente «chi è il criminale e chi è la vittima. Si può operare una distinzione tra queste due categorie solo dopo la realizzazione di un’azione contraria all’ordine stabilito. Ciò significa che il criminale e la vittima non rappresentano realtà ontologiche dell’individuo, ma solo appellativi derivanti dal particolare precipitarsi degli eventi. Così una vittima designata può trovarsi a commettere un omicidio, oppure uno stesso individuo può trovarsi ad essere al tempo stesso autore e vittima di un reato» (Strano, 2003, p. 99) La violenza, intesa come violenza sessuale ma anche nella sua accezione più ampia, oltre a costituire una ferita nel presente, può infatti condizionare negativamente e forse irreversibilmente il futuro di chi l’ha subita. Il progressivo allontanamento cronologico dal momento in cui il fatto è avvenuto non ha affatto un potere lenitivo, come a volte si tende ingenuamente a pensare, ma può invece costituire un legame, negativo o coercitivo, con il passato. La forza distruttiva del trauma risiede proprio nella frantumazione del Sé e delle relazioni che il soggetto intrattiene con l’ambiente esterno. La reazione traumatica -caratterizzata da un senso di impotenza pressoché assoluto, dalla perdita del controllo e dalla mancanza di fonti di protezione - insorge quindi nel momento in cui non sono possibili né la fuga né la reazione. Di qui l’importanza di un’educazione che promuova la capacità di strutturare se stessi come agenti di tutela e salvaguardia, evitando così l’alterazione degli stati di coscienza tipica di queste situazioni di rischio. In questo senso la pedagogia dell’emergenza si propone come una struttura di pensiero che ha lo scopo di rompere il cerchio della violenza, nel suo triplice carattere psicologico, fisico e temporale. L’organizzarsi di una tale pedagogia è affidato in prima istanza alla descrizione di un quadro definitorio dei fattori umani e situazioni che costituiscono l’azione stessa, che sono oggetto della presente trattazione, per poi procedere all’individuazione delle convinzioni di senso


comune rispetto al fenomeno della violenza, all’analisi dell’alfabetizzazione affettiva e dei dinamismi che le animano e alla proposta di un modello di counseling. La possibilità di comprendere un fenomeno complesso e di alto impatto emotivo quale quello della violenza, e in particolare dell’atto sessuale imposto con la forza, necessita di un chiarimento terminologico che, rendendone evidenti le caratteristiche, costituisca la premessa sulla quale impostare la progettazione di percorsi educativi a sostegno della persona. Un chiarimento terminologico Stupro, aggressione e abuso non sono sinonimi; al contrario designano modalità e forme diverse di violenza accomunate, dal deflagrante potere che hanno sulla persona nella sua totalità. La parola stupro identifica un atto sessuale imposto con la violenza o qualunque altra forma di azione violenta a sfondo sessuale. Il vocabolo deriva dal latino stuprum, onta o disonore; è originato dalla radice stup che ha il significato di battere e colpire l’immaginazione, da cui deriva anche la parola stupire, «che rende ragione dello stato stuporoso da shock delle vittime, oltre che della difficoltà di reagire efficacemente». Dal sostantivo, attraverso l’aggiunta del suffisso or, si genera il termine stupratore, che definisce un individuo avente «autonomia di soggetto rispetto all’azione stuprare la cui transitività implica l’esistenza autonoma di un oggetto». Da quanto detto emerge come il lemma in esame contenga «la brutalità, la contaminazione, l’offesa al Sé e al sentimento sociale» (Nizzoli - Pissacroia, 2002, p. 1455) e identifichi lo stupratore attribuendogli uno status contrapposto allo stuprato. L’aggressione è una forma di interazione segnatamente negativa, dove si ha «uno scontro all’interno di un rapporto di tensione personale tra un reo e una vittima» (Bisi,, 2006, p. 101) e «la vittima spesso diventa tale perché sottovaluta il potenziale offensivo dell’aggressore» (Strano, 2003, p. 104). L’esito della

situazione problematica dipende quindi dalla capacità della potenziale vittima di valutare il contesto, sia ambientale sia psicologico, di reagire e soprattutto di reagire efficacemente. L’abuso, per le sue caratteristiche di restrizione della libertà personale, di reificazione e di spersonalizzazione dell’individuo, può essere equiparato al sequestro. La vittima infatti diviene ostaggio dell’aggressore e dei propri stati interni, quali la paura e il panico, poiché, esattamente come l’ostaggio, è una merce che non ha un valore intrinseco, ma ha il valore che gli viene attribuito dall’abusante e che persiste fin quando è funzionale al raggiungimento di uno scopo da questi definito. Tale condizione spiega dell’insorgere della Sindrome di Stoccolma, della quale si parlerà in seguito, proprio nei casi di abuso sessuale reiterato. Definire i termini tuttavia non chiarisce le motivazioni che possono spingere all’aggressione sessuale e sostenerla. Le motivazioni dell’aggressione sessuale Quando si parla della rabbia come del sentimento che supporta un’azione violenta - e in particolare l’abuso - si fa sostanzialmente riferimento a quattro macro tipologie di motivazioni all’aggressione sessuale, che derivano dalla rabbia stessa: l’ira, la dominazione, il sadismo, l’opportunismo. L’ira, spesso impulsiva e non premeditata, produce una violenza brutale che ha la funzione di riversare all’esterno odio, frustrazione, disprezzo, collera. Per questo la forza usata dall’offender per portare a compimento la sua azione aggressiva è molto maggiore di quella necessaria per sopraffare la vittima. L’atto sessuale e lo stupro sono il mezzo attraverso il quale è possibile avvilire, degradare e danneggiare una persona, ovvero un bersaglio che molto spesso assume una funzione simbolica e quindi sostitutiva del reale oggetto di interesse. Lo stato di appagamento o di sollievo derivante dall’aggressione, pertanto, non è connesso al piacere sessuale in sé quanto alla liberazione della rabbia.

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La caratteristica della premeditazione, che non sempre accompagna la rabbia, è invece tipica della dominazione. Questa prevede un’aggressione premeditata, nella quale l’uso della forza è commisurato all’intento di sopraffare e controllare la vittima nell’ambito di una situazione in cui non sono possibili vie di fuga. L’impossibilità di fuggire corrobora infatti nell’aggressore la sensazione rassicurante della potenza e del dominio, contrastando le tendenze di senso contrario dell’impotenza e della vulnerabilità. In genere, l’attacco derivante dalla motivazione di dominazione è preceduto da fantasie di tipo ossessivo circa il bisogno da parte della vittima di essere brutalizzata e la riconoscenza che quest’ultima, nonostante le iniziali resistenze, può accordare all’abusante a seguito dell’aggressione. Anche nel sadismo l’attacco è deliberato e premeditato. Rabbia e dominazione vengono sessualizzati e l’aggressore trae piacere dall’abuso; si ha quindi un’erotizzazione della violenza attraverso l’atto sessuale. L’opportunismo, infine, è connesso al verificarsi della condizioni di possibilità di dare corso all’azione violenta contro la vittima designata. Chi assiste o ha notizia di un atto violento, compiuto spesso da persone insospettabili, si chiede non solo per quale ragione un individuo abbia compiuto tale deplorevole azione, ma anche perché abbia scelto come vittima della propria violenza quella data persona e come sia riuscito ad attrarla nella situazione di abuso, mantenendola a volte anche per lungo tempo. La scelta della vittima e i metodi di approccio La scelta della vittima risponde a due fattori fondamentali: da un lato alle caratteristiche interne dell’aggressore e dall’altro alla tipologia dei luoghi, alla disponibilità e alla prossimità della vittima stessa. Nella maggioranza dei casi l’aspetto fisico delle vittime incide in maniera marginale nel processo di selezione; tuttavia questo elemento può assumere rilevanza nel momento in

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cui è investito di un significato simbolico e lo stupro diviene l’espressione di un sentimento di rabbia sostitutiva (cfr. Montuschi, 2002). Generalmente l’aggressore opera una razionalizzazione della vittima, ovvero la ricerca di una motivazione ritenuta accettabile che renda ragione e giustifichi la condotta intrapresa. Questa operazione è funzionale alla riduzione del senso di colpa e di qualunque altra forma di inibizione ed è attuata ricorrendo a due ordini di meccanismi psicologici: • la colpevolizzazione della vittima, che implica la negazione della stessa e la contemporanea negazione della propria responsabilità; • la legittimazione culturale, concernente la percezione del mancato riconoscimento da parte della società del ruolo di vittima (vittimizzazione sociale). Tale condizione rende agli occhi dell’aggressore la vittima stessa inoffensiva, in quanto la priva del diritto di essere difesa e dunque della facoltà di esercitare la propria capacità discrezionale; questi sono i motivi per cui può essere ridotta al silenzio. I metodi di approccio alla vittima, connessi sia alle abilità sociali dell’aggressore sia alla situazione contingente, sono diversificati ma riconducibili sostanzialmente a tre tipologie: inganno, attacco improvviso e sorpresa. Nello specifico si può dire che: • l’inganno è finalizzato ad ottenere la fiducia e/o l’ammirazione della vittima attraverso comportami di aiuto e di rassicurazione, così da creare le condizioni per esercitare la propria violenza; • l’attacco improvviso è basato tanto sull’uso di movimenti rapidi e premeditati, sulla forza fisica, spesso accompagnata all’impiego di armi da taglio, quanto sulle minacce verbali volte ad incutere terrore; • la sorpresa è utilizzata quando l’aggressore non ha l’assoluta certezza di poter soggiogare facilmente la vittima.


Quanto affermato fin qui delinea, seppure per sommi capi, la cornice entro cui può svilupparsi l’azione aggressiva e le motivazioni che la possono originare, ma non chiarisce quali sono o possono essere i profili psicologici dei protagonisti della situazione violenta, ovvero la vittima e l’aggressore. La psicologia della vittima Con la parola vittima si identifica qualunque persona che, a prescindere dall’età, dalla condizione sociale e dal sesso, soggiace a maltrattamenti o danni fisici, mentali, morali, affettivoemotivi e materiali, vivendo una condizione di violazione del valore ontologico dell’identità e dell’integrità personale. In particolare, nel caso dell’abuso sessuale la vittima esperisce la condizione di essere il bersaglio e il testimone dell’abuso stesso. Questo duplice vissuto, connesso all’atto fisico, alla violenza psicologica e allo stato di sopravvissuto, rende la vittimizzazione sessuale un evento intrusivo, scaturito dall’interiorizzazione di vissuti negativi legati sia alla prefigurazione della morte sia alla per-

dita di controllo del proprio corpo, della propria libertà, della propria identità; il senso di sicurezza, così come l’autostima, viene distrutto. Ciò che si produce è quindi un danno esistenziale, ovvero un “insieme di ripercussioni relazionali negative incidenti sulle condizioni di vita e sulla qualità dell’esistenza” (Bisi, 2006, p. 101); in definitiva, è quindi possibile affermare che la vittima è la persona che vive un danno esistenziale. La probabilità o possibilità che il singolo ha “di diventare vittima di un crimine […] non è ugualmente distribuita tra gli individui poiché certe persone sembrerebbero maggiormente vulnerabili a subire un reato” (Strano, 2003, p. 99); di qui la distinzione tra fattori vittimologici innati o genetici, connessi alle caratteristiche oggettive, e non solo fisiche, della vittima designata, e fattori vittimologici acquisiti, legati invece alle circostanze o alle peculiarità psico-sociali delle possibili vittime. Questa differenziazione, lungi dal voler colpevolizzare la vittima, evidenzia come l’azione aggressiva sia generata da una molteplicità di

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fattori che sono in qualche modo interrelati con i tratti di personalità dell’offender e che esulano dalle dinamiche di un determinismo lineare. Secondo Sparks (cfr. Strano, 2003), un individuo può contribuire in vari modi e con vari gradi di consapevolezza alla propria vittimizzazione attraverso l’adozione di particolari dinamiche comportamentali, quali: • la precipitazione, in cui il comportamento dell’aggressore è fortemente incoraggiato dalle azioni messe in atto dalla vittima. È opportuno sottolineare che in questo caso si è in presenza di vissuti emotivi autopunitivi soggiacenti alla vittima stessa, come il bisogno di espiare il senso di colpa; • la facilitazione, nella quale la vittima, per negligenza o inconsciamente, si espone al rischio; • la vulnerabilità, che è influenzata da fattori fisici, comportamentali e psico-sociali; • l’opportunità, condizione che si verifica quando o laddove la vittima costituisce un bersaglio di facile portata; • l’attrattività, inerente il possesso da parte della vittima di qualità che costituiscono e che sollecitano l’attenzione e l’interesse dell’aggressore. Benché non sia difficile immaginare che la violenza, nelle sue diverse forme, porti uno sconvolgimento nella vita della vittima, le conseguenze che l’atto subito portano sono per lo più ignote alle persone con cui questa vive o interagisce. Tale mancanza di conoscenza può essere il motivo per cui nell’immaginario collettivo permangono convinzioni su come aiutare l’abusato o sui percorsi di superamento del trauma che, seppure improntati a una lodevole volontà di aiutare, di fatto possono contribuire a mantenere –quando non alimentare- lo stato di sofferenza. Le conseguenze dell’atto violento Le conseguenze della brutalizzazione presentano una sintomatologia che, pur differenziandosi in base alla risonanza interna che i danni fisici e psicologici provocano sul singolo in-

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dividuo, è riconducibile alla Rape Trauma Syndrome. Questo disturbo, che costituisce di per sé una modalità reattiva, prevede tre fasi di sviluppo: la fase acuta o disorganizzazione, la fase dell’aggiustamento esteriore e la fase di risoluzione. La fase acuta ha inizio con l’attacco da parte dell’aggressore, ma può non manifestarsi completamente prima di un iniziale rivelazione dell’accaduto; in questo lasso di tempo l’instabilità emotiva della vittima è espressa attraverso una varietà di comportamenti, spesso incongruenti, riconducibile sostanzialmente a tre macro-categorie: i comportamenti manifesti, in cui si ha l’espressione palese degli stati emotivi interni attraverso pianto, rabbia, ansia, elevata reattività; i comportamenti controllati, caratterizzati dall’assenza di emozioni (qui lo stato di calma è solo apparente ed è connesso allo shock); la Shocked Disbelief, (shoccata incredulità), nella quale si ha un forte disorientamento cognitivo, contraddistinto da un lato dalla difficoltà di credere che l’aggressione sia avvenuta realmente e dalla scarsa capacità di ricordare e di prendere decisioni, e dall’altro dalla paura di impazzire o di essere percepito come pazzo. Non è infrequente che mentre si sta consumando l’azione violenta, l’abusato focalizzi la propria attenzione sui dettagli fisici dell’offender o dell’ambiente circostante al fine di distanziarsi psicologicamente da ciò che sta accadendo. Nella fase acuta, il ritiro sulle attività routinarie costituisce un tentativo emozionale di recuperare il controllo sugli eventi e di soddisfare il bisogno di sicurezza venuto meno con l’aggressione. Nella successiva fase dell’aggiustamento esteriore, l’insorgenza dei meccanismi di difesa produce un apparente superamento o risoluzione dell’esperienza traumatica. Il processo di razionalizzazione soggiacente, evidenziato dalla ripresa delle normali attività quotidiane protratte spesso fino all’abnegazione, è reso possibile dall’adozione delle strategie di coping, quali:


• la minimizzazione, per effetto della quale si attribuisce scarso valore a un evento; • la drammatizzazione, ovvero un’amplificazione della sgradevolezza del vissuto negativo o del pericolo,(1) che rende l’attacco subito un fattore dominate la propria vita e la propria identità (cfr. Van-Rillaer, 2005); • la rimozione, cioè l’allontanamento dalla propria coscienza di desideri, emozioni, pensieri disturbanti o dolorosi (cfr. Bartoli - Bonaiuto, 2001) • la fuga, caratterizzata dal tentativo di sfuggire il dolore attraverso l’emissione di un elevato numero di comportamenti finalizzati al cambiamento degli assetti lavorativi, fisici e relazionali antecedenti la violenza. Il manifestarsi di un determinato tipo di meccanismo difensivo dipende dalla personalità del singolo e dalle condizioni psicologiche pretraumatiche. Questo stadio di sviluppo della Rape Trauma Syndrome è particolarmente critico poiché la rabbia da eterodiretta può divenire autodiretta, incrementando il senso di colpa e di vulnerabilità, anche a seguito della verbalizzazione che esporrebbe la vittima alle considerazioni o alle opinioni di terzi. La terza e ultima fase, definita fase di risoluzione, comporta il confronto con la realtà della vittimizzazione: l’assalto viene riconosciuto nella sua brutalità ma cessa di essere il fattore organizzativo dell’esistenza. è questo il momento in cui hanno luogo l’accettazione e l’attribuzione del significo a quanto accaduto. La Rape Trauma Syndrome è assimilabile al Disturbo Post Traumatico da Stress, che insorge proprio a seguito di un’esperienza di anticipazione della morte o di perdita dell’integrità psico-fisica. La risposta individuale all’evento traumatico esterno comprende generalmente paura inattesa, sentimenti di impotenza o di orrore, riposizione persistente del trauma, evitamento degli stimoli associati alla situazione shoccante, ottundimento della reattività generale (definito anche come pa-

ralisi psichica o anestesia emozionale), aumento dell’arousal (inteso come la relazione che intercorre tra uno stimolo e l’intensità della risposta). L’evento traumatico può essere rivissuto sia attraverso sogni e/o pensieri intrusivi e ricorrenti, sia a causa di stati dissociativi di differente durata, noti come flahbacks, indotti dall’esposizione a fattori ambientali scatenanti, che simbolizzano o sono simili all’azione aggressiva subita. L’anestesia emozionale si caratterizza invece per l’assenza di interesse, il distacco relazionale, la riduzione della capacità di provare emozioni, la perdita delle prospettive di senso future. a questo stato emotivo si associano difficoltà cognitive, come problemi di concentrazione e di esecuzione di compiti o attività, e di autocontrollo; tali difficoltà si manifestano attraverso stati di irritabilità e di ipervigilanza, ovvero di allarme eccessivo ed esagerato che però distrae l’attenzione dalle cose essenziali, poiché le energie e le risorse personali sono assorbite da un continuo stato di allerta. Il Disturbo Post Traumatico da Stress si lega spesso a “dolorosi sentimenti di colpa per il fatto di essere sopravvissuti” (Andreoli, 2007) o per le modalità/strategie utilizzate per sopravvivere; di qui la possibilità di condotte autolesive, ritiro sociale, sentimenti di disperazione e di danno permanente, sensazione di minaccia costante, ostilità, cambiamento di alcune caratteristiche della personalità, disturbi dell’umore. In particolare, nei casi gravi o cronici si ha l’insorgenza di allucinazioni uditive e ideazione paranoide. È opportuno precisare che il Disturbo Post Traumatico da Stress si verifica sia quando la persona è vittima del trauma sia quando ne è testimone. La psicologia dell’aggressore La tipicità dell’aggressore è rintracciabile nella percezione che questi ha della vittima, intesa come un oggetto da possedere, dominare, controllare; l’abusante presenta generalmente

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una personalità narcisistica, caratterizzata come esplicato dai criteri diagnostici proposti nel DSM IV TR - da “un quadro pervasivo di grandiosità, necessità di ammirazione, e mancanza di empatia che comincia entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti” (Andreoli - Cassano - Rossi, 2007, p. 760). Ne deriva una percezione di sé come essere superiore, perfetto, unico, che può relazionarsi soltanto con persone che presentano le medesime caratteristiche di grandiosità; questa idealizzazione dell’altro - rispecchiante è funzionale all’incremento del senso iperbolico di autostima che, essendo una struttura instabile, necessita della continua ammirazione per mantenere il suo peculiare senso di eccezionalità. Tale vulnerabilità è alla base dell’ipersensibilità alla critiche e dell’emissione tanto di comportamenti reattivi quanto di comportamenti remissivi, che mascherano la frustrazione e la sensazione di svalutazione personale. Appare infatti “evidente un senso di diritto, nelle aspettative di questi individui, di trattamenti speciali. […] Questo senso di diritto insieme alla mancanza di sensibilità per i desideri e le necessità degli altri possono sfociare nello sfruttamento degli altri cosciente o involontario” (Andreoli - Cassano - Rossi, 2007, p. 761), al fine di ottenere qualsiasi cosa, oggetto o persona, si collochi nell’orizzonte del bisogno o dell’ambizione della persona narcisistica. Si ha la presunzione del benessere dell’altro, e i sentimenti o le necessità di quest’ultimo o non trovano riconoscimento o sono accolti con la freddezza del disprezzo e della denigrazione; l’individuo affetto da disturbo narcisistico di personalità manifesta inoltre invidia, arroganza e superbia. L’amore esclusivo e totale per il Sé e l’incapacità di vivere la reciprocità, o di esperirne forme non distorte, plasmano dunque il Narciso, un essere incapace di riconoscere la persona dell’altro nella sua soggettività poiché interpreta la relazione interpersonale sulla base della diade dominate-dominato. Le aspirazioni narcisistiche possono degene-

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rare in uno stadio definito come narcisismo maligno, dove “i sentimenti di grandiosità compensatoria (il sé patologico […]), l’incapacità di sentire il rimorso per le azioni compiute” (Strano, 2003, p. 309), le perversioni sessuali accompagnate da sentimenti feticisti verso il corpo della vittima, l’estrema impulsività e la totale perdita di controllo sostengono ed incrementano le fantasia di violenza sessuale e di dominio. L’ostilità distruttiva che ne emerge è quindi la risultante di un disturbo della personalità di tipo misto, nel quale sono rintracciabili componenti di sadismo, paranoia, ossessione, lussuria, smania di potere con tendenze paranoide; il soggetto non è apparentemente psicotico ma ha tratti compulsivi. Questo quadro patologico non esclude la capacità della consapevolezza del crimine compiuto e delle conseguenze a questo attribuibili. La correlazione tra un’azione violenta e un disturbo di personalità tuttavia non costituisce un binomio inscindibile; le condotte devianti infatti possono trovare la loro scaturigine anche nell’ambiente sociale di riferimento, sia in condizioni di disagio sia in situazioni di agio. Se nel primo caso le condotte violente sono riconducibili ad un modello, e sono dunque apprese e strutturate come un portato culturale, nel secondo caso si è in presenza di una forma disfunzionale di reazione alla noia, in forza della quale si ha la continua ricerca di sensazioni nuove ed iperboliche: è il senso dello sballo, delle emozioni forti, della necessità di un sentire amplificato fino agli eccessi che in realtà ha scopo di coprire - attraverso qualcosa di assimilabile ad un frastuono interiore - una vita affettiva nella quale i sentimenti sono confusi e fusi, e il cui segno è quindi un’incapacità di sentire emotivamente. Il legame tra la vittima e l’aggressore Tutti i fenomeni di violenza implicano una transazione tra vittima e aggressore; tuttavia, contrariamente a quanto affermato nella teoria classica che fa riferimento a Ferenczi (cfr.


Bonomi - Borgogno, 2001), non è possibile parlare di un’identificazione tra la vittima e il suo aggressore in senso stretto, poiché la frequenza di esposizione all’atto violento causa nelle persone reazioni diversificate. Mentre la violenza circoscritta a un fatto isolato ingenera una forte reattività verso l’atto subito, espressa con sentimenti di rabbia, paura, dolore, umiliazione, rancore, senso di colpa e impotenza, la violenza ripetuta, compiuta per mano di un abusante la cui identità è nota alla vittima e con il quale si possono avere rapporti affettivi spesso significativi (es. il grado di parentale), procura sentimenti ambivalenti. Come è noto, è quanto avviene nella già citata sindrome di Stoccolma; questa costituisce una risposta emotiva al trauma ed è interrelata con l’istinto di autopreservazione che, in concomitanza con un forte stato di stress, porta la vittima a scegliere, anche in modo inconsapevole, il comportamento più vantaggioso. Tale comportamento nel caso della violenza o dell’abuso può essere dato dall’accondiscendenza e dall’instaurazione di un legame affettivo condizionato con l’aggressore. Questa reazione - che insorge a seguito di un repentino mutamento della condizioni ambientali, divenute improvvisamente coercitive e restrittive, e che sembrano porsi al di fuori del controllo della vittima - prevede un andamento scandito in tre fasi, concernenti: la formazione di sentimenti positivi verso gli aggressori/sequestratori; la strutturazione di sentimenti negativi rispetto alle autorità, percepite come minacciose; la reciprocità di sentimenti positivi tra vittima/ostaggio da un lato e aggressore/sequestratore dall’altro. L’esperienza di situazioni dolorose e/o di contatto con la morte induce ad una riorganizzazione del rapporto con la realtà su base difensiva; di qui l’insorgenza di alcuni meccanismi di difesa, quali: • la regressione, come il sonno, in cui si manifesta un forte stato di dipendenza e di paura nei confronti di una figura dominate e onnipotente;

• l’introiezione, ovvero “l’incorporazione di qualche aspetto di un oggetto esterno nella rappresentazione psichica del sé” (Carotenuto, 1992, p. 149). In altri termini, si istituisce un rapporto non tra l’Io e l’oggetto reale, ma tra l’Io e l’immagine che di questo oggetto si costruisce; • l’identificazione con l’aggressore, riferita sia a un individuo sia ad un’azione o comportamento violento, che può “essere vista come un tentativo di controllare e dominare una situazione traumatica o minacciosa trasformano il ruolo passivo in ruolo attivo” (Garland, 2001, p. 153), ovvero di rendere innocuo l’oggetto temuto assumendone alcune caratteristiche; • la dissociazione affettiva, nella quale si manifestano atteggiamenti affettivi contradditori rispetto alla situazione, come: • l’atimia, in funzione della quale “il soggetto non sembra partecipare attivamente agli avvertimenti che lo riguardano dimostrandosi disinteressato, o comunque, piuttosto insensibile ad essi. Le sue reazioni, quando sussistono, sono caratterizzate da una certa freddezza e da una certa lentezza nel manifestarsi” (Garzotto, 1985, p. 22); • l’insorgenza di reazioni emotive incongruenti rispetto allo stimolo e alla sua intensità. In definitiva, nella sindrome di Stoccolma, legata in primo luogo alla sopravvivenza fisica, è possibile rintracciare un’evoluzione nell’espressione delle necessità difensive procedendo da opzioni comportamentali che hanno un carattere estrinseco, palese e voluto (l’accondiscendenza), a meccanismi influenzati da una distorsione della realtà e dell’altro, tesi al mantenimento del benessere psicologico. Si ha quindi un percorso interno all’individuo, che dalla coscienza perviene all’inconscio attraverso gradi successivi di riduzione della consapevolezza.

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È inoltre opportuno sottolineare che l’identificazione con l’aggressore è un’identificazione difensiva e che per tale motivo non è assimilabile all’identificazione evolutiva; infatti quest’ultima implica la produzione di rappresentazioni emozionalmente positive di una persona reale, definita modello, delle quali si interiorizzano gli aspetti che si vogliono possedere o che si ritiene di avere, modificando conseguentemente la propria condotta. L’identificazione con l’aggressore invece comporta -come già accennato- l’introiezione degli aspetti temuti, senza annullare la presenza dei poli vittima-offender. La permanenza di questa diade può portare all’insorgenza di disturbi dell’umore, correlati alla personalità dell’abusato, o di disturbi bipolari. Il legame tra vittima e aggressore è generato, a livello oggettivo, dal luogo in cui la violenza viene consumata e a livello psicologico dalla possibilità di riconciliazione, intesa come quel processo intrapsichico, cognitivo e affettivo-emotivo, finalizzato alla gestione dell’esperienza traumatica, con particolare riguardo per l’immagine interiorizzata del persecutore. Conclusioni Questi i contributi della letteratura, ma per la pedagogia dell’emergenza è forse opportuno tenere conto di cosa le persone pensano e sanno della violenza, di come la concettualizzano, di come la vivono empaticamente. Ciò appare necessario per poter approntare non solo percorsi di couseling mirati, ma anche per allestire occasioni di conoscenza e di riflessione tesa a favorire la crescita di una reale cultura su questi fenomeni. Sottrarli all’influsso di luoghi comuni distorcenti può costituire una pietra miliare su cui fondare una nuova sensibilità e un rinnovato senso di responsabilità personale e collettivo verso tali eventi, nella consapevolezza che la capacità di scindere la persona dalla sofferenza delle quale è portatrice significa

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riconosce alla persona stessa la capacità di riappropriarsi di tutte quelle risorse funzionali al superamento del trauma subito; significa riconoscere il personale potere di ciascuno nel progettare, anche di fronte alle macerie provocate dal dolore più sordo, la propria esistenza. Note: 1 Van-Rillaer J., Psicologia della vita quotidiana. Una riflessione scientifica non freudiana, Bari, Edizioni Dedalo, 2005, p.132. Riferimenti Bibliografici: Andreoli V.- Cassano G.B. - Rossi R., DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Text Revision, Milano, Elsevier Masson, 2007; Bagnara P., Violenza familiare: prevenzione e trattamento. Le radici nascoste dell’abuso su donne e bambini attraverso la clinica dei casi, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 68; Bisi R., Scena del crimine e profili investigativi: quale tutela per le vittime?, Milano, Franco Angeli Editore, 2006; Bonomi C. - Borgogno F. (a cura di), La Catastrofe e i suoi Simboli. Il contributo di Sándor Ferenczi alla teoria psicoanalitica del trauma, Torino,UTET, 2001; Carotenuto A., Integrazione della personalità, Milano, Bompiani, 1992, p.149; Garland C. (a cura di), Comprendere il trauma. Un approccio psicoanalitico, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 153; Garzotto N., Psichiatria pratica, Padova, PICCIN Nuova Libreria, 1985; Laeng M., Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola, 1992; Montuschi F., Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell’educazione, Assisi, La Cittadella, 2002; Nizzoli U., Pissacroia M. Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Padova, PICCIN Nuova Libreria, 2002;. Strano M., Manuale di criminologia clinica, Firenze, SEE Editrice, 2003; Van- Rillaer J., Psicologia della vita quotidiana. Una riflessione scientifica non freudiana, Bari, Edizioni Dedalo, 2005. Sitografia: www.garzantilinguistica.it


I MILLE VOLTI DELLA VIOLENZA1 La verità non è mai stata rivendicata con la violenza. (Ghandi)

di Teresa Serra Vorrei soffermarmi su un aspetto della violenza del quale si parla poco: la violenza culturale, per cui devo preliminarmente dare una definizione, che necessariamente e volutamente ne tralascia tutta la problematicità, di cultura. Assumo qui la definizione di Geertz della cultura come ‘contesto locale comunicativo’ perché fa rilevare come nel contesto locale intervengano gli attori che queste reti di significato intessono e perché mette in evidenza come il tema della cultura sia strettamente collegato al linguaggio e alla comunicazione. Accanto a questa definizione, e a suo completamento, ricordo che cultura può essere anche vista come insieme di modelli concreti di comportamento - costumi, usi, tradizioni, insieme di abitudini - e come meccanismo di controllo - progetti, prescrizioni, regole, istruzioni - per orientare il comportamento. E questo aspetto mette in

collegamento il linguaggio e la comunicazione col momento giuridico e politico. Il secondo aspetto della cultura come meccanismo di controllo porta a interessanti implicazioni per il concetto stesso di individuo umano e mette in relazione la discrasia che esiste tra le potenzialità appartenenti a ciascun individuo e la realizzazione di queste potenzialità in un contesto comunicativo che realizza un sistema di controllo e di orientamento di comportamenti quando in esso non intervengono attivamente tutti gli individui appartenenti al contesto sociale. Se ci fosse piena corrispondenza tra questo contesto comunicativo e la totalità degli individui chiaramente si potrebbe limitare il senso della violenza culturale che i parlanti realizzano a carico dei non parlanti, a carico cioè di coloro ai quali non è riconosciuto l’intervento nello spazio pubblico. Ora i modelli culturali, questi sistemi di significato sono stati creati in un universo di parlanti nel quale parte dei soggetti non ha avuto spazio o ha avuto poco spazio e visibilità e nel quale, nel caso femminile ad esempio e che assumo proprio perché ben esprime la marginalizzazione di soggetti deboli, questa presenza, tranne poche eccezioni, è stata condizionata o frenata, il che è peggio, da una massiccia presenza maschile che ha relegato il suo modo di comunicare in ambiti privati e non pubblici. La difficoltà per il linguaggio femminile di entrare nel contesto della comunicazione che realizza quella rete di significato, la difficoltà di intessere col punto di vista “altro” un contesto culturale, quindi di essere individui nel significato pieno del termine, è il risultato di una serie di comunicazioni di modelli che possiamo definire come suscettibile di fare violenza e ha come risultato l’impossibilità, o la difficoltà per quella parte dell’universo dei parlanti ai quali non è riconosciuto il diritto di entrare nella comunicazione, di intervenire a costituire i modelli e quindi anche di diventare individui che possano, con la loro caratteristica specifica, differire dai modelli e dai sistemi di significato che storicamente solo

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una parte - con la connivenza passiva dell’altra occorre anche dire - ha realizzato. Che cosa è violenza? È chiaro che anche questo concetto si è andato specificando e approfondendo nel corso dei secoli e che ha definito una serie di corollari in relazione ad un concetto più generale di violenza che è quello metafisico come «azione esercitata dall’esterno contro un’inclinazione spontanea o un movimento naturale». Non posso evidentemente addentrarmi in una discussione sul concetto metafisico di violenza, che implicherebbe anche un soffermarsi sul significato di natura e forse anche un riferirsi al finalismo di tipo aristotelico. Ma anche a livello superficiale possiamo renderci conto che possiamo tener presente questa definizione di base per arrivare ad ulteriori specificazioni del concetto di violenza che sono state date di recente e che hanno fatto superare la riduzione della violenza alla pura aggressione materiale. Se si tratta di azione esercitata dall’esterno contro un qualcosa di naturale è evidente che anche la violenza, che oggi possiamo definire come culturale, è tale quando non consente che le potenzialità di ciascuno si realizzino pienamente e non lo consente perché non solo propone modelli stereotipati che sanzionano negativamente la diversità, ma soprattutto perché rifiuta l’ascolto di chi a questi modelli non può o non vuole consentire e si pone fuori dalla rete di significati. L’emarginazione si realizza anche quando non si consente al dissenso di intervenire nel dialogo. Prendiamo la definizione che di violenza dà Galtung come ogni forma di influenza, di controllo, di condizionamento a nome dei quali «le realizzazioni pratiche ed intellettuali di determinati esseri umani sono costrette al di sotto della loro realizzazione potenziale». E in questa direzione la violenza può essere di vario tipo, violenza psicologica, che comprende ogni forma di indottrinamento, di minaccia ideologica, di menzogna o altra deformazione delle informazioni esercitate indirettamente da un complesso di agenti non identificabili individualmente o indivi-

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dualmente insignificanti; violenza strutturale che è sinonimo di ingiustizia e disuguaglianza sociale mantenuta di proposito in condizioni culturali, tecniche ed economiche che permetterebbero invece il suo superamento, al quale corrisponderebbe una riduzione della distanza tra la realizzazione attuale e quelle potenziali. Violenza come forma di comunicazione, vale a dire la violenza simbolica, categoria degli atti violenti che viene ad estendersi in misura tale da comprendere virtualmente non solo tutte le forme di interazione sociale ma anche i fenomeni di pura e semplice trasmissione di informazioni. È tutta l’attività pedagogica che in questo senso può, se strettamente connessa ad una cultura che si presenta come strumento di controllo, diventare violenza.

E in questa ottica quello che balza evidente è che là dove c’è qualunque forma di violenza di tipo culturale, intesa come chiusura al dissenso nei confronti di modelli stratificati, da qualunque parte essa venga, siamo in presenza di un atteggiamento e di un pensiero fortemente conservatore e tradizionale. Come tradizionale, reazionario e conservatore è ogni punto di vista che parla in nome di un potere e che utilizza la


comunicazione in senso unidirezionale per dettare modelli e forme di controllo di una parte sul tutto. E non è un caso che si è cominciato a scalfire, ma non più di tanto, questa violenza culturale, che pure perdura, solo a partire dal momento in cui alcuni individui hanno trovato la forza di far breccia nel contesto comunicativo e lo hanno fatto però non adeguandosi al modello simbolico prevalente, diciamo anche alla visione del potere tradizionale, ma hanno gettato luci nuove sull’interpretazione della realtà tentando di far affiorare modelli nuovi e ponendo con forza il tema della differenza. Non v’è dubbio che la difficoltà di una lotta contro la violenza culturale sta proprio nel suo essere poco apparente e manifesta e per ciò stesso più subdola e insidiosa.

Vorrei chiudere con alcune osservazioni sulla violenza di tipo materiale, che toccano il problema della sicurezza ma che alla fine sono anch’essi legati alla violenza culturale che avviene attraverso la comunicazione. Mi domando se la devianza e la violenza possano realmente essere solo espressione di un disagio che riguarda l’uomo contemporaneo, soprattutto i giovani, e che trae alimentazione

dalla noia o non siano da considerare anche frutto di una emulazione che trova un potente moltiplicatore nel fatto che sono diventate uno strumento di promozione sociale. Ho l’impressione che molte delle analisi che continuano a farsi di questo preoccupante fenomeno non escano dalla logica che esalta la devianza in tutte le sue forme e che è la logica della civiltà dell’immagine e del successo che si realizza quando l’identità personale è inseguita attraverso l’apparizione sui mezzi di comunicazione. Nessuno si nasconde che atteggiamenti violenti - anche se sull’entità e qualità della trasgressione occorre sempre fare i dovuti distinguo - ci siano sempre stati e nessuno si nasconde che emulazione e gregarismo siano sempre pronti a impadronirsi della personalità non matura. E sarebbe ben ingenuo pensare che si possa eliminare la violenza. In qualunque forma essa si presenti, fa parte della natura umana. Ma esistono dei moltiplicatori della devianza e della violenza che nella nostra società sono diventati abituali. Uno di questi è sicuramente l’uso irresponsabile dei mezzi di comunicazione che soggiacciono al sensazionalismo e l’impatto che l’esistenza del mezzo televisivo e del mezzo multimediale ha sul comportamento. Né si deve sottovalutare il rischio cui va incontro tutta la società del futuro in relazione alla disinibizione cui conduce la comunicazione multimediale che deresponsabilizza i comunicanti. Se a ciò si aggiunge che oggi il detto «il delitto non paga» si è rovesciato nel suo contrario si può capire come l’effetto moltiplicatore del modello negativo sia a sua volta ampliato a dismisura dalle conseguenze “positive” che si attribuiscono alla devianza. Non vorrei essere provocatoria e ritengo che comunque occorra ancora fare una distinzione tra il breve e il lungo termine e che il delitto alla fine non paghi. Ma questo discorso a lunga scadenza è poco utile in una società che sembra essere caratterizzata dalla mancanza di prospettiva, mancanza di visione del futuro. La nostra civiltà dell’immagine, in cui

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tutto si gioca nell’esteriorità dell’essere visto e ascoltato, comporta l’esaltazione della propria visibilità qualunque essa sia, dalla nudità fisica, alla bruttura morale. Il mostro sbattuto in prima pagina - se trovato colpevole - diventa la vittima che occorrerà risarcire in tutti i modi (un film da interpretare, un libro da pubblicare, una vita piena di inviti nei salotti alla moda, e, se collabora, anche un appannaggio a carico della pressione fiscale sul cittadino onesto, o, quanto meno, una serie di interviste e servizi giornalistici e televisivi che stuzzicano la sua vanità e ne fanno un eroe). E la vera vittima - che potrebbe essere anche il falso mostro sbattuto in prima pagina?- Dimenticata, o esposta al ludibrio, sezionata viva alla ricerca delle colpe che hanno potuto spingere il carnefice a diventare tale. L’eroe negativo è eroe per eccellenza e gli viene garantito l’ingresso nell’olimpo della celebrità. È chiaro che è facile tentare di imitarlo. Ma l’emulazione è ancora accresciuta da un calcolo sul rapporto costi benefici dell’atto deviante. Quando società e istituzioni fanno del successo (nel bene e nel male) l’unica misura - anche sulla logica

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della funzionalità si basa l’uso del pentitismo - non ci si deve meravigliare dell’impatto negativo sulla società. L’anomalia del principio si rivolge contro la società perché alla lunga e nella maggioranza dei casi il delitto non paga. Ho tanta compassione per coloro che giacciono in prigione perché non hanno saputo aver successo nella loro devianza. Ma questo non lo sa chi emula. E questo tocca l’individuo e non il sociale che dovrà sempre pagare i costi - sotto tutti i punti di vista - della violenza altrui. Non è la noia, non è l’emulazione, non è il disagio il pericolo più grave e neanche l’incapacità delle istituzioni e della società a fare opera di controllo sociale, ma la precisa volontà delle istituzioni e della società di esaltare con atteggiamenti e decisioni quella violenza che nessuno più aborre se non a parole. L’istituzionalizzazione del perdono è un crimine che si rivolta contro chi lo fa. Note: 1 Relazione tenuta alla Manifestazione La Nottola di Minerva, Il sabato di Montecompatri organizzata dal Centro per la filosofia italiana.


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