ISSN: 2038-3282
Anno IV Numero 1 - Gennaio 2012
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EDITORIALE 04
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EduPuntoZero: buona pratica di innovazione digitale a sostegno della formazione scolastica di Stefania Nirchi Ospite Scientifico Professor Roberto Melchiori INVALSI Per una qualità della formazione. L’analisi delle evidenze della pratica scolastica attraverso un framework
TRAMA 13
L’utilizzo delle tecnologie come leva per aumentare l’interesse all’apprendimento: il software Scratch di Roberto Orazi
SIPARIO 18
Considerazioni intorno al concetto di Apprendimento Consapevole di Maurizio Pattoia
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I media nel lifelong learning di Anna Maria Pani
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Competenze professionali pregresse e studenti universitari in formazione iniziale: una possibile prospettiva di Francesco Claudio Ugolini
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Socializzarzi con, nei, social media di Stefania Capogna
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Giocare per crescere. Aspetti psicologici ed educativi dell’attività ludica di Francesca Giangregorio
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Ricerca e formazione nella scuola. Parte seconda. Fare formazione per imparare a insegnare di Savina Cellamare
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Che cosa è la meritocrazia di Maria Gioia Pierotti
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L’applicazione dei modelli di gestione orientati alla misurazione delle performance e al miglioramento continuo nel settore della formazione: esperienze regionali a confronto. di Amalia Lucia Fazzari e Giovanna Lucianelli
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Immigrazione e fenomeni pregiudiziali di Sara Piave
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EduPuntoZero: buona pratica di innovazione digitale a sostegno della formazione scolastica
di Stefania Nirchi Il Convegno “Formazione e Nuovi Ambienti di apprendimento nella scuola 2.0”, tenutosi a Roma il 4 novembre 2011, ha confermato, come avviene spesso negli ultimi tempi che le scuole producono esperienze importanti di innovazione su tutti gli aspetti pregnanti dei processi formativi, dalle scelte culturali e curricolari, al pieno e consapevole impiego dei molteplici strumenti di lavoro a disposizione del corpo docente, alla didattica. Il tema dell’uso consapevole delle tecnologie diviene cruciale in un’epoca in cui competitività e sviluppo sembrano segnare il passo e cresce la convinzione del ruolo primario della formazione e della creazione di professionalità per recuperare slancio e per assicurare ai nostri giovani un futuro degno delle loro aspettative. In questo scenario di riferimento il Progetto EduPuntoZero rappresenta un lodevole esem-
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pio di come la tecnologia a supporto dell’insegnamento-apprendimento possa condurre verso risultati positivi soprattutto in termini di efficacia. Creato nell’ambito della formazione “esterna” del dipartimento di Memotef (Metodi e Modelli per il Territorio, l’Economia e la Finanza), della Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza, è stato realizzato per divulgare la conoscenza dei software scientifici ed applicativi negli istituti di scuola media superiori sul territorio della provincia di Roma 1. Il Progetto sotto la responsabilità scientifica del Professor Paolo Renzi della Sapienza, si pone diversi obiettivi da perseguire: • orientamento nella scelta della Facoltà, m anche percorsi formativi per laureati e/o lavoratori; • favorire formazione e lavoro riconoscendoli come strumenti necessari per lo sviluppo di ciascuno dal punto di vista sociale ed economico ed altresì rendere edotti gli studenti della realtà lavorativa sul territorio europeo; • creare un connubio tra offerta e domanda per mezzo di un percorso formativo che risponda alle competenze richieste dal mondo del lavoro e da quello professionale, soprattutto rispetto alle TIC. A tale scopo proprio in funzione delle competenze richieste dal mondo del lavoro il progetto EduPuntoZero ha a cuore l’apprendimento, da parte di tutti coloro che partecipano allo stesso, di specifici programmi informatici, la cui applicazione è alla base di molte professioni, oltre che essere indispensabili per affrontare con successo il percorso formativo universitario. Si fa riferimento in particolar modo a figure professionali quali: Architetti, Geometri, Avvocati, Archeologi, Grafici ed altri attori che quotidianamente si misurano con software quali cad, 3ds max, photoshop, illustrator, joomla, dreamweaver, flash e altri. Ciascun corso è caratterizzato orientativamente da un pacchetto di 26 lezioni di due ore ciascuna per un impegno di due volte a
settimana da svolgere nei laboratori messi a disposizione delle scuole convenzionate che potranno usufruire gratuitamente sui loro computer delle versioni più aggiornate dei software oggetto di analisi. Tutto il percorso progettuale è, come già anticipato, sotto la responsabilità scientifica del Professor Paolo Renzi, il quale intervenendo al convegno ha sottolineato l’importanza della piattaforma e-learning introdotta nello svolgimento della didattica nelle scuole come ausilio ad un modello di insegnamento-apprendimento di più antica memoria.Il paradigma seguito è quello costruttivista che fa della formazione blended il suo punto di forza per sperimentare momenti di apprendimento individuale e collaborativi e soprattutto per misurarsi con quella che viene definita dalla letteratura di riferimento la contaminazione formativa che va oltre la lezione ex cattedra, ma sottolinea invece l’esigenza di stabilire link tra aula e fuori dall’aula sino ad arrivare oltre l’aula 2. Si tratta di un modello didattico nel quale il ruolo dell’insegnante viene ripensato in un’ottica di facilitatore che mette alla prova, più che le proprie conoscenze disciplinari, le proprie capacità metodologiche e didattiche generali. La classe si fa in questo modo community e quindi anche spazio adibito per lavori di gruppo e per lo sviluppo di pensiero critico. Ogni anno, dice l’ideatore e coordinatore del progetto EduPuntoZero, il Professor Francesco Iadecola, è previsto l’inserimento di 20 nuovi istituti scolastici, suddivisi per tipologia e per quartiere di appartenenza. L’adesione al network avviene con la stipula di una convenzione tipo e l’inserimento del programma didattico nel POF annuale delle scuole. Tutti i partecipanti (previa verifica finale di apprendimento) ricevono alla fine del corso un attestato di partecipazione al corso (patrocinato dalla Sapienza Università di Roma), valido per la richiesta dei crediti formativi CFU, per coloro che si iscrivono successivamente ai percorsi universitari.
Inoltre il progetto EduPuntoZero ha aderito all’Autodesk Academic Certification Program, fornendo l’opportunità, agli studenti che lo desiderano, di sostenere un esame presso la propria sede in e-learning (attualmente in inglese). Il superamento dell’esame consentirà ad ogni studente di ottenere una seconda certificazione (Autodesk ufficiale) riconosciuta in tutto il mondo. A chiusura del progetto è stato istituito nell’a.s 2011/2012 il premio “Archimede 2.0” che si pone come obiettivo l’individuazione delle eccellenze nell’ambito del progetto stesso e all’interno di 5 categorie di riferimento: • Miglior disegno bidimensionale (autocad 2d) • Miglior elaborazione tridimensionale (autocad 3d, 3ds max) • Miglior sito internet (dreamweaver e joomla) • Miglior modello tridimensionale di industrial design (Rhinoceros) • Scuola con maggior numero di studenti formati Raccontando negli anni come Direttore di questa rivista la nostra scuola con la sua voglia di sperimentare e mettersi a servizio di coloro, gli studenti, che ne rappresentano il cuore pulsante, mi sento di dire, senza rischio di smentita, che tutti i progetti che la investono e che la investiranno negli anni raccoglieranno i loro frutti se pensati nell’ottica di un miglioramento continuo che dia risultati in termini didattici e aiuteranno i docenti nel difficile lavoro cui sono chiamati quotidianamente. E, mi pare che, EduPuntoZero possa rappresentare una buona pratica di innovazione digitale a sostegno della formazione scolastica. Note: 1.Cfr. www.edupuntozero.it Per un approfondimento delle modalità di insegnamento-apprendimento e-learning cfr. S. Nirchi, Formazione E-Learning e percorsi modulari. La scrittura dei materiali didattici, Roma, Aracne, 2009.
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Per una qualità della formazione. L’analisi delle evidenze della pratica scolastica attraverso un framework
Professor Roberto Melchiori INVALSI Premessa La finalità principale che nell’ultimo decennio ha caratterizzato le evidenze della ricerca educativa e pedagogica è stata quella di costruire modelli concettuali che rappresentassero sia gli attori principali sia i processi di sviluppo del servizio scolastico stesso, come risulta, ad esempio, dai documenti delle indagini europee pubblicati dall’organizzazione europea OECD e focalizzate sullo studio dell’organizzazione e dei risultati del servizio scolastico (cfr. OECD, 2007; OECD, Working Paper n. 61, 2008). In relazione a tale finalità si sono sviluppati approcci concettuali che hanno dato vita a specifiche linee di indagine e di ricerca nel campo educativo. In particolare, gli approcci
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che hanno riscosso i maggiori consensi a livello internazionale nel campo della ricerca educativa sono due e riguardano: le teorie e i modelli dell’efficacia; le teorie e i modelli del miglioramento della scuola (i termini conosciuti nella letteratura internazionale sono school effectiveness and school improvement). In conseguenza del riconoscimento avuto e della loro non conflittualità - ovvero la non contrapposizione relativa ad assunti e concetti e la loro possibile complementarità- nei primi anni del XXI secolo i ricercatori e gli operatori della scuola hanno realizzato una integrazione dei due modelli, per ottenere un modello complessivo di efficacia e di miglioramento (la letteratura internazionale parla di Effective School Improvement.), che ne comprendesse e ne coniugasse gli aspetti e gli elementi logicamente congruenti e coerenti. Questa integrazione è stata effettuata considerando anche tutti gli altri concetti provenienti dalle teorie principali, anche sul piano storico, in ambito scolastico, quali: le teorie sul curricolo, le teorie comportamentali, le teorie sull’organizzazione e sull’apprendimento organizzativo e le teorie della scelta pubblica. Lo studio sull’evidenza della ricerca pedagogica ed educativa per gli aspetti del servizio scolastico, che arricchisce le teorie e soprattutto le pratiche già ricordate, porta a definire una pedagogia dell’efficacia che assume come obiettivi specifici i seguenti elementi: • chiarire i fattori che ostacolano o che rafforzano il miglioramento dell’efficacia scolastica; • analizzare le differenti teorie sui fattori che possono intralciare o rafforzare il miglioramento dell’efficacia scolastica; • valutare programmi o interventi di politiche educative di miglioramento del servizio scolastico a livello di istruzione primaria e secondaria, sia che abbiano ottenuto esiti favorevoli sia che non abbiano avuto successo; • combinare tra loro e con gli apporti di altri filoni di ricerca rilevanti i risultati consolidati delle indagini e degli studi sull’efficacia
e sul miglioramento del servizio scolastico; • sviluppare un’esauriente cornice concettuale che fornisca un’esplicazione teorica dei fattori e delle variabili che rafforzano e che impediscono il miglioramento dell’efficacia scolastica; • sviluppare modelli da utilizzare come riferimento per il miglioramento dell’efficacia scolastica per tutti i livelli scolastici; • riflettere sulle possibili comparazioni con le esperienze delle scuole primarie e secondarie dei paesi membri dell’Unione Europea. Lo scopo che ha guidato il lavoro di analisi delle evidenze della ricerca pedagogica è stato quindi di evidenziare le comunanze teoriche e pratiche sottostanti i modelli concettuali, descritti dai prodotti della ricerca pedagogica stessa, attraverso un processo comprendente due macroattività di approfondita riflessione su: • i concetti di efficacia e di miglioramento e la loro integrazione per lo sviluppo del servizio scolastico, realizzata attraverso uno studio teorico che ha approfondito la natura dei fattori implicati nei processi del servizio che favoriscono o ostacolano l’efficacia delle scuole. Lo studio sull’evidenza ha avuto come quadro di riferimento altre teorie in varia misura connessi con i temi approfonditi, cioè: teorie del curricolo, studi sugli aspetti organizzativi della vita scolastica, teorie della scelta pubblica, studi sull’apprendimento organizzativo, teorie del comportamento sociale nei processi di istruzione; • le proposte di valutazione dell’efficacia e del miglioramento del servizio scolastico, come attuato anche in alcuni paesi europei (i progetti analizzati sono stati complessivamente trenta e in Europa hanno coinvolto l’Olanda, la Finlandia, il Belgio, il Regno Unito, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Grecia), con lo scopo di raccogliere alcune buone pratiche utili a supportare le scelte dei dirigenti scolastici e degli altri decisori coinvolti a vario titolo nella gestione del sistema scolastico.
Quella che viene qui prospettata nei termini di una teoria della qualità delle scuole efficaci appare lo strumento più idoneo per garantire che il sistema scolastico abbia costantemente il polso tanto della modalità e della direzione in cui vanno evolvendo i curricoli realizzati dalle istituzioni scolastiche (costruiti sulla base delle materie disciplinari), quanto di quali siano le modalità di apprendimento che gli allievi sono sollecitati ad attuare in un mondo sempre più soggetto a repentini ed improvvisi cambiamenti. Queste ultime, cioè le modalità di apprendimento, meritano particolare attenzione, poiché si strutturano e si esplicano a scuola, ma al tempo stesso si arricchiscono e si compiono anche in altri luoghi e ambiti formativi, formali e informali. Solo tenendo conto di questa complessità molteplice la scuola potrà riconoscere, valorizzare e arricchire l’intero patrimonio di competenze di cui dispongono gli allievi. Nella società del sapere, infatti, la competenza e la conoscenza si alimentano negli individui attraverso molti e variegati rivoli, in risposta alla richiesta di un uso sociale del sapere stesso. È ormai avvalorato che il lavoro didattico non si esaurisce nei confini tradizionali del sistema scolastico, ma ha il fine di “consegnare” alla società individui capaci di sviluppare interamente le proprie risorse per una piena realizzazione della propria vita in tutti i suoi aspetti, non da ultimo quello lavorativo che tanta parte ricopre nel benessere delle persone. Nel corso dell’analisi della documentazione delle ricerche condotte sui sistemi educativi europei si è evidenziata anche l’esigenza di approfondire i processi volti a integrare fra di loro i sistemi della scuola, del lavoro, dell’orientamento, dell’apprendimento continuo. L’integrazione tra sistemi di formazione - formale, non formale e informaleè di certo uno dei pilastri su cui edificare scuole che abbiano quei livelli di qualità e di efficacia di cui il paese ha oggi particolarmente bisogno.
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I concetti di fondo Lo sviluppo della ricerca per l’analisi dell’efficacia del servizio scolastico è una problematica prioritaria sia per la teoria sia per la pratica operativa in considerazione dei cambiamenti sociali ed economici avvenuti nella prima decade del nuovo millennio. Tuttavia, come si è evidenziato nella premessa, nel corso degli anni i paradigmi di efficacia e di miglioramento della scuola, nonché di ricerca pedagogica, si sono sviluppati separatamente, non solo da un punto di vista metodologico ma anche per gli ambiti d’azione. L’analisi dell’efficacia della scuola è stata fortemente incentrata sui risultati raggiunti dagli studenti e sulle caratteristiche delle scuole e delle classi come causa dei risultati riscontrati, senza considerare contemporaneamente i processi che si sono realizzati per provocare i cambiamenti avvenuti. La teoria per il miglioramento della scuola, invece, analizza prevalentemente il cambiamento della qualità degli insegnamenti e delle scuole, senza tener conto delle conseguenze sui risultati degli studenti. In breve, con l’analisi dell’efficienza della scuola si è tentato di individuare che cosa va cambiato nelle scuole per renderle più efficienti, mentre con l’analisi del miglioramento della scuola si è tentato di individuare in che modo le scuole possono cambiare per ottenere dei miglioramenti. Per quanto riguarda la ricerca pedagogica sperimentale, ovvero la pedagogia come strumento per l’efficacia e il miglioramento, questa è stata pensata nella seconda metà del XX secolo sostanzialmente come ricerca educativa, quindi senza una vera e propria caratterizzazione specifica, diversa da quelle peculiari delle varie pedagogie, come la pedagogia speciale, la storia della pedagogia, la pedagogia scientifica, la pedagogia sociale, ecc. Per lo sviluppo del framework da utilizzare per l’analisi dei risultati delle indagini sull’efficacia e sul miglioramento del servizio scolastico in funzione della loro integrazione, l’efficacia può essere definita in riferimento al cambia-
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mento, osservato e misurato, sia sui risultati dell’apprendimento degli allievi sia sull’agire complessivo dell’istituzione scolastica. Ai fini della valutazione dei mutamenti sono necessari, quindi, un criterio di efficacia (la scuola ottiene risultati migliori dagli allievi se….?) e un criterio di cambiamento (la scuola riesce a passare con successo dalle vecchie alle nuove condizioni operative che sono necessarie per sviluppare l’efficacia?) (cfr. Melchiori, 2001). Inoltre, occorre anche stabilire cosa si intende per servizio scolastico; con tale espressione per la costruzione del framework di analisi e studio si intendono sia tutte le attività che sono attuate da una istituzione scolastica, riguardanti la progettazione del curricolo scolastico, l’organizzazione della scuola, la precisazione dell’orario scolastico, l’utilizzazione delle finanze, ecc., sia i risultati relativi agli apprendimenti, agli insegnamenti, alle attività formative collaterali, sia, infine, i soggetti che compiono le attività, cioè gli allievi, i docenti, i dirigenti scolastici, il personale ATA, le famiglie, le associazioni, le istituzioni locali. Il principio fondamentale su cui si può fondare una riflessione sull’evidenza di Efficacia del servizio Scolastico (EsS) per la ricerca pedagogica, pertanto, consiste nel ritenere che un più stretto collegamento tra i costrutti di efficienza e di miglioramento della scuola possa consentire di trarre profitto dai rispettivi punti di forza. La costruzione di un framework EsS costituisce una via d’integrazione dei due paradigmi e contestualmente un loro superamento: può infatti mostrare la relazione tra l’efficienza e il miglioramento della scuola in un quadro significativo e costituire il punto di partenza per un ulteriore sviluppo delle teorie sul miglioramento della scuola efficace. I modelli nella teoria pedagogica La costruzione di un framework di analisi dello sviluppo del funzionamento delle scuole e il suo uso nel campo teorico e pratico presuppongono la conoscenza del ruolo dei modelli nella scienza pedagogica e dell’educazione, in
modo da riflettere sulle effettive potenzialità che lo stesso modello può avere, ma anche per individuarne i limiti. Una teoria spiega le relazioni che intercorrono tra i fenomeni ed è costituita da: una serie di unità (rappresentate da fatti, concetti e variabili); da un sistema di relazioni fra le unità; dalle interpretazioni delle relazioni che siano comprensibili e che consentano di prevedere eventi empirici. Un modello quindi specifica e raffigura i fenomeni teorici in maniera semplificata e ridotta, mostrando i concetti principali della teoria e le relative interrelazioni. I modelli possono essere di natura concettuale o formale. I modelli concettuali sono caratterizzati dall’uso di descrizioni verbali, mentre quelli formali sono espressi tramite sistemi notazionali. Un framework elaborato per l’Efficacia del servizio Scolastico – EsS- è chiaramente un modello concettuale. Lo sviluppo della teoria sull’efficacia della scuola può essere attualmente caratterizzato come un riassunto relativamente semplice di relazioni empiriche. Per un modello di Efficacia del servizio Scolastico, questa affermazione assume un’importanza ancora maggiore. Il dibattito sull’efficacia scolastica, o effectiveness, è iniziato intorno all’inizio degli anni ‘70 soprattutto nei paesi di area anglosassone. La ricerca e la pratica in ambito educativo avevano già da alcuni anni evidenziato la grande rilevanza dei fattori legati allo status socio-economico e al livello culturale delle famiglie di provenienza nell’influenzare il profitto scolastico degli studenti. A fronte di questa constatazione, era iniziata a circolare l’idea che anche la qualità della vita scolastica potesse costituire un fattore altrettanto rilevante (in quegli anni fu coniato lo slogan the school make the difference, ovvero la scuola fa la differenza); sulla base di questa idea si é creato un vasto movimento scientifico e politico impegnato nel miglioramento della qualità della vita scolastica, con l’obiettivo esplicito di innalzare i livelli di profitto di tutti gli studenti, a dispetto di svantaggi iniziali dovuti
alla provenienza sociale, etnica e culturale. Lo sviluppo iniziale del movimento nei paesi di area anglosassone è stato suffragato dallo stretto legame che intercorre tra l’effectiveness e due caratteristiche dei sistemi scolastici di tali paesi: • la consolidata tradizione di autonomia didattica e organizzativa delle scuole; • l’utilizzo di standard di profitto determinati su base nazionale, o federale, e la verifica continua dei risultati delle scuole in relazione a tali standard. È evidente che la larga autonomia riconosciuta alle scuole di questi paesi nella programmazione curricolare, nella gestione dei tempi e degli spazi e nell’impostazione generale della didattica, assieme all’analisi sistematica dei risultati dell’insegnamento effettuata tramite la misura degli apprendimenti confrontati con standard stabiliti in via definitiva a livello nazionale, ha incoraggiato lo sforzo di rendere più efficace l’attività scolastica, ossia di raggiungere e superare i livelli standard in termini di apprendimenti di tutti gli allievi, compresi quelli che partono da condizioni di svantaggio. Tra le numerose ricerche condotte sulla spinta delle idee di school effectiveness vanno menzionate anche le indagini IEA, cui il nostro paese ha fornito un qualificato contributo (cfr. Visalberghi - Corda Costa, 1995; Melchiori, 2000). Accanto al movimento della school effectiveness, negli anni 80’ si è sviluppato un filone di indagine incentrato sul concetto di miglioramento scolastico (school improvement) o anche miglioramento dell’educazione (educational improvement). In questi anni l’esigenza fondamentale che ha orientato le riflessioni di studiosi e di decisori pubblici è stata quella di rendere l’istruzione scolastica più adeguata alle continue e tumultuose trasformazioni dei sistemi economici e socio-culturali dei paesi industrializzati, che avevano imboccato la strada della terziarizzazione avanzata e del post-fordismo. Sono
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stati perciò elaborati e sperimentati modelli di innovazione, parallelamente allo sviluppo di un’ampia riflessione sulle fasi tipiche dei processi di cambiamento, sui contenuti dei mutamenti promossi e sulle politiche generali in grado di sostenere e favorire il miglioramento delle scuole. In particolare ricordiamo che una cornice al dibattito su questo tema è stata data da un programma transnazionale denominato ISIP, International School Improvement Project, condotto nella prima metà degli anni ‘80. È risultato presto chiaro agli studiosi impegnati sul versante della school effectiveness o su quello dello school improvement (o anche su entrambi) lo stretto legame che intercorre fra i due concetti, che concretamente non possono essere separati se non per mero esercizio accademico: una scuola che avviasse processi di miglioramento senza porsi il problema se i suoi studenti ottengono risultati soddisfacenti in termini di apprendimento, infatti, verrebbe meno alle sue finalità. Nello stesso modo una scuola che risultasse efficace, senza però adeguare le modalità di gestione dei processi di insegnamento/apprendimento alle profonde trasformazioni dei contesti nei quali si trova ad operare, perderebbe in breve periodo il contatto con la realtà. Dalle precedenti constatazioni è nato un movimento internazionale di studiosi che ha dato vita ad un’associazione definita efficacia e miglioramento scolastico, combinando le due linee di ricerca separate della School Effectiveness e della School Improvement (cfr. Melchiori, 2009). L’evidenza sull’efficacia scolastica come riflessione Le teorie sull’efficacia e sul miglioramento della scuola confrontandosi con i risultati della pratica hanno superato le loro contrapposizioni, integrando in modo equilibrato da una parte l’approccio quantitativo e sperimentale, e dall’altra il metodo storiografico, clinico e qualitativo. La stessa integrazione, evitando
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pericolosi e vuoti sincretismi, è necessaria nel campo della ricerca teorica sulla pedagogia e sull’educazione, pur tenendo presenti le differenze tra tradizioni culturali e filosofiche. In base a tali indicazioni, un framework per l’analisi delle evidenze può costituirsi anche come un set di criteri per la misurazione dell’influenza di alcuni fattori sui risultati del servizio scolastico; dovrebbe, quindi, essere interpretato come un insieme organico e sistematico di concetti e schemi d’azione, sul quale basare le pratiche scolastiche. Può essere considerato come una guida per consolidare e documentare le parti più rilevanti ed essenziali della conoscenza che ciascuna scuola costruisce per la formazione, nonché per migliorare le propria efficacia e qualità del servizio scolastico. Le nuove tendenze nel dibattito pedagogico internazionale, a dispetto di un linguaggio concettuale a volte diverso rispetto a quello di una pedagogia dell’efficacia, non contraddicono né invalidano le ricerche e le riflessioni
proprie della tradizione della school effectiveness e della school improvement. Possono invece costituire un proficuo contributo se intese come uno sforzo teso a offrire nuovi apporti concettuali per rafforzare il modello teorico della qualità della scuola efficace, allargandone le basi metodologiche e filosofiche. L’applicazione dell’approccio pedagogico post-moderno, infatti, può avere come conseguenza il rafforzamento della relazione tra il miglioramento della qualità della scuola efficace e variabili di natura organizzativa. Può anche sottolineare alcuni aspetti della vita scolastica – strettamente legati con la cultura e con il clima della scuola – che influenzano l’apprendimento e i risultati degli allievi: le dimensioni latenti dell’educazione, la natura dialogica e conflittuale delle relazioni tra studenti e docenti (che possono essere analizzate come flussi di poteri), e così via. L’insieme di tali assunzioni costituiscono l’oggetto che può contraddistinguere una pedagogia dell’efficacia come già precedentemente indicato.
Il progresso per la qualità della formazione Dall’analisi della documentazione relativa alla teoria e alla pratica della ricerca pedagogica come integrazione delle teorie relative alla school effectiveness e alla school improvement, ovvero della pedagogia dell’efficacia, scaturisce una riflessione che, nelle sue linee essenziali, può essere sintetizzata come segue: il fattore più importante sia dell’efficacia sia del miglioramento delle scuole è il patrimonio che le scuole stesse possiedono in termini di conoscenze sul sapere scolastico. La conoscenza sul sapere indica che le scuole dovrebbero studiare, sulla base dell’esperienza di insegnamento, il mondo dei loro allievi e le modalità attraverso le quali essi apprendono, a scuola come altrove (cfr. Baratti – Checchi – Filippin, 2007). Inoltre, significa che le scuole devono essere consapevoli dei cambiamenti non solo delle épisteme disciplinari, ma anche delle strutture di conoscenza diffuse nella società, nell’uso sociale del sapere, così da esercitare al meglio il proprio compito didattico e instaurare una relazione positiva con gli studenti. Le scuole devono esser viste pertanto come il luogo in cui le persone, senza distinzioni o discriminazioni legati a razza, ricchezza o cultura, sono introdotti e guidati alla vita del pensiero consapevole. La conoscenza sul sapere scolastico di ciascuna scuola è una delle dimensioni centrali dei sistemi di conoscenze/competenze degli insegnanti, ciò che li rende professionisti di alto livello. Così, la riflessione circa le teorie del curricolo e del comportamento pone importanti questioni nel dibattito circa l’apprendimento organizzativo in contesto scolastico, quali: • come viene concretamente costruita la conoscenza sul sapere delle scuole? • come può una scuola divenire più esperta e consapevole circa le dimensioni latenti dell’apprendimento, che influiscono in maniera determinante sulla motivazione all’apprendimento? • come può l’insegnante contribuire a costru-
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ire un sapere proprio della scuola in quanto insieme organico? • quali sono le caratteristiche organizzative che rafforzano lo sviluppo di un sapere di tal genere? Efficacia e qualità sono due concetti basilari per ogni scuola che condivida le riflessioni esposte. Una scuola non efficace è una scuola che non raggiunge la sua meta principale, discriminando di fatto gli appartenenti a determinati gruppi e classi sociali svantaggiate dal punto di vista economico, socioculturale o etnico. Una scuola che non implementi strategie di miglioramento per la qualità dei suoi processi di insegnamento-apprendimento è una scuola che non offre ai propri allievi le conoscenze e la preparazione di cui essi hanno bisogno, e che la società richiede in funzione dello sviluppo pieno della propria vita sociale e lavorativa. Un modello di miglioramento efficace e di qualità delle scuole (o di qualità delle scuole efficaci) dovrebbe essere una delle parti centrali della conoscenza sul sapere scolastico delle scuole. Le riflessioni svolte in questo contributo, e in quelli che seguiranno, possono essere riassunte per spiegare quale tipo di apporto possono offrire per una teoria della qualità delle scuole efficaci. In particolare, vanno tenuti in considerazione i seguenti aspetti: • la tematizzazione degli aspetti manifesti e latenti dell’esperienza educativa; • la riflessione sulla dimensione personale dell’apprendimento per quel che concerne il ruolo emotivo e morale delle cognizione, e la costante attenzione all’uso dei saperi nella vita quotidiana; • la gestione dei tempi, degli spazi e degli ambienti di apprendimento della vita scolastica, a un tempo dialogica e rigorosamente regolata a tutti i livelli (allievi, classe, istituzione scolastica); • la costruzione di un approccio di valutazione degli apprendimenti che deve essere correlata a quanto previsto al punto precedente e comparata con l’ambito territoriale e nazionale.
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Conclusioni In considerazione degli aspetti precedentemente delineati lo sviluppo del framework di analisi delle evidenze segue l’approccio induttivo piuttosto che quello deduttivo. Ciò significa che sono presi in considerazione le categorie di concetti provenienti dalla prassi quotidiana delle azioni scolastiche, volte all’efficacia e alla qualità della formazione, con le quali sono state costruite le parti del framework alla luce anche delle diverse teorie considerate. Pertanto, il framework è, al contempo, un modello concettuale e una classificazione significativa dei concetti e delle interrelazioni nel campo relativamente nuovo di una pedagogia dell’efficacia e della qualità del servizio scolastico della scuola. Nel progresso delle esperienze pratiche ulteriori ricerche e sviluppi teorici cambieranno il framework, perfezionandolo e rendendolo più valido da un punto di vista di adattabilità empirica. Riferimenti Bibliografici: Bratti M. - Checchi D.- Filippin A., Da dove vengono le competenze degli studenti ? I divari territoriali nell’indagine OCSE PISA 2003, Bologna, Mulino, 2007; Melchiori R., Per una qualità della formazione, Milano, Franco Angeli, in corso di stampa; Melchiori R. (a cura di), Per Accrescere l’efficacia dell’istruzione, Milano, Franco Angeli, 2001; Melchiori R., Pedagogia. La teoria della valutazione, Lecce, Pensamultimedia Editore, 2009; OECD, Alignment in complex education systems: achieving balance and coherence, OECD Education, Working Paper No. 64 by Janet W. Looney, Paris, 2007; OECD, Review on Evaluation and Assessment Frameworks for Improving School Outcomes School Evaluation: Current Practices in OECD Countries and a Literature Review, Working Paper n. 61, 2008; Visalberghi A. - Corda Costa M. (a cura di), Misurare e valutare le competenze linguistiche, Firenze, La Nuova Italia, 1995.
L’utilizzo delle tecnologie come leva per aumentare l’interesse all’apprendimento: il software Scratch
di Roberto Orazi L’interesse viene definito da molti come “rappresentazione insistente di un fine considerato favorevole al soggetto che lo rappresenta”, cioè come la molla dell’azione umana che si compie nel momento in cui vi è un interesse che lo determina. Questo vale per tutti, soprattutto per i più giovani, per i quali l’interesse è molto più appariscente in quanto la motivazione che vi è alla base è mossa dell’impulso individuale insito nella loro natura. Alcuni studi pedagogici sono fondati sulla psicologia dell’interesse2 considerata come l’elemento “dell’insistenza”, cioè un importante elemento in grado di accendere nello studente un’attenzione continua; pertanto se il processo di apprendimento è dettato da un susseguirsi di azioni (un processo continuo) che si svolgono secondo lo spirito dello studente il processo didattico risulterà più rapido e proficuo
in quanto più vivo e costante sarà l’interesse che lo anima e lo sospinge. Nei diversi percorsi di apprendimento alcune materie (come la matematica e la logica3 per esempio) sono considerate molto complicate e di difficile comprensione. Anche nei tradizionali percorsi scolastici, infatti, esiste una specie di rassegnazione all’idea che queste materie siano difficili da apprendere; in conseguenza di ciò, alcuni insegnanti ritengono fisiologico che, all’interno di una classe, alcuni studenti non apprendano le strutture di base di queste discipline, facendo perdere così ai discenti l’opportunità di entrare nelle pieghe dei contenuti culturali tipiche di queste materie che, quando acquisiti, dischiudono un mondo meraviglioso di contenuti e metodi. Per questi motivi sempre più diffusamente si avverte la necessità di promuovere strategie didattiche che aiutino a superare queste difficoltà. Il problema principale da risolvere è quello di incentrare i progetti di studio alla realizzazione di attività che ruotino intorno a strategie che soddisfino l’esigenza di motivare lo studente all’apprendimento e rendano piacevole l’attività didattica. Un forte alleato alla risoluzione del problema sopra accennato potrebbe essere l’uso delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) che favoriscono un apprendimento che colloca lo studente al centro del dialogo educativo consentendogli di superare quelle difficoltà tipiche delle discipline e ponendolo, al tempo stesso, al centro di un percorso che non richiede e non produce solo un immagazzinamento impersonale e demotivato di contenuti, ma consente di produrre nuove inferenze e relazioni al sapere, di creare soluzioni originali e di attivare processi di realizzazione di saperi significativi. Ed è proprio questo il nodo da sciogliere: far sì che gli studenti possano aumentare attraverso lo svolgimento delle attività didattiche, giorno dopo giorno, la motivazione ad apprendere. L’utilizzo di interventi didattici mediati dalla tecnologia, se ben progettati, possono funzionare come un amplificatore cognitivo in
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quanto, oltre a privilegiare i processi, quali l’attenzione, l’ascolto e la comprensione, favoriscono anche lo sviluppo di abilità, come: l’intuizione, la pianificazione e il problem solving4. Un caso tipico di come la tecnologia possa aiutare è rappresentato da Scratch5. “Scratch è un linguaggio di programmazione sviluppato dal gruppo di ricerca Lifelong Kindergarten presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology) Media Lab e il suo sviluppo è stato supportato dalla National Science Foundation, da Microsoft, dalla Intel Foundation, dalla Nokia e dal MIT Media Lab research consortia”6. L’apprendimento mediato dall’utilizzo di software didattico a volte è limitato dal fatto che gli utenti sono costretti a lavorare con applicazioni pensate e progettate dagli sviluppatori senza possibilità di interventi mirati alla personalizzazione delle stesse, Scratch supera queste limitazioni in quanto consente ai docenti e agli studenti di diventare essi stessi sviluppatori. Il sistema è stato progettato e sviluppato per consentire ai giovani, con un’età compresa tra gli 8 e i 16 anni, senza
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competenze specifiche di programmazione e logica di poter conoscere la tecnologia informatica, di migliorare le capacità di apprendimento e al tempo stesso di favorire la creatività. Molte persone considerano la programmazione come un processo misterioso e complesso che richiede una formazione tecnica e delle competenze molto avanzate. Questa è una percezione sbagliata. Linguaggi di programmazione come il BASIC7 sono stati utilizzati per decenni e sono stati sviluppati espressamente allo scopo di insegnare la programmazione a coloro che non avevano alcuna competenza informatica. Negli ultimi anni sono state sviluppati nuove generazioni di linguaggi di programmazione con lo scopo specifico di orientare ed aiutare le persone nell’apprendimento delle logiche di programmazione e dell’informatica in generale. Uno dei migliori e più evoluti di questi linguaggi è appunto Scratch.
Figura 1 - Ambiente di lavoro di Scratch versione 1.4
I S T I T U T O
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MAGGIO
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M o n t e
G i b e r t o ,
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Scratch è un linguaggio di programmazione visuale costituito da una interfaccia grafica che supporta lo sviluppo di applicazioni all’interno di progetti che sono creati assemblando all’interno di script8, che controllano la logica di programmazione dell’applicazione, immagini, suoni, animazioni. Gli script vengono generati automaticamente mediante l’unione di blocchi grafici allo stesso modo in cui i famosi mattoncini della Lego sono assemblati insieme per creare ogni genere di creazioni uniche. Ogni blocco rappresenta un comando diverso o azione che indica ad uno sprite9 cosa fare. Scratch fornisce inoltre numerosi
strumenti che consentono ai docenti e agli studenti di gestire una molteplicità di supporti multimediali come video, suoni ed immagini che una volta assemblati danno vita ad animazioni, materiale grafico o storie animate. Il linguaggio di programmazione è stato appositamente progettato per rendere il più semplice possibile la comprensione dei concetti di programmazione, tra cui la logica condizionale, l’uso degli operatori logici, le reiterazioni, il controllo degli eventi, l’uso delle variabili, l’utilizzo di alcuni simboli e operatori matematici, l’uso di grafica e degli effetti sonori associati a determinati eventi.
Figura 2 - Esempio di blocchi di controllo, come si può notare ogni blocco rappresenta un differente comando o azione
Molto interessante è poi la possibilità di condividere progetti e applicazioni anche con altri utenti. La condivisione, infatti è una parte fondamentale dell’esperienza di programmazione di Scratch, i vari progetti sviluppati possono essere caricati sul sito Web di Scratch10 dove possono poi essere visualizzati, eseguiti on-line e commentanti anche da altri utenti in ogni parte del mondo, in questo modo i giovani utenti possono condividere le loro esperienze e imparare gli uni dagli altri ottenendo così gratificazione dai lavori da loro stessi sviluppati e realizzati, secondo la logica tipica del Web 2.0.
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Programmare significa fornire ad un computer, in modo ad esso comprensibile, una serie di istruzioni necessarie allo svolgimento di un determinato compito, l’utilizzo di questo ambiente all’interno dei laboratori scolastici consente a chiunque, anche a chi è digiuno dei fondamenti della programmazione, di approntare programmi e procedure anche complesse, che poi possono essere utilizzate per svolgere i più diversi tipi di elaborazione. L’utilizzo di Scratch può essere per il docente un valido strumento applicativo e di aiuto per consentirgli di far superare agli studenti le difficoltà che incontrano e per aumentare in loro l’interesse all’apprendimento di alcune discipline scolastiche. Riferimenti Bibliografici: ACCASCINA G., MARGIOTTA G., OLIVIERI G. (a cura di), Problem solving e calcolatore, Milano, Franco Angeli, 2001; BADGER M., Scratch 1.4 Beginner’s Guide, Birmingham – UK, Packt Publishing Ltd., 2009; CALVANI A., Teorie dell’istruzione e carico cognitivo. Modelli per una scuola efficace, Trento, Erickson, 2009; COLOMBI A. E., Immagina, programma e condividi con Scratch, Trento, Erickson, 2010; KLEINMUNTZ B., Problem solving. Ricerche, metodi, teoria, Roma, Armando editore, 1976. Note: 1. Roberto Orazi è ricercatore di Didattica e pedagogia speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Perugia. Il suo ambito di ricerca è rivolto allo studio delle tecnologie per la didattica e l’applicazione dei differenti sistemi di e-learning all’interno dei diversi tipi di organizzazioni. 2. Johann Friedrich Herbart, introduce l’interesse come punto centrale del suo pensiero pedagogico per arrivare a formulare una teoria dell’apprendimento basata sull’interesse considerato “motore dell’apprendimento stesso”. 3. La logica e le regole associative sono strumenti
fondamentali nello sviluppo delle facoltà intellettive, soprattutto durante la fase dell’età evolutiva. Le difficoltà che si incontrano nell’interessare gli studenti più giovani (bambini della scuola primaria in primis) a simili argomenti astratti possono essere risolte grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche multimediali. 4. Per approfondimenti sul problem solving si rimanda il lettore a: B. Kleinmunzt (a cura di), Problem Solving. Ricerche – metodi – teoria, Collana di tecnologie educative e di istruzione programmata, Roma, Armando Editore, 1976. 5. Il sito ufficiale da cui è possibile scaricare il software Scratch e avere informazioni più dettagliate sul progetto di ricerca è: http://scratch.mit.edu/ 6. Per approfondimenti: http://llk.media.mit.edu/ 7. Il BASIC (Begin All-purpose Symbolic Instruction Code) nasce alla metà degli anni ’60, inizialmente in ambiente interprete fu sviluppato con l’obiettivo di avvicinare e facilitare la diffusione delle tecniche di programmazione anche a persone che non avevano skills in termini di capacità di programmazione. Il linguaggio ebbe subito immediato successo, moltissime persone iniziarono a scrivere programmi, anche sofisticati, utilizzando il BASIC e la sua semplicità lo rese uno strumento didattico molto valido e apprezzato. 8. Uno script è un “file di testo che contiene istruzioni interpretate da un’applicazione o ad un programma di utilità. Solitamente è scritto in un linguaggio interpretato ed è usato per automatizzare operazioni che occorrono di frequente”. Tratto da: Il dizionario di informatica on-line - www.dizionarioinformatico. com – voce “script”. 9. In informatica uno sprite rappresenta un simbolo visivo che compare sul monitor. Gli oggetti visuali all’interno dell’ambiente Scratch sono chiamati sprite. 10. Per approfondimenti sui progetti condivisi: http://scratch.mit.edu/latest/shared
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Considerazioni intorno al concetto di Apprendimento Consapevole
di Maurizio Pattoia Premessa Quante parole sono state trasferite su carta o in byte negli ultimi quindici o venti anni allo scopo di affermare come sia più corretto un approccio didattico centrato sullo studente e come l’attivismo rappresenti l’unica prospettiva evolutiva della moderna didattica! La didattica centrata sul soggetto in apprendimento ha sbilanciato il delicato equilibrio, ammesso che ce ne sia mai stato uno, tra didassi e metesi nell’ambito di ricerca didattico. Sempre più forti, poi, sono diventate nel corso degli ultimi anni le derive psicologiche, sociologiche, biologiche e tecnologiche, tali da creare giustificabili sentimenti di sconcerto e, talvolta, di sconforto tra i professionisti, esperti e ricercatori di Didattica ai quali sembrava toccare un ruolo di mero facere et tacere. Solo agli esperti di Didattica con curricula effettivamente sbilanciati in ambiti socio-psicologici è sostanzialmente stato permesso, negli
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ultimi anni dello scorso secolo, di spingere l’acceleratore della ricerca oltre un ambito teorico generale, fondando e fondendo il senso di tale “invasione” su ampi ambienti meta-teorici e su funzionali principì di trasversalità e multidisciplinarietà. Oggi il ruolo scientifico della Didattica vede una fortissima spinta in avanti principalmente dovuta al rinnovato riconoscimento del compito che la Didattica svolge all’interno delle Scienze dell’Educazione e della Formazione. Un ruolo di collante, anche sperimentale, nella strutturazione, nel riconoscimento e nella corretta gestione e interpretazione di eventi di insegnamento e apprendimento; indipendentemente da come e dove questi possano essere pensati o attuati. Se da una parte gli strumenti sociologici, psicologici e tecnologici sono ormai parte integrante e indispensabile nel lavoro di ricerca della Didattica, una progettualità didattica poggiata solamente su alcuni specifici riferimenti teorici riconducibili a singoli ambiti è sicuramente destinata ad accusare gli effetti deleteri della riduzione in semplificazione di sistemi che riducibili non sono. Con una sorta di effetto “musicanti di Brema” capita che molti possano descrivere, con i propri strumenti disciplinari, ciò che percepiscono; senza che nessuno riesca a inquadrarne la reale portata. Il senso, insomma, è sintetizzabile con il noto aforisma attribuito ad Albert Einstein: “Tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice”. Ci troviamo in una situazione che ci impone oggi, partendo da differenti prospettive e differenti visioni di dettaglio, di cercare di integrare e portare a sistema tutta una serie di aspetti che hanno in comune i processi di insegnamento/apprendimento e che implicano una sostanziale convergenza rispetto al concetto di unicità della persona e, quindi, della personalità, e rispetto alla necessità di creare, per ogni singolo individuo, le condizioni migliori possibili per stimolare e facilitare l’insieme dei processi che, nell’arco dell’esistenza, vanno a
permettere la costruzione del patrimonio educativo personale o di cultura intesa nel senso di Willmann, di Mencarelli e di Rosati1. Tutto questo movimento, mentre trova spazio di sperimentazione nei contesti non formali e della formazione, è spesso in collisione con l’ideale consolidato di scuola di massa e di standardizzazione e programmazione della didattica; soprattutto collide con molte delle metodologie e prassi “tradizionali” utilizzate nell’attuale didattica formale. La Scuola moderna e, di seguito, l’alta formazione universitaria, si basano su una struttura piuttosto rigida che trae sostanziale motivazione dalla teorizzazione delle fasi di sviluppo, ma che nella realtà non permette alcun reale intervento educativo e formativo pienamente individualizzato e tarato sulla singola persona. A tale irrimediabile carenza sono state “ragionevolmente” addotte motivazioni riconducibili a due sostanziali linee: una che tende a esaltare le prassi proprie del più esasperato costruttivismo secondo la quale la didattica individuale e individualizzata non permetterebbe un adeguato coinvolgimento sociale; e una riconducibile agli ambiti didatticisti furoreggianti negli anni ’70 del secolo scorso e culminanti con la diffusione di una moltitudine di “manuali” che trattano di gruppo docente, di lavoro di gruppo per l’apprendimento, di ricerca-azione, di programmazione educativa. Un classico esempio di interpretazione restrittiva dello statuto epistemologico della Didattica si estrinseca nel circoscrivere tale disciplina all’ambito specifico della progettazione e attuazione di un singolo intervento didattico, qualsiasi esso sia, magari secondo i dettami metodologici dell’instructional design. Il contesto Mentre si tratta spesso del digital divide, ostacolo comunque ancora rilevante, esiste un fenomeno più subdolo e più complesso legato ai settori dell’istruzione e della formazione che potremmo chiamare anche learning divide.
Riguarda la difficoltà del sistema educativo in generale, ai vari livelli, di rapportarsi, sia in termini di progettazione e attuazione didattica che in termini di strategie formative, con una realtà che richiede sempre più rapidamente nuovi contenuti, veicolati attraverso molteplici e nuovi canali al fine di attivare differenti processi di apprendimento sempre più mirati, efficienti ed efficaci. Ovviamente per costruire e gestire strumenti efficienti ed efficaci occorre conoscere profondamente l’oggetto, il soggetto, gli altri attori e anche i differenti meccanismi che intervengono in ogni singolo processo di apprendimento. Compito sicuramente non semplice; che in alcuni casi potremmo arrivare a definire insostenibile soprattutto se si tiene conto delle normali risorse disponibili. E allora? Diciamo che già circoscrivere e definire il problema o i problemi è, come ci insegnano le prassi del metodo scientifico, parte della soluzione. Le parole chiave sono le solite tre: efficacia, efficienza ed economicità. Questo porta a scartare, a seconda dei casi definitivamente o momentaneamente, alcune soluzioni. Intanto si può iniziare da una ridefinizione del processo di progettazione didattica dal classico modello autoreferenziale dell’instructional design(ID), il quale prevede le fasi interconnesse di analisi, progettazione, sviluppo, implementazione e valutazione. Questo non significa che la metodologia progettuale proposta dall’ID sia da buttare, anzi, essa può rappresentare in cuore di un più ampio ambito progettuale, un tassello centrale importante. Ma se si allarga la prospettiva ci si accorge che mancano delle connessioni logiche, dei tratti d’unione tra ciò che è un intervento didattico specifico e l’insieme dei costituenti culturali ed educativi necessari a una interpretazione e a uno sviluppo socio centrico delle singole persone. Occorrerebbe, allora, ripensare in un quadro allargato le dinamiche della progettualità didattica collegandole al piano pedagogico, quindi
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al senso dell’educazione. Se qualche filosofo o storico dell’educazione o pedagogista ripropone oggi fortemente il senso moderno del pensiero di Foerster; o il pragmatismo positivo di Gabelli, o ritornano gli echi degli aspri commenti sul “popolo-fanciullo” del Manacorda degli anni ’50, ci sarà pure una ragione? Vero è che il mondo cambia a ritmi sempre più veloci e l’arco di tempo che trascorre da quando si acquisisce una conoscenza, una competenza o una abilità a quando queste divengono obsolete è sempre più corto2. Negli ultimi due-tre lustri si è spesso proposta in ambito didattico una distratta interpretazione della meta-teoria costruttivista secondo la quale ambito socializzante e tecnologie sono strumenti e contesti bastanti a garantire un effettivo miglioramento in efficienza ed efficacia dell’apprendimento. Certamente ne sono componenti fondanti, ma si è ricaduti in un errore di semplificazione di un sistema complesso, confondendo capacità di accesso e acquisizione delle informazioni, con l’apprendimento. Ma allora quali sono le nuove sfide che la moderna società cosiddetta “della conoscenza” pone? Beh, innanzi tutto un’altra parola chiave è “convergenza” anche in ambito didattico, come in altri settori. Convergenza tra quegli aspetti che in passato sono stati trattati, spesso anche in ricerca, separatamente e che invece debbono divenire via una: istruzione, formazione, life long learning, …. Ovvero, in altri termini, una sostanziale fusione tra gli ambiti di apprendimento formale, non formale e informale. Altro aspetto cardine è la personalizzazione dell’apprendimento, magari considerata all’interno di un contesto sociale e partecipativo. Apprendimento consapevole Per superare l’impasse si propone, allora, un approccio funzionale che, se inizialmente può dare l’idea della classica toppa di rappezzo, portato a sistema assume un significato ben
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più importante. Quando si parla di “apprendimento consapevole” si intende un complesso e strutturato insieme di “metodi, contenuti, tecnologie e relazioni”3 che tenta di affrontare il problema dello scollamento esistente tra i riferimenti “pedagogici” della politica educativa, del life long learning, del portfolio e del progetto di vita e quelli didattici della progettazione didattica, del percorso didattico e degli obiettivi formativi. Si ritiene che il problema di fondo sia proprio inquadrabile sulla differenza di prospettiva che non permette a questi piani di intersecarsi. Una possibile intersezione passa sicuramente per un’educazione all’apprendere e per l’acquisizione, da parte di tutti gli attori, della consapevolezza di come le proprie peculiari qualità possono essere utilizzate per facilitare, migliorare e amplificare l’apprendimento proprio e altrui. Uno degli strumenti utilizzabili nelle pratiche di apprendimento consapevole ci è fornito dalla moderna psicologia dell’apprendimento e si tratta dei metodi scientifici di riconoscimento del profilo di apprendimento, ovvero di riconoscere attraverso una serie di parametri relativamente generalizzati come ogni persona approccia specifiche situazioni di apprendimento. In pratica si tratta di renderci conto che ognuno di noi, in quanto persona, ha una propria testa e che ognuno approccia contesti di apprendimento secondo un proprio peculiare e sostanzialmente immutabile profilo. Molteplici sono stati, nel corso del tempo, gli studi tesi a qualificare le differenze che esistono nelle modalità con le quali le persone apprendono. Spesso si è creata confusione tra i concetti di stile di apprendimento e stile cognitivo, e questo misunderstanding è sempre nel senso della semplificazione. Utilizzando le parole di Luciano Mariani, per stile di apprendimento s’intende “l’approccio complessivo di una persona all’apprendimento, il suo modo di reagire ai compiti di apprendimento, un modo che si manifesta in maniera piuttosto costante,
in una varietà di contesti, e che poi condiziona la scelta e l’uso di strategie”4. Già, non solamente capire come affrontiamo determinati contesti di apprendimento, ma anche avere delle direttive strategiche generali alle quali fare riferimento. È per questo motivo che gli strumenti psicologici destinati a permetterci di riconoscere e qualificare i diversi stili cognitivi rappresentano solo una parte della soluzione e, a meno che non si voglia assumere un atteggiamento problematicista, si completano necessariamente con il raccordo dei risultati con indicazioni strategiche specifiche. Banalmente, non è sufficiente capire il problema ma è necessario cercare o avere possibili soluzioni. Ad esempio, come già ampiamente descritto da Chiara Morozzi5, sarebbero preferibili strumenti completi di analisi e strategie a strumenti di sola classificazione. È per questo che la Morozzi, pur analizzando pro è contro dei vari approcci, consiglia l’applicazione del LetMeLearn® Process rispetto ad altri. Altro ulteriore insieme di strumenti integra-
bili riguarda la reale e pragmatica applicazione del concetto di adattività dell’ambiente di apprendimento, che si può esplicitare non solamente in ambiti di e-learning, ma anche negli interventi didattici di tipo cosiddetto “tradizionale”. Un ambiente di apprendimento adattivo si caratterizza per integrare nella sua struttura tutta una serie di “sensori” per il rilevamento di dati qualitativi e quantitativi significativi e, di conseguenza, della definizione e attuazione di una serie di strategie di intervento/risposta, anche automatiche, tese da una parte rendere student-centred il processo di apprendimento in senso generale e a massimizzarne le performance, e dall’altra a ridefinire in senso dinamico i tempi e modi di intervento di tutte le classiche componenti degli ambienti di apprendimento. Chiunque si occupi a vario titolo di didattica sa che solo la peculiare e corretta combinazione di obiettivi, metodi, contenuti, tecnologie e relazioni è in grado di dare i risultati di apprendimento attesi.
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Se si accetta la definizione di “ambiente di apprendimento” come “combinazione di metodi, contenuti, tecnologie e relazioni” allora si può concedere l’allargamento del concetto mcluhaniano “il medium è il messaggio” all’ambito didattico attraverso la locuzione “l’ambiente è l’apprendimento”; e diventano strategici lo studio e la pianificazione di un efficace ambiente di apprendimento personale e personalizzato allo scopo di ottenere alti livelli di percezione, comprensione e sedimentazione dei contenuti; combinati con facilità e velocità di accesso agli stessi. Esistono attualmente diversi approcci per consentire o facilitare attraverso le nuove tecnologie i molteplici aspetti dell’apprendimento che sono definiti “student-centred”. Adottando una prospettiva di economia della didattica possono, comunque, essere ricondotti a una classificazione che vede sistemi di e-learning, da un lato, e ambienti di apprendimento cosiddetto “adattivo” dall’altro. Alcuni autori sostengono che questa dicotomia è, molto probabilmente, causata dalla lacunisità degli standard di riferimento in materia. Auspicabile sarebbe una definitiva convergenza di tali filoni sostenuta da una struttura di standardizzazione adeguata a normare sia i caratteri tecnologici che quelli didattici; magari con distinzione per tipologie educativo/ formative. Nell’ambito informale la circolazione delle informazioni nelle comunità di apprendimento e di pratica ormai si basa quasi esclusivamente sugli strumenti propri dell’information e communication technology (ICT), via via banalizzati o esaltati da estemporanee quanto superficiali etichette che tentano di circoscriverne contenuti, tecnologie e portata (web 2.0, 3.0, cyberspazialità condivisa, network sociali); dove la norma è ormai quella dell’integrazione dinamica (mash-up) e della personalizzazione (profiling); ma che spesso utilizzano la conoscenza della tecnologia come una sorta di processo iniziatico che offre lo spazio per definire nuovi tipi di compagini élitarie o di
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club esclusivi che poco hanno a che vedere con il fenomeno del cosiddetto digital divide, ma che possono rendere comunque frustrante l’accesso per chi, da “nuovo adepto” cerca di avvicinarvisi. L’osservazione della realtà, così come intesa negli ambiti della sociologia della conoscenza, mostra un magma in ebollizione non definito, né definibile, di convergenze e divergenze tecnologiche che si susseguono e si sovrappongono con la velocità della rete e che affannati sociologi e psicologi tentano di indagare con strumenti quantomeno troppo lenti per carpirne le evoluzioni e i mutamenti. L’impressione che si ha, provando a sottrarsi ai coinvolgimenti, è quella di chi vede misurare distanze di anni luce con il metro da sarto… Allora il mashing-up diviene lo strumento tecnico “adatto”, così come inteso in senso porteriano ; e ciò riconduce nuovamente alla constatazione della necessità di determinare delle regole di definizione e gestione, non dei contenuti, ma dei meta contenuti. Inoltre, combinando strumenti provenienti da diversi sistemi resi compatibili, sarebbe possibile creare una moltitudine di canali di accesso e di elaborazione dei contenuti, in modo adattivo con possibilità di una strutturazione personalizzata; manuale, semi-automatizzata o automatizzata, magari attraverso il riconoscimento del già citato stile o pattern di apprendimento specifico di ogni persona. Intanto è possibile intravedere un ambito di sviluppo immediato legato nella progettazione e realizzazione di sistemi di e-learning “adattivi”, i cd. ALES (Adaptive Learning Environment System) ovvero in grado di supportare le differenti caratteristiche di apprendimento proprie di ogni individuo e di modificare e adattare, in modalità più o meno automatizzata, strumenti e percorsi in base a tali caratteristiche, così da ottimizzare il prodotto tra i fattori di motivazione, capacità e inclinazione per ogni singola persona.
Note: 1 Cfr. Lanfranco Rosati, Didattica della Cultura e Cultura della Didattica. La “sostenibile leggerezza” del sapere, Morlacchi, Perugia, 2004 2 George Siemens, (2006), Knowing Knowledge, George Siemens, 2006 3 Pedagogia, Didattica e Apprendimento consapevole 4 Luciano Mariani, Stili e strategie nella dinamica apprendimento/insegnamento della lingua, in Lingua e Nuova Didattica, Anno XXV, Numero speciale, Settembre 1996 5 Chiara Morozzi,, in Pedagogia, Didattica e Apprendimento Consapevole, Roma, Aracne Editrice, 2010 Riferimenti Bibliografici: ASHMAN A., CONWAY R.,Guida alla Didattica Metacognitiva. Trento, Edizioni Erickson; BRIGGS MYERS I., MCCAULLEY M., Manual: A Guide to the Development and Use of the Myers-Briggs Type Indicator (2nd ed.), Palo Alto (USA), Consulting Psychologists Press, 1985; BRUSILOVSKY P., KOBSA A., NEIDL W., The Adaptive Web: Methods and Strategies of Web Personalization, In Lecture Notes in Computer Science, Berlino, Springer, 2007; BRUSILOVSKY P., GRIGORIADOU M., PAPANIKOLAOU K., Proceedings of the Workshop on Personalization in E-learning Environments at Individual and Group Level at the UM 2007, 11th International Conference on User Modeling, UM 2007, June 25, 2007, Berlino, Springer, 2007; CADAMURO A., 2004, Stili cognitivi e stili di apprendimento, Roma, Carocci; CANTOIA M., CARRUBBA L., COLOMBO B., Apprendere con stile, Roma, Carocci, 2004; COFFIELD F., MOSELEY D., HALL E., ECCLESTONE K., Learning styles and pedagogy in post-16 learning. A systematic and critical review, Londra (UK), Learning and Skills Research Centre, 2004; DANESI M., Il cervello in aula!: neurolinguistica e didattica delle lingue, Perugia, Guerra Edizioni, 1998; DOLOG P., SCHÄFER M., A Framework for Browsing, Manipulating and Maintaining Interoperable Learner Profiles, In Proceedings of the 10th International Conference on User Modelling, Berlino, Springer, 2005;
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I media nel lifelong learning
di Anna Maria Pani La società della conoscenza, con le sue potenzialità tecnologiche e l’internazionalizzazione, offre una pluralità di occasioni di apprendimento anche al di là di quello che, tradizionalmente, era considerato il luogo deputato all’istruzione e alla formazione dell’individuo. Come supportano le scuole queste ormai innumerevoli occasioni di apprendimento fuori dal sistema educativo? L’educazione permanente o lifelong learning continua ad essere il principio ispiratore e catalizzatore delle politiche educative e formative che, in Italia e nell’U.E., appaiono sempre più connesse alle strategie di crescita e di sviluppo occupazionale. Lo stesso neo Ministro all’istruzione Profumo, intervenuto a Fiuggi il 2 dicembre u.s. al congresso dell’ ANP, ha dichiarato “Scuola, università e ricerca sono presidi fondamentali in una prospettiva di medio periodo per una nazione che voglia garantirsi un futuro solido, fatto di sviluppo ricchezza e conoscenza. In altre parole per un Paese che voglia restare protagonista nello scenario internazionale e non spettatore”. Indubbiamente il concetto di apprendimento permanente, che implica la disponibilità di un individuo ad apprendere e la possibilità di farlo durante l’intero corso della vita, rappresenta una condizione necessaria dinanzi alle
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urgenze della società post-industriale, in cui il sapere e le conoscenze sono da porre a fondamento strutturale dello sviluppo economico. D’altro canto l’apprendimento permanente è elemento centrale della strategia europea da ormai più di un decennio; in particolare da quando, nell’ottobre del 2000, la Commissione europea ha lanciato il Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente (http://ec.europa.eu/education/ lifelong-learning-policy/doc/policy/memo_ it.pdf): si tratta, come è noto, del documento di lavoro con cui l’UE intendeva stimolare, attraverso la definizione di sei messaggi chiave, il dibattito sui temi dell’istruzione e della formazione permanente. Sulla base del Memorandum, ogni Stato membro fu sollecitato ad attivare al proprio interno un processo di diffusione e consultazione del documento che coinvolgesse i diversi attori-chiave della società civile, al fine di delineare un piano di orientamenti nazionali sui temi dell’istruzione e della formazione permanente. I sei messaggi chiave riguardavano una serie di aspetti inerenti il sistema di lifelong learning: maggiori conoscenze di base per tutti, maggiori investimenti in risorse umane, orientamento, valutazione dei risultati, accesso paritario e geografico alla formazione da parte dell’utenza, anche attraverso infrastrutture basate sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’apprendimento a distanza. E’ evidente, infatti, che diventa difficile aver voglia di continuare a formarsi non disponendo di possibilità compatibili con i vari problemi di orario, di ritmo, di luogo o di costi; non si può essere motivati se il contenuto e i metodi didattici non tengono adeguatamente conto delle precedenti esperienze di ciascuno; e, ancora, si finirà col ritenere inutile un investimento di tempo, energia e denaro in nuovi corsi di formazione se le conoscenze, le qualifiche e le competenze già acquisite non vengono riconosciute sul piano personale e professionale. Proprio alla luce di tali considerazioni, il Memorandum distingue tre categorie fondamen-
tali di apprendimento: formale, non formale ed informale. Questi tre termini, benché molto diffusi, sembrano tuttavia essere ancora causa di confusione per cui, partendo dalle definizioni contenute nei documenti europei, può essere utile puntualizzarli. L’apprendimento formale è l’apprendimento erogato da un’istituzione di istruzione o formazione, strutturato in termini di obiettivi, tempo di apprendimento o supporto all’apprendimento; è finalizzato all’ottenimento di una certificazione ed intenzionale dal punto di vista dello studente. In altre parole, è l’apprendimento in corsi, lezioni, workshop e altri eventi “faccia a faccia” che conducono a certificazioni o le convalidano. Per gli apprendimenti che avvengono al di fuori di un apprendimento formale si utilizzano solitamente i concetti di apprendimento informale o apprendimento non formale. L’ apprendimento non formale è quello incorporato in attività pianificate che, pur non esplicitamente indicate come attività di apprendimento in termini di obiettivi, di tempo o di supporto, contengono un elemento di apprendimento importante. Si tratta, insomma, dell’apprendimento dispensato sul luogo di lavoro o nell’ambito di attività di organizzazioni della società civile come associazioni, sindacati o partiti politici; include scoprire cose che non fanno parte della nostra quotidianità, mantenersi aggiornati con ciò che succede dentro e fuori l’organizzazione, interagire con altre persone della nostra rete professionale imparando da loro. L’apprendimento non formale è intenzionale nella prospettiva dello studente e, in genere, non porta alla certificazione. L’apprendimento informale è invece l’apprendimento risultante dalle attività della vita quotidiana legate al lavoro, alla famiglia o al tempo libero; non è organizzato o strutturato in termini di obiettivi, di tempo o di supporto all’apprendimento; nella maggior parte dei casi non è intenzionale dal punto di vista dello studente e, in genere, non porta alla certificazione. Insomma, è ciò che impariamo nella nostra
vita quotidiana, ad esempio leggendo, osservando o conversando con altre persone. In termini di intenzione del discente, quindi, mentre l’apprendimento formale e non formale sono intenzionali, cioè l’individuo ha intenzione di imparare qualcosa, quello informale è soprattutto involontario, cioè capita come conseguenza del fare qualcos’altro: con l’apprendimento informale lo studente può essere consapevole di aver imparato qualcosa, ma in molti casi non lo è. Il che non nega il potere dell’apprendimento informale, ma crea una differenza sul come i sistemi di istruzione supportano questi diversi tipi di apprendimento; in particolare mentre l’apprendimento formale, essendo nel controllo dei sistemi di educazione ed istruzione, può essere progettato e gestito, gli apprendimenti non formale e informale non possono esserlo, essendo sotto il controllo del discente. Da ciò discende innanzitutto che, quando i media informali si integrano in una situazione di apprendimento formale, non siamo più dinnanzi ad un apprendimento informale. Inoltre, i sistemi che pretendono di “gestire l’ apprendimento informale” non possono chiaramente farlo; tutto ciò che possono fare è gestire l’uso del media informale, il che non significa esattamente la stessa cosa. Si potrebbe obiettare che queste considerazioni sono ridondanti e che, qualunque sia la terminologia utilizzata, resta il fatto che facendo uso di media informali per l’apprendimento, si è comunque dinanzi ad una attività valutabile. Benché fondata, questa obiezione mancherebbe tuttavia di considerare i risultati
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evidenziati da una ricerca (www.informl.com/ where-did-the-80-come-from) e cioè che: - circa l’80% di ciò che un individuo impara sul posto di lavoro è informale (comprendendo il non formale); - l’apprendimento informale avviene continuamente nel flusso di lavoro, mentre le persone attendono alle loro occupazioni; invece quello formale si svolge in modo intermittente, fuori del flusso di lavoro, spesso in un luogo fisico diverso, ma anche dentro. Cosa significa questo per le politiche di sviluppo dell’istruzione? Ritengo che tre siano i concetti-chiave su cui riflettere: 1) L’apprendimento informale non è un qualcosa che i sistemi educativi possono progettare in un mix col percorso formale, nel tentativo di “gestire” tutto ciò che ognuno apprende in un’organizzazione (sarebbe un compito impossibile); è piuttosto qualcosa che deve essere sostenuto e rafforzato, così come si presenta naturalmente nel flusso di lavoro, al fine di aiutare le persone a imparare a fare il (meglio) proprio lavoro e a lavorare in modo diverso. 2) Ancora, i sistemi educativi hanno bisogno di pensare maggiormente a come aiutare individui e gruppi nell’uso dei social media per migliorare l’apprendimento che si svolge nel flusso di lavoro organizzativo, piuttosto che concentrarsi esclusivamente sul suo utilizzo all’interno di un apprendimento formale. In altre parole, occorre passare da un modello di “comando e controllo” a “incoraggiamento e coinvolgimento”. 3) Infine, è necessario assicurarsi che gli strumenti sociali a sostegno dell’apprendimento all’interno dell’organizzazione, siano gli stessi strumenti di cui gli individui fanno uso nelle loro attività quotidiane. Il focus, cioè, deve essere la convergenza. Fonte:http://janeknight.typepad.com/ pick/2011/10/you-cant-manage-informal-learning-only-use-of-informal-media.html
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Competenze professionali pregresse e studenti universitari in formazione iniziale: una possibile prospettiva.
di Francesco Claudio Ugolini Sappiamo che le Università in Europa sono state investite nell’ultimo decennio da profonde trasformazioni, innescate da mutamenti importanti della società, delle conoscenze e del mondo del lavoro e rilanciate da un lato dal cosiddetto Processo di Bologna, che mira a costruire lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore e che coinvolge oggi la quasi totalità dei paesi del Vecchio Continente1, e dall’altro dalle iniziative delle istituzioni dell’Unione Europea che rientrano nell’ambito di quella che è nota come Strategia di Lisbona, che si pone l’obiettivo più generale di creare in Europa una “economia basata sulla conoscenza competitiva e dinamica”. Con l’intento di valorizzare la conoscenza – intesa dunque come bene primario – comunque acquisita, nell’ottobre del 2000, la Commissione Europea ha affermato, in uno specifico Memorandum (Commissione Europea, 2000), il paradigma del Lifelong Lifewide Learning, secondo cui ogni individuo è sem-
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pre in apprendimento, durante tutto l’arco dell’esistenza (lifelong) e in tutti i suoi aspetti (lifewide). La Commissione ha voluto in particolare porre l’accento sulle forme di apprendimento diverso da quello formale (strutturato, con una figura docente e certificato a livello istituzionale, avente principalmente luogo nei tradizionali contesti di istruzione e formazione), parlando di apprendimento non formale (strutturato, con una figura di docente o facilitatore ma non certificato a livello istituzionale) e di apprendimento informale (non strutturato, emergente nei più diversi ambiti di lavoro e di tempo libero), considerandoli rispettivamente “sottostimato” e “completamente trascurato” (Commissione Europea, 2000, p. 9). In questo quadro generale, l’istituzione universitaria è stata chiamata a un duplice compito: prendere in considerazione la tipologia di studenti adulti e lavoratori, il cui numero appare crescente, da un lato venendo incontro alle loro esigenze in termini di supporto e flessibilità e dall’altro tenendo conto dei loro apprendimenti pregressi, riconoscendoli, validandoli e certificandoli, valorizzando in questo modo l’apprendimento non formale e informale, tipicamente quello acquisito nell’esercizio delle professioni. Questo secondo aspetto è stato variamente recepito dai sistemi universitari europei (Di Rienzo, 2010; Feutrie, 2008). In particolare possiamo sottolineare i dispositivi della VAE (Validazione di quanto Acquisito con l’Esperienza 2) in Francia e dell’APEL (Accreditamento dell’apprendimento esperienziale pregresso 3) nei paesi di area anglofona, frutto di una lunga e consolidata tradizione per quello che riguarda il riconoscimento dell’apprendimento professionale. In Italia il percorso a livello istituzionale compiuto da queste tematiche è stato più difficoltoso: se il decreto 509 del 1999 aveva introdotto la possibilità per le Università di “riconoscere come crediti formativi universitari, secondo criteri predeterminati, le conoscenze e abilità professionali certificate ai sensi della
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normativa vigente in materia” (DL 509/99, art. 5, comma 7), questo riconoscimento è stato successivamente limitato a un tetto massimo di 60 crediti con il Decreto Legge 262/2006 e infine ulteriormente abbassato a un massimo di dodici crediti con la recente riforma (Legge 240/2010 art. 14, comma 1), rispondendo in modo drastico a talune distorsioni verificatesi nell’applicazione della norma 4. Questi aspetti ci hanno abituato a distinguere, tra gli iscritti all’università, coloro che possono essere considerati studenti tout court, da quelli cui viene affiancata l’attribuzione di “lavoratori”; vengono tuttavia distinte le categorie di “studenti lavoratori” (coloro i quali vedono nello studio la loro attività prevalente, pur esercitando un lavoro), e quella di “lavoratori studenti” (coloro i quali tipicamente ritornano “tra i banchi” dopo un periodo significativo di vita lavorativa) 5. Tuttavia, indipendentemente dalle peculiari esigenze presentate da questi ultimi, il panorama di studenti iscritti ai corsi di laurea appare vario e diversificato in relazione al loro rapporto con il mondo del lavoro, e ciò in misura ancora maggiore se consideriamo anche esperienze significative in ambito sportivo, artistico e di impegno civile. D’altra parte la presa di consapevolezza dell’apprendimento comunque acquisito è un valore anche in senso prospettico. Feutrie (2011), descrive nuove tipologie di percorsi professionali, non più ancorati al modello Formazione Iniziale – Lavoro – Pensione. “La vita personale e professionale si caratterizza sempre più per la frammentazione. Assistiamo per esempio a una moltiplicazione
del numero di impieghi occupati da un individuo nel corso della sua carriera, dal numero di ingressi e di uscite nel mercato del lavoro, volontariamente o involontariamente. […] Il punto cruciale di questi percorsi frammentati risiede, dal nostro punto di vista, in ciò che prende ormai il nome di punti di transizione.” (Ivi, p. 59) 6. Feutrie quindi presenta un modello che, dopo la formazione iniziale, vede un percorso professionale frammentato composto da esperienze diverse separate da momenti di passaggio delicati per l’individuo che deve poter mantenere una continuità nel proprio percorso professionale. Sono i momenti in cui è opportuno prendere in considerazione gli apprendimenti pregressi per riformulare un progetto di vita professionale. Le Università possono essere – e in Francia lo sono – i luoghi in cui questi aspetti vengono gestiti. Alcuni importanti progetti in questo senso sono stati condotti anche in Italia (Di Rienzo, 2010; Alberici, Di Rienzo, 2011; Galliani, Zaggia, Serbati, 2011). Ci preme porre l’accento tuttavia in questa sede sul momento della formazione iniziale. Lo schema proposto da Feutrie, per esempio, prevede esperienze lavorative solo successivamente al conseguimento di un primo diploma universitario, non contemplando le diverse esperienze più o meno saltuarie di tipo lavorativo oppure altre forme di impegno nello sport, nell’arte, nella società civile. Cristina Zaggia (2011), parlando del particolare strumento del Bilancio di Competenze, tra le tipologie di passaggi che questo aiuta a gestire, indica, oltre a quelli che coinvolgono la formazione e il lavoro, anche quelli “tra i
diversi spazi e tempi di vita (studio, famiglia, lavoro, hobby, sport, associazionismo, ecc.), sempre meno consecutivi, sempre più intrecciati e sincroni, da cui la difficoltà non solo e non tanto di conciliarli ma soprattutto di valorizzare l’intero vissuto e trascorso personale, formativo e professionale che la persona porta con sé all’interno dei diversi ambiti” (Ivi, p. 52). Le situazioni qui descritte non sono però specifiche di adulti che ritornano in formazione, ma si possono ritrovare anche in studenti in età post secondaria. L’ipotesi del presente lavoro è che vi sia margine per valorizzare gli apprendimenti pregressi, soprattutto in chiave proattiva verso le esperienze future, anche per questa categoria di studenti. Lo strumento del Bilancio di Competenze (Alberici, Serreri, 2009) appare specificatamente tarato sulle esigenze di coloro che sono lavoratori, prima ancora che studenti, ma è possibile l’uso di forme più o meno robuste e strutturate di portfolio, che favoriscano una riflessione sulle competenze già acquisite che possa far maturare quella competenza, definita chiave dalle istituzioni dell’Unione Europea, che è quella di “imparare ad imparare” (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio, 2006, p. 4), cruciale in un mondo del lavoro come quello descritto da Feutrie, in un’ottica di lifelong lifewide learning. In questo contesto, riportiamo qui i primi risultati di un intervento svolto nell’ambito dell’insegnamento universitario di “Valutazione delle Competenze per la Sicurezza” nel secondo anno del corso di laurea triennale di “Scienze per l’Investigazione e la Sicurezza”. Il corso di laurea, istituito e attivato nel 2006
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dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Perugia presso la sede distaccata di Narni, ha riscosso importanti risultati in termini di immatricolazioni (costantemente tra i 300 e i 400 studenti), ed è tra le poche realtà italiane a proporre un’offerta formativa nell’ambito della sicurezza. Alcuni dati relativi agli studenti che hanno frequentato l’insegnamento sono riportati più avanti. L’obiettivo dell’insegnamento è proprio quello di far comprendere agli studenti il valore delle competenze comunque acquisite, con particolare riferimento a quelle professionali. Per raggiungere tale obiettivo, viene chiesto agli studenti di costruire un portfolio, seppur in versione ridotta a causa dell’alto numero di studenti in rapporto al solo docente. La costruzione di un portfolio è infatti un processo lungo a forte base individuale che deve essere accompagnato da un tutor. Prendendo spunto dal modello proposto da Anna Maria Ajello e da Cristina Belardi (2007) abbiamo chiesto agli studenti di costruire un portfolio digitale 7, distinguendo i contesti formali, non formali e informali, provvedendo alla dimostrazione di almeno una competenza per categoria: la dimostrazione delle competenze formali avviene semplicemente presentando la scansione del diploma conseguito; quella delle competenze non formali attraverso l’esplicitazione di una conoscenza o di un’abilità tecnica specifica, corredata da una terminologia adeguata, che sia testimonianza della partecipazione a un corso; per quello che riguarda le competenze informali, invece, viene richiesta una riflessione più articolata, che prenda le mosse dalle esperienze lavorative o di impegno artistico, sportivo o civile, che espliciti quanto vi viene appreso, e proceda a una sua dimostrazione. Proprio quest’ultima parte costituisce il punto cardine del lavoro, laddove viene espressa una logica per competenze. In effetti, partendo da una definizione di competenza come “mobilitazione di risorse”, secondo il costrutto di Le Boterf (1994; Alberici, 2009, p. 22), risorse
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di provenienza diversa, sia dal punto di vista disciplinare, sia di contesto di acquisizione (formale, non formale, informale), sia di tipologia teorica, esperienziale o procedurale per risolvere un problema in un contesto ambientale specifico (Domenici, 2000, p. 24; Alberici 2009, p. 16), si chiede allo studente di individuare una situazione problematica emblematica, realmente accaduta o ipotetica, in cui ha potuto o potrebbe “mobilitare le risorse” acquisite nelle diverse esperienze elencate per contribuire a risolverla. È stata favorita, laddove possibile, l’integrazione dei diversi contesti, formale (esso comprendeva anche la descrizione di eventuali stages o tirocini svolti nei contesti scolastici o universitari e in tale sede valutati), non formale e informale 8. Ferma rimanendo la personalizzazione di questi elaborati, la nostra attenzione si è rivolta per lo più verso le competenze relative alla gestione del lavoro di gruppo, al contatto con
il pubblico e a all’autodisciplina. Queste in effetti, sempre molto richieste nel mondo del lavoro in generale e in quello della sicurezza in particolare, difficilmente possono essere la risultante di percorsi di istruzione formale, mentre si possono costruire anche in esperienze quali possono essere la partecipazione a sport di squadra o ad attività di scoutismo, o in esperienze anche brevi di tipo lavorativo o, per quello che riguarda l’autodisciplina, nella pratica delle arti marziali. Non siamo in grado in questa sede di presentare organicamente i risultati. Al momento in cui scriviamo, le lezioni sono terminate e con esse l’impostazione del portfolio svolta in presenza. L’accompagnamento tuttavia continua a distanza via posta elettronica. Il termine per la consegna del portfolio è legato agli appelli di esame e dopo la prima sessione d’esame (sessione invernale dell’a.a. 2011/2012) avremo senz’altro un quadro più delineato. Inoltre,
ai frequentanti si aggiungeranno anche i lavoratori-studenti, per i quali prevediamo due giornate di seminario. Tuttavia, dai dati raccolti tra i frequentanti con un questionario di ingresso autocompilato, e dai primi elaborati che abbiamo potuto analizzare, possiamo considerare valida la nostra ipotesi, ovvero che vi è margine per valorizzare gli apprendimenti pregressi anche negli studenti in formazione iniziale, rimandando alla conclusione della ricerca le riflessioni più mature sulla sua natura. All’inizio del ciclo di lezioni previste dall’insegnamento di Valutazione delle Competenze per la Sicurezza è stato distribuito ai frequentanti un questionario che aveva per obiettivo la descrizione del rapporto che essi avevano con il mondo del lavoro. Le risposte sono state 158. Presentiamo qui una breve sintesi dei dati raccolti. Iniziamo con il dire che ci concentriamo in questa sede sugli studenti in formazione iniziale, trascurando quei lavoratori studenti che hanno avuto l’opportunità di rispondere al questionario. Come discriminante useremo la definizione adottata in Francia – uno studente maggiorenne è in formazione iniziale se non ha interrotto gli studi per più di due anni – proprio per evidenziarne i limiti nel descrivere il rapporto con il mondo del lavoro. Secondo le risposte al questionario, 102 studenti (64,6 %) si sono iscritti al corso di laurea nell’anno successivo al conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore, 17 studenti (10,8 %) avevano ripreso gli studi dopo un’interruzione di durata inferiore ai due anni e 20 studenti (12,7 %) si sono trasferiti da un altro corso di laurea. Sono questi 139 gli studenti in formazione iniziale in base alla definizione francese, e in totale rappresentano l’88 % dei rispondenti. Escludiamo quindi dalla nostra analisi in questa sede unicamente i 19 studenti (12 %) che hanno ripreso gli studi dopo un’interruzione di durata superiore ai due anni. Si tratta di studenti in maggioranza di sesso femminile (69,6 %) e di età media 20,5 anni 9 . Ciò su cui vogliamo porre l’accento è il
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loro rapporto con il mondo del lavoro. Solo 19 studenti (13,7 %) hanno risposto che non hanno mai lavorato, mentre 62 studenti (44,6 %) hanno risposto di aver lavorato sporadicamente (abbiamo fatto l’esempio nel questionario delle lezioni private), 39 (28,1 %) hanno risposto di aver lavorato in modo continuato per una durata inferiore a 6 mesi mentre 19 (13,7 %) hanno risposto di aver lavorato in modo continuato per una durata superiore a 6 mesi 10. Come si vede, questi dati hanno in qualche modo confortato la nostra volontà di proporre la costruzione di un portfolio, seppur ridotto, di impostazione professionale. Un altro dato che ci pare rilevante riguarda la scelta di questo particolare percorso universitario. Il 69 % degli studenti ha dichiarato di avere un’idea abbastanza precisa del mestiere che vuole fare e che il corso di laurea sembra loro il più adatto per poterlo esercitare, e questa percentuale è simile (68,6 %) se limitata a coloro che erano appena diplomati al momento dell’iscrizione, a significare che anche gli studenti in formazione iniziale si pongono fortemente il problema di un progetto professionale nel quale innestare il percorso di istruzione universitaria. Una percentuale comunque importante (22,3 %) ha risposto di essere incuriosito dalle tematiche trattate, ma di non avere un’idea precisa del proprio futuro professionale mentre 7 studenti, peraltro tutti appartenenti alla categoria di coloro che sono passati direttamente dall’istruzione scolastica secondaria superiore a quella universitaria, hanno risposto di intendere il percorso universitario scelto e il diploma come decisivo nell’ambito del proprio percorso professionale. Si tratta di un numero comunque da sottolineare, dal momento che l’alternativa era stata proposta pensando a quei particolari lavoratori adulti non laureati che necessitano del diploma di laurea per ottenere una promozione o concorrere a un determinato ruolo. Non abbiamo, nel questionario, inteso rilevare esperienze di tempo libero significative;
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il questionario non era anonimo e abbiamo preferito limitare domande eccessivamente focalizzate sulla vita privata 11. Abbiamo però chiesto alcune informazioni sull’apprendimento formale: abbiamo potuto rilevare che quasi la metà degli studenti in formazione iniziale (48,9 %) hanno avuto esperienze di stage o tirocinio nelle precedenti esperienze formative 12 e quasi un terzo di loro è in possesso di una certificazione (33,6 %) 13. Inoltre quasi la metà di loro (48,9 %) ha già compilato un Curriculum Vitae anche se questa percentuale scende a 43,1 % per gli studenti iscrittisi all’università avendo appena conseguito il diploma di istruzione scolastica secondaria superiore. Il profilo di studente in formazione iniziale che emerge da questi dati è pertanto quello di una persona che, pur ventenne, ha già avuto un contatto, seppur sporadico, con il mondo del lavoro, che si è posta nei confronti dell’istruzione universitaria in chiave professionale e che in alcuni casi ha già avuto esperienze di stage e di tirocinio. La costruzione di un portfolio che consenta una presa di consapevolezza del loro essere in apprendimento lungo l’arco temporale e in tutti gli aspetti della vita appare pertanto un utile strumento proprio nel quadro di una formazione iniziale, e può tuttavia basarsi su esperienze già significative di tipo professionale. Riferimenti Bibliografici: AJELLO A.M., BELARDI C., Valutare le competenze informali. Il portfolio digitale, Roma, Carocci, 2007; ALBERICI A., Scenari e ambiti del concetto di competenza, in Alberici A., Serreri P., Competenze e formazione in età adulta, cit., 2009, pp. 13-36; ALBERICI A., DI RIENZO P. (a cura di), I saperi dell’esperienza. Politiche e metodologie per il riconoscimento e la convalida degli apprendimenti non formali e informali nell’università. Secondo rapporto di ricerca prin, Roma, Anicia, 2011; ALBERICI A., SERRERI P., Competenze e formazione in età adulta. Il Bilancio di competenze: dalla teoria alla pratica, Roma, Monolite Editore, 2009;
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base delle competenze dimostrate da ciascuno studente. Sono escluse forme di riconoscimento attribuite collettivamente”) (Legge 240/2010, art. 14, comma 1) e Galliani ribadisce che “la validazione dei saperi esperienziali non deve costituirsi come un percorso di riconoscimento collettivo, bensì personalizzato e tarato sulle reali conoscenze e abilità dimostrate dalle persone e comparate con il referenziale del corso di laurea frequentato, perché solamente così è possibile garantire la serietà della procedura e quindi la qualità del titolo universitario” (Galliani, 2011, p. 25). 5. In paesi come la Francia in cui è consentita la convalida totale del titolo, le Università arrivano a occuparsi anche dei “lavoratori” tout court. A tal proposito, abbiamo potuto riscontrare in una precedente ricerca (Ugolini, 2009) come il responsabile dell’ufficio che gestiva il processo di VAE avesse voluto fortemente cambiare il nome di quest’ultimo, precedentemente rivolto agli “adulti che riprendono gli studi”. Come principio, affermava, uno studente che inizia una procedura di VAE per vedersi riconosciuto un titolo, non vuole assolutamente riprendere gli studi (Ivi, p. 80). 6. Nostra traduzione dal francese. 7. Nel loro lavoro, Anna Maria Ajello e Cristina Belardi proponevano una soluzione tecnologica basata sull’ambiente di sviluppo Web open source NVU. Nel nostro caso, abbiamo preferito optare, come esempio e riferimento, per una più semplice presentazione a diapositive, utilizzando il noto software Microsoft PowerPoint, mantenendo tuttavia la natura ipertestuale e multimediale. Lo strumento si sarebbe tuttavia rivelato poco adatto nel caso della realizzazione di un portfolio completo. 8. La scelta di seguire il modello di Ajello e Belardi che divide i tre contesti potrebbe sembrare pertanto poco appropriata, ma essa, oltre a facilitare l’organizzazione della costruzione del portfolio, è funzionale anche alla valutazione d’esame dell’insegnamento universitario. In effetti, è da precisare – ed è stato fatto presente esplicitamente agli studenti – che gli obiettivi dell’insegnamento e quelli del portfolio in alcuni casi non coincidono. Aver classificato correttamente le esperienze e gli apprendimenti nei tre contesti, in effetti, funge anche da indicatore per il docente dell’avvenuta comprensione di ciò che le distingue. Allo stesso modo, ma in senso contrario, è stata data agli studenti l’opportunità di sostituire le effettive scansioni dei diplomi con dei surro-
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gati, in quanto ai fini degli obiettivi di apprendimento è sufficiente aver compreso che l’acquisizione dei saperi formali viene dimostrata “semplicemente” dal fatto che è stata certificata da un ente istituzionale a ciò deputato. 9. Gli studenti iscritti subito dopo il conseguimento del diploma hanno un’età media precisamente di 20 anni e la distribuzione di genere ricalca quella complessiva. Per quello che riguarda le altre due categorie considerate, se non ci sono grandi sorprese per quello che riguarda la media delle età (21,2 anni per chi è tornato a studiare dopo meno di due anni, 21,8 per chi si è trasferito da un altro corso di laurea), notiamo una prevalenza ancor più marcata del genere femminile in chi riprende gli studi (82,3 %) mentre scende al 55% per chi si trasferisce da un altro corso di laurea (che nel nostro caso implica anche un cambiamento di città), anche se la numerosità di queste due categorie non ci consente di trarre conclusioni. 10. Il questionario prevedeva la possibilità di fornire più di una risposta. In questo caso stiamo considerando l’opzione più alta, ma 18 studenti hanno scelto più di un’opzione, a significare il frastagliamento delle esperienze lavorative di cui abbiamo parlato in precedenza anche precedentemente o durante l’esperienza di formazione iniziale. 11. La costruzione del portfolio ha tenuto ovviamente conto di questi aspetti, ma questa ha avuto luogo successivamente all’esposizione delle basi teoriche ed è stata supportata dall’accompagnamento del docente, mentre il questionario è stato proposto all’inizio del corso. 12. Il dato sale decisamente, superando il 70 %, per coloro che hanno ripreso gli studi dopo un periodo inferiore a 2 anni e tra coloro che si sono trasferiti da un altro corso di laurea. Soprattutto per i primi possiamo ipotizzare che gli stage e i tirocini possano non essere sempre parte del percorso formale scolastico: la percentuale di coloro che dalla scuola secondaria superiore passano direttamente all’università scende infatti al 41 %. 13. Abbiamo indicato, come esempio di certificazione riconosciuta istituzionalmente, la patente europea per il computer (ECDL). Durante la costruzione del portfolio, sono emerse altre forme di certificazione istituzionale (singolare e propria del contesto nel quale operavamo è, ad esempio, quella rappresentata dal porto d’armi), che è possibile non fossero stati contemplati durante la compilazione del questionario.
Socializzarzi con, nei, social media
di Stefania Capogna 1 Con la società post-industriale, variamente definita da alcuni autorevoli osservatori società del rischio (Beck, 2000), società tardomoderna (Giddens, 1990), società post-industriale (Touraine, 1998) (ciascuno dei quali evidenzia tratti diversi dei cambiamenti in atto), si assiste ad una ridefinizione degli spazi di vita, dei flussi sociali e della divisione del lavoro. È sotto gli occhi di tutti che l’avvento della rete, accompagnato dallo sviluppo delle moderne tecnologie della comunicazione, e dal processo di ibridazione tecnologica (Marinelli, 2004) che ne è derivato, ha determinato un cambiamento radicale dei processi sociali e dei sistemi di relazione. Sono cambiati i processi economici, politici e produttivi tanto da condurre alla ridefinizione degli assetti di geopolitica internazionale. È profondamente mutato il modo di produrre la conoscenza (Foray, 2009; Rullani, 2009); l’organizzazione del lavoro (Bonazzi 2002, Butera, 2000; 2009) e il lavoro stesso (Accornero, 1997; Rifkin, 1997; 2000; Cocozza, 2006); si sono significativamente modificati i sistemi di welfare (Paci, 2005) e gli stessi meccanismi di socializzazione che si sono costituiti come vettori e collante della modernità. Ma il sistema educativo e il suo modello pedagogico, informato alla linearità, alla trasmissione e alla rigida specializzazione, è rimasto sostanzialmente
invariato. Tra i più autorevoli contributi che animano il dibattito e gli studi sul web si ricorda Castells (2001; 2004; 2006; 2009) il quale spiega questo nuovo assetto sociale reso possibile dalla diffusione di Internet attraverso tre assunti: valore dell’informazione, reticolarità e globalità. Il nuovo attore sociale, su cui si gioca il mutamento del XXI secolo, è rappresentato da Levy (2005) con la metafora del cyborg, colui che si muove con disinvoltura nella nuova dimensione spazio-temporale determinata dall’avvento di Internet, in quella dimensione dove il “tempo è senza tempo”. Il web diventa per questo soggetto un nuovo spazio di vita e di socializzazione dove tutto è compresente e le opportunità di sviluppo personale elevano all’ennesima potenza i meccanismi di accesso e di selezione incardinati nella struttura sociale, creando così nuove disuguaglianze. Il lavoro di analisi proposto dal libro Socializzarzi con, nei, social media (2011) parte dalla riflessione che oggi le scienze sociali si trovano a fronteggiare una grande sfida, quella di recuperare il tempo in cui Internet è stato abbandonato nelle mani degli ingegneri pensando che fosse “roba da tecnici”. Dietro ogni computer c’è una persona, con le sue emozioni, il suo vissuto, le sue difficoltà. Ciascuno è portatore di una sua cultura e di un linguaggio specifico che tende a riprodurre nella rete. La rete diviene quindi un nuovo luogo dove esprimere la propria socialità. Le scienze sociali devono quindi misurarsi con questo nuovo mondo e affrontare la sfida di ripensare il modo stesso di fare ricerca sulla rete e per la rete. Si tratta di una sfida complessa, che chiama in causa la necessità di correggere e riadattare il variegato panel di strumenti di rilevazione di natura qualitativa e/o quantitativa, al fine di comprendere come gestire l’analisi di questo nuovo contesto. E’ chiaro che con l’avvento della rete, anche il modo di produrre e gestire la conoscenza è profondamente mutato grazie a uno straordinario sviluppo tecnologico che immette sul
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mercato strumenti sempre più versatili e capaci di accedere e gestire quantità crescenti e diversificate di informazioni, attraverso una varietà di codici comunicativi (audio, video, scrittura ecc.). La diffusione dei sistemi di condivisione e comunicazione resi possibili dalla rete si presentano come tecnologie ad alta densità socio-relazionale che richiedono al soggetto sia competenze di accesso e di gestione, sia competenze trasversali più elevate e complesse del passato, giustificando l’importanza dell’interesse sociologico su questo versante. Nell’ottica di contribuire all’avvio di una riflessione su questi temi, il lavoro si sofferma sulla dimensione comunicativa, in particolare quella educativa, che si caratterizza come fondamentale medium di trasmissione e socializzazione attraverso cui il soggetto diviene parte di una più ampia comunità. La ricerca realizzata nel libro Socializzarzi con, nei, social media (2011) si apre con una accurata e sapiente introduzione di Roberto Cipriani che ripercorre, attraverso una prospettiva sociologica, gli studi e le riflessioni sui concetti di “relazione” e di “network”; il lavoro si focalizza poi sul ruolo che l’istituzione educativa può e deve svolgere nella nuova società della rete, a partire dall’esame delle conseguenze sociali derivanti dalla sua espansione nel più ampio sistema di relazioni. La riflessione che orienta il lavoro può essere sintetizzata nel seguente assunto: • i sistemi educativi, a tutti i livelli, non possono più ignorare questa realtà; • ne deriva la necessità di doversi misurare con un impianto, un linguaggio e un modello pedagogico completamente nuovi; • questo rinnovamento nella pratica e nel pensiero educativo è prioritario e fondamentale, al fine di ridurre la distanza comunicativa e valoriale che segna un solco tra net generation e mondo adulto (Morcellini, 2002); tra sistema educativo e società; tra immigrati digitali e nativi digitali.
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Il lavoro si pone due distinti obiettivi tra loro complementari: a) rintracciare le diverse tipologie di comunità che la rete, attraverso i differenti ambienti tecno-sociali, rende possibile; b) ricostruire il processo di socializzazione soggettiva alla rete. Si possono distinguere differenti tipi di e-comunity in ordine alla varietà di ambienti possibili. L’ipotesi di ricerca è sintetizzabile nell’idea che il soggetto attraversi un particolare processo di socializzazione al web nel percorso che lo conduce ad essere parte attiva, responsabile ed integrante all’interno della network society. La domanda che guida il lavoro è: come avviene il processo di maturazione soggettiva che conduce il soggetto verso l’assunzione di un ruolo attivo e responsabile nei nuovi ambienti tecnosociali? Dato il carattere polisemico e multidimensionale dell’oggetto di studio, il lavoro attinge a campi disciplinari differenti spaziando dalla sociologia generale e dell’educazione, alla pedagogia e alle scienze della comunicazione, nel tentativo di mettere in luce gli esiti di questo processo di socializzazione al web sui singoli individui e sui relativi processi sociali e comunicativi. La ricerca prende le mosse dall’idea che nessun educatore può oggi ignorare le sfide poste dalle nuove tecnologie della comunicazione ai processi di apprendimento. Per questa ragione il lavoro di analisi, scevro da pregiudizi ideologici nei confronti delle nuove tecnologie, cerca di ricostruire “dal di dentro” i processi di cambiamento in atto e le possibili applicazioni dei social network alla didattica, attraverso l’osservazione in pratica delle dinamiche relazionali, comunicative, cognitive e didattiche maturate all’interno di ambienti tecno-sociali progettati ed utilizzati a scopo didattico. Il lavoro si compone di una parte di ricerca teorica che mira a focalizzare le più rilevanti dimensioni di analisi relative all’oggetto di studio ed una parte di ricerca empirica, di natura esplorativa, finalizzata ad osservare le dinamiche del cambiamento sulle pratiche
didattiche e le sue ricadute sul soggetto, con l’intento di comprendere in particolar modo in che maniera: • si sviluppano nuove forme di socialità; • possono interagire nei nuovi spazi tecnosociali differenti tipi di comunità; • prende forma il processo di incorporazione delle nuove tecnologie nell’insegnamento e nelle pratiche sociali in campo educativo. Il lavoro è indirizzato a tutti coloro che intendono comprendere il modo in cui si è trasformato il concetto e la pratica della comunicazione con lo sviluppo delle tecnologie mass-mediali, attraverso l’evoluzione di quella che viene oggi definita “network society” ma è rivolto anche formatori e insegnanti interessati sia a scoprire pratiche didattiche emergenti, sperimentate all’interno dei nuovi spazi tecno-sociali, sia la relazione tra capitale culturale, codici comunicativi e nuove tecnologie massmediali, che richiamano la drammatica questione del digital divide. Il lavoro di ricerca giunge a riflettere sul fatto che le tecnologie, con lo sviluppo di avanzati sistemi di comunicazione e knowledge sha-
ring, sono andate più avanti della stessa capacità degli studiosi e degli educatori di farne uso e riflettere sulle loro implicazioni sociali. Il rischio che si profila è quello di investire in tecnologie sempre più potenti a scapito delle persone che le devono utilizzare, scaricando sulla dimensione tecnologica aspettative e responsabilità che attengono invece alla sfera politico-decisionale e/o metodologica. Né la tecnologia, né i provvedimenti di legge possono da soli avviare processi di cambiamento e miglioramento i quali sono frutto di complessi e articolati processi sociali dove si incontrano e si scontrano diversi interessi e razionalità, differenti valori e visioni del mondo, i quali solo attraverso un’incessante opera di mediazione e accompagnamento possono avviare effettivi processi di cambiamento. E questo pare particolarmente vero per i sistemi educativi dove la componente organizzativa si rivela articolata e dispersa e l’azione individuale dei molti attori che compongono il variegato education system appare quanto mai determinante. La formazione di un soggetto post-moderno, capace di muoversi con consapevolezza nel mondo globale non può prescindere dalla capacità dei nuovi
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sistemi educativi di confrontarsi con il web, con le potenzialità ed i rischi ad esso connessi, con la nuova economia della conoscenza (Foray, 2009; Rullani, 2009) e la velocità di diffusione dell’informazione che stabilisce un continuum inscindibile tra l’agire e la sua rappresentazione sociale. In questo complesso gioco di relazioni che si dipana tra reale e virtuale si rende necessario oggi immaginare un rinnovato percorso di inclusione/socializzazione che abiliti il soggetto ad un uso consapevole e critico di tali strumenti. Ciò richiede una politica incrementale di sostegno alla traduzione in pratica (Gherardi, Lippi, 2000) dell’innovazione tecnologica, in special modo all’interno dei sistemi educativi, considerando che la rete si costituisce come primo vettore di accesso all’informazione e alle opportunità di sviluppo per soggetti, organizzazioni e territori. Ciò che è più grave tuttavia è l’assenza di un’investitura politica in questo senso. Investitura che dovrebbe intervenire nella definizione: di precise linee di sviluppo a breve, medio e lungo termine su questi temi, affrontando la questione delle infrastrutture telematiche di supporto alla rete (investimenti in fibre ottiche e banda larga); del quadro normativo per la regolamentazione di tutti i nodi irrisolti connessi ai diritti di autore e alla condivisione e distribuzione di conoscenza via web; alle politiche di reclutamento, valutazione e progressione di carriera di docenti e dirigenti/manager nei diversi sistemi educativi, ma non solo; di piani di investimento per la messa in rete dei medesimi sistemi e per l’aggiornamento delle sue risorse umane.
BUTERA F., Il cambiamento organizzativo. Analisi e progettazione, Bari, Laterza, 2009; CAPOGNA S., Socializzarsi con, nei, Social Media. Processi sociali e comunicativi, Napoli, Scripta Web, 2011; CASTELLS M., Galassia Internet, Milano, Feltrinelli, 2001; CASTELLS M., The Network Society: A Cross-Cultural Perspective, Northampton, MA, Cheltenham, UK, 2004; CASTELLS M., Mobile Communication and Society: A Global Perspective, MIT Press, Cambridge, MA, 2006; CASTELLS M., Communication power, Oxford University Press, Oxford/New York, 2009; COCOZZA A., Direzione risorse umane, Milano, Franco Angeli, 2006; FORAY D., L’economia della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2009; GHERARDI S., LIPPI A., Tradurre le riforme in pratica, Milano, Cortina, 2000; GIDDENS, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 1990; LEVY P., “Uno spazio un linguaggio”, in Mediazioni, Milano, Costa & Nolan, 2005; MRINELLI A., Connessioni, Milano, Guerini Associati, 2004; MORCELLINI M. (a cura di), Netsociology, Milano, Guerini Associati, 2002; PACI M., Nuovi lavori, nuovo welfare, Bologna, Il Mulino, 2005; RIFKIN J., La fine del lavoro, Milano, Baldini & Castoldi, 1997; RIFKIN J., La rivoluzione della New Economy, Milano, Mondatori, 2000; RULLANI E., Economia della conoscenza, Roma, Carocci, 2009; TOURAINE A., Sociologia, Milano, Jaka Book, 1998.
Riferimenti Bibliografici: ACCORNERO A., Era il secolo del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1997; BECK U., La socità del rischio, Roma, Carocci, 2000; BONAZZI G., Come studiare le organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2002; BUTERA F., DONATI F., CESARIA R., I lavoratori della conoscenza, Milano, Franco Angeli, (3° ed.), 2000;
Note: 1. Stefania Capogna, Ricercatrice sociale, Esperta di Education e distance learning, ounselor a orientamento Filosofico; Docente di Sociologia, Corso di laurea in Scienze Organizzative e Gestionali, Università della Tuscia, E-mail: scapogna@uniroma3.it.
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Giocare per crescere. Aspetti psicologici ed educativi dell’attività ludica
di Francesca Giangregorio Premessa Il gioco, come è noto, costituisce l’attività maggiormente svolta dal bambino nei primi anni di vita e rappresenta tanto una forma di comunicazione, di esperienza emotiva e di azione trasformativa sulla realtà, quanto un modo per esplorare il modo circostante. L’attività ludica è una modalità espressiva autentica – cioè libera da imposizioni direttive – e spontanea, fine a se stessa, che si esercita per il puro gusto di esercitarla e che rappresenta tanto una fonte di gioia e di divertimento quanto una causa di frustrazioni. Per queste sue caratteristiche il gioco è uno strumento di crescita – che può essere agito in contesti diversificati sia da soli, sia in gruppo o con gli adulti – necessario al completo sviluppo del corpo, dell’intelletto e della personalità del bambino. È evidente quindi che il gioco per il bambino non è un’attività tra le altre ma, oltre a essere un fenomeno pervasivo della sua vita, è un ambiente nel quale si muove attuando condotte, sperimentando spazi di libertà, esprimendo la propria creatività, conferendo senso e significato alle esperienze che vive.
Queste molteplicità di dimensioni rende piuttosto difficile dare un’interpretazione e una spiegazione del gioco che ne valorizzino tutti gli aspetti; le diverse teorie in merito, psicologiche, pedagogiche, sociologiche, antropologiche e anche filosofiche, benché interessanti e valide non sono sufficienti a cogliere il fenomeno nella sua interezza (si pensi alla diversità dei contributi di Freud, Klein, Vygotsky, Winnicott, Bruner, per citare solo gli autori più noti). Si può tuttavia trovare un leit motiv che accomuna gli autori che si sono occupati di questo argomento nel riconoscimento del gioco come attività spontanea, libera e autonoma, nella quale il bambino esprime le proprie fondamentali caratteristiche. Caratteristiche del gioco infantile La valorizzazione dell’attività ludica – iniziata nei primi anni dell’800, con la nascita di quello che viene definito sentimento dell’infanzia e sviluppata anche nelle più recenti ricerche psicopedagogiche – deriva dal riconoscimento delle qualità socializzanti, cognitive, comunicative e affettive che caratterizzano il gioco, qualità che rispondono ai bisogni fondamentali dell’uomo (cfr. Bondioli, 1989). Attraverso questa attività il bambino sperimenta infatti situazioni di apprendimento e dinamiche socio-relazionali, si confronta con emozioni, sentimenti e conflitti, elabora la realtà trasformandola attivamente, in funzione tanto delle proprie esigenze interiori quanto della realizzazione delle potenzialità personali. In altri termini si può dire che il gioco è una modalità di relazione e comparazione con il sé e l’altro, che permette di confrontarsi con delle questioni esistenziali importanti, come il rapporto tra trasgressione e regolazione, intelligenza e affettività, gratuità e produttività. Il gioco – inteso come quell’insieme di attività sorrette da una motivazione intrinseca e dunque finalizzate a soddisfare un piacere fine a se stesso, che ha l’obiettivo di compiere l’azione in sé – è perciò una risorsa espressiva della libertà e della creatività individuale,
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uno spazio nel quale agire prototipi di mondi e modi d’essere possibili e illimitati. Poiché l’attività ludica è fine a se stessa, il piacere che da questa si trae non è connesso solo all’esito; è anzi legato principalmente al procedimento preparatorio che ne è alla base e che porta alla definizione dei ruoli, alla preparazione del materiale, alla costruzione dell’ambientazione, alla predisposizione della sequenza di azioni. Questa indipendenza dal risultato rende il gioco un contesto nel quale il bambino è al riparo dalle frustrazioni; il rischio di insuccesso infatti decade ed eventuali criticità possono diventare delle occasioni di problem-solving dalle quali trarre ulteriori opportunità creative. Nel far finta del gioco ciò che si crea non è una copia della realtà, ma una rappresentazione di questa, ovvero una versione nella quale sono posti in evidenza aspetti ritenuti essenziali da colui che gioca. Le azioni e gli oggetti cessano di essere semplici stimoli all’azione e assumono un significato specifico nel loro uso in gruppo; in questo modo ne vengono esplorati i significati sociali e si struttura la possibilità di ricombinarli successivamente in forme di significato ulteriori e originali. Il bambino che gioca implementa un tipo di procedimento cognitivo finalizzato a produrre – attraverso l’impiego di mezzi noti e nel rispetto di determinanti vincoli – combinazioni inedite e nuove esecuzioni, esercitando quel pensiero divergente comune ad arte e scienza. La conoscenza – e la familiarità – con le realtà multiple e sempre possibili che si strutturano nel gioco è alla base dello sviluppo di capacità fondamentali come: • la decontestualizzazione, cioè la capacità di svincolare gesti e azioni dalle loro finalità abituali e di riprodurli per la messa in scena. Questa operazione ‘libera dall’obbligo della referenza e consente l’avvio del procedimento di trasformazione simbolica. Questo può stare al posto di qualcosa d’altro. [...] Si può dire che muta radicalmente l’atteggiamento nei confronti del ‘mondo’.
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I gesti e le azioni non sono finalizzati a esercitare un dominio sul mondo; gli oggetti non sono strumenti – l’atteggiamento non è pragmatico (faccio questo per ottenere questo) – ma sono esplorati in quanto veicoli di significato’ (Bondioli A., 2002, p.212); • il decentrarsi, ovvero la capacità di prendere le distanze da sé o da una situazione, di mettersi al posto di un altro, di individuare molteplici punti di vista; • il verbalizzare in modo astratto, cioè la capacità di esprimere verbalmente il proprio mondo interiore, le proprie emozioni, i propri sentimenti, i propri stati d’animo; • il cooperare, ovvero la capacità di regolare il proprio agire individuale sull’agire individuale dell’altro così da conseguire un obiettivo comune. Il gioco si configura pertanto come un’esperienza globale, cioè come un fenomeno pervasivo che affiora e si manifesta in quasi tutte le condotte e nel quale, oltre ad aprirsi spazi di libertà, di azione, di creatività e di senso, emergono e si evidenziano gli interessi, le tendenze, le capacità e le attitudini personali; in questa attività spontanea, libera e autonoma si costruisce il sé e si esprime la persona totale. Il gioco è dunque una modalità di apprendimento per esplorazione, che soddisfa la motivazione all’avventura e alla competenza, nella quale sono coinvolti tre piani, ovvero la prassi (il movimento), l’immagine (l’immaginazione) e il simbolo (il pensiero). Con altre parole, l’attività ludica è un’area di esperienza che permette una presa di distanza dalla vita vissuta; si tratta tuttavia di un distanziamento di tipo mentale che presuppone, paradossalmente, di mantenere sempre il contatto con la vita ordinaria. La condizione di esistenza del gioco risiede proprio nel credere alla realtà fittizia avendo piena consapevolezza della finzione nella quale si agisce. Questa stessa finzione ludica non coincide né con la menzogna né con la falsità, ma è la risultante dell’inte-
razione tra fattori psicologici tipici della singola persona e fattori culturali; la società di appartenenza infatti trasmette, di generazione in generazione, una peculiare cultura ludica, che cambia per effetto del mutamento socio – culturale (cfr. Bruner et all., 1981). La libertà, l’adattabilità, la reversibilità e l’imprevedibilità che caratterizzano l’attività di gioco instaurano un rapporto di somiglianza tra questa e la fantasia. Il legame che intercorre tra dimensione ludica e fantasia è infatti da un lato di tipo analogico e formale, dall’altro risponde a una specifica dinamica psicologica, che stabilisce tra il polo ludico e il polo immaginativo una comune funzionalità. Il gioco, così come la fantasia, affonda le proprie radici nell’inconscio e ne esprime in forma simbolica i valori, le tendenze e i conflitti, e quindi i contenuti affettivi che sostanziano la vita dell’individuo. In questo senso l’attività ludica si configura come un possibile setting, nel quale dare avvio a un‘alfabetizzazione affettiva del bambino che segue una duplice direzione: è rivolta da un lato alla costruzione dell’identità personale, dall’altro alla promozione dell’autonomia e della progettualità attraverso il riconoscimento e la gestione delle emozioni e dei sentimenti, e dunque mediante l’accesso alle realtà simboliche e all’empatia. Queste considerazioni implicano una rivalutazione del ruolo dell’adulto all’interno del gioco tanto come promotore di una cultura ludica quanto come compagno esperto, capace di condividere e arricchire in modo attivo e proattivo un’area di esperienza. Il significato del gioco nelle diverse tappe dell’età evolutiva Nel corso dell’età evolutiva, il gioco infantile assume modalità espressive diverse che rispondono a particolari funzioni di sviluppo; in particolare si individuano: i giochi di esercizio e di esplorazione, i giochi simbolici, i giochi sottoposti a regole. I giochi di esercizio e di esplorazione si svolgono nel corso del primo anno di vita e sono
funzionali allo sviluppo del senso dell’orientamento. Attraverso l’esplorazione delle possibilità sia del proprio corpo sia delle proprie capacità di agire, come pure nell’’interazione con le figure di accudimento, il bambino acquisisce una buona conoscenza della realtà fisica e sociale, propedeutica allo sviluppo dei giochi simbolici propri del secondo anno di vita. In questa fase il gioco consiste in un esercizio di schemi che vengono messi in atto per soddisfare un piacere di tipo funzionale. In particolare, tra il secondo e il terzo mese si assiste a un mutamento dell’interesse del bambino nei confronti del proprio corpo: questi infatti muove la testa in diverse posizioni, la solleva, la gira lateralmente, la spinge all’indietro; osserva a lungo le proprie mani e ne segue i movimenti; concentra la propria attenzione sugli arti inferiori e sull’emissione di suoni che via via si differenziano. Sostanzialmente in questa fase si manifestano le caratteristiche tipiche del gioco infantile, quali: il coinvolgimento attivo, la sperimentazione di sequenze di azioni progressivamente più complesse, l’attesa del risultato che questi stesse azioni possono produrre, come il sorriso o il riso. L’iniziale attenzione che il bambino dirige verso il proprio sé si estende gradualmente a tutti gli oggetti e dalla loro manipolazione si strutturano i nessi di causa-effetto. Nel secondo semestre di vita (8-9 mesi), il processi manipolativi – focalizzandosi sulle differenze che intercorrono tra un oggetto e l’altro e dunque sulle loro proprietà specifiche – divengono selettivi. In definitiva, questa fase dello sviluppo è caratterizzata dal passaggio dall’interesse per l’azione all’interesse per l’oggetto e per la relativa modalità d’uso; in altri termini, ciò che si manifesta è un gioco di padronanza, nel quale gli oggetti – entrando a far parte degli schemi di azione del bambino – vengono esplorati in modo sistematico come elementi dai quali scaturiscono diverse possibilità di utilizzo. Il gioco simbolico – che si sviluppa tra la fine del primo anno di vita e l’inizio del secondo e
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che si protrae fino ai sette anni – si configura come una simulazione delle attività di routine quotidiana, attraverso cui il bambino sviluppa le competenze emotive e sociali, l’abilità di formare e usare simboli, la capacità di elaborare temi narrativi. In questo caso l’attività ludica assolve una funzione catartica fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento dell’equilibrio emotivo. Nel gioco simbolico infatti le frustrazioni possono essere rivissute rovesciandone i termini, ponendo cioè il soggetto in una posizione up – ovvero una posizione attiva di comando e di dominio – diametralmente opposta rispetto alla situazione reale nella quale aveva ricoperto invece una posizione down; si realizza quindi il passaggio dalla passività all’attività. Intorno ai due anni e mezzo circa, alla simulazione delle routine si affianca la simulazione dei ruoli, in cui emerge la capacità di prefigurare lo stato mentale e l’agire dell’altro. Questo meccanismo individua quel processo cognitivo di distaccamento della percezione dalla rappresentazione, che consente ai bambini di mantenere separati il mondo dell’immaginazione e quello della realtà senza confonderli. Un particolare tipo di gioco simbolico è il gioco dell’amico immaginario, nel corso del quale si sviluppa un rapporto ludico e verbale con un compagno che esiste nel mondo della fantasia del bambino. Questo compagno immaginario – che talvolta può assumere l’aspetto di un animale – assolve in modo significativo al compito di agente consolatore e di ascoltatore benevolo, che supporta il bambino quando è triste o arrabbiato e lo sostiene nelle difficoltà della crescita. Le caratteristiche peculiari del compagno immaginario iniziano a delinearsi intorno ai 3 anni e 6 mesi, mentre le sue funzioni salienti sono destinate a scomparire verso i 7-8 anni; ciò significa che l’esistenza di un amico immaginario copre un periodo temporale di 3 - 4 anni, ma la sua presenza svolge talvolta una funzione fondamentale per la psiche e la
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mente del bambino. Generalmente la presenza dell’amico immaginario viene taciuta e tenuta segreta; il motivo di questa scelta sembra connesso alla difesa dell’amico stesso ed è motivata da un lato dalla necessità di non renderlo – e non rendersi – oggetto di ironia o di derisione da parte di terzi, e dall’altro di preservarlo – e preservarsi – da qualsiasi forma di strumentalizzazione. In questa sede è opportuno precisare che la possibilità di fantasticare e immaginare – sia da bambini sia da adulti – in maniera positiva e preferibilmente compensatoria, evitando come è ovvio qualsiasi forma patologica, è oggi considerato un fattore essenziale per la salute mentale e per la capacità creativa di ogni individuo. In linea generale, il gioco simbolico permane fino ai sette anni, periodo in cui evolve nel gioco di drammatizzazione, nel quale il bambino esprime insieme sia i propri vissuti sia le esperienze altrui, imparando a comunicare all’esterno il proprio sé. I giochi basati su regole si sviluppano quando il superamento della disposizione egocentrica permette la bambino di relazionarsi con i propri coetanei attraverso la formulazione di regole che è in grado di rispettare. Questa considerazione impone una riflessione sul rapporto tra gioco e regola; sebbene il primo appartenga al mondo della fantasia e la seconda faccia invece riferimento al mondo del reale, tra i due termini non esiste contraddizione. Il gioco infatti non è elusione della realtà, ma un’area intermedia nella quale si incontrano i vincoli del mondo esterno – con le sue leggi
sociali – e la rappresentazione interiore della realtà. Il mondo esterno e il mondo interno entrano in contatto nel gioco sociale, un tipo di gioco di regole che si svolge in gruppo o in squadra, nel quale assumono particolare rilevanza la consapevolezza e la condivisione di uno scopo che è comune. Ne deriva che il controllo dell’azione personale, pur nel rispetto della differenziazione dei ruoli che gli attori si sono dati, è vincolato all’alleanza e alla coerenza dell’azione gruppale. Da quanto detto emerge come il gioco sociale sia funzionale allo sviluppo della cooperazione e della collaborazione e dunque risulti propedeutico al lavoro. Il gioco sociale presenta diverse tipologie, quali: • il gioco di movimento, nel quale la squadra deve conseguire delle mete comuni e ogni bambino concorre a perseguirle – con le propria abilità – sia impegnandosi nell’azione individuale sia partecipano all’azione degli altri; • il gioco sociale di costruzione, dove si richiede ai partecipanti un impegno prevalentemente di tipo mentale che coinvolge alcune forme di motricità fine o attitudini particolari, come la percezione dei colori, delle forme, dell’equilibrio, dei nessi logici. Anche in questo caso, sebbene si tratti di un’attività più sedentaria, l’azione del singolo si colloca in una logica di azione finalizzata condivisa e partecipata; • il gioco sociale di esplorazione, di tipo didattico, è finalizzato alla ricognizione d’ambiente, alla ricostruzione storica,
all’individuazione dei fenomeni ricorrenti e delle cause che li originano; • il gioco sociale di drammatizzazione, in cui il bambino impara a condividere tanto i propri vissuti interni quanto le esperienze degli altri. Nel gioco basato su regole il bambino costruisce insieme il proprio gioco e quello degli altri Il gioco e i giocattoli nelle diverse età Non di rado il gioco prende avvio da un pretesto, cioè da un oggetto, intorno al quale strutturare un mondo fantastico: il giocattolo, la cui industria ha comunicato a espandersi in Europa tra il 1880 e il 1890. Perché questo accessorio sia funzionale – e dunque stimolante per la sfera cognitiva e affettiva del bambino – deve essere rispondente all’età e ai processi psicologici individuali. Nel primi mesi di vita, l’oggetto di scoperta è costituito dalla figure di accudimento, che sono percepite come un prolungamento del proprio sé corporeo e come un mezzo attraverso il quale scoprirlo; successivamente, con il procedere dello sviluppo, il bambino acquisisce la consapevolezza di possedere un corpo definito e separato da quello dei genitori, e che non vi è una corrispondenza univoca tra i propri desideri e le reazioni delle figure adulte: di qui l’esplorazione degli oggetti portandoli alla bocca. I primi giocattoli sono allora tutti accessori che – potendo essere morsi, succhiati e leccati – sono funzionali allo sviluppo sensoriale e motorio. In seguito, all’esplorazione di tipo orale si sostituisce progressivamente la capacità di riconoscere gli oggetti attraverso gli altri organi di senso; ne deriva l’importanza di oggetti ludici e morbidi, quali animali di peluche, orsacchiotti e bambole da toccare e accarezzare. Alla fine del primo anno, l’attenzione del bambino si focalizza sulle combinazioni e sulle relazioni tra gli oggetti; lo sviluppo di questa abilità cognitiva può essere promosso attraverso giochi che permettono di essere allineati, vuotati, riempiti, sovrapposti e tra-
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scinati, come cubi, mattoni di plastica, costruzioni, carri da tirare. Intorno ai 2 anni, con la comparsa del gioco di simulazione, i giocattoli più idonei sono quelli che permettono di riprodurre la realtà e che sono quindi caratterizzati dall’essere simili, sebbene in scala ridotta, agli oggetti quotidianamente usati dagli adulti. Particolare interesse rivestono allora gli utensili, le costruzioni, le bambole e gli animali di peluche, i burattini, i giocattoli e gli ambienti in miniatura, i materiali per attività creative (si pensi ai vari “angoli” e ai laboratori che vengono predisposti dalle insegnanti della scuola dell’infanzia). La fruizione del giocattolo da parte del bambino deve inoltre rispondere al criterio della preferenza e dunque al favore che egli accorda a un oggetto piuttosto che a un altro; questo significa che sia i bambini sia le bambine devono essere lasciati liberi di giocare indifferentemente tanto con giocattoli considerati prettamente maschili quanto con giocattoli più marcatamente femminili. La scelta di un particolare oggetto ludico soddisfa infatti specifiche esigenze espressive e relazionali; ne sono un esempio i bambini che manifestano la propria capacità di accudimento usando giocattoli appartenenti alla tradizione femminile. La differenziazione della scelta del giocattolo in base al genere è un processo che si compie con la crescita e per effetto delle influenze sociali, e che si stabilizza in età prescolare, epoca in cui il modo di giocare appare coerente e conforme con gli stereotipi di genere. I giochi di simulazione e i loro benefici Da quanto esposto nei paragrafi precedenti emerge come la capacità immaginativa e fantastica presente nelle attività ludiche sia un prerequisito fondamentale tanto per l’equilibrio psicologico del bambino – e quindi del futuro adulto – quanto per lo sviluppo della capacità di adattamento sociale. In particolare, i giochi di finzione permettono lo sviluppo di abilità fondamentali, quali le abilità linguisti-
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che e motorie, la capacità di immaginazione, l’autoconsapevolezza, l’empatia, la capacità di sentirsi a proprio agio nelle situazioni sociali e di essere flessibili nei contesti relazionali nuovi. Le abilità linguistiche sono riconducibili a quattro aree di sapere specializzato, quali ascoltare, parlare, leggere e scrivere, che sono alla base dell’acquisizione sia del lessico sia delle norme che regolano i rapporti tra le parole. Nel gioco il bambino esprime attraverso la parola il proprio mondo interno e acquisisce per imitazione – dei pari o degli adulti – nuovi termini, ampliando così il proprio lessico. Le abilità motorie costituiscono la struttura del movimento volontario finalizzato e si compongono di: • schemi motori, cioè le prime unità di movimento apprese dal bambino che permettono di spostarsi nello spazio. In questa categoria rientrano il camminare, correre, sollevare, trasportare e trasportarsi, saltare, lanciare e afferrare, tirare e spingere, rotolare, strisciare, arrampicarsi; • schemi posturali, ovvero quelle forme di movimento in cui il corpo resta fisso sul posto e vi è uno spostamento nello spazio di una qualsiasi delle sue parti. In questa area rientrano il flettere, piegare, circondurre, ruotare, oscillare, inclinare, addurre o abdurre, sollevare. Nel gioco di simulazione il bambino sviluppa e implementa il controllo del proprio corpo, acquisendo un maggiore coordinamento, incrementando la propria agilità e migliorando l’esecuzione delle sequenze di movimento. L’immaginazione, cioè la «capacità di pesare senza regole fisse, fuori dagli schemi della cosiddetta “realtà oggettiva” [...] e di associare liberamente i dati dell’esperienza» (Fusi S., 2007, p. X), trova nell’attività ludica di tipo simulativo un terreno di sperimentazione valido; in questo contesto infatti sono esperibili tutti i mondi possibili e le varie edizioni di sé. L’autoconsapevolezza è la capacità di riconoscere se stessi come una sede cognitivo-affet-
tiva – e dunque come la fonte dei propri comportamenti, dei propri pensieri e delle proprie emozioni; nel gioco questa stessa capacità diventa senso di sé e autodeterminazione, agiti attraverso il controllo sugli oggetti quotidiani e la loro manipolazione. La consapevolezza e la sensibilità emotiva, intese come la presa di contatto con il mondo affettivo, la capacità di riconoscere emozioni e sentimenti e di entrare in contatto empatico, si esprimo nel gioco di simulazione attraverso l’interpretazione di tutte quelle figure di accudimento – come il dottore o la maestra – che interagiscono con il mondo infantile e che offrono dei modelli di relazione. L’essere a proprio agio nelle situazioni sociali nuove significa essere in grado di distinguere le diverse figure con le quali si entra in relazione, di comprenderne la funzione e di adottare modalità comportamentali opportune Il gioco diviene allora da un lato il contesto nel quale simulare i più diversi ruoli sociali e prefigurarsi le più disparate situazioni relazionali, dall’altro lo spazio fisico e psicologico nel quale sperimentare molteplici tipi di comportamento. L’essere flessibili nelle situazioni sociali nuove significa possedere la capacità di autocontrollo e di fronteggiamento delle situazioni nuove o stressanti; il gioco di simulazione permette di trasformare una situazione di per sé lenta e noiosa in un’esperienza positiva attraverso un uso inedito e creativo di oggetti quotidiani (ne è un esempio una scatola usata come automobile). Riflessioni conclusive Come si è visto, sia pure brevemente, il gioco riveste per il bambino una funzione evolutiva fondamentale. Attraverso il gioco infatti il bambino apprende, sviluppa le proprie capacità e si introduce nelle relazioni. Nel gioco egli prende contatto sia con il proprio mondo interno (sentimenti, emozioni, motivazioni ecc.) sia con la realtà oggettiva. Nel passaggio tra un comportamento ludico e l’altro,
così come tra le funzioni delle diverse forme di gioco, si sviluppano e si affinano abilità e competenze plurime, funzionali al processo di crescita. Per questa ragione l’attività ludica non può essere considerata una mera modalità di svago, ma un vero e proprio ambiente di scoperta e sperimentazione che non esclude, ma anzi coinvolge, la presenza dell’adulto (genitore, insegnante, o altra figura educativa). Condividendo con il bambino il gioco e il piacere che ne deriva gli adulti assolvono la funzione di guida, realizzando sia pure inconsapevolmente una pedagogia del gioco sulla quale il dibattito scientifico è ancora aperto e stimolante. Riferimenti Bibliografici: BAUMGARTNER E., Il gioco dei bambini, Roma, Carocci, 2004; BONDIOLI A. - SAVIO D., Osservare il gioco di finzione. Scala di valutazione delle abilità ludico-simboliche infantili – SVALSI, Bergamo, Junior, 1994; BONDIOLI A. (a cura di), Il buffone e il re. Il gioco del bambino e il sapere dell’adulto, Firenze, La Nuova Italia, 1989; BONDIOLI A., Gioco e educazione, Milano, Franco Angeli, 2007; BRUNER J. – JOLLY H - SYLVA K., Il gioco, Roma, Armando, 1981; CATTANEI G., Civiltà del gioco nella società complessa: scuola materna e gioco educativo, Brescia, La Scuola, 1994; DOROTHY G. - J. L. SINGER, Laboratorio del far finta. Giochi e attività per sviluppare l’immaginazione, Trento, Erickson, 2001; FUSI S., Immaginazione creativa per il benessere, Milano, Tecniche Nuove, 2007; LAENG M., Educazione alla libertà, Teramo, Giunti&Lisciani, 1992; LAENG M., Movimento gioco e fantasia, Teramo, Giunti&Lisciani, 1990; QUADRIO A., Psicologia dell’età evolutiva, 9,170181, Milano, Vita e Pensiero, 1976; SINGER D.G.- SINGER J.L., Laboratorio del far finta. Giochi e attività per sviluppare l’immaginazione, Trento, Erickson, 2001.
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Ricerca e formazione nella scuola. Parte seconda. Fare formazione per imparare a insegnare
di Savina Cellamare Premessa La continuità e la trasversalità della formazione nell’arco di vita di una persona, il ridefinirsi degli spazi e dei tempi dei processi formativi, hanno portato allo sviluppo di modalità formative che consentono di seguire iter intenzionalmente progettati e organizzati per produrre apprendimento, ma che offrono anche la possibilità di separare, in forza delle possibilità offerte dai sistemi tecnologici, le azioni d’insegnamento dagli atti di apprendimento. È quanto avviene nella formazione a distanza (FaD), che ha acquisito uno spazio crescente sia in ambito universitario sia professionale, dove la pratica dell’insegnamento si avvale di strumenti diversi, applicandoli alle situazioni e alle persone mediante criteri di adeguatezza e conformità. L’uso delle nuove tecnologie favorisce nell’allievo la partecipazione responsabile al proprio processo di apprendimento, poiché gli richiede lo sviluppo delle capacità di controllo dei processi cognitivi e la padronanza dei saperi e delle competenze che sono oggetto di formazione. Inoltre chi apprende è coinvolto in un ambiente di apprendimento,
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virtuale ma reale, partecipa in modo dinamico allo strutturarsi, al mantenersi e al riconfigurarsi di reti di relazioni con soggetti diversi, come accade nelle situazioni di laboratorio; queste si caratterizzano per il coinvolgimento attivo del soggetto che apprende, che è sollecitato a un reale investimento di quelle risorse cognitive, emotive, relazionali, prassiche e strategiche che il lavoro sul campo richiede in termini di competenze, conoscenze e abilità di ruolo. In una società articolata, dinamica e cangiante come quella attuale, anche la scuola è investita da processi di innovazione e di cambiamento spesso rapidi; è perciò importante favorire negli insegnanti in sevizio e negli studenti che si preparano a svolgere questa professione, l’acquisizione, lo sviluppo e il consolidamento di competenze pedagogiche adeguate per affrontare quotidianamente il difficile, ma al tempo stesso appassionante compito di istruire, formare ed educare. Su questi tre termini, tra loro fortemente connessi, è opportuno soffermarsi, sia pure brevemente, riprendendo quel filo di condivisione del lessico pedagogico che si è iniziato a delineare nel primo di questi contributi dedicati alla ricerca e alla formazione nella scuola (cfr. QTimes, 4, 2011). Educazione, formazione, istruzione Indipendentemente dalla specifica accezione che se ne dà, l’educazione è tra le pratiche sociali fondamentali della vita comunitaria; infatti le prassi educative - codificate culturalmente in consuetudini, norme valori e modi di fare socialmente condivise – sono parte essenziale della vita e della cultura di ogni società. L’educazione è considerata uno dei diritti umani fondamentali e a livello internazionale è intesa come un punto essenziale per uno sviluppo sostenibile, equo e di qualità che caratterizzi l’intera rete dei rapporti umani. Le azioni qualificate come educative si affiancano e si integrano con altre azioni formative, che concorrono alla crescita personale di ciascuno e che si attuano attraverso i
processi di insegnamento, di apprendimento e di formazione. In altre parole possiamo dire che «l’educazione è il risultato di un processo composito riconducibile a fattori non solo intenzionali ma anche casuali e involontari e non riconducibili a capacità e prestazioni attese» (Alberici, 2002, p. 24). Al processo educativo concorrono inoltre fattori esterni, o esogeni (quali l’ambiente e l’insegnamento), e fattori interni, o endogeni, come ad esempio il temperamento, le caratteristiche affettive, alcuni tratti di personalità. L’educazione perciò, anche quando è vista come il risultato di percorsi intenzionali, mantiene un carattere generale, che la distingue dalla formazione, indicata come un processo il cui obiettivo è “il sapere, la promozione, la diffusione e l’aggiornamento del sapere […] ha a che vedere con il significato profondo dell’azione educativa come momento di crescita […] culturale, sociale, professionale e personale” dei soggetti a cui si rivolge (Quaglino, 1985, p. 22). In sintesi si può dire che «educare ha un carattere più sociale, istituzionale, pone in rilievo la dimensione della con – formazione e della guida, cioè la strutturazione di processi funzionali a modelli sociali. Le pratiche educative sono orientate da modelli e valori e, in generale affidate a un educatore, per lo più adulto, e non al soggetto stesso. L’educazione è dunque più conformativa, direttiva e, anche, più autoritaria» (Trama, 2003, p. 67. Cfr. anche Cambi, 2000). Diversamente dall’educazione, inoltre, il concetto di formazione «convenzionalmente sintetizza in un unico termine due modalità di trasmissione del sapere: quella educativa, attinente per convenzione il mondo dei valori, dei comportamenti, delle finalità, e quella istruttiva o addestrativa» (Demetrio, 2003, p. 40). La formazione è dunque un processo, il cui obiettivo è «il sapere, la promozione, la diffusione e l’aggiornamento del sapere […] ha a che vedere con il significato profondo dell’azione educativa come momento di crescita […] culturale, sociale, professionale e
personale” dei soggetti a cui si rivolge» (Quaglino, 1985, p. 22). La formazione è quindi descritta come un’attività specificamente orientata verso una professione, tanto che si parla prevalentemente di formazione professionale, articolata poi secondo le diverse modalità con cui si può realizzare tenendo conto delle età dei destinatari. La formazione professionale non è ovviamente una novità del nostro tempo, ma ha una storia antica che affonda le radici nelle forme di apprendistato e avviamento al lavoro nella bottega artigiana dell’antica Roma e vive una tappa importante della sua evoluzione nel sec. XII, con l’esplosione dei mestieri e l’organizzazione delle corporazioni. Con la strutturazione del lavoro per livelli di competenza (maestri e apprendisti) prendono forma l’idea e la pratica del tirocinio come periodo di formazione all’esercizio del mestiere. Con la rivoluzione industriale sorgono le scuole per apprendisti e si inizia a ridefinire in senso più moderno il problema della preparazione al lavoro. Gradualmente si passa alla creazione delle scuole di arte e mestieri, seguite da molteplici tentativi di creare percorsi di formazione che coniugassero teoria e pratica. Il percorso che ha portato al riconoscimento della pari dignità della formazione professionale rispetto agli altri tipi di istruzione è stato lungo e articolato. In generale oggi la formazione professionale è definita come un processo attraverso il quale una persona, giovane o non più giovane, può consolidare, aggiornare o migliorare le proprie capacità mediante l’acquisizione e/o l’aggiornamento di conoscenze, abilità e competenze per un esercizio più produttivo e responsabile di una data attività professionale. Questo tipo di formazione ha due significati principali, che ha acquisito nel tempo e mantiene tutt’ora. Il primo indica interventi formativi rivolti a giovani o adulti occupati o non occupati con l’obiettivo di realizzare un rapido addestramento che consenta un loro avvio veloce al lavoro. Il secondo significato
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fa invece riferimento all’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze finalizzate all’esercizio di una professione, indipendentemente dall’età dei destinatari. L’istruzione contiene aspetti sia educativi sia formativi e appartiene quindi a entrambi i processi e alle esperienze che in questi si realizzano. Poiché implica l’accesso ad aree di sapere storicamente elaborate – relative a culture di particolari gruppi – che un soggetto adulto o più esperto apre a chi è più giovane o meno esperto, attiene alla sfera dell’educazione. Costituisce (o dovrebbe costituire) tuttavia un processo formativo specifico, attraverso il quale sperimentare l’applicazione di apprendimenti, perché questi possano tradursi operativamente in azioni manifeste. Educazione, formazione e istruzione, in quanto implicano l’acquisizione di saperi, sono pertanto accomunate dal termine apprendimento, collante fra concetti non certo equipollenti, poiché hanno uno statuto fenomenologico diverso (Cfr. Cambi, 2000), ma certamente rispondenti all’esigenza di favorire lo sviluppo generale dell’individuo in risposta alle sollecitazioni connesse al rapido e radicale cambiamento del mondo economico e produttivo degli ultimi anni. Qualunque esperienza formativa, infatti, poggia su un assunto fondamentale, in base al quale un’attività di formazione efficace ed efficiente deve trasferire nei partecipanti sia le conoscenze riferite a un certo ambito o settore sia le abilità necessarie per dare consistenza operativa alle conoscenze stesse. A livello razionale è facile comprendere l’inscindibilità dei due elementi e questo potrebbe indurre a immaginare l’attività formativa come un percorso meno difficoltoso di quanto in realtà non sia. In effetti il passaggio dalla conoscenza alla prassi è reso spesso contraddittorio dalle interferenze costituite da modelli cognitivi e da prassi operative culturalmente tramandati e appresi, e perciò consolidati in forma di convinzioni e abitudini ancor prima del confronto con l’ambito professionale. Il
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substrato formato da elementi di senso comune, da conoscenze ed esperienze non sistematiche di varia provenienza può ostacolare il passaggio dalla teoria alla prassi anche in persone che condividono le conoscenze; questa difficoltà si può riscontrare sia in che coloro che affrontano esperienze di prima formazione, finalizzate all’acquisizione di una professionalità futura, sia in persone già professionalmente inserite in un certo ambito. Come avviene in molti contesti organizzativi, anche nella scuola l’esigenza di formazione è piuttosto sentita ed è stata variamente sottolineata dalle riforme e proposte di riforma che hanno preso vita negli ultimi anni, sia a livello scolastico sia a livello di formazione universitaria con l’istituzione, nel 1998, del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria. Apprendere in laboratorio La constatazione della scarsa efficacia di una prima formazione attuata direttamente sul campo, come nel tradizionale tirocinio, e di una formazione in servizio fondata solo sull’ampliamento di un background culturale evidenzia in modo incontrovertibile la necessità di predisporre percorsi di formazione nell’ambito dei quali costruire o consolidare abilità operative; queste tuttavia non sono la risultante di percorsi puramente empirici ma sono strettamente collegate a modelli teorici in grado di sostenere la specifica professionalità insegnante. La sperimentazione, a livello nazionale e internazionale, di formule dirette a incidere sulla pratica didattica ha reso evidente l’opportunità di far precedere gli interventi in situazione reale da fasi di laboratorio, nel corso delle quali si attuino dei training delle competenze, delle conoscenze e delle abilità fondamentali, e perciò irrinunciabili, per lo svolgimento del ruolo docente. Perché queste si sviluppino è infatti necessario allestire «esperienza problematiche, che coinvolgano in modo dinamico il soggetto, il quale attiva delle strategie risolutive in modo consapevole, attingendo alle proprie abilità ed
esplorando itinerari nuovi. Per sviluppare un atteggiamento competente […] sono necessari il confronto con un’esperienza problematica, l’interiorizzazione delle caratteristiche di un situazione, il ricorso alle risorse padroneggiate e disponibili in quanto automatizzate, la messa in atto di comportamenti adeguati alla risoluzione e al raggiungimento dello scopo accompagnati da un atteggiamento riflessivo» (Fioretti, 2011, p. 77 – 78). Il laboratorio pedagogico si configura così come il luogo in cui attuare un tirocinio predidattico, che nasce dalla possibilità di fare esperienza e sperimentare modalità operative già implementate da altri. In questo modo l’esperienza di training condotta in laboratorio realizza due importanti condizioni, ovvero: • precede l’intervento sul campo ma è conseguente a interventi effettivamente condotti sul campo e dei quali è stata verificata l’efficacia; • produce un costante processo di feedback
che rende bidirezionale il rapporto tra attività formativa e pratica quotidiana. La strategia laboratoriale, in quanto si propone come mezzo privilegiato per la formazione di competenze, non è appannaggio della formazione iniziale, ma costituisce uno strumento essenziale negli interventi di formazione in servizio per dare consistenza operativa al noto enunciato dewyano to learn by living and by doing (imparare attraverso il vivere e attraverso il fare). Nel laboratorio infatti si crea l’ambiente pratico e strategico per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze professionali vicine all’esperienza quotidiane, e perciò interessanti e stimolanti, da riversare nell’attività in classe (cfr. Dewey, 1974; 2004; Tomassucci Fontana, 1997). Formarsi nel laboratorio vuol dire quindi vivere questo strumento da apprendente e internalizzarlo come strumento di lavoro, da spendere con i propri allievi per il conseguimento di obiettivi didattici di breve e medio termine; significa anche
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strutturare abiti mentali, atteggiamenti e competenze non limitate a singoli contenuti ma generali e trasversali nella formazione di un individuo (Dewey, 1961; Rey, 2003). Come ogni altra esperienza di apprendimento, anche la formazione alla professionalità insegnante è il risultato di una costruzione progressiva delle abilità, delle procedure, delle tattiche e delle strategie che fanno parte dell’operatività docente. L’assunzione di uno stile di insegnamento efficace non si esaurisce nell’acquisizione di un unico modello di comportamento, ma si connota invece come l’acquisizione di una competenza didattica caratterizzata da modalità d’azione flessibili, ovvero dalla capacità di modificare le strategie in relazione alle caratteristiche della situazione e al modificarsi di queste. La flessibilità si lega inevitabilmente al possesso di un consistente repertorio di abilità e di comportamenti operativi, tra i quali scegliere i più opportuni. La scelta, a sua volta, richiede e implica una capacità decisionale sui cambiamenti da apportare in base ai risultati forniti dal controllo effettuato sugli effetti dell’azione attivata. È opportuno soffermarci, sia pure brevemente, sull’importanza fondamentale del controllo degli effetti dell’insegnamento, indipendentemente dall’età dei soggetti che li conseguono. L’informazione di ritorno in merito a un processo di insegnamento-apprendimento non può, infatti, essere ricondotta solo ai conseguimenti degli allievi, rilevati alla conclusione di un percorso; una simile modalità esclude la possibilità di misurare l’incidenza che l’azione formativa sta avendo rispetto alle variabili personali del singolo soggetto che apprende e di apportare eventualmente dei cambiamenti tempestivi, necessari a una regolazione del processo in atto. Appare evidente come l’insegnamento sia un’attività complessa, per la quale è necessario fare esperienza diretta di strategie di comportamento, di metodologie d’azione, di tecniche di gestione della classe, di procedure di ricerca e altro ancora in contesti protetti, ov-
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vero in ambienti di apprendimento opportunamente organizzati secondo i principi della facilitazione e dell’individualizzazione. Anche nella formazione insegnante quindi occorre: • scandire il percorso complessivo di acquisizione in tappe intermedie, ciascuna delle quali deve produrre la padronanza di una abilità; • tenere conto delle peculiarità del soggetto che apprende, in termini di modi e ritmi di acquisizione, motivazione, bisogni, capacità, modelli e convinzioni precedentemente acquisiti. La predisposizione di un ambiente di apprendimento non ha quindi una connotazione prettamente strutturale, quanto piuttosto temporale e psicologica; ciò determina la necessità di garantire la presenza di condizioni in grado di favorire l’apprendimento per qualunque soggetto, quali: «a) opportunità varie per agire didatticamente; b) situazioni che diano la possibilità di imparare ad applicare e produrre strumenti didattici, docimologici e di ricerca; c) possibilità di esercitarsi a progettare e mettere in atto una gamma differenziata di strategie di intervento; d) modalità di consolidamento dei comportamenti più produttivi e pertinenti rispetto all’obiettivo fissato e di modifica di quelli inefficaci e impropri; e) condizioni di feedback sistematico e plurimo, fondato sulla osservazione, descrizione e analisi delle diverse abilità operative impiegate e dei loro effetti» (Tomassuccci Fontana, 1977, pp. 45-46). Giochi di simulazione e microteaching Tali condizioni possono essere predisposte e controllate all’interno di un laboratorio didattico, nel quale agire attraverso strumenti idonei alla formazione in generale e alla formazione insegnante in particolare, come la simulazione, strumento formativo composito del quale vengono prese in considerazione due tecniche: il role play, per l’esercizio e la modificazione delle abilità socio-relazionali; il microteaching, utilizzato per acquisire e/o affinare le abilità di insegnamento.
Il gioco di ruolo I giochi di simulazione, o giochi di ruolo, sono nati in ambito militare per l’acquisizione di abilità di carattere bellico; sono stati successivamente adottati dall’industria per la formazione professionale e manageriale. A partire dal 1960 circa hanno iniziato a diffondersi nella scuola, affermandosi rapidamente dapprima nella formazione del personale direttivo e successivamente nella formazione degli insegnanti. La ragione della loro crescente affermazione e della loro diffusione in tutti i settori della formazione risiede nella possibilità che offrono di tenere sotto controllo l’errore, che pure si verifica, e di potervi apportare correttivi immediati. Infatti l’esperienza che un soggetto compie in una situazione simulata è assolutamente reale; ciò significa che l’azione viene realmente compiuta, la capacità che si intende formare o consolidare viene utilizzata e gli effetti delle scelte d’azione vengono riscontrati. Attraverso la simulazione quindi si ha la possibilità di partecipare ad un’attività, di acquisire informazioni e strumenti utili per le scelte operative e le modalità d’azione da mettere in atto nelle future situazioni avendone già verificato personalmente l’efficacia e l’opportunità in sede formativa. L’impiego della simulazione favorisce quindi non solo l’apprendimento e il consolidamento di abilità professionalizzanti ma anche il loro trasferimento da situazioni artificiali a situazioni reali e la loro generalizzabilità in vari ambiti di competenza o settori di intervento. Al di là delle competenze oggetto di intervento formativo specifico, infatti, l’uso della simulazione favorisce la formazione di una modalità di rapportarsi alle situazioni quotidiane secondo un approccio di tipo scientifico. Tra le diverse tecniche di simulazione il role play è attuato soprattutto per l’acquisizione e lo sviluppo di competenze socio relazionali e di autocontrollo. Si tratta di una tecnica particolarmente interessante per il suo carattere di metodo attivo, attraverso il quale le situazioni problematiche, rispetto alle quali la persona
sceglie la modalità di “giocare il ruolo” previsto, sono agite realmente mediante la riproduzione sia delle circostanze sia dell’ambiente relazionale in cui quella situazione ha luogo. Durante il role play i partecipanti al gruppo in formazione ricoprono alternativamente il ruolo di attore e di osservatore, in modo da poter esperire sia le difficoltà su cui si intende riflettere ai fini di una modificazione sia la possibilità di analisi che scaturisce dall’osservazione. La simulazione non è quindi semplicemente gioco ma richiede l’osservanza di una serie di passi procedurali che ne definiscono la scientificità. Il primo passo consiste nell’identificazione e nella definizione di una situazione interpersonale oggetto di interesse per la frequenza del sui verificarsi tra i partecipanti. La situazione problematica identificata deve essere simulata e successivamente si deve procedere alla sua riproposizione con l’inserimento di un modello positivo, antagonista rispetto al problema considerato. Infine la ripetizione della simulazione deve essere attuata invertendo i ruoli giocati dai partecipanti all’esperienza. L’obiettivo del cambiamento è ovviamente conseguibile attraverso tappe successive; pertanto può essere utile videoregistrare la simulazione e farne oggetto di discussione e di revisione degli errori commessi perché la modificazione realizzata sia conseguenza di una consapevole assunzione di competenze nuove e non semplice imitazione di proposte, sia pure adattive (cfr. Favorini – Cellamare – Zucca, 2011). Il microteaching Esistono modelli di simulazione di vario genere: fisici, matematici, politici, economici e altro, realizzabili con o senza l’ausilio di strumenti complessi. Sia nella ricerca sia in molti settori della formazione professionale si usa la simulazione uomo - macchina, in cui il soggetto che apprende interagisce con un simulatore e deve prendere le decisioni che ne orientano il funzionamento in vista del conseguimento di un dato obiettivo. La formazione
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di medici, piloti (di auto o di aereo), di sportivi, per citare solo alcuni esempi, fa ampio uso di tecniche di simulazione. La forma di simulazione più diffusa in ambito educativo è quella basata sull’interazione umana, che tuttavia non esclude il supporto di software o materiali audio e videoregistrati, come avviene nel microteaching, una procedura di insegnamento che si base sulla microanalisi dei comportamenti didattici. Mentre nel role play l’interazione simulata mantiene la caratteristica della spontaneità, nel mcroteaching l’ambiente di apprendimento è rigorosamente controllato e semplificato per quanto riguarda alcune caratteristiche essenziali, quali la dimensione del gruppo di allievi, la durata dell’intervento didattico, il comportamento attuato da chi insegna. Ciascun incontro si incentra su una singola abilità operativa da acquisire; tale abilità, pur essendo fondamentale rispetto a un dato contenuto, è generalizzabile a qualunque area disciplinare. Lo schema del microteaching si articola in cinque fasi: nella prima il tirocinante attua una microlezione di cinque minuti che viene videoregistrata; nella seconda fase rivede la registrazione, analizza e valuta il proprio comportamento con un supervisore, concordando con questi le modifiche da apportare; la terza fase consiste nella riprogettazione dell’intervento che viene ripetuto nella quarta fase, sempre attuando un microintervento di cinque minuti; la quinta e ultima fase consiste nella visione della nuova registrazione e nella valutazione finale. Benché le caratteristiche dei gruppi in formazione varino e di conseguenza varino anche le loro condotte, è stato possibile individuare strategie utilizzabili in situazioni diverse sulle quali puntare il microtheaching: la variazione degli stimoli verbali e non verbali, il mantenimento dell’attenzione, l’induzione della capacità ad apprendere, l’uso dei materiali audiovisivi, la capacità di sintetizzare gli argomenti e di evidenziarne gli aspetti fondamentali, la gestione delle tecniche di rinforzamento.
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L’utilizzo del microteaching presenta vantaggi rilevanti in quanto: • è un esercizio attuabile in situazione controllate e consente di riprodurre qualunque componente della situazione istruttiva (elementi ambientali, caratteristiche degli allievi, capacità didattiche ecc.); • è una pratica formativa efficace ed efficiente poiché offre condizioni di apprendimento operativo, individualizzato, conseguibile con minimo sforzo e in economia di tempo; • facilità l’apprendimento attraverso l’isolamento delle singole abilità; • definisce con precisione l’obiettivo da conseguire; • il congelamento tramite videoregistrazione delle sequenze istruttive attuate facilita l’analisi e l’autovalutazione da parte del tirocinante; • è di facile attuazione perché richiede l’uso di apparecchiature semplici e facilmente reperibili. I vantaggi che il microteaching presenta per la formazione degli insegnanti sono legati alla possibilità di isolare le singole abilità; ciò ne facilita l’apprendimento e la stabilizzazione nel personale repertorio di competenze poiché la definizione chiara dell’obiettivo da conseguire, la riduzione delle difficoltà, i tempi brevi delle sequenze di istruzione, permettono il controllo delle interferenze emotive che potrebbero disturbare l’apprendimento. Il processo di acquisizione procede secondo una gradualità che va dal semplice al complesso, con un avviamento progressivo anche dei tempi di addestramento; il ricorso ai gruppi di discussione che seguono le microlezioni permette inoltre ai partecipanti di condividere le esperienze e le riflessioni, realizzando, sia pure in sede simulata, una comunità di pratiche. Poiché il microteaching si attua in situazioni controllate che permettono la riproduzione di particolarità ambientali e di caratteristiche degli allievi proprie della
situazione reale di classe, le abilità didattiche e le competenze professionali diventano variabili sperimentali da manipolare per produrre le modificazioni attese (cfr. Fontana, 1983; Bocci – Cellamare, 2003). Conclusioni Come abbiamo visto il laboratorio crea le condizioni per fare esperienza, modificare competenze, mettere in atto condotte professionali, monitorarle, valutarle, supervisionarle e modificarle in seguito alla costatazione sui risultati effettivamente conseguiti. La modalità laboratoriale offre quindi la possibilità di far sperimentare a chi segue un percorso formativo la reciprocità tra teoria e prassi, che non emerge in percorsi di formazione più tradizionali, nei quali l’allievo (indipendentemente dalla sua età) non è sollecitato a partecipare attivamente al processo apprenditivo. La capacità di insegnare, in quanto comportamento appreso, richiede una formazione continua, come affermano gli studi sul life long learning, e una ricerca costante delle modalità più appropriate a produrre apprendimento con soggetti diversi, per i quali è necessario prevedere l’attuazione di procedure differenziate. Ciò implica la capacità dell’insegnante di variare le proprie scelte strategiche in rapporto alle situazioni, ovvero di assumere decisioni efficaci in risposta ai bisogni educativi e didattici degli alunni. Tali decisioni non possono prescindere da un’accurata osservazione dell’ambiente in cui il processo di apprendimento si realizza, degli attori che vi partecipano e delle variabili intervenienti. Il prossimo contributo sarà dedicato perciò all’osservazione come strumento di ricerca e di intervento educativo - didattico.
Riferimenti Bibliografici: ALBERICI, A., L’educazione degli adulti, Roma, Carocci, 2002; BOCCI F. – CELLAMARE S., Ricerca, formazione, scuola, Roma, Monolite, 2003; BRACONI L – MARTINI B. – MICHELINI C., Per un possibile modello di formazione in età adulta. Il progetto Work net, «Pedagogia più didattica. Teorie e pratiche educative», n. 1, gennaio 2011, Trento, Erickson, pp. 57 – 67; CAMBI F., Manuale di filosofia dell’educazione, Roma – Bari, Laterza, 2000; CELLAMARE S., Le parole della formazione fra tradizione e innovazione. Un possibile percorso lessicale, «Prospettiva EP», anno XXX, n. 3, settembre-dicembre 2007, pp. 65-91; DEMETRIO D., Manuale di educazione per gli adulti, Bari, Laterza, 2003; DEWEY J., Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961; DEWEY J., Democrazia ed educazione, Sansoni, 2004; DEWEY J., La scuola e il fanciullo, Firenze, La Nuova Italia, 1974; DIONISI G. (a cura di), Insegnanti ricercatori, Roma, Armando, 2007; FAVORINI A.M. – CELLAMARE S. – ZUCCA S., Studiare per insegnare. Strumenti concettuali e operativi per una formazione continua, Milano, Franco Angeli, 2011; FIORETTI S., Laboratorio e competenze, «Pedagogia più didattica. Teorie e pratiche educative», n. 1, gennaio 2011, Trento, Erickson, pp. 77 – 82; FONTANA L., I giochi di simulazione nella formazione degli insegnanti, «Psicologia e scuola», n. 15, 1983, pp. 22 – 28; QUAGLINO G.P., Fare formazione, Bologna, Il Mulino, 1985; REY B., Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003; SCHÖN D.A., Formare il professionista riflessivo, Milano, Franco Angeli, 2006; SEMERARO R., La progettazione didattica, Teorie, metodi, contesti, Firenze,Giunti, 1999, TOMASSUCCI FONTANA M.L., Far lezione, Firenze, La Nuova Italia, 1997; TRAMA S., L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Roma, Carocci, 2003.
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Che cosa è la meritocrazia?
di Maria Gioia Pierotti La storia, come sempre maestra di vita, insegna che sono le grandi discontinuità sociali ed economiche a creare le società meritocratiche. Il processo non è evolutivo, ma ha caratteri rivoluzionari. Una grande discontinuità nella storia dell’umanità, avviata nel secolo scorso, è attualmente in corso. Iniziato nel mondo anglosassone sta subendo forti accelerazioni su scala globale, insieme al processo di diffusione della meritocrazia. E’ stata innescata dalla preferenza, nei sistemi post industriali, del capitale umano su tutti gli altri fattori. Come da premessa, Young, attribuiva il sorgere della meritocrazia alla discontinuità economica innestata dal passaggio da un’economia agricola a un’industriale e spiegava, che nell’economia agricola lo status non era definito in base al merito, ma alla nascita. I figli seguivano il destino dei padri, e la domanda “cosa farai da grande?” non aveva senso: era sottinteso che i figli avrebbero lavorato la terra dei padri. Quel tipo di società non prevedeva una selezione per i mestieri: valeva solo l’eredità. La società rurale era l’essenza della famiglia e viceversa.
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Il concetto dell’ereditarietà della terra era implicito nel duro sforzo di coltivarla: gli uomini sapevano che il loro sforzo avrebbe garantito la sopravvivenza dei figli e dei nipoti, e che se non avessero lavorato duramente, l’estinzione della propria famiglia sarebbe stata quasi una certezza. Secondo Young la famiglia è sempre stata il pilastro dell’ereditarietà; il passaggio della proprietà della terra era una garanzia d’immortalità dei genitori, i quali allo stesso tempo tramite l’ereditarietà della terra controllavano i figli e avevano potere assoluto su di essi. Il passaggio da un’economia agricola ad una industriale ha creato un’enorme discontinuità in questi schemi, che avevano retto la società per secoli. I migliori hanno potuto cogliere opportunità più vantaggiose e più grandi, il potere della terra e il nepotismo si sono indeboliti. Chiaramente era stato necessario un grande movimento popolare per sconfiggere il potere della famiglia e iniziare a parlare di eguaglianza e pari opportunità. La meritocrazia moderna secondo Young, ha infatti, avuto una levatrice un po’ sorprendente agli occhi di un lettore del nuovo millennio: il socialismo laburista, uscito da cent’anni di rivolgimenti
sociali che avevano portato allo sviluppo di una classe borghese, che sfidava i privilegi delle proprietà terriere di oligarchi spesso con titoli nobiliari, alla ricerca dell’eguaglianza 1. E’ ben noto a tutti che già a fine ‘800 s’iniziò a parlare di uguaglianza formale, basti citare l’art. 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali …”. Il concetto di “eguale opportunità” spinse Young ad abbandonare il suo partito per diventare un sociologo autodidatta. Aveva fondato un istituto di ricerca a Londra e deciso di pubblicare un libro intitolato “The Rise of the Meritocracy” con la sua nuova teoria socio economica: la versione futuristica di un nuovo ordine sociale descritto con gli occhi di un ricercatore universitario che stilava la propria tesi nel 2030. Oggi infatti, a Londra è attiva una fondazione che porta il suo nome, creata dopo la sua scomparsa nel 2000 2. Il primo problema che dovette affrontare, fu quello di attribuire un nome a questa sua creatura sociale, un sistema che doveva essere governato
“non dal popolo, ma dai migliori del popolo”. “Aristocrazia?” In greco antico, significava, il governo dei migliori ma, il termine originale si era notevolmente corrotto e a quel punto significava esattamente l’opposto: l’oligarchia degli ereditieri. Così Young optò per un sinonimo, “meritocrazia”: la stessa parola, in cui la prima parte invece di essere presa dal greco veniva dal latino. Egli lavorò per mesi al suo libro, che dopo essere stato rifiutato da undici editori, fu pubblicato dalla Hogart Press, la casa editrice fondata di Virginia Woolf e da suo marito Leonard, in breve tempo divenne un testo di riferimento per gli intellettuali della politica e della sociologia, anche se poco noto al grande pubblico. Il messaggio di Michael Young era in parte anche critico: metteva in guardia dai possibili rischi di un’èlite meritocratica che si auto preservava e controllava la società. In ogni caso, il suo libro fa parte della categoria dei testi letti da pochissime persone, ma con enorme impatto sulla storia dell’umanità, come il capitale di Marx e l’origine della specie attraverso la selezione naturale di Darwin. In effetti, anche se il merito era sempre esistito, si trattava della sua riscoperta in chiave moderna. Nella storia dell’uomo, prima delle rivoluzioni sociali e industriali del ‘800 e degli inizi del ‘900, il merito emergeva soprattutto grazie ad altri tipi di discontinuità: le conquiste militari e la scoperta delle terre di altri popoli. Il merito era quindi essenzialmente di natura militare, e dei grandi navigatori che scoprivano e conquistavano terre lontane per i propri re, come Colombo, Vespucci e Magellano 3. Società guerriere come i mongoli, i mohicani e gli spartani selezionavano i giovani migliori per guidare le proprie truppe in base alla capacità e non all’appartenenza. Infatti, la forza di Roma antica è esplosa con la rivoluzione meritocratica dell’esercito voluta dal console Mario nel ‘100 a.C. quando ordinò che non solo i patrizi, ma chiunque fosse dotato di talento guerresco, potesse prendere posizioni di comando: questa rivoluzione salvò Roma dall’annientamento da parte degli El-
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vezi e creò le basi per la supremazia militare romana. La pratica dell’adozione poi, rafforzava ulteriormente le basi del merito della società romana: Adriano aveva adottato Antonino Pio, che a sua volta adottò Marco Aurelio, e gli Antonini sono considerati tra i migliori leader che Roma abbia mai avuto (ovviamente il successo di questa pratica dipendeva dal merito di chi veniva prescelto: anche Nerone era stato adottato). Per gran parte della storia del mondo, il benessere economico è arrivato dal possesso della terra; e la crescita del benessere di un popolo era possibile solo conquistando altri territori. Per prendere piede e svilupparsi, la meritocrazia ha bisogno di discontinuità: solo le grandi discontinuità militari, sociali ed economiche, creano il contesto che riesce a vincere le resistenze dei privilegiati del momento, e a produrre bisogno di merito e quindi grande leadership. In passato in epoche di pace, il merito non aveva spazi per esprimersi e, quando esisteva, tendeva a corrompersi con il tempo. Fu così per la Grecia di Platone, che aveva elaborato il concetto del “governo dei migliori” e coniato il termine “aristocrazia”. Poi il termine degenerò fino ad assumere connotati quasi opposti al concetto originario: del resto, l’idea aveva trovato più spazio nella teoria che nella pratica. Per arrivare alla necessità della meritocrazia in tempi di pace ci sono volute prima le rivoluzioni sociali, che hanno portato alla ricerca dell’eguaglianza, alla sfida del potere e alla ricchezza ereditata, e poi le rivoluzioni economiche, conseguenti alla rivoluzione industriale e alla rivoluzione postindustriale dei servizi che hanno valorizzato il potenziale del capitale umano intellettuale, in contrasto con le economie agricole, in cui il valore economico veniva realizzato da masse di contadini 4. Queste rivoluzioni hanno la loro origine nell’Europa continentale e non solo nel Regno Unito. In Francia, i primi concetti della meritocrazia erano stati seminati da Napoleone, il quale si trovò a fare i conti, con una classe dirigente decimata per effetto della rivoluzione francese. Fu obbligato a seguire cri-
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teri meritocratici, per costruire una nuova leadership francese, attingendo alle fonti più diverse: contadini rivoluzionari e nobili decaduti come il primo ministro Talleyrand. A Napoleone sono attribuite citazioni quali: “La carriére ouverte aux talents”. Egli creò il primo “ordine di merito”, La Legion d’Onore; ma è stato soprattutto negli Stati Uniti che le discontinuità economiche del secolo scorso, hanno trovato la cultura ideale, per sviluppare la nuova ideologia del merito. Emblema della meritocrazia in chiave moderna e del “sogno americano” è rappresentato di James Bryant Conant (1893 – 1978). Conant di modeste origini, iniziò subito a darsi da fare e con enorme impegno si classificò primo all’hight school, guadagnandosi l’accesso a Harvard. In quell’università divenne un eccellente studente di chimica, si dedicò allo sport e alla rivista del campus, “l’Harvard Crimson”. Dopo una brillante carriera, come professore di scienze, nel 1933 coronò la carriera diventando rettore dell’università e iniziando il cammino, che lo portò a diventare uno dei grandi americani del secolo scorso. Conant, quasi unico tra i membri della classe dirigente protestante, era profondamente turbato dall’elitarismo e dalla chiusura delle grandi università statunitensi. Il principio meritocratico, che chiunque, potesse migliorare la propria condizione in funzione delle proprie abilità individuali, indipendentemente dal censo e dalla classe di appartenenza, era stato portato nel nuovo continente dai primi coloni, che fuggivano dal soffocante classismo aristocratico dell’Europa del tempo. Tale ideologia era profondamente radicata dai valori puritani della società americana, fortemente legata all’idea dell’American Dream. Non è un caso che, nel 1813 Thomas Jefferson, già presidente degli Stati Uniti, scriveva a John Adams (un altro ex presidente): “Concordo con te che esista un’aristocrazia “naturale” negli uomini. La base sono la virtù e il talento …. Considero tale aristocrazia naturale, come, il più prezioso dei doni
per l’istruzione, la fiducia e il governo della società …. “Non potremmo sostenere che la migliore forma di governo sia quella che consente a tali “aristocratici naturali” di guidare il Paese ?” 5 Jefferson, pensava a un sistema molto simile all’aristocrazia immaginata da Platone, e al termine “aristocrazia” aggiungeva l’aggettivo “naturale” (alludendo alla contrapposizione tra diritto naturale e diritto “divino”), lasciando chiaramente intendere che ai tempi di Platone, il termine si era notevolmente corrotto e che gli ideali puritani della società americana faticavano ad affermarsi. Nessuno però, prima della “rivoluzione meritocratica” di Conant, si era preoccupato di trovare forme concrete per realizzare il sogno di Jefferson. Dalle sue pubblicazioni, Conant, emerge come un vero fanatico della meritocrazia. In Wanted: American Radicals 6 (“Cercasi radicali americani”) ha sostenuto per primo che a contare era “l’eguaglianza delle opportunità” e non, “l’eguaglianza di risultati”. Conant, come molti altri pensatori dell’epoca, riconosceva l’esigenza di aumentare per l’insieme degli americani le opportunità di migliorare il proprio status sociale, grazie all’educazione pubblica di massa. Allora, negli Stati Uniti gli iscritti all’università erano pochissimi e imperava il mito del self-made man, del tutto autosufficiente, anche per quanto riguarda l’istruzione. L’esempio era Benjamin Franklin, vissuto cent’anni prima, secondo il quale, l’istruzione era un ostacolo al successo. Ragion per cui, ai tempi di Conant, dare tutta questa importanza all’educazione e all’istruzione era un’idea radicale e rivoluzionaria. Stava emergendo un concetto fondamentale, oggi chiaro, ma allora inedito: un sistema educativo, estremamente selettivo e meritocratico in ingresso, permette di distribuire opportunità economiche, al di là dell’ereditarietà. Fu così, che tra i primissimi atti di Conant, appena nominato presidente di Harvard, ci fu la creazione di un programma di borse di studio, accompagnato dalla celeberrima frase: “Dovremmo essere in grado di
portare ogni giovane di talento da ogni parte del Paese a laurearsi a Harvard, sia si tratti di un figlio di ricchi o che non abbia un penny, che abiti a Boston o a San Francisco”. Prima di Conant le borse di studio a Harvard praticamente non esistevano. Conant espresse con chiarezza e semplicità i fondamenti del suo credo meritocratico: “Ognuno sarebbe dovuto andare alle scuole elementari e alle scuole superiori. Poi sarebbe intervenuta una selezione molto severa. Gli studenti più intelligenti sarebbero andati all’università a spese dello Stato”. L’idea iniziale di Conant e dei suoi “radicali” era che, alla fine, solo l’abilità individuale e non il denaro avrebbe determinato l’ammissione nelle migliori università; quindi i contributi pubblici per permettere al migliore, privo delle risorse economiche necessarie, avrebbero reso di fatto, il sistema totalmente pubblico. Erano convinti che le università private, ammettessero soprattutto studenti wasp(white anglosaxon protestants). Avvenne l’imprevedibile: nei bastioni del privilegio americano le idee di Conant e dei suoi “radicali”, ebbero un grande eco, e ben presto si verificò, una vera e propria rivoluzione: la diffusione su larga scala della selezione meritocratica. Le università di Harvard, Princeton e Yale mutarono i propri criteri di selezione e decisero di ammettere i migliori, qualunque fosse la loro provenienza, mettendo a loro disposizione borse di studio 7 . A questo punto, rimaneva l’elaborazione di un sistema di test standard come strumento di selezione degli studenti. Così nel 1933 Conant aveva chiesto a Henry Chauncey, un giovane professore di Harvard, di elaborare un sistema di test standard, come strumento di selezione per gli studenti. Nei cinquant’anni successivi, Chauncey ideò e consolidò l’ETS, creando la più efficace macchina per test del mondo; gli USA divennero la nazione che sviluppò e sperimentò con maggior efficacia l’uso del testing per selezionare e indirizzare gli accessi all’università e alle altre carriere pubbliche e private. In realtà il testing come selezione non
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era stato concepito in America, ma da Alfred Binet in Francia: tuttavia i francesi non avevano utilizzato il test come strumento di selezione, ma come supporto agli insegnanti per fare loro comprendere quali studenti necessitassero di maggiore aiuto. Mentre Chauncey e l’ETS ne fecero lo strumento chiave per introdurre il merito nella società americana 8 . Quindi, mentre nella società americana il “processo meritocratico” dilagava, nell’altra grande realtà anglosassone, il Regno Unito, il processo è stato più lento e sofferto. Gli attacchi ai privilegi da parte dei cugini radicali d’oltre oceano furono ripresi in documenti e saggi d’ispirazione socialista, come la rivista Harvard Socialist, dove i metodi per avere successo in via “meritocratica” venivano del tutto ridicolizzati. La cultura elitaria e aristocratica della leadership inglese, era forse, ancora, più cinica di quella americana: era molto più diffusa l’idea che la maggioranza della popolazione non fosse abbastanza intelligente per studiare. Così fu istituito un esame nazionale, l’eleven plus, da effettuare all’età di undici anni, in quanto si riteneva che alla suddetta età, il quoziente intellettivo fosse ormai stabilizzato. Si crearono due tipi di scuole pubbliche: le grammar school, dove i bambini con i migliori risultati ai test venivano educati e preparati per diventare “colletti bianchi” (in pratica la futura classe media) e le secondary moderns, dedicate a chi aveva avuto bassi risultati, e che venivano preparati per professioni tecniche di livello inferiore. A chi notava che perfino, l’ultrameritocratica America, manteneva tutti gli studenti nelle classi fino a diciassette anni, indipendentemente dai risultati, era risposto che la società americana era un caos multietnico, e che l’esigenza di integrare tante culture diverse fosse più importante della meritocrazia, ma che l’Inghilterra non aveva questo problema. Mentre l’Education Act, era pubblicizzato come un trionfo del Labour Party, iniziò ad emergere il pensiero di Michael Young, eminenza grigia del partito. Young riteneva che il sistema dell’eleven plus e delle
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scuole pubbliche a due velocità fosse profondamente iniquo, infatti, i bambini che eccellevano, provenivano da famiglie privilegiate. A quel punto abbandonò il partito e pubblicò The Rise of Meritocracy, in cui, da un lato descriveva con lucidità l’avvento della meritocrazia e dall’altro ne paventava le possibili implicazioni. Nella prima parte del libro sosteneva che il sistema dell’eleven plus e delle grammar e secondary modern school avrebbe rivoluzionato la società inglese, eliminando definitivamente l’odiata aristocrazia, e creando una nuova classe dirigente costituita dai migliori elementi delle classi lavoratrici: questo naturalmente piacque alla maggioranza dei suoi lettori. Ma più avanti nel libro, Young iniziò a prendere in qualche modo le distanze dalla sua creatura, pavimentandone anche i possibili rischi. Il rischio consisterebbe nell’evoluzione di una nuova forma di “aristocrazia e oligarchia di tipo genetico”, nella quale i più bravi si sposavano tra loro, creando un’inedita forma di ereditarietà di tipo genetico. Questa visione fantascientifica di Young, si sviluppò fino ad immaginare la scomparsa del partito laburista, che non avrebbe avuto più una classe debole da difendere e quindi ragione di continuare ad esistere. Il libro si conclude, con la descrizione della rivoluzione del “popolo con basso quoziente intellettivo”, che sarebbe culminata in una sanguinosa sommossa a “Peterloo”, nella quale lo stesso autore del volume avrebbe perso la vita. Oggi Micheal Young è considerato dai suoi stessi “discepoli” (a Londra è attiva una fondazione che porta il suo nome, creata dopo la sua scomparsa nel 2000) “ambiguo” nei confronti della meritocrazia. Lo dimostra anche la struttura del suo libro, in cui l’autore si sdoppia in due persone: la prima è un narratore giovane ed entusiasta, la seconda è l’autore più vecchio e più saggio. Fortunatamente, le cose non sono andate nella direzione negativa e più o meno dieci anni dopo, il partito laburista ottenne l’eliminazione dell’eleven plus e l’integrazione delle due tipologie di scuole e si calmarono persino gli spiriti. Quest’ambiguità di
Young, non passò inosservata negli Stati Uniti, The Rise of the Meritocracy, fu esaminato e discusso dagli esperti di educazione e di testing. Questi non si preoccuparono troppo del pessimismo di Young, fermamente convinti che la società meritocratica che stavano costruendo sarebbe stata stabile perché avrebbe favorito l’interesse di tutti i cittadini. I leader americani che stavano sviluppando questo sistema, erano forse meno brillanti del geniale e ironico Young, ma erano pragmatici e più orientati all’azione: The Rise of the Meritocracy li spinse a creare programmi di affermative action per ridurre “l’handicap famigliare”, e ancora oggi quel testo costituisce una piattaforma di discussione tra i migliori sociologi ed economisti nel mondo. Pure in tanto caos, oggi, quando si parla di meritocrazia nella società, il termine appare chiaro: serve a distribuire le opportunità a milioni di persone, selezionandole attraverso un sistema universitario puntualmente monitorato, per poi inserirle nel mondo del lavoro 9. Note: 1 Cfr. Abravanel R., Meritocrazia, Milano, Garzanti, 2009, pp.37-38. 2 La fondazione è presente anche su internet: www. youngfoundation.org 3 Ibidem pp.30-40. 4 Ibidem p.42. 5 Ivi. 6 “Atlantic Monthly”, maggio 1943. 7 Cfr. Karabel J., The Chosen: The Hidden History of Admission and Exclusion at Harvard, Yale, and Princeton, Houghton Mifflin, Boston 2005. 8 Cfr. Abravanel R., Meritocrazia, Milano, Garzanti, 2009, pp.44-48. 9 Ibidem pp. 50-55. Riferimenti Bibliografici: ABRAVANEL R., Meritocrazia, Milano, Garzanti, 2009; KARABEL J., The Chosen: The Hidden History, Houghton Mifflin, 2007; PIEROTTI M.G., Intelligenza e merito, la sfida educativa, Margiacchi, Perugia, 2011.
L’applicazione dei modelli di gestione orientati alla misurazione delle performance e al miglioramento continuo nel settore della formazione: esperienze regionali a confronto.
di Amalia Lucia Fazzari e Giovanna Lucianelli1 1. Considerazioni introduttive Per meglio comprendere il modo in cui un modello di gestione interviene nei processi di un’organizzazione, modificando il suo comportamento nei confronti degli interlocutori sociali e dell’ambiente in cui essa opera2, nei successivi interventi si riporta un esempio pratico di come sia possibile armonizzare tanto la gestione dei processi interni, quanto le interazioni tra sistemi esterni di aziende diverse, nel caso del settore della formazione, per il quale sono in vigore, in Italia, i requisiti del D.M. 166/2001 per l’accreditamento delle organizzazioni che propongono e realizzano interventi di formazione finanziati con risorse pubbliche.
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Negli ultimi anni le dinamiche competitive delle aziende operanti nel settore della formazione sono state ampiamente influenzate da un processo di innovazione organizzativa e gestionale tuttora in corso. Ogni Regione ha di fatto recepito in modo diverso i contenuti del D.M. 166/2001 in merito ai requisiti generali di accreditamento3 richiesti alle organizzazioni operanti nel settore della formazione; conseguentemente il livello generale di attenzione si è spostato dal contesto nazionale a quello regionale. Scopo del presente lavoro è individuare e analizzare i requisiti organizzativi richiesti alle aziende operanti in ciascuna Regione, al di là dei requisiti minimi stabiliti dal decreto ministeriale di cui sopra,4 al fine di definire il sistema di opportunità e di vincoli che il quadro normativo è andato progressivamente a delineare nel contesto nazionale. Sul piano metodologico il presente studio si propone in primo luogo l’obiettivo di illustrare in quale modo le Regioni italiane, attraverso l’esplicitazione dei requisiti di accreditamento, abbiano dato attuazione alle politiche di sviluppo delle competenze territoriali (paragrafo 2), per poi descrivere la dimensione attuale del fenomeno “ certificazione” in Italia (paragrafo 3). Il fine è quello di valutare se lo strumento normativo sia stato considerato un’opportunità da non perdere riguardo alla possibilità di influire sugli standard qualitativi delle strutture operanti nel settore della formazione oppure come un insieme di regole per controllare l’erogazione dei finanziamenti. Si consideri che all’interno del panorama degli strumenti organizzativi disponibili per le aziende operanti nel settore della formazione è stato selezionato il “sistema qualità ISO 9001” in quanto capace di assicurare la qualità e la conformità delle prestazioni del sistema dei processi aziendali rispetto ai requisiti espressi dall’ambiente competitivo di appartenenza. Tale sistema, infatti, si caratterizza per la sua attitudine a coordinare non solo la gestione di processi all’interno delle aziende,
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ma anche nelle interazioni che si instaurano tra diverse aziende nel più ampio sistema al quale appartengono. 2. I requisiti del sistema di accreditamento regionale Con il DM 166/2001, a seguito dell’accordo in Conferenza Stato-Regioni del 18-02-2000, sono stati definiti gli standard minimi nazionali per l’accreditamento delle strutture di formazione e di orientamento e gli standard minimi delle competenze professionali dei formatori. Ai fini dell’accreditamento la sede operativa deve essere in possesso, oltre che del requisito dell’affidabilità economico-finanziaria, dei seguenti requisiti generali: 1. capacità logistica; 2. capacità gestionale ed organizzativa; 3. capacità di relazione con il sistema sociale e produttivo territoriale; 4. disponibilità di risorse professionali, di cui la sede operativa dovrà prioritariamente avvalersi; 5. livello di efficienza ed efficacia negli ultimi tre anni. Il presente lavoro analizza come le singole Regioni hanno recepito il DM 166/01 in merito ai requisiti sopra specificati. Ogni requisito è stato analizzato sia sotto il profilo quantitativo, esprimibile in termini di livello di dettaglio o grado di documentazione regionale richiesto, sia sotto il profilo qualitativo, ovvero in base alla tipologia di evidenza che emerge per ogni singolo requisito. Si è data rappresentazione grafica di tale distinzione, con un grafico “a torta”, poiché è quello che meglio visualizza il contributo di ciascun requisito, in base alla tipologia analizzata, e che mette in evidenza i singoli indicatori. 2.1 L’affidabilità economico-finanziaria Ogni Regione, come è possibile vedere dal grafico (Figura 1), ha richiesto una documentazione più o meno dettagliata della situazione economico-finanziaria per riconoscere l’accreditamento delle strutture formative.
Figura 1 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
Il Lazio è la Regione che ha definito in modo più analitico la richiesta di documentazione in merito alla situazione economico-finanziaria, seguita dalla Calabria, il Piemonte, la Lombardia, il Molise, la Sardegna, la Sicilia, la Toscana, l’Emilia Romagna e la Valle D’Aosta. Il Veneto è la Regione che ha specificato meno la documentazione per tale requisito richiedendo come unico requisito ai fini dell’accreditamento “la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del bilancio in merito all’affidabilità economico-finanziaria”. In particolare, i requisiti richiesti per poter essere accreditati sotto il profilo economicofinanziario, sono evidenziati per singola tipologia di evidenza, nella Figura 2. Si consideri che solo alcuni di essi sono ricorrenti (e in diversa misura) nelle Regioni: • l’esame documentale dei contenuti dell’autodichiarazione del Legale Rappresentante per dimostrare l’affidabilità economica finanziaria (15%); • il documento di bilancio per l’esercizio antecedente l’anno di richiesta di accreditamento, per dimostrare la solidità patrimoniale e finanziaria (15%); • il rispetto dei contratti collettivi nazionali di lavoro con la relativa documentazione (14%);
• il manuale qualità o la copia del certificato UNI EN ISO 9001 (14%); • la specifica nell’atto costitutivo o statuto del fine di lucro, per soggetti pubblici senza fini di lucro (11%), • il certificato di referenze bancarie rilasciato da un istituto di credito (6%); • l’autodichiarazione da parte del legale rappresentante a titolo di attestazione dei poteri di rappresentanza legale (3%), • l’assenza di condanne per reati di natura amministrativo-finanziaria e l’assenza di dichiarazioni e procedure di fallimento con la scansione del certificato con vigenza della Camera di Commercio con l’indicazione della situazione fallimentare (1%).
Figura 2 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
2.2 La capacità logistica E’ il requisito maggiormente esplicitato dalle Regioni. Anche per questo requisito ogni Regione, come è possibile vedere dal grafico (Figura 3), ha richiesto una documentazione più o meno dettagliata per riconoscere l’accreditamento delle strutture formative. L’Abruzzo insieme alla Basilicata sono le Regioni che formulano richieste più dettagliate per documentare il possesso del requisito, seguite da
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Lombardia, Toscana, Lazio, Umbria, Calabria, Emilia Romagna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia. Veneto, Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige, Sardegna, Molise e Marche sono invece le Regioni che esplicitano meno la documentazione da presentare per ottenere l’accreditamento.
Figura 3 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
Come si vede dal grafico (Figura 4) ciò che è maggiormente richiesto al fine di dimostrare la capacità logistica è: • assicurare l’adeguatezza delle aule specificandone la planimetria in base al numero di allievi (13%); • la disponibilità e adeguatezza dei locali con titoli attestanti la disponibilità spazio temporale delle strutture: proprietà, locazione, comodato, convenzione d’uso o altro (12%); • assicurare la rispondenza normativa delle aule, dei laboratori e di tutti gli spazi della sede operativa in particolar modo in riferimento alla L. 626/94 (11%); • assicurare l’adeguatezza didattica e tecnologica delle attrezzature e degli strumenti del laboratorio informatico (11%); • l’assenza di barriere architettoniche per l’accesso e la frequenza delle attività, alla valutazione dei rischi (5%); • l’utilizzo a titolo esclusivo dei locali e delle attrezzature (4%);
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• il nulla-osta tecnico-sanitario della ASL competente per la rispondenza dei locali ad uso didattico (4%); • il certificato di prevenzione incendi dei VVFF o un nulla-osta provvisorio (4%); • la nomina del medico competente (2%); • la dichiarazione di conformità ai sensi della L. 46/90 (2%).
Figura 4 - Richiesta in percentuale di ogni singola tipologia di evidenza
2.3 La capacità gestionale ed organizzativa E’ il requisito meno esplicitato dalle Regioni. Come è possibile vedere dal grafico (Figura 5), non tutte le Regioni richiedono una documentazione dettagliata. Fanno una esplicita richiesta solo l’Emilia Romagna, il Lazio, l’ Abruzzo, la Basilicata, la Campania e la Calabria. Ciò che viene richiesto è desumibile dal grafico successivo (Figura 6): • il documento descrittivo della missione e degli obiettivi (37%); • l’ organigramma nominativo dell’organizzazione e dei processi (27%); • il manuale della qualità e i curricula professionali (9%).
Figura 5 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
Figura 6 - Richiesta in percentuale di ogni singola tipologia di evidenza
2.4 La capacità di relazione con il sistema sociale e produttivo territoriale In questa area vengono verificate le competenze tecnico-professionali, e come si può notare (Figura 7) mentre l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, la Calabria, il Lazio, le Marche e la Sicilia esplicitano la documentazione necessaria, le altre Regioni non hanno fatto nessuna richiesta in merito a tale requisito. Il requisito si ritiene posseduto se documentato attraverso (Figura 8): • la presenza di contratti/stage (25%); • il programma didattico in cui siano previsti gli incontri istituzione-famiglia (17%); • il contratto da cui si evinca la durata del vincolo e la pertinenza con l’area professionale/occupazionale (13%); • il documento da cui si evinca la durata della collaborazione, l’accordo in forma scritta di collaborazione, il programma scritto degli incontri, la valutazione della pertinenza del contenuto della collaborazione (9%).
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Figura 7 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
Figura 8 - Richiesta in percentuale di ogni singola tipologia di evidenza
2.5 La disponibilità di risorse professionali, di cui la sede operativa dovrà prioritariamente avvalersi In questa area vengono trattate le competenze
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professionali. Tutte le Regioni hanno esplicitato la presenza di tale requisito, solo la Liguria ha specificato maggiormente la richiesta. I requisiti richiesti sono: • curricula con esperienza nel settore docenza (25%); • curriculum da cui si verifica il possesso delle competenze tecnico-professionali (24%) • programma didattico (15%); • valutazione della pertinenza tra i curricula e l’area professionale di riferimento (9%); • curriculum dettagliati delle figure professionali con autocertificazione che attesti la veridicità di quanto dichiarato nel curricula, gli estremi di tutti gli incarichi svolti e l’ente presso il quale si è svolta l’attività (6%); • copia del contratto di lavoro, accordo in forma scritta con istituzione sanitaria per la professione richiesta (5%); • curriculum dettagliati dei responsabili da cui si evinca il possesso delle competenze di base in relazione al ruolo di valutazione (4%).
Figura 9 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
Figura 11 - Grado di documentazione regionale per accreditamento
Figura 10 - Richiesta in percentuale di ogni singola tipologia di evidenza
2.6 Il livello di efficienza ed efficacia negli ultimi tre anni In merito ai requisiti dell’efficienza e dell’efficacia con riferimento agli ultimi tre anni, Basilicata, Calabria, Marche, Abruzzo e Campania esigono una maggiore documentazione,rispetto a Molise, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e alle altre Regioni (Figura 11).
I requisiti richiesti sono esplicitati attraverso diversi documenti, che attestano (Figura 12): • l’evidenza in termini di misurazione del livello di attuazione e del livello di abbandono della politica della qualità e degli obiettivi compresi nel riesame della direzione (16%); • il livello di successo formativo (attraverso dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà) con indicazione del valore numerico del requisito (14%); • il livello di soddisfazione (mediante il modello per la rilevazione della soddisfazione dell’utente) al termine di ogni intervento (9%); • il costo per allievo formato, mediante documento che ne attesti l’evidenza (6%); • la lettura dei fabbisogni formativi e professionali del territorio, attraverso il documento di osservazione del contesto (4%); • l’osservazione del contesto (2%); • il livello di efficacia e di efficienza (schede di riepilogo dei livelli raggiunti) negli ultimi tre anni (6%).
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Figura 12 - Richiesta in percentuale di ogni singola tipologia di evidenza
3. La dimensione del fenomeno “ certificazione” in Italia Lo studio qui presentato fa riferimento alla macro-area della formazione e dell’Istruzione in Italia che ha voluto dare attenzione allo strumento della certificazione. Nell’intento di fornire dei dati il più aggiornati possibile, compatibilmente con i tempi di
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elaborazione degli stessi, si è proceduto alla consultazione delle banche dati, aggiornate al 9 Giugno 2009, rese disponibili dal SINCERT sul proprio sito web. Dalle suddette banche dati, sono state selezionate le strutture di formazione accreditate per il settore EA 37 “Istruzione”, che rispondono ai seguenti requisiti: operatività sul territorio italiano ed implementazione di un sistema di gestione per la qualità certificato. Sono molte e sempre in crescita le aziende che
offrono servizi di formazione che seguono la norma ISO 9001, ormai conosciuta e adottata nel mondo, così come in Italia, e diventata di fatto lo standard di riferimento per chiunque voglia applicare all’interno della propria organizzazione un Sistema di Gestione per la Qualità. Si veda a titolo esemplificativo la Regione Lombardia dove sono state registrate 1.843 aziende certificate. Molte organizzazioni che erogano formazione nel territorio nazionale hanno ritenuto il modello ISO come un valido strumento per iniziare un processo di valutazione della propria organizzazione, in particolare in termini di efficienza nella gestione dei processi interni e di efficacia del servizio erogato. Non è dunque un caso se, a differenza di altri settori, le certificazioni rilasciate nel segmento dell’istruzione in Italia, sono tutte relative ai sistemi di gestione per la qualità. Negli ultimi anni si è registrato un incremento delle certificazioni dovute anche alle numerose riforme nazionali e regionali sull’istruzione pubblica e privata, che hanno ottenuto un sostegno finanziario,come ad esempio la progettazione e l’erogazione di corsi tenuti da istituti nazionali o regionali co-finanziati dal Fondo Sociale Europeo (F.S.E.). Il F.S.E. ha lo scopo di promuovere una serie di misure volte a sviluppare le conoscenze e le competenze delle risorse umane, agevolare l’inserimento e il reinserimento nel mondo del lavoro o l’adeguamento professionale, attraverso attività di formazione ed aiuti all’occupazione dei giovani, adulti e svantaggiati. Il F.S.E. assume la forma del co-finanziamento, essendo complementare ai finanziamenti pubblici messi a disposizione dei singoli Stati membri. Il percorso per l’accesso ai finanziamenti è passato attraverso un meccanismo di accreditamento, per il quale molte Regioni hanno evidenziato dei requisiti che facevano riferimento, appunto, alla norma ISO 9001. In seguito, soprattutto per il grande riscontro positivo avuto dall’attività intrapresa ai fini della certificazione, queste strutture di formazione hanno deciso di portare avanti il mede-
simo orientamento. Attualmente in Italia questo aspetto non è l’unico che motiva l’organizzazione a certificarsi. Tra le motivazioni predominanti vi sono: l’importanza del miglioramento continuo e l’ottenimento di un vantaggio competitivo. Ad oggi in Italia è possibile contare 6.146 aziende certificate solo nel settore della formazione. Questo è sintomo dell’evoluzione delle scelte dei consumatori e clienti e nello stesso tempo di una risposta strategica da parte delle aziende nazionali. Quello a cui stiamo assistendo è una tendenza spinta verso una realtà non più concentrata nel piccolo ma volta verso un confronto con il resto del mondo. La formazione così offerta creerà gli strumenti idonei, ai clienti finali delle nostre aziende di formazione, necessari per essere accettati da un mercato ormai globalizzato. Dalla ricerca si evince che la maggioranza delle organizzazioni/aziende con sistema di gestione certificato è concentrato nella Regione Lombardia con ben il 30%. Le Regioni con meno concentrazione sono rappresentate dalla Valle d’Aosta e dal Molise.
Figura 13 - Aziende di formazione cert ificat e in Italia
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Di seguito, nella Tabella 1, sono indicate il numero delle aziende di formazione che sono certificate nel territorio italiano. Per una più attenta analisi, le aziende sono state suddivise in relazione alle Regioni e per tipo di certificazione (i dati sono aggiornati al 9 giugno 2009 e comparati con quelli aggiornati al 31.01.2011).
Dalla Figura 15 riusciamo a cogliere immedi atamente la distribuzione sul territorio italiano delle suddette Organizzazioni attraverso l’aiuto dei tre colori utilizzati. • Le Regioni colorate di giallo sono caratterizzate dalla presenza della percentuale dal 4% allo 0% delle Organizzazioni/aziende con sistema di gestione certificato; • quelle in verde dal 9% al 5%; • quelle in rosso sono le Regioni con maggiore concentrazione (dal 30% al 10%).
Tabella 1
Interessante anche notare (Figura 14) in quale misura sia aumentato o diminuito il numero delle organizzazioni/aziende con sistema di gestione certificato secondo la norma ISO 9001:2008. Figura 15
Figura 14
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4. Considerazioni conclusive Oggi in Italia, come in Europa, la società è caratterizzata dalla crescita accelerata delle conoscenze, della capillare diffusione di innovazioni scientifiche e tecnologiche, dalla velocità delle comunicazioni e dell’informazione, dalla globalizzazione dell’economia, deve poter contare su un sistema istruttivo/ formativo idoneo, capace di offrire servizi moderni e di elevato profilo. Purtroppo a fronte della celerità e dell’ampiezza dei cambiamenti, non sempre il sistema formativo presenta requisiti e carat-
teristiche tali da poter assicurare qualificati e coerenti esiti culturali e formativi; ne deriva, pertanto, che di frequente si registrano evidenti sfasature tra offerta e domanda di istruzione e di formazione. In particolare il nostro sistema formativo, sostanzialmente autoreferente ed immutato nel suo impianto per oltre 50 anni, ligio ad un ruolo di pura teorizzazione delle conoscenze e concepito in funzione di contrapposizione tra cultura e professione, necessita di un più lungo processo, rispetto ad altre realtà, per adeguarsi completamente. È stato giustamente osservato che il “modello italiano” è stato uno degli ultimi in Europa a cercare di porsi in sintonia con le logiche ed il modo di essere e di operare della nostra società. Eppure la formazione ha assunto ormai un ruolo preminente e di assoluto rilievo nelle moderne comunità, sì da costituire un fattore determinante ai fini dell’espansione delle opportunità e delle capacità produttive, nonché momento strutturale e di snodo rispetto all’insieme delle strategie volte ad orientare o ri-orientare le politiche del lavoro e le potenzialità occupazionali. In una tale logica la formazione diviene un moltiplicatore delle opportunità e delle capacità produttive, elemento strutturale nel quadro delle strategie praticabili, e tale da influire notevolmente sugli investimenti produttivi. La formazione rappresenta, insomma, un’opportunità di grande importanza per il reperimento e il coinvolgimento di “risorse umane” capaci di interpretare e soddisfare i bisogni e le aspettative della vita organizzata. Essa non costituisce, quindi, una possibilità aggiuntiva a sostegno dell’evoluzione della struttura istituzionale ed economica, ma parte integrante e linfa vitale della stessa. È opinione di molti operatori che le rigide regolamentazioni e metodi di controllo della qualità, adottati con profitto ed applicati nelle aziende accreditate dalle rispettive
Regioni, non siano validamente trasferibili negli istituti scolastici e formativi, caratterizzati da maggiore complessità e dove comunque, gli aspetti umani assumono la massima rilevanza. Tale punto di vista non è condivisibile: nasce dal preconcetto che la qualità consista solo in un insieme di norme, regole e controlli. Sappiamo che la realtà è molto diversa: il primo fondamento della qualità coinvolge problemi di carattere culturale ed umano e solo successivamente si estrinseca nelle regolamentazioni e nelle metodologie gestionali più opportune a risolvere detti problemi. Infatti alcune Regioni italiane hanno saputo più di altre considerare lo strumento normativo, più come un’opportunità da non perdere riguardo alla possibilità di influire sugli standard qualitativi delle strutture operanti nel settore della formazione, che non come ad un insieme di vincoli burocratici per controllare la qualità e di conseguenza limitare l’erogazione dei finanziamenti. Le aziende a loro volta hanno risposto modificando il sistema organizzativo e l’ambiente competitivo di riferimento e in molti casi hanno “scelto” il sistema qualità come strumento per la gestione e il miglioramento dei processi andando al di là dei requisiti richiesti nelle diverse Regioni, al fine di ottimizzare i propri processi e le performance. Riferimenti Bibliografici: CICCARELLI L., La qualità nella formazione, Roma, Ed. SIPI, 1993; COMMISSIONE EUROPEA, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, Bruxelles, 1994; COMMISSIONE PER LO SVILUPPO DELL’UNIONE, Agenda 2000, Luglio 1997; CROSBY P. B., Obiettivo Qualità, McGrawHill, 1996; DEMING W. E., L’impresa di qualità, Torino, Isedi, 1989; DOUCET C., Qualità e certificazione delle imprese, in A.A. V.V. ‘ Trattato di Qualità Totale ’, a cura di V.
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Laboucheix, Franco Angeli, Milano, 1991; GRAZIOLI F., Accreditamento certificazioni e Pubblica Amministrazione: regole, metodi e strategie, in “De Qualitate”, Settembre 2008, pag.6; IRES LIGURIA, Rapporto finale della ricerca “Certificazione della qualità dei processi formativi: principi, casi di studio, modelli applicabili al contesto ligure”, novembre 1997; ISHIKAWA K., Guida al controllo della qualità, Milano, Franco Angeli, 1990; ISFOL, L’accreditamento delle strutture formative: esperienze e modelli a confronto, Ed. Franco Angeli, 2001; JURAN J.M., La qualità nella storia, Sperling & Kupfer, 1997; JURAN J.M, Quality policies and objectives, in A.A. V.V., Quality Control Handbook, McGraw-Hill, New York, 1989; KAROL EN.H e GINSBURG S.G., Managing the Higher Education Enterprice, John Wiley & Sons, New York, 1980; MARCHITTO F, FICARRA G., Qualità e certificazione nei processi formativi, Prometeo, 1998; MATTANA G., Qualità, Affidabilità, Certificazione, Milano, Franco Angeli, 1986; MELE R., POPOLI P., La valutazione e il controllo di gestione nelle aziende-università, Economia Pubblica, numero 1, 1999; MERLI G., I nuovi parametri della qualità Totale, in “l’Impresa” n.8, 1993; MINELLI E., REBORA G. e TURRI M., Il valore dell’Università, Milano, Guerini, 2002; MODICA L. in A.A. V.V., Valutazione dell’Università, accreditamento del processo, misurazione del prodotto, Milano, Franco Angeli, 2002; NEGLIA G., Formazione e qualità, in “De Qualitate”, Settembre 2002, pag.31; NEGLIA G. (a cura di), La valutazione della qualità della formazione: esperienze a confronto, Fondazione Taliercio, Milano, Lupetti Editori, 1999; NEGRO G., Organizzare la qualità nei servizi, Il Sole 24 Ore, Milano, 1992; PORTER M.E., Il vantaggio competitivo, Ed. Comunità, 1987; PORTER M.E., La strategia competitiva, Bologna, Edizioni Tipografica Editori, 1982.
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Sitografia: Istituzionali UNIONE EUROPEA: www.europa.eu.int MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE: www.istruzione.it MINISTERO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA SOCIALE: www.minlavoro.it PARLAMENTO: www.parlamento.it EUROPA LAVORO, sito ufficiale del Fondo Sociale Europeo in Italia: www.europalavoro.it Area formazione on line ISFOL, Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori: www.isfol.it TECNOSTRUTTURA, Tecnostruttura delle Regioni per il Fondo Sociale Europeo: www.tecnostruttura.it EURISPES, Istituto di studi politici, economici e sociali: www.eurispes.it SINCERT, Sistema nazionale per l’Accreditamento degli Organismi di Certificazione: www.sincert.it FONDTALIERCIO, Fondazione di Confindustria e Federmanager, svolge attività, essenzialmente di studio, ricerca, informazione, promozione e formazione: www.fondtaliercio.it. Note: 1 Pur essendo frutto di un lavoro congiunto, i paragrafi 2.3, 2.4, 2.5, 3 e 4 sono da attribuire a Amalia Lucia Fazzari mentre i paragrafi 1, 2, 2.1, 2.2, 2.6 sono da attribuire a Giovanna Lucianelli. 2 Cfr. “Finalità dell’impresa nell’ambiente competitivo globalizzato”, articolo del 03 ottobre 2011 3 L’accreditamento “è un atto con cui l’amministrazione pubblica competente riconosce ad un organismo la possibilità di proporre e realizzare interventi di formazione – orientamento finanziati con risorse pubbliche”. Cfr. Art. 1 comma 1), D.M. 166/2001 del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. 4 Si consideri che i requisiti minimi di cui all’art.6, commi 1) e 2) e Allegato 2 costituiscono la base comune dei sistemi regionali di accreditamento. Cfr. Art. 1, comma 3) D.M. 166/2001 del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale.
Immigrazione e fenomeni pregiudiziali
di Sara Piave Premessa L’immigrazione dai paesi meno sviluppati rappresenta uno dei più importanti temi di dibattito e di confronto politico e sociale nelle nazioni europee ed extraeuropee degli ultimi anni. In Italia il fenomeno immigratorio si è manifestato in tempi relativamente recenti; dall’inizio degli anni ottanta infatti si è verificata l’inversione di tendenza che ha reso il nostro paese da luogo di partenza a luogo di arrivo di flussi immigratori. Si è assistito a un’evoluzione delle ondate immigratorie, poiché questa varia continuamente in risposta alle modifiche geopolitiche del mondo. Le prime popolazioni che sono giunte nel nostro Paese erano rappresentate da persone di ogni età, provenienti dall’ex Jugoslavia, dall’Albania, dall’America Latina e da alcuni stati dell’Africa settentrionale; negli anni successivi, invece, i flussi migratori sono stati registrati dai paesi dell’Est Europa, dell’Ex Urss e dai quei territori africani caratterizzati da scenari di guerra e conflitti politici, che hanno ridotto in miseria intere popolazioni,
inducendole ad emigrare. Inoltre, dopo l’ingresso della Romania nella UE, attualmente la comunità più numerosa presente sul territorio italiano è quella romena (cfr. Rapporto Ismu 2009). L’Italia è diventata, quindi, nel corso degli anni, una società multietnica e policulturale, nella quale la presenza di minoranze etniche rappresenta un fattore in continua crescita. Questo graduale insediamento ha determinato l’instaurarsi di rapporti interetnici; ma questi legami non sempre sono caratterizzati dall’empatia, dalla fiducia e dal rispetto, prerogative indispensabili di ogni rapporto sociale e umano; anzi spesso sono contrassegnati anche da atteggiamenti conflittuali, che ostacolano la possibilità di un’adeguata integrazione sociale e culturale. E’ probabile che ciò sia dovuto alla paura del diverso; questa ha origini ancestrali, il timore di entrare in contatto con una cultura differente dalla propria può generare sentimenti di ostilità, che possono esprimersi in atteggiamenti di palese rifiuto o attraverso manifestazioni xenofobe più latenti e sottili. Il pregiudizio etnico riappare in contingenze inaspettate, con connotati nuovi e imprevisti. Il nostro paese, pur nella sua più recente esperienza di ondate immigratorie, ha visto crescere in maniera piuttosto imponente i tratti di una società esclusiva e xenofobica (cfr. Convegno Internazionale, 2011). Dal punto di vista educativo e sociale è opportuno interrogarsi sulle motivazioni che spingono gli individui ad assumere atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati, e più in generale delle diversità, e sui meccanismi mentali che si innescano nel contatto con questi. A tale proposito può essere di aiuto affrontare la riflessione partendo dal contributo di alcuni autori che hanno rivolto principalmente la loro attenzione allo studio di queste realtà, arrivando a ipotizzare diverse definizioni del pregiudizio e in maniera più approfondita del pregiudizio etnico, evidenziandone alcune possibili cause. Rivestono notevole importanza inoltre alcune indagini, condotte da di-
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versi studiosi sull’analisi degli atteggiamenti nei confronti degli immigrati mediante l’utilizzo di un particolare strumento che consente di misurare le diverse forme del pregiudizio. Queste rilevazioni empiriche testimoniano la cristallizzazione di un pensiero pregiudiziale, che colpisce persone appartenenti a qualsiasi estrazione sociale. Come definire il pregiudizio Un’ampia e accreditata letteratura in merito alle implicazioni psicologiche, sociali, educative e antropologiche che si attagliano ai fenomeni immigratori ha prestato particolare attenzione alle modalità con cui si costruisce il pregiudizio e alle sue ricadute sulla vita personale e sociale. La storia offre numerosi esempi di visuali limitate nel contatto con uomini di altri gruppi razziali, basti pensare all’esperienza di Amerigo Vespucci. L’esploratore fiorentino nel suo viaggio verso l’America incontrò gli indigeni di quel continente, che considerò in modo non positivo, perché il corpus dei valori civili, religiosi ed etici degli Indios era completamente diverso da quello dell’uomo dell’Europa occidentale. La forma mentis di Vespucci, i preconcetti dell’epoca in cui viveva, gli impedivano di percepire l’altro e il diverso con apertura. Se Vespucci non si fosse limitato ad osservare superficialmente la realtà di quegli uomini, avrebbe visto molte cose che invece non riuscì a percepire; questi individui non erano privi di una fede, avevano un capo o un’autorità religiosa pronta a orientare i membri del gruppo, a guidare il clan nei momenti difficili, a suggerire la migliore soluzione per la difesa comune; una rigida organizzazione regolava il loro comportamento sociale, avevano le loro ansie mistiche, i loro asceti. L’epoca non rivelò l’erroneità delle opinioni del viaggiatore, perché quelle erano le opinioni correnti, condivise da tutti. Il pregiudizio rappresenta quindi una tendenza a considerare in maniera negativa un individuo o un gruppo di persone che possiedono
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delle connotazioni culturali e sociali diverse da quelle della nostra tradizione (cfr. Tentori, 1962). E’ un fenomeno universalmente diffuso e può rappresentare, a volte, un pericolo, che può provocare gravi conseguenze su più fronti. Colui che è fatto oggetto di pregiudizio, può con il passare del tempo, arrivare a strutturare una scarsa autostima, dimensione che rappresenta uno degli aspetti essenziali della vita dell’uomo e, infatti, è una prerogativa che consente alla persona di affermarsi, di rapportarsi in maniera empatica con gli altri e di perseguire determinati obiettivi da lei stessa definiti. (cfr. Aronson – Wilson – Aker, 1997). Il pregiudizio, inoltre, può comportare il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze dequalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti di individui facenti parte di un determinato gruppo incrementa la loro appartenenza a questo (cfr. Brown, 1995). Questo fenomeno può esprimersi come «un’antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in mala fede, che può essere solo intimamente avvertita o anche dichiarata. Questa può essere anche diretta a tutto un gruppo come tale, oppure a un individuo in quanto membro di tale gruppo»(Allport, 1973, p. 13). Nel corso del tempo il termine pregiudizio ha mutato il suo originale valore semantico. L’evoluzione ha seguito tre fasi distinte. Dall’iniziale significato di giudizio anteriore, basato su esperienze precedenti al giudizio stesso; in seguito la parola ha indicato un giudizio elaborato prima di una opportuna considerazione oggettiva dei fatti. Successivamente tale vocabolo ha acquisito una connotazione semantica legata alla benevolenza o malevolenza che accompagna un giudizio immotivato. Uno dei fattori comuni delle persone, nella vita quotidiana, è infatti la tendenza a generalizzare attribuendo tratti favorevoli a coloro che possiedono delle caratteristiche che si avvicinano al nostro modo di percepire, sentire ed agire, mentre si mostra un certo rifiuto o
avversione verso coloro che presentano delle qualità differenti dalle nostre, spesso differenze insignificanti come ad esempio il colore dei capelli, il modo di vestirsi (cfr. Aronson – Wilson – Aker, 1997). Il pregiudizio ostacola la collaborazione fra gli individui, impedisce di possedere una conoscenza neutrale della realtà, non consente alle persone di godere di quelle libertà fondamentali che sono proprie della natura umana; non consente di esprimere pareri e di formulare giudizi che partano da una analisi oggettiva della realtà (cfr. Allport, 1973). Il pregiudizio etnico Quando il pregiudizio è etnico, la sua spiegazione sistematica necessita dell’individuazione di almeno due fattori: «un segno (credenza o disposizione positiva o negativa, favorevole o sfavorevole) riferito all’oggetto del pregiudizio; una coloritura affettiva e un carattere formale della credenza (la stereotipia). Inoltre aggiunge che oggetto del pregiudizio etnico è un gruppo etnico cioè un gruppo contrassegnato da una qualche forma di coesione culturale» (Battacchi, 1972, p. 31). Il pregiudizio etnico attua una separazione fra il proprio gruppo e il gruppo esterno, collocando il primo in una posizione centrale,
mentre il secondo è relegato in una posizione marginale rispetto all’interno della società. La contrapposizione tra le culture può essere un fattore che incide sulle forme di pregiudizio quando diviene strumento dell’unione collettiva, finalizzata alle difese dei privilegi della comunità (cfr Tentori, 1962). Il pregiudizio etnico può essere definito, quindi, come «la percezione negativa di gruppi umani differenti culturalmente da noi e il più comune e antico è quello verso gli stranieri che, nel corso della storia, è stato strumentalizzato per giustificare guerre e sopraffazioni. Ma il pregiudizio non si manifesta soltanto verso l’esterno, verso gli stranieri, esistono forme di pregiudizio che si presentano anche all’interno di una nazione, sia quando questa è composta da più gruppi etnici, sia quando è composta da un solo gruppo etnico nel quale si verificano alcune diversità culturali» (Tentori, 1962, p. 14). E’ opportuno ricordare che i pregiudizi etnici sono fenomeni trasversali, che si sviluppano al di là di qualsiasi limite spazio-temporale; si possono presentare in forme diverse in ogni nazione, sono alimentati da credenze arbitrarie e hanno come oggetto i modi di essere di altri popoli. Queste opinioni sono irrazionali, generalizzate, semplificate e rigide ed hanno come
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cause di maggiore evidenza l’inadeguatezza del processo conoscitivo, la difesa del proprio mondo d’appartenenza e vari fattori storici e psicologici. Questa filosofia di pregiudizio si diffonde nelle società umane per eredità culturale, per suggestione, per imitazione e tende a depositarsi e a operare nelle personalità propense a chiudersi in sistemi di credenze rigide (cfr. Tentori, 1962); non è rivolto ad una specifica comunità, ma viene generalizzato a tutti quei gruppi che costituiscono una minoranza etnica (cfr. Battacchi, 1972). L’eziologia cognitiva del pregiudizio, centrata sui suoi aspetti sfavorevoli, dal processo di categorizzazione sociale, dall’assimilazione e dalla ricerca di coerenza. E’ possibile collegare il concetto di pregiudizio a quello di stereotipo, che ne rappresenta l’aspetto più cognitivo. Gli stereotipi rappresentano delle generalizzazioni diventate patrimonio degli individui e diventano sociali quando iniziano a essere condivisi da grandi masse di persone all’interno di gruppi sociali (cfr.Tajfel, 1981). Il pregiudizio può essere originato da diverse cause, quali: la difesa del proprio mondo d’appartenenza, gli stati di frustrazione, l’orientamento competitivo, che si ripercuotono in vario modo sulle modalità con cui una persona si interfaccia con la diversità. La difesa del proprio mondo d’appartenenza è connessa alla dinamica del funzionamento psichico delle persone e all’ansia di impossessarsi della realtà attraverso ogni mezzo, utilizzando strumenti conoscitivi spesso scarsi e insufficienti, che portano a credenze precarie, incomplete e fallaci e infine al pregiudizio (cfr. Tentori, 1962). Come si struttura il pregiudizio La conoscenza del mondo sociale si struttura in maniera spontaneagià nei primi anni di vita del bambino, secondo gerarchie e categorizzazioni di valori. Le dinamiche del pregiudizio sono considerate parte integrante delle sistematizzazioni spontanee del reale secondo categorie di importanza (cfr. Sumner, 1962). Lo studio degli aspetti emozionali del pregiu-
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dizio risale a Freud, secondo il quale l’aggressività, la conoscenza incompleta dei propri moventi e l’autoinganno sui propri fini e quindi, tra l’altro, il pregiudizio sono caratteri costitutivi della natura umana. Occorre ricordare che l’influenza dell’emozionalità inconscia sulla ragione, e i compromessi che ne derivano, si articolano per Freud in meccanismi di difesa, tra i quali spiccano, oltre alla rimozione, quelli di razionalizzazione e di proiezione. Egli afferma che la coesione interna del gruppo è funzione della possibilità di rivolgere l’aggressività verso l’esterno ricollegando alcuni aspetti di questa dinamica al bisogno del singolo di scaricare quell’aggressività che deriva dall’interdizione dei propri bisogni libidici da parte dell’autorità, e quindi al bisogno del singolo di deflettere all’esterno le cariche distruttive, e in più di proiettare in modo illusorio, nelle intenzioni del nemico esterno, le caratteristiche negative di cui egli rifiuta di ammettere la presenza all’interno di sé. Non ignora quindi la necessità universale di dare a questi fenomeni spiegazioni di comodo, in sostanza razionalizzazioni condivise caratterizzate da inconscia malafede. Nell’ottica freudiana il pregiudizio è un fenomeno inevitabile (cfr. Freud, 1930). Occorre comunque ricordare che l’atteggiamento di difesa del proprio mondo d’appartenenza scaturisce da ragioni economiche, sociali, culturali e anche politiche che spingono un gruppo umano a costituire un’unità autonoma, di lavoro, di lotta, di affermazione, tra gli altri gruppi umani. A originare e mantenere il pregiudizio etnico concorre inoltre un orientamento competitivo, presente nella maggioranza delle culture umane. Le persone vedono negli altri uomini non soltanto dei pari, ma anche degli avversari, non soltanto degli amici ma anche dei concorrenti (cfr.Tentori, 1962). Se si adotta una prospettiva ermeneutica, è possibile osservare che un’anticipazione critico-conoscitiva sommaria della natura di un oggetto sconosciuto, o ambiguo, si configura come pre-giudizio necessario, cioè come globale pre-cognizione intuitiva, ovvero come
azzardo ipotetico generalizzante, sul quale successive verifiche opereranno eventuali correzioni. Qui il pregiudizio inteso in senso più restrittivo, dunque nel suo aspetto di chiusura ed errore, si mostra come sottospecie del pregiudizio come generalizzazione inevitabile e anticipazione di problemi che non sono stati esplorati in maniera approfondita. Sarebbe quindi impossibile tracciare una netta linea di demarcazione tra gli aspetti non emendabili e quelli eventualmente condannabili del fenomeno (cfr. Moscovici,1989). Pregiudizio manifesto e pregiudizio latente Negli ultimi anni diversi studiosi tra cui Leone, Chirumbolo, Aiello, Mancini, Carbone, Morino Abbele, Pizzini, Martini, Volpato e Manganelli Rattazzi, nel contesto italiano, si sono interrogati sulle conseguenze e sulle ripercussioni nel tessuto sociale del flusso immigratorio. Ispirandosi agli studi condotti da Pettigrew e Meertens, questi ricercatori hanno analizzato i giudizi che le persone tendono a esprimere e i comportamenti che attuano di fronte persone che, in qualche modo, manifestino mentalità, costumi, linguaggi e religioni differenti. Pettegrew e Meertens, nel contesto europeo, hanno individuato e analizzato due tipi di pregiudizio: il pregiudizio sottile e il pregiudizio manifesto. La forma manifesta è la più tradizionale ed esprime un rifiuto aperto e diretto; corrisponde al razzismo classico e compare in tutti quei comportamenti più espliciti, che non sono né limitati a una particolare fascia anagrafica né circoscritti a uno specifico livello sociale e culturale. Forme indirette e latenti di pregiudizio sono però emerse negli ultimi anni nelle società che sono diventate più stratificate dal punto di vista razziale, etnico e religioso. I due studiosi chiamano sottili tutte quelle forme di pregiudizio che non si evidenziano in modo diretto nel comportamento dei singoli individui o di varie comunità, ma si palesano attraverso atteggiamenti ed espliciti messaggi comunicativi. La forma sottile esprime di per sé un
atteggiamento negativo spesso inconsapevole che si manifesta in modi socialmente accettabili; questa implica una difesa dei valori individualistici, tipici delle culture occidentali, unita alla credenza che i gruppi minoritari beneficino di favori non dovuti (cfr. Pettigrew – Meertens, 1995). Le forme di pregiudizio sottili anche se si possono considerare forme più morbide non per questo si devono considerare meno pericolose, in quanto anch’esse possono facilmente sfociare in atteggiamenti di aperta ostilità e crudeltà (cfr. Mancini – Carbone, 2007). Pettigrew e Meertens hanno costruito due scale per misurare il pregiudizio manifesto e sottile, ognuna delle quali è composta da dieci item, nei quali viene richiesto al soggetto il grado di maggiore accordo o minore accordo su una scala Likert a quattro punti: per niente d’accordo, non molto d’accordo, piuttosto d’accordo fino ad arrivare a molto d’accordo. Nell’indagine sul pregiudizio manifesto si focalizza l’attenzione su due componenti essenziali: l’idea che l’outgroup (tutte le persone che non appartengono al proprio gruppo) rappresenti una minaccia per il proprio gruppo e l’idea che occorre evitare qualsiasi contatto o intimità con i membri dell’outgroup stesso. Lo strumento, per quanto concerne le forme manifeste del fenomeno, si articola nelle sottoscale di minaccia percepita e di anti-intimità (cfr. Pettigrew – Meertens, 1995). Il pregiudizio manifesto si rileva, in base alla «percezione di minaccia rappresentata dall’outgroup ed il rifiuto al contatto sociale con l’outgroup, mentre il pregiudizio latente emerge da quegli items riferiti alla difesa dei valori tradizionali, all’esasperazione delle differenze culturali tra il proprio gruppo e l’outgroup, alla soppressione di emozioni positive nei confronti dell’outgroup» (Morino Abbele – Martini – Pizzini, 2000, p. 111). La scala di pregiudizio sottile è costituita da tre componenti più nascoste, che si manifestano in modi considerati normativi e accettati e sono:
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- la difesa dei valori tradizionali. L’outgroup può divenire una minaccia alle consuetudini, agli usi e ai costumi della comunità con cui viene a contatto; - il pregiudizio che enfatizza le differenti connotazioni culturali e sociali esistenti tra il proprio gruppo e il gruppo esterno; - la soppressione delle emozioni positive nei confronti dell’outgroup; essa indaga le forme sottili di pregiudizio come negazione di sentimenti positivi verso l’outgroup (cfr. Leone – Chirumbolo – Aiello, 2006). Nell’analisi sul pregiudizio sottile e manifesto gli autori hanno utilizzato variabili indipendenti e variabili dipendenti, come indicato nella Tab. 1: VARIABILI INDIPENDENTI Etnocentrismo Conservatorismo politico Adesione alle tesi movimenti razzisti Deprivazione relativa di tipo fraterno Mancanza di interesse politico Orgoglio nazionale Educazione Età VARIABILI DIPENDENTI Diritti degli immigrati Politica di immigrazione Mezzi privilegiati Le scale di pregiudizio manifesto e di pregiudizio latente sono state sperimentate in Francia, Olanda, Gran Bretagna, Germania (cfr. Pettigrew – Meertens, 1995). I risultati dell’indagine hanno evidenziato che a più alti livelli di pregiudizio corrispondono altrettanti livelli di etnocentrismo, conservatorismo politico, adesione alle tesi di movimenti razzisti, deprivazione relativa di tipo fraterno, orgoglio nazionale e mancanza di interesse politico. I fattori psicologici che sono alla base di questo fenomeno agiscono similmente in contesti sociali differenti e nei
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confronti di gruppi bersaglio diversi (cfr.Volpato – Manganelli Rattazzi, 2001). Analisi degli atteggiamenti verso i nomadi e gli immigrati in Italia I lavori condotti da alcuni studiosi italiani (come ricordato nel paragrafo precedente) hanno fatto emergere che, negli ultimi anni, forme manifeste e sottili di pregiudizio si sono diffuse nel nostro paese e fortemente accentuate nella collettività sociale. Una prima indagine scaturita dalla riflessione di alcuni studiosi sulle reazioni di difesa che i cittadini manifestano nei confronti dei nomadi, quando questi ultimi cercano, in qualche modo, di potersi integrare nella realtà di alcuni quartieri della città. Nella maggioranza dei casi le riposte a questi tentativi di inserimento erano di rifiuto e di difesa, espresse a volte anche in maniera esasperata. La ricerca è stata condotta in un momento particolare in cui era stato messo in atto un progetto di insediamento e di integrazione, che offriva ai nomadi un alloggio e un lavoro, in modo da permettere loro una rapida integrazione nella società. L’obiettivo di tale indagine era di analizzare le diverse modalità di risposta dei residenti nei quartieri interessati e di due gruppi di controllo, composti da studenti universitari e adulti residenti in altri quartieri, di fronte alla possibilità di creare nella propria zona di residenza insediamenti nomadi. Quindi tale ricerca intendeva analizzare se la distanza o la vicinanza spaziale potevano, in qualche modo, determinare comportamenti ed atteggiamenti di rifiuto del gruppo minoritario (cfr. Morino Abbele – Martini – Pizzini, 2000). I soggetti coinvolti nello studio, erano suddivisi in tre sub-campioni, che sono stati sottoposti ad uno stesso questionario. Il primo era costituito da adulti, residenti nei quartieri non interessati da insediamenti di nomadi; il secondo era rappresentato da studenti residenti nei territori interessati; infine, il terzo era formato da adulti residenti nei quartieri interessati dalla creazione di insediamenti di nomadi.
In totale il campione era composto da soggetti con un’età compresa tra i 19 e i 77 anni. Oltre alle due variabili precedentemente citate un’altra variabile presa in considerazione era il livello di istruzione. Analizzando il punteggio medio ottenuto da ogni singolo soggetto in ogni dimensione, si delinea un profilo del tipo di pregiudizio di ogni partecipante. Gli individui che mostrano punteggi superiori sia nella dimensione del pregiudizio manifesto che in quella del pregiudizio sottile risultano essere inseriti nella categoria dei fanatici: sono coloro che possiedono un forte pregiudizio manifesto. I soggetti, invece, con punteggi inferiori rientrano nella categoria dei democratici: sono coloro che possiedono un basso pregiudizio manifesto ed elevato pregiudizio latente appartengono alla categoria dei nascosti. Sono inclusi in una categoria d’errore i soggetti con elevato pregiudizio manifesto e basso pregiudizio latente; tale categoria non è interpretabile dal punto di vista teorico. Dalla ricerca è emerso che il 74% degli adulti residenti nei quartieri interessati da insediamenti nomadi rientra nella categoria dei fanatici, manifestano cioè livelli alti di pregiudizio manifesto. Il 73,6% degli studenti del gruppo di controllo rientra nella categoria dei democratici, mentre gli adulti residenti negli altri quartieri si collocano tra i democratici (35,4%), i fanatici (33,3%) e i nascosti (25,3%) (cfr. Morino Abbele – Martini – Pizzini, 2000). Per quanto riguarda le mappe cognitive, sono state elaborate cinque vignette che raffigurano delle situazioni di quotidianità e che esprimono condizioni di disagio: di concerie, di discoteche, di cinesi che costituiscono un’economia che possiede diversi laboratori di borsettifici, di africani e in particolar modo i senegalesi, impegnati sia nell’industria tessile e conciaria sia nel lavoro ambulante; infine, in nomadi, che destano particolare interesse per alcune iniziative politiche mirate al loro inserimento all’interno della società. Per ogni condizione è stato chiesto ai soggetti
di individuare un’ipotetica collocazione ideale rispetto alla propria abitazione, riferendosi ad una scala a 5 punti dove 1 indica la collocazione più vicina a casa propria, 5 quella più lontana. Le componenti emotive e cognitive dell’atteggiamento verso gli zingari sono state individuate mediante una serie di vocaboli emotivi. Per verificare questi termini relativi alle dimensioni cognitive ed emotive dell’atteggiamento, sono state individuate, attraverso l’analisi fattoriale, due dimensioni sottese alle componenti cognitive dell’atteggiamento, che fanno riferimento sia ad aspetti negativi che positivi di esso. Per le componenti emotive sono emerse 3 dimensioni. La prima dimensione è costituita dalle emozioni reattive che mettono in luce uno stile aggressivo nei confronti dell’oggetto dell’emozione: disgusto, irritazione, rabbia, paura, ansia, diffidenza, disprezzo, preoccupazione. La seconda dimensione, invece, è costituita dalle emozioni di risposta empatica alle difficili condizioni di vita dei nomadi che sono centrate sulla persona: tristezza, dispiacere, colpa, sorpresa, malinconia, dolore. L’ultimo fattore è rappresentato da emozioni positive verso i nomadi ed è costituito da: divertimento, simpatia, allegria, curiosità, gioia, piacere, fiducia, interesse. In seguito sono state analizzate le differenze tra i gruppi rispetto alle dimensioni previste dalla Scala di Pregiudizio e a quelle relative alle componenti emotive e cognitive dell’atteggiamento. E’ emerso che gli adulti personalmente coinvolti mostravano livelli più estremi rispetto agli altri due gruppi in tutte le posizioni relative ad un atteggiamento negativo nei confronti dei nomadi. Le manifestazioni di pregiudizio manifesto nei soggetti residenti nei quartieri con presenza dei nomadi erano dovute alla percezione che gli zingari non facevano niente per meritarsi le pari opportunità e non mettevano il necessario impegno per potersi integrare nella collettività. Inoltre le fonti di conoscenza degli zingari degli adulti residenti nei quartieri con presenza dei nomadi erano dovute soprattutto a
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esperienze dirette, a letture di giornali e a fatti riportati alla televisione. Si è riscontrato come la conoscenza diretta della realtà degli zingari e la familiarizzazione con i membri di tale gruppo non era quindi sufficiente per ridurre la distanza sociale. Per le mappe cognitive e quindi la distanza sociale è emerso che la discoteca e la conceria rappresentano, per i soggetti residenti in un quartiere già interessato da insediamenti nomadi, due circostanze che causano disturbo dal punto di vista acustico e dal punto di vista dell’odorato. Risulta chiara l’intenzione da parte dei residenti di mantenere il più possibile da sé la realtà dei nomadi, assieme a quella degli africani e delle due condizioni che provocano il degrado ambientale. Non emergono differenze significative tra maschi e femmine (cfr. Morino Abbele, 2000). L’influsso delle esperienze di contatto con gruppi etnici minoritari per la riduzione del pregiudizio manifesto L’ipotesi di contatto come elemento di riduzione del pregiudizio è stata approfondita all’interno di una ricerca condotta su un campione ampio di studenti di scuole secondarie di secondo grado. I partecipanti hanno compilato un questionario somministrato in classe durante il normale svolgimento delle lezioni. L’obiettivo della ricerca era quello di verificare: - se gli individui che hanno esperienze amicali con gli immigrati manifestano livelli più bassi di pregiudizio manifesto rispetto a coloro che non hanno tali esperienze; - se la riduzione del pregiudizio si estende anche a persone diverse per nazionalità, lingua, religione; - se le esperienze di contatto possano portare ad opinioni decisamente più favorevoli agli immigrati per quanto riguarda le politiche sull’immigrazione. Le risposte sono state correlate con lo status sociale, il sesso e il tipo di scuola frequentata. Dai dati è emerso che coloro che appartengo-
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no a uno status sociale superiore includevano maggiormente gli immigrati tra i loro amici e tra i compagni di scuola, diversamente da coloro che appartenevano ad uno status medio ed inferiore. Inoltre, le ragazze, a differenza dei maschi, entravano più in contatto con gli immigrati, frequentavano locali in cui lavora personale immigrato ed avevano amici di lingua e religione diversa. La differenza tra i sessi è significativa. Per verificare l’ipotesi del rapporto tra pregiudizio e esperienze di contatto sono stati evidenziati 4 tipi di contatto: il contatto intimo, che favorisce la relazione con l’altro, il contatto casuale, che si realizza nell’ambiente lavorativo e le opportunità di contatto, relative alla vicinanza abitativa o geografica; opportunità nel senso che non sempre si verifica un contatto significativo tra vicini di casa; diretto, ma occasionale, che si manifesta nelle circostanze in cui si acquista qualcosa dagli immigrati, ci si relaziona con loro o si frequentano locali dove lavorano. L’analisi dei questionari ha messo in luce che chi ha esperienze di contatto intimo, amicale, possiede livelli più bassi di pregiudizio. Le percentuali relative ai contatti di tipo occasionale risultano alte; da ciò si desume una diffusa, anche se superficiale, disponibilità all’incontro. La ricerca non permette quindi di esprimersi sulla qualità dell’amicizia tra residenti e immigrati. La disponibilità all’incontro, a relazionarsi occasionalmente con le persone immigrate appare comunque importante per la riduzione del pregiudizio intergruppi (cfr.Volpato – Manganelli Rattazzi, 2000). Analisi del rapporto tra le dimensioni etnico-culturali dell’identità e il pregiudizio nei confronti degli immigrati extra-comunitari presenti nel contesto italiano Un contributo molto interessante deriva, inoltre, da una ricerca volta ad analizzare il rapporto tra le dimensioni etnico-culturali
dell’identità e il pregiudizio nei confronti degli immigrati extracomunitari presenti nel territorio italiano. A tale scopo sono state utilizzate la scala di pregiudizio manifesto e sottile di Pettigrew e Meertens e alcune scale d’identificazione sociale relative a diverse forme di appartenenza: territoriale, nazionale, europea, culturale e cosmopolita. Studi recenti hanno dimostrato il consolidarsi di una nuova realtà transnazionale europea analizzando il rapporto tra l’identità degli europei e gli atteggiamenti xenofobi; risulta, infatti, che una forte identificazione europea tende ad associarsi a più evidenti atteggiamenti xenofobici, mentre c’è chi sostiene, invece, che non esiste un rapporto lineare tra identificazione europea e discriminazione degli stranieri (cfr. Mancini – Carbone, 2007). Gli obiettivi principali della ricerca sono stati: 1) studiare gli atteggiamenti verso l’immigrazione di studenti universitari misurando il tipo e il grado di pregiudizio espresso nei confronti delle minoranze etniche che in quel periodo erano presenti sul territorio italiano, attraverso la scala del pregiudizio sottile e manifesto elaborata da Pettegrew e Meertens; 2) analizzare il rapporto tra appartenenza etnico-culturale e pregiudizio sottile e manifesto nei confronti degli immigrati. L’appartenenza etnico-culturale è stata analizzata considerando la possibilità che i soggetti possono riconoscersi in diverse forme di appartenenza: da quella territoriale e regionale a quella nazionale, sovranazionale e culturale fino ad arrivare a potersi definire «cittadino del mondo». I soggetti di questa ricerca comprendono un campione di studenti universitari frequentanti quattro diversi corsi di studio: farmacia, ingegneria, psicologia e lingue. L’85,8% dei soggetti è nato nel nord Italia, due soggetti provengono da paesi europei, mentre uno soltanto proviene da un paese extraeuropeo. Il questionario somministrato era anonimo e non obbliga-
torio, composto da due parti: la prima costituita dalle scale di pregiudizio sottile e manifesto di Pettigrew e Meertens, la seconda,finalizzata ad analizzare l’appartenenza etnico-culturale ed era composta da alcune scale di identificazione sociale relative a diverse forme di appartenenza ed un reattivo grafico. Le risposte sono state suddivise in tre sottogruppi di categorie omogenee: nord-africani, est-europei, africani. Il gruppo-bersaglio più frequentemente indicato dai partecipanti è stato quello degli est-europei, seguito da quello dei nord-africani e da quello degli africani. Dai risultati è emerso che il maggior grado di pregiudizio è espresso nei confronti dei marocchini, poiché vengono considerati come una comunità più chiusa e con minori capacità di integrarsi rispetto alla popolazione africana, considerata, invece, più aperta, solare ed interessata alla cultura autoctona. Sembra quindi che il passare del tempo, un maggiore contatto con questi gruppi di immigrati e l’ingresso di nuovi gruppi di immigrati nel contesto italiano, possono in qualche modo contribuire a ripensare alle differenze etniche, livellandone alcune ed esasperandone altre. Inoltre i soggetti che tendono ad enfatizzare l’appartenenza alla propria città o alla regione di residenza sono quelli che mostrano un maggior grado di pregiudizio nei confronti degli immigrati. Si può ipotizzare, quindi, che il radicamento al proprio territorio, costituisca un ostacolo all’accettazione delle differenze etniche, che si traduce in un sentimento di difesa e di rifiuto del contatto con gli immigrati quando anche l’appartenenza all’Italia diventa un fattore di identificazione sociale. Una sottolineatura importante riguarda la mancanza di legami significativi tra l’identificazione europea e il grado di pregiudizio espresso nei confronti degli immigrati. L’identità europea non riveste negli studenti presi in esame un ruolo rilevante nel modulare gli atteggiamenti sottili o manifesti di pregiudizio. Si denota quindi che l’identificazione con categorie sociali e culturali che protendono verso l’europeismo e la
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mondialità comporta una maggiore tolleranza nei confronti di popolazioni differenti etnicamente da sé, mentre il radicamento al proprio territorio e/o alla propria nazione supporta un maggior grado di pregiudizio senza alcuna distinzione tra le forme più esplicite e quelle più nascoste (cfr. Mancini – Carbone, 2007). Conclusioni Le motivazioni che spingono un individuo ad emigrare in un altro paese non sono connesse esclusivamente a situazioni politiche ed economiche problematiche, ma possono derivare anche da fattori ambientali e personali, che inducono una persona a modificare la propria realtà al fine di trovare una condizione di vita più stabile e serena. Dagli studi condotti in diversi territori della nostra penisola, risulta evidente che il pregiudizio è un fenomeno che si manifesta palesemente all’interno della nostra società e non si può definire una linea temporale che limiti tale preconcetto. Pertanto, occorre che ciascun soggetto, in quanto dotato di una propria coscienza, si predisponga all’apertura al “diverso”,inteso come persona e come ambiente culturale, sociale, linguistico, che possa andare ad impreziosire il suo bagaglio di esperienze e arricchire il suo vissuto. Sarebbe opportuno che ogni ente di formazione e di educazione si impegni a promuovere delle iniziative e delle campagne di carattere socio-educativo, per far acquisire a ciascun individuo quei principi necessari, che regolano l’integrazione e la cooperazione fra i diversi popoli, al fine di sostenere e di mantenere un’armonia solidale tra questi. Riferimenti Bibliografici: ALLPORT G.W., La natura del pregiudizio [The Nature of Prejudice, Cambridge, Addison Wesley Pubblishing Company 1954], Firenze, La Nuova Italia 1973; ARONSON E. – WILSON T.D. – AKER R.M., Psicologia sociale [Social psychology, Massachusset, Longman 1997], Bologna, Il Mulino 1997; BATTACCHI M.W., Meridionali e settentrionali nella
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