CURZIO FOGHINI
SAN POLO RICORDI DI FAMIGLIA E DI GUERRA
Pieve di S. Paolo in Petriolo
CURZIO FOGHINI
SAN POLO RICORDI DI FAMIGLIA E DI GUERRA
“Nel settantesimo anniversario , in ricordo del sacrificio dei martiri.
Ho iniziato a scrivere questi ricordi su consiglio dell’amico Alessandro Ghinelli. Volevo raccontare solo i fatti cui avevo assistito, ma inoltrandomi nell’impresa mi sono reso conto che non potevo fare a meno di parlare del contesto familiare e locale dell’epoca.
Così
questo
racconto
da
semplice
esposizione
d’avvenimenti è divenuto anche quello della mia famiglia. Non potevo quindi non rappresentare il ricordo delle persone e delle cose
di
allora,
soprattutto
di
mia
madre,
travolta
dagli
avvenimenti che sovrastarono i limiti della sua resistenza psichica e che la portarono a una fine prematura. I fatti sono quelli cui ho assistito e visto. Quando iniziò la guerra ero alla fine della fanciullezza, quando terminò ero nell’adolescenza inoltrata che ho avuto come età fisica, ma non come età di cambiamento di carattere e d’interessi, che furono da subito quelli di una giovinezza matura. Ho ritrovato più tardi l’atmosfera di allora nell’opera di Pasolini “Poesie a Casarsa”, guarda caso scritte negli stessi anni, dove il poeta mescola toni gioiosi a toni gravi di strazio dovuti alla presenza incombente della morte, che poteva raggiungerti con una bomba, una mitragliata d’aereo o un rastrellamento. Nonostante tutto, durante lo sfollamento, noi ragazzi cercavamo di divertirci con i nostri giochi o inventandone altri, in un clima d’incertezza totale, incuranti di quello che il destino riserbava a ciascuno. Mi auguro che chi vorrà leggere questi ricordi, specie se giovane, si renda conto di quello che allora successe. Il destino, con mio padre come si vedrà, fortunatamente fu magnanimo ed è soprattutto alla sua memoria che dedico queste poche righe. Arezzo agosto 2012
I preliminari
La guerra, dopo essersi diffusa rapidamente in Europa, arrivò alla fine anche per noi italiani. La guerra di Spagna era finita nell’aprile del 1939 e nei tre anni della sua durata aveva bruciato molte risorse strategiche che il regime aveva consumato nell’intervento o dirottato al governo nazionalista di Franco. Per questo tutti pensavano che, prima di una nuova guerra, sarebbe stato necessario un periodo di sosta abbastanza lungo da consentire nuovamente l’accumulo delle risorse necessarie, idea questa che ci spiega oggi il concetto distorto di guerra che avevamo. Da una parte c’era l’esperienza fino allora positiva delle due guerre di Abissinia e di Spagna che faceva propendere alcuni, anche se a malincuore, per l’entrata in guerra, dall’altra la consapevolezza, che faceva esitare gli altri, perché questa volta la partita era molto, ma molto grande, dopo che si era visto come i tedeschi avevano 9
condotto il primo anno di guerra. In complesso non c’era
in
Italia
quell’unanimità
che
sembrò
manifestarsi nella folla di piazza Venezia. Mio padre, che non aveva mai simpatizzato per il regime, e costretto all’iscrizione forzata al PNF nel 1931 perché dipendente statale, diceva che alla fine gli americani avrebbero aiutato gli Alleati Franco-Inglesi e allora la guerra
sarebbe
stata
sicuramente
persa,
altri
dicevano che la guerra lampo avrebbe consentito ai tedeschi di conquistarsi le materie prime necessarie per portarla a termine prima dell’ingresso degli americani in guerra, i quali al momento sembravano riluttanti a impegnarsi. Tutti parlavano della guerra e l’istituzione della SEPRAL (Sezione provinciale dell'alimentazione)
nel
dicembre
del
1939
e
il
tesseramento che né conseguì fu un argomento a favore di chi voleva l’intervento e fu un anticipo di quello che sarebbe successo. Un collega del babbo che era medaglia d’argento al valor militare, all’epoca raccontò un episodio della prima guerra mondiale, che non ho mai dimenticato. Nell’occasione di un assalto degli austriaci alle nostre trincee si trovò faccia a faccia con un giovane austriaco, entrambi avevano la baionetta in canna. Sopravvisse chi fu più lesto, ma lui si ricordava sempre gli occhi di quel ragazzo che quasi aveva la 10
sua età. La medaglia d’argento non gli fu data per questo, ma per un comportamento decisivo per l’esito di un’azione cui partecipò in seguito. Io avevo nove anni e queste cose mi rimasero impresse, perché fino allora non avevo mai sentito parlare di guerra
quelle
persone
che
non
immaginavo
minimamente avessero fatto tale esperienza e non sapevo neppure che avessero avuto una decorazione così
importante.
Nonostante
la
considerazione
enfatica che il regime aveva dato ai reduci di guerra, giustificata dagli attacchi che questi avevano subito da parte degli estremisti di sinistra nei primi anni del dopoguerra, e in particolare a quelli che erano stati decorati, c’erano quelli che non ostentavano i propri meriti proprio per il ricordo doloroso degli episodi origine delle loro ricompense. Come detto in precedenza, nel 1939 la certezza, che tutto sarebbe andato liscio e rapido per l’esito della guerra, non era così diffusa tra gli italiani anche perché non c’era la sicurezza sulla nostra capacità offensiva. Avevamo di sicuro una flotta moderna ed efficiente, purtroppo senza radar, ma l’aviazione era dotata di mezzi ancora vecchiotti (biplani), che avevano dato buone prove nella guerra di Spagna, perché la Repubblica non aveva una
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flotta aerea. La partecipazione alla coppa Schneider1, negli anni ’30, purtroppo non aveva insegnato nulla ai nostri strateghi di guerra aerea, nonostante Italo Balbo, mentre gli inglesi avevano sviluppato da quell’esperienza lo Spitfire, che fu operativo fin dal primo giorno di guerra con i risultati che si videro nella battaglia d’Inghilterra. L’esercito aveva subito l’offensiva dei pescecani che si erano arricchiti in combutta con i gerarchi del regime e da questo punto di vista era la più scassata delle tre Forze Armate.
1
Questa era stata istituita nel 1911 e prima della prima guerra mondale furono fatte solo due gare. Si trattava di una gara di velocità per idrocorsa effettuata su un percorso triangolare di circa 350 km a una quota tra i 50 e 20 m sul pelo dell’acqua. Si iniziò con velocità medie di 75 km orari circa e si terminò nel 1931 con velocità di circa 547 km orari.
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I coniugi Jachtner
Agli inizi del 1939 vennero ad abitare da noi due coniugi ebrei di Vienna. Si chiamavano Rudolph e Rose Jachtner ed erano sfuggiti all’ordinanza del 12 novembre 1938 per l'esclusione degli ebrei dalla vita economica tedesca. Mia nonna, che gestiva, nella casa grandissima che abitavamo, una pensione per non più di quattro ospiti, li accolse rendendosi disponibile alle raccomandazioni della Curia e forse anche dell’avvocato Sante Tani che era amico di famiglia. Lui era un uomo di mezza età non gradevole d’aspetto. Aveva un po’ di pancetta e una leggera cifosi. Era conforme al canone dell’ebreo rappresentato nelle vignette del regime. Lei, bruna sulla quarantina più giovane di lui, era un tipo prosperoso con un vitino di vespa, fianchi e seno abbondante, il tutto sostenuto da gambe ben tornite e pienotte. Diceva di essere stata, da giovane, ballerina
alla
Staatsoper
di
Vienna.
Entrambi 13
evitavano d’uscire da casa e se vi erano costretti per qualche necessità, era solamente la donna che usciva perché parlava bene l’italiano. I miei mi avevano spiegato di evitare di parlare di questi ospiti stranieri con i miei amici, ma era perfettamente inutile, per me erano ospiti come gli altri e gli ospiti di mia nonna non erano argomento di chiacchiere tra noi ragazzi. Credo che il nostro parroco di S. Pier Piccolo, padre Manetto, ne fosse informato. Avevano un gatto cui accudivano, che, però come tutti i gatti, era di difficile gestione. Costretto in una stanza, molto spesso sfuggiva al controllo e veniva a invadere il mio territorio dove tenevo i miei giochi. In particolare a Natale quando preparavo il Presepio sopra un grande tavolo in un corridoio di transito. Il risultato era una strage di statuine rovesciate, di muschio rimestato come se fosse stato fieno con un forcone. In quei momenti lo avrei volentieri strozzato perché il fatto mi metteva in condizioni d’inferiorità rispetto al mio amico d’infanzia Ghino2 con cui gareggiavo per il miglior presepio. 2
Ghino
Ghinassi
allievo
del
Migliorini
continuò
l’opera
intrapresa dal suo maestro sulla lingua italiana, prima all’Università
di
Parma
e
poi
in
quella
di
Firenze.
Frequentammo le scuole insieme fino alla terza media, poi lui fece il Classico ed io lo Scientifico, ma continuammo a
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Ogni anno il presepio era un rito che cominciava circa venti giorni prima di Natale quando, alla prima bella giornata di dicembre, si programmava una scampagnata sulla collina sopra gli Orti Redi per raccogliere
muschio
e
rami
di
pungitopo
o
d’agrifoglio. Allora non c’erano le limitazioni alla raccolta che ci sono oggi. Si compravano solo le statuine di terracotta e qualche pezzo di sughero, il resto carta, cartone e legno erano riciclati come si direbbe oggi. I nostri ospiti si erano portati dietro una piccola biblioteca e l’uomo passava il suo tempo a leggere. La signora a un certo momento si propose a mia madre come insegnante d’arabo e così fui sottoposto a quell’esperienza. Non so se queste prestazioni fossero in cambio dell’ospitalità a loro offerta, ma non credo, perché ricordo che avevano buone disponibilità economiche, ma è soprattutto per il misero risultato che quell’esperienza partorì, con scarso interesse da entrambe le parti, che ritengo a posteriori non vi fosse alcun impegno economico in quel rapporto. Da quell’esperienza mi è rimasta
frequentarci ancora nell’Azione cattolica e nella FUCI. Oggi questa città si è dimenticata di questo suo figlio.
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qualche
conoscenza
della
struttura
dell’alfabeto
arabo. Per l’alimentazione dei due rifugiati ebrei, poiché loro non potevano avere la tessera, si provvide negli anni successivi del tesseramento, con quello che si riusciva a incettare anche per noi al mercato nero. In ogni modo il problema alimentare non fu grande né per noi né per loro almeno fino al 1942. Nell’estate del 1940, per ragioni di lavoro di mio padre, passammo l’estate a Sestino, nell’alta valle del Foglia, dove si soggiornò per tre mesi nella casa del podestà del paese, un gran buonuomo. Così, quando alla fine del 1942 le cose si fecero sempre più difficili e
problematiche
per
i
nostri
ospiti
ebrei,
consultammo di comune accordo il podestà di Sestino che si disse disposto a ospitarli. All’epoca non potevamo prevedere che di lì a due anni si sarebbero trovati nel pieno della bufera della linea Gotica. Nonostante questo se la cavarono e nel dopoguerra tornarono ad Arezzo come protagonisti della vita, per così dire, mondana della città.
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La guerra
Ritorniamo alla guerra. La Germania, il primo settembre 1939, invase la Polonia con un pretesto, il cosiddetto "incidente di Gleiwitz", e così fu guerra che con il passare del tempo divenne sempre più totale. Agli inizi la Germania ebbe notevoli successi, ma ancora tali da non convincere l’Italia a entrare in guerra. Alla fine del 1939 la bilancia pendeva ancora per la neutralità, ma nel maggio 1940, dopo la conquista del Belgio e dell’Olanda e l’attacco alla Francia, prevalsero quelli che avevano molta fiducia nella guerra lampo dei tedeschi e nel modo di come la conducevano, così la guerra fu dichiarata. Nel
frattempo,
in
previsione
del
peggio,
si
approntavano le opere di protezione dei monumenti delle città. Così anche ad Arezzo si pose mano alle protezioni in muratura massiccia di mattoni del portale della Pieve, dei monumenti in pietra della Cattedrale, di S. Domenico, degli affreschi di Piero in 17
S. Francesco e della facciata del palazzo della Fraternita. Furono smontate anche le vetrate del Marcillat nella cattedrale e sostituite con una muratura di mattoni in foglio. L’unica vetrata, che non fu tolta, fu quella centrale dell’abside, che andò distrutta dallo spostamento d’aria di una bomba caduta sulla casa del Petrarca, e che fu poi rifatta da Ascanio Pasquini negli anni ’50.
L’Arca di S. Donato con la protezione di mattoni
Di fatto sin dai primi tre mesi di guerra ci si accorse subito che le cose non andavano.
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Il bombardamento di Torino dopo appena dieci giorni dalla dichiarazione nel giugno del ’40, l’attacco a Taranto degli aerosiluranti inglesi e le altre battaglie perse dalla marina a causa della mancanza del radar, seminarono molti dubbi. Si ebbe subito la percezione che il Mediterraneo non era il “mare nostrum”. Poi seguì la magra figura fatta dal nostro esercito in Albania nell’inverno 1940-41, la perdita delle colonie in Africa Orientale e in fine la battaglia d’Inghilterra vinta dagli Spitfire nella primavera del 1941. A questo punto il mito della guerra lampo era tramontato e, quando Hitler scatenò nel luglio del 1941 l’operazione Barbarossa contro l’U.R.S.S. per avere accesso ai pozzi petroliferi di Baku, si capì che la guerra sarebbe stata lunga, non semplice e sicuramente
persa.
Questo
nelle
persone
che
avevano ancora un po’ di buon senso come mio padre e alcuni nostri conoscenti. Per raccontare come si affrontavano gli allarmi aerei in quel periodo, ricordo che, nonostante l’istituzione dell’U.N.P.A. con i vari capifabbricato responsabili
di
coordinare
e
sorvegliare
i
comportamenti dei civili, quando suonava l’allarme si scendeva tutti in cantina e l’unica arma che avevamo a disposizione era il rosario che mia nonna, 19
molto credente, attaccava per confortare le persone della casa dove si abitava. Se avessimo abitato in una città come Napoli, Augusta, Taranto e Torino, mi riferisco
a
quelle
che
furono
bombardate
sin
dall’inizio della guerra, saremmo tutti morti come topi, perché la casa della metà del seicento non avrebbe resistito alle bombe da cinquecento libbre, le più piccole tra quelle usate dagli alleati. Gli allarmi si limitarono a un breve periodo di qualche mese e poi per due anni non se né parlò più. Se ne parlava invece quando, dopo il giornale radio delle tredici o delle venti, si veniva a sapere che le nostre città erano state bombardate. Il ricordo di quel periodo, che mi assilla ancora oggi e che me lo fa tornare a mente, è il rumore di un aeroplano a pistoni
in
volo
di
notte,
che
mi
rimanda
quell’atmosfera che non posso dimenticare.
20
a
Il tesseramento
Nonostante il tesseramento e la penuria generale di generi alimentari, ad Arezzo non si soffrì mai di stenti e quegli anni fino al 1943 passarono fin troppo bene dal punto di vista alimentare. La battaglia del regime sul tesseramento fu persa sin dall’inizio. Tutti si
arrangiavano
con
il
mercato
nero,
la
cui
conseguenza più importante fu l’inflazione che nel tempo accelerò in maniera esponenziale, soprattutto nel 1943, riducendo la capacità d’acquisto degli stipendi e dei salari. Il fenomeno causò la nascita di una
classe
di
nuovi
ricchi,
costituita
da
chi
maggiormente aveva rischiato non rispettando la legge. Per alcuni prodotti, come il sale e le spezie, si toccò l’apice dell’inflazione nell’inverno 1943÷1944. Un chilogrammo di sale costava fino a mille lire, l’equivalente di un buono stipendio. Dal luglio 1943, infatti, per il nord non erano più disponibili le saline 21
della Sicilia e poi da agosto quelle di Manfredonia. Rimase a disposizione solo il sale dei depositi esistenti e delle saline di Cervia, che erano poca cosa,
e
quello,
che
gli
spalloni
trasportavano
3
attraverso la linea Gustav . Per le spezie, la mancanza si cominciò a sentire sin dal 1942, tant’è che invalse l’uso di conservare i chicchi di pepe dei salumi consumati per poi reimpiegarli nella preparazione d’altri. Nell’inverno tra il 1943 e il 1944 le razioni giornaliere stabilite dalla SEPRAL erano le seguenti: pane 200 grammi4, pasta 80 grammi, il pane costava 5 lire al chilogrammo, alla borsa nera 170 lire. Il regime aveva stampato, un po’ per l’autarchia e un po’ per la guerra, un quadernetto per dare consigli alle massaie per risparmiare. Al prato e in tutti gli spazi verdi della città fu realizzato a scopo simbolico l’orto di guerra, del resto gli inglesi non si trovavano meglio di noi, a Hyde Park avevano fatto le stesse cose. Più tardi nella vita, quando incontrai a Napoli Clara, che oggi è mia moglie, conobbi un mondo di ristrettezze, di fame e di bombardamenti che noi ad 3
La linea Gustav andava dal Garigliano a Pescara. Su questa i tedeschi si attestarono nell’inverno ’43-‘44. 4 Oggi è raro che una persona consumi 200 grammi di pane in una giornata.
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Arezzo non avevamo conosciuto. Nonostante questo, ragazzi come noi andavano a scuola in quella città tutti i giorni scavalcando montagne di macerie. I miei si erano premurati, come tutti gli altri, in barba alle disposizioni del regime, di fare provviste sin dal 1939, provviste che consistevano in acquisti di scatolame vario che dovevano essere conservate per le necessità estreme. Per questo erano conservati in
luogo
fresco
e
non
soggetto
a
sbalzi
di
temperatura e la cantina interrata della casa andava bene per la bisogna, i frigoriferi erano ancora di là da venire. Con
la
guerra,
si
cominciò
ogni
anno
ad
acquistare un maiale e a macellarlo e per fare la pasta in casa all’acquisto di grano dai contadini, che poi si macinava al mulino Ralli fuori porta S. Lorentino. Quella del tesseramento era fatta con farina integrale non molto apprezzata. I problemi dietetici dei nostri giorni erano sconosciuti. Per fare la pasta utilizzavamo una macchina di marca “Impero”. Da
sempre
mia
nonna,
su
una
terrazza
abbastanza grande della casa, teneva un piccolo allevamento di polli, non più di dieci, che erano accuditi con cura, così una parte di proteine per la nostra sopravvivenza era garantita. Anche due 23
inquilini della casa, che disponevano di un pezzo d’orto, allevavano galline per i loro bisogni. Oggi i regolamenti d’igiene non consentono più allevamento di
polli
nel
centro
abitato.
Mia
nonna
sulla
produttività delle galline era intransigente perché, quando di persona aveva accertato con il dito, che queste erano improduttive, la loro sorte era segnata, come anche quando erano colpite da un’epidemia che, allora, chiamavamo “pipitola”. Il ricambio dei pennuti era quasi semestrale. In un’altra terrazza si conservavano, appesi alle travi di legno del tetto, i pendoli di pomodorini e uva. E così era garantita anche la salsa fino a febbraio senza ricorrere ai pomodori in scatola e l’uva fino a Natale. La merenda del pomeriggio costituita da una fetta di pane con olio e sale e un grappolo d’uva era una cosa favolosa rispetto alle merendine d’oggi. Inoltre nella grande casa dove si abitava, che aveva una cantina dotata di botti, tini e bigonci, si continuò, come da sempre, a produrre il vino. La produzione era delegata a mio zio che acquistava l’uva da suoi conoscenti e da metà ottobre fino a fine novembre veniva in cantina a provvedere alle varie operazioni. La quantità di vino da produrre doveva sopperire al fabbisogno di un anno della sua famiglia e della nostra. Quando oggi alcuni produttori 24
strombazzano le qualità del vino novello e di quello governato, di cui si è persa la memoria nella pratica enologica, mi viene da ridere ripensando a quello che bevevamo noi fatto da mio zio. Il riscaldamento della casa era garantito da stufe in terracotta marca Becchi di Forlì e la legna, acquistata a ottobre, era immagazzinata in un’altra cantina più piccola di quella dedicata al vino. In questa s’immagazzinava nella carbonaia anche il carbone e la carbonella. Il primo serviva per i fornelli della cucina, la seconda per gli scaldini e le pretine che la sera, sostenute dal prete, servivano per riscaldare il letto. I rivenditori di carbone, carbonella e legna, a noi vicini, erano in Piazza della Fioraia e in via dei Pescioni. Tutto il sistema di riscaldamento della casa forniva un modesto incremento delle temperature all’interno delle abitazioni di non più di tre o quattro gradi rispetto all’esterno e quindi un massimo di circa undici gradi. Questo purtroppo non impediva che in inverno, costretto di pomeriggio a fare i compiti con lo scaldino, mi venissero i geloni. Questo fastidio durò fino alla fine della guerra. All’epoca la maggior parte delle case era riscaldata in quel modo e gli edifici, con riscaldamento centralizzato a termosifone, erano soprattutto quelli pubblici e quelli costruiti nella seconda metà degli 25
anni ’30. Il combustibile, utilizzato da questi a causa dell’autarchia, era la lignite del Valdarno, che aimè aveva un alto tenore di zolfo, così d’inverno il palazzo dell’INA e le Poste in Via Guido Monaco appestavano tutto il centro con il loro odore acre d’anidride solforosa.
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La guerra e i giochi di noi ragazzi
Quando iniziò la guerra avevo nove anni, nel luglio del 1944 ne avevo tredici. In genere, per noi ragazzi, la guerra era quella di cui sentivamo parlare in casa, dai bollettini dell’EIAR (l’attuale R.A.I.) e dai giornali, “Il Nuovo Corriere” e “La Nazione”, ma per la nostra immaginazione e la nostra percezione della realtà era una cosa molto lontana. Nel 1940 terminai la IV elementare e partecipai, con tutti gli altri compagni di scuola, al saggio ginnico di fine anno che fu fatto allo stadio Mancini. Negli anni successivi le vicissitudini della guerra sconsigliarono il ripetersi dell’evento. In quel periodo noi ragazzi tifavamo per i Finlandesi che, guidati dal generale Mannerheim, resistettero per molto tempo alle armate russe. Era il mito di Davide contro Golia che attraeva la nostra ammirazione e che prescindeva dall’interpretazione ideologica di quella guerra. 27
All’epoca
ero
iscritto
all’Azione
Cattolica
e
frequentavo la parrocchia di S. Pier Piccolo officiata dai Padri Serviti. Le amicizie erano coltivate a scuola e in parrocchia. Con me c’era l’amico preferito Ghino di cui ho già parlato. I nostri passatempi erano, d’inverno gli interminabili tornei di ping-pong, il teatro dei burattini, d’estate le partite di pallone in fortezza, il tutto, le carielle, il giro d’Italia con bollini, le figurine, battimuro ecc.
Primavera 1943. Circolo dell’A. C. di S. Pier Piccolo Sul lato destro della foto la freccia rossa indica l’inizio del monte di sabbia fatto dall’UNPA
A questo punto occorre una spiegazione per i più giovani.
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Il tutto si giocava con un semplice temperino il più possibile ben bilanciato. I contendenti in genere erano due. Si tracciava una circonferenza in terra della dimensione consentita dal luogo che si divideva a metà in due porzioni eguali. Ognuno dei due era proprietario di una porzione. S’iniziavano i tiri con i temperini
che
dovevano
conficcarsi
sulla
metà
dell’avversario. Si tracciava una riga che divideva in due la proprietà altrui, la riga seguiva la direzione della
lama
del
temperino.
Divisa
la
proprietà
dell’avversario in due, il tiratore si appropriava della parte che riteneva più opportuna. Il gioco proseguiva fino a che uno dei due non si appropriava di tutto il cerchio. Il giro d’Italia con i bollini era fatto su una pista artificiale con bordi di qualche centimetro d’altezza in terra battuta, cioè costruita dai concorrenti, o su una pista per così dire artificiale come ad esempio la canaletta di scolo delle acque sulla sommità delle gradinate in pietra serena che scendono dal prato dietro la cattedrale. I bollini erano quelli che si trovavano sulla chiusura delle gazzose ed erano dei più svariati colori. Al posto dei bollini s’impiegavano anche sfere d’acciaio residui di qualche cuscinetto fuori uso. C’era ovviamente un mercato dei bollini con notevoli scambi. 29
Le carielle erano palline di terracotta variamente colorate, che si compravano insieme alle figurine in un negozio di cartolibreria a fianco della chiesa di S. Francesco. Il negozio era gestito da una donna di cui non ricordo il nome. Le carielle erano messe a gruppi di quattro, una pallina sulle altre tre a mo’ di castelletto. Ogni concorrente aveva un colore e metteva in gioco una serie di carielle. I concorrenti partivano da una base, in genere un muro posto a una
certa
distanza
da
dove
le
carielle
erano
sistemate. In due o tre tiri si doveva abbattere il maggior numero di castelletti appropriandosene. Il battimuro, invece, si giocava con le figurine dei calciatori o delle squadre di serie A. All’epoca le squadre più gettonate erano: il Bologna, il Torino, l’Ambrosiana, la Triestina, la Juventus, il Livorno, il Modena, la Pro Patria, la Fiorentina, il Napoli e altre. Il gioco procedeva in questo modo: si appoggiava la figurina su una parete verticale a un’altezza stabilita ed eguale per tutti, poi si lasciava cadere la figurina, il secondo faceva la stessa cosa e se la sua figurina, cadendo copriva in parte quella di chi lo aveva preceduto, se ne appropriava. Per questo gioco il luogo preferito era la parete a sud della Cattedrale. Il gioco si prestava a sottigliezze bizantine per svariate ragioni: la prima per la conta dell’ordine di 30
tiro,
perché
chi
tirava
per
primo
era
il
più
svantaggiato, le altre per l’altezza esatta sul muro da cui far cadere la figurina e infine la più importante il vento al momento del rilascio della figurina. Da quanto illustrato, è chiaro che i luoghi, preposti al gioco di noi ragazzi, erano la fortezza, il Prato, il sagrato della Cattedrale e i locali della parrocchia. I costi di questi giochi erano per le figurine e le palline di terracotta. Chi possedeva un pallone in cuoio da football era un capitalista. Delle figurine esisteva un mercato molto più vasto di quello dei bollini. Nel primo anno di guerra la protezione antiaerea (UNPA) aveva creato nel cortile di S. Pier Piccolo un grande deposito di sabbia che doveva servire, in caso di bisogno, a spengere eventuali incendi causati dai bombardamenti. In quel mucchio trovammo un altro divertimento, quello
di
saltarvi
sopra
dal
primo
piano
del
colonnato del chiostro. C’era poi chi faceva la collezione dei francobolli e questo aveva il pregio d’insegnare un po’ di geografia mondiale. La mia raccolta purtroppo andò persa negli anni successivi con lo sfollamento. C’erano anche altri giochi, ma più d’azzardo e per i più grandi e non alla portata delle mie tasche, perché al massimo disponevo della cresta sulla spesa. Mia 31
nonna sapeva venire incontro alle mie esigenze con più indulgenza di mia madre e così ogni tanto mi mandava all’ultimo momento a comprare qualcosa che le mancava per il pranzo nella salumeria che era all’angolo di via Bicchieraia di fronte alla Pieve e, quando le restituivo il resto, sapeva già quanto mi ero trattenuto. All’epoca non esisteva la paghetta, se un ragazzo come me aveva bisogno di un po’ di soldini per le proprie necessità, che come ho detto erano le figurine o le carielle, chiedeva ogni tanto mezza lira. A Natale e Pasqua, invece, arrivava la manna. Mia nonna mi dava in regalo uno scudo d’argento, quello con l’aquilotto, che cercavo di fare durare il più a lungo possibile. Oggi non si può immaginare quale fosse la soddisfazione di andare a spenderne
una
parte
per
la
prima
volta
alla
cartoleria di piazza S. Francesco e farsi dare il resto di più di quattro lire. Era come essere un capitalista.
32
Aprile 1943
Il 1941 e il 1942 passarono tranquillamente per noi ragazzi e arrivammo così alla primavera del 1943. Ormai tutto era accaduto: la Battaglia di El Alamein, la perdita dell’Africa settentrionale, la campagna di Russia persa e agli sgoccioli, gli americani entrati in guerra per togliere le residue illusioni ai fanatici della vittoria. Nell’aprile del 1943 frequentavo la seconda media che all’epoca era associata al liceo-ginnasio in via Cavour. Le lezioni di ginnastica erano fatte dal prof. Ralli, in classe d’inverno o nel cortile, secondo come fosse il tempo. Il grande fabbricato del convitto, contiguo al liceo, prima ex monastero benedettino e poi convento dei gesuiti, era stato destinato a ospedale militare. Sul tetto, all’inizio della guerra, era stata dipinta una grande croce rossa per evitare errori in caso di attacchi aerei da parte degli alleati. Nell’attigua sala di S. Ignazio, adattata a teatro, si 33
rappresentavano per i militari feriti spettacoli di varietà fatti da compagnie d’avanspettacolo, ma anche da quelle dei più illustri comici dell’epoca. Sicuramente ricordo la compagnia di Vanda Osiris e di Dapporto, che riuscii a vedere intrufolandomi nella sala. Come detto, la guerra fino allora era scivolata via in silenzio per noi ragazzi. Dell’ospedale militare si sapeva che esisteva, ma non si conosceva niente dei militari che vi erano ricoverati né da dove venissero e dove sarebbero tornati. Così noi ragazzi, ignari, arrivammo a quel giorno della prima quindicina d’aprile del 1943. Era
una
bellissima
giornata
e,
come
detto,
facevamo lezione di ginnastica nel cortile del liceo. Il professor Ralli scandiva a voce alta i numeri da uno a otto e noi eseguivamo i relativi movimenti in modo ciclico, naturalmente fuori tempo. Non era un bel vedere. A un certo punto dalle finestre del terzo piano, che si affacciano sul cortile, si sentirono fortissime le urla di dolore di un militare ferito. Attirati da quei lamenti, dapprima rallentammo i movimenti e poi ci fermammo uno dopo l’altro con lo sguardo rivolto a quelle
finestre
senza
seguire
il
comando
del
professore. Poi si sentì lo scalpiccio degli infermieri 34
che si affrettarono a chiudere tutte le finestre. Il professore capì, sospese la lezione e tornammo in classe. Raccontai l’episodio in casa, e il nostro dottore che conosceva alcuni medici dell’ospedale ci disse che i feriti erano arrivati dalla Russia a metà marzo circa e avevano quasi tutti gli arti congelati. L’episodio mi colpì perché solo allora ebbi l’esatta percezione di cosa fosse la guerra. Un conto era andare a vedere qualche spettacolo alla sala S. Ignazio dove i feriti si vedevano bendati, ma desiderosi di divertirsi. Un conto era sentire le urla di dolore di un ferito. Questo episodio mi aveva svegliato, mostrandomi la crudezza della guerra. Fu il primo, ma altri ben peggiori né avrei dovuto vedere nei mesi successivi. Più tardi, alla fine degli anni ’60 e inizio degli anni ’70, quando per lavoro abitavo a Desenzano sul Garda, la domenica si facevano passeggiate sulle colline dei dintorni, dove si andava a fare merenda a base di panino e sopressa con un bicchiere di Lugana in una casa colonica. Ci si fermava e mentre si mangiava, si parlava un po’ di tutto con i padroni di casa. Una volta l’uomo che, da qualche tempo, aveva sentito il nostro accento non poté fare a meno di chiederci di dove 35
eravamo ed io risposi di Arezzo e Clara di Napoli, al che lui rispose: “Arezzo, ci sono stato ricoverato all’ospedale militare nel 1943”. Così mi raccontò la sua storia di alpino della Tridentina fortunato sopravvissuto della campagna di Russia.
36
La fine formale della guerra e la catastrofe
Il lunedì di Pasqua, 26 aprile 1943 Grosseto fu bombardata.
L’avvenimento
lasciò
una
notevole
impressione in tutti noi. Era la prima volta che i bombardieri alleati arrivavano così vicini. Ci furono 205 morti, l’attacco proveniva dal mare e non fu suonato alcun allarme. Capimmo allora che alla fine anche le altre città della Toscana sarebbero state attaccate. A giugno caddero in mano alleata Pantelleria e Lampedusa. Poi venne il mese di luglio durante il quale accadde di tutto. Il 10 luglio gli alleati sbarcarono
in
Sicilia,
il
19
luglio
Roma
fu
bombardata. Infine il 25 luglio. L’effetto immediato e visibile dell’avvenimento fu l’istituzione da parte del presidio militare di un corpo di guardia, 24 ore su 24, alla vicinissima Banca d’Italia. I soldati armati del vecchio fucile ’91 facevano la guardia ai due ingressi della banca, quello di Via Cesalpino e quello 37
di Via Bicchieraia. Tutto il resto sembrava come sempre. Alla metà d’agosto la Sicilia era persa. Noi in genere d’estate seguivamo mio padre nelle sue trasferte di lavoro nei paesi della provincia o di quelle vicine. Quell’anno era stato destinato a Baschi in provincia di Terni, ma noi non lo seguimmo a causa degli avvenimenti bellici. Lui prendeva un accelerato5 al mattino intorno alle tre e mezzo e tornava alla sera verso le sette e mezzo. Non era una bella vita, circa sette ore di treno e otto di lavoro. Nonostante la guerra, il Ministero delle Finanze aveva predisposto la continuazione dei rilievi aereofotogrammetrici a completamento del catasto terreni dell’Italia centrale. Seguì rapidamente il mese d’agosto e noi ragazzi continuavamo con i soliti giochi e passatempi. E venne l’8 settembre. Il nove gli alleati sbarcarono a Salerno e ormai avendo messo il piede in continente, come dicono i siciliani, percepivamo che alla fine la guerra, salendo dal sud, sarebbe arrivata anche da noi.
Quando
la
radio
trasmise
la
notizia
dell’armistizio, il giorno otto non avvenne niente d’eccezionale. Tutti rimasero attoniti chiedendosi cosa sarebbe successo dopo il comunicato ambiguo 5
L’accelerato era un tipo di treno che faceva servizio fermandosi a tutte le stazioni della linea.
38
di Badoglio che dava adito a molti dubbi. La guardia alla banca d’Italia fu proseguita fino al giorno successivo. Ma appena si capì che l’esercito non aveva ordini precisi e che i tedeschi invece avevano ben capito il significato delle parole di Badoglio, tant’è che a mezzogiorno del nove attaccarono e affondarono la corazzata Roma, i militari che erano di guardia alla Banca si premurarono di chiedere a noi e agli altri abitanti di via Bicchieraia e via Cisalpino
abiti
civili
da
indossare
in
luogo
dell’uniforme. La sera del nove, abbandonati i fucili, erano spariti tutti e sette. Del resto tutti i militari del presidio, ufficiali e soldati, di stanza in città il giorno nove si dettero alla macchia. Non tutti però ebbero la fortuna dei nostri sette che avevano potuto indossare abiti civili. L’11 settembre al mattino arrivò in treno da Firenze una compagnia di soldati tedeschi con fanfara. I camion e gli altri mezzi furono scaricati dal treno poi i militari ben allineati, con la fanfara in testa, si diressero verso il comando di presidio. Questo era in via Garibaldi-Piazza del Popolo, vicino alla
Misericordia,
parcheggio
al
nel
posto
luogo,
dove
dell’edificio
oggi
distrutto
c’è
il
dalle
bombe. Appena arrivati, incollarono sopra gli stipiti del portone due piccoli manifestini (oggi si dice 39
formato A4) in cui era scritto in tedesco e italiano che, in caso di atti ostili contro le truppe tedesche, per ogni tedesco ucciso sarebbero stati fucilati dieci italiani. La forma della comunicazione era stata rispettata, non importa se solo pochissimi si erano resi conto di questo. Tra questi, alcuni di noi ragazzi, che, seguendo la fanfara dei militari tedeschi, si erano avvicinati con circospezione al portone dove un militare di guardia li guardava ridacchiando mentre leggevano il manifesto. Nei giorni successivi ci fu la liberazione di Mussolini, l’incontro di Monaco e infine a fine settembre la costituzione della R.S.I. Si capì allora che la guerra sarebbe continuata ancora e in forma peggiore di prima. Il primo atto della R.S.I. fu l’ordinanza della consegna delle armi e dei materiali esplodenti da parte dei privati con la condanna alla pena di morte per chi ne fosse trovato in possesso. Naturalmente i fucili da caccia di mio padre e di mio zio, due Beretta calibro 12, non furono consegnati. Fu deciso di utilizzare una canna fumaria della casa di via Bicchieraia. Così un giorno d’ottobre zio Angiolino venne a casa con il suo fucile e la sciabola da cavalleggero del nonno Edoardo ben nascoste in mezzo a masserizie su un caretto. Dopo essere state 40
bene oliate, le armi, imballate e legate con una fune, furono calate dalla soffitta all’interno della canna fumaria da un’apertura che alla fine delle operazioni fu murata. Le armi furono estratte un anno dopo nell’autunno del 1944 in tempo per andare a beccacce.
41
I primi bombardamenti e lo sfollamento
Nonostante
tutto
le
autorità
civili,
alcune
confermate, altre sostituite, cercarono nei mesi successivi di dare continuità alla vita quotidiana. Mio padre continuava il suo va e vieni verso Baschi con un permesso speciale, vistato dal comando militare
tedesco,
attestante
la
sua
qualità
di
funzionario dello stato. Da radio Londra si apprese della liberazione di Napoli e poi dello stop, a novembre, degli alleati sulla linea Gustav a Cassino. Radio Londra ci informava che anche reparti italiani partecipavano alle azioni contro i tedeschi insieme alle truppe alleate. Di qua, al nord, vedevamo che la R.S.I., con l’obbligo della leva delle classi 1923 e 1924, cercava di ricostituire un esercito che era in ogni caso destinato a scontrarsi con i reparti italiani che combattevano con gli alleati. Questo ci proponeva considerazioni amare sul genere di guerra civile cui l’Italia andava 42
incontro e che non era ancora quella che sarebbe stata combattuta più tardi al nord dai partigiani. Mia madre di fronte a quegli avvenimenti, con il suo temperamento fragile e apprensivo, cominciò a non essere più tranquilla. Era terrorizzata dall’idea di doversi trovare in mezzo a combattimenti di eserciti armati e sperava che la guerra terminasse prima dell’arrivo del fronte ad Arezzo. Ogni giorno di quell’autunno si preoccupava per mio padre che doveva andare a Baschi e per me che, libero da impegni scolastici, bighellonavo dal mattino alla sera. Mia nonna le diceva: “Vedrai ce la caveremo come gli altri. Hai visto in Sicilia e a Napoli? Per loro è stato più facile il passaggio del fronte che subire i bombardamenti alleati tutti i giorni.” Così arrivammo fino alle 19 del tredici novembre. A quell’ora Arezzo fu bombardata per la prima volta. Io ero in parrocchia a giocare a ping-pong. Eravamo rimasti, attardandoci dopo le funzioni della sera, in tre, se ben ricordo io, Baccheschi e La Spina. Io perché in casa dovevamo aspettare il ritorno di mio padre da Baschi prima di cenare. Nel locale, dove eravamo, sentimmo a un tratto un rumore d’aerei e dopo poco due deflagrazioni a distanza ravvicinata. L’allarme non era suonato e, nonostante questo,
capimmo
che
si
trattava
di
un 43
bombardamento, così ci precipitammo di corsa fuori dal convento. Per strada incontrai mia madre terrorizzata che si era precipitata per le scale di casa e stava fuggendo. Mi vide e mi disse “Corriamo, andiamo via, fuori città”. Gli aerei, due bombardieri della R.A.F. bimotori adatti
al
combattimento
notturno,
indisturbati
giravano sopra le nostre teste a bassa quota illuminando la città con qualche bengala, anche se la serata era serena. Con mia madre si prese correndo la salita di via Cisalpino, poi piazza del Comune,
via
Ricasoli,
via
Sassoverde,
via
S.
Domenico, porta S. Clemente e infine i campi tra questa e la Catona. Il percorso era l’unico possibile per allontanarsi verso nord dalla parte bassa della città, al momento sotto attacco aereo, perché la porta cosiddetta di S. Biagio non era stata ancora riaperta6, per consentire una più rapida evacuazione della popolazione. Finalmente, con il cuore in gola, ci fermammo in un viottolo di campagna vicino a un pino e li aspettammo con le scarpe infangate. Il luogo era pressappoco quello dove oggi è stato realizzato un parcheggio. Vedevamo le mura della città a nord e la cattedrale illuminate dai bengala e 6
Fu riaperta dopo secoli dopo il bombardamento del 2 dicembre 1943 su iniziativa di alcuni volontari.
44
ogni tanto si sentiva l’esplosione di qualche bomba. Mia
madre
terrorizzata
non
era
in
grado
di
trasmettermi senso di sicurezza perché anche in quel posto così distante dalla ferrovia non si sentiva tranquilla. Del resto la rotta dei due aerei non era fatta per essere tranquilli, perché compivano un ampio giro sulla città intorno ai mille metri di quota passando sopra le nostre teste per riportarsi poi sopra la ferrovia. Il rumore dei motori quando passavano sopra ci faceva vibrare internamente. In uno
di
questi
passaggi
non
fui
in
grado
di
trattenermi per il terrore e così mi trovai senza saperlo tutto bagnato d’orina. Mi vergognavo e non lo dissi a mia madre. Non potei però fare a meno di notare che in quel posto eravamo soli, come lo eravamo stati quando si correva per arrivarci. Mi domandai allora “Ma gli altri cosa hanno fatto?”. Non mi rendevo conto che quello era solo il primo capitolo del calvario di terrore che mia madre avrebbe vissuto nei successivi nove mesi e che l’avrebbe portata in seguito alla tomba. Tornammo a casa, e mia nonna ci apostrofò: “Ma non vedete come siete ridotti”. Di fatto non eravamo un bello spettacolo con le scarpe e le gambe totalmente infangate fino alle caviglie ed io con i pantaloni alla zuava bagnati d’urina. Solo allora mia nonna si accorse, e con lei mia madre, che 45
me l’ero fatta addosso, io, ovviamente, non avrei voluto che se ne accorgessero. Mia madre rimase colpita dal fatto che non ne avessi parlato con lei. Mia nonna mi rincuorò per quello che mi era successo e disse che a tutto c’è rimedio e che non me la dovevo prendere più di tanto. Lei aveva deciso di rimanere a casa vedendo che la ferrovia, obiettivo dell’attacco,
era
abbastanza
distante
da
dove
abitavamo. Contrariamente agli allarmi dell’inizio della guerra, quando si precipitava in cantina con il rosario, questa volta era stata più razionale, si era accorta che gli aerei erano solamente due con un preciso obiettivo. Ora però bisognava aspettare il ritorno di mio padre da Baschi. Il treno, che doveva arrivare ad Arezzo proprio all’ora del bombardamento, era stato fermato alla stazione di Olmo e poi, al termine del bombardamento proseguì fin verso S. Maria prima di via Trasimeno e lì i passeggeri furono fatti scendere e proseguire a piedi verso la città. Una bomba aveva interrotto i binari di corsa al passaggio a livello. Mio padre arrivò a casa intorno alle nove e mezzo di sera. Mia nonna riscaldò quello che aveva preparato per cena e finalmente a tavola si parlò di cosa si dovesse fare per il futuro. Mia madre ancora terrorizzata si limitò a mangiare due cucchiai di minestra. 46
Fu deciso che, per prima cosa, mio padre andasse l’indomani dal dirigente dell’ufficio per comunicare che ormai andare a Baschi era troppo pericoloso e quindi
si
doveva
trovare
una
soluzione
meno
rischiosa per il suo lavoro. Poi si parlò del bombardamento appena terminato e sulla possibilità che per il futuro ve ne fossero altri. Su questo punto ormai l’insicurezza era totale e sulla certezza di quest’insicurezza mia madre disse che sarebbe stato meglio sfollare da Arezzo e andare ad abitare con zia Natalina a San Polo. Mia nonna per gli impegni che aveva con i suoi pensionanti disse che era costretta a rimanere almeno fino a quando questi avessero abitato da noi. Finalmente andammo tutti a letto verso mezzanotte, ma la nottata non fu tranquilla. L’indomani mattina verso le nove venne da noi il Pierozzi, il vetturino dell’avvocato Maggi, convivente di mia zia, per chiedere come stavamo e cosa si voleva fare. Mia nonna disse che io, mia madre e mio padre saremmo andati a San Polo al più presto e lei sarebbe venuta appena libera dagli impegni dei suoi pensionanti, con lei sarebbe rimasta Ersilia, la ragazza che la aiutava nelle faccende di casa. Il pomeriggio il Pierozzi ritornò con il preciso ordine di prendere me e mia madre. Mio padre sarebbe venuto con la bicicletta. Caricammo 47
sul calesse qualche valigia e la mia bicicletta, e partimmo per San Polo. Mio padre, nei giorni successivi, fece la spola per trasportare altra roba e organizzò addirittura tre carri per le masserizie che trovarono spazio nell’ampliamento della villa Maggi non ancora terminato. Nelle due settimane successive vi furono due o tre allarmi sempre nella mattinata. Squadriglie di aerei da
bombardamento
passavano
sopra
Arezzo
e
proseguivano in genere verso i Mandrioli. La sera i comunicati radio o radio Londra ci informavano del bombardamento di Verona, Brescia o delle altre città del nord. In quel periodo le autorità della R.S.I. non erano in grado di controllare quella che era la vita civile della popolazione in città, assorbite com’erano dalla ricerca dei prigionieri di guerra scappati dal campo di
concentramento
di
Laterina,
dei
fuggiaschi
dell’esercito e dai primi tentativi d’organizzazione dei reparti della resistenza e la popolazione, per i propri bisogni, si arrangiava. A un certo punto, pur di mostrare
una
qualche
parvenza
di
normalità,
decisero la riapertura delle scuole e questa fu stabilita per il due dicembre. La comunicazione fu fatta sui giornali. Gli studenti delle scuole medie di Arezzo si dovevano presentare alle nove di mattina 48
presso l’Istituto tecnico Michelangelo Buonarroti in piazza di Badia o della Posta Vecchia per la cerimonia dell’inaugurazione. I miei si consultarono su cosa dovessi fare e, nonostante la contrarietà di mia madre, mio padre decise che dovevo andare. Così, la mattina del due, inforcai la bicicletta e partii da San Polo per Arezzo. Alle nove ero insieme agli altri ragazzi in quella che era stata la sala capitolare dell’abbazia benedettina, ora adattata ad aula magna, dove su una parete troneggiava il quadro del Vasari “Le nozze di Ester e Assuero”7. Il provveditore e un preside fecero un paio di discorsi frettolosamente e, senza specificare come le lezioni sarebbero state organizzate in futuro, ci lasciarono andare verso le dieci e mezzo. Passai a casa dalla nonna per un saluto e poi ripresi la strada per San Polo. Ero quasi arrivato alla villa Maggi e mi trovavo nel tratto di strada tra villa Massetani e la Pieve di San Polo quando sentii il rombo dei motori di uno stormo di bombardieri. Alzai gli occhi e ne vidi una moltitudine che scavalcato Poti si dirigeva sulla città. Mi fermai per guardare. Il rumore era assordante e a un certo punto sembrò 7
Prima della guerra molti ragazzi ad Arezzo portavano i nomi di Assuero e di Esterina
49
s’intensificasse.
Dopo
qualche
attimo
vidi
i
pennacchi di fumo giallo rossastro delle esplosioni. Il bombardamento durò un minuto ma il fumo sopra la città persistette per almeno tre quarti d’ora. Rispetto al primo bombardamento ebbi maggior controllo delle mie emozioni, anche perché mi rendevo conto che ero distante almeno tre chilometri in linea d’aria dalla città. Feci l’ultimo tratto di strada fino alla villa di corsa, anche se in salita, con la bicicletta portata a mano e così mia madre poté stare tranquilla almeno per me. Rimaneva la nonna e per lei a questo punto cominciò a preoccuparsi con mia zia. Nel pomeriggio il solito Pierozzi fu mandato con il calesse ad Arezzo con il compito preciso di prelevare mia nonna e portarla a San Polo. Il compito non fu difficile. Gli ultimi due pensionanti se n’erano andati subito dopo il bombardamento, Ersilia aveva deciso di unirsi alla famiglia del fidanzato per sfollare in quel d’Anghiari e mio zio Angiolino aveva deciso di sfollare con la famiglia a Campriano. Mia nonna quindi era rimasta sola ma, anche se i suoi settantun anni la facevano attaccata alla casa dove aveva abitato per più di venticinque anni, era persona ragionevole per non rendersi conto di quello che stava succedendo. Così il Pierozzi, verso le sei di sera, tornò con la nonna. E questa fu veramente una 50
fortuna. La sera stessa, questa volta con una quindicina d’aerei, gli alleati tornarono su Arezzo per la
terza
volta.
Il
bombardamento
fu
lungo
e
distruttivo soprattutto per il centro storico della città. Fu distrutto il Palazzo della Zecca e la casa della fonte in fondo a via Bicchieraia ad un’ottantina di metri dalla nostra. Un paio di giorni dopo si organizzò
un
ultimo
carico
per
recuperare
le
masserizie rimaste nella casa che si aggiunsero a quelle di due settimane prima.
51
Facciata della chiesa di S. Pier Piccolo distrutta
Finalmente ora la famiglia si era riunita tutta a San Polo e la casa era deserta e chiusa, fin tanto che gli spostamenti d’aria del bombardamento di metà gennaio sfondarono porte e finestre e la ricaduta 52
delle macerie del vicino palazzo Marsuppini e della chiesa di S. Pier Piccolo sfondò il tetto sul fronte strada.
53
Villa Maggi
E’ d’obbligo fare una descrizione sommaria della villa per capire com’eravamo sistemati e dove avremmo passato i successivi nove mesi. La villa era la classica villa ottocentesca della campagna toscana a pianta rettangolare a due piani, tre con il piano terra, che sul lato posteriore verso ovest aveva un prolungamento di fabbricati destinati al piano terra a dispense, cantine e depositi vari della fattoria, al primo piano ad abitazione di una famiglia di mezzadri. Il tutto dava all’interno su un’aia su cui si affacciavano su un lato le stalle e sull’altro la casa del casiere8, ossia l’uomo preposto alla vigilanza della villa in assenza del padrone. 8
Il casiere, nell’economia di una fattoria di allora, era un salariato che godeva anche di un’abitazione e in assenza del padrone, sorvegliava sulla buona conservazione della villa e delle sue pertinenze. Provvedeva alla pulizia del tutto e preparava le stanze prima del ritorno della famiglia del padrone in villa.
54
La villa, sul lato sud, era in fase d’ampliamento che interessava anche il suo lato ovest avvolgendolo con un grande terrazzo cui si accedeva dalle porte finestre del primo piano e si prolungava sopra un lungo fabbricato di una quindicina di metri. Qui erano le limonaie e le dispense della villa, si era voluto separare quello che era destinato al consumo padronale da quello che era destinato all’economia di tutta la fattoria. Sul lato nord, lungo la strada comunale, c’era un portone che dava accesso a un grande atrio coperto posto sotto il terrazzo e a destra il grande fabbricato delle
limonaie
che
proteggeva
l’orto
dalla
tramontana. L’atrio era destinato alla sosta del calesse in caso di tempo cattivo quando l’avvocato doveva uscire per udienze o per altre incombenze professionali. In caso di bel tempo cavallo e calesse sostavano fuori nel piazzale antistante il portone perché la pulizia dell’atrio dai bisogni del cavallo era abbastanza laboriosa. Il Pierozzi si doveva precipitare con paletta e scopa e portare il solido nella vicina limonaia. Per la parte liquida c’era a disposizione un bidone d’acqua e creolina per diluire il tutto, ma il cattivo odore persisteva dopo questa sommaria pulizia. A sera si provvedeva a lavare le pietre della pavimentazione con un trattamento a base di 55
varechina. Poiché questo era un lavoro straordinario e sgradevole, il Pierozzi cercava di evitarlo portando la cavalla quanto prima possibile nella sua stalla. L’ingresso alla villa era sul lato sinistro del portico e dopo la porta a destra, al piano rialzato, c’era la cucina con un gran camino, dietro la cucina c’erano le dispense per i bisogni quotidiani, una cantinetta e una stanzetta, dove l’Annina Dragoni si fermava a dormire quando era cattivo tempo. La scala saliva al primo piano, dove si arrivava a due salotti, uno d’angolo di passaggio adibito a sala da pranzo da cui si accedeva all’altro salotto. I due salotti erano nella parte nord della villa al primo piano. Attraversata la sala da pranzo, si arrivava a un disimpegno da cui partiva la seconda rampa di scale per il secondo piano. Dal disimpegno, che dava sul grande terrazzo, si accedeva anche a una stanza che era quella lasciata a disposizione di mio cugino Enzo. Arrivati al secondo piano, c’era un salotto centrale di passaggio. A destra c’erano le due stanze abitate dal giudice Liberti e la sua famiglia e a sinistra lo studio dell’avvocato con le pareti ricoperte da scaffali tutti zeppi di libri e faldoni. Più avanti a sinistra si apriva la porta della camera dell’avvocato e di mia zia. Si proseguiva poi attraverso una porta per un corridoio su cui si apriva nell’ordine la stanza da 56
letto del direttore Papini a sinistra e poi a destra la nostra e due bagni. Uno di questi era arredato con i sanitari tutti in rame smaltato con la stufa a legna per scaldare l’acqua. L’altro, di minori pretese, aveva un lavabo, un wc e un bidet. Tutte le stanze del secondo piano erano a nord tranne la nostra e quella del giudice Liberti che erano orientate verso sud. Questa era la villa nel suo complesso cui si accedeva
per
il
grande
portone
dalla
strada
comunale che la rasentava salendo verso Tubbiano e Quarantola. Dall’altro lato della strada c’era il piazzale semicircolare recintato da una siepe d’allori da cui partiva un viottolo che scendeva a rittochino attraverso i campi verso il fosso di S. Lucia e l’omonimo podere. Il piazzale fu sede degli ultimi episodi dell’occupazione tedesca.
57
La normalità da sfollati
Ora che si era tutti e quattro riuniti e con la zia, la vita
quotidiana
fu
totalmente
cambiata
nelle
abitudini di ciascuno. Ci dovevamo adattare perché per prima cosa eravamo ospiti, anche se parenti della padrona di casa, e non i soli nella grande villa di cui ho già parlato. L’avvocato aveva invitato il direttore della Banca Popolare d’Arezzo Andrea Papini con la sua famiglia e il giudice Liberti, credo del tribunale civile, anche lui con la sua famiglia. Facendo il conto, eravamo in totale quattordici persone, di cui cinque della famiglia del giudice compresa la donna di servizio, tre di quella del direttore anche loro con la donna, noi quattro e infine mia zia e l’avvocato. Mia zia aveva voluto che, per ogni evenienza, rimanesse disponibile
una
stanza
per
mio
cugino
Enzo
nell’eventualità che venisse a trovarla o si decidesse a sfollare anche lui da Firenze ad Arezzo. Lei e 58
l’avvocato, dopo aver passato una vita a Firenze per ragioni professionali dell’avvocato, erano nella villa da settembre dopo il primo bombardamento di Firenze. L’assegnazione delle camere risolse rapidamente il problema
del
dormire.
Non
fu
così
per
la
preparazione del cibo. La grande villa aveva una cucina in cui quattro famiglie non potevano certo preparare contemporaneamente i cibi e così fu adattata a cucina una stanza attigua vicino alla dispensa che fu utilizzata dalla famiglia del direttore. La famiglia del giudice occupando due stanze né adattò
una
a
cucina
dove
dormiva
anche
la
cameriera. Per la preparazione di cibi particolari tutti utilizzavano il gran camino della cucina a piano terra. La
mattina
ognuno
provvedeva
alla
propria
colazione nelle rispettive stanze da letto. Al tocco e alle venti, quando il pranzo era pronto, tutti si riunivano nella sala da pranzo, ma ognuno con i propri cibi, invece il giudice e la sua famiglia mangiavano separatamente in una delle stanze che occupavano. A volte capitava che al momento di servire scambiavamo qualche boccone d’assaggio e così si manteneva la cordialità conviviale necessaria per quel vivere promiscuo. Per le grandi feste Natale, 59
Capodanno
e
Pasqua
le
responsabili
della
preparazione dei pranzi e delle cene si misero d’accordo nel cercare di cucinare dei piatti simili tra loro. In genere la fonte d’approvvigionamento era la bottega di San Polo basso, ma soprattutto il mercato diretto con i contadini che vendevano ogni ben di Dio. Per mia zia e l’avvocato, l’approvvigionamento veniva dalla fattoria e i loro acquisti erano ridotti a poca cosa. Il sale come ho già detto si trovava solo alla borsa nera e si doveva pagarlo intorno alle mille lire al chilogrammo. Noi avemmo privilegio di utilizzare la cucina della villa anche perché mia nonna s’impose subito per dirigere l’Annina Dragoni, che era la donna che aiutava mia zia nel ménage della casa. Mia zia era una cuoca favolosa, ma mia nonna la superava e per questo, un po’ per l’età, un po’ per esperienza e buon senso,
s’impose
come
coordinatrice
delle
varie
esigenze. La cuoca del direttore Papini era la cameriera Luisa che ben volentieri accettava i consigli di mia nonna. La cameriera del giudice non partecipava perché decentrata al secondo piano della villa. Da quanto ho detto, a parte i problemi di reperimento di alcuni generi come il sale, per quelli che
erano
i
fabbisogni
fondamentali
di
sopravvivenza, non avemmo alcun problema e di 60
certo non posso dire che in quei nove mesi patimmo la fame. E’ ovvio che mia zia ci regalasse spesso un pollo, un cappone, un coniglio o altro, che subito la sapienza
di
mia
prelibati.
Questo
nonna capitava
trasformava perché
i
in
piatti
mezzadri
venivano dal padrone a consegnare le sue spettanze. I poderi della fattoria mi sembrano fossero una trentina e quindi è comprensibile come, spesse volte, questi tributi fossero così abbondanti da non poter essere consumati da due sole persone. In quel periodo i piatti più consumati erano a base di rape, fagioli, salsicce e pasta fatta in casa. C’era poi il prosciutto che si cercava di far durare il più a lungo e tutta la serie d’insaccati che si potevano fare con il maiale. Quell’inverno non si mangiarono agrumi. A pranzo e a cena si parlava un po’ di tutto, ovviamente della guerra, dopo aver ascoltato il giornale radio del tocco e delle venti. Più tardi si ascoltava radio Londra. Gli altri argomenti preferiti dall’avvocato riguardavano i proprietari terrieri della provincia soprattutto quelli in difficoltà sui quali il ragionier Papini direttore della Banca Popolare ovviamente era molto informato. L’altro passatempo era la partita a scopone scientifico la sera dopo cena, alla quale, in assenza di mio padre, pur di passare il 61
tempo ero anch’io cooptato come giocatore e devo dire che rispetto al giudice, che non aveva memoria, ero un buon giocatore. Quando ripenso a quelle partite, le collego con la memoria all’episodio di “Napoli milionaria” di De Sica nel quale il nobile squattrinato ex giocatore pur di poter giocare si accontentava di farlo con il figlio del portiere. Così era allora. Tre persone anziane, pur di giocare, si accontentavano anche loro di un ragazzo. In genere prima della partita il giudice, terminata la cena, veniva nella sala da pranzo ad aspettare che si giocasse, mentre i suoi risalivano in camera o scendevano in cucina per la recita del rosario. Nell’attesa si metteva in piedi vicino alla stufa di terracotta che scaldava la stanza rivolto verso il tavolo.
La
stufa
era
del
tipo
ad
angolo.
Evidentemente il calore che assorbiva dalle fiamme attraverso i vestiti gli creava qualche dilatazione gassosa
nella
pancia
e
allora
cominciava
a
controllare una serie infinita di piccole emissioni per le quali occorreva avere udito finissimo. Io per curiosità una volta mi avvicinai ed ebbi la certezza della natura di tali rumorini. Diverse volte però gli sfuggiva il controllo e il rumore si sentiva. Lui imperterrito chiedeva scusa. Il rito si ripeteva tutte le sere e guardandolo uno se ne poteva accorgere 62
dall’espressione di beatitudine che pervadeva la sua faccia. Non era un bell’uomo, tutt’altro. Piccolo e segaligno con una faccia inespressiva e giallognola, la pelle incartapecorita, portava un paio di lenti a culo di bicchiere. Era quindi facile accorgersi di cambiamenti di espressione dovuti al benessere che gli derivava da tale atto. Le donne invece, dietro invito di mia nonna, si riunivano in cucina per il solito rosario della sera, recitato vicino al grande camino ancora acceso. Questi era monumentale non troppo largo ma profondo e ai due lati aveva due sedili in pietra per tutta la sua profondità dove potevano prendere posto almeno sei persone. Gli ultimi residui di calore delle ceneri erano utilizzati per scaldarsi prima di andare a letto. I primi tempi dello sfollamento partecipai anch’io insieme ai due figli del giudice e, essendo il tempo delle castagne, noi ragazzi ci divertivamo a gettare tra le ceneri le castagne non castrate quando nessuno
ci
vedeva.
Queste
dopo
un
poco
esplodevano nel bel mezzo di un mistero gaudioso o doloroso. Per questo i figli del giudice collezionavano dalla madre degli scappellotti. Io me la cavavo sempre perché mi allontanavo prima delle esplosioni, essendomi premurato di misurare a parte il tempo che occorreva prima dello scoppio. Poi, dopo qualche 63
mese, fui cooptato a giocare lo scopone scientifico e passai nel gruppo degli adulti maschi con invidia dei due figli del giudice. Al mattino, dopo colazione, tutti andavano a lavorare, il ragionier Papini a villa Brizzolari a S. Fabiano, dove era stata trasferita la banca, mio padre in bicicletta a Patrignone dove era stato trasferito
il
Catasto
insieme
all’Intendenza
di
Finanza. L’avvocato e il giudice in genere andavano via insieme per il tribunale che però era stato trasferito a Poppi e per questo dovevano prender il treno
alla
stazione
di
Ceciliano,
ma
talvolta
l’avvocato rimaneva nello studio a impostare qualche causa. Mia zia che mi voleva un gran bene, magnificando quante cose sapessi e la mia bravura a scuola, mi fece un bel servizio, perché l’avvocato, avendo bisogno di uno scribacchino per scrivere le comparse, a un certo punto si convinse che io ero adatto, così capitava che qualche volta di mattina o di sera dovessi andare nello studio al secondo piano per scrivere su carta legale sotto dettatura quello che lui diceva. Non era agevole seguirlo perché dettava velocemente ed io talvolta chiedevo che ripetesse.
64
I gruppi familiari
Del giudice ho già parlato. Sembrava che avesse impostato
la
sua
famiglia
a
sua
immagine
e
somiglianza. La moglie era una befana brutta e acida.
Erano
entrambi
umbri.
In
Toscana
un
proverbio dice “Montelupo e Capraia, Dio li fa e poi li appaia”.9 E, naturalmente, costei a cascata si era scelta una donna di servizio, anche lei umbra, con lo stesso suo carattere. Il fatto che poi avessero la loro autonomia operativa del ménage familiare le rendeva in concreto sempre più antipatiche e isolate. Ritengo che la loro partecipazione al rosario della sera fosse una partecipazione d’ipocrita convenienza. I due figli di undici e nove anni erano due ragazzini tignosi e rompiscatole. Erano curiosi e insistenti nel voler sapere quello che uno stava facendo e per questo, quando qualcosa li incuriosiva, 9
Si tratta di due località sulle rive opposte dell’Arno poco prima che s’immetta nella piana di Empoli
65
erano capaci d’impostare una sequela di domande che non finivano mai. Il più grande, Luigi, era un ragazzino traccagnotto che probabilmente da grande si sarà avviato verso la pinguedine, il secondo, di cui non ricordo il nome, era più alto del fratello ed era la copia conforme di sua madre, avendone ereditato le caratteristiche, magro e con un viso in questo caso da befano. A quell’età due anni di differenza sono molti, cosi li sopportai per i primi tre mesi di sfollamento e poi piano piano li lasciai a trastullarsi da soli nei dintorni della villa. Il direttore Papini era un gran buonuomo che ritengo avesse sudato non poco per arrivare a coprire l’incarico che ricopriva: direttore della Banca Mutua Popolare di Arezzo. Non aveva figli, ma sua moglie per questo non se n’era fatta un gran cruccio. Non era il tipo fisico da prostrarsi per quello che la vita non le aveva dato. Lui era in la con gli anni, penso avesse tra i sessantacinque e i settanta, lei doveva averne una diecina di meno. Se ben ricordo mi sembra si chiamasse Luisa. Lui era un tipo asciutto e abbastanza alto, era nell’insieme una bella figura. Lei
era
una
donna
alta
e
abbondante,
anzi
abbondantissima, senza poter dire però che fosse una grassona. Di corporatura notevole lo era anche per l’appetito che aveva. Quando girava per casa, 66
trasferendosi dalla propria stanza alla cucina al piano terra, rosicchiava sempre qualche cosa. Di sicuro gli anni di guerra per lei non erano passati con una sola tessera annonaria. Anche a tavola, se il marito, un po’ inappetente lasciava qualche cosa nel piatto, subito si precipitava senza alcun indugio a ripulirlo, non importa se alla presenza di altre persone. La giustificazione era che non si dovevano buttare gli avanzi. La verità era che la signora Luisa era una donna golosa e di un’avidità senza confronti. Un giorno di febbraio il direttore era tornato a piedi da villa Brizzolari. Il tratto di strada fino a San Polo non era poi tanto lungo, circa due chilometri, ma avendo abbandonato la strada comunale per un sorvolo d’aerei, aveva dovuto buttarsi per i campi e traversare un fosso. Qui il malcapitato sguillò10 su una pietra viscida e cadde con il sedere a mollo. Ritornò imprecando e andò a cambiarsi. Poi con un po’ di ritardo venne a mangiare. Tutti avevamo finito ed eravamo rimasti per fargli un po’ di compagnia e per parlare. Lui a un certo punto chiese alla moglie “Luisa, vorrei due fette di prosciutto”. Avevano comprato un prosciutto giorni prima dai contadini. “Andrea il prosciutto è finito!” rispose seraficamente la signora Luisa. La signora Luisa lo aveva fatto fuori 10
Sta per scivolare. Voce onomatopeica del dialetto aretino.
67
in una diecina giorni. Al che lui, che era un uomo mite e un gran signore, fino ad allora non lo avevamo mai visto arrabbiarsi con nessuno, dette fuori dei gangheri e cominciò una litania che non finiva mai: “Ma come un prosciutto di quattro chili finito in 10 giorni! Birbacciona! Uno torna da lavorare e chiede due fette di prosciutto e gli si dice “Il prosciutto è finito” Birbacciona! Birbacciona!”. E così via. Annotai soprattutto quella parola birbacciona, aggettivo che di solito si rivolge a un bambino per rimproverarlo. Questo fece aumentare nella mia considerazione il direttore perché capii quanto l’uomo fosse buono e incline al perdono nonostante tutto. Mia nonna che si trovava in cucina fu avvisata della scena che si era consumata al primo piano dalla donna di servizio del direttore, che anche lei si chiamava Luisa come la padrona. Prese, allora, il nostro prosciutto e, mentre ne tagliava tre o quattro fette per il direttore, disse alla Luisa: “Ma tu non ti sei mai accorta di quanto ne mangiava la tua padrona? E’ ingorda e sfondata”. La Luisa sorrise, fece le spallucce e portò il prosciutto al padrone, così sembrò che tutto si placasse. Io, che avevo assistito alla scena, a mala pena avevo trattenuto il ridere.
68
Quello
che
però
mi
fece
più
impressione
fu
l’inespressività della signora Papini durante tutta la scena. Era come se niente fosse successo e che la cosa non la riguardasse. Non disse niente, neanche una parola di scusa verso il marito. Evidentemente trincerata nella sua golosità e nel suo egoismo il resto per lei non contava niente.
69
Il nostro gruppo familiare
Per nostro gruppo familiare intendo noi quattro e la zia. Mia nonna era di una famiglia contadina di Ruscello. Da giovane doveva essere stata una gran bella donna e all’epoca, siamo intorno al 1890, sposò abbastanza giovane un artigiano che per condizione era qualche gradino più in alto nella scala sociale. Mio nonno, aiutato da due garzoni, esercitava la mascalcia e la custodia degli animali nel fondo che aveva nella casa di proprietà al numero 36 e 34 di via S. Clemente a trenta metri dalla porta. All’epoca il posto era particolarmente idoneo per tutti quelli che venivano al mercato del sabato dalle camperie a nord di Arezzo e dal Casentino. Ventenne aveva fatto il militare in cavalleria con il grado di sergente maggiore quale responsabile della ferratura dei cavalli del reggimento. Mia nonna aveva solo diciotto anni
e
la
numerosa
famiglia
contadina
cui
apparteneva fu contentissima di liberarsi di una 70
figlia, una bocca da sfamare in meno. Da quello che ricordo aver sentito dire da mia madre fu un grande amore da cui ebbero quattro figli, nell’ordine: Natalina, Armando, Angiolino, Cesarina. Poi mio nonno, ancora giovane, morì nel 1905. Non ho mai saputo di cosa fosse morto. Mia nonna da
ragazzino
mi
portava
con
lei
al
cimitero,
ovviamente a piedi, dove insieme al marito c’era anche il figlio Armando morto nel 1923 di tumore alla gola. Rimasta sola a trentatré anni con il problema e la responsabilità di quattro figli da quindici a cinque anni doveva trovare il sistema di sbarcare il lunario. Riuscì a ottenere dallo stato la gestione della privativa di S. Clemente e affittò la gestione
dell’attività
del
nonno
a
uno
che,
interessato, si era presentato per continuarla. Così la famiglia poté andare avanti con tutti i problemi di una famiglia con quattro figli con caratteri ed esigenze diverse. I due maggiori, Natalina e Angiolino dai caratteri ribelli, tirati per i capelli, non andarono oltre la sesta elementare. I due minori, zio Armando e mia madre presero la licenza di scuola media superiore: zio Armando di ragioniere e mia madre di maestra. Lo zio
Armando
lavorò
per
due
o
tre
anni
poi
sopraggiunsero i gravi motivi di salute che lo 71
distolsero per gli ultimi tre o quattro anni da una vita normale. Quando mia nonna mi portava al cimitero,
rispondendo
raccontava
dell’anno
Pietrasanta
nel
alle
mie
passato
tentativo
di
domande, in
trovar
Versilia
mi a
giovamento
dall’aria del luogo. Visti dal punto di vista odierno, quegli anni dovettero essere un calvario per mia nonna oltre che dal punto di vista degli affetti anche dal punto di vista economico, poiché allora non esistevano assicurazioni sociali per le malattie, con la preoccupazione per il figlio e la gestione della tabaccheria. Tutto fu comunque affrontato con grande
serenità
e
fede
da
parte
sua,
che
traspiravano dalle parole del racconto anche a distanza di anni. Mia madre si diplomò maestra nel 1917 all’età di diciassette anni. All’epoca, per esercitare come maestra
nelle
scuole
del
Regno,
si
doveva
frequentare un anno di tirocinio in una scuola fuori della provincia di residenza. Mia nonna disse chiaro e tondo a mia madre che andare fuori di casa, fino al compimento del ventunesimo anno, era impossibile. Così mia madre aspettò pazientemente e, a ventuno anni compiuti, nel 1921 andò in una scuola elementare
di
Caserta
dove
stette
un
anno,
riportando il diploma d’abilitazione all’esercizio della 72
professione di maestra, i testi di svariate canzoni napoletane, edizioni Bideri, e la ricetta della minestra maritata. Mia madre fu quella che durante la malattia dello zio Armando aiutò maggiormente la nonna nella conduzione della tabaccheria. La zia Natalina, come ho già detto, era un temperamento ribelle che mal si era adattata a prendere la licenza di sesta elementare. Con zio Angiolino
erano
in
continuo
conflitto
di
comportamenti e d’idee. Il conflitto poi si acuì dopo che mio zio, tornato dalla guerra, cominciò a simpatizzare per il partito fascista. Era, come mia nonna, una bella donna, ma di una bellezza aggressiva e già a quindici anni quando era morto mio nonno, aveva i suoi ammiratori. Così nel 1908 a diciotto anni si sposò con Stenio Benincasi, un ragazzo del giro di S. Clemente. Credo fosse laureato in legge. Ebbero due figli Alma nel 1909 ed Enzo nel 1912. All’inizio della guerra lo zio fu richiamato. Era ufficiale di cavalleria, e come fecero in molti, a un certo punto decise di arruolarsi nei reparti della nascente aviazione. Fece quindi tutta la guerra in aviazione, e quattro giorni dopo l’armistizio si schiantò al suolo vicino a Sesto Calende con il suo biplano trimotore da bombardamento Caproni Ca44,
73
incendiandosi. Così mia zia si trovò vedova a ventotto anni con due figli. Dicevano che lo zio Stenio, nella vita civile, fosse molto amico dell’avvocato Maggi, tanto da pregarlo, quando si arruolò in aeronautica, di curarsi di mia zia nel caso gli fosse successa qualche cosa in guerra. Questo è quanto ho sentito dire in famiglia sulla
relazione
tra
l’avvocato
e
mia
zia.
Personalmente ritengo che non vi fosse alcuna raccomandazione da parte di mio zio Stenio, ma solo delle considerazioni sui possibili sviluppi della sua attività aerea con un amico con cui si confidava. La relazione tra mia zia e l’avvocato Maggi si svolse nell’arco di due anni con la soluzione finale di vivere insieme more uxorio. Per quei tempi per una donna era una situazione difficile da affrontare di fronte alla gente che guardava e giudicava. Mia zia, nonostante la disapprovazione di mia nonna, ebbe la forza di fare questa scelta e così anche per ragioni di lavoro dell’avvocato andarono ad abitare a Firenze in un villino stile neorinascimentale con un ampio giardino in via Pietro Tacca. Sono
obbligato
a
questo
punto
a
parlare
dell’avvocato Maggi, non perché appartenente alla nostra cerchia familiare, ma perché, come compagno di mia zia, era in ogni caso influente nei nostri 74
rapporti familiari. Non lo era stato per più di venti anni, ora durante lo sfollamento, vivendo gomito a gomito, non potevamo ignorare la sua presenza nei rapporti con la zia. Questa, a causa della presenza della sua famiglia nella villa, si sentiva più forte nei rapporti con lui, ma il buon senso di mia nonna la richiamava alla realtà ricordandole che comunque lei doveva rispettare la scelta che aveva fatto venti anni prima. L’avvocato Maggi era un uomo intelligente e astuto. Esercitava la professione, non solo ad Arezzo, ma anche a Firenze, e Bologna. Qui aveva un referente:
l’avvocato
Emiliani.
Credo
fosse
un
civilista puro e l’enorme patrimonio che si era fatto con la sua professione, penso fosse anche il frutto di pagamenti in natura dei suoi clienti. Era un uomo gaudente con le donne e con il cibo. Si diceva che avesse avuto diverse relazioni, anche quando stava con mia zia, ma tutte non duravano più di un anno, un anno e mezzo. Io lo conobbi la prima volta in una delle visite che facevamo a Firenze alla zia almeno una volta l’anno, ma ero un ragazzino e non riuscivo a ricordarlo bene. Quando lo conobbi nel periodo dello sfollamento, era un uomo che aveva forse l’età di mia nonna e assomigliava vagamente a uno dei ritratti del Rossini del periodo parigino. “Strana 75
rassomiglianza”,
pensai
tra
me,
“due
gaudenti
gastronomici”. Di fede politica era un liberale come tutti i professionisti proprietari terrieri di allora e non era stato certo un simpatizzante del regime. Nelle conversazioni della cena e del dopocena era molto interessato a conoscere l’entità delle proprietà terriere della provincia e per questo mio padre gli era molto utile perché gli forniva tutte le informazioni utili quali reddito agrario, dominicale e superficie della proprietà con le pertinenze. Lui ascoltava con gli occhi semichiusi, sembrava che non vedesse, ma al contrario questo era un modo di concentrarsi. A giudicare dalle foto o meglio dai dagherrotipi che c’erano nella villa, era stato in gioventù un uomo di corporatura notevole e abbastanza bello. Ora nella vecchiaia aveva messo su un po’ di pappagorgia.
76
Il Pierozzi e l’Annina
A questo punto devo parlare di questi due personaggi protagonisti di quel periodo così difficile e tribolato. “Il Pierozzi”, questo era il suo cognome con cui tutti lo chiamavano, era il secondogenito di una famiglia contadina, che conduceva il podere di Cà delle Suore. Il fratello maggiore, alla morte del padre, era
diventato
il
capoccia
e
lui,
secondo
la
consuetudine delle famiglie di mezzadri, doveva sottostare alla sua autorità. Mi sembra che ci fossero altri fratelli e sorelle in famiglia che però avevano scelto di uscire di casa, o come operaio nelle fabbriche i maschi, o come spose in altri poderi le femmine. Il Pierozzi, invece, si era sposato ma non aveva avuto figli, per questo era rimasto in casa. Quando l’avvocato era venuto ad abitare ad Arezzo ebbe l’opportunità di servirlo in forza della sua cultura coltivata con abnegazione e della sua figura elegante. Era, infatti, il classico tipo di toscano, 77
biondo, alto, magro e ben curato, quasi inglese. Aveva
frequentato
le
scuole
d’avviamento
professionale. Non s’impomatava i capelli ma li aveva sempre ben ondulati e pettinati con due favoriti che ricoprivano buona parte delle guance. Vestiva con un vestito di velluto a coste di color marrone o altre volte di colore verde marcio. La giacca era una cacciatora,
i
pantaloni
alla
cavallerizza
non
abbondanti che s’infilavano in stivali marroni flosci chiusi da una lunghissima stringa allacciata sul davanti. Sotto la giacca portava il panciotto che copriva la camicia e la cravatta e per finire un berretto a quadri alla Sherlock Holmes. D’inverno aggiungeva a tutto questo un tabarro. A dire il vero quando lui e l’avvocato partivano in calesse per recarsi al tribunale o a qualche altra parte, il tabarro lo indossavano entrambi per proteggersi dal freddo. I tabarri, forse acquistati in Emilia dall’avvocato quando frequentava a Bologna l’avvocato Emiliani, avevano due aperture all’altezza della cintura per consentire il passaggio delle mani con le quali il Pierozzi doveva guidare il cavallo. Quando poi era molto freddo, si aggiungeva sopra le gambe una coperta di lana a grandi riquadri. Il compito del Pierozzi era di tenere pulito e lustro il calesse, il che, con le strade di allora, era 78
abbastanza gravoso perché a ogni uscita d’inverno s’inzaccherava e d’estate s’impolverava. Poi doveva accudire la cavalla dandole la biada, ma anche pulirla strigliarla per renderle il pelo più lucido. La cavalla, una baia balzana da due e una stella bianca in fronte, si chiamava senza troppa fantasia Stella ed era sistemata nella sua stalla cui si accedeva dal cortile della fattoria e non dalla villa. Il Pierozzi, non appena aveva staccato il calesse, si premurava di accompagnarcela. Il motivo di questa premura, come ho già detto, era di evitare che la Stella facesse i propri bisogni nel porticato della villa davanti alla porta d’ingresso e alla cucina. In questo caso la pulizia del pavimento in pietra era una cosa lunga e complicata
perché
l’odore
degli
escrementi
del
cavallo è molto acuto. Poi, quando il Pierozzi aveva terminato di accudirla, saliva nello studio a portare la cartella con i documenti chiedendo all’avvocato se ci fossero altre comande e, se l’avvocato lo lasciava libero, andava ad aiutare le donne in cucina. Allora si trasformava. Si toglieva la cacciatora, arrotolava le maniche della camicia fino al gomito e si metteva una pannuccia che era esclusivamente sua, nessun altro o altra poteva indossarla. In genere le cose che faceva erano: prendere l’acqua pompandola dal pozzo, lavare i catini in cui erano state lavate le 79
verdure, andare nel ripostiglio a prendere le patate, i fagioli, la legna per il camino e per le stufe della villa e così via. Venerava mia zia perché, conoscendo bene il suo padrone, ammirava la sua dedizione nel servirlo e farlo contento. Per questo tutto quello che mia zia gli ordinava, trovava ampia soddisfazione presso di lui. In genere a sera andava a dormire a Cà delle Suore in bicicletta e tornava il mattino presto, ma quando d’inverno il tempo era inclemente, si fermava
a
dormire
in
villa.
Era
un
uomo
impenetrabile e non confidava a nessun altro i rapporti che aveva con i varî componenti la famiglia. Non rideva mai, ma sorrideva. Per questo era apprezzato da tutti. Il casiere della villa non lo sopportava, perché lo giudicava con il proprio metodo di valutazione delle persone, mosso da un misto d’invidia e accidia. L’Annina era la sorella del Dragoni, mezzadro del podere sopra la villa. La famiglia Dragoni era costituita dalla madre del Dragoni, che avrà avuto circa settantacinque anni e da lui capofamiglia con la moglie e due figli, era quindi una piccola famiglia commisurata alle esigenze del podere anche questo piccolo e di scarso reddito. Saranno stati sei, sette ettari di campi che avevano il vantaggio d’essere intorno alla casa, con una gran quantità d’ulivi e per 80
il resto coltivati a grano. Per questo il Dragoni era costretto ad acquistare il vino per il suo fabbisogno perché due tentativi di messa a dimora di quattro filari di viti erano andati a vuoto. All’epoca la resa di un ettaro di seminativo, nonostante la battaglia del grano voluta da Mussolini, era intorno ai quindici quintali. In queste condizioni non c’era da stare allegri sul rendimento complessivo della terra per il sostentamento della famiglia. Nei campi sotto la casa e sopra il santuario del Giuncheto, approfittando della presenza di una falda superficiale che rendeva il terreno umido,11 il Dragoni aveva realizzato un orto che sopperiva ai fabbisogni della famiglia sia d’estate che d’inverno. Era lì che noi ragazzi andavamo a divertirci per passare un po’ di tempo. Ovviamente nel podere c’era un pollaio ed un paio di maiali cui accudiva Donatino il più piccolo dei fratelli. L’Annina era una ragazza, come si dice oggi, intorno ai 30 anni, all’epoca già vecchia per il matrimonio. La venuta da Firenze dell’avvocato e di mia zia alla metà di settembre del ’43 fu un sollievo per la famiglia Dragoni. L’Annina fu chiamata in villa per aiutare mia zia nei lavori domestici. Per questo, oltre che il 11
Ancora oggi la presenza superficiale dell’acqua è testimoniata dalla presenza di una vegetazione di canne, allora molto folte, da cui il nome Giuncheto,
81
vitto, riceveva un modesto salario che costituiva una piccola dote e che l’aiutava a confezionarsi anche il corredo per quando si fosse sposata. Non so quanto dei suoi risparmi si salvò con l’inflazione galoppante del dopoguerra. Dormiva in villa solo quando era cattivo tempo e fare i trecento metri tutti sul crinale della
collina
diventava
un’impresa
ardua
con
qualsiasi ombrello. Mia zia era una cuoca bravissima, ma in cucina non lasciava spazio agli altri per questo l’Annina si limitava alle pulizie della villa, ben inteso alle sole parti abitate dall’avvocato e da mia zia, che a dire il vero non erano poche: la cucina, la sala da pranzo al primo piano, la sala contigua e al secondo piano la camera da letto e la sala di transito. In biblioteca l’avvocato non voleva intrusi e mi meraviglio che all’epoca accettasse la mia presenza per scrivere le comparse. Gli ospiti sfollati della villa pensavano alle pulizie delle stanze che occupavano. Poi c’era il bucato, fatto alla solita maniera con il ranno una volta la settimana in uno dei locali vicini alla limonaia e al deposito della legna. Quando arrivammo alla villa le cose cambiarono per l’Annina. Come già detto mia nonna s’insediò in cucina e contrariamente a mia zia, faceva partecipi della preparazione dei cibi tutte le donne che 82
avevano a che fare con la cucina, così l’Annina ebbe modo d’imparare molti piatti diversi da quelli della sua tradizione familiare contadina cui era abituata. Ma la cosa che le portò maggiore arricchimento per le sue conoscenze, fu l’attenzione per le cose che faceva
mia
madre.
Dopo
il
pranzo
c’era
la
rigovernatura delle stoviglie e la pulizia della cucina che terminava intorno alle tre del pomeriggio. A questo punto, fino alle sei del pomeriggio, i lavori subivano una tregua e per questo l’Annina aveva a disposizione
quelle
due
o
tre
ore
che
prese
l’abitudine di passare con mia madre nel salotto al primo piano accanto alla sala da pranzo. Qui mia madre si ritirava a lavorare a maglia, a cucire, a leggere o a passare il tempo in altro modo. Delle volte anche mia zia cercava di stare con lei, ma il diverso carattere non la tratteneva a lungo con mia madre. Mia zia, quando il tempo lo permetteva, preferiva controllare il pollaio, l’orto e la dispensa. I ferri e l’uncinetto non erano roba per lei. Fu così che mia madre trovò un’allieva attenta e interessata nell’Annina.
Mia
madre,
nelle
numerose
estati
passate in campagna con mio padre e me, aveva imparato molte cose dai contadini che avevamo frequentato. Aveva per esempio imparato a filare la lana di pecora e fu così che mi fece le maglie da 83
inverno in sostituzione di quelle che ormai mi andavano strette. Questi lavori per mia madre erano una necessità per distogliersi dall’ansia della guerra che l’attanagliava. Quando l’Annina andava nel salotto e si metteva a guardare quello che faceva mia madre chiedeva spiegazioni a non finire. Mia madre alla fine decise, dopo averle insegnato un po’ di cose, di farle fare dei lavori che fossero utili per il suo corredo. L’Annina era al settimo cielo e fu così che nacque la sua ammirazione e devozione per mia madre. In quei momenti in cui stavano insieme, parlavano tra loro e l’Annina si confidava parlando della sua famiglia. Oggi a posteriori posso dire che tra le due era nata una profonda amicizia. In lei mia madre aveva trovato una persona attenta che la ascoltava e comprendeva le sue paure, forse più di mia zia. Delle volte, la consanguineità non consente questi risultati nei rapporti tra le persone. In questo modo passarono le giornate di mia madre nei mesi dello sfollamento a San Polo.
84
Gennaio 1944
L’inverno non fu molto freddo, ma abbastanza piovoso. La vita continuava alla solita maniera per tutti. Noi ragazzi eravamo in sei e precisamente il figlio del casiere che aveva la mia età, i figli del giudice Liberti, dei quali ho già parlato, io e i figli del Dragoni. I figli del Dragoni si chiamavano Pietrino e Donatino. Pietrino, il più grande aveva circa undici anni
e
Donatino
intorno
ai
nove
anni.
Caratterialmente erano due opposti. Pietrino un ragazzo ragionevole e intelligente avrebbe volentieri studiato, Donatino invece era attaccato alla roba, forse
più
incredibile
dei
Malavoglia12,
come
dimostrò
con nei
una mesi
tignosità successivi
quando i tedeschi cominciarono a razziare i pollai, porcili, stalle e alberi da frutta come il 24 giugno di cui parlerò in seguito. Dal punto di vista dei bombardamenti fu un mese tragico per Arezzo. Gli 12
Mi riferisco al libro di Giovanni Verga
85
alleati fermi a Cassino avevano deciso lo sbarco d’Anzio e così iniziarono a bombardare con frequenza i collegamenti ferroviari della Toscana. A gennaio Arezzo fu bombardata il 7, il 15, il 22 ed il 27, 28 in notturna con bombe a scoppio ritardato. Infine il 7 febbraio, per un errore di sgancio, ci fu una strage di residenti e sfollati a S. Firmina. Da San Polo si assisteva
al
bombardamento
immaginando
lo
scempio della città. Nei giorni di tregua c’erano sempre persone che andavano in città e al ritorno passando davanti alla villa ci raccontavano delle nuove distruzioni. Gli sfollati che abitavano le case a mezza costa sopra San Polo si avviavano la mattina verso le sette o le otto al massimo verso Arezzo, ovviamente a piedi o in bicicletta, alcuni con un carrettino a mano. Verso le undici tornavano verso casa. Io notai un paio di persone che all’andata avevano il carrettino scarico e al ritorno sempre carico di masserizie. La cosa andò avanti per molti giorni tant’è che alla fine pensai che le masserizie non potessero essere solamente di loro proprietà. Evidentemente il controllo in città dello sciacallaggio, nonostante fosse strombazzato dai manifesti della federazione fascista, non esisteva. In quel mese gli alleati cominciarono a spostare i loro obiettivi sui ponti della Chiana e sul viadotto del 86
Palazzone. Ma mentre i primi due erano bersagli difficili, in quanto di forma lineare, il Palazzone era un bersaglio più facile, perché in un’area abbastanza larga c’erano i ponti della ferrovia e i tornanti della strada nazionale con altri ponti, quindi in ogni caso si riusciva a colpire qualche cosa. I bombardamenti su
questi
due
obiettivi
continuarono
fino
alla
liberazione con nessun risultato per i due ponti della Chiana. Da febbraio proseguirono i sorvoli delle squadriglie di bombardieri. Venivano da Foggia e passavano sorvolando le nostre teste in direzione di Montauto-Catenaia oppure in quella del Pratomagno. Secondo l’ora del sorvolo facevamo il conto della possibile
distanza
dell’obiettivo,
perché
ormai
sapevamo che per problemi di puntamento le squadriglie si dovevano trovare sull’obiettivo intorno a mezzogiorno. La sera, radio Londra ci diceva che erano state bombardate città dell’Austria o del nord est dell’Italia nel primo caso e nel secondo città portuali del Tirreno o del nord ovest dell’Italia come Torino. Un paio di volte gli aerei ci sorvolarono a centinaia, questa volta la mattina intorno alle otto. I conti per noi non tornavano, ma poi si seppe che quella volta era toccato a Francoforte. Il mese di gennaio fu anche il mese delle visite strane in villa. Ovviamente si sapeva che l’avvocato 87
Maggi era persona facoltosa e così qualcuno pensò che fosse una specie di bancomat. Una sera verso le otto avemmo la visita di un partigiano. Era Justin Meuret tenente dell’esercito belga, prigioniero di guerra evaso, che si era arruolato in una formazione partigiana di stanza a Pietramala. Era sceso al basso per visitare l’avvocato e chiedere contributi in denaro. Cavalcava un cavallo bianco. “Meglio di così non poteva fare per farsi notare” pensai io. Lasciò il cavallo nell’androne destando la contrarietà del Pierozzi
e
salì
nello
studio
con
l’avvocato.
Confabularono per una mezz'ora e poi se né andò. Il giorno dopo l’avvocato chiamò il fido Pierozzi e l’incaricò mezzadri
di
passare
di
Evidentemente,
nei
Quarantola, oltre
che
giorni
successivi
Pomaio denaro,
e erano
dai
Gello. stati
concordati anche aiuti in natura che potevano essere ritirati dai partigiani presso quei poderi. La mia osservazione sul cavallo era pertinente. Infatti ricordo che alcuni giorni prima o dopo questo episodio, uscendo sul piazzale antistante la villa, vidi un cavallo bianco sullo spiazzo del podere di Tubbiano, ad una distanza in linea d’aria, di circa un chilometro e mezzo, quindi quella sera il cavallo bianco non poteva non essere stato notato, anche se era di notte, e così si sparse la voce. 88
Dopo due settimane ci fu una visita della Guardia Nazionale Repubblicana. Si sapeva che l’avvocato non
era
un
simpatizzante
e
quindi
si
volle
intimorirlo. Era una squadra di cinque energumeni, di più non potevano essere contenuti nella macchina con cui erano venuti. Tra questi c’era Birigo, un nano noto ad Arezzo per la sua statura e per le sue imprese nei bordelli della città. L’uniforme della Guardia Repubblicana con i pantaloni, tenuti alle caviglie dal risvolto dei calzettoni bianchi, corti a causa della sua statura e la giacca di lunghezza normale ne facevano una figura grottesca. A quanto disse mia zia, sembra che quando entrarono nello studio si togliessero il basco segno evidente di un residuo di riverenza nei riguardi dell’avvocato. Anche se non fu detto da nessuno, la visita si concluse con l’elargizione di una congrua somma in danaro. Erano venuti urlando con i mitra in mano e se ne andarono salutando. A
posteriori
ritengo
che
l’avvocato
fosse
preoccupato per visite successive, che erano state promesse dai militari quando se ne andarono, e siccome al momento le sue disponibilità liquide non erano infinite fu deciso di far venire ad Arezzo da Firenze mio cugino Enzo.
89
Enzo era nato nel 1912 e aveva sei anni quando suo padre morì a Sesto Calende. Dei due figli di mia zia era quello che, crescendo, sopportava con malessere la condizione di sua madre, per questo era stato sempre ribelle e indipendente, era comunque caratterialmente figlio di sua madre. Aveva studiato in collegio al Cicognini di Prato conseguendo il diploma
di
economia
e
ragioniere.
Poi
commercio
nei
si
era primi
laureato anni
in
della
ricostituita università di Firenze. Così il regime nascente lo aveva attratto sin dagli inizi e pertanto era un fervente fascista e questa professione di fede credo fosse per lui una specie di contestazione al mondo borghese che giudicava sua madre. Si era iscritto alla società Assi Giglio Rosso dove aveva fatto atletica leggera e credo avesse partecipato anche ai ludi universitari della cultura e dell’arte dopo che Pavolini li aveva istituiti. Non aveva mai ricoperto incarichi nel partito, né voleva ricoprirli ora con la R.S.I.,
ma
aveva
amici
influenti.
Quando
gli
telefonarono e gli dissero cosa era successo, venne ad Arezzo con due di loro su un’Ardea con i parafanghi verniciati di bianco. Era la metà di febbraio del 1944. Ascoltarono l’avvocato e poi si assentarono con l’auto per tutta la mattinata. Credo fossero andati a parlare con qualcuno del partito di 90
Arezzo. Evidentemente la persona era influente perché visite successive della Guardia Nazionale Repubblicana non se ne ebbero più. A gennaio ci fu il processo di Verona che seguimmo alla radio. Fu una cosa brevissima che si concluse tragicamente, come tutti sanno, il giorno 11. Anche questo fu argomento delle conversazioni dei dopo cena. Mia nonna disse che “qualunque cosa Ciano avesse fatto non si meritava quella fine”.
91
I passatempi di noi ragazzi
Nei primi tempi dello sfollamento noi ragazzi ci si riuniva in una spianata intorno alla villa. I lavori d’ampliamento di questa proseguivano verso sud su un appezzamento di terra molto grande che arrivava a circa cinquanta metri dalla strada comunale che va dal Santuario della Madonna del Giuncheto verso il cimitero e la Pieve. L’appezzamento era alla stessa quota dell’orto della villa e dell’androne. Per realizzare tutto questo erano stati fatti lavori di sbancamento non terminati. Un enorme cedro del Libano, che si trovava a metà dell’appezzamento, fu salvato lasciando il terreno intorno ad esso a una quota di un metro e mezzo superiore a quella dello scavo. All’estremità sud, di quello che avrebbe dovuto essere in futuro il giardino, c’era un muro di sostegno in pietra con una grande apertura al centro da cui iniziava il viale di accesso alla villa dalla parte del Giuncheto. La 92
superficie
del
terreno
era
prevalentemente
bisciaio,
prevalentemente
argilla.
in in Qui
parte parte ci
di
scavo,
di
riporto,
si
riuniva
divertendoci a convogliare le acque di scolo del terreno sovrastante in canaletti e dighe.
Santuario della Madonna del Giuncheto
Siccome il gioco non era pulito e spesso, almeno i signorini di città tornavano infangati, specie i due Liberti, le relative madri si facevano sentire e qualche volta menavano. Così questo gioco fu abbandonato anche perché a metà febbraio le piogge diradando non fornirono più l’elemento per giocare. Si decise allora di fare sotto il muro di sostegno dell’appezzamento di terreno una specie di biliardo 93
con nove buche, lungo una dozzina di metri e largo due. Impiegammo qualche giorno per realizzare l’opera. I fratelli Dragoni portarono una zappa e una vanga. Si doveva prima spianare il terreno poi trovare l’argilla da gettarvi sopra, poi rifinire la superficie
affinché
una
biglia
d’acciaio
potesse
scorrervi. Il gioco consisteva nel depositare nelle nove buche cose di proprietà di ciascuno, quali ad esempio
figurine,
carielle,
bollini
ecc.
Questi
divenivano proprietà di chi, tirando, andava in buca. Presto si cominciò col sostituire quegli oggetti con gli spiccioli che ciascuno aveva in tasca. Ma quell’anno a Natale, io non ebbi lo scudo da mia nonna né potevo fare un po’ di cresta sulla spesa. Gli altri erano più squattrinati di me e così anche questo gioco terminò per mancanza di risorse. Rimasero le battaglie che si facevano con una squadra di coetanei di San Polo basso. Il terreno di scontro era intorno al Giuncheto. Per questo decisi di approntare delle bottiglie tipo Molotov. Nella stanza della villa dove si dormiva c’era una ribaltina con molti cassettini segreti, ma dopo due o tre giorni avevo esplorato tutto e la ribaltina non aveva più segreti per me. Qui erano stati riposti i residui di miccia e polvere nera con cui erano state confezionate le mine per i lavori di sbancamento 94
della parte nuova della villa. Ce n’era una discreta quantità. Presi dalla cucina quattro bottiglie di gazzose
vuote,
riutilizzate
per
la
conserva
di
pomodoro, e con queste fabbricai le prime quattro Molotov. Bastava accendere con un fiammifero il mozzicone di miccia che fuoriusciva dal collo. Il tempo d’esplosione era di circa sette otto secondi. Le bottiglie che confezionai funzionarono. Provai le prime due nello spiazzo lontano dalla villa e quando vidi che la cosa funzionava decisi di farne partecipe il solo Pietrino Dragoni. Andammo insieme in mezzo ad un campo abbastanza lontano dalle case e gli feci vedere il ritrovato. Pietrino fu soddisfatto della fiducia, poi però alla fine decidemmo insieme di non farne nulla. Le ordinanze della R.S.I. impedivano la detenzione e l’utilizzo d’armi da fuoco e di materiali esplodenti. Così con i nostri nemici di San Polo basso continuammo la guerra con armi di legno, fionde e sassi. Questo fu nei primi due mesi di sfollamento. Poi, con il passare del tempo, cominciai a frequentare assiduamente la casa dei Dragoni, scocciato dei due Liberti che, come ho avuto occasione di dire, erano due ragazzini tignosi e rompiscatole. Sicuramente questa mia scelta era dovuta anche alle mie abitudini contratte negli anni della fanciullezza. 95
Infatti, ogni anno per tre mesi d’estate con mia madre seguivamo mio padre nelle peregrinazioni di lavoro nella provincia d’Arezzo sempre in un posto nuovo. Così d’estate facevo nuove amicizie, di solito ragazzi di contadini, con i quali passavo il mio tempo aiutandoli nelle loro incombenze, perché anche i ragazzi dei contadini allora contribuivano ai bisogni del podere. Questa per me era stata una buona palestra che mi aveva insegnato molte cose sulla vita di campagna. Ora preferivo passare il tempo con i Dragoni aiutandoli nell’orto, nel governare i polli e i conigli e nel fare il segato. Gli ortaggi che si coltivavano erano le rape, già seminate ad agosto, e poi le bietole, gli agli, le cipolle, i cardi, le verze e i finocchi. A marzo e aprile si andava per i campi a raccogliere l’insalata di campo e la rucola. Trovavo queste incombenze più interessanti di qualsiasi gioco che si potesse organizzare. Nel mese di Aprile andai a pescare i granchi d’acqua dolce nel fosso di Santa Lucia, che poi mia nonna ci cucinò. La casa del Dragoni era distante dalla villa circa trecento metri. Per arrivarvi bisognava salire per la strada comunale verso monte per duecento metri e poi voltare a destra per una strada vicinale che, in cento metri, portava alla casa. Questa era una bella casa contadina di recente costruzione. Sul lato ovest, dove 96
si arrivava, c’era uno spiazzo abbastanza ampio, ma prima di arrivarvi c’era una deviazione a sinistra che saliva all’aia del podere, posta a una quota eguale a quella del primo piano della casa. Al piano terra, come di dovere, c’erano le stalle, il forno e la scala che portava al primo piano. Qui c’era l’abitazione del mezzadro, ma anche, nella parte posteriore, un fienile sopra le stalle delle bestie. Al fienile si accedeva dall’aia. Per la costruzione della casa era stato sbancato un greppo di bisciaio per un’altezza di circa tre metri e mezzo lasciando, tra il terreno e i muri della casa, uno scannafosso della stessa altezza. Il panorama che si godeva dalle finestre del primo piano della casa era magnifico, dominando tutta la piana di Arezzo. Qui preferivo passare il mio tempo libero con Pietrino e Donatino lavorando insieme all’orto e, quando i due ragazzi erano privi d’incombenze, a mettere insieme qualche gioco con le carielle o le figurine. Queste ormai erano consunte perché con la guerra la collezione non era stata aggiornata o rinnovata. Da
gennaio
i
tedeschi
avevano
messo
in
postazione intorno ad Arezzo dei gruppi della Flack13 con batterie da 88 con il compito di fare fuoco di 13
Artiglieria controaerei
97
sbarramento contro i bombardieri alleati. Anche se nessun bombardiere era stato abbattuto, questi gruppi antiaerei davano noia alle azioni alleate, così dalla fine di marzo si cominciò a vedere nel cielo d’Arezzo caccia bombardieri alleati che volavano a bassa quota in cerca di queste postazioni. Ricordo un pomeriggio dei primi d’aprile quando un caccia bombardiere attaccò un gruppo della Flack, posto in batteria tra Villa Rada e il Tramarino. Mi trovavo nella cucina al primo piano della casa Dragoni e vidi il caccia che attaccava e che sganciava le due bombe, che dovevano essere abbastanza grandi, perché dopo poco sentii il giubbetto che indossavo gonfiarsi per lo spostamento d’aria. Poi l’aereo per disimpegnarsi in cabrata virò a sinistra passando sopra le nostre teste. Riuscii a vedere la sagoma del pilota al posto di guida. Subito dopo mi resi conto che, noncurante di un possibile mitragliamento da parte dell’aereo, ero rimasto tutto il tempo a godermi lo spettacolo. Era evidente che, rispetto al tredici di novembre, avevo fatto notevoli progressi acquistando sicurezza. Oggi a posteriori osservo amaramente che questo era dovuto alla mancanza d’influenza diretta che ormai mia madre non aveva più su di me. Inoltre, in quel periodo, stava arrivando la pubertà con la peluria sulle guance ed un balzo di statura 98
notevole. Questo costrinse mia madre a provvedere per nuovi pantaloni alla zuava e nuove maglie di lana. Per i primi trovò l’aiuto di una sarta di San Polo e utilizzò un taglio di lana, che previdentemente era stato acquistato dal Turchini14 anni prima. Per questi tutto filò liscio. Per le maglie invece, fatte con lana grezza di pecora, che mia madre aveva imparato a filare, fu tutto più complicato. Il risultato fu disastroso perché fui costretto a interporre una maglietta di cotone tra la maglia di lana e la pelle per evitare il forte prurito che la lana grezza di pecora mi causava. Ai primi di marzo si seppe dai giornali che le scuole medie erano state trasferite alla villa Redi di Piscinale e che alla metà di maggio si sarebbe sostenuto l’esame di licenza media per gli alunni della terza. Mia madre si oppose alla mia frequenza a Piscinale. I cinque chilometri in bicicletta da San Polo erano ormai troppo pericolosi, in quanto, già da febbraio,
aerei
da
caccia
alleati
ogni
tanto
sorvolavano a bassa quota la campagna. Si ripiegò, allora, su una soluzione mista. Fu deciso di andare a ripetizione
dalla
professoressa
Pederzoli
che
insegnava latino e greco al Ginnasio e che era Il Turchini era il proprietario di un negozio di tessuti in via Oberdan 14
99
sfollata ad Antria. Così andai ad Antria tre volte la settimana a ripetizione di Latino ed Italiano. Per la matematica e la geometria m’impegnai solennemente con mia madre di provvedere autonomamente. Da allora la mia autonomia di studio fu totale e mia madre
non
mi
seguì
più
come
prima
dello
sfollamento. Anche questo era un segno del suo allontanamento lento e graduale da quelli che erano i rapporti familiari. Il resto delle materie era poco importante. I libri, che utilizzavo, erano quelli del secondo anno, la grammatica e la sintassi latina erano sempre quelle e sempre valide, e poi quelli che erano in casa già utilizzati da mio padre e da mia cugina Alma. Così con la professoressa Pederzoli fu deciso di utilizzare una copia del De bello Jugurtino di Sallustio. Questo era un autore per il quarto ginnasio o il primo liceo scientifico, che mi avrebbe messo in buona luce nei riguardi della commissione d’esame, come aveva detto la professoressa. Quindi, dall’inizio di marzo, la mia giornata era occupata completamente e il tempo libero che mi rimaneva lo passavo a casa Dragoni. La domenica c’era la messa che Don Lazzeri, il canonico arciprete di San Polo, teneva nel periodo invernale nella vecchia Pieve e nel mese di maggio al santuario del Giuncheto. Alla messa partecipavano 100
in promiscuità gli sfollati e gli abitanti del posto con modalità diverse. I cittadini sfollati partecipavano alla messa in chiesa dall’inizio, i contadini, invece, per vecchia consuetudine, aspettavano tutti sul Sagrato che terminasse la messa dei catecumeni e all’inizio dell’Offertorio entravano in chiesa pure loro. I venti minuti di tempo passati sul Sagrato15 erano occupati oltre che a parlare di lavoro e d’animali, a commentare anche gli ultimi avvenimenti della guerra che erano passati in primo piano. C’era poi un’altra consuetudine della domenica pomeriggio tra i giovani contadini: il gioco della rulla o ruzzola16. Questo era praticato alla fine dell’inverno sulle strade comunali da squadre di quattro o cinque ragazzotti intorno ai diciotto anni. La rulla era un attrezzo
circolare
di
legno
del
peso
di
un
chilogrammo circa. Aveva un diametro di una quindicina di centimetri e una cerchiatura in ferro con un incavo che era l’alloggiamento della funicella che serviva per il lancio. Quello che però era importante per la rulla era la larghezza che aveva in corrispondenza del suo asse di rotazione. Se lo spessore della cerchiatura di ferro era di un 15
All’epoca nel sacrato della Pieve c’erano due croci di ghisa residui di un paio di tombe del secolo precedente. 16 G.G. Belli nel sonetto 201 ha scritto “Er gioco della ruzzica” vedere “I Sonetti”, editore Mondadori 1961, Vol. I° pag. 304.
101
centimetro
circa,
lo
spessore
del
legno
in
corrispondenza del baricentro era intorno ai sette, otto centimetri. L’abilità consisteva nel fare un lancio il più lungo possibile e seguire anche la prima curva che si presentava della strada comunale. Questo era possibile proprio a causa della forma della rulla e dall’abilità del lanciatore. La modalità di lancio era la combinazione di due movimenti che la mano ed il braccio del lanciatore dovevano fare in sequenza rapida. La funicella di lancio, lunga più di un metro, aveva un’estremità cucita a un mezzo dito ricavato da un guanto di pelle infilato nel dito indice del lanciatore. La funicella era avvolta per tre giri nell’incavo di ferro della rulla. Al momento del lancio il lanciatore doveva lanciare in avanti la rulla con forza, ma subito dopo ritrarre rapidamente il braccio per consentire alla funicella di svolgersi rapidamente e dare alla rulla una maggior velocità di rotazione17. Gli altri concorrenti si disponevano lungo il percorso e avvisavano le persone che dovevano passare. Spesso la rulla urtava su un sasso prominente sul piano di MacAdam della strada e faceva un enorme rimbalzo in alto per questo bisognava evitare di prenderla in testa. L’energia del lancio era notevole, 17
Questo provoca un notevole incremento del momento della quantità di moto intorno al proprio asse di rotazione.
102
costituita da due impulsi: uno in avanti e uno di rotazione che consentivano di fare dei percorsi notevoli. Contrariamente a quello che si può pensare oggi, la rulla era un attrezzo costruito con cura e con conoscenze fisiche sperimentali che consentivano quelle prestazioni di cui ognuno era geloso custode.
103
I rapporti in famiglia
La vita durante lo sfollamento aveva un ritmo diverso dalla vita consueta che facevamo ad Arezzo. Eravamo a contatto di gomito con altre famiglie di abitudini diverse dalle nostre e si doveva vivere cercando di evitare frizioni o bisticci. Era abbastanza facile, ma le occasioni non mancavano, specie con la famiglia
del
condizionava
giudice anche
la
Liberti. nostra
Tutto vita
questo familiare.
Dormivamo in quattro in una stanza, anche se grande: mio padre e mia madre nel loro letto matrimoniale in fondo alla camera, mia nonna ed io nell’altro letto vicino alla porta. Mia nonna dormiva tra i miei genitori e me, quasi a costituire una barriera alla loro intimità . Era la prima che si alzava la mattina alle sei e mezzo per scendere in cucina a preparare la colazione. Poco dopo seguiva mio padre che doveva inforcare la bicicletta per andare a Patrignone. Poi seguivo io e infine mia madre. 104
Dovevamo servirci del bagno del secondo piano insieme alla famiglia del direttore Papini, per questo lasciavamo la precedenza al direttore Papini che anche lui doveva andare al lavoro. Come si vede, era una
vita
d’accorgimenti
e
di
condizionamenti
reciproci. Mia madre nella vita, diciamo normale, aveva varî interessi e diverse amicizie e quindi, rinunciandovi, si era dovuta adattare alla vita dello sfollamento. Era una pittrice dilettante che possedeva una discreta attrezzatura per dipingere a olio e aveva cominciato a insegnare anche a me negli anni prima della guerra. Da giovane, prima del matrimonio, aveva dipinto anche a guazzo. Ancora oggi possiedo in casa un piccolo arazzo su seta dipinto da lei. Poi, anche se non aveva modo di dimostrarlo, era una discreta cuoca, mai però come mia nonna. Esercitava questa sua capacità culinaria solo nei periodi estivi, quando per tre mesi eravamo in campagna con mio padre, mentre durante il resto dell’anno la cucina era un’esclusiva di mia nonna. In quei tre mesi d’estate aveva modo di imparare dalle donne dei contadini, che frequentava, i lavori delle massaie e, come avevo sperimentato sulla mia pelle, aveva imparato a filare la lana. Le sue amicizie ad Arezzo erano, ovviamente, le ex compagne di studi e in particolare la cugina 105
Antonietta Grazini maestra anche lei. Inoltre, da quando
era
ragazzina
nella
parrocchia
di
S.
Domenico era in amicizia fraterna con l’avvocato Sante Tani. Mi ricordo che, almeno quattro cinque volte l’anno, andavamo in visita nella sua casa al numero
cinque
s’intratteneva
a
di
via
lungo
Montetini,
con
la
dove
moglie,
lei
quando
l’avvocato non c’era. Io da ragazzino qual' ero avrei preferito fare altre cose, ma alla fine mi riducevo ad osservare con curiosità quelle persone. L’avvocato era l’unico che quando mi vedeva aveva attenzione per me con una carezza o qualche caramella. La moglie, per quello che ricordo, era una bella donna, molto piena di sé e attenta alla cura del proprio corpo. Per questo aveva scarsa attenzione a ciò che non atteneva alla sua persona. Quelle visite borghesi per me erano interminabili e non vedevo l’ora che il tempo passasse rapidamente. Della
mia
concezione
educazione, molto
mia
rigida
madre
della
aveva
propria
una
funzione
d’educatrice e lasciava poco spazio a mio padre, che non se ne dispiaceva e si limitava solamente a portarmi alla partita allo stadio Mancini quando l’Arezzo
era
in
C,
manifestazioni sportive.
106
oppure
a
vedere
altre
Contrariamente a mia madre, non amava il cinema e non ricordo di aver visto qualche film con mio padre. Più
tardi
nella
vita
scoprii
la
ragione
del
comportamento educativo di mia madre. Avevo trovato, tra i libri di casa, uno intitolato “Il canto del cigno” nel quale c’erano tante annotazioni a mano di lei, ma io non lo avevo mai preso in considerazione. Quando, intorno ai trent’anni, mi trovai per lavoro a Zurigo ed ebbi modo di vedere il monumento, che gli zurighesi avevano dedicato a Pestalozzi, mi venne la curiosità di leggere cosa avesse scritto questo illustre illuminista nel campo educativo. Così al mio ritorno in Italia lessi il libro e qualche altra sua opera. Il Pestalozzi esaltava l’educazione materna centrale nel suo concetto di pedagogia, che doveva perseguire per prima cosa l’aspetto morale dell’educazione. Capii allora da cosa derivava la rigidità educativa, fino all’apprensione, di mia madre nei miei riguardi, quasi fosse ispirata da una concezione calvinista del comportamento morale delle persone e nel caso di ragazzi soprattutto nella raccomandazione di lealtà da praticare nei giochi tra i partecipanti. In questo era il contrario di mia nonna che, da buona
107
contadina, cattolica
aveva
una
concezione
che
lasciava adito al perdono. Nonostante
queste
divergenze,
me
la
cavavo
abbastanza bene con tutte e due, meglio, ovviamente con mia nonna. Mio
padre
educazione,
non
credo
interveniva però
che
mai qualche
sulla volta
mia si
confrontasse a quattrocchi con mia madre senza darlo a vedere, soprattutto a me. Lui faceva opera d’alleggerimento, come ho già detto, portandomi fuori alle manifestazioni sportive. Era venuto ad Arezzo nel 1925 da S. Giorgio di Nogaro come impiegato del Catasto per i rilievi topografici delle proprietà fondiarie che il Regime aveva predisposto. Il suo lavoro, durante la buona stagione, era duro. Usciva di casa alle cinque del mattino e rientrava alle cinque di sera dopo aver macinato una ventina di chilometri e forse più. Si trattava di battere la campagna con teodolite e stadie con una squadra di sei persone, fare il rilievo topografico per punti, prendere annotazioni di tutto e abbozzare delle rappresentazioni schematiche. Poi, nella stagione invernale, il tutto era trasformato in mappe catastali. Era una persona seria e affidabile, ma questo non voleva dire che gli mancasse il senso dell’umorismo. Suonava il bangio. 108
Il suo repertorio preferito era una canzone di Armando Gill, in voga all’epoca, che diceva: Chi vuole con le donne aver fortuna Non deve mai mostrarsi innamorato,.. ………. Voglio morire per non soffrire Ma il cuore si ribella Dice e perché? Tante ce n’è La troverai più bella! Insieme a questa c’erano le arie dell’operetta “Al cavallino
bianco”.
Quando
ero
piccolo,
aveva
comprato anche una Guzzi 500 che però fu venduta dopo qualche anno. Mio padre era un repubblicano fervente che veniva da una famiglia di repubblicani. Quando, ogni anno, passavamo una ventina di giorni a S. Giorgio di Nogaro, avevo modo di vedere che alle pareti della casa del nonno erano appesi i dagherrotipi dei bisnonni e degli zii, tutti regolarmente, con il fiocchetto nero. Nonostante le sue idee che divergevano da quelle dello zio Angiolino simpatizzante del regime, e di Enzo che era a suo modo attivista della gioventù universitaria fascista, i legami familiari e il rispetto reciproco erano prevalenti. Mai uno screzio. Zio Angiolino, fratello di mia madre, aveva fatto gli ultimi 109
due anni di guerra nell’artiglieria alpina e, come il padre che aveva ferrato cavalli, lui aveva ferrato muli.
Al
termine
del
conflitto, trattenuto
di
guarnigione per un anno a Verona, ebbe modo di sperimentare le angherie e provocazioni delle sinistre nei riguardi dei reduci. Per questo, quando si costituì il P.N.F. vi aderì immediatamente. Ma come ho detto in famiglia, quando ci si riuniva a Natale e a Pasqua, si aveva il massimo rispetto per i desideri di mia nonna e la politica era bandita dalle discussioni. A metà aprile del 1944 mio cugino Enzo si doveva sposare a Firenze. Era stato deciso che mio padre gli fosse testimone di nozze e quindi che sarebbe dovuto andare a Firenze con mia madre, la zia e l’avvocato. Di questo viaggio, in tempi così pericolosi, gli interessati non ne parlarono molto, poi mia madre me né parlò il giorno prima di partire per Firenze. Alle sei di mattina arrivarono alla villa quattro Lancia
Ardea.
Erano
inviate
dalla
federazione
fascista di Firenze. Due di queste, che erano vuote, parcheggiarono
nell’androne
della
villa,
erano
destinate all’avvocato, a mia zia, a mio padre e a mia madre, le altre due, alla scorta di otto fascisti armati della federazione di Firenze, parcheggiarono nel piazzale
antistante.
Alla
scorta
era
stato
raccomandato di non mostrare troppo l’armamento 110
di cui disponevano. Oggi mi meraviglio ancora di mia madre
che,
così
paurosa
e
terrorizzata
per
i
bombardamenti aerei, ebbe il coraggio di affrontare quel viaggio che era rischiosissimo a causa dei partigiani che ormai operavano in Valdarno. Io e mia nonna rimanemmo a San Polo. So che per arrivare a Firenze, per evitare il Palazzone, presero la strada dei Sette Ponti, poi a Montevarchi ripresero la strada 69 e per S. Donato in Collina arrivarono a Firenze. La strada per Pontassieve era da evitare. Tornarono la sera intorno alle nove. Mio cugino, prima della liberazione di Firenze, partì a metà giugno per il nord dove rimase a Monza per quattro anni. E’ inutile dire che per due anni, fino alla fine del 1945 mia nonna, mia zia e mia madre erano in apprensione per lui e per la sua famiglia. Questo era pressappoco il mondo della nostra famiglia prima della guerra fino al 1944, anno orribile. Poi tutto non sarebbe stato più come prima.
111
Alcuni episodi da aprile a giugno. Sante Tani.
Dopo
lo
sbarco
d’Anzio,
i
comandi
alleati
cominciarono a cincischiare perché i loro generali nutrivano
tra
nazionalità.
di
loro
Passarono
rivalità cinque
personali
e
lunghissimi
di
mesi
senza avvenimenti degni di nota. Al fronte di Cassino e del Garigliano e poi anche sul fronte Pontino, attacchi
e
contrattacchi
si
susseguivano
in
continuazione con il risultato che i paesi della fascia di terra dal mare all’Abbazia e dei monti Aurunci furono completamente distrutti. Questo si capiva dai comunicati di radio Londra, ma chiunque poteva intuirlo. Roma era a soli 150 chilometri dal fronte, ma
sembrava
irraggiungibile.
Mia
madre,
apprendendo queste cose, si terrorizzava sempre più sia per gli eventuali attacchi aerei che per l’arrivo del fronte. Le parole di rassicurazione di mia nonna: “Ma vedrai ce la caveremo come gli altri. Hai visto in Sicilia e a Napoli? Per loro è stato più facile il passaggio del 112
fronte che subire i bombardamenti alleati tutti i giorni ”, ormai non erano più credibili. I tedeschi avevano saputo profittare dell’orografia dello stivale e con poche truppe avevano inchiodato quelle alleate costringendole a una guerra di posizione logorante. L’Italia non è la Francia dove il fattore ambientale non favorisce operazioni militari di contenimento come si vide qualche mese più tardi dopo lo sbarco in Normandia. Così i mesi da febbraio a fine maggio furono interminabili, scanditi dai bombardamenti alleati dei ponti di Pratantico e del Palazzone. Nel mese di aprile un apparecchio da trasporto tedesco fu costretto da un guasto all’atterraggio al campo di Mulin Bianco e una di quelle sere arrivarono alla villa due aviatori tedeschi. Erano a piedi e uno di loro suonava “Rosamunda” con l’organetto. Indossavano l’uniforme grigio-azzurra della Luftwaffe con la giubba a doppio petto e gli stivali neri a mezza gamba. Si erano infilata la bustina nell’abbottonatura della giacca e questo dava loro un aspetto poco marziale. Sapevano dove dovevano
andare
perché,
quando
entrarono
nell’androne della villa e bussarono, uno di loro disse “Cercare Villa Macci perché qualcuno detto noi che qui potere manciare”. Dopo un attimo di 113
perplessità mia zia, che era in cucina, disse al Pierozzi di salire al piano superiore e avvisare l’avvocato. Così i due, quella sera, furono ospiti dell’avvocato. La conversazione era in francese, anche se uno di loro sapeva un poco l’italiano. Parlavano francese l’avvocato, mia madre, mio padre e poco anche mia zia.
Aereo da trasporto - «ME – 323 – Gigant» al Mulin Bianco
Così sapemmo che uno era di Stettino e l’altro di Costanza, agli antipodi della Germania. Quello di Stettino, che conosceva un poco l’italiano e sapeva suonare
l’organetto,
comunicazioni,
l’altro,
era quello
un di
tecnico Costanza,
delle che
parlava ovviamente il francese, era un sergente, credo il pilota. Dopo cena per ringraziare gli ospiti con l’organetto fecero un concertino delle loro canzoni alcune allegre, ma la maggior parte pervase 114
di nostalgia, come l’immancabile Lili Marlen. Se ne andarono
verso
le
dieci
di
sera
ringraziando
dell’ospitalità. Ovviamente noi ci chiedemmo chi avesse potuto indirizzarli alla villa e come avessero potuto percorrere a piedi, andata e ritorno, di sera i sei chilometri dal Mulin Bianco. Fino a tutto maggio nella villa le cose andarono abbastanza bene, anche se le notizie dal fronte erano sempre più critiche. Come ho già detto, era stato stabilito dalle autorità scolastiche che gli esami di licenza media si sostenessero nella villa Redi di Piscinale, così un giorno a metà maggio, nel primo pomeriggio, presi la bicicletta per andare a fare l’esame. Tutto andò bene con gran sollievo di mia madre e mio perché, da quel momento, potevo avere più tempo per lo svago. A inizio di maggio il fronte cominciò a muoversi, spostandosi lentamente verso nord, fino a che gli alleati liberarono Roma ai primi di giugno. Tra poco sarebbe toccato anche ad Arezzo. Questo rendeva mia madre sempre più preoccupata e timorosa. Era terrorizzata e il terrore prevaleva su quel poco di raziocinio residuo che ancora avrebbe dovuto avere. Era pressoché impossibile cercare di convincerla che tutto sarebbe andato bene come da altre parti, ma l’esperienza di Cassino e dei monti Aurunci ormai era prevalente. Era andata a Firenze al matrimonio 115
di mio cugino Enzo con grande rischio, che forse aveva sottovalutato. Il matrimonio l’aveva, in un certo senso, sollevata o almeno non aveva influito sul suo umore, anche se si rendeva conto che il momento
della
liberazione
sarebbe
stato
un
momento critico per Enzo. Ma ora il pensiero, che la guerra combattuta sarebbe passata anche da San Polo, la incupiva. Cominciò a estraniarsi dalla vita di relazione e a perdere l’appetito. Del resto quello che accadde nel terribile mese di giugno non era certo incoraggiante per una persona dotata di sensibilità normale, figurarsi per lei. Alla
fine
di
maggio
la
guardia
nazionale
repubblicana arrestò l’avvocato Sante Tani. La notizia arrivò subito alla villa. L’amico di famiglia era nelle mani dei repubblichini. Era stato preso nella canonica di Casenovole con Aroldo Rossi, dove era parroco suo fratello don Giuseppe. Tutti e tre furono portati in carcere ad Arezzo. La notizia prostrò mia madre aggiungendo depressione a depressione. Anche l’avvocato Maggi fu colpito dall’arresto e cercò con i contatti che poteva avere, pochi per il vero, di avere notizie più precise su come si fosse arrivati a questo e cosa si potesse fare per liberarlo. L’avvocato Tani era tornato ad Arezzo dopo il 25 luglio dal confino in provincia di Benevento. Qui 116
aveva passato gli anni della guerra. Mia madre era andata a trovarlo nella casa al numero cinque di via Montetini intorno ai giorni dell’armistizio e questa fu l’ultima volta che si videro. Quello che scrivo ora non si sapeva al momento, ma è quello che tutti apprendemmo subito dopo la liberazione. Alla fine di settembre dopo la costituzione della Repubblica Sociale, l’avvocato che era un obiettivo della repressione repubblichina, fu costretto a darsi alla macchia. Ma fu isolato ed esautorato, sia dal punto di vista operativo che gerarchico, dal C.A.P.L. e dai vari comandi delle formazioni partigiane che si stavano formando. Così solo con pochi compagni senza aiuto alcuno fu braccato come un lupo per nove mesi sui monti intorno ad Arezzo dal Favalto al Pratomagno, alla Verna e Catenaia, finche stanco, sfinito e sfiduciato si rifugiò nella canonica del fratello con l’amico Aroldo Rossi18. Si diceva che una soffiata li avesse consegnati insieme al fratello alla guardia nazionale
repubblicana,
ma
anche
che
i
repubblichini, travestiti da partigiani, lo avessero aspettato a lungo con pazienza intorno alla canonica del fratello. Dopo l’arresto non si seppe nulla salvo 18
Per chi voglia saperne di più si consiglia di consultare le pagg. da 143 a 153 del libro di Enzo Droandi “Arezzo distrutta”, Calosci Editore
117
alcune voci che dicevano che sarebbe stato destinato a essere trasferito al nord, non si sapeva però per quale ragione. Poi il quindici giugno nel primo pomeriggio arrivò come un tam-tam la notizia urlata:
118
“Hanno ammazzato l’avvocato Tani!”.
Si era conclusa così la parabola terrena di Santino, come tutti lo chiamavano in casa. Fu un colpo per tutti, da mia madre all’avvocato Maggi. Nei giorni successivi si seguirono le notizie che venivano dalla chiesa di S. Domenico dove i cadaveri di lui e di altri quattro furono tenuti insepolti per 9 giorni. Nel tentativo di liberarlo era stato ucciso anche l’ufficiale belga Justin Meuret che era venuto alla villa quella sera di metà gennaio, che ho già ricordato. Il 24 di giugno finalmente ci furono i funerali. Questi furono fatti nella chiesa di S. Domenico da padre Caprara. Mia madre voleva partecipare, ma mia nonna la convinse di non andare con vari argomenti, primo il pericolo delle incursioni, cui mia madre era molto sensibile, e poi il lezzo dei cadaveri che sostavano nella chiesa da nove giorni. Andò l’avvocato Maggi come amico, collega e rappresentante liberale del C.L.N., ma, ovviamente, questo non si poteva dire 119
ufficialmente. Quel giorno stesso, 24 giugno, tre giovanissimi militari tedeschi, forse provenienti dalla Hitler Jugend, che avranno avuto diciotto diciannove anni, si fermarono a raccogliere e mangiare le ciliegie dal ciliegio che era sulla stradina che portava dalla strada comunale a casa Dragoni. Donatino se li guardava da un pezzo brontolando e mostrando il proprio disappunto. Vedendo che non otteneva alcun risultato corse dal padre dicendo “Ce mangeno tutte le ciliegie. Babbo mandeli via!” Il padre paziente gli rispose “Donato, ma te se’ scordo ch’è successo al Goro19”. Così Donatino si rassegnò. Goro era il mezzadro del podere della villa che aveva in stalla un vitello di sei mesi. Due settimane prima dell’episodio delle ciliegie, verso i primi di giugno, un maresciallo della Wehrmacht, addetto agli approvvigionamenti, si era presentato al podere della villa con due militari per requisire un capo di bestiame. Avendo messo gli occhi
sul
vitello
lo
fece
trascinare
sull’aia.
Il
contadino s’interpose, e, mostrando la mucca, diceva: “Prendete la mamma del vitello è più grossa, più grande, più carne”. Il maresciallo rispose: “Mamma vecchia, non buona. Questo buono”. Siccome Goro non si arrendeva e insisteva a un certo punto il maresciallo 19
spazientito
Goro sta per Gregorio
120
ordinò
a
un
militare
“Schiesst!”. Il militare estrasse una pistola e piantò una pallottola in mezzo alla testa del vitello. La povera bestia stramazzò a terra piegandosi sulle zampe anteriori e i militari la caricarono sulla motocarrozzetta con cui erano arrivati e che si allontanò con le balestre a terra. Goro, come tutti i contadini, portava un cappello di feltro in testa sia d’estate che d’inverno, d’inverno per proteggersi dal freddo, d’estate per proteggersi dal sole. Si tirò via il cappello
sbattendolo
violentemente
a
terra
e
cominciò infuriato a inveire contro la sorte maledetta che lo privava di un buon guadagno tra qualche mese quando sarebbe venuto il momento di vendere il vitello. I componenti la famiglia si erano precipitati sull’aia ed avevano assistito ammutoliti alla scena. Io assistei all’episodio delle ciliegie, non a quello del vitello che mi fu raccontato, perché ero andato il primo pomeriggio per stare con i fratelli Dragoni. I tre militari, giovanissimi, dopo essersi rimpinguati di ciliege proseguirono verso le case a mezza costa per la strada di Quarantola. Verso le tre e mezzo del pomeriggio si sentirono tre raffiche di mitra e a sera si cominciò a mormorare che i partigiani avevano ucciso tre tedeschi. Che fossero stati quelli di casa Dragoni l’ho sempre immaginato, ma non ne ho avuto mai conferma. 121
Intorno al 22 - 23 giugno ci fu l’episodio della Chiassa, che fortunatamente si chiuse senza eccidio, ma il luogo dove era avvenuto somigliava molto per posizione geografica a San Polo e questo aggiunse ulteriore preoccupazione a mia madre. Poi il 29 giugno ci fu l’eccidio di Civitella, Cornia e S. Pancrazio. La guerra ormai si stava presentando nel territorio aretino in tutta la sua spietatezza e crudezza. La morte dell’avvocato Tani come l’episodio di metà d’aprile dell’anno prima, quando a scuola sentii i lamenti dei soldati feriti, furono gli episodi che, rimastimi più impressi, segnarono lo spartiacque delle mie percezioni sulla guerra. Prima la guerra era percepita favorevoli
come o
una
sequenza
sfavorevoli,
poi
d’episodi come
a
noi
causa
annientamento delle cose e della vita delle persone.
122
di
L’ultimo mese prima della liberazione
Dall’inizio di maggio, la situazione generale si era fatta più pesante e quelle che erano le attività amministrative della comunità aretina, anche se questa con lo sfollamento si era dispersa per le campagne,
erano
continuate
fino
allora
senza
apprezzabile rallentamento. Dai primi di maggio invece
l’attività
del
tribunale
si
ridusse
drasticamente, così l’avvocato rimaneva ormai nella villa. Anche l’ufficio di mio padre funzionava a singhiozzo. L’unica attività che sembrava non avere rallentamento era quella della banca. Il direttore Papini continuò ad andare a villa Brizzolari, ma poi anche questa attività cessò il diciassette di giugno. Ormai tutti si muovevano con il preciso intento di evitare qualsiasi ulteriore rischio e si comportavano di conseguenza. Si pensava “Siamo arrivati fino a qui cerchiamo di passare indenni questi ultimi giorni”.
123
Perché di ultimi giorni si trattava. Ormai si sentiva che la liberazione era vicina, gli alleati erano al Trasimeno. Nella seconda metà di giugno, ancora prima dei fatti di Civitella, una sezione delle trasmissioni della Wehrmacht si acquartierò davanti alla villa. Erano otto
militari
comandati
da
un
maresciallo
spilungone, di cui più tardi mi rammentai per la somiglianza, quando vidi al cinema l’attore Max Von Sydow. Era un uomo allegro cui piaceva prendere in giro i propri sottoposti senza sfotterli. I militari lo rispettavano non per dovere gerarchico, ma per la fiducia che avevano in lui. Avevano due mezzi: una Jeep, preda di guerra strappata agli americani ancora con la stella bianca sopra il cofano, che parcheggiarono in mezzo al viottolo che scendeva verso il fosso di S. Lucia senza mimetizzarla. Poi l’altro mezzo di fabbricazione tedesca con la parte posteriore a furgone, attrezzato come stazione radio trasmittente, e la parte anteriore con la cabina di guida capace di sei posti per il trasferimento dei militari. Dal furgone spuntava un’enorme antenna lunga almeno sei metri. Il furgone con il gancio di traino rimorchiava il gruppo elettrogeno su due ruote. Il tutto fu messo in postazione a lato del viottolo contro la siepe e i militari si premurarono di 124
raccogliere frasche per mimetizzarlo. Ogni tanto venivano sul posto ufficiali su una motocarrozzetta per ricevere e portare i comunicati, controllare la postazione e i rifornimenti di carburante per il gruppo elettrogeno. Un paio di giorni più tardi a villa Mancini e Gigliosi, a San Polo basso, arrivò un comando tedesco della Wehrmacht con una batteria di pezzi da 88. In quei giorni noi ragazzi ci divertivamo a costruire un rifugio nello scannafosso posteriore tra la casa e l’aia del Dragoni. Era un modo per prepararci al passaggio del fronte e all’eventualità di qualche bombardamento
d’artiglieria.
Utilizzavamo
delle
traversine ferroviarie di cui non so come, il Dragoni ne fosse venuto in possesso. Le traversine erano appoggiate su una sporgenza del muro da un lato e dall’altro sul piano dell’aia, il tutto doveva essere ricoperto con almeno un metro di terra battuta. I mezzi che avevamo a disposizione erano due carriole, un piccone, una zappa, due vanghe e tanta buona volontà da parte di noi ragazzi. Il Dragoni, ogni tanto, veniva a darci un consiglio facendo finta di credere nell’utilità di quello che facevamo. Noi questo lo avevamo capito, ma continuavamo imperterriti nella nostra opera che era anche un modo per passare il tempo. 125
La presenza dei tedeschi davanti alla villa, che poteva essere un obiettivo d’attacchi aerei a bassa quota da parte alleata, aggravò le paure di mia madre che non si dava pace. Il si dice sui tre militari tedeschi uccisi ed i fatti di Civitella e della Chiassa con le paure della rappresaglia, contribuivano ad aggravare ulteriormente la situazione. Alla fine mio padre d’accordo con la nonna trovò la soluzione. Parlò con un dipendente del suo ufficio e trovò dove andare. Il posto era Molinelli e un pomeriggio dei primi di luglio partimmo a piedi in quattro con un carrettino
dove
avevamo
caricato
un
paio
di
materassi e diverse cibarie. Mia nonna venne con noi per non lasciare sola mia madre che ormai era distrutta psicologicamente. A Molinelli si arrivò a sera dopo quattro o cinque chilometri passando per S. Fabiano e poi per la strada di Poggio Mendico. La casa era quella del mulino in una buca della valle del Castro, buia e senza sole. Fummo sistemati in un locale umido vicino alla cantina. Non era una sistemazione confortevole rispetto alla camera di villa Maggi. Il cibo era fatto in prevalenza di pane e formaggio,
scatolette
di
tonno
e
altre
cibarie
d’emergenza che erano state conservate per quei giorni. Mia madre era più tranquilla ma questa esperienza era troppo dura per le sue condizioni di 126
salute. Inoltre la situazione dal punto di vista logistico e degli approvvigionamenti era peggiore di San Polo. Qui di case di contadini, dove poter acquistare qualche cosa, ce n’erano poche e così era più difficile trovare qualche cosa da mettere sotto i denti. Ma avevamo fatto i conti senza l’oste. Il posto era al confine tra la zona di controllo dei tedeschi e quella dei partigiani. Questi gravitavano a Poti e S. Severo. Ai primi di luglio ci fu uno scontro a fuoco e fu fatto saltare il ponte sul Castro. Così dopo tre giorni a Molinelli ritornammo precipitosamente a San Polo. Qui trovammo tutto come prima. Fui molto contento perché potevo nuovamente dedicarmi alla costruzione del rifugio a casa Dragoni. Il giorno dopo andai a trovare gli amici Pietrino e Donato e quando mi vide il Dragoni mi venne incontro tutto concitato dicendomi in italiano: ”Signorino, signorino abbiamo un tedesco in casa. Credo sia un disertore, mi dia una mano lei, che è più istruito, ma mi raccomando che non si sappia altrimenti lei sa che i tedeschi, se ci scoprono, ci fucilano con lui”. Il tedesco era arrivato due notti prima ed era stato sistemato nel fienile dietro un mucchio di fieno. Il Dragoni lo aveva fornito di un pane, mezza forma di cacio ed un fiasco di vino. Andai con lui a vedere il tedesco. Il Dragoni lo tranquillizzò dicendogli “Noi 127
aiutare, noi tu Hilfe”. Il Dragoni, nel frattempo, aveva imparato il significato della parola Hilfe. Capii che era un graduato. Era un uomo distrutto e stanco della guerra. Le uniche parole che disse furono “Deutschland kaputt. Foi Hilfe”. Con il Dragoni decidemmo che avrei trovato un vocabolario italiano e
tedesco
e
poi
si
sarebbe
proseguita
la
conversazione. Tornai in villa e chiesi all’avvocato se potevo
portare
con
me,
per
consultarlo,
un
vocabolario di tedesco che lui aveva in biblioteca. Lui mi chiese a cosa mi servisse ed io risposi che i Dragoni avevano trovato una cassetta con scritte in tedesco e si voleva sapere cosa significavano prima di toccarla. Lui si raccomandò di evitare di toccarla in ogni modo. Presi il vocabolario e tornai a casa Dragoni. Devo precisare che dopo la prima media, all’inizio della guerra, avevo cominciato con l’aiuto del latino che studiavo a scuola, a consultare una grammatica tedesca per cercare di capire un poco quella lingua. Quello che mi affascinava di più erano i caratteri gotici della scrittura dei quali oggi è stato abbandonato quasi del tutto l’uso. Le parole chiave utilizzate con il tedesco furono poche:
Hilfe,
Deserteur,
Fahnenflüchtige,
gehen,
bitten, Partisan e Banditen. Con queste si riuscì a instaurare una specie di conversazione e così 128
avemmo la certezza che il maresciallo era un disertore e il suo desiderio era quello di essere accompagnato dai partigiani. Lo rassicurammo e poi con il Dragoni decidemmo cosa dire all’avvocato. Fu deciso di dire che la cassetta era vuota, che in precedenza conteneva scatolette di carne e che era stata bruciata per non avere noie se fosse stata ritrovata dai tedeschi. Poi il Dragoni si fece carico di parlare con la sua famiglia in modo che tutti dessero un’unica versione, specie l’Annina che veniva in villa, se fossero stati interrogati sulla cassetta. Decise inoltre che il pomeriggio, sul tardi, sarebbe salito verso il Castellaccio per mettersi in contatto con i partigiani ed avvertirli del tedesco. Così fece. A lui interessava solamente che il tedesco si allontanasse da casa sua e andasse dove era suo desiderio. Il giorno dopo il tedesco rimase ancora nel fienile e poi, a sera, con il Dragoni salirono insieme verso il Castellaccio. Il Dragoni tornò da solo a notte inoltrata e tutta la famiglia dette un sospiro di sollievo. A trecento metri di distanza davanti alla villa
c’erano
ancora
i
militari
della
sezione
trasmissioni. Io non dissi niente ai miei di quanto era accaduto. I giorni fino al tredici di luglio furono come tutti gli altri. Le batterie a villa Gigliosi erano silenti. I 129
tedeschi si guardavano bene dallo sparare qualche colpo per evitare la reazione dell’aviazione alleata. I militari della sezione trasmissioni erano ancora davanti alla villa sintonizzando la loro radio sulle lunghezze d’onda di servizio e sull’emittenti tedesche che trasmettevano le loro canzoni. Per sopperire al loro vettovagliamento avevano attinto dai pollai dei contadini
e
da
quello
dell’avvocato.
Maiali
in
allevamento non ce n’erano più. Tutti erano stati macellati a dicembre e gennaio. In quei giorni si mangiavano solo fagioli cucinati in diverse maniere, insalata e formaggio. I pasti erano sempre più monotoni e poveri e mia nonna ricorreva a tutta la sua sapienza culinaria per offrire dei pasti nutrienti a mia madre. Lei era passata in prima fila nelle attenzioni della nonna. Ogni giorno arrivavano notizie di scaramucce e di fucilazioni, un po’ in tutto il territorio del comune e della provincia. Era uno stillicidio e questo non faceva
altro
che
aggiungere
preoccupazione
e
incertezza alla già grande preoccupazione di mia madre. Noi ragazzi si continuava la costruzione del rifugio.
Ormai
gli
alleati
erano
a
Castiglion
Fiorentino. Per arrivare ad Arezzo mancava ancora una diecina di chilometri. Le loro cicogne erano sempre in volo e questo significava che la loro 130
aviazione
e
le
loro
artiglierie
avevano
bisogno
d’informazioni su possibili obiettivi da inquadrare. Uno di questi poteva essere la postazione delle trasmissioni davanti alla villa. In questa prospettiva mia madre sprofondava sempre più nella sua prostrazione che la allontanava da tutti. Fisicamente era
dimagrita
e
il
poco
cibo
che
assumeva
evidentemente non era più sufficiente per una corretta alimentazione. In quei giorni pensavo a come fossero cambiate le cose nei nove mesi trascorsi. Riandavo a quella sera del tredici novembre quando guardavo a lei per carpire un segnale di fiducia e sicurezza che non arrivò, mentre ora avevo superato tutte le mie paure e incertezze e bastavo a me stesso. Ora ero io che, insieme alla nonna e a mio padre, dovevo rincuorare mia madre purtroppo senza alcun risultato. Il terrore della guerra che aveva era irrazionale e animalesco e non c’era alcun argomento che la potesse calmare. Ora in cima alle sue preoccupazioni si era aggiunto il pericolo delle rappresaglie, ma su questo non si rendeva conto che era meglio rimanere accanto ad una sezione delle trasmissioni della Wehrmacht piuttosto che allontanarsi dalla villa e andare in un posto più esposto alle rappresaglie.
131
Giovedì 13 luglio 1944
Si arrivò così al 13 luglio e prevalse la volontà di assecondare mia madre. Fu deciso da mio padre e da mia nonna di lasciare San Polo e andare a Misciano. Misciano e Montagnano sono due gruppi di quattro case ciascuno di mezza montagna con una chiesina piccolissima a una distanza di circa sei chilometri da San Polo. All’epoca era ancora abitato da
contadini
marginale
con
che
vivevano
poche
di
risorse.
un’agricoltura Le
uniche
a
disposizione erano il legname, le castagne, l’orzo e le patate nei pochi campi coltivati, maiali e pecore che però, al momento, erano spariti. Per il resto, i contadini
dovevano
scendere
al
piano
per
acquistarselo. A Misciano e a Mulin del Falchi20 erano sfollati gli aretini che più tenacemente si erano abbarbicati alle loro abitazioni in città e poi, dopo i bombardamenti di metà gennaio, avevano deciso di 20
Il Toponimo è Mulin del Falco, ma tutti lo pronunciavano al plurale.
132
sfollare. Qui era sfollata la famiglia dell’amico Ghino e la famiglia dei due fratelli Angiolo e Giovanni Ghiandai, che anche loro frequentavano il circolo dell’Azione Cattolica di S. Pier Piccolo. C’era anche padre Manetto il parroco di S. Pier Piccolo che aveva deciso di sfollare dopo il bombardamento del 17 gennaio quando le bombe avevano colpito i palazzi Marsuppini e Perelli della Banca d’Italia, confinanti con la nostra casa in Via Bicchieraia distruggendo anche la facciata e lo scalone d’accesso alla chiesa di S. Pier Piccolo.21 Nel mese di gennaio e febbraio avevo potuto incontrarli, sia Ghino che padre Manetto, quando passavano davanti a villa Maggi per andare e tornare da Arezzo dove raccoglievano un pò di masserizie, quelle di casa la famiglia di Ghino, quelle della chiesa padre Manetto. Partimmo per Misciano a pomeriggio inoltrato per evitare il caldo, a piedi con il solito carretto, come avevamo fatto per Molinelli, con due materassi e un po’ di cibarie. Mio padre si era munito anche di uno zaino. Io avevo una sacca con il necessario per l’igiene personale di tutti. Il carretto era trainato da mio padre e qualche volta da me e da mia nonna 21
Nella ricostruzione fatta dopo la guerra è rimasta solo traccia del corrimano in pietra incastonato nella facciata, ma la scala ed il portale non sono mai stati ricostruiti.
133
soprattutto per tratti brevi e in piano come il tratto in cima al poggio di Quarantola. Andò tutto bene fino al bivio per Misciano subito dopo Quarantola. Qui la strada comunale prosegue per Poti verso est e quella di Misciano scende verso nord in una valle in mezzo ai boschi con due ponticelli per scavalcare i torrenti. Questi erano stati fatti saltare forse dai partigiani per impedire l’arrivo di blindati tedeschi. Il passaggio dell’alveo dei due torrenti sulle macerie fu un’impresa. Quando arrivammo al primo, pensammo che la demolizione dei ponti fosse stata fatta da diverso tempo, perché vedemmo che i molti passaggi fatti dai viandanti avevano tracciato un viottolo sopra le macerie. Mio padre disse che dovevamo passare su questo viottolo, ma che dovevamo evitare che le ruote del carretto sconfinassero. Il suo timore erano le mine antiuomo. Così dette a me e mia madre lo zaino e le altre cose portate a mano, poi mio padre e la nonna presero il carretto con le poche cose
che
c’erano
e
sollevandolo
lentamente
attraversammo il fosso. Così fu fatto anche al secondo ponte. Mia nonna non poté fare a meno di osservare a mia madre “Vedi, se fossimo rimasti a San Polo, non avremmo dovuto affrontare questi ostacoli”. Arrivammo alle case di Misciano verso le otto di sera. Eravamo d’estate ed era ancora giorno, 134
ma a causa della posizione del posto sembrava quasi notte. Qui trovai i miei amici con le loro famiglie che erano tutte sistemate nella chiesina di Misciano insieme a padre Manetto. Nelle tre o quattro case dei contadini c’erano altri sfollati. Fummo sistemati anche noi nella chiesa, non c’era altra possibilità. Per cena si mangiò pane e tonno in scatola. Il tonno era quello delle provviste fatte all’inizio della guerra, e la data di scadenza allora e per molti anni ancora non era stampata sulle scatole. Dopo cena le nostre famiglie parlarono della situazione e di quanto si dovesse ancora aspettare per la liberazione. A Misciano non c’era corrente elettrica e quindi la radio non poteva essere ascoltata. Le uniche notizie erano quelle che uno poteva avere quando scendeva al piano per fare provviste. Noi, ultimi venuti, eravamo quelli che portavano notizie fresche. Così dicemmo Castiglion
loro
che
Fiorentino
gli e
Alleati si
erano
stavano
arrivati
a
avvicinando
all’Olmo, quindi la liberazione sarebbe stata cosa di qualche giorno. Poi su tutti prevalse la stanchezza e andammo a dormire. Si stesero a terra i due materassi e dormimmo su questi senza coperte. Poiché padre Manetto, nello sfollamento, si era portato dietro il catafalco per i funerali, il padre di Ghino dormiva sopra il catafalco per risparmiare 135
spazio. Lo ricordo ancora con la sua testa pelata accanto ad un candeliere dove era stata accesa una candela. La scena era surreale e grottesca simile a quella immortalata da Eduardo con Carlo Ninchi anni dopo in “Napoli milionaria�. Finalmente la troppa stanchezza prevalse e mi addormentai come un sasso.
136
Venerdi 14 luglio 1944
Fui svegliato di soprassalto da mia madre intorno alle cinque e mezzo di mattina. “Curzio svegliati, ci sono i tedeschi a Mulin del Falchi che sparano. Dobbiamo scappare!” Mi stropicciai gli occhi, mezzo insonnolito, e mi alzai. Anche gli altri erano svegli. Si apprese così da uno dei contadini, che era andato a pascolare le proprie caprette nei boschi al cumbrugliume22, che i tedeschi erano venuti a Mulin del Falchi di notte dalla strada del Castellaccio attraverso il bosco e, sorpresi gli abitanti ed i partigiani nel sonno, avevano iniziato la rappresaglia. Il contadino aveva sentito le raffiche di mitra, ma non poteva dare altre notizie perché si era subito allontanato.
22
Voce dialettale aretina, dal latino “cum umbra et lumine” per indicare quel tempo particolare della notte in cui comincia ad albeggiare.
137
La situazione era drammatica. Mio padre e la mamma di Ghino, erano scesi verso le quattro e mezzo a San Polo, in cerca di provviste, come stabilito la sera prima. Quello che si era portato il giorno
prima
non
era
sufficiente
per
una
permanenza di almeno una settimana a Misciano. A tanto si era stimato il tempo necessario agli alleati per arrivare ad Arezzo. Le notizie date dal contadino erano preoccupanti e tutti gli sfollati erano incerti su cosa si dovesse fare. I contadini del posto sapevano cosa dover fare, si sarebbero sparsi per i boschi nei posti che conoscevano. Per loro sarebbe stato bene che gli sfollati si allontanassero da Misciano, perchÊ pensavano che questo avrebbe consentito loro di salvare le case in caso di rappresaglia anche a Misciano. Tutti gli sfollati decisero di andare via subito per i viottoli tra i boschi che i contadini indicarono loro. Per noi e per la famiglia di Ghino il problema era piÚ complesso: si doveva intercettare mio padre e la mamma di Ghino che dovevano tornare a Misciano nella mattinata come convenuto. Anche la famiglia Ghiandai aveva deciso di venire con noi fino a Quarantola, poi avrebbero proseguito verso Pomaio e sceso verso Molinelli. Era impensabile che un gruppo d’adulti con quattro ragazzi s’incamminasse per la 138
strada comunale allo scoperto. Fu deciso allora, con gran sofferenza di mia madre, che io e l’amico Giovanni Ghiandai c’incamminassimo da soli per la strada fissandoci l’appuntamento con il gruppo a Quarantola. Da li avremmo proseguito insieme per San Polo. Si convenne che, se vi fossero state delle difficoltà anche a Quarantola, dovevamo nasconderci nella macchia del Giglione e aspettare che tutto fosse passato. Presi una fetta di pane per colazione e così fece l’amico Giovanni. Padre Manetto rimase perché a Mulin del Falchi c’era bisogno di lui. Quando ci salutammo aveva già preparato la stola viola, l’aspersorio ed il breviario. La scia di sangue che la Wehrmacht aveva lasciato a Mulin del Falchi era di circa dodici morti23. Con Giovanni Ghiandai facemmo la strada che avevo fatto la sera prima con i miei ponendo attenzione all’attraversamento delle macerie dei due 23
“Strada facendo i tedeschi uccidevano una donna in istato interessante che colpirono deliberatamente anche al ventre la madre di questa e un bimbo che si erano fermati un istante per riprendere fiato; un pò più in su altri due vecchi che anch'essi non potevano camminare. Oltre alle vittime già descritte si lamentano sette feriti, di cui un bambino in fasce, uno di due anni, uno di circa sette ed un vecchio, tutti appartenenti ad una stessa famiglia di coloni. Ebbero la stessa sorte una ragazza antecedentemente seviziata, una donna anziana ed un altro vecchio.” E’ quanto più tardi ha descritto il Generale di Corpo d'Armata Taddeo Orlando Comandante Generale. (Dal sito della provincia di Arezzo).
139
ponticelli. Dalla direzione di Mulin del Falchi non proveniva alcun rumore. La strada in mezzo al bosco non consentiva la visuale sul Mulino che si trovava più sotto a circa un chilometro di distanza. Però all’altezza del secondo ponte, in corrispondenza di una grande curva, il bosco si diradò e vedemmo le case di Mulin del Falchi e il residuo di fumo emesso dai pagliai che erano stati incendiati. Altro non si vide da quella distanza. Continuammo a camminare facendo attenzione a qualsiasi rumore che veniva dalla strada verso di noi e per sicurezza procedemmo sul bordo per saltare più facilmente a lato in mezzo ai cespugli. Mentre prima, Giovanni ed io parlavamo tra noi, ora che avevamo avuto la certezza che la rappresaglia era stata fatta, continuammo la strada in silenzio. Finalmente arrivammo al podere di Quarantola che erano circa le sei e mezzo del mattino. Il contadino ci chiese da dove venivamo e noi gli dicemmo: “Da Misciano! I tedeschi hanno fatto un rastrellamento al Mulin del Falchi e noi siamo scappati. Ci siamo dati appuntamento qui con i nostri, che hanno preso la via dei boschi”. Il contadino, che stava prendendo con il forcone la paglia dal pagliaio per cambiare la lettiera alle vacche, disse con fare asciutto “Al Mulin del Falchi! Si sapeva che alla fine sarebbe andata a finire così! Gli inglesi fanno la 140
guerra come fosse una passeggiata, sarebbe l’ora che arrivassero. Siamo di luglio ed io non posso portare al pascolo queste povere bestie che sono costrette a stare nella stalla!”. Continuò a fare quello che faceva, poi quando la moglie si affacciò alla finestra della casa le urlò “I tedeschi hanno fatto il rastrellamento al Mulin del Falchi, l’hanno detto questi due ragazzi!”, “Misericordia!” rispose la moglie e si ritirò subito in casa. Finalmente, dopo circa mezzora, arrivarono le nostre famiglie. Né loro né noi fortunatamente avevamo incontrato tedeschi e noi dicemmo cosa avevamo visto. Ci salutammo, i Ghiandai presero il sentiero verso Pomaio e noi con Ghino e suo padre si proseguì per San Polo. Per fare più in fretta prendemmo il sentiero scorciatoia
che
tagliava
il
gran
curvone
di
Quarantola e ci trovammo di nuovo nella strada comunale più in basso. Continuammo a camminare in silenzio. Eravamo tutti in ansia per mio padre e la mamma di Ghino. Al bivio del Carnaio si proseguì a destra verso la Villa Maggi e non verso San Polo. Così verso le nove di mattina arrivammo alla villa. L’avventura di Misciano si era conclusa nell’arco di quindici ore.
141
Alla villa trovammo mio padre e la mamma di Ghino. Questa era rimasta ad aspettare su consiglio di mio padre, perché se non ci fossimo fatti vivi prima di mezzogiorno mio padre sarebbe tornato a Misciano per vedere cosa ci fosse accaduto. Da loro apprendemmo che, quando si erano immessi dalla scorciatoia di Quarantola sulla strada comunale, si erano trovati tra le due colonne di rastrellati che scendevano verso San Polo. I rastrellati procedevano in due colonne distanti un centinaio di metri, tutti con le mani dietro la nuca e i tedeschi a lato con il mitra spianato. Più tardi mio padre ci disse che, il fatto di dover condividere, per circa un chilometro, la stessa strada, gli aveva fatto gelare il sudore addosso.
Si
seppe
poi
che
mentre
questi
attraversavano l’abitato di San Polo prelevarono tre persone che ebbero la disgrazia di trovarsi sulla porta di casa casualmente o affacciatesi per curiosità al
rumore
del
passo
cadenzato,
mentre
loro
passavano. Era finito comunque bene, grazie a Dio, il senso d’insicurezza e d’incertezza che ci aveva attanagliato tutti durante la mattinata. Le nostre famiglie erano di nuovo insieme. Si doveva decidere ora cosa fare e per noi la cosa fu semplice. Saremmo rimasti alla villa. Mia madre, senza volontà propria, rinunciò del 142
tutto a qualsiasi ipotesi d’allontanamento dalla villa anche se la sezione trasmissioni della Wehrmacht era ancora al proprio posto. Per la famiglia di Ghino il problema fu più complesso. Non potendoli ospitare per dormire, si doveva decidere dove sarebbero dovuti andare. Per il momento li trattenemmo a mangiare con noi. Nel frattempo nel residuo della mattinata, ci venivano spezzoni di notizie da San Polo basso. Quel giorno tutti si muovevano in funzione delle notizie che potevano dare o avere da parte dei vari residenti. Così noi andavamo alla canonica, o alla scuola per sentire cosa si diceva, altri da San Polo basso venivano verso la nostra villa per chiedere notizie. L’unico che aveva la certezza di quanti fossero i rastrellati era mio padre che aveva potuto vederli. Nel pomeriggio andai dai Dragoni e raccontai tutto, e Donatino, che era il più piccolo dei ragazzi fu mandato in esplorazione con la scusa di comprare due acciughe alla bottega della Fardelli. Così, da lui e più tardi da un contadino, sapemmo che i tedeschi avevano portato i rastrellati a villa Mancini. Di tedeschi
nessuna
traccia
a
San
Polo
basso.
Evidentemente avevano avuto la consegna di non farsi vedere dalla popolazione. Nel frattempo si facevano i nomi di quelli che erano stati prelevati 143
sull’uscio di casa. Io oggi non ricordo questi nomi, ma sicuramente solo di uno di questi che era Vittorio Bianchini di cui parlerò più tardi. Dopo pranzo fu deciso che la famiglia di Ghino andasse alla villa del Vescovo alla Godiola scendendo verso la strada della Cella per poi tagliare a sinistra verso S. Fabiano. Dovevano assolutamente evitare San
Polo
basso.
Mio
padre
e
il
Pierozzi
li
accompagnarono con un po’ di provviste per un tratto di strada. Il resto della giornata passò in un’atmosfera greve e
silenziosa.
trasmissioni
Anche erano
i
tedeschi
della
insolitamente
sezione silenziosi
limitandosi alle sole comunicazioni di servizio. Poi arrivarono le otto di sera. Da villa Gigliosi sentimmo sei salve d’artiglieria da 88 ravvicinate, poi più niente. Tutti ci domandammo come mai i tedeschi si fossero decisi a sparare con i cannoni, perché sapevamo che evitavano di farlo per non essere individuati dalle cicogne alleate. A sera da radio Londra si seppe che gli alleati erano ormai all’Olmo e a Civitella. Andammo a dormire verso le undici e la tensione cui ero stato sottoposto per tutta la giornata, appena a letto, si allentò e potei dormire fino alle sette del mattino successivo. Così fu per i miei. 144
Sabato 15 luglio 1944
Al mattino quando ci svegliammo si constatò che i tedeschi della sezione trasmissioni erano andati via nella notte e questo fu un gran sollievo per tutti ma soprattutto per mia madre. Si seppe che anche la batteria da 88 era andata via da Villa Gigliosi. Ciò significava che ormai gli alleati erano ad un passo. Davanti alla villa era rimasto un mucchio di rami secchi con i quali i tedeschi avevano mimetizzato i loro mezzi. Eravamo finalmente alla fine. Io, per evitare apprensione a mia madre, quel giorno non uscii, presi un romanzo del Salgari e mi misi a leggerlo. Non avevo voglia di passare il tempo con le due pittime, i figli del giudice Liberti. Sul finire della mattinata, le donne che erano andate
alla
bottega,
portarono
le
notizie
dei
rastrellati da San Polo basso. La sera prima i tedeschi li avevano trucidati. Nel pomeriggio sul tardi 145
venne Don Lazzeri a parlare con l’avvocato per decidere cosa fare. Il comandante tedesco, prima di andarsene presto nella mattinata, aveva comunicato al prete l’avvenuta esecuzione della rappresaglia mediante fucilazione di 47 italiani “perché erano banditi ed avevano fatto fuoco contro le truppe tedesche ed anche perché avevano preso almeno 16 prigionieri tedeschi che erano stati liberati dai loro camerati”24. Io ero con l’avvocato nello studio perché questi aveva voluto che lo aiutassi a mettere in ordine le sue carte. Con il prete decisero di costituire un comitato affinché i morti avessero una sepoltura in
terra
consacrata,
ma
non
essendovi
posto
sufficiente nel Camposanto di San Polo, decisero di fare scavare una fossa comune all’esterno a ridosso della parete nord del Camposanto, ma tutto doveva essere fatto quando ci fosse stata certezza dell’arrivo degli alleati. L’avvocato disse a Don Lazzeri di coordinare i lavori del comitato. Il resto della giornata passò in un’atmosfera d’attesa degli alleati che ancora non si facevano vedere.
24
Consultare il libro di Enzo Droandi a pag. 222 che chiarisce come il 48.mo trucidato fosse un tedesco ucciso nella rappresaglia.
146
Domenica 16 luglio 1944
Ci svegliammo sufficientemente distesi nonostante quello che era accaduto nei giorni precedenti. Ormai era una questione d’ore, ma queste ultime erano interminabili. Verso le dieci andai a casa Dragoni e con Pietro e Donato ci mettemmo a lavorare all’orto della casa perché ormai il rifugio nello scannafosso dietro le stalle era inutile. Le voci da San Polo basso dicevano che un tedesco disertore era stato catturato insieme agli italiani e giustiziato. Intorno alle undici la moglie del Dragoni si affacciò alla finestra della cucina e ci chiamò “Venite a vedere c’è una bandiera sulla torre del Comune”. Noi ragazzi ci precipitammo sopra al primo piano. Da casa Dragoni si poteva vedere benissimo in lontananza la cattedrale e la torre del Comune solo che, a causa dell’ora, l’incidenza dei raggi solari non faceva distinguere i colori della bandiera. “Vado a prendere un binocolo” dissi e mi 147
precipitai di corsa alla villa. Qui mi feci dare da mia zia il binocolo spiegandole a cosa mi serviva. Tornai trafelato a casa Dragoni. Puntai il binocolo e potei vedere la bandiera issata sul pennone della torre comunale. Feci vedere a tutti con il binocolo e, nonostante
le
difficoltĂ
dovute
al
controluce,
concludemmo che la bandiera era il tricolore.
148
Arezzo era liberata!
Tornai a mangiare verso l’una e parlai con i miei, mia zia e l’avvocato dicendo quello che avevo visto. Tutti concordarono che gli alleati erano ad Arezzo. Mangiai in fretta e più tardi tornai a casa Dragoni. Eravamo in tre che si scrutava a turno con il binocolo in direzione di Arezzo e della strada della Cella, quando Pietro, che era andato a fare i propri bisogni sul retro della casa, tornò allarmato “Ci sono tre tedeschi nei campi di sopra”. Il Dragoni che si era assuefatto all’idea che tutto fosse finito esclamò “Porca M….. Sono ancora qui a romperci i coglioni”. Ci spostammo sul retro della casa e da una finestra potemmo vedere i tre tedeschi in mezzo ai campi con gli ulivi che armeggiavano come per recuperare dei fili telefonici, ma non si riuscì a capire bene cosa facessero. Saranno stati a cento metri di distanza e noi cercammo di non farci scorgere alla finestra. Tornammo sul fronte della casa e con il binocolo 149
finalmente potemmo vedere che due autoblindo venivano verso San Polo dalla strada della Cella. Erano circa le tre e mezzo del pomeriggio. Allora con Pietrino ci dividemmo i compiti: lui rimase sul retro a controllare quello che facevano i tedeschi ed io sul davanti a vedere quello che facevano le autoblindo. Queste salirono verso la Pieve di San Polo, poi per un tratto le persi di vista e quindi ricomparvero sul piazzale della canonica della Pieve. Qui si fermarono. A quel punto pensai di correre ad avvisare gli inglesi che sopra alla casa Dragoni c’erano soldati tedeschi. Non dissi niente a nessuno e feci tutto di testa mia. Dovevo
solo
scegliere
quale
strada
fare
per
raggiungere la Pieve per non farmi vedere dai soldati tedeschi. Scelsi di scendere per i terrazzamenti, che rasentando il frantoio dell’olio, portavano verso il santuario del Giuncheto. Qui bastava fare il primo salto di un metro e mezzo e ci si defilava subito dalla vista di chi era nei campi di sopra. Raggiunta la strada che va verso il cimitero e la Pieve, il grosso era fatto. Raggiunsi il piazzale della canonica e trovai gl’inglesi che avevano parcheggiato le due autoblindo sotto il porticato. La radio era accesa e la pattuglia comandata da un ufficiale era in collegamento con il proprio comando. Andai deciso verso l’ufficiale e imbrogliandomi per l’emozione dissi “Ci sono drei 150
deutchen soldaten, lassu sopra”, non avrei mai voluto pronunciare quelle parole in tedesco. L’ufficiale
mi
chiese
in
italiano
“Quanti?”
e
“Dove?”, poi si mise a ridere e con la mano sinistra fece un gesto come per dire, non è importante. Io gli dissi che stavano andando verso Antria attraverso i campi. Rimasi male perché credevo di aver fatto una cosa utile, ma sembrava che la mia informazione non fosse tenuta nell’opportuna considerazione. Tornai a casa Dragoni sempre per la strada che avevo fatto. I tedeschi ormai erano andati via e ora la preoccupazione del Dragoni era che in quei campi fossero state lasciate delle trappole antiuomo. Ormai era pomeriggio inoltrato e su comando di mia madre rimasi con i miei alla villa. In momenti come quelli non era il caso di andare in giro a vagabondare. Ripresi a leggere il libro del Salgári. Arrivò l’ora di cena e tutti ci trovammo a tavola sollevati e fiduciosi per com’erano andate le cose. Intorno alle nove, era ancora chiaro, andai nell’orto della villa vicino al cedro del Libano. Volevo vedere cosa stessero facendo gli inglesi giù alla Pieve. All’improvviso d’artiglieria
arrivò
tedeschi
una vicino
gragnola alla
di
canonica.
colpi Una
cannonata demolì una parte della grondaia sopra le autoblindo inglesi. Il bombardamento durò circa un 151
quarto
d’ora.
probabilmente
Erano
le
avvisate
batterie dai
da
tre
88
tedeschi
che, del
pomeriggio, stavano battendo la posizione inglese dal Chiavaretto. I colpi caddero tutti in un’area di una sessantina di metri tra la canonica e il muro dell’orto della villa. Io ero nell’orto là sopra e mi godetti lo spettacolo che per me era una novità. Fui un incosciente perché la distanza tra la canonica e il muro della villa è di circa cento metri e quindi i colpi che
cadevano
a
metà
strada
erano
a
una
cinquantina di metri e la mia posizione poteva essere interessata dalle loro schegge. Finalmente i fuochi d’artificio del bombardamento terminarono e volli rientrare in villa. Mentre ero di ritorno, vidi venire dal Giuncheto, attraverso lo sbancamento del nuovo giardino della villa, due militari di piccola statura con il cappello come quello degli australiani. Uno di loro teneva in braccio un pezzo di ferro che sorridendo mi mostrò. Era un proiettile da 88 diviso in due dall’esplosione. Potei osservare che i due avevano lineamenti orientali ed erano piccoli di statura con due sciabole ricurve pendenti dai fianchi. Nei giorni successivi mi fu detto che questi militari erano Gurkha. Dovevano avere un compito preciso
152
perché
non
si
fermarono
nella
villa,
attraversarono l’androne e il portone per disperdersi nella notte verso il fosso di Santa Lucia. Al mio rientro in villa ebbi due ceffoni da mia madre
che
era
stata
in
apprensione
per
il
bombardamento d’artiglieria. Me li ricordo ancora perché furono gli unici e ultimi che ricevetti. Ormai la giornata era terminata e tutti andammo a dormire un po’ più sollevati.
153
Lunedì 17 luglio. L’inizio del cambiamento
Al mattino gli abitanti della villa che si alzarono presto scendendo in cucina, trovarono una sorpresa. Sotto il portico della villa si era acquartierata una sezione di sanità della IV° divisione indiana. Erano arrivati al mattino presto, ancora al buio, ed erano entrati occupando un locale sotto la terrazza dal quale avevano spostato in una parte dell’orto tutta la legna da ardere della villa. Qui avevano posto una decina di brandine per il primo ricovero dei feriti e per i militari in tutto otto. L’ambulanza aveva occupato il posto del calesse nell’androne della villa e una Jeep era parcheggiata sul piazzale antistante. Tutto era stato fatto in silenzio senza che ce ne fossimo
accorti.
Erano
tutti
militari
indiani
comandati da un tenente medico con il turbante azzurro come Sandokan. Era la prima volta che vedevo in carne e ossa gli indiani. Quello che sapevo su loro, ammesso che fosse vero, lo avevo appreso 154
solo dai romanzi di Salgari. Il medico, un gran signore,
parlava
correntemente,
oltre
che,
ovviamente, l’inglese, anche francese e un poco l’italiano.
Appartenevano
tutti
alla
IV
divisione
indiana dell’VIII° armata, come lui ci disse a pranzo, cui fu invitato dall’avvocato il giorno stesso per festeggiare
il
loro
arrivo,
dopo
aver
chiesto
precisazioni sulla carne che la sua religione gli consentiva mangiare. In quei giorni era già molto che in tavola ci fosse un pollo e questo fortunatamente andava bene per l’ufficiale indiano. Come lui ci disse, apparteneva a una famiglia benestante sikh che in patria commerciava all’ingrosso in tè e spezie. Si era laureato in medicina a Cambridge poco prima della guerra e la famiglia per premio gli aveva consentito di fare le ferie per un anno a Firenze. Poi, dopo aver fatto esperienza per qualche anno in un ospedale di Nuova Delhi, era stato arruolato nell’esercito di sua maestà. I militari ai suoi ordini erano tutti indù fieri della divisa che indossavano portata con ordine e pulizia. I militari dell’VIII armata che vidi in seguito non erano così in ordine e dignitosi come quelli di quella
sezione
di
sanità.
Nei
giorni
seguenti
imparammo anche cosa i militari, acquisite le abitudini inglesi, mangiassero al tè delle cinque. La merenda, si fa per dire, era una tazza di pudding di 155
tapioca con una tazza di tè. Il tè era quello verde come per tutti i militari asiatici, non quello inglese denaturato con essenze vegetali. Dopo colazione volevo andare a casa Dragoni, ma appena uscito dal portone della villa vidi una sequela di obici da 105 piazzati più in basso lungo il borro di S. Lucia. All’epoca i campi erano coltivati a grano con ulivi e testucchi a sostegno delle viti e la visuale era libera per diversi chilometri. Oggi, dopo settanta anni, le piante, cresciute intorno al fosso e ai lati della strada per Antria, non consentono più una visuale così libera come allora. La fila di cannoni, un centinaio, si stendeva lungo il fosso per più di un chilometro da sotto la scuola elementare di San Polo verso la piana di Ca’ di Cio. Tornai in casa e cercai mio padre perché venisse a vedere. Mio padre uscì sul piazzale e mormorò: “Come potevamo vincere con tutti i mezzi che hanno a disposizione!”. Erano circa le nove e mezzo della mattina e venne Pietrino Dragoni avvisandoci che le operazioni d’esumazione dei cadaveri dei trucidati il venerdì sera erano già avviate a villa Gigliosi, poi entrò in villa e raccontò tutto quello che aveva visto a sua zia ed alle altre donne
con
dovizia
di
particolari
facendosi
importante. Mio padre mi disse: “Andiamo a vedere, ma facciamo alla svelta”. Avvisò mia madre che 156
ascoltava il racconto di Pietrino e poi attraversammo lo sbancamento del nuovo giardino della villa e scendemmo verso il Giuncheto. Sulla destra, davanti alla parete nord del cimitero, c’erano degli uomini che scavavano il bisciaio per ricavare le fosse in cui inumare i cadaveri. I lavori erano abbastanza avanti. Scendemmo verso villa Gigliosi e incontrammo un carro agricolo tirato da due buoi, a cui si aggiunsero in seguito altri due carri trainati da muli, e davanti Don Lazzeri con la cotta sopra la talare, la stola viola, il tricorno e in mano il breviario, ai lati di don Lazzeri due contadini di San Polo con lo schioppo da caccia ed un fazzoletto rosso intorno al collo. Un altro contadino conduceva i due buoi che trainavano il carro agricolo su cui erano ammassati i cadaveri di quattro o cinque martiri che erano trasportati al cimitero. Il lezzo era fortissimo. Durante la giornata e quella successiva, quella scena si ripeté per una decina
di
volte
fin
tanto
che
i
cadaveri
dei
quarantotto martiri furono tutti inumati al cimitero e fu immortalata dalle riprese dei reporter al seguito dell’VIII° armata. Il lavoro continuò senza sosta fino a sera inoltrata e la mattina successiva. Davanti al cancello di villa Gigliosi c’erano alcuni militari inglesi in servizio d’ordine, reporter in divisa con cineprese, personale della sanità militare inglese. 157
Il funerale dei martiri
C’erano
anche
diversi
civili
forse
parenti
dei
trucidati. C’era anche il figlio della bottegaia di San Polo che aveva un moschetto come quelli della milizia e un fazzoletto tricolore al collo, con lui altri due sedicenti partigiani. A San Polo tutti quanti avevamo visto nei mesi precedenti che il figlio, giovanissimo, della bottegaia era sempre stato a casa con la madre e che uno dei due contadini, che accompagnavano
Don
Lazzeri,
aveva
sempre
accudito i suoi campi, così non potei fare a meno di dubitare della loro qualifica di partigiani. Chiesi a mio padre il perché e lui asciutto rispose: “Si stanno 158
proponendo per acquisire meriti per il nuovo ordine che verrà”. Nel piazzale di villa Gigliosi c’erano le squadre per l‘esumazione dei cadaveri dirette da due medici, il dottor Silli e il dottor Martini. Di fronte al muro delle pertinenze della villa, a una distanza di un paio di metri circa, si poteva vedere una striscia di terreno rimosso di recente lunga una ventina di metri larga un paio. I primi quattro cadaveri vicino all’ingresso erano stati già esumati, li avevamo incontrati per strada e ora, quando io e mio padre eravamo sulla scena, gli addetti, con un fazzoletto sulla bocca e alcuni con maschera antigas, stavano estraendo un secondo gruppo di quattro. Le squadre erano pronte a darsi il turno quando la resistenza al lezzo veniva meno. Due procedevano spostando il terreno che ricopriva i corpi, poi altri due facevano il lavoro più duro, scendevano nella fossa per spostare e pulire i cadaveri in modo da liberarli dalla terra, infine passavano una fune di canapa sotto le spalle e le braccia per estrarli dalla fossa. Il dottor Silli e l’altro
intervenivano
come
medici
legali
per
l’identificazione. I tedeschi avevano fatto scavare una fossa in fretta poco profonda e quindi non c’era molta terra da spostare. Su tutto dominava forte il lezzo dei cadaveri. Allego il rapporto medico legale
159
fatto dai due medici25. "In data 17 luglio 1944, noi sottoscritti, dott. Aldo Martini e dott. Carlo Silli di Arezzo, medici italiani, dietro invito dei parroci delle parrocchie di Antria e di San Polo, ci siamo recati in frazione San Polo, per procedere alla riesumazione dei cadaveri seppelliti in tre fosse scavate nel boschetto di villa Gigliosi. "Alla nostra presenza sono state aperte due fosse nelle quali sono stati trovati: nella prima buca dieci cadaveri e nella seconda quindici cadaveri e un cadavere depezzato e isolato. Il giorno successivo, 18 luglio, si è proceduto all’escavazione della terza fossa non essendoci stato possibile procedervi in una sola giornata dato il numero elevato delle vittime. "Nella prima fossa sono stati trovati dieci cadaveri, nella seconda quindici, nella terza ventitré e cioè un totale di quarantotto uomini, quivi compresi quelli trovati isolati. "Tutte le vittime, completamente vestite
di
abiti
civili,
appaiono
deformate
per
incipiente putrefazione, ma in tutte si notano segni caratteristici, che ci precisano che la morte è avvenuta colla stessa modalità di esecuzione per le fosse n. 1 e 2, mentre per la fossa n. 3 parleremo a parte. "Gli occhi sono sbarrati, quasi proiettati in fuori, la lingua sporge dalle labbra per circa 2-3 centimetri, le unghie delle mani e dei piedi sono di colore cianotico 25
Consultare il sito della Provincia
160
nerastro. Tutti questi segni sono propri della morte per asfissia. Intorno al collo, non si riscontra alcun segno circolare che possa far pensare ad una morte per impiccagione. (Sotterrati vivi, dunque!). " Molte vittime presentano segni ecchimotici recenti intorno al tronco, come se in vita fossero stati percossi con un frustino elastico o con nerbo di bue, o con bastone di gomma." Quattro vittime, pur con i segni della morte asfittica, presentano ampie mutilazioni degli arti, come per maciullamento, dovuto a esplosioni violente. " Nella seconda fossa sono stati rinvenuti dei cartocci di gelatina
inesplosi
e
pezzi
di
miccia,
sufficienti
pertanto a darci la spiegazione del maciullamento di alcuni cadaveri. "Al tronco di un albero si notano i residui di una miccia abbandonata sul posto. Da qui la miccia che avvolge il tronco dell'albero è stata recisa per fare il fuoco che doveva condurre alle esplosioni nelle fosse a comune. Al di sopra di queste fosse, fra le frasche degli alberi, si notano tracce di terra, frammenti di abiti e piccole parti di corpo umano (!!) come pure nelle zone viciniori, in terra, si trovano frammenti di corpo umano, e tra questi spicca la cute completa di un piede, senza ossa, come se fosse stato spellato con tutte le unghie ancora attaccate (!!). "Si dà atto infine, che nessuna vittima presenta traccia di ferita d'arma da fuoco, sempre rispettivamente per le 161
prime due fosse, né lesioni tali da far supporre una causa o concausa determinante la morte. "Da questi dati si deduce: "1°) - Che le vittime, per lo meno in gran parte, sono state flagellate prima di essere poste nella fossa. "2°) - Che nella fossa sono stati posti gli uomini, gli uni sopra gli altri, tutti ancora viventi o quanto meno in stato di incoscienza, fino a giungere a mezzo metro dalla superficie della terra, in modo che dovevano trovarsi stipati gli uni contro gli altri, in sofferenze respiratorie inaudite ". Il rapporto la dice lunga sull’efferatezza del metodo adottato dai militari della Wehrmacht. A San Polo non furono utilizzate armi da fuoco in dotazione alla fanteria, ma una procedura lunga e contorta degna della peggiore mente umana che allungò a dismisura le sofferenze dei condannati. Erano ormai passate una cinquantina di ore dall’esecuzione ed eravamo a metà luglio. I corpi erano enfiati dal processo di putrefazione e avevano i lineamenti totalmente stravolti. La bocca era aperta. Tra i quattro che stavano estraendo, ricordo il corpo di Vittorio Bianchini26, le cui dimensioni erano diventate 26
immense.
Ma
il
lezzo
mi
stava
Vittorio Bianchini lo avevo visto le domeniche alla messa. Era
un uomo che in vita s’imponeva per la sua statura.
162
attanagliando lo stomaco e non potevo più sforzarmi per trattenere il vomito. Dissi a mio padre che bastava e che non ce la facevo più. Ci allontanammo rapidamente e tornammo alla villa. L’esperienza mi aveva stravolto e quell’odore mi è rimasto fortemente impresso tanto che ancora oggi, a distanza d’anni, dovendone riparlare il senso di voltastomaco si ripresenta come allora. Rimasi in villa a leggere ancora un po’ di Salgari. A pranzo con tutti noi residenti in villa c’era l’ufficiale medico indiano ospite nostro. Parlammo del massacro e l’indiano ci disse che questa non era la prima volta che assisteva a una strage, gli era capitato in precedenza in un paesino intorno a Cassino, dove erano state uccise quindici persone. Ossessionata dal passaggio del fronte e non convinta per essersela cavata il giorno prima così a buon mercato mia madre chiese se fosse stato possibile che i tedeschi contrattaccassero e ritornassero. L’ufficiale indiano rispose che, per quanto loro sapevano, i tedeschi non avevano forze sufficienti per operazioni di tal genere, ma che si sarebbero attestati sul crinale dell’Appennino e lì avrebbero fatto resistenza. Finì il pranzo che non fu proprio una festa. L’ufficiale indiano si accomiatò ringraziandoci e ci lasciò del cioccolato e dei pacchi di thè. Quel giorno 163
non andai a casa Dragoni ma preferii riposarmi sul letto, però andò a finire che mi misi a ordinare i libri di studio che mi ero portato dietro. A sera scesi in cucina poco prima di cena e subito arrivò la notizia, questa volta sussurrata e non urlata come quella dell’avvocato Tani, “Hanno ucciso il Massetani”. Questi era il proprietario di Villa dei Lauri a metà salita prima della Pieve. Era un intellettuale, che aveva l’unica colpa di essere stato un
nazionalista
convinto
alla
Federzoni,
con
posizioni che spesso divergevano da quelle del partito. Ormai aveva settantaquattro anni. Fu ucciso con un colpo alla nuca nei pressi del cimitero di San Polo. L’autore era armato e libero di circolare. Al momento non si sapeva cosa volessero fare gli Alleati per questo tipo di reati, perciò la gente aveva paura ed evitava di parlare dell’assassinio limitandosi a sussurrare. Se ne riparlò dopo cinque anni nel 1949 quando, su richiesta della vedova, fu iniziato il processo a carico di chi lo aveva ucciso.
164
Martedì 18 luglio e quelli successivi
La giornata passò tranquilla senza avvenimenti degni di nota. Andai al podere del Dragoni evitando le due pittime Liberti. Fu una giornata dedicata alla cura dell’orto con Pietrino e Donato. Poi verso le sei di sera iniziò il bombardamento di Campriano. I cannoni in postazione lungo il borro iniziarono a far fuoco nell’ordine da quelli sotto la scuola fino agli ultimi verso Ca’ de Cio riprendendo daccapo il fuoco senza sosta. Si poteva vedere questo dalla sequenza del fumo delle vampate dei pezzi. L’obiettivo era Campriano. In breve le esplosioni dei proiettili con il loro fumo avvolsero tutta la collina e, poiché il bombardamento durò più di due ore, il fumo, a causa della brezza, fu trasportato per sette chilometri verso Giovi
e
Petrognano
adagiandosi
sulla
pianura.
Quando il bombardamento terminò era già buio. Il tutto fu causa di una nuova crisi d’ansia e di paura per mia madre. Mia nonna invece era 165
preoccupata per lo zio Angiolino e la sua famiglia che era sfollato a Campriano. La notte per mia madre non fu tranquilla. Quello che era successo nella giornata, per lei era stata la prova di quello che avrebbe potuto essere il passaggio del fronte. La mattina successiva, mia nonna decise dopo aver parlato con mio padre di prendere il carretto e di andare via da San Polo mettendo chilometri in più tra noi e le operazioni di guerra. Non si sapeva, dove andare, ma si pensò a un posto a sud d’Arezzo. Così con il solito carrettino e le solite masserizie, che mio padre aveva recuperato a Misciano il pomeriggio del diciassette, di mattino ci avviammo per la strada di S. Fabiano. Nel tratto di strada, che dopo gli Archi costeggia
il
cimitero
(oggi
Via
Gamurrini),
incontrammo altre persone che avevano fatto come noi cercando di allontanarsi dalla linea del fronte. Mi ricordo che erano circa le undici di mattina. Il bombardamento di Campriano era ripreso da un po’ di tempo e sopra le nostre teste sentivamo sfarfallare i proiettili dei grossi calibri che gli Alleati avevano messo in postazione dalle parti di Gaville – S. Firmina. Si passò dall’ospedale, S. Croce, Porta Trento e Trieste, il ponte sul Castro e infine via Erbosa. In via Erbosa si decise di andare dai Carmelitani di S. Maria delle Grazie. Il tragitto 166
prescelto, a parte la chiesa di S. Croce, non manifestava evidenti segni di distruzione. Anche in via Erbosa le distruzioni del Fabbricone non erano evidenti. Verso mezzogiorno arrivammo a S. Maria e qui i frati ci fecero accomodare in uno spazio del refettorio a piano terra. C’erano altre famiglie con vecchi e bambini. Ci accomodammo alla meglio e mangiammo quello che avevamo portato. Nel cortile sotto il portico laterale c’erano altre famiglie. Nel pomeriggio trovai modo di giocare al calcio con una squadra di ragazzi, di cui uno di loro era proprietario di un pallone. Mio padre invece fece una perlustrazione per vedere com’erano le cose da questa parte di Arezzo. Andò verso la Magnanina dove c’era una bottega di generi alimentari, che era rimasta sempre aperta, qui le batterie dei grossi calibri inglesi erano molto vicine. Poi fece una puntata per via Mecenate fino al bastione di S. Bernardo, dove le distruzioni dei bombardamenti erano notevoli, ma dove la gente che poteva si era riappropriata degli appartamenti abbandonati agli inizi dello sfollamento. A sera né parlò con mia nonna e mia madre e insieme decisero che il giorno dopo sarebbe andato fin verso casa in Via Bicchieraia per vedere com’era la situazione in centro. Chiesi se potevo andare con lui e il permesso mi fu accordato. Il giorno successivo dopo colazione 167
ci avviammo. Si fece Via Mecenate e così potei vedere sulla sinistra le macerie del cosiddetto zuccherificio, poi qualche casa distrutta e infine all’altezza del passaggio a livello di via Trasimeno la distruzione totale delle case lì intorno. Davanti sulla destra c’era il Fabbricone con i capannoni scoperchiati e gli uffici distrutti. In via Trasimeno verso la chiesa di Saione vedemmo, una novità per noi, ruspe inglesi che lavoravano.
Dopo
prendemmo
per
via
il
bastione Margaritone
S.
Bernardo
e
passammo
davanti alla chiesa di S. Bernardo, di questa era rimasta in piedi solo la facciata. Guardammo a sinistra verso Piazza S. Jacopo e vedemmo la completa distruzione delle case. Le case d’angolo tra via Margaritone e via Crispi erano distrutte, poi più avanti, all’inizio del Borgo Maestro, le macerie del palazzo della Banca Popolare di Arezzo non ancora rimosse. Proseguimmo per il Borgo Maestro verso la Pieve. All’angolo di via Garibaldi sulla destra c’era una casa distrutta, e guardando a sinistra verso il Supercinema vedemmo le macerie all’incrocio di via Garibaldi con via Madonna del Prato, poi tutto andò bene fino al Canto de’ Bacci. Poi, sulla destra prima della Pieve, c’erano altre tre o quattro case distrutte. Qui le macerie erano state accatastate in buon ordine. Infine Via Bicchieraia. All’imbocco la casa 168
della fonte e il palazzo della Zecca erano distrutti e in fondo dal lato di via Cesalpino la facciata di S. Pier Piccolo e quella di Palazzo Marsuppini distrutte.
Palazzo Marsuppini-Perelli ex Banca d’Italia distrutto
La nostra casa, almeno apparentemente, non era stata toccata dalle bombe. All’estremità della strada le macerie erano state accatastate per lasciare uno spazio sufficiente al passaggio di persone, davanti a S. Pier Piccolo lo spazio era molto più largo e consentiva il passaggio anche di un carro. Durante il percorso io osservavo con interesse lo stato delle cose e lo confrontavo mentalmente con quello che ricordavo prima dei bombardamenti. 169
Mi rendevo conto di quanto lavoro si sarebbe dovuto impiegare per la ricostruzione. Il portone di casa era stato divelto dallo spostamento d’aria e fortunatamente nessuno se l’era portato via. Mio padre aveva le chiavi dategli da mia nonna. Ispezionammo la casa cominciando dal piano terra a salire e quello che si riscontrò furono gl’infissi divelti sul lato strada con i vetri rotti, la struttura della casa non aveva subito danni eccetto il tetto sul lato strada danneggiato dal fall out dei detriti delle bombe cadute su palazzo Marsuppini. Mio padre prese degli appunti e delle misure e mi spiegò che stando così le cose potevamo tornare ad abitare nella casa al più presto. Dovevamo evitare che il poco materiale che era rimasto fosse rubato da qualche sciacallo, “non vorrei che succeda come a casa nostra a S. Giorgio dopo l‘altra guerra” disse mio padre. Incuriosito, chiesi cosa fosse successo e lui mi raccontò l’odissea della sua famiglia dopo il 27 ottobre 191727. 27
Come ho già detto, la famiglia di mio padre era di S.
Giorgio di Nogaro che, prima della guerra, era a tre chilometri dal confine con l’Austria. La sera del 27 ottobre 1917 arrivò la notizia che gli austro-tedeschi avevano sfondato a Caporetto. Gli abitanti del paese decisero di abbandonare le proprie case e di scappare verso le retrovie italiane. Così fecero altre popolazioni del Friuli, della Carnia e del Cadore che non
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Nel venire verso via Bicchieraia avevamo visto che alcuni negozi di alimentari nel Borgo Maestro avevano
ripreso
la
loro
attività
soprattutto
le
panetterie e poi c’erano i bar ed i caffé che avevano riaperto. Il bar Stefano e il caffé Sandroni erano già aperti. Al bar Giommoni si lavorava per riaprire al più presto, lo spostamento d’aria della bomba che aveva distrutto il palazzo di fronte aveva divelto tutti gli infissi e gli arredi. Qualche famiglia era già rientrata a casa. Le conclusioni di mio padre furono volevano rimanere sotto la dominazione dei tedeschi. Anche da Cervignano, che fino all’inizio della guerra era stata austriaca, la popolazione volle andarsene. Le autorità favorirono l’esodo e ciascuna comunità ebbe una destinazione assegnata. Gli abitanti di S. Giorgio furono destinati a Modena. Bisognava fare presto perché tutti, profughi e soldati della terza armata, dovevano passare per l’unico ponte sul Tagliamento a Latisana. Mio nonno caricò su un carro un po’ di masserizie e, il pomeriggio del ventotto, s’infilò nella marea umana in ritirata con la nonna, due figlie e quello più piccolo verso Modena, secondo le direttive ricevute dal sindaco. Mio padre e zio Antonio, rispettivamente di sedici e quasi diciotto anni, ebbero l’incarico di caricare sull’altro carro quanta più roba possibile e partire
entro
la
sera
del
ventinove.
Per
difendersi
dai
malintenzionati avevano un fucile da caccia. La famiglia una volta a Modena vi rimase per più di un anno. Poi quando, a guerra finita, tornarono a casa, trovarono solamente i muri.
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quindi di rientrare quanto prima in città adattandosi a convivere con i mucchi di macerie. Mangiammo due fette di pane e salame e nel pomeriggio ritornammo a S. Maria. Questa volta per avere una visione più completa della città passammo da via Guido Monaco e dalla stazione. Piazza S. Francesco era un deposito di macerie e le distruzioni di piazza Guido Monaco e di piazza della stazione erano immani. Il fabbricato della stazione era rimasto in piedi. A S. Maria mio padre riferì quello che aveva visto e disse che secondo lui ogni giorno che passava la situazione sarebbe migliorata perché sarebbe rientrata più gente e i servizi prima o poi (acquedotto ed energia) sarebbero stati ripristinati. Così si decise di tornare a casa l’indomani. Se si doveva dormire su materassi a terra per qualche giorno in più tanto valeva dormire a casa nostra e non nel refettorio dei frati. Seguirono poi le operazioni di rientro. Nei giorni successivi io mi detti da fare ad aiutare mia nonna a pulire le stanze che avremmo occupato al primo piano, mio padre andò a San Polo e organizzò tre carichi per riportare le nostre masserizie ad Arezzo e mia nonna andò a cercare un falegname e un muratore per le prime operazioni di manutenzione. Mi ricordo che per le settimane successive andavo a prendere l’acqua con due damigiane su un carretto 172
alla fonte di piazza Vasari dove si faceva la coda anche per tre quarti d’ora. L’acqua però non era potabile e bisognava bollirla per poterla bere. Le riserve di carbone nella carbonaia erano ancora quelle dell’autunno precedente che nessuno aveva toccato. Poi piano piano la vita quotidiana tornò alla normalità, ma tutto era cambiato e non sarebbe stato più come prima. Soprattutto mia madre non era più come prima. I miei compiti in quel periodo erano di andare a prendere ogni giorno al tramonto il latte in una casa colonica oggi ristrutturata, fuori le mura di S. Clemente al numero 50 di via Tarlati vicino alla rotatoria. Poi ogni settimana andavo in bicicletta a San Polo dove la zia mi riempiva un paio di sporte d’ogni ben di Dio per aiutare soprattutto mia madre. Se fino allo sfollamento non avevamo avuto problemi per mangiare, passato il fronte, c’era penuria
di
cibo
e
i
prezzi
subirono
subito
un’impennata. A dicembre mia madre fu ricoverata in clinica per un mese e mezzo senza alcun miglioramento.
A
dicembre
iniziò
anche
l’anno
scolastico. La cerimonia d’inizio fu fatta per tutti gli studenti delle scuole medie superiori a palazzo Fossombroni in piazza S. Domenico, poi da gennaio le lezioni ripresero regolarmente per tutti. Il Liceo Scientifico era stato sistemato al terzo piano del 173
Convitto nei locali che un anno prima erano stati adibiti a ospedale militare. A
marzo
del
1945
terminarono
i
lavori
di
riparazione della casa e noi tornammo ad abitare al secondo piano lasciando gli appartamenti del primo piano,
dove
eravamo
stati
temporaneamente
alloggiati, per essere affittati. In uno tornò il vecchio inquilino e nell’altro uno nuovo, il piano terra era in affitto come magazzino di alcuni esercizi posti nel Borgo Maestro. Ora mia nonna aveva come reddito solo
gli
affitti
e
non
poteva
contare
più
sul
pensionato che aveva gestito fino all’anno prima. Mia madre aveva bisogno di essere assistita e mia nonna si dedicò a questo senza l’aiuto di Ersilia che si era sposata durante lo sfollamento.
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Epilogo: la malattia di mia madre e il ritorno a S. Giorgio
La guerra nel 1945 si trascinò fino a maggio in Europa e fino ad agosto nel Pacifico. Le notizie che avevamo dalla radio le ascoltavamo meccanicamente e senza interesse. Ormai per noi tutto era finito e perso. La malattia di mia madre focalizzava la nostra attenzione. Tutto il 1945 fu per lei una continua consunzione e un lento spegnersi fino a giovedì 6 giugno 1946. Quel giorno tornai da scuola alle tredici e mi fu detto che la mamma era morta nella mattinata. Anche se ormai si sapeva da qualche tempo che non c’era più alcuna speranza ed eravamo preparati all’evento, la notizia fu una mazzata. Quel giorno finì la mia adolescenza che non era neanche cominciata. A
ottobre,
dopo
sei
anni,
mio
padre
volle
giustamente tornare a S. Giorgio di Nogaro. Mi portò con se e con l’immancabile Beretta calibro 12. Qui 175
con i parenti parlava dei conoscenti che non ce l’avevano fatta. In sei anni molti erano morti per cause naturali o di guerra. Anche un cugino Maico Foghini tenente degli alpini nel battaglione Val Cismon della Julia, figlio di Alcide, uno degli zii che negli anni trenta si era trasferito a Gorizia, non era tornato dalla Russia. Chi parlava volentieri di queste cose era la zia Lucia, moglie di zio Antonio, che s’infervorava e raccontava tutto in friulano. Alla fine del racconto, se la persona di cui parlava era morta, terminava con la solita parola “pùar”, che significa poveretto. Con la stessa parola terminava i racconti che venivano da Trieste sugli infoibati dopo aver profuso i particolari raccapriccianti sui modi della loro soppressione. Fu così che appresi che, per alcune centinaia di migliaia di nostri connazionali, la guerra
non
era
ancora
finita.
Quella
guerra
particolare, che era cominciata per loro a Pola nell'agosto 1945, terminò solo nel 1948, facendo tra loro
diverse
decine
di
migliaia
di
morti.
Alla
maggioranza dei connazionali che fuggirono in Italia, fu
riservata
un’accoglienza
indegna,
quasi
che
l’Italia, o meglio quello che ne era rimasto, si vergognasse di loro. Anche oggi, a distanza di sessantacinque anni, la questione dei profughi Giuliani e Dalmati è un nervo scoperto di una 176
repubblica divisa, che non la ha saputa affrontare dal punto di vista storico perché ha prevalso l’interpretazione ideologica degli avvenimenti. Negli anni del grande silenzio della repubblica Pasolini scrisse su Caporetto nel 1917, ma con chiaro riferimento al periodo della sua giovinezza, questi versi: ………………….. i vuj di Diu si son sierràs Tal Friul romai plen di Todèscs e di Sclafs28.
28
Da Caporetto, in Romancero (1953), in “La Nuova
Gioventù”, Ed. Einaudi, 1973. Traduzione: …………………gli occhi di Dio si sono chiusi sul Friuli ormai pieno di Tedeschi e di Slavi.
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Fonti consultate Il sito ufficiale della Provincia di Arezzo http://www.memoria.provincia.arezzo.it/filmati/filmato_VIII.asp? lm=04 http://www.memoria.provincia.arezzo.it/link.asp mi è stato utile per il rapporto dei due medici preposti al riconoscimento e alle cause della morte dei 48 martiri Il libro di Enzo Droandi, AREZZO DISTRUTTA 1943-44, Calosci Editore, mi è stato utile per trarne alcune immagini e per i rapporti tra Sante Tani ed il C.A.P.L. Sulle azioni di rappresaglia della Wermacht a San Polo e dintorni preciso che furono tutte eseguite da truppe appiedate senza impiego di tanks. Il libro di Padre Raimondo Caprara O.P.: La repubblica di S. Domenico, Poligrafico Aretino editore, dovrebbe essere letto dagli Aretini e da tutti i nati dopo quegli eventi. Le carte allegate sono estratte da quelle al 10000 n. 288080, 288110, 288120 pubblicate a cura dalla Regione Toscana. All’epoca nella zona c’era solo Villa Maggi, la scuola elementare e la Pieve con la canonica.
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181
Notizie su San Polo. Il luogo nel tempo. Le notizie sul luogo sono tratte dal libro di Angelo Tafi
Le antiche pievi, madri vegliarde del popolo aretino. Ed. Calosci, Cortona 1998.
Le case dell’abitato di San Polo sono disperse sulle pendici di una collina che guarda a ovest sulla pianura a nord di Arezzo. Negli anni successivi del dopoguerra
l’amenità
del
luogo
ha
favorito
l’insediamento di nuove costruzioni diminuendo modestamente
questa
dispersione.
Un
esempio:
all’epoca il terreno tra villa Maggi, il cimitero e la Pieve, a parte un boschetto di querce vicino al cimitero, era tutto coltivato a grano con un solo filare di viti lungo la strada per Quarantola. Affacciandosi al muro dell’orto di villa Maggi si vedeva la Pieve con la canonica senza alcun ostacolo. Le notizie storiche che abbiamo su San Polo ci dicono che la viabilità romana e medioevale ha lasciato le proprie tracce sul luogo, infatti, la Pieve si trova all’incrocio di due strade. Alcuni studiosi parlano di un’arteria militare romana, Ariminensis o Livia, che collegò per più di due secoli Arezzo con Rimini, pur non essendo concordi nell’ubicazione del tracciato, però tutti sono concordi che per San Polo passasse 182
anche
una
via
romana
minore
di
collegamento tra Arezzo, Anghiari e l’alta valle del Tevere
con
il
seguente
tracciato:
Arezzo,
San
Fabiano, San Polo, Colle di Vezzano, Pietramala, Ceralta, Montemercole, Anghiari. Si noti che questa strada, nel tratto San Polo, Colle di Vezzano, Pietramala, è stata percorsa dalle truppe tedesche per portare a termine il rastrellamento delle vittime della rappresaglia. Il toponimo San Polo è la corruzione popolare del nome del santo titolare della Pieve, anche se volendo essere più precisi sull’altare maggiore di questa si legge la dedicazione alla conversione del santo (Atti degli Apostoli 9.1-9). Il toponimo antico è Petriolo da “praetoriolum” che indica una villa signorile romana con fattoria annessa dei primi due secoli D.C. preesistente alla Pieve. E’ evidente che i proprietari della villa ebbero notevoli disponibilità finanziare perché impiegarono colonne in granito di Sardegna o delle isole dell’arcipelago toscano (foto. 1), fatte venire su chiatta per mare e poi per fiume almeno fino a Empoli, e che furono riutilizzate in seguito nella fabbrica della Pieve per delimitare le parti laterali del transetto. Il Tafi dice che nel V secolo a San Polo già esisteva una chiesa battesimale paleocristiana le cui testimonianze sono le strutture murarie che si 183
vedono intatte all’inizio del transetto. Considerando la notevole diffusione di reperti archeologici nel territorio aretino, fuori dal perimetro urbano della città romana, si può arguire che, prima del IV secolo, quello dei due santi vescovi Satiro e Donato, il Cristianesimo
era
diffuso
nella
città
e
nelle
campagne. Il fenomeno della diffusione della nuova religione da Roma avveniva dapprima nella cerchia urbana delle città e poi nelle campagne circostanti, specie nei luoghi, dove c’erano ville patrizie i cui proprietari potevano avere contatti diretti con Roma. L’ubicazione dei reperti archeologici nel territorio aretino da un’indicazione che da sempre vi sia stata una diffusione o se si vuole dispersione urbanistica notevole, come del resto ai giorni nostri, non delimitante chiaramente la città dai pagi circostanti. Si può quindi presumere che in San Polo le prime testimonianze del cristianesimo siano state presenti dagli inizi del terzo secolo e che un luogo dedicato ai battesimi fosse presente da tale periodo. Nei secoli la Pieve ha subito delle ristrutturazioni nel 1256 e poi nel 1424. Il terremoto del 1796 la danneggiò gravemente e fu restaurata nel 1800 così come oggi la vediamo. Per maggiori dettagli rimando al libro citato di Angelo Tafi.
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Per chi voglia visitare la Pieve si deve soffermare sul piazzale del sacrato che domina la pianura verso ovest a nord di Arezzo dove in lontananza si scorge il massiccio del Pratomagno (foto, 2). Sulla facciata (foto, 3) presso la porta si leggono due epigrafi datate 1256 menzionanti il pievano del tempo ed il sindaco. (Tafi libro citato pag. 85). Poi si prosegue all’interno (foto, 4) dove la Pieve mostra nel suo insieme un aspetto sette-ottocentesco. Sulle pareti laterali si vedono affreschi del ‘400 attribuiti ad Agnolo di Lorentino che risentono l’influsso di Piero e altri del ‘600. Più avanti si può ammirare l’ingresso al transetto di destra che è stato stamponato negli ultimi restauri (foto. 6) e che consente l’accesso alla sagrestia. Le colonne di granito sorreggono tre archi in cotto, quello centrale è più alto. Di fronte, a sinistra del transetto (foto. 5), una struttura
analoga
ancora
non
stamponata
che
incorpora un affresco forse del diciottesimo secolo rappresentante la presentazione e circoncisione di Gesù al tempio (Vangelo di S. Luca. 2 21-24). E’ strano che, considerando la funzione battesimale della Pieve, non sia stato rappresentato il battesimo di Gesù ormai adulto da parte di Giovanni il Battista. 185
A meno di un chilometro dalla Pieve c’è il santuario dedicato alla Madonna del Giuncheto che sorse sul luogo di un’apparizione della Madonna ad una giovane fanciulla di nome Camilla di Antonio della Valle. Fu costruito come piccola chiesetta all’inizio del Cinquecento e trasformato nel XVI e inizio del XVII secolo dalle stesse maestranze che lavoravano alla chiesa della SS. Annunziata in Arezzo. All’interno è conservata la statua della Madonna col Bambino (foto. 8) attribuita alla scuola di Andrea Sansovino. Questo è il luogo in cui si consumò il dramma del 14
luglio
1944,
un
luogo
di
secolare
civiltà
testimoniata dagli importanti reperti che i nostri predecessori ci hanno lasciato. Erano gli ultimi giorni dell’occupazione tedesca e la
gente
non
vedeva
l’ora
che
tutto
finisse
rapidamente. Invece, a causa di un agguato di nessuna rilevanza militare, 62 persone persero la vita e la comunità di San Polo e Antria ne furono colpite e ferite. Questo si percepì, il giorno stesso del rastrellamento e quello successivo, dal tam tam che correva di bocca in bocca. La gente attonita cercava di comunicare con gli altri quasi andandoli a cercare, anche se questo era difficile per la distanza tra le case, per chiedere e per capire se questi 186
sapevano qualche cosa di più su quello che stava accadendo. Poi, dopo la domenica della liberazione, ci fu il lunedì in cui si capì finalmente, dai referti dei due medici, come i martiri erano stati uccisi. I militari tedeschi avevano aggiunto all’esecuzione una buona dose di sadismo, non limitandosi al solo uso delle armi della fanteria, che furono impiegate solo al Mulin del Falchi e a Pietramala. Fu il trionfo della barbarie.
Foto 1. Particolare di una delle 8 colonne a delimitazione del transetto. 187
Foto 2. Vista della pianura e in lontananza del massiccio del Pratomagno 188
Foto 3. Facciata della Pieve
Foto 4. Interno della Pieve 189
Foto 5. Colonne romane del transetto di sinistra
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Foto 6. Transetto di destra con accesso alla sacrestia e alla canonica
Foto 7. Soffitto cinquecentesco della sacrestia in formelle di terracotta 191
foto 8. Statua della Madonna del Giuncheto attribuita alla scuola di Andrea Sansovino
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Si ringraziano: Don Natale Gabrielli, Parroco di San Polo; Dottoressa Serena Nocentini, Direttrice ufficio beni culturali della Diocesi di Arezzo - Cortona – SanSepolcro; ebook a cura di:
Alcune referenze fotografiche: “Su concessione del MiBACT– Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Arezzo”