Manifesto per la Liberazione dei Saperi

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Preambolo Hanno imprigionato i saperi. Li hanno ingabbiati. Hanno costruito recinti, barriere; hanno cercato di renderli scarsi, competitivi, servi di questo modello economico e finanziario che ha prodotto solo crisi, fondato sulle diseguaglianze per molti e ricchezza per pochi. I recinti sono i processi di privatizzazione, i brevetti, la competitività e la precarizzazione per chi produce saperi; le gabbie sono quelle troppe risorse spese in ricerca per produrre armi, macchine inquinanti, per generare diseguaglianze, per disegnare una società di subalterni alle logiche del pensiero unico: quello dell’economia sopra la società. Il movimento studentesco non può restare fermo di fronte a questo scenario. Costruire un manifesto per la liberazione dei saperi vuol dire pensare, al tempo della crisi, di ristabilire come priorità il rilancio del ruolo dei saperi nella società per costruire un diverso modello di sviluppo. L’accesso alle conoscenze limitato a pochi, i processi di privatizzazione di scuole e università, un nuovo feudalesimo dei saperi legati al mercato del lavoro, la precarizzazione di ricercatori, docenti e del mondo della produzione cognitiva ci consegnano un modello di società diseguale in cui i saperi sono piegati alla logica della competizione e di una produzione basata sullo sfruttamento delle risorse umane e ambientali. Viviamo scuole e università dove si tende ad insegnare un “pensiero unico” economico, storico, giuridico, dove la conoscenza viene quantificata, tramite una valutazione fittizia, nella forma dei crediti. In questo contesto, la lotta delle studentesse e degli studenti, dei dottorandi, ricercatori e docenti, di tutto il mondo della formazione e della produzione sociale dei saperi deve costruire un tessuto largo e nuovo di rifiuto dello status quo in cui in questi anni ci hanno condotto politiche scellerate di tagli e privatizzazioni. Ma questo non basta. E’ il momento di cominciare a costruire un piano di rilancio del valore pubblico dei saperi e della loro natura pubblica e slegata dalle logiche del modello economico e produttivo. Si tratta di una lotta d'attacco capace di ripubblicizzare

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scuole e università, svuotati dalla loro natura pubblica e dati in pasto ai privati con la politica di tagli e dequalificazione dei processi formativi. Vogliamo che il sapere torni ad essere il luogo e il tempo dell’emancipazione collettiva, che la produzione cognitiva, la ricerca, la creazione di pensiero sia costruita attorno ad un modello di società che rifiuti la guerra, lo sfruttamento ambientale e che metta al centro la libertà come valore collettivo basata sulla giustizia sociale e l’eguaglianza sostanziale per tutte e tutti. Liberare i saperi significa lottare per costruire uguaglianza sociale e di genere, liberando le diversità di genere, di capacità, di pensiero, vuol dire pensare ad un nuovo modo di pensare le relazioni, l’economia, la democrazia e la vita. Il Manifesto della liberazione dei saperi, è una forma dinamica e collettiva, uno spazio di discussione aperto, con cui vogliamo costruire un dibattito sul valore dei saperi, dei luoghi della formazione, della loro radicale centralità nella trasformazione della società. I saperi sono frutto di un atto cooperativo e sociale; i saperi sono processi ibridi, informali, ma soprattutto non sono recintabili.

Making history. Vent’anni di lotte e di buone ragioni. Fare la storia di questi vent’anni è mettersi in cammino tra le lotte dei movimenti studenteschi che dagli inizi degli anni ‘90 si sono opposti alle riforme volte a destrutturare il ruolo dei saperi e i luoghi della formazione. Il graduale processo di privatizzazione del nostro sistema di formazione ha radici lontane e non solo italiane. Parlare di questi processi vuol dire avere a che fare con i disagi materiali, reali, che le studentesse e gli studenti in scuole e università, ricercatori e docenti precari vivono ogni giorno sulla propria pelle. L’attacco diretto al sistema formativo italiano portato avanti dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011 è il picco massimo del processo di

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privatizzazione in atto da molti anni. Un processo in fase di consolidamento da parte del Governo attualmente in carica. Il dibattito che si era sviluppato per un'autonomia scolastica e universitaria come spazio di partecipazione e cooperazione tra componenti scolastiche e universitarie, si è trasformato nella testa di ponte per introdurre una mentalità manageriale con il rafforzamento dei poteri di Presidi e Rettori senza un corrispettivo aumento della democrazia interna ai luoghi della formazione. In scuole e università gemmate e divise le une dalle altre, con la riduzione dei fondi pubblici (che intanto si trasferivano alle strutture private) è stato dato il via all'aumento della contribuzione studentesca e dei fondi privati e aziendali. Governance di tipo privatistico e finanziamenti privati si sono sovrapposti trasformando la natura del pubblico. Mentre tra gli anni '70 e '90 si voleva trasformare il pubblico statalista e centralista in un pubblico partecipato e democratico ci siamo ritrovati, nel terzo millennio, con un pubblico privatizzato. Dopo l’ingresso di soggetti esterni, principalmente privati, nei luoghi decisionali delle università, sono arrivati tagli e progetti di legge, come quello della Gelmini, che hanno devastato completamente il mondo della formazione permettendo alle aziende e alle fondazioni di entrare nelle scuole. L’ingresso dei privati non corrisponde soltanto alla possibilità di questi di condizionare la didattica, ma di aumentare considerevolmente il costo dell’istruzione, scaricandola tutta sulle famiglie e spacciando la scuola o la facoltà per eccellenza. In questo modo si aumenta considerevolmente il peso delle famiglie nei bilanci delle scuole determinando un processo di esclusione all’accesso ai luoghi della formazione. E’ questa la logica del contributo volontario sperimentato nelle scuole o ancora il modello di tassazione e contribuzione universitaria. Un modello che sostanzialmente individualizza e privatizza il costo dell’istruzione, come se i benefici e le ricadute derivanti da una maggiore conoscenza e consapevolezza fossero meramente un beneficio di chi accede al percorso formativo e non dell’intera collettività, acuendo quelle distanze e disuguaglianze sociali sempre più presenti nel nostro paese. Il diritto universale all'istruzione è stato trasformato in un servizio individuale.

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Questo processo vive dentro le logiche dei processi internazionali dell’istruzione pubblica, che hanno portato gli studenti e le studentesse a scendere in piazza negli ultimi anni. Le politiche liberiste internazionali ed europee, tramite i G.A.T.S. e la Direttiva Bolkestein, meccanismi di sdoganamento dell’omogeneizzazione dei processi di privatizzazione dei servizi essenziali (e quindi della formazione), ci consegnano un’Europa devastata da un aumento drammatico della tassazione scolastica e universitaria in alcuni paesi, in altri lo smantellamento dei sistemi del diritto allo studio, in tutti l’ingresso nelle scuole e nelle università dei privati, delle imprese e in generale delle logiche della gestione aziendale mirata al profitto. Dentro questo sistema il sapere vive un processo di mercificazione. La conoscenza prodotta diviene una merce, scarsa e poco accessibile, recintata da brevetti, precarizzata da forme di lavoro instabili e senza tutele.

Il sapere è libero, o non è. La conoscenza come merce: su questo si gioca molto del futuro non solo dei luoghi della formazione, ma della società nel suo complesso. Sempre più lo sviluppo di saperi e la loro messa a valore diventano una leva per produrre profitti e per massimizzare la produzione o la vendita delle merci. Per questa ragione la conoscenza diviene un bene da recintare, uno spazio rispetto al quale operare meccanismi di esclusione. Parcellizzazione dei saperi, numeri chiusi negli atenei, costi sempre più elevati di accesso ai consumi culturali, abbassamento verticale del livello dei nostri luoghi formazione, privatizzazione delle scuole e delle università, sono tutte conseguenze del tentativo di trasformare la conoscenza in uno strumento in mano a pochi e al servizio degli interessi di qualcuno. E in nessun altro campo gli interessi dei pochi si contrappongono a quelli generali come nell’ambito del sapere, che per la sua natura è danneggiato esso stesso da qualunque genere di recinzione gli venga applicata: la conoscenza è infatti cooperazione, produzione ampia di possibilità differenti e molteplici; sviluppare saperi significa percorrere numerose strade differenti per individuare le soluzioni migliori o di maggiore interesse, necessità di impiegare le risorse più ampie possibili e accedere alle produzioni 6


altrui per migliorarle o metterle in discussione; la produzione intellettuale deve avvenire in contesti aperti e reticolari e nutrirsi delle molteplici forze in campo. Tutte queste esigenze si contrappongono in modo netto all’obiettivo, manifestato negli anni da parte di chi muove le leve dell’economia e perseguito troppo spesso dalla politica, fare del sapere un bene scarso e diretto esclusivamente a fini specifici e ben delineati. E proprio a questo tentativo si riducono due delle strategie messe in campo in maniera massiccia negli ultimi: il progetto di rendere in sapere un bene scarso e quello di privatizzare i luoghi della formazione. Nessuno di questi due elementi può essere accettabile. Anzitutto perché la conoscenza è un elemento caratterizzato dalla sua tendenza a moltiplicarsi e a scavalcare continuamente le barriere e le recinzioni, tanto più in un’epoca storica nella quale la tecnologia ha consentito di rendere replicabile a costi bassissimi qualunque tipo di prodotto intellettuale. In secondo luogo perché il sapere è l’elemento centrale di emancipazione, il combustibile stesso della libertà e della autonomia delle persone e non può dunque essere riservato a pochi senza ledere gravemente i diritti di molti. Un sapere non libero è ingiusto e infruttuoso allo stesso tempo: si inaridisce, si appiattisce, non è in grado di svilupparsi e proseguire la propria corsa, e allo stesso tempo incatena le persone, restringe i loro orizzonti, le costringe all’accettazione acritica dell’esistente. Un sapere privato non può essere accettabile. Il sapere è libero o non è.

Saperi precari Ogni giorno nelle scuole e università apprendiamo saperi parcellizzati, nozioni, piccole pillole di conoscenze anziché imparare un metodo di studio continuo. Il mercato del lavoro ipertecnologizzato di oggi, l'avanzata inarrestabile dell'innovazione tecnologica rendono totalmente inutili i speri nozionistici, validi un giorno e totalmente inutili il giorno successivo. Da questo deriva il primo elemento di precarizzazione, in continua ricerca di un azienda che voglia 7


investire sulla nostra formazione, rendendoci sempre in competizione con chi, più giovane, ha conoscenze e competenze più “fresche”. Chi prosegue gli studi fino a riuscire a produrre saperi - le migliaia di ricercatori, dottorandi, docenti – si ritrova ricattato dal perdurare di condizioni lavorative precarie. Quanto può essere libero il sapere prodotto da una persona che vive sotto l'eterno ricatto del contratto in scadenza? La vulnerabilità del lavoro ha un doppio effetto: da una parte impoverisce strati di popolazione acculturata che fino a pochi decenni fa rientravano all'interno di quei lavori altamente retribuiti e di prestigio, dall'altra piega la produzione di conoscenze alle esigenze del ricattatore, di quel padrone che tiene continuamente la pistola puntata alla tempia del giovane ricercatore. Tra chi non può finire i percorsi formativi sono numerosi gli studenti che vengono espulsi dai processi formativi per questioni di ordine sociale, economico o culturale. Nell'ultimo decennio si è esaurita la strategia dello Stato come argine dell'abbandono scolastico: mentre venivano ridotti drasticamente i fondi per il diritto allo studio la Riforma Moratti e la Legge Biagi hanno introdotto la possibilità per gli studenti di quindici anni di sostituire i percorsi scolastici con l'Apprendistato. La scuola ha perso la sua funzione di agenzia formativa primaria nel momento in cui le aziende, le fabbriche e le officine sono state equiparate ai licei e agli istituti tecnici. Ma quanto potrà imparare un giovane dentro un'azienda? Sempre e solo nozioni e competenze parcellizzate ritagliate su misura di un solo lavoro. Nel momento in cui quel giovane apprendista cambi lavoro dovrà ricominciare la sua formazione, affiancando alla precarietà contrattuale un'ormai connaturata precarietà delle conoscenze e delle competenze.

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Un sapere liberato per un nuovo modello di sviluppo Viviamo in un paese con più di 200 crisi industriali, con il portato di centinaia di migliaia di posti di lavoro a rischio. A sommarsi sono la compressione del potere d'acquisto derivante dalle politiche di austerity, la crisi di sovrapproduzione, il dumping salariale con i paesi in via di sviluppo e la crisi ambientale derivata da un modello di sviluppo energivoro ed inquinante. Come dare una risposta agli operai dell'Ilva e, contemporaneamente, ai cittadini di Taranto? Come produrre acciaio dando lavoro e garantendo la salute? Per dare una risposta alla crisi della Fiat è ancora necessario produrre automobili, simbolo di una mobilità inquinante ed individuale incompatibile con la salute, l'ambiente e le tasche delle persone? Questi dilemmi potrebbero aprire una sfida importantissima per uscire dalla crisi che attanaglia il nostro Paese e l'intera umanità. In Italia, invece, gli investimenti in ricerca sono stati ridotti, la ricerca che si svolge nel nostro paese è asservito a logiche di mercato, logiche che tendono a ridurre le spese e aumentare i guadagni. Il modello neoliberista è entrato in rotta di collisione con i diritti delle persone e l'ecosistema circostante, la ricerca che dia risposte a persone e ambiente non può più rientrare, quindi, nelle logiche neoliberiste. E' possibile fare ricerca medica con la volontà di curare le persone prevenendo ed estirpando le malattie piuttosto che lucrando sulle malattie stesse? Un rilancio del ruolo pubblico nella politica industriale, un rinnovato protagonismo della ricerca pubblica, un insegnamento basato su modelli economici, sociali e produttivi differenti sono il punto di partenza affinché il sapere diventi il volano per garantire lavoro di qualità, sgonfiare la bolla formativa e dare una speranza al pianeta. Solo il sapere liberato può farlo. Se l'istruzione di massa e di qualità è in rotta con il modello neoliberista noi sappiamo da che parte stare.

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E' una questione di qualità? O una formalità? Liberiamo i saperi! Le politiche di riforme che nell’ultimo ventennio hanno stravolto il mondo della formazione hanno innescato un processo di monetarizzazione e impoverimento dei saperi, pur continuando ininterrottamente a invocarne un miglioramento della qualità. Le barriere all'accesso alle conoscenze sono dentro le aule e gli atenei, le hanno tirate su tagliando le ore d'insegnamento, bloccando il turn-over e i corsi di formazione per i docenti, dequalificando cioè i contenuti e le metodologie didattiche e facendo della valutazione un'arma ideologica escludente. Nelle scuole come nelle università la quotidianità è spesso sopravvivenza amministrativa, il sistema dei voti numerici, l’impostazione pedagogica predominantemente frontale e la disomogeneità tra programmi di studio sono vere e proprie barriere interne di un “elitarismo” mai estirpato dal nostro sistema formativo. L’Italia non ha fatto il salto da una scuola per pochi a una scuola per tutti, ad un universo dei saperi capace di includere non soltanto ampie fasce di popolazione ma anche interessi e inclinazioni personali, continua anzi a considerare questo passaggio una formalità più che una questione di qualità. Se infatti si dà il sistema pubblico d'istruzione in pasto agli interessi dei privati, se si dà autonomia didattica e amministrativa ma si azzerano i fondi statali e non gli si garantisce quindi autonomia finanziaria vuol dire che non si considera la formazione “per tutti e per ciascuno” una questione di qualità, ma una pura formalità. Se si crede di poter quantificare in “crediti” le conoscenze e smontare e rimontare dall'alto tutti i pezzi della conoscenza, come fossero standardizzabili in una catena produttiva, se si aumentano i disagi materiali di chi studia e si propaganda la caccia alle eccellenze vuol dire che non ci si ricorda più bene la differenza tra le formalità e la qualità. Il ciclo recente del movimento studentesco, negli ultimi anni, è riuscito a far passare alcuni concetti forti nella società: scuole e università non sono voci di 10


spesa nel bilancio e non è tagliando le risorse, eleggendo lo studente dell'anno, accorpando le classi e i corsi di laurea che le si migliora. La qualità della formazione infatti non si misura in base alla sua compatibilità con le richieste del mondo del lavoro , non la si misura comparando meccanicamente quanto spende e quante “menti” produce, non la misurano i test OCSE PISA, né l'INVALSI né l'ANVUR. Per poter parlare di qualità della formazione è necessario scoprire le carte, chiamare in causa la pedagogia e l'idea di scuola e università che si vuole costruire. Bisogna cioè mettere in chiaro che la scuola e l'università non possono più essere la miniatura sbiadita e aggravata di una società strutturalmente ingiusta ed escludente, essi devono avere gli strumenti per pensare e creare mondi nuovi, devono poter riflettere criticamente sull'attualità dei problemi e non esserne un esempio palese e amplificato, devono poter contagiare la società e non esserne inesorabilmente contagiati.“Non vogliamo un'università d'oro in un mondo di merda”. Queste parole che attraversano la storia del movimento studentesco sono ancora oggi attuali. E' necessario ripensare la qualità dei saperi a partire dal nesso che lega i luoghi della formazione alla società, è necessario ripartire dalla produzione pubblica di conoscenza e dal modo in cui la pedagogia critica in quegli anni concepì i processi di apprendimento e d'insegnamento, re-interpretare quella lezione prima di dare per buono il mantra del merito e dell'efficienza. Liberare i saperi vuol dire liberare il tempo e liberare le persone; I luoghi della formazione non possono che essere luoghi aperti, accessibili e attraversabili, non è possibile quindi vincolarli agli interessi mutevoli delle imprese o renderli schiavi di un tempo che non gli appartiene, quello veloce e bulimico, figlio delle società consumistiche. L'apprendimento e l'insegnamento sono innanzitutto riflessione collettiva e la riflessione non vede la distinzione tra attori e spettatori, se è vera sfuma la distanza tra insegnante e studente, arricchisce entrambi e si fa profonda, riesce a distendersi nel tempo, sedimentando. Bisogna quindi aprire le scuole il pomeriggio, aprire gli spazi delle università e costruire la qualità della formazione lentamente e in cooperazione, non in competizione, vuol dire rompere l’oramai fin troppo netta e inattuale divisione tra la formazione formale, che rincorre i programmi ministeriali e accavalla corsi ed esami, e quella non formale, che invece

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prolifera nei contesti associativi organizzati e non della società civile e che troppo spesso rimane relegata fuori dai luoghi istituzionalmente dedicati all’istruzione. Bisogna cioè riconsiderare il modo in cui si apprende e si sviluppano le conoscenze, riconsiderare gli strumenti attraverso cui queste si valorizzano, rimettere in discussione non soltanto i tempi e i luoghi ma anche le metodologie e i contenuti d’insegnamento; “nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme” e recuperandone il senso e la pratica bisogna riconoscere il sapere socialmente prodotto come un sapere di qualità solo se migliora gli uomini e il contesto in cui questi vivono. La qualità non sono solo nozioni e competenze, ma anche abilità sociali positive, prime fra tutti la cooperazione e il senso critico. E’ una questione di qualità! Recuperiamo il valore del sapere, liberiamolo dal mercato!

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Focus finanziamenti Introduzione L'Italia investe solo il 4,8% del suo Pil per finanziare scuole e università e vanta un tasso di dispersione e abbandono scolastico tra i più alti d'Europa, senza contare l'enorme e crescente disaffezione verso i percorsi formativi da parte degli studenti palesata dalla recente indagine della Fondazione Agnelli (link fondazione Agnelli). L'ammontare della spesa per studente sostenuta dagli istituti è aumentata, tra il 2000 e il 2008, solo del 6% rispetto alla media dei Paesi Ocse che ha visto un aumento del 34%. E' cresciuto spropositatamente invece negli ultimi anni il costo sostenuto dalle famiglie per garantire ai propri figli l'accesso e la prosecuzione dei percorsi di studio, fino a superare in media il migliaio di euro annui. I dati fin qui snocciolati altro non fanno che sottolineare il particolare disinteresse politico che è stato ed è tuttora riservato all'istruzione pubblica, non raccontano però la situazione di grave difficoltà che vivono quotidianamente le scuole e le università, pubbliche solo a parole e privatizzate nei fatti. Il principale strumento di modifica degli assetti e della struttura del sistema scolastico italiano, utilizzato dai governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida, è stato infatti quello della leva finanziaria. Tagli trasversali ed interventi di riforma deleteri hanno fatto sì che l'istruzione non fosse più finanziata dallo stato, né liberamente accessibile; “le barriere di ordine economico e sociale che impediscono il libero sviluppo della persone”, di cui la Costituzione prescrive l'abbattimento, sono ad oggi una muraglia insovrastabile.

La situazione nei luoghi della formazione 13


La spesa per la scuola pubblica e per l'università è andata drasticamente riducendosi negli ultimi 10 anni. Nel 1990 l'Italia spendeva per la scuola il 10,3% dell'intera sua spesa pubblica, nel 2008 questa percentuale si è ridotta di un punto sottraendo complessivamente alla scuola 80 miliardi di euro. Sempre nel 2008, invece di compensare la riduzione che aveva fatto scendere di quasi 8 miliardi il finanziamento annuo tra il 1990 a il 2008, si è deciso di fare un taglio aggiuntivo: la l. 133/08 ha previsto tagli alla spesa per la scuola pubblica pari a 7,8 miliardi nel triennio 2009-2012, tagli al personale e di ore di lezione. A causa della stesse legge le Università italiane si sono trovate a dover fare i conti con tagli sistematici e programmati per il successivo quinquennio pari a 1,5 miliardi di euro, sebbene in parte compensati da stanziamenti annuali, che non hanno permesso alle Università di fare alcuna programmazione se non quella di provare a portare i bilanci universitari in attivo o in pareggio attraverso l'unica variabile rimasta utilizzabile: la contribuzione e tassazione studentesca. Mentre tutto ciò accadeva nelle scuole scuole private i finanziamenti lievitavano: dal 2000 (anno dell'istituzione della legge sulla parità scolastica) al 2007 l'ammontare delle risorse è triplicato passando da 179 milioni a circa 545 milioni, senza contare i fondi stanziati dalle regioni e gli enti locali per i “buoni scuola” elargiti alle famiglie che scelgono quei percorsi. Allo stesso modo le università private hanno visto aumentare negli ultimi anni, in particolare sotto il governo Berlusconi, la quota di finanziamenti statali a loro dedicata. Insomma, è evidente come la retorica dei sacrifici in questi anni abbia funzionato solo a senso unico, ovvero nella direzione della progressiva destrutturazione dei percorsi formativi pubblici a favore di quelli privati e dell'inserimento precoce nel mondo del lavoro con sempre meno diritti e tutele. Le conseguenze dei tagli intanto rendono difficile anche la gestione ordinaria degli istituti scolastici: si accorpano le classi, trasformandole in pollai

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pericolosamente non a norma, si riducono gli insegnamenti e si aumentano i “contributi volontari”. Questi, secondo l'Associazione Italiana Genitori, fanno racimolare alle scuole quasi 1 miliardo di euro, su scala nazionale, appare quindi chiaro come non siano né volontari né accessori, ma obbligatori e necessari alle scuola per garantire l'offerta formativa e le spese contingenti (cancelleria, sanitari, fotocopie, ecc...). I contributi delle famiglie hanno raggiunto, nello scorso anno scolastico, picchi di 200 euro, cui bisogna aggiungere gli altri costi che le famiglie si sobbarcano interamente, in primis quelli esorbitanti dei libri scolastici (il Codacons calcola il tetto medio di spesa nel 2012 a 1233 euro), dei trasporti, eventualmente di mense e affitti e dei consumi culturali in generale. Allo stesso modo a seguito degli ingenti tagli ai FFO degli Atenei numerose università hanno sforato il limite del 20% del rapporto tra contributi universitari e FFO (fondo di finanziamento statale), una norma che si poneva a tutela degli studenti e dell'idea che il contributo studentesco non fosse una tassa per fronteggiare le spese ordinarie (come la didattica e i servizi di base) ma un contributo aggiuntivo da parte dello studente in relazione alla proprio condizione reddituale. Infatti negli ultimi 5 anni dal 2007 al 2011 le tasse universitarie sono aumentate complessivamente di 283 milioni. A fronte di un progressivo indebolimento del potere di acquisto delle famiglie, i cui redditi son rimasti sostanzialmente gli stessi o sono stati erosi dal crescere dell'inflazione, le tasse universitarie son state progressivamente aumentate anche in contesti territoriali caratterizzati da una complessa situazione socioeconomica.

Paradossalmente la situazione legislativa è ancor meno confortante. In particolare per quanto concerne il tema del diritto allo studio che influisce pesantamente sulla possibilità per gli studenti di accedere al sapere dobbiamo notare come vi siano una gran quantità di problemi. Per quanto concerne la scuola da 30 anni le regioni hanno competenze esclusive in materia di diritto allo studio, nel Paese sussistono 20 sistemi regionali differenti di diritto allo studio e nessuna legge quadro nazionale che

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stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni da erogare per garantire a tutti l'accesso e la possibilità di proseguire i percorsi di studio, conseguendo il successo formativo. I modelli legislativi positivi, come quello della regione Campania o Emilia Romagna , sono da anni ampiamente definanziati, quelli negativi, ad esempio quello della regione Lombardia imperniato sui buoni scuola, sono invece apripista preoccupanti per il modello di scuola che le politiche scolastiche più o meno recenti vogliono imporci. Diversamente dalla scuola Il modello di diritto allo studio universitario italiano era caratterizzato dall'affiancamento di un sistema di diritto allo studio nazionale definito dalla l. 390/91, ed articolato su base regionale con gli Enti per il diritto allo studio (ora Agenzie per il Diritto allo studio) e sull'erogazione di borse di studio ad una quota di studenti comunque molto ridotta rispetto agli altri paesi europei. Questo sistema -già ampiamente carente - è stato di fatto negli ultimi anni sostituto attraverso un processo lento, fatto di piccoli provvedimenti spesso poco comprensibili, se esaminati separatamente e non collocati in un contesto più generale. Il diritto allo studio universitario è stato progressivamente smantellato, sono stati ridotti i finanziamenti statali ed è quindi stato conseguentemente ridotto il numero dei benificari. A questo si deve aggiungere l’aumento delle tasse sul diritto allo studio, che hanno raggiunto i 140 euro in tutte le regioni italiane, malgrado questo a causa dell’aumento dei criteri di merito in molte regioni sono comunque stati ridotti il numero degli idonei. A completare questo modello distruttivo delle istituzioni pubbliche della conoscenza vi è poi il ricorso ai prestiti d’onore che rischia di portare alla costruzione di un sistema d’istruzione basato sull’indebitamento studentesco. Vengono legittimati sistemi di prestito, spesso sostitutivi delle forme classiche di welafre studentesco, che rischiano creare una società di indebitati a partire dalle scuole, costruendo un sistema di selezione sociale che rischia di favorire l’espulsione dai processi formativi di tanti studenti. Inoltre vengono costruiti ad hoc o incentivati da parte del ministero sistemi che mirano ad assicurare la prosecuzione del percorso di studi solo ai

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meritevoli, disincentivando dagli studi gli studenti fuoricorso ed operando una selezione di darwinismo sociale.

La situazione fuori dai luoghi della formazione Il tema del finanziamento non riguarda solamente però scuole e università, il mondo della ricerca in Italia da troppi anni non riceve finanziamenti adeguati a sviluppare una ricerca pubblica e di qualità. Troppo spesso gruppi di ricerca sono costretti a rivolgersi a finanziamenti privati che tendono a non sviluppare progetti nel campo della ricerca di base oppure ad affidarsi a bandi o progetti europei. Serve incentivare una ricerca finanziata con fondi pubblici, raggiungendo le medie europee e serve investire su questo campo e sui giovani dottorandi, precari e ricercatori per evitare che siano costretti ad andarsene da questo paese. Allo stesso modo non può esistere oggi un’istruzione di qualità chiusa solamente all’interno di scuole e università, teatri, cinema, biblioteche, musei... sono luoghi di cultura e di trasmissione fondamentale di sapere nella società odierna, negli ultimi anni purtroppo hanno subito pesanti tagli che hanno compresso l’attività di molte di questi soggetti. Questo ha portato alla nascita di esperienze innovative di occupazioni o di ripresa di spazi di cultura abbandonati (es. Teatro Valle di Roma), serve però riuscire ad investire economicamente su questi luoghi, evitando così la chiusura o l’abbandono e riconoscere il ruolo e l’attività sociale fondamentale dei lavoratori della cultura, dello spettacolo e dei musei e il loro ruolo sociale come persone in grado di trasmettere sapere e conoscenza. Inoltre, centrale rispetto alla questione dell’accesso ai saperi è la situazione dell’accesso alla Rete nel nostro Paese. La tanto paventata banda larga è ancora poco diffusa sul territorio nazionale, manca un piano straordinario di finanziamento su questo aspetto e questo sicuramente determina una grossa 17


difficoltà da parte dei soggetti in formazione nel reperire conoscenze e scambiarle liberamente. Infine, la questione della scarsa diffusione dei sistemi operativi open source e open access determina due problemi principali: rispetto alla prima questione, impedisce di utilizzare software realmente adatti alle esigenze dei luoghi della formazione, delle Amministrazioni pubbliche e degli studenti, e quindi modificabili per adattarsi al mutamento di tali esigenze; rispetto alla seconda questione, determina uno spreco di soldi pubblici nell’acquisto e rinnovo, spesso annuale, delle licenze dei software proprietari. Soldi che potrebbero essere invece investiti in altri capitoli di spesa ben più prioritari.

Le proposte Se l’obiettivo finale deve essere quello di costruire un percorso completamente differente di formazione scolastica e universitaria, occorre ugualmente lavorare nelle fasi intermedie opponendosi fermamente alle proposte involutive e classiste operate dai recenti governi, e dall’altro lavorare per portare – nell’ambito dei singoli atenei e nelle singole scuole – proposte concrete in grado di migliorare sin da subito la condizione degli studenti. Per questo riteniamo, ad esempio, che non debba esserci alcuna differenziazione contributiva fra corsi di laurea. La loro presenza, infatti, apre la strada ad un meccanismo vizioso che porta a giustificare aumenti esponenziali delle tasse attraverso la necessità di garantire l'eccellenza, una migliore didattica e l'utilizzo di strumenti laboratoriali migliori. Crediamo, invece, che la tassazione debba essere uguale per tutti i corsi di laurea, poiché rappresenta un mero contributo e non deve essere intesa in termini di copertura delle spese ulteriori dei singoli corsi di laurea/dipartimenti/università. Nell’ambito di un ragionamento complessivo sul sistema di finanziamento, invece, occorre interrogarsi sul ruolo del privato in una dimensione pubblica e collettiva che valorizza e riconosce il sapere. Se i luoghi decisionali non devono essere permeabili alle logiche di profitto e di mercato e la libertà di ricerca e 18


didattica non deve essere funzionale alle esigenze contestuali di un tessuto produttivo spesso caratterizzato da ridotta innovazione e ridotta valorizzazione del potenziale cognitivo, dall’altro occorre lavorare per garantire all’Università pubblica un riconoscimento reale e concreto da parte di tutta la società, ivi compresi i soggetti imprenditoriali, laddove beneficino indirettamente delle esternalità positive derivanti dalla presenza di un elevato grado di istruzione, formazione, conoscenza, democrazia e creatività. Ma la sfida deve essere soprattutto un’altra: la costruzione di un sistema alternativo e radicalmente differente. Ad un modello che mercifica il sapere considerandolo una merce in balia dei giochi della domanda e dell'offerta in un sistema che si vuole sempre più competitivo, dobbiamo saper opporre un sistema basato sull'incremento dei fondi statali teso a garantire livelli essenziali di soddisfacimento delle esigenze didattiche e di servizi da parte di ogni Scuola e Università. Per questo rivendichiamo: •

Un sistema di istruzione e formazione media e universitaria completamente gratuita per tutti i soggetti in formazione, che realizzi un vero e proprio diritto allo studio per tutti. Un sistema “finale” completamente finanziato dalla fiscalità generale, in grado di assicurare il diritto di scelta agli studenti nel perseguimento del proprio percorso formativo indipendentemente da condizioni di partenza, reddito e contesto territoriale e dal ricatto dell'elevata tassazione e dei costi che lo studente è costretto a sostenere per spostarsi da una città ad un'altra. Un sistema che emancipi sul piano economico, sociale e familiare e che liberi e responsabilizzi lo studente nel corso della fase di formazione, anche se in condizioni economiche favorevoli, riconoscendogli un ruolo nella società. Anche per questo motivo siamo totalmente contrari a qualunque forma di prestito d’onore, indipendentemente dagli effetti congiunturali che si stanno determinando nell’ambito della bolla speculativa e finanziaria.

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Una riforma del sistema fiscale. La costruzione di un sistema alternativo non può prescindere da un processo che ricostruisca una visione politica, sociale e culturale dei percorsi formativi e delle istituzioni pubbliche a ciò preposte, invertendo la rotta di un percorso avviato, consolidato ed in parte accettato nel corso degli ultimi anni, spesso per rassegnazione. A questo percorso involutivo e regressivo, occorre dare una risposta ampia, che comprenda una riforma del sistema fiscale, basata su una tassazione fortemente progressiva e redistributiva, che colpisca patrimoni, rendite e speculazioni monetarie e finanziarie (tassa patrimoniale, tobin tax, espropri, ecc.), raccogliendo risorse per il finanziamento dei sistemi formativi e del loro libero accesso.

Un maggiore protagonismo del pubblico nella ricerca scientifica, per indirizzarla verso fini sociali e verso una maggiore giustizia ambientale, nonché per mantenere in vita filoni di ricerca non direttamente economicizzabili e quindi considerati non appetibili dagli investitori privati, ma di interesse pubblico perché funzionali al progresso culturale della comunità.

Un piano d’investimento straordinario per il sostegno ai luoghi di diffusione della cultura, quali teatri, musei, biblioteche etc. in particolare nei territori più soggetti ai fenomeni dell’abbandono scolastico e della cultura mafiosa. Tali luoghi devono fungere allo stesso tempo da complementi fondamentali ai percorsi formativi dei soggetti in formazione e da presidi sociali per contrastare l’emarginazione e la criminalità organizzata.

Un piano d’investimento straordinario per la diffusione della banda larga, una delle vere ‘grandi opere’ necessarie per lo sviluppo culturale e materiale del Paese.

La conversione dei sistemi di gestione delle Pubbliche Amministrazioni all’open source e all’open access, con il duplice fine di effettuare un

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notevole risparmio in termini di risorse spese per l’acquisto dei software proprietari e di garantire una maggiore flessibilità e modificabilità dei sistemi stessi.

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Focus diritto allo studio e barriere all’accesso Introduzione La privatizzazione dei processi di formazione e l'attacco perpetuato ai danni dei diritti e dei salari dei lavoratori hanno trasformato la condizione e l' esistenza di un soggetto sociale emergente, “i soggetti in formazione”: coloro che ritrovano la loro identità sociale nell'atto dell'acquisizione e della produzione dei saperi. La trasformazione economica in atto, incapace di mercificare l'immateriale in quanto tale, ha imposto la mercificazione e la privatizzazione dei canali di accesso al sapere con lo scopo di costituire conoscenze esclusive e certificazioni di “sapere” che sono facilmente spendibili nel mercato. E' nell'esclusività dell'accesso ai canali di formazione che si fonda il plus-valore di queste conoscenze e che caratterizza in parte l' “economia del' immateriale.” Questo ha comportato la costruzione di barriere economico-sociale tese a costruire un sistema formativo binario, quello di qualità (che non corrisponde solo al privato) che pochi possono permettersi e quello di serie B. La condizione dei “soggetti in formazione” si deve valutare rispetto ad alcuni fattori che influenzano il livello di emancipazione sociale dei singoli individui. Il primo dato da considerare è l'impostazione familistica del nostro welfare, la famiglia resta l'unico nucleo sociale a cui aggrapparsi e che molto spesso condiziona la scelte formative degli studenti, assistiamo a fenomeni molto diffusi di canalizzazione precoce in cui a scelte formative ponderate sulle singole capacità o inclinazioni si sostituisce l'unico criterio universalmente riconosciuto “il bisogno economico”; inoltre l'architettura del nostro sistema formativo impedisce un insegnamento interdisciplinare incanalando gli studenti fin dal primo anno di superiori verso un ruolo sociale determinato quando si è ancora estremamente immaturi per sceglierselo.

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L' assenza di un welfare studentesco caratterizza quindi negativamente le scelte formative degli studenti, l'impossibilità di pagare i libri e di permettersi gli abbonamenti per i pullman per la maggior parte degli studenti rappresenta uno dei maggiori ostacoli ad una formazione di qualità basata sulle inclinazioni e non sui bisogni, rappresenta l'ostacolo primario ad una mobilità sociale basata sui saperi e non sul sistema sfruttatori-sfruttati. L'impossibilità di una scuola e di un' università aperte a tutti, senza alcun vincolo sociale o economico, è anche la causa di un' altra piaga sociale che attraversa il nostro paese e che fa sentire il suo peso sopratutto nel sud-Italia: la dispersione scolastica. Nel nostro paese il dato sulla dispersione scolastica è pari al 21,9% (contro un obiettivo europeo fissato dalla Strategia di Lisbona del 10% da raggiungere entro il 2010), essa non si identifica semplicemente con l’abbandono, ma riunisce un insieme di fattori (irregolarità nelle frequenze, ritardi, non ammissione all’anno successivo, ripetenze, interruzioni) che possono sfociare nell’uscita anticipata dei ragazzi dal sistema scolastico , le cause prime di questo fenomeno sono da ricercare sia nelle variabili soggettive e macro-sociali, ma sopratutto nello sviluppo socio-economico che resta il fattore discriminante per il suo manifestarsi. Il non potersi iscrivere ad università o alla scuola è la “leva” della costruzione di un sistema economico basato sul ricatto e la precarietà quando non diventa il primo passo nel cammino dei sistemi mafiosi che, affascinando con la possibilità di un guadagno facile e sicuro, si costruisco il loro esercito di riserva nei quartieri e nelle periferie. All'università la forbice sociale si allarga ulteriormente. La differenza qualitativa nello studio tra chi può permettersi vitto e alloggio e chi, brancolando nel buio del DSU, deve mantenersi con lavori part-time, molto spesso a nero - confrontandosi con l' incapacità di sostenere esami in una condizione lavorativa precaria ma necessaria al sostentamento del suo percorso formativo - è enorme. Da oltre un decennio si registra in tutta Europa una velocità di crescita dei costi per l’istruzione universitaria doppia di quella dell’inflazione; in Italia il

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fenomeno è molto più grave, e sintomatico, poiché questa tipologia di costi cresce con una velocità da 3 a 4 volte quella dell’inflazione. Studiare in un Ateneo con una sede diversa da quella di residenza ogni anno costa in media 9211,45 € in stanza singola e 8101,45 € in stanza doppia** , questa cifra è composta da diversi capitoli di spesa :la più significativa è sicuramente quella per l’affitto (3900€ in singola e 2790€ in doppia) cui si aggiungono le tasse (515 € per la II fascia e 866€ per la III), il materiale didattico (625€), il trasporto (varia tra i 187€ di quello urbano e i 400€ per gli studenti fuori sede). Il costo di uno studente in sede , quindi sempre più lontano da una qualsiasi forma di emancipazione sociale in chiave anti-familistica e di autodeterminazione del proprio percorso di studi, è di 1 327, 82 € ( per la II fascia ) e 1678,45 € ( per la terza fascia) . L' impossibilità di avere tutti le stesse possibilità di partenza , rappresenta quindi l' imbroglio di quella corsa truccata che si ostinano a chiamare “meritocrazia”; la costruzione di un sistema meritocratico deve partire dall'affermarsi dell'idea di un welfare studentesco che garantisca realmente a tutti di scegliersi il proprio percorso formativo e di poterlo affrontare con i migliori mezzi possibili; emancipazione per i soggetti in formazione significa appunto produrre e costruire sapere senza alcun vincolo familistico, economico e sociale.

** I dati statistici sono presi dal “rapporto sui costi degli atenei” della Federconsumatori, i costi riportati sono quelli risultanti dalla media nazionale.

Libero accesso ai saperi per i soggetti in formazione 1. Istituire un fondo nazionale che finanzi un sistema integrato di borse di studio e servizi sul territorio con l’obiettivo di favorire, a tutti i livelli, l’autonomia dei soggetti in formazione e l’accesso ai saperi, tramite un reddito diretto indistintamente a tutti i livelli della formazione. 24


2. Favorire l’accesso ai consumi culturali tramite l’istituzione di una carta di cittadinanza studentesca diretta a tutti gli stadi della formazione che preveda sconti su libri, teatro, mostre d’arte etc. (implementare la carta IOSTUDIO) 3. Abolizione immediata dell’IVA sui consumi culturali, fondamentali oggi nella formazione dell’individuo e della collettività, tassello fondamentale per valorizzare l’accesso a forme sempre più importanti dei saperi. 4. Un piano di agevolazioni sulla mobilità, graduale per fasce di reddito ma per tutti e che parta dal livello nazionale e arrivi anche ai trasporti regionali e locali. Istituire convenzioni sui trasporti per gli studenti per rendere gratuiti da subito i trasporti urbani, senza distinzione tra residenti e non residenti, e per ridurre al 50% il costo dei trasporti extraurbani in tutte le regioni per i pendolari, per poi arrivare gradualmente alla gratuità totale della tratta casa-università entro 4 anni. 5. Istituzione di sportelli informativi nei luoghi di formazione per promuovere l’utilizzo degli strumenti di reddito indiretto e per informare i soggetti in formazione rispetto all’offerta culturale, aggregativa, espositiva etc. del territorio.

Legge quadro nazionale - Scuola 1. Condivisione dei principi costituzionali su cui di fonda il diritto allo studio in Italia, a partire dal valore fondante dell’accesso per tutti ai livelli più alti d’istruzione e formazione. Per questo proponiamo che i destinatari degli interventi debbano essere individuati nelle fasce meno abbienti e in base al principio della condizione reddituale.

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2. Istituire un parametro limite di investimento per le Regioni, che non possa essere eluso dalle amministrazioni di competenza e che non sia solo legato al PIL, ma alla proporzionalità tra i soggetti aventi diritto e l’entità dell’investimento. 3. Istituzione di un sistema di erogazione di borse di studio che, superando la logica del buono scuola, sia diretto principalmente a tutelare il carattere pubblico della formazione e a garantire un’autonomia degli studenti rispetto alle scelte formative. Le borse di studio devono essere principalmente dirette agli studenti meno abbienti. 4. Un sistema di comodato d’uso o di gratuità totale dei libri di testo; un sistema che coinvolga le singole istituzioni scolastiche e finanziato in modo integrato dallo Stato, dalle Regioni e dai bilanci delle scuole autonome. 5. Prevedere l’esenzione delle tasse scolastiche e un piano di borse di studio straordinario per gli studenti a rischio abbandono scolastico. Contestualmente combattere la dispersione scolastica e sostenere il successo formativo, anche mediante una articolazione e individualizzazione dei percorsi di studi. 6. Misure straordinarie di intervento per gli studenti diversamente abili (soprattutto per il diritto alla mobilità), prevedendo oltre all’esenzione dalle tasse, una borsa di studio per la copertura delle spese ordinarie e per garantire loro l’accesso all’istruzione. Inoltre favorire loro l'integrazione all'interno della comunità scolastica con la rimozione di ostacoli di diversa natura (utilizzo di rampe, strumenti acustici, libri con alfabeto braille etc.). 7. L’istituzione di sportelli di orientamento ai percorsi formativi ma anche per l’assistenza alla burocrazia, nella possibilità di accedere ad agevolazioni o gratuità. Prevedere l’integrazione dei suddetti sportelli con le attività autogestite dagli studenti. 26


8. Predisporre una fitta rete di servizi territoriali come ad esempio luoghi d’aggregazione e uffici comunali per la progettazione giovanile. 9. Aprire un tavolo di lavoro in sede di conferenza unificata Stato-Regioni con l’obiettivo di concordare insieme gli obbiettivi minimi da garantire in materia di diritto allo studio. 10.Riequilibrare l'offerta scolastica e formativa attraverso interventi prioritariamente diretti agli strati della popolazione con bassi livelli di scolarità, con particolare attenzione alle zone in cui l'ubicazione non favorevole dei servizi è fonte di particolare disagio per gli utenti. 11.Favorire l'esercizio del diritto allo studio e all'apprendimento per i migranti, anche dopo il compimento del diciottesimo anno di età, mediante interventi economici diretti e attraverso l'attivazione di corsi di alfabetizzazione antecedenti all'inserimento nella comunità scolastica, al fine di agevolare l'inserimento stesso degli studenti migranti; tali corsi dovranno essere rivolti anche ai genitori degli studenti migranti, al fine di agevolare le comunicazioni tra le istituzioni scolastiche e le famiglie. 12.Favorire l'esercizio del diritto allo studio e all'apprendimento per i rom, anche attraverso l'attivazione di percorsi individualizzati mirati all'inserimento degli studenti all'interno della comunità scolastica. 13.Rimuovere prioritariamente, tramite interventi economici diretti e forniture di servizi gratuite o semi gratuite ai soggetti che versano in condizioni economiche più disagiate, gli ostacoli che impediscono l'accesso ai saperi, all'istruzione ed ai percorsi formativi. 14.Promuovere la qualità degli apprendimenti attraverso azioni di sostegno indirizzate alle zone dell'eccellenza e del disagio.

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15.Promuovere e sostenere progetti di qualificazione dell'offerta formativa ed educativa che prevedono percorsi volti alla crescita della cittadinanza attiva e della cultura della legalità, della pace, dell'interculturalità e del rispetto della dignità, delle diversità e dei diritti umani. 16.Favorire ed estendere il sistema dell'educazione permanente degli adulti, anche attraverso interventi economici, in integrazione con il sistema scolastico e formativo. 17.Promuovere ed agevolare l'accesso ai canali culturali extrascolastici – cinema, teatri, istituzioni culturali, musei, attività sportive, musicali, letterarie – anche tramite il loro inserimento nei progetti formativi. 18.Garantire un monitoraggio continuo della condizione nazionale delle studentesse e degli studenti medi sullo stato dell'accesso ai saperi e il diritto allo studio tramite la costituzione di un osservatorio Nazionale del diritto allo studio. 19.Realizzare gli interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impediscono a tutti l'esercizio del diritto all'istruzione e all'apprendimento perseguendo anche la generalizzazione del servizio pubblico della scuola dell'infanzia in modo da consentire la frequenza effettiva di tutti i bambini e le bambine dai 3 ai 6 anni;

Diritto allo studio e legge quadro nazionale università 1. Una legge quadro nazionale sul diritto allo studio, che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni erogati alle Regioni e in particolare l'entità minima garantita delle borse di studio. Il fondo nazionale per il diritto allo studio dev'essere, di conseguenza, sufficiente almeno per coprire i Lep. 28


2. Copertura totale delle borse di studio, mediante uno specifico fondo statale erogato alle Regioni di almeno 321 milioni di euro, comprendenti il reintegro dei tagli contenuti nella legge di stabilità 2011. In questo modo si metterebbe fine all'assurdità degli “idonei non benificiari”, studenti alle quali è riconosciuto il diritto alla borsa di studio ma che, di fatto, non la ricevono. 3. Dopo aver raggiunto la copertura totale delle borse di studio, è necessario un ampliamento degli idonei, estendendo i criteri di reddito sulla base dei quali viene assegnata la borsa di studio. Rigettiamo il sistema del prestito di onore e chiediamo un incremento delle risorse per le borse part-time di collaborazione presso le università italiane (150 ore). Le borse vanno assegnate secondo i criteri con cui vengono erogate le borse di studio, e va definito un livello minimo nazionale della retribuzione oraria, pari alla media delle retribuzioni attuali. In nessun caso le 150 ore vanno utilizzate per svolgere le mansioni del personale tecnico-amministrativo. 4. Istituzione di una “borsa preventiva” di carattere nazionale, erogata agli studenti iscritti all'ultimo anno della scuola superiore per favorire la loro libera scelta, indipendentemente dalla regione nella quale lo studente scegliesse di studiare. La “borsa preventiva” non sostituisce il reddito. 5. Previsione di agevolazioni nella tassazione per gli studenti lavoratori e di meccanismi di incentivo alla loro regolarizzazione. 6. Istituzione di un programma di mobilità temporanea interna al territorio nazionale. 7. Nessuna esternalizzazione ai privati dei servizi per il diritto allo studio, neanche sotto forma di project financing.

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8. Tutela e promozione dei diritti degli studenti disabili, attraverso il loro coinvolgimento attivo. 9. Sperimentazione di quote di bilancio partecipato nelle Ardsu. 10.Costituzione in ogni regione di un osservatorio regionale sul diritto allo studio che si occupi altresì di controllare la qualità delle mense e dei servizi agli studenti. 11.Piano pluriennale di finanziamento straordinario per l'edilizia universitaria, che finanzi la realizzazione, tramite il recupero di determinate aree urbane, di nuove case dello studente e di alloggi pubblici a canone concordato. Servono inoltre contributi pubblici per gli affitti, sul modello francese, e iniziative, come lo sportello casa gestito da Università e Comune, in grado di favorire la lotta al sommerso. Possibilità di requisire gli alloggi sfitti. Incrocio dei database tra Comune, Ardsu e università per l'emersione nel nero. 12.Borse Erasmus: aumento dell'integrazione ministeriale della quota erogata e concessione di una parte della borsa al momento della partenza. Va inoltre prevista una differenziazione a seconda del costo della vita del paese di destinazione. Reti wifi, Copyleft e casa editrice d’Ateneo (Cea) 1. Istallazioni di reti wifi libere negli spazi pubblici e nei luoghi di formazione, con un piano progressivo di copertura di tutto il territorio comunale. 2. L’obbligo per gli enti pubblici, professori universitari e scolastici, di utilizzare e pubblicare unicamente testi in licenza copyleft. 3. Istituzioni di casa editrici d’Ateneo con direzione paritetica. Il lavoro della Cea deve essere quello di raccogliere le pubblicazioni di ricerca e di 30


tesi sperimentali degli studenti e renderle fruibili tramite i principi copyleft.

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Focus didattica e valutazione Introduzione La liberazione dei saperi e la loro ripubblicizzazione sono obiettivi che ci poniamo di conseguire anche a partire da cosa si insegna e come lo si insegna. La privatizzazione dei saperi passa infatti prima di tutto attraverso il controllo dei meccanismi di ricerca, di trasmissione e di elaborazione delle conoscenze. Per rovesciare lo stato di sub-alternità dei luoghi della formazione rispetto alle logiche del mercato e del profitto, non basta quindi semplicemente riformare la governance, eliminando i privati dai C.d.A. e dai Consigli d'istituto, e lottare per un ri-finanziamento pubblico di scuole e università, ma è necessario ripensare completamente la didattica, in termini di strumenti e contenuti. E’ evidente come esista un nesso logico e una consequenzialità tra l’impoverimento della didattica nelle scuole e nelle università. Alla base di entrambi i processi agisce infatti l’impostazione neoliberista che stanno assumendo scuole e università, secondo la quale l’unica finalità della trasmissione del sapere deve essere quella della sua “spendibilità” all’interno del mercato del lavoro. Da ciò deriva che esiste una selezione precisa di quali siano i saperi “compatibili” con il mercato e quali quelli “incompatibili”, giudicati pertanto “improduttivi” e inutili ai fini di un possibile sbocco lavorativo. La retorica meritocratica portata avanti negli ultimi vent’anni sceglie autoritariamente, assecondando gli interessi del mercato e giustificandoli ideologicamente come oggettivi e scientifici, quali siano e quali non siano i criteri in base al quale un corso di studio debba essere valutato come “spendibile”, uno studente debba essere valutato “meritevole”. Il tentativo di standardizzazione delle prove di verifica, i test INVALSI, il numero chiuso, l’accreditamento dei corsi di laurea, la valutazione della ricerca sono tutti 32


esempi palesi di come da un lato si voglia alimentare una selezione interna ai saperi, spazzando via le eterodossie, i saperi “non spendibili” o quelli non quantificabili numericamente, e dall’altro si voglia incoraggiare l’espulsione dai percorsi formativi di un numero sempre maggiore di studenti. Fenomeni come quelli della “bolla formativa”, prodotti dalla crisi economica, dimostrano come il concetto odierno di “spendibilità rispetto al mercato del lavoro” sia fallimentare; l’incapacità del mercato di assorbire quei soggetti formati che non rientrano all’interno delle sue logiche dovrebbe far riflettere su come sia inaccettabile una subalternità della conoscenza rispetto al mercato e come al contrario la società dovrebbe lasciarsi trasformare dai saperi. Per questi motivi il concetto di “spendibilità” deve essere decostruito e ribaltato per provare ad evidenziare come la liberazione di tutti i saperi sia un’opportunità da cogliere per sovvertire l’idea di lavoro che ci viene imposta dal mercato, per provare a reinventare cosa produrre e come produrre in un’ottica di sviluppo sostenibile e non di crescita selvaggia del profitto di mercato. La divisione netta tra “saperi tecnici” e “saperi teorici” è una stigmatizzazione data per assodata, che determina tanto nelle scuole, quanto nelle università i seguenti problemi: da un lato un deficit di capacità di analisi complessiva di un problema e di una disciplina, dall’altro un deficit di “riscontro pratico” che spesso impedisce di avere una percezione reale dell’applicabilità delle materie studiate. Nell’attuale standardizzazione dei saperi difficilmente trovano spazio forme alternative e critiche, portatrici di altre visioni del mondo. Tra di esse si trovano particolarmente ai margini, quando non del tutto esclusi tutti i saperi e le discipline legati alle donne, soprattutto quando manca completamente una lettura femminile di alcuni momenti storici, politici, economici e sociali. Le scrittrici, le filosofe, le artiste finiscono facilmente tra le “parti da saltare”, imponendo un secondo silenzio a coloro che con difficoltà sono riuscite ad esprimersi nei secoli passati. Il pensiero femminista e i gender studies viene

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spesso considerato un argomento secondario e la storia (sociale) delle donne difficilmente si conquista le pagine dei libri di testo. Scuola e università possono essere tanto i luoghi in cui si superano gli stereotipi sui generi, tanto di luoghi in cui questi si rafforzano e si perpetuano: escludendo totalmente le donne o ghettizzandole in corsi specifici si rischia di percorrere molto più la seconda strada.

A scuola Nelle scuole italiane la didattica è dogmatica e nozionistica , ancora fortemente appesantita dalle incrostazioni della riforma Gentile del '29 e dal vuoto lasciato in materia da 15 anni di non-riforme. Sebbene infatti un processo di innovazione si sia sviluppato disorganicamente durante gli anni delle mobilitazioni sessantottine, sulla spinta delle rivendicazioni studentesche e degli spunti offerti dalla pedagogia critica in quegli anni, nessun processo di riforma ha saputo finora tenerne conto e anzi sporadiche e superficiali sono state le riflessioni su come riadattare i tempi, gli spazi e le materie d'insegnamento alle mutate esigenze degli attori della conoscenza. Permane ad esempio un rapporto fortemente gerarchico tra saperi tecnici e liceali, i primi, stando alla ratio della riforma gentiliana fino ad arrivare alle politiche scolastiche bipartisan degli ultimi anni, sono visti come saperi inferiori di grado ma più funzionali ad un rapido inserimento nel mondo del lavoro, i secondi invece, giudicati migliori per qualità sono proiettati verso la prosecuzione degli studi e hanno teso con gli anni a slegarsi sempre più fortemente dalle prospettive lavorative. Il dato da cui partiamo è pertanto il complessivo e drammatico abbassamento della qualità dell'offerta formativa dei nostri istituti, a partire proprio da quelli tecnici e professionali ( basti confrontare la qualità attuale dei testi di letteratura destinati al liceo con quelli semplificati e tagliuzzati destinati ai tecnici e ai professionali) : un dato causato dalla assenza cronica di investimenti per l'innovazione didattica e di percorsi di ricerca indipendenti, dall'abolizione dei corsi sperimentali e dai tagli alle ore laboratoriali imposti dalla Gelmini. Da un lato l'apprendistato tende a diventare 34


un canale preferenziale per un'uscita precoce dai percorsi formativi, la possibilità di fatto di lasciare la scuola a 15 anni senza neanche un bagaglio di conoscenze-base, dall'altro aumenta il divario tra scuole, università e mondo del lavoro: chi sceglie di continuare a studiare non ha nessun tipo di sostegno e si trova di fronte le difficoltà oggettive, in termini di costi e assenza di opportunità, che questo comporta. L'impostazione dei percorsi di studi che si è andata così rafforzando non può che essere definita classista e necessita di una ristrutturazione complessiva, che, partendo proprio dalla didattica, sappia rendere quanto più omogenea possibile la formazione di base per garantire piena libertà di scelta degli studenti e pari dignitià aa tutti i percorsi formativi. Le materie di studio innanzitutto si sono trasformate in precipitati nozionistici che non riesconono a mettere in relazione temi, fasi storiche e questioni d'attualità; depurate delle emozioni che vi sono all'origine e della loro essenza che è ricerca, esse funzionano oggi come compartimenti stagni e gli studenti per lo più tendono a vedere ciò che studiano come qualcosa di completamente avulso dalla propria vita personale. Interessi, passioni, personalità rimangono esclusi dalla scuola e provano a svilupparsi, se se ne ha la possiblità anche economica, nei lassi spazio-temporali che la scuola lascia liberi. La sfida paradossale che gli studenti si trovano davanti è coinciliare quelli che ad oggi, se ci sono, non sono semplici hobby (musica, lettura, teatro, videogiochi, arte, sport, etc …) ma veri catalizzatori di energie e attenzione ad un profondo disinteresse per la scuola. Studi recenti della Fondazione Giovanni Agnelli ci dimostrano che gli studenti italiani sono quelli a cui la scuola piace meno: a 11 anni il gradimento dichiarato è già più basso di quello dei ragazzi tedeschi, inglesi o francesi, a 13 si rileva un calo pronunciatissimo tra gli studenti italiani. V'è cioè uno sfasamento profondo tra la rapidità dei tempi d'apprendimento non-scolastici (la velocità con cui si immagazzinano informazioni fuori dagli schemi delle “lezioni mattutine e dei compiti a casa”, ad esempio sul web, nei centri aggregativi e in generale nei contesti d'apprendimento informali) e la discontinuità e la lentezza con cui invece ci si impegna in una scuola che impone tempi rapidissimi e innaturali per rincorrere la fine dei programmi. Sarebbe necessario ripensare i programmi didattici in un ottica realmente interdisciplinare, lasciando agli studenti, specialmente nell'ultimo triennio

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delle superiori, la libertà di scegliere, sulla base dei propri interessi, alcuni corsi dell'orario curricolare. Bisognerebbe riequilibrare il tempo scuola col tempo d'attenzione, stimolando quest'ultimo e non semplicemente tagliando e mortificando il primo, aprendo anzi le scuole al pomeriggio per le attività autogestite dagli studenti, le aule studio e i laboratori tematici. Nonostante ricerche scientifiche abbiamo più volte dimostrato come l'attenzione in classe cali dopo i primi 25 minuti, la metodologia didattica che prevale indiscriminata all'interno del sistema scolastico italiano è la lezione frontale e cattedratica. Nelle nostre classi il tempo scuola è interamente occupato dall'alternarsi di spiegazioni e interrogazioni, le relazioni didattiche tra docenti e studenti e tra gli studenti stessi si costruiscono pertanto sul modello del travaso di nozioni con un linguaggio unilaterale che non lascia spazio al confronto, alla critica e all'approfondimento; in quest'ottica l'insegnante è per tutto il tempo la parte attiva e lo studente quella estremamente passiva di una relazione fittizia e non dialogica. E' necessario scardinare l'idea, implicitamente ammessa nel nostro attuale modello didattico, per cui “studiare è noioso, e non è per tutti” , bisogna dotarsi delle metodologie attive e cooperative che le scienze educative ci mettono a disposizione per la gestione delle lezioni (lezioni a classi parallele, circle time, brain storming, lettura e interpretazione di testi e fondi, etc ...)e avviare dal basso in ogni scuola un confronto reale e metadidattico tra gli studenti e i docenti. Nelle nostre scuole infatti c'è la necessità forte di rivendicare l'apertura di spazi di discussione in cui studenti e docenti siano pariteticamente rappresentati, in cui gli studenti abbiano la possibilità di esprimersi e influire sulle decisioni inerenti all'offerta formativa, ribaltando radicalmente un modello competitivo che non fa altro che produrre emarginazione e insofferenza. Qualsiasi processo di cambiamento reale della scuola non può essere calato dall'alto nelle classi, come finora s'è cercato di fare: esse deve necessariamente partire da un confronto metadidattico tra studenti e docenti, da una discussione sulla scuola tra i protagonisti attivi della scuola. Le politiche d'assunzione nel mondo della scuola, negli ultimi 20 ani, non hanno fatto altro che ingessarsi, bloccando i pensionamenti e il turn-over per le

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immissioni in ruolo dei docenti, ingrossando il numero di alunni per classe e riducendo il numero di posti disponibili, e rendendo, in sintesi, l'intera nostra classe insegnante la più precaria, anziana e malpaga d'Europa. Ponendoci il problema dell'innovazione della didattica e della valutazione dobbiamo considerare anche che nessun'investimento è stato stanziato in questi anni per stimolare i progetti di ricerca e sperimentazione didattica, specie in ambiti importanti come la pedagogia, né si è garantita in alcun modo la formazione permanente dei docenti. L'autonomia scolastica, da questo punto di vista, ha rappresentanto un'occasione sprecata: da un lato si è ridotta a questione burocratica e, dall'altro, aziendalizzando e privatizzando le scuole, minaccia di provocare un ulteriore impoverimento della qualità dell'istruzione pubblica. La legge Aprea 953 dunque, prevendo l'ingresso dei privati e dell'INVALSI nei principali organi decisionali, è ad oggi un emblema della volontà politica di legare le questioni strutturali della didattica e della valutazione a modelli cognitivi semplicistici e dannosi nonché agli interessi privati. Noi crediamo che bisogni invece invertire il rapporto esistente tra saperi e mondo del lavoro, finanziando l'istruzione pubblica e liberando la forza innovatrice delle conoscenze, per rilanciare, a partire da un'innovazione radicale di metodi e programmi d'insegnamento, la crescita complessiva del Paese. Il modello di valutazione promosso dall'INVALSI e sul quale si baserà il nuovo Snv approvato lo scorso 24 Agosto (per non parlare delle prove d'ammissione al TFA e di quelle che caratterizzanno i prossimi concorsi) ha per obiettivo il livellamento verso il basso della qualità della didattica e della scuola tutta. Per quanto infatti le riforme degli ultimi vent'anni si siano disinteressate del tema dell'innovazione della didattica lo strapotere assunto dall'INVALSI e la preparazione ossessiva di cui necessitano i Test INVALSI ha svolto la funzione di promuovere, sottobanco, una vera e propria “riforma della didattica”. Eppure la ricerca internazionale ha dimostrato in più occasioni che negativi sono i risultati cui porta la somministrazione abituale dei test, sulla qualità degli insegnamenti e sul livello degli apprendimenti; ignorando tutto ciò si potenzia il sistema di testing, omologando e impoverendo i contenuti e le metodologie didattiche. In questi anni in molti si sono opposti ad un idea di valutazione come controllo rivendicando al contrario un'idea di valutazione narrativa e

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processuale, che non veda i percorsi formativi come percorsi lineari su cui o si va avanti o si va indietro, o si viene promossi o bocciati, ma come processi circolari di cui la valutazione descrive di volta in volta le lacune e i punti di forza che lo studente o l'istituto scolastico sviluppa. Un'idea di valutazione fortemente in contraddizione con quella semplicistica che i test INVALSI rappresentano, una valutazione basata sulla ricerca, indipendente dal MIUR, che sostenga un'idea di scuola pubblica, laica e cooperativa. Proposte dell’Altrariforma della scuola: • Superare la separazione fra saperi, attraverso l’individualizzazione dei percorsi, la creazione di un biennio unitario e di un triennio specializzante comprendente approcci al mondo dell'università, del lavoro e attività pratiche. L'obiettivo deve essere quello di garantire a tutte e a tutti un livello omogeneo di formazione base, valorizzando allo stesso tempo, tramite la personalizzazione dei percorsi, la diversità delle intelligenze e degli interessi; • Inserire l'educazione fra pari, l'autoformazione, l'indagine a partire da strumenti multimediali e mediatici, la propositività degli studenti tra le pratiche didattiche quotidiane in ogni parte d'Italia. In una fase in cui la rigida demarcazione fra conoscenze non dà più i suoi frutti, diventa infatti importante la costruzione di ore dedicate ad ambiti multidisciplinari come pratica costante durante l'anno; • Promuovere la scrittura collegiale del Piano dell'Offerta Formativa (POF) e dei curricoli attraverso la discussione all’interno di Commissioni Paritetiche di studenti e docenti; • Chiediamo di costruire una didattica basata sulla valorizzazione degli interessi e delle differenze culturali,sessuali, comportamentali, cognitive; • Sostituire l’ora di religione con l’ora di storia delle religioni; • Attivare immediatamente iniziative di formazione dei docenti sulle innovazioni pedagogiche e didattiche da poter apportare nelle classi, oltrechè sui temi dell’integrazione, dell’intercultura e sull’insegnamento dell’italiano come seconda lingua ; • Promuovere un’educazione laica alla sessualità, attraverso corsi di prevenzione dei comportamenti a rischio da realizzarsi tramite supporto dell’associazionismo e degli enti del settore presenti sul territorio;

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All’Università Nonostante la presenza di differenze molto marcate da ateneo a ateneo e molto spesso anche da corso di laurea a corso di laurea all’interno dello stesso ateneo, lo stato della didattica e della qualità della formazione universitaria italiana risulta oggi grave: impoverita, frammentata e ancora basata prevalentemente su metodi di tipo nozionistico. Gli obiettivi di razionalizzazione, quantificazione e uniformazione del sapere a livello europeo, che il processo di Bologna (1999) e la riforma Berlinguer (2000), sua declinazione italiana, si prefiggevano di raggiungere, sono ancora distanti e il fallimento di tale processo è stato riconosciuto anche dagli stessi promotori e sostenitori. L’introduzione del meccanismo del 3 + 2 ha comportato infatti una frammentazione del sapere. Il tentativo di quantificare il sapere, attraverso il sistema dei crediti formativi, appare arbitrario e poco rispondente al reale peso di un insegnamento. Sempre più spesso insegnamenti con lo stesso numero di crediti richiedono quantità e qualità di studio molto diverse. Abbiamo inoltre assistito alla divisione degli insegnamenti in moduli e al loro accorpamento in corsi integrati che spesso, in realtà nascondono micro-corsi con poca attinenza l’uno con l’altro. Ciò ha generato un peggioramento qualitativo dei corsi di studio, che nella maggior parte dei casi vanno a interessare troppi ambiti diversi a scapito dell’approfondimento. Lo studente finisce col sapere un po' di tutto, ma niente in maniera adeguata. Inoltre in molti casi le cosiddette lauree "magistrali" altro non prevedono che la ripetizione di esami già sostenuti nella triennale; il che comporta lo spreco di una potenziale possibilità di arricchimento e specializzazione da parte dello studente e in questi casi disincentiva il proseguimento degli studi dopo la prima laurea o provoca un dirottamento verso università estere. Contemporaneamente nella maggior parte dei casi, la laurea triennale risulta essere poco riconosciuta e pertanto offre poche possibilità lavorative, rendendo necessario il proseguimento degli studi. Quello che si ottiene non è altro che uno spezzamento inutile del percorso formativo, che spesso genera ritardi.

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I vari provvedimenti legislativi degli utimi governi hanno fortemente impoverito la didattica universitaria attraverso da un lato i pesantissimi tagli che dal 2008 in poi hanno colpito gli atenei, privandoli delle risorse necessarie per investimenti per l’innovazione e il miglioramento del livello della qualità della didattica, dall’altro il blocco dei meccanismi di ricambio del corpo docenti. Inoltre, abbiamo assistito ad una progressiva limitazione dei margini di libertà e di scelta degli insegnamenti all’interno dei corsi di laurea, che ha portato a una forte riduzione dell’offerta formativa. Per immaginare un altro modo di fare didattica occorre anche ripensare radicalmente ai metodi; basata prevalentemente sulla lezione frontale, statica e di vecchio stampo, spesso in aule sovraffollate, in cui è impossibile sperimentare qualsiasi tipo di interazione docente-studente. Infatti negli atenei italiani è presente mediamente un docente ogni settanta studenti, contro il rapporto tedesco di uno su trenta. Occorre incentivare forme di insegnamento più dinamiche quali esercitazioni pratiche, seminari, lavori di gruppo, approfondimenti scelti dallo studente, permettendo allo studente di acquisire competenze fondamentali per lo sviluppo e la formazione professionale. A questo proposito risulta sempre più necessario potenziare tanto la mobilità internazionale, che quella fra gli atenei del nostro Paese. Il rinnovamento della didattica non può poi prescindere dall’esigenza di instaurare un rapporto sempre più dialettico fra ricerca e didattica, che passi per un aggiornamento continuo dei programmi di studio e per un coinvolgimento degli studenti in progetti di studio e ricerca. Va inoltre considerato che il ruolo dell’università non si esaurisce solo sul piano della trasmissione di un bagaglio di conoscenze puramente teoriche, ma anche nell’approccio al mondo del lavoro e nella formazione di professionalità. Ad oggi le forme di stage e tirocini messe in campo dagli atenei per favorire l’incontro tra il mondo accademico e quello del lavoro nella maggior parte dei casi non hanno raggiunto l’obiettivo prefissato, anzi, molto spesso, si sono trasformate in occasioni di vero e proprio sfruttamento della manovalanza studentesca, assumendo le caratteristiche di un contratto di apprendistato o di lavoro. E’ quindi necessaria una completa revisione dello strumento degli stage e dei tirocini, che devono tener conto dell’effettiva portata formativa dell’esperienza e dell’attinenza con il percorso di studio scelto. Bisogna dunque

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non soltanto assicurare un maggior controllo e una maggior selezione da parte degli atenei degli enti accreditati per queste attività, ma garantire e tutelare gli studenti in stage mediante uno Statuto che ne definisca e riconosca i diritti. Liberare i saperi significa vagliare dunque non soltanto il come si insegna, ma anche e soprattutto il cosa. L’offerta didattica dei nostri atenei è sempre più legata e dettata dalle esigenze del mercato. Il rapporto che si è consolidato negli ultimi anni fra università e mondo del lavoro, figlio di una visione liberista che è stata più volte abbracciata e sostenuta anche dai governi di centro-sinistra del nostro Paese, ha portato alla sottomissione dei saperi rispetto alle esigenze di un sistema che ha selezionato quelli compatibili con sé stesso e sta progressivamente depotenziando e eliminando tutti gli altri. L’università ha perso così il suo potenziale potere rivoluzionario rispetto alla società in cui si trova, inteso come possibilità di essere luogo dove può avvenire il ripensamento totale della società stessa e delle sue strutture economiche, politiche e culturali. Lo stato di trascuratezza in cui versano oggi le nostre facoltà umanistiche e delle scienze sociali o la quasi totale assenza di corsi in ambito economico in cui vengono impartiti insegnamenti non conformi alle teorie economiche dominanti, sono emblematici da questo punto di vista. E’ necessario dunque concepire la ripubblicizzazione dei saperi sotto il duplice aspetto della sottrazione economica dagli interessi privati e della liberazione di essi anche e soprattutto dalla cultura neo-capitalista. Per ripensare la didattica è necessario che l’università si doti di strumenti adatti a rendere possibile una costante valutazione sulla qualità della formazione che viene garantita agli studenti. Rafforzare il ruolo delle commissioni didattiche non è più sufficiente, ma vanno creati dei sistemi che consentano la possibilità di far esprimere tutti gli studenti in merito alla qualità e all’organizzazione dei corsi attivati e dei rispettivi programmi e che siano parallelamente in grado di esprimere anche possibili proposte. E’ poi paradossale che ad oggi l’opinione degli studenti non abbia nessun peso nei criteri valutativi dell’Anvur, criteri che in ogni caso andrebbero totalmente ripensati, per poter rispondere alle esigenze reali di valutazione della didattica negli atenei.

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Proposte dell’Altrariforma dell’Università 1. Per accrescere la qualità della didattica, scongiurare la proliferazione del numero chiuso è necessario intervenire sul rapporto docenti/studenti. E' pertanto necessario abolire il blocco del turn over. 2. Abolizione dei requisiti minimi necessari: risolvere il problema della proliferazione dei corsi di laurea è possibile solo mediante una valutazione qualitativa e non quantitativa. In ogni caso la eventuale chiusura corsi deve veder garantita la continuità del percorso di studi e la massima mobilità mediante un sistema nazionale di diritto allo studio. 3. le commissioni didattiche paritetiche devono avere un ruolo fondamentale in materia di didattica per gli organi cui afferiscono. Debbono essere presenti almeno in ogni corso di laurea (o raggruppamento di corsi di laurea affini, o dipartimento) per discutere in particolare dell'organizzazione del programma di studi; inoltre, debbono esistere commissioni didattiche paritetiche (o quantomeno coordinamenti delle strutture di cui al corso di laurea) per ogni struttura di raccordo, per trattare gli aspetti organizzativi e formali della didattica (quali ad esempio il calendario accademico). In particolare, gli organi corrispondenti devono chiedere un parere obbligatorio in quanto all’attivazione o soppressione di corsi di studio e ai criteri di valutazione di didattica e servizi agli studenti; inoltre, sono obbligati a discutere le proposte delle commissioni in merito a qualsiasi variazione dell’offerta formativa. 4. La scelta del corso di laurea deve essere sostenuta da un sistema di orientamento universitario realizzato in maniera coordinata con le scuole, in particolare con le scuole dei territori, a partire dalla trasparenza nella presentazione del corso di studi. 5. E' necessario superare l'attuale impianto dell'organizzazione dei corsi a partire da corsi impostati su macroaree divise in esami fondamentali, caratterizzanti, e a scelta in modo da consentire il più alto livello di autogestione del proprio percorso formativo superando definitivamente il sistema dei crediti che impedisce mobilità dentro i corsi e tra i corsi. 6. Impostare la didattica con metodi di tipo seminariale, che favorirscano la cooperazione tra studenti e le presentazioni in pubblico. 7. Istituire uno statuto dei diritti degli studenti che svolgono stage e tirocini che garantisca l'attinenza del tirocinio con il percorso di studi, che

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definisca modalitĂ stringenti per l'accreditamento degli enti accreditati, affidando tale compito alla commissione didattica paritetica. Lo statuto deve sancire il divieto di usare stagisti per la sostituzione nelle mansioni di coloro che lavorano presso l'ente accreditato, limitandosi all'affiancamento finalizzato alla formazione; deve essere garantito un rimborso spese. L'ente che non rispetta il progetto formativo perde la possibilitĂ di accreditarsi presso tutte le universitĂ italiane.

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Focus formazione professionale e lavoro Il sapere è storicamente stato al servizio delle logiche di profitto e di accumulazione del capitale: costruito e veicolato in funzione di un interesse ben preciso. Rendere la conoscenza, nel senso ampio del termine, qualcosa di elitario e di difficile fruizione è stato uno, forse uno dei più importanti, strumenti per negare una democrazia non solo formale ma sostanziale, fondata sulla partecipazione consapevole di larghe parti della cittadinanza. Detenere e recintare il sapere è stata una forma di esercizio di potere e di perpetuazione dello stesso che ha svolto un ruolo centrale negli ultimi decenni rispetto ai processi di evoluzione dei paradigmi economici dominanti. In questo senso il rapporto che intercorre tra formazione e lavoro diventa di centrale importanza per costruire un analisi della fase attuale e per immaginare e praticare un modello alternativo di società. In Italia fin dalla Riforma Gentile si è andata strutturando una scuola classista imperniata sulla netta divisione tra “sapere” e “saper fare”, tra conoscenze e competenze, nell’ottica di costruire due percorsi di formazione ben distinti e definiti: il primo, quello dei licei, avrebbe dovuto condurre ad un’ istruzione di alto livello e ad una condizione sociale più elevata, mentre il secondo, quello degli istituti tecnici e professionali, avrebbe condotto lo studente a lavori per così dire “più umili”. Tale impostazione della formazione si inseriva in un contesto lavorativo e produttivo tipicamente novecentesco, improntato sul modello di produzione fordista, che necessitava tanto di formare una manodopera quanto dei quadri dirigenti. Tale divisione si è fondamentalmente mantenuta fino ai giorni nostri, anzi negli ultimi decenni vi è stata un’ulteriore accelerazione rispetto alla dequalificazione dei percorsi di formazione tecnici e professionali. Si è andata

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sempre più delineando una scuola di serie A, quella dei licei, una di serie B, gli istituti tecnici e professionali. Nel complessivo processo di destrutturazione della scuola italiana a risentirne di più sono stati appunto gli istituti tecnici e professionali il cui ruolo formativo è stato totalmente sottostimato, depotenziando la parte legata alle conoscenze e indebolendo anche il quadro di apprendimento delle competenze tecniche attraverso i tagli alle ore laboratoriali. Tutto ciò all’interno di un preciso progetto: da una parte riproporre in maniera sempre più forte dei percorsi formativi di alto livello nei licei e indebolendo invece l’istruzione professionale a vantaggio di una formazione professionale lontana dalle scuole. Attraverso il Collegato Lavoro (ddl 1441/09) si permette infatti il precoce allontanamento dai percorsi formativi curricurali riproponendo l’apprendistato come canale per l’assolvimento dell’istruzione secondaria fin dall’età di 15 anni, abbassando de facto ancora di più l’età dell’obbligo scolastico. La presenza di percorsi di serie A, B e C è funzionale alla precanalizzazione precoce e all’iperspecializzazione del futuro lavoratore o della futura lavoratrice. Il sistema dell’istruzione professionale deve essere fortemente valorizzato, attraverso l’aumento delle ore laboratoriali e una massiccia dose di investimenti. Parallelamente deve essere eliminata la possibilità di intraprendere un apprendistato a 15 anni ed assolvere così l’obbligo scolastico. Gli atenei italiani, dopo essersi aperti ed essere stati per alcuni decenni atenei di massa almeno nelle aspirazioni, stanno attraversando un processo che li rende di anno in anno più elitari. Parallelamente si è sviluppato a partire dalla Riforma Zecchino - Berlinguer un processo di frammentazione e parcellizzazione del sapere, attraverso la proliferazione di corsi di studio all’interno dei quali risulta molto difficile allo studente costruirsi un percorso personale e l’individuazione di corsi professionalizzanti, il cui accesso è limitato in base alle presunte esigenze del mercato del lavoro. L’iperspecializzazione è quindi una caratteristica comune anche ai percorsi universitari in cui sempre meno spazio viene dato agli insegnamenti di base e sempre di più ad insegnamenti applicati, riconcorrendo la logica dell’immediata spendibilità delle competenze acquisite nelle aule universitarie

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sul mercato del lavoro. Tale logica prova a rispondere all’esigenza delle aziende di non investire tempo e risorse nella formazione del proprio personale, in modo da facilitare l’utilizzo di manodopera e personale precari. L’iperspecializzazione crea lavoratori e lavoratrici impiegabili immediatamente, nei pochi casi in cui si tratta di un’iperspecializzazione di qualità, ma che privi di strumenti per approfondire e migliorare il proprio lavoro e la propria condizione. Molto più utile sarebbe un investimento sulla formazione continua, che potrebbe consentire al lavoratore e alla lavoratrice di acquisire competenze e conoscenze anche dopo essere usciti dai luoghi della formazione e di adeguarsi a sviluppi tecnologici e produttivi. Altrettanto dovrebbe essere valorizzato il sistema di formazione professionale post -diploma. Criticare l’iperspecializzazione non significa rivendicare un sistema dell’istruzione e della formazione totalmente staccato dal mondo del lavoro, prospettiva che sarebbe evidentemente elitaria. Ovviamente uno dei ruoli della scuola e dell’università è quello di migliorare le condizioni individuali di chi le frequenta. Tuttavia appare chiaro come l’attuale sistema non sia in grado di rispondere neanche a questa esigenza, come dimostra il paradosso tra un numero di laureati inferiore alla media europea e un numero di laureati disoccupati superiore alla media europea che alimentano la cosiddetta “bolla formativa”. Gli strumenti di alternanza tra formazione e lavoro - sia nelle scuole sia negli atenei - sono da rivedere: lo stage deve essere un momento formativo accessibile a tutti e a tutte e non la socializzazione alle regole della precarietà, in cui lo studente viene sfruttato in modo gratuito per svolgere mansioni che non hanno alcun valore formativo. Accanto ad un rinforzo delle tutele per le studentesse e gli studenti in stage, occorre una legislazione nazionale più stringente che imponga l’obbligo di rimborso e preveda norme più stringenti sul valore formativo e sul tutoraggio da parte della scuola o università e dell’ente o impresa che ospita lo stage.

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Nel complesso di profila una precisa volontà politica portata avanti negli ultimi anni dai vari Governi e riproposta di fatto nell’impianto generale della Riforma Fornero che punta alla formazione di un ampia fascia di lavoratori da inserire fin da subito in percorsi lavorativi precari - come l’apprendistato - facilmente ricattabili e scarsamente preparati all’attuale struttura del mondo del lavoro. L’evoluzione delle politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni, la conseguente crisi economica e finanziaria e le misure neoliberiste di uscita dalla crisi ci consegnano un mercato del lavoro estremamente complesso e mutevole impostato sul concetto di flessibilità contrattuale. Questa flessibilità ha assunto col passare degli anni sempre più il volto di una generalizzata precarietà, che se dapprima si è configurata come un fenomeno contrattuale è diventato col tempo un concetto paradigmatico della condizione di vita delle nuove generazioni ma non solo. Non ci si può riferire alla precarietà esistenziale come solo una condizione generazionale limitata a coloro che ad ora entrano nel mondo del lavoro, ma si deve parlare di una condizione che caratterizza di fatto questo periodo storico: ci ritroviamo, a prescindere dalla nostra età, dalla tipologia di lavoro e dalle condizioni contrattuali, ad interfacciarci con un mondo che non ci dà sicurezze, che non ci permette di sognare, di immaginare una condizione differente. A questo processo di precarizzazione non è restato immune tutto il mondo della ricerca e della docenza. La scuola si regge sempre di più sull'impiego di precari e soprattutto precarie che restano tali anche per decenni, svilendo sempre di più il ruolo dell'insegnante. L'accesso all'insegnamento è stato negli ultimi anni cambiato più e più volte, attualmente per accedere alla scuola bisogna passare per il tirocinio formatio attivo (TFA), il cui costo, sommato ad un impegno di tempo che preclude la possibilità di fare altri lavori per autosostenersi, rende questa strada sempre più difficile da percorrere per molte e molti. Anche gli atenei basano sempre più il mantenimento tanto della ricerca quanto della didattica sul ricorso a personale precario. Negli ultimi decenni si è visto sempre più crescere il numero di persone che lavorano nell’università con i più

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svariati inquadramenti contrattuali, dall’assegno di ricerca al contratto per l’insegnamento, fino a raggiungere numeri equivalenti a quelli del personale strutturato in svariati atenei. Negli ultimi anni questo numero è andato in parte a diminuire ma non grazie ad assunzioni, ma solo a causa dei mancati rinnovi degli assegni, a loro volta causati dai tagli ministeriali e alla diminuzione delle borse di dottorato. Gli effetti di questa precarizzazione del mondo della ricerca sulla qualità di questa sono facilmente immaginabili: da un lato si profila il rischio di una selezione solo sulla base di chi può permettersi di lavorare per molti anni gratuitamente o quasi, dall’altro incoraggia la fuga verso paesi che offrono condizioni migliori.

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