Non servi! La precarietà è il problema, il Jobs Act non è la soluzione

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#nonservi

4 fotogrammi precari una breve analisi su lavoro, diritti e sviluppo in Italia

7 le nostre soluzioni per un'altra idea di società

17 alcune proposte da mettere subito in atto

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#nonservi! La macchina del capo

“L’Italia va riparata”. E allora il meccanico Renzi con l’aiuto del ministro Poletti - anche se non è da sottovalutare l’apporto fondamentale della ministra Giannini con #labuonascuola - è già da mesi al lavoro per smantellare definitivamente il già precario sistema dei diritti e delle tutele nel mercato del lavoro. Un’operazione in perfetta continuità con i Governi precedenti, in particolare con quello Monti, autore della famigerata Riforma Fornero. “Il lavoro è un dovere, non un diritto”. La linea l'ha indicata chiaramente lo stesso Presidente del Consiglio nel corso della Direzione Nazionale del PD. Ben oltre i richiami al laburismo che spesso vengono “imputati” al nuovo corso renziano, il disegno del futuro del Paese scivola verso il neoliberismo spinto. Poco importa se negli ultimi due decenni, proprio a causa delle ricette neoliberiste della flessibilizzazione del mercato del lavoro, della finanziarizzazione dell'economia e del monetarismo, la disoccupazione – in particolare quella giovanile – ha toccato livelli inediti e nessuno vede la più volte annunciata “uscita dalla crisi”.

Un problema strutturale al di là della retorica sui choosy

La colpa è stata attribuita di volta in volta ai giovani troppo choosy, alla scuola e all’università che non preparano adeguatamente al mondo del lavoro, ai lavoratori dipendenti scansafatiche e poco produttivi, alla mancanza di incentivi alle imprese. Nessuna riflessione critica sull’incapacità cronica del sistema produttivo di scommettere con innovazioni di processo e di prodotto, sull’assenza di piani industriali e investimenti pubblici in grado di orientare il lavoro verso la sua funzione sociale, sulla non volontà di garantire un welfare universale per la dignità di tutte e tutti. Il Jobs Act si inserisce nel solco di questa retorica e cerca di chiudere il cerchio di una serie di riforme e provvedimenti che hanno progressivamente precarizzato il mercato del lavoro, trasformando le forme di contratto a tempo determinato e il falso lavoro autonomo dall’eccezione alla norma nella nostra società. L’abolizione della causale per i contratti precari inserita nel Decreto Poletti ne è l’esempio emblematico. Il cosiddetto “contratto unico a tutele progressive”, non essendo affatto unico perché non prevederà 4


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione l’abolizione delle oltre 40 forme contrattuali presenti in Italia, non farà altro che rafforzare la tendenza alla normalizzazione e alla progressiva estensione a tutte le fasce anagrafiche e a tutti i settori categoriali - della precarietà lavorativa. Oltre occupazione e disoccupazione: il paradigma dell'occupabilità

Il valore sociale dei saperi e del lavoro: un'alternativa praticabile

La precarizzazione del mercato del lavoro si accompagna tuttavia ad un processo di trasformazione molto più profonda, che arriva ad investire l’intera sfera dell’esistenza. E’ evidente infatti come oggi, nel dibattito pubblico del Paese, l’emergenza della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, è usata dal Governo come leva per cambiare lo stesso paradigma di occupazione e disoccupazione. Contrapporre garantiti e non garantiti nel mondo del lavoro significa da un lato omogeneizzare verso il basso diritti e tutele, ma dall’altro significa utilizzare la competizione nella popolazione attiva per segmentare il mercato del lavoro e quindi estendere ulteriormente l’occupabilità giocando al ribasso su salari e diritti. E’ la prospettiva della “via italiana al modello tedesco”, con l’introduzione di forme simili ai MiniJob della Riforma Hartz e con la riduzione definitiva dello stato sociale a un modello di workfare spinto (altro che il welfare universale millantato dal Governo!). Anche l’estensione dei diritti legati alla maternità - e non alla genitorialità presentano delle forti lacune soprattutto nel contesto più generale della progressiva precarizzazione del mercato del lavoro. Quello di cui si parla sempre meno, infatti, è dell’incapacità del mercato del lavoro attuale di soddisfare le aspettative, le inclinazioni e gli interessi delle tante e dei tanti, in particolare della nostra generazione, che rimangono ai margini o che sono impiegati in lavori non solo precari, ma anche percepiti come inutili, dannosi e incoerenti con i percorsi formativi e le capacità individuali. Siamo infatti la prima generazione del Dopoguerra che sta vivendo condizioni materiali peggiori di quelle dei propri genitori, ma il problema si estende al tradimento delle nostre stesse aspirazioni di trasformazione della nostra esistenza e della nostra collettività. Siamo sempre più costretti a, o alla ricerca di, impieghi che escludono la cooperazione, la formazione continua, la connessione con il territorio e le comunità locali. Impieghi che impoveriscono, non solo dal punto di vista economico. Impieghi spesso accettati sotto ricatto, a causa dell’assenza di forme di welfare universale come il reddito di base. Di questo il Jobs Act non parla. Parla degli imprenditori che 5


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione devono poter controllare, demansionare e licenziare a piacimento i propri lavoratori, ma non decide di mettere in campo quelle misure strutturali necessarie per restituire valore sociale al lavoro. Così come #labuonascuola decide che è necessario uniformare l’offerta di lavoro alla domanda esistente, e non interrogarsi su come la conoscenza, la cultura, la ricerca, possano imprimere la trasformazione necessaria per uscire veramente dalla crisi e dalla precarietà. Non servi!

Quello che vogliamo fare è dire chiaramente “Non servi”! L’azione del Governo, il Jobs Act, il Piano Scuola, il rispetto dei vincoli di bilancio, non servono affatto a portarci fuori dalla crisi ma casomai a rafforzare e rendere strutturali quelle dinamiche “emergenziali” introdotte dalle politiche d’austerità. E allo stesso tempo non vogliamo essere serv i di un mercato del lavoro non solo sempre più precarizzato, intermittente, senza tutele, ma anche che non risponde affatto alle nostre aspirazioni e ai bisogni reali della società. Noi, studenti e giovani che continuiamo ad essere strumentalizzati come scusa per distruggere i già precari diritti sul mercato del lavoro, smonteremo con ironia e irriverenza la narrazione del cambiamento per il cambiamento, delle riforme strutturali sottoforma di slide, dell’annuncite cronica e del velocismo superficiale. La strada è appena iniziata. Il primo settembre Renzi ha annunciato l’inizio dei “1000 giorni per cambiare l’Italia”: a poco più di un mese di distanza è evidente che saranno 1000 giorni per precarizzarla e impoverirla. Noi abbiamo 1000 giorni - e più, nei contdown ci sentiamo stretti - per inventare e praticare assieme un’altra idea di scuola, di università e di società.

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tra disoccupazione e lavoro povero 10 mln di poveri: la cifra del fallimento di un disegno di società

La povertà da lavoro, un ritorno all'800

Se proviamo a confrontare la narrazione che il governo Renzi da di sé e delle sue “riforme” con la fotografia della situazione economica e sociale all’interno del nostro Paese il risultato è allarmante. In Italia la popolazione povera è quantificabile in 10 milioni di individui di cui oltre 6 milioni in povertà assoluta, cioè impossibilitata ad accedere a quei beni e servizi che assicurano un minimo di dignità umana. Lo certifica l’ISTAT ed è la cifra di 5 anni di politiche di austerità e di tagli al welfare e ai servizi essenziali. Nello stesso periodo, a fronte di una narrazione che continua ad asserire che “non esiste ricchezza” nel nostro Paese o che essa risiede nei risparmi familiari, c’è stato un enorme spostamento di questa stessa ricchezza dal basso verso l’alto; basti pensare che in Italia, per fare un esempio eclatante della sperequazione economica in Italia, 10 persone dispongono di un patrimonio pari a quello di 500 000 famiglie operaie (Censis). E’ quanto mai evidente dunque che quella in cui viviamo è una stagione in cui i cosiddetti “sacrifici” vengono imposti solo alla parte più debole della popolazione a favore di una ristrettitissima cerchia di elite che gestiscono nei loro interessi le politiche economiche e sociali del nostro Paese. Mentre da un lato si continua a raccontare di una lunga fila di multinazionali e di imprenditori pronti a sbarcare nella Penisola, in attesa solamente dell’abolizione dell’art. 18 e di un ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro per poter poi liberamente investire e creare milioni di posti di lavoro, non ci si rende conto di quella che è la geografia delle tipologie contrattuali, e dei relativi drammi umani e sociali. E’ infatti ridicolo affermare, a fronte delle 46 tipologie contrattuali di cui una sola tutelata dall’art. 18 e solo in aziende con più di 15 dipendenti, che il problema della disoccupazione è un problema di “rigidità” dell’accesso o di uscita dal mercato del lavoro. E’ necessario ribadire invece come l’eccessivo utilizzo di forme contrattuali atipiche sia una 8


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione delle principali cause della disoccupazione giovanile (44.2%, il dato più alto di sempre) e del ritorno di un fenomeno che pensavamo aver lasciato nei meandri della storia prenovecentesca: la povertà da lavoro. La bolla formativa, strategia di chiusura dei luoghi di formazione

Oggi molti di coloro i quali hanno un lavoro, se così si può definire al netto dell’assenza di diritti e di tutele e della spesso discutibile utilità sociale, non sono affrancati dalla povertà e non riescono ad emanciparsi, socialmente ed economicamente, attraverso il salario. In questo contesto i dati sul tasso di occupazione dei laureati al 52%, di cui solo il 45% ha iniziato a lavorare dopo la laurea mentre il 39% mantiene il lavoro pre laurea (dati Almalaurea), e sul numero d’iscrizioni universitarie, con 30.000 immatricolati in meno in un triennio e oltre 78.000 in un decennio, assumono i tratti di una precisa strategia politica volta a rendere sempre più elitari i luoghi di formazione, come luoghi di riproduzione dell’attuale classe dirigente e degli attuali indirizzi economici e sociali, e sempre più vasta un’area inedita di esercito (post)industriale di riserva che in una condizione di competizione a ribasso (sui salari e sui diritti) resta uno dei principali fattori della dilagazione della povertà e di estrazione di ricchezza dal basso.

la mancata innovazione L'innovazione, variabile non considerata

La ricerca scientifica e l’innovazione sono diventate variabili economiche strategiche di fondamentale importanza per le ambizioni di crescita di diversi Paesi del Nord Europa. Invenzioni come il web 2.0, le stampanti 3d, i passi avanzati nel campo della robotica lasciano presumere cambiamenti forti delle forme di produzione e di organizzazione del lavoro. Bassi salari, flessibilizzazione estrema del mercato del lavoro, assenza di tutele e standard qualitativi scarsi sono invece la strada fallimentare della competizione a ribasso imboccata da tutti i Paesi del Sud. In Italia, questa è addirittura una filosofia, tanto che il miliardario Briatore, facendo seguito alle tantissime dichiarazioni su “choosy” e “bamboccioni” di diversi ministri, ha consigliato agli studenti della Bocconi in una 9


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione conferenza sull’occupazione di volare basso ed aprirsi una pizzeria, che è l’unico modo certo di guadagnare, “Altro che start-up”. Ricerca e sviluppo, Se presto saremo circondati da pizzaioli laureati in economia questa sconosciuta non sarà però per il consiglio di Briatore ma perché a questo sembrano spingere le politiche pubbliche in materia di occupazione, strutturalmente incapaci di incentivare e dare spazio a tutte le forze innovative che all’interno del mondo dell’università e della ricerca si sono formate in questi anni. L’Italia è al sedicesimo posto tra i Paesi UE per gli investimenti in ricerca e sviluppo, impiega solo l’1,3% del PIL ed è anni luce lontana dall’obiettivo di Horizon 2020 che fissava il tasso d’investimenti al 3%. Ce lo dicono i dati Eurostat che certificano inoltre proprio in Italia il tasso più basso di cooperazione fra istituti pubblici di ricerca, imprese e università: questi 3 poli si sono parlati solo per il 12,1% dei progetti di ricerca, contro il 51% ad esempio dell’Austria. Il 90% delle start-up in Italia non riesce a superare la fase di avvio proprio a causa dell’assenza di una seria politica di sostegno e investimento statale. Allo stesso modo assistiamo a un calo della registrazione dei brevetti del 6,1% [BES 2014] nel 2011, in controtendenza con il resto dei Paesi europei. Una condizione di sottoccupazione cronica nella ricerca

Valutare e punire non è una ricetta vincente

Dunque se dopo un percorso di studi il tentativo di avviare un’attività ad alto contenuto innovativo fallisce, il mercato del lavoro come assorbe chi ha una laurea in un settore scientifico-tecnologico? Ebbene, tenuto conto dell’altissimo tasso di disoccupazione solo il 10,1% degli occupati lavora in un settore considerato high tech. Come siamo arrivati a questa situazione? Lo stato generale dell’innovazione così basso è dovuto alla incapacità dei nostri ricercatori di seguire il contesto internazionale? Considerando la successione di tagli al finanziamento ordinario, la spartizione di una quota premiale tra gli Atenei attraverso un meccanismo concorrenziale, l’abbattimento del fondo PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) portato da più di 120 a quasi 40 milioni negli ultimi 10 anni, è un miracolo che ci siano ancora ricercatori nelle nostre Università (e che in termini di produttività, siano molto competitivi). Oggi il mondo della ricerca già fortemente svilito da pesanti e miopi politiche di tagli viene definitivamente umiliato dal sistema di valutazione della qualità della ricerca gestito da ANVUR che, attraverso meccanismi di valutazione puramente 10


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione quantitativi, scatenano la competizione tra Atenei spingendoli a scalare la classifica della quota premiale. Questo sistema si traduce di fatto in una limitazione della libertà di ricerca assegnando punteggi diversi alle diverse tipologie di pubblicazione. Mentre l’idea dello Stato innovatore improvvisamente rivive anche in USA, i governi succedutisi nel nostro Paese attuano politiche di impoverimento delle condizioni del presente e di negazione del futuro. L’Italia è stata inserita secondo il Global Innovation Index tra i Paesi che devono ancora “imparare”. Imparare cosa? Più che a fare la pizza, a valorizzare chi oggi è considerato inutile.

la falsa soluzione della flessibilizzazione La flessibilità come opportunità: una prospettiva inesistente

Precarietà e diritti sindacali

La retorica sulla quale poggia tutto il processo di precarizzazione del mercato del lavoro nell'ultimo ventennio è la correlazione tra il tasso di flessibilità del mercato del lavoro e il tasso di occupazione. In sostanza, le magnifiche sorti e progressive della flessibilità avrebbero garantito un'occupazione di qualità, addirittura adatta alle proprie esigenze di vita, per tutti. A distanza di vent'anni possiamo tranquillamente affermare che la prospettiva è tutt'altra: come rilevato dall'OCSE l'Italia è, tra i Paesi industrializzati, quello che allo stesso tempo ha prodotto le più importanti politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro – in particolare sul fronte dei licenziamenti individuali – e ha registrato la maggior crescita del tasso di disoccupazione. Perché nella maggior parte dei casi un maggior grado di deregolamentazione del mercato del lavoro genera un minor tasso di occupazione? Perché la precarizzazione ha come effetto collaterale quello della riduzione del potere contrattuale e dei diritti sindacali dei lavoratori, cosa che porta all'abbassamento generalizzato dei salari, riducendo dunque la 11


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione domanda aggregata derivante dai consumi individuali. Precarietà, competitività, occupabilità

Deregolamentare il mercato del lavoro significa scegliere una precisa opzione politica: quella della costruzione della concorrenza tra imprese sull'abbassamento di salari e tutele e sull'aumento dell'orario di lavoro, e non sull'innovazione di processo e di prodotto. Tant'è vero che un lavoratore italiano svolge in media molte più ore di un suo omologo tedesco, eppure in Italia i salari reali sono in costante diminuzione dagli anni '90. La precarizzazione del mercato del lavoro, e in particolare il moltiplicarsi delle forme contrattuali, genera inoltre un altro effetto che si sta continuando ad amplificare nel nostro Paese. Si tratta della segmentazione sempre più scientifica del mercato che, attraverso la competizione tra lavoratori, estende all'infinito l'occupabilità comprimendo salari e diritti. L'introduzione dei MiniJob alla tedesca nel contesto italiano sarebbe un ulteriore tassello che rafforza questa tendenza.

jobs act e decreto poletti Nonostante il profilo pubblico mantenuto dal governo Renzi L'ennesimo provvedimento per negli ultimi mesi, durante i quali ha ripetutamente dichiarato di voler eliminare la precarietà dal mondo del lavoro, l’operato la precarietà legislativo va nella direzione diametralmente oppoosta. L’esecutivo ha più volte posto la necessità di aumentare la flessibilità in entrata così come quella in uscita, negando un’ulteriore precarizzazione dello scenario lavorativo, come invece ha denunciato di recente anche il rapporto OCSE Employment Outlook 2014. Il contratto precario, da eccezione a norma

Il Decreto Poletti, prima parte del cosiddetto Jobs Act, mette in atto questo progetto per quanto riguarda il contratto a tempo determinato e il contratto di apprendistato. E’ evidente il tentativo di “normalizzare” la precarietà lavorativa finora considerata come eccezione. Il provvedimento, infatti, stabilisce l’acausalità dell’assunzione a tempo determinato. Ciò significa che si può assumere un lavoratore a tempo e prorogargli il contratto di tre mesi in tre mesi per un massimo di cinque volte, senza dover spiegare il motivo per cui non si 12


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione assume a tempo indeterminato. Inoltre, il tetto massimo del 20% a questo tipo di assunzioni non vale per le aziende con meno di cinque dipendenti (cioè la maggior parte), non vale per alcun ente di ricerca (tutti i ricercatori potranno essere precari, come e più di ora) e lo sforamento prevede solo una lieve sanzione pecuniaria all’azienda. I contratti di apprendistato vengono privati della loro ragion d’essere, sgravando l’azienda dall’obbligo di contribuire economicamente alla formazione professionale e, per quelle con meno di 50 dipendenti, di assumere un minimo di apprendisti.

Jobs Act: oltre l'art. 18, zero tutele e contratto unico precario

Al Decreto Poletti segue adesso la seconda tranche del Jobs Act, che si propone di intervenire sulle innumerevoli forme contrattuali esistenti, oltre che sugli ammortizzatori sociali. Alla prova dei fatti però il disegno di legge delega non è che, da un lato, un grande spot e, dall’altro, un attacco esplicito ai diritti dei lavoratori se pensiamo alla definitiva cancellazione dell’articolo 18 e alle maggiore possibilità di controllare a distanza e demansionare i dipendenti. L’introduzione del contratto “a tutele crescenti”, non andando a sostituire le altre forme di contratto ma aggiungendosi ad esse, risulterà superflua nel momento in cui le imprese potranno attivare contratti molto più vantaggiosi, a discapito dei diritti dei lavoratori. Per quanto riguarda le tutele, manca totalmente un ragionamento complessivo su forme di tutela universali e inclusive di chi è appena uscito dal proprio percorso formativo e di quelle categorie di lavoratori che ad oggi ne sono esclusi, quali un reddito minimo che garantisca all’individuo la possibilità di sottrarsi al ricatto derivante dalla sua condizione di precarietà lavorativa ed esistenziale. Il dibattito è oggi molto schiacciato sulla singola questione dell’art.18, che ha portato alla contrapposizione tra l’”innovatore” Renzi e i sindacati “conservatori”. Quando il premier dichiara di voler superare la distanza tra lavoratori di “serie A” e “serie B” si nasconde il fatto che attraverso le misure che si intende attuare si avrà un livellamento al ribasso delle condizioni del lavorato

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youth guarantee Una misura non strutturale

La Youth Guarantee è una misura finanziata da Youth Employment Initiative (YEI) e dal Fondo Sociale Europeo (FSE) che nasce con l’intento di aiutare i giovani scoraggiati (NEET: Not in Education, Employment or Training) e disoccupati di età inferiore ai 25 anni (in Italia fino a 29) a trovare una occupazione qualitativamente valida, tirocinio, apprendistato o altre misure formative entro 4 mesi dall’inizio della disoccupazione o dalla fine degli studi. La misura, che si concentra sul miglioramento della relazione tra domanda e offerta, prende spunto da programmi simili adottati negli anni passati dai Paesi scandinavi su scala nazionale. La disponibilità complessiva del programma è pari a circa 1 miliardo e 513 milioni di euro. Oltre alle misure previste a livello europeo, in Italia è stata disciplinataa l’attuazione del ‘Bonus Occupazione. Si tratta di 188 milioni di euro destinati ai datori di lavoro che assumono i giovani partecipanti al Programma con contratti a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata pari o superiore ai 6 mesi.

Un fallimento annunciato

A ottobre 2014 si sono registrati al programma Garanzia Giovani 223.729 persone, prevalentemente dal Centro Sud. Dopo l’inaugurazione ufficiale del programma a maggio 2014, quindi a distanza di cinque mesi, il bilancio per ora è tutt’altro che positivo. Dei 223.729 giovani registrati solo 69.347 (circa il 30%) sono stati chiamati dai centri per l’impiego per un primo colloquio. Ad oggi, le opportunità di lavoro complessive pubblicate dall’inizio del progetto sono pari a 15.578. per un totale di posti disponibili pari a 22.270. Il 71,7% delle occasioni di lavoro è concentrato al Nord, il 14,4% al Centro e il 13, 8% al Sud, con un’evidente squilibro rispetto alla collocazione geografica dell’offerta. Ma il dato più significativo è quello delle tipologie contrattuali, un dato emblematico di come le risposte date dalla Garanzia Giovani siano del tutto insufficienti: le offerte di lavoro riguardano infatti per ben il 75% contratti a tempo determinato, solo per il 12% contratti a tempo Indeterminato, seguono i tirocini (7%) e l’apprendistato (2%). 14


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione Nessun intento realmente trasformativo

Davanti al 44,2% di disoccupazione giovanile la Youth Guarantee appare dunque una misura totalmente inappropriata. Il problema risiede nella stessa impostazione del programma che destina ingenti finanziamenti all’ incontro tra domanda e offerta, non cogliendo il carattere strutturale della disoccupazione giovanile e non comprendendo come essa sia causata da una reale mancanza di lavoro e da tipologie contrattuali che aumentano la precarietà. Non è un caso che a fronte di 223.729 giovani registrati al Programma Garanzia Giovani le offerte di lavoro provenienti dalle imprese siano state solo 15.578. Non è un caso che 75% dei lavori offerti tramite la Garanzia Giovani siano contratti a tempo determinato, tipologia contrattuale in cui – dopo la riforma effettuata dal decreto Poletti - il lavoratore è sotto il costante ricatto del datore di lavoro a seguito dell’ eliminazione della causale e alla possibilità di effettuare ben 5 proroghe. Nulla impedisce dunque al datore di lavoro, una volta incassato il ‘Bonus Occupazione’, di non effettuare la proroga al giovane assunto, che si troverà così nuovamente travolto nel vortice della precarietà. Medesima considerazione può essere fatta per l’apprendistato che, in seguito alla riduzione al 20% dell’obbligo per le aziende di stabilizzazione degli apprendisti, si è trasformato definitivamente nell’ ennesimo contratto precario. Infine, sicuramente, problematici risultano essere i tirocini, spesso intesi come mero lavoro sfruttato non retribuito, che favoriscono il dumping salariale e non garantisce affatto possibilità occupazionale. Insomma, la Garanzia Giovani appare a tutti gli effetti un esperimento non esperimento non riuscito. Infatti, senza politiche industriali e di sviluppo; senza un reale investimento in istruzione, ricerca e innovazione; senza una riforma del mercato lavoro che elimini le oltre 40 tipologie contrattuali e che preveda un salario minimo; senza una universalizzazione degli armonizzatori sociali non si può dar vita ad un reale piano per l’ occupazione giovanile.

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per il valore sociale dei saperi e del lavoro La prima generazione a vivere condizioni materiali peggiori dei padri

La nostra generazione sarà la prima a dover accettare condizioni socio-economiche peggiori di quella che l’ha preceduta: questo è il muro contro cui si vanno a infrangere le aspettative possibili di alcuni milioni di giovani. Dopo aver passato anni all’interno di percorsi formativi sempre più dequalificanti, spesso facendo sacrifici incredibili per poterne sostenere le spese, ci si ritrova davanti un mondo del lavoro senza prospettive. Anni ed anni di provvedimenti che hanno precarizzato ed impoverito il lavoro, demolendo contemporaneamente gli strumenti di welfere e di protezione sociale, ci consegnano un panorama piuttosto fosco.

Per un rapporto tra formazione e territorio

In questi anni mettere in comunicazione la formazione ed il lavoro ha quasi sempre voluto significare asservire i luoghi della formazione agli interessi di mercato. Un processo che non è ancora giunto a termine e che vede nel Piano Scuola il suo culmine. Quella che per anni è stata venduta come un’opportunità di avvicinare la domanda di lavoro alla possibile offerta, di fatto si è invece configurata come la costruzione di un esercito di futuri lavoratori poco qualificati da mandare in pasto agli interessi di aziende che non puntano sulla qualità, ma sull’abbassamento del costo del lavoro, per garantirsi una sopravvivenza nel panorama internazionale. Abbassare il costo del lavoro vuol dire appunto puntare su lavoratori poco qualificati, facilmente ricattabili e sostituibili: come questo possa essere coerente con i sogni e gli obiettivi dei giovani italiani è poco chiaro. Per noi è necessario ribaltare radicalmente prospettiva: il vero tema non è quello della relazione (di subordinazione) tra formazione e lavoro, bensì quello della connessione tra formazione, territorio e società. Rafforzare scuole e università come presidi sociali nei territori, socializzare la conoscenza, orientare la ricerca verso forme di sviluppo materiale e immateriale compatibili con la natura e la storia dei luoghi, considerare i saperi come vettore di trasformazione della realtà, non come una delle tante variabili del processo 18


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione produttivo. La distruzione delle aspettative individuali e dell'orizzonte collettivo

Passo dopo passo, immaginarsi un futuro all’altezza dei propri sogni sembra qualcosa di sempre più lontano e irragiungile. La distruzione di un’orizzonte collettivo si compone della distruzione di migliaia di possibilità individuali, per andare verso un Paese dove pochi si godono le ricchezze costruite sulle spalle dei molti. Eppure noi vogliamo immaginare e costruire qualcosa di diverso: vogliamo pensare ad una scuola e a un’Università in grado di valorizzare le individualità non nella competizione, ma attraverso la solidarietà e la collaborazione. Vogliamo che i saperi e le conoscenze che ognuno di noi può dare alla società servano per emancipare il singolo come la collettività, che possano aiutarci a pensare ad una società, ad un modello di sviluppo e di produzione differente. Non pensiamo al lavoro come ad un dovere funzionale a portare a casa quel che basta per sopravvivere, ma ad un diritto utile a realizzarci, nel quale potersi riconoscere e contribuire al benessere individuale e collettivo. Insomma, vogliamo restituire ai saperi, e di conseguenza al lavoro, quel valore sociale, quella dimensione di realizzazione individuale e di sviluppo collettivo che, nel pantano della precarietà, sembra aver perso ormai da tempo.

per un nuovo ruolo del pubblico Modello neoliberale e politiche di austerità

Gli ultimi 30 anni hanno visto l'affermazione piena del modello neo-liberale e la forte diminuzione del ruolo dello Stato nella programmazione dell'economia e nell'impegno a garantire tutele sociali. La crisi economica sistemica che stiamo attraversando ha accentuato la tendenza rigorista e monetarista, concretizzatasi nelle politiche di austerity, sottraendo terreno all'iniziativa pubblica e alle politiche espansive, e colpendo in particolar modo la possibilità di incidere sulle diseguaglianze sociali attraverso misure di redistribuzione della ricchezza. 19


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione Lo stato sociale e il welfare di stampo novecentesco – con tutti i limiti connessi a un'impostazione familista e modulata sull'idealtipo del maschio bianco, padre di famiglia, con contratto a tempo indeterminato – ha subito e continua a subire un attacco senza precedenti in nome delle esigenze di spending review e di consolidamento dei conti pubblici. Il risultato è sempre più palese: siamo di fronte al fallimento economico, con la ripresa della produzione e dell'occupazione più volte annunciata come prossima e mai verificatasi negli ultimi 7 anni, ma soprattutto all'aggravarsi delle condizioni sociali e delle diseguaglianze di reddito, causa principale della crisi stessa.

La mutazione del significato del Pubblico Abbiamo subito una vera e propria ridefinizione del ruolo del Pubblico, per il quale perde progressivamente centralità la partita per la rimozione degli ostacoli socio-economici alla piena affermazione e autodeterminazione degli individui. Siamo di fronte a una ridefinizione, appunto, non a una scomparsa: lo Stato, a tutti i suoi livelli, non diminuisce il livello della sua presenza, ma concentra la propria azione sul controllo sociale, sulla marginalizzazione del dissenso e delle istanze di partecipazione. Questa impostazione oltre a impoverire fasce crescenti di popolazione pone una pesante ipoteca sulla qualità e sulla sostanza della democrazia. Per un welfare universale e la A fronte di tutto ciò, sentiamo l'urgenza di rivendicare una redistribuzione della nuova centralità dell'iniziativa pubblica nella definizione di ricchezza nuove forme di welfare universale in grado di sostenere tutte e tutti indipendentemente dal proprio contratto di lavoro o dal proprio stato di inoccupazione. Solo un approccio completamente diverso nell'amministrazione dell'interesse collettivo può aggredire le inaccettabili disparità economiche che condizionano in maniera determinante l'uguaglianza sostanziale delle persone nell'accesso a informazioni, conoscenze e opportunità. Non possiamo prescindere, infatti, da una grande operazione di redistribuzione della ricchezza, soprattutto di fronte alla povertà dilagante che colpisce ormai violentemente anche in Europa (secondo i dati del rapporto Istat del 2013 in Italia sono più di 10 milioni le persone in povertà relativa e 6 milioni in quella assoluta). Per fare questo serve riaprire un ragionamento sulla fiscalità generale, mirando a recuperare risorse per le politiche sociali dove si concentrano grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, grandi profitti e rendite finanziarie o di altro tipo. 20


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Per una programmazione industriale e la riconversione del modello di sviluppo

Pretendiamo che il Pubblico torni a farsi garante della qualità, dell'accessibilità, della gestione democratica e partecipata dei servizi. L'ondata di privatizzazioni e di tagli in questo settore danneggia l'intera comunità, ma ancora una volta si abbatte in maniera più pesante sulle fasce più deboli. Lo Stato, insomma, deve riconquistare un ruolo di inclusione sociale che oggi è profondamente messo in discussione. Non possiamo, però, fermarci a questo: è necessario che si riaffermi la cultura della programmazione industriale fondata sull'interesse collettivo, anziché abdicare alla piena libertà di un classe imprenditoriale incapace di investire in ricerca e innovazione e di produrre benessere sociale. Dobbiamo riaprire una battaglia sul ruolo della conoscenza nei progetti di revisione dei processi produttivi, di cosa e come produrre, di conversione di un modello di sviluppo capitalista ed estrattivo verso una sostenibilità sociale e ambientale.

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il contratto unico Ampliare la flessibilità in entrata: questo non è il nostro contratto unico

L'attacco al mondo del lavoro in termini economici e in termini di smantellamento delle tutele e dei diritti di lavoratori e lavoratrici, attraversato dalla Riforma Fornero con lo svuotamento di peso politico e sindacale, di fatto, dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, trova nella formulazione contrattuale del Governo Renzi un nuovo punto di approdo: l'ampliamento della flessibilità in entrata -con già la flessibilità in uscita a livelli altissimi- e la possibilità di licenziamento nei primi tre anni sono i pilastri che disegnano quello che sembra essere, all'interno del disegno di legge delega, l'inserimento di tipologie contrattuali a tutele crescenti, senza però che il disegno di legge vada a specificare la reale e precisa tipologia di contratto.

Per un vero contratto unico, con la riduzione delle ore di lavoro e l'abolizione degli straordinari

Come Rete della Conoscenza, rivendichiamo la necessità del contratto unico a tempo indeterminato, a tutele progressive, che garantisca tutele e diritti ai lavoratori, senza prospettive di licenziamento in bianco in un arco di tempo brevissimo e con la netta riduzione della selva delle tipologie contrattuali, volta soltanto ad abbassare il costo del lavoro e smantellare smantellare, pezzo dopo pezzo, gli strumenti di welfare e di controllo sindacale. La rivendicazione di un contratto unico non può prescindere dalla riduzione delle ore di lavoro e dall'abolizione degli straordinari, con un passaggio strutturale che da troppo tempo manca in ogni riforma emanata dai Governi degli ultimi 20 anni, al fine di eliminare ogni elemento di sfruttamento e di scambio strumentale denaro-manodopera a basso costo senza tutele; è necessario, inoltre, inserire anche degli strumenti di welfare femminile, andando a sanzionare, ad esempio, licenziamenti in bianco in seguito al periodo di maternità e prevedendo la presenza di asili nido all'interno delle aziende stesse.

Contratto unico e welfare

Le nostre rivendicazioni stanno all'interno di un quadro complessivo di ripensamento del modello sociale di welfare e di strutturazione del mondo del lavoro: oggi, non è più possibile, con il tasso di disoccupazione giovanile sempre più alto, con i licenziamenti che aumentano e con lo scambio 24


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione malato imposto dalle imprese fra diritto alla salute e diritto al lavoro (come nel caso dell'ILVA di Taranto o delle Lucchini di Piombino), che lo Stato non si faccia carico di queste situazioni. È necessario dunque andare in direzione nettamente opposta a quello che è il Jobs Act nel suo complesso; il ripensamento delle tipologie contrattuali sta in questo quadro complessivo.

il reddito di base e il salario minimo Un modello di workfare zoppo

Uno dei temi più spinosi del dibattito odierno in merito al mercato del lavoro è quello riguardante gli ammortizzatori sociali. Attualmente il sistema italiano del welfare prevede svariate tipologie di assistenza per soggetti socialmente deboli, quali disoccupati, donne sole con figli minorenni a carico, diversamente abili, etc. Analizzando i caratteri generali di questo sistema di assistenza notiamo che esso è fortemente frammentato, ovvero articolato in un elevato numero di differenti programmi di erogazione di servizi e denaro; perlopiù familistico, poiché assume come oggetto dell’assistenza la famiglia e non l’individuo; non universalistico, poiché numerose categorie sociali sono escluse da ogni tipo di assistenza. Quando il Governo parla di “universalizzare” il welfare italiano, vuole in sostanza provare a rimettere in sesto con qualche toppa un modello di workfare zoppo.

Il reddito di base per la dignità di tutte e tutti

La nostra prospettiva è radicalmente diversa: rivendichiamo forme di welfare universale, sottoforma di reddito di base corrispondente almeno al 60% della mediana dei salari, che garantisca una vita degna a tutte e tutti. Tale reddito dovrebbe essere erogato in forme dirette e indirette (servizi e assistenza, riduzioni di costo etc.). Inoltre una misura di questo tipo dovrebbe essere declinata e adattata a seconda delle fasi dell'esistenza attraversate dall'individuo (formazione, inserimento nel mercato del lavoro, disoccupazione, 25


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione genitorialità, pensione etc.) Il salario minimo garantito

Per quanto riguarda il salario minimo garantito, esso costituisce un utile strumento per tentare di arrestare la caduta dei salari a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e per fungere da supporto alla contrattazione sindacale. L’istituzione del salario minimo garantito andrebbe in ogni caso affiancata alla riduzione dell’orario di lavoro, in modo da consentire la creazione di nuovi posti di lavoro mantenendo i salari ad un livello dignitoso.

il diritto allo studio Contro l'abbandono scolastico e l'espulsione dalle Università

L'abbandono scolastico in Italia è in media del 18%, fra le più alte dell’area OCSE, con punte al sud che superano il 25%. Uno su tre fra coloro che decidono di abbandonare gli studi prima del tempo ha genitori che hanno frequentato solo la scuola dell'obbligo oppure che praticano una professione non qualificata (rispettivamente 27,7% e 31,2%). Questi dati allarmanti dovrebbero essere un incentivo per maggiori finanziamenti pubblici alla scuola e al diritto allo studio, ma le linee guida della riforma della scuola del governo Renzi non specificano gli investimenti strutturali e ignorano del tutto il tema del diritto allo studio. Non va meglio sul versante del diritto allo studio universitario. Le borse di studio per consentire a chiunque, indipendentemente dalle condizioni economiche di partenza, di arrivare ai gradi più alti della formazione sono state cronicamente sottofinanziate nel nostro Paese. Lo scarso livello di investimenti destinato al diritto allo studio non soltanto fa registrare in Italia una peruentuale di polazione studentesca coperta da borsa di studio molto bassa risapetto ad altri paesi europei (7% contro il 18% della Germania e il 25% della Francia), ma comporta addirittura la vergognosa figura dello studente idoneo non beneficiario di borsa per mancanza di risorse. Il governo Renzi, peraltro, nonostante le promesse ha reintrodotto il Fondo Integrativo Statale (FIS) dentro la morsa del Patto di stabilità interno: una scelta inaccettabile che - se non ritirata - comporterà una drastica riduzione delle borse di studio erogate. 26


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione Per la garanzia reale del diritto allo studio

Per il reddito di formazione e dei livelli minimi essenziali adeguati

Riteniamo prioritaria un'inversione di rotta reale e non solo a parole sull’accesso ai saperi, che, come già avviene nei paesi del nord e come recita la nostra Costituzione, dovrebbe essere gratuita e accessibile a tutti, mentre i costi sempre più elevati (caro-libri, caro-trasporti, caro-affitti per gli studenti fuori sede) la stanno rendendo progressivamente un bene di lusso riservato a pochi. Lo studio è un diritto e come tale deve essere garantito a tutte e tutti con lo stanziamento di adeguate risorse in welfare studentesco. Tuttavia, non si tratta soltanto di prevedere finalmente un efficace sostegno individuale agli studi, ma di scegliere verso quale idea di società vogliamo tendere. Vogliamo una società della conoscenza basata su un libero accesso ai saperi, perché la conoscenza sia una risorsa collettiva in grado di trasformare il presente per un miglioramento delle condizioni di vita. Troppo spesso, come nelle linee di riforma della scuola del governo Renzi, vediamo un ‘idea di formazione completamente subalterna alle logiche di mercato e alle esigenze a breve termine di aziende e imprese. Il rapporto va completamente ribaltato con un investimento forte nel diritto allo studio, nella ricerca e nell’innovazione, affinché sia la conoscenza un vettore di trasformazione della filiera produttiva per ripartire da buona occupazione e conversione ecologica. Per raggiungere questo obiettivo devono essere affrontate con urgenza alcune priorità: l’approvazione di una legge quadro nazionale sul diritto allo studio scolastico, la piena o parziale gratuità dei libri di scuola e dei trasporti, la revisione della carta “io studio” verso una maggiore efficacia dello strumento,il rifinanziamento del Fondo Integrativo Statale per le borse di studio per cancellare definitivamente la figura dell’idoneo non assegnatario, una riforma dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) che aumenti il numero di beneficiari di borsa, l’introduzione di un reddito di formazione che consenta l’autodeterminazione del proprio percorso di studio libero da ogni tipo di condizionamento.

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gli investimenti pubblici Per un investimento Secondo il rapporto dell'OCSE Education at a Glance, l'Italia adeguato in scuola investe il 4,9 % sul pil, di cui 1% istruzione universitaria e 1,3 % in ricerca e sviluppo. Con l'esplodere della crisi, gli e università investimenti complessivi in istruzione sono stati inferiori al diminuire del pil, attestando che la formazione e la ricerca sono stati considerati un costo e non una risorsa. Per la scuola è necessario lo stanziamento di almeno 8 miliardi, quelli tagliati nel 2008 dal duo Gelmini-Tremonti. Inoltre vanno apportati investimenti per l’autonomia scolastica e l’offerta formativa, copertura finanziaria per il diritto allo studio e un ulteriore investimento per portare l’obbligo scolastico a 18 anni. Sono dunque necessari 750 milioni di euro. A questi si sommano gli interventi urgenti e strutturali in materia di edilizia scolastica: quasi la metà degli edifici non posseggono infatti i certificati di agibilità, il 65% le certificazioni prevenzioni incendi e il 36% richiedono opere di manutenzione urgenti. Dalle stime della protezione civile gli investimenti necessari a riqualificare le strutture scolastiche sono di 13 miliardi. I dati del sistema formativo universitario italiano in rapporto agli altri paesi Europei e dell'area Ocse, provano come la retorica usata in questi anni, sia stata distante dalla realtà, ma strumentale a legittimare i tagli e la sostanziale privatizzazione. L'Italia è penultima per numero di laureati, con il 21% tra i 25-35 anni, mentre si continua a registrare il calo delle immatricolazioni. Il fondo nazionale per le borse di studio, con il volume di 150 mln, non copre tutti gli aventi diritto, con regioni in cui la copertura è inferiore al 50 %, mentre solo il 3% degli studenti beneficia di una residenza universitaria. Siamo il 3° Paese in Europa con le rette più alte, mentre il volume derivante dalla contribuzione studentesca è aumentato di 283 milioni in 5 anni. Inoltre, si registra un netto calo delle assunzioni, che rispetto al 2006 sono del 90%. É dunque necessario investire 1,5 miliardi di euro in FFO, 350 mln di euro l'anno in diritto allo studio e 300 mln di euro in residenze universitarie. Per un investimento La ricerca subisce la stessa sorte segnando forti riduzioni di adeguato in ricerca investimenti. I posti banditi per i dottorandi sono in calo del 28


#nonservi · la precarietà è il problema · il jobs act non è la soluzione 19%, mentre le borse di studio coprono il 55,9 % dei posti (2012/2013), con una percentuale di non assunti all'interno del sistema accademico pari al 93,3 % sul totale dal 2003 ad oggi. Mentre dal 2011 sono tagliati gli investimenti in ricerca, come il fondo ordinario e progetti di rilevanza nazionale, nel 2007 la percentuale di ricercatori accademici su gli occupati è del 0,15 % e del 1,73% dei ricercatori nelle imprese. È dunque necessario investire 50 mln per la copertura dei posti di dottorato e 150 milioni in fondi di ricerca. Inoltre si propone di investire 100 milioni per l'assunzioni di 1000 ricercatori nelle imprese. Per una rete di piccole opere sul territorio

Per una programmazione industriale innovativa

Proprio nell’ottica di ridefinire concretamente il ruolo del Pubblico, serve una politica in grado di affrontare efficacemente i dati allarmanti che arrivano da più contesti. Mentre il 32 % è su un territorio a rischio sismico e il 10 % a rischio idrogeologico, gli investimenti pubblici si concentrano in maniera preponderante su grandi opere e interventi estrattivi che rispondono più a interessi speculativi di gruppi economici e imprenditoriali che ai bisogni della collettività. Chiediamo che venga predisposto un piano straordinario di piccole opere a impatto locale in grado di incrementare la qualità della vita quotidiana e garantire la messa in sucurezza dei territori: dagli interventi di messa in sicurezza idrogeologica, alle infrastrutture di trasmissione dei dati, passando per la grande mole di bonifiche di cui il nostro Paese ha necessità. Non possiamo che denunciare la rinuncia sempre più evidente dello Stato ad elaborare una programmazione industriale e investimenti adeguati nella ricerca pubblica, in innovazione e sviluppo. Serve una riflessione strategica su cosa e come produrre nei prossimi 50 anni e una riabilitazione della conoscenza come risorsa rivoluzionaria capace di trasformare i processi esistenti e convertire l’attuale modello di sviluppo in termini ecologicamente e socialmente sostenibili: per raggiungere questi obiettivi di interesse generale, solo una grande immissione di investimenti pubblici in questo campo potrà portare a risultati tangibili nei prossimi anni.

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