Piattaforma verso lo Sciopero Generale

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Piattaforma di adesione - Rete della Conoscenza

Noi siamo la nostra liberazione!

Studenti e studentesse verso lo sciopero generale del 6 Maggio Sciopero generale. Da sempre la massima espressione di unità e solidarietà, non solo tra i lavoratori e le lavoratrici, ma anche tra tutte le lotte che animano l'opposizione sociale in Italia. Un paese, il nostro, che a prescindere da chi lo governa soffre l'apice di una crisi che da economica si è trasformata in sociale, culturale e democratica. La crisi è diventata alibi per smantellare le grandi conquiste del secolo scorso, l'occasione ghiotta per attuare una strategia che i potenti avevano pianificato da tempo. La crisi non è globale è occidentale, è la crisi dell'idea di egemonia sul mondo, del neocolonialismo e del neoliberismo. Rilanciare questa strategia oggi, per i potenti, significa allargare il divario tra povertà e ricchezza proprio nell'occidente che ha costruito le sue fortune e il suo apparente benessere sulle povertà e sulle disperazioni altrui. L'Italia non rappresenta, in questa contesto, un caso limite. Ne è chiara espressione, laboratorio ventennale di sperimentazione delle limitazioni alle libertà civili e sociali. Il berlusconismo ha fatto scuola, i diritti di cittadinanza sotto attacco in Europa come negli U.S.A., lo dimostra la sovrapposizione tra questione sociale e questione democratica. In Italia, in Europa come aldilà dell'Atlantico, la democrazia non è più – semmai lo è stata nelle forme in cui si è espressa – la misura più alta del governo partecipato dei popoli né mai lo strumento attraverso cui redistribuire ricchezza e giustizia sociale. Il taglio indiscriminato alla spesa sociale risponde a questa logica, la mannaia che si è calata sui diritti universali - a partire proprio da quelli all'istruzione, alla salute e al reddito – dimostra che siamo ad un punto chiaro di implosione del sistema che per decenni ha governato il mondo. Questo è il futuro che ci hanno rubato, in funzione di queste convinzioni abbiamo deciso bloccare il paese e riempire le piazze nell'ultimo autunno, queste saranno le motivazioni che poteremo in piazza nel prossimo sciopero generale del Maggio e necessariamente anche oltre.

Liberare l'Italia, cambiare il mondo La fotografia del nostra paese è sbiadita. Nei tagli epocali all'istruzione pubblica e alla cultura, nell'attacco mai così violento ai diritti dei lavoratori e alle lavoratrici messe in campo dalle strategie governative e padronali negli ultimi anni, c'è un'idea di paese, di futuro e di umanità che non possiamo accettare. Gli studenti e le studentesse, in Europa come nel mondo, sono la nuova linfa dei popoli che hanno deciso di riprendere parola. Contro il regime di precarietà a cui ci vogliono sottomettere – aggravata dalla nuova (vecchia?!?) strategia continentale dell'austerity – gli studenti e le studentesse in ogni angolo d'Europa hanno fatto sentire la loro indignazione, la loro determinazione a riprendersi il futuro riconquistando quotidianamente il presente. Dalla battaglia contro la riforma delle pensioni in Francia, dalla inedita mobilitazione inglese che vede per la prima volta da decenni unità tra lavoratori e studenti, dall'indignazione greca ai recenti scioperi generali di Spagna e Portogallo. In queste mobilitazioni c'è una nuova idea di Europa e di mondo E' arrivata l'ora di ridare senso alla parola democrazia, è arrivata l'ora di rilanciare nel nostro paese una lotta sociale per riconquistare le libertà negate, di immaginarci nuove e partecipate forme di governance finalizzate alla redistribuzione della ricchezza e della felicità. Per questo è necessario sostenere tutti i percorsi tesi alla più ampia partecipazione dello sciopero, a partire da chi questo diritto fondamentale non ce l'ha perché negato, il mondo del precariato diffuso di cui anche noi soggetti in formazione ci sentiamo parte. Costruire davvero uno sciopero generale, con protagonismo ed efficacia, significa generalizzarlo alle lotte più significative degli ultimi anni, renderlo partecipativo, la base di partenza della costruzione della più ampia coalizione sociale che dovrà salvare questo paese dal baratro in cui versa. Non uno sciopero politico o politicista, ma sociale perché capace di raccogliere il disagio e l'insofferenza popolare, capace di cambiare la politica praticando conflitto. Anche questo per noi è democrazia, uscire dalla condizione di subordinazione in cui qualcuno ci vuole incatenare, ridare davvero potere ad un popolo offeso, deriso e umiliato dal triste teatrino dei governanti. La nostra non può essere testimonianza. Dobbiamo condividere questo desiderio di cambiamento con tutti i segmenti di società coinvolti, a partire dai lavoratori e le lavoratrici della CGIL che hanno indetto lo sciopero, in tutte le tappe verso il 6 Maggio e oltre. Portarlo in tutti i luoghi della formazione a partire dalle scuole e dalle università, nei luoghi di lavoro dove spesso vendiamo le braccia per pagarci gli studi, nelle nostre nostre città grigie e sempre più inquinate, nelle nostre comunità. È il nostro tempo, non ne avremo altri. Noi e solo noi, siamo la nostra liberazione!

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La crisi dell’Occidente, la fine del G8 Nel luglio del 2001, gli 8 sedicenti “grandi” barricati nel centro storico di Genova promettevano al mondo cosa ben precisa: un governo mondiale della globalizzazione, in grado di tenere sotto controllo i processi economici, sociali e ambientali che sconvolgevano il pianeta e di trasformarli in benessere e prosperità. 10 anni dopo, possiamo ufficialmente constatare che quella promessa non è stata mantenuta. La crisi economica scoppiata nel 2008 ha svelato esattamente ciò che allora denunciavamo, insieme alle centinaia di migliaia di manifestanti che assediavano il G8 di Genova, cioè lo svuotamento di legittimità e di efficacia delle forme di rappresentanza della politica, scavalcate sul piano globale da nuovi soggetti e nuovi poteri: il Wto, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, ma anche e soprattutto il quadro di relazioni informali tra i grandi soggetti multinazionali economico-finanziari, a cui sempre più spesso è demandata la programmazione dei processi globali. La debolezza dei governi nazionali di fronte a questa crisi rappresenta la prova evidente di questo fenomeno: questa crisi poteva essere l'occasione per rimettere in discussione un modello di sviluppo insostenibile dal punto di vista sociale come da quello ambientale, invece ha solo palesato la subordinazione della politica alla logica del profitto. Il caso greco e quello irlandese lo dimostrano: la sfera della rappresentanza politica sembra essere ormai incapace di prendere decisioni coraggiosamente autonome da quella dell'élite economica e finanziaria. Ciò è reso possibile dal fatto che lo smantellamento della democrazia non avviene solo a livello internazionale. La crisi della partecipazione politica investe pienamente le dinamiche interne; gli stati sono deboli perché la democrazia è debole, perché la sfera politica è stata svuotata da ogni contenuto potenzialmente conflittuale o comunque riformatore. Il nesso tra crisi economica, crisi sociale, crisi ambientale e crisi democratica è particolarmente evidente in Italia, e il berlusconismo ne è l'incarnazione. La crisi delle forme di rappresentanza e organizzazione politica che stiamo vivendo sembra ancora più dirompente di quella all'inizio degli anni '90, segno che le risposte fornite dalla cosiddetta “seconda repubblica”, sia sul piano politico sia su quello sociale, non sono più sufficienti, se mai lo sono state: ma il problema è generale. Una politica debole e autoreferenziale è funzionale agli interessi del grande profitto, così come l'indebolimento degli organi di garanzia e tutela costituzionali - con l'accentramento dei poteri nei mani dell'esecutivo e delle sue braccia operative pubbliche e private - è funzionale alla riscrittura della costituzione materiale del paese. Per una reale democrazia dei popoli Com'è avvenuto tutto questo? Non c'è stato nessun golpe militare, le istituzioni democratiche (più o meno) sono ancora lì, in Italia come altrove. Si continua a votare, anno dopo anno. Il problema è che la democrazia non si riduce al momento elettorale. Le democrazia, invece, è fatta di pratiche costanti, di soggetti sociali organizzati, di spazi di cittadinanza. La democrazia ha delle basi materiali, che sono i diritti sociali, civili ed economici dei cittadini. La rivoluzione conservatrice iniziata ormai 30 anni fa da Reagan e Thatcher è tale perché ha cambiato profondamente il nostro tessuto democratico, riducendone gli spazi. Privatizzare significa ridurre i campi d'applicazione delle scelte democratiche. Ridurre i diritti dei lavoratori significa limitare la loro possibilità di accedere alla sfera pubblica. Tagliare i salari significa peggiorare le condizioni di vita delle persone, e quindi tendenzialmente escluderle dalla comunità, renderle incapaci di esercitarne i diritti, sottoporle ad un costante ricatto. E così, privatizzando e frammentando la società, si è indebolita la democrazia. Assistiamo quindi a un processo di erosione dei legami sociali e di svuotamento della sfera pubblica intrapreso dalle forme più o meno organizzate del potere, con l'obiettivo di fare un deserto e chiamarlo pace sociale. Eppure questo sistema ha crepe evidenti, esattamente dove il movimento, 10 anni fa, le aveva indicate: nel Sud del mondo, su cui vengono scaricate tutte le contraddizioni dell'Occidente, dallo smaltimento dei rifiuti alla gestione delle migrazioni, sostenendo oppressione e povertà lì per poter garantire “libertà” e benessere qui. In una connessione globale tra le mobilitazioni, allora, vedevamo l'unico spiraglio. Oggi quello spiraglio si è aperto, al Cairo come a Londra, e sta a noi lavorare per allargarlo. Ricostruire continuamente spazi di legittimità per il conflitto sociale, praticare l'alternativa, immaginare, proporre e realizzare continuamente il futuro che sogniamo.

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L'unica risposta alla crisi della democrazia è il protagonismo dei soggetti sociali, nel contesto italiano come in quello globale. La partita del cambiamento, nel nostro paese, si gioca esattamente qui. O l'opposizione sociale e politica di questo paese riuscirà a mettere in campo una mobilitazione programmaticamente alternativa, in grado di dire parole nette sul lavoro, sui saperi, sui beni comuni, in grado di rovesciare i rapporti di forza e di rendere concreta l'alternativa che predichiamo, o la fine di Berlusconi non sarà la fine del berlusconismo come fase storica contraddistinta da un bipolarismo di facciata dietro cui si nasconde la stessa élite finanziaria e mediatica. In questo senso la politica dei partiti è svuotata. La partita ora è su chi la riempirà: i media e i poteri che li controllano, con la scelta di un nuovo fantoccio, o i soggetti sociali in movimento. Sta a noi rifiutare ogni strumentalizzazione e ogni becero dibattito sulla “cacciata del tiranno” e riempire l'agenda di questioni sociali che facciano emergere i conflitti sociali che lacerano questo paese, con l'obiettivo di costruire un'alternativa sociale, culturale e democratica. Allo stesso modo, va rilanciato il tema della connessione globale delle mobilitazioni e degli orizzonti di cambiamento. A 10 anni da Genova, quando la risposta dei governi occidentali agli straordinari sommovimenti mediorientali è una nuova ondata di guerre neocoloniali, non possiamo non ricominciare a parlare di pace, di diritti globali, di un nuovo modello di sviluppo sostenibile. Gli scenari nordafricani e mediorientali stanno mettendo seriamente in discussione gli equilibri mondiali. Popolazioni oppresse da decenni hanno aperto una contraddizione che di fatto apre una nuova fase storica. Sarebbe inutile invocare per questi popoli una transizione democratica se quest'ultima non fosse il risultato di un atto di autodeterminazione, un percorso di reale riscatto popolare capace, in questa fase storica, di dare una vera e propria lezione a chi continua ad avere la presunzione di esportare la democrazia con le bombe. La stessa difficoltà nell'accogliere i migranti e i profughi nel nostro paese dimostra che la nostra non è una democrazia reale ma fondata sull'esclusione e la privazione. Le rivolte che coinvolgono il mondo arabo, nonostante l'amaro prezzo in termini di vite umane che questi popoli stanno pagando, dimostrano che la nostra è una storia in evoluzione e che si sta aprendo una nuova fase di cambiamento. La confusione dell'occidente nell'affrontare questa crisi e la sempre maggiore centralità delle economie emergenti anche in ambito diplomatico, dimostrano il cambio di scenario con cui l'occidente deve fare i conti. In questo senso non si possono intraprendere battaglie, come dimostra la crisi libica, con un approccio neocoloniale . La diplomazia, la riforma dell'ONU e il reale coinvolgimento dei popoli sono gli unici strumenti espansivi di cui ci possiamo dotare, non solo per risolvere le controversie internazionali. Sono l'unica base possibile per uscire dal fallimento dell'egemonia occidentale e neoliberista sul mondo, fallimento di cui tutti noi non possiamo che essere sollevati. Questo non significa essere al fianco dei dittatori, tutt'altro. Significa ridare senso ad una politica capace di costruire un'alternativa globale, non più schiava come negli ultimi trent'anni solo della logica del profitto. In questo senso il percorso di avvicinamento a Genova 2011 ha un senso tutt'altro che commemorativo. Le metamorfosi del lavoro. La trasformazione del mercato del lavoro negli ultimi decenni, caratterizzata dalla crescita smisurata dei rapporti di lavoro precario, da un lato ha fortemente sbilanciato l'equilibrio dei rapporti tra capitale e lavoro, indebolendo drasticamente la posizione dei lavoratori, sottoposti continuamente al ricatto del mancato rinnovo del contratto, dall'altro ha completamente scardinato il sistema di welfare italiano, tradizionalmente costruito intorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. Su questi due assi bisogna saper impostare l'analisi, la proposta e la mobilitazione sul tema della precarietà. Dall'altra, la precarietà diventa una variabile non prevista all'interno del sistema dei diritti, delle garanzie e delle tutele sociali costruito nel corso di decenni di lotte. Chi non ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato non ha, di fatto, diritto all'assenza per malattia, alla maternità, allo sciopero, alla cassa integrazione, alla pensione. Un'intera generazione di italiani sa per certo che oggi non può accendere un mutuo e domani non avrà una pensione. Un'intera generazione di italiani si trova a ritenere normale il lavoro gratuito, a considerare generosi regali i propri diritti fondamentali, a chiamare “gavetta” lo sfruttamento. La crisi ha definitivamente svelato questi due fenomeni: gli effetti del tracollo finanziario e industriale sono stati scaricati prima di tutto su centinaia di migliaia di precari, espulsi rapidamente dal mercato del lavoro in quanto anello più debole della catena, senza oltretutto che si dovesse ricorrere ad alcun meccanismo di tutela o ammortizzatore sociale. La funzionalità delle riforme del mercato del lavoro promosse da centrodestra e centrosinistra negli scorsi decenni alla ristrutturazione in senso autoritario delle relazioni sociali e l'insufficienza del nostro sistema di welfare sono ormai sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi mesi, inoltre, con il caso Fiat, prima a Pomigliano e poi Mirafiori, è stato chiaramente dimostrato come il livellamento verso il basso dei diritti e delle condizioni di lavoro e di vita non risparmi nessuno: ciò che è stato sperimentato nel corso degli ultimi due

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decenni sui precari, cioè il ricatto continuo e la flessibilità obbligatoria, coinvolge ora strati sempre più ampi della popolazione. Il ricatto della delocalizzazione rende precari, di fatto, anche molti lavoratori a tempo indeterminato, facendo saltare ogni distinzione tra garantiti e non garantiti. Il futuro globale che tanti profeti ci hanno promesso si rivela identico al passato di sfruttamento da cui un secolo di lotte aveva duramente tentato di emanciparci. Oltre il '900, l'abbiamo visto, c'è l'800: riduzione delle pause, equiparazione della malattia ad assenteismo, limitazione del diritto di sciopero. Per uscire dalla crisi, i grandi geni dell'industria del XXI secolo ricorrono alla più vecchia delle soluzioni: aumentare il tasso di sfruttamento, spremere di più da ogni singolo lavoratore, affamarlo con mesi di blocco della produzione per poi promettere la ripresa, se sarà disposto ad accettare condizioni peggiori. Il grande sogno della globalizzazione, in cui la flessibilità avrebbe garantito lavoro e benessere a tutti, si è rivelato un incubo. A 15 anni dall'introduzione massiccia dei contratti di lavoro precario, che avrebbero dovuto aiutare a raggiungere l'obiettivo della piena occupazione, la disoccupazione giovanile è al 30%. Ci avevano raccontato che la flessibilità era uno scambio: meno diritti, ma più posti di lavoro e con salari migliori. Dopo 15 anni, ci ritroviamo precari e senza diritti, mentre la disoccupazione cresce e i salari reali calano. La generazione della stabile precarietà. Noi, studentesse e studenti, siamo consapevoli di non poter condurre da soli questa battaglia, ma qualcuno la deve lanciare, e, se non noi, chi? Il ruolo dei soggetti in formazione in questo contesto è centrale. Negli ultimi mesi abbiamo saputo porre all'opinione pubblica la questione generazionale come questione sociale, raccontando in tutte le piazze la nostra condizione di studentesse e studenti che vivono quotidianamente a contatto con la schiavitù della precarietà: nelle scuole e nelle università, dove il personale è sempre più spesso esternalizzato, a termine, interinale; nei bar, nelle pizzerie e nelle aziende, dove andiamo a lavorare per permetterci di continuare gli studi; nell'immagine che abbiamo del nostro futuro, dove sembra non esserci più spazio per l'autodeterminazione, per percorsi di vita dignitosi e soddisfacenti, per un mondo all'altezza dei nostri sogni. Il lavoro di analisi, confronto ed elaborazione su questi temi sarà lungo e complesso, ma non parte da zero. Da anni riflettiamo sui grandi cambiamenti che hanno sconvolto il nostro mondo negli ultimi tre decenni: l'integrazione della conoscenza nei processi produttivi ha raggiunto un grado inedito, e i luoghi della formazione sono stati pienamente coinvolti dall'ondata di privatizzazioni, di esternalizzazioni e di precarizzazione che ha caratterizzato la ristrutturazione del capitalismo globale. Oggi le disuguaglianze nell'accesso ai saperi e agli strumenti della formazione non coinvolgono una piccola minoranza in difficoltà, ma rappresentano la condizione generale di buona parte della nostra generazione. Allo stesso modo, il processo di mercificazione del sapere e di parcellizzazione della sua produzione si estende a tutti gli ambiti della conoscenza, dalle scuole alle università, dai centri di ricerca alle accademie, puntando a fare del sapere socialmente prodotto una risorsa scarsa, da contendere e commerciare. Noi soggetti in formazione siamo, come soggettività sociale, il prodotto di questi processi. L'estensione nel tempo e nello spazio dei processi formativi rende questo soggetto articolato e multiforme: studenti lavoratori, studenti parttime, lavoratori che rientrano nel ciclo continuo della formazione per reagire all'espulsione dal mercato o per migliorare la propria condizione, apprendisti che passeranno la loro vita in officina e dottorandi che fanno il lavoro dei docenti. Ad attribuire a questa miriade di soggettività una condizione comune sono, da un lato, l'accesso al sapere, e quindi la possibilità di entrare a contatto con gli strumenti culturali in grado di costruire una coscienza collettiva avanzata, e, dall'altro, l'esposizione ai processi di mercificazione di cui sopra, che hanno livellato verso il basso le condizioni materiali di vita dei soggetti in formazione, avvicinando tra loro, pur nella frammentazione apparente, le esperienze quotidiane e le prospettive di vita di ognuno. La precarietà lavorativa, la mercificazione dei saperi, la privatizzazione di parti sempre più significative della società sono quindi parte di un unico processo, cioè la progressiva colonizzazione da parte delle logiche del mercato e del profitto di ogni ambito dell'esistenza umana. La nostra battaglia per la dignità del lavoro è quindi solo una parte, per quanto fondamentale, del percorso di lotta contro la precarietà esistenziale e la ripubblicizzazione dei saperi. Noi non siamo solo i precari di domani, già oggi viviamo la precarietà in forma propedeutica nei luoghi della formazione. I tempi di vita che ci vengono imposti, i crediti formativi, la necessità di lavorare per pagarsi un affitto, l'impossibilità di accedere liberamente alla cultura, di vivere città e spazi che non siano ghetti, tutte questi fattori precarizzano le nostre esistenze nello stesso modo di come i contratti atipici di cui ci vogliamo liberare, almeno quanto la negazione dei diritti sindacali come nel caso dei metalmeccanici e del nuovo contratto nazionale per il commercio e i servizi.

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Il welfare libera tutti/e! • Il percorso di intersezione e contaminazione tra le mobilitazioni di questi mesi ha posto le basi per una mobilitazione che tenga insieme la rivendicazione di un welfare universale, in grado di dare risposte alla domanda di dignità che viene da una parte sempre più ampia della nostra generazione, e la battaglia per l'eliminazione della precarietà tramite l'immissione nel mercato del lavoro di regole e tutele, quelle “rigidità” cancellate dall'avanzare della “flessibilità”. • Dobbiamo porci il problema di come migliorare qui e ora le condizioni di vita di migliaia di lavoratori e lavoratrici, di studenti e studentesse ma anche di tanti giovani disoccupati che hanno bisogno di risposte immediate sul piano della continuità del reddito e dei servizi, e al tempo stesso non possiamo accettare che la conquista di una vita dignitosa per i precari diventi l'alibi per giustificare a posteriori e perpetuare in eterno la loro condizione di precarietà. I due percorsi non vanno mai scissi: estensione dei diritti e continuità del reddito non sono due concetti in contrapposizione, tutt'altro. • • Il cammino di avvicinamento verso lo sciopero generale del 6 maggio dev'essere quindi per noi l'occasione per lanciare a tutto il movimento studentesco, al sindacato dei lavoratori e a tutta la società civile in movimento un appello alla mobilitazione sul tema della precarietà, intorno ai seguenti punti, come prima piattaforma minima per aprire la discussione: • • difesa del contratto nazionale come strumento fondamentale per la tutela dei diritti dei lavoratori e la costruzione di legami reali di solidarietà, da salvaguardare e rilanciare sul piano europeo e internazionale; • no a logiche di scambio e guerra tra poveri tra precari e “garantiti”, come quelle previste dallo statuto dei lavori di Sacconi e dal ddl Ichino-Nerozzi; non è liberalizzando i licenziamenti che migliorerà il nostro orizzonte di lavoro e di vita; • Eliminazione delle tipologie contrattuali atipiche che travestono da lavoro autonomo quello che è a lavoro subordinato a tutti gli effetti, legalizzano il caporalato, privano di diritti centinaia di migliaia di lavoratori; • Riconoscimento a tutti i lavoratori e le lavoratrici, a tempo indeterminato o determinato, degli stessi diritti, delle stesse tutele e degli stessi ammortizzatori sociali ; • Istituzione di un reddito minimo (fissato al 60% del salario medio nazionale, come stabilito dal Parlamento europeo) come forma di welfare universale, che assicuri la continuità di reddito ai precari e liberi almeno in parte dal ricatto del posto di lavoro; • Istituzione di un reddito per i soggetti in formazione, una misura integrata di servizi e contribuzione economica per garantire libertà e autonomia sociale a chi è inserito nei percorsi formativi. • Sia il reddito minimo che di formazione potrebbero essere finanziati dal “fondo per il futuro”, misura di scopo finanziata dalla tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie, da parte delle spesi militari e dalla sottrazione dei fondi alle scuole e università private. • Rilancio degli investimenti sulla formazione e sulla ricerca con l'obiettivo di un lavoro qualificato e gratificante per una sempre maggiore quota della popolazione e per realizzare una produzione di qualità, razionalmente orientata verso la sostenibilità sociale ed ambientale.

Scuola e Università nella fortezza europea. Sempre più centrale nelle vite di ognuno di noi è il ruolo che gioca l'Unione Europea. Siamo ancora molto distanti da un'Europa dei popoli in grado di ampliare gli spazi di democrazia oltre i confini nazionali e costruire legami di solidarietà tra le popolazioni europee nell'ottica dell'estensione dei diritti e delle protezioni sociali. Molto spesso, l'Europa ha costituito per i politici nazionali un mezzo di elusione dei dibattiti pubblici negli stati nazionali. Le decisioni decisioni di livello europeo ancora troppo dipendono dalle volontà dei governi e non da quelle del parlamento europeo, in rappresentanza dei cittadini. Questo quadro ha sicuramente contribuito ad incidere negativamente anche nel merito delle recenti politiche condotte dalle istituzioni UE, a seguito della crisi economica. I Paesi europei, anche dietro le pressioni dell'UE, hanno reagito alla crisi con un attacco generalizzato al welfare. Anche scuola, università e ricerca sono tra i principali bersagli di questa guerra che è innanzitutto culturale, tesa a dipingere le forme di protezione sociale come rendite parassitarie e lussi insostenibili accusati di essere nocivi per la tenuta dei bilanci pubblici.

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I vincoli di bilancio rigorosi imposti dalla UE con le politiche di “austerity”, non tengono conto dei problemi dei giovani, dei disoccupati, dei precari e di tutte quelle fasce di popolazione più deboli e incidono pesantemente sui già deboli sistemi di welfare. La contraddizione di fondo principale, sta nel fatto che se da una parte si è istituito un unico governo monetario, dall'altra non vi è un unico governo economico ma solo uno “stretto coordinamento” tra le politiche economiche degli stati che avviene in materia di finanza e di bilanci mentre è ancor più flebile il coordinamento in materia di politiche macroeconomiche, di welfare, di tutela dell'ambiente, ecc. Abbiamo così un'Europa che impone agli Stati rigorosi vincoli di bilancio, al fine di garantire stabilità, ma non si occupa di come gli stati membri raggiungeranno tali obiettivi, di quali sacrifici saranno imposti ai cittadini sul fronte sociale. Il recente documento “Europa 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusive” prova a delineare una strategia di uscita dalla crisi definendo tre priorità: crescita intelligente: sviluppare un'economia basata sulla conoscenza e sull'innovazione; crescita sostenibile: promuovere un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva; crescita inclusiva: promuovere un'economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale. È una strategia che si viene delineando con luci ed ombre e rispetto alla quale occorre mantenere alta la guardia. Se da una parte, infatti, i propositi possono perlopiù apparire condivisibili (si punta, ad esempio, alla riduzione del tasso di abbandono scolastico fino al 10% e al raggiungimento della soglia del 40% dei giovani deve essere laureato; è previsto il potenziamento della mobilità giovanile tramite l'iniziativa faro Youth on the Move), permane ancora un'ottica di visione dei saperi e della cultura ancora troppo subordinata alla sola prospettiva della crescita economica (così come già avveniva nella strategia di Lisbona sulla scuola). Sul fronte dell'università, a partire dal 1999, tra buoni intenti e torsioni aziendaliste si è realizzato in questi 12 anni il processo di Bologna, alla base di aziendalizzazioni e della dequalificazione della formazione, portando in Italia all'introduzione del nefasto 3+2. A più di 12 anni dall'inizio del “Processo di Bologna” sembra avvicinarsi la sentenza. E' in corso infatti, una iniziativa della Commissione Europea denominata “Modernizing University”. Si tratta ancora di una scatola vuota che si prefigge l'obiettivo di integrare ulteriormente l'università con il mondo produttivo, piegandolo all'esigenze delle imprese. Sono in fase di preparazione i documenti della Commissione Europea. E' importante tenere gli occhi aperti. Per una mobilitazione studentesca europea contro l'austerity Da parte nostra, non possiamo che ribadire che la scuola e l'università devono essere pubbliche e di qualità. In tutta Europa il pubblico non può sottrarsi al proprio compito di fornire gratuitamente istruzione e formazione di qualità per tutt* e i saperi, per quanto ci riguarda, non potranno mai divenire delle semplici merci inserite nel libero mercato. L'Europa ha e avrà sempre di più in futuro un ruolo centrale nella trasformazione dei sistemi formativi e della società tutta. Occorre che tali processi avvengano in un'Europa dove i processi decisionali siano realmente democratici, governati dai cittadini e non dalle banche e dai poteri forti economici. Per fare ciò è indispensabile costruire un ampio fronte di lotte sociali di livello europeo, realizzando quel salto di qualità che fino ad ora è mancato o è stato molto parziale (i Social Forum europei sono ormai in crisi). Tale salto di qualità può essere favorito dalle straordinarie mobilitazioni che questo autunno hanno visto protagonisti gli studenti. In Inghilterra, Francia, Italia Grecia e in tanti paesi europei gli studenti si sono fatti sentire con forza, accomunati dal rifiuto delle politiche dei governi di tagli alla spesa sociale. È necessario che la nostra iniziativa si concentri sui grandi problemi e temi europei dicendo con forza il proprio no alle politiche di austerity. La nostra battaglia in tutta Europa deve rivendicare e difendere scuole e università pubbliche, gli enti pubblici non possono sottrarsi ai propri compiti di fornire gratuitamente istruzione e formazione di qualità per tutt* e i saperi non potranno mai divenire delle merci inserite nel libero mercato. Per questo crediamo sia importante prendere parte alle numerose e diverse occasioni europee di incontro e dibattito tra le realtà studentesche del nostro continente, e cogliere l'opportunità di promuovere un momento seminariale per discutere tra studenti europei dei temi del welfare, delle politiche di austerity, delle iniziative sul terreno della formazione da parte dell'UE, in vista delle lotte dei prossimi mesi. Come sarà importante costruire le condizioni per una mobilitazione studentesca coordinata a livello europeo. Negli anni, a partire dalle mobilitazioni del 17 Novembre, abbiamo sperimentato piattaforme ampie di mobilitazione. Serve, a fronte anche delle mobilitazioni studentesche in tutta Europa non ultima quella inglese, coinvolgere sin da subito anche realtà che non aderiscono alle nostre piattaforme europee di riferimento per costruire una stagione di contrasto alle politiche di disinvestimento sull'istruzione pubblica sia sul taglio alla spesa sociale.

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Il nostro percorso di avvicinamento al 6 maggio deve saper affrontare tali temi. In una prospettiva di più lungo periodo dobbiamo guardare anche ai mesi successivi e all'autunno dove la nostra capacità di concentrare la nostra mobilitazione non solo su temi nazionali, di “fare rete” con altri movimenti, in primis, studenteschi, a livello europeo diventa centrale per poter agire ed incidere sui grandi cambiamenti in corso nel nostro tempo e non restare a guardare. Protagonisti della stagione referendaria e per la ripubblicizzazione dei beni comuni. Il tratto comune ad ogni politica neoliberista negli ultimi trent’anni è stata la completa privatizzazione di quei servizi che garantivano diritti essenziali. Questa politica ha avuto due effetti: il primo è stata la mercificazione dei diritti come quello al sapere e all’acqua, il secondo è stata la riduzione degli spazi di democrazia riducendo gli spazi di azione dei governi democratici e l’aumento della potenza delle multinazionali. La battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua, quindi, si presenta con le stesse caratteristiche di quella per il libero accesso alle conoscenze. Questa ragione ci ha spinto a sostenere questa vertenza sapendo bene che, una vittoria al referendum, potrà aprire ampi spazi per ripensare la democrazia nel nostro paese ridando slancio alle forme di democrazia partecipata nella gestione dei beni comuni. Come crediamo fondamentale che una scelta in una scuola o in un’università venga presa dall’intera collettività, come sosteniamo la battaglia della Fiom per la democrazia diretta nelle fabbriche, scendiamo in piazza il 6 Maggio perché venga restituita alle collettività la gestione dei beni comuni a partire dall’acqua e da tutte le scelte riguardanti le comunità territoriali. Nonostante il quesito sul nucleare non sia nato da un processo partecipato come quello riguardante l’acqua riteniamo che anche questa battaglia possa fungere da propulsore per porre al paese e alla politica la questione della riconversione energetica dell’economia a partire dalla riconversione dei processi di produzione di energia. I decenni di privatizzazione e mercificazione ci lasciano un panorama desolato, in cui la politica è totalmente espropriata del suo essere metro di giustizia. Il turbo capitalismo in cui siamo immersi aumenta le ingiustizie e le sedimenta. La crisi che ci avvolge non è solo economica, ma climatica, energetica e democratica. Lottiamo e lotteremo perché crediamo che i diritti non possano essere monetarizzati, quelli sul luogo di lavoro come quelli per accedere al sapere e come quelli per una vita dignitosa vedendosi garantiti l’accesso all’acqua, alla casa, all’energia e alla salute. Tutti questi diritti e le forme collettive per la loro gestione, vengono attaccati giorno dopo giorno e per questo crediamo che la risposta debba essere comune, crediamo che lo sciopero generale debba essere un tassello per la prosecuzione della vertenza sul futuro aperta da noi studenti questo autunno, futuro che non potrà prendere vita se vi è una prosecuzione delle politiche neoliberiste.

Noi siamo la nostra liberazione! Serve, quindi, costruire una stagione di mobilitazione verso e oltre lo sciopero generale del 6 Maggio. Seppur l'azione sindacale ci è sembrata timida, soprattutto nel contrasto all'introduzione delle nuove forme di lavoro atipico di fatto diventate nuove forme di schiavitù, ci saremo. Ci saremo perchè convinti che l'obiettivo sia la costruzione della più grande coalizione sociale degli ultimi anni per contrastare l'efferato attacco ai diritti messo in atto dal Governo e dalla nuova strategia confindustriale. Ci saremo perchè convinti che una nuova coalizione sociale anticrisi sia necessaria anche nei confronti delle opposizioni timide, di un sotteso consociativismo alla strategia liberista, per lanciare un messaggio chiaro a chi si candida a costruire un'alternativa elettorale al berlusconismo. Nei prossimi mesi saremo fortemente impegnati nel percorso di rivendicazione di una ripubblicizzazione dei beni comuni, nella convinzione che il percorso verso l'appuntamento referendario della prossima estate – che ha visto più di 300.000 persone in piazza il 26 Marzo - sia l'occasione per ridare senso ad una democrazia in crisi ma soprattutto per porre il tema di una necessaria riconversione ecologica a partire dal rifiuto del nucleare e capace di ridefinire stili di vita, economie e profitti. Consideriamo la mobilitazione lanciata contro la precarietà il 9 Aprile una occasione da non perdere per preparare il campo verso lo sciopero generale. L'appello “Il nostro tempo è adesso”, nei contenuti e negli obiettivi è in piena continuità con il percorso inaugurato in autunno, teso alla costruzione di una coordinata e duratura lotta contro la precarietà esistenziale, nello studio e nel lavoro. Il coinvolgimento della CGIL nella costruzione di questa giornata, nel rispetto delle singole autonomie delle realtà proponenti, è per noi un valore aggiunto, un fattore importante di discontinuità col passato. A partire da questa data c'è, per un'intera generazione che vede nella questione sociale l'apice delle sue sofferenze, la possibilità di rilanciare una battaglia unitaria e di prospettiva contro la precarietà, con l'obiettivo di riprendersi il futuro partendo proprio dal presente.

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Serve, però, rilanciare la partecipazione dei soggetti in formazione sui temi del welfare tra la manifestazione del 9 Aprile e lo sciopero generale del 6 Maggio. L'idea, promossa dall'Unione degli Studenti, di lanciare per il 19 Aprile una giornata di mobilitazione su questi temi, diventa per tutta la nostra Rete un'occasione unitaria da non sprecare. Proprio la campagna sul welfare per i soggetti in formazione, di cui discutiamo da tempo, potrebbero trovare in questa giornata uno strumento di diffusione a partire proprio dalla definizione di obiettivi da presidiare: siti militari, siti culturali e istituti di previdenza in primis ma non solo. In questo contesto, in una cosi difficile fase storica per il nostro paese, il 25 Aprile e il primo Maggio non saranno passaggi rituali. I temi della resistenza all'antifascismo, della memoria e della dignità del lavoro sono per noi di mobilitazione quotidiana ma trovano in queste date un'importante elemento di sintesi ed esposizione da non sciupare, per arrivare allo sciopero generale del 6 Maggio con il più alto grado di partecipazione politica degli studenti e delle studentesse del nostro paese. Con questo spirito alcuni di noi hanno sottoscritto l'appello “Uniti per lo sciopero”, un importante campo di azione ed elaborazione per una piena generalizzazione dello sciopero generale, con l'obiettivo di estendere questo importante momento di lotta a tutti i segmenti della nostra società in lotta, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Questo percorso, che si riempirà di assemblee cittadine verso lo sciopero, non toglierà specificità alla partecipazione degli studenti e delle studentesse allo sciopero generale, per questo è nostra intenzione indire spezzoni studenteschi – unitari dove possibile – che possano caratterizzarci il 6 Maggio. Lo stesso vale per la partecipazione studentesca all'Europride dell'11 Giugno che si terrà a Roma. La sovrapposizione dei diritti sociali con quelli civili trova un suo apice nella crisi economica che stiamo attraversando, per questo le mobilitazioni sugli orientamenti sessuali e sull'identità di genere non sono solo momenti di dignità ma di vera e propria civiltà. Parteciperemo alla settimana di iniziative promossa da tante e diverse realtà per il decennale del G8 di Genova del 2001. La nostra partecipazione è frutto di un'adesione convinta, maturata nella grande attualità delle istante di quel movimento con le rivendicazioni che riempiono le piazze oggi. Ci sentiamo figli di quel movimento, ne ereditiamo le pratiche e gli obiettivi che vivono oggi in noi. Saremo a Genova anche per rivendicare verità e giustizia per Carlo Giuliani, un caso troppo spesso dimenticato dalle grandi cronache. Su quell'omicidio di stato troppe sono le verità non dette. Genova è anche un passaggio per costruire un movimento studentesco di livello europeo. La costruzione continentale di un'azione congiunta tra tutte le realtà studentesche che si sono mobilitate negli ultimi anni è l'unica prospettiva che ci possiamo dare per costruire un movimento ampio e capace di incidere sulle nuove politiche europee. Noi siamo la nostra liberazione. Solo tramite una nuova stagione di mobilitazione verso e oltre lo sciopero generale possiamo ambire al riscatti di quanti oggi vivono l'incertezza per il presente e il futuro. Questa incertezza, meglio se definita precarietà, non riguarda solo la nostra generazione ma purtroppo l'intero nostro sistema paese, l'intero nostro continente, l'intero scenario globale. In questo senso serve passare dalla resistenza all'attacco, serve fare in modo che la nostra mobilitazione sia per noi la nostra possibilità di una nuova liberazione.

Gli studenti e le studentesse della Rete della Conoscenza.

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