Powered by IL BULLONE Marzo 2022 Anno V #06
MANAGERS OF THE FUTURE
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MANAGERS OF THE FUTURE
REACH - MANAGERS OF THE FUTURE powered by IL BULLONE Richmond Italia via Guglielmo Silva 22 Milano 20149 info@richmonditalia.it richmonditalia.it @richmonditalia @richmond_italia Il Bullone viale Cassala 30 Milano 20143 ilbullone@fondazionenear.org ilbullone.org @ilbullonefondazione Il Bullone
REACH è stato ideato e realizzato da Il Bullone Marzo 2022 - Anno V - Numero 06 In copertina: Marianna Marcuzzo di Smile to Move, fotografata da Stefania Spadoni Concept: Il Bullone Art direction e grafica: Elisa Legramandi Supporto grafico: Antonella Ficarra, Stefania Spadoni Fotografie: Stefania Spadoni, Paolo Tosti Photo editor: Stefania Spadoni Coordinamento editoriale: Eleonora Prinelli Redazione: Eugenio Alberti, Maria Antonietta D’Onghia, Oriana Gullone, Eleonora Prinelli, Stefania Spadoni Hanno collaborato: Ada Andrea Baldovin, Giulia Carrer, Martina Di Mastromatteo, Riccardo Fanton, Elisa Tomassoli
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Fare meglio con meno Caro lettore, oggi voglio parlarvi di natura. Gli stormi di uccelli affascinano. La tipica forma a V rovesciata consente a ogni volatile di sfruttare le correnti ascensionali e ridurre il dispendio energetico, avvantaggiandosi dello spostamento d’aria generato dal compagno che lo precede. Il volatile che fa da apripista è quello che fa più fatica, ma viene continuamente sostituito in volo. E poi, quando volano in formazione, gli uccelli compiono acrobazie senza bisogno di un leader. Si possono dividere in due e poi ricongiungersi, oppure atterrare in pochi secondi per sfuggire ai predatori. Sembrano una falange, e invece sono un gruppo di uguali. Se il gruppo cambia direzione, chi si trovava defilato viene a trovarsi nella posizione di leader. Alcuni stormi possono raggiungere le 10.000 unità, eppure si muovono in modo leggiadro e spensierato. Dovremmo ispirarci a loro, ora che ci stiamo finalmente rimboccando le maniche per provare a costruire un’economia e una società sostenibili. A luglio del 2021, aprendo il Richmond Energy business forum, Chicco Testa ci ha parlato di decoupling, ossia il disaccoppiamento fra prelievo di risorse del Pianeta e crescita del sistema economico. Principio che si può sintetizzare con la frase “Fare più con meno”. A me piace rimodularlo in “Fare meglio con meno”. La consapevolezza di quanto costino materie prime, energia e capitale umano per fare le cose, tutte le cose, ci rende più malleabili, più creativi e aperti. Ci fa venire voglia di raccogliere più dati ed entrare nel merito dei processi. E questo è un bene. Allora, approfittiamone non solo per continuare a fare le stesse cose con meno dispendio di risorse, ma, già che ci siamo, per provare a farle meglio. Questo è per me precisamente il significato di smart: rispondere alla competizione inventandosi uno spirito nuovo. Per testimoniare la serietà di questa direzione, Richmond Italia ha stretto una partnership con The Map Report, una start up verticale completamente dedicata al racconto del cambiamento e ai temi della Sostenibilità, dell’Innovazione e della Responsabilità sociale che pubblica contenuti su carta, web e su un canale Sky dedicato. All’interno dei prossimi Richmond forum, The Map Report si occuperà di curare workshop che affrontino il tema della sostenibilità e di animare uno spazio dedicato. Questa partnership segna l’inizio di un nuovo percorso, in cui business e sostenibilità possono camminare insieme verso una meta comune. La collaborazione inizia già da questo numero di Reach, ospitando l’articolo di Elena Granata su come le storie influenzino i nostri comportamenti. E parla di intelligentissime e affettuosissime oche.
Claudio Honegger Amministratore unico Richmond Italia chonegger@richmonditalia.it
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Chi è Il Bullone? Il Bullone è una fondazione no profit che attraverso il coinvolgimento e l’inclusione lavorativa di ragazzi che hanno vissuto o vivono ancora il percorso della malattia, promuove la responsabilità sociale di individui, organizzazioni e aziende. I ragazzi si chiamano B.Liver e la loro esperienza genera Il Bullone, un nuovo punto di vista che va oltre il pregiudizio e i tabù verso uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile. Il Bullone è pensiero: un giornale, un sito e i canali social, i cui contenuti sono realizzati insieme a studenti, volontari e professionisti per pensare e far pensare. Il Bullone è azione: esperienze con i B.Liver, progetti di sensibilizzazione, lavoro in partnership con le aziende.
Il Bullone Jewel Il nostro simbolo racconta di un’energia che ci unisce e ci fa andare oltre. Oltre la malattia,oltre i pregiudizi, oltre le apparenze, consapevoli che in questo percorso corriamo insieme. Lo puoi comprare sul nostro e-shop!
Interviste pazzesche Negli anni Il Bullone ha dato vita ad inchieste e interviste esclusive, durante le quali i B.Liver si sono confrontati con grandi personaggi del panorama nazionale ed internazionale su temi come la pace, la sostenibilità, la cura e la lotta alle discriminazioni. Tra alcune delle conversazioni più emozionanti, quella con Marina Abramovic , la performance artist più controversa e, allo stesso tempo, più celebrata al mondo, nota per aver rivoluzionato l’ambito dell’arte concettuale.
Giornalismo Sociale Il Bullone riceve il riconoscimento dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia che infrange le regole e per quarantadue giornalisti del Bullone (anche per chi da sempre lo fa come volontario) ha rilasciato i primi tesserini ad honorem per l’impegno sociale e la sensibilizzazione che ognuno di noi, sia chi percepisce uno stipendio, sia chi no, ha messo in ogni singola lettera degli articoli che ha scritto. Ci sono anche due tesserini speciali realizzati per Eleonora Papagni e Alessandro Mangogna che, chissà, forse continuano a scrivere da sopra le nuvole con la passione che sempre li ha accompagnati quando lavoravano con noi.
LETTO DA ODOARDO MAGGIONI
ORDINARIO SMARRIMENTO IL LIBRO A STAFFETTA DEI B.LIVER
Il Bullone Edizioni Premio Montale
La start up del Bullone, una casa editrice che dà voce alle storie di vita che circolano attorno alla nostra Fondazione, nella speranza di ispirare la trasformazione di una società che riparta dai bisogni reali delle persone. Un luogo che parla, che accoglie, che insegna, che riflette. Una casa editrice nuova, con cui proviamo a costruire una nuova educazione attraverso la voce dei ragazzi.
Quest’anno Il Bullone vince il Premio Montale nella Sezione Milano e il Senso Civico.
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Reach è un magazine semestrale e un progetto di comunicazione sociale, realizzato dal Bullone in collaborazione con Richmond Italia.
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Powered by B.LIVE I B.Livers raccontano Richmond Italia I B.Livers sono ragazzi affetti da gravi patologie croniche
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Nasce nel 2018 con l’intento di raccontare i Richmond business forum attraverso l’incontro con i partecipanti agli eventi, raccogliendo spunti che siano d’ispirazione per il manager del futuro.
I B.Livers sono ragazzi che lottano contro la malattia e hanno deciso di dire sì, per andare oltre i propri limiti
Dicembre 2018 Anno I #01
La vita è troppo bella per avere paura LOG IN
Luglio 2018, Anno 1, numero 00
Proponiamo quindi una nuova idea di azienda grazie ad articoli, interviste e contributi di coach professionisti, ospiti illustri e imprenditori che raccontano le proprie storie.
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Powered by B.LIVE I B.Livers raccontano Richmond Italia Luglio 2019 Anno II #02
Storie di vita, storie di business, storie di “inciampi” che non li hanno fermati. Qualsiasi esse siano, sono storie che svelano, insegnano, ispirano. E sono storie straordinarie.
Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia
Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia MANAGERS OF THE FUTURE
Gennaio 2021 Anno IV #04
MANAGERS OF THE FUTURE
Settembre 2021 Anno IV #05
In questo numero, inoltre, troverai tante novità e nuove rubriche scritte dai B.Liver, i ragazzi beneficiari della fondazione, che contribuiscono attivamente alla riuscita di questo prodotto editoriale. Buona lettura dalla redazione di Reach! Leggi il numeri precedenti di REACH su issuu.com/richmonditalia
Reach è un magazine semestrale, al quale ci si può abbonare al costo di 100 euro l’anno, detraibili fiscalmente. Basta fare un bonifico a Fondazione Near Onlus, IBAN IT87B0521601614000000015390, indicando nella causale Donazione Reach 2021, nome, cognome e indirizzo per la spedizione. Abbonandoti fai la cosa giusta anche sul piano solidale: sostieni le attività sociali dedicate ai ragazzi del Bullone.
Abbonati a Reach e lasciati ispirare!
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Fernando Alberti. Opening speaker Richmond E-commerce forum 2021.
TRACCIAMO LE NUOVE ROTTE DEL COMMERCIO
Grandi speaker. Agenda di incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per abbracciare l’innovazione senza timori. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il potenziale dell’azienda e quello personale nelle partite che si stanno
RIMINI 3-5 MARZO | 23-25 OTTOBRE 2022
giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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La storia di Luca
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La storia di Luca
Luca Targa CEO INSIDE
Il mio mantra? Coltivare il mestiere della curiosità per prepararsi alle future crisi e ai cambiamenti che porteranno con sé
Negli anni ci sono state aziende che sono esplose durante i periodi apparentemente più neri, altre che semplicemente non hanno più avuto successo. È chiaro, quindi, che una crisi non rappresenti solo un periodo di negatività, ma una medaglia a due facce. Il risultato spesso dipende da quale delle due si decide di guardare.
Dal 1999 sono amministratore unico di Inside, un’azienda specializzata nella comunicazione b2b. Ci occupiamo di marketing interaziendale, con prodotti che non sono indirizzati a un consumatore finale, ma ad altre aziende. Abbiamo però deciso di togliere dalla nomenclatura la sigla b2b, quando abbiamo capito quanto fosse più importante l’interazione tra persone, anziché tra titoli aziendali. È anche da quest’idea che l’anno scorso, durante il lockdown, ho scritto il mio quarto libro, intitolato Ripartiamo dalla felicità, rivolto specialmente a imprenditori e manager. La nostra società sta vivendo una serie di crisi sempre più ravvicinate nel tempo, e noi come individui dovremmo abituarci ai cambiamenti che queste comportano. La pandemia è solo l’ultima in ordine cronologico. Molti anni prima c’era stata, ad esempio, quella dell’11 settembre, di cui abbiamo appena celebrato il ventennale. Dobbiamo arrenderci all’evidenza che una prossima crisi ci sarà, e non sappiamo cosa coinvolgerà. È un messaggio che vorrei rivolgere a tutti, singoli e imprenditori: nuovi stimoli, anche nei momenti che sembrano più complicati, si possono trovare sempre.
Inside fortunatamente è un’azienda che si è sempre rinnovata molto. Lavoravamo in smart working anche prima della pandemia, ed è stato un grande vantaggio. All’interno di molte realtà i dipendenti hanno avuto la necessità di portarsi a casa l’intero case del computer dall’ufficio, perché l’azienda non possedeva un cloud contenente tutti i dati aziendali. Senza di esso, il lavoro era gestibile solamente da quel case. Noi invece eravamo già tutti collegati. Era evidente già da tempo che la tecnologia avrebbe creato nuove visioni, nuovi modi di lavorare. Non abbiamo avuto bisogno dello shock del lockdown per adattarci. Il mio smartphone, ad esempio, non mi serve per telefonare, ma per tutto il resto. Posso tranquillamente governare tutti i processi della mia azienda con una mano sola. Era impensabile solo dieci anni fa! Perciò, almeno finché 11
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non arriverà una crisi che coinvolga le connessioni digitali, noi resteremo in piedi proprio grazie alla tecnologia e alla visione, avuta qualche anno fa, di sfruttarle al massimo del loro potenziale. Tutt’oggi molti imprenditori hanno bisogno di vedere i propri dipendenti fisicamente presenti in ufficio per avere la percezione che stiano lavorando. Per me, invece, il cambiamento è chiaro da tempo, ma serve una sensibilità particolare.
Le persone davvero visionarie, le mosche bianche appunto, le riconosci dalla volontà di alimentare le proprie visioni. Sanno che solo girando il mondo, uscendo dal recinto del “minimo indispensabile”, ci si può accorgere di quello che accade. Altrimenti è difficile che quelle visioni si alimentino e crescano. Io amo il mio lavoro perché mi permette di essere spesso in giro per il mondo. E anche se adesso resto più facilmente in Italia, mi sento estremamente fortunato. Il nostro Paese da solo rappresenta l’80% del patrimonio culturale e artistico del pianeta. Qualsiasi posto in Italia è meraviglioso, ma dipende sempre da come ti approcci per accogliere al 100% tutti gli spunti che quel luogo può darti. Bisogna essere curiosi, sempre. Io mi definisco un mestierante curioso. Sebbene questa parola presenti spesso delle accezioni negative, io amo leggerla in positivo. Il
Non a caso il mio primo libro, uscito nel 2011, l’ho intitolato La virtù della mosca bianca. È un titolo un po’ provocatorio, ma racconta un percorso che può fare chiunque. Solo che è molto impegnativo, e tanti preferiscono confondersi in mezzo agli altri. Lavorare troppo fa male e impegnarsi nel sociale, o in una passione, non sembra fondamentale. Se ne occupano già gli altri. Fare il minimo indispensabile è più facile.
IL MESTIERANTE AFFINA IL PROPRIO LAVORO CON L’ESPERIENZA, L’ESPLORAZIONE DIRETTA DEL MONDO. QUANDO È UNITA ALLA CURIOSITÀ, LO PORTA A VEDERE NUOVE IDEE E POSSIBILITÀ, DOVE GLI ALTRI NON VEDONO NULLA
mestierante affina il proprio lavoro con l’esperienza e l’esplorazione diretta del mondo. Quando è unita alla curiosità, lo porta a vedere nuove idee e possibilità, dove gli altri non vedono nulla.
Eppure, specialmente per un imprenditore, dedicare parte del proprio tempo ad un impegno sociale è essenziale. E questo può avvenire solo se il suo successo deriva da valori importanti, messi in campo, in primis, nella sua attività. Mi sono speso più volte in questi anni nel creare una cultura della comunicazione, avendo il piacere di impegnarmi personalmente, non solo economicamente, in progetti benefici. Mettendo a disposizione le conoscenze di Inside, ci siamo occupati di campagne sulla guida sicura per i giovani, sull’abuso di alcol e droghe, contro le truffe dirette agli anziani. Progetti creativi, in cui abbiamo stimolato i ragazzi a trovare idee efficaci per comunicare quanto potesse essere pericoloso, per esempio, mettersi alla guida dopo aver passato una serata al pub. Ci sono poi altri personaggi che si fanno notare tanto per farlo, magari donando cifre una tantum per mostrarsi generosi. O che si mascherano da eccentrici solo per mostrarsi, ma percepisci subito che è solo apparenza. I soldi servono e serviranno sempre, ma forse la cosa più grande che si possa donare è il proprio tempo, anche solo per un’intervista, per raccontare esperienze o scambiarsi contatti.
Winston Churchill diceva che la vita è un’avventura dalla quale difficilmente si esce vivi. Il valore di quest’avventura si misura dalla capacità di cogliere cosa abbiamo fatto bene e cosa potevamo fare meglio. Per questo, di solito, la prima domanda che faccio ai miei colleghi a fine giornata è “Cosa hai sbagliato oggi?”. Quando qualcuno mi risponde “Nulla”, io gli dico: “Bene, allora devi ancora iniziare a lavorare.” I nostri errori, e la capacità di ammetterli, sono l’unica strada possibile per migliorare e cambiare. Quando si è giovani, ad esempio, si è portati ad essere impulsivi, e spesso non è un bene. Con l’età subentra la mediazione. Quante volte rimuginiamo su come abbiamo gestito alcune situazioni del passato? Se le avessimo gestite con tempi diversi, ascoltando e temporeggiando prima di prendere una decisione, forse le nostre scelte e le loro conseguenze sarebbero state diverse. Ma è sempre l’esperienza e la curiosità dei “mille tentativi” a darti la misura del miglioramento e della crescita lungo il percorso.
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La storia di Luca
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La storia di Francesca
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La storia di Francesca
Francesca Nonino Digital communication manager NONINO DISTILLATORI
A 31 anni sono diventata l’influencer della grappa, a riprova che anche una giovane donna può parlare di prodotti tradizionalmente maschili
Lavoro nell’azienda di famiglia, Nonino Distillatori, da ormai cinque anni. Dopo la gavetta dei primi tempi ho cominciato a occuparmi della comunicazione on-line.
dove annunciavo che stavamo partendo con la nostra master class. Quel video diventò virale e le master class divennero venticinque. A marzo 2021 mi contattò Linkedin Italia per chiedermi di diventare ufficialmente un’influencer della piattaforma e ad agosto fui battezzata “L’influencer della grappa”. Impensabile, chi l’avrebbe mai detto che una giovane donna potesse diventare l’influencer di un prodotto visto tradizionalmente come maschile e per un pubblico molto maturo? Ma non c’è nessun prodotto “vecchio”. Esistono solo i pregiudizi e i racconti che li ribaltano.
La nostra comunicazione non si è mai basata sulla pubblicità. Da sempre preferiamo investire in un rapporto diretto con i nostri estimatori: dai viaggi, per conoscerli in giro per il mondo, alle degustazioni nella nostra distilleria. L’emergenza Covid però ha bloccato tutto e, durante quei mesi difficili, sapevo che l’unica soluzione possibile per mantenere vivo il dialogo era nel mondo on-line. Volevo mostrare che Nonino c’era, specialmente per la ristorazione, il settore più colpito di tutti e per noi importantissimo.
Appartengo alla sesta generazione di una famiglia di distillatori in Friuli dal 1897. Mia nonna e mio nonno hanno rivoluzionato il mondo della grappa, portandola da un prodotto considerato povero a diventare il distillato italiano per eccellenza. Hanno avuto la forza, il coraggio e l’amore per dare nuova vita alla grappa, rendendola un prodotto che elevava le migliori vinacce con la distillazione artigianale, intrappolando l’anima dell’uva nel bicchiere. Per farlo sono andati contro la tradizione che vedeva la grappa come il distillato di vinacce mischiate insieme senza alcuna logica, scegliendo di distillarne una tipologia per volta. Il 1° Dicembre 1973 è la data in cui hanno creato la prima grappa di singolo vitigno, il Monovitigno® Nonino. Una data che
Dopo alcuni giorni, arriva l’illuminazione: organizzare delle master class on-line con un kit di degustazione inviato a domicilio, a supporto dei ristoratori. Per farlo ho dovuto utilizzare LinkedIn, social per professionisti che inizialmente mi intimoriva, ma anche l’unico in grado di targettizzare gli utenti per job title. Con un budget di 300 euro e la prospettiva di raccogliere dai tre ai quindici contatti lanciai la nostra prima campagna. Raccogliemmo invece ottanta adesioni e, presa dall’entusiasmo di questo successo, condivisi sul mio profilo personale un video di pochi secondi 15
La storia di Francesca
è entrata nella storia dei distillati, vincendo la battaglia di trasformare la Grappa da Cenerentola a Regina. Ma una battaglia non è ancora stata vinta, la richiesta di maggiore trasparenza in etichetta. Già negli anni Settanta i miei nonni la reclamavano, chiedendo di rendere obbligatorio dichiarare in etichetta il metodo di distillazione e il nome del distillatore (oltre a quello dell’imbottigliatore). Tuttavia, questa norma non è ancora stata introdotta.
Nonino oggi è un’azienda al femminile. Con i miei nonni, infatti, a gestire la distilleria ci sono mia mamma e le mie zie, e oggi la sesta generazione conta otto persone, di cui sette donne. Da un lato, quindi, ho sempre avuto delle figure di riferimento femminili: tutte lavoratrici e imprenditrici forti e determinate. Dall’altro però, quello della grappa è un settore ancora associato per stereotipo alla presenza maschile, dove il pregiudizio verso le donne è difficile da sradicare.
Sono molto legata alla mia famiglia e al mio lavoro in azienda. Il mondo della distilleria è un campo che amo e che mi appassiona. Prima di iniziare in Nonino ho fatto sei mesi da Illy Caffè, perché volevo fare esperienza in almeno un’azienda esterna. Sapevo fin da subito che con Nonino sarebbe stato “finché morte non ci separi”. C’è una foto, alla quale sono molto affezionata, che mi ritrae bambina mentre guardo già sorridendo le bottiglie di grappa. Vivo in una
Questo è uno dei motivi per cui ho studiato per diventare sommelier di 3° livello WSET (Wine & Spirit Education Trust, tra le più importanti certificazioni a livello internazionale). Volevo mettere sul biglietto da visita un segno che conferisse forte credibilità agli occhi dei colleghi maschi. Allo stereotipo di genere, poi, si aggiunge quello legato all’età. All’inizio della mia carriera, quando accompagnavo mia zia
VIVO IN UNA AZIENDA DI FAMIGLIA VERSO LA QUALE TUTTI HANNO UN SENSO DI APPARTENENZA MOLTO FORTE, È DIFFICILE NON ASSORBIRLO. CI SONO PRODOTTI DI CUI NON RIESCO A PARLARE SENZA COMMUOVERMI, VIVO DI EMOZIONI
azienda di famiglia verso la quale tutti hanno un senso di appartenenza molto forte, è difficile non assorbirlo. Ci sono prodotti di cui non riesco a parlare senza commuovermi, vivo di emozioni. Certo, ammetto che lavorando per la famiglia a volte mi viene il dubbio di non essere degna di una realtà aziendale come la nostra. La sfida più difficile è stata quella di non ambire ad essere una copia esatta di mia madre, mia nonna o delle mie zie (nonostante siano il mio più grande esempio e fonte di ispirazione), ma riuscire a trovare, e a fare accettare, un mio stile di comunicazione per l’azienda.
a promuovere i distillati, capitava che la persona di fronte a me non ascoltasse una parola di quello che dicevo, perché ero “quella giovane”. Mi infastidiva studiare e prepararmi per raccontare la nostra realtà dall’altra parte del mondo, ed essere sistematicamente ignorata. In alcuni settori spesso è una vera e propria strategia: mandare ragazze giovani e piacenti a parlare di un prodotto di cui non sanno niente, per invogliare all’acquisto. Per me invece è importantissimo studiare e divulgare la cultura della distillazione al pubblico. La comunicazione riguardante i prodotti alcolici presenta diverse difficoltà. Per questo utilizzo Linkedin piuttosto che altri social: lì sono certa di parlare a professionisti adulti. In ogni caso, noi curiamo da sempre l’educazione a un consumo responsabile. Inoltre, l’idea del cicchetto bevuto in un sorso mi mette i brividi. La grappa deve essere degustata, è un prodotto da meditazione. Si tratta di una forma di rispetto reciproco, verso il consumatore e verso la qualità del prodotto.
La nostra famiglia è piena di personalità molto forti, me compresa. Con tanta umiltà, pazienza e un po’ di gavetta, ho cominciato a guadagnare la loro fiducia, poco per volta. Anche i “no” sono serviti, mi hanno spronata ancora di più. C’è stata un’occasione in cui mia nonna, dopo avermi rifilato per mesi una sfilza di “no”, un giorno mi ha detto dal nulla: “Francesca, avevi ragione!”. Incredula, le ho chiesto di ripeterlo e l’ho filmata: era un evento storico che pensavo non si sarebbe verificato mai più.
Sogno un futuro in cui la grappa possa diventare il distillato di cui l’italiano sia più orgoglioso.
Nonostante la media del settore sia all’opposto,
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Profit MEETS no-profit
Articolo di Martina Dimastromatteo
Collaborazioni fuori dal comune: Il Bullone e Shampora Da piccola diceva “Perché io, un giorno, sarò pompiere!”, poi ha cambiato idea. Scenografa e cinefila di formazione, libraia di professione. Le piace mettersi in ascolto e crede che cambiare punto di vista sia l’esercizio più bello. Nel tempo libero cammina molto e cucina dolci per chi ama.
Le storie migliori fioriscono dagli incontri più fortuiti. Le collaborazioni nate sotto la stella dei forum di Richmond Italia, tra la realtà sociale autrice di questo magazine, Il Bullone, e le aziende che partecipano agli eventi, sono preziose e meritano di essere raccontate. Costruire un ponte virtuoso tra mondo profit e no-profit è possibile!
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un’esperienza personale (per Manuel, trovare lo shampoo adatto ai suoi riccissimi capelli), col desiderio di riuscire a parlare all’altro, senza mai perdere di vista l’unicità del singolo.
Dicembre 2020. Per i cinque anni del Bullone e per il cinquantesimo numero del giornale bisognava pensare a qualcosa di speciale. Ed ecco che, alla riunione di redazione, arriva la proposta: “Scriviamo delle favole”.
Ha così preso forma il progetto benefico intitolato Favole ad Alta Resistenza. Shampora ha selezionato sette delle favole che avevamo scritto e, insieme alla Fondazione, ha creato una capsule collection di prodotti hair care personalizzabili, con delle grafiche ad hoc. Le box - in edizione limitata - erano disponibili per l’acquisto sul sito web dell’azienda per il periodo natalizio. I clienti hanno potuto donare 2€ o 5€ al Bullone ai quali Shampora ha devoluto il 10% dei ricavi totali, per una cifra complessiva di 2.864€ e 492 donazioni in meno di un mese.
L’idea ci elettrizzava e spaventava al tempo stesso: lanciare e lasciare un messaggio, attraverso la forma scritta della fiaba, è alquanto complesso. Ma a noi le sfide piacciono e abbiamo deciso di buttarci, affidandoci anche alle parole di Silvano Petrosino: “Le fiabe non temono l’esperienza; anzi, esse fanno di tutto per dare voce a delle verità, almeno ad alcune, che provengono dal più profondo vissuto del soggetto”. Ed è proprio partendo dai vissuti di ciascuno che hanno preso forma trentasette favole. Storie che, a loro volta, hanno potuto dialogare con tanti altri vissuti.
C’era una volta… (e per fortuna c’è tutt’oggi) qualcuno che decide di fare del nutrimento - del capello, della mente e dello spirito - esercizio costante. Questa partnership, infatti, ha permesso di promuovere l’unicità come valore intrinseco, nonché l’impegno e la responsabilità sociale: tre dei principi di cui Shampora e il Bullone scelgono di farsi portavoce ogni giorno.
Manuel Corona - CEO e founder di Shampora conosce Il Bullone nel 2018 e lo rincontra all’inizio del 2021, in occasione del forum Richmond. Cos’hanno in comune una start-up del settore beauty e una fondazione no profit? Entrambe nascono con lo scopo di dar voce ad
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La storia di Stefano
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La storia di Stefano
Stefano Notturno CEO OLOJIN
Olojin è l’unione di due parole: olos, somma in greco, e jing, che per la filosofia cinese è l’energia trasmessa alla nascita dai nostri genitori Nel 2005 l’azienda dove lavoro fallisce. Ho già una bambina, e un’altra in arrivo. Potrei spostarmi a Milano, ma sono un topolino di campagna e vivo bene tra le colline di Conegliano. Nasce quindi l’idea di aprire lì la mia società. Tra i primi clienti c’è la Camera di Commercio Svedese in Italia. Durante un loro evento, la persona che ho accanto nota che sono nuovo. Gli racconto che ho un’agenzia specializzata nella creazione di community, attraverso le quali fidelizziamo i clienti all’azienda sul lungo termine con progetti “sartoriali”, costruiti ad hoc. Lui è Roberto Monti, Amministratore delegato di IKEA Italia, che al mio sguardo quasi reverenziale risponde sorridendo. La filiale italiana di IKEA era stata scelta per realizzare la prima community del brand. Mi propone quindi di partecipare alla gara, che vinciamo, creando un sodalizio durato quindici anni. Con la Community Hemma ed il progetto dei cartoons Hemma Family, siamo arrivati fino a quattro milioni di pagine indicizzate! Da loro ho davvero imparato il mestiere. Con Roberto siamo rimasti amici e gli ho scritto durante il lockdown. Se non fosse stato per quell’incontro casuale, non sarei qui. Poter contare su una mia piccola realtà, anche in un momento così buio, mi rende profondamente grato.
Aprivo le imposte di legno la mattina e le richiudevo la sera, in un’atmosfera surreale, le strade deserte come l’ufficio. Ma era importante portare la mia presenza, tenere quella fiammella accesa. Sul lavoro mi dicono che ho il difetto di decidere col cuore. Ho due ragazzi indiani in squadra, di cui uno è il cognato dell’altro. Sono entrambi sviluppatori, ma solo uno si era presentato per il lavoro, a suo tempo. Quando li ho visti arrivare, ho pensato che stesse per accadere qualcosa di importante. Dopo aver ascoltato la loro storia li ho assunti entrambi. Oggi uno di loro sta finendo la terza media per imparare l’italiano. Tutte le persone che lavorano in Olojin arrivano da luoghi e situazioni che presentano delle criticità, il che è lo stesso motivo per cui ho creato l’azienda. È come se ci legasse il filo del karma. Attraverso questa esperienza ho meglio compreso che il compito dell’imprenditore oggi non è più accumulare denaro. È riconoscere il talento che ognuno ha dentro di sé e dargli la possibilità di esprimerlo, contribuendo alla creazione di un tessuto sociale che permetta a tutti di rendersi indipendenti, avere una casa, costruire una famiglia. Olojin è l’unione di due parole: olos, somma in greco, e jing, che per la filosofia cinese è l’energia trasmessa alla nascita dai nostri genitori. L’idea è che la somma delle competenze dei talenti dell’azienda e dei nostri clienti dia vita a dei progetti animati da un’energia buona, positiva. Dallo scorso anno siamo una società benefit: una forma societaria che esiste solo in Italia e che obbliga a redigere un bilancio sociale a fine anno, dimostrando di aver investito in ciò che è inserito nello statuto. Nel nostro c’è la triarticolazione
All’inizio della pandemia i miei ragazzi hanno sentito la necessità di lavorare da casa. Io sono un tifoso del lavoro in presenza, credo che alcune idee possano nascere solo dal vivo. Il nostro codice ateco era stato autorizzato ad operare, perciò durante quei mesi andavo in sede tutti i giorni. Si tratta di un vecchio casolare, che una volta fungeva da stalla in aperta campagna. 21
La storia di Stefano
sociale di Rudolf Steiner, un libero pensatore del Novecento per il quale la società è l’unione di tre sfere: culturale, giuridica ed economica. Quando una entra troppo nel merito dell’altra si crea la “patologia”. Oggi è l’economia l’unico motore: vogliamo ripartire a ogni costo, senza accorgerci della divisione sociale che sta nascendo. A mio avviso lo scopo dell’imprenditore è contribuire alla costruzione di una società capace di riequilibrare queste sfere. Questo è anche uno degli obiettivi dei nostri laboratori nelle scuole, per i quali abbiamo una divisione dedicata con progetti sull’uso delle tecnologie per ragazzi, genitori e insegnanti. Avendo iniziato a lavorare nel digital nel 1995, ho vissuto da subito l’impatto dei social, soprattutto sui ragazzi, e credo che in quanto agenzie abbiamo una responsabilità. Proporre un jingle su TikTok non è solo creare new business, ma creare abitudini. Quando le catene di supermercati dicono “apriamo la domenica, perché è il giorno in cui le persone vanno a far la spesa”, e dall’altra
dover usare le nuove tecnologie, non viceversa. Le aziende che lavorano con Olojin possono acquistare questi laboratori e donarli alle scuole del loro territorio. È importante e urgente portare questa consapevolezza sia tra i ragazzi che tra i genitori e gli insegnanti, che spesso sono soli a gestirli. Le competenze che abbiamo acquisito negli anni come esperti in marketing online e loyalty devono essere restituite alla società. Per questo abbiamo in programma di organizzare anche dei fine settimana in montagna, senza telefono. La promessa dei dispositivi portatili era aumentare il tempo libero, invece l’iper-connessione ci ha portati all’opposto, per cui non stacchiamo mai. In casa l’alunno sono io, le maestre le mie figlie. Loro hanno dovuto affrontare delle difficoltà, ma ai miei occhi sono speciali. Quando osservo come si relazionano nel mondo, colgo quello che il rapporto tra persone dovrebbe essere. Mettiamo troppa testa nell’incontro con l’altro,
LE MIE FIGLIE HANNO DOVUTO AFFRONTARE DELLE DIFFICOLTÀ, MA AI MIEI OCCHI SONO SPECIALI. QUANDO OSSERVO COME SI RELAZIONANO NEL MONDO, COLGO QUELLO CHE IL RAPPORTO TRA PERSONE DOVREBBE ESSERE troppi calcoli. È raro darsi tempo per ascoltare e spegnere il telefono mentre qualcuno parla con noi. Essere genitore significa imparare dai propri errori. Puoi sbagliare nel potare una rosa e lei si correggerà da sola, perdonando quell’errore. Anche i figli sono così, c’è una magia nella loro capacità di perdonare e renderci persone migliori di ciò che siamo.
parte i consumatori affermano “andiamo a far la spesa la domenica perché i supermercati sono aperti”, dobbiamo renderci conto che c’è qualcosa sulle abitudini al quale possiamo lavorare. Siamo abituati a ragionare solo con la materia, ma quando diciamo “ci vuole forza d’animo” oppure “questo è lo spirito giusto”, portiamo con noi l’insegnamento di tempi antichi per i quali tutto ciò che è materia è anche spirito. L’una non esiste senza l’altro. E in mezzo c’è l’essere umano, che ha il grande compito di portare l’equilibrio tra i due. Se trasferiamo questo concetto nel lavoro, ci rendiamo conto che nell’accumulo di dati che si sta creando spesso non c’è coscienza. Nelle scuole parliamo di furto di dati, dipendenze, senso del tempo: argomenti trascurati e spesso con vuoti giuridici. In una formazione per genitori sui quattro temperamenti (che Steiner ha definito collerico, sanguifico, flemmatico e melanconico) applicati ai gruppi WhatsApp, parliamo di come incontrarsi per decidere i modi e le finalità del gruppo, le responsabilità dell’amministratore, le dinamiche nelle discussioni, la fiducia e l’accoglienza. Non esiste una “patente” per l’uso dello smartphone, pertanto l’auto-educazione è vitale. Siamo noi a
Il percorso nelle scuole Steiner-Waldorf mi ha insegnato molto e devo essere grato alle mie figlie per esserci arrivato. Spesso chiediamo molto ai nostri figli giudicandoli principalmente per il loro rendimento scolastico, e questo rischia di farci dimenticare l’importanza di stare con gli altri. Accogliere, lavorare in cerchio, coltivare la creatività e il talento per diventare desiderosi di andare nel mondo anziché averne timore. Credo che questo periodo, nella sua drammaticità, ci abbia fatto prendere coscienza sulle priorità della vita. Sino a quando non comprenderemo che i nostri figli sono i mattoni sui quali costruire una nuova società, continueremo ad anteporre la competizione tra adulti e confondere la scuola con un luogo di mera istruzione, mentre il suo primo compito è quello di educare.
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LE PAROLE GIUSTE
PER DIRLO
Richmond Tips è un format di Richmond Italia nato nell’anno del lockdown. Abbiamo chiesto a speaker, coach, psicologi, trainer e consulenti nell’area Risorse umane di distillare un consiglio sul da farsi in un periodo difficile e sfidante come questo. Risultato? Più che pillole di saggezza, piccole leve per risollevare il mondo a partire da ciascuno di noi. Cerca tutte le Richmond Tips sul canale YouTube di Richmond Italia.
Lara Cesari
Scegli di usare parole potenti come scelta, coraggio, bellezza… (…) Le parole sono testimonianza di appartenenza a una cultura, a un gruppo. E sono anche specchio del mondo in cui pensiamo, di come organizziamo le informazioni e leggiamo i contesti. Ed è per questo che oggi scegliere di cambiare il linguaggio di fatto significa scegliere di cambiare il modo in cui pensiamo.
Francesco Arecco
Responsabilità significa rispondere giorno per giorno agli obblighi ma anche alle opportunità. (…) Le persone, soprattutto oggi, si confrontano per via elettronica con i prodotti e i servizi, e hanno una predilezione altissima verso i prodotti responsabili e sostenibili, sia per questioni di coscienza che per un fatto di moda. Questo comporta, da un punto di vista legale, costruire questa responsabilità all’interno delle nostre organizzazioni.
La storia di Simona
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La storia di Simona
Simona Piacenti Direttore marketing BLUDIS
Tutti i giorni ritaglio un’ora solo per me e studio tutto ciò che non ho ancora imparato
Partiamo dall’inizio: ho una formazione un po’ particolare, perché dopo la laurea in giurisprudenza feci due settimane di praticantato e capii che non faceva proprio per me. Così, dato che amo studiare, decisi di fare anche un master in risorse umane. Una volta che iniziai a cercare lavoro però, nonostante i miei vari titoli di studio, non riuscivo a trovare nulla. All’improvviso, decisi di cambiare le carte in tavola. Tolsi dal mio CV tutta la parte dedicata ai miei studi e lo riscrissi inserendo solo il mio diploma e le altre attività lavorative che avevo svolto fino a quel momento, come il lavoro in un pub e la gestione di un’edicola per un paio d’anni. Grazie a questo nuovo curriculum ottenni un posto come segretaria in una azienda di informatica. Dopo quattro mesi, vedendo che potevo fare di più, ho chiesto di passare all’area vendite. Da lì sono passata in Bludis, dove ho lavorato per 23 anni. Ho iniziato come addetta vendite e sono cresciuta fino a passare al settore marketing e diventare Direttore marketing. Bludis è un distributore di servizi informatici, un’azienda piccola (circa 50 persone) dove l’aspetto umano è molto forte. Negli ultimi mesi, invece, ho deciso di uscire dalla mia zona di confort e ho intrapreso una nuova strada in una azienda appena costituita.
argomento. Altre volte invece mi dedico a tematiche random, dalle quali prendo ispirazione. Mi piace osservare ciò che fanno le altre aziende ad esempio, sebbene mai nel mio stesso comparto. Penso, infatti, che una volta che impariamo a dare il massimo nel nostro settore, serva aprirsi ad altro e sperimentare qualcosa di totalmente diverso. È come fare un refresh ogni giorno. Mio padre diceva sempre che io ho un grande pregio e un grande difetto allo stesso tempo: mi annoio facilmente. Forse è proprio per questo che amo studiare, perché una volta che ho imparato una cosa poi tendo a delegarla. Succede spesso che io deleghi una certa mansione a chi la sa fare ancora meglio di me, e ricomincio da capo. Attualmente, ad esempio, sto pensando di iscrivermi di nuovo in università. Mi piacerebbe studiare psicologia, visto che molte nozioni di questa materia di studio tornano utili al marketing. Con il tempo ho iniziato ad affiancare alla mia mansione lavorativa anche quella della formazione, dentro e fuori l’azienda. Inizialmente me ne sono occupata su richiesta di un amico (responsabile IT di una azienda nell’automotive) che aveva bisogno di spiegare l’importanza del marketing al reparto dei direttori tecnici: l’obiettivo era quello di far comprendere a tutto lo staff l’importanza della “comunicazione aziendale”. Ho quindi ideato un corso di comunicazione per chi non fa comunicazione e l’ho arricchito grazie all’introduzione della “teoria del gioco” in formazione. Per far sì che queste persone potessero appassionarsi a un tale argomento e non prenderlo come qualcosa di forzato, serviva infatti un
Oggi studio un’ora tutte le mattine, prima di iniziare a lavorare. Accompagno i miei figli a scuola e arrivo in anticipo a lavoro, così, prima di iniziare a lavorare, studio per un’oretta. In quel momento ho la concentrazione giusta e anche il giusto silenzio intorno a me. Si tratta di un’ora tutta per me e per il mio studio. A volte seguo un percorso, quando decido di imparare un nuovo 25
La storia di Simona
metodo alternativo a quello tradizionale. Volevo spiegare a chi lavora all’interno dell’azienda che la comunicazione riguarda anche loro e che quella aziendale non è differente da quella che loro vivono e “subiscono” tutti i giorni fuori dall’ufficio. Chi si occupa di comunicazione, quindi, è un professionista che ha lo stesso identico valore e peso di chi ha una competenza tecnica o amministrativa. I giochi sono tantissimi e avvengono tutti attraverso la simulazione: dalla percezione che si ha di un advertising a come funzionano i social. Ad oggi, ho avuto la fortuna di poter erogare questo tipo di formazione ad oltre dieci multinazionali, formando circa 300 manager di vari reparti.
abbastanza: i genitori e i bambini stessi. Così ho iniziato a tenere dei corsi anche a genitori e insegnanti, soprattutto per spiegare loro cosa sono i social e come utilizzarli. Solo in questo modo i bambini possono essere educati ad usarli nel modo giusto e salvaguardarsi dalle insidie del mondo digitale. La parte più bella di questa storia è essere riuscita a trasformare il mio lavoro in azienda in qualcosa di buono anche al di fuori di essa. Inoltre, ricevo talmente tanto dalla formazione nelle scuole che divento ancor più stimolata a lavorare con gli adulti in ufficio. Negli anni ho imparato che per diventare un buon leader si deve lasciare che le persone facciano. Nessuno di noi è assoluto. Ognuno di noi sa fare un certo numero di cose, ma ci sarà sempre qualcuno che quella stessa cosa la guarderà da un altro punto di vista e scardinerà quello che noi avevamo pensato. Per questo nel mio ufficio abbiamo istituito delle
Dopodiché, mi sono resa conto che da tempo insegnavo cose che conoscevo molto bene a persone che, a loro volta, erano ormai formate. Non avevo più termini di confronto per capire come stava procedendo. Così decisi che dovevo riprendere ad imparare. Come? Offrendo alle scuole
NEGLI ANNI HO IMPARATO CHE PER DIVENTARE UN BUON LEADER SI DEVE LASCIARE CHE LE PERSONE FACCIANO. NESSUNO DI NOI È ASSOLUTO riunioni one-to-one, nelle quali io ascolto in silenzio i membri del mio staff per lasciarmi consigliare da loro. Da un lato, quindi, metto in gioco comprensione, accettazione e guida. Dall’altro, invece, do fiducia ai miei collaboratori e lascio che siano loro a fare meglio di me.
delle giornate di formazione gratuita su varie tematiche. Dai bambini ho potuto ricevere una grande restituzione, dal momento che non hanno filtri. La prima lezione è stata un bagno di sangue: non riuscivo neppure a farli stare in silenzio (da quel giorno vedo le maestre come le eroine della società moderna). Man mano però ho iniziato a prendere confidenza con quel tipo di attività e ho imparato una cosa fondamentale per divertirmi e far divertire gli alunni: rovesciare il paradigma. Un giorno l’insegnante di geografia mi chiese di fare un progetto specifico sulla Terra. Si trattava di una quinta elementare…ci sarebbe voluto un miracolo per farli stare attenti. Così ho pensato di giocare sulla provocazione: sono entrata in classe e mi sono presentata come una terrapiattista. Li ho guidati ad aprire un blog e a confutare la mia tesi. I bambini si sono messi a studiare e hanno iniziato a scrivere gli articoli del blog per dimostrare che la mia idea non aveva alcun fondamento. È stato bellissimo. Lo studio della Terra c’è stato, ma l’abbiamo affrontato da una prospettiva completamente diversa. Mi sono resa conto che quella era la parte che mi mancava nel mio lavoro. Avevo fatto bene a fermarmi e guardare la formazione da un nuovo punto di vista. Da questa esperienza ho capito anche che la scuola possiede delle ricchezze che non valorizza
Ho conosciuto davvero tante persone diverse. Non ricordo tutti i loro nomi, ma ricordo le vibrazioni che quelle persone mi hanno trasmesso. Ho anche molte amiche diverse tra loro, con le quali ogni volta esprimo una parte diversa di me stessa. Ognuno di noi è un “contenitore” di energie diverse, questo è il bello. Io stessa ad un certo punto della vita ho capito che devo accettarmi così come sono, con i miei pregi e i miei difetti. Tuttavia, io sono esattamente così come le persone mi vedono e ho fatto pace con me stessa da tempo su questo. Sono arrivata ad un punto in cui mi sono detta: “Mi sto simpatica e sto bene anche da sola”. Questo nuovo approccio mi permette di staccarmi dalla dinamica del “devo fare una determinata cosa”, e fa sì che io scelga le cose che voglio fare veramente, anche e soprattutto quelle importanti. E mi fa stare bene ai miei fantastici 52 anni. È una visione che esula dai ruoli sociali, dalla performance e dall’accettazione sociale.
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La storia di Simona
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Alla scoperta del Fellini Museum, luogo perfetto per riflettere sul potere dell’immaginazione NELL’ESTATE DEL 2021, NELLA MOLE DEL CASTEL SISMONDO, SI È INAUGURATO UN LUOGO CHE CELEBRA IL GENIO DI FELLINI NELLA “SUA” RIMINI, LA CITTÀ IN CUI È NATO E CHE FATTO CONOSCERE AL MONDO CON IL FILM AMARCORD.
La visita a Castel Sismondo, la rocca del Quattrocento al cui progetto contribuì Filippo Brunelleschi, inizia con una sala dedicata al giovane Federico scrittore, giornalista e disegnatore satirico. Rivivono personaggi e trovate surreali come Pinocchio, Bibì e Bibò, Arcibaldo e Petronilla. La seconda sala è dedicata a Giulietta Masina, con strisce di juta e motocarro Guzzi che rimandano a La strada (1954). La terza sala è un inno al braccio estensibile dolly, uno strumento cardine della poetica di Fellini, e agli ingredienti della metafisica felliniana: il mare, la luna, le foglie caduche, il vento, la neve, tutti elementi ‘tattili’ che conducono all’ampliamento della dimensione meno visibile della vita. La sala successiva, una delle più suggestive, è dedicata al mare di
Rimini: ci sono passerelle di legno che richiamano i pontili del porticciolo, e c’è l’orizzonte a perdita d’occhio che diventa una rampa di lancio per la fantasia. Seguono la sala dedicata ai volti iconici di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg ne La dolce vita (1960) e quella dedicata ai provini e alle lettere degli aspiranti attori che scrivono a Fellini candidandosi per i suoi film, quasi un viaggio nelle aspirazioni segrete di un Paese. Nella settima sala ci vengono incontro i costumi di Danilo Donati, che per il Casanova (1976) vinse il suo secondo Oscar. L’ottava sala racconta il rapporto di Fellini con la pubblicità: dalle pubblicità inventate inserite nei film, agli spot girati. Nella nona sala si scoprono le passioni di Fellini per la letteratura e il fumetto, oltre che per
UNA VISITA AL MUSEO È UNA OCCASIONE PREZIOSA PER IMMERGERSI NEL TALENTO DEL REGISTA ITALIANO CHE AMAVA DIRE “TUTTO SI IMMAGINA!” E CHE È RIUSCITO A TRASFORMARE LA POESIA DELLE IMMAGINI IN UN CODICE UNIVERSALE
l’esoterismo. Nella decima sala, dedicata ai sogni, scopriamo che fu lo psicanalista Ernst Bernhard a suggerire al regista di disegnare e trascriverli. Sala undici: Fellini e la musica, che tanta parte ebbe nella genesi dei suoi film. Nella dodicesima sala un confessionale creato da quattro strutture come quelle che si osservano in alcune scene di 8 e ½ (1963) raccolgono le testimonianze di collaboratori e colleghi. Lo sguardo di Fellini è uno squarcio sulle aspirazioni di un’Italia
resa florida dal boom economico ma attraversata ancora da povertà e arcaici retaggi: un Paese in perenne oscillazione, come l’altalena della tredicesima stanza. Nella quattordicesima rivive il fondo fotografico di Fellini e l’invenzione della figura del “paparazzo”. Le ultime due sale sono dedicate a una biblioteca ideale con tutti gli scritti sulla sua filmografia e al suo diario. Il genio di Fellini ancora oggi ci affascina per la tensione unica che ha
saputo instaurare fra progettazione, richiesta nell’industria cinematografica, e ascolto del respiro creativo sul set. Fellini è stato un gigante, e il suo museo sta lì a dimostrarlo e a suggerirci un metodo Fellini anche nelle nostre attività. Forse dovremmo abbandonare i nostri preconcetti sull’antagonismo fra queste due dimensioni, e provare a farle convivere senza strappi. Intanto, perché non programmare una bella visita a questo luogo denso di storia ed entusiasmo per la vita?
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia 4. Raccontare la vita La vita vera è uno strumento di comunicazione potentissimo, che semina valore e innesca reazioni positive. Basta avere il coraggio di raccontarla senza mistificazioni, filtri o manipolazioni.
1. Crescere insieme 2. Crescere dentro 3. Vincere e perdere 4. Raccontare la vita 5. Agili nell’azione 6. Responsabili nelle scelte
“La timidezza è composta dal desiderio di piacere e dalla paura di non riuscirci”
N
(Beauchène)
el corso della mia vita ho sempre avuto una compagna che mi ha creato molti problemi: la timidezza. Un’arma a doppio taglio, con i suoi lati positivi e quelli negativi. La timidezza è dolcezza, delicatezza, è stare al proprio posto senza risultare invadente, è educazione, è saper capire quando è il momento di ritirarsi, ed è saper ascoltare in silenzio. La timidezza è sensibilità, ma anche fragilità e silenzio, è sentirsi soli, è osservare da un angolo le persone in modo da poterle “decifrare”. La timidezza è avere emozioni nascoste e parole che esplodono internamente. La timidezza, disse Beauchène, è composta dal desiderio di piacere e dalla paura di non riuscirci. Per la maggior parte della mia vita è stato così.
Da quando ho iniziato a lavorare in Richmond Italia ho imparato che la timidezza può far parte di me, ma solo sviluppando fiducia e consapevolezza in me stessa posso conoscere persone nuove e farmi conoscere da loro. Per me la conoscenza è ora la parte più bella della vita, personale e lavorativa. Quando chiacchiero con i manager che partecipano ai nostri eventi mi piace instaurare un rapporto nel quale è normale scambiare semplici battute e ridefinire richieste ed esigenze. In ultimo, ma non per ultimo, l’amore è sicuramente una parte importante della mia vita che mi ha insegnato a mettere un po’ da parte la mia timidezza. La persona che ho al mio fianco mi insegna ogni giorno ad avere più fiducia in me stessa, a non aver paura di esprimermi. Ho imparato che le persone possono ascoltare la mia idea e anche se non la condividono se ne può parlare e discuterne con serenità, ognuno coi propri punti di vista. Giulia Carrer Operation Delegate manager Richmond Italia
Le storie di Marco e Gioele
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Le storie di Marco e Gioele
Marco Motta e Giole Fierro Founder & CTO ed Engineering director GLOBSIT
Marco Motta
Faccio “cose molto nerd” che mi danno la benzina per vivere le mie giornate Il mio amore viscerale per l’informatica nasce da un aneddoto avvenuto nella mia infanzia. I miei genitori avevano appena acquistato un computer a mia sorella, che stava imparando a programmare in codice Basic. Stiamo parlando del 1986, si trattava di un piccolo computer Sinclair ZX Spectrum Plus da 64k di memoria ROM, che io tuttora possiedo. Con il tempo mia sorella capì che non era portata e che non le interessava davvero il mondo dell’informatica. Io invece, appena collegai quel computer alla TV per la prima volta, capii che mi avrebbe dato grandi possibilità. Mi si aprì un mondo che non avrei più abbandonato.
permesso di fondare la mia società. Nel 2007, infatti, ho fondato Globsit assieme al mio socio Giuseppe Neri, che aveva qualche anno di esperienza in più e ha creduto in me. Con la nascita di Globsit ho intrapreso una serie di percorsi magici. Percorsi che mi permettono di vivere il mio lavoro con piacevolezza, proprio come vivo la mia famiglia e i miei hobby. Faccio “cose molto nerd” che mi danno la benzina per vivere le mie giornate. Queste “cose” non sono altro che le sfide che mi si offrono quando dobbiamo proteggere un sistema che altri non sono riusciti a proteggere, o quando ci scelgono perché facciamo qualcosa di esclusivo e di diverso. Le soddisfazioni più grandi arrivano quando con modestia, e in punta di piedi, riusciamo a conquistare la fiducia di tutti i nostri stakeholder.
In seguito, feci un percorso di studi in informatica e mi iscrissi in università, in Ingegneria elettronica, a Catania. Dopo qualche tempo, mollai tutto per riprendere gli studi più tardi, quando seppi che la mia vocazione, nello specifico, era la sicurezza informatica. Cominciai a frequentare gli ambienti legati a questo mondo, dove ebbi la fortuna di incontrare uno dei miei mentori principali. Cristiano Cafferata (CEO & Cybersecurity advisor di SecurEnclave, ndr) fa questo lavoro con grande passione e nel tempo mi ha dato un sacco di dritte interessanti, che mi hanno
Questa passione per la protezione dei sistemi, qualsiasi essi siano, penso sia insita in ogni siciliano. Secondo me è un nostro retaggio culturale. Non appena il mio secondo genito ha iniziato a parlare, infatti, ha mostrato questa tendenza a proteggere la sua famiglia e sua sorella. È ossessionato dall’idea di salvaguardare le persone a lui care. Allo stesso modo, 33
Le storie di Marco e Gioele
quando proteggo le reti a lavoro ci metto passione, perché non si tratta solo di staccare una fattura. Mi interessa davvero proteggere quel sistema, quell’azienda, quella persona. L’attitudine alla protezione si ripercuote anche nella vita che scegli: una vita digitale. Sono nato nel 1978, pertanto sono uno dei primissimi “nativi digitali”. Questo mi ha portato a sviluppare una particolare attenzione alla sicurezza dei sistemi informatici. Oggi tutto è connesso, quindi mi sono ritrovato giocoforza al posto giusto nel momento giusto.
computer (era uno dei primi Windows95) il virus restava nel primo settore dell’hard disk e non funzionava nulla. Condivisi il problema con i miei professori del laboratorio e non riuscirono neanche loro a eliminare il virus. Infine, trovai da solo la strada, risolvendo il problema con un floppy disk F-Prot (oggi F-Secure), un noto brand finlandese che si occupa di cybersecurity. Mikko Hyppönen, uno degli hacker che più stimo al mondo, nonché mio mentore internazionale, è Chief security information officer di questa società. Da allora ho sviluppato una grande ammirazione per questo brand e oggi, caso vuole, Globsit è partner ufficiale (e tra i più consistenti del Sud Italia) proprio di F-Secure. Inutile dire quanto mi riempia di gioia e soddisfazione questo traguardo.
Lungo il mio percorso c’è stato un “inciampo” che mi ha insegnato molto. Ero all’ultimo anno della scuola superiore e il mio PC prese un virus che si chiamava junkie. Anche se formattavo il
Gioele Fierro
È l’insieme delle qualità individuali che fa la differenza Anche il mio percorso ha molto a che fare con Globsit, ma partiamo dall’inizio. Ho stretto il mio primo accordo commerciale a diciassette anni e a diciotto ho aperto la partita iva. In seguito, per via del mio lavoro da libero professionista, ho dovuto interrompere gli studi universitari. Era difficile riuscire a seguire tutte quelle cose insieme.
informatica, Globsit, per l’appunto. Da allora, Marco Motta e Giuseppe Neri, i due soci fondatori dell’azienda, mi diedero carta bianca per sperimentare ed applicare l’artificial intelligence alla cybersecurity, la cosa che più amo fare! Il passaggio è stato complicato perché in Globsit iniziai ad avere molte più responsabilità e occuparmi solo dello sviluppo non era più sufficiente. A maggior ragione quando divenni socio: c’era da fare l’imprenditore, ma non avevo esperienza a riguardo. Per fortuna, in quell’occasione ho fatto tesoro degli insegnamenti tratti da alcuni
Ho lavorato all’estero per diversi anni, prima a Londra e poi a Pasadena, negli Stati Uniti. Ebbi la possibilità di rientrare quando uno storico amico di famiglia aveva aperto un’azienda di sicurezza 34
Le storie di Marco e Gioele
lavorare correttamente. Non avremmo potuto portare a termine neanche il più banale dei progetti in quelle condizioni. Dovetti ammettere di aver sbagliato, e accettare la sconfitta. Questo evento però mi fu di grande insegnamento. Da allora so che è giusto avere sempre un obiettivo da perseguire, ma il modo di arrivarci deve essere diverso, perché è il percorso che conta nella vita e sul lavoro. È come un viaggio, in cui si valorizzano le qualità delle persone: c’è chi è più brillante e vede oltre, chi è pragmatico e intuisce subito i problemi, chi è molto creativo e concepisce idee geniali... Permettendo a ciascuno di esprimere le proprie qualità cambia radicalmente il modo di vivere il progetto e, con esso, la qualità dell’output, indipendentemente dal livello di esperienza tecnica del team. È l’insieme delle qualità individuali che fa la differenza.
episodi avvenuti negli anni precedenti. Quando lavoravo a Londra, ad esempio, ho vissuto la mia più grande sconfitta lavorativa. Stavo dirigendo un progetto sul quale lavoravano, oltre a me, altri quattro ingegneri. Come sempre, puntavo sul perfezionamento del codice, sulla sua pulizia e qualità. Tuttavia, trovai grande difficoltà a gestire il team, che era eccessivamente orientato ai risultati. Questo ha significato che gran parte del codice fu scritto sotto tensione e in un ambiente molto negativo, così che il risultato non fu all’altezza delle aspettative nostre e del cliente. Durante la prova generale, infatti, per la prima volta nella mia vita, non funzionò assolutamente nulla. Quella disavventura portò alla perdita del cliente, fu un disastro totale. In seguito, cercai di capire perché fosse andata così male. I membri del team erano ancora più competenti di quelli che avevo avuto precedentemente e, tutto sommato, il progetto non presentava criticità diverse da tante altre. Mi resi conto che il problema, in effetti, era stato nella gestione eccessivamente tecnica del progetto. Io stesso mi concentravo soprattutto sul knowhow e sulle capacità professionali dei miei collaboratori, trascurando il valore delle loro soft skill e qualità personali. Si venne a creare quindi una situazione che non consentiva a nessuno di
La stessa cosa l’ho notata lavorando in Globsit: siamo tre soci molto diversi, ma ognuno di noi porta un valore aggiunto indispensabile a rendere l’azienda quello che è oggi. Spesso abbiamo idee opposte le une alle altre, ma è questo che alla fine ci permette di prendere la decisione giusta. È fondamentale ascoltare i punti di vista di tutti, accettare le nostre diversità e sfruttare il meglio da ogni situazione.
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Contenuto a cura della redazione de Il Bullone. Il Bullone è il mensile realizzato dai B.liver - ragazzi che vivono o hanno vissuto il percorso della malattia- insieme a volontari e professionisti del settore. Tra il 2021 e il 2022, ben 84 ragazzi hanno ricevuto il tesserino di giornalista pubblicista da parte dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, riconoscendo loro il grande valore del giornalismo sociale svolto dalla testata.
Cosa sono gli ESG e perché sono così importanti? Oggi, quando decidiamo di investire in un soggetto, non possiamo più valutarlo solo dal punto di vista delle sue performance finanziarie. Vi sono altri aspetti, legati all’ambiente, alla società e all’amministrazione delle aziende, che devono guidare le nostre scelte. In gergo, si chiamano ESG - Environmental, Social and Governance, i tre fattori fondamentali per misurare la sostenibilità di un investimento. Il primo criterio, quello ambientale, si riferisce al modo in cui l’azienda si rapporta alla salvaguardia ambientale. Indaga quindi l’impronta ecologica del soggetto: se la sua attività è strutturalmente dipendente dai combustibili fossili, se smaltisce correttamente i rifiuti, se è coinvolto nella deforestazione e via dicendo. Il secondo fattore è quello sociale, che analizza le condizioni di lavoro dei dipendenti dell’impresa. Inclusione e rispetto della diversity, così come la salvaguardia di corretti rapporti interpersonali e l’attenzione alla sicurezza e alla salute sul luogo di lavoro svolgono un ruolo fondamentale in questo ambito. Infine, la governance osserva come viene amministrata l’azienda, ponendo una particolare attenzione sulla remunerazione dei dirigenti (che non deve essere sproporzionata rispetto a quella degli altri dipendenti) e sulle pratiche fiscali, al fine di verificare che l’impresa non sia coinvolta in scandali legati alla corruzione o all’elusione del fisco.
L’analisi ESG sta diventando quindi il caposaldo dell’Investimento sostenibile e responsabile (Sustainable and Responsible Investing, SRI), concentrandosi non solo sul modo di operare delle aziende nella società, ma anche su come questo influisca sulle loro performance future. Già da tempo Il Bullone affronta tematiche legate alla sostenibilità delle aziende attraverso approfondimenti, interviste e inchieste sul mondo imprenditoriale realizzate dai B.Liver, i ragazzi con patologie croniche beneficiari del progetto. Ambiente, inclusione, formazione, sensibilizzazione sono solo alcuni degli aspetti che hanno indagato e valorizzato nei propri editoriali, consapevoli della loro grande rilevanza nella gestione aziendale, oggi più che mai.
Studentessa universitaria e insegnante di scuola elementare, nel tempo libero si dedica alle sue più grandi passioni: scrivere e visitare musei. Da piccola sognava di diventare la prima donna ad andare sulla Luna, ma ora che è cresciuta ha scoperto che le cose più belle si trovano sulla Terra.
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Per questo motivo Reach magazine ha deciso di dedicare agli ESG una nuova rubrica e ospitare un articolo del Bullone che parla di queste tematiche. Pensiamo infatti che dalla contaminazione di testate diverse possano nascere nuove occasioni di riflessione e scambio intellettuale. Proprio due anni fa, Alessandro Garrone, Vicepresidente di ERG e Presidente di Fondazione Garrone, ha raccontato al Bullone la straordinaria transizione verso le energie rinnovabili che ERG ha messo in atto da tredici anni, portandoli ad essere oggi una realtà totalmente rinnovabile, i primi produttori di energia eolica in Italia, e tra i primi dieci in Europa. L’articolo è firmato da Elisa Tomassoli, giornalista sociale del Bullone e studentessa di Economia e Gestione dei Beni Culturali dell’Università Cattolica.
Articolo di Elisa Tomassoli
La storia di Daniele
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La storia di Daniele
Daniele D’Acierno Area amministrazione e finanza M.I.S. - MAGLI INTERNATIONAL SERVICE
Ogni volta che mi sento “arrivato”, faccio un passo indietro e ricomincio dalle basi
Mi sono laureato nel 2006, ma ho sempre pensato che la scelta migliore fosse studiare mentre lavoravo, anche a costo di penalizzare gli studi sia a livello di tempo che di resa. Avessi studiato e basta probabilmente ci avrei messo meno tempo e avrei ottenuto voti più alti, ma non credo che sarei stato in grado di ricoprire il ruolo che ho adesso. Imparare sul campo, mettendo in pratica gli studi, per me è sempre stato fondamentale. Per questo ho iniziato a lavorare non appena diplomato: prima con un impiego frivolo, ma divertente, in un piano bar, in seguito con il primo lavoro a tempo indeterminato, in un cinema multisala di Brescia. Il primo giorno mi misero lo scopettone in mano e mi fecero pulire i bagni. Iniziai dal livello più basso che c’era, ma ero carico di entusiasmo, e poi l’ambiente era giovane, i colleghi avevano la mia stessa età. Percorsi tutti i gradini, da maschera a direttore. Poi nel 2006, neolaureato, ricevetti un incarico di responsabilità come direttore di uno stabilimento di produzioni galvaniche, a Gavardo (BS). Feci tutti gli errori che un giovane direttivo potesse fare. Ma sono orgoglioso dei miei sbagli, mi hanno permesso di crescere.
disponibili a fronte di quasi 500 uscenti. Passai il concorso e la seconda prova, così mi chiamarono per il contratto. Ero contento del risultato e mi diede fiducia, anche se alla fine non mi ci vedevo proprio a lavorare in una banca e non andai a firmare. Avrò fatto bene? Non lo so, ma sentivo di aver fatto la scelta giusta. Il posto in banca sarebbe stato sicuro quindici anni fa, sicuramente più di oggi. Tuttavia, decisi di mettermi in gioco rimanendo in azienda perché ero convinto che avrei imparato di più. Mi sentivo parte di quel mondo e volevo lavorare nel finance, un settore tanto importante quanto trascurato nelle piccole e medie imprese italiane. Nel 2011 però sentii di avere un gap da recuperare, mi mancava qualcosa. Decisi di fare un salto nel vuoto e ricominciare da capo. Investii buona parte dei miei risparmi di quei primi dieci anni di lavoro in un master alla 24 Ore Business School a Milano, esperienza che mi cambiò completamente la vita. Arrivavo dalla provincia, ero terrorizzato, mi aspettavo di trovare tecnicismi ostici e persone una spanna sopra di me. Invece mi resi conto di avere le capacità per affrontare quel percorso. Fu bellissimo perché per migliorare le skill ricominciai proprio dalle basi della contabilità. Partita doppia pura e semplice. Niente di più bello di fare questo passo indietro: fu come fare un
Quello stesso anno avevo partecipato a un concorso di Banca Intesa, mandavano in pensione over 55 e assumevano under 27. Solo 80 posti 39
La storia di Daniele
attribuendo il senso della mia vita. “Per indicare il massimo della felicità e il massimo del dolore si usa lo stesso termine: passione! Non è un caso” parole dello psichiatra e sociologo Paolo Crepet. I due concetti sono strettamente legati tra loro, non può esistere l’uno in assenza dell’altro.
tagliando delle mie conoscenze, senza il quale non avrei potuto allargare la mia visione aziendale e compiere un importante balzo in avanti. Presi consapevolezza delle mie possibilità e dei tecnicismi della finanza in ambito aziendale. Una volta finito il master mi guardai intorno e, preso dalla fretta di cambiare, finii in uno studio di Brescia che si occupava di acquisire crediti da società prossime o in corso di fallimento. È durata meno di un anno, non era il mio ambiente e non mi trovavo bene. Questa fu una sconfitta importante, seguita da un bimestre difficile, finché non mi indirizzarono verso una società di Milano per la quale avrei dovuto viaggiare regolarmente in Russia. L’idea di conoscere una nuova cultura mi allettava, così accettai. Doveva durare solo qualche mese, invece furono due anni in cui potei applicare quello che avevo imparato al master. La spinta a uscire dalla zona di comfort ti permette di vedere cosa c’è intorno
Avrei potuto restare a vita nell’azienda di Gavardo, alla quale sarò sempre grato. Tuttavia, decisi di rimettermi in gioco, accettando i rischi che quella scelta avrebbe comportato. Le sconfitte mi hanno aiutato ad essere quello che sono oggi. Quando si danno per assodate le conoscenze, il modo migliore per andare oltre e continuare ad imparare è fare un passo indietro e ricominciare dalle basi. È un concetto che mi sta seguendo in tanti aspetti della vita. Ci ho fatto caso anche quando ho iniziato a fare crossfit, che ha la stessa identica logica. Quando sento di aver raggiunto un determinato livello, rovescio il tavolo e ricomincio da capo. Se vuoi
AVREI POTUTO RESTARE A VITA NELL’AZIENDA DI GAVARDO, ALLA QUALE SARÒ SEMPRE GRATO. TUTTAVIA, DECISI DI RIMETTERMI IN GIOCO, ACCETTANDO I RISCHI CHE QUELLA SCELTA AVREBBE COMPORTATO
a te, il mondo là fuori. Mi colpì molto il fatto che a Mosca e San Pietroburgo i ragazzi vanno tutti fuori casa a diciannove anni. Lavoravo con persone di venticinque anni in media che vivevano tutte da sole, spesso con le famiglie lontane. Questo aspetto mi fece riflettere molto sull’importanza di “sapersela cavare” e anche sul modo in cui i genitori educano i figli. Non ho titoli per parlare dell’argomento, ma se “imbocchiamo” sempre i nostri figli, cosa faranno nel momento in cui saranno in difficoltà e non ci sarà possibilità di aiutarli?
migliorare tecnicamente, devi fare un passo indietro e rilavorarci costantemente. Ti alleni e ci riprovi con tanta pazienza, finché non ce la fai. Molti degli errori che ho fatto, li ho fatti perché avevo fretta. #Pazienza può essere il mantra della mia storia. Quando mi allenavo, mi insegnavano sempre ad avere pazienza: ripeti le basi trecento volte e vedrai che i risultati arrivano. E dopo alcuni anni, quegli esercizi che credevo impossibili, riuscivo finalmente a farli. A quel punto si genera un vortice positivo, che alimenta l’autostima e la voglia di imparare ancora di più. Mi viene in mente la frase attribuita ad Einstein: “La follia sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi.” Portare l’azienda a fare cose diverse e ragionare in modo diverso è quello che sta facendo anche la realtà dove lavoro: guardare oltre, accettando i rischi e i mal di pancia, ma avendo la capacità di riposizionarsi e uscire da quello che è il classico campo d’azione. Questo è ciò che permette di crescere. Una sfida in cui mi ritrovo molto e di cui sono contento di fare parte.
Avere tutto facile non la vedo come soluzione. La soluzione è insegnare alle future generazioni a mettersi in gioco e uscire dalla zona comfort, che vuol dire cadere e farsi male. Ho notato invece che molti genitori cercano in tutti i modi di togliere il dolore dalla vita dei propri figli. Fanno di tutto purché non si facciano male. Ma devono farsi male per crescere. Io sono caduto tante volte e ho fatto i miei errori, ma sono qui grazie a quelli. E voglio continuare a farne perché l’errore è alla base della crescita, concetto al quale sto
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STORIE DI LAVORO E RESILIENZA
I B.Liver sono adolescenti e giovani adulti che hanno incontrato lungo il percorso una diagnosi di malattia grave o cronica e che, attraverso le attività del Bullone, contribuiscono a cambiare la percezione e la narrazione della malattia alle quali siamo abituati. Con loro parliamo di curriculum vitae, legge 104 e lavoro. Perché la vera diversity passa attraverso l’inclusione spontanea di categorie protette in azienda, assunte non per fare numero, bensì per il loro grande valore aggiunto.
Chi è Edoardo Pini e perché ci racconti della tua esperienza? Sono un ragazzo di 32 anni, laureato in Design al Politecnico di Milano e lavoro in questo campo. Nel 2017, dopo un anno e mezzo di lavoro in una startup italiana, sono partito per la Danimarca per fare uno stage in uno studio di design molto ambito e stavo seguendo l’onda carico di entusiasmo e aspettative. Ero in un paese straniero, la Danimarca, che è molto attento alle tematiche sociali. Da un momento all’altro mi sono trovato catapultato in ospedale a fare un esame del sangue che mi ha cambiato per sempre la vita. Non stavo male, ero solo molto molto stanco e attribuivo questa stanchezza al mio recente trasferimento e alla nuova vita danese. Invece, la diagnosi fu brutale e immediata: leucemia mieloide cronica. Come ha impattato questa diagnosi sulla tua vita? In primis, mi ha fatto comprendere che non ero invincibile. Io ho uno stile di vita esemplare: non bevo, non fumo, faccio sport, sono vegetariano, eppure le cose accadono lo stesso. Il fatto che questa fosse una malattia molto silenziosa e subdola e che, apparentemente, mi sembrava di stare bene (tanto da permettermi di allenarmi per fare un triathlon) ha ribaltato la mia visione. Se non avessi fatto questo controllo, beh non so cosa sarebbe successo… ero al limite. Sono quelle cose della vita che ti riportano coi piedi a terra e ti fanno ricontestualizzare tutto.
EDOARDO PINI
Un cambio di rotta complesso… Sì, diciamo che dalla laurea, nel 2015, in avanti non mi sono mai annoiato. Nel 2016 ho viaggiato molto, nel 2017 c’è stata la diagnosi di leucemia, nel 2018 ho fatto un trapianto di midollo per curarmi, nel 2019
Intervista a cura di Eleonora Prinelli e Stefania Spadoni 42
sono stato in ballo fra ospedali e lavoro, nel 2020 ci ha sorpreso il Covid e quindi ho attraversato davvero anni molto concitati. Spesso nella vita di tutti i giorni ci sentiamo sommersi dai problemi, ma dopo questo percorso ho compreso come molti di questi siano davvero futili. Impari a ridimensionare le cose e questa nuova prospettiva mi ha fatto riflettere su tante dinamiche. In generale vivo il mio lavoro con passione, non solo come uno strumento che mi permette di guadagnare. Ho sempre l’asticella del traguardo molto molto alta. In ospedale, tuttavia, mi sono ripromesso di vivere in maniera più calma, senza troppe ansie.
spesso non si sono degnati neanche di rispondermi. La prima proposta di lavoro che ho ricevuto dopo la malattia è arrivata perché ho avuto la fortuna di visitare l’azienda e conoscere il CEO, che in seguito ha deciso di assumermi. Faccio parte delle categorie protette e questo per gli HR è una sorta di “marchio”, ma io non sono una categoria, sono una persona con delle competenze e un vissuto specifico. Una volta un imprenditore mi ha chiesto in maniera diretta e sana, senza alcuna malizia: “Perché sei nelle categorie protette?”. Quando gli ho detto che era per via del trapianto di midollo, la sua risposta è stata: “Se hai fatto un trapianto di midollo e sei qui, vuol dire che sei uno cazzuto”. Mi ha fatto un piacere enorme, non c’è altro da aggiungere. Ci sono comunque dinamiche contraddittorie nei colloqui che vengono fatti oggi e che andrebbero ribaltate, a prescindere che tu sia una risorsa con la legge 104 o no. Se posso lanciare un messaggio, credo fortemente che i colloqui conoscitivi siano pieni di paletti e rigide costruzioni scolastiche. Bisogna parlare davvero con le persone e andare oltre gli standard di domande impostate.
Senti di essere riuscito a mantenere questa promessa che hai fatto a te stesso? Credo di essere rientrato nel loop. Nonostante io abbia vissuto un periodo molto intenso, che mi ha fatto riflettere profondamente, sono ritornate le ansie da prestazione. Forse fa parte anche del processo di guarigione; il senso di rivalsa, non so neanche io nei confronti di chi… me stesso, la malattia, la mia famiglia, i miei amici. Questo senso di “fallimento” che la malattia ti lascia addosso, come se avesse interrotto un percorso e ti avesse fatto uno sgambetto, facendoti cadere. Sto cercando di sfruttare questo “stop”, che non è avvenuto per mia volontà, per ripartire al meglio, cercando la bellezza collaterale di quello che mi è accaduto. Di conseguenza, a livello imprenditoriale e lavorativo cerco di metterci sempre un po’ di più di me stesso.
Approfondiamo un attimo il discorso della legge 104 e delle categorie protette? Le aziende la usano per fare diversity, ma non sarebbe ora di considerarla come un valore aggiunto? Penso ci sia un insieme di cose da valutare. Molte persone, purtroppo, sfruttano la legge 104 per necessità che non sono vere necessità ed è evidente che questo porti imprenditori e aziende a stare sull’attenti. Io vorrei che questa visione cambiasse. Posso parlare del mio caso e dirti che per quello che mi riguarda la legge 104 è un valore aggiunto che porto all’azienda nella gestione della mia posizione. In ogni caso, è im-
Ci racconti come hai ricominciato a lavorare? Ho fatto molti colloqui e devo dirti che sono un po’ arrabbiato con i team HR con i quali mi sono interfacciato, perchè mi hanno sempre sbarrato la strada e
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È stata la “medicina” che mi ha permesso di non crollare in quei mesi, perché era una valvola di sfogo, ma soprattutto un obiettivo a lungo termine. Non ho permesso alla noia di prendere il sopravvento ed è stato un periodo molto costruttivo. Ero dentro a una bolla in cui nessuno poteva disturbarmi e potevo pensare e agire, nel limite fisico di quello che mi permetteva la stanza, con calma e senza fretta. Ho fatto degli schizzi che non avrei mai pensato di fare. La lentezza è stata salvifica rispetto al tran-tran quotidiano. Forse questa consapevolezza la possono comprendere tutti oggi, dopo aver sperimentato il Covid e il primo periodo di lockdown. All’improvviso ci siamo resi conto che non era una vacanza. Per me è stato molto simile all’esperienza vissuta in ospedale. Quando vedremo lo zaino? Produrlo e venderlo è un obiettivo ambizioso, perché si tratta di un prodotto intrinsecamente complesso: richiede fornitori, esperienza artigiana, lotti di produzione… e una massa critica abbastanza alta per riuscire a marginare. Di conseguenza, mi sono posto un obiettivo a medio-corto termine: fare un prototipo, portarlo in cima a una vetta e raccontarlo con uno storytelling ispirazionale. Non so cosa diventerà da quel momento in poi. Però è bello avere un progetto proprio, è come avere un figlio, quindi avrà anche un nome. Lo zaino si chiamerà MENOZERO, perché il mio gruppo sanguigno prima del trapianto era zero positivo, ma dopo il trapianto sono diventato zero negativo come il mio donatore (mio padre) e mi sembra perfetto visto che sarà uno zaino che dovrà andare in vetta, dove la temperatura è spesso meno di zero. Quando studiavo design in università il mio mantra era: non innamorarti troppo dei tuoi progetti… ma io costantemente me ne innamoro!
portantissimo preservare queste tutele nel mondo del lavoro. Le cure a volte durano mesi, anni o prevedono, purtroppo, eventuali ricadute. Senza parlare delle visite e dei controlli di follow up che vanno avanti per cinque o dieci anni. È profondamente sbagliato che io debba prendere permessi o, peggio ancora, ferie (sempre considerando che io le abbia) per poter fare tutto ciò. Il nostro Stato ci tutela in questo e quindi credo sia corretto da parte dell’azienda tutelare il lavoratore per tutto l’iter del percorso di cura. Nel mio caso, l’INPS, che è l’organo predisposto all’assegnazione e alla revoca di questa tutela, me l’ha tolta precocemente. Sono infatti solamente al terzo anno di follow up e ora sono obbligato a prendere ferie per andare a fare le visite e gli esami di controllo, che sono ancora abbastanza frequenti. La burocrazia non aiuta insomma… È tutto molto complicato, ti rendono la vita impossibile. L’INPS è davvero un’entità statale immobile e spesso non empatica. Non c’è cultura su questi temi: le persone spesso non conoscono i propri diritti, non c’è un’informazione chiara e una comunicazione semplificata; per non parlare dell’interfaccia digitale con la quale bisogna fare i conti e che non è alla portata di tutti. Penso agli anziani o semplicemente alle persone non affini al mondo tecnologico. Non parliamo poi della perdita di tempo richiesta per stare dietro a tutto ciò. Non tutti hanno le risorse, il tempo, i mezzi necessari. E se consideri che coloro che hanno bisogno di tutela sono proprio le persone più in difficoltà… questa cosa è assurda. Lo stato dovrebbe venirti incontro, non remarti contro. So che in ospedale, proprio nel periodo più difficile del tuo percorso, è nata una progettualità imprenditoriale sulla quale stai lavorando tutt’ora. Ci racconti qualcosa? Non amo sprecare il tempo e in ospedale ne avevo tanto a disposizione. Ho avuto la possibilità e soprattutto la fortuna di impiegare il tempo pensando a una nuova progettualità che avevo in testa da quando avevo fatto il cammino di Santiago: uno zaino da trekking modulare. Ero nel mio mondo, chiuso in una stanza sterile, isolato da tutti, potevo vedere i miei cari solo poche ore al giorno e non avevo null’altro da fare se non pensare. Per fortuna sono stato bene tendenzialmente e le giornate sono passate serene, così ho iniziato ad occuparle lavorando a questo progetto.
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Scoprire le cicatrici può essere doloroso, ma è salvifico. Il Bullone mi insegna ogni giorno che rompere gli schemi è possibile. Martina
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OPENING SPEAKER
Stefano Zamagni 46
Gli uomini-castoro sono il futuro Quando fare il bene per sé fa bene anche agli altri
film Tempi moderni di Charlie Chaplin è del 1936, e ce lo fa vedere assai bene. Ebbene, questo è il motivo per il quale fino ad anni recenti, nessuno negli ambienti accademici delle più prestigiose università dava per scontato che fosse naturale parlare di modello organizzativo, ed era anche il motivo per il quale i direttori delle risorse umane non erano emersi come sta succedendo oggi.
L’economista Stefano Zamagni è un nome ben noto a tutti coloro che si occupano di economia sociale, essendo stato Presidente dell’Agenzia per il terzo settore. Ha insegnato in varie università, fra cui quelle di Parma, Bologna, Bocconi e John Hopkins University. Nel 2019 è stato nominato da Papa Francesco Presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali. Nelle sue pubblicazioni si è occupato di microeconomia ed economia civile, multiculturalismo, disuguaglianze, banche di comunità, no profit ed economia sostenibile. Il suo intervento di apertura al Richmond Human resources forum sul palco del Teatro Novelli è stato particolarmente appassionato, anche perché Zamagni si muoveva nella “sua” Rimini, la città che gli ha dato i natali. Zamagni ha dismesso i panni dell’accademico
Oggi, il modello tayloristico è entrato definitivamente in crisi. Ma una volta che le mappe si sono formate, è difficile cambiarle. Le imprese fanno ampio ricorso al taylorismo e i disastri si vedono, anche se si dà la colpa alla crisi. A Zamagni, di fronte a quanto accade, capita di fare discorsi come questo agli imprenditori: “A volte mi meraviglio, non ti rendi conto che se continui così
NEL 1911 L’INGEGNER FREDERICK TAYLOR PUBBLICÒ LA SUA OPERA FONDAMENTALE, L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO, UNO DEI TESTI DI ECONOMIA AZIENDALE PIÙ IMPORTANTI DEL NOVECENTO
porterai al fallimento l’azienda? Liberati delle tue mappe, capisco che quando eri giovane all’università ti avevano detto di fare così, la maggior parte delle cose che sai te le hanno insegnate gli economisti delle Business school, io stesso ho insegnato 22 anni alla Bocconi, ma devi capire che sono cose sbagliate, non tanto dal punto di vista logico, quanto piuttosto per il fatto che non funzionano più. Non hai ancora capito che il tempo del taylorismo è finito?”
e ha voluto affrontare di petto i direttori delle risorse umane presenti in sala, chiedendo loro di porsi la domanda: “Perché esisto come Direttore HR? Perché sono rilevante? Che cosa devo cambiare delle mie mappe cognitive per assecondare le mie aspirazioni e al tempo stesso le esigenze dell’impresa?” Una delle novità dell’attuale fase storica è la crescente importanza che viene data al modello organizzativo più che al modello di business. Ma mentre sulla teoria del business ci sono molte ricerche e molti libri, non altrettanta attenzione è stata data ai temi dell’organizzazione. E questa è la radice di tutti i problemi.
Due cose hanno decretato la fine del taylorismo a partire dalli anni ’70: internet e l’intelligenza artificiale. La terza (secondo alcuni la quarta) rivoluzione industriale ha fatto emergere che dove esiste la divisione del lavoro, c’è anche un problema di coordinamento. Il coordinamento è di due tipi: tecnologico e strategico. Quello tecnologico si attua con codici e protocolli, è un mansionario. Quello strategico dipende invece non solo dalle azioni dei singoli, ma dalle azioni del gruppo. Il senso della rivoluzione digitale, non ancora colto appieno, è che l’ingresso in azienda delle nuove tecnologie ha trasformato il coordinamento tecnologico in coordinamento strategico.
Nel 1911 l’ingegner Frederick Taylor pubblicò la sua opera fondamentale, L’organizzazione scientifica del lavoro, uno dei testi di economia aziendale più importanti del Novecento. La prima impresa ad adottare il suo modello fu la Ford. Negli Stati Uniti ebbe un impatto enorme, e da lì si diffuse nel mondo. Ma già a partire dal 1930 si levarono le prime voci dissonanti, fra cui quella di Elton Mayo, uno psicologo e sociologo australiano che insegnava all’Harvard Business School. È vero, il taylorismo consente di abbassare i costi, perché Taylor ha inventato la catena di montaggio, ma secondo Elton Mayo occorre capire che ciò che rende la persona sostanzialmente analoga o simile alla macchina è il difetto, l’errore. Il
Negli anni ’60 il futuro premio Nobel Thomas Schelling aveva chiamato il coordinamento 47
strategico “meeting of minds”. I tempi non erano maturi per un concetto del genere. Ma perché parla di incontro di menti e non di incontro di braccia o di competenze? Una prima implicazione è che a seguito delle nuove tecnologie, si è venuta a creare una forma di cosiddetto sapere codificato. Secondo Michael Polanyj, il sapere codificato è quello che può trasmettersi da un soggetto all’altro per via di codici come i libri. Io scrivo, tu leggi e ti impossessi della mia conoscenza. La conoscenza codificata è servita al taylorismo per funzionare. Ma esiste anche un’altra forma di conoscenza, la conoscenza tacita. È quella che alberga nelle teste delle persone. Tutti noi siamo portatori di conoscenza tacita. Se non c’è volontà, non c’è estrazione del sapere, tu azienda non puoi obbligarmi a fare una cosa. Questa conoscenza presuppone una particolare relazione fra capo e subalterno. E ci porta dritto al paradosso di Polanyj, secondo il quale noi conosciamo molto più di ciò che riusciamo a dire o scrivere, e la conoscenza umana si estende molto più in là di quanto le singole persone percepiscano.
sulla porta e disse al direttore di avere un’idea su come fare. Alcuni dirigenti cercano di zittirlo in modo sprezzante, ma il direttore lo fece entrare nella sala riunioni e gli diede la parola. L’addetto alle pulizie disse che essendoci stati giorni di pioggia, era in grado di risalire ai quadri più apprezzati guardando le tracce di sporco lasciate dalle scarpe dei visitatori. Il direttore diede una mancia di mille dollari all’uomo e apostrofò i dirigenti dicendo che erano dei razzisti e che non avevano capito il concetto di conoscenza tacita. Lui aveva fatto la cosa giusta: l’aveva trattato come un essere umano, restituendogli fiducia in cambio della sua idea. Qualcuno aveva intuito queste cose già a metà degli anni ’50. Si chiamava Adriano Olivetti. Nel 1955 creò una squadra di tecnici dal cui lavoro sarebbe nata la Divisumma, il primo prototipo di computer che scriveva e faceva i calcoli. Se Olivetti non fosse scomparso, noi saremmo arrivati prima degli americani. E invece arrivarono gli americani con una borsa piena di soldi a comprarsi il brevetto. A capo della squadra c’era un ingegnere che un giorno chiese a Olivetti di licenziare un tale di nome Natale Capellaro: “Viene dalla Puglia e ha fatto solo la quinta elementare. Ho scoperto che ruba, ecco le prove.” Olivetti chiamò Natale e gli disse: “Senti un po’, è vero?” Risposta: “Sì,
All’atto pratico, come fa un’azienda ad estrarre da ciascuno la conoscenza tacita? Le idee innovative possono venire a chiunque… Occorre che si stabilisca una relazione particolare. Se l’azienda
DUE COSE HANNO DECRETATO LA FINE DEL TAYLORISMO A PARTIRE DAGLI ANNI ’70: INTERNET E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE è vero, perché ho trasformato la cantina di casa mia in una piccola officina in cui faccio gli esperimenti. Quegli esperimenti che il mio capo non mi fa fare perché è un cretino e sbaglia. Mi dice che sono un terrone e non devo permettermi di insegnare a lui che è un ingegnere.” Olivetti licenziò l’ingegnere e mise al suo posto l’autodidatta Capellaro. Dopo due anni uscì sul mercato la Divisumma. Olivetti, in segno di gratitudine per tutti gli straordinari non pagati che aveva fatto, fece in modo che Capellaro ottenesse una laurea honoris causa.
non riesce a far sentire rilevante la persona, non riuscirà mai a estrarre la sua conoscenza, e ci rimetterà. Secondo Zamagni, succede anche con i figli quando sono un po’ timidi. La prima conseguenza è che le organizzazioni che vogliono estrarre conoscenza tacita, debbano far sentire gli individui come membri rilevanti del gruppo. Come? Facendo leva sul desiderio di autorialità. Ciascuno di noi ha il desiderio di sentirsi qualcuno, non importa chi. Parole nette, quelle di Zamagni. “Fate sentire i vostri importanti, e loro vi daranno l’anima. Fateli sentire alla maniera taylorista, orario di lavoro, firma qui e firma là, e loro rispetteranno le regole per non essere licenziati, ma quando avranno un’idea brillante non verranno mai a raccontarvela.” A questo proposito, ha raccontato una storia vera accaduta anni fa allo Smithsonian Museum di Washington. Il museo stava ospitando una mostra di grande successo, e il direttore aveva radunato i dirigenti per capire quali fossero i quadri che avessero riscosso maggior successo. Qualcuno propose un’indagine campione, vennero ventilati anche altri metodi, ma nessuno pareva convincente… La porta della sala riunioni era rimasta aperta e in corridoio c’era un uomo di colore che faceva le pulizie. Si affacciò
Dopo questo excursus storico, Zamagni è tornato sulle funzioni del responsabile HR ai giorni nostri. Ha parlato delle due dimensioni del lavoro, quella acquisitiva e quella espressiva. Grazie al lavoro, ciascuno di noi acquisisce potere d’acquisto. È il lavoro giusto. Per arrivare a quest’idea il percorso è stato lungo, ma oggi è in qualche modo assorbito, perlomeno a livello di principio. Mentre invece l’altro piano, quello della realizzazione e dell’identità, in Italia non ha proprio attecchito. Il fatto è che attraverso il lavoro le persone esprimono il potenziale di fioritura della vita. La parola fioritura è di Aristotele, secondo il quale ogni persona è come un bocciolo di primavera che deve sbocciare. È un’atrocità impedirlo. 48
E così si arriva al concetto di decent work, una definizione dell’Organizzazione mondiale del lavoro che risale all’anno 2000. Il lavoro infatti può essere giusto, ma indecente. Il datore di lavoro può pagare, rispettare le regole, ma al tempo stesso – nelle ore trascorse in azienda – può non consentire alle persone di esprimere il proprio potenziale. Le quali persone non si lamenteranno per l’assenza del pane, ma di un ambiente in cui le loro capacità possano essere valorizzate. Secondo Zamagni, il compito del direttore HR di oggi è di puntare alla dimensione della decenza. Sapendo che le persone poi vorranno bene all’azienda, la quale a sua volta sarà ben contenta. Come succede ai genitori coi figli o ai professori con gli allievi che li superano. Ci si muove in una prospettiva che accontenta tutti: persone, dirigenti e azienda. Nel complesso, le performance migliorano.
del passato e ci trinceriamo dietro a un “abbiamo sempre fatto così” che sistema tutto. Ma questa è la via del tramonto, del declino produttivo. La prima cosa da fare sarebbe trasformare le università di economia, che restano ancora molte legate al modello taylorista. I professori pensano di sapere tutto, e se gli studenti obiettano, li penalizzano all’esame. Io ho insegnato sia in università americane sia italiane. In quelle americane, gli studenti mi interrompono senza problemi. In quelle italiane, devo stimolarli io perché loro tendono a stare zitti. Non c’è da stupirsi, secondo Zamagni, se poi le imprese non trovano cervelli e i migliori se ne vanno all’estero. Il relatore ha esortato le persone ha usare la parola “conazione” di ascendenza aristotelica, risultato della crasi fra due parole: conoscenza e azione. La conoscenza deve essere messa al servizio dell’azione e l’azione non deve più essere concepita senza conoscenza.
CIASCUNO DI NOI HA IL DESIDERIO DI SENTIRSI QUALCUNO, NON IMPORTA CHI Nessuno oggi mette in dubbio la rilevanza delle nuove tecnologie. Ma oltre all’innovazione tecnologica, è importante fare anche innovazione sociale. La Commissione europea ne ha parlato esplicitamente. Con l’innovazione tecnologica si introducono nuovi macchinari e automazione. Con l’innovazione sociale si cambia il modello organizzativo, abilitando le persone a crescere dentro l’azienda. E non si sta parlando di utopia, ma di risultati travolgenti. Anche l’ambiente accademico ha accolto questa direzione di studi. Nel 2007 Brian Robertson ha pubblicato un libro cha ha avuto molta eco, Holacracy, in cui si prospetta un modello di organizzazione che supera le gerarchie a favore del self-management e un potere decisionale diffuso sotto forma di libertà di esprimere idee e proporre progetti. Questo
In conclusione, Zamagni ha detto: “Il tempo galoppa. La vita ci sfugge fra le mani. Ma ci può sfuggire come sabbia o come semente. A noi la scelta.” In scia a questa esortazione, ha evocato il regno animale, e in particolare i castori, una specie che reca vantaggio alle altre specie costruendo dighe e generando riserve d’acqua per rane e pesciolini. Gli imprenditori sono come i castori: fanno il proprio interesse, ma così facendo operano anche per il miglioramento delle condizioni di vita degli altri. Rispondendo a una domanda, ha poi parlato di character skills e cognitive skills. La richiesta di competenze cognitive ci ha condotto ad avere risorse super-specializzate, super-esperte, super-intelligenti. Eppure non basta. Se due
OLIVETTI LICENZIÒ L’INGEGNERE E MISE AL SUO POSTO L’AUTODIDATTA CAPELLARO
modello è antitetico a quello tayloristico. Gli americani sono pragmatici: loro hanno inventato il taylorismo, e loro lo hanno seppellito. Questa visione consente alle persone di dare il meglio di ciò che sono capaci, e questa non è certo un’utopia. “Secondo voi, gli americani cambierebbero modello organizzativo se non fossero sicuri di guadagnarci?”, ha chiesto alla platea Zamagni.
persone intelligenti non entrano in relazione, finiranno per distruggersi. Zamagni ha richiamato il caso di un grande ospedale italiano fra i primi tre in Europa. In questo ospedale, i primari venivano scelti solo in base al curriculum vitae. “Io ho invece raccomandato che fossero anche valutati sulle loro capacità empatiche e di relazione con gli altri. Oggi la situazione è cambiata in meglio, e i rapporti interpersonali all’interno della struttura sono concepiti in modo diverso. Posso assicurarvi che sul piano dei rapporti umani si sono già visti miglioramenti sostanziali. L’importante è ‘stare in gioia’, la gioia risolve in partenza il 50 per cento dei problemi. La fatica rimane, ma la gioia tende all’infinito e ne è il miglior antidoto”.
L’Italia è invece in ritardo nel cambiare passo in questa direzione. E pensare che gli italiani nel XV secolo hanno inventato le imprese. Le prime imprese sono fiorite in Toscana, e Leonardo da Vinci è stato il primo grande imprenditore italiano. C’è molta resistenza al cambiamento. In buona fede, non vogliamo rinunciare alle idee 49
La storia di Filippo
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La storia di Filippo
Filippo Poletti Giornalista TOP VOICE LINKEDIN ITALIA
Ho imparato dalla musica che serve metodo. E non esiste gente più metodica e rigorosa degli artisti Sono Filippo Poletti e nella vita faccio il comunicatore. Nel 2020, per la prima volta, la redazione di Linkedin Italia ha nominato i quindici profili che hanno contributo significativamente alla conversazione professionale sulla piattaforma. Sono stato inserito tra loro per la rubrica che si chiama Rassegna Lavoro, e per la quale pubblico un post ogni mattina da cinque anni. L’idea è nata quando mi sono chiesto come stesse cambiando il lavoro, e come io potessi affrontare questo cambiamento. Ho deciso così di raccontare storie di impresa, mettendo al centro dell’attenzione le persone. Le aziende camminano sulle gambe dei propri collaboratori, ed è quando li metti al centro delle storie d’impresa che germoglia qualcosa di magico.
Per cantare, suonare o ballare il dono non basta. Le mani non suonano per grazia ricevuta, la voce nemmeno, ci deve essere un esercizio di applicazione quotidiano. Senza un piano di lavoro preciso non si va da nessuna parte. Ho fatto il critico musicale per molto tempo, finché la musica ha avuto sempre meno spazio sui media e non riuscivo più a vivere solo di quello. Ma io ero e resto uno che parla di musica o, meglio, che comunica il lato bello della vita e del lavoro. Lo faccio anche oggi durante i convegni, ma tralascio i tecnicismi e cerco di rendere il discorso appetibile e comprensibile a tutti, in modo che possa aprire a riflessioni di più ampio respiro. A volte parto dal preludio in Do minore di Bach, tratto dal primo libro del Clavicembalo ben temperato, per invitare ciascuno a trovare la propria melodia e il proprio ritmo nella vita quotidiana, nella comunicazione, nel proprio brand. Siamo immersi in un moto perpetuo, in un ritmo incessante. Il nostro compito, di comunicatori e non, è trovare la propria melodia. Cercarla tutti i giorni, senza fermarsi. Io, ad esempio, lo faccio andando in cerca di persone e storie che mi ispirino. E oggi ho la fortuna di farlo per lavoro.
La musica è stata il mio lavoro fino a ventisette anni. Ho studiato chitarra e composizione al Conservatorio e mi sono laureato in Musicologia. Sono anche un tecnico del suono, quello che in inglese chiamano sound engineer. Timorosi come siamo a condividere le nostre emozioni, credo che la forma primordiale di espressione sia proprio la musica. È trasversale, e le aziende lo sanno. È da qui che nasce la mia passione per la comunicazione. Dalla musica ho imparato che la costanza per il successo è importante, ma serve metodo. Credo di non aver mai trovato gente più metodica e rigorosa degli artisti.
La mia vita, come quella di tutti, d’altronde, è stata capovolta dall’arrivo della pandemia. Si è trattato di un doppio capitombolo per me, 51
La storia di Filippo
pandemia ce l’ha dimostrato. Mi ha colpito molto, in questo senso, la storia di Siare Engineering, la società incaricata dal governo italiano di realizzare i respiratori polmonari assieme all’Esercito durante l’emergenza. Prima di lei, bisogna ritornare indietro alla Seconda Guerra Mondiale per vedere delle aziende private che collaborano e uniscono le forze con il pubblico.
perché il 6 marzo 2020 sono caduto e mi sono rotto una tibia. Pertanto, in un momento tanto drammatico come l’inizio di un’emergenza sanitaria, mi sono trovato in ospedale per una frattura scomposta. Sono stati giorni che non potrò mai dimenticare. Ho ancora i brividi pensando alle persone ricoverate che vedevo stare male, affette dal Covid19. Il ricordo di questa paura mi rimarrà addosso per sempre. La sera in cui mi hanno operato, il 10 marzo, ho aperto il computer e mi sono interrogato su quello che ci stava capitando. Stava capitando a me come persona, ma stava capitando al mondo intero. Era qualcosa che andava al di là di ciascuno di noi, ma mi sono chiesto cosa potessi fare io. L’unica cosa era provare a reinterpretare il cambiamento che il mondo doveva affrontare, a cercarne una chiave di lettura. Ci ho scritto un libro, uscito in autunno, intitolato La grammatica del nuovo mondo, in cui racconto
Il “fare bene” mi ha sempre interessato molto. Nel 2021 ho intervistato Piero Angela, il quale mi raccontava della sua vita passata ad appassionarsi di ricerca, senza smettere mai di imparare: lui è un grande esempio del fare bene. Io sognavo di fare il divulgatore e speravo che il mio mestiere potesse contagiare positivamente le altre persone. Cerco di farlo raccontando e condividendo delle storie positive perché sono quelle che creano l’energia per andare avanti.
DA QUEL GIORNO CI SIAMO RESI CONTO CHE SIAMO INTERDIPENDENTI E CHE LA SALUTE DEGLI ALTRI È ANCHE LA NOSTRA
A dispetto di quanto pensano in tanti, in rete non serve dire “no” per dire “io”. Fare il contestatore per affermarsi è un errore di strategia, anche se oggi sembra la modalità più comune. Se invece imparassimo a condividere ciò che c’è di bello e di buono le persone imparerebbero ad affezionarsi le une alle altre, anziché scontrarsi. Mi sono occupato di cronaca per tanti anni e so bene quanto il male stuzzichi gli animi, ma se tornassimo a parlare del bene tutti i giorni, questo paese, e forse il mondo intero, cambierebbe la percezione che ha di sé.
le cinquanta parole che hanno cambiato senso o significato dall’inizio della pandemia. Per fare un esempio banale, fino all’altro giorno dire di “essere positivo” voleva dire “pensare positivo” e aveva un’interpretazione univoca. Adesso questa espressione nasconde inevitabilmente un’ambiguità che prima non esisteva. Nella notte tra il 20 e il 21 febbraio 2020, l’agenzia ANSA, lancia la notizia del primo positivo e scoppia il caso Codogno. Cominciamo a sentire parlare per la prima volta di paziente zero. Non sapevamo ancora cosa stesse capitando di preciso, ma scoprivamo che anche in Italia c’era un problema diffuso. Da quel giorno ci siamo resi conto che siamo interdipendenti e che la salute degli altri è anche la nostra. Un’altra parola che ha cambiato accezione è la parola “io”. Se invertiamo le lettere e aggiungiamo la lettera “n”, io diventa noi. Prima ragionavamo in termini individuali: “Io vado a Londra”, “Io faccio la mia vita”. Adesso c’è un “noi”: la parola chiave di questa nuova era. Mi piace allora pensare che siamo parte di un sistema, di un tutto, e che dipendiamo dalle nostre relazioni. Nessuno è un’isola, questa
L’altro passo da compiere è sapersi mettere in discussione, non avere la verità in tasca e riconoscere i propri fallimenti. Il primo modo per reagire al fallimento, infatti, è riconoscere di aver fallito. Negli anni ho scritto discorsi per varie figure politiche, che mi sono state di grande insegnamento. Il giorno delle elezioni il grande leader si nota subito dal fatto che, in caso di sconfitta, riconosce l’errore e lo dichiara: “Signori, abbiamo sbagliato, non ce l’abbiamo fatta”. Lasciare il posto all’avversario ed essere il primo a dargli fiducia è vitale. Quella fiducia torna indietro e aiuta a superare il fallimento, imparando la lezione.
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Oggi, le aziende più evolute lo sanno: nulla sarà più come prima. Uffici, fabbriche e magazzini sono altrettanti tasselli di uno spazio integrato in cui viene generato il valore, in stretta connessione con la gestione del capitale umano. Lo spazio è al servizio delle persone, e va gestito in modo strategico e aperto all’innovazione. Oggi, nasce uno spazio specifico di discussione e conoscenza dedicato alle figure decisionali che si occupano di spazio del lavoro. Ci vediamo a Gubbio.
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UN CALENDARIO DI VENTI FORUM CHE ABBRACCIANO UN VASTO FRONTE DI SETTORI AD ALTA INNOVAZIONE ENERGIA
E-COMMERCE & RETAIL
LOGISTICA
RICHMOND ENERGY BUSINESS FORUM Spring
RICHMOND E-COMMERCE FORUM Spring
RICHMOND LOGISTICS FORUM
RICHMOND ENERGY BUSINESS FORUM Autumn
RICHMOND RETAIL BUSINESS FORUM RICHMOND E-COMMERCE FORUM Autumn
RISORSE UMANE
ACQUISTI
MARKETING
RICHMOND HUMAN RESOURCES FORUM Spring
RICHMOND FACILITY MANAGEMENT FORUM
RICHMOND DIGITAL COMMUNICATION FORUM
RICHMOND HUMAN RESOURCES FORUM Autumn
RICHMOND PROCUREMENT DIRECTOR FORUM
RICHMOND MARKETING FORUM
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UN FORMAT DI EVENTO CHE NON HA MAI SMESSO DI ATTRARRE LE PUNTE AVANZATE DEI MERCATI DI RIFERIMENTO SAFETY
INFORMATION TECHNOLOGY
FINANZA AZIENDALE
RICHMOND HSE FORUM Spring
RICHMOND CYBER RESILIENCE FORUM
RICHMOND FINANCE DIRECTOR FORUM
RICHMOND HSE FORUM Autumn
RICHMOND IT DIRECTOR FORUM RICHMOND LOGISTICS FORUM IT SOLUTIONS
INDUSTRY 4.0
SICUREZZA
RICHMOND FUTURE FACTORY FORUM
RICHMOND SECURITY DIRECTOR FORUM
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Profit MEETS no-profit
Articolo di Ada Baldovin
Collaborazioni fuori dal comune: Il Bullone e Tassani Intollerante al lattosio eppure dipendente dalla pizza. Non si prende mai troppo sul serio, perché come le ricorda Rhett in Via col Vento “Chi ha coraggio, fa anche a meno della reputazione”.
Le storie migliori fioriscono dagli incontri più fortuiti. Le collaborazioni nate sotto la stella dei forum di Richmond Italia, tra la realtà sociale autrice di questo magazine, Il Bullone, e le aziende che partecipano agli eventi, sono preziose e meritano di essere raccontate. Costruire un ponte virtuoso tra mondo profit e no-profit è possibile!
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#LAPANCHINAPITTATA
Metti un’azienda, Colorificio Tassani, nata più di cent’anni fa dalla voglia di ricominciare di due fratelli dopo il primo conflitto mondiale. Prendi i B.Liver, ragazzi che hanno vissuto l’esperienza della malattia e che con resilienza guardano al futuro.
Passano due mesi e il Colorificio Tassani si fa promotore di un’iniziativa commerciale che destina a Il Bullone una percentuale del ricavato sulla vendita di un prodotto specifico per il legno. Così i ragazzi del Bullone e il team marketing di Tassani sviluppano assieme una campagna di comunicazione social per Facebook con gli hashtag #unmondomigliore e #lapanchinapittata. Viene realizzato anche un video originale per sponsorizzare il prodotto, in cui un paio di ragazze del Bullone colorano la panchina della redazione per un mondo migliore! Il video, spensierato e autoironico, ha fatto il giro dei social e il ricavato, come promesso, è stato donato alla fondazione per la realizzazione di progetti sociali destinati ai B.Liver. Grazie a collaborazioni come questa, costruire un mondo sempre più inclusivo è possibile.
E poi aggiungi un incontro in un giorno d’estate del 2018 ad Artimino, durante uno dei forum b2b di Richmond Italia, mentre i ragazzi erano presenti per raccontare le tante storie dei partecipanti su Reach magazine. Luigi Vignolo, Direttore generale dello storico colorificio genovese, si fa intervistare dalla redazione per la rubrica Top3, pubblicata sul primissimo numero di Reach (il numero #0) e ci confida il desiderio di voler contribuire alla nostra causa.
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La storia di Marianna
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La storia di Marianna
Marianna Marcuzzo Marketing & sales director SMILE TO MOVE
Dalla natura incontaminata dell’Australia alle città galleggianti di Disney Crociere: le avventure che mi hanno cambiato la vita
Da piccola ero timida. Mi dedicavo molto bene alla scuola e allo sport, ma facevo fatica a stringere amicizia con i compagni. In realtà quella timidezza me la sono portata dietro anche all’università, mentre studiavo Marketing e gestione d’impresa a Venezia. Ci sono però altre due cose che mi hanno accompagnato per buona parte della vita: la capacità di lasciarmi guidare dal corso degli eventi e un po’ di sana fortuna. Ad esempio, quando ero poco più che ventenne, ebbi la “fortuna” di essere piantata in asso dal ragazzo di cui ero follemente innamorata. Quell’evento, che per me era drammatico, mi diede la spinta di cui avevo bisogno per lasciarmi tutto alle spalle e partire. Sentivo la necessità di tirar fuori un po’ di personalità e, soprattutto, fare nuove amicizie.
mattino, insieme a un altro centinaio di ragazzi. Non dimenticherò mai il momento in cui vidi la nave che mi avrebbe ospitato per sette mesi: mi sembrava un (seppur bellissimo) “ammasso di rottami”. Passare dalla natura incontaminata dell’Australia a un ambiente chiuso e senza “via di uscita” per tutti quei mesi mi sembrò una follia, ma la perseguii comunque. Iniziò così un’avventura destinata a durare ben due anni! Tuttavia, su quella crociera ho fatto anche l’esperienza più bella della mia vita: lavorare all’accoglienza delle famiglie ospitate sulla nave da Make-A-Wish (organizzazione no profit che realizza i desideri di giovani affetti da gravi malattie, ndr). Mi candidai volontariamente per ricoprire questo ruolo nel mio tempo libero e assicurarmi che i loro bambini vivessero un viaggio magico. Conservo ancora con cura tutte le lettere e i ricordi che questi bimbi e ragazzi mi hanno lasciato. Erano uno più bello dell’altro, anche se con storie estremamente tristi. Eppure, in quelle situazioni ho vissuto alcune delle gioie più forti della mia esistenza, come quando riuscii a mettere in braccio a Biancaneve un bambino autistico, che abitualmente non interagiva con nessuno di esterno alla propria famiglia.
Scelsi l’Australia, dove mi iscrissi alla specialistica di Gestione turistica ed alberghiera. Di nuovo, ebbi una gran fortuna. In Australia sono rinata: per la prima volta mi sentii libera di esprimermi e di scegliere la mia strada. La natura e gli spazi aperti fecero il resto. Ricordo bene il mio stato d’animo durante il viaggio di ritorno: ero in lacrime, convinta che tornando in Italia stessi perdendo parte della mia indipendenza. Eppure tornai in Italia una volta finita l’università e, senza rendermene conto, iniziò subito un’altra avventura. In famiglia circolò la notizia che a Treviso abitava l’armatore di Disney Crociere, realtà di cui ignoravo l’esistenza fino ad allora. Iniziai a fare i colloqui e presi la palla al balzo quando mi proposero di lavorare nel servizio clienti di bordo. Poco tempo dopo mi imbarcai da Orlando su una delle loro navi alle quattro del
Nel frattempo, le mie mansioni lavorative cambiarono. Dopo i primi otto mesi passai di livello e divenni ufficiale con il ruolo di Clearance officer (colui che gestisce l’imbarco e lo sbarco di merci e passeggeri). Sembra una cosa noiosissima e lo è, ma mi ha insegnato l’importanza della pianificazione e dell’organizzazione. Tuttavia, il mio servizio fu particolarmente sfortunato: morti, feriti, 59
La storia di Marianna
incendi, elicotteri... insomma, accaddero cose mai successe prima, per le quali le procedure non esistevano ancora. Dovevo sempre essere forte e lucida, anche in situazioni di estrema emergenza. È stato impegnativo, al punto che decisi che era il momento di cambiare strada. Il prezzo da pagare per fare carriera era alto: non avevo più vita sociale, né amici. Non vedevo la mia famiglia da tantissimo tempo, temevo di perdere ciò che avevo di più caro. E poi facevo molta fatica a reggere i ritmi emotivi legati a quel lavoro: ogni sera tornavo in cabina a piangere per le situazioni drammatiche che avevo vissuto durante la giornata e avevo potuto risolvere solo dal punto di vista burocratico. Indubbiamente però, Disney Crociere è stata una bella scoperta, dalla quale ho portato a casa un’infinità di insegnamenti preziosi.
in azienda è la formazione dei giovani. Adoro lavorare con loro e aiutarli a scoprire cosa gli piace fare attraverso l’esperienza lavorativa in Smile to Move. Generalmente vado nelle scuole e costruisco insieme agli insegnanti dei percorsi legati al loro ambito di studio e alle soft skill, spesso trascurate. Quando capiscono come far fruttare le proprie capacità nel lavoro, scatta qualcosa che gli permette di vedere il mondo al di fuori della scuola. È appagante scoprire ciò che significa quel momento per loro. Finora ho raccontato le esperienze più belle che ho vissuto nel corso della vita. Ma come in ogni storia, ci sono anche capitoli difficili. Una volta tornata dall’esperienza in nave, infatti, mi buttai a capofitto in un altro progetto e l’intraprendenza della gioventù, in quel caso, mi portò a fare un bel capitombolo imprenditoriale. Ebbi l’idea di aprire una nuova società: un tour operator che valorizzasse l’artigianato e la piccola produzione del territorio italiano, partendo dal Veneto. Pian piano iniziammo ad espanderci e vendere i tour italiani anche all’estero. Funzionò fino al 2014, quando
In primis, ho avuto la fortuna di imparare dai migliori al mondo per quanto riguarda il servizio clienti. I problemi a volte si risolvono davvero con delle banalità, come si faceva lì: con il “cuore”. Ovvio, c’era un business plan da
NEI MOMENTI DI SCONFORTO SO DI POTER CONTARE SU UNA PERSONA CHE, A DISTANZA DI TEMPO E SPAZIO, RIESCE ANCORA A CAPIRE SE NON STO BENE E MI CHIAMA AL TELEFONO: LA MIA BABYSITTER D’INFANZIA, MARCELLA mi ritrovai in difficoltà con la società. Avevo 28 anni, ero giovane e piena di energie, eppure a un certo punto non ce la feci più e decidemmo di chiudere l’impresa. Fu una procedura difficilissima, ma dalla quale imparai tanto. In seguito, decisi di “regalare” tutti i contatti maturati a realtà simili alla nostra, per aiutarle ad ampliare il proprio business. Questa caduta mi insegnò a essere meno istintiva e valutare con più equilibrio e tranquillità persone e situazioni. Non è vero che se ti butti a capofitto nelle situazioni funzionano meglio. Vanno ragionate con il giusto tempo.
seguire, ma si poteva mettere la cura delle persone al primo posto. Questo è ciò che mi sono portata dietro anche nelle esperienze successive e nel mio attuale lavoro in Smile to Move. Si tratta di una società di formazione specializzata soprattutto nel retail. Anche qui, quello che ci unisce tutti sotto allo stesso cappello è il cuore: prima di qualsiasi vendita viene il benessere delle persone. La formazione ha un dovere e una responsabilità altissima: la differenza la fa l’approccio con le persone e come quest’ultime vivono l’azienda e il cliente. Inoltre, cerchiamo di rendere l’azienda sempre più autonoma, in modo che non debba dipendere sempre da noi. Da un lato forniamo all’utente finale metodi, strumenti e soluzioni. Dall’altro, integriamo la creatività alla formazione con qualcosa che sorprenda e diverta, a prescindere dal tone of voice dell’azienda. Si devono creare momenti che rimangano nel cuore, dopotutto. Lo sanno tutti in Smile to Move che il nostro obbiettivo, al di là della soddisfazione del cliente, è la sua fidelizzazione anno dopo anno.
Quando mi domandano chi sia la mia fonte d’ispirazione non so rispondere con il nome di un mentore famoso o di successo. Tuttavia, nei momenti di sconforto so di poter contare su una persona che, a distanza di tempo e spazio, riesce ancora a capire se non sto bene e mi chiama al telefono: la mia babysitter d’infanzia, Marcella. Ha sempre avuto un’attenzione speciale verso i suoi bambini, nell’educarli in maniera severa e dolce allo stesso tempo. Gran parte delle cose buone che ho fatto nella vita, penso le abbia ispirate lei. È una forza della natura, Marcella.
Un altro aspetto che sto cercando di sviluppare
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#8
CHI CERCA L’EQUILIBRIO È A METÀ DELL’OPERA
Richmond Tips è un format di Richmond Italia nato nell’anno del lockdown. Abbiamo chiesto a speaker, coach, psicologi, trainer e consulenti nell’area Risorse umane di distillare un consiglio sul da farsi in un periodo difficile e sfidante come questo. Risultato? Più che pillole di saggezza, piccole leve per risollevare il mondo a partire da ciascuno di noi. Cerca tutte le Richmond Tips sul canale YouTube di Richmond Italia.
Monica Fabris
Cerchiamo tutti la stessa cosa: il benessere. (…) Ci siamo resi conto di voler stare bene. Questo è un insight notevolissimo, maturato in questo lungo periodo passato chiusi in casa. Sapremo individuare i luoghi, i tempi, i momenti per stare bene? Che cosa significa stare bene? Lo possiamo solo sperimentare. Non ci sono ricette predefinite.
Julia Carlini
Sul tappetino come nella vita avere rispetto del proprio corpo implica fermarsi e ascoltare. (…) Ascoltare se il nostro respiro è morbido, lungo, calmo. Oppure se, andando sempre di fretta e non avendo tempo per fermarsi, abbiamo un respiro veloce e frenetico. Spesso noi respiriamo con la parte alta del corpo. Invece ci dovremmo fermare e ascoltare.
La storia di Anna
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La storia di Anna
Anna Gandolfini Lead buyer / D&I champion BARILLA
La diversity è una forza enorme. La vivo sulla mia pelle da sempre e sono convinta dia una marcia in più
Sono Anna Gandolfini e lavoro in Barilla come Lead buyer. Sono rappresentante del gruppo Diversità e Inclusione dei fornitori e D&I champion di Supply Chain. Quest’ultimo ruolo nasce nell’organizzazione di Barilla dalla scelta di incaricare alcuni dipendenti, particolarmente coinvolti nelle tematiche di diversità ed inclusione, a farsi promotori del necessario cambiamento culturale. Il ruolo di champion è su base volontaria e a rotazione. Si svolge oltre alla propria mansione e alla fine dell’incarico la persona passa la funzione a un altro collega, affinché diversity e inclusion permeino l’intera azienda, in tutta la catena del valore. È un ruolo che svolgo con piacere e che ritengo molto importante. Difatti, i temi di diversità e inclusione, sebbene siano collegati al business, toccano delle corde delicate, strettamente connesse al vissuto di ciascuno di noi.
come me. Ricordo che le maestre di scuola rimproveravano i miei genitori, esortandoli a non parlarmi in francese: ero in Italia e dovevo parlare italiano! Venivo apostrofata come la francesina, e mai in modo positivo. Altri miei compagni invece parlavano solo francese e capitava di fare da interprete perché me la cavavo bene con entrambe le lingue. Ancora adesso, quando vengono fatte osservazioni sulla mia doppia nazionalità, insisto a dire che sono italiana e che sono cresciuta in Italia. Tuttavia, sono molto legata anche alla mia cultura francese. C’è un altro evento che mi ha fatto crescere molto durante l’infanzia. I miei genitori gestivano un’officina meccanica. Quando ero adolescente mi capitava di raggiungerli per dar loro una mano o fermarmi a studiare in officina. Spesso mi imbattevo in persone che mi dicevano che non valeva la pena studiare: ero una donna, e in quanto tale mi sarei sposata senza bisogno dei libri.
Mi ha stupito e gratificato molto quando alcuni colleghi (che ufficialmente avevano preso le distanze da questo e altri progetti simili) si sono aperti con me, raccontandomi storie che mai avrei immaginato. Percepire la tranquillità con la quale hanno condiviso i loro pensieri è stato il dono piu grande di questa esperienza. Sto imparando anche a capire quali siano i miei limiti. Non sono una psicologa, pertanto, quando qualcuno ha bisogno di un aiuto professionale è bene che io faccia un passo indietro. Non è un ruolo che puoi ricoprire solo per avere il tuo nome in bella vista su un progetto, devi crederci e sentirlo.
I miei genitori sono sempre stati molto aperti: mi hanno cresciuto insegnandomi a costruirmi una vita indipendente e portando avanti ciò in cui credevo. Ma quando sentivo ciò che mi veniva detto, mi rendevo conto che la realtà era molto diversa. La mia vita non sarebbe mai stata in discesa, e per motivi assurdi, perché essere donna e con doppia nazionalità non erano situazioni che avevo scelto…C’ero nata. Al di fuori del lavoro faccio anche parte di WIP (Women In Procurement), un network che fa rete tra le donne manager nel procurement. Forse sono state proprio le mie “condizioni di partenza”
Mia mamma è francese e io sono nata in un paesino in Italia dove c’erano molti bambini bilingue 63
La storia di Anna
a farmi appassionare tanto a questo ambito. Durante la pandemia ho fatto molta fatica ad affrontare i mesi di isolamento. Amo stare in mezzo alle persone, ma l’azienda per proteggerci ci ha chiesto di lavorare in smart working. Non mi sono annoiata, anzi. Sono arrivata al punto che, pur di non pensare alla reclusione del lockdown, lavoravo e basta. Io sono fortunata, perché non l’ho dovuto affrontare completamente da sola, eppure è stato difficile. A Parma c’è stato un momento in cui era impossibile tenere le finestre aperte, passava un’ambulanza dietro l’altra. È stato anche un periodo di bilancio tra lavoro e vita privata: non potevo dedicarmi solo alla mia professione, avevo bisogno di altro. Ho trovato una grande valvola di sfogo in WIP, così come nell‘ Executive Master in Business e Management che sto terminando
bene che il male. Credo che le iniziative nate in azienda in questo campo ci stiano facendo crescere, sia come dipendenti sia come persone. Un collega straniero tempo fa mi disse che ero la prima persona, da quando era in Italia, che gli avesse chiesto come si trovasse nel nostro paese. Accade spesso che traduca anche le battute ai colleghi non madrelingua, perché so cosa vuol dire affrontare le barriere linguistiche. Mi piace stare insieme agli altri. Ho sempre cercato di confrontarmi con qualsiasi tipo di persona, per quanto lontana da me potesse essere. Ancora oggi non so spiegare cosa voglia dire far parte di un gruppo “diverso”, ma quando ho portato questo tema alla maturità la mia conclusione fu: “Come dice Pirandello, siamo tutti uno, nessuno e centomila”. La bellezza dell’umanità sta proprio nella
MI DICEVANO CHE NON VALEVA LA PENA STUDIARE: ERO UNA DONNA, E IN QUANTO TALE MI SAREI SPOSATA SENZA BISOGNO DEI LIBRI e al quale mi sono iscritta all’epoca. Fare un investimento su me stessa mi ha aiutato a superare alcune insicurezze. Nonostante possa apparire forte e sicura, infatti, ho tante fragilità dentro di me. E il Covid le ha tirate fuori tutte. Il ruolo di D&I champion, casualmente, mi era stato comunicato la settimana prima della chiusura totale e l’ho interpretato come un segnale: potevo fare qualcosa. Ero preoccupata per i colleghi che sapevo essere da soli. Cercavo di sentirli per fargli capire che non lo erano. Mi sono affidata a quella fiducia che avevo ricevuto, cercando di fare la mia parte. In Barilla c’è sempre stata grande cura verso i dipendenti, anche prima che fosse formalizzata con il Board della Diversity & Inclusion. Una cura questa, che viene estesa anche alla vita quotidiana. Siamo esseri umani, pertanto è imprescindibile che il vissuto, il modo di essere, le gioie e i dolori influiscano sul nostro lavoro. Ho spesso dato ascolto alle difficoltà che hanno dovuto affrontare durante il lockdown i miei colleghi con i propri figli, ad esempio. Ebbene, non si può credere che una persona che è riuscita a portare avanti il suo lavoro con tre bambini che le correvano attorno, non abbia acquisito competenze preziose! Le famose soft skills vengono dalla quotidianità. L’esempio del genitore è il più eclatante, ma è utile per intravedere nelle fragilità umane sia il
sua varietà e nell’unicità di ciascuno di noi. Non fermarsi a notare le differenze, bensì sentire che chiunque può dare qualcosa è un arricchimento enorme. Tutti i colleghi con i quali collaboro presentano delle peculiarità caratteriali e culturali, così come un approccio diverso al lavoro. E questo mi ha sempre aiutato a non farmi spaventare dalle differenze di colleghi e fornitori all’estero, anzi. Mossa dalla curiosità, ho cercato di capire quali nuovi valori potessero portare all’azienda. Con il tempo ho trasformato la mia “diversa” appartenenza in un vantaggio lavorativo. I collaboratori mi apprezzano perché amo ascoltare le opinioni di tutti, anche se diverse dalle mie, e perché trovo sempre un modo per cooperare assieme. Non è tutto rose e fiori. C’è ancora un forte attrito culturale, specialmente nel Sud Europa, come in Italia, Grecia e Spagna. Sono una donna bianca “privilegiata”, ma sono pur sempre una donna. E, in determinati tavoli, vengo ancora presa sottogamba. Prima di lavorare per Barilla, ci sono stati momenti in cui sembrava che certe persone non mi volessero proprio ascoltare, e mi sono chiesta se valesse la pena insistere. Oggi so che dobbiamo essere noi, le aziende illuminate come quella in cui lavoro, a trainare e fare da esempio. Solo così arriveremo al punto di non dover più lottare per questi principi.
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CULTURA
RACCONTI
L’oca Martina e l’imprinting ecologico Il potere delle storie che creano immedesimazione e abbattono la barriera che separa il “capire” dal “sentire” le grandi questioni ambientali del nostro tempo di ELENA GRANATA
L
’oca Martina è stato l’incontro mediato dal libro più emozionante della mia infanzia. Quelle pagine de L’anello di Re Salomone di Konrad Lorenz, pubblicato nel 1949 e diventato subito successo planetario in campo scientifico e letterario, sono una delle esperienze scolastiche più stagliate nella mia memoria. Nei comportamenti animali c’è una parte innata e c’è una parte appresa. Questo valeva per l’oca Martina e questo valeva per me, giovane mammifero delle scuole medie. Lorenz spiega l’imprinting animale attraverso la sua esperienza. Spiegato in due parole, si tratta di un tipo di apprendimento che i piccoli di uccelli e mammiferi acquisiscono, nell’arco di pochissime ore dopo la nascita, in base al contatto diretto con chi si prende cura di loro. Se i pulcini di anatra appena nati si trovano a stretto contatto con un essere umano per un determinato periodo di tempo (anche solo qualche ora) è molto probabile che lo identifichino come la loro madre e lo seguano ovunque vada. Così Martina, piccola oca convinta che Lorenz fosse la sua mamma si è fissata in modo indelebile nella mia memoria, esattamente con lo stesso processo di imprinting che la legava alla sua mamma-etologo. Le fotografie del biologo premio Nobel che passeggia nelle strade di campagna o nuota nelle acque del Danubio inseguito da una serie di
Contenuto a cura della redazione di The Map Report. The Map Report è un magazine di Media Trade Company dedicato ai temi della sostenibilità, della responsabilità sociale e dell’innovazione. Si articola in un periodico cartaceo, un website di informazione quotidiana e un palinsesto tv visibile sul canale 513 di Sky.
CULTURA
ochette in fila indiana sono ormai iconiche, fotografie in bianche e nero che appartengono all’immaginario collettivo. Lorenz ha studiato questo fenomeno (tradotto dall’originale tedesco tedesco Prägung) principalmente nelle oche selvatiche, e lui stesso è stato più volte “mamma” di varie famiglie di oche. Ma Martina si staglia dal gruppo perché ha un nome. Sbuca dall’uovo e il primo essere che vede è Konrad, e poco le importa che sia un vecchio barbuto, in nulla somigliante alla sua specie. Gli si affeziona con struggente dedizione e amore. Tanto che il racconto era condito di un certo umorismo e senso del surreale: «da quel momento la sua “mamma” fu costretta a portare Martina ovunque andasse, a dormire insieme a lei, rassicurandola costantemente rispondendo ai suoi continui richiami, a nuotare insieme a lei. Fu così per lunghi mesi, fino a quando Martina non divenne un uccello adulto e fu pronta a vivere la sua vita in maniera indipendente». Poco importa che Martina facesse parte solo delle mie immaginazioni letterarie scolastiche, è un ricordo talmente vivo da rendermelo presente ancora oggi dopo tantissimi anni. Le neuroscienze ci spiegano, infatti, che quando leggiamo, ascoltiamo o raccontiamo storie, accadono cose stupefacenti. Per esempio, sappiamo oggi che le parti del cervello che si attivano nel narratore sono le medesime che si attivano in quello dell’ascoltatore, in una sorta di riflesso esperienziale: se in un racconto leggiamo di qualcuno che dà un calcio alla palla, si aziona la parte del nostro cervello che coordina il movimento del piede. In altre parole, viviamo il racconto più che assorbirne semplicemente le informazioni. Il cervello non è così severo nel distinguere quello che ascoltiamo da quello che viviamo, tra leggere di un’esperienza e incontrarla nella vita reale. In entrambi i casi sono stimolate le stesse regioni neurologiche. Quando si racconta una storia il pubblico ride, si immedesima, si protende interessato, si piega con il corpo o si contorce, esprime e imprime il tutto nella memoria, portandolo con sé. Ascoltare storie suscita la nostra immedesimazione non solo perché attiva la nostra empatia ma perché ci fa in qualche modo rivivere la stessa esperienza in modo virtuale, grazie ad un
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meccanismo di trasferimento emotivo. A questo punto dovremmo avere grande consapevolezza di quanto potere possa avere la narrazione nella vita delle persone, le quali non avranno bisogno di dati e numeri per convincersi di quanto rilevanti siano i cambiamenti climatici o la biodiversità di un ecosistema. Per capirlo e per sentirlo davvero avranno bisogno di ascoltare una storia. Oggi, molti scienziati hanno finalmente compreso l’urgenza di diventare narratori più abili, capaci di comunicare attraverso vari mezzi espressivi e lo stanno facendo con grande talento. Stefano Mancuso nei suoi innumerevoli libri sulle piante, da Uomini che amano le piante a La pianta del mondo, non parla solo di vegetali, ma parla del suo amore per loro e lo fa coinvolgendo in questa relazione empatica i propri lettori. È la prima cosa di cui si accorgono i miei studenti quando leggono i libri di Mancuso che propongo, perché mi riportano puntualmente le loro sensazioni di tenerezza, di compassione o di simpatia per le piante. Con buona pace della maggioranza degli accademici che ancora distinguono i contributi scientifici da quelli divulgativi, sarà questo tipo di libro l’unico a sopravvivere nel tempo, perché interpreta in modo nuovo la trasmissione del sapere mediante il coinvolgimento attivo, sensoriale dei lettori. Mutuando le parole dal mondo digitale abbiamo bisogno di una Realtà Aumentata del racconto scientifico, quella dimensione ultra-informativa con cui lo scrittore riveli l’oggetto del suo amore, le scene e i retroscena della sua ricerca, i sentimenti che animano la sua curiosità che è scientifica e umana insieme. Quello che un tempo è successo alla letteratura - pensiamo a Vivere per raccontarla, di Garcia Marquez - oggi accade alla scienza. E solo i più bigotti se ne stupiscono.
Professore Associato di Urbanistica al Politecnico di Milano e docente e vicepresidente della Scuola di Economia Civile, Elena Granata è autrice di diversi libri, saggi e articoli su riviste scientifiche e divulgative. Dopo Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, uscito nel 2021 per Einaudi, pubblicherà quest’anno Ecolove. Come siamo diventati (tutti) ecologisti, scritto per Edizioni Ambiente insieme a Fiore de Lettera.
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia 2. Crescere dentro Il cambiamento parte da dentro. Parte da me quando riesco a nutrire apertura, curiosità, senso della meraviglia. A ogni giro di giostra della vita e della professione mi impegno a imparare, evolvere e provare a diventare migliore.
1. Crescere insieme 2. Crescere dentro 3. Vincere e perdere 4. Raccontare la vita 5. Agili nell’azione 6. Responsabili nelle scelte
C
Finché non ci provi non saprai mai fino a dove ti potrai spingere
rescere dentro è uno dei valori di Richmond Italia che più mi rispecchia perché credo fortemente che non ci si debba mai dare per vinti. Finché non ci provi non saprai mai fino a dove ti potrai spingere. Sono arrivato in azienda poco prima dell’inizio della pandemia e mi sono ritrovato, come tutti, ad iniziare questa nuova avventura lavorando in smart working, senza la presenza fisica dei colleghi, cosa ben diversa dal sentirsi e vedersi via web. Nonostante questo nuovo modo di lavorare sia stato impegnativo, devo anche riconoscere che mi ha permesso, dopo ripetuti tentativi e piccole delusioni, di diventare sempre più autonomo nel mio lavoro, più sicuro di me stesso e soprattutto a mettere da parte la mia timidezza e ad avere più familiarità con i contatti interpersonali. Ovviamente il risultato della mia crescita lo devo anche a tutto il team Richmond che mi è stato sempre di grande supporto dandomi il tempo necessario per conoscere il mio ruolo e crescere. Spesso ci troviamo davanti a dei cambiamenti inaspettati, ma bisogna imparare a guardarli da ogni prospettiva e cercare sempre il lato positivo che ci possa far crescere dentro. La vita per me continuerà ad essere una grande scuola che mi darà la possibilità di evolvere e diventare sempre più forte.
Riccardo Fanton Delegates manager Richmond Italia
La storia di Paolo
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La storia di Paolo
Paolo Errico CEO 4MARKETING
Il mio “web gourmet”: dall’incontro di due passioni nasce qualcosa di esplosivo Ho sempre voluto fare l’imprenditore. Ancor prima della laurea, la mia idea di azienda era costituita e implementata a livello digital. Parliamo del 2000, quindi molti anni fa. Andavo ancora all’università, ma lavoravo già per Ferrero, una multinazionale di grandi valori e una vera e propria scuola di marketing per me. In realtà però, io sapevo già che il web era la mia strada. In quegli anni stavano nascendo le prime mailbox, sembra preistoria ormai. Ricordo che mi dissi: “Non chiediamo ai clienti di venirci a trovare sul sito, andiamo noi da loro. Raccogliamo i contatti email e iniziamo a mandar loro delle newsletter”.
vieni rimproverato se non giochi abbastanza. Lì ho capito che l’azienda è fatta di persone che amano il brand e si fanno in quattro per portarlo avanti. Tuttavia, ho imparato anche un’altra cosa. Le grandi aziende sono disorganizzate: lavoravamo moltissimo, troppo. Io stesso ho dormito in azienda più di una volta. Era veramente complicato, però se ero lì c’era un motivo: la mia passione e la mia voglia di fare.
Mentre ricoprivo il ruolo di marketing manager in azienda (prima in Ferrero, per dieci anni, e poi in Angelini) portavo avanti la mia passione per il digital, che pian piano si stava trasformando in una piccola associazione di amici che creavano newsletter e contenuti. Il payoff era “Newsletter per passione”. Simulavamo il lavoro di una grande azienda, pur facendo tutt’altro durante il giorno. Lavoravamo tantissimo. In Ferrero mi dicevano che non sarei mai riuscito ad andare avanti così, lavorando dodici ore in azienda e poi dedicando le notti al mio hobby.
Nel frattempo, continuavo a portare avanti la mia piccola impresa, come se fosse un “gioco”, inizialmente. In seguito, decisi di creare una SRL e iniziammo a vendere i nostri software con 4Dem, uno dei brand aziendali dedicato alla divulgazione di una piattaforma per il direct marketing (email, sms e marketing automation). Oggi siamo una delle quattro piattaforme più distribuite sul mercato, attivata da ben 20 mila aziende in Italia. Il progetto è stato ufficializzato nel 2002, quando ancora spedivamo le newsletter a mano, una per una. Ricordo le notti passate ad aspettare che il browser finisse di spedire le mail, dopo un’intera giornata di lavoro in Ferrero. A un certo punto abbiamo deciso di creare un software e l’abbiamo chiamato, appunto, 4Dem. Così abbiamo iniziato ad avere i nostri primi clienti.
Ferrero mi ha richiesto tanti sacrifici, ma mi ha insegnato molto. Per loro mi occupavo dei prodotti pasquali di Kinder. Ero il così detto “Uomo della Pasqua”, è stato molto divertente. Ferrero, di fatto, è un grande produttore di giocattoli per via di tutte le sorprese Kinder che posiziona negli ovetti. È un mondo bellissimo, dove
Inizialmente il team era dislocato in aree diverse e lavorava in remote-working. Nel frattempo, io ero passato a lavorare in Angelini, come Marketing manager. Avevo cambiato completamente settore e regione, dal Piemonte alle Marche. Ben presto però, mi resi conto che volevo dare una spinta a ciò che avevo creato negli ultimi anni. 71
La storia di Paolo
Così decisi di licenziarmi e istituire una vera e propria azienda con sede a Torino e un team “fisico” dedicato: ADVision. Fare impresa su una passione personale iniziando da zero è stato un grande rischio, anche se io all’epoca non me ne rendevo conto. Se nel 2010 mi avessero chiesto quale fosse la cosa più difficile per un imprenditore, avrei risposto “avere i clienti”. In verità non è questa la cosa più complessa. Oggi direi che è molto più difficile trovare le persone giuste e farle aderire ad un progetto comune in azienda.
cucina. Ho sempre adorato cucinare: a sei anni preparavo i biscotti di nascosto, con il forno a gas di mia mamma. A diciott’anni i miei genitori mi lasciavano cucinare il pranzo di Natale, sapendo quanto fossi appassionato. Si fidavano di me e mi davano carta bianca. All’inizio erano disposti a mangiare qualunque cosa, loro malgrado. Poi, pian piano, diventai più bravo. Tra l’altro sto seguendo tutt’ora un corso di cucina e sono un sommelier iscritto all’albo. Diciamocelo, cosa c’è di più buono di mangiare?
I primi anni siamo partiti con il one-man business, perché bisognava correre e costruire la casa dalle fondamenta. Sembrerebbe la cosa più facile e veloce, ma non è un metodo solido a lungo andare. Se l’azienda gira tutta attorno a
La cucina non è altro che la metafora dell’azienda: ci sono gli chef, le postazioni, i maître… Diversi team e livelli che lavorano assieme per raggiungere degli obiettivi. In McDonald, peraltro, c’era un’organizzazione impeccabile. Per me
SIAMO PAGATI PER FARE ERRORI. L’ERRORE È NATURALE, E SOLO ATTRAVERSO DI ESSO POSSIAMO CAPIRE COME FUNZIONARE AL MEGLIO
te, vuol dire che non esiste senza di te. Io non voglio mettermi al centro, infatti ho dichiarato di voler uscire dagli ingranaggi. Preferisco fare empowerment sugli altri.
è stato come fare il militare: mi ha insegnato tantissimo. La divisione dei ruoli, la pianificazione, la sperimentazione e la passione che ho trovato lì l’ho poi portata in azienda. I primi anni, infatti, noi parlavamo di “web gourmet”: partivamo dalle esigenze del cliente e scrivevamo la ricetta digital perfetta. E ancora oggi è così. Ci sono tante analogie tra questi due mondi, in primis la creatività e la sperimentazione.
Non tutti sono in grado di vedere le cose in modo imprenditoriale. Così, insieme ai miei collaboratori abbiamo definito la mission, la vision e i nostri valori attraverso un workshop durato una settimana. Abbiamo deciso cosa volessimo fare e con chi volessimo lavorare. Poi abbiamo fatto un altro passaggio: abbiamo introdotto il lavoro agile anche nel marketing, oltre che nello sviluppo software. Quello è stato un punto zero: da allora, in sprint di due settimane, si definiscono priorità ed urgenze e si va avanti con un calendario fatto tutti insieme. Così facendo ci si autogestisce, e si portano a termine i progetti con un grande senso di responsabilità. Tutte e tre le business unit di ADVision (4Dem, 4Marketing e Mailtogo) oggi lavorano in agile. Mi sono appassionato a tal punto a questo tipo di lavoro che ne ho scritto un libro, pubblicato a marzo 2021 e intitolato Agile Marketing.
Oggi fare impresa vuol dire essere bravi a coinvolgere le persone, perché l’aspetto umano è sempre più importante. Le aziende sono fatte di persone, che oggi più che mai vogliono lavorare per un brand che amano. Il lavoro in azienda è così, ti innamori del gruppo, sebbene con le sue imperfezioni. Per questo vivo una sorta di trauma quando i dipendenti se ne vanno e bisogna ricominciare da capo. È difficile, ma è anche normale. Ci sono due capisaldi che mi guidano ogni giorno nel mio lavoro. Uno. Siamo pagati per fare errori. L’errore è naturale, e solo attraverso di esso possiamo capire come funzionare al meglio. Due. Siamo pagati per far bene ciò che non sappiamo fare. Il che sottintende un aspetto insito nel marketing: da sempre facciamo cose mai fatte prima. Non esiste dire “Non sono capace”, ma solo “Fammi capire cosa devo fare, e lo faccio”.
Mentre studiavo in università, prima di Ferrero, ho lavorato da McDonalds. Non ne avevo strettamente “bisogno”, ma volevo emanciparmi. Quella fu una grandissima esperienza, dalla quale scoprii il mio interesse per il mondo della
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Volti che hanno accettato e amato ogni mia fragilità, ogni mia ferita, volti che hanno raccolto la mia gioia e le mie lacrime. Posso solo dire grazie a Il Bullone. Alessandra
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La storia di Lucy
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La storia di Lucy
Lucy Spicuzza Procurement manager WIP - WOMEN IN PROCUREMENT
Con il tempo ho imparato a trovare “un posto nel mondo” per me stessa
selezionatore HR, e infine lavorai persino per il Gran Premio di Monza. Mi sono “testata” in situazioni diverse e ho imparato che avevo bisogno di sperimentare sempre qualcosa di nuovo, e di lavorare insieme agli altri.
Tutti mi chiedono il perché del mio nome. Ho seguito l’usanza di prendere il nome della nonna, che si chiamava Lucia. Dato che sarei stata la terza nipote a chiamarsi così, mia madre decise di renderlo più internazionale e scelse per me il nome Lucy. Mi ha portato fortuna perché si fa notare: la nota internazionale rimane impressa. Proprio per la combinazione del mio nome e cognome, nel tempo tutti hanno dato per scontato che avessi origini straniere o che fossi madrelingua inglese. Sebbene il mio nome non mi sia mai piaciuto molto, di fatto mi ha dato l’opportunità di essere vista con una luce diversa.
Oggi lavoro in una multinazionale del settore farmaceutico e mi occupo di acquisti indiretti, principalmente della categoria di professional service, ossia di tutte quelle attività essenziali all’azienda, come la selezione del personale, i servizi generali, la mensa. Di questa mansione amo l’interazione con colleghi e fornitori, ma anche la creazione di nuove strategie, dove penso di dare il meglio del mio talento professionale. Questa doppia anima, relazionale e strategica, mi rappresenta perfettamente: devo essere empatica, capire subito chi ho di fronte e quale sia il miglior servizio che posso offrire a quella persona, ente o dipartimento.
Sin da piccola ero sempre alla ricerca di me stessa. Non mi sentivo mai abbastanza e non avevo ancora trovato la mia strada. Ricordo che una volta, in quinta superiore, andai all’open day del corso in giornalismo, nonostante scrivere non fosse proprio il mio forte. Da lì mi dissi: “Non è un male non sapere cosa fare, anzi. È un’opportunità”. Decisi che per un anno avrei provato a fare di tutto, e così feci: prima l’assistente di terra, poi il lavoro a fianco di un
Ho partecipato al forum di Richmond Italia come founder dell’associazione WIP – Women in Procurement. Nata da un’intuizione, ora sta diventando una vera e propria missione. 75
La storia di Lucy
Durante il lockdown, infatti, ho iniziato ad avere la necessità di condividere la mia esperienza lavorativa, in particolare con le mie colleghe. Far parlare le donne, non solo della loro vita professionale, ma anche dei valori che avevano a cuore, era il mio obiettivo. Con l’aiuto di alcune amiche professioniste negli acquisti e di un’agenzia che ci segue, sono riuscita a dare vita a questa incredibile esperienza, che mi ha permesso di scoprire un “mondo” al di là delle nostre vite quotidiane. Al momento la nostra pagina Linkedin ha 656 followers, il team di lavoro conta circa quindici elementi e una sessantina di speakers. Da otto mesi sto incontrando e conoscendo donne meravigliose e professioniste eccellenti,
come la leadership o le modalità di trattativa degli acquisti. Un giorno una ragazza mi ha detto che lavora negli acquisti perché non c’è nulla che potrebbe fare meglio: da quando è bambina negozia su qualsiasi cosa, anche sui giochi all’asilo. Il legame che si sta creando è davvero incredibile. L’approccio multiculturale è l’altra grande ricchezza di cui gode WIP. Lavorare in un gruppo culturalmente eterogeneo vuol dire avere a che fare giornalmente con paesi lontani e con persone che vivono la loro quotidianità a Kuala Lumpur piuttosto che a Londra. Quanto puoi imparare nella gestione dei processi con un team così! In psicoterapia si dice che spesso, quando fai qualcosa per gli altri, in realtà stai
AVEVO BISOGNO DI TROVARE NUOVI MODELLI PERCHÉ, A QUARANT’ANNI, INIZIAVO A CHIEDERMI COSA POTESSI DIVENTARE OLTRE A UNA MAMMA, UNA MOGLIE O UNA COMPAGNA
che spesso si sottovalutano e pensano di non avere abbastanza informazioni da condividere, ma che in realtà hanno un’esperienza e un vissuto interessantissimi. Nei prossimi mesi, vorremmo introdurre anche la visione maschile e rendere questa realtà ancor più completa. La cosa più importante di questo network è la nostra sorellanza: come sorelle non ci faremo mai del male, ma ci aiuteremo a vicenda offrendo uno spazio di ascolto e di network. Abbiamo un appuntamento settimanale di confronto che dura circa un’ora e ci consente di scambiare spunti e visioni. Spesso è anche un’occasione per scaricare lo stress e confidarsi. Durante il lockdown, infatti, c’era chi allattava mentre era connessa e chi, addirittura, ha preferito dire a noi, prima che ai suoi parenti, che era incinta. Questo tipo di aneddoti mi fa pensare che ricevere sia importante, ma che dare sia meraviglioso. Ciò che amo di più di WIP è che ognuna di noi ha un valore inestimabile. E chi ancora non lo sa, ha l’occasione di fermarsi e scoprirlo. I nostri incontri e le nostre testimonianze cercano di tenere una “traccia”: partendo dalla vita personale e dai propri studi, fino a parlare di un tema professionale che ci interessa particolarmente,
rispondendo a un tuo bisogno. È vero. Avevo bisogno di trovare nuovi modelli perché, a quarant’anni, iniziavo a chiedermi cosa potessi diventare oltre a una mamma, una moglie o una compagna. Poi ho iniziato ad ascoltare altre donne, scoprendo che non era solo una mia necessità e che anche loro cercavano risposte sul loro essere donna. Carmen Carulli è una delle nostre fonti di ispirazione più grandi. È alla guida degli acquisti di un brand eccellente, nutre le sue passioni, ha due bambini e si dimostra disponibile quando può per un confronto sempre attivo. Da lei ho imparato soprattutto a lasciarmi andare alle emozioni e affidarmi agli altri. La fiducia gioca un ruolo fondamentale sia nella relazione con gli altri che con sé stessi. E sono proprio la fiducia, l’ascolto attivo e l’empatia i motori per continuare e crescere nella mia professione e nella vita personale. Davanti a me non ci sono solo dei partner lavorativi, ma ci sarà sempre una persona. Una persona con la quale dialogare e scambiare visioni e crescere. Conoscere il più possibile, ed essere contaminata dalle storie di valore degli altri è ciò che amo di più, sia del mio lavoro, sia di WIP.
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Manifesto del marketeer del futuro presente
Durante il Richmond Marketing forum che si è svolto al Grand Hotel di Rimini nel mese di settembre 2021, Franco Guglielmoni ha condotto due sessioni di workshop. Sul profilo Linkedin Guglielmoni si presenta così: “Sono il Dottor Copy, curo salute e performance dei brand con l’unico metodo validato tramite neuromarketing. Filosofo nerd e copywriter d’azione. Head of experience in Healthware International.” Durante i lavori, Guglielmoni ha sollecitato i partecipanti sul futuro della professione. Le riflessioni e i concetti emersi durante la discussione sono confluiti in una sorta di manifesto. Leggiamolo insieme. Il futuro è già presente. Noi viviamo nel futuro. La tecnologia e l’innovazione sono il futuro che abita il presente. Chiederci come potrà essere il marketeer del futuro, allora, significa chiedersi come possiamo essere marketeer che vivono e lavorano con lo sguardo rivolto al domani: marketeer del futuro presente.
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Il marketeer del futuro presente è un agente del cambiamento, dotato di spirito di osservazione e apertura mentale, agile e veloce nel muoversi e nell’adattarsi, con lo sguardo mai rivolto all’immediato, ma sempre orientato a pianificare strategicamente. Eppure, non è spinto dalla sola razionalità. Anzi, coltiva empatia per gli altri esseri umani, che sente vicini a sé in quanto essere umano prima che marketeer. Degli esseri umani accoglie tutto, anche la follia: che è scintilla di innovazione e originalità.
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Il marketeer del futuro presente non è più un guerriero d’azienda, e nemmeno è un consulente lupo solitario. Al contrario, ha scoperto il potere gentile del fare squadra non come estensione del proprio ego, ma come accoglienza delle differenze. L’inclusività diventa arricchimento e costruzione di una intelligenza diffusa e variopinta, di cui il marketeer è parte integrante e amplificatore. La tecnologia e l’innovazione non sono più il futuro. Sono l’ecosistema presente dentro il quale progettarlo facendo scaturire nuovi comportamenti virtuosi, più etici e sostenibili, in grado di soddisfare i bisogni reali e profondi del mercato e delle persone.
Il marketeer del futuro presente vuole innescare e guidare – in questo farsi guida sta la sua capacità di leadership – un cambiamento epocale del mercato e del mondo. Questi due elementi non sono più separati, così come vita privata e lavoro non sono più in opposizione.
Il marketeer del futuro presente sa che, cambiando il modo di fare e di comunicare il business, si può cambiare anche il mondo.
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La storia di Alessandro
Alessandro Angilella Innovation advisor PRÉNATAL
Dai Lego della mia infanzia alle strategie digitali sul lavoro, “costruire” qualcosa è ciò che amo di più Da bambino ero molto curioso ed estroverso, cercavo sempre un modo simpatico per farmi apprezzare dagli altri. Inoltre, ero appassionato delle costruzioni Lego. Mi piaceva costruire: potevo passare ore a giocare con i mattoncini, e in un certo senso continuo a farlo ancora oggi. “Costruire” è ciò che amo fare nella vita. Che si tratti di strategie digitali o di affetti in famiglia, creare qualcosa è ciò che so fare meglio. Da piccolo ero molto appassionato anche di tecnologia: mi affascinavano i primi videogiochi, il Commodore 64 e le macchinine radiocomandate che si potevano costruire da zero, assemblando il motore e creando le miscele di carburante.
dei contatti. Il digitale invece permette a tutti, indistintamente, di sviluppare un’idea e condividerla. È una rivoluzione che ha svecchiato tanti settori, dall’imprenditoria alla ricerca. Adesso siamo nell’era della blockchain, un registro di dati condiviso tra tutti gli utenti, pubblico e immutabile nel tempo. Proprio la decentralizzazione è, dal mio punto di vista, la rivoluzione più importante, perché la regolamentazione e la gestione dei dati inseriti al suo interno sono affidati al popolo. Tutti coloro che hanno uno strumento collegato al network possiedono una copia di quel software o di quel dato, e di tutte le sue versioni aggiornate. È quindi estremamente democratica, perché determina la decentralizzazione del controllo dell’informazione. Lo stesso discorso vale anche per i bitcoin, l’oro digitale. È un mondo affascinante, dove le possibilità di costruire, per una persona come me, non finiscono mai.
Il fascino per il digitale è arrivato poco dopo, quando mi sono imbattuto nello studio della sua genesi e ho scoperto il suo enorme potenziale, era il 1989. Internet, infatti, nasce per risolvere il problema di inviare informazioni da un punto A ad un punto B garantendone la consegna. Questo avviene attraverso una rete (il web appunto) che permette svariati percorsi tra i due punti, così che ogni individuo collegato alla rete possa comunicare con chiunque, in qualunque angolo del pianeta. Un’invenzione senza precedenti, che ha cambiato per sempre le nostre vite. Prima era molto diverso, se volevi avviare un’attività imprenditoriale o avevi un’idea da sviluppare, era un’impresa quasi impossibile comunicarlo all’esterno senza avere già
Il fascino per questo potenziale, unito alla mia passione creativa, ho cercato nel tempo di farlo diventare il mio lavoro. Provengo da una famiglia di ingegneri e commercialisti, pertanto avrei avuto la possibilità di intraprendere io stesso quelle strade, certamente più sicure di tante altre. Nonostante ciò, ho preferito costruire dei progetti miei: una web agency e diverse startup nel settore dell’e-commerce, tra cui Digital Preziosi (oggi sotto il brand Toys Center), 81
La storia di Alessandro
la costola digitale del gruppo Giochi Preziosi. Per dieci anni ho fatto anche il deejay e, sebbene non abbia “costruito” nulla di specifico in questo ambito, mi sono divertito molto e ne ho tratto degli spunti preziosi. In primis ho imparato a conoscere le persone. Non è facile far ballare la gente per una notte intera: devi capire bene come gestire quei dieci dischi belli che hai a disposizione, senza metterli tutti subito ma alternandoli ad altri, seguendo l’umore della serata. Relazionarsi con le persone ogni tanto può essere faticoso, anche in un club. Quelle notti mi hanno insegnato ad analizzare la platea che avevo davanti e leggerne il linguaggio del corpo, intuire l’atmosfera e lo stato d’animo di chi era in pista. Sarò sempre grato a questa esperienza per avermi fatto cogliere le mille sfaccettature che compongono l’essere umano.
trovato un vero e proprio mentore in Guido Monferrini (oggi Executive vice president, CCO of MediaMarktSaturn, ndr). È stato lui a insegnarmi cosa sia il lavoro di squadra. Prima di Prénatal ero stato a capo solo di piccoli gruppi, mentre lì mi sono trovato all’improvviso dentro a una struttura molto più complessa. Monferrini mi ha osservato, ha visto dove ero bravo e dove lo ero meno, e mi ha aiutato a ritagliarmi un ruolo dove potessi dare il massimo. Mi sono quindi potuto muovere proprio nel campo in cui so di poter dare di più, ossia nell’area creativa ed innovativa del digitale. Avevo il supporto di persone che mi aiutavano a tenere i budget, o a gestire i complessi processi di una grande azienda…siamo stati un gruppo dove ognuno faceva ciò che gli riusciva meglio. È sbagliatissimo essere accentratori, perché si toglie ai propri collaboratori la possibilità di crescere. E poi è normale sbagliare. Solo chi non cammina non cade mai. Con il tempo poi, si impara a
Sono sempre stato molto curioso, sin da piccolo, quando chiedevo il “perché” di ogni cosa.
UNA PASSIONE CHE INVECE NON HO MAI ABBANDONATO È IL WINDSURF, DI CUI SONO INNAMORATO. APPENA POSSO SCAPPO IN MEZZO ALLE ONDE DEL MARE
Mi piace fare qualcosa di nuovo ogni giorno, e scoprire come funziona. In realtà c’è anche il risvolto della medaglia in questo: in passato, ho cambiato spesso lavoro perché mi annoiavo facilmente. Appena finivo di costruire qualcosa, passavo a qualcos’altro. Amavo molto dare inizio alle cose, meno doverle gestire dopo. Dicono che questo sia il fil rouge che accomuna gli innovatori e i visionari, ma si tratta di una lama a doppio taglio. Tutt’oggi ci sto ancora lavorando, sebbene non sia semplice. Nel digitale, infatti, non puoi occuparti delle stesse “costruzioni” per più di qualche anno. È un settore che ti spinge a cambiare continuamente. Una passione che invece non ho mai abbandonato è il windsurf, di cui sono innamorato. Mi ha permesso di viaggiare tanto e di conoscere persone estremamente diverse dalla mia cerchia quotidiana, il che è sempre super stimolante. Appena posso scappo in mezzo alle onde del mare.
delegare e a fidarsi di più delle persone con le quali si lavora. Adesso che ho terminato la mia esperienza in Prénatal son tornato a seguire le mie aziende, che spaziano dal litigation funding (defynd.it) al settore medicale (medicaldesk.it) e al chatbot (heres.ai), sempre mettendo l’innovazione tecnologica al centro delle stesse. Guido Monferrini mi ha insegnato anche un metodo molto intelligente per organizzare l’agenda condivisa a lavoro. Inizialmente la si compila aggiungendo solo gli eventi inderogabili durante l’arco di un anno, dove una parte molto importante è dare spazio anche agli impegni personali. In primis, infatti, dovremmo passare del tempo con i nostri figli, seguire lo sport che amiamo o festeggiare il nostro compleanno. Dopo aver inserito gli impegni inderogabili di tutto il team in un unico calendario, decidiamo un giorno alla settimana in cui trovare un’ora per incontrarci e lavorare tutti insieme. Incredibilmente ci si riesce sempre! In un mondo in cui sembra che non si abbia mai tempo di fare nulla, ho scoperto che è solo questione di trovare un buon metodo organizzativo. Prima di tutto la vita, poi il resto. Lavoro compreso.
Per quattro anni, fino a dicembre 2021, ho lavorato in Prénatal Retail Group, dove ho scoperto il valore del gioco di squadra e l’importanza di avere a fianco qualcuno che ti aiuti là dove tu non sei bravo. In particolare, ho
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La storia di Alessandro
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La storia di Daniele
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La storia di Daniele
Daniele Palombi CFO SIDERALBA
I legami affettivi che si crearono coi dipendenti in difficoltà mi insegnarono molto, mi sentivo responsabile per le loro famiglie Arrivo da un percorso di studi abbastanza lineare ma incisivo. Dopo il liceo e una breve parentesi come atleta professionista nell’ambito del ciclismo, decisi di investire fortemente su me stesso concentrandomi sulla carriera universitaria e cercando di mettermi in mostra con pubblicazioni, un Erasmus e provando a bruciare tutte le tappe finendo molto presto tutti gli esami.
che come professionista. Ero giovane e mi trovai sul piazzale dell’azienda a discutere coi dipendenti per scegliere se pagare gli stipendi o la materia prima… Non fu facile. Fu un’esperienza fortissima fatta in una fase della mia vita dove non avendo famiglia e altre dinamiche di necessità potevo permettermi di mettermi in gioco e accogliere questa sfida. I legami affettivi che si crearono coi dipendenti in difficoltà mi insegnarono molto, mi sentivo in qualche modo responsabile per le loro famiglie, anche se le conoscevo da poco.
Nel 2006 arrivò la laurea in Economia con specialistica in finanza aziendale e mercati finanziari. Iniziai a lavorare due anni prima che scoppiasse la crisi del 2008 e davanti a me si erano aperte diverse strade percorribili: la banca, la società di revisione, la libera professione oppure l’azienda, e io scelsi quest’ultima. Decisi di fare un’esperienza in FriuliVenezia Giulia, lontano dalla mia terra di origine dove mi fu offerto un posto come controller che mi dava l’opportunità di osservare l’azienda a 360° e, in un periodo complesso come quello sul quale ci stavamo affacciando, fu per me un’occasione straordinaria di formazione. L’azienda per la quale prestai il primo impiego subì parecchio la crisi del 2008 perché lavorava molto con gli Stati Uniti e aveva ridotto le vendite di quasi il 40% e - a causa di un debito particolarmente elevato dovuto ad un’operazione di LBO - entrò in crisi finanziaria. Mi presi la responsabilità di ripensare a un piano di ristrutturazione e mi proposero di dirigere la struttura finanziaria e amministrativa del gruppo che era molto articolato, con quasi 50 milioni di fatturato e circa 200 dipendenti. Insomma una bella responsabilità, a soli 28 anni trovarsi a gestire una problematica di quel tipo fu molto sfidante. Furono anni di forti tensioni e la gestione dei rapporti coi fornitori e con le banche furono molto complessi, con tempi di decisione particolarmente ridotti e margini di errore e inefficienza nulli. Chiudemmo positivamente l’accordo di ristrutturazione e fu un’esperienza che mi segnò e mi consentì di crescere come essere umano oltre
Chiuso l’accordo di ristrutturazione, decisi di non accontentarmi di tornare a gestire l’ordinario e nel 2011 iniziai la mia avventura in Officine Tecnosider, un’azienda che aveva da poco avviato una start up nel settore dell’acciaio e aveva necessità di un direttore finanziario che avesse un approccio dinamico con la finanza d’impresa. La mia esperienza nella gestione della crisi e le mie acquisite skills nel superamento delle difficoltà facevano al caso loro. Ho iniziato così una nuova avventura, una nuova sfida che mi ha dato molte soddisfazioni, grazie al lavoro svolto consentii all’azienda di raggiungere un fatturato di 200 milioni in soli quattro anni rispetto ai circa 40 milioni realizzati prima del mio ingresso. Nel settore siderurgico la finanza è un elemento fondamentale per consentire lo sviluppo del business. Ho accompagnato questa società nel suo periodo di crescita, in tutti i sensi, sviluppo dei mercati, investimenti di decine di milioni di euro e con lei sono cresciuto enormemente anche io, diventando CFO all’età di 33 anni ed entrando in un network di rapporti e relazioni di altissimo livello. Questo fu possibile perché l’azienda e la società manageriale che la dirigeva credette molto in me, dandomi spazio, fiducia e autonomia nella gestione della mia divisione. Fu una tappa fondamentale della mia vita, e sicuramente la palestra nella quale ho costruito e accresciuto le mie skills tecniche e le competenze nella 85
La storia di Daniele
gestione aziendale. Poi, prevalentemente per esigenze personali, decisi di riavvicinarmi a casa dopo oltre dieci anni trascorsi a Udine. Approdai in Intergroup, un gruppo che opera nel settore logistico, nel quale ho potuto perfezionare le mie competenze sulla corporate governance e sulla contabilità e accompagnare la famiglia imprenditoriale nel percorso di passaggio generazionale che aveva da poco intrapreso. Terminato questo progetto fui contattato nuovamente da un’azienda che opera nel settore siderurgico, nel quale avevo maturato una notevole esperienza. Decisi di cogliere questa sfida alla ricerca di nuovi stimoli e fu così che approdai in Sideralba. L’azienda al mio arrivo presentava alcune difficoltà in ambito finanziario che abbiamo gestito e risanato, ero pronto ad affrontare tutte le problematiche grazie alle mie esperienze precedenti.
determinazione, perseveranza, passione per il proprio lavoro, volontà e la possibilità di mettere la carriera davanti alle altre cose. Un altro aspetto fondamentale riguarda i diversi staff che ho gestito, poiché gli obiettivi importanti si raggiungono insieme e io devo ringraziare tutti i miei collaboratori che nelle diverse aziende mi hanno seguito, mi hanno dato fiducia e mi hanno aiutato. Mi sono sposato e ho fatto dei figli, tutto grazie all’aiuto di mia moglie, che mi ha seguito in tutti i miei spostamenti e ha appoggiato le mie scelte. Cerco di non perdermi le tappe fondamentali della crescita dei miei bambini, e non manco a recite e compleanni, nonostante la logistica casa - lavoro sia abbastanza complessa. Per lavoro sono uscito dalla mia comfort zone e ho cercato altro, altrove. Quando è arrivato il Covid ho tirato fuori tutte le skills che avevo messo in campo nella gestione della mia prima crisi nel mondo del lavoro, quella del 2008. Cosa mi aveva insegnato quell’esperienza? Resilienza e orientamento al risultato, caratteristiche che mi accompagnano tutt’ora. Molto di quello che so in ambito manageriale lo
In tutto questo lungo percorso, un’altra cosa che mi ha aiutato è stato anche cambiare spesso zona, città, regione, lavorando in tutta Italia da nord a sud e imparando le dinamiche e le caratteristiche
MIA MOGLIE È UNA PERSONA SPECIALE, È STATA IN ASSOLUTO LA MIA SPALLA, COLEI CHE MI HA PERMESSO DI PORTARE AVANTI TUTTE LE SCELTE LAVORATIVE CHE HO FATTO di ogni territorio, oltre che l’integrazione in culture e comunità diverse che mi hanno consentito di aprire la mente. Sideralba per me rappresenta una bella sfida perché ha un grande programma di crescita e questo come avrete capito non fa altro che motivarmi. Sono molto fiero del mio percorso e di avere questo ruolo in un’azienda come Sideralba che è la ventesima azienda campana per dimensioni e ha un peso sul panorama nazionale e internazionale molto importante. In Sideralba sto avendo la possibilità di esprimere le mie potenzialità e le mie esperienze pregresse, ho aperto la società al mercato dei capitali, quotando in Borsa un titolo obbligazionario da 12 milioni, e le ho consentito in neanche un anno dal mio ingresso di crescere nel proprio turnover per oltre il 60% rispetto all’anno precedente.
devo ad un mentore, Ivo Conti, che dal punto di vista gestionale mi ha insegnato un metodo, al quale spesso mi sono ispirato. La persona che più mi ha colpito nel mio percorso è sicuramente Luigi Rapullino, seconda generazione di Sideralba; è un giovane imprenditore, uno stakanovista, una delle persone più brillanti che io abbia mai conosciuto. È stato lui ad intrigarmi e la possibilità di affiancarlo nella gestione del suo gruppo mi ha ispirato, perché ha delle idee di crescita importanti unite ad un atteggiamento umile e per me questo significa sperimentare un modo positivo di lavorare. Cosa vedo nel mio futuro? Vedo Luigi e Sideralba, perché qui ho spazio per potermi esprimere in autonomia, sposando un progetto di vera managerialità. Spero che le aziende evolvano seguendo la strada del benessere dei lavoratori perché se guardo me stesso, so che quando sono sereno riesco ad esprimermi molto meglio e questo aumenta la mia produttività. Al lavoro passiamo gran parte della nostra giornata e questo tempo deve essere di qualità, questa è una delle mie filosofie cardine che pretendo per me stesso e che cerco di dare anche al mio team di lavoro.
È vero, è stato un percorso veloce quello che mi ha portato ad alti livelli in età molto giovane, ma c’è stato tanto sacrificio lungo questa strada. Io sono uscito di casa nel 2001, ho dormito in ufficio e nelle foresterie delle aziende perché all’inizio non potevo permettermi di pagare l’affitto, i soldi erano pochi e iniziai come molti con contratti di stage o a progetto. Poi c’è stata tanta
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Gianluca Rocchi. Opening speaker edizione 2020.
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dell’azienda e quello personale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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Le storie di Sophie e Davide
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Le storie di Sophie e Davide
Sophie Aupart e Davide Ilardi General manager Italia e Sales executive YOOBIC
Sophie Aupart
Perchè aspettare quindici anni per diventare una manager? Ho conosciuto il fondatore della società per la quale lavoro su Facebook. Non proprio il social in cui ci si immagina di trovare il luogo ideale dove lanciare la propria carriera. All’epoca Fabrice Haiat, fondatore di YOOBIC, era in cerca di talenti per sviluppare la sua start up e aveva già una chiara visione di quello che sarebbe diventata YOOBIC. Oggi è una realtà affermata ma allora era poco più di un’ottima idea. Dopo una call su Skype e due colloqui ho ricevuto un’offerta. Ho accettato di getto, avevo la sensazione che era la strada giusta. Spesso bisogna fidarsi del proprio gut feeling! Oggi sono sei anni che lavoro per questa realtà e l’abbiamo portata dove pochi immaginavano.
questo mindset ed è uno degli elementi che mi ha portato ad essere oggi responsabile del mercato italiano che due anni fa ho lanciato quasi da sola. Era una sfida che l’azienda mi ha affidato: aprire da zero una nuova regione. Mi hanno dato fiducia e fin da subito mi hanno affidato alte responsabilità. In un’altra realtà avrei dovuto aspettare almeno quindici anni per fare carriera. Nonostante le difficoltà che il mondo del retail ha sofferto durante la pandemia, siamo ormai una realtà affermata ed in crescita sul mercato italiano e sono riuscita a creare un team che entro l’anno raggiungerà le nove persone. Ma all’inizio non è stato affatto facile superare le barriere culturali e linguistiche. Io sono madrelingua francese e, durante la mia prima riunione ad alto livello, un cliente ha sottolineato le mie difficoltà con l’italiano. Da quell’incontro non volevo più parlare in pubblico, ero paralizzata. Padroneggiare una lingua straniera è ovviamente essenziale per veicolare opportunamente il messaggio secondo i bisogni del cliente. È necessario usare parole pertinenti, ma a fine 2019, all’inizio di questa avventura, quando parlavo italiano avevo l’impressione di dire delle banalità perché il mio vocabolario non era così vasto. Un software non si può toccare ed è difficile da raccontare. Spiegarlo con una lingua che non è la tua, è un triplo salto. In un processo di vendita quando parli con i direttori generali le sfumature culturali e linguistiche possono fare davvero la differenza. La profondità nella comunicazione che puoi ottenere attraverso la tua lingua madre è molto più intensa. Tuttavia, non mi sono certo fermata a questo primo ostacolo ed oggi mi dicono di essere fluente. I risultati di crescita di YOOBIC in Italia dimostrano che la barriera è ormai superata.
YOOBIC è un’applicazione mobile first che semplifica e digitalizza le procedure, il luogo di lavoro digitale all in one per i team sul campo. YOOBIC offre ai manager aziendali e ai sales associates gli strumenti necessari per l’operatività, la formazione e la comunicazione garantendo continuità nel flusso di lavoro. Con la digitalizzazione delle task, l’apprendimento mobile e le comunicazioni semplificate, YOOBIC traina l’eccellenza operativa e, al contempo, migliora nettamente l’esperienza professionale dei dipendenti sul campo. Oltre 300 aziende internazionali, tra cui Pinko, Benetton, Boots, Lancôme, Lacoste, Logitech, Peloton, Puma, Vans e Sanofi, si affidano a YOOBIC per promuovere le performance commerciali su larga scala, ottenere visibilità in tempo reale sull’esecuzione delle attività in più sedi e migliorare l’esperienza del cliente. La chiave per arrivare a lavorare con clienti così prestigiosi è stata la coerenza con la propria visione coniugata alla flessibilità di adattare il prodotto e le procedure costantemente. Ho fatto mio
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Le storie di Sophie e Davide
Anzi, l’essere straniera da limite iniziale è ormai un vantaggio! Oggi sono General manager Italia e mi sto occupando dell’espansione di YOOBIC Italia a pieno regime.
Certo, la mia carriera è una parte fondamentale della mia vita oggi. Tuttavia, mi fermo a volte a pensare al futuro e mi chiedo cosa abbia fatto di virtuoso fino ad oggi. I miei genitori sono medici e hanno avuto un impatto positivo sul mondo e vorrei anch’io offrire il mio contributo orientando parte del mio impegno verso un lavoro con un valore sociale. Un giorno vorrei lavorare per una realtà no profit, viaggiare, partire per una missione umanitaria. Oggi mi impegno per migliorare la comunicazione e la produttività delle aziende, adoro il mio lavoro, però aspiro ad una missione più alta. È un cammino di crescita personale che percorro con molta energia.
Mi definirei una persona che si mette ogni giorno in discussione: se mi viene mostrato un altro punto di vista, lo valuto sempre. L’ascolto attivo è una skill fondamentale, sia nel rapporto con i miei colleghi più senior, per imparare, che nella mia visone di managerialità. Lo applico giornalmente nelle discussioni con il mio team. Ciò non toglie che credo molto nell’esecuzione rapida ed organizzata. Nasco ingegnere e rimango ingegnere dopotutto.
Davide Ilardi
Con chi lavori è più importante di quello che fai Sophie Aupart mi ha chiamato a maggio 2021 per una collaborazione mentre stavo gestendo la mia squadra in Congo in un progetto di sviluppo locale e ho accettato la sfida! Fin dall’inizio ho avuto la sensazione di trovarmi nel posto giusto. Sono rientrato in Italia, nel mondo che conosco, con una nuova consapevolezza e un nuovo equilibrio: sento di non avere più tempo da perdere con persone e in contesti lavorativi dei quali non condivido i valori. Ho deciso di collaborare solo con realtà nelle quali credo, dove mi valutano non solo per quello che apporto, ma anche e soprattutto come persona. Riuscire ad organizzare il lavoro intorno alla mia vita, e non viceversa, è diventata una mia priorità, maturata grazie a una rimessa in discussione totale della mia carriera. Nel 2020 ho lasciato un ottimo lavoro per lavorare sette mesi in Congo con un’organizzazione umanitaria. Nessun romanticismo. È un lavoro
come molti altri, ma in contesti sociali, culturali ed economici totalmente diversi dal nostro e ciò mi ha permesso di scavarmi dentro ed apprendere molte lezioni. Tra queste c’è che il tempo è l’unica moneta che abbia valore e non può essere restituita. Sia nella vita privata e soprattutto nella vita professionale bisogna scegliere con “chi” spendere tempo, non solo cosa farne. È un’ovvietà alla quale raramente si pensa e si agisce di conseguenza. Tantomeno c’è bisogno di partire per un Paese lontano per comprenderla profondamente. La mia esperienza manageriale in Congo è stata da un punto di vista umano e professionale molto sfidante. Il Paese è lacerato da conflitti pluridecennali, più d’una pandemia, corruzione endemica e purtroppo è tornato alla ribalta per la triste vicenda dell’ambasciatore Attanasio, che avevo avuto la fortuna di conoscere di persona. 90
Le storie di Sophie e Davide
In Congo una delle problematiche ancora presenti è quella del retaggio coloniale: il bianco è percepito ancora come “superiore” in alcuni contesti. Io non volevo assolutamente che i miei colleghi mi percepissero come tale. Volevo comunicare alla mia squadra che ero a loro disposizione e non ero un controllore delle loro attività lavorative.
calibrare quale e quanta energia vada utilizzata in una specifica progettualità. Alcuni disperdono la propria energia in troppe attività, e non danno valore ad alcuni aspetti essenziali sia della loro vita personale, sia della loro vita professionale. Personalmente, in esperienze lavorative passate mettevo il cento per cento su ogni progetto, senza trovare un giusto equilibrio. Ma alla lunga questo modo di lavorare stanca e ci fa perdere in produttività. Per molti il Covid è stato un momento di rifocalizzazione delle priorità. Per me lo è stato la mia brevissima esperienza in Congo. Altra lezione è stata la comprensione della mia limitatezza, della quale non mi vergogno più; non raggiungere appieno i propri obiettivi sempre e comunque non significa non essere “abbastanza”.
La mia squadra era formata da sei congolesi con i quali ho instaurato lentamente un rapporto di fiducia. Ci occupavamo di un progetto di sviluppo di business locale, con l’obiettivo di creare un mercato sostenibile di produttori e distributori. Il team lavorava sul campo a 400 chilometri dalla base e non avevo né la possibilità né l’intenzione di fare micro management. Tantomeno potevo raggiungerli spesso per motivi di sicurezza. Ho dato fiducia alla mia squadra ed ho chiesto loro quali fossero gli strumenti necessari per arrivare all’obiettivo. Loro conoscevano la realtà del territorio. Il ruolo di un responsabile si basa sul rapporto human to human, verticalità e orizzontalità sono relativamente importanti. A mio parere, l’aspetto più rilevante della managerialità è il servizio. Il manager mette le persone nella condizione di lavorare bene? Posso avere un rapporto aperto e diretto con il mio manager? Se sì, c’è la possibilità di instaurare un rapporto umano che permetta di fare business, altrimenti si perde in efficienza, comunicazione ed anche fatturato.
Credo che il manager debba essere il primo ad incarnare i valori dell’azienda e le parole sono importanti quanto la direzione da prendere. Bisogna curarsi delle persone di cui si è responsabili, mettersi in discussione con onestà e umiltà quotidianamente. È difficile creare un team dove ci sia fiducia e rispetto e credo che uno dei segreti sia la coerenza: in un mondo saturo di parole vuote, solo i fatti hanno un peso. Si parla molto dei nuovi valori aziendali, dell’importanza di mettere la nostra vita al centro, dell’onestà professionale, del cambiamento epocale verso lo smart working, della green revolution, dell’inclusività…ma quali sono le azioni reali che vanno in queste direzioni? Incarniamo veramente le parole che scriviamo e pronunciamo pubblicamente o bastano ad abbellire il nostro profilo LinkedIn?
Bisogna lavorare molto sulla propria consapevolezza, sia come manager che come membro di un team. Far quadrare i numeri è ovviamente fondamentale in qualsiasi impresa, però bisogna
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Contributo a cura di HXO, da anni partner di Richmond Italia per l’organizzazione dei seminari dedicati alle soft skills. HXO nasce dall’incontro di professionisti nella consulenza, nella formazione, nella valutazione e nello sviluppo di aziende pubbliche e private.
Il manager generativo nel network di Richmond Italia Ogni manager ha una doppia anima, quella del manager produttivo, che guida al risultato e dà struttura alle persone per garantire realizzabilità. E quella del manager generativo, che nel presidiare l’agire, il fare, ha lo sguardo al dopo, al costruire ora le premesse su cui il successo di un gruppo e di ogni singola persona si fonderà. Di fronte all’emergenza globale, i manager hanno mobilitato intensamente la propria anima produttiva, dando struttura, tenendo saldo il timone per contenere il disorientamento e garantire il risultato. Hanno fatto i conti con il bisogno di agire, di tenere sotto controllo i processi, di avere chiaro un piano d’azione, anche per recuperare il senso del proprio ruolo. Questo ha consentito di presidiare l’incertezza, di garantire la produttività, di dare ancoraggio a chi si sentiva smarrito.
L’ARTE, LA CRONACA, LA STORIA CI HANNO PERMESSO, COME ESSERI UMANI, DI GUARDARE DA LONTANO LA FRAGILITÀ DELL’UOMO DAVANTI AGLI EVENTI INATTESI
Poi hanno scoperto la nascita, in sé e nelle persone, di nuovi bisogni, che si sono fatti pervasivi. Si può dire che fino a oggi, tutti quanti noi, nati e vissuti dopo i grandi sconvolgimenti che hanno caratterizzato la prima metà del XX secolo, non conoscevamo davvero l’incertezza, non avevamo mai fatto i conti con la vera indeterminatezza. Nel lavoro abbiamo continuato nel tempo a utilizzare modelli di organizzazione e programmazione che, pur nelle loro straordinarie evoluzioni, si fondavano comunque sempre su un assunto implicito, quello della continua, impercettibile, progressiva manutenzione del patto di convivenza dato dall’essere con. Durante la pandemia abbiamo invece vissuto l’essere senza: senza colleghi accanto, senza la prevedibilità data dalla ricorrenza, senza abitudini, senza informazioni, senza controllo. Alcuni “senza” vorremmo ritrovarli e riappropriarcene. Altri abbiamo capito con chiarezza di aver bisogno di lasciarli andare. Vogliamo ritrovare la prossimità con alcuni colleghi, il legame di partecipazione a un sistema che costruisce qualcosa di importante, la chiarezza del futuro, la capacità di anticipare gli eventi. Vogliamo lasciare andare 92
i tempi di trasferta, il presenzialismo, la frenesia, la lontananza dai nostri affetti, le rinunce e i sacrifici fatti in funzione della presenza al lavoro. È l’occasione per costruire il mondo in cui vogliamo vivere, per fare i primi passi dentro la costruzione di uno scenario lavorativo sorprendentemente rivoluzionato. Le persone hanno bisogno di sentirsi parte di un contesto lavorativo rinnovato, in cui non c’è una tensione a ristabilire un ordine noto, ma un desiderio diffuso di reinventarsi. La discontinuità ha dato la grande opportunità di tornare a cercare nuove forme di convivenza e di esistenza, che si fondino su quattro grandi scoperte e su altrettanti corrispondenti rigenerati bisogni. E sono questi i bisogni che i leader di oggi e di domani hanno bisogno di cogliere e a cui hanno necessità di proporre risposte. Abbiamo scoperto la Vulnerabilità: l’arte, la cronaca, la storia ci hanno permesso, come esseri umani, di guardare da lontano la fragilità dell’uomo davanti agli eventi inattesi, ci hanno consentito di prendere le distanze, come spettatori attoniti, dall’impotenza di fronte all’imprevisto; le esperienze personali ci hanno fatto vivere da vici-
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no la nostra debolezza di fronte a traumi improvvisi, ma oggi la Vulnerabilità è diventata esperienza personale e scoperta universale e permea la nostra quotidianità, i nostri progetti, la percezione di una personale inconsistenza di fronte agli eventi. Quando la vulnerabilità diventa parte integrante del nostro modo di interpretare l’esistenza, una parte di noi si sente prostrata, smarrita, incapace di fronteggiare gli eventi. Alla scoperta della vulnerabilità corrisponde oggi il bisogno di sentirsi efficaci, di contrastare il senso di debolezza e inadeguatezza, di ricercare realizzazione, riconoscibilità, unicità, visibilità.
ABBIAMO SCOPERTO LA VOLATILITÀ DELLE NOSTRE CATEGORIE DI INTERPRETAZIONE, LA FRAGILITÀ E L’INCONSISTENZA DELLE CERTEZZE Abbiamo scoperto il significato che ha per noi l’Isolamento. L’isolamento ha comportato, sul piano professionale, sentirsi esclusi, congetturare su eventi che ci prescindevano, percepire l’assottigliarsi delle informazioni necessarie al nostro lavoro, sentire la necessità di esserci sempre e in ogni caso (iperconnessione virale) o al contrario di sparire e ritirarsi. L’isolamento ha portato con sé diffidenza, timore di perdere le fila, percezione di perdita di controllo. Quanto più abbiamo vissuto questo senso di estraneità ed esclusione, tanto più sentiamo il bisogno di recuperare fiducia, di ritrovare la nostra identità sociale, di percepire il senso della nostra presenza nel contesto, di sentirci visti, utili, desiderati. Abbiamo scoperto la Volatilità delle nostre categorie di interpretazione, la fragilità e l’inconsistenza delle certezze, il disorientamento derivante dalla mancanza di ancoraggi, di giudizi solidi. Ci siamo ascoltati dire e pensare continuamente “non lo so”, “non mi è chiaro”, “non ho capito”, attoniti di fronte alla nostra incapacità di arrivare a conclusioni certe, di prevedere e tenere il timone delle nostre opinioni e dei nostri pensieri. Ci siamo sentiti disorienta-
ti e ci siamo forse dedicati al fare, all’agire, passo dopo passo, per non sentire la vertigine del vortice dell’instabilità e della precarietà. Alla scoperta della volatilità corrisponde oggi il bisogno della ricerca di senso, per stabilizzare l’instabile, per dare densità a un’idea, per poter lasciare un’impronta. Abbiamo scoperto l’Intensità delle emozioni, della paura, del dolore e della rabbia, che era nostra consolidata abitudine percepire in modo modulato, lasciare trasparire con parsimonia ai nostri stessi occhi, sublimandole e canalizzandole. L’incertezza e il carattere traumatico di quanto è avvenuto a livello globale ha esacerbato e inasprito la loro forza dirompente, portandoci a spendere molte energie per filtrarle e governarle; abbiamo assistito intorno a noi all’emergere esplosivo di queste emozioni negli altri. Le emozioni sono diventate pervasive ed esplosive, e guardandoci intorno abbiamo osservato una diffusa difficoltà a esprimere lietezza. Dalla scoperta dell’intensità delle emozioni deriva il bisogno di sollievo, di provare piacere, di riappropriazione del desiderio; abbiamo bisogno di recuperare la possibilità di narrare le emozioni, di renderle pensabili e osservarle con consapevolezza, di superare il duplice rischio di agirle nella loro prepotenza ovvero di soffocarle e nasconderle.
IL MANAGER GENERATIVO DÀ ALLE PERSONE OCCASIONI PER RACCONTARSI, PONE DOMANDE, RESTA IN ASCOLTO, SENZA GIUDIZI O CONSIGLI, MA IN UN SILENZIO ATTENTO Quattro scoperte, quattro rinnovati bisogni. Il manager generativo è quello che sceglie di prendersene cura. Per rispondere al rinnovato bisogno di sentirsi efficaci, di contrastare il senso di debolezza e inadeguatezza, di sentirsi riconoscibili, unici, visibili, il manager generativo crea generatività, costruendo la stimabilità delle persone, rivelandone la bellezza, offrendo loro occasioni di successo, sollecitando libertà di espressione, rendendo il contesto 94
forgiabile. Dà alle persone occasioni per raccontarsi, pone domande, resta in ascolto, senza giudizi o consigli, ma in un silenzio attento. Svela agli altri la loro bellezza, dimenticando l’imbarazzo che questa abitudine porta con sé, cercando quante più occasioni per essere specchio degli altri, aiutandoli a ricomporre un’immagine di sé solida e ricca.
ANCHE SE SA BENE COSA VA FATTO, COME E CON QUALI RISORSE, APRE AD ALTRI LA PARTECIPAZIONE AL PROCESSO DI DECISIONE
Per rispondere al bisogno di recuperare fiducia, di sentirci parte, di percepire il senso della nostra presenza nel contesto, di sentirci visti, utili, desiderati, il manager generativo custodisce i legami: è presente ma non presenzialista, riconosce quanto siano preziosi i legami fra le persone, li sollecita, organizza il lavoro in modo che le persone possano incontrarsi e aiutarsi reciprocamente. Incontra le persone, diventando ancora più accessibili, ma anche invita le persone a tessere relazioni potenti fra loro, senza sentirsene escluso. Dà valore al networking, a costruire nuove relazioni significative interne ed esterne al gruppo. Non chiede omologazione, favorisce il dissenso, lo accoglie, poiché sa che il consenso è frutto di confronto e divergenza, di intelligenza, non di compiacenza. Per rispondere al rinnovato bisogno di recuperare il senso delle cose, ristabilire ancoraggio alla missione professionale, recuperare la concezione dell’impatto del nostro agire sui contesti e sui risultati, il manager generativo sceglie di liberare autonomia: non si limita a dare compiti, ma ne esplora il senso, traghetta le persone al come iniziando dal perché. Nella quotidianità, anche se farebbe prima a dire “fai così”, introduce la lentezza del coinvolgimento. Quando assegna un compito, chiarisce alle persone gli impatti che il lavoro ha sul sistema, dà obiettivi e soprattutto
dichiara esplicitamente perché sta chiedendo questo proprio a quella persona, per quale sua distintività, per quale sua particolare capacità. Coinvolge le persone nella definizione dei passi operativi; anche se sa bene cosa va fatto, come e con quali risorse, apre ad altri la parte-
ESSERE MANAGER A DISTANZA HA DIFFUSO E CONSOLIDATO UN’ABITUDINE A TRASMETTERE IL SENSO DELLE COSE cipazione al processo di decisione. Per rispondere al rinnovato bisogno di riappropriarsi del desiderio, di narrare le proprie emozioni, di renderle pensabili e gestibili, il manager generativo sceglie di DIFFONDERE IL SOGNO: non si limita a presidiare le priorità del qui e ora, fa vivere le persone nel tempo della ricostruzione e del futuro, trasmette ottimismo, fiducia nella loro capacità di farcela, le coinvolge nell’immaginare le possibilità. Sa portare momenti di lievità e divertimento, cerca la speranza, propone occasioni per sfidare e chiedere contributi difficili e complessi, celebra i successi e accoglie gli insuccessi come occasioni. Diffondere il sogno significa anche compiere una grande rivoluzione semantica, rinunciando ai doverismi: devi diventa puoi, devo diventa voglio. Questo comporta un impegno significativo, perché modifica le fondamenta del linguaggio professionale, basato sul senso del dovere come valore. Il manager generativo sa che il senso del dovere, quello profondo, quello che ha a che fare con la motivazione e l’ingaggio, è fondato su una reale autocommittenza, non sull’obbedienza, e per diffonderlo e promuoverlo rinuncia a usare il linguaggio prescrittivo per aprirsi a un codice arioso, fondato sulle possibilità, le opportunità, i desideri, i bisogni, e in cui le parole chiave sono voglio, desidero, puoi, aspiriamo, possiamo, cerchiamo, sogniamo. Fra dicembre 2021 e gennaio 2022 quasi 1.000 manager del network di Richmond Italia hanno ricevuto
un dono: la possibilità di rispecchiarsi nella propria generatività attraverso un questionario di autodescrizione. Ognuno ha ricevuto un proprio report individuale. Qui desideriamo riflettere insieme sui risultati complessivi che sono emersi in questo grande gruppo, forse non rappresentativo della popolazione manageriale italiana proprio perché parte di un network caratterizzato dalla ricerca continua di riflessione, evoluzione, consapevolezza, aggiornamento, incontro. Manager maturi ed evoluti che si sono interrogati sul proprio modo di intendere oggi la propria mana-
HANNO SAPUTO DARE VALORE AL NETWORKING, ALLA COSTRUZIONE DI NUOVE RELAZIONI SIGNIFICATIVE INTERNE ED ESTERNE AL GRUPPO gerialità. Vediamo che cosa è emerso. La prima forte evidenza è che sia diffusa una piena espressione di managerialità generativa nella capacità di riconoscere e valorizzare l’autonomia delle persone. Il rinnovato setting di lavoro dato dal remote working ha favorito una reinterpretazione del proprio ruolo manageriale nell’assenza del monitoraggio ravvicinato, dello stare accanto, del confronto costante. Essere manager a distanza ha diffuso e consolidato un’abitudine a trasmettere il senso delle cose, a condividere gli obiettivi, a chiarire gli impatti che il lavoro ha sul sistema, a connettere ogni singola attività agli obiettivi cui essa tende, nella convinzione che le persone abbiano bisogno di sapere il perché delle cose e il modo in cui le proprie azioni si collocano nel contesto in cui avvengono, senza darlo per scontato. L’orientamento a stare sul perché delle cose prima ancora che sul come e sul cosa ha comportato la vividezza di un messaggio di fiducia nell’intelligenza più che nella compiacenza, nell’autocommittenza più che nell’adempitività, nella capacità delle persone di darsi un metodo, di assumere responsabilità decisionali, di agire e realizzare nella piena autonomia e nell’autoregolazione. I manager hanno saputo aprire agli 95
altri la partecipazione al processo di pensiero, ideazione, decisione, hanno scelto di affidarsi alle persone, sostenerle senza sostituirsi a loro, hanno saputo cogliere l’occasione di farle sentire portatrici di un contributo di valore, stimolandone la propositività, l’iniziativa, la consapevolezza di poter influenzare il risultato. La seconda evidenza è una estesa generatività nel custodire e sviluppare la dimensione relazionale, punto di tenuta fondamentale per i team e per le persone che hanno conosciuto, nell’emergenza prima e nel next normal poi, questo modo di lavorare inedito fatto di distanza e isolamento. I manager hanno saputo custodire i legami, riconoscendo quanto sia preziosa la prossimità fra le persone, organizzando il lavoro in modo che le persone possano incontrarsi, aiutarsi reciprocamente, cogliere quanto ognuno degli altri sia una risorsa per sé, scambiarsi informazioni e conoscenze. Hanno saputo dare valore al networking, alla costruzione di nuove relazioni significative interne ed esterne al gruppo. Hanno scelto di considerare obsoleti gli standard di comportamento o l’omologazione a un unico modello di approccio al lavoro, hanno voluto valorizzare le sfaccettature con cui ciascuno interpreta il proprio ruolo. La disponibilità a creare occasioni di intimità fra le persone, momenti di incontro dedicati alla cura e alla manutenzione delle relazioni, ha permesso di arricchire le connessioni, di costruire un clima di fiducia, fondato sull’apertura, l’ascolto, l’inclusione, di percepire il gruppo come un punto di riferimento. La capacità di custodire i legami può ancora crescere, in questo gruppo, attraverso una maggiore disponibilità a esplorare i canali emozionali, a parlare il linguaggio della commozione, del turbamento, della paura, della rabbia, ad ascoltare le proprie emozioni e quelle degli altri, a dare loro parole e spazio, affinché i legami si arricchiscano di una dimensione emozionale che è pervasiva nella vita di ognuno di noi e non può essere esclusa negli ambiti lavorativi. La terza evidenza riguarda le dimensioni relative a creare genera-
tività e diffondere il sogno. Anche in questo caso i manager hanno scelto di privilegiare un approccio di tipo generativo ma sono riusciti a farlo in modo meno pieno, profondo e compiuto di quanto non sia accaduto per le dimensioni autonomia e legami. Nell’espressione della capacità di creare generatività, i manager hanno saputo porre attenzione alla valorizzazione delle loro persone prima ancora che all’efficienza e al risultato, sono stati attenti a costruire le condizioni affinché ognuno si sentisse coinvolto e partecipe nelle decisioni e sollecitato nella sua capacità di utilizzare il pensiero e la creatività personale per formulare proposte. Si sono dimostrati disponibili a trovare tempi e spazi di ascolto individuale e collettivo. Al tempo stesso i manager hanno scelto in molti casi di privilegiare la chiarezza dei metodi a discapito della libertà d’espressione. Hanno privilegiato l’attenzione al controllo, alla supervisione e all’individuazione degli errori mettendo in secondo piano la ricerca della bellezza delle persone. Hanno preferito esprimere una posizione chiara invece di valorizzare il dubbio generativo, hanno dato risposte
DUE FUNZIONI GENERATIVE, DIFFONDERE IL SOGNO E CREARE GENERATIVITÀ, APPAIONO NEL COMPLESSO MENO PRESIDIATE E VALORIZZATE più che formulato domande. Anche nell’espressione della funzione generativa del diffondere il sogno, i manager hanno saputo dare spazio solo ad alcuni aspetti significativi. Ai loro collaboratori hanno saputo chiedere idee prima ancora che fatti, di realizzare risultati originati da un processo di ideazione consapevole e non meramente adempitivo. Hanno mantenuto aperto il canale della curiosità dimostrandosi attenti e disponibili a lasciarsi attrarre e coinvolgere dalle novità, dai cambiamenti, dalle opportunità di innovazione, dedicando tempo e attenzione ad aprire per i propri collaboratori spazi e finestre di osservazione non solo su ciò che già c’è ed esiste,
ma anche su ciò che ancora non è stato compiuto e realizzato e che può essere pensato e costruito insieme. Hanno saputo mobilitare le loro risorse di intelligenza emotiva per trasmettere entusiasmo, per diffondere attraverso un atteggiamento di ottimismo realista il senso della possibilità di fronte alle sfide e incoraggiare i propri collaboratori ad affrontare con attitudine positiva gli impegni e le difficoltà. Ci sono, anche in questo caso, diversi aspetti della funzione generativa “diffondere il sogno” che i manager dichiarano di essere riusciti a valorizzare e presidiare meno efficacemente. I manager hanno trovato in molti casi difficile utilizzare l’immaginazione e hanno preferito semplificare e ridurre la complessità. Hanno faticato a orientare la propria azione manageriale sul piano emozionale oltre che su quello dell’indirizzo realizzativo. Raramente hanno dedicato alla celebrazione dei successi uno spazio confrontabile con quello dedicato al presidio dell’operatività quotidiana. Sono, infine, riusciti raramente a investire risorse emotive e cognitive per intercettare e captare i segnali deboli capaci di rivelare i desideri non manifesti, limitandosi prevalentemente a rispondere alle esigenze e alle richieste esplicite dei propri collaboratori. In conclusione, i manager del network Richmond Italia hanno saputo trovare spazi cognitivi ed emotivi per attivare il loro potenziale generativo. Al tempo stesso due funzioni generative, diffondere il sogno e creare generatività, appaiono nel complesso meno presidiate e valorizzate. La sfida per i manager, in questo momento, è quella di consolidare il risultato raggiunto e riuscire a dare spazio ulteriore alle funzioni generative attualmente meno compiutamente espresse. È una sfida complessa che implica naturalmente anche riuscire a far cogliere in pieno ai propri stakeholders – in primo luogo i propri collaboratori diretti ma anche i propri responsabili – il valore e il potenziale di uno stile manageriale che integra e supera il più tradizionale assetto produttivo. Ciò che rende il viaggio del 96
cambiamento così difficile, possiamo dire con Otto Sharmer, sono le tre “voci interne di resistenza” che talvolta ostacolano il nostro accesso a espressioni più profonde e significative di noi stessi. Il primo è la Voce del Giudizio. Come sappiamo la creatività ha in primo luogo la sospensione del giudizio senza la quale non possiamo attivare il potere creativo di una mente aperta. Il secondo nemico è la Voce del Cinismo che genera atti di allontanamento emotivo impedendoci di disporci in una posizione di vera apertura e vulnerabilità verso l’altro, che è l’opposto del distanziamento. Il terzo ostacolo è la Voce della Paura che ci impedisce di lasciare andare le abitudini, anche quando sappiamo che sono inefficaci. Trattare queste paure e superarle è il cuore della leadership oggi: mantenere lo spazio per lasciare andare il vecchio e per lasciare venire, o accogliere, il nuovo.
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La storia di Maurizio
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La storia di Maurizio
Maurizio Pasquetti Marketing manager ECAMPUS
Le mie radici mi insegnano da sempre a non “perdermi” nel caos della città
Sono nato a Città di Castello, in Umbria, ormai quasi cinquant’anni fa. Ho sempre amato stare in mezzo alla gente e organizzare eventi: da adolescente ho fatto anche il deejay a tempo perso. Era un modo per incontrare persone e fare gruppo. Un bisogno che forse diventa più forte in posti difficilmente raggiungibili come il mio. La socialità è sempre stata per me una necessità. Fortunatamente il lockdown, grazie al lavoro, non l’ho patito molto. Insegno marketing all’università eCampus e contemporaneamente faccio loro consulenza. In questi anni di pandemia ho fatto la spola tra Città di Castello e Milano per tutto il tempo. Non mi sono mai fermato, ed è stata una cosa positiva.
il rapporto con la mia terra: non mi sentivo mai pienamente soddisfatto di quello che facevo, mi mancava sempre qualcosa. Per questo mi sono trasferito volentieri a Milano. La città è un motore che ti spinge a voler sempre di più, il che però è un’arma a doppio taglio. Ho visto tanti “perdersi” nel caos della città, insistendo a restare per anni in ambienti lavorativi estremamente stressanti e legati solo a budget e obiettivi da raggiungere. Così si rischia di perdere di vista le cose vere e autentiche della vita. Anche se vivo lontano da casa da vent’anni, quando mi chiedono di dove sono rispondo sempre di essere umbro. Anche l’accento mi tradisce, non lo posso proprio nascondere. Sono stati tanti i passaggi, lavorativi e personali, che mi hanno portato a staccarmi e riattaccarmi al mio territorio, come una molla. Ma probabilmente restare così attaccato alle mie radici, serie ed impostate, oneste e vere con le persone, è ancora ciò che mi permette di non perdermi. Prima della nascita di eCampus avevo incontrato, più di vent’anni fa, la delegazione di un’università di Teheran, venuta in Italia per confrontarsi sull’andamento delle proprie attività. Ci raccontarono che avevano nel proprio portafoglio studenti due milioni di persone in tutto l’Iran. La connettività che avevano a disposizione allora era in parte telefonica e in parte digitale. In Italia, nello stesso periodo, forse erano solo un migliaio gli studenti che studiavano on-line.
Vengo da una zona dove c’è una certa chiusura mentale. In molte parti dell’Umbria non arriva ancora il treno, il Frecciarossa si ferma a Perugia e basta. Ci sono due strade importanti: una in una direzione e l’altra che la incrocia. Il desiderio di evadere da questi limiti in me è sempre stato forte, così come la spinta a cercare un lavoro che potesse portarmi via da lì. Il nucleo originario di eCampus nasce in Toscana, a cavallo con l’Umbria, dove sono stato diversi anni a dirigere l’ufficio operativo. Mi trovavo benissimo ma sentivo che tutto, nonostante ci fossero le possibilità di cambiare, restava immobile. Non riuscivo a spiccare il volo. Ho sempre sofferto un po’ 99
La storia di Maurizio
Mi ritrovai quindi un po’ spaesato: ci sentivamo dei fenomeni nel grande Occidente, mentre questa delegazione iraniana, con tutti i limiti che aveva rispetto a noi, era già molto più avanzata. Tant’è che l’Europa a un certo punto ha dovuto spingere perché l’Italia iniziasse a fare formazione universitaria on-line e mettersi in pari con gli altri paesi. Le open universities, infatti, esistevano già in varie nazioni europee, ed erano particolarmente forti in Olanda e Francia. All’improvviso fu come se fosse caduto il mondo. Nelle università italiane sembrava impossibile rinunciare al professore in presenza e all’aula tradizionale, ma abbiamo dovuto farlo per forza. eCampus è stata la prima a dover operare solo telematicamente: per legge non potevamo fare lezioni in presenza, mentre le
Abbiamo iniziato a farlo vent’anni fa e abbiamo quindi un background forte da condividere. Servono fasi strutturate di ascolto, rielaborazione, controllo e confronto, che è la vera essenza dello studio on-line. Ma è costosissimo e molto più impegnativo per il docente. Per fare un esempio, il mio esame di Marketing Avanzato (che vale dodici CFU) comprende circa: 1500 chart di Power Point, 12 ore di girato, vari quiz ed esercitazioni intermedie, gli esoneri, il sistema di messaggistica on-line, il sistema modulatore (che gestisce gli eventi degli studenti e decide quanto dargli da studiare in base alla loro programmazione didattica) e tanto altro. Molti di questi strumenti ancora non esistono nella didattica a distanza proposta da scuole e università tradizionali, ma arriveranno. Secondo
NELLE UNIVERSITÀ ITALIANE ERA IMPENSABILE RINUNCIARE AL PROFESSORE IN PRESENZA E ALL’AULA TRADIZIONALE, MA ABBIAMO DOVUTO FARLO PER FORZA
me è solo una questione di età anagrafica: il nostro parco docenti è anziano, anche da un punto di vista metodologico, di connettività e utilizzo dei device. Le nuove leve sicuramente li useranno di più e non si tornerà più a fare tutto come prima. Tanti esami cominceremo a farli solo a distanza, magari lasciando la scelta allo studente.
università tradizionali potevano anche tenere corsi on-line. Per tanto tempo le università on-line sono state considerate istruzione di serie B, senza godere dello status di quelle tradizionali. Noi di eCampus sapevamo che prima o poi le cose sarebbero cambiate andando verso una formazione ibrida. Sarebbe già stato possibile farlo molto tempo fa, ma è dovuta arrivare una pandemia perché ce ne rendessimo conto.
Il problema vero è la socialità, che si è trasferita su questi “aggeggi” terrificanti che abbiamo sempre in mano. Il fatto che i ragazzi non telefonino, ma si mandino i vocali, crea una socialità asincrona. E anche lo studio soffre di queste dinamiche. Ciò crea grosse discontinuità, che sono in crescita, e che renderanno sempre più difficile la gestione della vita “dal vivo”. Devo ammettere che tutto ciò mi fa paura. Vedo i miei figli adolescenti fare danni nel momento in cui sono veramente insieme, perché lì esce fuori tutta l’energia che reprimono durante le ore passate on-line. La relazione “normale” dell’attività in presenza, in mezzo alla comunità, scarica energia. Stando fermi sul telefonino invece, i ragazzi accumulano vigore come una pentola a pressione. Questa è la difficoltà che, anche nello studio, dobbiamo prepararci a gestire sempre meglio, come docenti e genitori.
Allo scoppio dell’epidemia da Covid19 abbiamo messo a disposizione del Ministero dell’Istruzione la nostra piattaforma e tutti i nostri materiali di studio. I ragazzi non sono stati poi così vogliosi di consultarli, ma si è trattato di un gesto simbolico dal quale sono nate altre possibilità. Abbiamo colto l’occasione per creare una piattaforma di studio specifica per le scuole superiori, completamente diversa da tutto ciò che era disponibile fino ad ora. I professori hanno continuato a fare quello che facevano in classe, ma davanti a una telecamera. E i ragazzi hanno continuato a fare quello che si cerca di fare a scuola, ovvero non seguire nulla. Scherzi a parte, abbiamo sentito la responsabilità, in un momento drammatico come la pandemia, di mettere a disposizione la formazione per diventare docenti a distanza. È più difficile del metodo tradizionale e non può esserne la fotocopia.
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La storia di Maurizio
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La storia di Daniele
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La storia di Daniele
Daniele Mastelli Procurement & facility manager HILTI
Curiosità e un pizzico d’incoscienza, il mix perfetto per intraprendere nuove avventure
di riferimento fu la mia “mamma americana” che, nonostante vivesse in una situazione piuttosto difficile e per certi versi assurda, cercava nuovi stimoli ogni giorno. Questo approccio ha trovato terreno fertile nella mia giovane personalità, avevo appena sedici anni. Mi ha dato la spinta per aprirmi a nuove sfide e mettermi in gioco, restando aperto a tutte le opportunità che la vita mi riservava. Questo viaggio ha cambiato anche il mio modo di relazionarmi con le persone, in primis con la mia famiglia italiana, distante anni luce per via delle telecomunicazioni ancora molto limitate. Avevo solo una tessera telefonica con un codice di 48 cifre, che digitavo sul tastierino del telefono pubblico una volta ogni dieci giorni per parlare pochi minuti con i miei genitori. Tutto ciò all’inizio mi spaventò molto, ma mi aiutò anche a sviluppare delle relazioni vere con le persone. E questo mi tornò utile nel mondo del lavoro qualche anno più tardi.
Tutto è iniziato a sedici anni quando, con tanta curiosità e un po’ di incoscienza, decisi di fare un anno di studio in America. Fu mia madre a propormi a bruciapelo questa esperienza, e io presi la palla al balzo. Sono sempre stato alla ricerca di nuove sfide e opportunità. Paradossalmente, posso dire che mi piace l’incertezza, perché mi motiva ancora di più in quel che faccio. L’incoscienza però c’è stata, perché non sapevo davvero cosa aspettarmi. Stiamo parlando di venti anni fa: niente internet e comunicazioni a distanza molto limitate rispetto ad oggi. Questa esperienza, nella quale mi buttai a capofitto, cambiò completamente la mia percezione della vita e il mio modo di relazionarmi con le persone, sviluppando doti che poi mi sarebbero tornate utili sia nel lavoro sia nel privato. Per questo sarò sempre grato ai miei genitori che mi hanno dato lo stimolo e la possibilità di vivere questa avventura! Fui ospitato da una famiglia statunitense molto particolare, con quattro figli adottivi e tre ragazzi alla pari come me. Il padre, inoltre, era paralizzato dal collo in giù. Il mio punto
Come sono capitato nel procurement? Ho iniziato in Decathlon, dopo la triennale in Economia. Lì cominciai a fare contabilità e 103
La storia di Daniele
controllo di gestione, e dopo sei mesi il mio manager da allora mi chiese: “Cosa vuoi fare da grande?”. Inutile dire che io non ne avevo proprio idea. Mi raccontò che stava aprendo un ufficio di acquisti indiretti. Mio padre lavorava già in quell’ambito ma io ne sapevo poco o niente, così iniziai ad informarmi e scoprii che si trattava di acquistare tutto ciò che serve all’azienda per funzionare, al di là del prodotto o del servizio che vende. Scoprii che voleva dire relazionarsi sia con il mondo interno che esterno all’azienda, a tutti i livelli, su progetti e mercati diversi. Mi interessava, così iniziai a lavorare in questo ambito proprio in Decathlon, dove restai per otto anni. In seguito, passai a L’Oreal e poi in Hilti, dove sono assunto da tre anni. Hilti è una società che vende prodotti e servizi per
mio approccio alla vita è sempre: “Why not?”. Questo è stato lo stesso spirito che mi ha portato a lavorare negli acquisti indiretti, dopotutto. C’è poi un secondo paragrafo della mia vita che è legato al mio traguardo manageriale. Ho sempre lavorato nel procurement e fin dall’inizio sapevo di voler fare carriera, pur non cogliendone veramente il senso. Tutti i miei tutor mi dicevano che per diventare manager avrei dovuto imparare ad ascoltare le persone, mettermi a loro disposizione per farle crescere e dargli gli elementi per essere vincenti. Non è il manager a dover vincere, ma le persone che gestisce. Per essere un buon coordinatore devi prima di tutto permettere ai tuoi collaboratori di performare, offrendo loro gli ingredienti giusti
IL MIO PUNTO DI RIFERIMENTO FU LA MIA “MAMMA AMERICANA” CHE, NONOSTANTE VIVESSE IN UNA SITUAZIONE PIUTTOSTO DIFFICILE E PER CERTI VERSI ASSURDA, CERCAVA NUOVI STIMOLI OGNI GIORNO
l’edilizia, trapani e grandi attrezzi per le lavorazioni nel mondo delle costruzioni. Si tratta di una b2b che vende prodotti di alta gamma, utilizzati direttamente da chi lavora sul campo. Oggi sono Procurement & Facility manager in Hilti e parlo a qualsiasi livello, dall’amministratore delegato all’operaio che lavora in deposito. Tutti possono avere necessità in termini di acquisto in azienda, e per farlo bene è davvero fondamentale saper gestire lo stakeholder con il quale ti devi interfacciare. Questa cosa penso di averla imparata molto in America, cavandomela da solo e avendo a che fare con le persone più disparate. Il plus degli acquisti indiretti è gestire spese sempre diverse e in mercati sempre nuovi: dai contratti sui rifiuti alla logistica e al materiale IT, o alla relazione con le banche. Si lavora su temi, settori e interlocutori completamente diversi di volta in volta. Sicuramente anche questa attitudine alla versatilità è figlia dell’esperienza negli Stati Uniti, che ha alimentato la mia curiosità e il mio spirito di adattamento. Anche nella sfera privata vivo di passioni nuove ogni giorno: dalle più bizzarre, come la cucina barbecue americana o i corsi di sopravvivenza, al mondo dello sport, dove amo sperimentare sempre nuove discipline. Il
per crescere. Questa cosa all’inizio del mio percorso lavorativo la capivo solo in parte, forse proprio perché non ascoltavo abbastanza bene. Sette anni fa però nacquero le mie figlie e quella fu un’altra esperienza che cambiò profondamente qualcosa dentro di me. Soprattutto, mi insegnò ad ascoltare maggiormente i bisogni di chi avevo accanto, a casa come in ufficio. Nella crescita delle nostre bambine, mia moglie ed io abbiamo cercato non di dare loro soluzioni preconfezionate, ma quell’ingrediente in più che gli permettesse di diventare ciò che volevano. Poco dopo la loro nascita arrivò l’esperienza manageriale in Hilti, dove oggi gestisco un team di quattordici persone: alcune di loro sono giovani, altre hanno venticinque anni di esperienza in azienda. Questa è stata una prova fondamentale per imparare ad ascoltare i miei collaboratori e farli crescere sul lavoro. Oggi sono grato di dedicarmi alle persone, perché ho capito che il ritorno è molto più alto di quel che si crede. Quando chiudi un progetto da Project manager la soddisfazione è tanta, ma quando a chiudere quel progetto è un collega che tu stesso hai formato, allora è davvero straordinario. Sono consapevole di fare un lavoro che amo, e questo non può che essere per me motivo di orgoglio e felicità.
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GLI ESAMI
NON FINISCONO MAI Richmond Tips è un format di Richmond Italia nato nell’anno del lockdown. Abbiamo chiesto a speaker, coach, psicologi, trainer e consulenti nell’area Risorse umane di distillare un consiglio sul da farsi in un periodo difficile e sfidante come questo. Risultato? Più che pillole di saggezza, piccole leve per risollevare il mondo a partire da ciascuno di noi. Cerca tutte le Richmond Tips sul canale YouTube di Richmond Italia.
Roberto D’Incau
Felicità, management sostenibile e nuova leadership: sono questi i macrotemi da tenere sott’occhio in questo momento. (…) Le persone hanno una nuova percezione della felicità e cercano un nuovo equilibrio, un nuovo Work life balance. Si sono rese conto, soprattutto negli USA, che dedicare tutta la propria vita al lavoro forse non è il caso.
Francesca Sollazzo
Facciamo ordine, liberiamo spazio, eliminiamo il superfluo, fissiamo le priorità. Scegliamo. (…) Siamo disposti a sacrificare tutto per il dovere. Mentre il piacere diventa una cosa sacrificabile, di cui possiamo fare a meno. Troppi devo e pochi voglio. Questo, lentamente, può impattare sul nostro ingaggio rispetto alle attività in cui siamo coinvolti tutti i giorni come persone e come professionisti.
OPENING SPEAKER
Veronica De Romanis 106
Spendere bene, presto e soprattutto in maniera onesta Per l’Italia è il momento di serrare i ranghi
Veronica De Romanis ha studiato economia all’Università La Sapienza di Roma e alla Columbia University di New York. È stata membro del Consiglio degli Esperti presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Attualmente insegna Politica economica europea alla Stanford University (The Breyer Center for Overseas Studies) a Firenze e alla Luiss Guido Carli di Roma. È autrice del Metodo Merkel (2009) e del Caso Germania (2013), entrambi usciti per Marsilio. Ha il piglio sicuro degli esperti che sanno parlare di cose difficili in modo nitido e accessibile. A lei è stato affidato il compito di aprire, al Teatro Novelli di Rimini, l’edizione 2021 di Richmond Finance director forum. Tema: il governo Draghi fra emergenza e ripresa, le debolezze dell’economia italiana, la crisi pandemica e gli strumenti europei. Il suo racconto degli scenari socio-economici scorre limpido, anche perché De Romanis si presenta come ben informata sui fatti e ben introdotta negli ambienti di governo. In estrema sintesi, ha detto che il momento per il sistema Paese è positivo, ma bisogna serrare i ranghi: le parole chiave sono sforzo collettivo, consapevolezza e riforme.
erano andate ben oltre. Il gap principale, su cui Draghi insiste molto, è quello della produttività del sistema: negli ultimi vent’anni la produttività si è arenata nella stagnazione, ed è proprio su questo fronte che le riforme possono incidere in modo rilevante. La produttività, ha spiegato De Romanis, è quella totalità di fattori che concorrono a generare un parametro di misurazione usato dagli economisti per definire il contesto in cui operano le imprese. Ci fa capire quanto sia attrattivo il contesto d’azione per imprese e investimenti, e include fattori come l’efficienza del sistema giudiziario, dei servizi e della Pubblica amministrazione. Nell’ultimo ventennio, la produttività italiana ha perso 6 punti, proprio mentre molti altri Paesi hanno invece registrato un miglioramento. Un altro tema caro a Draghi è quello dei giovani, secondo la definizione di Angela Merkel “una generazione persa”. Una generazione sospesa fra lezioni in DAD e lockdown pesanti. Nel 2007 il rischio di povertà era lo stesso degli anziani ma da allora c’è stata una divaricazione. Si è speso molto in previdenza (siamo primi in Europa) ma molto poco in sanità e soprattutto molto poco nelle politiche sociali, cioè le misure che aiutano i giovani e le famiglie. Citando il premio Nobel per l’economia Stiglitz, De Romanis ha detto che “la disuguaglianza è una scelta”. E ha aggiunto: “Secondo
De Romanis è partita dalla definizione di paese “fermo e disuguale”. Sono parole del premier Mario Draghi, da lui usate nell’introduzione al documento del PNRR. Queste due parole sono
IL PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA STIGLITZ HA DETTO CHE LA DISUGUAGLIANZA È UNA SCELTA. I POLITICI DOVREBBERO METTERSI QUESTA SLIDE SUL FRIGO
una fotografia che racconta vent’anni di declino che hanno preceduto la crisi pandemica. Un Paese fermo e disuguale che di colpo si trova di fronte a una chance straordinaria, che nessun governo prima di questo si è nemmeno potuto sognare. Questa opportunità comporta per il governo in carica un carico di responsabilità senza precedenti. I numeri citati da Draghi sono tanti e purtroppo non positivi, a partire dalla crescita del PIL assai distante dalla media UE. Nel 2018 l’Italia non aveva ancora recuperato il reddito pro capite precedente alla crisi globale del 2007 (Lehman Brothers), mentre c’era riuscita la Spagna, e Francia e Germania
me, i politici dovrebbero mettersi questa slide sul frigo.” Questo è il Paese che si è trovato nel 2020 ad affrontare di petto la crisi della pandemia. L’Italia ha speso molto a debito, aumentando di 21 punti il debito pubblico, seconda solo alla Grecia. Il rapporto debito/PIL viaggiava sul 130%, contro una media europea del 90% (Germania 60%). Ha speso molto, eppure il PIL è crollato del 9%. Perché? Perché abbiamo generato molto debito cattivo. Il governo Conte ha speso 110 miliardi per bonus e ristori, il governo Draghi altri 70. Fanno in tutto 180 107
miliardi, ma la Corte dei Conti ha detto che il 50% di questi soldi non è andata alla parte che più ne aveva bisogno. Si sarebbero dovuti selezionare maggiormente gli interventi. Dare tutto a tutti non è stata una buona idea.
e Portogallo. Come ha detto il premier Draghi, “Se cadi molto in basso, poi risali molto in alto.” De Romanis ha proseguito la sua analisi parlando di mercato del lavoro. Una volta rimossa la rigidità del blocco dei licenziamenti, non si è registrato un effetto “stratosferico”, piuttosto si è evidenziata l’iniquità, che vede tutelati gli insider e esposti ai contraccolpi senza difese gli outsider. Bisognerebbe mettere in campo politiche del lavoro specifiche per lavoratori autonomi e lavoratori inattivi, ossia usciti dal mercato del lavoro. Bisogna convincerli a tornare a cercare attivamente il lavoro. Un passaggio è stato dedicato a Quota 100. De Romanis ha ricordato l’obiettivo con il quale ci era stato introdotto il provvedimento: incentivare la
De Romanis ha fatto riferimento al record italiano di famiglie in povertà assoluta: 2,5 milioni. Nel 2021 abbiamo avuto 5,6 milioni di poveri. Come contromisura al Covid, abbiamo attivato il blocco dei licenziamenti. Anche Grecia e Spagna l’hanno fatto, ma per periodi più brevi. Gli altri Paesi europei non l’hanno fatto. La misura è difficile da valutare. La sua rigidità non consente alle aziende di riorganizzarsi e alle persone di fermarsi. La rigidità è una soluzione che dovrebbe servire a prendere
LA RIGIDITÀ È UNA SOLUZIONE CHE DOVREBBE SERVIRE A PRENDERE TEMPO, MA SE INVECE SI PERDE TEMPO, ALLORA IL PROBLEMA TORNERÀ PIÙ FORTE DI PRIMA
staffetta generazionale, facendo entrare nel mercato del lavoro tre giovani ogni volta che un anziano ne uscisse. Ma il mercato del lavoro non è una torta fissa. Obiettivo di una classe politica dovrebbe essere quello di farlo crescere, e non di presumere un’economia ferma. E poi c’è un problema di costi, anche se la riforma dovesse essere eliminata. L’impatto di Quota 100 andrà avanti a lungo, con un picco nella spesa previdenziale nel 2035. L’Italia è il fanalino di coda per tasso di occupazione. Abbiamo bisogno di più persone nel mercato del lavoro, altrimenti il nostro sistema pensionistico salterà. “Non è così che si fa crescere
tempo, ma se invece si perde tempo, allora il problema tornerà più forte di prima. Una cosa è certa, l’Italia ha sofferto e soffre di una crisi che è anche strutturale, non solo legata all’emergenza. L’Europa ci ha messo a disposizione Next generation EU. Fra gli strumenti urgenti c’è il SURE. L’Italia ha preso più debito europeo di altri Paesi, siamo in compagnia dei Paesi mediterranei e dell’Est Europa, per intenderci, nel gruppo dei deboli. I 26 miliardi di euro del SURE costano meno in termini di tassi di interesse. Però sempre debito sono, e andranno a impattare sul nostro deficit di bilancio. Un altro esempio di spesa non oculata è stata la
ABBIAMO BISOGNO DI PIÙ PERSONE NEL MERCATO DEL LAVORO, ALTRIMENTI IL NOSTRO SISTEMA PENSIONISTICO SALTERÀ un’economia.” Resta da capire come un governo con tante anime diverse come quello attuale riuscirà ad affrontare questo nodo.
creazione dei Centri per l’impiego. Si è speso tanto, forse male, e con procedure rigide. Però questo è il passato. Negli ultimi 3-4 mesi l’emergenza sta rientrando anche se bisogna essere estremamente prudenti, e non è facile capire se si tratti di un rimbalzo congiunturale o di una ripresa strutturale. Il trend positivo potrebbe sgonfiarsi come un soufflé. Secondo De Romanis, il contesto si presenta estremamente favorevole: vaccini disponibili in poco tempo, politiche monetarie e fiscali espansive, inflazione sotto controllo e aiuti europei rapidi senza “austerità”, forte crescita del PIL nel II trimestre. Il Ministro Franco si è dichiarato apertamente molto ottimista alla luce di un dato della crescita intorno al 6%. Ci si aspettava un rapporto debito/PIL del 160%, e invece sarà inferiore: l’Italia avrà fatto meglio di Francia e Germania, e meno bene di Spagna
Al dossier del lavoro si collega la questione del reddito di cittadinanza, una misura costata 10 miliardi. Era una misura necessaria e ha certamente avuto un impatto sulla povertà. Ma è stata disegnata molto in fretta e sulla sua efficacia ci sono molte riserve: il 56% delle famiglie in povertà assoluta non lo percepisce, così come non ne sono interessati gli immigrati, visto che è richiesta la cittadinanza da almeno dieci anni. Le povertà maggiori sono localizzate al Nord, ma il reddito va prevalentemente al Sud, ed è uguale, ossia non tiene conto del divario del costo della vita. Inoltre non sembra aver stimolato la crescita dell’occupazione. Solo un beneficiario su quattro ha trovato lavoro. 108
Fra i temi più spinosi, quando si parla di riforme, c’è quello del fisco. Non esiste niente di più politico delle tasse. Le proposte sul tavolo sono sempre tante, la volontà di procedere scarsa. Ed è un po’ quello che succede con la riforma degli ammortizzatori sociali. Ci sono stati continui rinvii, e di fondo è mancato l’accordo. Il costo di questa riforma è stimato in 8 miliardi di euro. Il problema è chi deve sostenerlo. Chi paga? Le imprese e i contribuenti di oggi? Le imprese e i contribuenti di domani tramite il debito pubblico? Entrambi? E dov’è finita la spending review, si chiede la De Romanis? Unione monetaria significa che abbiamo una sola moneta ma sappiamo che i Paesi membri non condividono la politica monetaria, quindi servono regole chiare. Bisognerebbe cominciare a pensare a
raccomandazioni, appare chiaro che si tratta di una sfida per il Sistema Paese, non solo di cambiare modello economico. Nell’UE, il 68,8% delle donne lavorano o cercano attivamente lavoro. In Italia questo dato scende al 56%! E con la pandemia il dato è peggiorato ulteriormente. Nel 2020 sono stati persi 450mila posti di lavoro, di cui il 70% erano occupati da donne. Secondo l’Europa, più donne sul mercato del lavoro vuol dire più crescita e meno disuguaglianza. Mamme single con bambini a carico significa nuovi poveri. E poi occorre considerare il fattore demografico. Negli anni ’60 si registrava un anziano per ogni bambino. Nel 2019 siano arrivati a cinque anziani per ogni bambino. Intervenendo sull’occupazione femminile, la demografia migliora. Lo dimostra
BISOGNEREBBE COMINCIARE A PENSARE A UNA SPENDING REVIEW DI LUNGO RESPIRO, CHE NON DEVE ESSERE AFFIDATA A TECNICI MA A POLITICI
una spending review di lungo respiro, che non deve essere affidata a tecnici ma a politici. Questo tipo di operazioni funzionano quando sono affidate al Ministero dell’Economia, che ha il potere di decidere dove e quanto spendere, e dove e quanto tagliare. Il punto è che dai tempi del governo Monti in Italia nessuno ha più fatto austerity.
il caso della Germania, che dando lavoro alle donne, ha invertito la curva demografica in cinque anni. E noi in Italia? Abbiamo dato un bonus per il terzo figlio. E nel 2021 abbiamo istituito l’assegno universale. Ma l’Italia non è ricca come la Germania, non è una misura congrua. E il PNRR, come va incontro a queste richieste? L’aumento atteso dell’occupazione femminile è modesto, +3,7% nel 2026. Si poteva fare molto di più. Soprattutto se si pensa al tema della “generazione sospesa”, i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training). L’Italia ha un problema serio con la quantità e la qualità dell’istruzione. Il numero dei diplomati è
De Romanis ha di nuovo citato Mario Draghi, che ha definito il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza un’occasione imperdibile per una crescita inclusiva e sostenibile. L’Italia riceverà complessivamente 191,5 miliardi di euro.
L’ITALIA HA UN PROBLEMA SERIO CON LA QUANTITÀ E LA QUALITÀ DELL’ISTRUZIONE Siamo stati l’unico Paese ad aver chiesto subito 120 miliardi di prestiti e 60 di sussidi, altri Paesi sono stati più cauti e hanno chiesto solo sussidi, come Spagna e Germania. La straordinarietà del Piano, come ha rilevato il Commissario Gentiloni, è che non ci sono condizionalità. L’Europa si è limitata ad approvare un cronoprogramma stilato dall’Italia. Il programma è ambizioso. La domanda è: riusciremo a spendere tutti questi soldi, vista anche la tradizione italiana di insuccesso nella spesa dei fondi europei? È la scommessa del momento.
molto lontano da quelli degli altri Paesi UE. Ma i fondi assegnati agli istituti tecnici secondari e all’apprendistato duale sono molti scarsi. Le riforme, ha incalzato De Romanis, presentano un costo politico elevato. Quello che succede è che i politici sanno quali riforme bisogna fare, ma non le fanno per non perdere le elezioni. Investire non basta. Occorre fare riforme abilitanti e ristrutturare le politiche attive. Bisogna considerare i provvedimenti non solo al vivo delle spese, ma includere anche i costi della fase di manutenzione. Ed è molto importante concepire piani di spending review sul lungo termine. Naturalmente, riformare non vuol dire solo tagliare i costi, bisogna anche ricomporre. Bisogna assegnare più risorse ai giovani, più risorse al welfare e meno risorse al prepensionamento. Che cosa ci
Come ci chiede di spendere l’Europa? 1. Transizione verde. 2. Transizione digitale. 3. Occupazione femminile e riequilibrio di altri divari dell’occupazione (Nord/ Sud, giovani/anziani). L’Europa ci chiede di ridurre questi divari. Se consideriamo queste 109
era al 3%, la disoccupazione aveva superato la soglia psicologica dei 4 milioni di disoccupati. Schroeder si oppose all’Europa, e anche in seno all’Ecofin ci fu uno scontro fra Prodi e Tremonti. Alla fine, alla Germania fu accordato più tempo. Però Schroeder fece ciò che aveva promesso. Introdusse regole più leggere nel mercato del lavoro, e per questo perse le elezioni.
aspetta in Europa, si è interrogata De Romanis? Il premier Draghi conosce bene i meccanismi europei, ma sa anche che è uscita di scena la Merkel, colei che ha caldeggiato il pacchetto Next Generation. Se l’Italia si siederà al tavolo con un debito che non scende, si sentirà dire che non ha fatto i compiti a casa. Fra i fattori di rischio che cominciano a profilarsi ci sono i problemi di approvvigionamento, la scarsità dei semilavorati e l’inflazione.
L’Italia, per entrare nella moneta unica, aveva risparmiato, ma poi, di nuovo ha allentato la presa del rigore e non è riuscita a proseguire sul cammino virtuoso. Noi non siamo cresciuti perché non abbiamo sfruttato fino in fondo i vantaggi della moneta unica e perché abbiamo sprecato le economie sui tassi del debito. Una delle raccomandazioni ricorrenti dell’Europa al
De Romanis ha parlato di “Momento Italia”, ossia di una fase estremamente favorevole per il Paese. “Stiamo crescendo più degli altri, ma questo comporta anche un punto di responsabilità di tutti. Dobbiamo rimboccarci le maniche e cambiare il sistema economico,
COME POSSIAMO PRETENDERE CHE LE COSE CAMBINO SE POI SONO SEMPRE GLI STESSI A TORNARE AL POTERE?
superando vent’anni di declino.” Per fare questo, è necessario un sentire condiviso e lo sforzo di tutti. Nel 2023 ci aspettano le elezioni politiche. Ed è naturale che gli elettori si pongano la domanda: di chi è stata la responsabilità di quel declino? La verità è che la maggior parte dei responsabili siede al governo. E come possiamo pretendere che le cose cambino se poi sono sempre gli stessi a tornare al potere? Domanda di difficile risposta.
nostro indirizzo è di ridurre la pressione fiscale, semplificare il regime fiscale e combattere l’evasione fiscale. L’Italia registra uno dei tax gap più elevati, e si calcola che un terzo sia dovuto all’IVA. A queste richieste abbiamo reagito con messaggi molto discordanti. Prendiamo per esempio il balletto sul contante. Prima abbiamo ridotto la soglia di contante consentito, poi di nuovo aumentato… È mancato un messaggio chiaro.
NOI NON SIAMO CRESCIUTI PERCHÉ NON ABBIAMO SFRUTTATO FINO IN FONDO I VANTAGGI DELLA MONETA UNICA È PERCHÉ ABBIAMO SPRECATO LE ECONOMIE SUI TASSI DEL DEBITO
De Romanis ha concluso che se fosse al governo, seduta al tavolo del negoziato europeo per le regole fiscali, proporrebbe un approccio modulare alla classificazione della spesa a debito. Dipende per che cosa si spende. Sarebbe interessante distinguere fra investimenti in capitale fisico e investimenti in capitale umano, e decidere che gli investimenti del secondo tipo, segnatamente in istruzione e formazione, non debbano portare alle procedure di infrazione delle regole.
Il Metodo Draghi implica una visione a lungo termine, una valutazione di impatto delle risorse e una selezione di come impiegarle. Possiamo anche chiamarlo metodo della verità. Questo metodo, secondo De Romanis, non è stato applicato alla spesa dei primi 20 miliardi. Non c’è stata una valutazione d’impatto. Non è stato adottato un modello economico. Non ci sono state stime basate sui dati e non su fattori come “un imprenditore mi ha detto”. Il nostro caso può ricordare il caso della Germania nel 2003. L’Economist la defini il “sic man of Europe”. La crescita era bloccata, il disavanzo
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Arturo Di Corinto. Opening speaker Richmond Cyber resilience forum 2021.
FACCIAMO MURO CONTRO LE MINACCE
Grandi speaker. Agenda di incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per abbracciare l’innovazione senza timori. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il potenziale
RIMINI 15-17 MAGGIO 2022
dell’azienda e quello personale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi mcarnevale@richmonditalia.it
Corpi alla riscossa È stato bello. Nel 2021 siamo riusciti a realizzare in presenza tutti gli eventi che avevamo a calendario. Rivedere volti noti e conoscere persone nuove, stringere mani e abbracciarsi (o qualcosa di simile), ascoltarsi, guardarsi, mangiare insieme, discutere… siamo tornati a fare tutto questo. Una volta lo davamo per scontato, ora non più. In questo periodo ho ri-scoperto l’importanza dei corpi. Non posso dire che sia stata una scoperta improvvisa. Da anni frequento il laboratorio teatrale di Francesca Contini, e lì abbiamo tutti capito bene quanto si debba esercitare il corpo per poter trasmettere emozioni, comunicare, e non solo in modalità inconscia. Passare dal movimento all’azione, si dice. Ma un conto era farlo come esercizio teatrale, un altro è stato scoprire quanto il nostro corpo sia importante nella vita di tutti i giorni. Accorgermi di quanto mi fossero mancate le mani, i sorrisi, la vici-
nanza dei corpi degli altri, il loro odore, la ruvidezza o morbidezza dei loro gesti, il colore dei loro sguardi, la musica del loro respiro, il pulsare dei loro cuori… Una vera scoperta. Per questo mi piace pensare al 2021 come all’anno della riscossa dei corpi. Liberi da stereotipi, da mode, dalla necessità di essere esteticamente belli – e proprio per questo belli davvero, nella loro imperfezione, nei loro limiti, nella loro rigidità o al contrario, a volte, nella loro esagerata ostentazione. Nel mese di ottobre del 2021 siamo riusciti ad andare in scena con il nostro spettacolo al teatro Rondinella di Sesto San Giovanni. Il progetto ha preso spunto dal testo di Samuel Beckett L’ultimo nastro di Krapp, del 1958. Krapp è ossessionato dalla memoria della sua vita registrata con un magnetofono, oggetto entrato in uso proprio in quegli anni. Ogni giorno, chiuso nella sua stanza, in un gioco di specchi claustrofobico, Krapp registra e riascolta una sorta di diario. Ciascuno di noi – eravamo in otto – abbiamo scritto e recitato un monologo che pescava nella memoria intima, innestandola nel corpo. Al magnetofono abbiamo sostituito altri “supporti” fisici o mentali. Ho chiesto a Francesca di raccon-
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tare la genesi del lavoro. “Confinati su zoom abbiamo fatto l’unica cosa che ci sembrava possibile sopportare: spegnere le telecamere e affidarci alla narrazione. In un primo momento ci siamo lasciati andare ad improvvisazioni che potessero costruire dei personaggi. Ne sono emersi mondi interessantissimi. A dire il vero, abbiamo anche acceso le telecamere, a tratti, per eseguire, ogni volta un lavoro fisico e inventando una sequenza di movimenti che ognuno dei partecipanti praticava come una danza collettiva a distanza. Danza che poi, nel lavoro in presenza successivo, ognuno ha avuto il compito di integrare nel lavoro fisico del proprio personaggio. Quando abbiamo finalmente potuto ritrovarci in presenza, avevamo creato una danza ben memorizzata, dei monologhi ben strutturati e delle idee piuttosto chiare sulla direzione che ciascun personaggio avrebbe dovuto prendere. A questo punto sono esplosi i corpi e la loro voglia di occupare lo spazio.” Corpi. Non è certamente tutto ciò che siamo, ma è una parte di noi percepibile con tutti i sensi, ingombrante, pesante, eppure anche leggiadra, che la pandemia aveva imprigionato e che io ho avuto modo di ritrovare, in me e negli altri. Alle lettrici e ai lettori di questo numero di Reach voglio mandare un abbraccio forte, vigoroso e duraturo.
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Non è come tirare i dati e sperare nella fortuna. Per giocare la partita in modo attivo, occorre ascoltare, osservare e riflettere, combinando valori come la consapevolezza , il cambiamento e l’equilibrio. Occorre ibridare modelli ed esperienze, e provare, e riprovare, e provare ancora. Progettare il futuro è uno sport meraviglioso. Ci si allena a migliorare il presente. Si impara ad avere fiducia, a competere più strenuamente senza rinunciare alla responsabilità. Non stare a guardare: scegli il tuo Richmond forum 2022.
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