Powered by #09 Dicembre 2023 Anno VI
MANAGER DEL FUTURO
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MANAGER DEL FUTURO
REACH - MANAGER DEL FUTURO powered by BULLONE Richmond Italia via Guglielmo Silva 22 Milano 20149 info@richmonditalia.it richmonditalia.it @richmonditalia @richmond_italia Bullone via Luigi Porro Lambertenghi 7 Milano 20159 fondazione@fondazionenear.org bullone.org @bullonefondazione Il Bullone
REACH è stato ideato e realizzato dal Bullone Dicembre 2023 - Anno VI - Numero 09 In copertina: Stefano Mancuso, fotografato da Paolo Tosti Concept: Bullone Redazione: Stefania Spadoni Direttrice creativa e Photo editor, Francesca Bazzoni Responsabile editoriale, Elisa Legramandi Art director, Eugenio Alberti Autore Hanno collaborato: Jacopo Di Lorenzo, Nicola Capitani, Cristiano Misasi Si ringraziano per i contenuti visivi: Alessia Merli (illustrazione pag 4), Chiara Bosna (illustrazioni pagg 7-8), Stefania Spadoni (fotografie pagg 39 e 87), Stefania Spadoni e Sandra Riva (fotografie degli intervistati), GoodHabitz (fotografie e illustrazioni pagg 76-77), Paolo Tosti (fotografie pagg 120-123 e fotografie VOP), Antonella Ficarra (illustrazioni pagg 96-99, grafiche ADV e pagine istituzionali Richmond Italia)
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Editoriale Claudio Honegger Amministratore unico Richmond Italia
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VOP - Very Open People Salvatore Carollo e Stefano Mancuso
Il manifesto del Bullone
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Marco Guazzoni - Vibram Direttore della sostenibilità
Che cos’è Reach
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Giovanni Sicignano - Doppel farmaceutici Responsabile automazione
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Un alfabeto per capire il futuro Richmond Italia
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Mariateresa De Sanctis Green Manager Lab Founder
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Stefano Zaccaria Toyota Material Handling Italia Marketing director
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Profit meets non profit Bullone e GoodHabitz
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Manuel Manotti - Atlante Consulting Sales Director & ESG Expert
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Mauro Saba - Welcome Account manager
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Chi trova un partner, trova un tesoro Altea
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Vincenzo Cacciapaglia - Ariston Group Group WCX senior director
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Bouchra Tinbihi - S3K Marketing and costumer relationship
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Vincere e perdere - Andrea Balestreri
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Reach ospita Il Bullone Cosa sono gli ESG
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Rosanna Colli e Alice Freschelli - Equita Head of facility e Facility manager
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Pier Francesco Pozzetto - Facility Gest Socio
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Il mio forum Richmond Italia a Gubbio
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Raccontare la vita - Giusy Grosso
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Matteo Bozzetti - M-HC Partner
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Chi trova un partner, trova un tesoro Jaguar Land Rover Italia
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Reach ospita The Map Report Un nuovo umanesimo della biotecnologia alimentare?
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VOP - Very Open People Suor Anna Alfieri e Davide Rampello
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Enrico Finotto - Panther Plant innovation & IT director
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Chi trova un partner, trova un tesoro Lavazza
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Kevin Mohajur Jogun - T.G.R. Lean manager
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Dalila Russotto - Seta Beauty Graphic Designer
Mario Maduli - Fidia Farmaceutici IT project manager & Applications analyst
VOP - Very Open People Nicoletta Romanazzi e Romano Cappellari
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Meet the B.Liver Elisa Calabretta
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The Bookmaster The power of love
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Anna Juricic Coaching system
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Paolo Tosti’s Eye Osservo, dunque sono
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Illustrazione di Alessia Merli
Quando i confini si spostano nascono nuove frontiere Caro lettore, non sempre ci rendiamo conto delle fratture che costellano il cammino della civiltà. Prendiamo l’ostilità di Socrate e del suo allievo Platone contro l’affermarsi della scrittura, che avrebbe dato un colpo di piccone alla vera cultura, quella orale. Nel V secolo avanti Cristo in Grecia la cultura stava passando da orale a scritta, e nessuno avrebbe mai potuto fermare questo processo. I benefici erano troppo evidenti. La diffidenza delle classi colte nei confronti della scrittura era un paradosso: mentre Platone osteggiava apertamente l’avvento della scrittura, in realtà ne beneficiava a piene mani. E non ne beneficiò solo lui: si liberò un’immensa quantità di energia, e le menti, grazie alla memorizzazione alfabetica su un supporto esterno, invece di dedicarsi a operazioni mnemoniche di dati e informazioni noiose e ripetitive – potevano dedicarsi ad altro, dando un impulso straordinario al sapere. Direi che la storia si ripete. Quando si parla di AI, qualcuno evoca rischi apocalittici e manipolazioni da Grande Fratello. Altri fanno spallucce. Io sono un uomo pragmatico, e cerco le cose che possano far bene al business della mia azienda nel senso più lato – anche evolutivo e di pensiero. In questo, so di essere in buona compagnia con imprenditori e dirigenti che frequentano i nostri forum di Rimini e Gubbio. Questo mi porta a considerare gli effettivi margini di incertezza, e dunque di rischio, che oggi il proliferare a grappolo delle tecnologie AI ci riserva. Ma nello stesso tempo a non voler rinunciare al fattore di progresso che effettivamente rappresentano su scala globale. In questo senso condivido le parole di Bill Gates, che ipotizza l’ascesa di nuove startup nel mercato a fare ombra ai colossi tecnologici come Amazon e Google. Saranno loro verosimilmente il futuro, coloro che creeranno gli agenti personali che studieranno al nostro posto il mondo (“leggeranno le cose che noi non abbiamo il tempo di leggere”). Noi dinosauri, nella migliore delle ipotesi, potremo al massimo cercare di incorporare le tecnologie AI nei prodotti e nei servizi esistenti. Che comunque non è poco. Ognuno si regolerà come crede – apocalittici, integrati o pragmatici. Resta il fatto che stiamo vivendo un momento straordinario non solo per il mercato ma per la civiltà. Certe volte mi pare di sentire il rumore di interi confini del sapere che si spostano. Richmond Italia si è data un doppio compito: far incontrare la domanda e l’offerta, e cercare di intercettare il futuro almeno un millesimo di secondo prima che accada. Non potevamo certo stare a guardare con le mani in mano. Vi aspetto nel 2024 a Gubbio per la prima edizione di Richmond AI business forum, un ottimo modo, mi pare, per festeggiare i trent’anni di Richmond Italia.
Claudio Honegger Amministratore unico Richmond Italia chonegger@richmonditalia.it
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Il manifesto del Bullone Siamo una fondazione non profit che attraverso il coinvolgimento e l’inclusione lavorativa di ragazzi che hanno vissuto o vivono ancora il percorso della malattia, promuove la responsabilità sociale di individui, organizzazioni e aziende. I ragazzi si chiamano B.Liver e la loro esperienza genera il Bullone, un nuovo punto di vista che va oltre il pregiudizio e i tabù verso uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile. Bullone è pensiero: un giornale, un sito e i canali social, i cui contenuti sono realizzati insieme a studenti, volontari e professionisti per pensare e far pensare. Bullone è azione: esperienze con i B.Liver, progetti di sensibilizzazione, lavoro in partnership con aziende. Bullone è un’academy: organizza per i B.Liver attività, interviste e incontri, formazione e laboratori, approfondimenti e svago. Bullone fa sensibilizzazione attraverso visionari progetti artistici, viaggi temerari, storytelling, esperienze e incontri che uniscono realtà diverse in percorsi originali. per l’unicità Bullone lavora in partnership con aziende che credono nel suo sguardo, ironico, profondo e fuori dalle convenzioni, per sviluppare e realizzare progetti di comunicazione, eventi formativi e nuovi prodotti.
Bullone Jewel Il nostro simbolo racconta di un’energia che ci unisce e ci fa andare oltre. Oltre la malattia, oltre i pregiudizi, oltre le apparenze, consapevoli che in questo percorso corriamo insieme. Lo puoi comprare sul nostro e-shop!
Interviste pazzesche Negli anni Il Bullone ha dato vita a inchieste e interviste esclusive, durante le quali i B.Liver si sono confrontati con grandi personaggi del panorama nazionale e internazionale su temi come la pace, la sostenibilità, la cura e la lotta alle discriminazioni. Tra alcune delle conversazioni più emozionanti, quella con Beppe Vessicchio, direttore d’orchestra, compositore e personaggio televisivo. I B.Liver l’hanno incontrato durante YouTopic Fest, il Festival Internazionale sul Conflitto, organizzato da Rondine e insieme hanno parlato di musica, di vita e delle magiche combinazioni armoniche che si celano negli angoli nascosti dei nostri vissuti, perché nella musica il concetto di pace è il presupposto per una giusta armonia.
Giornalismo sociale Il Bullone ha ricevuto il riconoscimento dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia che infrange le regole e per ottantaquattro giornalisti del Bullone (anche per chi da sempre lo fa come volontario) ha rilasciato i tesserini di giornalista pubblicista ad honorem per l’impegno sociale e la sensibilizzazione che ognuno di noi, sia chi percepisce uno stipendio, sia chi no, ha messo in ogni singola parola degli articoli che ha scritto. Ci sono anche quattro tesserini speciali realizzati per Eleonora Papagni, Alessandro Mangogna, Leonardo Ghilardi e Andrea Balconi che, chissà, forse continuano a scrivere da sopra le nuvole con la passione che sempre li ha accompagnati quando lavoravano con noi.
LETTO DA ODOARDO MAGGIONI
ORDINARIO SMARRIMENTO IL LIBRO A STAFFETTA DEI B.LIVER
I libri del Bullone La scrittura è lo strumento principale che il Bullone utilizza in tutti i suoi progetti e tramite la quale attiva nel lettore, attraverso la narrazione, una riflessione interiore. Negli anni la fondazione è stata protagonista di alcuni libri, dove tante penne si incontrano per racconti e osservazioni unici nel loro genere. Per scoprire i libri del Bullone visita il sito bulloneshop.org
Cos’è Reach? Reach è un magazine semestrale e un progetto di comunicazione sociale, realizzato dal Bullone in collaborazione con Richmond Italia. Nasce nel 2018 con l’intento di raccontare i Richmond business forum attraverso l’incontro con i partecipanti agli eventi, raccogliendo spunti che siano d’ispirazione per il manager del futuro. Reach propone una nuova idea di azienda grazie ad articoli, interviste e contributi di coach professionisti, ospiti illustri e imprenditori che raccontano le proprie storie. Storie di vita, storie di business, storie di ‘inciampi’ che non li hanno fermati. Qualsiasi esse siano, sono storie che svelano, insegnano, ispirano. E sono storie straordinarie. In questo numero troverai tante novità e nuove rubriche scritte dai B.Liver, i ragazzi beneficiari della fondazione, che contribuiscono attivamente alla riuscita di questo prodotto editoriale. Leggi il numeri precedenti di REACH su issuu.com/richmonditalia Buona lettura dalla redazione di Reach!
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Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia
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I B.Livers raccontano Richmond Italia
I B.Livers raccontano Richmond Italia
I B.Livers sono ragazzi affetti da gravi patologie croniche
MANAGERS OF THE FUTURE Luglio 2019 Anno II #02
HUMAN 2 HUMAN MAG
00 Powered by B.LIVE I B.Livers raccontano Richmond Italia I B.Livers sono ragazzi che lottano contro la malattia e hanno deciso di dire sì, per andare oltre i propri limiti
Dicembre 2018 Anno I #01
La vita è troppo bella per avere paura LOG IN
Luglio 2018, Anno 1, numero 00
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Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia Settembre 2021 Anno IV #05
MANAGERS OF THE FUTURE
MANAGER DEL FUTURO
USQUE AD
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FINEM
Ottobre 2022 Anno V #07
Gennaio 2021 Anno IV #04
La nuova frontiera. GUBBIO 3-5 LUGLIO 2024
Le rivoluzioni tecnologiche non capitano mai per caso. Quando arrivano, possiamo girare la testa dall’altra parte. Oppure possiamo decidere di occuparcene, di capirne le ragioni e collaudarne alcune funzioni. Possiamo cercare di analizzare freddamente i rischi e le opportunità. Dalle macchine a vapore in poi, la storia ci dice che le due cose sono strettamente intrecciate. A Richmond AI business forum potrai farti un’idea tu stesso, toccando con mano il cambiamento.
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UN ALFABETO PER CAPIRE IL FUTURO A ciascuna intervista realizzata per questo numero è stato associato un simbolo che fa parte di un ‘alfabeto del cambiamento’ creato da Richmond Italia a supporto della campagna di comunicazione in corso e incentrata sull’importanza di prefigurare il futuro. Se le icone misteriose ti hanno incuriosito, qui sotto trovi i significati di ciascuna di loro.
LA PARTECIPAZIONE Non stare a guardare, sentirsi coinvolti e responsabili del futuro.
LA CONSAPEVOLEZZA Aprire gli occhi, saper guardare, essere vigili.
IL CAMBIAMENTO Aver coraggio, saper rischiare uscire dall’area di comfort.
L’EQUILIBRIO Mirare a un futuro sostenibile, la sintesi fra essere e avere.
L’EMPATIA Human2human, l’incontro, lo scambio, il lato umano del business.
L’IMMAGINAZIONE Una, cento, mille idee che germogliano.
LA FIDUCIA L’ottimismo, la voglia del fare, l’intraprendenza, lo sguardo aperto.
LA COMPLESSITÀ Sapersi orientare, risolvere i problemi, non temere il labirinto.
IL PENSIERO GENERATIVO Assecondare connessioni, lasciarsi andare alle intuizioni, ascoltare.
LA CRESCITA Il movimento, andare avanti, raggiungere gli obiettivi.
IL RISPETTO Il vero bene comune è trattare gli altri come vorresti essere trattato tu.
LA PROGETTAZIONE La forza dell’ingegno, la dignità della ragione, la fiducia nella tecnica.
Stefano Zaccaria
Marketing director TOYOTA MATERIAL HANDLING ITALIA 12
LA FILOSOFIA DEL MARKETING E LA BUILDERSHIP Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo Si chiama Richmond Future factory forum, giusto? Quale miglior modo di entrare nel futuro che ragionare sulle possibili vie verso cui si incammineranno le società nei prossimi anni! A partire dalla propria esperienza personale, per poi arrivare a una concezione universale di marketing aziendale e filosofia del lavoro, Stefano Zaccaria ci apre gli occhi su una serie di opportunità tanto attuali quanto fondamentali.
QUAL È STATO IL TUO PERCORSO DI STUDI? IN CHE MODO TI HA INFLUENZATO E TI HA PORTATO A FARE IL LAVORO CHE FAI OGGI?
Già ai tempi della scuola elementare, il mio sogno di bambino era quello di fare l’architetto, il designer e sposare Margherita, la compagna di banco, ma poi alla fine non ho fatto nessuna delle due cose. Dopo il liceo scientifico, nel 1982, mi iscrissi ad Architettura a Firenze, indirizzo Industrial design. Durante gli studi rilevai le quote di una piccola emittente radiofonica a Cortona, dove sono nato e cresciuto. Quegli anni trascorsi tra la radio, la musica e lo spettacolo mi portarono a convincermi che dovevo cambiare piano di studi, decisi quindi di iscrivermi al DAMS di Bologna, Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo, dove ho avuto la fortuna di seguire i corsi di Umberto Eco e Renato Barilli, che mi aprirono la mente. Ora sono consapevole, la mia forse lieve dislessia di allora mi ha reso intuitivo, creativo, curioso e perspicace, anche se discontinuo e distratto. Questa mia particolare condizione è sempre stata parte di me, tanto da allenare il mio personale pensiero, mi piace pensarlo ‘laterale’, come quello di Edward De Bono, ed è l’unica modalità che ancora oggi riesco ad attivare. Con molta probabilità questa mia caratteristica mi ha allenato alla sfida continua, ricordo infatti che già alle scuole medie mi costringevo a trovare soluzioni alternative a tutto, partendo da punti di vista alternativi, era come un gioco. Mi sono sempre sentito capace, o comunque diversamente capace, soddisfatto e contento. Poi alla fine da questa predisposizione è nato il mio mestiere, che oggi mi vede diverso da allora, ma come sempre convinto, stimolato ed appassionato, principalmente in area Sales & Marketing.
QUAL È STATA LA TUA PRIMA ESPERIENZA IN AZIENDA?
Conservo ancora il ritaglio di giornale che riporta la ricerca di personale alla quale risposi 33 anni fa: “Pineider storica azienda fiorentina, fondata nel 1774, ricerca un responsabile di produzione in ambito tipografico”. Avevo ventisette anni, decisi di fare un tentativo. C’è da dire che già precedentemente avevo avuto modo di fare esperienza nel campo del design lavorando per un’agenzia di comunicazione da me fondata e il cui scopo era operare in sinergia con la radio cortonese, di cui ero appunto socio. Feci dunque il mio colloquio per Pineider, che fu il primo, ma non ultimo della mia vita, era febbraio del 1990.
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Fu solamente a fine agosto che mi ricontattarono quando ormai avevo perso tutte le speranze, per dirmi di presentarmi in azienda il primo di settembre. Avevo così ottenuto il mio primo contratto a tempo indeterminato come responsabile di produzione del comparto Grafico, Tipografico e Cartotecnico.
IN CHE MODO SEI ARRIVATO IN TOYOTA?
Dopo una lunga esperienza in aziende del lusso e del design, durata 30 anni, con incarichi direzionali in area Marketing e commerciale, progetti di consolidamento e sviluppo, innovazione dei processi, Change management e apprendimento, nel 2016 inizio un altro momento importante della mia carriera come VP Global Sales & Marketing in K-array, azienda manifatturiera toscana riconosciuta in tutto il mondo per le sue innovative soluzioni in ambito di audio professionale, di alta qualità e design innovativo. Poi, tutto d’un tratto il mondo si ferma. Nel pieno della pandemia, chiuso in casa come milioni di noi nel mondo, ragionavo sul fatto che musica e spettacoli non avessero più piazze, teatri, auditori a disposizione, ma qualcuno suonava da terrazze e balconi per dare un segnale di resilienza e accompagnare questi momenti che nessuno aveva mai vissuto prima. Decisi allora di progettare una soluzione per riportare la musica per strada, in un momento in cui le città erano appunto tristemente e inevitabilmente desolate. Animato da quest’idea di progetto, andai su Google in cerca di ispirazione e mi imbattei in una foto del 1957 che ritraeva un giovanissimo John Lennon a bordo di un vecchio truck assieme alla sua prima band, The Querryman, che girava per i quartieri poveri di Liverpool con l’intenzione di portare allegria e sollievo. Colsi subito il legame tra la foto e quella che era la mia idea di progetto. Ne parlai col mio capo, dicendo che avevo intenzione di fare la stessa cosa, ottenni subito l’approvazione così che mi mossi assieme ai colleghi per orchestrare l’evento. Avevamo in mente una soluzione innovativa che fosse in grado di offrire un mezzo di trasporto 100% elettrico con a bordo un impianto audio efficace per l’attività di tante realtà che operavano nel mondo degli eventi musicali e che in quel difficile momento erano costrette a reinventarsi in termini di servizi e prodotti. Mi servivano prima di tutto due mezzi elettrici, li trovai grazie ad un mio vecchio amico ed ex-collega di Pineider, che nel frattempo era diventato per l’appunto amministratore delegato in Toyota Material Handling Italia. Quando si dice ‘unire i puntini’, costruire e mantenere i legami. Toyota Material Hadling aveva infatti acquistato SIMAI, un’azienda italiana, che produce trattorini elettrici e con la quale riuscii a stipulare un buon accordo per avere due automezzi pronti in soli due mesi. Al trattorino personalizzato demmo il nome di Cricket, in onore al grillo parlante di Pinocchio e, come nella storia del più famoso burattino di legno, non poteva mancare la fata. Fu così che il 1° agosto del 2020, dal Teatro Verdi di Firenze il direttore d’orchestra M° Beatrice Venezi diresse l’Orchestra Toscana a teatro completamente vuoto, solo lei e gli orchestrali, ma l’esecuzione 14
in modalità streaming veniva trasmessa in tempo reale sugli schermi led e gli impianti di diffusione audio installati sui due Cricket che si muovevano per le vie e le piazze di Firenze. Il video dell’evento fece il giro del mondo su YouTube. Fu un successo, tanto che valse una proposta irrinunciabile, quella di raggiungere Toyota Material Handling Italia come Direttore Marketing, proposta accettata senza alcun ripensamento. Quindi posso dire che sono arrivato in Toyota per la voglia di fare ‘musica in giro’, in modalità 100% elettrica.
QUALI TIPI DI SFIDE HAI DOVUTO AFFRONTARE IN UN’AZIENDA COME TOYOTA?
La prima sfida significativa è stata quella di farmi apprezzare per la mia visione, per nulla sostenuta dall’esperienza di settore, che nel mio caso era pari a zero. Sono state infatti altre le esperienze che ho maturato negli anni e comunque in settori molto distanti dal Material Handling. In ogni caso, appena entrato in Toyota, 2 anni fa, erano in corso tutta una serie di cambiamenti orientati principalmente a un nuovo modo di organizzare il lavoro già affermatosi nelle sedi giapponesi e basato sull’idea di una società organizzata secondo relazioni orizzontali, anziché verticali: un’azienda in cui metaforicamente scompaiono le gerarchie e ogni persona dell’organizzazione può potenzialmente raggiungere qualsiasi altra. In questo contesto ho trovato molto utile attivarmi senza troppi pregiudizi e preconcetti, proprio perché in un settore per me nuovo. La sfida più grande trascendeva l’aspetto del puro marketing aziendale e aveva come obiettivo quello di rendere Toyota Material Handlig Italia una struttura più coesa, efficiente, migliore, diffusa. In una parola, passare da una organizzazione trainata dalla leadership, a una trainata dalla buildership.
COME DEFINIRESTI LA BUILDERSHIP, E CHE TIPO DI IMPATTO HA AVUTO SUL TUO MODO DI LAVORARE?
La buildership è la capacità di considerare relazioni dove altri non le vedono, o comunque non le sentono prossime. Grazie alla buildership è possibile creare una sorta di ponte, in cui le parti coinvolte si raggiungono a vicenda, in un’azione tanto sinergica quanto spontanea che permette una migliore organizzazione aziendale. Se la buildership viene applicata con successo, non ha più senso parlare di gerarchie. Tutti sono sullo stesso piano, allo stesso tavolo di lavoro e di confronto e, seppur con ruoli e compiti diversi, nessuno dovrà veramente dare ordini a qualcun altro. Semplicemente, nel momento del bisogno le persone verranno attratte l’una verso l’altra, come i due poli opposti di una calamita. Inutile dire che tutto questo può funzionare soltanto in un contesto adeguatamente predisposto. Da quando ho iniziato ad apprezzare il modello trainato dalla buildership e non più dalla leadership, il mio modo di lavorare, seppur influenzato dalle esperienze precedenti, da pregiudizi e preconcetti, è cambiato molto verso una maggior sintonia con i colleghi e le colleghe più giovani.
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È POSSIBILE APPLICARE QUESTA NUOVA VISIONE DEL LAVORO NELLE AZIENDE DI OGGI? IN CHE MODO?
Innanzitutto è necessario investire alla base delle organizzazioni, sono convinto che affinché il cambiamento si attivi e porti vantaggi, deve esserci necessariamente un movimento dal basso, non dall’alto. Saranno le persone autorevoli, e non quelle autoritarie, a fare il futuro delle aziende e della società, qualsiasi ruolo abbiano. Il momento in cui i top manager si renderanno conto che quando le persone applicano la buildership si lavora meglio e l’azienda progredisce, allora sì che saranno disposti ad accettare il cambiamento. Alcuni scettici potrebbero controbattere che nessuno vorrebbe mai rinunciare alla propria comoda poltrona nelle alte gerarchie dell’azienda, ma il fatto è questo: la buildership è un fenomeno pervasivo e inarrestabile, che lo si voglia o meno. Tutte le aziende più lungimiranti si stanno orientando in questa direzione proprio perché sono consapevoli che porterà a vantaggi competitivi inediti. Il manager veramente accorto non è colui che cerca di preservare una posizione dominante, che andrà prima o poi a perdere, bensì colui che comprende prima degli altri i vantaggi del cambiamento e lo accoglie a braccia aperte.
QUALI SONO I DUE VALORI-SIMBOLO, TRA QUELLI IN CUI RICHMOND ITALIA SI IDENTIFICA, CHE MEGLIO TI RAPPRESENTANO?
‘Cambiamento’ e ‘pensiero generativo’. Cambiamento perché un po’ è la mia filosofia di vita, e perché io stesso cerco di promuoverlo e di favorirlo in Toyota. È di fatto la costante sulla quale costruire il miglioramento continuo, il nostro Kaizen. Pensiero generativo, strettamente associato al cambiamento, mi permette di essere una persona più costruttiva e in grado di cogliere quelle fondamentali relazioni senza le quali la buildership è impossibile. ‘Cambiamento’ e ‘pensiero generativo’ proprio perché stiamo già vivendo la neo-nascente Society 5.0 e siamo coinvolti nella 5° rivoluzione industriale, dove i puntamenti sono soprattutto approccio human-centric, sostenibilità e resilienza.
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Strategie, organizzazione, nuovi metodi e nuovi business: tutte le risposte di cui hai bisogno per rivoluzionare le linee di produzione. Never forget, you have the power.
RIMINI 7-9 APRILE 2024
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Manuel Manotti Sales Director & ESG Expert ATLANTE CONSULTING
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IL LAVORO NELLA SOSTENIBILITÀ È COME UNA PARTITA DI RUGBY Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo Siamo al Richmond Sustainability business forum, ultima giornata prima della chiusura delle interviste. Giusto in tempo, incontriamo un ragazzo che in soli venti minuti riesce a raccontarci una moltitudine di aneddoti. In questo articolo cercheremo di riportarli il più fedelmente possibile, anche se raccontati dal vivo forse hanno un impatto più forte e non hanno potuto che generare in noi una sincera ammirazione verso la carriera e la vita di Manuel Manotti.
QUAL È LA TUA STORIA PROFESSIONALE?
Tutto è iniziato nel 1994. La mia primissima esperienza lavorativa è avvenuta a un’età insolitamente precoce. Mio padre possedeva una piccola impresa, nella quale, a partire dai sei anni, mi recavo ogni estate. Il mio primo incarico è stato quello di innaffiare le aiuole dell’azienda, ma col passare degli anni ottenni gradualmente compiti sempre più importanti. Crescendo, durante gli studi, ho continuato a lavorarci, fino a diventare responsabile di produzione. Ad un certo punto, tuttavia, decisi di abbandonare. Avevo infatti concluso gli studi universitari, laureandomi in Economia e marketing prima e specializzandomi in Organizzazione aziendale poco dopo, cercavo una professione che fosse in linea con la mia formazione. Chiesi di lavorare nell’amministrazione dell’azienda di mio padre, ma non venni accontentato, così mi licenziai. Da quel momento, non senza liti ripetute con mio padre, ho lavorato in banca per dieci anni. Successivamente sono entrato a far parte di una società di consulenza specializzata in finanza agevolata del Gruppo Warrant Hub, dove ho conosciuto il mio attuale AD, Roberto Furini. È stato grazie a lui se oggi sono in Atlante Group. Sono il Sales director di Atlante nonché ESG Expert sustainability manager, il mio mestiere è quello di rendere le aziende sostenibili.
IN CHE MODO SI POSSONO RENDERE LE AZIENDE PIÙ SOSTENIBILI?
Il compito di Atlante e del team che seguo, quindi mio e dei miei colleghi, è quello di fornire una consulenza a trecentosessanta gradi sulla transizione sostenibile. Nello specifico, seguiamo i nostri clienti nelle vesti di project manager, dall’inizio alla fine, controllando passo dopo passo ogni attività e fornendo all’azienda una roadmap, configurabile sulla base della mission aziendale. Siamo noi a indicare la meta da raggiungere e la direzione da percorrere. Comunichiamo anche le nostre esperienze con le aziende precedenti, dimostrando che grazie al cambiamento che apportiamo non solo è possibile migliorare, è anche conveniente. In particolare, ho riscontrato come in alcune aziende permanga una concezione tanto sbagliata quanto superata nei riguardi della sostenibilità ambientale: ancora troppe volte viene considerata un 19
costo, anziché un investimento da cui possono derivare enormi benefici. In un futuro molto prossimo, senza essere all’avanguardia nel settore della sostenibilità si perderà un vero e proprio vantaggio competitivo, se non addirittura la possibilità di fare business. È mia personale opinione che allo stesso modo in cui oggi è obbligatorio per legge che ogni azienda abbia un responsabile amministrativo, negli anni a venire sarà quasi obbligatoria la figura del Responsabile per la sostenibilità. È errato e fuorviante considerare quello della Sostenibilità un compartimento stagno dell’azienda. È vero tutto il contrario, è il campo in cui c’è maggiore bisogno di comunicazione e interscambio di informazioni con tutti gli altri reparti, ed è mio dovere farlo intendere. Riassumendo, da un lato occorre erogare alle aziende delle linee guida in merito alla transizione sostenibile, dall’altro, però, è altrettanto fondamentale convincere le persone della positività del cambiamento e farle sentire parte di un progetto.
IN CHE MODO SI PUÒ DIFFONDERE UNA CULTURA AMBIENTALE CORRETTA E BENEFICA PER I LAVORATORI DI DOMANI?
In primis serve che ci sia un forte impulso da parte delle istituzioni, in particolare quelle educative, a formare nuove generazioni più sensibili e consapevoli. Mia figlia mi sorprende per la cura che riserva già in giovane età a certi aspetti come la raccolta differenziata, che esegue puntigliosamente fino all’ultimo pezzo di incarto (delle sue merende)! Fatta salva l’indispensabilità di un tale movimento dall’alto, ritengo che sia ugualmente importante un continuo confronto quotidiano, e che ogni persona nel suo piccolo faccia la sua parte. Io in prima persona mi sono reso disponibile ogniqualvolta ce ne fosse la necessità, e da emiliano-romagnolo che sono mi sono recato a Cesena come volontario a seguito dell’alluvione avvenuta nella mia regione. Ho anche contribuito a un manifesto del Comune del mio paesino in favore della sostenibilità ambientale, e cercato, per quanto praticabile, di diffondere un tipo di informazione positiva e costruttiva. Toccare con mano disastri naturali come quello che ha devastato l’Emilia-Romagna, porta persone come me a prestare ancora più attenzione al tema ambientale. Mi sono sentito quasi in dovere, anche per il ruolo professionale che ricopro, a fare della sostenibilità non soltanto un lavoro ma un vero e proprio obiettivo da raggiungere, facendo fronte comune con il maggior numero di persone possibile.
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IN PASSATO SEI ANCHE STATO UNO SPORTIVO. IN CHE MODO HA INFLUITO SUL TUO LAVORO?
Sono stato e sono tuttora un grande appassionato dello sport in generale, ma del rugby in particolar modo. Ho giocato a questo sport fin da giovane, impegnandomi per vari anni fin dall’adolescenza. L’apice l’ho toccato intorno ai vent’anni: ero arrivato ad allenarmi costantemente e a giocare competizioni piuttosto faticose. Purtroppo a un certo punto non sono più riuscito a gestire il rugby in parallelo col lavoro, e ho dovuto abbandonare. Ma si tratta di uno sport che non ho mai messo del tutto da parte, e ancora adesso, all’età di trentacinque anni, se mi capita l’occasione ogni tanto vado a giocare con gli amici. Penso che lo sport, specialmente se praticato con costanza e determinazione, possa essere una fonte preziosa di valori, e così è stato per me con il rugby. È in primo luogo merito del rugby se ho imparato a essere una persona organizzata, disciplinata e determinata, tutte qualità che naturalmente mi sono risultate molto utili in ambito lavorativo. Ma se queste tre caratteristiche avrei potuto acquisirle praticando molti altri sport, purché ad alto livello, ce n’è una ultima che invece ritengo peculiare del rugby, ed alla quale cerco di essere fedele: il rispetto dell’avversario. Per chi non fosse pratico del rugby, alla fine del terzo tempo, dopo la doccia in spogliatoio, le due squadre sfidanti pranzano o cenano insieme. È praticamente impossibile non imparare a portarsi rispetto a vicenda, anche quando si è messi in competizione. È questa l’ultima e forse più importante qualità del rugby che metto a frutto nel mio lavoro.
QUALE HAI SCELTO FRA I VALORI-SIMBOLO DI RICHMOND ITALIA?
Ho scelto ‘equilibrio’, e vorrei spiegare il motivo con una metafora sportiva. Nel rugby la palla si può passare solo indietro, ed è essenziale che ci sia una coordinazione frutto di un equilibrio all’interno della squadra. Anche nel lavoro, per arrivare in meta, serve un’interconnessione e una coordinazione importante tra i vari uffici.
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Altea Federation sposa la visione human di Richmond Italia Tema: Altea Federation. Svolgimento: siamo andati nella sede milanese a intervistare Christian Maggioni, Chief Information Security officer di Altea Federation e Managing director ed Equity partner di Altea 365. La conversazione è stata viva e interessante, abbiamo imparato molte cose. Nel 2023 Altea Federation partecipa come exhibitor a 6 forum di Richmond Italia, e per ben 4 di questi è anche sponsor: Gold sponsor di Richmond Future factory forum e Richmond IT director forum, Platinum sponsor di Richmond Cyber Resilience Forum e Richmond Finance Director Forum.
C’è la sensazione che sul fronte della sicurezza informatica ci sia una fase prima del Covid e una dopo. Qual è la tua opinione? Al di là delle sensazioni, i dati ci dicono che la crescita degli attacchi informatici è costante, ed è di lungo periodo, ossia il trend si è originato molto prima del Covid. Vero è che nel periodo dell’epidemia il mondo è cambiato, e con esso il paradigma della sicurezza IT. Prima del Covid era come se fossimo tutti chiusi al riparo in un castello e qualcuno si
occupasse della nostra protezione. Ora, con il lavoro a distanza, il modello di difesa e prevenzione si è dovuto adeguare, e questo non è successo subito. A volte risulta più difficile dare sicurezza agendo da un sistema decentralizzato. Il castello è vuoto, tutti si sono sparpagliati nel territorio circostante, e proteggere un gregge disperso richiede un approccio diverso. Anche dall’altra parte della barricata qualcosa è cambiato. Un tempo la connotazione degli attacchi era prevalentemente politica e rivolta ai siti di istituzioni con l’obiettivo di generare disservizi e indebolire il prestigio dei governi, delle amministrazioni o delle forze dell’ordine. Ora il quadro è diverso. La diffusione dei bitcoin e delle altre criptovalute consente di monetizzare in modo anonimo il riscatto, e così gli attacchi informatici sono diventati un’attività di carattere economico e senza particolari barriere all’ingresso. Il dark web infatti pullula di piattaforme RaaS (Ramsomware as a Service) che offrono anche a persone senza competenze tecniche kit per lanciare attacchi. A quali tipi di attacchi siamo più esposti? Accanto al classico malware, sono in grande crescita gli attacchi ai sistemi via mail, i Phishing e le BEC
Business Email Compromising – queste ultime richiedono un impegno articolato ma rendono molto. Una volta preso possesso di una casella di posta elettronica si possono fare tante cose, per esempio effettuare acquisti e bonifici a favore di estranei. Riuscire a ottenere le credenziali di accesso a una casella elettronica non è difficile, nel dark web si trovano database con milioni di username e password. L’Italia è il regno delle PMI. La dimensione dell’azienda impatta sulla cybersecurity? Penso di sì. Il nostro è un osservatorio prettamente legato al mondo delle PMI italiane, consideri che il 75% dei ricavi sono legati ad ambiti ERP e in generale Altea è nata nel mondo Baan. I dati globali indicano un costo medio di 7 milioni di dollari per attacco informatico, ma sono dati che riguardano prevalentemente grandi telco, grandi banche e assicurazioni o aziende energetiche, non PMI. Nel caso delle PMI, il costo medio di un attacco scende a 1,4 milioni, in molti casi anche meno. Altea 365 ha un Incident Response Team che interviene proprio in caso di sequestro di dati. Una volta la criminalità si concentrava su grandi prede, oggi ci chiamano anche aziende con 3-4 persone e richieste di riscatto per 5-10mila euro. Che cosa succede durante un attacco ransomware? È paragonabile a tutti gli effetti a un sequestro di persona e mira a ottenere un riscatto. Te ne accorgi perché improvvisamente vedi tutti i dati aziendali crittografati. Sarebbe più corretto definire l’attacco come una catena di attacchi, perché l’aggressore opera una serie di azioni diverse: trova il modo per accedere al tuo sistema, penetra l’account di posta elettronica, accede al sistema via internet, quindi da remoto (vicino o lontano non è dato sapere). Una volta dentro lancia un software CryptoLocker che lavora sulle estensioni dei file. Di fatto, il computer è funzionante, ma i file non sono utlizzabili. È un sequestro, e l’azienda si sente violentata digitalmente. L’attività si blocca, ho visto persone piangere per lo shock. Solo in quel momento capisci realmente che cosa vuol dire non poter accedere ai file e quanto vale davvero il tuo capitale informativo. Ma fra chi non ha subito un attacco, è raro trovare la giusta sensibilità al problema, a qualsiasi livello. Che atteggiamento consigli di tenere con i ‘bad actors’? Se non paghi, ti accolli il disagio e i costi del fermo sistema. Se paghi, alimenti un settore criminale. Noi non ci permettiamo di giudicare le scelte delle aziende. La prima cosa che raccomandiamo di fare è mantenere la lucidità e soprattutto non vergognarsi, poiché chi subisce un attacco è la parte lesa, e la sua condizione, anche giuridicamente, si definisce come stato di necessità, che è sullo stesso piano di una causa di forza maggiore. Sempre di più oggi si dispone di un buon sistema di backup, che tiene i dati al sicuro in caso di attacco. Questo consente in breve tempo di procedere con il restore senza particolari problemi. E questo spiega anche perché una delle prime cose che cercano di fare i “cattivi” è proprio
cercare di distruggere il backup. Per noi è importante a crisi risolta ricostruire minuziosamente ogni attacco e trarne i dovuti insegnamenti. Spesso si sfruttano debolezze di configurazione. Se dovessero tornare, bisogna farsi trovare preparati. Come ti sei avvicinato al mondo IT? Di formazione sono un perito chimico. Avevo iniziato a giocare coi computer, e avevo scoperto che mi piaceva leggere il manuale e smontare il computer per vedere come era fatto dentro. Dopo gli studi ho lavorato nel settore chimico e biomedicale occupandomi dell’assistenza ai computer. Si cominciavano a vedere i primi sistemi MS-DOS e i primi elaboratori Olivetti M24, eravamo agli albori dell’informatica. Poi è stata la volta di una SIM, dove ho avuto una breve esperienza informatica. Era l’epoca dei primi monitor a colori con tubo catodico. A 21 anni sono andato a studiare marketing e business in un college in California. Siamo nel 1991 o 1992, il momento dell’esplosione di Internet. Mi ricordo che in California un amico mi aveva invitato a casa sua per “farmi vedere internet”. Al ritorno in Italia ho trovato impiego in un distributore di PC assemblati. Il lavoro era impegnativo, nell’arco di una mezza giornata i componenti cambiavano prezzo e avevi in corpo l’adrenalina di un agente di borsa. Ogni tre mesi venivano lanciate novità e in un attimo le giacenze di magazzino diventavano obsolete. Bisognava ingegnarsi a smaltirle. La volatilità dei costi era più importante del contenuto tecnologico. È meglio essere il numero uno di una realtà piccola o il numero x di una realtà più grande? Ho provato entrambe le cose, ho visto i pro e i contro dell’una e dell’altra, e forse per questo mi sono fermato su una posizione intermedia che le sposa entrambe. A cavallo degli anni 2000 lavoravo a un progetto per una serie di aziende dot.com. A un certo
punto mi sono deciso e ho tentato l’avventura: è nata spesaonline.it. Era il periodo in cui si intravedevano i primi tentativi di e-commerce e si credeva molto in quel futuro. Avevo mantenuto diversi contatti negli Stati Uniti, erano i tempi di Aol e dei primi grandi investitori americani che entravano nel mondo on-line. Mi ero convinto che l’Italia fosse matura. Allora c’era un entusiasmo, un desiderio di nuovo… Si aspettava la rivista Italiaonline con il floppy disk per accedere a Internet. Ma le mie previsioni non si rivelarono corrette: era troppo presto. Dopo questa parentesi ho lavorato in una società che si occupava di progetti web legati ai diritti sportivi, in particolare il calcio. Il mercato era molto grande e giravano molti soldi. Dovevo occuparmi della parte sistemistica e della gestione del networking, dando un occhio alla sicurezza, che allora era molto più semplice di oggi. Allora non si erano ancora diffuse le massicce tecnologie di virtualizzazione legate all’entertainment, che poi avrebbero spinto i sistemi a migrare nel cloud. Hai una lunga esperienza internazionale alle spalle. Che cosa ti ha dato? Nel mio caso, le traiettorie di vita e di lavoro si sono intrecciate. Mia moglie Olivia è brasiliana. Quando mi sono sposato, mi si sono aperte le porte del Brasile, un mondo nuovo tutto da scoprire. Ho deciso di spostarmi a San Paolo, in Brasile, per seguire progetti di sicurezza per Telecom Italia, che allora era in grande espansione in quel mercato. Siamo nel 2006. Mi dicevo: “Andiamo un po’ a vedere.” Poi ci sono rimasto dieci anni, nella funzione prima di Country manager e poi di Managing director di due System Integrator italiani. È stata un’esperienza formidabile, una scuola di convivenza con la diversità. Il Brasile è un paese multietnico, una realtà complessa e piena di contrasti sociali ed economici, con punte industriali avanzate che convivono con comunità povere endemiche non lontano dai grattacieli. Come sei entrato in Altea Federation? Con leggerezza e senza pensarci troppo. Un giorno che ero appena tornato dal Brasile Andrea Ruscica, il founder carismatico di Altea, mi disse: “Vieni a darmi una mano nella sicurezza.” Credo che apprezzasse la mia lunga esperienza internazionale. E poi ci siamo trovati subito in sintonia anche sui temi Human, al centro di molti eventi di Richmond Italia. Ruscica ha preso ispirazione da un modello studiato per la prima volta in biologia e lo ha reso l’elemento caratteristico e distintivo dell’intero approccio organizzativo di Altea Federation. Si parla di sistema olonico (nel nostro caso virtuale) e ci si riferisce agli ‘oloni’ intesi come entità ben identificabili, separabili dal resto del sistema di cui fanno parte e senza il quale non sarebbero in grado di operare. In questo senso, le aziende di Altea Federation sono oloni connessi fra loro che insieme permettono all’intero sistema di crescere e ottenere maggiori risultati delle singole performance. Dagli anni ’80 del secolo scorso questo modello è stato sempre più applicato nelle economie avanzate, come Stati Uniti e Giappone, e fra i suoi punti di forza posso dire che la velocità di adattamento alle variazioni di mercato è centrale per liberare il maggior valore
possibile per i nostri clienti. Intendiamoci, l’impresa in rete non è una passeggiata. Io dico sempre che serve elasticità, ossia per stare bene insieme occorre anche avere la capacità di non fissarsi sui dettagli, di lasciarsi scorrere addosso certe frizioni o incomprensioni. Stare in Altea è un allenamento quotidiano. Poi però credo sia difficile tornare a lavorare in ambienti tradizionali. Che idea ti sei fatto dell’intelligenza artificiale? È una grande risorsa per i compiti che ci aspettano. Personalmente capisco la decisione del Garante italiano che ha bloccato temporaneamente l’accesso a Chat-GPT: l’AI pone un problema etico e apprezzo l’atteggiamento di chi si pone domande non superficiali. Il problema è: se le macchine sono più veloci e più efficienti di noi e un giorno diventeranno senzienti, potranno sterminarci? In questo caso, sposando la legge dell’evoluzione naturale, si può dire che ce lo meriteremmo? Sono ormai abituato all’accelerazione esponenziale della tecnologia e non ho paura della perdita del controllo nel caso in cui le macchine diventino molto intelligenti o più intelligenti di noi. Questo perché associo il tema a quello delle risorse del pianeta, che non sono infinite. Dovremo essere capaci di governare in parallelo i due temi. Con calma e con molta, molta intelligenza. Che impatto ha l’AI sulla Cybersecurity? Quando 5 o 6 anni fa ho visto le prime applicazioni, ho capito subito che sarebbe stata la nuova frontiera. Altea 365 ha in portfolio tecnologie basate su modelli
di apprendimento del sistema immunitario umano. I suoi algoritmi brevettati rilevano e combattono in tempo reale gli eventuali attacchi, anche nel caso di minacce sconosciute, analizzando i dati e imparando dai comportamenti del sistema che devono proteggere. Il vantaggio di questa tecnologia è la proporzionalità della reazione agli attacchi, la velocità (parliamo di secondi) e il fatto che non interrompe le normali attività. Oggi costa un po’ di più ma rappresenta certamente un nuovo standard di sicurezza cyber. Dopo tanti anni in prima linea, ti piace ancora il mondo IT? La materia si è allargata a dismisura. Dovrebbe essere equiparato a un lavoro usurante perché tutto nel nostro mondo è straordinariamente veloce. Tutto ha una propagazione quantistica, e con spostamenti appena percettibili si può andare incontro ad approcci radicalmente nuovi. Ho fatto mia la visione degli autori di Fast forward, Birkinshaw e Ridderstrale. Più cresce nel mondo il numero delle persone e più crescono i dati, ma singolarmente stiamo diventando più ignoranti perché è difficile riuscire da soli ad appropriarsi di questa mole. Si fa fatica a star dietro alle novità e capita di sentirsi un po’ in ansia. Ecco allora il modello Forward che privilegia la flessibilità e la rapidità nel prendere decisioni, in cui la paralisi da analisi lascia il posto alla sperimentazione e la pianificazione all’azione. Mi guardo indietro per capire da dove veniamo, accetto la realtà, mi rassereno e mi dico: “Se non posso avere tutte le informazioni, me ne faccio bastare una parte.”
In conclusione, nel futuro vedi rosa o vedi nero? Mi definisco un ‘tecnottimista’ perché sono convinto che la tecnologia nobiliti gli esseri umani sin dai tempi della prima punta di freccia in selce. E anche sull’Italia non vedo nero. La lunga permanenza all’estero mi ha insegnato quanto può essere utile considerare punti di vista esterni, per esempio giornali non italiani. I commenti di giornalisti stranieri sull’Italia mi hanno fatto capire molto di più sui nostri punti di forza e di debolezza.
Altea Federation è un gruppo di imprese federate, ciascuna con libertà d’azione e una visione cross-industry. Le imprese portano le tecnologie digitali dentro le aziende con estrema cura rispetto alle dinamiche umane. Nata nel 1993, oggi raggruppa 21 aziende e circa 1.600 persone impegnate nella convergenza di cambiamento e tecnologia. Con le imprese clienti tende a sviluppare legami duraturi che abilitano la co-progettazione del futuro. Negli ultimi cinque anni ha portato i ricavi da 86 a 160 milioni di euro.
A cura di Richmond Italia, Relazioni esterne e comunicazione
La storia di Bouchra
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La storia di Bouchra
Bouchra Tinbihi Marketing and costumer relationship S3K
La ricchezza della buona contaminazione
Mi ritengo una ragazza fortunata. Sono grata alla vita perché guardandomi intorno mi rendo conto che tante persone hanno meno di me, o soffrono delle difficoltà che io non affronto quotidianamente. Ognuno di noi ha una serie di sfide personali da affrontare, ma nonostante ci siano stati momenti di grande debolezza anche nel mio percorso, come quando ho rischiato di perdere mio padre che è la figura centrale della mia vita, sono sempre stata felice di viverla questa vita, anche con i suoi dolori. Sono una persona sempre ottimista, empatica, mi piace scoprire i lati della vita degli altri che possono contaminarmi in qualche modo attraverso il loro vissuto.
i nostri genitori nell’uso dell’italiano, ci eravamo ambientate. È stato un impatto forte, ma anche bellissimo. Per me è stato molto difficile conciliare le mie due culture. Arrivando da una famiglia musulmana, da una cultura quindi che non lascia esprimere personalità e interessi individuali, non ho potuto fare tante delle cose che avrei voluto. Mi sarebbe per esempio piaciuto fare danza, o tennis, ma non ho mai potuto iscrivermi perché erano discipline che andavano contro quella che era la consuetudine sociale in ambito islamico, che non vede la donna ben vista in certi ambiti sportivi. Potevo fare karatè, arti marziali. Questo mi è dispiaciuto molto perché spesso penso a chi sarei oggi se avessi potuto dare risalto a quelle che erano le mie attitudini da bambina, mi rimarrà sempre questo dubbio. La svolta è avvenuta da grande, quando sono diventata indipendente economicamente. Ho dato sfogo a tutte le mie passioni, ho fatto tutto quello che la mia famiglia non mi aveva permesso di fare: sono andata a ballare per la prima volta, tornando la sera tardi, cose assolutamente inaccettabili e proibite per noi. Ad oggi ci sono ancora tante cose della mia vita che non racconto ai miei genitori, non per mancanza di coraggio, ma per rispetto del fatto che loro hanno una determinata cultura, e che quindi potrebbero rimanere delusi o feriti da alcuni atteggiamenti. Ho deciso
Ho origini nordafricane, sono nata e cresciuta in Marocco fino ai sei anni e mezzo, quando con la mia famiglia mi sono trasferita in Italia grazie a mio padre, che aveva deciso di costruire il suo futuro lavorativo qui, sia per avere una vita più dignitosa, sia per dare un futuro positivo in termini di istruzione a noi figli. Ricordo il mio primo giorno di prima elementare in Italia: a scuola cantavano canzoni e filastrocche e io e la mia sorella gemella non capivamo una parola, così una volta tornate a casa dicemmo ai nostri genitori che eravamo state tutto il giorno con persone straniere che parlavano una lingua sconosciuta. Nel giro di un mese però, Fatima e io cominciammo a correggere 27
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di non affrontare alcuni temi perché so che cambierebbero il rapporto che abbiamo, loro sanno tanto della mia vita e anche di cose che loro non appoggiano, non nascondo nulla, ma non ne parliamo direttamente. Mi sono anche fidanzata, per la prima volta a 20 anni. Lui era italiano, ateo, e anche questo è diventato una sorta di ribellione rispetto alle aspettative della mia famiglia. In questi primi anni da donna adulta mi sono riappropriata di tante esperienze che non avevo mai potuto vivere.
mio corpo, forse proprio per come sono cresciuta: dovevo sempre stare attenta a non farmi guardare, a non dare nell’occhio. Non avevo mai avuto apprezzamenti e non sapevo come valutare il mio corpo. Conoscendo tante modelle e parlando con loro, che erano molto giovani, ho scoperto che anche loro si sentivano insicure, e mi sono resa conto di non essere così diversa da loro. Ho capito che potevo uscire dal mio guscio, ho acquisito progressivamente fiducia e questo mi ha aiutato in tutto, anche nel rapporto con i miei colleghi e con i compagni di università, fino a che un giorno ho capito di essere diventata sicura.
Anche i miei studi in parte sono stati condizionati dalla mia famiglia. Ho frequentato un istituto professionale che era vicino a casa, solo perché così sarei stata accanto ai miei genitori. Per me risultava piuttosto semplice e avevo il massimo dei voti perciò mi hanno spostata in un istituto tecnico più complesso, un percorso di Perito Aziendale corrispondente in lingue estere, il criterio però era sempre la vicinanza
Dopo gli studi di Marketing ho vissuto altre esperienze lavorative: in un’agenzia di comunicazione focalizzata sul mondo digital e social, in un ristorante a Milano, e poi in un’azienda di Verona che realizza arredi di lusso. Questo è stato un cambiamento repentino
A FORTUNA NON ESISTE, MA ESISTE UN INCROCIO TRA OPPORTUNITÀ E CAPACITÀ DI SAPERLE COGLIERE. È QUESTO PER ME CIÒ CHE CREA LA FORTUNA
a casa. L’ultimo anno di scuola ho iniziato a lavorare in un centro ottico. Il mio primo obiettivo era quello di diventare autonoma a livello economico, perché qualsiasi cosa chiedessi ai miei genitori era quasi sempre un no (eravamo quattro figli ed era difficile esaudire le richieste di tutti, tranne quella di mio fratello per cui era sempre un sì…). Il proprietario di questo centro era una persona davvero illuminata, molto colta e appassionata, e mi ha insegnato e spiegato moltissime cose, dalla finanza alla fisica quantistica. Dopo il diploma mi sono iscritta all’università con i soldi che avevo guadagnato, continuando a lavorare per pagarmi gli studi. Ho iniziato a lavorare in un’agenzia per modelle a Milano dove gestivo la contabilità, poi sono passata ad un’agenzia di comunicazione, per poi tornare in un’altra grande agenzia di modelle come scuoter, esperienza bellissima e divertentissima.
perché ho iniziato davvero a fare marketing. Mi occupavo della parte vendita e dopo un po’ ho iniziato a lavorare anche con il mercato estero. Sono riuscita a portare molto di me stessa in questa azienda, contaminando il design con la moda, mia passione da sempre (abbiamo allestito ad esempio uno showroom di design durante la Fashion week). Nella nuova esperienza mi sono messa alla prova e ho avuto in cambio grandi soddisfazioni. In seguito ad alcuni cambiamenti aziendali ho continuato a lavorare per la stessa azienda ma da libera professionista. A un certo punto mi sono ritrovata a fare una scelta: se continuare a lavorare come freelance, o puntare a una carriera diversa facendomi assumere. Ho optato per la seconda e sono stata assunta da una società IT nel team di marketing. Questa esperienza mi ha fatto capire che anche nell’IT potevo portare le esperienze dei settori in cui avevo lavorato, la moda e il design. Io amo la contaminazione fra i diversi ambiti e ho lavorato molto in questo senso.
Nel frattempo portavo avanti gli studi nella facoltà di Scienze Statistiche con molta fatica, sia perché lavoravo sia perché mi mancavano alcune basi matematiche. Ho quindi pensato di cambiare iscrivendomi a Marketing, un indirizzo che mi avrebbe permesso di sfruttare la mia conoscenza di cinque lingue. Il contatto con il mondo della moda mi ha aiutata molto nel rapporto con me stessa, all’epoca avevo 25 anni e non mi sentivo a mio agio con il
Dopo ogni sfida ne cerco un’altra, e così ho cambiato di nuovo, passando a S3K, dove sono oggi. È una realtà che nasce con un progetto ambizioso, con accordi di amministratori delegati di 11 società italiane, eccellenze di digital trasformation in Italia, che hanno creato un unico polo che potesse fornire 28
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un’offerta multidisciplinare con il DNA della cyber security. Il mio obiettivo qui è di lavorare sulla notorietà del brand, occupandomi di posizionamento, comunicazione e strategia, e facendogli raggiungere una notorietà del brand più ampia. Sono molto felice perché sono responsabile di un team tutto al femminile. Tempo fa ho fatto un intervento al CIO Summit, uno dei principali eventi del settore IT che si svolge tutti gli anni a Lazise, proprio sul tema della leadership femminile, che è un tema a cui tengo molto. Avevo coniato un termine, LeadHer e avevo parlato a 200 persone dell’importanza delle competenze, della crescita, e del valore che possono portare le donne ai loro reparti, e di come conciliare la predisposizione naturale delle donne ad
avere un pensiero laterale differente da quello che hanno gli uomini in un teamworking congiunto uomo-donna che funzioni bene e superi il gender gap. Sono anche associata a SheTech, un’associazione che promuove la presenza della donna nel settore tecnologico e dell’innovazione. Io sono per la parità del valore che porta la persona all’interno di un progetto. Non è una questione di numeri o di mettere una donna in una certa posizione per tappare un buco. Per il mio futuro mi sono sempre posta obiettivi e sogni che poi hanno preso una piega diversa, perciò credo profondamente in un concetto: la fortuna non esiste, ma esiste un incrocio tra opportunità e capacità di saperle cogliere. È questo per me ciò che crea la fortuna.
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COSA SONO GLI ESG E PERCHÉ SONO COSÌ IMPORTANTI? A cura di Stefania Spadoni ESG (Environment, Social, and Governance) è oggi un concetto imprescindibile nel mondo del business e degli investimenti. Non solo parole, ma un approccio olistico che tiene conto della ‘salute globale’ di un’azienda e di tutta la filiera produttiva, non limitandosi alle prestazioni finanziarie, ma considerando il suo impatto ambientale, delle pratiche sociali e dell’efficacia del suo sistema di governance, tre fattori fondamentali per misurarne la sostenibilità.
Le aziende che integrano l’approccio ESG nella loro strategia e operatività volgono lo sguardo alle generazioni future costruendo una nuova sostenibilità e nuovi valori condivisi. Negli ultimi anni, sempre più investitori si sono focalizzati sulle pratiche ESG come criteri fondamentali nella valutazione delle opportunità di investimento. Integrare queste dimensioni nell’operatività delle aziende non solo promuove una gestione responsabile, ma offre anche opportunità di creazione di valore a lungo termine per tutte le parti interessate, contribuendo a un futuro più sostenibile e inclusivo.
Il primo criterio, quello ambientale, si riferisce al modo in cui l’azienda affronta le questioni legate alla sostenibilità e all’impatto ambientale delle proprie attività, includendo la gestione delle risorse naturali, la riduzione delle emissioni di gas serra, l’adozione di pratiche di efficienza energetica e l’implementazione di politiche di gestione dei rifiuti. Le aziende che adottano politiche e strategie ambientalmente sostenibili si preoccupano di proteggere l’ecosistema e di contribuire a una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.
Da tempo Il Bullone affronta tematiche legate alla sostenibilità e all’etica delle aziende attraverso approfondimenti, interviste e inchieste realizzate dai B.Liver – ragazzi con patologie gravi o croniche – e dai volontari della redazione. Inclusione, ambiente, formazione, sensibilizzazione sono solo alcuni degli aspetti che hanno indagato e valorizzato nei propri editoriali, consapevoli della loro rilevanza nella gestione aziendale. Per questo motivo Reach magazine ha deciso di dedicare agli ESG una rubrica con un articolo del Bullone che parli di queste tematiche. Pensiamo, infatti, che dalla contaminazione di testate diverse possano nascere nuove occasioni di riflessione e scambio intellettuale.
Il secondo fattore, quello sociale, si concentra sugli aspetti legati alle relazioni con i dipendenti, alle comunità locali, ai fornitori e ai clienti. Ciò include l’adozione di condizioni di lavoro eque, la promozione della diversità e dell’inclusione, il rispetto dei diritti umani e il coinvolgimento attivo nelle comunità in cui l’azienda opera. Le aziende che si impegnano a promuovere il benessere delle persone e delle comunità circostanti dimostrano una responsabilità sociale che va oltre la mera generazione di profitti.
Nelle prossime pagine riportiamo un’intervista di Emanuele Bignardi a Stefano Mancuso, un visionario secondo molti, una voce fuori dal coro che non ha paura di esprimere le proprie idee. Laureato in Agraria e con un dottorato in Biofisica, il professor Mancuso dirige l’International Laboratory of Plant Neurobiology all’Università di Firenze. Quest’anno è stato il relatore della conferenza d’apertura del Richmond Future factory forum ‘Animali e piante sono nostri pari’ e Reach ha deciso di dedicargli la copertina, perché se si parla di futuro e sostenibilità di sicuro tutti dovremmo ascoltare le parole del professore. Il Bullone ha intervistato per la prima volta nel 2019 e già allora ci diceva forte e chiaro che “dobbiamo piantare alberi ovunque: strade, tetti, palazzi”, perché la sostenibilità richiede un nuovo rapporto con la natura e noi possiamo imparare molto osservando l’intelligenza delle piante.
Infine, la governance riguarda la struttura organizzativa e decisionale di un’azienda. Si tratta di come un’azienda è gestita, dei suoi meccanismi di controllo, dell’indipendenza del consiglio di amministrazione e della trasparenza delle informazioni finanziarie. Una solida governance aziendale garantisce un’adeguata supervisione e responsabilità, riducendo i rischi di comportamenti illegali o poco etici.
Nella pagina accanto: l’illustrazione di un albero di ulivo realizzata da Stefano Mancuso per il numero 32 de Il Bullone. Nelle pagine seguenti: l’intervista a Stefano Mancuso pubblicata sul numero 32 de Il Bullone e curata da Emanuele Bignardi.
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PLANT REVOLUTION
Febbraio 2019
Incontro all’Università di Firenze con lo scienziato e neurobiologo di prestigio mondiale
Stefano Mancuso: le piante? Nulla di meglio sulla Terra a cui ispirarsi di Emanuele Bignardi, ragazzo B.LIVE
lo. L’uomo è una specie recente e solo negli ultimi secoli si è costretto a vivere in ambienti artificiali, che lo hanno allontanato dalla sua aspirazione naturale, cioè vivere in mezzo alla Natura.
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l treno viaggia a 300 chilometri all’ora, il paesaggio cambia velocemente, i campi si alternano a piccoli paesi. Il sole accarezza la terra e il mio primo pensiero è quello che l’uomo ha delle enormi capacità e il progresso tecnologico ne è la prova. Credo anche che sia estremamente fortunato a vivere su un Pianeta così bello e accogliente. La voce di Giancarlo, il direttore del Bullone, mi riporta alla realtà, strappandomi dal flusso dei miei pensieri. Il nostro viaggio ha una meta ben precisa, Firenze, dove incontreremo una persona speciale, un visionario secondo molti, una voce fuori dal coro che non ha paura di esprimere le proprie idee, non senza preoccupazioni. Lo spunto per questa intervista viene da una tragica constatazione: le città sono ormai soffocate dallo smog e dal cemento. L’uomo, che pensavo pieno di potenzialità e qualità, sta distruggendo – non troppo lentamente – il proprio ambiente, in modo insensato e anti-evolutivo. La campagna che scorre sotto i miei occhi attraverso il finestrino del treno, è minacciata da un fumo grigio e da un’aria irrespirabile.Una sensazione di soffocamento e di preoccupazione mi prendono alla gola, ho bisogno di una nuova speranza, di sapere che ci sono altri occhi con
Professor Mancuso, qual è la sua visione della città del futuro? «Parlerei di presente piuttosto che di futuro. Un nuovo progetto per le città è necessario. È a dir poco urgente ripensare come costruiamo i luoghi urbani, integrando in modo indissolubile le opere umane e la natura. La mia è un’idea radicale: il modello attuale di città è sbagliato e primitivo, perché si basa sull’esclusione della Natura dalla vita dell’uomo e questo è anoma-
Stefano Mancuso, professore all’Università di Firenze, dirige il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale. Membro fondatore dell’International Society for Plant Signaling & Behavior, ha insegnato in università giapponesi, svedesi e francesi ed è accademico ordinario dell’Accademia dei Georgofili.
Cosa ne pensa delle misure attuali impiegate per diffondere il verde nelle città e cercare di ridurre l’inquinamento? «Quello che si sta facendo non è abbastanza; i dati sulle emissioni di CO2 registrano un aumento esponenziale negli ultimi decenni, nonostante ci sia un obiettivo comune sulle loro riduzioni. Il problema è metodologico e di approccio: non ha alcun senso piantare alberi in zone non inquinate; le piante svolgono il “lavoro” di spazzini dell’inquinamento in modo tanto più efficace quanto più vicine alla sorgente dell’inquinamento stesso. A mio parere, le politiche di compensazione delle emissioni sono una truffa. Alcune aziende o Nazioni che inquinano, pagano altre aziende o Nazioni per piantare alberi in zone poco o per nulla inquinate senza alcuna utilità». Immaginiamo quindi la città ide-
una nuova visione. Sarà un uomo ad aprirmi la mente, attraverso una rivoluzione senza armi e senza violenza. Una rivoluzione «verde». Un nome, Stefano Mancuso. Laureato in Agraria e con un dottorato in Biofisica, il professor Mancuso dirige l’International Laboratory of Plant Neurobiology all’Università di Firenze. Il suo ufficio è una piccola stanza al primo piano, dove convivono libri, pile di articoli scientifici e piante. Se ripenso a quello studio, la prima cosa che mi viene in mente è il verde delle piante, che il professore ha disposto sulla scrivania, sul pavimento e negli angoli della stanza. Ci accoglie con un sorriso, una stretta di mano calorosa e forte che di nuovo mi fa venire in mente gli alberi. Rimango immediatamente colpito da un suo disegno che assomiglia al tempio di Angkor Wat, in Cambogia, dove la natura e le piante sono più potenti delle opere umane. Iniziamo la nostra chiacchierata dal tema dello smog e da come l’uomo ha creato le città.
Questa visione di città ricorda molto i templi di Angkor Wat in Cambogia. Ma quali sarebbero i vantaggi di questa rivoluzione? «Innumerevoli. Il primo, in ordine di importanza e immediatezza, è la riduzione drastica del livello di inquinamento. Infatti, come dicevo, le piante hanno la capacità di neutralizzare gli agenti inquinanti. Di conseguenza, a corollario di un ambiente più salubre, non sarebbe più necessario bloccare il traffico, si perderebbero meno giornate lavorative e i costi per l’abbattimento delle emissioni sarebbero inferiori». Quali vantaggi diretti sulla sa-
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Un nuovo progetto per le città è necessario, urgente
ale: come dovrebbe essere? «Non esistono delle limitazioni tecniche che impediscono di ricoprire ogni superficie della città con alberi e piante. Dovremmo piantare alberi sui tetti, sui balconi, dentro i palazzi. L’architettura recente si è scordata di includere le piante nella progettazione degli spazi: nessuno, infatti, prevede alberi negli appartamenti o negli androni degli edifici, come potrebbe essere. Bisogna ripensare le nostre comunità inserendo le piante e gli alberi in una compenetrazione assoluta. Entro il 2050 la maggioranza della popolazione della Terra sarà concentrata nelle città che rappresentano solo il 2% della superficie del pianeta, ma contribuiscono alla quasi totalità dell’inquinamento».
❞ Lo sai che le piante possono perdere il 90% del loro corpo senza morire?
Dobbiamo piantare alberi ovunque: strade, tetti, palazzi lute
umana derivano da una «convivenza» più stretta con le piante? «Anche in questo caso i punti a favore sono moltissimi. La cosa più scandalosa è che, pur esistendo decine di studi scientifici e una grande quantità di dati, purtroppo non si parla di questi vantaggi». Una domanda che abbiamo fatto anche ai ragazzi di B.LIVE: lei che albero è? «È una domanda piuttosto difficile, ci sono delle piante per le quali ho una forte simpatia, tra cui il tiglio, ma anche il ginko. A questo proposito, un piccolo aneddoto: vicino a casa, qui a Firenze, ci sono due alberi di ginko che considero come fossero due amici. Spesso mi
PTEROCARYA FRAXINIFOLIA SPACH Il Noce del Caucaso è una specie di albero appartenente alla famiglia Juglandaceae. È nativo dell’Armenia, Azerbaigian, Georgia, Iran, Russia e Turchia. È stato introdotto in Francia nel 1784 e in Gran Bretagna dopo il 1800.
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Contenuto a cura della redazione de Il Bullone. Il Bullone è il mensile realizzato dai B.Liver - ragazzi che vivono il percorso della malattia - insieme a volontari e professionisti del settore. L’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha conferito il tesserino di giornalista pubblicista ad honorem a 84 ragazzi, riconoscendo il valore del giornalismo sociale svolto dalla testata.
Il Bullone 23
Febbraio 2019
La Nazione delle Piante La Costituzione della Natura ritrovo sotto le loro fronde a meditare; un’attività che mi dà una grande gioia. Tornando alla domanda, viste le mie origini siciliane, potrei dire che sono un agrume, un arancio in particolare. In Sicilia il giardino per eccellenza è l’agrumeto, mi ricorda molto la mia infanzia. Devo ammettere che la domanda che mi avete fatto, dall’apparenza semplice, è invece molto complessa e mette in gioco emozioni, ricordi e tanto altro; non è possibile rispondere senza una riflessione e un pensiero alle nostre radici». Cambiamo argomento, parliamo di intelligenza. Qual è la sua visione in merito all’intelligenza delle piante? «Vorrei partire dalla mia personale definizione di intelligenza: la capacità di risolvere i problemi. L’uomo, nel corso dei secoli, ha dato definizioni sempre più restrittive di intelligenza, relative solo alle opere umane. Vi chiedo: “Le macchine sono intelligenti, dato che ormai sanno riprodurre la maggior parte delle azioni umane?”, la risposta è no, perché l’intelligenza è una proprietà intrinseca degli organismi viventi. Le più diffuse definizioni di intelligenza sono concettualmente errate e convergono nella convinzione che l’uomo sia superiore agli altri esseri viventi. Se, invece, guardiamo i dati, notiamo che gli animali rappresentano solo lo 0,03% della biomassa totale. Il resto sono vegetali. Di conseguenza, possiamo ammettere che solo questa minuscola percentuale possieda un’intelligenza? Nessun organismo è migliore di un altro. Quando le persone si considerano migliori di altre nasce il razzismo, mentre quando l’uomo si considera superiore agli altri esseri viventi nasce lo sfruttamento. La vera domanda non dovrebbe essere chi è meglio, quanto piuttosto: “chi si è adattato meglio, chi è vincente
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Possiamo imparare molto da come è organizzato un bosco da un punto di vista evolutivo?”. I dati scientifici ci vengono ancora in aiuto per rispondere alla domanda: l’età media di una specie è di 5 milioni di anni e tra queste, le piante mostrano una longevità molto superiore. Per quanto concerne l’uomo, si parla di soli 300.000 anni. Siamo una specie molto giovane, che si sta comportando in modo del tutto anti-evolutivo: come pensiamo di sopravvivere altri 4 milioni di anni se andiamo avanti in questa maniera? Il nostro cervello è capace di cose bellissime ma anche di disastri, come quelli sotto i nostri occhi. Potremmo paragonare l’uomo a un bambino con in mano un martello: non sapendolo usare bene, lo utilizza per distruggere ciò che gli sta intorno. Abbiamo uno strumento potentissimo in mano, il nostro cervello, ma dobbiamo imparare ad usarlo davvero bene». E le piante? Qual è la loro intelligenza e come potremmo sfruttare i modelli organizzativi vegetali per applicarli a
Articolo uno La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene ad ogni essere vivente. Articolo due La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono. Articolo tre La Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate. Articolo quattro La Nazione delle Piante rispetta universalmente i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni. Articolo cinque La Nazione delle Piante garantisce il diritto all’acqua, al suolo e all’atmosfera puliti. Articolo sei Il consumo di qualsiasi risorsa non ricostituibile per le generazioni future dei viventi è vietato. Articolo sette La Nazione delle Piante non ha confini. Ogni essere vivente è libero di transitarvi, trasferirvi, vivervi senza alcuna limitazione. Articolo otto La Nazione delle Piante riconosce e garantisce la pratica dell’aiuto reciproco e del mutuo appoggio fra le comunità naturali di esseri viventi.
munitaria». In questa visione «a rete», dove si colloca il genere umano? «In realtà, l’uomo non compare. Le piante sono qualcosa di completamente differente da noi, ma allo stesso tempo noi siamo completamente dipendenti dal mondo vegetale, eppure siamo del tutto ininfluenti rispetto alla loro evoluzione. Negli ultimi secoli l’uomo si è comportato come quei virus che distruggono il loro ospite, adottando un comportamento del tutto anti-evolutivo». Qual è il suo rapporto con le piante? Come è arrivato ad essere uno dei più importanti studiosi del mondo vegetale? «Sono arrivato alle piante con un percorso non lineare. Ho iniziato studiando Agraria anche se, come tutti i bambini e i ragazzi, preferivo gli animali. Credo che le piante siano una sorta di “amore adulto”. Ora ho un rapporto piuttosto stretto con gli alberi, spesso li tocco, li accarezzo, mi piace stare in loro compagnia. Penso che dovremmo imparare il rispetto della Natura dalla cultura orientale; abbandoniamo l’idea che l’uomo sia padrone della Terra, è migliore la convinzione che ne sia il custode». Ultima domanda: in relazione al rapporto tra uomo e mondo vegetale, cosa ne pensa degli OGM? «Personalmente sono contrario, per almeno due ordini di motivazioni. Non c’è alcuna differenza tra mangiare un mais transgenico e uno “normale”. Il problema è molto più ampio: gli OGM sono funzionali a un tipo di agricoltura industriale che considero sbagliata perché non conserva né protegge la biodiversità e la fertilità dei suoli. Quindi, seppur in certi casi gli OGM possano
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L’intelligenza delle piante sta quelli umani? da quelle che noi solitamente co- portare delle competenze. Ognuno «Tra gli animali e le piante c’è un’e- nosciamo. Esistono anche delle porta il proprio contributo; esistono nelle radici. Lì norme diversità, ma hanno sempre strutture umane non gerarchiche, regole, solo sono differenti da quelle convissuto in armonia. Gli animali come ad esempio internet o Wiki- comuni». partono linfa e hanno un corpo in cui il cervello pedia, che funzionano molto bene. rappresenta l’organo di comando, Quindi, perché non applicare que- Potremmo paragonarLa alle comunicazione da cui dipendono. Gli organi sono sti principi anche a una redazione, radici di questo «albero» da Dal libro La nazione delle piante di Stefano Mancuso – Laterza editori
singoli o al più doppi e se una di queste parti smette di funzionare, tutto l’organismo muore. Diversamente, le piante hanno peculiarità strutturali differenti, che derivano dal fatto che si sono evolute in assenza di movimento. Quindi, se il corpo animale è fatto per muoversi, quello delle piante è costruito per rispondere efficacemente all’ambiente circostante, senza la necessità di spostarsi. Le organizzazioni umane – così come anche gli oggetti che l’uomo costruisce – sono fatte a immagine e somiglianza del nostro corpo: una società, ad esempio, avrà un capo, il cervello, che prende delle decisioni velocemente, da cui dipendono tutta una serie di organi seguendo una gerarchia piuttosto rigida. Al contrario, l’organizzazione delle piante è più simile a una rete senza un vero e proprio centro di comando, prendendo decisioni in modo più condiviso e maggiormente democratico. Queste organizzazioni non gerarchiche non rappresentano un esempio di anarchia: le regole esistono, ma semplicemente sono differenti
piuttosto che a un’azienda?».
Lei è il capo di un laboratorio… Come ha organizzato questa struttura? «Anche il luogo dove ci troviamo è costruito come una rete. Io sono il capo solo formalmente, ma i componenti del mio laboratorio hanno libertà maggiori rispetto ad altre strutture. Noi qui facciamo ricerca in modo aperto e libero di spaziare a trecentosessanta gradi e nonostante questa impostazione il laboratorio non è anarchico. La cosa importante è che i componenti della mia organizzazione possano
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Le piante non hanno gerarchia, ma riescono a vivere insieme 33
laboratorio… Cosa ne pensa della fuga dei cervelli? «Questo tema mi ha sempre fatto un po’ ridere, nel senso che già nel Medioevo gli scienziati si spostavano in altri Stati o regioni dove ci fosse un’eccellenza; fare scienza significa acquisire conoscenze e competenze, anche spostandosi. Il vero problema, in realtà, è il fatto che sempre meno persone vengono in Italia ad imparare: la nostra capacità di produrre competenze si sta impoverendo». Abbiamo visto le influenze delle piante sulle altre specie viventi. Parliamo ora del rapporto tra esseri umani e mondo vegetale. Da studioso delle piante, Lei quale rappresentazione grafica darebbe? «Le piante sono come una rete, un’alternanza di nodi e connessioni, qualcosa di completamente differente rispetto alla struttura degli animali, ma costituite da colonie di moduli, del tutto simili alle strutture adottate dagli insetti sociali, esempio virtuoso di organizzazione co-
essere utili al genere umano, sono un’arma troppo potente nelle mani di chi vuole trasformare l’agricoltura in un processo industriale. Il secondo punto è più legato alla mia etica ed è personale: credo che l’uomo non abbia il diritto di interferire nella vita di altri organismi, come le piante, hanno la loro esistenza e vanno rispettati». Mentre il treno corre a 300 chilometri all’ora sulla strada del ritorno, ripenso alle parole di Stefano Mancuso e alla sua visione. Mi chiedo perché persone illuminate come lui, forse «utopisti o visionari» non vengano ascoltate. Eppure, sono convinto che nelle sue idee ci sia una grande verità. L’uomo deve essere in grado di tornare in armonia con la Natura. Ne va della sua, della nostra sopravvivenza come specie. Se non instauriamo una mutua convivenza con gli altri esseri viventi, neanche il nostro meraviglioso cervello potrà salvarci dalla catastrofe dell’estinzione.
Pier Francesco Pozzetto Socio FACILITY GEST
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RIMANERE SEMPRE POSITIVI E AVERE UN PIZZICO DI FORTUNA Intervista a cura di Stefania Spadoni L’altro giorno mi chiama e mi dice: “Devo andare in Brera”. Allora ho chiamato mio cugino e gli ho chiesto: “Ma cosa deve fare?” e così l’ho accompagnato e poi mi ha raccontato dei vecchi tempi, della Milano dei suoi vent’anni, di Jannacci, Dario Fo, Balla, Fontana, Manzoni. Una volta Milano era così, una vera commistione di arti e artisti, dal cabaret all’arte contemporanea e così era mio zio, Renato, un artista. Inizia così la mia chiacchierata con Pier Francesco Pozzetto.
QUAL È IL LEGAME CHE LEGA IL TUO LAVORO A BRERA, E IN FONDO ANCHE UN PO’ A TUO ZIO RENATO?
Nella Milano pre-finanza la mia famiglia aveva comprato delle case in quel quartiere. Eravamo una famiglia di piccoli immobiliaristi e mio papà, che era un geometra, puntò su Brera, che al tempo era un quartiere malfamato. Mio zio Renato, che all’epoca faceva i film, volle anche lui investire. Io andavo in giro con la mia biciclettina e mi ricordo che pedalavo fino in fondo al quartiere e poi scappavo, avevo paura, a corso Garibaldi neanche mi avvicinavo. Pensa che tutt’oggi abbiamo delle proprietà in via Fiori Chiari, una delle vie più belle di Brera, che abbiamo tenuto perché ai tempi mio papà non riusciva a venderle. Oggi anche io ho un’attività da immobiliare e ovviamente tutto arriva da lì, da quelle strade malfamate che nessuno voleva e che oggi sono una piccola perla di questa città.
BRERA TI HA PORTATO FORTUNA E OGGI HAI ANCHE ALCUNI ALBERGHI CHE GESTISCI CON LA TUA ATTIVITÀ?
Mi sono innamorato del mondo dell’hôtellerie e poi con la società Facility Gest con cui sono qui al forum ho sviluppato anche il business dei servizi immobiliari. Io ho sempre studiato e lavorato insieme, ma alla fine non ho finito l’università e ho preferito lavorare perché volevo avere un riscontro immediato rispetto a quello che facevo e mi dava molte soddisfazioni. Quello dell’hôtellerie è sempre stato un mondo bello, pieno di possibilità, ancora oggi ci sarebbero mille posti da far conoscere e valorizzare, soprattutto in Italia. A volte penso che avere città come Roma o Venezia è quasi una sfortuna perché oscurano tutto il resto. (risata) Goethe dopo il suo viaggio in Italia ha scritto racconti bellissimi su questo paese, ci sono certamente tante contraddizioni, ma non ci si può non innamorare dell’Italia e del suo cibo! Anche mio papà e mio zio Renato erano dei grandi gourmettoni e per me il cibo e il sedersi intorno a una tavola è sempre stato sinonimo di famiglia, di stare bene insieme, di ritrovarsi, un momento di socialità e vicinanza.
SCEGLI UN AGGETTIVO PER DESCRIVERTI.
Io mi sento una persona semplice, ho varie attività, ho sempre avuto tantissimi amici e tantissimi interessi, ma non ho mai abbandonato questa attitudine alla semplicità che mi arriva dalla mia famiglia, credo che sia una forza. Tutto quello che arriva è un di più, ma altrimenti sono e siamo contenti lo stesso. Va bene così. 35
SE DOVESSI DARE UN CONSIGLIO ALLE GENERAZIONI FUTURE?
Mio padre, con suo fratello Renato, erano entrambi sfollati per la guerra, e quando sono tornati a Milano, hanno saputo ricostruirsi, vivendo in maniera positiva, guardando al “futuro bello che ci sarà” come diceva Renato. Adesso è più difficile, siamo inondati da mille notizie al secondo, quasi tutte negative, abbiamo paura a prendere decisioni e quando osservo i giovani li vedo con le ali tarpate. C’è un brutto clima di paura e poca fiducia nel futuro. Sicuramente nella vita bisogna aver un po’ di fortuna, trovare le persone giuste, il contesto giusto, il posto giusto, ma il mio consiglio è quello di provare sempre a ricontestualizzare, impegnarsi a essere positivi, sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno.
TI È MAI CAPITATO DI INCIAMPARE NEL TUO PERCORSO DI VITA, TROVARE DELLE DIFFICOLTÀ E COME LE HAI AFFRONTATE?
Sicuramente sia sul lavoro che nella vita privata ci sono stati dei momenti no. La morte di mio padre è stato un momento importante della mia vita, ovviamente. In questi casi penso che bisogna provare ad avere delle grandi visioni, cercare il mare e la luce del cielo che ti apre la mente. Sono stato fortunato, ma anche consapevole nello scegliere grandi amici e compagni di vita importanti, persone vere, genuine che mi hanno sempre aiutato nei momenti di difficoltà. Oggi, anche sui social si ha sempre la tendenza a condividere le cose belle, ma quando accadono quelle brutte, con chi ne parli? Si fa fatica a empatizzare quando hai un telefono come filtro, ti trovi solo, io cerco invece di insegnare ai miei figli il valore della socialità, dell’amicizia. Loro fanno sport, vanno in oratorio, voglio che si creino una bella compagnia di amici e cerco di trasmettergli il valore della semplicità.
COM’È STATO PER TE FORMARSI E CRESCERE IN UNA FAMIGLIA IN CUI TUO ZIO È UN PERSONAGGIO COSÌ CONOSCIUTO E IMPORTANTE PER LA CULTURA ITALIANA?
Lui è sempre stato un uomo che ti rasserena. Aveva la sua ironia, la sua visione che tutti conoscono, ma per me era semplicemente mio zio. C’è una canzone di Paolo Conte che dice “solo il nipote conosce lo zio”, ecco abbiamo una bella complicità. Lui ha sempre tenuto fuori dalla famiglia il mondo dello spettacolo, è chiaro, però, che io con lui mi sono sempre molto divertito. Allora il mondo dello spettacolo era diverso da oggi, era più genuino, potevi parlare con la gente. Renato in fondo è sempre stato un po’ “il ragazzo di campagna” e quella concretezza mi è rimasta: le cose vere sono in campagna dove un albero è un albero, un prato è un prato, l’acqua è acqua. Probabilmente il mio essere fattivo e concreto arriva da lì, ho sempre avuto la testa sulle spalle, sono prudente e cerco di muovermi con attenzione anche negli investimenti che faccio, rimanendo il più possibile trasparente in tutto quello che faccio.
COME SI FA AD AVERE SUCCESSO NEL MONDO DEL LAVORO?
Io sono sempre molto attento alle esigenze e ai bisogni della società. Mi chiedo sempre: cosa vuole il cliente da una società come la mia? Anche qui serve avere un po’ di fortuna, ma è importante rimanere sempre in ascolto per intercettare le cose in anticipo sui tempi, senza giocare troppo d’azzardo, perché i pionieri non sempre hanno avuto fortuna, qualcuno l’hanno riempito di frecce. (risata) Diciamo che come nella vita anche sul lavoro mi considero un moderato e come nella vita anche nel lavoro tutto quello che arriva è un di più, ma altrimenti sono contento lo stesso. Va bene così.
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VITA PRIVATA E LAVORO, COME CONCILI QUESTI DUE ASPETTI?
Separo molto i due aspetti, forse ho imparato da mio zio Renato, che ha sempre separato la vita privata dal mondo dello spettacolo. Io amo stare in famiglia e quando sono nati i miei figli ho smesso di viaggiare per lavoro, oppure cercavo di tornare sempre la sera per stare con loro, me li sono proprio voluti godere. Quando sto coi miei figli, il telefono lo spengo, il tempo passato insieme deve essere di qualità. La mia è una famiglia numerosa e andiamo tutti d’accordo, è una bella fortuna perché tutti siamo disposti a mettere un pochino da parte il nostro ego per vivere bene insieme e i bambini crescono tutti insieme, è molto bello. Con alcuni membri della famiglia, come mia sorella, condivido anche una parte del lavoro, ma quando stiamo insieme cerchiamo di non parlarne.
COME TI SEI AVVICINATO AL FACILITY MANAGEMENT?
Avevo conosciuto un ragazzo che aveva rilevato una società di elettricisti e idraulici, e l’idea era quella di fare una società di manutenzione con uno stile un po’ anglosassone improntato alla correttezza. Abbiamo investito molto in tecnologia, in un tool, una piattaforma tecnologica dove tutte le attività svolte sono trasparenti. Me l’avevano sconsigliato, perché mi dicevano che mi sarei messo troppo a nudo, ma io avevo un’altra idea, volevo fare le cose per bene e secondo me dichiarando tutto, anche gli errori, e gestendo bene i dati le cose possono essere fatte nel migliore dei modi, e ti permettono di crescere in maniera chiara. Abbiamo scelto di assumere le persone e ti assicuro che con duecento dipendenti non dormi sempre sonni sereni, però credo che questo sia un settore dove ci vuole capitale umano. È stato bello strutturare tutto, faticoso ma bello. L’idea è quella di dare ai miei clienti un servizio di qualità e credo che ci stiamo riuscendo.
HAI MAI PENSATO DI FARE SPETTACOLO COME TUO ZIO RENATO?
No, Renato ci ha sempre difeso da quel mondo.
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia 4. Raccontare la vita La vita vera è uno strumento di comunicazione potentissimo, che semina valore e innesca reazioni positive. Basta avere il coraggio di raccontarla senza mistificazioni, filtri o manipolazioni.
1. Crescere insieme 2. Crescere dentro 3. Vincere e perdere 4. Raccontare la vita 5. Agili nell’azione 6. Responsabili nelle scelte
Il racconto di un giorno come tanti 8.45. Accendo il portatile, fortunatamente è collegato a un monitor più grande, altrimenti la vista se ne sarebbe andata da un pezzo. Fogli con appunti e disegni fatti durante le riunioni (geometrici o armoniosi a seconda dell’umore). Carte disordinate e vecchi biglietti da visita. Tazza di tè e l’immancabile bottiglia di acqua. Mi siedo alla scrivania nel grande ufficio con vetrata che si affaccia sui campi di grano e sui vigneti, una cascina in collina dove vivo e lavoro da tanti anni. Sono stata precorritrice dello smart working in tempi non sospetti, isolata dal mondo ma sempre connessa. Apro le mail, c’è una richiesta informazioni. Hai lasciato il numero di telefono, sei una persona disponibile e questo è un buon inizio, perché alle mail preferisco una bella chiacchierata. Ti chiamo e ti chiedo se è un buon momento, altrimenti ci sentiamo più tardi. Lo è, e anche questo predispone al dialogo. Mi spieghi chi sei, cosa fai e come sei arrivato a noi, poi sono io a parlare e inizia la mia narrazione, appassionata perché ci credo. Partiamo da due rive diverse e nuotiamo nel mare delle parole dette e delle parole ascoltate per trovarci nel mezzo, dove ti chiedo di lasciarti trasportare e ti accompagno dove puoi vedere con gli occhi della mente, sentire, assaporare. Ed è così che ti ritrovi a correre sulla spiaggia, a prendere un aperitivo, ascoltare la musica di sera e mangiare una fetta di pizza a mezzanotte. Momenti di vita fra persone che condividono lo stesso desiderio di relazioni umane prima ancora che professionali. Vedi la tua postazione, l’ambiente, ti vedi mentre incontri sconosciuti che a breve non lo saranno più e con cui parlerai per ore ampliando i tuoi orizzonti. È l’aspetto umano del lavoro, ciò che vorrei trasmetterti, perché il lavoro fa parte di noi, occupa il nostro tempo e i nostri pensieri. Siamo vite che si incrociano, si sfiorano per creare legami che restano nel tempo, o anche solo per un istante. E forse un giorno ti ritroverai nella narrazione, leggerai queste quattro righe e capirai che sei tu il protagonista di questa storia. Giusy Grosso Sales manager Richmond Italia
Matteo Bozzetti Partner M-HC
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LA VITA NON STA IN UN DIAGRAMMA Intervista a cura di Francesca Bazzoni C’è fermento al Richmond Marketing forum, uno dei più longevi e requentati di Richmond Italia, e fra una conferenza e un giro di agenda, ci sediamo intorno a un tavolo a prendere un caffè con Matteo Bozzetti, partner di M-HC, un uomo che è sempre alla ricerca di nuove avventure e che ha fatto dell’imprenditoria un modo di vivere.
CHE SIGNIFICA M-HC E DI COSA SI OCCUPA?
Ad oggi potrebbe assumere diversi significati: Medical Healthcare Consulting , o addirittura Matteo Healthcare Consulting (sorride). In realtà originariamente la M starebbe per Mirò, come il maestro del surrealismo, e anche questo nasce da un’associazione di parole: Mi-Ro, Milano-Roma. Ho fondato questa società insieme a Michela, un’amica e ben due volte ex collega, persona speciale e dal talento raro. Lei vive e lavora a Roma mentre io sono nato all’ombra della Madonnina e sono rimasto profondamente legato alla città meneghina. Insieme abbiamo pensato che per fare un progetto vincente in Italia sarebbe stato importante avere due campibase distinti. L’Italia è un paese commercialmente parlando molto complesso, le regioni hanno un’identità molto forte e per gestire al meglio il territorio avere un duplice baricentro è strategico ed estremamente funzionale. In M-HC supportiamo gli stakeholder del sistema salute attraverso consulenza strategica e soluzioni innovative e sostenibili. Abbiamo una grande esperienza nella diagnostica, nel settore delle apparecchiature elettromedicali e più in generale nel mondo Healthcare con le sue dinamiche complesse. Io inizio il mio percorso professionale proprio nel medicale mentre lei nella consulenza ma si è sempre dedicata a questo campo maturando negli anni una grande esperienza specifica. Abbiamo voluto mettere le nostre competenze a fattor comune offrendo un servizio di consulenza non tanto alle multinazionali, che hanno la capacità di rivolgersi ad aziende molto strutturate, ma a quelle PMI che non hanno accesso, o modo e tempo, per affrontare scelte complesse e attività più diretta di sales marketing, che è quello che abbiamo iniziato a fare con i primi partner.
COME NASCE QUESTA IDEA?
Da un incontro speciale. Qualche tempo fa ho conosciuto Cristina, una fisica che faceva la ricercatrice in Italia. Si era trasferita in Svizzera cogliendo l’opportunità di continuare a studiare in un paese dove c’è un grande riconoscimento dello studio ad alto livello. Dopo il PhD e dopo essersi felicemente sposata con un radiologo esperto di senologia, ha fondato una start up che si occupa di Intelligenza Artificiale applicata all’imaging (diagnostica per immagini). Dopo il nostro incontro, e una reciproca simpatia e interesse per il nostro lavoro, le ho proposto di aprire il mercato anche in Italia per fare in modo di diffondere la start up, sino ad allora presente soprattutto negli ospedali universitari svizzeri. Mi chiese di aiutarla, era molto in gamba e il progetto aveva enormi potenzialità. Io le proposi di supportarla nella ricerca attiva di un paio di futuri collaboratori all’interno del mio network.
PERCHÉ NON SEI ENTRATO DIRETTAMENTE NEL PROGETTO?
Fino a qualche mese fa lavoravo per Esaote, un’azienda biomedicale nata a Genova che ha un focus molto forte in ambito ultrasuoni ed è leader mondiale nella risonanza magnetica articolare. Gestivo la linea del core business su tutto il territorio nazionale. Dopo due anni, segnati da altrettanti 41
fatturati record, sono passato a dirigere il Marketing ultrasuoni lato operation in tutto il mondo, con un forte orientamento all’internazionalizzazione. Avevo capito che l’azienda aveva bisogno di parlare un linguaggio globale: avendo come competitor grandi multinazionali, se non avessimo internazionalizzato non avremmo potuto fare economia di scala e alla lunga non saremmo stati sostenibili. Ho iniziato così a lavorare molto al di fuori dei confini nazionali ma ho capito presto che stavo perdendo contatto col mercato domestico e stavo sfruttando solo parzialmente un know-how ventennale. Mentre nei due anni precedenti ho dato un’impronta vincente sia al business che al team, da una parte facendo segnare numeri record che difficilmente potranno essere replicati, dall’altra creando consapevolezza e senso di appartenenza, qui avevo la sensazione di non incidere, non riuscivo a dare il valore aggiunto che normalmente riesco a dare in altri contesti e questo mi provocava un senso di irrequietudine e di parziale insoddisfazione sulla realizzazione personale e la valorizzazione del mio operato. Ho voluto quindi tornare a fare qualcosa dove potessi avere un impatto reale, concreto e misurabile riprendendo il contatto con il territorio italiano e gli stakeholders che più mi hanno insegnato in tanti anni passati assieme. La mia mente è tornata a Cristina, alla sua energia e al suo progetto, b-rayZ, che nasce da una mission tanto ambiziosa quanto grandiosa. Mi sono domandato perché non potessimo cambiare il mondo dalla sanità italiana, la qualità dello screening e la salute della donna, immaginando un prossimo futuro dove le diagnosi precoci di tumore siano moltiplicate e la prospettiva di vita per le donne allungata. Così a marzo 2023 è nata M-HC.
COM’È ABBANDONARE UNA CERTEZZA E ACCETTARE IL RISCHIO D’IMPRESA?
L’ho fatto con estrema decisione. E volevo abbandonare la mia zona di comfort, sapevo che avrei potuto andare avanti per maturità ed esperienza ma volevo fare una cosa diversa, sparigliare le carte sul tavolo e sconvolgere tutto.
TANTE PERSONE CI RACCONTANO DI AVER VOLUTO LASCIARE LA PROPRIA ZONA DI COMFORT, È COSÌ NEGATIVO VOLERCI RIMANERE?
È vero, tendiamo ad associare la zona di comfort a un valore negativo. Ci è sempre passato il concetto che se non pensi in modo diverso non fai mai un passo avanti. Invece non è così, nella zona di comfort si sta bene, anche molto, e questo è positivo. Penso che dipenda molto dall’attitudine personale e dalla fase della vita in cui ti trovi: ci sono momenti in cui magari è molto più importate avere un buon bilanciamento, una comfort zone che ti dia comunque soddisfazione e generi un reddito sicuro che ti permetta di fare altre scelte. C’è chi vede il lavoro come un tassello che una volta conquistato ci consente di pensare ad altro, oppure chi cerca qualcosa di nuovo. Io oggi ho tre mutui e ricordo che uno dei miei primi capi mi disse: se vuoi avere fame, vuoi vendere, fatti un mutuo, fatti un debito, è lo stimolo migliore. (ride)
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VIVI SERENAMENTE?
Ho perso la mia ansia tanti anni fa. Stamattina ho seguito un intervento interessante, e c’è stato un momento simpatico in cui il relatore ha richiesto la Key word che è rimasta ai discenti di quell’aula. A e a me è rimasta la leggerezza: fare senza preoccuparsi troppo del dopo, con cognizione di causa e sapendo che stai facendo la cosa giusta, ma mettendo in conto i rischi e l’imprevedibilità. È chiaro che l’imprenditoria ti porta ad affrontare aspetti che non avevi mai affrontato e a occuparti di tante altre cose. Oggi non ho mai un momento libero, la variabile incontrollabile è il tempo. Diventa ancora più importante quindi darsi un metodo, cosa per me non semplice. La cosa più bella è quando torni a essere padrone del tuo tempo, sapere che se oggi hai costruito un piccolo tassello è per te, per la società, e non perché è un obbligo e lo devi fare. Quello che mi manca di più sono le persone, il team. Sono molto più vicino di prima ai clienti e questo mi piace tantissimo, e sono molto felice di lavorare in partnership.
QUALI SONO I TUOI OBIETTIVI PER IL FUTURO?
Sogno di riorganizzare la società in maniera più strutturata, non per demansionarmi, ma per avere più condivisione e poter mettere a fattor comune anche la mia esperienza, dividere i ruoli. Credo moltissimo anche al passaggio di testimone alle generazioni entranti, a mio avviso fondamentale. Quando vedo i giovani con quella luce dentro, pieni di entusiasmo, ho voglia di metterci la mia esperienza e la mia guida per fare in modo che prendano meno batoste.
SE DOVESSI DESCRIVERTI SENZA IL TUO LAVORO, CHI SARESTI?
Sono una persona che soffre nella zona di comfort, che ha un’inquietudine interiore che a seconda delle fasi della vita sfoga in diversi modi. Non mi disturba l’instabilità. Quando abbiamo fondato questa azienda abbiamo diviso le mansioni e di conseguenza concordato un pacchetto economico. Una persona razionale avrebbe tenuto il pacchetto per finanziare la nuova attività, io invece ho finanziato un progetto immobiliare con un compagno di liceo, che prevede la costruzione da zero di due unità immobiliari all’interno di un contesto già esistente, con tutte le complicazioni del caso. Nel giro di pochi mesi ho fatto così un terzo mutuo, che mi è valso un cantiere da seguire e monitorare costantemente. Sono felice perché lo sto facendo con un amico, faccio tante cose divertenti e mi circondo di persone speciali con cui condividerle. Certo, ogni tanto i numeri mi richiamano all’ordine, ma oggi affronto il futuro serenamente. Puoi anche darti un tempo per una certa cosa e se questa non va rinunci e fai un passo indietro. È chiaro che se devi fare qualcosa per obbligo è un fallimento, se invece è una scelta, anche se fallisci come imprenditore, ne sei consapevole. L’altra cosa non semplice è saper scegliere: dopo tanti anni di relazioni e conoscenze capitano moltissime opportunità ma non puoi seguire tutto perché rischi di farlo male, mentre è importante fare delle scelte e piuttosto rinunciare. È molto difficile perché non domini il tempo, puoi programmare tutto, ma non decidi tu quando gli altri hanno bisogno di qualcosa. Non si può pianificare la vita in un diagramma di Gantt.
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Jaguar Land Rover Italia: prove tecniche di sostenibilità a Gubbio Good news. Richmond Italia ha un nuovo partner: Jaguar Land Rover Italia, che con i prestigiosi brand rappresentati prenderà parte a una serie di eventi, fra i quali il primo è stato Richmond Sustainability business forum 2023, l’evento annuale dedicato a strategie e soluzioni tecnologiche che fanno leva sullo Sviluppo sostenibile. Durante l’evento i partecipanti hanno provato l’emozione di muoversi fra le stradine della gemma medievale di Gubbio in maniera completamente sostenibile a bordo di una piccola flotta di veicoli all’avanguardia: Jaguar I-PACE (full electric), Nuova Range Rover Sport e Defender (plug-in hybrid).
Jaguar Land Rover è fra le prime case automobilistiche ad aver intrapreso un percorso di sostenibilità molto ambizioso. Nel 2024 verrà lanciata la prima Range Rover full electric e dal 2025 Jaguar produrrà solo vetture elettriche, con 10 anni in anticipo rispetto alle disposizioni UE. Per il 2030 sta lavorando a un taglio del 46% delle emissioni
di gas serra in produzione e del 54% per veicolo in tutta la catena del valore. E a seguire, entro il 2039, lavorerà per raggiungere il traguardo di zero emissioni CO2 in tutta la catena di approvvigionamento, i veicoli e le operazioni. Richmond Italia la accoglie a braccia aperte nel club delle aziende che hanno deciso di voltare pagina, e di farlo con convinzione. Lidia Dainelli è Direttore ESG Strategist di Jaguar Land Rover Italia. Sembra avere idee chiare rispetto alle sfide che ormai ci chiamano in causa a ogni passo e non possono essere più ignorate. “Sostenibilità in questo momento storico vuol dire fondamentalmente un cambiamento culturale. Credo sia ormai acclarato il fatto che le aziende debbano lavorare sempre di più in un’ottica sostenibile, ove per sostenibile non si intendono soltanto le azioni che fanno bene all’ambiente, ma che abbiano anche un impatto sulla sostenibilità sociale. E questo vuol dire una cosa sola: cambiamento. Vuol dire per le imprese sentirsi parte di una comunità e quindi far bene a questa comunità. Se non ci educhiamo in questa direzione, credo sia veramente difficile fare il salto qualitativo che richiede la transizione ecologica.”
FOOD
IL PUNTO DI GUENDALINA GRAFFIGNA
UN NUOVO UMANESIMO DELLA BIOTECNOLOGIA ALIMENTARE?
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o scorso 28 marzo è stato presentato dal Ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare e delle foreste un disegno di legge volto a vietare l’impiego, la vendita, l’importazione e l’esportazione dei cosiddetti “cibi sintetici”, ovvero quegli alimenti costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati. La proposta ha scaturito dibattito e mobilitazione a livello nazionale sia tra i rappresentanti istituzionali sia presso la società civile. Recenti dati sui consumatori, per altro, hanno confermato preoccupazione e scarsa propensione a introdurre sulle loro tavole cibi “coltivati in laboratorio”. In psicologia questo fenomeno è noto con il nome di Food Technology Neo-phobia, che dal greco indica la paura (fobia) nei confronti dell'innovazione tecnologica applicata al settore agro-alimentare. Essa è riscontrabile tendenzialmente ogni volta che il consumatore viene a conoscenza della presenza di procedure tecnologiche innovative
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nella generazione, produzione e trasformazione alimentare ed è imputabile sostanzialmente a due principi psicologici. Il primo è “l’avversione al nuovo”: l’essere umano è psicologicamente ostile a tutto ciò che è sconosciuto e ignoto. Al contrario studi scientifici hanno dimostrato che l’esposizione ripetuta del consumatore ad uno stesso stimolo (di qualsiasi natura e caratteristica) genera familiarità e di conseguenza atteggiamenti più positivi. In altri termini: tendiamo a rifiutare ciò che ci viene proposto per la prima volta se non è in linea con ciò di cui abbiamo un’esperienza pregressa, ma se rivediamo per molte volte quello stesso stimolo, ecco che la nostra resistenza iniziale diminuisce ed iniziamo ad accettarlo. Nella moda questa tendenza è evidente: quanti di noi storcono il naso alle innovazioni viste nelle sfilate per poi trovarsi mesi dopo nell’armadio proprio quel tipo di capo che ci aveva inizialmente lasciato perplessi? Tornando al cibo, è evidente che qualsiasi applicazione scientifica per la produzione alimentare è finalizzata all’innovazione e in quanto tale ad aprire all’ignoto delle potenzialità (o dei rischi) che ciò comporta. Il secondo principio è legato alla “portata simbolica del concetto di tecnologia” che nella psicologia comune si lega all’idea dell’artefatto umano, dell’artificiale, e quindi a ciò che è percepito come in antitesi con il concetto di naturale, spontaneo, genuino, autentico. Dal punto di vista psicodinamico, in altri termini, il concetto di tecnologia - a prescindere da quale essa sia - attiva in noi emozioni di estraneità, lontananza, se non addirittura di spaesamento, spavento e preoccupazione, portandoci quindi su una posizione difensiva. Tutto questo diventa ancora più marcato quando ad essere oggetto di trasformazione (manipolazione?) tecnologica è il cibo che è - nel nostro immaginario - la principale fonte di sostentamento e vita: incorporiamo il cibo nel nostro intimo, il cibo è ciò che ci fa sopravvivere ma allo stesso tempo è ciò che può attentare alla nostra salute. Si aggiunga che sullo sfondo di queste reazioni spontanee di scetticismo dei consumatori verso l’innovazione tecnologica nel settore agro-alimentare c’è anche la crescente sfiducia delle persone verso la scienza e gli scienziati, percepiti
Non vi sarebbero nuove scoperte se non si osasse ribaltare conoscenze consolidate
Contenuto a cura della redazione di The Map Report. The Map Report è un magazine di Media Trade Company dedicato ai temi della sostenibilità, della responsabilità sociale e dell’innovazione. Si articola in un periodico cartaceo, un website di informazione quotidiana e un palinsesto tv visibile sul canale 513 di Sky.
FOOD
sempre più distanti dalla società civile. Certo, il tema diventa ancora più spinoso quando non si parla di generica innovazione tecnologica a supporto dell’agro-alimentare bensì si prefigura la possibilità di generare in laboratorio un nuovo cibo, emblema su tutti: la carne coltivata in vitro. Qui la dinamica psicologica si enfatizza sul piano simbolico ed etico perché mette a tema la questione del limite: qual è il limite oltre il quale l’umano non può e non deve spingersi? Quanto in là può spingersi la pulsione dell’umano sul controllo della natura? Al di là di una lettura psicologica, la questione è delicata al punto da meritare un’attenta riflessione sul rapporto tra tecnologia e umanesimo, perché esiste anche il rischio di una sorta di delirio di onnipotenza dell’umano nel processo di trasformazione della natura. Le preoccupazioni e fantasie attivate nell’immaginario dai “cibi sintetici”, infatti, sono simili a quelle animate qualche decennio fa dagli OGM (organismi geneticamente modificati): cibi che hanno sollecitato metafore da film di fantascienza quali quella di Frankenstein-food. D’altra parte, quando si parla di scienza e innovazione, il confine dell’immaginario va per definizione sfidato: non vi sarebbero nuove scoperte se non si osasse ribaltare conoscenze consolidate. E così questi cibi diventano il teatro di un confronto tra visioni del mondo diverse. Quella della scienza, che sfida il limite per garantire “il cibo a tutti”, nel delicato equilibrio tra l’aumento demografico mondiale e la necessità di trasformare i sistemi di produzione agro-alimentare per via della crisi provocata dal cambiamento climatico. E quello della società, che rivendica il bisogno di rassicurazioni circa l’eticità delle pratiche e le loro ricadute in termini di salute e di rispetto dei valori delle comunità. Prospettive entrambe plausibili e rilevanti, ma che rischiano lo scontro conflittuale se non aiutate a porsi in un dialogo costruttivo.
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Perché è proprio nell’ascolto e nella considerazione reciproca delle istanze degli uni (gli scienziati) e degli altri (i cittadini) che si possono generare forme virtuose di soluzione. Comunicazione, sensibilizzazione, dibattito a due vie, anche nell’ottica di forme di scienza partecipata (Citizens Science), hanno dimostrato essere la chiave per accompagnare innovazioni biotecnologiche di successo ed accettate dalla società. Questa, dunque, la vera sfida per il prossimo futuro. E nel nostro Paese, saremo capaci di costruire le condizioni per “un nuovo umanesimo” della scienza biotecnologica alimentare? Tuttavia, se la rilevanza ed urgenza delle sfide scientifiche, etiche e psicologiche messe in gioco dalla proposta di produzione di cibi sintetici è palese, altrettanto non lo è trovare le giuste risposte. Per arrivarci credo che l’unica strada sia quella di porre le condizioni per favorire un dialogo collaborativo e partecipativo tra le istanze, esperienze, percezioni e dimensioni di fiducia del consumatore e quelle degli scienziati, al fine di generare processi di ricerca più etici ed inclusivi anche nella logica della scienza partecipata dai cittadini. Solo così si potrà garantire un’innovazione tecnologica attenta e rispettosa delle richieste della società e allo stesso tempo spunti per orientare iniziative educative e di supporto a favore della tutela e della responsabilizzazione del consumatore. GUENDALINA GRAFFIGNA è professoressa di Psicologia dei Consumi e della Salute presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona e direttrice di EngageMinds Hub, centro di ricerca multidisciplinare dedicato allo studio e alla promozione dell’engagement, il coinvolgimento attivo delle persone nelle condotte di salute e nei consumi alimentari.
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La storia di Mario
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La storia di Mario
Mario Maduli IT project manager & applications analyst FIDIA FARMACEUTICI
Vivi senza smettere mai di farlo
Sono nato in una piccola provincia calabrese e nonostante il grande amore che provo per la mia terra natìa, ammetto che è impossibile crescervi professionalmente e soddisfare le proprie ambizioni, a causa dello scarso impegno delle istituzioni. Per questo motivo ho dovuto cercare la mia prima opportunità lavorativa altrove, a Bologna, dove nel 2004, appena terminati gli studi, ho lavorato come analista IT presso un’azienda specializzata in beni di lusso e fashion retail. Non è stata un’esperienza facile ma senz’altro mi ha permesso di imparare molto, grazie alla complessità del business e agli ambiziosi piani di sviluppo dell’azienda. Dopo qualche anno mi sono spostato in Gruppo Enel, nella sede di Roma, per coordinare il programma digitale di sviluppo della rete elettrica nella B.U. Digital Factory. Sono stati anni molto intensi, sia per la mole di attività progettuali da gestire, sia soprattutto per le continue trasferte in tutta Italia di cui mi facevo a carico: ho dovuto vivere per molto tempo in hotel e ciò ha richiesto da parte mia un’elevata capacità di adattamento. Tuttavia sono convinto della necessità di abbracciare sempre le nuove sfide, con coraggio ma anche con fiducia e leggerezza.
e non deve mancare. È importante buttarsi a capofitto nel proprio mestiere, percorrendo nuove strade di crescita professionale, però senza mai dimenticare di godersi il viaggio. Per quanto faticoso possa essere, ho capito che per avere un’ascesa come professionista e come persona occorre mettersi in gioco, rompere gli schemi, superare i propri limiti e prendere atto di quelli invalicabili. Non per nulla quando mi si è presentata l’occasione di lasciare un porto sicuro come Enel per iniziare una nuova avventura, l’ho colta al balzo e mi sono unito a Derga Consulting come consulente IT ERP e SAP. Lavorare in consulenza ti permette di toccare l’apice del tuo potenziale: ti verrà chiesto, la maggior parte delle volte, di raggiungere un obiettivo in poco tempo, avendo a disposizione solo poche risorse e pochissime informazioni. Ti troverai a dover gestire più attività in parallelo, tutte prioritarie. Riceverai pressioni dal tuo responsabile, dal cliente, da uno stakeholder del progetto, e dovrai essere bravo a gestire le relazioni. È evidente che dall’insieme di questi aspetti non può che derivare un aumento delle proprie capacità, tra cui, parlando a livello personale, una buona resistenza allo stress e l’abitudine all’incertezza.
Quello del divertimento ritengo sia un aspetto fondamentale che nel lavoro non può
Si tratta di qualità a mio avviso indispensabili per poter costruire una carriera che sia 49
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di successo, ma non si potranno mai conseguire senza essere disposti a uscire dalla propria zona di comfort. La vita di tutti i giorni ci appare piacevole perché nulla ci sorprende più. Tutto è familiare e confortevole, conosciamo in anticipo le nostre abitudini e la nostra routine, possiamo agire in modo automatico e senza dover provare ansia: ci sentiamo al sicuro insomma. Ma è solo uno scomodo rifugio, quasi una gabbia, dove, nonostante la sensazione di disagio, si continua a stare. Uscirne è un’impresa faticosa, ostica, che riempie di dubbi e paure: perché abbandonare un luogo in cui, anche se con difficoltà, riesco a muovermi, so come girarci, ne conosco ogni angolino, anche se angusto e scomodo? Come faccio ad addentrarmi in un percorso sconosciuto, pieno di rischi e ostacoli, senza sapere nemmeno se fuori da questa zona andrà meglio? Sono domande che mi è capitato di pormi nel corso del mio
skills tecniche, ma per l’80% si tratta di abilità comunicativa. Il messaggio che vorrei far passare è che è inutile porsi delle barriere e pensare che non si abbiano le capacità, la forza o la motivazione di fare ciò che ci piace. Certo non si può essere dei sognatori eccessivi, bisogna guardare in faccia alla realtà, ma credo che troppe volte le persone potrebbero fare di più anziché lamentarsi di ciò che non hanno. Prima di tutto c’è da rimboccarsi le maniche e assicurarsi di dare il massimo. Il resto verrà da sé. Dopo l’esperienza in consulenza mi sono unito a quella che è la mia azienda attuale, Fidia Farmaceutici, a Padova, con il ruolo di Sviluppo e coordinamento delle attività progettuali Applicative a supporto della Produzione Pharma & Supply Chain. È stata una scelta dovuta non soltanto alla mia continua ricerca della novità, ma anche al fatto
È INUTILE PORSI DELLE BARRIERE E PENSARE CHE NON SI ABBIANO LE CAPACITÀ, PIUTTOSTO CHE LA FORZA O LA MOTIVAZIONE, DI FARE CIÒ CHE CI PIACE tragitto professionale, quando da un lato avevo appunto trovato un luogo familiare e sicuro ma dall’altro provavo una voglia enorme di fare qualcosa di nuovo, esplorare territori sconosciuti e ritornare a provare quel brividio del rischio che ti spaventa e ti fa sentire al tempo stesso vivo.
che fosse una grande azienda. Lavorare in aziende di grandi dimensioni ti consente di viaggiare e collocarti in contesti altamente strutturati e qualitativamente all’avanguardia, partecipando in modo attivo all’evoluzione digitale. Negli ultimi tre anni non ho mai smesso di tenermi occupato e ho continuato a formarmi, completando un percorso di formazione con la SDA Bocconi in IT Management, un training specifico sulla Leadership con la Harvard University, e un programma di Big data con il MIT. Essere specializzati in un solo lavoro oggi non basta più, consiglio di essere sempre alla ricerca di nuovi interessi e agire in più campi. Attualmente sono membro di ISPE, dell’Associazione Italiana per la sicurezza informatica CLUSIT e dell’Istituto Italiano di Project Management ISIPM. Per il futuro mi auguro di avere ulteriori stimoli, energie e determinazione, ma soprattutto di essere pronto ad accogliere le sfide di crescente complessità che mi si presenteranno nel settore dell’ICT.
Vorrei raccontare della mia incredibile esperienza semiprofessionale giovanile come Deejay, vissuta parallelamente al lavoro. La musica è una delle mie più grandi passioni. Fin da quando avevo vent’anni colleziono vinili i cui generi musicali spaziano dal funky alla disco, dal jazz alla techno. Ho iniziato a comprarli grazie anche al mio secondo lavoro di DJ, che consisteva in una travolgente immersione nel mondo della notte a contatto con contesti fatti di amicizie, avventure di ogni tipo ed eccessi di ogni genere. È anche uno dei casi in cui mi sento di dire che mi sono spinto al mio limite e sono fiero di averlo fatto. In quegli anni capitava spesso di trascorrere l’intera notte senza dormire e di andare direttamente al lavoro la mattina successiva. Ho attraversato lo spartiacque tra chi ero e chi avrei potuto essere. Non solo: quell’esperienza mi ha permesso di aprire la mente, essere una persona sociale e portare nel lavoro quotidiano un approccio flessibile ed empatico, si dice che nell’ICT servano
I valori-simbolo di Richmond Italia in cui mi riconosco maggiormente sono Complessità e Progettazione. La complessità perché fa parte delle sfide che decido e ho sempre deciso di affrontare, mentre la progettazione perché fa parte della mia professione di Project manager. 50
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I B.Liver sono adolescenti e giovani adulti che hanno incontrato lungo il percorso una diagnosi di malattia grave o cronica e che, attraverso le attività del Bullone, contribuiscono a cambiare la percezione e la narrazione della malattia alle quali siamo abituati. Con loro parliamo di curriculum vitae, legge 104 e lavoro. Perché la vera diversity passa attraverso l’inclusione spontanea di categorie protette in azienda, assunte non per fare numero, bensì per il loro grande valore aggiunto.
STORIE DI LAVORO E RESILIENZA
ELISA CALABRETTA intervista a cura di Francesca Bazzoni
Raccontaci la tua storia, chi è Elisa Calabretta e da dove viene Asimmetria (scuola di danza in cui ci troviamo per l’intervista - n.d.r.)? Tutto è cominciato con la danza. Ho iniziato a ballare che avevo sette anni, quando mia mamma, pensando che mi servisse fare uno sport, mi portò alla mia prima scuola di danza. All’inizio l’impatto non fu positivo, anzi, le prime due scuole che visitai avevano insegnanti che continuavano a gridare, e io pensai subito che non fosse per me. La terza invece, fu quella che mi conquistò. Un’insegnante gentile mi accolse, la stessa che dopo i primi anni disse a mia madre che ero portata e che avrei potuto fare strada. Ero una bambina timida, a tratti bullizzata perché sempre precisa, definita la “cocca della maestra”. La danza mi ha reso felice fin dall’inizio. È stato ballando però che è iniziata la mia condanna. Avevo dodici anni la prima volta che ho smesso di mangiare, se ne accorsero subito tutti, così rientrare dal problema fu semplice, perché ero solo una bambina. Man mano che andavo avanti la danza mi appassionava sempre di più, e sono arrivata a dire, come tante bambine: “Da grande voglio fare la ballerina”. Arrivata a quattordici anni avrei voluto andare al liceo coreutico, ma il più vicino era a Torino, e i miei genitori la esclusero come possibilità. Allora decisi di iscrivermi a una scuola più semplice, in modo che mi permettesse di proseguire al meglio con la danza. Mi iscrissi a Perito Informatico, anche se poco dopo la scuola mi spostò al liceo scientifico tecnologico. Ogni giorno andavo a scuola, a danza quattro ore, e poi studiavo. La mia vita è sempre stata dedicata alla danza. Il problema è che più vai avanti più l’ambiente della danza diventa malato, una competizione altissima e insegnanti poco empatici che evidenziano ogni difetto fisico. Questo ha fatto scattare qualcosa dentro di me, qualcosa che mi avrebbe fatto soffrire per gli anni a venire. In quarta liceo è arrivato il momento per me di fare la prima audizione, dove con mia grande gioia sono stata presa, si trattava di partire e andare in Sardegna a ballare con una compagnia per quatto mesi. La scuola non era ancora finita, ma convinsi il preside (anche perché avevo dei risultati brillanti) che sarei andata ogni sabato a recuperare tutto quello che mi ero persa durante la settimana. Lui acconsentì e io fui libera di partire. Avevo diciotto anni a quel punto, e smisi di mangiare: in un corpo di ballo, dal momento in cui quasi nessuno mangia, mi sembrava la normalità. Tornai a casa a settembre, ero già dimagrita molto ma si pensava che fosse una cosa passeggera, estiva. E invece ha cominciato ad andare sempre peggio, passai dal pesare 48 chili ad arrivarne a 32 nel giro di qualche mese. Da quando ero tornata avevo iniziato a dire bugie, del tipo che mangiavo a danza, quando in realtà non era così. Cambiavo anche i soldi per far si che le mie bugie fossero sostenute dai fatti. Mi sentivo bella, mi sentivo leggera, mi sentivo forte. E poi un giorno durante uno spettacolo il mio corpo ha detto “Elisa basta”, e sono collassata. Avevo appena iniziato la quinta liceo. Come sono cambiate le cose poi? Sono andata da una psicologa ma ero già troppo dentro la cosa perché potesse essermi utile. Così abbiamo trovato Villa Turro, dove c’è il reparto di studi alimentari e dove mi hanno proposto di fare il ricovero breve di tre settimane. Io ho accettato, ed è iniziato il mio
lungo viaggio verso la guarigione. Il giorno del mio compleanno, la psichiatra che mi seguiva mi disse che non mi sarebbe rimasto molto da vivere se fossi andata avanti così. Poco prima del mio ricovero, una mia compagna di danza era morta in un incidente stradale, lei non aveva potuto scegliere, io potevo farlo. I primi giorni in clinica non mangiavo nulla, ma ero lì dentro per mia scelta, e quindi sapevo di voler guarire. Mi ricordo che il giorno che ho ricevuto la chiamata da Villa Turro in cui mi dissero che avevano un posto per me mi misi a piangere di gioia. A casa sarebbe stato impossibile. Ogni giorno mangiavo mezzo limone, due foglie d’insalata e delle gomme da masticare. Dopo il ricovero breve, mi hanno proposto quello lungo, quattro mesi, e così mi sono ritirata da scuola per provare a guarire davvero. Il punto di svolta è stato quando ho chiesto di stare in stanza da sola. Perché anche in clinica, nessuno crede che si possa guarire. C’erano così tante influenze negative dalle altre pazienti che avevo bisogno di stare sola per provare a farcela. Non volevo ingannare il sistema e rimanere com’ero, volevo cambiare. Da lì in poi piano piano ho cominciato a risalire. Quando sei uscita? La prima volta che sono uscita con un permesso, e mi sono vista allo specchio, è stata una tragedia, mi sono sentita morire. Ero in guerra con me stessa. Una parte di me voleva che tornassi a dimagrire, l’altra sapeva che stavo andando nella direzione giusta, anche se l’immagine allo specchio sembrava più brutta di quella che avevo lasciato. Dovevo alimentare la parte razionale della mia mente, e cercare di contrastare la parte emotiva che continuava a vedersi grassa anche se non arrivavo a 40 chili. Era l’emotività che dovevo curare. È arrivato finalmente il momento di uscire, ero felice, ma avevo anche tanta paura di rientrare nel mondo che mi aveva fatto così tanto male, uscivo da una bolla e avevo paura che sarei stata ancora più sola. I miei genitori hanno dovuto fare delle sedute per capire come gestire la cosa, perché dovevano provare a ripropormi lo schema con cui avevo vissuto gli ultimi cinque mesi in clinica. Dovevo tornare a scuola per finire il liceo, ma la quinta del mio indirizzo non esisteva più. Avevo fatto quatto anni di liceo scientifico tecnologico e mi sono ritrovata a fare tre anni in uno da privatista di Perito Informatico; andavo a scuola per seguire alcune lezioni e altre le facevo da privatista, è stato un incubo. Finito finalmente il liceo, volevo iniziare l’accademia, ritornare a danzare. Seguivo la dieta nonostante mi vedessi enorme, ma sapevo che dovevo farlo, e piano piano anche le dosi di cibo hanno cominciato a salire. Mi sono presentata a un’accademia dove mi hanno detto che avevo un po’ troppa pancia e che le
scuola. Se qui qualcuno sta male, non succede che venga lasciato solo, ma l’opposto. Tutti vanno a tendere una mano. Oggi che rapporto hai con la tua salute? Oggi mangio di tutto, forse anche troppo (ride - n.d.r.). Ho capito che con tutto lo sport che faccio non c’è nessun pericolo. Se mangi bene stai bene e vivi bene, e sopratutto non ti perdi niente.
ballerine dovevano stare più di otto ore senza mangiare… Ho girato i tacchi e me ne sono andata senza neanche fare il provino. Pesavo 36 chili. Poi ho fatto l’audizione al MAS e sono stato presa. Dopo pochi mesi ho capito che l’ambiente della danza non faceva più per me. Avrei rischiato di morire e avevo faticato troppo per ritrovare la mia salute per buttare via tutto così. Mi sono ritirata dall’accademia e a malincuore ho deciso che non avrei mai più ballato. Appesi le scarpette al chiodo e dissi addio alla mia più grande passione. Ho iniziato a lavorare, non mi interessava fare l’università. Sono passata da fare la commessa a fare la barista e poi a lavorare in un’autoscuola. A ventitré anni ho deciso di andare a vivere da sola, mi sembrava il momento giusto. Mangiavo, lavoravo ero fiera di me. Finché un giorno mi sono guardata allo specchio e mi sono accorta che non ero felice. Un altro momento decisivo della tua vita? Sì, perché ho ripreso a ballare in una scuola amatoriale, e dopo poco mi hanno chiesto se volessi insegnare. Avevo le abilitazioni e così ho accettato, mi sono licenziata dall’autoscuola e ho iniziato questa nuova avventura. L’insegnamento non era abbastanza per mantenermi e così ho iniziato un lavoro part-time e nelle pause andavo ad insegnare in palestra. Poco dopo, il negozio dove facevo il part-time ha chiuso, e così mi sono ritrovata senza la mia fonte primaria di sostentamento. All’inizio ero disperata, poi mi sono accorta che quella sarebbe stata la mia occasione. Ho iniziato a insegnare in più di una scuola e all’inizio del 2020 per una serie di coincidenze della vita e con l’aiuto di mio padre ho deciso di aprire la mia. È stato un salto nel vuoto, ma sentivo che dovevo farlo. Asimmetria, la mia scuola, è nata da un foglio di carta, scegliendo un nome che mi rappresentasse. Non ero una ballerina comune, mangiavo e volevo una scuola che fosse per le persone, volevo un ambiente sano che portasse a delle cose belle. Volevo che i miei allievi fossero liberi e che tutto il male che era stato fatto a me non venisse più rifatto a nessuno. Il mio spazio è uno spazio libero, dove ognuno può essere chi è. All’inizio avevo cinque allievi, adesso siamo quasi cento. Social e passaparola mi hanno aiutato e forse anche la libertà che i miei allievi hanno sempre avuto. Quello che mi ha fatto tantissimo male in passato oggi mi fa tantissimo bene, e non solo a me, ma a tutti quelli che abitano la mia
La verità è che anche se peso un chilo in più, ma sono andata a farmi l’aperitivo coi miei amici, sono felice e questo prima mi mancava. Certo, nei momenti difficili ancora oggi la prima cosa che mi viene da fare è smettere di mangiare. Però ora ho tanti strumenti per tornare indietro quando capisco che sto andando in quella direzione. Non è una cosa che ti passa, ma impari a gestirla. È come avere un orto, e c’è una parte che inizia a marcire. Se tu lasci che quella faccia marcire tutto ti ritrovi senza orto, se invece sono le cose belle che vanno a rimangiarsi il marcio, tutto diventa migliore. Ho imparato a pensarla così, anche grazie ai 15 anni passati andando da una psicologa. Alla base dell’anoressia c’è l’insicurezza, il bisogno d’amore. Ci vuole tanto tempo per guarire, ma si può fare. In un certo senso io ringrazio la malattia, perché altrimenti non sarei quello che sono oggi. Ambizioni? Volevo fare la ballerina e ho aperto una scuola di danza dove tutt’ora ballo. Vorrei portare in giro un mio spettacolo, ma voglio che sia un lavoro comune, non mi interessa che sia una cosa mia, se ballo con i miei allievi mi sento bene. Ci sono ancora tanti pezzi che devo mettere a posto, c’è sempre un po’ il desiderio di sparire, ma adesso mi aiuto e cerco di accettare sfide da cui prima sarei scappata. Se penso alla Eli che è entrata in ospedale la vorrei abbracciare tantissimo. Oggi a 32 anni forse non avrei la forza di fare quello che ha fatto quella ragazzina. Non mi vergogno di quello che mi è successo,10 anni fa l’anoressia era considerata un capriccio invece ai miei allievi io racconto tutto, perché anche chi insegna è umano, ed è giusto che passi come tale. Tutti sbagliamo, e per gli allievi è un bel messaggio. Se avessi scelto di morire mi sarei persa una vita bellissima. Si ha sempre una scelta, e anche se l’anoressia è una malattia, la medicina sei tu. Non tutti hanno la fortuna di avere la medicina a portata di mano.
Un percorso di team building per costruire e per rafforzare l’identità di gruppo, creando fiducia, riconoscimento e senso di appartenenza. Un’esperienza di condivisione e di creatività, che racconta la storia di un team attraverso la realizzazione di un’opera d’Arte. Un’occasione per comprendere il valore delle fragilità e trasformarle in punti di forza, da valorizzare insieme alle risorse individuali e del gruppo . Una strada per arricchire con autenticità la propria cultura aziendale in ambito D&I, renderla visibile in un progetto di Responsabilità Sociale e incisiva sul proprio score ESG.
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La storia di Anna
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La storia di Anna
Anna Juricic Coaching system
La vera cura è nella relazione che si crea con l’altro
Come sono diventata coach? È stata una sorta di attrazione. Nella mia vita passata mi occupavo di tutt’altro, ho lavorato infatti quasi vent’anni in Alitalia. A quel tempo vivevo a Roma con i miei primi due figli, avevo una vita completamente diversa. A un certo punto della mia carriera ho iniziato ad appassionarmi alla formazione e a occuparmi di formazione del personale navigante in Alitalia. Nel 2009, viste le sorti della compagnia di bandiera, ho deciso di lasciare l’azienda per fare un salto nel buio. Non sapevo dove questo mi avrebbe portata, ma quello di cui ero certa è che l’aspetto umano era centrale nel mio cambiamento e volevo focalizzarmi su quello. Nel frattempo, ho avuto la terza maternità, non prevista come tante altre cose della vita, e nel 2011 ho iniziato con una società americana a fare formazione e coaching. Da lì è nato un percorso nuovo che per me non aveva un obiettivo lavorativo preciso, sentivo un grande fascino verso quel mondo, era qualcosa che andava davvero in profondità, che mi poneva delle domande e quindi apriva a riflessioni completamente diverse. Il coaching non consiste in una strategia, in metodi particolari e teorie che devono essere applicate, ma è un cercare di capire dove si è a dove si vuole arrivare, e per fare questo passare anche attraverso la conoscenza di se stessi. Ho cominciato così, continuando poi a fare moltissimi corsi di formazione nel tempo. All’inizio ero disorientata e avevo anche diversi timori, ero una mamma con tre figli e non avevo un piano B, ma una grande voglia di fare qualcosa di diverso, di crescere.
competenze e garanzie in un mondo dove tanti si attribuiscono la definizione di coach senza esserlo davvero. Avevo capito che era necessario costruire competenze importanti, credibili e riconosciute. È un ambito in cui è forte l’esigenza di dimostrare le proprie competenze, ma seguire un codice etico è altrettanto importate. Il coaching ha l’obiettivo di tirare fuori il potenziale della persona, raggiungere ciò che il cliente si prefigge. Il vero coaching si attua fuori dalla sessione, quando le persone piano piano mettono in pratica il loro potenziale e portano quello che apprendono dalla sessione nella loro vita professionale e personale. Il percorso che facciamo insieme si basa tre pilastri: consapevolezza – una parte esplorativa che consiste nell’andare sotto la superficie ed esplorarsi nel profondo; apprendimento – imparare qualcosa di nuovo; e poi la parte più importante, la messa a terra: un piano di azione in un lasso di tempo prefissato (le sessioni di coaching sono formulate anche a livello temporale. In questo costante ciclo di azione e riflessione si continua a sperimentare per arrivare poi alla concretezza. L’obiettivo è quello di guardare al futuro: testiamo alcune soluzioni e vediamo cosa ha funzionato e cosa no, per testare attitudini diverse, sono i miei clienti a dirmi cosa si portano a casa dal percorso. Capita spesso, quando è l’azienda a richiedere il coaching per i dipendenti, che la maggior parte delle persone non sappiano cosa aspettarsi, altre possono vedere questo percorso come un’imposizione aziendale. Bisogna prima creare fiducia nell’altro. Quello che si crea nella relazione è molto intimo, quindi piano piano le persone si affidano, ma bisogna anche saper rispettare i livelli di apertura
Il punto di svolta è stato quando ho conosciuto l’International Coach Federation, un’associazione importante a livello globale che fornisce 57
La storia di Anna
di tutti, che sono differenti, saper capire da dove ognuno parte e di conseguenza dove ognuno può arrivare, a prescindere dagli obiettivi aziendali. C’è all’inizio molta chiarezza nella definizione di quello che andremo a fare ma ognuno nella sua sessione è molto libero e protetto, la sicurezza psicologica che si crea è forse la parte più importante che permette poi tutto il resto. L’importante è arrivare con un obiettivo all’interno della sessione, è il tuo tempo e devi decidere tu cosa farne, perché il tempo è la risorsa più preziosa che abbiamo. A volte ci si rende anche conto che l’obiettivo con cui arriva all’inizio una persona non è in realtà il principale, e allora il focus si sposta.
ispirato molto. Una in particolare è Marianne Williamson. La sua autenticità, il suo modo di insegnarmi a guardare e a tirare fuori il meglio mi hanno sempre spronata. Dal percorso con lei è venuta anche la mia idea di appoggiare le donne, di cercare dei percorsi per tirare fuori la leadership femminile, per metter in risalto la nostra consapevolezza e i nostri punti di forza. Noi donne tendiamo molto a fare copia e incolla sulla leadership maschile, tra l’altro quella sbagliata e tossica, mentre bisogna trovare altri modelli. Nell’insegnare la leadership femminile è importante mostrare le differenze e valorizzarle, e creare consapevolezza in questo. Antropologicamente ci sono delle differenze tra i sessi, tendenze diverse in positivo e in negativo. Le donne, ad esempio, hanno forti capacità relazionali, di cura, di creare, mettere insieme, ma quando non le potenziano possono cadere nell’essere bisognose e richiedenti, mentre gli uomini sanno essere direttivi, avere diverse visioni d’insieme, ma dall’altra parte sanno anche essere aggressivi, crudeli. È importante comprendere questo e imparare ad essere complementari e non simmetrici in questa crescita. Quando spiego questo nelle mie sessioni c’è una grande accoglienza e comprensione. Si impara tirando fuori da se stessi, non dall’esterno, è forse questa la chiave di volta del coaching rispetto alle altre formazioni. La vera cura è nella relazione che si crea, questo ci ridà un livello di umanità straordinaria, dovremmo ricordarcelo.
Un tema molto diffuso oggi nelle persone è quello di non riuscire a conciliare la vita privata con quella lavorativa. Il vero problema è tutto nella nostra mente perché tendiamo sempre a categorizzare: lavoro-situazione sentimentale-famiglia-amici, e dividendo tutto in compartimenti stagni ci troviamo a doverci dividere anche noi. Alla fine, noi siamo uno solo, siamo sempre noi, e avere una visione olistica di noi stessi ci permette di disegnare nuovi equilibri. Una cosa impatta sull’altra, se abbiamo un problema in famiglia lo portiamo anche sul lavoro. Le maschere sono antiuomo, dobbiamo iniziare a spogliarci delle categorie e delle maschere, per essere autentici dobbiamo ritrovare la nostra dimensione umana, permetterci di essere vulnerabili. Dobbiamo prima esserlo con noi stessi, per poterlo essere anche con gli altri. Nella mia vita ho trovato persone che mi hanno
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Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è uno spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spessore. Tirate fuori gli smartphone e cliccate il codice QR: troverete un materiale very open.
KNOWLEDGE IS POWER SALVATORE CAROLLO
Oil & gas international market analyst
Abbiamo bisogno di studiare, di arrivare a Bruxelles preparati (…) Creiamo un mercato del gas e determiniamo il prezzo del gas del Mediterraneo da contrapporre agli speculatori del Nord Europa. L’elettricità è una parte dell’energia, non è tutta l’energia. È chiaro che tenderemo ad espandere i consumi di elettricità, ma dobbiamo stare attenti perché si tende a dire “l’auto elettrica inquina meno dell’auto diesel”. Dipende da come è prodotta questa energia elettrica.
STEFANO MANCUSO
Botanico e fondatore della Neurobiologia vegetale
Quando tante persone insieme iniziano a creare una comunità, il progresso procede molto più spedito (…) Tutte le organizzazioni delle nostre aziende sono organizzazioni centralizzate e gerarchiche, che funzionano molto bene, ma ci sono altri modelli di organizzazione di ispirazione vegetale, che sono modelli distribuiti e diffusi e possono essere presi in considerazione per alcuni ambiti aziendali, soprattutto lì dove si cerchi di avere soluzioni più creative possibili.
Strategie, modelli di business, tecnologie e best experiences: tutte le risposte per fare bene nel mercato dell’energia italiana le trovi qui. Never forget, you have the power.
RIMINI 6-8 MARZO 2024 EDIZIONE SPRING RIMINI 22-24 SETTEMBRE 2024 EDIZIONE AUTUMN
Marco Guazzoni Direttore della Sostenibilità VIBRAM
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LA SOSTENIBILITÀ TRA OSTACOLI E ORGOGLIO APPASSIONATO Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo Quello di Marco Guazzoni è un percorso di crescita, tanto personale quanto professionale. Lo si capisce subito dal sorriso e dalla leggerezza con cui parla delle difficoltà più ardue che ha dovuto affrontare e ha superato con successo per arrivare dov’è oggi. Essere sostenibili richiede tanto a chi se ne occupa, ma ne vale la pena!
HAI SEGUITO FIN DA SUBITO LE TUE PASSIONI NELLA SCELTA DEL LAVORO O È QUALCOSA CHE È ARRIVATO DOPO?
Sono un ingegnere Elettrico laureato in chimica e il mio primo lavoro è stato quello di vendere prodotti chimici. Col tempo ho realizzato quanto ciò non mi desse soddisfazione, e quanto il mio lavoro fosse piuttosto orientato al soddisfacimento di un certo tipo di logiche lavorative tipiche dell’epoca in cui sono cresciuto e improntate al capitalismo, come la scalata di ruoli e il profitto crescente. Oggi posso dire di essere dotato di una autoconsapevolezza decisamente maggiore e, nella scelta dell’azienda, rientrano una serie di fattori ulteriori. Anche quand’ero giovane e alla mia prima esperienza professionale decisi comunque che la vendita di prodotti chimici non faceva al caso mio. Successivamente mi sono fatto assumere in qualità di Direttore generale di una società di distribuzione di strumenti musicali, entrando nel mondo della musica, decisamente più in linea con le mie attitudini. Ma mancava ancora qualcosa. Così infine, seguendo, una volta per tutte, la mia reale passione per lo sport e l’outdoor, ho calzato il ruolo di manager per la Ricerca e sviluppo in Vibram, azienda che produce suole di gomma ad alta performance per calzature. Oggi sono in Vibram da oltre otto anni e sono Direttore per la Sostenibilità.
QUALI SONO LE DIFFICOLTÀ CHE HAI INCONTRATO NELL’AFFRONTARE LA SOSTENIBILITÀ?
Appena mi è stato affidato un ruolo che fosse nell’ambito della Sostenibilità, mi è stato chiesto di svolgere il mio mestiere con la minima spesa di denaro possibile, vedendolo più come un costo che come un investimento. Mi sono dovuto scontrare fin da subito con la diffusa riluttanza, in particolare da parte dei vertici aziendali, a cogliere le reali opportunità che la sostenibilità può offrire. In molte aziende la rigidità mentale che a volte bisogna fronteggiare è tale per cui alle volte si può uscirne scoraggiati, sembra di lottare contro i mulini a vento, e pare che non vengano comprese le modalità – parte invece fondamentale – attraverso cui svolgere questo mestiere. Si guarda troppo all’obiettivo e troppo poco al modo in cui realizzarlo, a mio parere. E per certi versi bisogna essere in grado di scardinare i modelli di pensiero precedenti e rendere manifesto il significato del cambiamento sostenibile più che il suo valore in denaro, che comunque deve arrivare perché la sostenibilità deve essere anche economica. Inoltre, si pone un ulteriore problema: nell’ambito della sostenibilità siamo manchevoli di uno standard comune in base al quale tutte le società possano confrontarsi tra loro. Troppo spesso i parametri attraverso i quali veniamo giudicati ci vengono attribuiti a priori, ma è sbagliato: dev’essere ben chiaro in base a che cosa si sta dichiarando se la mia società raggiunge un maggiore valore in termini di sostenibilità rispetto ad un’altra. 63
COME SI POSSONO AFFRONTARE I MOMENTI DI CRISI SUL LAVORO?
Anche a me è capitato di affrontare momenti difficili durante la mia carriera. Tralasciando le prime esperienze giovanili, in cui è relativamente normale imbattersi in delle difficoltà e fa parte della crescita personale, anche in Vibram sono andato incontro a dei problemi, per lo più di natura motivazionale. In particolare, ho dovuto affrontare la difficoltà di far comprendere ai miei superiori il mio modo di lavorare: a volte non ero in grado di spiegare loro come mai, ad esempio, un determinato incarico avrebbe richiesto molto più tempo e dedizione di un altro, e ne uscivo spesso frustrato. Siamo molto più bravi ad abbatterci per ciò che non sappiamo fare. Mi ha aiutato tanto, in quei periodi grigi, il fatto che i colleghi e soprattutto persone esterne riconoscessero invece i meriti e apprezzassero i risultati del lavoro che svolgevo, ed è stato in primis grazie a loro che sono stato in grado di motivarmi a raggiungere successi ancora maggiori. Riflettendo sul perché mi trovassi in Vibram e non altrove, mi sono reso conto con più chiarezza che avevo scelto proprio quell’azienda e nessun’altra perché soltanto quella rispecchiava i miei valori ed era in linea con le mie ispirazioni e le mie ambizioni, perciò era la migliore scelta che avessi potuto fare. Dalla mia passione per lo sport deriva un’attenzione per l’ambiente che a sua volta deriva dal desiderio di lasciare ai miei figli un modo migliore in cui vivere. In azienda ho attraversato un processo di maturazione grazie al quale ho messo a fuoco i miei obiettivi ed il significato di ogni giornata di lavoro, cancellando tanti dubbi e alzandomi dal letto la mattina con la giusta motivazione.
QUAL È, IN ULTIMA ANALISI, IL MODO MIGLIORE DI SVOLGERE LA PROFESSIONE DI DIRETTORE DELLA SOSTENIBILITÀ?
La sostenibilità si compie mettendo insieme le persone e facendo sì che la loro collettività produca un risultato. Mi piace definirmi scherzosamente null’altro che un chiacchierone, perché prima di ogni altra cosa io devo essere in grado di influenzare gli altri. Io stesso mi metto nei panni delle altre persone, e ammetto che persino uno come me ha vissuto una parte della sua vita in cui era tutt’altro che una persona sostenibile. Ma era per ignoranza. Nel momento in cui un direttore della Sostenibilità riesce a rendere le persone consce del dramma ambientale a cui oggi stiamo andando incontro, e che le piccole scelte consapevoli di ognuno fanno la differenza, è inevitabile che si produca una reazione. E quella reazione è la chiave. Se riesco a smuovere qualcosa nell’animo delle persone, so che ho fatto bene il mio lavoro. Quelle persone, a loro volta, andranno a influenzarne altre, e così via in un circolo fruttuoso mirato alla consapevolezza comune. Naturalmente non bisogna dimenticare che c’è dietro anche tutto un lavoro numerico e di raccolta e analisi di dati e bilanci che è fondamentale per inquadrare le questioni ambientali in termini quantitativi ancor prima di esporre le varie problematiche da risolvere. La sostenibilità deve essere economica, nel senso che deve avere alle proprie spalle una pianificazione dell’investimento accurata. Le aziende devono investire in sostenibilità, ricercando efficienza, evitando sprechi, facendo delle scelte, anche a costo di fatturare meno, ma fatturare meglio per rimanere un bene sociale, oltre che per l’imprenditore, a lungo. Per grandi investimenti serve invece la collaborazione fra aziende, penso agli ingenti investimenti che richiede l’energia da idrogeno, ad esempio, e non tutti sono aperti alle vere partnership, purtroppo. Serve un connubio tra business plan e sostenibilità, sostenibilità dell’economia ambientale e sociale.
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COSA DIRE RIGUARDO AL TEMA DELLA DIVERSITÀ IN AZIENDA?
Penso che la diversità in azienda sia spesso accomunata solo alla differenza di genere, mentre io vedo prima di tutto una diversità generazionale. In Vibram – come sono peraltro sicuro che accada in chissà quante altre aziende simili – avvengano con una certa frequenza incomprensioni tra la vecchia e la nuova generazione: da un lato una miriade di giovani portatori di una nuova mentalità, più aperta, e tanta voglia di fare, dall’altra dipendenti esperti con tante conoscenze preziose da impartire ma maggiore resistenza ai cambiamenti. Queste due parti troppe volte non riescono a comunicare tra di loro, spesso per incomprensioni e fraintendimenti che non per reale impossibilità di farlo. Penso che se ci fosse maggiore disponibilità da parte dei più anziani a porsi empaticamente e pazientemente nelle condizioni e nella mentalità dei loro successori, ci sarebbero molte meno difficoltà e maggiore efficienza aziendale. Quando abbiamo assunto in Vibram due ragazzi con la sindrome di Down, le vecchie generazioni hanno scoperto un modo di comunicare con chi è diverso da loro: a quel punto, ho colto l’occasione per mettere in evidenza come sia possibile entrare in comunicazione con chiunque sia diverso da noi, perchè ognuno di noi è unico, indipendentemente da quale sia il tipo di diversità.
QUALI VALORI-SIMBOLO DI RICHMOND ITALIA HAI SCELTO?
Ho scelto Pensiero generativo e Fiducia. Pensiero generativo per il fatto che è una qualità necessaria nella professione che svolgo, mentre Fiducia perché vorrei che ce ne fosse di più, sia tra i lavoratori che tra insiemi di aziende, con l’obiettivo comune di creare una società benefit, ossia pensare all’azienda profittevole e al bene sociale allo stesso tempo.
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Nel 2024 Richmond Italia compie 30 anni.
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Festeggiamo con un calendario di 25 forum. RICHMOND FINANCE DIRECTOR FORUM SPRING
RIMINI
28 FEBBRAIO - 1 MARZO
RICHMOND HSE FORUM SPRING
RIMINI
3 - 5 MARZO
RICHMOND ENERGY BUSINESS FORUM SPRING
RIMINI
6 - 8 MARZO
RICHMOND HUMAN RESOURCES FORUM SPRING
RIMINI
10 - 12 MARZO
RICHMOND IT DIRECTOR FORUM SPRING
RIMINI
17 - 19 MARZO
RICHMOND E-COMMERCE FORUM SPRING
RIMINI
24 - 26 MARZO
RICHMOND FUTURE FACTORY FORUM
RIMINI
7 - 9 APRILE
RICHMOND FACILITY MANAGEMENT FORUM
RIMINI
12 - 14 MAGGIO
RICHMOND CYBER RESILIENCE FORUM
RIMINI
19 - 21 MAGGIO
RICHMOND RETAIL BUSINESS FORUM
RIMINI
26 - 28 MAGGIO
RICHMOND MARKETING FORUM
GUBBIO
16 - 18 GIUGNO
RICHMOND SUSTAINABILITY BUSINESS FORUM
GUBBIO
19 - 21 GIUGNO
RICHMOND PROCUREMENT DIRECTOR FORUM SPRING
GUBBIO
23 - 25 GIUGNO
RICHMOND AI BUSINESS FORUM
GUBBIO
3 - 5 LUGLIO
RICHMOND LOGISTICS FORUM IT SOLUTIONS
GUBBIO
7 - 9 LUGLIO
RICHMOND DIGITAL COMMUNICATION FORUM
RIMINI
15 - 17 SETTEMBRE
RICHMOND FINANCE DIRECTOR FORUM AUTUMN
RIMINI
18 - 20 SETTEMBRE
RICHMOND ENERGY BUSINESS FORUM AUTUMN
RIMINI
22 - 24 SETTEMBRE
RICHMOND SECURITY DIRECTOR FORUM
RIMINI
29 SETTEMBRE - 1 OTTOBRE
RICHMOND HSE FORUM AUTUMN
RIMINI
2 - 4 OTTOBRE
RICHMOND HUMAN RESOURCES FORUM AUTUMN
RIMINI
13 - 15 OTTOBRE
RICHMOND LOGISTICS FORUM
RIMINI
16 - 18 OTTOBRE
RICHMOND E-COMMERCE FORUM AUTUMN
RIMINI
20 - 22 OTTOBRE
RICHMOND IT DIRECTOR FORUM AUTUMN
RIMINI
10 - 12 NOVEMBRE
RICHMOND PROCUREMENT DIRECTOR FORUM AUTUMN
RIMINI
13 - 15 NOVEMBRE
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Giovanni Sicignano Responsabile automazione DOPPEL FARMACEUTICI
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L’EQUILIBRIO E LA RICERCA DI ME STESSO Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo
È stata una giornata intensa oggi al Richmond Future, densa di interviste incredibili: tra di esse, merita sicuramente un posto speciale quella che trovate qui. Ci siamo trovato davanti a una persona felice, in armonia con se stessa e con il proprio lavoro, ma non senza quel sorrisetto beffardo di chi la sa lunga perché ha superato tempi difficili. Come mai Giovanni Sicignano può permettersi questo lusso?
LAVORATIVAMENTE PARLANDO, QUALI SONO LE TUE ORIGINI?
Sono arrivato dove sono oggi senza rendermene conto. Il mio non è stato un percorso predefinito, bensì una ricerca dell’io, non solo a livello professionale ma anche dal punto di vista spirituale. Dopo il diploma in perito d’automazione, ho iniziato subito a lavorare, con un primo impiego nella manutenzione di stufe a pellet. Contemporaneamente, durante gli ultimi anni dell’adolescenza, mi sono improvvisato animatore nei villaggi turistici, traendone insegnamenti importanti: mi sono fatto un’idea di chi fossi come persona. Non molto tempo dopo mi sono tuttavia reso conto di voler svolgere un impiego da cui trarre maggiore soddisfazione personale, perciò a vent’anni ho avviato un progetto imprenditoriale nell’informatica, rifacendomi anche alla mia passione per la programmazione e i videogiochi. Nonostante le ottime premesse, è stata un’esperienza fallimentare da cui ho appreso una delle verità fondamentali del mondo del lavoro: non è sufficiente il saper fare, bisogna anche trovarsi nei luoghi giusti al momento giusto.
QUALI SONO STATE LE PRIME E PIÙ FONDANTI ESPERIENZE IN AZIENDA?
Subito dopo il fallimento del mio progetto imprenditoriale, senza arrendermi ho ricominciato, come operaio, in una sede di Zalando: ho intrapreso una scalata che mi ha portato fino al vertice del livello operativo, in veste di capo reparto. Questa esperienza si è rivelata molto formativa per me, ho potuto apprendere i modi specifici in cui un’azienda funziona. E poi da responsabile del reparto ho capito il valore dell’automazione, come mezzo al servizio delle persone. Dopo questa esperienza, sono entrato in SEA Vision, un gruppo multinazionale che produce software per le aziende farmaceutiche: è questa l’azienda in cui ho appreso la mia lezione più importante riguardo al lavoro. Fin dai primi passi in SEA Vision mi sono sentito da un lato circondato da gente molto brava e competente, ma dall’altro mi ritenevo sicuro del mio valore e mi sentivo in dovere di dimostrarlo. Non molto tempo dopo ho deciso di chiedere un aumento. Il giorno successivo mi è stato detto che si stava prendendo in considerazione l’ipotesi di licenziarmi. La critica più pesante che mi è stata rivolta: mi è stato detto che non ero una persona equilibrata, nel senso che non ero in grado di svolgere il mio lavoro senza prevalere sugli altri. 69
QUAL È STATA L’OPPORTUNITÀ CHE TI HA PERMESSO DI RICOMINCIARE?
Dopo l’amara delusione subita in SEA Vision, mi sono preso un momento per riflettere sul mio percorso, sul modo in cui avevo affrontato il lavoro fino a quel momento, e mi sono reso conto di quanto fosse stata sbagliata la mia visione, e della necessità di un cambiamento radicale. Ho lasciato SEA Vision e sono entrato in Doppel farmaceutici. Non appena ho iniziato a farne parte, ho modificato completamente l’atteggiamento nei confronti di me stesso, dei colleghi e della mia occupazione: ho pensato che dovessi far vedere di essere una bella persona. Far uscire la mia personalità, con sincerità, in ambito lavorativo, per me non è stata una dimostrazione di debolezza, bensì un modo nuovo, più giusto e vivibile, di affrontare la mia carriera professionale. Ho riscoperto il mondo del lavoro con occhi diversi. Non solo: per quanto le esperienze negli impieghi precedenti – dalle stufe a pellet fino a Zalando, e poi la bastonata in SEA Vision – si siano configurate come esperienze di grande utilità per essere lavorativamente apprezzato nell’azienda in cui oggi lavoro, c’è molto di più.
IN CHE SENSO «C’È MOLTO DI PIÙ»? SI PUÒ DIRE CHE LE ESPERIENZE LAVORATIVE TI ABBIANO INFLUENZATO A UN LIVELLO PIÙ PROFONDO?
C’è molto di più perché cambiare la visione della mia maniera di lavorare ha suscitato in me una trasformazione interiore, una sorta di catarsi dalla quale ho ottenuto benefici utili ben oltre l’ambito lavorativo. Il lavoro mi ha aiutato a far emergere la mia persona. Ne è scaturito un modo completamente nuovo di vedere la mia stessa vita. Se prima c’era il manager e, distintamente, la persona, poi le due facce della medaglia si sono fuse. Separare la figura professionale da quella personale, ammetto a posteriori, si era rivelato deleterio per me, è qualcosa di innaturale. Eppure sono molti coloro i quali cadono in questa trappola, nel momento in cui si relazionano con la propria professione. Bisognerebbe invece ricordarsi che, oltre a comportare un enorme dispendio di energie mentali e la via più facile per andare incontro a un burnout, indossare una maschera quando si entra in azienda diminuisce sensibilmente le possibilità di raggiungere buoni risultati ed eventuali promozioni. Mi sono stati fatti dei complimenti, in Doppel, proprio in quanto persona empatica e inclusiva, e posso dire che questa sia la conferma piuttosto evidente di quanto ho appena espresso.
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È VERAMENTE POSSIBILE FAR EMERGERE LA PROPRIA PERSONALITÀ IN AMBITO LAVORATIVO? CI SONO FORSE DEI RISCHI LEGATI ALLA PRIVACY?
Ognuno deve rendersi conto che è profondamente sbagliato pensare al lavoro come a una sorta di vita altra, scissa da quella che spesso consideriamo la vita privata, ossia quella parte della nostra vita che dedichiamo ad amici e familiari. La vita è una sola, inscindibile. Questo non significa che ogni aspetto della nostra esistenza debba essere sempre visibile a chiunque, è giusto anche mantenere una dimensione della privacy. Il messaggio che vorrei passare è questo: non si possono vivere due vite separate, è insostenibile. È i inevitabile che quelle che sono, in apparenza, due vite diverse, si contaminino a vicenda – tanto più in un mondo così interconnesso come quello di oggi. Un’espressione su tutte per riassumere il concetto: una parte della vita viene vissuta in un contesto lavorativo, ma è pur sempre parte della vita stessa.
QUAL È, DUNQUE, LA CHIAVE?
L’equilibrio è la chiave. In ultima analisi, il modo migliore di vivere consiste nel trovare un equilibrio: con le persone che ci circondano, con le tecnologie con cui lavoriamo, con la nostra professione e con noi stessi. Solo attraverso l’equilibrio è possibile esperire la vita per davvero, in tutti i suoi aspetti. Solo trovando il nostro equilibrio personale potremo realizzare quanto la vita precedente, se era vissuta all’insegna della disarmonia e della ricerca della vuota finalità, fosse stata priva del suo aspetto più meraviglioso, e per certi versi di un reale significato. Il percorso verso l’equilibrio permette di imparare a conoscersi, mettersi alla prova, sbagliare, conoscere i propri limiti, capirsi, vivere in serenità ed essere una sola persona.
SE DOVESSI SCEGLIERE DUE VALORI-SIMBOLO, FRA QUELLI PROPOSTI DA RICHMOND ITALIA QUALI INDICHERESTI?
Sceglierei Equilibrio e Immaginazione. L’equilibrio in quanto stile di vita, mentre l’immaginazione è una virtù a cui sono legato in primis grazie alla passione per l’arte – Keith Haring e Piet Mondrian su tutti – e la considero fonte di benefici in un’ottica aziendale. Attraverso l’immaginazione cerco di portare in azienda un futuro che sia bello.
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Mariateresa De Sanctis
Founder GREEN MANAGER LAB
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LA SOSTENIBILITÀ COME GIOCO A SQUADRE Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo Che splendida atmosfera che c’era durante il nostro colloquio con la fondatrice di Green Manager Lab! Abbiamo parlato a lungo, ma i minuti volavano via come il vento mentre Mariateresa De Sanctis ci raccontava ogni aspetto della sua affascinante iniziativa. Finalmente qualcosa in grado di avere un reale impatto sulle aziende e sulle persone.
DA DOVE DERIVA IL TUO INTERESSE PER L’AMBIENTE?
Ho sempre avuto una specie di vocazione per la sostenibilità, fin da piccola, merito anche del fatto di essere cresciuta in un contesto come quello del Parco di Monza, a cui mi sono affezionata al punto da volerlo poi rendere concretamente parte del mio lavoro. Ho studiato marketing, perciò inizialmente ho lavorato presso delle multinazionali, anche all’estero. Poi, quando ho avuto dei figli, ho cercato un’attività con cui potessi rimanere in Italia e avere tempo per la famiglia, passando dal marketing di prodotto a quello di servizio: ho lavorato per dieci anni in un’associazione di categoria per le schermature solari, occupandomi di efficientamento energetico e formazione. Ma è stato quando ho deciso di iscrivermi ad un master per la comunicazione scientifica, dell’innovazione e della sostenibilità, che ho trovato il pane per i miei denti: ho capito molto di più sull’ambiente di quanto non sapessi già, e mi ha letteralmente aperto gli occhi su ciò che potevo fare, dandomi l’idea da cui scaturirà il mio progetto.
COME È NATO GREEN MANAGER LAB? CHE COS’È?
Green Manager Lab è nato innanzitutto da una mia visione personale: avevo terminato non da molto e con successo il master di cui parlavo e avevo appena svolto un’interessantissima ricerca sulla sostenibilità, intervistando vari manager di diverse aziende e cercando di capire meglio cosa significasse per loro essere sostenibili e in che modo pensavano di raggiungere gli obiettivi che le necessità del futuro imponevano loro. La combinazione di questi due eventi mi ha portato a ritenere che ci fosse un bisogno non soddisfatto all’interno delle aziende: da un lato si pretendevano lavoratori sempre più formati sull’ambiente e in grado di farsi portatori del cambiamento, ma dall’altro lato spesso mancavano i mezzi concreti per farlo, una formazione adeguata, se non addirittura una concezione sbagliata della sostenibilità stessa, vista come un costo e non un investimento. È stato a quel punto che mi sono detta: posso fare qualcosa. Posso fare la differenza. E, in collaborazione con CREDA onlus, ho dato vita a Green Manager Lab: un progetto di formazione per la sostenibilità ambientale, con l’obiettivo di sensibilizzare i manager aziendali e far comprendere loro chiaramente quale sia il reale impatto che hanno sull’ambiente quotidianamente.
COME SI SVOLGE L’ATTIVITÀ?
Il Parco di Monza si trasforma in un laboratorio per la formazione ambientale, e al suo interno mettiamo in competizione tra loro diversi team di manager, ciascuno dei quali deve superare una serie di sfide: vince chi, alla fine, avrà l’impronta ecologica inferiore. Dopo un briefing in azienda, i manager devono raggiungere la cascina all’interno del parco, e dunque già al loro arrivo possiamo misurare l’impatto ambientale del mezzo che hanno utilizzato per arrivare alla destinazione, che costituisce il primo “punteggio in CO2“ assegnato. Poi facciamo loro utilizzare delle bici collegate a dei generatori di corrente che alimentano degli smartphone per capire nel concreto quanta energia elettrica consumano su questi stessi device i manager risponderanno a delle domande sul tema della sostenibilità per testare le loro conoscenze. Completano la giornata una serie di attività nel parco, l’ultima consiste nel cucinare un piatto, scegliendo
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quello che si giudica meno dannoso per l’ambiente in termini di CO2 necessaria. Alla fine, dopo essersi saziate, le squadre svolgono un debriefing e vengono informate dei loro punteggi finali di CO2. Il vincitore è il team che è stato in grado di operare complessivamente le scelte più ecologiche, non senza spiegare tutti i motivi che vi sono dietro. Insomma, un’attività completa che va dal team building all’apprendimento in outdoor attraverso le dinamiche della competizione sostenibile, al fine di far toccare con mano ai manager la reale necessità del cambiamento e della messa in atto di scelte più sostenibili giorno per giorno, prestando attenzione a ogni singolo aspetto del quotidiano.
QUAL È LA REAZIONE DELLE PERSONE AL COMPLETAMENTO DEL PERCORSO?
L’augurio è quello che i partecipanti, una volta ultimata l’attività, siano effettivamente più consapevoli in materia ambientale e dunque in grado di potersi orientare meglio nelle scelte aziendali, con l’obiettivo di raggiungere un futuro realmente sostenibile. Ma non solo, speriamo anche che possano essere entusiasti e soddisfatti del laboratorio, un po’ con quella gioia tipica dei bambini che apprendono qualcosa di nuovo e non vedono l’ora di raccontarlo a tutti. Solitamente, alla fine del percorso sono tutti molto allegri, anche per via del fatto che hanno passato una giornata divertente all’interno di un parco oggettivamente meraviglioso. Poi subentrano anche gli aspetti della riflessione sul proprio agire quotidiano, molti dei partecipanti si rendono conto che il loro stile di vita (e di lavoro) precedente poteva non essere il migliore, e, ve lo assicuro, proveranno davvero a impegnarsi per cambiare. Un’esperienza concreta come quella di Green Manager Lab è ben diversa dalla semplice propaganda pro-ambiente, perché ti dà quella percezione che ti mancava in materia di sostenibilità, va a completare una formazione che è anche cultura aziendale, e colpisce gli animi delle persone nel profondo: la formazione in outdoor amplifica la percezione e facilità l’apprendimento.
QUALI VALORI-SIMBOLO, FRA QUELLI DI RICHMOND ITALIA, TI SI ADDICONO DI PIÙ?
Consapevolezza ed Empatia. Consapevolezza in quanto valore che cerco di trasmettere agli altri attraverso il mio lavoro, ed empatia perché si tratta di una qualità molto utile quando si opera nella formazione alla sostenibilità, specialmente quando si vanno a scardinare alcuni punti fermi nella conoscenza di alcune persone, ma anche quando si vuole comunicare qualcosa che è già noto ma non in maniera consapevole: essere empatici facilita la connessione ed rende più semplice parlare all’anima delle persone, per andare insieme verso un mondo migliore.
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Profit MEETS non profit
Articolo di Cristiano Misasi
Collaborazioni fuori dal comune: Bullone e GoodHabitz Le storie migliori fioriscono dagli incontri più fortuiti. Le collaborazioni nate sotto la stella dei forum di Richmond Italia, tra la realtà sociale autrice di questo magazine, Bullone, e le aziende che partecipano agli eventi, sono preziose e meritano di essere raccontate. Costruire un ponte virtuoso tra mondo profit e non profit è possibile!
Amo le sfide e qualsiasi oggetto con le ruote, forse è per questo che la vita mi ha donato la disabilità. Se la filosofia di Senna era “Non esiste curva dove non si possa sorpassare”, la mia è “Non esiste salita troppo ripida per chi ha un cuore ribelle e una mente lungimirante”.
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Il mondo del lavoro si sta evolvendo anno dopo anno e le aziende, con il progredire della tecnologia e con l’avvento dei social media sempre più protagonisti dell’internazionalità dei prodotti commercializzati, si imbattono in sfide fino ad oggi mai affrontate. Quando chi assume aumenta le richieste relative alle capacità dei collaboratori, il collaboratore non può far altro che essere all’altezza delle stesse, acquisendo sempre più competenze necessarie. Gli studi mirati ad una specifica materia sono alla base di un curriculum, ma ultimamente anche le competenze trasversali hanno un peso importante; proprio con questa consapevolezza nasce GoodHabitz, la piattaforma on-line di sviluppo personale dedicata alle aziende e ai loro collaboratori. L’offerta formativa di GoodHabitz è vasta, e comprende un catalogo di assessment per stimolare l’autocomprensione e una ricca selezione di corsi per lo sviluppo delle competenze più utili per ciascun profilo: dalle skill digitali alla leadership, dal benessere psicofisico alla comunicazione, e molto ancora. GoodHabitz
ha ben compreso che il tempo è l’investimento più grande, e che per motivare i professionisti a dedicarsi davvero al proprio sviluppo individuale era necessario puntare su contenuti istruttivi, ma allo stesso tempo piacevoli, ecco perché i corsi includono al loro interno tutti i formati di apprendimento (e di intrattenimento) più apprezzati, come video-interviste, testi scritti, documentari o gamification. GoodHabitz, che collabora con oltre 2.700 aziende in più di 20 Paesi come Barilla, H&M, Monte dei Paschi di Siena, Mitsubishi, Philips e Puma, da qualche tempo ha deciso di sostenere il progetto sociale del Bullone, Fondazione formata dai B.Liver, ragazzi che stanno affrontando o hanno affrontato un percorso di malattia o sono affetti da una disabilità. In autunno la piattaforma aprirà gratuitamente ai B.Liver permettendo loro di seguire i corsi on-line, dando l’opportunità a tutti noi di investire nel modo migliore il nostro tempo, anche a chi, ad esempio, sta seguendo un percorso di cura a casa o in ospedale. Con GoodHabitz il tempo si trasforma in oro. 77
Mauro Saba Account manager WELCOME
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IL VENTO CHE SOFFIA IN POPPA Intervista a cura di Francesca Bazzoni Siamo alla fine di una lunga giornata al Richmond Marketing forum e, mentre gli ospiti cominciano ad avviarsi verso le loro stanze per prepararsi per la festa serale, la redazione di Reach si rilassa in uno dei meravigliosi chiostri del Park Hotel ai Cappuccini di Gubbio. Qui incontriamo Mauro Saba, con lui parliamo dell’approccio al lavoro, quello particolare che si respira in agenzia, e della sua voglia di navigare in mare aperto lasciandosi trasportare dal vento.
CHI È MAURA SABA?
Sono un Viandante: questo è il risultato del test di HXO a cui ho partecipato per definire il proprio archetipo e devo dire che mi ci identifico molto. Sono originario di un paesino accanto a Lodi, nella provincia Lombarda. Ho lavorato tanti anni a Milano, fino a quando nel 2016, dopo aver conosciuto mia moglie, ho fatto un cambiamento di vita importante trasferendomi sul lago di Iseo per vivere insieme. Da allora, grazie alla fantastica cadenza dialettale che ho preso, sono diventato il bresciano per gli amici milanesi e il milanese per i nuovi amici bresciani. Non è stato semplice allontanarmi dalla mia rete sociale milanese, amici e parenti, anche se fortunatamente mia madre ci ha seguiti ad Iseo e oggi, essendo io figlio unico, ho ricostruito qui il mio nucleo familiare con mia moglie, il nostro bellissimo bambino di tre anni e mezzo, EliaGiovanni, e mia madre. Ho sempre lavorato come account nelle agenzie di comunicazione, prima a Milano, poi a Brescia e oggi a Bergamo, mi sono abituato a viaggiare e non mi pesa. Mi sposto spesso tra l’ufficio e le sedi dei clienti a cui faccio visita e ho trasformato la macchina nel mio secondo ufficio.
SI DICE CHE SE AMI IL TUO LAVORO TUTTO È PIÙ FACILE…
L’agenzia ha la bellissima caratteristica che ti permette di lavorare in diversi mondi in base al cliente che segui, di spaziare in tanti settori, ed è come se facessi più lavori in uno: ogni volta che lavoro con un cliente cambio approccio, modo di lavorare, e per me è molto stimolante. Sono un tipo curioso, mi piace visitare le aziende, soprattutto la parte di produzione per entrare dentro le cose che fanno realmente. Per intenderci, sono uno che guarda su Dmax Come è fatto o Grandi Fabbriche perché mi piace capire come funzionano i processi. La vita di agenzia è frenetica e va bene così, mi annoierebbe la staticità e ho capito che nella frenesia mi trovo bene. In fondo sono un viandante e cerco sempre il vento che soffia in poppa, ho voglia di novità e mi faccio trasportare volentieri. Vivo di stimoli, quindi quando questi mancano, quando manca appunto il vento nella vela, rischio di fermarmi in mezzo al mare senza saper più andare né avanti né indietro. Questo potrebbe essere uno dei miei punti deboli. 79
COME TI RELAZIONI AL CLIENTE?
In WELCOME stiamo facendo un percorso con un metodo di vendita in modo che tutti gli account abbiamo un’identità e uno stile WELCOME. Questo non vuol dire standardizzare l’approccio, ognuno rimane se stesso e io continuo ad avere il mio approccio personale legato all’essere il più trasparente e onesto possibile, al provare a stabilire un contatto empatico con chi ho davanti. Non ho mai voluto essere il massimo esperto di qualcosa, anche perché fingerei, perciò mi pongo come una persona che è lì per aiutare a fare il meglio e per rispondere a una necessità. Noi come professionisti dobbiamo trovare la chiave di lettura per arrivare all’obiettivo, è un approccio molto Human to Human come dice Richmond Italia, un lavoro che si basa in primis sull’umanità.
COME GESTISCI LE DIFFICOLTÀ CON I CLIENTI?
Se un cliente ha un atteggiamento passivo o al contrario troppo aggressivo, io non soffro la cosa, ma provo a spiegargli cosa non va. Credo che occorra anche saper accompagnare il cliente alle soluzioni ottimali per le sue esigenze. Nessuno si è mai permesso di non rispettare me o il mio ruolo con atteggiamenti non consoni, sono una persona molto pacata e credo di trasmettere questa calma anche agli altri. Penso che avendo un approccio molto umano con il cliente, tutto dipenda molto dalle singole personalità e caratteri che si incontrano. Come nella vita ci sono simpatie o antipatie e modi diversi di rapportarsi, così è anche nel lavoro. Ho letto diversi libri in cui si parla del fatto che tutti vogliamo in qualche modo circondarci di persone che ci piacciono. Quindi penso che ci sono clienti con cui magari non si instaura un feeling e che preferiscono lavorare con altri, lo accetto e non ne soffro.
HAI MAI LA PERCEZIONE CHE, ESSENDO UOMO, TU RIESCA AD AVERE UN TRATTAMENTO DIVERSO RISPETTO A UNA COLLEGA DONNA?
È inutile essere ipocriti, purtroppo è così. Oggi uomo o donna dovrebbero poter svolgere qualsiasi lavoro in maniera paritaria, ma accade ancora che ci siano persone e aziende dove avere davanti un uomo o una donna comporti un atteggiamento diverso. Questo accade sia da parte degli uomini che delle donne, c’è ancora lavoro da fare in questo ambito. Forse anche la mia fisicità potrebbe essere impattante nella relazione col cliente, in ogni caso speriamo che con le nuove generazioni ci si possa allontanare sempre di più dal patriarcato, che purtroppo è ancora presente nelle famiglie come nelle aziende.
C’È UN’ESPERIENZA PARTICOLARE DELLA TUA VITA CHE TI HA SEGNATO?
Tutti abbiamo affrontato delle difficoltà nella vita. Io, ad esempio, ho perso mio padre a sedici anni, ma se prendiamo un campione di cento persone tutti abbiamo problemi più o meno grandi. Le difficoltà fanno parte della vita e influiscono su chi siamo. Il dolore mi ha fortificato e nonostante tutto sono rimasto un ottimista che cerca di vedere il buono delle cose, provando a vivere serenamente. Quando mi chiedono “Come stai?” rispondo sempre “Alla grande”, provo a non farmi scalfire da cose inutili. Crescendo, tutto ciò che non era una vera priorità per me è passato in secondo piano e questo mi ha aiutato a difendermi e a non farmi ferire.
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NON È SEMPRE SEMPLICE DEFINIRE LE PRIORITÀ…
Hai ragione, assolutamente no. Durante la conferenza di apertura di questo forum si è parlato del fatto di dividere gli impegni tra l’importante, l’urgente e l’urgentissimo: bisogna imparare a distinguere queste cose anche se spesso non è facile. La tecnologia avrebbe dovuto regalarci del tempo per migliorare la qualità della nostra vita, ma in realtà l’ha peggiorata levandoci tempo. Se ora fossi qui seduto da solo probabilmente sarei sui social, perderei il mio tempo per via della tecnologia. Oggi se ti mando una mail o un messaggio, do per scontato che li vedrai subito, sempre e ovunque, anche se sei in viaggio. Non si considera che anche se si legge un messaggio non è automatico che ci sia il tempo e il modo di dare una risposta immediata e di senso. Penso che questo fenomeno andrà sempre peggiorando e solo educandoci all’ascolto reciproco e al rispetto si potranno trattenere i clienti e in generale tutti quelli con cui ci relazioniamo.
DA OTTIMISTA, COME AFFRONTI LE DIFFICOLTÀ SUL LAVORO?
Ho avuto tante difficoltà negli ultimi tre anni, a partire dal covid, e ho dovuto fare delle scelte, portare dei cambiamenti. Quando si arriva davanti all’imprevisto si deve prendere una decisione, non si può non decidere. Quella di saper improvvisare e sapersela cavare è un’arte. Se cade un albero sulla strada non ci vai addosso ma sul momento devi scegliere un’altra strada, così le difficoltà si affrontano cercando la soluzione migliore, anche se poi magari ci rendiamo conto che la nostra non era la migliore scelta possibile. Bisogna accettare il rischio, e prendere comunque una decisione.
QUALI VALORI-SIMBOLI DI RICHMOND ITALIA HAI SCELTO?
Cambiamento, perché non voglio averne paura, e davanti a una scelta voglio avere il coraggio di cambiare rotta. Empatia, perché è il modo con cui mi relaziono agli altri ed è il mio approccio umano al cliente.
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Vincenzo Cacciapaglia Group WCX senior director ARISTON GROUP
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LA FIDUCIA NELLE PERSONE COME CHIAVE DI VOLTA DEL MIO LAVORO Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo È solo il secondo giorno al Richmond Future factory forum e già molti degli intervistati hanno espresso reazioni positive sull’andamento dei lavori. Siamo alle porte di un cambiamento epocale nella filosofia del lavoro? Si può veramente lasciar cadere la propria maschera ed esporsi con sincerità all’interno delle aziende? Secondo Vincenzo Cacciapaglia sì, e in quest’articolo ci spiega in che modo.
OGGI È POSSIBILE DARE (E CREARE) TOTALE FIDUCIA IN UN CONTESTO PROFESSIONALE?
Non solo è possibile, ma è anche necessario. Costruire un ambiente in cui possa esserci fiducia tra le persone significa in primis essere nelle condizioni di fidarsi degli altri. Io stesso ho compreso questo concetto nel tempo: all’inizio della mia carriera, infatti, non mi veniva così spontaneo come ora dare fiducia alle persone. Tendevo ad essere, piuttosto, relativamente diffidente. Ma è stato quando qualcuno - a me superiore nella gerarchia aziendale - ha deciso di affidarsi a me, ciecamente, che io mi sono sentito maggiormente stimolato a dare il meglio di me, proprio perché ero consapevole del fatto che qualcuno credeva in me e anziché controllarmi o limitarmi, voleva vedermi operare e raggiungere il risultato migliore possibile. Dopo aver provato, dunque, sulla mia pelle, il valore della fiducia, non ho potuto fare a meno di concederla a mia volta a chi lavorasse per me. Io credo nelle persone, voglio metterle al centro, e mi fido di chiunque fino a prova contraria. Potrebbero accusarmi di ingenuità, forse, ma quello di contare del tutto sugli altri, ritenendoli sempre in buona fede, è un rischio che sono assolutamente disposto a correre. Per il semplice fatto che, all’opposto, chi crea un ambiente in cui vigono il sospetto e la diffidenza, non potrà mai sperimentare cosa significa lavorare con delle persone al massimo delle loro potenzialità, e, cosa ancor più triste, magari non capirà neanche mai i vantaggi che ne derivano.
IN COSA CONSISTE IL VALORE AGGIUNTO CHE NE DERIVA?
Innanzitutto dare piena autonomia ai miei collaboratori mi permette di scoprire nuovi lati di loro, il che favorisce un maggior affiatamento e una certa empatia. Il lavoro di gruppo per me è fondamentale. Oggi lavoro in Ariston e mi accorgo di quanto sia indispensabile che le persone si sentano libere di agire come meglio credono. Più si lascia lavorare le persone senza barriere, più si dà loro la possibilità di spingersi oltre i propri limiti. Nel momento in cui non si avverte più la paura di sbagliare, si riduce anche lo stress derivante dalla mole elevata di lavoro a cui siamo quotidianamente sottoposti. Mai come ora nel business odierno c’è bisogno di una stabilità aziendale interna, per bilanciare quella che è invece la freneticità di un mercato che presenta livelli di concorrenza estremi. E per poter avere un ambiente intra-aziendale stabile, servono delle menti 83
stabili, serene, equilibrate. Insomma, quando il cambiamento è concepito come posizionamento della persona al centro, con una serie di attenzioni riguardo al suo stare in azienda, si lavora meglio: ne deriva un’efficienza che, una volta scoperta, viene vissuta come irrinunciabile. Anche se le persone non sono il fine dell’azienda, sono pur sempre il mezzo attraverso cui raggiungerlo, non bisogna mai dimenticarlo.
CI SONO STATI DEGLI EPISODI DI FORTE TRASFORMAZIONE NELLA TUA VITA CHE TI HANNO PERMESSO DI PORTARE IL CAMBIAMENTO NEL TUO LAVORO E IN QUELLO DELLE PERSONE CON CUI LAVORI?
La prima volta che ho dovuto fronteggiare un forte cambiamento è stato quando mi sono trasferito per gli studi universitari dalla Puglia a Torino. Mi sono ritrovato in un ambiente caotico, in cui non conoscevo nessuno, e ho dovuto impegnarmi molto per adattarmi. Per quanto riguarda la mia carriera lavorativa ho vissuto il cambiamento ogni volta che cambiavo azienda. Per sette anni ho gestito processi di produzione in ambito automotive, poi mi sono trasferito in Inghilterra dove ho lavorato come responsabile dei centri operativi in un’azienda farmaceutica, fino a quando, dopo altri sette anni, sono finalmente entrato in Ariston con l’obiettivo di migliorare i processi produttivi e logistici e digitalizzare le fabbriche. Nella mia vita ho dovuto affrontare il cambiamento più di una volta, ma non ho rimpianti per nulla di ciò che ho fatto. Mi piace ripetere un proverbio leccese che mio padre amava dire: «Dove c’è gusto non c’è perdenza», ovvero quando compi un’azione perché pensi sia la cosa giusta da fare, quali che siano le conseguenze, non avrai nulla da rimpiangere. Potrei utilizzare proprio questo proverbio per riassumere il mio pensiero in merito al tipo di cambiamento che desidero portare in azienda: dopo le mie esperienze personali, vedo di buon occhio il cambiamento, e ripongo elevata fiducia nella mia capacità di trasmettere agli altri questa mia convinzione.
LE NUOVE TECNOLOGIE POSSONO ESSERE UN VALIDO STRUMENTO PER CONTRIBUIRE AL CAMBIAMENTO?
Le nuove tecnologie e l’automazione fanno parte del processo di transizione, bisogna tuttavia porre una certa attenzione riguardo al modo in cui vengono utilizzate. Devono infatti andare in-contro alla persona, non contro di essa. Troppo spesso le tecnologie vengono considerate negativamente, come uno strumento di sorveglianza anziché un valido alleato. Sta a lavoratori come me dimostrare agli altri in che modo utilizzarle virtuosamente. Io stesso mi sono ritrovato molte volte a utilizzarle per visionare un determinato processo aziendale e individuare eventuali malfunzionamenti. Anche qualora la tecnologia indicasse un errore a livello dell’operatore, non bisogna come prima cosa puntare il dito contro la persona, ma valutare come il processo aziendale possa migliorare affinché quell’errore non avvenga più: se la persona ha commesso quel dato errore, significa che posso e devo modificare il processo aziendale a causa del quale la persona è stata portata a sbagliare. In questo senso occorre venire incontro alle persone: sono le procedure aziendali che devono evolvere per venire incontro ai lavoratori e colleghi. 84
COME SI POSIZIONA L’ITALIA IN MERITO ALLA BUONA RIUSCITA DEL CAMBIAMENTO?
L’Italia si configura come un paese in cui permane una buona percentuale di manager disposti al mutamento. Questo è in parte dovuto al fatto che siamo un paese creativo, non a caso sono italiani alcuni dei massimi esponenti del design e della moda mondiali. Rispetto agli anglosassoni noi siamo meno rigidi, meno rispettosi di procedure precise e più orientati al trovare sempre soluzioni nuove in base al problema da risolvere. Paesi molto strutturati come la Germania, nonostante la grande efficienza che riescono a generare nelle loro aziende, sono in un certo qual modo manchevoli di una buona dose di inventiva, che potrebbe invece essere l’asso nella manica dell’Italia per poter essere ancora più competitiva nei prossimi anni. Penso anche che ci sia una considerevole multiculturalità all’interno delle aziende italiane e credo che gli stessi manager in Italia abbiano un’esperienza superiore alla media internazionale per quanto riguarda l’interazione con le altre culture.
QUALI SONO I DUE VALORISIMBOLO DI RICHMOND ITALIA DA TE SCELTI?
Ho scelto Fiducia e Cambiamento perché riassumono perfettamente la mia visione professionale. Io sono cambiato, e ritengo che possano farlo anche gli altri: per parte mia intendo dare fiducia alle persone e indirizzarle verso un cambiamento positivo per loro e per l’azienda in cui lavorano. Il cambiamento, a dirla tutta, è qualcosa che è sempre stato dentro di me, fa parte della mia indole più profonda e direi che forse è proprio per questo che mi riesce bene trasmetterlo anche agli altri.
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia 3. Vincere e perdere Non esiste guadagno senza rischio. Se miro alla vittoria, non posso pretendere garanzie di conseguirla. Posso solo mettercela tutta. L’errore più grande è farsi inibire dal timore di sbagliare e passare la mano.” Come diceva la canzone, a cambiare comincia tu.
1. Crescere insieme 2. Crescere dentro 3. Vincere e perdere 4. Raccontare la vita 5. Agili nell’azione 6. Responsabili nelle scelte
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Perdo una partita ma vinco in esperienza
incere. Perdere. Due esperienze che nella mia vita sono sempre state profondamente legate, tanto da poterle scrivere e pronunciare unite, tutte di un fiato ‘vincere&perdere’ o meglio ancora ‘perdere&vincere’. Sì, esattamente perdere e vincere perché a me è successo di perdere una notte di sonno e vincere una relazione profonda con l’amico che ti chiede un po’ del tuo tempo. È capitato di perdere un contratto per indirizzare al meglio il cliente e vincere fiducia e riconoscenza. È accaduto di perdere l’occasione facile per rispettare le regole e vincere stima e rispetto… E così via per altre mille volte, nelle piccole e grandi scelte della vita. Perdere e vincere. Stereotipi? Forse per molti sì, ma in un contesto che ci vuole tutti sempre e solo vincenti, per me sono stati momenti veri, autentici, accompagnati da emozioni profonde. Perché per nessuno è facile mettere in conto e confrontarsi con l’eventualità di perdere. La voglia di non deludere, il timore di sbagliare, la consapevolezza di non avere nessuna garanzia sono da sempre per me ostacoli forti da superare, tanto da farmi a volte balenare l’idea di mollare, di passare oltre. Ho però negli anni imparato a non temere di perdere, a rischiare, a mettermi in gioco perché non si vince senza aver imparato a perdere. Amo il gioco del tennis, e se mi cercate su Playtomic ho un punteggio molto basso perché vinco poche partite. Perché perdo spesso? Perché amo confrontarmi solo con giocatori più forti di me, perdo una partita ma vinco in esperienza, conoscenza e mi miglioro. Ieri non sapevo tenere in mano una racchetta, oggi mi difendo e mi gioco ogni punto. Mi permetto quindi di salutarvi con le parole del capitano. Come chi??! L’unico capitano, Javier Zanetti: “Per vincere, prima bisogna saper perdere. La sconfitta ti prepara alla vittoria perché ti rende più forte.”
Andrea Balestreri Sales Manager
Rosanna Colli
Alice Freschelli
Head of facility EQUITA
Facility manager EQUITA
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IL VALORE DEL SOSTEGNO E DELLA COLLABORAZIONE Intervista a cura di Francesca Bazzoni Donne che lavorano, donne che collaborano. In una società ancora fortemente improntata su dinamiche patriarcali, sul lavoro le donne si trovano spesso ad affrontare difficoltà che i colleghi uomini non conosceranno mai. Fra discriminazioni economiche e competizione, spesso sono anche le donne stesse a fomentare un atteggiamento di rivalità, per emergere e raggiungere i pochi posti disponibili per il genere femminile. Altre invece si arrendono e accettano la situazione di disparità dandola per scontata. E poi ci sono donne che combattono tutti giorni per il loro posto, il loro ruolo, la loro dignità. Donne che si aiutano, si sostengono l’un l’altra, che guidano e indirizzano le più giovani verso il futuro. Siamo al primo giorno di Richmond Facility management forum e abbiamo incontrato due colleghe, Rosanna Colli e Alice Freschelli, rispettivamente Head of Facility e Facility manager di Equita, che ci hanno raccontato del loro rapporto fra le scrivanie dell’ufficio e dei momenti di svago insieme. Basta guardare i loro occhi per accorgersi dell’intensa relazione che le lega. ROSANNA COLLI - Certo, questo non vuol dire che non si sia presa anche lei delle grandi lavate di testa. ALICE FRESCHELLI - Sono state importanti anche loro, perché mi hanno insegnato una modalità di
lavoro, è necessario avere una direzione. Sono arrivata in azienda che avevo 19 anni e Rosanna è diventata per me una sorta di mentore, anche un po’ mamma. Mi ha indirizzata sul come comportarmi, come approcciarmi al lavoro, cosa aspettarmi. In questi otto anni sono cresciuta molto anche grazie a lei.
OGGI SEMBRA CHE SENZA UN TITOLO DI LAUREA NON SI POSSA ACCEDERE ALLA MAGGIOR PARTE DELLE POSIZIONI, COSA NE PENSATE?
AF – Imparare un lavoro senza una preparazione scolastica specifica è più difficile di una volta, però si diventa autonomi molto in fretta. Rosanna non mi ha fatto mai sentire in difetto su quel lato. RC – Alice è arrivata in Equita come sostituzione in reception, ho visto subito il suo impegno e che il lavoro le piaceva. Io avevo bisogno di una mano in Facility per cui le ho proposto di iniziare a lavorare insieme. La laurea non era un plus che richiedevo, non mi interessava. Ho lavorato a fianco a lei, le ho fatto vedere le cose fondamentali. È ovvio che all’inizio si fa più fatica, il lavoro era tanto per cui affiancare anche lei era un impegno. Ci sono stati diversi contrasti ma la sua intelligenza è stata capire i motivi per cui la riprendevo e ogni volta questo le consentiva di crescere, di fare un gradino in più: questo va molto al di là di un titolo. Quando sono stata assunta in Equita, la prima cosa che la responsabile amministrativa e l’AD mi hanno detto è stata: “Questa è una società formata da persone sia laureate che diplomate”, quindi penso che sia anche nella forma mentis della società, nella sua cultura. Certamente ci sono uffici dove non puoi fare a meno di una laurea, ma in moltissimi campi perché no? Sono importanti anche altre competenze, che si acquisiscono sul campo, e soprattutto l’approccio nei confronti del lavoro. 89
QUALI SONO LE DIFFICOLTÀ CHE VI HANNO AIUTATO A CRESCERE COME PROFESSIONISTE E COME PERSONE?
RC – Io ho un percorso lavorativo particolare e forse anche per questo mi sono impegnata molto con Alice per farle imparare un lavoro. Ho iniziato a lavorare in un’attività di famiglia e sono cresciuta lì dentro fino a quando abbiamo dovuto vendere. Una volta fuori di lì mi sono dovuta confrontare con il mondo esterno, che è molto diverso da quello familiare. Non ho avuto sconti su nulla: sono passata attraverso diversi colloqui in cui invece che chiedermi cosa sapessi fare professionalmente mi chiedevano se avessi figli, quanti e di quanti anni, se fossi sposata. Io in quel momento affrontavo la separazione, con due bambini, e dicendolo mi tagliavo le gambe da sola.
TI SEI MAI RIFIUTATA DI RISPONDERE A DOMANDE PERSONALI DURANTE COLLOQUI DI LAVORO, CHE RICORDIAMO ESSERE ILLEGALI?
RC – Non potevo permettermelo, avevo bisogno di quei lavori. Ingoiavo e andavo avanti. Ho accettato lavori anche di 15 giorni, andando avanti così, non potevo rifiutare. Ho fatto lavori in cui mi hanno calpestata. In un ufficio, per esempio, dovevo alzare la mano per chiedere di andare in bagno, mentre i colleghi uomini no. Dovevo chiudermi in uno stanzino per fare la pausa perché non dovevo farmi vedere. L’esperienza peggiore però è stata in uno studio notarile “eccellente”. Quando sono andata via da lì avevo paura di non saper più lavorare, per quanto loro mi fossero entrati in testa, per quanto mi avessero annullato come donna, come professionista, come persona. Quando ho dato le dimissioni è stata una soddisfazione, mi hanno offerto più soldi ma ho rifiutato, me ne sono andata e basta. Io non sono in vendita, e la mia dignità nemmeno. Appena uscita da lì sono andata a farmi un regalo: un bel paio di guanti.
E I COLLEGHI COME AFFRONTAVANO LA SITUAZIONE?
RC – Eravamo moltissime donne, e la maggior parte di noi accettava questa disparità. Erano passive e anzi riprendevano me. C’era quasi una legge del silenzio che imponeva di parlare a bassa voce. Gli uomini si sentivano superiori, era la normalità e lo davano per scontato. 90
RC – Quando in Equita sono passata al Facility management come responsabile, vedendo Alice così giovane, ho pensato subito che dovessi dare a lei quello che io non avevo avuto, un sostegno, una guida. Ho vissuto tante esperienze negative ma a lei ho voluto trasmettere tutta la positività che avevo dentro. Forse per questo all’inizio mi arrabbiavo tanto con lei: perché vedevo tutte le sue potenzialità ma anche che non le tirava fuori del tutto, e sentivo di doverle passarle questo messaggio. Quando vedevo che ci rimaneva male, ci stavo malissimo anch’io, ma dovevo tenere duro, per lei. AF – Ricordo quella volta in cui mi guardavi anche tu con le lacrimucce. Oggi mi viene da ridere. Per me è stato comunque un passaggio importante, anche perché a 19 anni hai un carattere diverso, più aggressivo, pensi di avere sempre la ragione dalla tua. All’inizio è difficile scindere la vita personale da quella lavorativa, facevo molto affidamento su Rosanna anche per sfogarmi. Quando lei mi diceva cosa non andava bene nel lavoro sentivo un attacco a livello personale e mi offendevo, ma alla fine lei è riuscita a farmi capire che sono due mondi diversi. Mi ha detto che dovevo imparare a recepire gli stimoli in maniera positiva e non negativa. C’è stato un lavoro incredibile da questo punto di vista, per me è stato fondamentale.
COME CONVIVONO L’ASPETTO PERSONALE E QUELLO LAVORATIVO NEL VOSTRO RAPPORTO?
AF – Si ride e si scherza, ma quando si lavora si lavora. RC – C’è il momento in cui la battuta ci sta, ma dal momento in cui si deve lavorare si tira giù la testa. Ho messo dei confini, si fa una chiacchierata la mattina prima di iniziare il lavoro, ma poi si passa alla giornata lavorativa. Poi, detto ciò, facciamo la pausa pranzo insieme, dividiamo i momenti della giornata. 91
ROSANNA, E TU HAI AVUTO UN MENTORE?
RC – Purtroppo no, la mia vita è sempre stata una lotta che ho dovuto fare da sola. Ma ho imparato tanto. Ho smesso di lottare lo scorso anno, quando ho scoperto di avere una malattia e il mondo mi è crollato addosso. Ho però sempre creduto e combattuto per la guarigione, in maniera positiva.
SUL LAVORO TI SEI SENTITA SUPPORTATA?
RC – Assolutamente sì, da Alice certamente ma anche dalle altre colleghe e dal mio capo, una donna, che mi ha sempre detto di non preoccuparmi di nulla, di pensare a curarmi e che poi avremmo pensato al lavoro. Ha anche creato una mail condivisa per aiutarmi a smistare il lavoro. All’inizio ho preso male questa notizia, perché temevo che mi venisse strappato il mio ruolo, lei probabilmente l’ha capito e mi ha detto che quando sarei stata bene mi sarei ripresa tutto. Anche l’AD è stato molto comprensivo. Ho avuto tutto il sostegno, in altri posti di lavoro non so come sarebbe andata. Il pensiero di avere le spalle coperte mi ha aiutato molto.
COME SEI CAMBIATA DOPO QUESTA ESPERIENZA?
RC – Ho imparato a dedicare più tempo a me stessa, ho capito che ho bisogno di staccare ogni tanto, resettarmi, pensare a me e alla mia famiglia. Lo devo a me stessa dopo quello che ho passato. Alla fine oggi l’ho capito e me lo dico: sono una grande donna. AF – È una guerriera.
ANCHE TU ALICE TI SEI MESSA IN GIOCO MOLTO GIOVANE, MOLTI A QUELL’ETÀ FANNO TUTT’ALTRA VITA.
AF – Ho avuto un’esperienza decisamente diversa da quella di molti miei coetanei.
NEL VOSTRO LAVORO, INSIEME ALL’EFFICIENZA, PENSATE ANCHE A CIÒ CHE PUÒ FAR STAR MEGLIO LE PERSONE?
AF – Certo, sono cose che necessariamente vanno insieme. RC – Insieme al reparto HR, noi siamo gli unici uffici in cui si può sempre venire a parlare con noi. Secondo me è fondamentale essere in ascolto delle persone. Penso che la nostra azienda sia convinta di questa priorità e stia facendo molte cose in questa direzione, cercando di unire le persone. AF – Se siamo esseri umani, lo dobbiamo essere anche sul posto di lavoro.
Fra i valori-simbolo di Richmond Italia Alice ha scelto Equilibrio e Immaginazione, mentre Rosanna Equilibrio ed Empatia. Guardandole ora, un po’ commosse dopo essersi raccontate, complici e sorridenti, sono sicuramente azzeccati. Queste sono le storie che ci piace raccontare, storie dove al centro ci siamo noi, gli esseri umani.
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Strategie, modelli di business, nuove soluzioni e nuove responsabilità: tutte le risposte di cui hai bisogno per far evolvere il settore degli acquisti in azienda. Never forget, you have the power.
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Q
uando ci spostiamo per un evento, compiamo molto più di un tragitto fisico nello spazio. Entriamo in una linea del tempo, percepiamo le radici e le tradizioni della destinazione che abbiamo scelto, sentiamo l’aroma delle storie che prese tutte insieme fanno il genius loci. Questo è per Richmond Italia il senso nel promuovere un evento diffuso a Gubbio: offrire un viaggio alle sorgenti della storia per diventare più consapevoli del presente. E più orgogliosi del patrimonio di cultura e bellezza in cui viviamo immersi da quando siamo nati, noi nati nella penisola più affascinante e invidiata del mondo. Nelle pagine che seguono vi raccontiamo alcuni personaggi che hanno fatto la toria di Gubbio.
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Ubaldo Santo
Frate Lupo
il vescovo più amato
la belva ammansita0
Gubbio, 184 - Gubbio, 1160
O lume della fede, della Chiesa splendore, sostegno d’ogni core, Ubaldo Santo.
S
Finalmente, dopo due anni, frate lupo si morì di vecchiaia: di che li cittadini molto si dolevano; imperocchè veggendolo andare sì mansueto per la cittade, si raccordavano meglio della virtù e santitade di san Francesco.
Inno della Festa dei Ceri di Gubbio
D
tudia da sacerdote a San Mariano, da dove però fugge inorridito per la condotta immorale dei canonici. Ispirato da Giovanni da Lodi, ritorna a San Mariano e riesce a riportarli sulla retta via con la sola forza della persuasione e dell’esempio. Rifiuta il vescovato di Perugia ma tre anni dopo, nel 1129, non sfugge al proprio destino e diventa vescovo di Gubbio. Ubaldo predica il rinnovamento della Chiesa, umiltà, ascesi e favorisce la conciliazione dei conflitti: in questo è un degno precursore di Francesco. Come lui, non cerca la perfezione di un ideale monastico ma si compromette con la vita reale. Non si sottrae alla vita vera, fatta di compromessi e mediazioni, e di perdono. L’investitura non lo trasforma: Ubaldo resta mite ma determinato, controcorrente, sempre in mezzo alla gente e sempre incline all’empatia e al perdono. Nel 1154 Gubbio è assalita da una coalizione di 11 città umbre capeggiate da Perugia. Ubaldo raccoglie i cittadini in preghiera e li fa sentire parte di una comunità. Gubbio resiste e vince. L’anno successivo il Barbarossa assedia Gubbio, Ubaldo esce a conferire con l’imperatore e lo fa desistere. I cittadini comprendono che dolcezza e pazienza sono segni di forza. Pur affetto da un male orrendo che ricopre di piaghe il suo corpo, compie fino in fondo il suo dovere pastorale, celebrando la messa di Pasqua poco prima di morire. Da secoli il 15 maggio Gubbio onora il patrono con la stupefacente Festa dei Ceri, forse la festa più bella d’Italia per il sentimento del sacro, l’attaccamento alla tradizione e il senso di appartenenza.
Fioretti di San Francesco
eve avere più o meno 26 anni l’inverno in cui Francesco d’Assisi decide di lasciare la città natale per raggiungere Gubbio. Qui ritrova diversi amici, fra i quali Federico
Spadalonga, che aveva diviso con lui la prigionia nelle carceri di Perugia e che lo accoglie con benevolenza (dove sorgeva la casa, c’è la bella chiesa dedicata a San Francesco). Dopo qualche mese, per assistere i malati, si trasferisce nel lebbrosario di Gubbio, in cui si compie definitivamente la conversione. Proprio nel contado eugubino accade uno degli episodi più celebri della vita del santo. La tradizione riporta di un enorme lupo feroce che vive nel territorio boschivo alle porte della città e da anni terrorizza le genti. Francesco ascolta il loro grido d’aiuto e si inoltra nel bosco per incontrare la bestia malvagia. La sua mediazione fa sì che il lupo cessi di minacciare gli abitanti di Gubbio, a condizione che essi lo sfamino quotidianamente. La città adotta il lupo, che vive in pace non più reietto. Nell’iconografia (non di rado è ritratta una lupa invece di un lupo) si vede l’animale placato che pone la zampa nelle mani di Francesco per suggellare il patto. Sono state avanzate diverse ipotesi: l’animale potrebbe essere un brigante che derubava gli abitanti del contado, reintegrato nella società grazie all’intervento del santo, o addirittura il sultano al-Malik al-Kamil, che Francesco incontrò in Terra Santa, come le fonti documentano ampiamente.
Il
lupo
rappresenta
l’incontro
con l’Altro, un incontro impossibile che viene reso possibile pescando nelle ragioni del cuore. 95
Gattapone
Ottaviano Nelli
l’archittetto di genio
il pittore console
Gubbio, 131 circa - Gubbio, 13830
Gubbio, 137 - Gubbio, 14490
Una gaia pittura condotta a guisa di miniatura, con brillanti colori screziati secondari e terziari, senza ombre.
L’Umbria conta, oltre ad Angelo da Orvieto, un altro notevole architetto: Matteo Guattacapponi o Gattaponi, di Gubbio, che quasi certamente è l’autore dell’aggiunta di Palazzo dei Consoli.
G
Giovanni Battista Cavalcaselle
Cesare Brandi
È
il caposcuola dello stile gotico internazionale in Centro Italia, in particolare in Umbria e nelle Marche, e sa adeguare il proprio linguaggio a diversi contesti e diverse committenze. Ha un linguaggio esuberante, ricco di particolari della vita quotidiana. Oltre a essere pittore infaticabile, riveste più volte l’importante carica pubblica di console del Comune. Con due vantaggi: gli apre le porte per diventare pittore di corte dei Signori d’Urbino (le sue opere sono presenti praticamente in tutte le città legate politicamente ai Montefeltro), e al tempo stesso lo trasforma in una specie di pubblico rappresentante dei Montefeltro a Gubbio. I nuovi signori di Gubbio avevano mantenuto le strutture comunali affidando gli incarichi consolari non ai nobili ma ad artigiani come Nelli. È dunque un personaggio in vista, sempre in viaggio lungo i ripidi sentieri degli Appennini per realizzare opere in luoghi molto diversi, da Sansepolcro a Città di Castello, da Foligno a Rimini e Assisi. A partire dalla metà del Settecento, la Madonna dei Belvedere nella Chiesa Santa Maria Nuova viene considerata il capolavoro di Ottaviano Nelli e diventa uno dei dipinti umbri più ammirati. La sua pittura è specchio del tempo e dei committenti. Lontana dalla raffinatezza e dall’eleganza delle corti senese e fiorentina, la corte feltresca è dedita al mestiere delle armi, e rimane sobria e parsimoniosa. Proprio come la maggioranza dei cittadini di Gubbio, proprio come le figure dipinte da Ottaviano Nelli.
attapone è il soprannome di Matteo di Giovannello, uno dei più importanti architetti del Trecento italiano. Poco di lui sappiamo dalle fonti. Dal 1362 al 1367 è impegnato ad Assisi a costruire in stile severo e maestoso la loggia dell’Infermeria Nuova e la Cappella di Santa Caterina nella chiesa inferiore della Basilica di San Francesco. Nel 1362 riceve l’incarico della vita: il cardinale spagnolo Egidio Albornoz, legato pontificio, lo nomina soprintendente del cantiere della Rocca di Spoleto. La formidabile mole quadrangolare della fortezza è scandita dalle torri e parla chiaro: sovrasta la città con una precisa volontà di dominio e deterrenza. L’edificio ha una duplice natura civile e militare, e per questo contiene due cortili, quello delle Armi e quello d’Onore. Il cardinale gli affida poi il Collegio di Spagna a Bologna, il capolavoro di Gattapone, fra i primi istituti scolastici in Italia con annesso convitto. L’influsso della Rocca di Spoleto è evidente: l’università sembra una fortezza, quasi a difendere gli studenti dalle tentazioni della città. Nel 1372 è a Perugia per la costruzione della fortezza di Porta Sole, la cittadella del governo pontificio. Ma qui i cittadini non si faranno intimidire, e in breve tempo smonteranno la fabbrica senza che ne resti più traccia. A lungo si è attribuito al Gattapone anche il Palazzo dei Consoli di Gubbio, ma ora il suo ruolo è stato ridimensionato e spostato a una fase successiva. Anche se questo non ridimensiona la sua rilevanza nella storia dell’architettura europea. 96
Giorgio Andreoli
Federico da Montelfeltro il principe guerriero
il maestro del riverbero
Gubbio, 1422- Ferrara, 14820
Intra, 147 circa - Gubbio 15550
Capitano di eserciti, chiarissimo di tutti ne’ tempi suoi; ma chiaro ancora, fra molte egregie virtù, per il patrocinio delle lettere.
Mastro Giorgio non solo ottiene il rosso, allora la bestia nera dei ceramisti, ma lo ottiene con degli splendori metallici. Sembrava una rara alchimia, un miracolo.
Francesco Guicciardini
P
erfetta esemplificazione del Principe di Machiavelli, uomo d’arme più prestigioso e meglio pagato d’Italia, mecenate e pio, scaltro manipolatore dell’opinione pubblica e costruttore di città ideali: sono tante le sfaccettature di Federico. La sua religiosità è influenzata dal soggiorno nell’abbazia benedettina di Gaifa, dai severi precettori camaldolesi e dall’incontro con Bernardino di Siena nel 1435. Studia alla Cà Zoiosa di Mantova, fondata da Vittorino da Feltre, modello di sintesi educativa di corpo e mente, aperta senza distinzioni a figli di poveri e figli di signori. Apprende le arti militari sotto Niccolò Piccinino nell’esercito visconteo. La sua azione politico-militare lo vede in perenne antagonismo con Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, al quale lo oppone una profonda antipatia personale e sul quale alla fine prevarrà. Sarà capitano generale per molti eserciti: Stato della Chiesa, Signorie di Milano, Firenze e Ferrara, Regno di Napoli, Repubblica di Venezia… Impiegherà gli enormi guadagni delle campagne militari per trasformare Urbino in città-faro seconda solo alla Firenze dei Medici, per costruire i palazzi ducali di Urbino e Gubbio, per creare una delle biblioteche più celebri dell’epoca e per finanziare il lavoro degli amici, fra cui l’architetto Luciano Laurana, il pittore Piero della Francesca e il matematico Luca Pacioli. Federico si faceva raffigurare dal lato sinistro per non mostrare la perdita dell’occhio durante un torneo. Il suo amico Enea Silvio Piccolomini, poi papa Pio II, disse che vedeva meglio lui con un occhio solo di cento principi.
I
Ettore Sannipoli
l lustro è quel velo che applicato alla ceramica le conferisce il potere di riflettere la luce, emettendo bagliori metallici che virano sul rame, sull’oro e sull’argento. La tecnica nasce nei secoli IX e X in ambiente islamico in Persia e nel vicino Oriente, e si diffonde in Italia molto tempo dopo attraverso la Spagna. Forse è un modo per raccontare lo splendore di Dio senza poterlo raffigurare? Il maestro lombardo già attivo a Pavia, si sposta a Gubbio con i fratelli Giovanni e Salimbene, e qui codifica il leggendario rosso rubino, spingendo l’arte del riverbero ai suoi massimi livelli. Di fatto, applica una pellicola di sostanze metalliche su ceramiche già cotte e poi le rimanda in forno per il piccolo fuoco. Il successo è tale che altri centri già famosi per la produzione di ceramiche come Faenza, Urbino e Pesaro mandano qui i loro pezzi di alta qualità per farli lavorare da Maestro Giorgio, che diventa un vero e proprio marchio di fabbrica. La gamma di prodotti passa dal vasellame per la tavola a oggetti pittorici importanti, oggi presenti nei principali musei del mondo. A riconoscimento del suo straordinario talento, nel 1498 gli viene concessa la cittadinanza e l’esenzione della gabella per venti anni, prolungati poi a tempo indeterminato dal Papa Leone X. Mastro Giorgio è dunque un artista imprenditore. Associa i figli Vincenzo e Ubaldo, i quali però si porteranno nella tomba il segreto industriale del riverbero. Nell’Ottocento, con il revival rinascimentale, si cercherà di nuovo di ritrovare il leggendario rosso rubino di Mastro Giorgio. 97
G
Vittoria Accoramboni
ià da lontano si stagliano come boschi secolari di pietra calcarea i volumi di una città magica, sospesa come in un miraggio. Sei a Gubbio. Avrebbe potuto partorirla la fantasia di Borges o Calvino, e invece è lì, reale davanti ai tuoi occhi, bisogna farsene una ragione. Il suo spirito è incline all’indipendenza, ha uno stile pragmatico non privo di ironia, impastato con la fierezza di una comunità coesa e un pizzico di ribellione. La città dei matti, dicono quando vogliono farle un complimento. Sì, ma che matti. E non solo chi ci è nato l’ha amata per sempre: Goethe, D’Annunzio, Hermann Hesse, Guido Piovene e Cesare Brandi sono caduti nel tranello. E grandi talenti come Luca Ronconi, Dario Fo e Gae Aulenti hanno scelto di viverci, pure. Questo per dire che una città si racconta non solo con i tesori dell’arte o le tradizioni. La sua trama è scritta dalle vite dei suoi campioni. Si chiamano personaggi, e ci ricordano che la vita è pur sempre un fatto di teatro.
una bellezza da togliere il respiro
Gubbio, 1557 - Padova, 15850
Nacqui dotata di beltà divinale fra quante mai fur vissi famosa! La gran Vittoria io son ch’el pregio tolsi di beltade alle Greche e alle Latine.
A
Gerolamo Catena
ristocratica. Affascinante. Bellissima. A sedici anni, contro il parere della madre, va in sposa a Francesco Peretti, nipote del cardinale Felice di Montalto. Dallo zio non arrivano le risorse sperate per condurre una vita sfavillante. Allora il fratello Marcello la spinge nelle braccia di Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, in fuga da Roma per aver ucciso il nipote di un cardinale. Da quest’uomo collerico e raffinato promanano potere, ricchezza, prestigio, e così i due diventano amanti. Il duca non è abituato a spartire i suoi trofei e ben presto commissiona l’assassinio del rivale. Tutta l’Italia parla del delitto. Trascorsi venti giorni appena, i due vengono allo scoperto e si risposano. Ma Papa Gregorio XIII non è d’accordo, e ordina di imprigionare Vittoria in Castel Sant’Angelo. Dopo un anno di cella, Vittoria torna a Gubbio. Passano i mesi, lo scandalo non si placa, eppure i due si ritrovano e di nuovo l’amore li travolge. Vittoria scalpita per tornare a Roma. Nel frattempo il papa muore. Per ironica crudeltà della sorte, il suo successore Sisto V è lo zio del primo marito assassinato. Ai due non resta che la fuga e l’asilo politico a Venezia. Qui il duca si ammala, e i due decidono di svernare sul lago di Garda, dove Paolo si spegnerà lasciando a Vittoria un capitale cospicuo. Il figlio Virginio è furibondo e decide di far parlare le spade. La spedizione punitiva è composta da 26 sicari. Si dice che negli ultimi istanti di vita Vittoria avesse perdonato i suoi assassini. Aveva solo 28 anni. Pochi per una vita, ma sufficienti per una leggenda. 98
Polidoro Benvenuti
Walchiria Terradura
un uomo giusto
l’intrepida partigiana
Gubbio, 1891 – Gubbio, 19790
Gubbio 19240
Quando vedemmo gli Alleati, per prima cosa cominciammo a ballare, a saltare, la gente era molto meravigliata, diceva ‘Questi sono matti’. E invece ere la gioia di sentirsi liberi e di poter essere fra amici, finalmente. E di vedere uomini armati, ma non armati contro di noi.
Tutti riuscirono a salvarsi.
N
Angelo Riccardini
ato da famiglia aristocratica, il marchesino “Lolo” si butta subito a capofitto nel crogiolo di passioni e curiosità che lo accompagneranno tutta la vita, a cavallo fra cultura umanistica e invenzioni tecnico-scientifiche. Prima c’è l’archeologia. Poi arrivano il futurismo, il ‘fotodinamismo’ e le serate con Marinetti, accompagnate dal lancio di ortaggi. Poi l’interventismo, la passione per il volo, la guerra e l’arruolamento come volontario nella Compagnia aerostieri. Nel 1920 scrive un saggio importante sulle Tavole eugubine e l’anno successivo apre una fabbrica di ceramiche, riscoprendo la tecnica del bucchero. Seguono l’adesione al fascismo e la marcia su Roma. Si occupa della fabbricazione della carta, della sua conservazione e delle sue alterazioni, e in seguito delle tecniche fotomeccaniche e micrografiche; nel 1938 è fra i fondatori dell’Istituto di Patologia del Libro. Nel dopoguerra, dopo la riabilitazione, lavora come archivista a Cagliari, facendo ricerche sulla storia degli antichi Sardi. Rientra praticamente cieco a Gubbio, dove apre il palazzo avito trasformandolo in salotto intellettuale e incubatore di spiriti ribelli come lui. Ma forse, in tanto caleidoscopico vivere senza mai risparmiarsi, la sua punta più alta è quella morale: Gariwo l’ha accolto nel Giardino dei Giusti per aver nascosto nel proprio appartamento di Roma, durante l’occupazione di Roma, il suo amico di gioventù ebreo Ettore Ajò e i suoi familiari. Al di là delle convinzioni politiche, è stata una persona giusta.
D
Walchiria Terradura
i norma, i partigiani ricevono sul campo un nome di battaglia. Lei no, non ne ha bisogno: il suo nome è già un manifesto. Dal padre Gustavo, avvocato antifascista, ha imparato a odiare la dittatura e già al liceo aveva richiamato le attenzioni del regime per il suo atteggiamento sprezzante. Con l’occupazione tedesca la situazione dei Terradura si complica: quando i fascisti dell’OVRA tentano di catturare il padre facendo irruzione nell’ala del Palazzo dei Duchi di Urbino dove vivono, è Walkiria a salvarlo in modo quasi rocambolesco. Padre e figlia raggiungono i Monti del Burano e si aggregano alle nascenti formazioni partigiane. È nominata a capo della squadra Settebello, specializzata nel far saltare i ponti grazie alla presenza di due genieri dell’esercito italiano. Durante la guerra conosce un capitano dell’OSS (Office Strategic Service) con il quale si sposa trasferendosi in America. Ma non resterà a lungo lontano dall’Italia, e una volta tornata sarà a lungo attiva nell’ANPI e in politica. Non le mancano certo generosità d’animo, entusiasmo e tanto coraggio. Nella motivazione della Medaglia d’Argento al valor militare si legge: “Dopo essere riuscita con la squadra da lei comandata a fare saltare un ponte stradale, accortasi del sopraggiungere di un reparto avversario, incurante della sproporzione delle forze, attaccava con bombe a mano, di sorpresa, con un solo gregario, l’avversario, infliggendogli dure perdite, ponendolo in fuga e recuperando altresì gli automezzi e le armi abbandonate.” 99
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è uno spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spessore. Tirate fuori gli smartphone e cliccate il codice QR: troverete un materiale very open.
TAKE IT PERSONALLY, TAKE CARE SUOR ANNA ALFIERI
Cavaliere al merito della Repubblica italiana
Il futuro dei nostri giovani passa da una libertà adulta (…) Nella nostra società, con l’avvento della tecnologia e dei social media, si è andata perdendo la relazione one-to-one interpersonale, e quindi si è aperto lo spazio a relazioni più fluide, innaturali, poco aperte alla realtà. In estrema sintesi, ciò che andremo a dire con whatsapp probabilmente in un rapporto interpersonale non verrebbe detto. È lo spazio della società liquida.
DAVIDE RAMPELLO
Direttore artistico e Past President Triennale di Milano
Un nuovo progetto: prendersi cura di (…) Oggi è necessario ripristinare cose. Certo, si può anche ricostruire, ma quello che è fondamentale è riconvertire. Se uno vuole, questo diventa anche una metafora: rigenerare noi stessi vuol dire reinterpretarci, reinventarci, e vuol dire evidentemente poi prendersi cura delle cose. Questo è il design della cura.
IL TALENTO DI GUARDARE AVANTI.
Enrico Finotto
Plant innovation & IT director PANTHER 102
SOSTENIBILITÀ, LUCI E OMBRE TRA SVECCHIAMENTO E NUOVE LEVE Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo Siamo al Richmond Sustainability business forum, e il tema principe in agenda è la sostenibilità in tutte le sue sfaccettature: da dove nasce, come applicarla, in quali mani affidare questo delicato compito, gli ostacoli che si presentano e lo sguardo tanto diverso quanto necessario proveniente dai giovani. Un quadro completo che Enrico Finotto ci descrive appassionatamente e nel dettaglio, con dovizia di particolari ma anche calore umano.
DA DOVE È NATA LA PREOCCUPAZIONE PER LA SOSTENIBILITÀ NELLA TUA AZIENDA? HAI DOVUTO VIVERE UN PERCORSO DI ADATTAMENTO, CAMBIANDO IL TUO MODO DI LAVORARE?
L’azienda ha sempre avuto un’attenzione particolare rivolta alla sostenibilità. Negli ultimi 10 anni, l’esigenza di introdurre cambiamenti è diventata prioritaria. Dopo un’attenta analisi di tutti i dipartimenti aziendali, abbiamo introdotto le modifiche necessarie per essere sempre più sostenibili, sia a livello produttivo che nella gestione dei flussi di lavoro, cercando di contenere e ottimizzare i consumi sia degli strumenti di lavoro che dell’energia. A questo proposito, tra i vari interventi, abbiamo in programma l’installazione dei pannelli solari. In azienda abbiamo migliorato dove possibile la gestione delle risorse e introdotto nuove procedure, è un processo che richiede ancora molto lavoro, ma siamo sulla buona strada.
IN CHE MODO SI PUÒ CAMBIARE IL PUNTO DI VISTA DELL’AZIENDA NELLA SUA GLOBALITÀ, RENDENDOLA PIÙ SOSTENIBILE?
C’è da dire che ho notato fin da subito come all’interno delle aziende si possano distinguere abbastanza nettamente due tipologie di dipendenti: da un lato quelli ben disposti al cambiamento, dall’altro quelli più reticenti. Da direttore di stabilimento e innovazione purtroppo, in determinate situazioni, ho dovuto lasciare indietro coloro che, anche se incoraggiati al massimo, non sono riusciti ad adattarsi ai cambiamenti aziendali in atto, utili a raggiungere gli obiettivi prefissati dall’azienda. Siamo consapevoli che la situazione italiana è diversa da quella di altri stati europei: ho lavorato per alcuni anni in Schneider Electric dove, a partire dal management, la flessibilità e l’orientamento alla sostenibilità era maggiore, mentre in Italia ci sono maggiori difficoltà a riconoscere il potenziale della sostenibilità e a investire in essa con convinzione. Sono fortemente convinto che i cambiamenti in azienda debbano essere definiti e decisi dal top management e successivamente avviati con determinazione e lungimiranza. Di sicuro si incontreranno delle difficoltà, ma l’azienda è fatta di persone, che se motivate con la giusta determinazione e volontà possono raggiungere gli obiettivi comuni prefissati dall’azienda, sostenibilità inclusa. 103
CI SONO DELLE ESPERIENZE DI VITA CHE HAI PORTATO NEL TUO LAVORO?
Sì, ho avuto effettivamente delle influenze esterne che mi hanno influenzato e reso migliore nel lavoro che faccio, a partire dai miei stessi figli. Ogni volta rimango sorpreso da quanto loro siano più attenti a una serie di regole, tra cui anche quelle per essere sostenibili: una fine attenzione all’ambiente che io alla loro età certamente non avevo, e che ammiro. Già solo osservare i figli mi ha aiutato a crescere personalmente e imparare ad essere più sostenibile. Poi ci sono anche una serie di altri stimoli con cui vengo inevitabilmente a contatto, basti pensare a tutta la propaganda pro-ambiente che si fa oggigiorno, a tutte le manifestazioni… La sostenibilità è ormai entrata a far parte della nostra vita quotidiana. Ma nel mio caso è qualcosa di molto positivo, che cerco di valorizzare e trasferire anche nel contesto lavorativo. Fare sostenibilità in azienda vuol dire anche questo: educare i lavoratori in questa direzione, far sì che diventi un loro pensiero fisso quando svolgono qualsiasi compito, proprio allo stesso modo dei miei figli. In ultima analisi raggiungere dei migliori livelli di sostenibilità nelle aziende significa offrire alle generazioni venture un futuro migliore: se ci tengo così tanto forse è in primis proprio perché voglio lasciare qualcosa di bello ai miei figli. È questa la più grande esperienza di vita che porto con me al lavoro, e dalla quale traggo una motivazione enorme.
RITIENI CHE LE VECCHIE GENERAZIONI POSSANO ESSERE UNA RESISTENZA DA VINCERE PER CHI DEVE OPERARE NELLA SOSTENIBILITÀ?
Certamente posso constatare come da un lato ci siano le generazioni recenti, molto scrupolose e orientate alla sostenibilità fin dalle prime esperienze a scuola, e dall’altro lato permanga ancora una grande influenza delle generazioni dei Baby boomers, che nonostante l’età ormai avanzata continuano ad avere potere, e non solo nelle aziende, penso per esempio alla politica. È come se fossero queste ultime generazioni a sovrastare quelle come la mia, i cosiddetti Millennials. Sul lavoro noto come sia ancora nelle loro mani un potere acquisito tanto tempo fa, e ritengo che facciano molta fatica ad accettare un passaggio di testimone e lasciare spazio a quelli come me. Pur avendo raggiunto i quarant’anni, e dunque potendomi ritenere un manager d’esperienza a tutti gli effetti, in alcuni contesti noto che vengo trattato come se non lo fossi da chi ha un’età più grande della mia. E quando si tratta di lavorare nella sostenibilità, penso che sia un problema che emerge in modo ancora più evidente. Può essere anche molto difficile spiegare a queste persone cosa significhi essere sostenibili con uno sguardo al futuro, e ottenere il loro appoggio per poter andare avanti. Mi sono convinto che in Italia ci sia la necessità di svecchiare le gerarchie al potere e allo stesso tempo di lasciare molto più spazio sì ai Millennials, ma soprattutto ai giovani, in favore dei quali sento che la mia generazione ha fatto da battistrada, in quanto ha avviato, a fatica, un cambio di mentalità che loro si troveranno a dover proseguire e concretizzare.
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PENSI CHE LE GENERAZIONI PIÙ GIOVANI SIANO CAPACI DI MUOVERSI AGILMENTE NEL CAMPO DELLA SOSTENIBILITÀ?
Credo che i giovani abbiano una marcia in più innanzitutto per il modo in cui sono stati formati: mentre la generazione che ha istruito quella a cui appartengo era più orientata a una logica pura del profitto i giovani hanno degli ideali e dei principi differenti. Cercano anche di fare qualcosa che sia positivo per il mondo in cui vivono, oltre che per loro stessi. Penso che se venissero contattati, ad esempio, da due diverse aziende, sceglierebbero quella più sostenibile, non quella che offre lo stipendio più alto. È proprio un modo diverso di approcciarsi al lavoro, e più in generale alla vita. Forse per cambiare veramente il mondo la cosa più utile che i genitori di oggi possano fare è formare i figli affinché ci riescano. È anche importante che crescano in contesti eterogenei, come già molte volte avviene in modo da sviluppare quell’apertura mentale che in seguito sarà tanto richiesta a livello professionale. Se si riuscisse veramente in questo intento, allora ci si potrebbe forse anche aprire, nei prossimi anni, a collaborazioni tra aziende, condividendo risorse e informazioni e lavorando insieme per un obiettivo comune così importante com’è quello della sostenibilità.
QUALE TRA I VALORI-SIMBOLO DI RICHMOND ITALIA TI SI CONFÀ MAGGIORMENTE?
Cambiamento, più d’ogni altro. Ce l’ho nel DNA e mi occupo di promuoverlo ogni giorno nel mio lavoro, sia per quanto riguarda la transizione sostenibile che per quanto riguarda la digitalizzazione, essendomi laureato in Ingegneria informatica. Insomma, sono sempre alla ricerca di nuove sfide e cerco di affrontarle con il giusto spirito e una buona motivazione, guardando al cambiamento in un’ottica proattiva e cercando di valorizzarlo appieno.
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La sostenibilità è come un’oasi che ogni giorno trova vie nuove per espandersi nel deserto
Lavazza ha portato a Richmond Sustainability business forum Oasi ¡Tierra!, un concept di area break che risveglia il gusto di comportamenti più equilibrati nei confronti del pianeta e dei suoi abitanti di oggi e di domani. Brand italiano sinonimo di eccellenza, Lavazza è impegnata da tempo in progetti che portano l’idea di sostenibilità all’interno della propria filiera dell’innovazione.
Lavazza ha scelto di essere partner di Richmond Italia in occasione della prima edizione del forum dedicato a strategie e soluzioni tecnologiche che fanno leva sullo sviluppo sostenibile, tenutosi a Gubbio dal 14 al 16 giugno 2023. Oasi ¡Tierra! è un progetto sviluppato in collaborazione con la società di progettazione integrata Progetto CMR e risponde alle esigenze dei consumatori durante la pausa caffè: incontrarsi in uno spazio di design, ingaggiante, tecnologico e soprattutto attento alla sostenibilità. È realizzato al 100% con materiali naturali: legno, vetro, ecocemento e verde stabilizzato senza uso
di plastiche. Per il caffè si utilizzano capsule per vending machine Blue iTierra! For Planet Espresso Bilanciato compostabili.* L’attivazione di questa tipologia di aree vede anche la collaborazione di Lavazza con Tree – Nation: per ciasuna Oasi iTierra! installata, Lavazza si impegna a piantare 1.300 alberi a supporto di progetti di riforestazione in diverse parti del mondo. In ottica di continua innovazione, Oasi ¡Tierra! vede l’integrazione dell’App Piacere Lavazza, l’app di loyalty omnicanale di Lavazza che consente, attraverso la missione check-in dedicata, di ottenere chicchi extra nell’ambito della raccolta punti in-App. L’esperienza dell’utente si arricchisce, inoltre, grazie all’integrazione con AWorld: sarà infatti possibile aumentare la consapevolezza del proprio impatto ambientale calcolando la propria impronta green e tramite le meccaniche di missioni dedicate su App sarà possibile mettersi alla prova e intraprendere un percorso di educazione e formazione verso l’adozione di comportamenti sostenibili. La prima Oasi ¡Tierra! è stata inaugurata in occasione dell’Earth Day presso la biblioteca dell’Università Bocconi
©Steve McCurry
di Milano (foto a lato), grazie al coinvolgimento di Orasesta, azienda leader nella distribuzione automatica. Per coinvolgere ed ingaggiare i consumatori, all’interno dell’area è stato realizzato un pannello interattivo che propone diversi contenuti sul mondo ¡Tierra! e guida alla sua scoperta semplicemente inquadrando un QR code. Poco prima del forum di Gubbio, Lavazza ha presentato in Francia, al torneo Grande Slam Roland Garros, gli ultimi traguardi raggiunti grazie al proprio impegno in ambito sostenibile. Numeri importanti quelli dell’impegno della casa torinese: il 98% del caffè del Gruppo è prodotto con energia rinnovabile, investimenti per 25 milioni di euro nella roadmap del packaging sostenibile e il 66% del packaging dell’intero portfolio prodotti del Gruppo è già riciclabile con un obiettivo del 100% al 2025. Più dell’89% dei rifiuti generati dagli stabilimenti produttivi viene recuperato e riciclato. Il 97% degli scarti vegetali derivanti dalla lavorazione del caffè degli stabilimenti italiani viene trasformato in fertilizzante. L’attenzione al tema della sostenibilità – economica, sociale e ambientale – è da sempre per Lavazza un riferimento strategico. Awakening a better world every morning è il purpose del Gruppo, che si pone l’obiettivo di creare valore sostenibile per gli azionisti, i collaboratori, i consumatori e le comunità in cui opera, unendo la competitività alla responsabilità sociale e
ambientale. L’impegno parte da lontano, almeno dal 2004, l’anno di nascita della Fondazione Lavazza, con la quale il Gruppo ha iniziato a strutturare il proprio impegno nel coniugare sostenibilità sociale, ambientale ed economica, partendo dal supporto alle comunità produttrici di caffè, attraverso progetti misurabili di cui oggi beneficiano oltre 180.000 coltivatori di caffè. Lavazza, fondata a Torino nel 1895, non ha bisogno di presentazioni: è un autentico love brand, gestito direttamente dalla famiglia Lavazza da quattro generazioni. Il Gruppo è un player globale nel mercato del caffè, con un fatturato di oltre 2,7 miliardi di euro e un portfolio di marchi leader nei mercati di riferimento come Lavazza, Carte Noire, Merrild e Kicking Horse. È presente in 140 mercati, ha 8 stabilimenti produttivi in 5 Paesi e i suoi chicchi generano 30 miliardi di tazzine di caffè ogni anno. Il Gruppo Lavazza ha rivoluzionato la cultura del caffè grazie ai continui investimenti in Ricerca e Sviluppo: dall’intuizione che ha segnato il primo successo dell’impresa – la miscela di caffè – allo sviluppo di soluzioni innovative per i packaging, dal primo espresso bevuto nello Spazio alle decine di brevetti industriali registrati. (*) Capsule compostabili certificate per il compostaggio industriale secondo lo standard EN 13432:2000 da TUV AUSTRIA. Scopri sul pack le corrette modalità di smaltimento.
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Kevin Mohajur Jogun Lean manager T.G.R.
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CARPE DIEM, E IL RESTO NON SERVE Intervista a cura di Jacopo Di Lorenzo Nell’incontrare questa persona siamo stati travolti anche noi dalla sua incredibile aura di positività, che ci ha immediatamente colpito. Qual è il segreto per tanta soddisfazione? È possibile non sentire del tutto il peso del proprio lavoro? Kevin Jogun ci spiega in che modo è arrivato a svolgere una professione che non si aspettava ma senza la quale non avrebbe quel sorriso a trentadue denti che lo caratterizza.
QUAL È IL TUO LAVORO ATTUALE? DA CHE CONTESTO PROVIENI?
Posso dire di aver trovato il lavoro dei miei sogni, e ancora oggi mi sembra assurdo ripensare al modo in cui ci sono arrivato. La mia passione è sempre stata l’informatica. Tutto è iniziato quando, ai tempi delle elementari, mio padre mi portava con sé a un corso per l’utilizzo del computer, una grande novità in quegli anni. Un giorno, dopo il laboratorio, gli regalarono un vecchio pc, che divenne così di proprietà della mia famiglia. Ne fui subito attratto, e fu quello il primo vero momento in cui entrai in contatto col mondo dell’informatica. In quegli anni ci eravamo da poco trasferiti a Borgonovo, in provincia di Piacenza. Con i miei genitori, originari delle Mauritius, ho vissuto fino a sei anni a Catania, per poi lasciarla e raggiungere il piacentino, dove erano presenti migliori opportunità lavorative per mio padre. Insieme alla città, abbandonammo anche la comunità mauriziana che ci viveva. Nella città emiliana ho vissuto il resto della mia infanzia e l’adolescenza.
QUALI SONO STATI I TUOI PRIMI PASSI NELLA FORMAZIONE LAVORATIVA?
Ho frequentato il liceo scientifico Melchiorre Gioia di Piacenza. Sorprendentemente, però non sono stati tanto gli studi scolastici a formarmi maggiormente quanto il mio contributo alla biblioteca della scuola. Ottenni infatti l’incarico di animatore di biblioteca. Con la catalogazione dei libri fu amore a prima vista. Al tempo nella biblioteca c’era un computer, così un giorno iniziai a provare, un po’ alla cieca ma guidato da una grande curiosità a lavorarci sopra. Catalogare libri divenne la mia passione, e passavo molte ore in biblioteca dopo la scuola occupato in questo modo. Partecipai anche a degli eventi nei quali lo staff della biblioteca si presentava alle varie classi per far conoscere meglio la realtà di quella parte della scuola, e penso che questa attività abbia migliorato la mia capacità di parlare ed esporre concetti davanti a un pubblico. Per poter entrare nella biblioteca scolastica era obbligatorio aver svolto un certo numero di ore presso l’ufficio dei servizi sociali di Borgonovo Val Tidone. Ci tengo a sottolineare quanto il periodo passato in quell’ufficio, per quanto mi occupassi prevalentemente degli aspetti tecnico-informatici, mi abbia fatto capire in che modo parlare con le persone, mettendole il più possibile a loro agio. 111
COME TI SEI AVVICINATO DURANTE GLI STUDI AL SETTORE METALMECCANICO IN CUI OGGI LAVORI?
Una volta terminati i meravigliosi anni liceali, ho dovuto affrontare la scelta universitaria. La mia prima idea era quella di studiare Biblioteconomia, tuttavia vi erano solo due atenei in tutta Italia in cui era possibile e per giunta erano richiesti degli studi in materia di beni culturali. Provai allora ad informarmi per inseguire per lo meno la mia passione per l’informatica, ma sarei dovuto andare fino al Politecnico di Milano, e da un lato per la scomodità, dall’altro per l’onere finanziario, decisi di non farlo. Mi iscrissi a Ingegneria meccanica nella sede di Piacenza del Politecnico di Milano. Certo, si trattava di un indirizzo completamente nuovo per me rispetto a quelli che erano stati i miei studi precedenti e quelle che erano state le mie passioni finora, ma fui condotto a questa scelta soprattutto perché apprezzavo l’idea di imparare qualcosa di nuovo. Il fatto di aver compiuto certi studi superiori non dovrebbe comportare l’obbligo di proseguirli anche nella formazione universitaria. Anzi, oggi, guardandomi indietro, sono fiero di questa scelta, perché mi ha permesso di mettermi alla prova in un ambito a me sconosciuto. Non è stato facile come percorso di studi, è stata una sfida continua, ho dovuto affrontare non poche bocciature e passare ore infinite sugli stessi libri. Ma se mi chiedessero se sarei disposto a rifarlo risponderei di sì senza pensarci due volte! È soltanto grazie a questa combinazione di eventi che oggi posso dire di avere un lavoro che mi dà tantissima soddisfazione, al punto da dire che forse era questo ciò che, a ben guardare, sognavo davvero di fare.
COME SEI ARRIVATO IN TGR?
Sono entrato a ventitré anni, mentre stavo ancora studiando ingegneria, per accumulare 450 ore di stage obbligatorie. Non è stata, a dire il vero, la prima azienda a cui mi sono rivolto, ma è stata la prima ad accogliermi a braccia aperte. Il motivo? Sul mio curriculum figuravano da un lato il nome del Politecnico di Milano, con cui la TGR si era appena convenzionata, e l’esperienza nell’ufficio dei servizi sociali dall’altro lato. La figlia di uno dei fondatori dell’azienda, nello specifico, aveva in comune con me quest’ultimo aspetto, e se sono stato preso in TGR è stato innanzitutto grazie a lei. Il primo giorno di lavoro mi sono recato in azienda e mi è stato detto che sfortunatamente nessuno avrebbe potuto starmi dietro. Mi è stato consigliato di tornare il giorno successivo. Io invece decisi di rimanere, e assistetti alla conversazione che stava avvenendo con il tecnico in merito a un software aziendale. A un certo punto la conversazione si fermò, notai che il gruppo era arrivato a un punto morto e così, dall’angolo buio della stanza in cui mi ero sistemato, proposi timidamente quella mi pareva potesse essere la soluzione. Momento di silenzio. Gli altri manager si guardano negli occhi. Ci pensano su. Poi approvano la mia decisione. Da quel momento feci colpo e mi legai a TGR al punto che è stata la mia unica azienda dal 2016 ad oggi.
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QUALI ERANO LE TUE MANSIONI IN AZIENDA? COS’È PER TE IL LAVORO?
Inizialmente mi occupavo soprattutto di project management, ma utilizzavo anche le mie competenze informatiche trasversali per aiutare l’azienda su altri piani, per esempio quello della diminuzione delle spese. Negli anni abbiamo imboccato la strada della digitalizzazione, fino a diventare una realtà solida e dinamica che opera in diversi settori ad alto contenuto tecnologico. È stato durante gli anni in cui avveniva questa transizione complessa che sono riuscito a dare il mio contributo umano più significativo, investendo sulle persone come risorse e sfruttando tutte le mie competenze per riuscire davvero a entrare in empatia con loro e il loro lavoro. Il nome del mio ruolo corrente è lean manager, e mi occupo di migliorare i processi produttivi e l’ambiente di lavoro con l’obiettivo di portare in azienda un cambiamento che sia consapevole e ben voluto. Gestisco anche le relazioni coi fornitori, ma gran parte del mio tempo lo passo in officina, vedendo da vicino in cosa consiste il mestiere metalmeccanico. Ho sempre avuto dentro di me questa curiosità e questa voglia di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, e mi ritengo immensamente fortunato a poter svolgere un lavoro dove mi è possibile farlo, muovendomi liberamente all’interno dell’azienda e talvolta improvvisandomi nei ruoli più diversi. Uno dei miei idoli, il grande Steve Jobs: “Bisogna trovare quel che si ama. Il lavoro riempirà gran parte della vostra vita, e l’unico modo per essere davvero soddisfatti è fare ciò che crediamo essere un ottimo lavoro. E l’unico modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che facciamo”.
TRA I VALORI-SIMBOLO DI RICHMOND ITALIA, IN QUALI TI IDENTIFICHI?
I valori-simbolo di Richmond Italia che mi rappresentano nel modo più fedele sono Cambiamento, in quanto in azienda è mio preciso compito favorirlo positivamente, e Partecipazione, perché è stato grazie alla mia apertura verso le opportunità che mi si presentavano che ho potuto coglierle e farle fruttare appieno.
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Dalila Russotto Graphic Designer SETA BEAUTY
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LA MIA TERRA, LA SICILIA, LA PORTO CON ME NEL MIO LAVORO Intervista a cura di Stefania Spadoni A Gubbio, oggi, splende un bellissimo sole, che sembra scaldare le cose e illuminare le persone proprio come il sole della sua amata Sicilia, la terra natale di Dalila Russotto. Oggi vive a Roma e fa la designer, ma tutto quel sole e i colori della sua terra Dalila se li è portati con sé anche nel lavoro e nella relazione con le altre persone.
CHI SEI E COSA FAI QUI AL RICHMOND MARKETING FORUM?
Lavoro nel mondo della comunicazione per Seta Beauty, un’azienda che si occupa di skin care professionale, epilazione laser, trattamenti viso e corpo e benessere a 360° sia per il target femminile che maschile. Io coordino alcune attività di marketing e seguo dal punto di vista grafico tutta la parte di brand design dell’azienda. Sto lavorando per crescere in questo campo e il mio obiettivo per il futuro sarebbe poter seguire la direzione creativa dei progetti e del brand. I miei studi hanno spaziato da un triennio in Arti Tecnologiche a Catania, al trasferimento a Roma per il biennio di specializzazione in Grafica e Fotografia, con un’esperienza formativa molto bella all’interno della redazione del magazine dell’università. Oggi il mio lavoro per Seta Beauty prova a tenere insieme sia la parte più creativa legata alla grafica del brand che la parte più strategica legata al marketing.
COME SEI ARRIVATA IN QUESTA AZIENDA E IN QUESTO SPECIFICO SETTORE DI MERCATO?
Sono sempre stata in contatto con il settore beauty, anche da freelance, non avevo bisogno di farmi avanti, forse in risposta a quello che è un mio specifico interesse. Quando mi sono messa a cercare lavoro dopo la laurea volevo entrare in un team aziendale, per capire le dinamiche che sono molto diverse rispetto a quelle di un freelance.
COM’È STATO LASCIARE LA SICILIA, LA TUA CASA, PER CERCARE NUOVE ESPERIENZE ALTROVE?
Forse non l’ho mai lasciata la mia terra. Appena ho un momento disponibile torno a casa, prendo tantissimi aerei perché sento molto forte il legame con la Sicilia. Probabilmente questo legame si fa sentire ancora di più oggi, che vivo lontana, ed è forse per questo motivo che parallelamente al mio lavoro in azienda sto portando avanti un progetto personale di jewellery, per creare gioielli made in Sicily. È una collaborazione iniziata da poco, per la quale io curo tutta la parte di design, cioè il disegno del gioiello stesso, e la mia socia segue tutta la parte di produzione e realizzazione artigianale con un’attenzione molto forte alla sostenibilità dei materiali. Lei vive in Sicilia e questo mi permette di mantenere sempre un legame molto forte con la mia terra anche da lontano. 115
È BELLO SENTIRE DI UN’ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE E ARTIGIANALE CHE NASCE E VUOLE VALORIZZARE UN TERRITORIO COME QUELLO SICILIANO.
Sì, sono molto orgogliosa di questo progetto e credo che, oltre a essere un progetto di valore e sostenibile, sia davvero una bella narrazione della mia terra perché, ad esempio, la collezione che sto disegnando adesso parte da un’ispirazione molto precisa. La nostra idea è quella di partire da un elemento caratteristico di una delle città della Sicilia e riportarlo graficamente, attraverso uno stile minimal, all’interno di questi gioielli. Il progetto non ha ancora un nome, ma sarà tutto davvero molto siciliano.
PENSI MAI DI POTER TORNARE A VIVERE IN SICILIA?
Se cambieranno le condizioni, sì. Se sarà favorito il lavoro creativo, potrebbe essere per me una strada. Al sud ci sono ancora troppe poche possibilità che garantiscano una sicurezza economica nel fare impresa. Lo vedo, ci credo, ma non è ancora il tempo. Adesso voglio crescere come professionista in un luogo che me lo permetta, che mi formi, per poi poter portare il mio bagaglio di crescita ed esperienza “giù”.
COSA SIGNIFICA PER UN GIOVANE LASCIARE I LEGAMI DI CASA E TRASFERIRSI IN UN POSTO NUOVO?
Non è stato facile, certo l’università e l’Accademia di Belle Arti di Roma mi hanno aiutata a creare nuovi rapporti che poi si sono trasformati anche in collaborazioni, ma non è stato semplice lasciare una parte così importante della mia vita in Sicilia e dover ricostruire da zero nella città dove vivo tutt’ora. Ci ho messo tanto impegno, ho cercato da subito di creare nuove relazioni. Il mio impegno nella redazione della rivista universitaria, per esempio, è nato anche per questo motivo. Socializzare, saper creare dei momenti dedicati è importante e mi ha aiutato anche nel mondo del lavoro per imparare a cooperare e progettare insieme. Io ho avuto anche la fortuna, nella sfortuna, di passare il periodo del lockdown con due coinquiline con cui ho creato un bel legame, in casa c’era un clima attivo e positivo. Facevamo delle cose insieme, come lo sport e la cucina, ed è stato per me come ricreare una seconda famiglia, dopo la scelta di non rientrare nella mia in Sicilia per preservarla da un possibile contagio. Ero sola, ero spaventata, ma per fortuna c’erano loro.
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COSA PENSI DEI LEGAMI PERSONALI DI AMICIZIA NEL MONDO DEL LAVORO?
Anche qui la mia mentalità siciliana aiuta, anche se a volte mi dicono che sono una siciliana atipica perché sono molto puntuale e parlo a bassa voce. Però amo socializzare e quindi tengo molto unita vita personale e vita lavorativa. Ovviamente metto delle barriere, perché comprendo che le dinamiche sono differenti, ma cerco di rimanere aperta e creare dei rapporti che permettano di vivere in un bel clima anche sul luogo di lavoro. Devo ammettere che molti dei miei colleghi sono del Sud come me… e questo aiuta.
COM’È STATO IL PASSAGGIO DAL MONDO UNIVERSITARIO A QUELLO LAVORATIVO?
Io ho fatto un’accademia con un impianto pratico (workshop, attività ecc…) diverso rispetto alla classica formazione teorica dell’università italiana, ma nonostante questo non credo che la formazione in Italia ti prepari veramente al mondo del lavoro. Adattarsi alle dinamiche del mondo del lavoro è complesso, inoltre io ho fatto questo passaggio in un periodo storico eccezionale come quello della pandemia. Ho dovuto fare tutto da remoto, dai colloqui alla conoscenza dei team di lavoro, senza poter sviluppare la conoscenza, l’empatia e la relazione umana con il contatto o il semplice guardarsi negli occhi. Il team era disgregato fra una call e l’altra e molti progetti li abbiamo portati avanti senza conoscerci, è stato davvero complesso. L’esperienza legata al trasferimento in una nuova città, mi ha fatto sviluppare le giuste skill per affrontare tutto questo. All’inizio ero destabilizzata, poi ho imparato ad adattarmi.
UN VALORE DELLA TUA TERRA CHE PORTI NEL LAVORO?
L’ascolto e la pazienza, i siciliani parlano tanto e ascoltano molto. Questo lo porto anche nel mio team, c’è tanto dialogo, apertura e comprensione fra di noi.
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Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è uno spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spessore. Tirate fuori gli smartphone e cliccate il codice QR: troverete un materiale very open.
HUMAN2HUMAN FOREVER NICOLETTA ROMANAZZI Mental coach
Imparare a essere invece che imparare a fare (…) È importante conoscersi meglio, capire che cosa veramente vogliamo, che cosa è importante per noi e qual è la direzione verso la quale andare, che sarà la direzione giusta per noi. Dobbiamo imparare a conoscerci meglio, dobbiamo imparare a conoscere i nostri limiti. Per fare che cosa, per combatterli? No, per accoglierli.
ROMANO CAPPELLARI
Professore di marketing e Retailing Università di Padova e CUOA Business school
Vedo difficile che nel medio termine l’AI arrivi a emozionare come una relazione con una persona in carne e ossa (…) L’intelligenza artificiale non può sostituire l’emozione di una relazione con una persona reale, quindi da un lato alcune funzioni verranno automatizzate, e svolte dall’AI in modo efficace, dall’altro proprio per questo acquisterà maggior valore la possibilità di trovare una persona in carne ed ossa.
THE BOOKMASTER Eugenio Alberti e i libri degli speaker ealberti@richmonditalia.it
THE POWER OF LOVE Bill Niada scrive un romanzo che è insieme cura e call to action
Vorrei entrare nel sole mantiene ciò che promette: racconta la vita e la morte in presa diretta. È la storia d’amore di un giovane e affascinante paziente oncologico, Luca, che ha tutte le virtù di un cavaliere – pazienza, autorevolezza, bontà e soprattutto grace under pressure, per citare Hemingway – e Alice, giovane ragazza che soffre di disturbi alimentari, coraggiosa e capace ancora di meravigliarsi di fronte ai misteri della vita. Entrambi provenienti da famiglie upper class, soprattutto Luca. Facciamo il tifo per entrambi durante gli inevitabili up and downs di vite segnate – ma non compromesse – dalla malattia. È un libro che i ‘sani’ dovrebbero leggere per capire gli orizzonti differenti di chi è alle prese con altre battaglie, altre aspettative, in cui ogni piccolo frammento di quotidianità, di riuscita, di relazione con gli altri certe volte sembra una cattedrale, il risultato di uno sforzo immane quanto invisibile. Il loro amore è puro e con una bella progressione geometrica, ce ne fossero come questo intorno a noi. Però sarebbe riduttivo classificare la storia solo come il diario di un amore. È anche la storia di due giovani che provano a fare ciò che ai giovani riesce meglio: cambiare il mondo. “Le loro parole e i loro pensieri non dovranno rimanere chiusi, stretti dentro un cerchio di certezze e luoghi comuni, come lo sono quelli degli adulti con il vocione, che sbraitano e impongono i loro concetti triti e ritriti.” Vediamo gettare le basi di un progetto che non si fermerà con la morte di uno dei due. La morte chiude solo il primo tempo del match, ma poi il match continua dopo l’intervallo. Ed è questa concatenazione fra primo e secondo tempo che affascina. Nel suo TEDx talk del 2015 Bill Niada ha detto sul palco che noi siamo artefici del nostro futuro, ed è quello che capiamo dal romanzo: le azioni prima della morte determinano anche il dopo. E queste azioni non riguardano solo la reputazione dei singoli individui, come si parlerà di loro e come verranno ricordati, ma qualcosa di più: riguardano progetti che nascono insieme e poi proseguono come delle piccole barchette spinte dalla riva verso un ignoto accogliente e tenero,
non respingente. Il romanzo è una bella allegoria di come possiamo allargare la prospettiva, di come possiamo abbracciare la vita reale con uno sguardo nuovo se vogliamo accogliere il cambiamento. Allora la malattia – che si siede alla nostra tavola senza essere invitata e sconvolge crudelmente i piani – diventa anche scuola di vita, perché ti insegna sguardi diversi, e questo riguarda sia i pazienti che i membri delle famiglie coinvolte. In questo senso, il romanzo diventa una formidabile narrazione di progettazione sociale, perché la storia principale si sovrappone alla descrizione delle attività del Bullone, la fondazione creata dall’autore nella vita reale. Non avevo mai letto un romanzo che ibridasse storytelling, letteratura e comunicazione. A chi scrive, la storia di Luca e Alice ha ricordato quella di Oliver e Jennifer di Love story, film e poi romanzo di incredibile successo del 1970, candidato a 7 Oscar (vinse poi solo quello per la colonna sonora del francese Francis Lai) e poi canzone cantata da Mireille Mathieu. L’autore era Eric Wolf Segal, figlio di un rabbino, professore di letteratura greca e latina a Yale, Princeton e Oxford. Fiumi di lacrime, certo, ma fu anche lezione su come amare al di là delle distanze sociali. Celebre diventò la battuta “Love means never having to say you’re sorry”.
Bill Niada, Vorrei entrare nel sole, Sonzogno 2022, 207 pagg., 17 euro
Paolo Tosti’s Eye
Paolo Tosti, founder dell’agenzia di comunicazione Sedicistudio, da 14 anni racconta per immagini i forum di Richmond Italia, coordinando il lavoro di ripresa foto e video di un team dedicato. L’esperienza e il suo “occhio” di fotografo gli consentono di catturare quel momento così difficile da raccontare a parole a chi non è mai stato a un Richmond forum: l’atmosfera human2human. info@sedicistudio.com
OSSERVO, DUNQUE SONO Secondo Krishnamurti osservare in sostituzione al giudizio è “la più alta forma di intelligenza umana” proprio perché è un’operazione di grande intelligenza cognitiva ed emotiva che ci consente di allargare le nostre possibilità di pensare e sentire facendoci ‘contaminare’ da quanto proviene dall’esterno, dal mondo, senza chiuderci nelle nostre convinzioni facendocene scudo. Osservare senza giudicare quindi, non è un esercizio, ma una buona educazione. Dovrebbe essere una modalità per accogliere e non separare le persone, le culture e le opportunità. Troppo spesso perdiamo tempo ed energie a giudicare gli altri, a esprimere consigli non richiesti e sentenze moralistiche, ad assegnare la
maggior parte delle volte etichette in senso negativo a ciò che spesso apparentemente non ci piace. Questa Terra è l’unica che abbiamo, ce ne dobbiamo fare una ragione. Da sempre è piena di pura felicità diffusa, ma gli umani spesso non se ne accorgono e così eccoli lì, cupi, tristi e insoddisfatti, apparentemente fermi sulle loro idee e sempre pronti e prendersi troppo sul serio, pensando che ogni azione, comportamento o interesse sia osservato da qualcuno con l’intento di giudicarci.
di abiti indossiamo e da quali usi e costumi proveniamo. Nessuno noterà questi nostri ‘difetti’ perché tutti saranno troppo occupati a preoccuparsi dei loro. Allora perché non la smettiamo di prendere tutto così seriamente? Perché non la smettiamo di avere l’ansia di chiederci come potremmo apparire agli occhi degli altri portandoci a condurre una vita triste e avvolta nel dubbio? Tutto questo potrebbe essere tramutato in pensieri positivi e in relazioni sostenibili che sfociano in una semplice e genuina felicità.
Credo che il motivo di questo pensiero sia il fatto che abitiamo tutti nella stessa e unica Terra. Potrebbe essere che ce ne sia una simile chissà quanto lontana dalla nostra (per ora), ma nonostante ciò dobbiamo farcene una ragione, poiché, osservando la realtà dei fatti, noi siamo qui e qui dobbiamo vivere con la consapevolezza di chi siamo e della molteplicità di usi e costumi che gli esseri umani sanno esprimere in oltre 8 miliardi di varianti.
La selezione di immagini che vi propongo è un insieme di scatti rubati al mondo. Al centro si snoda una catena di fotografie che riguardano cittadini, persone, uomini e donne fatti di storie da scoprire, volti che a me hanno donato semplice felicità e normale curiosità, frutto di quel mio desiderio di scoprire e di capire, non di giudicare, per raccontare le storie degli individui usando un semplice attrezzo meccanico come la macchina fotografica.
La verità è che a nessuno realmente interessa la capienza della nostra pancia, che tipo
Non voglio prendermi troppo sul serio, ma a volte lo faccio quando si tratta di giocare.
IL TALENTO DI GUARDARE AVANTI. Nel 2024 Richmond Italia compie trent’anni, un traguardo importante. Abbiamo visto il mondo cambiare, e anche noi siamo cambiati, imparando a guardare avanti senza timore. Lo abbiamo potuto fare avendo il privilegio di poter osservare da vicino l’esempio dei tanti partecipanti ai nostri forum. Per festeggiare abbiamo fatto evolvere il nostro logo. E abbiamo deciso di usare la nostra comunicazione del 2024 come una galleria, ospitando le opere di Giulia Caruso, un’artista che lavora dalla parte delle donne. L’arte è sempre uno specchio della società. Qualche volta è anche un laboratorio di futuro.
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