Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia MANAGERS OF THE FUTURE
Gennaio 2021 Anno IV #04
MANAGERS OF THE FUTURE
REACH - MANAGERS OF THE FUTURE powered by IL BULLONE Richmond Italia Via Guglielmo Silva, 22 Milano 20149 info@richmonditalia.it richmonditalia.it @richmonditalia @richmond_italia IL BULLONE Via Voghera, 11 Milano 20144 Ilbullone@fondazionenear.org ilbullone.org @ilbullonefondazione Il Bullone
REACH è stato ideato e realizzato dai B.Liver Gennaio 2021 - Anno IV - Numero 04 In copertina: Pietro Ruffo, foto di Stefania Spadoni Concept: Il Bullone Art direction e grafica: Elisa Legramandi Supporto grafico: Antonella Ficarra Illustrazioni: Chiara Bosna, Sandra Riva Fotografie: Stefania Spadoni, Paolo Tosti Video: Davide Papagni, Sandra Riva Coordinamento editoriale: Eleonora Prinelli Redazione: Eleonora Prinelli, Eugenio Alberti, Maria Antonietta D’Onghia, Stefania Spadoni, Davide Papagni, Sandra Riva, Natalia Pedrioni, Elisa Tomassoli, Sarah Kamsu e Alessia Piantanida Editing: Silvia Cappellini, Ada Baldovin, Chiara Bosna Grazie a tutti i B.Liver che hanno partecipato: Elisa, Michele, Pietro, Alessia, Debora, Oriana, Edoardo, Chiara, Alessia, Fabio, Nicolò, Martina, Sarah, Giada, Natalia, Alessandra, Denise, Elia, Debora, Eleonora, Arianna, Francesca, Alessandra, Alice, Edoardo, Maddalena, Adele
Leggi il numeri precedenti di REACH su issuu.com/richmonditalia
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Luglio 2019 Anno II #02
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00 Powered by B.LIVE I B.Livers raccontano Richmond Italia I B.Livers sono ragazzi che lottano contro la malattia e hanno deciso di dire sì, per andare oltre i propri limiti
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Luglio 2018, Anno 1, numero 00
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Claudio Honegger - Richmond Italia Amministratore unico Il Bullone Giovanni Boccia Artieri Opening speaker Marisa Farina e Alessandra Festa - Nevixe Event manager e Communication manager Gianluca Di Lillo - Gruppo Balletta Direzione Amministrativa e Finanziaria Francesco Lo Turco - Enel Energia Senior Digital Marketing manager Filippo Coletti - Carron Cav. Angelo Servizio Prevenzione e Protezione ASPP Gad Lerner Opening speaker Vanessa Toscano - Toscano Gioielli Store manager Filippo Aragone - HRD Net CFO Simone Giramondi - KIA Italia Marketing manager AS Carlo Cottarelli Opening speaker Claudia Patti - Ontario Strategic planner Manuel Corona - Shampora Curly-haired CEO e founder Alessandra Vernazza - GDP Digital Marketing Gianluca Rocchi Opening speaker Cristina Ceccato - Cultiva CFO - Direttore Amministrazione Calogero G. Burgio - Porti di Roma Dirigente Area Ambiente, Demanio e Valorizzazione del Patrimonio Salvatore Vitale - Green Network Digital Innovation & Customer Operations Director Cristian Fracassi Opening speaker
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Vincere o perdere - Denise Corbetta Stefano Santoro - Sibelco Italia Global Process engineer Laura Giorgetti - Zini Prodotti Alimentari Sales Director Salvatore Sinigaglia - Blowhammer CEO Germano Lanzoni Opening speaker Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Crescere insieme - Giulia La Rotonda Alberto Basili - Gruppo Loccioni CFO Massimiliano Bartolozzi - Lucart Chief Information officer Alberto Conta - Haier Europe Consolidation Director & CFO Italy Pietro Ruffo - Mercatino Responsabile ufficio innovazione/e-commerce Andrea Pontremoli Opening speaker Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Raccontare la vita - Diana Baptista Flores Anna Del Sorbo - Idal Group General manager Daniele Toniutti - 1001 Birre Amministratore Ilario Cardillo - Rummo Tesoriere Vincenzo Fenili Opening speaker Paolo De Paola - Tutto Sport Direttore responsabile Sergio D’Angelo - Ilpa Adesivi Marketing manager Giovanna Cutrignelli - Ilpa Adesivi CFO - Direzione Amministrativa e Finanziaria Vincenzo Ponzo HSE manager La Posta di Marina Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi
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Che storia le nostre storie Caro lettore, l’anno che ci lasciamo alle spalle è un anno diverso. Diverso da tutti gli anni che abbiamo vissuto prima, e dall’anno che ci potevamo aspettare anche facendo le previsioni meno rosee. È stato un anno che ricorderemo e racconteremo come i nostri nonni raccontavano a noi i periodi bui della storia. Un anno intenso e denso di esperienze nuove e difficili. Sono stati rimessi in discussione tutti i paradigmi su cui abbiamo basato le nostre scelte. E ora abbiamo davanti un futuro ancora più sconosciuto, benché il futuro sia sconosciuto per definizione. In questo anno complesso abbiamo fatto tre cose. Abbiamo reagito, senza scoraggiarci, innovando i nostri forum e proponendone di nuovi (penso a Richmond Future factory forum) o con nuovi formati. Abbiamo fatto una riflessione accurata sui nostri valori. E infine, abbiamo scandagliato le nostre comunità alla scoperta di storie che parlassero di resilienza e spirito positivo. In questo numero di Reach magazine vi proponiamo una galleria di storie vere che ci hanno donato i partecipanti ai forum. Gli intervistati, e voglio ringraziarli di cuore uno per uno, si sono aperti, hanno ricordato e riflettuto sui valori e sulle persone che più li hanno ispirati nel loro cammino di vita o nel lavoro, anche nei momenti difficili. Lo hanno fatto generosamente e senza omissioni. Ogni storia è un piccolo tesoro, e mi auguro che possa essere anche per te un’ulteriore occasione di riflessione. L’obiettivo di Reach magazine – che arriva al suo quarto numero e di cui siamo molto orgogliosi per le energie che riesce a mettere in circolo – è proprio quello di offrire un piccolo spazio di crescita personale e professionale, proponendo un punto di vista leggermente fuori asse, uno spazio in cui il manager e l’essere umano possano confrontarsi e trovare un nuovo equilibrio. Ti auguro una buona lettura e ti invito a scrivermi personalmente per proporre la tua storia o altri argomenti su cui riflettere nei prossimi mesi. La tua voce è importante per far crescere questo progetto. Buon futuro.
Claudio Honegger Amministratore unico Richmond Italia chonegger@richmonditalia.it
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USQUE AD FINEM
Siamo una fondazione no profit che attraverso il coinvolgimento e l’inclusione lavorativa di ragazzi che hanno vissuto o vivono ancora il percorso della malattia, promuove la responsabilità sociale di individui, organizzazioni e aziende. I ragazzi si chiamano B.Liver e la loro esperienza genera Il Bullone, un nuovo punto di vista che va oltre il pregiudizio e i tabù verso uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile. Il Bullone è pensiero: un giornale, un sito e un canale social, i cui contenuti sono realizzati insieme a studenti, volontari e professionisti per pensare e far pensare. Il Bullone è azione: esperienze con i B.Liver, progetti di sensibilizzazione, lavoro in partnership con aziende.
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IL MANAGER DEL FUTURO È SU REACH!
Da tre anni redigiamo Reach, il magazine Human2Human che racconta gli eventi business di Richmond Italia. Con un tono di voce fresco e giovanile, raccontiamo una nuova idea di manager grazie ad articoli, interviste e contributi di coach professionisti, ospiti illustri e imprenditori che raccontano le proprie case history di successo.
Lo facciamo curandolo nei minimi dettagli: dalle interviste ai partecipanti in loco, alla creazione dei contenuti editoriali e della grafica, sino allo sviluppo della versione cartacea e digitale. Ma soprattutto, lo facciamo attraverso l’incontro con i suoi partecipanti: le persone. Sì, perché le aziende sono fatte di persone prima di tutto, ed è lì che Il Bullone entra in gioco: per raccogliere spunti ed esempi che siano d’ispirazione per il manager del futuro, passando attraverso i temi legati al business, ma non solo.
Quest’anno abbiamo chiesto ai partecipanti di raccontarci le proprie storie. Storie di vita, storie di business, storie di “inciampi” che non li hanno fermati. Qualsiasi esse siano, sono storie che svelano, insegnano, ispirano. E sono storie straordinarie. A riprova del grande valore umano che caratterizza questo progetto di comunicazione sociale, abbiamo inserito a fianco di ogni storia manageriale un commento speciale: quello dei B.Liver, i ragazzi beneficiari della nostra fondazione. Così facendo, abbiamo coinvolto più di trenta ragazzi, ognuno dei quali ha letto e commentato una storia, traendone ispirazione per il futuro e contribuendo con le proprie sensazioni alla riuscita di questo editoriale.
Reach è un magazine semestrale, al quale ci si può abbonare al costo di 100 euro l’anno, detraibili fiscalmente. Basta fare un bonifico a Fondazione Near onlus, iban IT98Z0326801603052176130370, indicando nella causale Donazione Reach 2021, nome, cognome e indirizzo per la spedizione. Abbonandoti fai la cosa giusta anche sul piano solidale: sostieni le attività sociali dedicate ai ragazzi del Bullone.
Abbonati a Reach e lasciati ispirare!
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Opening Speaker
Giovanni Boccia Artieri
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l sociologo dei new media Giovanni Boccia Artieri, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università degli studi di Urbino, ha aperto l’edizione 2020 di Richmond E-commerce forum a Rimini. Argomento dello conferenza è lo spostamento delle conversazioni personali da spazi pubblici a spazi privati.
84% finisce nelle app di messaggistica come Whatsapp, Messenger ecc. Da lì si è cominciato a capire che la Big conversation sulle grandi piattaforme di internet sta con una certa velocità migrando verso le Small conversation, flussi di condivisione fra gruppi molto più ristretti, come gli amici, la famiglia, o le micro-tribù accomunate da passioni e interessi. Sono luoghi che generano consumo, ma non solo.
L’espressione dark social è stata coniata da un giornalista della testata digitale "The Atlantic", il quale ha scoperto che la condivisione dei link del suo giornale solo per il 16% è pubblica e per il restante
Sono tribù che consumano ma non tribù di consumatori. Internet, inteso come grande caos indistinto e affollatissimo "suk delle conversazioni" in cui si incontrano soggetti eterogenei, sta lascian-
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do il posto a questa nuova realtà. Oggi, il vero valore del bene commerciale è la sua capacità di creare legami sociali. Il legame conta più del bene. Artieri ha citato la comunità dei proprietari di Harley Davison, che si scambiano podcast con la registrazione dei rumori dei vari modelli. È vero che le conversazioni private sono meno tracciabili, ma è altrettanto vero – e questo apre opportunità straordinarie per i brand – che al loro interno, in modo del tutto naturale e organico, esiste il passaparola. Offrono meno tracciabilità ma in compenso sviluppano più affinity. Uno dei drive di questo fenomeno
“Dark social è il new normal”
è la preoccupazione per la privacy. In particolare la generazione Z, quelli nati dopo il 2000, sembrano sentirsi a disagio con storie che durano più di 24 ore e sono forti utilizzatori di smartphone per messaggistica istantanea (200 minuti ogni settimana). L’82% di loro dice di essere molto cauto su ciò che condivide in pubblico. Artieri ha raccontato casi di aziende che hanno saputo cogliere queste opportunità come Starbucks con i suoi gruppi di ascolto per imparare dai consumatori su Whatsapp, Toyota Spagna che ha lanciato vere e proprie campagne e Netflix che diffonde dei trailer.
Il Dark social segna l’ingresso di Internet nell’età adulta e invera i primi tre punti del Cluetrain Manifesto del 1989. 1. Il mercato sono conversazioni. 2. I mercati sono fatti di essere umani, non di segmenti demografici. 3. Le conversazioni fra esseri umani sono umane e si svolgono con voce umana. Concludendo, Artieri ha fornito quattro consigli ai brand su come affrontare il Dark social: 1. Creare url abbreviate e facili da ricordare, anche senza copia e incolla. 2. Creare pulsanti di condivisione. 3. Utilizzare tool di monitoraggio per il dark social. 4. Creare contenuti pertinenti.
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In generale, lo slogan è “meno seduzione, più concretezza” e soprattutto più spinta all’azione, più indicazioni di cosa fare. Dare è più importante che dire.
MARISA FARINA E ALESSANDRA FESTA Nexive Event manager e Communication manager
“Nel bel mezzo della pandemia abbiamo pensato agli altri facendo leva sulle nostre competenze”
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o e Marisa vorremmo raccontare una storia di ripartenza avvenuta nel bel mezzo di un uragano che ci ha coinvolto tutti: questa tragica pandemia. Dal 24 febbraio ci siamo trovati in una situazione molto difficile, ma per il tipo di servizio essenziale che offriamo non potevamo fermarci. Le persone si sono attrezzate per acquistare online ogni tipo di genere e noi di Nexive eravamo in dovere di connettere le persone che non potevano uscire di casa alle loro necessità. In questo momento particolarmente faticoso ci ha ispirato la natura del nostro business che ci ha permesso di sviluppare dei progetti utili ed interessanti, sia per la nostra popolazione aziendale, sia per le persone al di fuori del mondo Nexive. Abbiamo riflettuto sulla necessità di sviluppare la comunicazione interna tra colleghi e tra i vari reparti costruendo un sistema di contatti ed iniziative efficaci per accorciare le distanze: il caffè virtuale, colloqui con gli psicologi, webinar e materiali informativi per condividere e aggiornare tutta l’azienda o per far ritornare al lavoro le risorse in sicurezza. Abbiamo spostato la nostra attenzione sulla comunicazione interna diventando un punto di riferimento per i nostri colleghi che avevano l’esigenza di trovare modi alternativi per entrare in contatto con il mondo esterno. La volontà di convertire le competenze di comunicazione verso le nostre risorse umane è stata un’ ottima idea e abbiamo
toccato con mano gli ottimi risultati. Si è risvegliato un senso di solidarietà e ci siamo messi tutti in gioco. Noi di Nexive abbiamo sempre sostenuto diverse associazioni perché è parte integrante del nostro DNA; collaboriamo con varie associazioni al di là dell’emergenza Covid. In questo periodo abbiamo sviluppato diverse iniziative di CSR, da febbraio abbiamo fatto una raccolta fondi tra i dipendenti per l’ospedale Sacco di Milano raccogliendo 10000 euro; siamo diventati partner dello Specchio dei Tempi per sostenere la spesa solidale con i nostri portalettere che hanno offerto il loro tempo extra lavoro per recapitare la spesa a famiglie bisognose a Milano, Bergamo, Varese e altre città italiane; abbiamo anche attivato un’altra iniziativa artistica sviluppata insieme ad una onlus, “100 fotografi per Bergamo”, dove gli artisti hanno donato le loro stampe che sono state acquistate da diversi privati e tutto il ricavato è stato destinato all’ospedale di Bergamo. Noi come Nexive ci siamo occupati di spedire le creazioni in tutta Italia e abbiamo spedito all’incirca 5000 stampe.
“Se un professore ha passione per il suo lavoro può cambiarti la vita, ed entrambe siamo state influenzate positivamente dai nostri insegnanti”
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Marisa: La comunicazione e le pubbliche relazioni mi hanno sempre attratta e sono stata molto fortunata ad incontrare nel mio cammino un professore che mi ha influenzata positivamente e supportata umanamente per il mio futuro lavorativo. Mi piace la creatività e da piccola giocavo con i miei fratelli ad indovinare i jingle delle pubblicità, era un gioco divertente, riconoscevamo gli spot televisivi attraverso le parole degli attori, forse è partito tutto da lì. Alessandra: Fin da piccola amavo studiare altre culture, volevo fare l’hostess, ma non sono altissima e allora ho rinunciato. A scuola un insegnante di inglese mi ha trasferito la passione per le lingue influenzando il mio percorso di studi e all’università ho conosciuto diverse persone appassionate al mondo della comunicazione, così ho rinforzato la mia visione creativa. In seguito ho lavorato in un’agenzia per il lavoro e lì ho imparato ad ascoltare storie personali intrecciate a storie di lavoro, mi interessava trovare il modo per raccontarle; è stato un grande valore per la mia crescita lavorativa, mi piace mettere in connessione le persone e trasferire i valori in cui credo supportando gli altri, e tutto questo si allinea agli obiettivi che oggi cerco di raggiungere in Nexive.
Anche io, come Mar isa e Alessandra, grazie ad appuntamenti vi rtuali costanti con i miei amici ho imparato a comunicare e ad apprezzare anche la forza e l’efficacia di una parola di affe tto e di un sorriso lontano, ma sincero. Elisa
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GIANLUCA DI LILLO Gruppo Balletta Direzione Amministrativa e Finanziaria
“La teoria dei colori per conoscere le persone”
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ggi lavoro come Direttore Finanziario per la holding industriale “Gruppo Balletta SRL” che controlla sei società nel campo dell’industria e del Retail. Il ruolo che ricopro l’ho guadagnato step by step con perseveranza, impegno e dedizione. Il mio primo incarico in azienda è stato quello di riorganizzare l’intero assetto amministrativo con ruoli e procedure; l’attuale assetto è improntato ad erogare i servizi amministrativi in maniera trasversale a beneficio di tutte le società del Gruppo. Questa fase mi ha visto impegnato ad impiantare una nuova cultura aziendale che fosse orientata al cambiamento, contro la quale ho riscontrato non molte resistenze. Una volta fatto questo, ho lavorato sulle risorse, mettendo le persone prima degli obiettivi. Il mio percorso di crescita personale e professionale è stato determinato grazie al grande lavoro che ho fatto su me stesso in questi anni, in cui ho assunto uno stile di vita impiantato sull’abitudine al continuo miglioramento. La mia vita professionale è stata influenzata positivamente dalla conoscenza di molte persone, in primis quella dei miei capi, che ho avuto il piacere di affiancare, i quali mi hanno trasmesso concetti importanti e mi hanno insegnato a vedere il lato umano di questo lavoro. Dal mio ex capo, ad esempio, ho appreso che le figure manageriali di un'azienda devono
crescere non solo dal punto di vista delle competenze tecniche, ma necessitano di uno sviluppo di competenze soft per riuscire nella gestione delle risorse. Mi sono messo in gioco su quest’aspetto e ho iniziato a guardare le cose anche da altri punti di vista, in particolar modo dal punto di vista del mio interlocutore. All’inizio, infatti, ero molto concentrato su me stesso ed ero focalizzato solo sulla crescita personale in ambito tecnico (laurea, master, corsi professionali), poi ho compreso che per far crescere la qualità delle mie competenze, dovevo sviluppare in primis le competenze relazionali e ho imparato che per valorizzare una persona bisogna conoscerla. Uso spesso la teoria dei colori per comprendere le persone con cui mi interfaccio, che assegna alle 4 aree del cervello un colore corrispondente a una personalità: Rosso personalità fortemente orientata agli obiettivi, Giallo personalità più riservata che fa fatica ad esporsi, Blu perfezionista con grandi capacità organizzative, Verde coloro che amano essere presi in considerazione e vogliono sempre sapere che considerazione hanno gli altri di loro, per questo desiderano sempre fare le cose bene. Cerco di inquadrare le persone assegnando loro un colore per poi utilizzare un approccio diverso e personalizzato al fine di tirare fuori il meglio da loro e ottenere buoni risultati lavorativi. Sono convinto, comunque, che per tirare fuori il meglio dalle persone bisogna lavorare tantissimo sulla sfera personale.
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“Ho compreso che per far crescere la qualità delle mie competenze, dovevo sviluppare in primis le capacità relazionali” La gestione dei rapporti è tutto, soprattutto quando ricopri un ruolo di leadership come il mio; in questo mi sento come l’allenatore di una squadra che favorisce il miglioramento continuo delle competenze, il senso di appartenenza, il coinvolgimento e il confronto, il tutto abbinato ad una sana autorevolezza che non deve mai mancare. Spesso mi piace consigliare loro percorsi di studio in ambito tecnico, libri e film per sviluppare le soft skills. Un film che consiglio sempre per spingere le persone ad andare oltre i propri limiti è “Il diritto di contare” che racconta la storia vera della matematica, scienziata e fisica afroamericana Katherine Johnson che collaborò con la NASA (Programma Mercury - Missione Apollo 11) eseguendo calcoli molto complicati senza l’uso del calcolatore, sfidando razzismo e sessismo. Credo che non ci siano limiti umani che non si possano superare, solo noi possiamo darci dei limiti, non certamente gli altri. Gli obiettivi che rientrano nelle nostre ambizioni e nell’ambito di un progetto di vita hanno sempre
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dei limiti superabili; la cosa importante è saperli riconoscere per poterli affrontare, tutto questo va abbinato anche ad una forte dose di volontà.
“Credo che non ci siano limiti umani che non si possano superare” Dal mio attuale capo, invece, ho appreso l’importanza della tecnica dell’execution - cioè la teoria per la quale tutto quello che hai in mente di fare poi lo devi pianificare e monitorare (altrimenti rimarrà solo nella tua testa) - mi sono convinto che ogni strategia, ogni obiettivo anche di vita personale, se non lo affianchi a una pianificazione e a un monitoraggio fatto di step non lo raggiungerai mai. Questo ha segnato la mia vita lavorativa, ma anche quella personale, come l’idea di fare una famiglia che, secondo me, va strutturata tramite passi che vanno pensati.
“Il fallimento si deve accettare, deve essere un momento di riflessione per riorganizzarsi e andare avanti” Un altro grande insegnamento che mi ha aiutato a crescere è che bisogna sempre cercare di trasformare un problema in un’opportunità. Per questa ragione quando arrivano delle problematiche non mi deprimo, non mi lascio abbattere, ma allo stesso tempo non mi esalto se accade qualcosa di positivo. Cerco di diluire nel tempo sia la felicità che la tristezza. Volendo contestualizzare in ambito lavorativo, ricordo che mi era stato assegnato un compito che andava oltre il mio effort in termini di tempo che avevo a disposizione e all’inizio l’ho vissuto come un problema,
perché temevo di fallire, ma in realtà si è trasformato in un’opportunità. Mi ha richiesto molto impegno, ma ho cercato di stabilire dei tempi di risposta e questo mi ha permesso di raggiungere il fine prefissato, così sono riuscito a migliorare e aumentare la considerazione degli altri nei miei confronti. Un momento della mia carriera che ricordo come un grande fallimento è stato quando nella prima parte del mio percorso lavorativo mi fecero una proposta che non ebbi la freddezza di accettare. Era un’offerta molto interessante, ma comportava per me un cambiamento, un’uscita dalla mia zona di confort, anche solo per il fatto di dover cambiare luogo e lasciare la mia città, Caserta, per Milano e poi per la Francia. Per me era un cambiamento troppo forte, che
non riuscivo a sopportare. Così ho rifiutato e ho perso tante opportunità di crescita e l’ho vissuto come un fallimento personale di cui per molto tempo mi sono pentito. Poi mi sono rialzato e ho perseverato per raggiungere il mio obiettivo: diventare CFO. Il fallimento si deve accettare, deve essere un momento di riflessione per riorganizzarsi e andare avanti. Mi sono fermato, ho guardato dov’ero e cosa potevo ottenere e ho deciso di investire su me stesso da ogni punto di vista, cosa che consiglio a tutti i miei colleghi più giovani per migliorare personalmente prima, e professionalmente poi. Oggi sono soddisfatto di quello che faccio, ma soprattutto di come lo faccio e ancor di più mi rende felice quello che posso ancora fare e quello che posso ancora diventare.
Questa storia mi è piaciuta, e mi sono accorto che anche io se fo ssi un dipendente di questa persona vorrei un ca po esattamente com e lui. Questo lo dico perc hé io sono una pers ona che lui identifica co n il colore verde. Ho bisogno di aver e delle conferme nella mia vita priva ta e sul lavoro, e non voglio mai d eludere chi ha a ch e fare con me, soprattutto in questo ultimo am bito. Sono molto fortunat o, perché il mio ca po attuale è una person a che mi valorizza spesso, ha fiducia nelle mie azioni e viene spes so incontro alle mie es igenze personali. Questo modo di po rsi mi incita a lavo rare dando il massimo, e a migliorare il mio modo di affrontare le m ie frequenti ansie, ch e purtroppo spesso si verificano. Michele
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FRANCESCO LO TURCO Enel Energia Senior Digital Marketing manager
“Un messaggio per i più giovani? Mai arrendersi”
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a storia che vorrei raccontarvi inizia nel 2017 quando, di punto in bianco dopo sette anni, mi licenziai da Reale Mutua, multinazionale in cui avevo lavorato fin da giovane e dove ero cresciuto molto in ambito professionale e digitale. All’epoca mi diedero tutti del pazzo a lasciare un posto di lavoro sicuro per l’ignoto. Per certi versi, avevano ragione. Qualche mese dopo, per via di una serie di scelte professionali azzardate, mi ritrovai senza lavoro e a domandarmi cosa volessi fare veramente nella vita. Così, imbracciata la chitarra - che mi accompagna da sempre nella mia grande passione, la musica – affittai una stanza e partii per la Liguria, per prendermi del tempo e riflettere sul mio futuro. In quel periodo, mentre mi mantenevo attivo continuando a studiare, cercai di riscrivere la mia storia personale e professionale da capo e inviai parecchi curricula, in particolare usando LinkedIn e la rete di contatti che mi ero andato a costruire nel tempo.
“La tecnologia è parte integrante della mia vita, mi permette di vivere e di sopravvivere”
Tra le varie aziende che mi convocarono a colloquio ci fu anche Enel, a Roma. Qualche giorno dopo il primo incontro mi chiamarono e mi dissero: “Tu andresti bene per un’azienda che ancora non esiste”. Mi proposero, quindi, di fare un secondo colloquio per una società che stava nascendo all’interno del loro gruppo: si chiamava e-Solutions (oggi nota come Enel X, ndr). Io, abituato a studiare approfonditamente le realtà per le quali mi candidavo, non sapevo proprio come avrei potuto prepararmi! Era una sfida totalmente inaspettata. Decisi allora di presentarmi a colloquio portando una storia che scrissi per l’occasione, con la quale speravo di suscitare la loro attenzione. In questo racconto provai a immaginare il mio futuro insieme a questa nuova Global Business line di soluzioni innovative. Descrissi la routine “futuristica” di una mia giornata tipo e del viaggio che avrei percorso per andare a lavorare in azienda. Creai uno storytelling su un “ecosistema digitale” del futuro, in cui inserii ogni sorta di tecnologia d’avanguardia, unita a quelle di cui in parte già disponiamo. Il colloquio andò bene, ed io stesso mi innamorai di quel progetto così per certi versi visionario e lungimirante. Si trattava di una vera a propria startup, che dovevamo progettare da zero e portare in tutto il mondo. Decisi quindi di sospendere tutti gli altri colloqui nella mia città d’o-
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rigine, Milano, e di intraprendere questo folle percorso. Mi trasferii a Roma, dove restai dal 2017 al 2019. Fu un periodo molto prolifico per la mia carriera, durante il quale ricevetti diversi riconoscimenti sia a livello personale che aziendale, tra cui l’Interactive Key Award nel 2019 come migliore sito corporate, che ritirai presso la mia università, la IULM, alla presenza anche dei miei ex datori di lavoro. Quella fu per me un’enorme soddisfazione. Tra queste il fatto che oggi sono a capo della divisione web di una "startup digitale" all'interno di una grande società che ha voluto investire ancora una volta su di me e sul futuro dell'innovazione. Il messaggio che vorrei dare? Non mollare mai. Mi ero ritrovato a trentatré anni senza sapere quale direzione avrebbe preso la mia vita ma, grazie a chi ha creduto e investito su di me, ho potuto dimostrare le mie capacità, guadagnando e ripagando la fiducia ogni giorno. Guardandomi indietro, oggi sono grato di non essermi arreso.
“Il digitale ci aiuta a superare enormi barriere” Durante il lockdown feci lo stesso. Avevo bisogno di trovare qualcosa, oltre al lavoro, che mi motivasse e mi spingesse a tenere duro. Quel qualcosa lo trovai di nuovo nella musica. Iniziai a comporre e pub-
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blicare alcuni brani in collaborazione con un produttore che vive a Johannesburg, in Sudafrica: Luca Dimoon. Così, di giorno lavoravo in smart working e di notte suonavo e registravo la mia musica. Proprio come quando scrivevo i miei pezzi da ragazzo, o negli ultimi anni passati a Roma, dove di ritorno dall’ufficio mi chiudevo in sala prove. Perciò, costretto nella mia camera, ho indossato le cuffie e registrato le mie canzoni in collegamento virtuale con il mio amico dall’altra parte del mondo. Con lui, quando è stato poi possibile uscire di casa, ho girato il video di “Supermarket lovers”, che fa parte dell’EP: “The Universe in My Room” che uscirà tra poco sui canali digitali, mentre un altro brano “Kids of tomorrow” è stato utilizzato per uno spettacolo live della scuola e compagnia teatrale Proxima Res di Milano, dove mi sono anche diplomato: è stata una grande emozione, testimonianza e riconoscimento del mio duro lavoro. Fu così che le mie due grandi passioni, musica e digitale, mi permisero di attraversare quel difficile
periodo e abbattere ogni barriera, fisica e mentale. Tutto sommato, alla base di entrambe vi è la componente creativa, che è ciò che mi definisce e che mi fa amare quel che faccio.
“La componente creativa sta alla base delle mie due grandi passioni: la musica e il digitale” Ai giovani che mi chiedono consiglio rispondo sempre di seguire le proprie passioni e avere il coraggio di osare. In un mondo competitivo come il nostro, in cui tutti cercano di emergere, è fondamentale distinguersi dalla massa e trovare qualcuno che ti sostenga e ti dia una possibilità. Sembrerà retorica, ma è vero. Lo dico per esperienza, perché è ciò che è accaduto a me. Inoltre, è fondamentale coltivare la propria creatività e non smettere mai di lasciarsi ispirare dagli altri. Tutt’oggi, le persone con cui lavoro rappresentano uno stimolo prezioso per me, sia dentro sia fuori dall’ufficio. Il resto poi, viene da sé.
Questa storia ricord a che, essendo soggetti in evoluzione, dobbiamo sempre ce rcare di crescere, adatta rci e cogliere il meglio da ogni situazione che ci troviamo a dover affrontare. Pietro
"È fondamentale distinguersi dalla massa e trovare qualcuno che ti sostenga e ti dia una possibilità"
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FILIPPO COLETTI Carron Cav. Angelo Servizio Prevenzione e Protezione ASPP
“Dal bikerismo ho imparato a fare gruppo per risolvere problemi”
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ono un biker e harleysta da 15 anni, ossia un appassionato di Harley Davidson. Che cos’è il bikerismo? La vera essenza è fare gruppo, è il senso del viaggio, è respirare lo spirito on the road a pieni polmoni. È non avere l’orologio al polso e non cercare di primeggiare sugli altri a tutti i costi. È quando decidi di partire con un gruppo di 5-6 persone, massimo 20, con tenda e sacco a pelo, e te ne vai in giro per il mondo a raggiungere qualche raduno. I biker amano ritrovarsi e condividere il loro amore principale: quello per la moto. In fondo, anche la personalizzazione e l’elaborazione delle moto è un’attività collettiva, perché le moto si guardano insieme, si commentano insieme, e si mette mano alla propria moto immaginando i commenti degli amici. Poi bisognerebbe parlare anche dei chopperisti, che le moto se le fanno da soli partendo da zero, ma questo è il capitolo più bello e puro. Il vero mondo biker è un melting pot di persone che si mischiano senza tanto stare a guardare l’estrazione sociale. Questo paradossalmente, a volte, è anche un limite. Chi non ha problemi di danaro può acquistare una moto da 50 mila euro senza battere ciglio giusto per possedere l’ennesimo status symbol. È difficile spiegare l’amore per le Harley Davidson a chi non lo pro-
va. È la poesia del rumore e l’essere in sella a un’Harley, passando con questo borbottio cupo che si espande nell’aria e vedi sul bordo della strada un nonno con il nipotino che ti sorridono. Quando la guidi, ti senti tutt’uno con il panorama. Il viaggio più bello mi ha portato nel 2016 da Treviso ad Ancona. Partito da solo, in maniera del tutto inaspettata a Rimini sono stato affiancato da un caro amico. I biker sono come i pellegrini, si incontrano e uniscono le rotte anche in viaggio. Alle Harley non ci sono arrivato subito, amavo le moto naked, quelle scarenate, e volevo passare da una 600 di cilindrata a una 1.000, ma alla mia compagna di allora questa scelta non piaceva, si preoccupava per la velocità. E mi disse: “Sai cosa c’è, piuttosto che rischiare la vita prenditi una Harley Davidson”. Detto fatto.
“Se la tratti con amore, le dai la giusta manutenzione e la consideri e apprezzi per quello che è in realtà, una Harley ti ripaga di tutti gli sforzi e ti porta in capo al mondo” Il gruppo a cui appartengo sono i Freaky Choppers, senza club house, ma con tanta voglia di divertirsi. Semplicemente ci troviamo per viaggiare e andare ai raduni e alle
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feste. Il gruppo è eterogeneo anche anagraficamente, Roberto e Paolo, i fondatori, sono di dieci anni più giovani. Ci vediamo almeno una volta ogni quindici giorni. I nostri viaggi sono anche nel tempo perché ci piacciono le moto di “ieri”. È un modo per tornare alle origini del bikerismo, un ritorno alla memoria. Io ho una Harley Ironhead del 1979 che ho deciso di far rinascere rifacendola da capo a piedi. Aveva un telaio nero con il serbatoio marrone. Io ho voluto rifarla tutta bianca, forse pensavo al bianco dei destrieri. White is the new black. Lo so, non è una decisione filologica. Ma il bikerismo è anche questo, è anarchia, è saper andare contro le regole. Dei modelli Ironhead si dice che siano portatori sani di problemi. E proprio per questo l’ho scelta… per il gusto della sfida! Se la tratti con amore e le dai la giusta manutenzione, la consideri e apprezzi per quello che è in realtà, una moto ti ripaga di tutti gli sforzi e ti porta in capo al mondo. La mia moto ha un nome, si chiama Anarkica. Il senso è che non ti devi legare a delle certezze fasulle e devi invece spingere verso strade che all’inizio sembrano non percorribili. Lei mi ha ripagato in tutto e per tutto. Ha rafforzato la mia idea che se credi veramente in qualcosa e ci metti tutto te stesso, anche le cose più ardue diventano fattibili. Che cosa ho imparato dal bikerismo? Ho imparato a fare gruppo
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per risolvere problemi. Quando si viaggia insieme, capita che basti una chiave inglese di qualcuno a risolvere l’intoppo e ripartire. Oppure, se bisogna chiamare il soccorso stradale, puoi continuare il viaggio a bordo di un’altra moto. Io ho portato nel mondo del lavoro questa filosofia. Non è così semplice come può sembrare. Come manager, devi evitare di primeggiare nel tuo ruolo e devi sempre considerare che ci sono altri colleghi, anche se non sono pari grado. Perché loro possono essere una parte fondamentale nella soluzione del problema. Sul piano pratico, io non riesco a seguire direttamente tutti i cantieri che ho in carico, quindi devo farmi supportare dai collaboratori. Ci deve essere un rapporto fiduciario, bisogna creare un percorso di evoluzione per arrivare a fare gruppo. Sappiamo bene che per chi è al timone concedere spazio agli altri non sempre è una cosa
facile. E poi le persone a cui deleghi devono fare bene, devono esprimere una linea comune, un’unica visione in tutti i cantieri. D’altra parte, loro sono gli occhi sul campo, possono prestare attenzione a determinate lavorazioni e sviluppare un’attenzione specifica anche senza avere una visione d’insieme. Mi è capitato di recente, quando un mio collaboratore mi ha riportato di un sistema nuovo per realizzare pali trivellati per fondazioni. La sicurezza nei cantieri è una missione. Il nostro lavoro è fatto bene quando riusciamo a far passare il messaggio che siamo a pieno servizio dalla parte della salute dei lavoratori. Col tempo si impara a riconoscere i punti nevralgici sui quali intervenire per far cambiare idee alle persone in cantiere sui temi della sicurezza. Non di rado i nostri avversari sono proprio i capisquadra, avete presente quei maschi alfa amanti del ri-
schio? Per loro ho messo a fuoco una domanda potente: “Tu hai una moglie che ti aspetta a casa? Dei figli? Ci tieni a loro?” Ho osservato che questa domanda riesce a fare breccia anche nelle scorze più dure. Devo riconoscere che la mia azienda ha fatto grandi investimenti sul fronte della sicurezza. Per esempio, ci siamo dotati di un gruppo di ASPP che funge da braccio operativo per fare sicurezza nei cantieri. Io ho frequentato un corso di Safety coaching, dove mi hanno insegnato a guardare le cose con occhi diversi e soprattutto a portare dalla tua parte i dirigenti. In questo genere di decisioni la componente psicologica è molto forte. Bisogna fare in modo che i manager pensino che le cose che hai proposto tu siano una loro idea e in questo modo le cose avanzano molto più spedite.
Si legge di u na vera passio ne, che non rest a a sé stante negli spazi d i tempo ad essa dedicati, ma ci dà tanto da portare nel re sto della nost ra quotidianità. Alessia
Filippo in sella alla sua Anarkica
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Opening Speaker
Gad Lerner
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ad Lerner, sul palco del Teatro Novelli a Rimini, ha inaugurato l’edizione 2020 di Richmond Business Energy Forum con una domanda. “Come possiamo cambiare la circolazione del sangue del sistema planetario scongiurando che il paziente muoia?” Gad Lerner ha richiamato un quadro in cui le aziende si sono trovate ad affrontare di colpo una realtà così sconvolgente come le pandemia
e le reazioni a catena da essa innescata. La risposta dovrà essere lo sviluppo di un’immaginazione straordinaria, in generale e nel settore dell’energia nello specifico. In questo processo, gli utopisti, ossia persone che osano prefigurare mondi nuovi all’apparenza impossibili, sono figure preziose. Ha citato Papa Bergoglio e Greta Thunberg, accostandoli a Gandhi e Marthin Luther King, soffermandosi sull’enciclica Laudato sii di cinque anni fa, che secondo lui
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non avrebbe ricevuto la dovuta attenzione da parte degli opinion makers italiani dell’economia. Gli utopisti riescono più di altri e cogliere le condizioni di ingiustizia di partenza, provando a rovesciarle. Ha citato le parole del Papa: “la nostra offesa e devastata terra” e la “sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza”, che si ricollegano al suo richiamo di quest’anno “Siamo andati avanti a tutta velocità e ci siamo illusi di restare sani in un mondo malato”. C’è, secondo Lerner, un fondo di irresponsabi-
“Una cura per animi surriscaldati in tempo di pandemia”
lità che ci riguarda tutti. Le nuove generazioni, soprattutto in Paesi come il nostro, avvertono di essere penalizzate non solo dal debito pubblico, ma dalla concreta percezione del cambiamento climatico. Ciò che noi diamo per ovvio e scontato, per loro è rimesso in discussione. La necessità spinge i giovani ad essere più consapevoli. Secondo Lerner, il mondo ha bisogno di ritrovare nuove forme di armonia. E dovrebbe forse ascoltare di più gli utopisti. Sono persone
che sognano una riconversione o addirittura una ‘conversione’ ecologica, che è un termine religioso. Indicano una strada che forma il senso comune. In conclusione, Lerner ha girato alla platea di manager la domanda: “Ma davvero pensate che questi pulsanti utopisti che propongono un ripensamento radicale siano per voi una minaccia?”. A chi è impegnato nelle aziende e nel mercato suggerisce di sviluppare una cultura umanistica olistica, cioè pensare che la tecnologia non basti da sola
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a formare l’orizzonte e l’itinerario di un’azienda. Oltretutto ciò coinciderebbe con un arricchimento personale.
IL MERCATO CHIEDE VISIONE, STRUMENTI E NUOVI MARKETPLACE.
RICHMOND ITALIA RISPONDE ESPANDENDO SETTORI, MODALITÀ, CONFINI.
VANESSA TOSCANO Toscano Gioielli Store manager
“La piccola me non avrebbe mai immaginato tutto ciò”
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ggi sono una store manager e gestisco l’e-commerce dell’azienda di famiglia fondata 32 anni fa da mio padre: la gioielleria Toscano Gioielli. Mi sono laureata in giurisprudenza e sono diventata avvocato, ma nel 2015 pochi anni dopo la fine dei miei studi sono stata coinvolta per caso in un progetto familiare che mi ha fatto cambiare rotta. Ho iniziato a lavorare nell’azienda di mio padre, lui è un mastro orologiaio e ha fatto questo lavoro fin da quando era piccolo, in seguito ha aperto il negozio di gioielleria nel 1987; mi ricordo una frase che gli ripetevo sempre quando ero bambina: “Non farò mai quello che fai tu papà”, infatti, ripensandomi a quell’età non mi sarei mai immaginata di fare il mestiere che svolgo oggi, vedevo lavorare mio padre senza sosta e non riuscivo a percepire il bello che invece c’è in questa attività. Nel 2015 abbiamo iniziato a pensare ad evolverci e ci siamo affacciati al mondo dell’e-commerce, sono stati i clienti stessi a spingerci in questa direzione, infatti ci chiedevano spesso: “Ma spedite i gioielli?”, “Vendete i prodotti anche all’estero?”, “Ma riuscite a farmi arrivare l’anello a casa?”, e tutti questi input ci hanno fatto dire: “Proviamo!”. Oggi come oggi siamo un e-commerce piccolo e altri due ragazzi collaborano con noi. La nostra filosofia è sempre stata quella di far sentire il cliente a proprio agio, amiamo
tantissimo i rapporti umani, perché siamo consapevoli che quando un cliente acquista un gioiello o un oggetto prezioso è sicuramente qualcosa di importante per lui.
“Un e-commerce pieno di umanità” Sentiamo sempre l’esigenza di stare al fianco dei nostri clienti per consigliarli al meglio e cerchiamo di attuare questa filosofia anche per il mercato online che vorremmo sviluppare anche all’estero, per questo abbiamo scelto di partecipare ai Forum di Richmond Italia. Abbiamo deciso di entrare nella grande comunità digitale, ma vogliamo distinguerci dal classico e-commerce, desideriamo trasmettere un senso di umanità attraverso il servizio di customer care che è il nostro punto di forza, grazie al quale riceviamo continui r scontri positivi da parte dei nostri clienti. All’interno dei nostri pacchi aggiungiamo una coccola virtuale, un sentito grazie e uno smile, curiamo la personalizzazione del prodotto, ad esempio: possiamo incidere un nome o una frase sui gioielli e questo è un servizio gratuito per tutti i nostri clienti.
“Ho avuto un grave incidente, ma ho lavorato il doppio”
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A febbraio 2020, prima del lockdown, ho avuto un incidente molto grave e al posto di riposarmi ho lavorato il doppio. Lavorare mi ha aiutata a trovare nuovi stimoli, ad occupare la mente, ho ritrovato la voglia di andare avanti, di spingermi oltre nonostante il dolore. Ho avuto momenti in cui stavo per crollare, attimi di crisi, ma ho sempre reagito, sapevo dentro di me che avevo dei clienti da rendere felici, un business da continuare e questo aspetto mi ha dato il coraggio e la forza. Sì, ho avuto un enorme trauma, ma il lavoro mi ha salvata, quando ami quello che fai reagisci. È stata più una sfida, una scommessa, dimostrare a me stessa che nonostante tutto avrei resistito. Ora sono qui e penso ai nostri prossimi obiettivi: creare un nostro brand perché ad oggi siamo solo rivenditori, espandere il nostro e-commerce e poi si sa che la vita e il business vanno di pari passo e non si sa mai cosa ci aspetta.
Provo tanta ammira zione per Vanessa Toscano. Il testo mi ha subito proiettata al negozio di mio papà, al quale sono super affezionata, ma ch e non rientra nel mio futuro; alm eno per ora! Debora
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FILIPPO ARAGONE HRD Net CFO
“Il viaggio come modo per fronteggiare le difficoltà”
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o venticinque anni di esperienza nel campo della finanza, del controllo e dell’amministrazione, per cui si potrebbe pensare che io conduca una vita molto regolare. In realtà ho lavorato in molte aziende diverse, e mi è capitato anche di vivere e risolvere situazioni difficili, come alcuni salvataggi e un licenziamento. Attraverso queste esperienze complesse si sviluppa una certa resilienza, applicabile poi a tante altre sfide della vita. Basta avere la capacità di astrarsi, di dissociarsi, di vedere sé stessi proiettati verso un obiettivo. Se poi lo si segue, che sia di medio o lungo termine, si acquisisce una certa lungimiranza. Gli obiettivi personali e professionali non devono per forza coincidere, ma ti aiutano ad affrontare le cose sotto un’ottica leggermente diversa: la capacità di attendere.
“A quattro anni scoprii la mia passione per la geografia: volevo memorizzare tutte le bandiere del mondo” L’obiettivo della mia vita è viaggiare tanto e visitare tutti i paesi del mondo. Per ora ho varcato 159 confini nazionali, quindi me ne mancano “solo” 38. Girare il mondo è sempre stato il mio obiettivo, sin dalla tenera età. Avevo quattro anni quando vidi sulla confezione
di un succo di frutta la bandiera del Lesotho, uno stato completamente circondato dal territorio del Sudafrica: una sorta di enclave all’interno di un altro Stato. Rimasi talmente affascinato dalla peculiarità geografica di quel Paese che in quel momento si instillò in me il desiderio di scoprirli tutti. Così nacque il mio sogno e visitai il primo Stato estero: la Svizzera.
“Rientrerò tra coloro che, nella storia dell’umanità, hanno visto tutti i paesi del mondo” Esistono dei siti specializzati per chi vuole certificare il numero di paesi che tocca nel corso della vita. Su questi portali le persone possono dichiarare il proprio obiettivo di viaggio e monitorare tutti i propri avanzamenti. Per certificare il superamento di un confine fanno fede i timbri del passaporto, le fotografie e la geolocalizzazione del proprio smartphone. Io stesso sono registrato ad uno di questi siti e ho raccolto documenti e timbri per la certificazione dei miei viaggi. Quello di visitare tutte le nazioni del mondo è un obiettivo che accomuna tantissime persone e che in molti hanno raggiunto. Si tratta di una vera e propria community. Molti ragazzi giovani, ad esempio, mettono da parte un po’ di soldi durante l’università per poi pren-
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dersi un paio d’anni di pausa e girare il mondo. Io invece, da dilettante, vorrei riuscire a vederli tutti avendo a disposizione non più di una decina di giorni l’anno, perché ho una famiglia, dei figli e un lavoro; e non ho intenzione di trascurarli per raggiungere i miei obiettivi. Così mi capita di partire nei periodi più disparati dell’anno, soprattutto a fine ottobre e novembre.
“Viaggiare in solitudine è la soluzione migliore” Una delle cose che amo di più è viaggiare in solitaria: tempra lo spirito e permette di sviluppare grandi doti di adattamento per affrontare le difficoltà. In compagnia spesso ci si scontra con qualche inefficienza, che sia la camera d’albergo condivisa con un solo bagno o la prevaricazione di uno sull’altro nella scelta dei luoghi da visitare. Un giorno in solitaria invece vale come cinque giorni di viaggio in gruppo. Puoi contare solo su te stesso, ma sei libero. È tutta un’altra avventura. Infine, trovo che viaggiare sia un modo per mettere alla prova la propria capacità organizzativa, fondamentale per vedere tanti paesi in pochi giorni e gestire la logistica degli spostamenti. Questo concetto si estende anche alla vita lavorativa: è una skill essenziale per poter individuare le priorità e fronteggiare bene le scadenze. In quanto
CFO e facilitatore di business, faccio tesoro tutti i giorni di ciò che il viaggio mi insegna. È un’esperienza meravigliosa che auguro a tutti di fare, perché riempie la vita e apre la mente.
Non è l’ambizione di viaggiare che mi co lpisce. Ma l’essenziale che il viaggio insegna, e il mantenere una visione lucida ne l risolvere le situazi oni. Oriana 29
SIMONE GIRAMONDI KIA Italia Marketing manager AS
“Il cuore sa sempre prima ciò che il cervello scopre dopo”
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i sono laureato a Roma, alla Sapienza, e da subito ho iniziato quello che tutt’ora è il mio percorso lavorativo nel campo dell’automotive con il gruppo Daimler, Chrysler e Mercedes Benz, seguendo i due marchi più importanti: Mercedes e Smart. Ho sviluppato via via le competenze manageriali sempre più specifiche e approfondendone i dettagli, soprattutto seguendo l’area innovativa dell’azienda con progetti importanti, come quello sulla realtà aumentata nel 2010. C’era grande fervore e desiderio d’innovazione, erano anni di grande sperimentazione e solo più avanti avremmo capito quanto l’innovazione avrebbe modificato il nostro approccio al lavoro e alla vita. Quando sono entrato in Chrysler, però, ero solo un ragazzo, non ero ancora laureato e mi sono ritrovato all’improvviso, grazie ad uno stage, ad interfacciarmi con una multinazionale grandissima. Arrivai e davanti a me c’erano buildings enormi e un’organizzazione gigante. Ero lì e stavo per entrare in uno dei colossi più importanti dell’automotive. Il confronto non è stato banale, ma il mio “secondo lavoro”, anzi direi la mia passione, la radio, mi ha aiutato a non avere paura e a gestire la tensione. Le giornate di lavoro erano parecchio impegnative; ho imparato a gestire il tempo per fare tutto nel migliore dei modi e la sera riuscire ad andare a lavorare in radio… ammetto che a volte i miei
colleghi mi hanno aiutato e ricordo di aver fatto dei collegamenti radio a fine giornata. L’impatto con questa realtà è stato davvero molto forte, ma credo sia stato mitigato dalle mie skills come speaker radiofonico, che mi hanno permesso di entrare in azienda con un passo molto più determinato, deciso, forte e allo stesso tempo libero.
l’impatto che la radio ha avuto nella mia vita, dandomi una forte spinta nel costruire la mia personalità. Credo sia dovuto a questo se ora, nel mio mestiere, non ho paura di salire su un palco e parlare davanti a un microfono per raccontare il lavoro che faccio anche in contesti molto diversi… mi sento un animale da palcoscenico!
“Il confronto con una multinazionale non è stato banale, ma la mia passione, la radio, mi ha aiutato a non avere paura e a gestire la tensione”
Il lavoro svolto prima in Daimler poi in Mercedes-Benz Italia ha rappresentato una grande opportunità di crescita per la mia carriera, che nel 2011 mi ha portato a cambiare città: mi sono infatti trasferito da Roma a Milano per lavorare sulla startup di Kia Italia, occupandomi di posizionamento del prodotto e customer journey. Ho portato in questa nuova esperienza tutto l’insegnamento e la formazione che gli anni in radio mi avevano lasciato.
Prima di laurearmi lavoravo appunto come speaker nelle radio romane, occupandomi inizialmente di programmi sportivi e poi di musica ed intrattenimento. Sono entrato in questo mondo dopo aver conosciuto Ezio Luzzi: giornalista Rai, nonché una delle voci più belle della radio italiana; famoso per la conduzione di moltissimi programmi sportivi, fra cui 90° Minuto. Il provino con lui andò molto bene, forse grazie anche alla mia fortissima passione per il calcio e la mia squadra del cuore, la Roma. Non c’era la Pay Tv all’epoca e se volevi seguire il calcio la radio era un mezzo vincente, così iniziai il mio viaggio in questo mondo passando dalle più piccole fino a Radio Italia. Il riscontro economico era buono e questo mi permetteva di studiare e vivere in maniera serena, ma la cosa più importante è stato
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“La Radio mi ha dato una forte spinta nel costruire la mia personalità” Ho imparato a parlare, ma anche e soprattutto ad ascoltare. In radio sviluppi l’abitudine alla parola, perché non esiste il tempo vuoto e non puoi usare la mimica facciale e corporea come in televisione. La parola è l’unico mezzo che si ha per ingaggiare le persone, cercando di dire cose intelligenti e che stimolino la conversazione. Non sono concesse troppe pause di riflessione e bloccare la voce è come creare un vuoto. Nel linguaggio tecnico si dice
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fare bianco ed è un errore intollerabile per gli speaker. Ma è anche vero che la capacità di ascoltare e intercettare quello che lo spettatore dice, trasformandolo e rendendolo interessante per lui e per chi ascolta, è fondamentale. Questo ha plasmato il mio modo di lavorare e oggi penso che l’ascolto e l’approccio umano a un progetto, che sia un lavoro di squadra o in solitaria, sia la cosa più importante da curare a tutti i livelli di relazione con i collaboratori e gli stake holder. Ho imparato anche ad essere molto camaleontico nei rapporti, capendo con chi sto parlando e cosa mi sta chiedendo, in modo da poter usare un linguaggio adatto per ogni interlocutore. Poi quando parli è ovvio che ci sono cose che vuoi raccontare e di cui sei fiero e altre che devi raccontare, ma l’importante è riuscire sempre a trasferire i punti di forza di un progetto. Credo che lo storytelling stia alla base di un lavoro riuscito bene; la vera forza è quella di saper raccontare una storia, creare sopra ogni
prodotto o servizio una narrazione differente. Ci ho dovuto fare i conti spesso, perché vendere e quindi raccontare il service automotive non è sicuramente un prodotto emozionale; non hai in mano una vettura che abbia una storia ingaggiante o un nuovo design. Io devo raccontare un servizio, che tutti conoscono e che spesso pesa all’utente (fare il tagliando, o la manutenzione, il cambio dell’olio o delle gomme). In una campagna pubblicitaria molto ben riuscita abbiamo raccontato delle storie, che parlavano di tutt’altro, con dei personaggi interessanti che ingaggiassero e facessero da esca per poi far atterrare il cliente sulla nostra piattaforma e raccontargli anche il servizio più noioso. Credo che la chiave sia partire da un concetto più emozionale per poi accompagnare l’utente a uno step più razionale. Il marketing funziona se c’è un buon binomio tra qualità del prodotto e capacità di storytelling. Per vendere bisogna interessare e così facendo portare a bordo del tuo progetto tutti quelli di cui hai bisogno.
“Il marketing funziona se c’è un buon binomio tra qualità del prodotto e capacità di storytelling” Un’altra esperienza personale che ho portato con me nel mondo dell’automotive è stata sicuramente quella con Eleonora Chiavarelli, moglie di Aldo Moro, con la quale ho fatto volontariato facendo l’animatore per bambini che non potevano permettersi di andare in vacanza. Essere solidali con le persone, fare qualcosa per gli altri, è un'azione quasi sempre egoistica più che altruistica, perché ti ritorna indietro più di quello che tu dai. Ecco perché quando con Kia abbiamo deciso di fare una campagna in favore di Save The Children ero in prima linea. Sicuramente per l’azienda queste azioni sono positive sotto tutti gli aspetti ed è ovvio che generino una brand awareness che fa bene al marchio, ma io credo che facciano bene anche a noi stessi, tutti, in prima persona.
È bello vedere che anche per i grandi manager sia no le passioni giovanili a po rtare stimoli e miglioramenti, in fondo non c’è scritto da nessun a parte che crescendo vadano ab bandonate. Edoardo
"In radio ho imparato a parlare, ma anche e soprattutto ad ascoltare" (foto Adobe Stock)
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Opening Speaker
Carlo Cottarelli
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a tredicesima edizione del Richmond Finance forum si è inaugurata a Rimini con uno speaker d’eccezione, Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio sui Conti pubblici e professore all’Università Cattolica di Milano. Con la flemma degli economisti che hanno rivestito incarichi di rilievo e sono abituati a soppesare ogni singola parola, perché sanno che può determinare reazioni brusche del mercato – ma senza rinunciare a voler spiegare le cose complicate in modo semplice – ha parlato della crisi finanziaria ed economica del Paese e
delle contromisure adottate dal governo italiano e dalle istituzioni bancarie e politiche europee. La previsione della caduta del PIL per l’anno in corso, in linea con quanto succede negli altri paesi, è, nell’ordine del 10-12%, una “botta” che non si registrava dai tempi della II Guerra mondiale. Oggi c’è incertezza sulla durata delle due crisi – sanitaria e finanziaria – ma resta la convinzione diffusa che una politica keynesiana di tamponamento ed espansione della spesa pubblica, e quindi dell’indebitamento, fosse inevitabile. Senza queste misure difensive di reintegro della capacità di spe-
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sa di cittadini e imprese, saremmo andati incontro al disastro. Si parla di 30 miliardi di euro nel 2019 e 220 miliardi di euro nel 2020. L’Italia riceverà una “marea di soldi”. Saranno sufficienti? Il fabbisogno lordo di finanziamento dello Stato, composto dalle voci di spesa e dalla restituzione dei prestiti in scadenza, è di 530 miliardi. Ne risulta che quasi la metà del fabbisogno arriverà dalle istituzioni finanziarie e politiche UE. È un bell’aiuto, ma pesano diverse incognite. L’efficacia di questo sostegno dipenderà dai moltiplicatori keynesiani e dalla reazione. “Tu metti i soldi in tasca alla
“Senza riforme il rischio cresce”
gente, poi bisogna vedere come reagisce.” E poi lo Stato italiano è lento negli investimenti pubblici. “Io ho abbastanza fiducia che quest’ anno e il prossimo anno li scavalliamo. Il problema è il medio termine” – ha detto Cottarelli. Alla fine del prossimo anno le istituzioni UE deterranno il 28% dell’intero debito pubblico italiano, e questa è una buona notizia, perché si tratta di debiti a tasso zero o negativo, o addirittura a fondo perduto. Negli ultimi dieci anni, la crescita media dell’Italia è stata dello 0,2%, contro il 2% della Germania. Secondo Cottarelli, solo crescendo
il debito nazionale può diventare sostenibile. Per crescere più rapidamente l’Italia dovrà attuare riforme e investire. Dovrà, per usare un’espressione di Draghi, fare “debito buono”, come il colesterolo buono. Cottarelli ha elencato una serie di investimenti prioritari. “Bisogna fare investimenti in infrastrutture, investimenti verdi, investimenti digitali, investimenti per far funzionare meglio la burocrazia (troppo lenta e oberata da un eccesso di regole), investimenti in capitale umano (pubblica istruzione, ricerca e asili nido) e investimenti in giustizia (che è uno dei maggiori deterrenti per gli investitori internazionali).
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Il monito di Cottarelli non è drammatico, ma fermo. “Quando le cose andavano bene non abbiamo messo fieno in cascina. Se non riusciamo a far partire le riforme, i rischi aumenteranno in futuro.”
CLAUDIA PATTI Ontario Strategic planner
“Il mio business è la mia vita. La mia vita è il mio business”
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ono una strategic planner. Sono esperta in comunicazione e marketing finalizzati al business. Il mio ruolo specifico si fonda su un’attività di problem solving che si sviluppa secondo tre direttrici: analisi, strategie, pianificazione. Si tratta di un lavoro vario e molto interessante, perché mi offre la possibilità di lavorare con diverse figure professionali, dai manager agli imprenditori, in contesti lavorativi vari e sempre stimolanti. A seconda delle necessità, sviluppo progetti che coinvolgano aziende, risorse umane e prodotti.
“L’infanzia tra rigore e spinte creative, un difficile connubio” Sono nata e cresciuta in una famiglia del Sud, con ruoli, compiti e valori impostati su uno schema rigido e poco flessibile. Mio padre, cresciuto negli anni ‘40, era una persona molto austera che desiderava per i suoi figli un ruolo ben definito e riconosciuto. Pretendeva che, fin da piccola, mi prefigurassi ciò che avrei fatto nella vita. Io avevo una forte spinta creativa: mi piaceva giocare, sperimentare e provare esperienze nuove. La mia famiglia, però, mi faceva sentire inadeguata e dovevo continuamente mortificare il mio lato creativo e giocoso in nome di una ferrea disciplina. Sviluppai perciò un’ottima capacità di razionalizza-
zione, abituandomi ad applicare criteri di scelta e organizzazione in tutti i contesti della mia vita. Tuttavia, alla lunga ciò portò con sé molte ansie e conflitti interiori che sfociarono infine in una crisi esistenziale: ero destabilizzata e credevo di non sapere cosa volere nella vita.
“Il lavoro, l’occasione per mettermi in gioco con tutta me stessa” Dopo la laurea in comunicazione e marketing, iniziai a lavorare per un’agenzia, scoprii via via quale fosse la mia strada e mi misi in proprio, divenendo consulente aziendale. Il lavoro mi permise di mettere in gioco entrambe le mie qualità: il rigore con il quale ero cresciuta e la mia innata creatività. Nel corso della vita ho imparato sempre più ad attuare una felice sintesi tra le mie capacità organizzative e la mia natura creativa ed estrosa. Ciò mi ha portato finalmente ad uno stato di gioia e appagamento. Nonostante la mia giovane età, sento di essermi realizzata, di possedere buone competenze e che tutto quanto ė accaduto nella mia vita, fin da piccola, è servito a costruire ciò che sono ora. Penso che ci sia un flusso continuo tra la mia vita personale e quella lavorativa: le due sfere si compensano e si influenzano reciprocamente.
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“Casa e lavoro: stesso metodo” Applico gli stessi sistemi sia nella vita familiare che in quella professionale. In tutto ci vuole organizzazione, metodo e creatività: i miei punti di forza. Ho 32 anni e sono mamma di tre bambini molto piccoli. Per conciliare la mia vita in famiglia con quella di strategic planner, l'organizzazione e il rigore sono fondamentali. Si tratta di un metodo che, già da ora, insegno anche ai miei figli attraverso modalità fantasiose. A casa mettiamo etichette ovunque per catalogare e riordinare, così che chiunque possa riporre e ritrovare le cose. Rifacendomi alla teoria che utilizza il colore come criterio organizzatore, stimolo i miei figli a riordinare i libri secondo la sequenza dell’arcobaleno. Si tratta di un sistema molto semplice e intuitivo, che insegna loro a riprodurre i colori dell’arcobaleno, creando armonia ed un impatto visivo piacevole.
“La sintesi perfetta? Quella tra metodo e fantasia” Per quanto riguarda, invece, il mio lavoro, la mia mission è creare strategie funzionali al successo imprenditoriale anche nell’uso degli “spazi”. Tanto per citare un esempio, per un cliente ho studiato un sistema di canalizzazione di fragranze nell’impianto di condi-
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zionamento in modo che i clienti siano immersi sia percettivamente che emozionalmente in un’esperienza sensoriale diffusa. Tutti gli aspetti sensoriali aiutano il coinvolgimento e si riflettono positivamente anche sulle risorse umane, sui team di lavoro. Avevo già intuito l’importanza della condivisione di esperienze unificanti nel coinvolgimento delle risorse umane e quando ho conosciuto la realtà dei team building ne ho avuto la conferma. Occasioni di convivialità, di viaggi e avventure che coinvolgano l’intero team di lavoro, gratificano e orientano positivamente nel raggiungimento di sicuri risultati imprenditoriali. In questo periodo sto seguendo un progetto per una gioielleria che sta rinnovando il proprio locale. L'imprenditore che mi ha commissionato il lavoro ha evidenziato aspetti di problematicità relativi alla funzionalità degli spazi. In gioielleria ci vuole un piano di lavoro per impacchettare i regali. L'ordine è indispensabile, perché è necessario avere sacchetti diversi per ogni brand. Quindi, uso lo stesso criterio delle etichette di casa. Faccio capire ai miei clienti che utilizzare un metodo è funzionale.
“Danza e musica per ritrovare ispirazione ed equilibrio” Quando mi capita di perdere il controllo, utilizzo la musica ad alto volume per cantare e ballare. Si chiama “Dancing Out” ed è un metodo molto utile. Già le parole esprimono il concetto: con il ballo porti tutto fuori di te. A volte in ufficio mi capita di essere chiamata per risolvere alcune difficili situazioni causate da disorganizzazione aziendale, problematiche emotive, sovrapposizione di ruoli oppure campagne pubblicitarie andate male. In questi casi la musica mi è di grande aiuto, bastano anche semplici note musicali per ritrovare l’ispirazione e l’equilibrio per affrontare nuove sfide.
“Trovare soluzioni creative, anche nei momenti più drammatici, significa guardare sempre il lato positivo” Io sono ottimista di natura. Penso che la felicità possa essere apprez-
Claudia con la sua famiglia.
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zata soprattutto durante i momenti più cupi della nostra vita. Il senso di precarietà nel quale ci costringe la pandemia, ad esempio, ci permette di godere maggiormente dei valori legati alla casa e agli affetti. Trovare soluzioni creative, anche nelle situazioni più drammatiche, per me significa guardare sempre il lato positivo. Dobbiamo essere grati della vita che ogni giorno ci viene data, senza prenderla per scontata. È ciò che mi spinge ad essere sempre propositiva nella vita e nel lavoro. Questo è il mio business.
La storia di Claud ia è la dimostrazione che, per sentirsi appagati e stare be ne con sé stessi, la chiave è im parare a conoscersi, scoprend o le proprie qualità e sfruttand ole al meglio. Chiara
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MANUEL CORONA Shampora Curly-haired CEO e founder
“Shampora è nata perché non trovavo lo shampoo adatto ai miei capelli”
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l settore beauty è sempre stato la mia passione. Lavoravo in Joico, un brand di Shiseido, da qualche anno quando co-fondai la mia prima startup, a soli 21 anni. Purtroppo però otto mesi più tardi il progetto fallì e ci rimisi un sacco di soldi. Il mio primo fallimento imprenditoriale fu un trauma, ma rappresentò anche un insegnamento: voleva dire che non ero ancora pronto e dovevo formarmi di più. Così continuai a lavorare, all’epoca in L’Oréal, e per tre anni studiai tantissimo: programmazione, finanza, qualsiasi cosa. A quel punto capii che per creare la mia startup dovevo trovarne una forte nel mercato beauty, come piaceva a me.
“Il mio primo fallimento imprenditoriale fu un trauma, ma anche un insegnamento: non ero ancora pronto” Trovai un ragazzo che stava avviando un sito di prenotazioni online per parrucchieri e che mi chiese di diventare direttore commerciale all’interno del suo progetto. Quella startup fu un grande successo: raccogliemmo venti milioni e varcammo anche i confini nazionali, portandola in Spagna. Dopo qualche anno da quella esperienza mi sentii pronto a lanciare Shampora insieme ad un amico. Si
tratta di una startup che permette agli utenti di creare prodotti per capelli su misura, ed è nata da un semplice bisogno: trovare lo shampoo adatto ai miei capelli (riccissimi). Obiettivo non facile, ve lo assicuro. Nonostante lavorassi nel beauty da tempo e gestissi brand di ottima qualità in L’Oréal, faticavo da sempre a trovare lo shampoo più adatto a me. Quindi un giorno decisi di creare un algoritmo che aiutasse le persone a trovare il prodotto perfetto per loro. L’utente non doveva fare altro che rispondere a una serie di domande e un assistente virtuale avrebbe scelto il prodotto ad hoc per le sue esigenze tra quelli già esistenti in commercio. In seguito mi resi conto che adattando questo sistema, non ad un prodotto finito, ma ad una materia prima, era possibile creare addirittura una formula chimica su misura. Così iniziammo ad integrare a questo sistema l’esperienza di chimici cosmetologici, creando un team dedicato al lavoro in laboratorio. In quello stesso periodo Coca Cola lanciò le bottiglie personalizzate con i nomi di persona e pensai immediatamente che sarebbe stato bellissimo fare lo stesso per lo shampoo. Detto, fatto. Oggi il cliente risponde a una trentina di domande e nel giro di pochi minuti può acquistare una linea personalizzata di prodotti con ingredienti 100% Bio-certificabili, creati con una ricetta chimica ad hoc per il proprio capello e conse-
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gnati all’interno di un packaging riciclato (e riciclabile). Inoltre, producendo solo nel momento in cui arriva l’ordine, tagliamo un pezzo di filiera e riduciamo costi e sprechi.
“La cosa di cui andiamo più fieri è che il nostro team ha un’età media di ventotto anni” All’inizio non è stato facile. Una startup non funziona come un’azienda tradizionale, serve una raccolta fondi per poter crescere. È una scelta impegnativa, bisogna essere attenti sia al prodotto, da adattare sulla base dei feedback dei primi clienti, sia al ritorno economico per gli investitori. Serve dinamismo e velocità. Per questo oggi siamo particolarmente fieri di avere un team di ben 20 persone, con un’età media di 28 anni. In due anni abbiamo dato lavoro full time a 17 persone, founder a parte. Inoltre, il 70% dell’azienda è donna, non per un discorso di empowerment femminile, ma proprio perché nel processo di hiring le figure che ci convincono di più sono donne. Abbiamo notato che spesso una donna lavora meglio di un uomo nei processi decisionali. La nostra responsabile della ricerca e sviluppo, Orsola Marini, ne è un esempio. Se fa il “capo” è perché è brava e se lo merita.
“Un progetto futuro? Creare una scuola all’interno dei saloni di bellezza, formando giovani parrucchieri Shampora” Una nuova sfida in futuro potrebbe essere quella di costituire delle scuole all’interno dei saloni di bellezza, formando giovani parrucchieri Shampora che lavorino a domicilio per le nostre clienti. Questo permetterebbe loro di formarsi gratuitamente e risparmiare sull’investimento di apertura di un negozio proprio. Si tratta di un progetto di vision a lungo termine, che però potrebbe avere un impatto sociale importante sul lavoro delle persone coinvolte. È un disegno ambizioso e difficile a livello legislativo, ma speriamo di farcela, proprio in virtù di quel dinamismo che ci ha sempre contraddistinto.
Trovo molto interess ante che esistano pr odotti per capelli personalizzati! Dop o aver letto la stor ia di Manuel sono andata subito a sbirciare sul sito e ho ordinato lo shampoo e il balsam o con il mio nome. Tutto personalizzato , proprio come piac e a me, perché ti fa sentire speciale e non conforme al la massa. Mi attrae tutto ciò che ci re nde unici ed insost ituibili! Alessia
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ALESSANDRA VERNAZZA GDP Digital Marketing
“Reinventarsi a cinquantadue anni: una vera e propria sfida”
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i occupo di digital marketing per GDP, una società basata a Genova, che distribuisce prodotti erboristici e parafarmaceutici. I nostri clienti sono principalmente farmacie, erboristerie e parafarmacie. La mia carriera professionale è sempre stata legata alla nostra azienda a conduzione familiare, quindi non ho mai vissuto una vera e propria separazione tra casa e lavoro.
“I primi anni sono stati impegnativi, ma ci hanno permesso di raggiungere grandi successi” Ho iniziato da giovanissima come braccio destro di mio fratello, Marco Vernazza, imprenditore. La nostra storia è iniziata negli anni Ottanta quando lui, da agente di commercio, decise di diventare imprenditore nel campo dell’erboristeria (settore quasi inesistente all’epoca). Iniziò a rivendere prodotti farmaceutici ed erboristici e mi coinvolse come socia minoritaria nella sua impresa. Insieme ad un gruppo molto affiatato di collaboratori creammo veramente una bella squadra vincente, eravamo tutti molto giovani, tra i ventidue e i ventisei anni. Per questa ragione spesso era difficile ottenere il rispetto di altri lavoratori del settore, che avevano molta più esperienza di noi. Ma ci servì per farci le ossa.
“Sono una donna che ama studiare e lasciarsi ispirare” Mio fratello creò un brand di cosmetici - Planter’s - e iniziò a vendere anche questa linea, che si rivelò un grande successo. In seguito però cedemmo la società a un fondo e tutto diventò molto più schematico e incentrato su numeri, percentuali e burocrazia; così che la passione venne meno. La sciammo quindi la gestione di questa azienda e - grazie all’appoggio del nostro nuovo socio Lucio Fusaro, che ha sempre creduto in noi- nel 2012 creammo una nuova società: GDP. Quest’ultima nacque inglobando e rilanciando sul mercato alcuni brand che erano falliti a causa della crisi economica: Winter, Dietalinea e Natur Unique. Queste marche divennero il centro del nostro operato e ci posero in un contesto socio-economico molto diverso rispetto a quello degli anni Ottanta. Ci dovemmo adeguare con grandi difficoltà alle nuove regole del mercato, investendo sui social e sul digital marketing.
“Ci si può riscoprire a ogni età” È stata dura per me all’epoca, perché il mio ruolo cambiò in modo radicale all’età di cinquantadue anni. Da allora non mi sono più occupata della parte imprenditoriale,
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ma solo del marketing e della comunicazione digitale. Dovevo riprogettare da zero il mio modo di lavorare, ero demoralizzata e spaventata. Tuttavia, nel corso del tempo ho studiato e seguito corsi su Google con grande dedizione, elaborando processi e diffondendo ciò che avevo appreso. E adesso sento di essere entrata in connessione con la mentalità da “seconda generazione”, che sfrutta il potere dei social in ambito aziendale. Inoltre con il tempo ho imparato a sfruttare tutte le competenze acquisite nel corso della mia carriera e mi sono resa conto di essere cresciuta professionalmente. Sembra incredibile, ma a cinquantasei anni ho finalmente scoperto il lavoro che amo fare. Per anni avevo svolto delle attività che, nonostante fossero gratificanti e formative, non amavo nel profondo. Oggi grazie al web imparo qualcosa di nuovo ogni giorno, nutrendo la mia curiosità e lasciandomi ispirare da menti brillanti e innovative. Spesso dico ai miei figli che non è importante quel che si fa, ma amare ciò che si fa. Passare tanti anni in un posto di lavoro che non ci gratifica porta solo infelicità. Ogni lavoro ci può rendere felici, anche i più umili: è tutta una questione di predisposizione e ambizione.
“Amo il contatto umano, ma il lavoro da casa è stato rivelatorio e mi ha reso più produttiva”
Ho capito che il mio punto forte è comunicare con gli altri e questo lockdown mi ha persino aiutata in questo. Lavorando tramite social e videochiamate già da anni, ero preparata al lavoro da remoto e, anzi, ho imparato a comunicare di più. Trovo che lo smart working sia stato rivelatorio per certi versi, mi ha reso anche più produttiva.
Inoltre, nel corso della mia carriera ho provato spesso sensi di colpa nei confronti dei miei figli per non essere abbastanza presente. Su Penso sia fantastico come la vita questo aspetto mi auguro che la ci di a qu as i se m pr nuova generazione sia agevolata e una possibilità dall’avvento del lavoro da casa, per riscattarci. I momenti difficili che permetta di dedicare più tem- sono in realtà una pr eparazione po agli affetti e al proprio benesse- per il futuro, qualcosa che ci re personale. fortifica.
Fabio 43
Opening Speaker
Gianluca Rocchi
G
ianluca Rocchi, da pochissimo ex arbitro di calcio e da pochissimo dirigente federale, è stato lo speaker che ha inaugurato la terza edizione di Richmond HSE forum a Rimini sul palco del Teatro Novelli. Rocchi, una delle figure più stimate dell’arbitraggio internazionale, ha trascorso 32 anni correndo dietro a una palla sul manto verde, di cui 17 in serie A. Rocchi è partito dalla considerazione che ci sono molti punti di contatto fra il lavoro dell’arbitro e del responsabile Health
Safety Environment: entrambi si prendono cura dell’altro. Rocchi ha infatti fatto notare che la prima missione di un arbitro è tutelare la salute dei calciatori.
del team è dialogare anche con quegli elementi che ci sembrano ostili o con un feeling diverso. In questi casi, mettersi nei panni dell’altro può portare a una svolta.
Un altro punto di contatto è la doppia natura del ruolo. Da una parte la tensione alla carriera individuale, dall’altra la necessità di lavorare in team. In campo come in azienda, gli equilibri non cambiano. Ci si sente soli, si avverte una grande solitudine quando si devono prendere decisioni importanti, ma al tempo stesso questa solitudine si può contenere con il gioco di squadra. Uno dei fattori per garantire la coesione
Una terza similitudine è dover prendere decisioni difficili sotto notevoli pressioni esterne. “La bellezza del nostro lavoro è riuscire ad avere problemi con tutti. Una volta dopo una partita, sono partite ben tre interrogazioni parlamentari di tre diverse forze politiche.” Non importa se la pressione viene dai genitori di una squadra di ragazzini che si sono dovuti svegliare alle sei del mattino per raggiungere un cam-
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“La giusta distanza come regola di vita” po di calcio ghiacciato a Barberino del Mugello o da un ministro dello sport o dai capi della Fifa. Rocchi ha portato sul palco lo spaccato della vita degli arbitri. Per esempio, la necessità ogni anno di confrontarsi con regole nuove, di cui non sempre si comprende la logica. Il cambio delle regole è un passaggio oggettivamente delicato perché bisogna staccarsi da quello che si è fatto l’anno prima. “Fare proprie le nuove regole può essere una fatica devastante.” Rocchi ha raccomandato ai dirigenti in platea di non avere timore di “seguire la pancia” nei momenti difficili, e di uscire anche dal mandato formale che hanno ricevuto in nome della sostanza del compito, “anche se non è scritto sui fogli”. Come quella volta che ha sospeso una partita per cori razzisti e non è stata una decisione facile. “Se senti che una cosa è giusta, allora è giusta.” Quella decisione scattò nel momento in cui capì che poteva essere utile per cambiare qualcosa. Partendo da una slide completamente nera, Rocchi ha racconta-
to della prima partita post Covid al San Paolo di Napoli fra Napoli e Inter, semifinale di Coppa Italia. Lo stadio completamente deserto è già un controsenso come luogo per ospitare una partita. Questo scenario ha portato a nuovi comportamenti. Per esempio, una riga tracciata sul campo con la bomboletta per segnare la posizione del calcio di punizione, di colpo viene osservata scrupolosamente. Di solito, invece, ed è umano, i giocatori ondeggiano e cercano di guadagnare centimetri preziosi. Il contesto porta a considerare più seriamente il tema della giusta distanza. La tecnologia ha fatto evolvere in modo sensibile il lavoro degli arbitri. Rocchi l’ha compreso durante le Olimpiadi 2012, quando per ragioni di sicurezza tutte le comunicazioni sono state schermate e gli auricolari sono andati fuori uso. Nell’ultimo decennio, non è stato facile per gli arbitri passare da una condizione di infallibilità ad una di fallibilità, ma col senno di poi la professione se ne è avvantaggiata. L’arbitro oggi è più sereno, anche se il suo "potere" durante
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i 90 minuti del gioco è meno assoluto. Quello che succede (ed è successo veramente), nel caso in cui si è smentiti da una telecamera al primo minuto di gioco e tocca annullare un rigore concesso, è che occorre riconquistare la fiducia di tutti nei restanti 89 minuti. In generale, la tecnologia è stata una rivoluzione per l’arbitraggio e oggi il 98% dei risultati è corretto. Una volta non era così, c’erano continue contestazioni sulle partite in ogni campionato. La giusta distanza è l’unico modo, oggi, per salvaguardare il nostro futuro. Vuol dire accettare le regole. “Tante volte vi avranno detto: uffa queste regole, che impiccio, che noia. E invece oggi voi con le regole salvate persone e mettete le aziende nelle condizioni di lavorare in sicurezza. E il vostro ruolo è più apprezzato di prima.” A giudicare dagli applausi, la platea ha espresso il suo consenso.
Al Grand Hotel Federico Fellini di Rimini va in scena il teatro della vita LA GRANDE TRADIZIONE DELL’OSPITALITÀ ITALIANA, L’AURA DEL PRIMO NOVECENTO, LA STORIA DEL CINEMA, LA DOLCEZZA DELL’ADRIATICO, L’ELEGANZA E IL PRIVILEGIO VISSUTI CON LEGGEREZZA: SIGNORE E SIGNORI, IL GRAND HOTEL DI RIMINI.
Il Grand Hotel Rimini, il cinque stelle lusso da sempre considerato la punta di diamante della riviera adriatica, è una stupenda dimora storica progettata dall’architetto Paolo Somazzi, inaugurata nel 1908 e dichiarata monumento nazionale nel 1994. L’elenco delle personalità illustri che vi hanno soggiornato è lo specchio di un secolo: dalla diva del muto Lydia Borrelli a Enrico Caruso, da Re Farouk d’Egitto a Mikhail Gorbaciov a Bush senior, da Christian Barnard a Lady Diana, da Claudia Cardinale a Tony Blair, da Sharon Stone al Dalai Lama. Dal 2007 il Grand Hotel di Rimini fa parte del gruppo Select Hotels Collection della famgilia Batani, insieme al Palace, il lussuoso hotel
5 stelle di Milano Marittima e altri otto alberghi della costa romagnola. Con l’arrivo della nuova proprietà, sono iniziati importanti lavori di restauro secondo le indicazioni della Soprintendenza alle Belle Arti. L’ambizioso progetto sarà completato con la posa delle famose cupole dorate che andarono distrutte nel rovinoso incendio che divampò nel luglio del 1920. Le 117 camere del Grand Hotel di Rimini si dividono in tre tipologie: Superior Deluxe, Junior Suite e Regal Suite. La quasi totalità delle stanze è stata restaurata con materiali di pregio come ceramiche faentine, travertino, onice e marmo bianco del Trentino. Le stanze conservano pezzi d’antiquariato come i mobili in stile francese o i lampa-
UN LUOGO CHE HA TENUTO A BATTESIMO IL GENIO VISIONARIO ITALIANO PIÙ AMATO NEL MONDO: FEDERICO FELLINI, CHE QUI TENEVA IL SUO QUARTIER GENERALE. COME RICHMOND ITALIA, CHE DA ANNI UTILIZZA QUESTA LOCATION PER I SUOI FORUM. dari di Murano, unendo in modo armonioso il nuovo e l’antico. Sono colme di luce e colori pastello, e i nuovissimi bagni dispongono di doccia e vasca idromassaggio.
sono il moderno centro congressi e la Residenza Fellini quattro stelle, riqualificata nel 2003, con 51 camere nelle tipologie Classic, Superior e Junior Suite.
Gli ospiti hanno a disposizione il parco con piscina, due centri benessere, un’area fitness Technogym, il lobby bar, il ristorante Dolce Vita in hotel e il ristorante Dolce vita al mare in spiaggia in cui si dispiega la sapienza dello chef Claudio Di Bernardo. Annesso all’albergo ci
L’albergo deve il suo nome al genio del grande regista italiano, che lo ha rappresentato nella pellicola Amarcord (1973) in una chiave onirica indimenticabile. Il giovane Fellini entrò all’albergo per la prima volta all’età di quattordici anni, e il luogo sfarzoso e fiabesco
si impresse per sempre nella sua fervida immaginazione. Più avanti, ottenne il permesso di stazionare nella hall per fare caricature che gli commissionavano gli ospiti. Una volta diventato celebre, si fermava lui stesso come cliente ogni volta che tornava nella sua Rimini insieme alla moglie Giulietta Masina.
CRISTINA CECCATO Cultiva CFO - Direttore Amministrazione
“CFO al femminile: schiettezza, gentilezza e… tanto colore”
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mo il mio lavoro: sono CFO e da sempre mi occupo di numeri, amministrazione, finanza, controllo e organizzazione. Lavoro in un ambiente molto maschile e spesso sono l’unica donna all’interno di una riunione. Quando ero un po’ più giovane, mi capitava di essere scambiata per l’assistente di qualche mio collaboratore "più maturo", perché nell’immaginario comune il CFO era uomo. Ora la situazione è migliorata, anche se la strada per la parità è ancora molto lunga, e il ruolo mi è riconosciuto senza pregiudizi di genere. Ho imparato a valorizzare la mia femminilità pur mantenendo uno stilo sportivo. In riunione si riconosce subito dove sono seduta grazie al mio mouse e alle mie penne fucsia; ho un debole per questo colore e ne vado orgogliosa! Sono sempre concentrata in ciò che faccio e quindi ho spesso un’espressione seria, quasi contrariata. Tuttavia ho imparato a sorridere di più, a prendermi meno sul serio e apparire più friendly. Oggi, anche quando devo esprimere opinioni a colleghi e collaboratori, lo faccio con assertività e schiettezza, ma con il sorriso sulle labbra e con gentilezza. Essere un CFO o avere un ruolo di responsabilità, in quanto donna, non è stato sempre facile. Ho lavorato in diverse aziende soprattutto PMI e il mio dinamismo e la mia proattività sono state anche disruptive. Le mie competenze, il mio senso di giustizia ed etica hanno rap-
presentato per qualcuno una minaccia alla propria comfort zone o allo status acquisito, e per difendersi è stato scorretto e sleale nei miei confronti. Questo ha rafforzato la mia resilienza e determinazione.
“Quando ero più giovane mi capitava di essere scambiata per l’assistente di qualche mio collaboratore più maturo, perché nell’immaginario comune il CFO era uomo” Fortunatamente ho vissuto anche molte soddisfazioni professionali e umane durante il mio percorso. Quando in azienda ho trovato fiducia e spazio per realizzare liberamente i miei progetti ho raggiunto grandi risultati. La mia mission è trasformare l’amministrazione (una funzione che nell’immaginario comune evoca carte, contabili con manicotti e macchine da calcolo) in finance 4.0 (paperless, analisti e controller e pc portatili) facendo crescere anche il team – quando finalmente i risultati arrivano, sono motivo di grande orgoglio. Molti reputano la matematica come qualcosa di noioso o addirittura spaventoso. In realtà anche i numeri hanno un’anima, sanno raccontare una storia, basta saperli leggere e interpretare. Contengono un mondo infinito di informazioni, spiega-
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no dei fatti e sono in grado di esprimere sinteticamente uno stato. Le difficoltà incontrate nella mia carriera mi hanno fatta crescere, mi hanno aiutata a comprendere meglio alcune dinamiche aziendali e incentivato a essere ancora più determinata. Ora prima di accettare una nuova opportunità lavorativa illustro chiaramente il mio punto di vista, il mio piano di intervento e i miei obiettivi. Il lavoro è una parte importante della mia vita, deve farmi divertire. Aspiro sempre ad avere un buon rapporto con i colleghi e la comunicazione è un elemento imprescindibile. Nel tempo, ho imparato a valorizzare i talenti dei collaboratori che vanno riconosciuti e incentivati. Passiamo così tante ore lavorando che è nostro dovere rendere questo tempo più piacevole per tutti. L’ambizione è il desidero di continuare a migliorare, alzare l’asticella e superarla. È ciò che ho fatto nel corso di tutta la mia vita professionale, ricoprendo nel tempo ruoli di crescente responsabilità fino a diventare CFO. Occorre sempre porsi degli obiettivi, avere dei progetti, cercare stimoli di crescita non solo economica, ma anche di visibilità, di riconoscimento e di soddisfazione personale.
“La scuola è una forma di allenamento alla vita: nessuno ti regala nulla. Ma alla fine il sacrificio paga”
Come dico sempre a mia nipote, che va a scuola ed è molto competitiva: “Il voto è solo un numero, non definisce chi siamo, né il nostro valore. Alle volte è ingiusto e non riflette la preparazione”. Ma la scuola è una forma di allenamento alla vita: nessuno ti regala nulla, ci sarà sempre qualche ingiustizia e sgambetto. Ma alla fine il sacrificio e la fatica saranno ricompensati.
La prima parola ch e mi viene in mente leggendo questa stor "resilienza". L’impegn ia è o ripaga sempre: io st esso dovrei ricordar spesso quando mi im melo più batto nelle difficoltà scolastiche. Mi piac che Cristina si impe e l’idea gni a creare un am biente lavorativo se stimolante per i su reno e oi colleghi. Lei stes sa dice che nonost difficoltà che il su ante le o ruolo comporta, negli anni ha impara sorridere di più. Co to a me mi ha sempre insegnato mia madre aiuta sempre chi lo : “il sorriso dona e chi lo ricev e”. Sono davvero co che il sorriso miglio nvinto ri sempre i rapporti umani e lavorativi. 49
Nicolò
CALOGERO G. BURGIO Porti di Roma Dirigente Area Ambiente, Demanio e Valorizzazione del Patrimonio
“Lavorare per lo Stato è il mestiere più bello del mondo: sei pagato per fare del bene”
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ggi sono uno statale, ma vengo dal privato, e vengo da un’isola, la Sicilia. Ma andiamo con ordine. Sono a nato a Serradifalco, vicino a Canicattì. Ho provato ad entrare all’Accademia navale, ma non ci sono riuscito e, forse per un certo senso di rivalsa, ci ho riprovato all’età di 25 anni, dopo la laurea in Ingegneria chimica all’Università di Pisa, questa volta riuscendoci e diventando Allievo Ufficiale di complemento in Marina. In “Mamma Marina” – prima a Civitavecchia e poi a Piombino – ci sono rimasto solo due anni, ma sono stati due anni importanti, che mi hanno aperto un mondo. Avevo un ruolo operativo: controllare l’impatto ambientale delle navi. La nave è un sistema complesso, con infinite sfaccettature.
“Avevo solo camicie bianche e bluette, come Paperino” Subito dopo ho deciso di intraprendere la libera professione e il mio primo cliente è stata la U.S. Navy, per la quale mi sono occupato di supervisione ambientale. Seguivo le basi di Santo Stefano e Sigonella, che è come una grande portaerei basata a terra. Macinavo chilometri con la mia Audi 4, e avevo sempre una camicia di ricambio in macchina, bianca o bluette. Indossavo solo
camicie bianche e bluette. L’approccio ingegneristico americano è diverso dal nostro. Per esempio, la cura grafica dei progetti. Mentre prima ero abituato a degli enormi lenzuoli in formato A0 su cui si annotava tutto, con gli americani ho imparato i pratici book con fogli A3 rilegati. Sembra un dettaglio formale, invece, è un fatto di sistema.
“I miei eroi hanno anteposto il bene della collettività alla propria vita” Poi è arrivato il 1997, un anno che è stato uno spartiacque per coloro che si occupano di ambiente in Italia. La legge precedente, il D.P.R. 915/82, non dotava il nostro Paese di un sistema organico per la classificazione dei rifiuti e dei mezzi che li trasportavano. Il decreto di Eduardo Ronchi fu una piccola rivoluzione che rese i rifiuti più facilmente tracciabili. Lavorai come consulente ambientale in proprio fino al 2005, ma continuavo a nutrire una dose di invidia per la possibilità che i servitori dello Stato hanno di fare del bene senza preoccuparsi in modo ossessivo dell’impatto economico. I miei eroi sono sempre stati persone come Falcone, Borsellino, Livatino – persone che hanno anteposto il bene della collettività alla propria vita. Io non sono così coraggioso come loro, ma volevo fare di più. Dovevo scendere a compromessi,
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è un fatto. Per molti dei miei clienti, un impianto più performante veniva prima di tutto il resto, e in questo modo la sostenibilità aveva un solo pilastro: quello economico. Ma noi sappiamo bene che senza gli altri due pilastri – quello ambientale e quello sociale – un progetto non può definirsi sostenibile. Nel 2005 sono tornato a lavorare per lo Stato all’Autorità portuale di Civitavecchia. Il porto è uno snodo importante, conosciuto come il porto di Roma, siamo il primo porto crocieristico italiano e il secondo in Europa dopo Barcellona. Prima di me non esisteva un Ufficio Ambiente. Qui ho trovato pane per i miei denti. E ho avuto carta bianca nella gestione dei progetti ambientali riguardo all’idea della sostenibilità. Civitavecchia è un centro di 50mila abitanti, ma nel porto – la cui nascita risale all’imperatore Traiano – transitavano prima del Covid 2,7 milioni di crocieristi e 2 milioni di passeggeri dei traghetti. Io conoscevo le navi e nel nuovo lavoro la mia esperienza a bordo è stata determinante. Il porto genera sempre una tensione ambientale. È un sito produttivo interno al tessuto urbano, i casi più eclatanti sono Genova e Livorno. Civitavecchia è il classico porto con i fumaioli delle navi che ti entrano nel balcone. Il tessuto urbano di prima della guerra non esiste più: ci sono cementifici di fronte all’asilo, centrali termoelettriche che hanno deturpato il paesaggio. Insomma, una piccola Taranto.
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Prima della guerra, Civitavecchia era il centro più elegante e culturalmente avanzato del litorale, c’era un Grand Hotel con acqua termale. Il Forte Michelangelo è stato disegnato da Sangallo e Bramante, e Marconi veniva a fare gli esperimenti a Capo Linaro per la qualità dell’aria. Le bombe americane e inglesi l’hanno rasa al suolo per l’80%. E la ricostruzione è stata quasi peggio. Condomini sciatti e volgari che hanno le colonne della Villa di Traiano in cantina, per intenderci. Porto, cementifici, centrale termoelettriche… Civitavecchia diviene oggetto di vere e proprie vessazioni ambientali, che deturpano non solo l’occhio, ma soprattutto la salute. Negli anni ’70 la situazione di degrado emerge in maniera abbastanza cruda. Molti bambini hanno l’asma. Negli anni ’90 il numero di ammalati di tumori della città mostra un tasso spaventoso di malattia. In moltissime famiglie si contano vittime oncologiche. Fra l’altro, negli ospedali in città non ci sono strutture che fanno radioterapia e i pazienti sono costretti ad andare fino a Viterbo o Roma. E poi c’è anche l’aspetto sociale, ci sono molti giovani allo sbando e aggressivi.
“La nostra ambizione è diventare il primo porto decarbonizzato al mondo”
In questo scenario, il Porto ha cercato di voltare pagina e di dare una spinta positiva al territorio stimolando nuove forme di sviluppo. Per esempio, abbiamo creato un Centro di ricerca e sviluppo di tecnologie da applicare all’ecosistema marino, il LOSEM dell’Università della Tuscia, con 18 ricercatori coordinati dal professor Marco Marcelli. Dai loro studi è derivato il primo convertitore al mondo del moto ondoso in energia elettrica applicando i principi base del mini-idroelettrico: questi convertitori compatti trasformano il moto ondoso in energia elettrica e possono essere installati ovunque, anche in posti privi di connessioni elettriche. Potrebbe dar vita a un modo nuovo di generare energia elettrica, senza impatti sul suolo (perché non necessità di infrastrutture dedicate) e sull’aria (zero emissioni).
per avere energia primaria con cui soddisfare il fabbisogno del porto stesso. Il fotovoltaico non è l’unico sistema a impatto zero per produrre energia, stiamo valutando l’applicazione dei convertitori del moto ondoso su scala industriale e la creazione di parchi eolici off-shore. Useremo come buffer energetico accoppiato agli impianti di produzione ad energia rinnovabile “idrogeno verde”, prodotto con elettrolizzatori, alimentato da FER. Con l’idrogeno verde andremo a verificare la possibilità di sintetizzare i nuovi combustibili marini (ammoniaca) e di sequestrare l’anidride carbonica attraverso la produzione di combustibili sintetici. Con l’idrogeno verde e i suoi derivati andremo ad alimentare celle a combustibile a membrana (idrogeno) e celle combustibili SOFC a ossidi solidi (ammoniaca, metanolo, ecc.).
Quando decidi di servire la Pubblica Di recente, abbiamo rilasciato un Amministrazione hai la straordinadocumento di pianificazione enerria opportunità di metterti a disposigetica e ambientale, in anticipo sui zione di tutti, imprenditori e cittaditempi di 2-3 anni. Qualche giorno ni, in modo da indirizzare i processi fa abbiamo presentato questo piain modo sostenibile: lavorare per la no anche alla Presidente Ursula von Pubblica Amministrazione è la cosa der Leyden. La nostra ambizione è diventare il primo porto decarbo- più bella che possa esistere, anche perché sei pagato per fare del bene nizzato al mondo. La pandemia può trasformarsi in una straordinaria oc- a tutti. casione di rilancio grazie al Recovery Il porto di Civitav fund. È il momento di anticipare i ecchia non rappresenta solo tempi invece di inseguire tecnologie già spente. Vogliamo togliere il gas, un esempio perseguib ile vogliamo togliere il carbone, voglia- di sostenibilità, ma anche di mo togliere tutto ciò che è fossile. E comunità. Il bene a portata di tutti. realizzare un grande parco fotovoltaico nelle aree dismesse del porto Martina
Il porto di Civitavecchia.
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SALVATORE VITALE Green Network Digital Innovation & Customer Operations Director
“Un treno, mio padre e la Capitale. Così iniziò la mia grande avventura”
H
o 43 anni, sono calabrese e ho vissuto a Crotone fino ai miei diciotto anni. Volevo fortemente trasferirmi a Roma per fare l’università e dopo un viaggio in treno di dodici ore raggiungo la Capitale insieme a mio padre, un viaggio che ricordo come fosse ieri, all’epoca i treni che partivano dalla Calabria per Roma non erano quelli di oggi, anche se il divario con il nord è ancora enorme purtroppo. A Roma comincia la mia avventura, mi laureo alla Sapienza in Economia e Commercio, avevo docenti universitari preparatissimi e adoravo la ragioneria, così entro nel mondo della consulenza come revisore e analista di bilancio. In seguito mi trasferisco a Milano, città nuova, gente nuova, e da buon calabrese avevo un cugino che mi ha introdotto con facilità nel tessuto sociale della città per viverla al meglio; dopo qualche mese arriva “la chiamata” da Accenture per un percorso nella consulenza direzionale e ritorno con piacere a Roma. In Accenture comincia un’avventura durata quindici anni, appena assunto mi coinvolgono in un percorso di formazione dedicato alle nuove leve a Chicago e volo negli Stati Uniti, mi sembrava di vivere nel paese dei Balocchi. Era l’azienda giusta, quindici anni di esperienze, di crescita, di sacri-
fici, non avevo orari, sempre in mezzo a continue sfide e progetti nuovi in diverse industry, anche nel mondo della telefonia; ho fatto parte del team che ha realizzato il primo CRM di nuova generazione in Italia per TIM. Un progetto enorme con più di duecento consulenti oltre ai dipendenti Telecom, e io ho dato il via al primo ordine. In questo team mi occupavo del design e test dei processi CRM, mi ricordo ancora la presentazione della prima demo davanti a tutto il board di Telecom Italia. Questa esperienza ha segnato il mio cammino, avevo poco più di 24 anni. Il mio percorso prosegue, in seguito mi occupo di strategia e definizione dei modelli operativi, ho fatto parte anche della start up di Italo, in cui ho avuto la possibilità di disegnare il modello di customer service di un’azienda che ho visto nascere da zero. Anche in questa fase ho conosciuto manager molto competenti che mi hanno insegnato tantissimo.
diventato per me un vero fratello. Ci siamo uniti nella passione per la musica e abbiamo creato degli eventi a Roma indimenticabili, entrambi avevamo un passato da dj e dopo aver trovato un locale carino su tre piani abbiamo dato inizio al periodo de “La Kasbah”, una festa itinerante, attiva sia in inverno che in estate con un evento dedicato al mese. Siamo stati ospitati in tutti i locali storici di Roma, al Testaccio, fino al litorale laziale ad Ostia, etc. Amici e colleghi ci aiutavano nella comunicazione, a scattare delle fotografie per documentare le serate e c’era chi prestava attenzione alle coreografie. Ciascun evento iniziava al coro di: “Welcome to the place to be, questa è la Kasbah!!!”, in cielo facevamo scoppiare anche i coriandoli ed iniziavamo a mettere musica Black e House melodica, un periodo meraviglioso.
“Un After Work al coro di Welcome to the place to be” Lavorando in queste realtà ho coltivato molte amicizie, c’è sempre stata una commistione tra vita privata e mondo del lavoro dove trascorrevo molto del mio tempo. Uscivo spesso la sera con i colleghi, e un giorno abbiamo deciso di lanciarci in un progetto artistico appassionante con un collega, ormai
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Salvatore durante la festa itinerante "La Kasbah"
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“Ci sono persone che mi hanno cambiato la vita, una di queste è mia moglie” Le persone della mia vita a cui devo molto sono i miei genitori insieme a mia sorella; loro mi hanno sempre appoggiato, non mi hanno mai fatto mancare niente e hanno fatto tanti sacrifici per me, sono un esempio importante, e io sono morbosamente attaccato a loro e alla mia città. Crotone per me è Home. Crotone è Crotone….il mio mare e non la cambierei per niente al mondo anche se vivo benissimo a Roma insieme alla mia famiglia.
ché Accenture era la mia famiglia, ma ho fatto bene a cambiare; così è iniziata questa avventura bellissima in Green Network dove la prima sfida è stata quella di introdurre il digitale in un’azienda vivace e molto attiva nel mondo dell’energia verde, ora sono responsabile della direzione Digital, IT e Customer Operations. Ho molta fiducia da parte della proprietà, e per questo li ringrazio, abbiamo raggiunto tanti traguardi, siamo cresciuti insieme, e, inoltre, sono circondato da colleghi preparati, è un ambiente davvero stimolante ed orientato ai risultati concreti.
Mi è piaciuta la pa rte in cui parla dell’apprezzar e le piccole cose e del fatto che spesso bisogna stacca rsi da ciò che amiamo per la sciare spazio al nuovo. Sarah
La seconda persona chiave nella mia vita è stata mia moglie. L’ho conosciuta sul lavoro, era una cara amica di una collega, e da quando l’ho incontrata è iniziato per me un percorso di vita diverso dal precedente, lì c’è stato proprio un salto di qualità; prima di incrociarla ero una persona molto insofferente, irrequieta, non mi accontentavo mai e volevo fare sempre cose diverse, lei mi ha insegnato a trovare il bello nelle cose semplici e anche a vedere il bello dove io non riuscivo a vederlo. Un percorso intenso e prezioso che ci ha portato a creare una famiglia, abbiamo due bambini meravigliosi, sono la nostra vita. Nel lavoro mia moglie mi ha aiutato ad essere più razionale e pragmatico, a concentrarmi e guardare alle cose fatte e valorizzarle. Per quanto riguarda il mio mondo professionale mi sono dato delle regole ritagliandomi degli spazi miei personali, spazi dedicati alla famiglia e ad attività extra lavorative. Un’altra tappa fondamentale del mio percorso professionale è stato l’ingresso in Green Network, che nasce dall’incontro con la dottoressa Sabrina Corbo, Vice Presidente del Gruppo, una donna carismatica e visionaria, lei mi ha coinvolto e convinto a partecipare alla sua avventura. Uscire da Accenture è stato un trauma, ma sapevo che avevo bisogno di altro, il penultimo giorno ho pianto per un’ora, per-
In alto: Salvatore con sua moglie e i loro bambini; in basso: Salvatore con i genitori e la sorella.
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Opening Speaker
Cristian Fracassi
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ristian Fracassi, founder di Isinnova, ha inaugurato la decima edizione di Richmond IT Director forum, che si è svolta in modalità pixel invece che live, e si è dovuta accontentare degli schermi del pc dei partecipanti invece che occupare, come da tradizione, i saloni maestosi del Grand Hotel di Rimini. Cristian Fracassi è un ingegnere edile e architetto di 37 anni, la sua pronuncia non nasconde le origini bresciane. La sua storia professionale e umana ha fatto breccia anche nello staff di Richmond Italia
che stava seguendo la conferenza per ragioni di servizio. Fracassi si può ben definire un ambasciatore di innovazione: di questa tensione a cambiare il mondo in meglio ne ha fatto una vocazione, un mestiere e un’impresa. Il suo racconto scorre come un fiume in piena e in via eccezionale abbiamo deciso di riportare il suo parlato in prima persona. “Il mio amore per l’innovazione nasce nel 2009. Ero all’ultimo anno di università, stavo cenando con i miei genitori e alla televisione hanno mostrato le immagini del terremoto dell’Aquila. Immagini drammatiche, gente che
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piange, case distrutte. Mi sono sentito chiamato in causa, mi sono sentito colpevole per quegli edifici che erano stati progettati da un ingegnere o da un architetto come me. Mi sono chiesto: e se fosse successo a Brescia? A Ingegneria mi hanno insegnato a progettare case, a fare i calcoli strutturali e dirigere un cantiere, ma non mi hanno insegnato a realizzarla fisicamente. Che cosa avrei potuto fare per aiutarli? Spostare macerie da una parte all’altra della strada? Ma questo potevano farlo benissimo senza di me. Se mi avessero messo in mano una cazzuola e un sacco di cemento,
“Quando l innovazione incontra la salute” non avrei saputo da dove iniziare. È allora che mi è venuta in mente la prima idea. Il mattino dopo era fermo alla fermata del bus che mi portava all’università. Mentre aspetto, vedo un camioncino che consegna le casse dell’acqua a un ristorante. Da buon ingegnere inizio a fare i miei conti, 20 casse d’acqua, ogni cassa 12 bottiglie… 180 chili, ripartiti su una superficie di qualche centimetro. E se provassimo a realizzare dei mattoni in plastica così leggeri che si incastrano l’uno dentro l’altro? Arrivato in università ne parlo con la professoressa e le dico che ho trovato il mio argomento di tesi: le case in plastica. Lei mi dice: “Bella idea, mi piace che ti sei proposto tu, temo pero che la tua tesi non possa andare oltre le due pagine. Non ho mai sentito parlare di plastica”. Aveva ragione, il materiale non era nemmeno contemplato nelle norme tecniche. Il che vuol dire che a livello di normativa non era possibile realizzare case in plastica. Io però ho scritto 680
pagine di tesi. Ho scoperto che in Germania e in altri Paesi la plastica era già utilizzata come materiale strutturale. Mi accorgo però che le plastiche hanno una serie di problemi. Già a 60 gradi la plastica perde il 30% delle proprietà meccaniche. E una casa ci può arrivare facilmente a questa temperatura Che cosa decido di fare? Mi faccio 3 anni di dottorato in ingegneria dei materiali, specializzazione Polimeri fibrorinforzati. Di giorno lavoravo in università, la sera progettavo il mio mattone. Dopo tre anni il mattone era pronto. Decido, quindi, di andarlo a presentare a qualche imprenditore. Suono a diverse porte, incontro tante persone, mi dicono tutti: "Bellissima la tua idea. Quanti soldi ti servono? In quanto tempo recupererò l’investimento? Quali saranno il ROI e l’EBITA?” Mi rendo conto che senza un’infarinatura economica, le porte si chiudevano. Allora decido di fare un master in Sviluppo del business. Non divento un economista, ma almeno imparo a leggere un bilancio
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e a rispondere a quelle domande. Poi partecipo a tanti concorsi di idee. Sono una persona ipercompetitiva, che ama mettersi in gioco. Alcuni concorsi li vinco. In particolare uno, indetto dalla Camera di Commercio di Milano, al quale avevo presentato un’idea legata ai prodotti surgelati. Il primo premio è una somma in denaro. Era la prima volta che ricevevo del danaro, prima erano solo computer, calze, un dizionario… Questa volta arrivano 5mila euro. Avevo 26 anni, ed era il mio primo guadagno. Non possedevo ancora un’auto. Potevo finalmente comprarmene una invece di farmi venire a prendere dalla mia fidanzata, oppure investirli. Ho deciso di brevettare l’idea con cui ho vinto il concorso, e ho perso la mia ex fidanzata. Qualche giorno dopo aver letto l’articolo sul giornale, mi contatta un imprenditore. “Mi piace la tua idea, vorrei avere il brevetto in licenza per 5 anni. Quanti soldi vuoi?” E io, che ero molto ignorante, avevo speso 4.200 euro
per depositare il brevetto, ho aggiunto 10mila euro di margine, e ho chiesto 14.200 euro. Chiudiamo l’affare, entrambi convinti di aver fatto un affare. Poi ci conosceremo meglio e questo imprenditore diventerà – oltre che mio testimone di nozze – partner e socio in Isinnova. Isinnova ha l’obiettivo di aiutare gli inventori e le aziende che vogliono fare innovazione a migliorarsi. Sono partito da solo, oggi siamo un piccolo centro di ricerca e trasferimento tecnologico con 14 persone, tutte molte diverse ma tutte giovani, dai 21 ai 32. Io sono il più vecchio. Quest’anno abbiamo avuto molta visibilità sui media per la vicenda dei respiratori. Vi racconto come è andata. Siamo ai primi di marzo, in pieno lockdown. Ricevo una telefonata dalla direttrice del Giornale di Brescia Nunzia Maldini, che mi chiede se ho ancora le stampanti 3d accese per produrre dei piccoli pezzi di plastica che servivano a degli ospedali. Per realizzare i prototipi dei nostri clienti abbiamo in casa 5 o 6 stampanti 3d. La causa è nobile e io mi metto subito a disposizione. Dalle parole di Nunzia il lavoro sembrava semplice. Mi metto in contatto direttamente con l’ospedale di Chiari, erano rimasti senza valvole Venturi, che servono per collegare le maschere ventilatorie ai respiratori in terapia intensiva. Per 122 pazienti ricoverati avevano solo venti di queste valvole. Siamo andati in ospedale, abbiamo preso una valvola usata. L’abbiamo sterilizzata e siamo tornati in ufficio. Abbiamo contattato la multinazionale che li produce con sede in Liechtenstein per avere i file di stampa 3d. La risposta è no. Allora in poche ore la ridisegniamo noi in 3d calibro alla mano e stampiamo il pezzo. Abbiamo fatto i cinesi di turno: abbiamo preso un prodotto esistente, lo abbiamo ricalcato e lo abbiamo realizzato. Ne abbiamo subito date 4 all’ospedale per fare dei test. Dopo mezz’ora l’ospedale dice che funzionano. Attiviamo la stampante 3d di uno
dei miei soci, che è una stampante da 300mila euro ed è in grado di realizzarne 96 in meno di 24 ore. Sembra semplice, ma la valvola contiene un foro da 0,6 mm, più piccolo di un ago, ed è quello che permette la miscelazione fra ossigeno e aria. A 0,8 mm non funziona, a 0,4 mm uccide il paziente. I fori li abbiamo fatti noi a mano, uno a uno, con frese da gioielleria, per evitare dimensioni non corrette. La domenica mattina consegniamo 100 valvole all’ospedale.
sun accordo di riservatezza. Realizziamo le valvole, chiamiamo l’ospedale di Chiari e decidiamo di fare insieme dei test. I test durano tre giorni. Il 13 di marzo 4 ospedali fra quelli contattati ci fanno sapere che ognuno di loro ha bisogno di circa 20 maschere. Ci diamo l’obiettivo di produrre un centinaio di maschere, è abbastanza fattibile. Per stampare una valvola ci vogliono circa due ore. Tutto il nostro lavoro è ovviamente a titolo gratuito.
Riporto a casa i ragazzi in macchina, convinto di aver finito il lavoro. Dico loro di staccare e riposarsi. Ma le cose non andranno così. Al pomeriggio ricevo la telefonata di un medico in pensione, Renato Favero, che ha avuto un’idea. Vuole parlarmi lunedì. Gli dico che la società è chiusa, ma decido di riaprire lunedì alle nove in ufficio e richiamo i collaboratori. Lo ascoltiamo, ci fa una lezione di 2 ore di anatomia, spiegandoci il principio di funzionamento dei polmoni, gli alveoli, la polmonite, le maschere respiratorie e di come vengono trattati in ospedale i malati covid. Dopo di che tira fuori dallo zaino una maschera della Decathlon per fare snorkeling. La sua idea è che a breve sarebbero mancate non solo le valvole Venturi che noi avevamo realizzato, ma anche le maschere e i respiratori. “Io non sono un ingegnere e non so come convertire questa maschera da snorkeling in una maschera respiratoria, ma ora che vi ho dato un’infarinatura di medicina, secondo me potete fare un ottimo lavoro”. Ci saluta e ci lascia con questa maschera in mano.
In quei tre giorni la situazione di colpo precipita. Gli ospedali probabilmente iniziano a parlare fra di loro e veniamo a sapere che tanti altri ospedali hanno lo stesso problema. Una cinquantina di ospedali ci contattano nell’arco di 3 giorni. Nel frattempo Chiari dà esito positivo ai test. Veniamo contatti dalla Protezione Civile, che compra da Decathlon 500 maschere e ha bisogno di 500 valvole Charlotte. Noi entriamo in crisi. Lì allora ci viene in mente una nuova idea. Quella di fare rete. Facciamo in fretta e furia un sito e carichiamo il file 3d. Grazie ai giornali e qualche giornalista in tv, lanciamo un appello: chiunque abbia in casa una stampante 3d la accenda, scarichi direttamente il file dal nostro sito e si metta a stampare le valvole, consegnandole direttamente all’ospedale. Dalla domenica pomeriggio, quando abbiamo lanciato la richiesta di aiuto, a lunedì mattina, abbiamo ricevuto 1.200 valvole Charlotte in pacchettini da due o da tre. Il pomeriggio saranno arrivati 400 pacchi, che abbiamo dato alla Protezione civile per distribuirli su tutto il territorio nazionale.
In circa 8 ore sviluppiamo la valvola Charlotte, un pezzo di plastica stampato in 3d che sostituisce il boccaglio e si collega alla parte alta della maschera. Accoglie il tubo dell’ossigeno in ingresso, e i filtri e le valvole di regolazione della pressione in uscita. Sembra funzionare. Contattiamo Decathlon, che ci mette a disposizione 10 maschere per fare i test e ci mette a disposizione i file 3d nell’arco di un pomeriggio senza firmare nes-
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Il progetto prende un’onda prima nazionale e poi internazionale. Al terzo giorno dal lancio mi arriva un Whatsapp da alcuni medici brasiliani, che ci dicono che grazie a noi 100 pazienti in Brasile stavano respirando. Sono notizie che ti toccano, questo progetto è stato estremamente istruttivo per noi. Ho perso 8 chili, tantissime ore di sonno e anche soldi, visto che abbiamo messo sul piatto tre mesi
di lavoro di 14 persone full time, facendo fronte a più di 10mila richieste da tutto il mondo. Abbiamo fatto decine e decine di interviste ovunque per spiegare il progetto. E infine abbiamo raccolto 12mila euro di fondi con i quali abbiamo comprato stampanti 3d da donare agli ospedali in quattro Paesi: Burkina Faso, Ruanda, Mozambico, e Zambia. Lì i turisti lasciano le maschere da snorkeling, ma non vi erano stampanti a disposizione per realizzare le valvole. Che cosa mi porto a casa da questa esperienza? Siamo stati in balia delle onde per tanto tempo e abbiamo avuto paura perché stavamo facendo qualcosa per la prima volta: non avevamo mai progettato valvole in vita nostra, e non avevamo mai giocato con la vita delle persone. Queste piccole valvole hanno salvato molte vite, ma potevano anche farle finire. Il rischio di avere in carico delle vite, il saperlo, è qualcosa che non ti fa dormire la notte. E in più dovevamo fare il lavoro in 8 ore perché i medici ci scongiuravano. Ho imparato che è importante il saper fare squadra e il chiedere. Tutto poggia sulla fiducia. Noi ci siamo fidati del medico che ci ha raccontato la sua idea, senza poterla validare. L’ospedale si è fidato di noi. E nonostante i medici fossero stremati, ci hanno accordato 3 giorni per i test. Decathlon, multinazionale da 7 miliardi di fatturato, si è fidata di una piccolissima azienda che li ha cercati per telefono e si è messa e a disposizione senza voler prevaricare o prendere in mano le redini del progetto. I 16 mila maker che in mezza giornata hanno risposto all’appello e hanno messo in moto le loro stampanti per donare le valvole agli ospedali. Io ho ricevuto il titolo di Cavaliere della Repubblica e ne sono iperonorato. Ma vorrei dedicarlo a tutti quelli che mi hanno aiutato. Isinnova alla fine ha realizzato 100 valvole su 150mila maschere realizzate nel mondo, meno dell’1%. Il 99% l’ha fatto qualcun altro. In questo caso l’idea è nata da un bisogno: mancavano maschere
respiratorie e servivano subito. Come può un’azienda inquadrare i bisogni e capire come fare innovazione? Noi abbiamo individuato tre metodi. 1. Parlare con l’utente finale. Io ho un cliente che fa valvole sanitarie per grandi aziende come Leroy Merlin, Bricoman e grandi ferramenta. L’utilizzatore finale è l’idraulico. Le insegne non avevano mai parlato con gli idraulici per capire se i loro prodotti fossero belli, brutti, comodi, scomodi o migliorabili. Sembra banale, ma non lo è: parlate con i clienti finali. Così capirete se il prodotto che state sviluppando è buono, perfetto o migliorabile. 2. Parlare con i vostri collaboratori se avete un’azienda che abbia almeno 30-40 dipendenti. Sono persone dotate di cervello e anche se fanno operazioni semplici con le valvole, per esempio, lavorano dalla mattina alla sera con lo stesso prodotto, lo tengono in mano tutti giorni. E probabilmente hanno già delle idee migliorative. Molto spesso però hanno paura di parlare ed esporre le loro idee ai superiori o addirittura al fondatore. O magari temono che la loro idea non sia poi così innovativa. Si fanno ‘riguardi’, e questo sia che le loro idee impattino sul prodotto o sul processo produttivo. Se provate ad esplorare questo terreno, scoprirete che hanno molte più idee loro che un consulente esterno. 3. Studiare il mercato e i competitor. Certe volte basta fare una verifica basica dei numeri per decidere di non avventurarsi in sfide che anche se vinte, non genererebbero numeri interessanti. In generale, bisogna capire poi che tipo di innovazione si vuole portare avanti. Ce ne sono di due tipi. L’innovazione incrementale – quando si va a migliorare un prodotto esistente – e quella disruptive, quella che sconvolge il mercato. Parlando di raccolta differenziata della plastica, i sacchi gialli che
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vengono ritirati nelle abitazioni occupano molto spazio. Conterranno 1 chilo, 1 chilo e mezzo di plastica, non di più. Esempio di innovazione incrementale: i camion normali sono diventati nel tempo camion compattatori, evitando di trasportare aria e consentendo il trasporto di un numero maggiore di sacchi. Esempio di innovazione disruptive: un signore ha inventato un bidone di circa 1 metro cubo con un coperchio, su questo coperchio è appoggiato un piccolo dispositivo molto semplice realizzato con Arduino, e ogni volta che un uccellino porta un tappo, una bottiglia o una lattina, rilascia un seme o un chicco di mais. I merli, si sa, non sono mica stupidi. Ognuno di loro ‘lavora’ gratuitamente per l’ambiente. Questo è un bell’esempio di innovazione disruptive: in pratica, si comprano rifiuti della plastica usando come moneta di scambio il seme. Credo che ognuno di noi abbia molte idee. Anche i sogni sono idee. Non è un periodo in cui le idee scarseggino, mi pare. Ma fra un’idea e il suo successo c’è un mondo: bisogna riuscire a svilupparla. Questo è il mio messaggio: rimbocchiamoci le maniche. Proviamoci. E quando saranno maturi, i frutti arriveranno.
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Tre. Vincere e perdere. Non esiste guadagno senza rischio. Se miro alla vittoria, non posso pretendere garanzie di conseguirla. Posso solo mettercela tutta. L’errore più grande è farsi inibire dal timore di sbagliare e passare la mano.
1. Crescere insieme. 2. Crescere dentro. 3. Vincere e perdere. 4. Raccontare la vita. 5. Agili nell’azione. 6. Responsabili nelle scelte.
"Se molli hai perso in partenza e se, invece, combatti puoi vincere o perdere, ma senza alcun rimpianto per non avercela messa tutta"
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ul vocabolario il primo significato della parola ‘vincere’ è ‘sopraffare qualcuno in qualcosa, superarlo’, mentre nel dizionario dei contrari troviamo ‘perdere, soccombere’. Io non credo però che i due termini siano così opposti. Anzi, spesso vanno a braccetto e si accompagnano per arrivare ad un fine comune. Ovviamente questo vale per un’inguaribile ottimista come sono io. Nella vita ho spesso vinto qualcosa dopo aver prima perso qualcos’altro, ma solo nel momento di una vittoria mi sono resa conto di quanto fosse stata determinante la sconfitta per raggiungere poi il traguardo. Di esempi ne avrei fin troppi, ne riporto solo due, i più significativi per me. Anni fa mi diagnosticarono una leucemia e persi la possibilità di vivere la mia adolescenza ‘normale’: smisi di andare al liceo, di uscire, di vedere gli amici. Ero chiusa in casa perché il mondo normale era troppo pericoloso per me. La paura di perdere la mia ‘vecchia vita’ mi spaventava. Ma poco dopo iniziai a riscoprire il valore del tempo passato con la mia famiglia, il bello di stare da soli con un libro, la bellezza dell’annoiarsi e inventarsi qualcosa da fare. Fu in quel momento che capii che mi era stato regalato il tempo per fermarmi un attimo e rallentare. Naturalmente, una volta vinta la malattia ricominciai la vita frenetica di sempre, ma nessuno potrà mai togliermi quella vittoria e quel periodo di condivisione di tempo e affetto con la mia famiglia, che avrei forse perso se non mi fossi ammalata, passandolo probabilmente a litigare per poter vivere l’adolescenza. Dopo la laurea, decisi di andare a fare un’esperienza come animatrice in Madagascar per cinque mesi. Purtroppo, a parte il luogo incantevole, l’esperienza non fu tutta rose e fiori e dopo tre mesi decisi di ritornare in Italia. Non avendo portato a termine l’incarico, persi la possibilità di ripartire con la stessa agenzia per girare il mondo, che era il mio sogno. Una settimana dopo essere rientrata, feci un colloquio in Richmond Italia e Claudio Honegger decise di scommettere su di me. Così sono entrata nel team e mi sono costruita un lavoro che amo con persone che stimo e a cui voglio bene. Quest’anno Richmond Italia ha perso molti eventi in presenza. In compenso ha guadagnato l’opportunità di sperimentare gli eventi online, che hanno avuto molto successo. In questo 2020 abbiamo tutti perso tanto e forse dobbiamo ancora capire cosa abbiamo vinto. L’importante è lottare, perché se molli hai perso in partenza e se, invece, combatti puoi vincere o perdere, ma senza alcun rimpianto per non avercela messa tutta.
Denise Corbetta Operation & Conference operation manager Richmond Italia
STEFANO SANTORO Sibelco Italia Global Process engineer
“Le storie che preferisco sono quelle in cui si riesce a volgere un ostacolo a nostro favore”
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he bella cosa questa attenzione alle storie da parte di Reach magazine. E che coincidenza, visto che proprio in questo periodo sta per uscire un mio libro di storie dal titolo Buonanotte #abbicuradisplendere, in cui sono raccolte una serie di figure, idee e fatti che ho messo in relazione fra loro per riflettere e per far riflettere gli altri. Io nasco come animatore oratoriano, di stile Salesiano, e catechista, scrivo poesie e amo giocare con le parole. Ho lavorato molto nel mondo della formazione giovanile, cercando di seguire le orme di don Bosco. Sono anche allenatore di calcio. Questo libro mette insieme il mio istinto di coach e il mio desiderio di offrire ai ragazzi spunti che aiutino ad interrogarsi e a rileggere la propria vita in chiave positiva. Sono ragazzi che stanno attraversando la fase difficile dell’adolescenza, spesso con storie pesanti alle spalle, diamanti grezzi che conosco da tempo e con cui interagisco praticamente tutti i giorni. Il libro raccoglie 140 storie: ciascuna di queste è stata inviata su whatsapp, quasi sempre la sera, momento che reputo propizio per sgomberare la mente e cercare di fare un po’ di ordine nella propria vita. L’idea del libro prende spunto da un episodio di cronaca del 1992: durante una tempesta, una nave cargo proveniente da Hong Kong perse tre container con circa 28mila Friendly Floatees, giocatto-
li di plastica come paperelle gialle, rane verdi, castori rossi e tartarughe blu. All’inizio ci si preoccupò dell’inquinamento procurato da questi oggetti e furono anche messe delle taglie su chi trovava le Floatees originali in certi luoghi (oggi possono valere anche 1.000 dollari). Successe però che due oceanografi, esperti di correnti oceaniche, si accorsero che le peregrinazioni negli oceani delle paperelle risultavano utilissime per capire le variazioni delle correnti marine e prevedere così i cambiamenti climatici in atto. La storia mi colpì molto perché i risultati dell’incidente furono assai diversi dalle iniziali sensazioni negative, per non dire esattamente opposti. Le storie che preferisco sono queste, in cui si riesce a volgere un ostacolo a nostro favore. La storie sono un aiuto, un allenamento dello sguardo per vedere negli ostacoli opportunità nascoste. E sono anche un bell’antidoto alla grande solitudine che attraversa la vita moderna. Tante storie ci danno l’esempio, come quella di Ecaterina, una signora di 84 anni residente in uno sperduto villaggio nel Caucaso, che ogni giorno percorre a piedi 40 chilometri per prendere e consegnare la posta nei villaggi vicini, ovviando all’assenza di un postino ufficiale. Da piccola non aveva potuto iscriversi in tempo alla scuola per l’assenza del servizio postale e decise che a nessun altro sarebbe dovuta toccare la stessa sorte. Per lei la posta rappresenta un insieme di informazioni vitali che arri-
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vano a destinazione. È vita, gioie e dolori. O la storia di Sammy Basso, ragazzo affetto da progeria, un male terribile che provoca un invecchiamento precoce. Lui è il paziente di progeria più longevo che la medicina conosca, e dopo la laurea in Biologia molecolare, sta dedicando la sua vita alla ricerca su questa patologia. Durante un’intervista, quando gli chiesero se avesse mai voluto rinascere senza progeria, rispose di no. “Perché senza questo male non sarei così fiero di me, dei miei traguardi, e non avrei vissuto così intensamente. Anni vissuti così valgono molto di più.” Di grande esempio per me fu anche la storia di don Paolo Paolucci, che durante un’estate in un oratorio salesiano a Macerata sfidò i ragazzi (fra loro c’erano tanti borderline, e in gran parte erano fumatori) chiedendo loro di mettere quei soldi che avrebbero usato per comprare le sigarette in una cassa comune, da inviare alle missioni in Africa per installare pale eoliche in grado di fornire energia per pompare acqua dalle falde. A fine estate non solo fu raccolta una somma considerevole, ma molti ragazzi smisero di fumare per sempre, perché videro i soldi che fino a quel momento avevano sperperato trasformarsi in un pozzo d’acqua potabile. Ho così iniziato a raccogliere storie come queste, a rileggere alcuni aspetti della mia vita grazie ad esse e a spedirle ai miei ragazzi. E alla fine, ho pensato di farci anche un libro.
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Subito dopo la laurea in Ingegneria energetica nucleare al Politecnico di Torino sono entrato in Sibelco, una multinazionale belga che si occupa di estrazione e lavorazione di sabbie minerali. La società italiana impiega circa 300 persone e gestisce 15 siti produttivi. Non siamo enormi, e questo è un vantaggio perché si comunica molto bene in un clima informale: durante gli speak up siamo invitati a condividere idee e informazioni con la massima libertà, e con l’AD ci diamo del tu. La criticità ambientale ha da sempre stimolato la consapevolezza di Sibelco riguardo il ruolo che possono giocare le grandi compagnie nello sviluppo sostenibile, sia sul piano paesaggistico, sia su quello sociale. Ad esempio, in un impianto dismesso a Lupara, in Molise, Sibelco riqualificò l’area piantando uliveti. È un provvedimento che in quel periodo (a cavallo tra gli anni ’80 e ’90) non era affatto scontato prevedere, sintomo di una grande attenzione al recupero ambientale dei siti estrattivi. Oggi applichiamo standard di sicurezza e produzione europei anche nei Paesi extra UE, a protezione dei lavoratori, e questo non è poco né scontato. Noi siamo stati dei precursori, ma vedo che su questo fronte in generale le aziende stanno cambiando e si aprono ad un pensiero creativo e innovativo trasformando l’ostacolo in stimolo. Come in un nostro impianto ad Arcos de la Frontera, in Andalusia, dove stiamo affrontando un problema non seguendo una logica esclu-
sivamente di profitto. La temperatura ambientale esterna è elevata e questo comporta un elevato tasso di evaporazione all’interno del bacino idrico contenente l’acqua necessaria al processo. In occasione di una nuova politica di sostenibilità, si sta valutando l’ipotesi di abbandonare il bacino storico e costruirne uno più grande, in cemento: sarebbe la soluzione più economica, in grado di sopperire al tasso di evaporazione semplicemente prelevando l’acqua e chiudendola in un ciclo. Ma in parallelo ad essa, abbiamo preso in considerazione anche altre vie, più creative e sostenibili. Una proposta è quella di installare sulla superficie del bacino una serie di pannelli fotovoltaici flottanti, che oltre a ridurre la superficie esposta al sole contribuirebbero al fabbisogno energetico dell’impianto. In alternativa, grazie a una collaborazione dell’Università di Padova con un’azienda italiana, abbiamo anche esplorato la possibilità di ricoprire il bacino con strutture galleggianti ricoperte di piante floreali, le cui radici possono purificare le acque di processo da varie componenti chimiche traendone nutrimento. Stiamo ancora decidendo cosa fare.
“Dobbiamo cominciare a riflettere sul fatto che come umanità consumiamo un pianeta e mezzo l’anno” Questo tipo di ricerca progettuale è la mia passione: mi ha sempre affascinato il rigore dietro la Creazione,
Sito Sibelco in Maasmechelen, Belgio.
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e quando si vanno ad investigare diverse possibilità partendo da dei vincoli è forte il richiamo all’altro campo in cui avrei voluto approfondire i miei studi, la filosofia. Occorre evitare sprechi egoistici e smetterla di investire pensando esclusivamente a guadagnare sempre di più sfruttando le risorse dei territori più poveri a danno delle popolazioni locali. Fare un passo indietro è difficile, ma d’altra parte dobbiamo cominciare a riflettere sul fatto che come umanità consumiamo un pianeta e mezzo l’anno. Essendone ben consapevoli, ma senza riuscire a rinunciare a nessuno di quei privilegi che ci appaiono scontati.
Sono contenta che gli adolescenti ven gano definiti “diamanti grez zi” e non dati come “persi” pe r sempre Inoltre mi piac e che nonostante il g rande lavoro, si pensi anche ad una svolta che non abbia a che fare completamente con il profitto. Gli ostacoli ch e la vita ci pone davanti va nno usati a nostro vantagg io, come se fossero dei mat toni con i quali costruiam o la strada da percorrere. Giada
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UNA STORIA TIRA L’ALTRA
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Durante l’intervista a Stefano Santoro abbiamo saputo del suo libro in uscita dedicato alle storie, e non abbiamo resistito. Così, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo due storie dal libro Buonanotte #abbicuradisplendere, edito da Primalpe. Sono storie inviate la sera via whatsapp (vi ricordate le Favole al telefono di Gianni Rodari?) a un gruppo di ragazzi che Stefano Santoro segue come animatore, accompagnandoli nella complicata fase dell’adolescenza.
Primalpe
Primalpe
Storia n. 19 Costanza TVB Arrivo oggi da una settimana di campo intensivo a Cesana, in alta val Susa. Campo di formazione per ragazzi sedicenni, che per cinque giorni si sono fermati a riflettere su alcuni dei temi base della vita di ognuno di noi. E mentre stamattina mettevo a posto il mio sacco a pelo, mi è caduto l’occhio su un particolare che fino a quel momento non avevo notato. Sull’anta del comodino accanto al mio letto mi sono reso conto esserci scritto “COSTANZA TVB”. Probabilmente una dichiarazione di amore adolescenziale di chissà quanti anni e campeggi fa, ma in quel momento quella scritta mi è servita per riassumere in due parole la mia esperienza. Come buonanotte, questo (fine) settimana, ci auguro di innamorarci anche noi di Costanza. E soprattutto di capirla, Costanza. Perché richiede impegno, coraggio e sacrificio. Ma riesce a farti crescere come niente altro al mondo. E vi lascio un racconto di don Paolo, il responsabile del campo, perché esempio concreto di quanto appena detto. Qualche
anno fa, quando era seminarista e collaborava con l’oratorio di Macerata, aveva lanciato una sfida ai suoi animatori che fumavano: rinunciare alle sigarette per un’estate intera, donando i soldi risparmiati ad una missione in Nigeria. Alla fine dell’estate tutti gli animatori decisero di smettere di fumare. Per sempre. Avevano visto i soldi che fino ad allora sperperavano trasformarsi in un pozzo d’acqua. E tutto questo proprio grazie all’amore di Costanza. Che non è una ragazza. Perché il trucco alla fine è coprenderla fino in fondo, quella scritta sul mio comodino. “COSTANZA TVB”. Perché quando capisci che è l’essere costanti in un percorso, la chiave di tutto, non puoi non voler bene a ‘sta benedetta costanza. Buonanotte e buona settimana, #abbicuradisplendere
Storia n. 77 Fiorirà l’aspidistra Qualche anno fa, a “Chi vuol essere milionario”, la signora Michela De Paoli da Pavia vinse un milione di euro arrivando alla domanda finale con tutti e tre gli aiuti. La domanda da 150.000 € me la ricordo ancora come l’avessero fatta venti minuti fa: “L’aspidistra è una pianta che può vivere cent’anni, resiste a tutte le intemperie e si adatta ad ogni clima. Chi lo sapeva bene?” La risposta era George Orwell, che scrisse il romanzo “Fiorirà l’aspidistra” dove questa pianta rappresentava quelle radici borghesi da cui il protagonista voleva scappare ma che, alla fine, era stato costretto ad accettare.Oggi pomeriggio la signora Rita, proprietaria della casa vicino alla mia a Vicoforte, stava passeggiando su e giù per le colline da circa quaranta minuti quando l’abbiamo intravista davanti a casa nostra. Stava tornando indietro, salendo, e “in discesa è un po’ più semplice” diceva. La prima nota di questa storia è che quelle salite non sono una passeggiata. Chiunque le ha percorse, sa che la pendenza non è indifferente. La seconda nota, invece, è che la signora Rita è nata nel 1918. Esatto. Rita ha 100 anni. E va come un treno, accompagnata dalla nuora che su quelle colline cammina al suo fianco senza nemmeno stupirsi.
Oltre ad attirare l’invidia (bonaria) di mia nonna, Rita mi ha ricordato una cosa importantissima: l’importanza dell’essere amati. Perché se le chiedi come fa, questa aspidistra vivente, a vivere come vive a 100 anni, lei ti risponde che è l’amore della famiglia a mandarla avanti. Perché una vita ha senso solo quando è amata. Se ci pensiamo un attimo, è proprio quando non ci sentiamo amati da nessuno che la nostra vita sembra non avere un senso. Come buonanotte, questa settimana, vorrei augurarci di accorgerci del bene che le persone intorno a noi cercano di riversarci addosso, anche e soprattutto quando non ce lo meritiamo o non ce ne sentiamo all’altezza. La regola d’oro dice di “amare gli altri come sé stessi”, ma.. al giorno d’oggi è difficilissimo, amare sé stessi. Potremmo provare ad amare noi stessi come proviamo ad amare gli altri forse, o meglio ancora come gli altri provano ad amare noi! Perché così capiremmo di essere amati. Perché tante volte lo siamo senza saperlo. Ed avremmo un senso, sempre più un senso. Fiorirà l’aspidistra. E sarà bellissima. Buonanotte e buona settimana, #abbicuradisplendere 65
LAURA GIORGETTI Zini Prodotti Alimentari Sales Director
“Nella vita bisogna credere nelle proprie capacità e puntare in alto”
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ono cresciuta avendo mio padre come figura di riferimento. Lui era una persona di successo e molto impegnata dal punto di vista lavorativo, ed io non volevo essere da meno. Ho sempre avuto le idee chiare riguardo la mia vita: volevo vivere da protagonista. Sognavo per me stessa una carriera di successo, ma forse il percorso che stavo seguendo non era quello giusto per me. Un episodio in particolare mi fece aprire gli occhi e capire che mi stavo muovendo nella direzione sbagliata.
“Ho sempre avuto le idee chiare riguardo la mia vita: volevo vivere da protagonista” Ma facciamo un passo indietro. Ho iniziato a lavorare quando avevo circa vent’anni. La mia prima esperienza imprenditoriale fu una start-up nell’ambito della ristorazione: ispirandomi al modello del café aperto 24 ore su 24, volevo creare un franchising partendo da zero. Per chi lavora nella ristorazione oggi è abbastanza comune avviare un’attività e svilupparla perché diventi un modello replicabile. Ma all’epoca si trattava di un’idea visionaria e mancavano i mezzi per realizzarla. Quest’avventura durò tre anni. L’attività funzionava bene, ma un giorno mi resi conto che questo
desiderio di business apparteneva più a mio padre che a me. Realizzai che il mondo notturno non faceva per me e che il tempo e l’impegno profusi per mandare avanti questo tipo di attività erano maggiori di quanto potessi dedicare al mio benessere. Perciò “raddrizzai il tiro” e al termine dei tre anni vendetti l’attività (locale compreso) per iniziare a lavorare nel commerciale, dove avevo trovato la mia comfort zone. Nonostante avessi trovato la mia strada dal punto di vista professionale, le prime esperienze lavorative non furono molto motivanti. Nel primo caso non amavo la mansione, dedicata alla vendita di servizi (mi appassionavano di più i prodotti); mentre nel secondo caso non vi era nessuna prospettiva di crescita.
“Mi sento una privilegiata: faccio il lavoro che ho sempre desiderato fare” Poi ci fu l’episodio della svolta. Una svolta data alla mia carriera, ma che ebbe origine da un tradimento personale: un’amicizia di lunga data finita in modo inaspettato. In realtà all’inizio non ero totalmente consapevole di ciò che avrebbe rappresentato per me quell’evento, ma quando alla fine ne realizzai la portata, il contraccolpo fu così forte da lasciarmi sveglia tutta notte a guardare il
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soffitto, mi sentii svuotata. Tuttavia, proprio in quel momento decisi quale direzione dare alla mia vita. Mi ritrovai davanti due strade: potevo lasciarmi abbattere e perdere tutte le speranze, oppure potevo rimettermi in gioco con più grinta di prima. Fortunatamente, optai per la seconda opzione. Quella notte, quindici anni fa, dovetti ricostruire tutto il mio percorso. Non fu facile, perché il cambiamento fu radicale: decisi di cambiare lavoro e di tornare a casa dai miei genitori. Penso non si debba vivere il cambiamento come un dramma, bensì come un’opportunità di crescita, seppur accompagnata da una buona dose di rischio. Per trovare la propria strada bisogna essere disposti a rischiare e ci vogliono costanza e perseveranza, altrimenti non si ottiene nulla. Mi immagino la vita - ed anche il mondo del lavoro - come un binario sul quale passano molti treni. Ma per capire quale sia il treno giusto bisogna avere ben chiare la mission e la strategia, proprio come quando si gestisce un’impresa. Fu quando iniziai a focalizzarmi sull’obiettivo, che iniziò anche la mia carriera. Prima mi occupai di back office, poi fui responsabile vendite per un'impresa che commercializzava prodotti chimici e, finita questa esperienza, mi trasferii in un’azienda francese prima di arrivare in Zini, dove trovai la mia realizzazione professionale, riuscendo a ritagliarmi il mio spazio
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in azienda e guadagnando la stima dei miei colleghi. Nonostante lavori qui ormai da sei anni, e abbia ritrovato la mia comfort zone, sono motivata come il primo giorno. Il che è fondamentale, perché la motivazione fa il 75% del lavoro, il resto lo fanno metodo e costanza. Adesso posso dire di sentirmi una privilegiata: faccio il lavoro che ho sempre desiderato fare.
“Ho imparato ad accettare i miei errori di valutazione, sia sul lavoro che nella vita privata”
vita: non è più quello di dieci anni fa, quando ero portata a credere di essere immortale e immune ai pericoli. Ho anche imparato ad accettare i miei errori di valutazione. Forse questo è uno degli insegnamenti più grandi che mi sono portata a casa dopo quel tradimento.
Con la giusta dose di grinta e Ho imparato a “leggere” meglio le leggerezza , si impara ad persone e a non fidarmi del primo appr ezzare il cambiamen to: che passa. Resto una persona molpo ss ia m o blo cc ar ci to ottimista, ma ho capito che a e spaventarci, volte si crede in qualcuno solo per- oppure farci ispirare e mot ivare. ché lo si pone al centro della pro-
Oggi ho 45 anni e mi sento una persona matura e realizzata. Ho cambiato il mio approccio alla
pria vita, anche se questo “qualcuno” non è poi così affidabile. Ho capito anche che non mi serve essere amica di “tutto il mondo” per essere felice, ma bastano poche persone fidate con cui condividere le esperienze migliori.
Un piatto preparato con i prodotti freschi Zini Alimentari
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Natalia
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SALVATORE SINIGAGLIA Blowhammer CEO
“Io e mio fratello: operai del nostro brand”
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utto è cominciato con un’università mai iniziata. Passo il test di ammissione alla facoltà di design e comunicazione, che è l’unica università che avrei mai voluto fare, e comincio a seguire le lezioni. Al secondo giorno però scopro che, per via di uno sciocco errore, non ho presentato la domanda d’iscrizione nei termini previsti e che dovrò aspettare un anno per poterla ripresentare. Mi crolla il mondo addosso. Incomincio a fare lavori occasionali: operatore di call center, vendite, porta a porta e poi, grafico. Sono felicissimo, visto che disegnare è la mia passione e ora mi pagano per farlo. Inizia così la mia esperienza presso un’azienda di stamperia tessile e a diciannove anni mi trovo ad aver a che fare con grandi stilisti e imprenditori, che però non sanno cosa sia una pagina Facebook. Mentre lavoro continuo a studiare, mi iscrivo ad un corso di pubblicità, copywriting e art direction. Passa un anno e con alcuni amici decidiamo di lanciare un brand tutto nostro. Vogliamo realizzare delle t-shirt, non ci interessano la forma o il taglio, perché saranno le grafiche il nostro vero valore aggiunto, il nostro prodotto. In venti giorni, coinvolgendo amici, fidanzate degli amici, fratelli, sorelle e lavorando 22 ore al giorno, siamo online con un investimento di trecento euro. Il nostro primo giorno di vendita ce ne fa fruttare 350. Non ci curiamo degli
aspetti legali e burocratici, quelli verranno dopo. Per noi di fatto c’è solo il prodotto, nient’altro e così partiamo. Dopo due mesi, gli amici lasciano il progetto e io mi ritrovo da solo a portare avanti tutto senza mai mettere in pausa. Dopo un mese esatto in realtà entra un’amica e stilista a supportarmi, dedicandosi a Blowhammer insieme a me per i successivi 4 mesi, fino a quando anche lei lascia e decide di dedicarsi ad un suo progetto personale. Il mese successivo costituisco la società con mio fratello. Per i primi due anni lavoriamo come matti, dormendo anche due sole ore a notte, occupandoci di tutto. Facciamo gli operai per il nostro brand.
“Non abbiamo orari e fortunatamente la nostra famiglia ci supporta: se crediamo in quello che stiamo facendo, dobbiamo semplicemente farlo!” Coordinando la parte grafica e di produzione nella stamperia, ho acquisito conoscenze nel settore che ci consentono di prendere in gestione da una fabbrica un macchinario, e a fine turno iniziamo a stampare le nostre t-shirt fino alle nove o dieci di sera. Arrivati a casa, le pieghiamo, le confezioniamo e per tutta la notte prepariamo le spedizioni compilando a mano i
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bollettini con i nominativi e gli indirizzi dei clienti. È il 2013-2015 e in questo periodo non intaschiamo un soldo, tutto quello che guadagniamo lo reinvestiamo nell’attività. Io vivo grazie al mio lavoro di grafico e tutti i miei risparmi finiscono nel brand. Le vendite cominciano a crescere e si aggiunge il primo membro al team, ancora oggi uno dei nostri pilastri; lui era entrato nel progetto per dedicarsi agli aspetti finanziari, ma da subito si ritrova anche lui catapultato nelle nostre quotidiane attività di produzione, confezione, logistica e gestione clienti. Volevamo risparmiare per creare la nostra azienda di produzione, ma all’epoca i fondi non erano abbastanza per un capannone e le nostre camere di casa ormai troppe piccole per il business che continuava a crescere. Così troviamo un appartamento al primo piano in un piccolo paese che risulta essere la soluzione più valida ed economicamente più sostenibile, sarà il nostro primo ufficio. Le giornate lavorative erano di 20 ore, ma non bastavano per le nostre esigenze. La determinazione e la volontà di crescere sempre di più ci hanno permesso di superare ogni ostacolo. Noi siamo la dimostrazione che i progetti si possono avviare anche con pochi soldi, ma c’è da lavorare tanto, sudare, sacrificarsi e scendere a compromessi. Vedo tanti ragazzi che ancora oggi chiedono supporto perché hanno voglia di fare
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gli imprenditori, ma hanno troppa poca voglia di sporcarsi le mani. Mi ricordo quando siamo andati alla ricerca del primo laboratorio per tagliare e cucire le prime t-shirt, non avevamo né un numero di telefono, né altri riferimenti, ma solo il nome di un paese “famoso” per quel tipo di manifattura; passammo la giornata andando porta a porta a chiedere la cortesia di indicarci qualcuno che potesse aiutarci, fino al momento in cui l’abbiamo trovato. Una volta abbiamo assediato la sede principale di un corriere perché non ci rispondevano al telefono e alle mail, volevamo un contratto come le “grandi aziende”. Lo abbiamo ottenuto. Un altro esempio di grande volontà è quando abbiamo comprato la prima scorta di tessuto: 60 rotoli trasportati uno ad uno, che hanno riempito un’intera stanza dal pavimento fino al soffitto. Potrei raccontarne altri mille di questi aneddoti che ci hanno portato a costruire da zero il nostro progetto. Ovviamente avere un capitale iniziale è utile, ma nel nostro caso non saremmo stati in grado di gestirlo e non saremmo diventati quello che siamo.
“Mi sono fidato, ho chiesto consigli a chi aveva più esperienza di me e, soprattutto, mi sono sempre messo in discussione” La squadra non si è formata con annunci di lavoro e assumendo i primi dipendenti, ma raccontando la storia ad amici che hanno scelto di aggiungersi come membri della squadra, sposando un’idea di progetto e sacrificandosi per realizzarlo insieme a noi: non avevamo orari e la paga era pari ad un rimborso spese. Al mattino passavo a prendere tutti, li caricavo in macchina come fosse il bus della scuola e andavamo al lavoro senza sapere quando saremmo rientrati. Chiunque entra in contatto con noi, e fa parte del team, sposa il progetto: stessi orari e paga bassissima. Io e mio fratello gestiamo il tutto, ma io sono un accentratore, non
riesco a delegare neanche a lui. Un amico mi ha fatto notare che se non si impara a delegare (talvolta anche a discapito dell’efficienza), non si farà mai quel salto dimensionale che porta a risultati concreti. Aveva ragione. Ed è anche grazie a lui che siamo arrivati fin qui oggi. Mi sono fidato, ho chiesto consigli a chi ha aveva più esperienza di me e, soprattutto, mi sono sempre messo in discussione.
“Forbes Magazine Italia mi ha inserito tra i 100 Number One, l’Italia dei giovani leader del futuro, nella categoria Marketing & Advertising” In questo momento in Blowhammer siamo in meno di dieci persone ad occuparci della parte digital e circa quindici della parte produttiva, più qualche collaboratore esterno. Facciamo tutto internamente, perché ci teniamo e ci crediamo. Tutto quello che potevamo sbagliare l’abbiamo sbagliato. Ne abbiamo passate davvero tante, ma quello che ci ha sempre fatto ripartire sono le persone. Dopo una giornata pesante, un cliente che ti ringraziava era un grande traguardo. Non l’abbiamo mai fatto per soldi e per tantissimo tempo abbiamo lavorato senza guadagnare nulla, ma eravamo spinti dalla passione. Ancora oggi lavoriamo tanto, ma ci divertiamo e guadagniamo il giusto. Durante la scorsa primavera, nel pieno della pandemia, abbiamo rimodulato le nostre attività e prodotto anche le mascherine. A metà marzo le abbiamo messe in commercio e abbiamo dovuto gestire la nostra prima crisi social in sette anni di attività, perché abbiamo ricevuto critiche forti anche da parte di nostri clienti abituali che ci accusavano di voler lucrare da una situazione di emergenza. Le nostre vendite erano effettivamente in calo, abbiamo visto che c’era un bisogno da soddisfare e volevamo fare qualcosa di utile:
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creare una mascherina con stampato un sorriso e darla agli ospedali. Abbiamo spiegato le nostre intenzioni, i nostri clienti ci hanno compreso e abbiamo ottenuto risultati di vendita importanti. Ci siamo reinventati e da una crisi abbiamo ottenuto un super successo. Sono tante le persone che ci hanno ispirato e aiutato in questi anni. Amici, adulti che ci vedevano giovanissimi e inesperti e ci hanno offerto il loro sapere. Anche per questo crediamo nel valore della condivisione della conoscenza. Nel corso del tempo abbiamo anche ricevuto diversi riconoscimenti, dal Sole 24Ore al Mattino. Poi c’è stato Forbes, che mi ha premiato come imprenditore under 30 (n.d.r Forbes Magazine Italia ha inserito Salvatore Sinigaglia tra i “100 Number One, l’Italia dei giovani leader del futuro” nella categoria Marketing & Advertising) e ha inserito Blowhammer tra le “Impact 50: le PMI più impattate dai primi 10 anni di Facebook in Italia”.
Credo che la filoso fia di Salvatore sia molto vicina a quella di noi B.Live r, quando dice “chiunque en tra in contatto con noi spos a il progetto”. Anche noi B.Liver siamo così e come dice Salvatore “ne abbiamo passate davvero ta nte, ma quello che ci ha sempre fatto ripartire sono le persone”, cr edo che l’ aiuto delle person e sia una cosa fondamentale nella vita e come hanno aiutato me ad andare avanti hann o aiutato lui a portare avanti un progetto a cui tiene e in cui crede, esattamente come noi. Denise
Industry 4.0 è la risposta che le imprese piÚ avanzate stanno elaborando per reggere a una pressione costante su costi, innovazione e sostenibilità senza rinunciare alla crescita. Oggi nasce Richmond Future Factory forum, un luogo dove potrete diventare parte attiva di una nuova e avvincente fase del sistema industriale italiano: creare un ecosistema intelligente fatto di Internet delle cose, connettività , trasformazione digitale e automazione che vi mette nelle condizioni di fare quello a cui siete chiamati: prendere buone decisioni nei processi produttivi e della logistica.
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Opening Speaker
Germano Lanzoni
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ermanoLanzoni,formatore, comico e webstar irriverente, ha aperto la venticinquesima edizione di Richmond Marketing forum, che quest’anno si svolge insieme alla decima edizione di Richmond Digital communication forum. Germano è di casa ai Richmond forum, e certifica con la sua amicizia l’anima profondamente meneghina di Richmond Italia. Nel corso di una chiacchierata distesa e aperta alle domande di Claudio Honegger e di alcuni partecipanti collegati on-line, Germano parte dalla definizione del comico come comunicatore contemporaneo che sa mettersi al servizio del brand. Guardando indietro alla storia, il
comico si ricollega alla tradizione del giullare di corte e del bardo, abilitati a parlare al popolo in concorrenza con l’altra grande famiglia di comunicatori, i preti. Alla base del lavoro del comico, c’è la consapevolezza dell’azione comica. Germano evoca i suoi grandi maestri milanesi – che campeggiano nelle gigantografie della libreria Feltrinelli alla stazione Centrale di Milano, salutando chi arriva – Dario Fo, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Dei tre, Jannacci è il più “human”, secondo Germano, quello capace di ascoltare e raccontare le storie degli ultimi. Ma la consapevolezza non basta, ci deve essere anche l’urgenza, il bisogno di comunicare. Quali sono le peculiarità del registro comico
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nella palette della comunicazione? Germano cita un grande standupper americano, George Carli: “La comicità abbassa le difese”. Lo percepiamo quando il pubblico si scioglie in una risata. Ed è in questo esatto istante che si crea uno spazio di opportunità per chi ha qualcosa da comunicare. Germano sostiene che dopo questo istante il pubblico è più aperto a ricevere un’informazione di valore. Questo anche perché tempo e attenzione del pubblico sono una risorsa preziosa e questa benevolenza va conquistata in tempo reale sotto i fatidici 8 secondi. Altrimenti i contenuti vengono “scrollati” e tu vieni bypassato. Scrollare è il nemico. L’ironia deve essere consapevole e leggera. Lo sa bene Germano, che con la sua HBS, Human Business
“Il marketing e la comunicazione nell era dell evoluzione” Entertainment, ha lanciato character come il Milanese Imbruttito e format come le interviste di Pausa Pranzo, rivolte al segmento business, che “in leggerezza” in sole due stagioni hanno raggiunto 1,5 milioni di visualizzazioni, 20mila follower su LinkedIn e 130mila su Instagram. Era Molière che sosteneva che “Una cosa che esce dalla bocca di un filosofo gli fa perdere la testa, dalla bocca di un comico invece porta allegria.” Ma il segreto di Pausa Pranzo è proprio qui: quello di dialogare con le persone, prima che con i ruoli aziendali. Ruolo oggi significa persona, anzi, azienda oggi significa persona. Nell’arco di una lunga gavetta al servizio dei brand, Germano ha trovato il punto di equilibrio fra dinamica comica e rischio di perdita dell’empatia. Come orientare l’ironia in funzione di un obiettivo? Viene in aiuto il filosofo Henri Bergson, che nel 1901 scrisse l’insuperato Homo ridens. Bergson stabilisce i quattro ingredienti di base dell’umorismo. 1. Community (avere un linguaggio comune con il pubblico). 2. Vittima (ridere di uno che cade, per esempio). 3. Astrazione di sensibilità (astrarsi dalla situazione e dal dolore). 4. Esercizio di intelligenza. Per quanto riguarda la vittima, il punto cruciale è la distinzione fra “ridere di” che è ostile e crudele, e “ridere con”, in cui la vittima stessa è invitata all’autoironia. In questo secondo registro, ridere irradia. Perché anche la vittima si sente dentro il gioco, e irradia sorriso, e per l’effetto specchio tutti noi sorridiamo senza che nessuno se ne abbia a male. L’ironia è dunque una chiave di accesso alle relazioni umane. Per esempio, nella gestione delle risorse umane. Pensiamo all’importanza del “ridere con” dentro un team di lavoro, e quale aiuto possa essere per chi deve coordinarlo. Tutti i problemi nascono dal fat-
to che l’ironia è soggettiva (vedi punto 1 di Bergson), e per questo deve stare attenta a non escludere. Come tende a fare la nuova leva di standupper under 30 legati a uno stile aggressivo e provocatorio, con una comicità d’urto ma di nicchia, che fa fatica a uscire dalla propria bolla. Quanto sia importante la soggettività del pubblico nel recepire la comicità, Germano l’ha fatto capire raccontando un aneddoto tratto dalla sua carriera artistica. Ha ricordato di un locale a Milano in cui nella prima parte della serata due comici si esibivano al pian terreno e due al primo piano, mentre nella seconda si scambiavano di posto. C’erano serate in cui il pubblico di Germano del pian terreno rideva senza controllo dall’inizio alla fine. Standing ovation. Mentre quello del primo piano non capiva nemmeno una battuta. Gelo assoluto. Inclusione vuol dire empatia, vuol dire mettere l’altro a proprio agio e trovare il punto di contatto, l’ingaggio, che passa sempre attraverso l’identificazione. Germano ha fatto due esempi pratici di inclusione ed esclusione. Il progetto Viva la Vulva come benchmark di comicità inclusiva (bit.ly/3glfknL). E lo spot del Trentino come esempio di comicità esclusiva, rivelatasi poi un clamoroso autogol, (bit.ly/3mOW2cN). Il Milanese imbruttito è il risultato di un processo di identificazione territoriale. L’identificazione classica è nel condividere problemi, situazioni di criticità. Nei progetti con i brand, Germano racconta le criticità risolte, la cui soluzione è il prodotto. Il valore aggiunto dell’elemento comico in questi casi è far fluire il più possibile il fattore “human”. Il suo motto è “Vedere la risata là dove gli altri vedono problemi.” Ma per arrivarci, occorre essere certi di essere in sintonia
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con il pubblico, per questo nel suo team ci sono autori donne, che compensano il suo lato maschile, ed è un team intergenerazionale. In conclusione, Germano ha fatto questa raccomandazione ai direttori marketing che decidono di coinvolgere un artista comico in un progetto: “Non comprate mai a scatola chiusa. Dovete capire se il discorso fa al caso vostro. Andate a vedere gli artisti dal vivo, o comunque studiateli prima.” Interessante la risposta che Germano ha dato a una domanda dal pubblico. “La simpatia è innata. Ma se non fai ridere, devi fare il simpatico per forza? Non è controproducente?”. Ecco la risposta di Germano. “L’ironia relazionale si può coltivare con l’autoironia, ridere “con” se stessi non “di” se stessi. Ridere con noi stessi ci permette di capire la distanza fra reale e ideale. Se ci focalizziamo solo sulla dimensione ideale, viviamo nell’ansia. Se invece riusciamo anche a considerare il reale, allora la distanza che li separa riusciamo a leggerla con ironia. E così impariamo a ridere anche da soli. Accettare il proprio limite porta al sorriso. E sviluppare l’ironia porta ad accettare gli altri, perché io e gli altri siamo sullo stesso piano. L’errore che può costare il posto – non importa se l’ho fatto io o l’hanno fatto gli altri – diventa un errore che si può risolvere. Altro elemento fondamentale è l’esercizio. Noi comici siamo in perenne osservazione. Monitoriamo costantemente ciò che succede fuori di noi e dentro di noi. Siamo dei formidabili osservatori. Non è solo talento.”
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Uno. Crescere insieme. Il business si realizza per definizione nell’incontro con gli altri. E questo incontro è ricco, complesso, in continua ridefinizione. Una sola legge è immutabile: se cresco io, cresce anche il mio partner.
1. Crescere insieme. 2. Crescere dentro. 3. Vincere e perdere. 4. Raccontare la vita. 5. Agili nell’azione. 6. Responsabili nelle scelte.
"Siamo una ‘famiglia’ in cui ognuno, con le proprie qualità e i propri spigoli, contribuisce a rendere la squadra produttiva, efficiente e, diciamolo, anche un po’ speciale"
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enso che ‘crescere insieme’ possa essere considerato un sinonimo di collaborazione, lavoro di squadra e capacità di mettersi a disposizione del gruppo. Personalmente ritengo che nessuno, né in termini personali né in termini professionali, possa crescere e migliorarsi senza confrontarsi con gli altri e la collaborazione è sicuramente uno dei punti di forza della nostra azienda e del nostro modo di fare business.
Ho sempre considerato Richmond Italia come una ‘famiglia’ in cui ognuno, con le proprie qualità e i propri spigoli, possa contribuire a rendere la squadra produttiva, efficiente e, diciamolo, anche un po’ speciale. Lavoro in questa azienda da quasi 7 anni e posso dire di averla vista crescere, non solo in termini di fatturato, ma anche come numero di persone. Credo che questo sviluppo sia frutto non solo della volontà di tutti di collaborare all’interno del team, ma anche delle continue opportunità di confronto con i partecipanti agli eventi. Il momento storico che stiamo attraversando non è sicuramente uno dei più facili per un’azienda che organizza eventi e, in particolar modo, che fonda il suo core business sull’importanza delle relazioni interpersonali e del networking. Nonostante questo fin dall’inizio della pandemia ci siamo rimboccati le maniche alla ricerca di una soluzione che aiutasse l’azienda a superare i momenti più critici. Lavorando insieme siamo riusciti a superare le difficoltà e ad aprire nuove opportunità e opzioni che prima non avevamo considerato. In questo contesto è stato per noi fondamentale il supporto dei clienti storici e la fiducia delle aziende che hanno scelto proprio il 2020 per partecipare per la prima volta. Lo scambio di idee con clienti e partecipanti è da sempre un punto cruciale del nostro lavoro e sono loro, in primis, che ci spingono a migliorare. La strada sicuramente è ancora lunga, ma il lavoro di squadra ci ha aperto nuove prospettive e sono certa che questa sia la direzione giusta per continuare a crescere tutti insieme.
Giulia La Rotonda Operation manager Richmond Italia
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ALBERTO BASILI Gruppo Loccioni CFO
“Qualità della vita e relazioni personali vincono su tutto”
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occioni è un’impresa familiare nata più di cinquant’anni fa nell' entroterra marchigiano, in provincia di Ancona. Ci occupiamo di realizzare sistemi di misura e controllo per migliorare qualità, sicurezza e sostenibilità di processi e prodotti in vari settori (automobilistico, elettrodomestico, farmaceutico e molto ancora). I nostri clienti, grandi gruppi internazionali, sono player numeri uno nei loro specifici mercati. Questo ci ha portato ad aprire sedi in America, in Cina, in Giappone, in Germania, in India e altre ne stiamo aprendo. Il respiro internazionale, la cultura manageriale e l’innovazione sono i tratti distintivi del nostro business.
“Mentre vivevo la situazione più critica della mia vita, in ufficio si è concretizzato l’aspetto umano” Il concetto di impresa familiare è ciò che più apprezzo del luogo in cui lavoro da diciotto anni, dove sono cresciuto professionalmente e come persona. Qui ho instaurato dei rapporti interpersonali a tutto tondo e senza barriere, dal fondatore Enrico Loccioni all’ultimo ragazzo assunto. La spontaneità di una relazione che va oltre il lavoro e la dimensione professionale in senso stretto, è un valore che fa la differenza. Tutte le volte che la vita
mi ha messo davanti a degli "inciampi", la famiglia Loccioni mi è venuta incontro concretamente, andando oltre gli aspetti di performance e di target. Ne ebbi la dimostrazione ancora una volta quando scoprii che mio figlio, ancora molto piccolo, aveva bisogno di un supporto extra da parte di noi genitori. Oggi fortunatamente è tutto sotto controllo, ma all’epoca mi cadde il mondo addosso e sentì l’esigenza di avere maggiore flessibilità al lavoro per poter gestire la situazione. La disponibilità dell’impresa in questo fu totale. Ricordo che durante un momento di confronto con la signora Loccioni mi capitò di raccontarle della mia problematica. Lei non mi fece neanche finire di parlare e mi disse: “Me lo spiegherai quando sarai più sereno e tranquillo a riguardo. Sappi che puoi prenderti tutto il tempo di cui hai bisogno. Le formalità in questi casi non esistono, ci organizziamo”. Così, mentre vivevo la situazione più critica della mia vita, l’aspetto umano in ufficio si concretizzò nella sua massima rappresentazione.
“Passiamo così tanto tempo al lavoro, che nulla può valere di più di un ambiente in cui ti senti apprezzato, coinvolto e valutato per i tuoi meriti”
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Quindi, l’impresa è familiare non solo perché le quote societarie appartengono ai membri della famiglia Loccioni, in primis al fondatore Enrico e alla moglie, ma soprattutto perché le relazioni personali vengono prima ancora di quelle professionali. Questo talvolta può provocare una certa complessità organizzativa. Tuttavia, mettendo sul piatto della bilancia i plus e i minus, non c’è dubbio che i vantaggi siano maggiori e che la qualità della vita sia più alta. Passiamo così tanto tempo al lavoro, che nulla può valere di più di un ambiente in cui ti senti apprezzato, coinvolto e valutato per i tuoi meriti.
“Il mio inciampo mi ha reso più consapevole e mi ha aiutato a riconoscere e gestire le vere priorità, anche a livello lavorativo” Gli “inciampi” della vita, poi, sono quegli elementi che ti danno una consapevolezza diversa e ti aiutano a riconoscere e gestire le vere priorità, anche a livello lavorativo. Questo sguardo consapevole mi aiuta a prendere in considerazione gli accadimenti della quotidianità con una certa distanza e con serenità d’animo. Mi permette di minimizzare alcune situazioni, che se esasperate, possono portare a contrasti disfunzionali alle dinamiche di team. Grazie anche a questa sensibilità, sviluppata mio malgrado a
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latere dal lavoro, coordino ormai da dieci anni un team di venti persone in giro per il mondo.
“Per me la qualità dei rapporti personali, prevale su tutti gli altri aspetti in ambito lavorativo” È pazzesco se ripenso al percorso fatto fin qui. Appena laureato avevo diverse opzioni di impiego. Ho studiato Economia e Commercio ad Ancona, alla Politecnica delle Marche. Allora c’erano percorsi molto più vicini al mio background di studio in ambito bancario, finanziario e assicurativo, con opportunità inizialmente più allettanti dal punto di vista economico e professionale. Ma qualcosa mi ha portato in questa impresa e mi ha spinto a sceglierla. Qui ho trovato molto di
più di quanto avessi mai sperato. Per me la qualità dei rapporti personali è fondamentale in ambito lavorativo. E parlando con vari colleghi mi fa piacere scoprire che non è così raro trovare altre realtà che fanno dell’attenzione alle persone una priorità. Non è semplice, né scontato, quando le dimensioni d’impresa diventano importanti (noi gestiamo 500 collaboratori e fatturiamo 120 milioni), ma di sicuro è motivo di vanto. In diciott’anni la mia posizione è diventata sempre più globale e ne sono immensamente grato. Sono entrato in impresa come controller e poi col tempo si sono aggiunti anche la finanza, l’amministrazione e l’accounting. Se dovessi darmi un job title oggi sarebbe quello di CFO. Uso il condizionale, perché in realtà nessuno di noi in Loccioni ha un job title scritto sul proprio biglietto da visita. Non è quello che ci definisce.
La famiglia Loccioni.
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Mi piace perché attraverso esempi co ncreti evidenzia l’ importan za dei rapporti umani, spesso sottovalutati. Elia
MASSIMILIANO BARTOLOZZI Lucart Chief Information officer
“Devi trovare qualcosa in cui sei bravo. E poi devi crederci”
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i sono diplomato come operaio meccanico e oggi sono CIO in un multinazionale, direi che è un bel pezzo di strada. La mia storia è questa. Da bambino ero la classica preda dei bulli: non avevo capacità di reagire, avevo pochi amici e avevo paura di tante cose. E così è successo che sono stato bullizzato davvero. Non mi andava di confidarmi a casa, con i miei genitori. Ma un bel giorno presi coraggio e mi confidai con mio zio, il fratello di mio padre. Ma prima di dirvi come è andata, devo raccontarvi chi era mio zio Rodolfo. Era un vero personaggio. All’età di 8 anni perse un occhio mentre giocava con un ordigno che gli esplose in faccia. Restò orribilmente sfigurato per sempre. Questo non gli impedì affatto di avere una vita normale. Ebbe ragazze e mise su una splendida famiglia, con una bella moglie e le figlie da lui adorate. Lavorò come dirigente in aziende come Spitfire e Fruit of the Loom. Era gentile, ma deciso, aveva un’enorme carica empatica e suscitava fiducia nelle persone. Era talmente forte il suo carisma che quando parlavi con lui non ricordavi nemmeno più che faccia avesse. Io mi domandavo: “Ma come fa, lui che avrebbe tutte le ragioni per essere depresso, a essere sempre così positivo”. E poi mi dicevo: se ce l’ha fatta lui, posso farcela anch’io. Quel giorno andai da lui e gli rac-
contai le mie difficoltà, a partire dal fatto di essere bullizzato. La sua risposta fu chiara e sintetica. “Devi trovare qualcosa in cui sei bravo. E poi devi crederci. La mattina, quando ti alzi, ti devi guardare allo specchio e dirti: tu sei il migliore, tu se il migliore, tu sei il migliore.” Avevo quattordici anni, e dopo quel giorno posso dire che la mia vita è cambiata, interrompendo la sequenza negativa. Qualche tempo dopo, infilai un dito nell’occhio del bullo, e le persecuzioni cessarono. Poco dopo ebbi la mia prima ragazza, a 15 anni, e scoprii il gioco della pallamano. Ero sorprendentemente bravo come terzino destro e per questo iniziai a essere più popolare a scuola. Ho giocato seriamente dai 14 ai 32 anni, arrivando a giocare in serie A2.
“La mattina, quando ti alzi, ti devi guardare allo specchio e dirti: tu sei il migliore, tu se il migliore, tu sei il migliore” E poi ci fu l’incontro con l’informatica, a 17 anni. Era il 1987 e io facevo il meccanico di motori marini. Mio zio nel frattempo aveva aperto un’azienda per conto suo che si occupava di software per ambiente IBM. Un giorno mi chiamò e mi mostrò un computer. Venne fuori che il computer sapeva tutto di me, come mi chiamavo e che moto
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guidavo. Questa cosa mi colpì molto. È lì che è scattata la scintilla del mio amore per i computer. Allora non esistevano ancora scuole di informatica, perciò per imparare cominciai ad andare gratis nell’azienda di mio zio. Mi entrava tutto in testa con estrema facilità, come se leggessi Topolino. Acquisii il linguaggio di programmazione RPG con una facilità stupefacente, mi sembrava quasi di conoscerlo già. In meno di tre mesi imparai a programmare, e l’azienda mi assunse. Da lì è iniziata la mia carriera da informatico. La seconda persona a cambiarmi la vita fu Scott Carcillo, che nel 2005 venne incluso da Computer World fra i primi CIO degli Stati Uniti. Ecco come è andata. Quando la software house di mio zio venne liquidata, fui assunto da uno dei clienti; poi, nel 2001, il passo fondamentale della mia carriera. Vinsi la selezione per IT manager in Sun Chemical, una multinazionale leader mondiale nella produzione di pigmenti e inchiostri da stampa. Ad un certo punto, in occasione di una fusione, mi chiamarono a Milano e mi chiesero di unificare l’ERP in 8 mesi. Utilizzando uno dei sistemi già presenti nel gruppo, creai un’unica piattaforma informativa per tutte le 7 aziende che lo componevano, e il primo giorno del 2002 il gruppo vendeva, produceva, spediva e fatturava con il nuovo sistema. Questa implementazione rapida ed efficace arrivò alle orecchie del neo-assunto Scott Carcillo, che mi
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volle conoscere. Dopo 5 minuti si comportava come il mio migliore amico. Anche lui aveva un carisma fuori dal normale. Riusciva ad essere amico di tutti e, pur essendo un ragazzo di bellezza “normale”, si faceva sempre dare il telefono delle hostess durante i voli. Un giorno mi convoca e mi chiede a bruciapelo: “Ma se tu potessi chiedere qualcosa alla tua professione, che cosa vorresti? Non avere paura di sparare alto.” Io risposi che avrei voluto andare a lavorare negli Stati Uniti e implementare l’EPR in una multinazionale “gigantesca”. Stava facendo una selezione fra 42 IT manager per andare a gestire una straordinaria operazione di business transformation che da sola valeva decine di milioni di dollari. Lui scelse me. Io gli chiesi se fosse sicuro della sua scelta visto che non avevo esperienza in quel campo. Lui mi rispose secco: “Della mia capacità di mettere le persone giuste al posto giusto ne ho fatto una carriera. Se ti dico che tu puoi farlo, tu puoi farlo.” Riuso spesso questa frase con i miei collaboratori. Quando poi diventò CEO di Hyatt, e io gli espressi la mia preoccupazione per il fatto che il mio mentore se ne stesse andando, lui rispose secco anche in quell’occasione: “Non ti preoccupare, se sei piaciuto a me, piacerai anche a quello che verrà dopo di me.”
“Non dimentico da dove sono partito e sarò sempre grato a chi ha creduto in me” Dal punto di vista professionale fu una stagione straordinaria. Ho vissuto negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Brasile. Eravamo un po’ degli evangelisti, nel senso che ovunque andassimo venivamo accolti dal mantra “qui non può funzionare” e invece noi con tenacia e determinazione implementavamo i modelli SAP ovunque, e quando finivamo funzionava tutto a dovere, oltre ogni aspettativa.
Questo ra cconto mi ha fatto riflettere sul fatto che se si vuole ragg iungere un o s nella vita, bisogna cr copo ederci il Con le miei figlie che crescevano, più possib ile, senza m ho deciso di smetterla con la vita È an ai arrende che il mio rsi. da nomade e crescerele nel posto motto!
dove sono cresciuto io. L’opportunità mi è stata data da Lucart, azienda leader in Europa nel settore della carta tissue ecologica con marchi come Tenderly, Tutto e Grazie Natural. In un certo senso, sono ritornato a pensare e muovermi su scala europea, portando nei nuovi contesti il mio bagaglio di esperienza. Ma le parole di mio zio Rodolfo non si sono spente, come si può vedere e sentire. Non dimentico da dove sono partito e sarò sempre grato a chi ha creduto in me.
"Avevo 14 anni e venivo bullizzato. Mi confidai con mio zio e quello che mi disse mi cambiò la vita" (foto Adobe Stock)
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Debora
ALBERTO CONTA Haier Europe Consolidation Director & CFO Italy
“Una storia straordinaria che nasce da un insuccesso”
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o la fortuna di lavorare per una grandissima azienda, nonché il marchio numero uno al mondo nel mercato degli elettrodomestici: la multinazionale cinese Haier. Lavoravo per Candy da poco più di un anno quando il Gruppo è stato acquistato proprio da Haier. Diventando oggi Haier-Europe. Oggi sono il Chief Financial Officer italiano, dove l’Italia gioca il ruolo di HQ Europea, e mi occupo anche della direzione del bilancio consolidato Europeo. La mia storia professionale è iniziata diciotto anni fa in Ernst &Young, occupandomi di revisione dei conti. È stata una dura “palestra”, nella quale mi sono “allenato” per ben dieci anni. All’inizio non amavo molto quel mestiere, ma più lavoravo più apprezzavo quello che stavo facendo. Imparavo tante cose, entravo in contatto con realtà importanti: era il lusso di giocare “in serie A”. Completato il mio percorso in E&Y, ho incominciato a lavorare per Valvitalia: una bellissima realtà imprenditoriale italiana, nonché multinazionale (avendo filiali estere, che ho cercato di visitare il più possibile) con, dal 2014, una partecipazione statale, che nel 2015 ha anche provato ad andare sul mercato azionario per crescere ulteriormente. L’operazione non si è poi conclusa con la quotazione in borsa, ma come Finance
ho avuto la grande opportunità di seguirne tutto il processo. Mesi folli, quelli dell’ IPO Process, ma bellissimi. Nel 2017 ho lasciato Valvitalia e ho incominciato a lavorare in Candy: azienda di proprietà della famiglia Fumagalli da tre generazioni, che ha lanciato la prima lavatrice sul mercato italiano nel 1945 e che stava vivendo un momento di particolare successo grazie alle vendite degli elettrodomestici connessi, azionabili da remoto con lo smartphone. Questo fatto ha certamente contribuito ad attirare l’interesse di Haier, colosso internazionale degli elettrodomestici, che cercava un marchio forte per poter entrare in maniera più pervasiva (era già presente da diversi anni) nel mercato europeo. Così, da una bella realtà padronale (ancorché già multinazionale) , dopo l’acquisizione, mi sono ritrovato a lavorare in una bellissima realtà internazionale.
“La migliore società produttrice di frigoriferi al mondo è nata da un fallimento, una fabbrica in disuso e un uomo che ha preso a martellate i suoi prodotti”
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Haier è infatti una realtà moderna quotata sul mercato asiatico, nonché alla borsa di Francoforte, perfetta per chi vuole fare Finance di alto livello. Oggi il suo fondatore, Zhang Ruimin, tiene corsi motivazionali nelle università per raccontare la sua magnifica storia (personale e del Gruppo che dirige). Zhang Ruimin è noto per aver trasformato una fabbrica di frigoriferi sull’orlo della bancarotta in qualcosa di straordinario. Tutto nacque dal simpatico aneddoto che sto per raccontarvi. Era il 1984, una mattina come tante altre. L’ennesimo cliente inferocito aveva restituito una partita di frigoriferi appena acquistati perché mal funzionante. Ruimin cercò di farli sostituire con altri prodotti, controllando l’inventario. In quell’occasione scoprì che circa il 20% dei loro frigoriferi risultava difettoso. A quel punto radunò la squadra e fece allineare tutti i prodotti inutilizzabili: erano 76. Distribuì dei martelli ai propri dipendenti e invitò loro a distruggerli. “Faremo a pezzi i nostri articoli finché non produrremo apparecchi che i clienti non faranno tornare indietro” disse… Funzionò. Oggi Haier, nel mondo, fattura 40 miliardi di dollari. Il messaggio che Ruimin voleva trasmettere è che la qualità dei prodotti e la centralità del cliente sono elementi fondamentali per vincere sulla concorrenza globale. Quell’episodio entrò nella storia. Basti pensare che ancora oggi nell'headquarter cinese è esposto uno dei martelli utilizzati quel
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giorno, come monito a non ripetere gli errori del passato.
“Essere famiglia è un desiderio naturale per molti e lo era anche per noi” Il respiro globale di Haier mi ha offerto anche la possibilità di girare il mondo. Opportunità che colgo appena posso, e cosa che ho fatto non solo per lavoro. A 28 anni (2004) ho sposato Monica e da coppia volevamo diventare famiglia. E lo abbiamo fatto… adottando. Abbiamo iniziato il nostro percorso a settembre 2005: e ad aprile 2007 siamo partiti per il Vietnam dove abbiamo adottato il nostro primo figlio: Giulio Hong Minh. Nel 2016 siamo poi nuovamente partiti, questa volta per l’Etiopia, dove abbiamo adottato il nostro secondo bimbo, Lorenzo Addisu. Hong significa “il colore del rosso al tramonto” e Minh “intelligente”, mentre Addisu significa “il nuovo”. Non abbiamo voluto privarli del loro nome di nascita, limitandoci ad affiancare un nome italiano, perché possano es-
sere sempre fieri e orgogliosi delle loro origini. Nel corso di queste esperienze personali le aziende per cui lavoravo mi hanno sempre supportato fino in fondo, dando priorità al mio desiderio di essere padre: mi hanno concesso di assentarmi, sapendo che questo non avrebbe compromesso la mia vita lavorativa, bensì aggiunto valore alla mia persona. Adottare non è volontariato, né beneficenza, e nemmeno "fare del bene". Non è un gesto di carità. Adottare vuol dire, solo, essere famiglia.
“Ho voglia di vita normale, di vivere le persone” Ora che c’è il Covid, la cosa che più mi manca, probabilmente, è proprio viaggiare. Viviamo online, in un quotidiano di videoconferenze e videochiamate, ma guardare le persone negli occhi, stabilire dei rapporti diretti, non ha eguali. Me lo ha insegnato proprio il fondatore di Valvitalia, nonché attuale Presidente, Salvatore Ruggeri: guardarsi, comunicare, entrare in
contatto con le persone è il modo migliore per risolvere qualsiasi problema. Dal confronto scaturisce anche la possibilità di una crescita personale e professionale.
“La formazione è importante” In Haier Europe da tre anni organizzo anche il Training Finance relativo all’aggiornamento professionale; quest’ anno ahimè non ci sarà, causa Covid, ma sto già “sognando” il progetto per l’anno prossimo. Questi eventi rappresentano un’opportunità di crescita professionale, di incontri con persone che vivono in parti diverse del mondo e con le quali, generalmente, ci si sente solo “telematicamente”. Ai miei giovani collaboratori (cosi come ai miei figli) ripeto sempre di essere umili, perché la gavetta alla fine premia. Non bisogna avere fretta di diventare grandi e pensare di essere già arrivati. Occorre ascoltare i consigli di chi ha esperienza e beneficiarne. Ma soprattutto, è fondamentale far tesoro degli insegnamenti positivi e lasciarsi ispirare.
Umiltà, gavetta, conf ronto, ispirazione e mai pens are di essere già arrivati. Qualità del prodotto e centralità dei clienti sono gli ingredienti fondamen tali contro la concorrenz a globale. Il desiderio di esser padre o madre e l’assenza dal lavoro che ne conseg ue è da vedersi solo com e valore aggiunto e non deve mai compromettere la po sizione lavorativa. Eleonora Alberto, sua moglie Monica e i loro bambini Giulio Hong Minh e Lorenzo Addisu.
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PIETRO RUFFO Mercatino Responsabile ufficio innovazione/e-commerce
“Manager in settimana, deejay nel weekend”
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a otto anni lavoro per Mercatino, dove mi occupo del reparto innovazione ed e-commerce. Si tratta di un franchising dell’usato che conta ben 186 punti vendita in Italia, ed uno a Ibiza. Mercatino è nata 25 anni fa a Verona da un’idea di Ettore Sole, veronese doc, che è stato il primo in Italia a inventarsi il conto vendita (l’usato sostanzialmente). Sono nato nell’85, ho fatto il Liceo classico e poi Giurisprudenza. Ho perso tanti anni a studiare materie che non mi interessavano veramente. Probabilmente ero ancora molto immaturo. Quando mi stavo per laureare in Scienze Giuridiche sono stato assunto in un’agenzia interinale, anch’essa veronese: In Job. Una delle ricerche di lavoro che mi avevano affidato in quel periodo consisteva nel trovare una risorsa da inserire in Mercatino. Serviva un giovane da formare nel campo dell’usato, una figura jolly. Questa realtà mi incuriosiva così tanto che mandai io stesso la candidatura. Mercatino stava cercando in tutta Italia, ma alla fine scelsero me. Così è partita la mia avventura all’interno di questa azienda.
“Mi trovai davanti a un bivio: se avessi accettato la mia vita sarebbe cambiata per sempre”
Parallelamente, poi, producevo musica elettronica. Mi dividevo tra il lavoro del DJ e quello del produttore, stavo muovendo i primi passi nel settore e avevo iniziato a pubblicare alcune tracce. Dopo un anno in Mercatino, una casa discografica mi chiese di trasferirmi a Londra per lavorare in radio. Mi trovai davanti a un bivio: se avessi accettato la mia vita sarebbe cambiata per sempre. In quel periodo però, ero fidanzato con una persona piuttosto possessiva, che non vedeva di buon occhio il mio trasferimento all’estero. Forse ero ancora troppo immaturo? Fatto sta che non me la sentii di partire in quella situazione. Rifiutai l’offerta di andare a Londra e con essa la possibilità di vivere il mio sogno. Il mio ruolo in azienda è cambiato nel frattempo. Allora ero assistente di zona: venivo mandato nei diversi punti vendita italiani per erogare il know how del franchising e controllare che i negozi lavorassero a norma. Con il tempo invece l’azienda si è digitalizzata, creando due app ed un e-commerce, motivo per cui c’era bisogno di una persona che se ne occupasse. Non serviva necessariamente essere super tecnologici, ma era importante poter spiegare questo tipo di tecnologia ai nostri affiliati. Non ho più viaggiato molto, ma sono rimasto in ufficio a creare un e-commerce e un app mobile. Ovviamente, con la ragazza che mi aveva impedito di andare a Londra è finita quasi subito. Pur
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lavorando in Italia per Mercatino, ero spesso in trasferta e la relazione non ha retto. Oggi mi pento di non essere partito, perché evidentemente quella storia era già destinata a finire.
“Io sono la musica che ascolto” Adesso però ho ripreso a fare musica con il mio socio e a suonare nei locali di Verona nel weekend. Certo, mi rendo conto che ora questo tipo di vita è più difficile da reggere, anche fisicamente (ahimè). Se l’avessi fatto dieci anni fa sarebbe stato ben diverso, perché suonare in un locale fino a tarda notte ed essere “presente a te stesso” il giorno dopo è una cosa che ti viene meglio a vent’anni piuttosto che a trenta. Comunque, ora che ho ripreso a produrre musica elettronica, mi sento bene e penso che magari ci potrei riprovare. Nessuno vedendomi si immagina che io sia un deejay, eppure la mia personalità è formata esclusivamente dal mio gusto musicale e viceversa. Io sono ciò che ascolto. Tutta la mia vita si basa sui miei gusti musicali e mi piacerebbe produrre anche qualcosa di più complesso, sebbene non sia un professionista. Nella mia vita la musica conta quasi più di tutto: indirizza le mie giornate e i miei umori; è terapeutica.
“La musica è stata terapeutica in quarantena”
Lo è stata anche ad agosto, quando ho passato un mese chiuso in casa perché positivo al Covid19. Ho avuto la febbre solo per quattro giorni, eppure agli occhi degli altri ero un appestato. Sebbene io ami stare a casa, è stata dura, soprattutto psicologicamente. Chiudendoti tra quattro mura, anche se non hai sintomi particolari, ti senti “malato” e incon-
sciamente ti butti giù. Così calano le difese immunitarie e va a finire che i sintomi arrivano per davvero. Adesso mi sono ripreso ed è acqua passata. Tuttavia, grazie a questa esperienza, ho riflettuto sul fatto che apprezziamo di più ciò che abbiamo nel momento in cui ci viene tolto. L’alternanza delle cose è necessaria per vederle da un’altra prospettiva.
Questa storia mi ha trasmesso passione e volontà. Mi ha colpito il suo cambiamento radicale: da Scienze giuridiche a Mercatino. Mi trasmette tanta speranza per il futuro. Pietr o ha avuto il coraggio di seguire il filo rosso della sua volontà. Arianna
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Opening Speaker
Andrea Pontremoli
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ndrea Pontremoli, una carriera straordinaria ancora in corso, CEO di Dallara e membro del Cda di due università: Parma e Bologna. Ha tenuto la conferenza inaugurale dell’undicesima edizione di Richmond Procurement forum. Il suo intervento – pur concentrandosi sui meccanismi con i quali le aziende comprano servizi e prodotti – ha aperto finestre interessanti sull’evoluzione dell’idea stessa di impresa, soprattutto in fase Covid. La sua ipotesi è che in futuro le imprese si organizzeranno in catene di valore sempre più intrecciate fra loro, all’interno e
all’esterno delle aziende stesse. Pontremoli ha messo a fuoco tre azioni da fare per migliorare l’efficacia dell’Ufficio acquisti. 1. Capire qual è il valore realmente differenziante che produce l’azienda, e simultaneamente capire il valore delle cose che l’azienda compra all’esterno. Nelle aziende c’è poca sensibilità interna del valore prodotto. Il team di Pontremoli ha messo a frutto i mesi del lockdown per fermarsi a riflettere, ed è quello che invita a fare. Se ci fermassimo a rispondere alla domanda “Che cosa farebbe la mia azienda se ripartisse da zero oggi?” scopriremmo con ogni probabilità che molte cose le facciamo per consuetudine. E questo non ha un buon
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impatto sul bilancio make or buy. 2. Capire dove posizionarsi in un mercato polarizzato. Nell’economia globale, quello che costa poco costa sempre meno, e quello che costa tanto costa sempre di più. Le due linee corrono allontanandosi sempre di più. Posso trovare scarpe a 10 euro e scarpe a 10mila euro. Posso trovare un’auto a 5mila euro e una a 10 milioni di euro. Posso trovare un impianto hi-fi a 50 euro e a 1 milione di euro. Andarsi a collocare a metà strada fra i due poli è la cosa più rischiosa da fare. O si sta in basso o si sta in alto. Stare in basso non vuol dire guadagnare poco, anzi. Amazon è un buon esempio, si può guadagnare tantissimo. Per stare in basso servono due cose: economia di scala
“Il Procurement come elemento di Sostenibilità dentro le aziende” e produzione a basso costo. In Italia per fortuna siamo sprovvisti di entrambe, e perciò siamo costretti per natura a stare in alto, e a fare innovazione. Innovazione è quella domanda, la cui unica risposta è “Solo io”. 3. Creare e rafforzare il brand, in modo che le persone siano in grado di collocare l’azienda per associazione immediata. Non serve fare innovazione se poi non si riesce a raccontare al mondo qual è il valore differenziante. Pontremoli ha citato la metafora di Oscar Farinetti sulla felicità della gallina appena depone l’uovo: è felice perché è convinta che sia l’uovo più bello al mondo. Se non si è capaci di comunicare, a cosa serve fare l’uovo migliore al mondo?
Una volta completata questa mappatura, arriva la fase più difficile: capire in quale tipologia di acquisto occorra muoversi. Pontremoli anche in questo caso ha individuato tre tipologie.
3. Acquisto di commodity. In questi casi bisogna entrare in profondità nei processi del fornitore, capire i costi orari e organizzazione. Chi compra è l’esperto e sa perfettamente cosa sta comprando.
1. Acquisti leading edge a valore vero. In questo caso il prezzo non è legato alla quantità ma al valore, e il valore è insito nel modello di business. Di solito sono piccoli e pochi, ma naturalmente non possono essere gestiti con una logica al metro o a ore.
Il mix di queste tre leve assicura alle aziende che le Supply chain siano sostenibili nel tempo. Comprare lontano inseguendo il prezzo migliore ma poi non poter contare sulla certezza della catena di fornitura è chiaramente non sostenibile. La sostenibilità la si persegue su più fronti. Bisogna avere sempre un piano B, ossia uno o più fornitori di riserva. Ma si può anche intervenire in fase di progettazione. Nel caso di un sensore da 2 euro su un airbag, in caso di fallimento del fornitore si rischia
2. Acquisti chiavi in mano, ossia che si integrano strettamente con la Suppy chain. In questa tipologia si stabilisce un prezzo e un tempo per fare una cosa, basandosi sulla fiducia nei confronti del fornitore.
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di non consegnare l’auto. Una buona alternativa è utilizzare sensori di tipo standard. Il procurement deve avere una visione sistemica dell’azienda. In Dallara la sostenibilità di sistema viene perseguita in diversi modi. L’azienda si è data come limite il non dover mai costituire più del 40% del fatturato di un fornitore. Nessuna delle due parti deve essere dipendente dall’altra. E poi bisogna conoscere molto bene i fornitori, andare a trovarli; non basta leggere i bilanci, dato che i bilanci raccontano il passato. Bisogna invece capire il suo modello di business e il suo posizionamento nella catena del valore e in generale rispetto alle due linee principali, alta e bassa. La cosa più semplice è avere due o tre fornitori. Però questo porta ad avere un po’ di problemi e probabilmente a un aumento dei costi. In Dallara si è deciso di lasciare all’interno una capacità di fare le cose nel caso in cui il fornitore si eclissasse, quel tanto sufficiente per guadagnare tempo in attesa di trovarne un altro. Durante i mesi del Covid, Dallara ha adottato una pratica che risale alla crisi del 2008-2009: fidelizzare un gruppo di fornitori scelti e sostenerli in modo collettivo, associandosi con i competitor. In alcuni casi Dallara ha fatto da banca ai fornitori in difficoltà, pagandoli in anticipo o alla consegna, e accettando ritardi nel pagamento delle materie prime fornite dalla stessa Dallara come la fibra di carbonio. Ma questo non è un metodo applicabile su larga scala. Allora è stato fatto un tavolo con competitor come Lamborghini, Ferrari e Maserati, e si sono decisi i 10 fornitori strategici – fornitori dei quali non si può a fare a meno – e ognuno dei brand si è preso in carico qualcuno di loro, impegnandosi di tenerlo a galla. I fornitori si sono trovati in un sistema che ha garantito loro la sopravvivenza in un momento di difficoltà, e l’intera catena si è rafforzata in misura impressionante. Un Procurement sostenibile, secondo Pontremo-
li, non approfitta dell’emergenza sanitaria per chiedere sconti ai fornitori. È un approccio che paga nel breve, ma non sulla distanza. Occorre invece costruire catene del valore fidelizzate che si intrecciano in una visione d’insieme. È un lavoro molto diverso da ciò che era richiesto in passato. Il fattore del miglior prezzo non è più l’unico criterio, e soprattutto non lo è in certe categorie di servizi e prodotti. Pontremoli si è soffermato sulla differenza fra scelta e decisione. La scelta è quando si decide fra un paniere di scelte precostruite, per esempio quando si ordina al ristorante consultando un menu. Quando invece ci si trova a prendere una decisione, non esistono opzioni e non si dispone di tutte le informazioni. Questa distinzione vale soprattutto nel caso di acquisti di servizi, in cui non è semplice decidere chi è il migliore, poiché in ogni caso si compra una promessa. Quando si compra valore leading edge, tutto si instaura su un rapporto di fiducia, e la fiducia si costruisce con le relazioni. Occorre conoscere molto bene i partner con cui si dialoga, andare a trovarli, vedere come lavorano e capire il loro modello di business. Il procurement sta diventando più centrale nei processi dell’azienda, ma per essere efficace devo poter contare su una visione d’insieme e sulla vicinanza alle figure che prendono le decisioni. Con questa logica Dallara, che in 8 mesi ha visto il fatturato calare a zero, si è aperta a nuovi business totalmente inaspettati, come le partnership nell’aerospaziale. È giusto scendere su quella linea in cui si costa sempre meno e si paga sempre meno? In Italia no, dato che contiamo solo per l’0,8% dell’economia mondiale. Bisognerebbe sempre capire come risalire e collocarsi sulla linea alta. “È un po’ più difficile ma anche più bello ed entusiasmante che stare a macinare milioni di pezzi al giorno.” E per farlo occorre fare innovazione, che nasce sempre dalla costrizione. Ma l’imprenditore è
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quella figura che riesce a sentire la costrizione prima degli altri, sfuggendo al rischio di estinzione. Un passaggio interessante, emerso durante la risposta a una domanda, sono le raccomandazioni sulle gare. La ricetta virtuosa di Pontremoli è: panel ristretti a 3-4 candidati, invito su criteri stabiliti che non sono solo capacità di fare ma anche modo di fare, referenze e sostenibilità, e consapevolezza sulla tipologia di partnership: leading edge, prodotto-servizio, commodity. Occorrerebbe lasciar pesare di più la valutazione piuttosto che il valore nudo. “Il prezzo non dipende mai dal costo. Il prezzo dipende dal valore, e questo è vero sempre. Il valore dipende dal tempo e dall’ambiente. Una bottiglia d’acqua in mezzo al deserto può valere anche 1 milione di euro.” Un esercizio interessante è far suggerire il valore a chi propone, alcune volte chiedono di più, altre di meno. In conclusione, Pontremoli suggerisce che le aziende si aprano, intrecciando le catene di valore, e non temano che gli altri si approfittino delle debolezze. Bisogna convincersi che gli altri si “approfitteranno delle forze”. Si è dichiarato un fan del gioco infinito di Simon Sinek. Nel gioco finito si sa chi sono i giocatori, si conoscono le regole e si ha a disposizione un tempo finito terminato il quale si decreta chi vince e chi perde. Nel gioco infinito invece i giocatori cambiano di continuo, così come le regole, e non ci sono vincitori e vinti, solo chi continua ad andare avanti e chi resta indietro. E questo, nella visione di Pontremoli, si traduce in un modello che privilegia organizzazioni liquide sempre meno verticali.
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Quattro. Raccontare la vita La vita vera è uno strumento di comunicazione potentissimo, che semina valore e innesca reazioni positive. Basta avere il coraggio di raccontarla senza mistificazioni, filtri o manipolazioni.
1. Crescere insieme. 2. Crescere dentro. 3. Vincere e perdere. 4. Raccontare la vita. 5. Agili nell’azione. 6. Responsabili nelle scelte.
"I sogni che pensi di dover accantonare si trasformano soltanto in qualcos’altro, e possono sempre essere ripescati"
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er una volta mi fermo e faccio un bilancio. Se la mia vita dovesse finire domani, mi chiedo, quanto sarei soddisfatta dell’insieme? A qualcuno questo pensiero potrà sembrare drammatico ma non lo è! È soltanto uno strumento che uso per creare un momento d’introspezione. Nella vita mi sono trovata a prendere delle decisioni importanti in un’età in cui solitamente ti sono concessi abbondanti margini di errore, quella fase in cui dovresti avere il tempo di fare avanti e indietro fino a quando non trovi la giusta strada. Forse è per questo che nella vita ho acquisito una certa impulsività. Io dovevo fare tutto e subito perché a diciassette anni ho scelto di portare avanti una grande responsabilità, nata da un (bellissimo) imprevisto e mettere su famiglia. Neanche per un minuto mi sono pentita di quella scelta. Alla fine, i sogni che pensi di dover accantonare si trasformano soltanto in qualcos’altro e possono sempre essere ripescati. Io avevo sognato di far crescere mio figlio in riva al mare e, quindi, senza troppo pensarci su ci siamo trasferiti nel sud del Portogallo per aprire un ostello. Non è durata per sempre, ma mi ricordo che ai tempi eravamo tanto felici. Come lo ero quando circa dieci anni fa arrivai in Italia. Anche in quell’occasione decisi alla svelta. Agli inizi è stata dura, ero da sola e lavoravo per ore infinite in ristoranti, uffici, negozi. Ho condiviso spazi infimi e cambiato casa almeno quattordici volte! Mi ricordo che usavo le schede telefoniche per chiamare casa in quegli internet point con le cabine che c’erano nei quartieri dove abitavo, e quando entravo mi facevo capire a gesti. Mi mancava un pezzo di cuore. Ogni giorno mi domandavo se non avessi sbagliato tutto. In realtà, ancora oggi ogni tanto mi capita di pensarlo.
Ma poi penso ai frutti di questi ultimi anni, ai posti che ho fatto vedere a Diego durante i nostri viaggi; le estati in Sardegna dove ha imparato l’italiano, le persone speciali che ho incontrato e ho potuto fargli conoscere quando viene a trovarmi. Qui ho trovato una seconda famiglia, e più recentemente un lavoro che ha finalmente sciolto i dubbi che avevo riguardo alle mie scelte e che mi sta permettendo di tirare fuori dal cassetto quei sogni che pensavo fossero evaporati. E quindi, se dovesse finire tutto domani, sarei felice perché ho fatto tutto ciò che ho potuto, senza pensarci troppo, senza paura, senza pregiudizi. Tutto sommato, quello che mi importa davvero è vedere mio figlio felice, ma anche raccontargli di quanto ho lottato per essere felice io. Diana Baptista Flores Delegate manager Richmond Italia
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ANNA DEL SORBO Idal Group General manager
“Le navi in porto sono al sicuro, ma non è per questo che sono state costruite” (Benazir Bhutto)
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i presento. Sono Anna Del Sorbo, ho 43 anni e sono abilitata alla professione di commercialista e revisore contabile, nonché direttore generale della società IDAL Group Scarl, una storia imprenditoriale di famiglia che nasce nel lontano 1985 grazie a mio padre, mio mentore, “un uomo su mille”. L’azienda ha già superato in modo egregio il cambio generazionale, per giunta cercato e condiviso. Non è stata una passeggiata, ma l’iter si è dipanato in modo naturale e sereno, allo scopo di innovare e internazionalizzare l’azienda con l’ingresso a partire già nell’anno 2000 della seconda generazione. Ci occupiamo di economia del mare e di cantieristica navale: facciamo allestimenti sulle navi di carpenteria metallica e aree pubbliche, come cucine, bar e lavanderie, sino alle celle frigorifere. Operiamo su tutti i segmenti: navi da crociera, da trasporto, piattaforme off-shore, mega yatch e per finire quelle militari.
“Siamo in piena fase di ampliamento del sito produttivo, che sarà naturalmente green e 4.0” Operiamo nell’ambito delle nuove costruzioni, manutenzioni e ripara-
zioni, per le quali siamo presenti nel settore delle green technologies, con una propensione alla sostenibilità ed alla riconversione della nave. Siamo localizzati ancora per poco a Casola di Napoli, ma da qui a qualche mese taglieremo il nastro del nuovo sito produttivo nell’area industriale di Salerno. Siamo impegnati con i nostri cantieri in tutta Italia e da qualche anno presenti anche all’estero. Abbiamo aperto dal 2016 un ufficio commerciale in Canada e seguiamo un progetto stabile in Romania, con sede a Bucarest e con un’unità operativa a Tulcea sul Mar Nero dal 2017.
“Io credo parecchio nel sano valore dell’esempio: se un altro imprenditore è riuscito nell’impresa, immagini di poterlo replicare anche tu, se non superarlo” Oggi essere presenti sui due settori, proprietari dell’azienda e lavorare in prima linea come manager, non è di sicuro un’impresa facile, per l’evoluzione dei mercati e l’ambizione di crescere in qualità. Serve tempo e attenzione al massimo. Nonostante lo sviluppo dell’azienda, tuttavia, manteniamo un forte legame con tutti i nostri collaboratori diretti e indiretti. In azienda il nostro personale abbraccia, innanzi-
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tutto, una famiglia e poi impatta in un luogo di lavoro con tutte le sue prerogative e caratteristiche. Siamo in una fase di grande trasformazione e non è semplice per me conciliare il ruolo di figlia, sorella, mamma, moglie e manager di seconda generazione, avendo pure rivoltato come un calzino i processi aziendali. Sono mamma di tre splendidi figli e sono orgogliosa di avere una famiglia tradizionalista, di origini umili, dove i valori etici, morali e sociali sono ancora un punto fermo e di forza impareggiabile. La nostra è una storia di agricoltori. Del resto, continuiamo a produrre con grande passione vino e olio ad uso famigliare e per gli amici. Con i miei fratelli Domenico e Gabriele coltiviamo un piccolo sogno, quello di riprendere le antiche tradizioni della terra. Un giorno ci dedicheremo ad esploderlo.
“La grinta, l’ambizione e la determinazione sono le tre principali caratteristiche personali che mi danno la forza di continuare nel progetto aziendale e di vita, frutto della sentita eredità ricevuta da mio padre Antonio”
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L’organizzazione capillare e maniacale dei variegati processi aziendali la ribalto, peraltro, a casa mia. Infatti, è l’unico modo per dirigere un’impresa e curare nello stesso tempo una famiglia composta di tre figli e mio marito. Per certi versi sono una mamma aperta e moderna, seppure prevale in me a volte un modello un po’ di vecchio stampo. Nonostante la stanchezza si faccia sentire, almeno una volta a settimana preparo il dolce in casa per i bambini e nel weekend guai a chi si mette ai fornelli. Questo perché vengo da una famiglia con una forte matrice tradizionale. Non nascondo che a volte mi capita di “perdere la bussola”. Soprattutto quando mi chiedo se riuscirò a trasmettere ai miei figli gli stessi valori e sentimenti che mio padre mi ha trasferito in modo esemplare, in primis nel passaggio generazionale in azienda. È in quei momenti che cerco di pensare a tutto il percorso che ho fatto, mentre ascolto della buona musica, medito in giardino o coltivo la passione per la cucina. Anche immaginare mi aiuta tanto, però, quando l’aereo decolla lascio rigorosamente tutti i problemi a terra, la mente si libera e torno in azienda più carica di prima.
Mi metto tuta ed elmetto, mutuando quello che facciamo ogni giorno a bordo nave, perché mi testimonia fin dove siamo arrivati e ciò mi inorgoglisce molto. In azienda essere mamma mi rende più umana e sensibile. Una volta al mese, guai se non rispetto la scadenza, mi ritaglio un momento da dedicare ai collaboratori, per metterli al centro e parlare con essi della loro vita, laddove lo desiderassero. Cerco prima di tutto di mettermi in ascolto. Questo credo sia un valore, perché le persone devono sentirsi parte essenziale di un progetto più grande, che è quello della missione aziendale. Il capitale umano dell’azienda ha un valore inestimabile che va sempre innaffiato è alimentato dando l’esempio in prima persona.
“Le donne non sono tagliate per la finanza…” Il settore dell’industria, specialmente quella navale, è ancora estremamente maschile. Si pensa che certe frontiere siano state superate, ma non è proprio così. Per questo è fondamentale sensibilizzare e valorizzare sempre la parità di genere a partire dalle scuole elementari. Una battaglia che conduco con grande passione associativa da alcuni anni, ricoprendo la carica di
Vice Presidente dell’Unione Industriali Napoli con delega alla Responsabilità Sociale di Impresa. Lo stereotipo secondo cui le donne non sono tagliate per la finanza è letteralmente assurdo e io l’ho superato solo grazie al ruolo apicale, che mi sono conquistato in azienda. Un ruolo che non si ricopre per niente passando per una corsia preferenziale, ma dimostrando ogni istante di avere le capacità e le qualità, credendo molto in quello che si fa. A tutte le donne consiglio di credere in modo convinto in quello che fanno, studiare tanto e capitalizzare sempre i sacrifici del proprio percorso lavorativo e di vita. Le soddisfazioni, poi, arrivano. Chiudo con una frase di Benazir Bhutto (ex primo ministro del Pakistan, ndr), che è diventata il nostro motto in azienda: “Una nave in porto è al sicuro, ma non è per questo che le navi sono state costruite”. Noi abbiamo voglia di mare, quindi, vento in poppa alle donne e vento in poppa alla mia azienda!
Le donne sono il fu turo, non perché migliori deg li uomini, ma perché prive di preg iudizi di genere, sono quelle che possono impedire che il mon do rinunci alla metà di se stes so. Francesca
"Non nascondo che a volte mi capita di perdere la bussola" (foto Adobe Stock)
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DANIELE TONIUTTI 1001 Birre Amministratore
“Senza un titolo di studio ho inventato un franchising”
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ono partito dal basso, facendo il lavapiatti. Non potei finire gli studi per via di alcune esigenze familiari. Così incominciai a lavorare da giovanissimo, mentre frequentavo la scuola serale. Questo mi ha un po’ penalizzato a livello di cultura generale: ho una dialettica un po’ romanaccia. Iniziai a lavorare nel mondo della ristorazione, prima come lavapiatti e poi come cameriere. A quattordici anni, invece, incomincia ad appassionarmi alla tecnologia e a lavorare in un grande negozio d’informatica a Roma. Da lì, dopo qualche tempo, andai a lavorare per il suo fornitore, che distribuiva ai negozi. È iniziata così la mia carriera, con la fortuna di lavorare in un posto che mi ha aperto altre strade, tra cui un’azienda di Bologna che faceva importazione diretta nel settore informatico: playstation, televisori, notebook, etc. Vendevo alle grandi aziende e non più soltanto ai negozianti, potendo conoscere nuove realtà e nuove dinamiche di “commercio”. Dopo circa un anno accompagnavo il titolare alle fiere di settore tra cui una delle più famose in Germania, il CeBIT precisamente ad Hannover, per poter selezionare nuovi articoli o definire nuove strategie con i nostri partner esteri. Ero il buyer e l’agente responsabile delle vendite nel Lazio.
“Partendo da una situazione di difficoltà sono riuscito a creare questa attività, che sta andando molto bene” Quando notai che le cose in informatica non stavano andando benissimo, decisi di buttarmi di nuovo sulla ristorazione. Inventai il franchising “Beerland”, che comprendeva mille etichette di birre diverse. Era piccolo all’inizio, poi però conobbi un altro imprenditore che mi supportò in questa scelta e mi aiutò a sviluppare il brand, inserendo oltre alle birre tutta una parte food, con panini e fritti di altissima qualità a prezzi molto concorrenziali. Aprimmo insieme a Trastevere, dove eravamo molto conosciuti ed apprezzati per le nostre birre particolari, ma anche per il nostro ottimo prodotto “Fast GOOD e non Fast Food”. Cominciammo l’espansione con tre punti vendita, ma considerando che non facevamo nero e che tutti i nostri dipendenti erano regolari, purtroppo avevamo dei costi più alti di quelli che potevamo permetterci.
“Non volevo vivere senza vedere mai mio figlio” Nonostante ciò proseguimmo con l’espansione e aprimmo altri tre
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punti vendita. Dopo l’ultima apertura, però, nacque mio figlio e decisi di abbandonare il mondo della notte, perché avere un locale che vende birra significa tornare a casa tutte le sere non prima delle tre e mezza. Decisi, quindi, di vendere tutto al mio socio, mantenendo solo la titolarità del brand. Il marchio è ancora mio, ma non i locali, di cui ci sono state altre aperture che non sono del mio vecchio socio, ma di nuovi imprenditori. È stata una scelta frettolosa e d’impulso. Alla fine però è andata bene, poiché nonostante avessi tanti locali, non avevo ancora un flusso di cassa che mi permettesse di stare del tutto tranquillo.
“La ristorazione è un posto molto difficile, quando sei giovane. È più difficile fare il leader, forse” Nel mondo dei locali devi essere molto bravo a gestire i dipendenti. Nel mio caso soffrivo molto, essendo io un “precisino”: ad esempio se un dipendente non arrivava in orario, o fumava, utilizzava telefono in orario di lavoro io non riuscivo a chiudere un occhio. Così decisi di aprire la “1001Birre”. All’inizio compravo le birre e le rivendevo soltanto al mio franchising. Poi anche altri locali iniziarono a chiedermene e quindi lanciai un vero e proprio e-Commerce.
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Vendevo le birre artigianali ai locali bypassando gli agenti: una specie di Amazon dedicato al mondo delle birre, ma per i professionisti del settore. La cosa è andata bene e in quattro anni abbiamo avuto una crescita anno su anno del 40%. Il Covid ha penalizzato la crescita, ma ci siamo salvati, perché oggi siamo solo al –10,3% rispetto all’anno passato. Abbiamo avuto una forte crescita sulla parte B2C, verso i consumatori finali, che ci hanno aiutato moltissimo considerando che per quattro svariati mesi non abbiamo potuto vendere nulla ai locali, nostri principali clienti, rimasti chiusi. Oggi partecipo al Richmond Forum proprio per sviluppare meglio la parte dedicata ai privati, che nella mia azienda era nata come un gioco, essendo stato inizialmente solo un B2B. A breve lanceremo anche la “1001Vini” e ho già comprato i domini per creare la “1001Whisky”. La “1001Vini” sarà una prova e, se andrà bene, potranno esserci anche altri sviluppi. Tendo a non entusiasmarmi troppo, all’inizio. Non posso fare il passo più lungo della gamba.
“La nostra pubblicità è avere dei prodotti che la gente vuole” Con la “1001Birre” in quattro anni siamo diventati leader di mercato sul web: quando cerchi una birra artigianale sul web, noi siamo quelli che escono prima tra i risultati. Questo è stato possibile perché abbiamo investito tutta la parte economica nella ricerca di prodotti che non c’erano in Italia, anziché spendere soldi sulla pubblicità, che non abbiamo mai fatto. Miglioreremo ancora l’azienda e cominceremo anche a fare digital marketing.
Sotto lockdown ho investito nel digital marketing, con risultati sorprendenti. Mettendo a disposizione mille euro al mese su Facebook, abbiamo ottenuto un fatturato più che quintuplicato in soli tre mesi, sulla parte privata. Lì ho capito che il digital marketing porta davvero dei benefici per l’azienda. Se non ci fosse stato il lockdown, non avrei valutato l’apertura di 1001Vini, né il digital marketing.
“Forse avrei potuto fare di più. Intanto ringrazio di essere arrivato fin qui”
Mi chiedo spesso cosa abbia implicato per me iniziare a lavorare a quattordici anni e intanto fare la scuola serale. Può essere che mi abbia fatto diventare quello che sono e devo ringraziare il cielo, perché vengo da una famiglia molto umile e mi sono appena permesso di comprare la mia prima casa. Ne sono grato. Allo stesso tempo, però, penso: se avessi studiato dove sarei arrivato veramente? Il mio limite a volte è anche quello. Sarà stato meglio o peggio? Se a quattordici anni avessi potuto proseguire con gli studi, e magari laurearmi, sarei riuscito a fare di più? Senza un titolo di studio ho inventato un franchising, è vero. Chissà cosa avrei potuto fare se avessi studiato.
“Chissà cosa avrei po tuto fare se”. È la conclusione di chi certo pensa al passato, ma non si fa fermare da esso. È conclusio ne e non inizio, perché affrontare la vita con i “se” non permette di andare oltre, di scop rire che qualcosa lo sa i fare e lo puoi creare. I “se” fanno parte di tutte le storie, qu ella di Daniele, la tua, la mia. Vann o dosati, curati, trat tenuti, perché gli venga dato il gi usto spazio, perché ci permettano di fare il punto de lla situazione a capi tolo quasi concluso e facciano da slancio per il ca pitolo successivo. “Chissà cosa avrei po tuto fare se non m i fossi ammalata.” Se l'avessi pensato du rante la malattia no n mi avrebbe portato da nessuna parte se non a ripie garmi su me stessa. Averci pensat o dopo invece, a co nclusione di quel capitolo - che non è la fine, ma solo un punto e a capo - mi ha perm esso di fare di quel “se” un trampolino di lancio dentro ciò che la mia storia mi chiedeva di vivere. Abbiamo sempre bisog no di trampolini di lancio per scrivere il capitolo su ccessivo della nostra storia. Alessandra
Adesso il sito è sia per privati, sia per locali. In due anni abbiamo avuto una crescita esponenziale.
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ILARIO CARDILLO Rummo Tesoriere
“La nostra forza? Non perdere mai la speranza” lle prime ore del mattino del 15 ottobre 2015 una terribile alluvione si abbatté sulla zona del Sannio, in provincia di Benevento. In poche ore cadde una quantità di acqua sproporzionata, provocando un’inondazione che travolse completamente lo stabilimento della nostra azienda, la Rummo. Entrarono più di due metri d’acqua in tutti i locali. Nessun’area fu risparmiata. Quella notte perdemmo anche tutti i dati informatici della società. La mattina seguente Rummo non esisteva più.
za dell’azienda, che conteneva circa 10.000 euro (sono il tesoriere). I miei colleghi mi esortarono a non andare: era pericoloso, avrei potuto trovare di tutto e forse sarei potuto morire. Decisi di tentare lo stesso. Entrai nel mio ufficio, ancora pieno d’acqua, trovai la cassetta e la portai fuori. Poi tornai dentro a prendere il computer. Quel giorno portai a casa tutto ciò che poteva essere recuperato.
Di quel giorno drammatico ricordo però una scena bellissima, che fece scattare la scintilla affinché l'azienda potesse ripartire e tornare quella di una volta. Il nostro presidente, Cosimo Rummo, salì su una scala per controllare la situazione dell'azienda e vide che era completamente sommersa. Allora si girò verso di noi e ci disse: “Ragazzi, siamo in guerra.” Dentro ad ognuno di noi in quel momento scattò qualcosa che ci spinse a impegnarci per ricostruire l'azienda. Per ripartire da zero.
Quando aprii la cassettina dei soldi… cosa trovai lì dentro! Era piena d’acqua e fango. Fortunatamente vi erano anche i soldi e gli assegni, per un totale di circa 9.500 euro. Li misi tutti sparsi sul tavolo per farli asciugare e poi andai in banca a versarli. Non potrò mai dimenticare la faccia incredula del direttore della Banca Popolare di Bari quando glieli portai: “Ma come, avete raccolto i soldi dal fango?!” mi chiese. “Sì, abbiamo raccolto i soldi nel fango, perché vogliamo dimostrare che questa azienda ripartirà” risposi.
“Raccontare la nostra storia è bello, ma quello che abbiamo passato non lo auguro a nessuno" Dopo un paio di giorni dall’alluvione decisi di andare nel mio ufficio per recuperare la cassetta di sicurez-
“Da quei bilanci e da quei dati siamo ripartiti"
I dati informatici, come anticipato, erano andati perduti. Hanno cercato di recuperare i dischetti dell’AS/400, ma erano illeggibili. Io però avevo recuperato dall’ufficio il mio computer, all'interno del quale trovammo i bilanci di verifica dell’azienda datati 15 ottobre 2015, intorno alle 15:00. L'azienda finiva
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il ciclo di lavorazione alle 18:00, quindi avevamo perso solo tre ore.
“Siamo diventati più forti di prima" Mi vengono i brividi nel raccontare questa storia perché è stata tragica per noi, abbiamo passato un anno pieno di momenti bruttissimi. Pensavamo di non farcela, perché la produzione era ferma. Tutto era fermo. Il primo pacco di pasta post alluvione uscì dal pastificio ad aprile del 2016 poiché dovemmo ricostruire tutto da capo, come se fosse nata un'altra azienda. Abbiamo ricreato da zero anche la rete di clienti e fornitori, l’iva, la contabilità… ci impiegammo diversi mesi. Non fu facile.
“L'alluvione ci ha dato forza e volontà" Prima dell’alluvione la nostra pasta era già di grande qualità, tuttavia non eravamo molto conosciuti. L'alluvione ci permise, invece, di farci conoscere in Italia e nel mondo. Oggi i nostri concorrenti iniziano a temerci, perché siamo accattivanti anche a livello di marketing e packaging. Il nostro pacchetto di pasta è bellissimo e i concorrenti cominciano a copiarcelo. Durante il Covid per fortuna il business non ha sofferto, anzi. A marzo e aprile abbiamo avuto i fatturati maggiori, perché in quel periodo la
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gente stava a casa e… mangiava! Anche su Amazon abbiamo avuto degli incrementi, perché la gente comprava tanto online. Noi siamo 130 persone e, dal primo all'ultimo, abbiamo dato il 200%. Siamo stati bravi tutti, nessuno escluso. Il merito principale però va al nostro presidente, Cosimo Rummo, che non ha mai smesso di crederci.
“Come un padre di famiglia, il nostro presidente ci ha spinto ad andare avanti" Dopo l’alluvione l’azienda prese anche la decisione cruciale di non produrre più la pasta per conto di altri. Era arrivato il momento di smettere. Questa scelta fece la differenza. Prima producevamo Rummo in piccola percentuale, localmente. Su un fatturato di 100, noi facevamo il 10%. Il 90% risultava invece dal marchio di altri. A lungo andare ci avrebbe fatto fallire.
“Ho legato molto con la famiglia Rummo, mi considerano un figlio" Io sono di Benevento, dove lavorare per Rummo significa aver raggiunto il top. È un'azienda che ho sempre amato e per la quale lavo-
ro da ben 25 anni. Il nostro presidente è sempre stato al nostro fianco, spronandoci anche nei momenti più bui. La forza di volontà è importante, ma un leader che ti stimola a fare sempre meglio lo è ancor di più. Cinque anni fa, con i piedi nel fango, ci ripeteva che ce l’avremmo fatta e così è stato. Non bisogna mai mollare nella vita.
Ilario ci racconta d i una storia segnat a dalle difficoltà e imprevisti causati d dagli a un evento catast rofico. Ci insegna pe rialzarci in piedi d rò che opo una caduta è possibile: quando è determinazione a gu la idarci nemmeno il destino può frappo tra noi e il raggiung rsi imento del nostro ob iettivo. Sicuramente non sa rà stato facile ricom inciare tutto da ca come si dice, ne è po, ma, valsa la pena, perché questa storia ci parla anche di soddisfaz ioni. Tra le righe d i Ilario emerge l’org di avercela fatta no oglio nostante tutto e la volontà d’animo ch permesso loro di ric e ha ominciare, per ritor nare più forti di pr ima. Alessandra
"La mattina dopo l'alluvione Rummo non esisteva più" (foto Adobe Stock)
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Opening Speaker
Vincenzo Fenili
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2 novembre 2020. L’opening speaker della terza edizione di Richmond Security Director forum – quest’anno presente on-line – è Vincenzo Fenili, nome in codice Kasper. Agente sotto copertura dei servizi segreti e autore di libri, Fenili ha una vita molto interessante da raccontare, ricca di spunti di riflessione anche per chi non deve essere coraggioso di mestiere. Nel corso del suo intervento, Fenili parte dal tema della verità. La verità è plasmabile dai media. Se esistono elementi sufficientemen-
te circostanziali per ritenere che in una casa vi siano dei terroristi con ostaggi, allora l’assalto è giustificato. Il coraggio è la leva che ci consente di intervenire e confermare la verità. Ed è sempre il coraggio che ci consente di affrontare l’assunzione di responsabilità in caso di vittime collaterali. Naturalmente, poi ci sono le verità costruite a tavolino per giustificare un intervento militare, come nel caso della Baia del Tonchino o della Seconda guerra del Golfo in Iraq con la vicende delle armi di distruzioni di massa, due classici esempi di montature. Oppure, ci sono le verità processuali, che possiamo definire can of worms, ossia vaso di
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Pandora: tutto è molto più complicato di quello che sembra, e a fine giornata in un tribunale è emersa la verità che quel giorno ha funzionato meglio. Per un agente sotto copertura, la verità è ciò di cui lui riesce ad autoconvincersi. Negli anni ’90 Fenili ha partecipato a due importanti operazioni di contrasto al narcotraffico. In un caso ha impersonato un brillante pilota di linea che doveva mantenere un tenore di vita molto alto: in quel caso ha smesso di recitare, e si è totalmente immedesimato nel ruolo. Dal tema della verità, Fenili è pas-
“Impariamo il sangue freddo da chi ne ha da vendere” sato a quello della paura. “La paura è l’emozione primaria dal pericolo percepito, anticipato, previsto.” Come si affronta la paura? La si affronta in modi diversi. Fenili sostiene di non spaventarsi facilmente, ma nemmeno di sottovalutare le situazioni. Occorre ridimensionare la percezione negativa per renderla accettabile, ma non eliminarla: in alcuni casi la paura è persino auspicabile per affrontare imprevisti estremi. “Io ho imparato a non spaventarmi facilmente, ma anche ad accettare momenti in cui ho avuto paura, riuscendo ad esorcizzarli. Ho sempre diffidato di quelli che in momenti di stress, come saltare fuori da un aereo di notte con un paracadute, si facevano beffe dell’ansia. Io mi tenevo la mia ansietta ripassandomi le procedure d’emergenza.”
Fenili racconta di due episodi. Il primo è quello di una finta fucilazione durante la guerra in Jugoslavia, subito fuori Vukovar, dove venne fermato e catturato da forze filoserbe. “Ci fu detto che saremmo stati fucilati al mattino dopo. Parlando con l’amico francese, ci convincemmo che non potevamo fare nulla e quindi affrontammo la cosa con una dose di incoscienza, trovando le risorse per gestire la paura, anche se poi non ci ho dormito qualche settimana.” Ben diverso fu quando Fenili fu sequestrato nel corso di un’operazione e trascorse 273 giorni d’inferno in Cambogia fra continui spostamenti e la prigionia in un campo di rieducazione per prigionieri politici. “Lì registrai un livello di an-
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sia e di paura crescenti, pensavo di non farcela. Nessuno mi sarebbe venuto a tirar fuori, avrei dovuto fare per conto mio, avevo problemi di salute, avevo sempre fame e sete, ero regredito allo stato animale e pensavo solo a nutrirmi. Al terzo tentativo riuscì a evadere ma avevo messo in conto di non farcela. Avevo accettato l’inaccettabile.” A proposito del coraggio, Fenili parla di due tipi di coraggio. Uno che si può coltivare e scoprire, e uno che è innato. Il coraggio è la reazione che ci consente di subire fatti drammatici e mortali in maniera dignitosa e nobile ma anche aggressiva se necessario. “Io penso che esistano situazioni in cui il coraggio si alimenti con la freddezza, la determinazione e soprattutto la convinzione che ne valga la pena.”
Fenili parla anche di ‘buon senso eroico’ facendo riferimento all’attentato alla redazione di Charlie Hebdo di Parigi, in cui persero la vita 12 persone e 11 furono ferite. “I due terroristi entrano nell’ambiente blindato al piano della redazione insieme a una giornalista. Lo spazio è ristretto, loro sono agitati, probabilmente sono sotto l’effetto di sostanze. La donna in quel momento avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, fingere una crisi epilettica, o sacrificarsi in nome del bene del gruppo. E invece lei si fa aprire, facendo entrare in redazione i terroristi. Lei non è morta, e immagino i suoi sensi di colpa. Pensate che un gatto di tre chili imbizzarrito riesce a mettere in fuga gli esseri umani. Questo è ciò che chiamo buon senso eroico: la capacità e il coraggio fisico di accettare la possibile morte per un bene superiore. Occorre trattare il prossimo come se si trattasse di salvare la vita ai propri cari, senza esitazione.” Nella visione di Fenili l’imprevisto va gestito con freddezza. Che sia un intoppo durante una caduta libera col paracadute, una gomma a terra, il telefonino dimenticato a casa, una crisi economica, un momento di crisi sociale, un evento di spionaggio industriale… le emergenze prevedibili sono ben poche. In aviazione, per esempio, gli imprevisti non disastrosi sono stati analizzati da tempo e sono tutto sommato prevedibili. I piloti in questi casi seguono una doppia procedura: hanno le immediate actions – due, tre, quattro azioni salvavita – e poi le check list per individuare la causa. Ma per tutto il resto, per le emergenze vere che causano il disastro, c’è solo il fattore umano a salvare la vita delle persone. Come è successo quella volta che Fenili ha rischiato di essere smascherato come agente sotto copertura dopo un’operazione durata due anni. Un capo dei trafficanti voleva incontrarlo di persona, ma la reazione immediata insolente e provocatoria di Fenili evitarono questo incontro pericoloso: l’intermedia-
rio si convinse che solo un pazzo poteva sollecitare un incontro che poteva costare la vita. Un altro tema affrontato da Fenili è quello della qualità dei dati. L’enorme quantità di dati oggi disponibili non sempre consente l’analisi dell’elemento umano. Questo spiegherebbe perché, nell’abbattimento dei terroristi con i droni, 8 vittime su 10 sono innocenti. E questo rende ancora oggi gli operatori bravi sul campo insostituibili, per quanto possa essere costosa la loro preparazione. Traslando la sua esperienza al mondo del business, Fenili parla di un kit di soccorso da portarsi sempre dietro. In auto tiene un kit di strumenti, una corda, un estintore e una cassettina di pronto soccorso. “Mi fa sentire più tranquillo.” Una dotazione del genere dovrebbe essere presente anche nelle nostre vite. “In questo kit ci sono la presa di coscienza che nella nostra vita non dobbiamo essere ansiosi ma dobbiamo mettere in conto che imprevisti ed emergenze possono capitare. Lo stress può uccidere, dobbiamo gestire la paura con coraggio, anche quello che non abbiamo. E soprattutto dobbiamo fare un bilancio su quello che dobbiamo proteggere. Applicando il buon senso eroico, sacrificare la propria vita ha senso per salvare una figlia o un figlio, non per salvare il denaro in un ufficio postale.” Nel mondo di Fenili, il confine fra imprevisto ed emergenza è più nebuloso e difficile da definire che in aviazione. Per questo, occorre prepararsi ad affrontare le situazioni non in modo casuale, e avere una buona coscienza di quello che si sta facendo e del proprio grado di preparazione. A proposito di lucidità, Fenili ha evocato i bambini. “Nel periodo del lockdown ho trascorso molto tempo con mia figlia. C’è tantissimo da imparare dai bambini. Mi stupisce la loro eccezionale lucidità, sono immuni dalle interferenze e sovrastrutture che impediscono la formazione di un’opinione.”
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PAOLO DE PAOLA Tutto Sport Direttore responsabile
“Costruire giornali è la mia passione”
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ono diventato direttore del giornale Tutto Sport nel 2008, anno in cui è scoppiata la crisi mondiale dell'editoria. Ho ricoperto quel ruolo per dieci anni, cercando di innovare e migliorare sempre più la testata, perché inventare e costruire giornali è la mia passione, insieme alla quotidianità dei rapporti redazionali. Ho sempre amato quello che faccio, indipendentemente da tutto e da tutti. Nel 2006 lavoravo alla vicedirezione della Gazzetta dello Sport e ho disegnato la copertina la sera in cui l’Italia ha vinto il mondiale di calcio. Quel numero ha venduto 2.5 milioni di copie: un record assoluto per l’Italia.
“Mio cugino Francesco ora non c’è più, ma grazie a lui ho conosciuto il genio puro e la bellezza di imparare” La mia carriera è stata influenzata da un avvenimento famigliare molto doloroso, la morte di mio cugino, accaduto un anno prima che diventassi direttore. Mio zio Nicola era un medico cardiologo, oltre che una persona illuminata e autorevole in ambito tecnico e scientifico. In questo ambiente particolarmente stimolate è cresciuto mio cugino, che dopo una laurea in fisica alla Normale di
Pisa, ha lavorato al CERN di Ginevra e ha partecipato alla progettazione dell’acceleratore di particelle (noto come Large Hadron Collider, ndr). Riusciva a fare ogni cosa con estrema semplicità ed era per me un riferimento essenziale. Poco prima della sua scomparsa, ricordo una conversazione che mi ha toccato nel profondo. Diceva che più si avvicinava all'assoluto attraverso lo studio e più capiva che noi esseri umani non riusciremo mai a trovare una spiegazione definitiva (sull’origine del mondo, ndr). Può esserci solo una continua ricerca. Se mai in futuro penseremo di “essere arrivati”, in realtà dovremo scavare ancora di più. Ci sfuggirà sempre qualcosa, che resterà nelle nostre menti e nei nostri modi di essere. Mio cugino è morto nel 2007. La sua scomparsa è stata per me il punto di svolta: ho capito che dovevo dare una spinta diversa alla mia vita e in quel momento ho deciso di puntare alla direzione di un giornale.
“L’amore per ciò che facciamo ci emancipa da qualsiasi tipo di giudizio” Un buon direttore deve trovare dentro di sé un grande senso di umiltà. È l’unico modo per guidare gli altri, per condividere e portare avanti progetti comuni. Bisogna creare, con chi ci sta intorno, un rapporto umano, prima che la-
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vorativo. Può capitare di non essere apprezzati del tutto dal proprio capo, ma la soluzione è semplice: amare ciò che si fa. Io ho sempre amato molto il mio lavoro, pur accogliendo le critiche dei miei responsabili, tanto che di notte sognavo i titoli, le foto, le didascalie, gli accompagnamenti del mio giornale. Riuscire a trovare la titolazione giusta mi esaltava, vedere la mia pagina ben riuscita ancora di più.
“Non amo etichettare gli altri. Le persone possono sempre sorprenderci” Perché giudicare? Perché pretendere di conoscere qualcuno semplicemente per come appare? Le persone evolvono, cambiano, migliorano e possono vivere difficoltà di cui non sappiamo nulla. Quello che a me interessa è la genialità, il potenziale che si nasconde in tutti noi. Non l’aspetto, e nemmeno lo status. Il giornalismo è prima di tutto creatività, libertà e cultura. Come direttore, il mio compito è liberare e dare spazio a tutte le risorse che una persona possiede, per creare un giornale migliore. Per questo le critiche devono essere umane e costruttive, mai alla persona e offensive. Ricordo un collaboratore bravissimo nel dare la caccia alle notizie, ma con delle difficoltà di scrittura. Gliel’ho fatto notare, ha accolto la critica, non si è scoraggiato, né arreso, ha
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lavorato su questo punto debole e oggi scrive cose inimmaginabili.
“Auspico un ritorno del giornale al centro della vita cittadina” Ora i giornali vendono al massimo 180 mila copie al giorno, rispetto alle 600/800 mila che vendevano in passato. La carta stampata è quasi morta. Una soluzione c’è: ampliare il mondo del giornale, anche in formato digitale, dando spazio a nuovi personaggi e sezioni che abbiano impatto su un particolare lettorato. Il giornale diventerebbe una specie di mosaico. Questo sistema è stato
messo in pratica dal New York Times, con conseguente aumento di abbonati e un ritorno in auge del cartaceo. Il suo successo è dovuto anche all’attendibilità delle fonti e alla scrupolosa ricerca giornalistica. Ogni articolo deve essere vero. Per spiegare il fenomeno dell’edicola, invece, si può prendere come termine di paragone il cinema. C’è stato un periodo in cui le persone non andavano più al cinema, e allora sono stati ideati i multisala. Il problema è stato affrontato in modo scientifico, tenendo presenti le necessità dell’individuo. Non si può dire lo stesso per le edicole, che sono sempre state trascurate. Io concepisco i giornali come grandi palazzi, che includano luoghi d’incontro, bar, punti vendita di
prodotti con il logo del rispettivo giornale e dove incontrare gli esperti del settore, vederli all’opera. Questo richiederebbe un rapporto di collaborazione fra i vari editori, e potrebbe riportare i giornali al centro delle città.
A volte sono eventi particolari, spesso tristi e dolor osi a darci la spinta a creare qualcosa di più forte e gran de di noi. Nonostante tutto riu sciamo a rinascere, a rialzar ci e a reinventarci in qu alcosa di meraviglioso che prima, senza quel determ inato evento, non saremmo stati in grado di fare e nemmeno pensare. Questo credo sia il grande dono che un ostacolo ne lla vita ci può dare. Sta a noi cogl ierlo, sfruttarlo e metterlo a frutto al meglio... per noi stessi e per gli altri. Alice
La famosa copertina disegnata da Paolo nel 2006 .
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SERGIO D’ANGELO Ilpa Adesivi Marketing manager
“Il mio primo stage a New York”
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irca nove anni fa concludevo il mio percorso di formazione universitaria in Comunicazione e già dal primo anno sapevo, una volta terminati gli studi, di volere lavorare in un ufficio stampa ed occuparmi di public relations; un desiderio che è stato la mia bussola e che ha guidato molte delle decisioni prese per forgiare il mio futuro. Una delle più importanti è stata quella di volare oltreoceano dopo il triennio per completare la mia formazione. Ma, come per altri sogni, non è stato semplice concretizzarlo: un vero e proprio percorso ad ostacoli tra questioni burocratiche, documenti e certificazioni da presentare, senza un grande supporto da parte della mia stessa Facoltà. Ma la mia determinazioane a partire è stata più forte di tutto, e dopo aver cercato contatti e inviato quasi 400 resume in meno di quattro mesi senza ricevere alcun riscontro, ormai sul punto di rinunciare, venni contattato da AEFFE S.p.A..e dopo aver sostenuto due colloqui telefonici, finalmente il responso tanto atteso. E così partii per gli Stati Uniti, più precisamente per New York, dove feci un intern di sei mesi come press office assistant di Moschino. Questa opportunità cambiò totalmente la mia vita: immaginate un ragazzo di 24 anni alla sua prima esperienza lavorativa, catapultato in una realtà internazionale, dall’al-
tra parte del mondo. Un esercizio faticoso, ma allo stesso tempo estremamente motivante, perché per me l’America era il posto migliore dove apprendere e fare public relations. Nel periodo di intern in Moschino avevo la mia scrivania al pari di colleghi che lavoravano lì da più tempo e, sin dal primo giorno, mi sono occupato di prendere contatti con gli stylist per organizzare servizi fotografici, eventi e press days, guadagnandomi in poco tempo la fiducia dei miei responsabili. Insomma, un’esperienza diametralmente opposta allo stereotipo dello stagista che in una realtà internazionale fa solo fotocopie. Fu un’esperienza molto importante non solo a livello professionale, ma anche dal punto di vista umano. Ero un ragazzo giovane, in una realtà completamente nuova, in un contesto lavorativo poco incline alla socializzazione, ma riuscii a ricreare una mia dimensione, conquistando la simpatia dei colleghi e stringendo alcune amicizie che, dopo tanto tempo e nonostante la distanza che ci separa, continuano anche oggi. Un mio piccolo grande successo.
“Rispecchiarsi nella propria azienda è fondamentale per lavorare con entusiasmo”
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Terminati i sei mesi d’intern in Moschino, tramite un contatto di AF America, ebbi la possibilità di iniziare a lavorare in Louis Vuitton Italia. Dopo quattro colloqui venni assunto per lavorare nell'ufficio stampa di Louis Vuitton Europe nel nuovo building di Milano. Ed eccomi di nuovo in partenza verso il capoluogo lombardo dopo due settimane dal mio rientro a casa, a Bari. Ho vissuto questa esperienza lavorativa come il treno che passa una sola volta nella vita, ma che con il senno di poi, sarebbe stato meglio non prendere. Ci sono salito in preda all'entusiasmo generato dal nome e dal prestigio legato al brand. Questa esperienza non è stata delle più felici. Anzi. Da poco tornato dagli Stati Uniti, avevo tutta la burocrazia legata alla fine dello stage da sbrigare, un nuovo trasferimento da affrontare, non riuscivo ad andare d'accordo con i colleghi, il lavoro era poco organizzato e ciascuno lavorava per sé. Lo stress legato al lavoro era arrivato al punto da farmi odiare Milano, la mia vita sociale era annullata e, ancora peggio, non desideravo nemmeno averne una. Questo mi diede la prospettiva sui due mondi: quello americano, caratterizzato dalla velocità e dall'entusiasmo, e quello italiano che era l'esatto opposto. Non riuscivo a rispecchiarmi nell’azienda: un elemento per me fondamentale perché la collaborazione duri nel tempo, ma anche e
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soprattutto per chi si occupa di relazioni pubbliche per fare brand awareness in maniera efficace ed efficiente. Così la mia esperienza milanese si concluse dopo solo sei mesi. Fu una decisione ponderata, sapevo cosa avrebbe significato dal punto di vista professionale lasciare quel tipo di ruolo in quel tipo di azienda, ma sapevo bene anche quale prezzo stessi pagando per lavorare in quell’ambiente: mi sentivo consumato dallo stress, ero provato sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico, mi sembrava quasi di soffrire di depressione. Tuttavia non fu una decisione facile: la mia famiglia mi spronava affinché rimanessi a Milano e avevo paura di buttare al vento tutte le esperienze e gli sforzi fatti fino a quel momento. Ma oggi, quando ripenso al momento esatto in cui ho comunicato al mio “boss” di allora le mie dimissioni, ecco, sento ancora una grande leggerezza e soddisfazione. Finita l'esperienza milanese, tornai a Bari per cercare un nuovo impiego. Mi sentii dire che ero troppo specializzato nel settore fashion e che mi sarebbe convenuto tornare al nord per cercare migliore fortuna. Fu in quel momento che decisi di togliermi quell'etichetta di dosso e
diversificare la mia formazione, iscrivendomi ad un master in "marketing, comunicazione, web e social media" in una business school di Roma. Appena finito il corso, trovai subito lavoro in un'agenzia di comunicazione dove mi occupavo di gestire il planning della comunicazione dei diversi brand, i piani di marketing, etc. Ma anche questa esperienza non durò molto: i clienti di quest’agenzia erano principalmente aziende operanti nel settore moda e sebbene lavorassi con persone valide e molto competenti, non riuscivo più a rispecchiarmi in questo settore e a trovarlo entusiasmante. Subito dopo arrivò la chiamata di ILPA Adesivi, l'azienda per cui lavoro dal 2015, che si occupa di produzione di prodotti chimici per la manutenzione del marmo, delle carrozzerie e della nautica. Ora sono responsabile dell'area marketing operativa e della comunicazione corporate aziendale online e offline.
motivate da un desiderio personale, prima di avere grandi obiettivi professionali. Quando ci rechiamo nelle scuole per parlare di chimica "verde", chiediamo ai ragazzi quali siano i loro progetti per il futuro, ma le loro risposte sono spesso prive di entusiasmo. I miei colleghi ed io, all’inizio delle nostre carriere eravamo carichi di sogni ed aspettative, invece questi ragazzi sembrano persi, non sanno cosa vogliono fare del loro avvenire e credono che avere le idee chiare sia un privilegio di pochi e non l’obiettivo di tutti. Per questo, e grazie alla mia esperienza, mi sento di dare loro questi due consigli: assecondate il vostro istinto e fate il possibile per ampliare il vostro orizzonte professionale e umano andando all’estero per muovere i vostri primi passi in realtà internazionali.
La vita è fatta di scelte: cattive scelte portan o a buone storie. Ed il motore di tutto è a mio parere la pa ssione! Sono felice del mio percorso e fer- Senza quella, tutto muore.
“Consiglio ai giovani di seguire il proprio istinto”
mamente convinto che sia stato molto importante fare esperienze
Edoardo
Sergio a New York.
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GIOVANNA CUTRIGNELLI Ilpa Adesivi CFO - Direzione Amministrativa e Finanziaria
“Grazie al lockdown ho fatto un viaggio alla riscoperta di una donna che avevo smarrito”
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Mi chiamo Giovanna Cutrignelli, classe 1966. Figlia di imprenditore e oggi imprenditrice nel settore chimico industriale. La mia azienda realizza prodotti chimici destinati alla manutenzione di marmo e granito, della carrozzeria auto e della nautica. Una realtà in continua crescita, grazie all’attenzione sempre rivolta alla R&S ed agli investimenti in ambito produttivo che ci permettono di essere un’azienda versatile, all’avanguardia e sempre pronta a soddisfare il cliente. Mi occupo della gestione e della pianificazione delle attività finanziarie eseguendo analisi e valutazioni di tutte le procedure, al fine di fornire possibili miglioramenti. Ricoprendo il ruolo di Chief Financial Officer, ho la supervisione condivisa con i soci di tutti i processi aziendali. Come potrei definire la mia vita? Accesa e vivace. Vitalità e voglia di fare non mancano mai nella mia routine quotidiana. Sono una grande sportiva, amo fare sport e dedicare del tempo al mio benessere psicofisico, così da rigenerarmi ed essere sempre attiva e solare.
“Ho ritrovato una dimensione inedita di me stessa, in famiglia come in ambito professionale”
Quale evento è stato rivoluzionario nella mia vita? Senza alcun dubbio, uno dei periodi che mi ha letteralmente cambiato la vita è stato quello del lockdown. Un momento molto difficile, nuovo e pieno di paure. È stata la prima volta in cui ci siamo sentiti tutti uguali nella nostra fragilità e pronti a tutto pur di proteggere noi stessi e i nostri cari. Ma soprattutto, ci ha portato a riflettere sulle opportunità che la vita ci offre e che non valorizziamo abbastanza. Durante questo periodo ho ritrovato una dimensione inedita di me stessa, in famiglia come in ambito professionale. Ho fatto un vero e proprio viaggio alla riscoperta di una donna che avevo smarrito negli ultimi anni.
“Il lockdown mi ha ricondotto ad una quotidianità più umana” Un percorso con il quale ho potuto ritrovare la mia famiglia ed una dimensione, dimenticata ormai da tempo, di donna, madre e moglie oltre che manager. Ho ricominciato a condividere tanti piccoli riti per me molto importanti, come pranzi e cene, che si erano ormai persi nella vita frenetica di tutti i giorni. Sono stata ricondotta ad una quotidianità più “umana”, creando attorno a me rapporti di estremo supporto con tutti, in famiglia e a lavoro.
“In azienda questo periodo è servito a riequilibrare i rapporti tra i soci” In azienda, questo periodo è servito a riequilibrare i rapporti tra i soci condividendo sacrifici per tutelare tutti i nostri dipendenti. Forza, coraggio e determinazione ci hanno portato ad affrontare una sfida sconosciuta e fuori da ogni tipo di previsione aziendale. Il mio augurio per il futuro post Covid-19 è una società fatta di gentilezza, disponibilità ed umanità, senza formalità, ma veri e propri sentimenti. Strumenti, questi, che ci potranno aiutare davvero nell’approccio al mondo che ci circonda. Uno stravolgimento che ha portato risvolti concreti ed effettivi alla mia personalità! Tutt’oggi mi soffermo a pensare spesso a tutte quelle scelte di vita che potremo prendere senza stress, ma con sano e puro ottimismo, nonostante la presenza della pandemia.
Concordo con la co nclusione: spero in un mondo post Covid basato sulla gentilezz a. Ho voglia di conoscere tutto il mondo circondata da pers one che accettano la loro um anità e la valorizzano. Maddalena
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VINCENZO PONZO AGCO HSE manager
“Il mio lavoro è aiutare le persone a capire che se mancano le condizioni di sicurezza bisogna fermarsi”
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el nostro stabilimento produttivo di Breganze (Vicenza) lavorano circa 800 persone, come dire un piccolo paese che quotidianamente produce macchine per l’agricoltura. Il Covid-19 ha cambiato radicalmente la percezione del tema della sicurezza. Se gestire la sicurezza non è facile per definizione, con la propagazione del coronavirus nell’ultimo anno, tale attività si è letteralmente complicata. Tuttavia, proprio grazie alla pandemia, ho visto nel management della nostra azienda farsi avanti una maggiore sensibilità ai temi della salute e della sicurezza dei lavoratori. Questo scenario ha cambiato il nostro modo di considerare il tema della sicurezza, e l’ha cambiato nei nostri dirigenti, innescando una spinta nuova a intraprendere azioni concrete per fare prevenzione e controllo.
“Bisogna anche avere la forza di dire no e fermare i lavori" Parlando invece di sicurezza riferita ai rischi tipici presenti nel nostro processo produttivo, che sono molto variegati e complessi, durante l’anno si sono verificati infortuni ed eventi tali che mi hanno fatto iniziare a guardare le cose da un’altra prospettiva. Ho capito che non voglio accettare lo status quo e devo fare tutto quan-
to è in mio potere affinché la cultura della sicurezza non si cristallizzi semplicemente in una policy, ma via via si diffonda a tutti i livelli, fino all’ultimo lavoratore che fa parte del processo. Tutti ne devono essere impregnati e beneficiarne, anche le ditte esterne. Quando si lavora, non importa se il rischio sia grande o piccolo, bisognerebbe fare in modo che le persone riflettano sull’attività che stanno svolgendo e diventino più consapevoli del valore della sicurezza. Non è giusto infortunarsi o morire per lavoro, e a pensarci bene non esiste un rischio alto o un rischio basso, esiste solo il rischio e non va mai preso sotto gamba. Se non si mira a questo obiettivo, tutti i propositi sulla sicurezza diventano una battaglia di Don Chisciotte: chiacchere contro i mulini a vento. Cosa si può fare? Bisognerebbe analizzare le cose con più attenzione e con più calma. Qualche volta ci si riesce, altre volte meno. La fretta e le tempistiche certe volte non consentono di cogliere tutti gli aspetti implicati nei progetti. In questi casi bisogna avere coraggio. Bisogna avere la volontà di sottrarsi alla pressione degli interessi. Bisogna anche avere la forza di dire no e fermare i lavori. Io ci sto provando, e recentemente mi è capitato di doverlo fare. Però, come sanno bene i miei colleghi, il nostro lavoro resta comunque difficile. Anche quando fai la cosa giusta, le persone poi
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dimenticano facilmente. Personalmente, posso dire di essere ancora più focalizzato sul miglioramento della cultura della sicurezza grazie anche al supporto del Direttore di Stabilimento e dei colleghi. Concludendo posso affermare che il mio lavoro non è solo prevenire e proteggere, ma è aiutare le persone a capire una cosa fondamentale: se mancano le condizioni di sicurezza, bisogna fermarsi.
Ricoprire un ruolo di tale responsabilità in azie nda non deve essere facile, ma pe nso che Vincenzo abbia colto esattamente il senso di tutto ciò : non possiamo permettere che si trascuri un aspetto fondamentale come la sicurezza. L’abbiamo imparato quest’anno più che mai, e sulla nostra pelle, con il Covid19: la sicurezza non pu ò e non deve mai essere data pe r scontato. Adele
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C’è vita sul pianeta Zoom Cinque forum di Richmond Italia in presenza. E tutti gli altri che fine hanno fatto? Ci siamo trasferiti sul Pianeta Zoom! Eddai, lo conoscete tutti l’ultimo corpo celeste nato nella nostra galassia. Zoom è come l’isola che non c’è, un pianeta che non esiste, ma sul quale tutti quest’anno, bene o male, prima o poi, abbiamo fatto un salto. È un luogo che non esiste, ma in cui accadono tantissime cose. Puoi andarci e tornare nel battito di un click. Ti basta un lieve movimento dell’indice destro per esserci catapultato dentro. Il pianeta è rettangolare, non gira, ma scorre. I suoi abitanti sono rettangolari, unidimensionali, mezzi busti in movimento plastico (chi più, chi meno, chi a scatti), a volte sorridono, spesso guardano nella direzione sbagliata, a volte hanno anche mani che gesticolano. Nulla di più. Sono esseri senza corpo. Dietro di loro c’è forse la parte più interessante, quella che accende la curiosità e l’immaginazione. Personaggi piccoli e grandi che passano furtivi, animali, librerie – bianche il più delle volte – qualche quadro incomprensibile, armadi, vasi, ricordi, fotografie… E muri, tanti muri, di tutti i colori. Si intravedono mondi in tutto e per tutto
simili a quello reale, ma lontani e irraggiungibili. Molto spesso gli abitanti di Zoom spariscono, o si rendono invisibili e di loro non resta che un nome, un’iniziale, un bollino colorato. Spesso se ne stanno anche muti, per loro volontà o per imposizione, chissà. Sono esseri viventi? Esistono da qualche parte? Con tutto il suo formicolare, vociare, apparire e scomparire, la vita sul pianeta Zoom è così labile, letteralmente appesa a un filo (ops, un cavo) o alla fiducia in qualcosa che aleggia nell’etere, il Wi-Fi. Basta un attimo, ed ecco che quando meno te lo aspetti, puf! Il pianeta Zoom si dissolve, lasciandoti stordito davanti a un’immagine fissa, grigia. Quelli che mi conoscono potrebbero chiedersi: ma come farà mai Marina ad adattarsi a questa nuova realtà? Non è certo una millennial. Vi dirò la verità: mi sono divertita e mi diverto tanto. Dopo lo spaesamento iniziale e i primi momenti di incertezza – perché anche su Zoom ci sono delle regole da imparare – ho deciso di pensare a questo pianeta come a una specie di palcoscenico, un teatro in cui ogni personaggio interpreta il proprio ruolo in relazione a quello degli altri. E non importa se i corpi sono impalpabili, perché i cuori battono, gli occhi brillano, i sentimenti si lasciano vedere, il calore dell’essere umano attraversa il cosmo… e arriva proprio lì dove ti trovi tu. Da quel momento il gioco per me e per gli Zoomer che ho incontrato (si chiamano così gli abitanti del pianeta) non si è mai interrotto. E insieme a loro, nella mia immaginazione, ho cantato a squarciagola l’inno del pianeta, che esiste, la memoria me lo ha riportato una
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mattina, perfetto per questo nuovo oggetto astronomico. Era la sigla di Canzonissima, e la cantava nel 1968 una showgirl bionda e non tanto alta, come me, Raffaella Carrà. (Ma l’hanno cantata anche Mina e Sylvie Vartan). Loro sì che la sapevano lunga. Ciao.
La posta di Marina . Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi . mcarnevale@richmonditalia.it
Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, sentire una specie di orchestra suonare suonare suonare suonare, zum zum zum zum zum zum zum zum zum, la canzone che mi passa per la testa, non so bene cosa sia dove e quando l’ho sentita, di sicuro so soltanto che fa zum zum zum zum zum zum zum zum zum, la cantavo stamattina appena sveglia e cantandola ho pensato che non è poi tanto male specialmente nel pezzetto che fa zum zum zum zum zum zum zum zum zum. Però se va avanti così finisce che questa canzone diventa una tale ossessione e parlo soltanto facendo ogni tanto zum zum zum zum zum zum zum zum zum, la canzone che mi passa per la testa non so bene cosa sia dove e quando l’ho sentita, di sicuro so soltanto che fa zum zum zum zum zum zum zum zum zum, più ci penso e più mi sembra ch’era un coro, era un coro di bambini che cantava nel cortile di una scuola ripetendo sempre zum zum zum zum zum zum zum zum zum. Stamattina la cantavo io soltanto, ma stasera già mi sembra di sentire chiaramente tanta gente che la canta insieme a me zum zum zum zum zum zum zum zum zum!!!
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Be SMART. Stay HUMAN.
Dal 1994 organizziamo in Italia eventi di business matching in settori strategici per l’impresa, dall’energia alla Supply chain e alla finanza, dalle risorse umane al marketing e al retail. Nel 2020 abbiamo lanciato i forum on-line e abbiamo programmato 8 forum on-line internazionali nel 2021. È stato naturale, la nostra crescita accompagna quella delle business community con cui dialoghiamo. Al centro di tutto resta l’idea originaria: facciamo incontrare persone per farle crescere, e farle sentire vive dentro. Dietro ogni schermo. Oltre ogni difficoltà.
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