Anna Falco - psicologia e basket

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FEDERAZIONE ITALIANA PALLACANESTRO Settore Giovanile

Anna Falco

P sico lo g ia e B a sk et


Versione a cura del Comitato Nazionale Allenatori della primavera 2005

Presentazione La dottoressa Anna Falco è entrata a far parte dello staff della Squadra Nazionale “A” maschile nel giugno del 1994, unitamente al dottor Tommaso Biccardi. L’esperienza che abbiamo condiviso è stata estremamente importante: nell’arco di quattro stagioni sportive abbiamo svolto uno studio guidato, rivelatosi fondamentale, dei profili degli atleti convocati ed inoltre abbiamo approfondito le condizioni relative alla natura delle relazioni interpersonali che si creavano tra i vari giocatori, fra questi e lo staff tecnico e fra i componenti dello staff stesso. L’obiettivo, pienamente raggiunto vorrei aggiungere, era quello di rendere l’ambiente della squadra il più sereno ed efficiente possibile, per poter aiutare tutti i componenti a realizzare al meglio le proprie capacità sotto notevole pressione competitiva. Non è stato semplice, talvolta, superare incertezze, scetticismo, dubbi, su una metodologica di lavoro “diversa”, ma giorno dopo giorno, tutti, giocatori e tecnici, hanno potuto cominciare a recepire il vantaggio di questo approfondimento della conoscenza reciproca e delle dinamiche interpersonali, arrivando piano, piano a completarci a vicenda nella formazione del gruppo che è stata protagonista a Barcellona nell’ultimo Europeo. Non credo di sminuire il ruolo di nessun membro dello staff se affermo che Anna è stata l’anima, la guida (il … “coach”) di questo gruppo di lavoro: precisa, efficiente, intuitiva, ed anche severa con noi tecnici quando la disabitudine alla sua sistematicità nel lavoro ed il pensiero che “dopo tutto basta buttarla dentro” riaffioravano ad ostacolare il cammino. Con lei e con Tommaso Biccardi il sottoscritto e gli altri tecnici della Squadra Nazionale hanno potuto migliorare le proprie capacità specifiche ma anche migliorare il rapporto con gli altri e, sicuramente, conoscere un po’ di più se stessi. Un grazie affettuoso ad Anna: per avere fatto parte di un gruppo speciale, per un pezzetto di medaglia d’argento e, soprattutto, per la sua amicizia. Ettore Messina

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Introduzione In questo lavoro ho cercato di descrivere in modo semplice cosa realisticamente significhi “approccio psicologico”. Mi piacerebbe se alla fine vi venisse la curiosità di saperne di più. Sono una Psicologa Clinica capitata all’improvviso e per caso nel mondo dello sport. Nel 1994 il dottor Biccardi, avendo avuto dalla Federazione Italiana Pallacanestro l’incarico di psicologo della Nazionale maschile, mi chiese di lavorare insieme, con l’obiettivo di focalizzare meglio il modello strutturale integrato di Giovanni Ariano applicato al basket. Tommaso Biccardi ed io facciamo parte della Società Italiana di Psicoterapia Integrata (S.I.P.I.) che a Napoli e in Campania si occupa di clinica e didattica: lavora, quindi, con pazienti affetti da problemi psicologici e forma medici e psicologici a diventare psicoterapeuti. Alla proposta di lavorare in ambito sportivo ebbi due tipi di reazioni: la prima di perplessità, la seconda di curiosità. Mi chiedevo in che modo il modello strutturale integrato si potesse applicare ad allenatori e giocatori in situazioni molto lontane dalla clinica. La curiosità era dovuta a quella parte di me che difficilmente si arrende di fronte alle cose nuove. Devo dire grazie al dottor Biccardi, che mi ha dato questa opportunità, se oggi posso scrivere queste pagine dove, spero, potete verificare l’utilità del modello di Ariano applicato al basket. L’esperienza con la nazionale, con la quale abbiamo collaborato dal giugno ’94 al luglio ’97, è stata complessa e faticosa, perché non è semplice adattare un modello a contesti nuovi con esigenze diverse. Per me particolarmente è stata un’esperienza molto interessante, perché mi ha permesso di distogliere l’attenzione dalla “patologia” per rivolgermi a una popolazione “normale”: Fare questo mi ha consentito di approfondire le mie conoscenze. Sono grata a Ettore Messina, Giovanni Picci ed Enzo Grandi che, con voglia di fare sempre meglio e curiosità verso nuove esperienze, hano permesso l’attuazione di questo modello d’intervento. Infine, un grazie particolare a Giovanni Ariano, mio maestro nella vita e nella professione.

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1. Cosa significa approccio psicologico Da quando mi interesso di psicologia sportiva ho notato, da parte di chi fa richiesta di un intervento psicologico, due tipi di atteggiamento fondamentali, opposti tra loro: a) eccessivo scetticismo, che si traduce nella frase “ma funzionerà questa psicologia?”, Conseguenza di tale atteggiamento è la sfiducia nei suggerimenti proposti; b) idealizzazione miracolistista. Le cose vanno particolarmente male e si spera che l’intervento dello psicologo, non si sa bene come, possa risolvere tutto. Questo duplice atteggiamento evidenzia l’ambiguità tra curiosità e scetticismo, normale per le teorie giovani. La psicologia come scienza è sicuramente molto recente. Essa ha infatti poco più di un secolo di vita. La psicologia applicata allo sport è ancora più giovane; è nata a metà degli anni ’50 e la sua diffusione si è avuta negli anni ’70. L’essere umano fonda le sue certezze sulle conoscenze passate e sperimentate. Sono a testimonianza di quanto appena affermato i detti popolari del tipo “non lasciare il certo per l’incerto”, “ non cambiare la vecchia via per la nuova”. L’ancorarsi troppo alle vecchie conoscenze uccide, però, il progredire del sapere e di conseguenza della cultura e delle società. Tutti siamo sicuramente d’accordo con questa affermazione; ciò nonostante ogni volta che qualcosa di nuovo cerca di affermarsi le resistenze sono moltissime. Molti uomini di scienza hanno pagato con persecuzioni scoperte eccezionali, come ad esempio Galileo Galilei. Questa peculiarità umana di rifugiarsi nelle certezze mi fa essere tollerante verso lo scetticismo, anzi mi spinge a sforzarmi di essere chiara e cercare di fare comprendere l’importanza della scienza che vado promuovendo. Al di là, quindi, dello scetticismo o dell’idealizzazione onnipotente vorrei aiutarvi a comprendere l’utilità realistica, e sottolineo realistica, di un “approccio psicologico”. Va specificato che anche il letteratura, a seconda delle scuole e dei diversi modelli d’intervento psicologico, si attribuisce un diverso significato a tale concetto. Per alcune scuole, infatti l’«approccio psicologico» comprende tecniche di rilassamento, analisi del compito tecnico - motorio, e così via. Voglio che sia, quindi, chiaro che quello di cui vi parlerò fa riferimento al modello strutturale integrato di Giovanni Ariano.

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Per tale motivo non è detto che in altri psicologici ritroverete la mia stessa idea di “approccio psicologico”. Per me “approccio psicologico” è la capacità di mettere in relazione, con una finalità costruttiva ( = funzionale all’obiettivo o di crescita), due mondi: il proprio ( = io) e quello altrui ( = tu). Questa frase per voi non ha molto significato. Perché possiate comprenderla è necessario che io la suddivida e la analizzi nei suoi principali sotto concetti che sono essenzialmente tre:

• “finalità costruttiva relativa ad un scopo” ( = obiettivi). È importante stabilire gli obiettivi e trovare le strategie per perseguirli. Noi riteniamo che prima ancora di focalizzare gli obiettivi tecnico - tattici, un allenatore debba tenere presente i concetti epistemologici e i valori antropologici che appartengono a ciascuna delle persone con cui collabora e che influenzano il lavoro della squadra. L’idea di “chi conosce” e “cosa si conosce” e la loro relazione ci dice quali sono i concetti epistemologici cui fa riferimento una persona. Per valori antropologici si intendono le convinzioni che ognuno di noi circa “l’uomo” (giocatore, nella fattispecie); le nostre idee, detto in altre parole, delle caratteristiche che differenziano l’uomo dagli altri esseri viventi. Queste convinzioni e queste idee non sono sempre consapevoli, ma ciascuno da noi, che ne sia o meno cosciente, agisce in base ai suoi valori e li tramanda;

• “identità”. Cioè concetto di io e tu; più concretamente fa riferimento alla diagnosi strutturale individuale dell’ io e del tu. Per diagnosi non si intende qui una valutazione patologica, ma il definire le caratteristiche di personalità;

• “relazione”. L’ io e il tu non sono in un rapporto statico, ma dinamico, il che significa che si influenzano reciprocamente. Nessuno di noi è perfettamente identico nelle diverse relazioni.

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È bene che teniate a mente questi tre concetti di fondo intorno ai quali svolgerò tutto il mio lavoro. Nei prossimi capitoli (cap. 2-3-4) riprenderò questi concetti e li svilupperò in modo tale che possiate comprendere cosa concretamente significhino e la loro utilità.

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2. Obiettivi Aristotele parlava di “causalità finale”. Nessuno può farne a meno se ammette un mondo intelligente. Cosa significa? Che ciascuna cosa, per il fatto stesso che esiste, esiste per un fine. Quando un coach allena una squadra lo fa in base a obiettivi specifici. Gli obiettivi generali di tutti gli allenatori sono:

• coesione di squadra; • velocizzazione e ottimizzazione dell’apprendimento. Su tali obiettivi la scelta è chiaramente unanime. Vi possono essere, invece, differenze notevoli relativamente al “come” raggiungerli. La realizzazione degli obiettivi il più delle volte non dipende dall’impegno o dalla buona volontà dell’allenatore, ma da altre importantissime variabili che cercherò brevemente di esporre. Ogni persona operando scelte, che ne sia consapevole o non, prende posizione circa i valori relativi a “come” si conosce e all’idea di “persona sana”. Provo ad essere più chiara. Quando un allenatore un insegna una nuova tecnica o un nuovo schema tattico, che lo sappia o meno, non può prescindere dalle seguenti problematiche: 1. “chi” conosce, “cosa” conosce, in che rapporto sono conoscente e conosciuto (epistemologia); 2. che idea ha di “persona funzionale” (antropologia). Non voglio annoiarvi con speculazioni filosofiche, che potrebbero sembrar fuori luogo, cerco solo di dimostrare come la filosofia può diventare concreta. Penso anzi che, senza la consapevolezza della “nostra filosofia”, corriamo il rischio di perdere molto tempo e fare meno bene pur investendo molte energie.

2.1 Epistemologia Vi propongo un breve excursus storico per meglio chiarire il senso di quanto andrò affermando. Fino al diciassettesimo secolo si riteneva che il nostro pensiero cogliesse la realtà proprio per quello che era: “chi” conosce e “cosa” si conosce. Si dava per scontato che tra il chi e il cosa ci fosse un rapporto di verità. Nel ‘600 Cartesio è il primo a porsi in modo sistematico un problema: e se i nostri pensieri ci ingannassero illudendoci che quello che conosciamo è vero? Per la prima volta 7


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nell’uomo occidentale nasce il dubbio che non tutto quella che si pensa e conosce solo perché è pensato automaticamente è “vero”, cioè esiste oggettivamente. Potrete capire quanto fosse destabilizzante il “dubito” cartesiano! La minaccia fu risolta col discorso che essendo i nostri pensieri controllati direttamente da Dio, che è sommo bene, non avrebbero potuto ingannarci. Il dubbio era stato insinuato, sebbene l’onnipotenza della ragione lo avesse per il momento risolto. Si è continuato a credere all’onnipotenza della ragione umana fino alla fine dell’800, quando alcune scoperte in fisica, chimica e matematica hanno messo il discussione i pilastri del sapere scientifico. Il dubbio cartesiano ci ha investiti violentemente, lasciandoci, questa volta, persi nella nostra umile condizione umana. Non esistevano più verità assolute. Per non cadere in un anarchismo intellettuale, ci sono stati diversi tentativi di risposta, sui quali proferisco non dilungarmi. Il senso di questo excursus è di rispondere alle tre domande relative a “chi conosce”, “cosa si conosce” e “che rapporto c’è tra conoscente e conosciuto”. In concreto, un allenatore, nell’osservare un giocatore:

• può percepirlo per quello che è, senza farsi minimamente influenzare da ciò che sapeva; • può far dipendere la conoscenza esclusivamente dai suoi preconcetti; • i suoi preconcetti, cioè le informazioni che ha avuto dagli altri o le cose che ha osservato precedentemente, possono influenzare la lettura di quella determinata situazione, ma a sua volta la nuova percezione influenza i preconcetti. Queste tre modalità di conoscenza da parte dell’allenatore rispecchiano tre significative correnti di pensiero:

• la corrente empiristica, secondo la quale l’oggetto esiste e il soggetto è un semplice registratore che lo coglie senza influenzarne la conoscenza. Ad esempio, un allenatore si fa un’idea della squadra, delle caratteristiche tecniche, tattiche e di personalità dell’atleta, ritenendo che il suo modo di essere non influenzi minimamente i giocatori;

• la corrente idealistica, secondo la quale il soggetto costruisce l’oggetto in base ai propri preconcetti. Ad esempio, l’allenatore è convinto che le sue idee sul tipo di gioco, il suo modo di essere e di fare basket condizionino moltissimo la squadra;

• la corrente costruttivista, che dice che il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto si influenzano reciprocamente. Ad esempio, l’allenatore sa che i suoi preconcetti, la sua idea di basket e le sue emozioni condizionano la squadra; ma sa anche che la tipologia di quella squadra e le singole strutture di personalità dei giocatori influenzano il suo modo di fare basket.

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Per il costruttivismo la verità è storica, ciò significa che le nostre conoscenze non sono assolute, ma superabile da verità non perfette ma perfezionabili. Ecco, quindi, il risvolto concreto di problemi e incomprensioni che nascono quando un allenatore agisce secondo una delle tre posizioni sopra menzionate, senza rendersene conto. È successo talvolta che l’allenatore o l’intero staff si lamentassero del comportamento di un giocatore, senza rendersi conto di quanto i propri atteggiamenti esasperassero questi comportamenti. In questi casi misi chiedeva prescrizioni su come trattare il giocatore, come se il comportamento da avere fosse un abito da indossare al momento opportuno adatto al giocatore in crisi. A volte non era semplice fare capire che per ottenere un cambiamento nel giocatore bisognava mettere a fuoco lo stress che in quel momento attraversava l’allenatore o, ancora meglio, alcune caratteristiche di personalità dell’allenatore che si scontravano con quelle del giocatore. La fatica che spesso mi trovavo a vivere, evidenziava la filosofia di fondo dell’allenatore: il giocatore (oggetto conosciuto da me) è una realtà a sé stante che non subisce la mia influenza; io l’ho studiata e definita in un certo modo e ora chiedo la ricetta per poterla migliorare. Altre volte succedeva che, dopo una partita andata male, l’allenatore si colpevolizzasse troppo, facendo dipendere dal suo solo stress il cattivo risultato. Anche in questa volta la visione era parziale: “io con le mie preoccupazioni ho reso insicura la squadra”. Non che questo non possa essere vero, ma è comunque una visione parziale. Per una visione più completa bisogna capire come le paure dell’allenatore influiscano su ciascun giocatore. Infatti, in base alla propria struttura di personalità (diagnosi), ognuno avrà una reazione diversa: se voglio essere utile alla squadra dovrò sapere su chi l’allenatore può contare di più e su chi di meno quando è sotto stress. La cosa divertente è che entrambe queste posizioni (la prima che assolutizza l’oggetto, la seconda il soggetto) le ho talvolta trovate nella stessa persona. Questo capita quando non si ha chiarezza della propria visione epistemologica, cioè del problema della conoscenza. Il rischio è che si salti caoticamente da una posizione ad un’altra. Non solo gli allenatori hanno una propria posizione relativamente alla conoscenza. Anche i diversi modelli di intervento psicologico applicati allo sport hanno idee diverse su tale problema. Due sono i modelli che fondamentalmente sono stati applicati dagli psicologici sportivi: a) il comportamentismo si rifà al modello empirista, secondo il quale l’oggetto è centrale. Ciò significa che l’oggetto conosciuto condiziona il soggetto conoscente e non viceversa. Tale modello non è interessato alle differenze individuali, perciò i giocatori vengono trattati tutti allo stesso modo. Più precisamente, esistono dei comportamenti per migliorare la prestazione uguali per tutti. Ad esempio, lo psicologo insieme allo staff tecnico può aver notato che uno dei problemi della squadra è la difficoltà di concentrazione. Il compito consisterà in un rinforzo 9


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positivo ogni volta che la squadra presterà più attenzione. Il rinforzo può essere verbale, può essere verbale, può essere un premio qualora si tratti adolescenti ecc. Un’altra tecnica consiste nel dare esercizi che aumentano la capacità attentiva, per esempio la proiezione di immagini da riconoscere sempre più velocemente. Non si tengono in alcune conto le caratteristiche mentali particolari dei giocatori costituenti la squadra. b) Il cognitivismo, sebbene sia un’evoluzione del comportamentismo, su alcuni punti ne prende distanza. I cognitivisti studiano molto più dettagliatamente le mappe mentali. Ritengono che però siano rigidamente innate. Il mondo esterno fa da stimolo perché si sviluppano, ma le mappe mentali, con cui le persone leggono la realtà, non sono modificabili dall’esperienza con il mondo esterno. Il soggetto è centrale. Si vuol dire che il soggetto conoscente condiziona le percezioni dell’oggetto conosciuto e non viceversa. In questo senso è capovolta una delle premesse epistemologiche del comportamentismo: è centrale il soggetto anziché l’oggetto. Il determinismo, invece, fa da sfondo a entrambe le correnti. Le strutture mentali sono simili negli esseri umani (solo ultimamente il cognitivismo comincia a prendere in considerazione organismi strutturalmente diversi) ed essendo così fortemente determinate geneticamente non sono suscettibili di significative modifiche nel rapporto con l’altro (l’allenatore nel caso specifico). Il lavoro dello psicologo consiste nell’individuare quanti più particolari possibili della mappa cognitiva - tipo del giocatore. La relazione tra giocatore e allenatore, non essendo significativa, rimane sullo sfondo. Il modello strutturale integrale di Ariano relativamente al problema della conoscenza si rifà al costruttivismo popperiano. Secondo questa corrente filosofica, il soggetto conoscente influenza l’oggetto e a sua volta ne viene influenzato. Inoltre, non sottostà al rigido determinismo come i modelli precedenti, ma presuppone l’« emergentismo». Con questo termine si vuole sottolineare il fatto che nel mondo non tutto è determinismo da leggi di natura, ma esiste la creatività, cioè può cominciare ad esistere qualcosa che sulla base degli eventi precedenti non ci saremmo aspettati che esistesse. In questa teoria, quindi, il concetto di libertà ha maggior valore. Un psicologo che lavora secondo quest’ultimo modello, si fa un’idea precisa del tipo di gioco che si vuole applicare e della mappa mentale che questo gioco richiede, delle diagnosi individuali dei singoli giocatori, di quelle dei singoli membri costituenti lo staff tecnico, e del rapporto tra giocatori e staff. Questo psicologo ritiene che non tutti possano applicare lo stesso compito con gli stessi risultati, né giocatori, né allenatori. Deve, quindi, individualizzare i compiti e in più, laddove esistono dei limiti per una tale applicazione, bisogna che aiuti il soggetto in esame a superarli. Se cercate di mettere un vestito troppo stretto avrete come unico risultato quello di romperlo. Per indossarlo dovrete o dimagrire o allargare il vestito. Lo stesso vestito per tutti corre il rischio di 10


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essere troppo stretto per alcuni e troppo largo per altri. Il fatto che venga ben indossato è affidato al caso. È proprio questo che cerca di evitare lo psicologo che lavora con il modello strutturale integrato. Cercherà di affidarsi quanto meno possibile al caso e, nell’adattare il vestito alla persona, si sforzerà di rendere quanto più prevedibili ed efficienti i suoi interventi.

2.2 Antropologia La seconda domanda riguarda l’idea di persona sana, sia dell’allenatore sia dello psicologo. È necessario che ci sia coerenza tra la visione epistemologica e quella antropologica, nel senso che non è possibile avere una posizione empiristica relativa alla conoscenza e una idealista relativa all’antropologia. L’idea di persona funzionale è cambiata lungo l’arco della storia ed è soggetta alle influenze culturali. Una persona considerata positivamente in paesi dove vige la democrazia, è considerata disfunzionale in quelli dove vige l’autoritarismo. Tale idea ci deriva dal tipo di cultura sociale nella quale siamo inseriti e dalla nostra storia personale. Chi, per esempio, è vissuto in un ambiente molto aggressivo può ritenere normale l’essere rissoso, al contrario di una persona vissuta in un ambiente tranquillo. È necessario che ciascuno si ponga il problema di cosa intenda per persona funzionale. Cercherò di sintetizzare le principali teorie circa l’essere umano all’interno dei diversi approcci psicologici allo sport. a) I comportamentisti hanno una visione del mondo, e quindi della persona umana, meccanicistica. L’uomo, quindi, è completamente determinato da una serie di meccanismi prevedibili: è un oggetto tra i tanti oggetti. È chiaro che questa visione non è interessata alla consapevolezza che può modificare gli eventi. Il rinforzo positivo è la sola variabile che può condizionare il comportamento. b) I cognitivisti non si distaccano completamente dalla visione meccanica dell’uomo, sebbene considerino le mappe mentali molto più complesse di quanto facessero i comportamentisti. La consapevolezza è quindi per loro più importante, ma le persone e le cose conosciute sono trattati come oggetti, mai come soggetti in relazione; in questo senso non danno molto valore all’intersoggettività intesa come rapporto a due in cui ci si condiziona reciprocamente. La persona, quindi, è consapevole per capacità innate: l’incontro con l’altro (oggetto) stimola la sua consapevolezza, ma non la modifica. Una volta stabilite le caratteristiche del tipo di gioco, si creano esercizi perché i giocatoti sviluppino le caratteristiche mentali adatte. Quando emergono emozioni difficilmente gestibili, il cognitivismo lavora cercando di tenere bassa la tensione. 11


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Nel caso di difficoltà dovute alla caduta della funzione attentiva, il cognitivista farebbe un esame approfondito di tutte le funzioni e sottofunzioni coinvolte in tale capacità e utilizzerebbe tutta una serie di esercizi, molto più discriminanti rispetto ai comportamentisti e più centrati sul funzionamento mentale della persona. L’attenzione sarebbe studiata in senso più generale (dicevo che solo ultimamente i cognitivisti cominciano a prendere in considerazione la possibilità di più strutture mentali diverse tra loro). Non si approfondirebbe il rapporto tra il disturbo cognitivo ed emotivo, come il disturbo cognitivo possa dipendere da quello emotivo (per esempio nel caso di un giocatore che nn va d’accordo con i suoi compagni di squadra). Secondo il modello strutturale integrato l’uomo è un organismo che nel suo esistere, fisico e mentale, condiziona e si lascia condizionare da altri organismi (costruttivismo). In questo condizionarsi reciproco non tutto è predeterminato, ma possono emergere cose nuove (emergentismo). Per questo motivo l’essere umano, distinguendosi dagli altri esseri viventi, è soggetto ai seguenti quattro valori: consapevolezza orientale e occidentale, libertà, responsabilità, intersoggettività (fig. 1).

La consapevolezza orientale (riteniamo che sia comune agli esseri umani e agli animali) rappresenta la capacità automatica di ordinare le cose. È un’intelligenza che non riflette su se stessa, presente in tutto l’universo. L’esistenza di questo tipo di consapevolezza fa ipotizzare che l’universo non sia caotico, ma regolato da leggi. La consapevolezza occidentale rappresenta la capacità di potere riflettere in modo critico sulle nostre teorie o conoscenze: se la mia automobile in salita non ce la fa, un cane non è in grado di 12


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farlo; non cioè ragionare per capire che con una marcia inferiore l’automobile perde in velocità ma aumenta in potenza, per cui in salita deve scalare. Se sa come funziona un motore, un uomo può arrivare alla conclusione di scalare la marcia ragionando, il cane ha l’unica possibilità di andare aventi per tentativi ed errori (l’esempio non è molto pertinente perché il cane non guida, ma è giusto per intenderci). Quindi, l’uomo avendo già in teoria (nel nostro caso specifico la conoscenza del motore), può, semplicemente ragionando, costruire una nuova teoria (in salita bisogna scalare, senza dover fare tanti tentativi ed errori per arrivarci. La libertà rappresenta la capacità do poter scegliere e non quello che si ritiene più giusto e funzionale. Poiché il modello strutturale integrato presuppone l’« emergentismo», ritiene che l’uomo sia libero e nella misura in cui lo decide, capace di modificarsi. In questo modello il concetto di libertà è strettamente dipendente da quello di consapevolezza. Noi siamo condizionati dal nostro DNA, dalla cultura e dal periodo storico in cui ci troviamo a vivere. Quanto appena affermato, potrebbe farci concludere che l’uomo è tutt’altro che libero. Noi pensiamo che l’unica possibilità che l’essere umano ha di riscattare la propria libertà sta nella consapevolezza (nel senso occidentale). Infatti, quanta più consapevolezza abbiamo circa i nostri condizionamenti e i nostri limiti, tanto più possiamo sforzarci di superali, soprattutto cercando di capire quali fra le strade possibili che ci vengono offerte dal nostro DNA, dalla cultura, dal momento storico, dalla storia personale, e dalle nuove sintesi (teorie) che ricaviamo ragionando su tutto questo, ci sentiamo di scegliere. È altrettanto vero che essere liberi, nel modello di Ariano, significa poter decidere di non scegliere la cosa che si ritiene più giusta, ad esempio, un allenatore consapevolmente potrebbe decidere di non volere modificare i propri limiti, nonostante li reputi dannosi per sé e per gli altri. Chi non riesce a essere critico in questo modo, noi riteniamo possa solo subire il mondo esterno senza alcuna libertà di scegliere e quindi di modificare. La responsabilità è un altro valore fondamentale e anch’esso dipende dalla consapevolezza. Noi riteniamo responsabile un bambino di un anno se si brucia con una candela accesa perché non sa che il fuoco brucia. L’ intersoggettività rappresenta la capacità di mettersi nei panni altrui ed agire nel rispetto di sé e dell’altro, tenendo conto di tutti i valori di cui abbiamo parlato sopra. Riteniamo che questa capacità favorisca la crescita e l’apprendimento. A livello epistemologico il concetto di “ intersoggetività” presuppone quello di “ costruttivismo”, cioè di due realtà che si influenzano reciprocamente.

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Quando un allenatore, nell’insegnare, si sforza di capire le differenze individuali, cioè le capacità del giocatore di fare o meno, di capire o meno determinate cose, e sceglie gli interventi più adatti a questo tipo di situazione, cercando in qualche modo un adattamento funzionale alla squadra, sta mettendo n pratica, anche se non lo sa, tutti i valori sopra menzionati. Un allenatore, invece, che senza porsi il problema di capire la struttura di personalità dell’altro, interviene pensando che basti insistere per realizzare il gioco che si propone, ha dei valori sull’uomo molto diversi da quelli che ho presentato. Ritiene che tutti gli uomini siano uguali, non è centrato sulle consapevolezze e quindi sulle differenze individuali. Non lascia scelta e tende ad arrabbiarsi quando l’altro non esegue precisamente quello che viene insegnato, attribuendo la stessa responsabilità a tutti, perché non relaziona la responsabilità alle consapevolezze e differenze individuali.. In questo caso la conoscenza non è intersoggettiva ma soggettiva. Secondo questo allenatore, dato un certo schema “A” da insegnare, tutti possono impararlo allo stesso modo, non esistendo delle differenze individuali emotive e cognitive nell’apprendimento. Non avere chiaro tutto ciò a volte fa sì che gli allenatori, in una discussione teorica, possano essere perfettamente d’accordo sui valori legati al concetto di intersoggettività e, invece, nella pratica comportarsi sulla scia dei valori basati su una conoscenza oggettività. Risottolineo, quindi, l’importanza che ogni allenatore abbia chiari i valori su cui costruisce una squadra. La chiarezza (non rigida) circa ciò in cui crediamo e che è per noi importante, generalmente dà stabilità. Quello che invece spesso succede è che, essendoci oggigiorno molta confusione circa la legittimità e la priorità dei valori da portare avanti, l’allenatore, come molti educatori, oscilla tra diversi valori inconsapevoli. Questa oscillazione lo rende molto vulnerabile, con le conseguenze che potete facilmente immaginare. Il danno è ancora maggiore quando si ha a che fare con adolescenti.

2.3 La mia esperienza con la nazionale utilizzando il modello strutturale integrato Nei tre anni di lavoro con la Squadra Nazionale (giugno 1994 - luglio 1997) abbiamo lavorato maggiormente o quasi esclusivamente circa pregi e limiti propri e della squadra. Con i giocatori ci siamo limitati alla soluzione di piccoli problemi, aumentando la consapevolezza solo relativamente a queste situazioni. Non che non sia utile un lavoro più a lungo termine con i giocatori, ma in una squadra nazionale è di impossibile realizzazione, perché gli incontri sono rari e le persone cambiano continuamente. 14


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Possono passare anche sei o sette mesi prima che lo psicologo riveda un giocatore. Il lavoro sulla consapevolezza, di contro, richiede tempi lunghi e frequenza di incontri. Lo staff invece è più stabile e con quest’ultimo è stato possibile un lavoro sulla consapevolezza che ha dato i suoi frutti. Prima di focalizzare meglio il lavoro con lo staff voglio fare una precisazione circa il lavoro che abbiamo fatto con i giocatori e la differenza con il modello cognitivista e comportamentista. Sebbene, come appena detto, non abbiamo lavorato sulla consapevolezza e quindi sul “cambiamento profondo” dei singoli giocatori, abbiamo tenuto conto delle diagnosi individuali nel suggerire gli interventi allo staff tecnico; ne abbiamo potenziato i pregi, ma non aggredito i limiti. La tolleranza verso i limiti ha consentito di fare strategie di intervento individualizzate relativamente alle capacità cognitive ed emotive del giocatore. Il risultato è stato quello di velocizzare e ottimizzare l’apprendimento mediante strategie adatte alle persone e, non aggredendone i limiti, si è creata coesione tra staff e giocatori e tra i giocatori stessi I cognivitisti e i comportamentisti non individualizzano il compito o, quando lo fanno, non hanno strumenti diagnostici molto potenti, per cui l’intervento diventa poco efficace. È chiaro che potendo lavorare contemporaneamente sulla consapevolezza dello staff e dei giocatori migliorano l’efficacia dell’intervento. Ma non è sempre è possibile fare tutto. Quando non c’è tempo di fare le diagnosi posso scegliere di intervenire con un compito uguale per tutti, ma so che l’efficacia e la prevedibilità del mio intervento si riducono molto. Sto cercando di dire che tutto è utile ed è meglio di niente ma, lavorando con modelli più vasti, ho la possibilità in base al tempo e alla situazione, di scegliere l’intervento più adatto e di prevedere, con discreta approssimazione, che possibilità di realizzazione dell’obiettivo abbiamo, a seconda che lavoriamo con il solo compito, con le diagnosi dello staff e giocatori, intervenendo sulla consapevolezza del loro staff o anche su quella della squadra. Potrebbe essere ovvia la domanda: ma a cosa serve la consapevolezza e la libertà di scegliere responsabilmente? Una volta che lo psicologo sa qual è l’intervento utile per quell’allenatore con quel giocatore, non basta che gli suggerisca cosa deve fare? Che importanza hanno a questo punto la consapevolezza e la libertà di scelta? Noi non possiamo che la conoscenza meccanica sia sempre sbagliata. Come dicevo sopra a volte la scelgo come unica possibilità, altre perché può funzionare ed economizza tempo. Purtroppo diventa inutile quando l’allenatore, per difficoltà personali, non è capace di eseguire il compito assegnatogli. Per semplificare questo concetto e renderlo più comprensibile utilizzarò una metafora. 15


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Per guidare l’automobile non avete bisogno di conoscere il funzionamento del motore. Se decidete di intraprendere un viaggio la guidate in modo automatico. Supponiamo, però, che a metà del viaggio l’auto all’improvviso si fermi. Se non sapete nulla di motori potete dire addio al vostro viaggio. Se avete conoscenze sul funzionamento del motore, potete valutare la situazione, e stabilire se provare ad aggiustarlo o non. Ipotizziamo che il guasto del motore rappresenti la difficoltà che un allenatore trova ad un certo punto dell’applicazione di un compito. Solo rendendolo consapevole dei meccanismi che sono sottesi a quella difficoltà (=conoscenza del motore), lo si può aiutare a valutare se la sene di superali o meno. Nel primo caso lo psicologo gli fornirà consigli e tecniche che lo aiuteranno; dopodiché si potrà ritornare al compito. Con la staff tecnico il lavoro è stato approfondito, perché si è puntato a lavorare sulle difficoltà individuali che impedivano di applicare i suggerimenti. Per esempio, se un allenatore ha difficoltà a suggerire un certo compito e cade in conflitto con il giocatore X a causa della forte aggressività di quest’ultimo, noi esploriamo le problematiche dell’allenatore relative all’aggressività. Quindi lo aiutiamo a superarle, in modo tale da favorire la comunicazione in questa coppia. Lo psicologo cognivitista e quello comportamentista non esplora le problematiche emotive dell’allenatore, limitandosi ad insistere sul compito. Dal nostro punto di vista, l’allenatore potrebbe verbalmente accondiscendere e mettercela tutta, ma il risultato sarà frustante. Allo stesso modo, se non hanno chiari i limiti cognitivi ed emotivi dei giocatori, possiamo suggerire con molta precisione i compiti, ma i giocatori non li applicheranno affatto o solo parzialmente. Poiché il nostro obiettivo non è stato quello di lavorare sul cambiamento dei giocatori, ci siamo limitati a suggerire agli allenatori, di tenere contro delle differenze tra i giocatori e di adattare gli interventi ai limiti di questi ultimi. Il tutto non sarebbe stato possibile senza aumentare negli allenatori la “consapevolezza” delle proprie ed altrui difficoltà. Allo stesso tempo non ho mai imposto un cambiamento agli allenatori, ma li ho posti di fronte alla scelta, valutando pro e contro di un cambiamento, quando e se voler provare a superare alcune proprie difficoltà per meglio aiutare quel o quei determinati giocatori. La possibilità di scelta da parte di chi vuole operare un cambiamento è importante, ed è giusto prendere in considerazione la fatica. Ciò generalmente rende più tollerabile il peso di un cambiamento. In più, se tale peso è insopportabile per l’allenatore, lo psicologo può prendere in considerazione strategie alternative che rendano affrontabili i limiti. Spero che questi esempi concreti siano sufficienti a farvi comprendere un modello che è molto complesso. Mi auguro, inoltre, che ora possa essere un po’ più chiaro perché cotruttivismo, 16


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emergentismo, consapevolezza, libertà e responsabilità non siano utili solo per speculazioni intellettuali, ma abbiano una finalità pratica di estrema utilità.

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3. Identità Per il buon raggiungimento degli obiettivi dobbiamo definire l’identità ( = struttura di personalità ) dei giocatori e della squadra. “L’identità definisce le caratteristiche di ciascuna struttura esistente”. È un concetto che solo teoricamente possiamo considerare isolatamente. Nella realtà il concetto di “identità” non esiste senza quello di “relazione”. Per il nostro scopo, al contrario, è molto utile definire l’identità dei singoli individui. Ogni cosa, animata e non, ha una sua precisa identità. L’identità delle cose è importante per poterle comprendere ed eventualmente modificare. Così come la struttura chimica dell’acqua è H2O, anche l’uomo ha una struttura di personalità che va definita. È chiaro che per l’uomo l’identità è qualcosa di molto più complesso che non per l’acqua. Il nostro scopo non è quello di definirne “l’identità fisica”, bensì quella psicologica. Da quest’ultimo punto di vista, secondo il modello strutturale integrato di Ariano, per l’essere umano dobbiamo prendere in considerazione tre livelli: a) il primo è detto livello di struttura ed energia; b) il secondo è detto livello relazionale e si suddivide in Genitore, Adulto, Bambino; c) il terzo è definito livello dei linguaggi dell’identità e focalizza i sistemi Razionale, Fantastico, Emotivo, Corporale. Lo schema seguente descrive la personalità ideale. (fig. 2)

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In ciascun individuo i diversi livelli avranno forme e contenuti diversi. La figura seguente esemplifica alcune tipologie di personalità. (fig. 3)

Struttura di personalità o diagnosi strutturale significano per noi la stessa cosa. È cioè indispensabile per un intervento psicologico, secondo il “ modello strutturale integrato”, stabilire la diagnosi dell’allenatore e di ciascun atleta e componente la squadra. Cerchiamo ora di definire ciascuno dei livelli e sottolivelli di cui abbiamo parlato.

3.1 Livello dell’energia e della struttura Ad un livello più generale distinguiamo l’energia e la struttura. La struttura è il contenitore dell’energia. Aristotele le avrebbe chiamate materia e forma. Mentre l’energia rappresenta la spinta, la struttura rappresenta la direzione, diciamo il binario su cui si dirige la spinta. Il contenitore senza energia è vuoto e spento, l’energia senza contenitore è caos. Ci sono persone a prevalenza struttura e persone a prevalenza energia. Vedremo in seguito che quelle a prevalenza struttura sono stabili ma noiose, tendono ad essere più genitoriali e cognitive; quelle a prevalenza energia sono vive ma spesso inconcludenti, hanno un bambino più sviluppato e un livello emotivo maggiore di quello 19


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razionale. Il bambino, per intenderci, è più energia rispetto all’adulto. Ci sono poi persone con forte energia e struttura in contrapposizione e così via. è chiaro che energia e struttura sono due aspetti indispensabili nella definizione di personalità. Laddove l’uno o l’altro sono carenti trovare strategie per potere supplire a tale mancanza.

3.2 Livello relazionale A livello relazionale avremo i sottosistemi Genitori, Adulto e Bambino. Questo livello ci dice come ciascuno di noi si relaziona al mondo esterno. Il “ genitore” rappresenta le regole sociali, quindi il dovere. Il “ bambino” rappresenta più i nostri bisogni e la loro soddisfazione, perciò rappresenta il piacere. L’ ” adulto” è la capacità di armonizzare in modo realistico dovere e piacere. Presupponiamo, quindi, che una persona normale sia più o meno sviluppata secondo tutti questi livelli. L’esperienza, però, mi dice che più che una persona normale, questa è la persona ideale. Spesso troviamo che alcuni sono focalizzati sul “dovere” ( genitore), altri sul “piacere” ( bambino), altri vivono in un continuo contrasto tra piacere e dovere per cui non stanno bene né con il piacere né con il dovere. (fig. 4)

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È importante stabilire a quali di queste categorie appartenga un giocatore. Sicuramente il “ bambino” è molto più creativo del “ genitore”, mentre il secondo è molto più stabile. Nei momenti in cui bisogna accendere il gioco, per esempio, sicuramente il “ bambino” potrebbe essere molto utile. Nello stesso tempo però non va dimenticato che essendo il bambino molto vivo ma poco strutturato, bisogna dargli chiari binari su cui dirigerlo. La difficoltà con questo tipo di struttura è nella giusta mediazione tra l’incanalarlo su un binario senza ucciderne la creatività. Senza una chiara struttura, cioè senza un chiaro orientamento sia sulla tecnica sia sulla tattica, questo giocatore può perdersi. Nello stesso tempo costringerlo troppo rigidamente in schemi, potrebbe creare un grande senso di agitazione con spreco di efficacia e tempo. Non è semplice coniugare questi due livelli e la riuscita o meno dipende anche dalla struttura di personalità dell’allenatore, argomento che affronteremo più dettagliatamente nel capitolo “4”, quando parleremo della relazione. Il bambino può essere “ al servizio degli altri” oppure “ egocentrico”. Il bambino al servizio degli altri, diventa creativo e funzionale per la squadra quando trova un allenatore adulto - genitoriale che sappia dargli supporto e ben dirigerlo con chiare strategie cognitive, senza castrarlo eccessivamente rispetto alle sue iniziative. Lo stesso giocatore con un allenatore castrante, capitolerà verso il basso. Mi rendo conto che vi sto anticipando qualcosa sulla relazione, ma i concetti di identità e relazione sono imprescindibili l’uno dall’altro. Per comodità didattica e per meglio definire le cose, li scindiamo. Tale scissione è comunque una forzatura. Il bambino egocentrico non rispetta le regole e non si assume le proprie responsabilità circa i limiti e gli errori e soprattutto non capisce gli altri. Nel prossimo capitolo vedremo in quale situazione un giocatore di questo tipo può essere pericoloso per allenatore e squadra. L’atleta genitore, molto più centrato sul dovere, è più adatto a mantenere un equilibrio; forse va meglio nelle situazioni dove c’è molta tensione, ma non in quelle che richiedono creatività e lettura veloce del gioco. La personalità genitoriale, al contrario, è prigioniera del dovere. Si lascia andare molto difficilmente. Non è perciò spontanea e creativa; può invece organizzare bene rifacendosi, però a schemi conosciuti. Nella fig. 5 vengono riportati tre esempi di strutture di personalità di atleti. Vengono precisate le caratteristiche comportamentali delle tre diverse tipologie e ciò che “l’allenatore ideale” dovrebbe fare.

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3.3 Linguaggi dell’identità A livello dei linguaggi dell’identità il modello strutturale integrato focalizza le sfere Razionale, Fantastica, Emotiva, Corporale. Vuol dire che ciascun essere umano nella sua composizione psichica consiste di un livello razionale, uno fantastico, uno emotivo ed uno corporale. 22


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Il livello razionale (o sfera razionale) rappresenta il “come” una persona legge la realtà, più banalmente come pensa, Noi ipotizziamo che non tutti leggano il mondo nello stesso modo. Il livello fantastico (o sfera fantastica) è dato dalle immagini o anche da un pensare logico che non necessariamente richieda esame di realtà. Io posso fantasticare di cose che non esistono e forse non esisteranno mai. Il livello emotivo (o sfera emotiva) ci dice chi veramente siamo in quel determinato momento. I nostri pensieri possono camuffare cosa veramente proviamo, molto più difficilmente possono farlo le nostre emozioni. Il livello corporale (o sfera corporale) infine, evidenzia che la nostra stabilità psichica si esprime attraverso posture somatiche, contrazioni muscolari o parti eccessivamente controllate. Per ciascuna di queste sfere è importante valutare sia la “ quantità” che la “ qualità”. La valutazione della qualità, invece, focalizza le caratteristiche di ciascuna sfera (razionale, fantastica, emotiva e corporale) e di come ogni persona le utilizza. La sfera razionale rappresenta il nostro modo di pensare secondo la logica e in modo realistico, cioè condiviso. Analizziamo la sfera razionale sia nei suoi aspetti quantitativi che qualitativi. Relativamente alla quantità una persona a sfera razionale dominante è stabile e poco creativa. (fig. 6)

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Un giocatore a sfera razionale dominante generalmente non richiedono eccessive spiegazioni tattiche, ma ha un bisogno di essere sollecitato con esercizi di lettura di situazioni impreviste, al di fuori del suo controllo. Allo stesso tempo necessiterebbe di esercizi finalizzati a rendere più viva la sfera corporea. Questo tipo di intervento, chiaramente, non può prescindere dall’idea di problematicità che lo psicologo si fa del giocatore, e dal tempo che si ha disposizione. Immagino che in un club questo lavoro è maggiormente possibile che in nazionale. La valutazione della qualità del livello razionale esamina i processi logici percettivi, di memoria, induttivi e deduttivi. Partendo da “premesse vere” (un esempio di “premessa vera” è “gli uomini sono mortali e non immortali”) noi conosciamo, utilizzando sia la modalità induttiva e deduttiva. Esemplificando, un bambino che si scotta con un fiammifero dedurrà un comportamento di evitamento ogni volta che si troverà di fronte al fuoco: in questo modo non si scotterà di nuovo. È chiaro che induzione e deduzione rappresentano momenti logici fondamentali per poterci orientare nel modo funzionale. Sebbene in ciascuno di noi queste due modalità di conoscenza siano entrambe presenti, spesso avviene che una sia usata più dell’altra. Perciò, nella valutazione della sfera razionale, nel modello strutturale integrato focalizziamo generalmente due tipologie fondamentali e delle sottotipologie. Queste ultime, sebbene interessanti, non verranno prese in considerazione in questo lavoro. Possiamo avere il giocatore sul versante percettivo-induttivo, e quello opposto sul versante memoria-deduttivo. Rappresentano due modi completamente diversi di usare l’intelligenza. ( fig. 7)

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Un’intelligenza è più sul versante percettivo-induttivo quando riesce a cogliere molti stimoli nuovi e trarne delle regole generali. Banalizzando, un giocatore induttivo, che si aspetta, in base a uno schema appreso in allenamento, che il suo compagno si muova verso destra, quando quest’ultimo si muoverà verso sinistra non avrà difficoltà a trovare immediatamente una nuova soluzione per la situazione imprevista. Al contrario un giocatore più deduttivo potrebbe sentirsi completamente spiazzato. A livello comportamentale ciò potrebbe tradursi o in “paralisi momentanea” con perdita di tempo, o in ripetizione stereotipata del comportamento appreso, con un errore nel passaggio. Il giocatore sul versante deduttivo, quindi, tende a relazionarsi alla realtà mediante stimoli appresi, trovando difficoltà a farne entrare di nuovi. È veloce nell’esecuzione di schemi noti ma non lascia facilmente entrare nuovi stimoli. Laddove è necessaria maggiore stabilità, quindi, potrebbe essere più funzionale del giocatore induttivo-percettivo. Il giocatore induttivo al contrario, è molto veloce nella comprensione di nuove situazioni però, a volte può essere sopraffatto dagli stimoli, con conseguente difficoltà a focalizzare quelli più importanti. Un altro limite di questa struttura è quello di “vedere bene” ma non fidarsi di quello che vede. Perciò sarebbe della massima importanza che l’allenatore rinforzasse tutti gli interventi nei quali il giocatore dà prova di aver fatto un intervento funzionale. È inutile chiedere ad un giocatore rigidamente deduttivo una forte capacità di lettura del gioco. L’allenatore deve sapere che sono degli ottimi ripetitori e vedono “l’ovvio”. Non comprendere questo significa instaurare un’inutile tensione tra allenatore, giocatore e squadra con risultati che possono diventare catastrofici. Quello che sto cercando di focalizzare è che esistono modi diversi di leggere la realtà, cioè intelligenze diverse. Non comprendere questa diversità fa sì che due persone parlino linguaggi diversi senza capirsi mai. La cosa peggiore di questo tipo di situazione è il colpevolizzarsi reciproco: “non si impegna, se ne frega”, e dall’altra parte “non mi capisce, io do il meglio e lui dice che non mi sforzo”. In effetti in questa situazione non c’entra la volontà. I limiti strutturali purtroppo non si superano tanto facilmente. Penso che se prima di prendere in squadra un giocatore, l’allenatore avesse chiaro non solo il tipo di pallacanestro che promuove ma anche quali sono le caratteristiche cognitive necessarie per praticarla e le caratteristiche razionali del giocatore che vorrebbe acquistare, non vedremmo tanti frustanti fallimenti. Un allenatore che non abbia comprensione e tolleranza per le differenze individuali farà molta più fatica con minori risultati. Mentre la capacità induttiva o deduttiva ci dice la modalità di funzionamento razionale di una persona, i postulati di fondo ci informano circa i contenuti che fanno da substrato a tutto il comportamento. In logica e matematica i postulati sono quelle proposizioni che senza essere evidenti o dimostrate si assumono a fondamento di una dimostrazione. Nel modello strutturale integrato di Ariano i postulati di fondo di una persona determinano i cosiddetti pregiudizi. Tali 25


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pregiudizi vengono assunti come veri, non vengono messi in discussione né criticati dalla persona che li possiede (è un altro che dovrà farlo), e su di essi si fondano giudizi e comportamenti. Se per esempio un allenatore è convinto che chiunque pensi con la propria testa è un carattereopatico ingestibile, demonizzerà qualsiasi forma di creatività e autonomia, mentre tenderà a premiare la dipendenza e il conformismo. Al contrario, un allenatore che pensi che le uniche persone degne di stima siano quelle ribelli e molto creative, demonizzerà chi, sebbene si impegni con fatica, sia più sul versante adattivo/dipendente. Ciascuno di noi sulla base della propria storia individuale si è costruito una serie di postulati che ne governano il comportamento. È molto importante poter riconoscere e modificare quei postulati che diventano distruttivi per la squadra. I postulati di fondo sono importanti non tanto da un punto di vista tecnico-tattico, ma per la funzionalità dei rapporti interpersonali tra giocatori e tra giocatori e allenatore. La sfera emotiva nel modello strutturale integrato è importante quanto quella razionale. Le emozioni danno informazioni sulla nostra reale esistenza. Noi possiamo pensare di essere felici mentre invece siamo tristi. Per capire, quindi, chi siamo veramente dobbiamo guardare il livello emotivo. Anche per la sfera emotiva come per quelle cognitiva dobbiamo valutare una “ quantità” ed una “ qualità”. La “ quantità” ci dice quanto è grande in assoluto la sfera emotiva dell’individuo in esame, e quanto è grande in rapporto alle altre sfere. (fig. 8)

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La personalità emotiva può essere più intelligente di quella razionale (so che questo potrebbe confondervi); il problema è la difficoltà di contenimento emotivo che determina caduta dell’attenzione. Ciò non è da attribuire a pigrizia e scarsa intelligenza. Un intervento efficace, in questo caso, richiede molta chiarezza nelle comunicazioni verbali, facendo attenzione che il giocatore le abbia comprese (per esempio si può chiedere cosa si è detto per verificarne la comprensione esatta), altrimenti con calma bisogna ripetere. Contemporaneamente è bene ogni tanto fare scaricare la tensione e farlo riposare. Un tale comportamento da parte dell’allenatore di per sé funge da contenimento emotivo e dopo un po’ di tempo si noteranno visibili cambiamenti. Possiamo avere persone emotivamente troppo vive, altre troppo spente. Ce ne sono alcune controllate finché lo stress è basso, ma che perdono assolutamente il controllo quando aumenta, per cui l’allenatore a volte non capisce cosa stia succedendo. Di fatto, chi controlla troppo non sa gestire emozioni forti, mentre comunemente si crede che chi controlla molto, controlla tutto. Non c’è niente di meno vero: purtroppo chi controlla troppo gestisce fino al limite che gli è possibile. Le persone che controllano molto a livello emotivo hanno bisogno di controllo anche a livello razionale. Il gioco per queste persone è bene che sia molto strutturato. Chiamiamo “strutturato” un tipo di basket in cui le azioni sono, per quanto possibile, organizzate e prevedibili. All’interno di tale gioco strutturato i giocatori “che controllano molto” saranno creativi e precisi ma non bisogna aspettarsi che sappiano risolvere gli imprevisti. Una tale aspettativa da parte dell’allenatore potrebbe far perdere la partita. Sapere quali sono le differenze emotive significa poter prevedere, nei momenti cruciali, le reazioni e l’affidabilità dei giocatori. Ad esempio, mi è capitato di lavorare su una situazione in cui gli allenatori, non capendo che un giocatore del tipo “troppo controllato emotivamente” non era affidabile perché sotto stress, continuavano a tenerlo in campo, senza dargli chiare strategie razionali che potessero calmare il giocatore mettendo ordine nella squadra. Il controllo cognitivo, infatti, aiuta queste persone a ritrovare il controllo emotivo. Il giocatore del nostro esempio rimaneva così allo sbaraglio, in preda ad un panico crescente, tirandosi dietro l’intera squadra con conseguenze disastrose per tutti. La paura gli faceva perdere la testa e perdere la testa aumentava la paura. È bastato dure all’allenatore di mandarlo in campo dando (a lui ma anche alla squadra) strategie precise perché si interrompesse questo circolo distruttivo. La partita successiva questo intervento: il giocatore, che viveva un momento difficile della sua carriera, grazie ai rinforzi positivi, dovuti alla comprensione di come bisognava trattarlo, si è ripreso. Anche “il giocatore molto vivo emotivamente” e poco controllato ha bisogno di struttura. Apparentemente sembra che non ci sia molta differenza tra quello controllato e questo: invece la differenza è notevole. Mentre il primo in una struttura rigida sta bene, è molto ordinato ed esegue 27


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bene le consegne dategli, il secondo fa fatica a rimanere negli schemi sebbene siano utili. La difficoltà per questa struttura sta nel mantenere costante il livello di concentrazione. Anche qui ho assistito a incomprensioni e colpevolizzazioni: “non rispetta le regole, non si impegna”. L’impegno di un atleta va sempre letto in relazione alla sua struttura di personalità; le generalizzazioni di comportamento non sono funzionali, creano solo perdita di energie e tempo con conseguente frustrazione per tutti. “Il giocatore emotivamente spento” andrebbe aiutato a diventare più reattivo. A volte può essere importante affiancarlo in camera con una persona che lo facci sentire a suo agio e vediamo che un po’ si sveglia; altre volte si può chiedere ad un compagno in campo di sollecitarlo delicatamente. Generalmente in un buon clima di squadra aiuta questa tipologia di atleti. “Il giocatore coartato emotivamente”, cioè molto rigido e molto distante dal mondo emotivo, preferiamo non toccarlo e speriamo che “non si svegli il can che dorme”. Quando parliamo di “qualità” emotiva intendiamo il rapporto e la forza delle singole emozioni. All’interno della stessa sfera emotiva distinguiamo quattro principali emozioni: paura, rabbia, tristezza, gioia. Ogni persona può avere familiarità maggiore con tutte o con nessuna o solo con alcune di queste emozioni. È molto importante valutare quali di esse sono dominanti, quali quelle che non sappiamo gestire. (fig. 9)

La figura “9.a” definisce la personalità ideale, la “9.b” la personalità rabbiosa, la “9.c” quella spaventata. 28


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Tutte le emozioni hanno un’accezione positiva e una negativa. La rabbia, per esempio, può significare assertività, ma anche invida distruttiva. La paura può esserci utile laddove ci informa di pericoli esistenti, ma inutile se diventa ansia diffusa e paralizzante. Anche la voglia di vincere e far bene, però se non controllabile potrebbe creare dispersività, invadenza ecc. Cerchiamo ora di focalizzare la prevalenza di alcune emozioni e le loro conseguenze. Un “ atleta rabbioso” secondo l’accezione positiva sarà giustamente competitivo, testardo, deciso, assertivo: avrà una mentalità vincente e la capacità di sostenere questo obiettivo. L’atleta rabbioso secondo un’accezione negativa, invece, sarà competitivo ma invidioso, non tanto centrato sul far bene, ma desideroso che il compagno faccia male per emergere. Purtroppo, non sempre un occhio non specialista è in grado di costruire una relazione di casualità tra la rabbiosità subdola e la tensione che si sviluppa in una squadra. Sto cercando di dire che la rabbia legata all’invidia istruttiva è dannosa sia nel giocatore che nell’allenatore, ma nella misura in cui è implicita, cioè non esplosiva ma più manipolativa e sotterranea, è ancora più pericolosa perché il più delle volte non la si capisce. Ho visto giocatori “ nientificarsi” quando venivano affiancati da altri e “risorgere” nella separazione. Questo succede perché noi siamo abituati a pensare alla rabbia solo come un sentimento esplosivo. Ci sono persone molto rabbiose ma controllate che invece di esplodere fanno esplodere chi sta al loro fianco. La rabbiosità subdola è difficile da cogliere per una persona non esperta. Ci sono poi atleti in cui la paura è il sentimento dominante. Quando la paura significa prudenza, capacità di cogliere il pericolo, aiuta a fare buone strategie funzionali alla situazione. Atleti che non vivono questo sentimento sono molto poco prudenti, tendono per esempio a giocare da soli, fanno anche laddove dovrebbero lasciar fare. Aumentare la paura in queste persone è utile se si vuole migliorare il gioco di squadra. Certo non è cosa facile. Esiste poi una paura paralizzante legata a un sentimento di sfiducia o eccessiva aspettativa verso se stessi, o difficoltà ad essere sereni con i propri errori. Bisogna in questi casi essere attenti ai momenti di stress e trovare le strategie migliori per aiutare i giocatori a gestire l’ansia. Anche la paura può essere esplicita ed implicita. Come per la rabbia la paura implicita necessita di un occhio esperto. La paura implicita porta, per esempio, deconcentrazione, demotivazione e dispersione. Potrebbe capitarvi di vedere, in certi periodi, che un giocatore si distrae in particolari situazioni (state attenti se capita in momenti in cui la partita diventa tesa ed impegnativa). Altre volte può succedere che il giocatore divenga pigro, non ha molta voglia di fare. Altre volte fa, ma quello che fa sembra inconcludente. Non sempre è opportuno arrabbiarsi soprattutto se il tutto non è da addebitarsi alla pigrizia ma alla paura implicita. Certo è molto più facile leggere la paura se vedete il panico sul viso del giocatore e conseguente paralisi motoria. Gli altri atteggiamenti, invece, possono essere più facilmente male interpretati.

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La gioia (intesa anche come eccitazione) è positiva quando dà una grossa motivazione alla vittoria. Diventa negativa quando la persona che la vive non sa gestirla. Mi spiego meglio. Ci sono giocatori (ma anche allenatori) che quando le cose vanno bene, non sapendo vivere senza tensione, commettono acting-out distruttivi per sé e per la squadra. L’acting-out è un comportamento distruttivo completamente al di fuori della consapevolezza. Questo significa che la persona che lo attua non è per niente consapevole che sta facendo qualcosa di distruttivo. Così un giocatore che ha paura della gioia (=eccitazione), dopo una partita andata molto bene sia da un punto di vista tecnico - tattico, che comportamentale, potrebbe cominciare ad arrivare tardi agli allenamenti trovando delle scuse banali. La persona in questione è realmente convinta delle giustificazioni che porta, quindi, è in perfetta buona fede. A questo punto l’allenatore e i compagni di squadra cominciano a provare rabbia e la tensione diventa forte. Senza l’aiuto di un esperto, l’esperienza di gioia si trasforma in una di rabbia e il giocatore che ha messo in atto l’acting-out ha ripristinato un clima di tensione e, quindi, di distanza rassicurante. Capisco che questo discorso può lasciare molto perplessi, perché siamo abituati a pensare che noi scappiamo solo dal dolore e non dal piacere. Ho imparato, invece, che le persone che hanno fatto esperienze negative di vicinanza (fiducia tradita, abbandono, ecc.) ne hanno molta paura; perciò, ogni volta che si ricreano le possibilità perché possa realizzarsi una vicinanza, mettono in atto comportamenti per evitarla. Il tutto, ripeto, avviene in modo assolutamente inconsapevole; se infatti si prova a rendere consapevole di ciò la persona, questa ne sarà molto sorpresa e, probabilmente, vi considererà matto. Ritengo, invece, che l’allenatore, aiutato dall’esperto, può cercare di prevenire tali comportamento e di non litigare (il che potenzierebbe l’acting-out invece di renderlo innocuo). La sfera corporale è molto significativa. Un atleta con buona consapevolezza delle sue reazioni somatiche, con integrazioni nelle diverse parti, credo abbia più possibilità di avere successo. Abbiamo diverse tipologie di corpi: rigidi, flaccidi, frammentati, devitalizzati, vivi. Questa sfera andrebbe ben studiata e darebbe credo risultati significativi in ambito sportivo. Molte difficoltà tecniche potrebbero derivare da tipologie caratteriali che determinano certi tipi di struttura corporea. Per quanto molto interessante, diventerebbe troppo complesso, in questa sede, dilungarmi sul corpo. Parlerò solo brevemente della sfera fantastica. Esplorarla può essere di grande utilità per comprendere le fantasie paurose di giocatori e allenatori, relativamente ad alcune situazioni di gara o a persone specifiche. Ciò potrebbe prevenire comportamenti distruttivi, aiutando le persone a valutare realisticamente le situazioni e a prendere le dovute precauzioni.

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Seguono degli esempi grafici di alcune tipologie di giocatori relativamente ai livelli razionale, fantastico, emotivo, corporale. Vengono focalizzate le caratteristiche comportamentali e cosa dovrebbe fare l’allenatore ideale per migliorarne il rendimento. ( figg. 10, 11, 12 e 13)

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3.4 L’identità e gli adolescenti Gli adolescenti meritano qualche nota a parte. L’adolescenza è una fase della vita molto delicata in cui si sperimenta tutto il tormento di essere e non essere. L’adolescente si affaccia all’esistenza adulta con grandi aspettative, spesso onnipotenti, non supportate da realismo. In questo periodo è centrale il tentativo di un processo di differenziazione. Nel modello strutturale integrato relativamente alla prima colonna (G - A - B) l’adolescente tende a rifiutare le norme sociali, non per comodo, ma perché pensa di essere ormai grande e di potere affrontare il mondo con le proprie idee. L’educatore non deve lasciarsi condizionare da tale convinzione. Bisogna stabilire quando è il caso e quando non di fare un braccio di ferro. È fondamentale riconoscere le ragioni dell’adolescente, allo stesso modo, però l’allenatore deve sostenere le proprie posizioni quando non condivide quelle del giocatore. Relativamente alla seconda colonna, per la sfera emotiva (E), la rabbia è il sentimento dominante; la paura è molto forte, ma poco consapevole; la tristezza è difficile da gestire; l’eccitazione è anch’essa forte ma non sempre contenibile. È chiaro che questi principi di massima vanno calati nelle realtà individuali. Ciò significa che esiste una personalità - tipo dell’adolescente che va declinata con la diagnosi individuale. Cosa si fa con l’adolescente spaventato, ma inconsapevole della propria paura? Bisogna valutare se parlargliene o non. Quando il ragazzo è in una fase oppositiva conviene non esplicitare la paura. In 34


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ogni caso è bene prendersene cura intuendo le situazioni che lo spaventano e fornendogli delle soluzioni di contenimento. Ad esempio, quando in partita comincia a sbagliare, gli si può suggerire di chiedere aiuto al giocatore X. Il giocatore X è quello che sa gestire meglio la propria paura. In questo modo l’adolescente fa un’esperienza positiva di supporto e può superare il problema senza sentirsi svalutato nelle sue capacità. Può accadere che la rabbia sia forte e il giocatore non abbia le capacità emotive e cognitive di viverla in modo funzionale. Tenterà allora di reprimerla, facendo poi degli acting-out; a questo punto la rabbia la vivrebbero gli altri. Abbiamo già parlato degli effetti distruttivi di tale atteggiamento per tutta la squadra. È bene, allora, che l’allenatore espliciti la situazione aiutando il giocatore a trovare soluzioni funzionali: la rabbia potrebbe dipendere da tensioni con altri giocatori, con gli allenatori o, se tutto in squadra funziona, con i genitori, essendo i rapporti familiari dell’adolescente molto conflittuali. Otterrete due vantaggi: il primo è la crescita e il secondo è l’attaccamento a voi e alla squadra, che diventa oltre al posto dove ci si diverte, anche un buon supporto alla vita. La tristezza per una partita persa o per un sentimento o un’aspettativa tradita va supportata. È bene che l’allenatore inizi a far capire al ragazzo che la vita è piena di queste cose, che ciò non significa che è un fallito, e che cadendo bisogna imparare a rialzarsi. Il tutto non va fatto banalizzando l vissuto del giocatore: al contrario, è necessario il massimo rispetto del suo dolore. Ciascuno in base alla propria struttura caratteriale avrà reazioni diverse relativamente al fallimento. L’eccitazione è forte, ma anch’essa non è sempre ben tollerata. Le vittorie possono scatenare l’esuberanza adolescenziale ma questa potrebbe risultare fastidiosa, un po’ invadente, sia per i compagni di squadra che per gli allenatori. Senza essere castranti si può invitare il giocatore a contenersi o a scaricare l’eccitazione in un modo accettabile. Alcuni ragazzi, ad esempio, si muovono molto, altri toccano spingendo. In quest’ultimo caso si può spostare l’eccitazione dal piano fisico a quello verbale, invitando il giocatore a raccontare una barzelletta o qualcosa di divertente. Il ragazzo si scaricherà e voi avrete tolto dall’imbarazzo chi, sentendosi troppo toccato, provava fastidio (non dimentichiamo che le problematiche relative all’omosessualità sono forti a questa età). La sfera corporale (CO) degli adolescenti rispecchia la loro fragilità emotiva. Per questo motivo sono contraria a quei lavori fisici che potenziano troppo la muscolatura senza un lavoro di rinforzo emotivo. Così a volte capita di vedere giocatori che esternamente sembrano “ supermen”, ma possono terrorizzarsi per molto poco. Trovo che questa dissociazione tra “muscoli” e “forza della personalità globale” sia dannosa per il singolo giocatore e per l’ambiente in cui va ad inserirsi. L’ambiente, infatti, potrebbe avere delle aspettative non realistiche. Questo non significa che con gli 35


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adolescenti non bisogna mai fare un lavoro di potenziamento muscolare, ritengo però che nel farlo sia necessario tenere contro della struttura di personalità globale. Relativamente alla sfera razionale (RA) l’adolescente è più confuso dell’adulto, anche quando non lo ammette. È bene tenerne conto, infatti quando l’allenatore spiega deve essere molto chiaro. Spesso le premesse da cui gli adolescenti partono sono sbagliate, perché frutto di idealizzazioni o semplificazioni. Ad esempio a volte pensano che essere liberi significhi fare tutto ciò che ritengo giusto, dimenticando che la libertà coesiste con il rispetto. Qualche volta, migliorando la comprensione a livello cognitivo, il ragazzo potrebbe destabilizzarsi emotivamente (per esempio si spaventa). Qualora ciò dovesse succedere è opportuno esplorare il motivo del turbamento, in modo da potere intervenire. Se le competenze del solo allenatore non dovessero essere sufficienti è bene rivolgersi a un esperto.

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4. Relazione Sempre per il buon raggiungimento degli obiettivi, dobbiamo definire oltre all’identità anche le relazioni dei singoli giocatori e allenatori costituenti la squadra.

“La relazione definisce il rapporto tra le parti costituenti una unità”. Per “unità” intendiamo sia un membro di una classe, sia la classe stessa. Con ciò vogliamo dire che due unità semplici poste in relazione tra loro costituiscono una unità complessa. Questa unità, in relazione ad un’altra, darà luogo ad un’unità superiore. Per esempio, l’idrogeno e l’ossigeno posti tra loro in relazione formano l’acqua. Quindi, due identità particolari poste in relazione tra loro danno luogo ad una nuova identità più complessa di quella precedente. L’acqua combinandosi con un' altra molecola costituirà un’altra sostanza di complessità maggiore. Come già detto, appare evidente, che, sebbene per comodità didattica abbiamo scisso i concetti di “identità” e “relazione”, nella realtà tale scomposizione non è possibile. Anche nella relazione è indispensabile definire l’identità delle parti costituenti l’unità; la focalizzazione qui è però sull’aspetto dinamico anziché su quello statico. I modelli di psicoterapia relazionale, cioè della famiglia e della coppia, utilizzano il concetto “relazionale” quando si parla di due o più individui. Concettualmente ciò è impreciso, perché già nell’uomo, come singolo individuo, abbiamo visto che la relazione tra le parti (G, A, B; RA, FA, E, CO) dà luogo a identità tra loro differenti (cioè uomini diversi). Anche la “struttura” è quindi un sistema di parti in relazione, perciò logicamente è improprio chiamare relazionali solo quei sistemi composti da più individui, escludendo da questa definizione il “sistema persona”. Didatticamente, però, può essere utile separare l’approccio individuale da quello in cui vengono presi in considerazione due o più individui. Per tale motivo, in questo capitolo, scelgo di utilizzare il termine “relazione” facendo riferimento a quei sistemi che comprendono due o più persone. Quando prendiamo in considerazione due o più uomini, con una loro precisa identità strutturale, in relazione tra loro, dobbiamo definire questo sistema secondo caratteristiche proprie. Un gruppo, al di là della propria specifica finalità, è un sistema formato da sottosistemi a loro volta composti da individui (vedi cap. 3). Sistema generale, sottosistemi e gli individuo sono tra loro in rapporto secondo una casualità circolare. Ciò significa che gli individui, in base alla loro specifica struttura di personalità, influenzano il sottosistema e il sistema generale e i singoli individui. Per tale motivo, il lavoro che proponiamo prende in considerazione tutti questi livelli, focalizzandone le caratteristiche specifiche e modificandoli nella loro disfunzionalità. Anche quando, per problemi 37


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didattici, si lavora su uno solo dei sottosistemi, lo psicologo non perderà di vista gli altri, e i suoi interventi non prescinderanno mai da una valutazione globale.

4.1 Sistema generale Il sistema generale è la squadra analizzata come tutto, non nelle sue parti. In questo tutto bisogna focalizzare: a) Il potere. Chi lo detiene? Perché? Ha le caratteristiche adatte? (vengono stabilite dalla sua struttura di personalità e dagli obiettivi che la squadra si prefigge di raggiungere); b) La responsabilità. Chi è il più responsabile? Chi dovrebbe essere il più responsabile? Sono chiari i livelli di responsabilità in base ai ruoli specifici? c) La cultura di appartenenza. Intendiamo le credenze, i miti, i valori sociali che sono sullo sfondo. La squadra comprende persone che appartengono alla stessa cultura o a culture diverse? d) L’età e la storia. È una squadra appena nata? Esiste da qualche anno? Ha una storia di successi o di insuccessi? È in crescita, in trasformazione, statica? È una squadra di bambini, adolescenti o adulti? e) Ruolo. È importante una chiara definizione dei ruoli mediante un’assegnazione precisa dei compiti. Inoltre, deve esserci accettazione e rispetto del proprio ruolo, di quello altrui della leadership. f) Livello di consapevolezza. La consapevolezza può essere “razionale” o “emotiva”. Per la consapevolezza razionale bisogna focalizzare la “consapevolezza dello scopo” secondo due aspetti:

• capacità tecnico-tattiche relative a ciascun ruolo; • consapevolezza delle proprie capacità per raggiungere gli obiettivi tecnico-tattici. Per quel che riguarda le capacità tecnico-tattiche relative a ciascun ruolo bisogna stabilire: a) gli obiettivi; b) i mezzi da utilizzare; c) i criteri per la valutazione dei risultati; d) le strategie correttive. Relativamente alla consapevolezza delle proprie capacità per raggiungere gli scopi tecnici-tattici possiamo avere:

• una iper valutazione di sé e dell’altro. A volte una persona viene apprezzata molto di più di quello che vale. Una parte del gruppo potrebbe vivere con forte disagio tale situazione; nello stesso tempo la squadra verrebbe danneggiata dal fatto che questa persona non è veramente all’altezza del compito; 38


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• una sottovalutazione. Alcune persone per eccessiva timidezza, o per un’errata idea di sé vengono sottovalutate dal gruppo. In questo caso il sistema potrebbe perdere delle importanti risorse. La consapevolezza emotiva riguarda il sapere qual è l’emozione relativamente agli obiettivi e alla propria capacità di raggiungerli. Le emozioni possono essere:

• consapevoli ma inadeguate al contesto. Infatti, ci sono persone fondamentalmente rabbiose che tendono a svalutare qualsiasi cosa non sia frutto della propria creatività; altre che, invece, idealizzano tutto ciò che appartiene a coloro che apprezzano, vivendo, quindi, con eccessiva eccitazione e in modo acritico le sue proposte;

• inconsapevoli adeguate o inadeguate al contesto. Ad esempio, una persona potrebbe essere arrabbiata senza saperlo con un’altra perché manipolativa. In tal caso, vivendo la rabbia inconsapevolmente, perderà sempre più in efficienza. Nel caso opposto una persona potrebbe essere inconsapevolmente invidiosa di un compagno di squadra che ha delle buone iniziative: diventerà provocatoria su fatti poco significativi, creando un clima di tensione. g) Invischiamento - disimpegno Per invischiamento si intende l’eccessivo coinvolgimento emotivo, ma anche la confusione di ruoli tra diversi sottosistemi all’interno di un sistema generale. Spesso capita che per confusione degli obiettivi, per particolari strutture di personalità (mi riferisco a quelle persone che, non avendo una precisa identità, saltellano qua e là senza una propria definizione), ruoli e compiti sono confusi. Una tale confusione, generando disordine, richiede maggiore investimento di energia con minori risultati e aumento della tensione. Capita a volte, ad esempio, che un giocatore avendo una struttura di personalità più forte e adulta di quella dell’allenatore, diventi il punto di riferimento della squadra. Generalmente dopo un po’ questa situazione diventa problematica. Pere disimpegno si intende una forte rigidità di ruolo che non consente, in quelle situazioni nelle quali potrebbe essere funzionale, uno scambio. Un sistema disimpegnato comunica molto poco. Può così accadere che un sottosistema non sappia niente o quasi degli obiettivi di un altro sottosistema. Un tale comportamento non crea aggregazione. AL contrario diminuisce la possibilità di confronto critico e di coinvolgimento emotivo, con conseguente caduta della motivazione. Un buon equilibrio tra invischiamento e disimpegno crea autonomia. L’autonomia è data dalla capacità di interessarsi e confrontarsi con l’altro, mantenendo il proprio ruolo, la chiarezza dei

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propri obiettivi e delle proprie capacità. Solo quando l’altro sa argomentare in modo convincente si è disposti a cambiare opinione. Un gruppo autonomo è, quindi, in grado di: a) decidere secondo un disaccordo adulto. Ciò richiede: •

la capacità di ascoltare, senza minimizzare, quello che l’altro dice anche se ansiogeno perché mette in discussione le proprie idee;

la capacità di non sopprimere un conflitto utile alla messa in discussione di qualcosa di disfunzionale, semplicemente perché non lo si sa gestire;

la capacità di incoraggiare l’interlocutore a esprimere le idee anche divergenti dalle nostre.

b) decidere in accordo. Ciò richiede: •

la capacità di accettare l’opinione della maggioranza, non colpevolizzando chi non la condivide;

la capacità di discutere apertamente sulle idee di tutti valutando con regolarità i risultati del progetto;

la capacità di non cadere in facili compromessi, accettando nello stesso tempo quelli funzionali;

la capacità di accettare la diversità di stile nel perseguimento dello stesso obiettivo.

Ad esempio, una squadra è autonoma quando sa discutere di una sconfitta assumendosene la responsabilità. I giocatori ascoltano le opinioni degli allenatori e dei compagni e le valutano criticamente. h) La comunicazione. Capita spesso che in un gruppo si parli molto e perciò si è convinti di comunicare bene. Si può parlare molto e comunicare male, ovvero parlare poco e comunicare bene. È fondamentale che la comunicazione in un gruppo, da un punto di vista dei contenuti sia aperta, cioè che i membri si sentano liberi di esprimere le proprie valutazioni, i disagi e il senso di benessere relativamente ai compiti e al funzionamento generale della squadra. La comunicazione può essere di due tipi: verbale e non verbale. Entrambe possono essere congrue ed incongrue (coerenti e incoerenti). 1. La comunicazione verbale può essere congrua ed incongrua. Può essere congrua al suo interno e congrua con quella non verbale. 1.1 Una comunicazione verbale buona deve essere logicamente corretta partendo da premesse vere. Richiede, inoltre, una buona capacità di ascolto che significa: saper cogliere il messaggio principale che l’altro vuole mandare; saperlo verbalizzare sintetizzandolo; far notare le contraddizioni, in modo tale che, se il messaggio si presenta confuso, possa diventare più coerente. 40


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In più in una squadra è importante che: •

tutti abbiano chiari gli obiettivi da perseguire;

gli obiettivi particolari siano inseriti in un piano generale ben definito che tutti dovrebbero conoscere. Potere inserire un singolo intervento in un progetto più globale aumenta il senso di appartenenza alla squadra, perché ciascuno con il proprio operato partecipa ad un obiettivo più vasto.

Una comunicazione razionale congrua al suo interno deve evitare i paradossi rispettando le regole delle classi logiche. Un classico paradosso è quello dell’ateniese che dice “tutti gli ateniesi sono bugiardi”. In questa comunicazione si può stabilire che l’ateniese dice la verità, solo ponendolo in una classe logica superiore al contenuto che va affermando. Se chi parla e il contenuto della sua affermazione rimangono nella stessa classe logica, non si può stabilire se tale contenuto sia vero o falso. Questi paradossi capitano frequentemente nella comunicazione quotidiana, creando agitazione e stress. Il tutto avviene inconsapevolmente. 1.2 La comunicazione verbale deve essere congrua con quella non verbale. Succede che una persona dice di essere serena, ma contemporaneamente stringe la mascella ed un pugno. Anche qui l’incongruenza è inconsapevole. Altre volte l’incongruenza è espressa non da un’emozione, ma da un comportamento: un allenatore, ad esempio, dice ad un giocatore di apprezzarlo molto, ma non gli affida nessuno compito di responsabilità. 2. La comunicazione non verbale. Si evidenzia nel corpo e negli atteggiamenti. Non è meno importante di quella verbale, anzi per alcune strutture di personalità è considerata la comunicazione primaria. Anche la comunicazione non verbale può essere congrua e incongrua. 2.1 Una comunicazione verbale congrua al suo interno presuppone che tutti gli atteggiamenti somatici siano coerenti con una determinata emozione. Quando, al contrario, gli occhi ad esempio esprimono tristezza e la mascella rabbia, la comunicazione non verbale è incongrua. Cogliere l’aspetto non verbale in contraddizione con quello verbale (doppio messaggio) può fare emergere disagi e preoccupazioni che devono essere affrontati. Una buona comunicazione congrua crea un clima di fiducia ed efficienza. Una comunicazione incongrua, invece, genera molta confusione e forte tensione. Ad esempio, se un allenatore dopo una sconfitta cerca di calmare i giocatori dichiarandosi verbalmente sereno, ma aggrotta le sopracciglia, stringendo un pugno e la mascella, invierà un messaggio confuso (doppio messaggio), con il risultato che la squadra so agita maggiormente. Generalmente una comunicazione incongrua è agita inconsapevolmente. i) Livello dell’energia e della struttura. Un gruppo molto razionale e strutturato è molto stabile; un gruppo più emotivo e più vitale è creativo. È bene che un gruppo sia misto, cioè che comprenda 41


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queste due tipologie di persone. Sotto stress le persone sul versante struttura fanno da contenimento agli altri; quelle sul versante energia, invece, possono trovare soluzioni creative. l) Livello della fiducia di sé e degli altri. Esiste una fiducia di base profonda di sé che degli altri. Questa dipende dalle esperienze passate e presenti di ciascun componente il gruppo. È importante da tener presente perché favorisce l’autostima. Non è una cosa facilmente modificabile, richiede interventi lunghi e complessi. Esiste poi una fiducia legata al contesto. Se la squadra è un contesto caratterizzato da buona comunicazione, da un clima rilassato, da rispetto, da partecipazione e coinvolgimento consentirà che si instauri un clima di fiducia reciproca, favorendo il miglioramento della fiducia di sé. Quando, invece, ad una bassa autostima, con conseguente diffidenza negli altri, si aggiunge un contesto di squadra stressante si perderà molto a criticare invece che a collaborare. m) Motivazione. La motivazione dipende: 1) dalle strutture di personalità individuali costituenti il gruppo; 2) da tutte le altre caratteristiche dei sistemi sopramenzionate

4.2 Sottosistemi Un sottosistema è formato da due o più individui appartenenti alla stessa squadra. Potrebbe essere considerato come un sistema più piccolo. Qualsiasi sistema, quindi, può diventare sottosistema in relazione ad un sistema più in generale. La squadra nel suo insieme è il sistema, i vari ruoli dei giocatori o combinazioni emotive costituiscono i sottosistemi. In base alle scelte tecnico-tattiche di un allenatore si costituiscono i sottosistemi tecnici. Inoltre, all’interno di una squadra si possono avere dei sottosistemi emotivi: alcune persone entrano in un contatto più forte positivo o negativo, a causa delle loro particolari strutture di personalità. Ad entrambe le tipologie di sottosistemi si applica la stessa valutazione del sistema generale appena descritta; in più per i sottosistemi emotivi bisogna applicare la categoria della “simmetria” e “complementarietà”. Due persone rabbiose costituiscono un sottosistema simmetrico, una remissiva e una prepotente costituiscono un sottosistema complementare. In base al tipo di situazione può essere più funzionale o una coppia simmetrica o una complementare.

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4.3 Le relazioni della squadra Non tutte le persone sono tra loro compatibili. Per questo motivo abbiamo coppie possibile e coppie non possibili. Inoltre, possiamo avere persone compatibili, ma non funzionali per un determinato scopo. Perciò sarebbe opportuno che un allenatore nel formare una squadra avesse chiara si la compatibilità tra i giocatori, sia qual è il tipo di gioco cui tali giocatori devono essere finalizzati. Non andare per tentativi ed errori potrebbe far risparmiare molto tempo. L’identità di una squadra è data dalla sommatoria delle diverse componenti e da come tra loro si combinano. Quest’ultima affermazione è importante perché non basta sommare le identità individuali per avere il profilo generale di una squadra. Questo, infatti, è solo un aspetto. Molto dipende anche dalle coppie e cioè dai sottosistemi che si formano all’interno di una squadra. Non è la stessa cosa se il giocatore “A” entra in relazione stretta con il giocatore “B” o “C”. Alcune persone rinforzano o nostri aspetti negativi, altre quelli positivi. Non sempre scegliamo: a volte è il caso che ci impone una persona o un’altra. Sono sempre grata alla vita quando mette sulla mia vita persone che mi aiutano a migliorare. Noi per esempio siamo molto attenti alla combinazione dei giocatori nelle stanze. Cerchiamo di non accoppiare mai persone che ricaverebbero danno per sè e per l’intera squadra da un tale combinazione. Nello stesso tempo, visto che dormire insieme può creare molta vicinanza, cerchiamo di fare incontrare quelle coppie che possono ricavare un vantaggio reciproco dallo stare insieme. Evitiamo, quindi, le alleanze pericolose e aiutiamo quelle costruttive. In una squadra, relativamente all’aspetto “relazione”, dovremmo prendere in considerazione: •

l’unità “singolo individuo” (vedi cap. 3);

l’unità coppia (singolo – individuo + singolo – individuo);

l’unità “triade”;

l’unità “squadra”.

Il primo passo è capire come sia fatto un giocatore, ma il secondo è capire quali sono per lui le relazioni costruttive e quali quelle distruttive. A seconda di chi incontriamo, possiamo reagire in un modo o in un altro. Sulla base di quanto detto, cerchiamo di farci un’idea sia delle strutture di personalità dei singoli giocatori, sia di quella dell’allenatore mediante colloqui e psicotest. In teoria tutti gli allenatori dovrebbero essere persone adulte, capaci di gestire perfettamente quello che provano. Desidereremmo ciò da tutti gli educatori.

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Questo, però, è nelle nostre fantasie. La realtà ci impone molti più limiti. Ritengo che nessuno dovrebbe aspettarsi di essere perfetto, perché non è realistico. Dovremmo imparare a porre le persone lungo un continuum da 0 a 100, sapendo che a questi due stremi non troveremo mai nessuno. Alcuni sono più bravi con delle emozioni e non con altre, altri in certe situazioni e non in altre. La cosa migliore da fare è essere consapevoli dei propri limiti in modo tale da potere prevenire i danni ad essi conseguenti. Nel focalizzare le relazioni in una squadra, come per la diagnosi, dobbiamo distinguere una “quantità” ed una “qualità”. Per la “quantità” guardiamo “chi” e “quante persone” mettiamo in relazione. Osserviamo, quindi, i seguenti livelli: 1) allenatore – singolo giocatore. Lo psicologo, che ha chiarezza sul tipo di coppia specifico, può anticipare la compatibilità e le problematiche che potrebbero venire fuori. La cosa sarà utilissima nei momenti di stress per la squadra, perché l’allenatore saprà qual è il modo migliore per intervenire su ciascuna persona: in questo caso intendo migliore sia per il giocatore che per l’allenatore. Non considererei lo stesso intervento per il giocatore “X” all’allenatore “A” e allenatore “B”. è molto importante infatti che i suggerimenti tengano conto di quello che utile a quel giocatore, ma anche di ciò che quel particolare allenatore è in grado di fare. Un intervento che non tenga conto di quest’ultima cosa è destinato a fallire. Riprendiamo l’esempio del giocatore che dopo una partita andata particolarmente bene ha fatto un acting-out. Ipotizziamo che l’allenatore in esame faccia fatica a gestire la propria rabbia. Sarebbe inutile e pericoloso chiedergli di andare a parlare con quel giocatore in modo deciso ma calmo, facendogli notare quanto accaduto. In questo caso è bene che sia lo psicologo a mediare la comunicazione in modo tale da prendersi egli stesso cura della rabbia di entrambi quando verrà fuori. Solo quando l’allenatore avrà imparato a gestire maggiormente e quindi a contenere la propria rabbia, lo psicologo potrà invitarlo ad andare a parlare da solo con il giocatore. Tutto questo però richiede un lavoro nel tempo. 2) allenatore – assistenti. A livello simbolico rappresentano il sottosistema genitoriale. È molto importante studiare il tipo di rapporto sia di superficie sia profondo: hanno gli stessi valori, sono simili, sono complementari? Passano le informazioni allo stesso modo? La tensione all’interno dello staff tecnico, anche se non viene esplicitata, passa ugualmente creando molto disordine all’interno della squadra. Pensate ad una coppia genitoriale che non va d’accordo e fate un’ipotesi sul funzionamento dei figli e dell’intera famiglia. 44


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Inoltre, capire se gli allenatori sono simmetrici o complementari serve allo psicologo per sapere come utilizzarli con i giocatori. Mi spiego meglio. Una coppia simmetrica significa che i due (o tre, in questo caso triade) hanno caratteristiche simili. Si potenziano negli aspetti positivi, ma nelle difficoltà nessuno può supplire l’altro. Quindi, nel caso di difficoltà che evidenziano i limiti della coppia, lo psicologo dovrà studiare strategie adatte a superarli e a contenerli. Se la coppia degli allenatori è complementare, cioè con caratteristiche opposte e di completamento tra loro, lo psicologo può stabilire quando e con chi fare intervenire l’uno o l’altro. 3) giocatore – giocatore. In tutte le squadre si creano sottosistemi simbiotici. Definiamo “simbiotici” quei sottosistemi in cui il rapporto tra le persone è molto forte perché, il più delle volte, si incastrano su parti complementari. Per esempio, un giocatore spaventato dalla propria forza ed aggressività potrebbe ben incastrarsi con un altro che ha bisogno di controllare esprimendo forza ed aggressività. È molto importante focalizzare i diversi sistemi simbiotici perché l’allenatore deve sapere che intervenendo su un elemento della coppia ci saranno ripercussioni anche sull’altro. Prevedere le reazioni ci darà la possibilità di fare una strategia anziché un’altra. Ma ancora importante è sapere quella particolare coppia simbiotica “Z” quale effetto produrrà sulla coppia “Y” (gelosia, invidia, rabbia, paura ecc.). È chiaro che di quante più variabili riesce a tenere conto l’allenatore con l’aiuto dello psicologo, tanto più farà strategie funzionali che miglioreranno notevolmente la riuscita dei suoi interventi. 4) allenatore – squadra. Una cosa è una squadra di un certo tipo e una cosa una squadra di un altro. Io credo che le catastrofi che a volte si vedono, per cui alcuni allenatori non riescono più a gestire una certa squadra, potrebbero essere evitate se si analizzasse il rapporto di quello specifico allenatore con quella specifica squadra. Una squadra per esempio a forte energia e poca struttura ha bisogno di un allenatore complementare. Questo tipo di squadra, sotto tensione si disorganizza. Disorganizzandosi crea ancora più tensione e quindi ancora più disorganizzazione. Se l’allenatore sotto stress utilizza una reazione simile, nessuno sarà in grado di interrompere questa escalation negativa. Se, invece, la stessa squadra sotto stress si trova di fronte un allenatore con una buona struttura (=forza), quest’ultimo non perderà la testa e riuscirà a riorganizzare il gioco. Allo stesso modo una squadra viva e creativa con un allenatore poco vivo e creativo (ciò significa nel nostro linguaggio che entrambi hanno molta struttura e poca energia) non troverà la forza sufficiente per attivarsi quando è richiesto dalle situazioni.

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Oltre a fare un’analisi delle diverse possibilità di combinazioni (sistema generale e sottosistemi) che abbiamo definito “quantità” è importante stabilire la “qualità” delle diverse combinazioni, un po’ come ho già fatto descrivendo la combinazione “allenatore – squadra”. Sarebbe interessante parlare di tutte queste possibilità, ma ciò porterebbe via troppo tempo. Farò alcuni esempi, perché si possa comprendere l’importanza di questo tipo di valutazione. Lo psicologo che lavora con il modello strutturale integrato metterà a confronto l’aspetto Genitore, Adulto, Bambino, i livelli Razionale, Fantastico, Emotivo, Corporale dell’allenatore – giocatore, del giocatore – giocatore, dei sottosistemi dei giocatori tra loro, a seconda della coppia che si deciderà di studiare. Ecco alcuni esempi per poterci intendere. Ci sono allenatori con un forte senso del dovere (=allenatore sul versante genitoriale); un forte aspetto di “piacere” e di “spontaneità” (=allenatore sul versante bambino); sia dovere che piacere in contrapposizione; un aspetto genitoriale e bambino ben armonizzati dall’adulto. Facciamo qualche ipotesi su cosa può succedere mettendo insieme un allenatore sul versante bambino e un giocatore simile. Riprendiamo gli esempi trattati precedentemente, prendiamo cioè in considerazione il giocatore sul versante “bambino al servizio degli altri” con un allenatore simile. Ci sarà affetto tra entrambi, ma nei momenti di stress, se l’allenatore non è consapevole dei suoi limiti, nessuno dei due potrà contenere l’altro con il rischio che la paura diventi troppo forte e paralizzante. Nel caso invece che il giocatore sia un “bambino al servizio degli altri” e l’allenatore un “bambino egocentrico”, il giocatore comincerà a provare rabbia e non essendo capace di gestirla (perché questo tipo di struttura ha molta paura della propria rabbia e di pensare di esistere autonomamente), comincerà a terrorizzarsi rendendo sempre meno, con il rischio di diventare il capro espiatorio dell’intera squadra. Immaginate, poi, quello che potrebbe succedere se invertissimo questi ruoli. Le conseguenze potrebbero essere anche peggiori, perché nessuno si augura che sia l’allenatore a diventare il capro espiatorio di una squadra. Un allenatore genitoriale puro può essere un buon contenitore. La rigidità del “genitore puro” spesso però taglia fuori stimoli utili a cambiare qualcosa in senso creativo. Se ha una squadra fata di persone vive, le cose possono andare bene perché si compensano reciprocamente (prendete questa affermazione con riserva, non mi è possibile qui specificare ulteriormente); se la squadra invece presenta soggetti devitalizzati, le cose si complicano molto e il rendimento potrebbe essere molto basso (fig. 14).

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Un allenatore con un buon Ra, nel senso che è forte nelle sue capacità induttive e deduttive ed autonomo, può reggere giocatori con Ra fragili che hanno bisogno di essere sostenuti con strategie chiare. Se il giocatore non ha questa capacità e l’allenatore nemmeno o quantomeno preferisce un gioco libero e creativo, il problema diventa molto serio. Succede che il giocatore che ha fatto un ottimo campionato, perché aveva un allenatore con chiare strategie cognitive, con un allenatore che lascia il gioco troppo libero, potrebbe perdere in efficienza. Un allenatore troppo coartato emotivamente può non essere in grado di gestire forti emozioni, frequenti sotto stress.

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Allo stesso modo un allenatore con un’emotività eccessiva e fuori del proprio controllo si troverà seriamente in difficoltà con un giocatore con una emotività simile. Le cose si complicano ancora di più quando non parliamo più di diadi, ma di triadi, o di un’intera squadra. In una squadra si sommano le caratteristiche individuali. Un squadra prevalenza energia ha bisogno di un allenatore con sufficiente struttura per essere gestita. Ciascun allenatore, quando compone la squadra e formula i suoi obiettivi, dovrebbe avere idee chiare e sul tipo di squadra e sulla capacità di gestirne fruttuosamente caratteristiche emotive e cognitive. Ci sono giocatori tecnicamente molto validi, ma assolutamente non funzionali da un punto di vista emotivo. A volte basta una diade di giocatori non funzionale emotivamente per influenzare tutta la squadra, soprattutto se gli altri atleti non sono dotati di forte personalità. Diadi e triadi funzionali sono prevedibili. È importante fare questo tipo di valutazioni per prendere le dovute precauzioni con le coppie eccessivamente problematiche. È chiaro da quanto detto che la “comunicazione”, di cui si parla molto, e che è un aspetto della relazione, non è cosa semplice e scontata. Mi spiego meglio. Dicevamo dell’importanza di fare una diagnosi individuale a tutti i componenti della squadra, allenatori compresi. Fatto questo, lo psicologo comincerà a valutare le diadi funzionali e quelle disfunzionali. Guardando, infatti, ai sottolivelli (G,A, B; Ra, Fa, Em, Co) dei singoli individui si può valutare la differenza – similitudine di questi e capire se le coppie sono compatibili o meno. Noi ci auguriamo che ci sia una qualche possibilità di compatibilità perché altrimenti possiamo cercare solo di contenere i danni. Una scarsa compatibilità tra due giocatori è sempre più gestibile di quella tra allenatore e giocatore. Oltre a capire la differenza – similitudine, e quindi la conseguente possibilità di comunicazione, è importante che lo psicologo possa stabilire su quale elemento della diade conviene intervenire perché il cambiamento sia più efficace. Le domande saranno “su chi?”, “quando?”. Facciamo un esempio tratto da una situazione che ho dovuto affrontare. Una diade composta dal giocatore “X” e da “Y” era disfunzionale. Ho valutato di intervenire sul giocatore “X” anziché sul giocatore “Y” della coppia “X-Y” sarebbe stato molto più utile che fare il contrario. “X” era più sensibile ad un certo tipo di discorso che invece “Y” avrebbe rifiutato. Questa valutazione poteva darcela solo la diagnosi individuale. Perciò, abbiamo deciso di intervenire su “X” per modificare la coppia. La cosa ha avuto successo. Il contrario sarebbe stato un fallimento. Il “quando” intervenire è un’ulteriore importante valutazione. Non si creda che possedendo “una verità” non resti null’altro da fare che dirla. Non c’è niente di più dannoso di una verità detta al momento sbagliato. Lo psicologo sa “quando” e “cosa” dire. Anche in questo caso la valutazione dipende dalla diagnosi della coppia in esame. Prendiamo, per esempio, la coppia allenatore – giocatore e ammettiamo che abbiamo deciso di intervenire sull’allenatore perché, essendo colui che 48


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ha fatto la richiesta di aiuto, o stiamo vedendo con una certa continuità. Ad un certo momento scoppia una tensione molto forte tra allenatore e giocatore. Lo psicologo sa che senza il suo intervento questo rapporto morirà con conseguenze dannose per l’intera squadra.Ha chiaramente in mente la diagnosi individuale dell’allenatore e del giocatore. Individua i punti dei sottosistemi reciproci sui quali vanno in collisione: per esempio potrebbe esserci un punto di diffidenza reciproca molto forte in situazioni nuove e sotto stress. Ciascuno comincerà a vivere l’altro come persecutorio: qualsiasi cosa l’altro faccia viene vissuta come un attacco personale. La diffidenza reciproca può portare a dei veri e propri acting-out che confermano questa percezione. Per esempio il giocatore, convinto che l’allenatore ce l’ha con lui, diventa demotivato e svogliato in allenamento. L’allenatore, vedendo in questo atteggiamento la conferma al fatto che il giocatore fa dei dispetti allo staff tecnico, diventerà più rabbioso e provocatorio con l’atleta. A sua volta il giocatore leggerà in questo atteggiamento la prova che l’allenatore non lo sopporta e diventerà, a seconda del tipo di personalità, più depresso e demotivato o più rabbioso e reattivo. Questo rinforzerà ancora le convinzioni dell’allenatore e così via una escalation continua con conseguenze nefaste per l’intera squadra. Qualche volta si può arrivare alla situazione in cui l’allenatore perde completamente la squadra di mano. Dicevo che lo psicologo fa l’analisi della situazione e, vedendo più frequentemente l’allenatore, può decidere di intervenire su di lui. Questo non significa che andrà a parlagli della diffidenza reciproca che in situazioni di stress si può verificare tra lui ed il giocatore, perché quando la diffidenza è forte può coinvolgere anche lo psicologo con la conseguenza che si va a toccare un aspetto delicato in un momento in cui non c’è sufficiente fiducia per poterne parlare. L’intervento sarebbe distruttivo. Lo psicologo utilizzerà solo le informazioni che ritiene l’allenatore sia in grado di ascoltare. Un insegnante è spesso una persona laureata, ma se insegna in una scuola elementare deve sapere ridurre le informazioni se vuole essere capito e trasmettere qualcosa. Chi comincia una formazione psicologica è come se fosse uno studente di prima elementare rispetto allo psicologo che è laureato. Selezionare le informazioni che possono essere comprese è forse la cosa più difficile di un intervento psicologico, perché richiede sapere fare una buona diagnosi individuale e di coppia, e quindi della relazione. Sapere a chi, quando e cosa dire. Nel nostro caso specifico la cosa migliore sarebbe quella di presentare gli aspetti positivi del carattere del giocatore e dare all’allenatore spiegazioni alternative sul come comportarsi. Per esempio, si può fare notare all’allenatore che il giocatore è entrato in questo meccanismo di diffidenza e che forse basterà parlagli per interrompere l’escalation. Se la cosa si verifica, se cioè dopo che l’allenatore ha parlato al giocatore il rapporto migliora e la squadra comincia a girare meglio, l’allenatore si placherà e si fiderà di più dello psicologo. Quest’ultimo a questo punto potrà 49


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parlare all’allenatore anche della sua diffidenza nei momenti di stress e di come sarebbe opportuno in seguito stare più attenti. Questo è un esempio di come diluire una verità perché possa essere compresa e quindi resa efficace a migliorare una situazione. Seguono gli schemi esemplificativi di una coppia “simmetrica” e una “complementare. (figg. 15-16)

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4.4 La relazione e gli adolescenti L’adolescente, poiché vive un periodo di forti cambiamenti, presenta notevoli conflitti con sé e con il mondo circostante. Allenatore – giocatore L’allenatore che lavora con una squadra di adolescenti spesso deve gestire una forte ambivalenza: un giorno l’adolescente tenderà ad idealizzarlo, il giorno dopo lo demonizzerà. Tale atteggiamento può avere una duplice motivazione. La prima è che l’adolescente, oscillando tra onnipotenza e massima svalutazione, potrebbe non tollerare gli errori dell’allenatore, come d’altra parte fa con se stesso. Perciò l’allenatore, che fino a qualche minuto prima era perfetto, dopo aver commesso uno sbaglio perde ogni considerazione, secondo la modalità del tutto o nulla. Se l’allenatore è una 51


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persona con sufficiente autostima, serenamente farà notare al giocatore che sbagliare è umano e che anzi dagli errori si può imparare. Al contrario, se l’allenatore è una persona insicura, colluderà con la svalutazione del giocatore, sentendosi impotente e non sapendosi difendere. Non saprà imporsi e lascerà vincere il giocatore, con il rischio di perdere potere con tutta la squadra; questo è pericoloso poiché favorisce l’onnipotenza irrealistica dei ragazzi. L’allenatore può reagire arrabbiandosi, come atto estremo di difesa, senza però avere la giusta strategia per riprendersi il potere: in questo modo metterà tutti in una situazione di stress. La seconda motivazione dell’ambivalenza del giocatore adolescente, non è conseguente agli errori dell’allenatore, ma a qualcosa di interno al giocatore stesso. Mi spiego. La forte crisi adolescenziale è legata a un processo di differenziazione. Per fare questo ha bisogno di modelli. Se, però il riferimento è molto forte e apprezzato, può essere vissuto come una minaccia, non riuscendo l’adolescente a differenziarsene. A volte per prenderne distanza deve usare la rabbia. In questo caso è bene che l’allenatori non si arrabbi a sua volta a, rimanendo sereno e deciso, aiuti il ragazzo a diventare autonomo. Nel fare questo non deve rinforzare la modalità rabbiosa fuor di luogo. L’allenatore può chiedere con calma al giocatore i motivi della sua rabbia, accettare quelli che ritiene giusti e non rinforzare quelli che ritiene sbagliati. Anzi, è bene far notare all’adolescente l’errore di valutazione. Possibilmente bisogna fare ciò senza derisione e sarcasmo, ma prendendosene cura. Per concludere, l’obiettivo da perseguire con l’adolescente è di aiutare il processo di differenziazione verso l’autonomia emotiva e di pensiero; nello stesso tempo bisogna guidare il giovane realisticamente, senza lasciarlo nell’onnipotenza e sostenendolo laddove, trovando delle difficoltà, sarebbe portato a svalutarsi eccessivamente. È indispensabile che l’allenatore sia sereno e deciso, e che egli stesso abbia già trovato un proprio equilibrio interno. Allenatori con struttura di personalità fragile hanno notevoli difficoltà con gli adolescenti e sarebbe preferibile che non lavorassero con questa fascia di età. Credo, infatti, che molto difficilmente possano ottenere buoni risultati per sé e per l’intera squadra. Per “personalità fragile” intendo una persona insicura di ciò che pensa o sente. Non fidandosi delle proprie valutazione fa fatica a sostenere le proprie posizioni. Ad esempio in una partita andata male l’allenatore può valutare che il risultato è dipeso da un cattivo comportamento tattico della squadra. Gli adolescenti che oscillano tra onnipotenza e svalutazione, per paura di autosvalutarsi, potrebbero rimandare l’intera responsabilità agli arbitri. Un allenatore fragile non si sentirà sicuro nella sua valutazione, cedendo alle opinioni della maggioranza. Anche un allenatore troppo rigido può trovare difficoltà perché non permette la differenziazione. Infatti, quando il ragazzo non lo 52


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condivide tende a svalutarlo, perché la propria rigida non gli permette di essere messo in discussione. Giocatore - giocatore Una squadra di adolescenti, a causa della sua instabilità è soggetta a forti oscillazioni nella prestazioni. Non è strano che la stessa squadra possa andare per un periodo benissimo e successivamente malissimo (chiaramente questo dipende dall’allenatore e dai contesti). L’adolescente è per natura molto vulnerabile. Perciò, quanto più forte è l’identità di squadra e quanto più l’allenatore è un punto di riferimento stabile, tanto meno la squadra adolescente sarà reattiva allo stress esterno. L’adolescente, inoltre, idealizza e svaluta i propri compagni con la stessa velocità utilizzata in altri contesti. Il compagno adolescente, però, sa reagire meno bene dell’allenatore, e questo diventa causa di forti tensioni. Dopo una partita persa, i giocatori possono essere tentati dall’attribuire l’intera responsabilità a un solo compagno, che funge da capro espiatorio. L’allenatore deve assolutamente evitare ciò, soprattutto se ritiene che l’esito negativo non sia completamente attribuibile all’errore commesso. Probabilmente, a questo punto, la rabbia (che serve per scaricare la tensione causata dalla sconfitta) sarà rivolta all’allenatore; ciò è preferibile, perché egli dovrebbe saperla gestire in maniera più adulta. L’allenatore lascerà cadere le provocazioni, farà sfogare i ragazzi e riprendendo il discorso il giorno successivo, quando la rabbia sarà diminuita, potrà chiarire con calma e lucidità la situazione. Questa occasione potrà diventare stimolo di crescita, fungendo l’allenatore da modello su come si gestisce la frustrazione senza perdere la testa. È opportuno che la tensione in una squadra di adolescenti sia gestita dall’allenatore, per evitare che nascano carpi espiatori. Questo potrebbe essere dannoso per il giocatore sotto accusa a causa della probabile perdita di autostima con conseguente vissuto di emarginazione.

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5. Conclusioni Per concludere, uno psicologo, quando inizia la consulenza a una squadra, deve avere chiari gli obiettivi da perseguire. Per prima cosa è bene che focalizzi i valori che l’allenatore pone alla base del suo insegnamento. Lo psicologo, nel costruire un progetto d’intervento, non può fare a meno delle diagnosi individuali (identità) e di coppie (relazione). Ciascuno di noi, infatti, ha un particolare tipo di intelligenza e di personalità. Solo mettendo a fuoco come queste si caratterizzano nei giocatori e negli allenatori l’intervento può essere efficace. La diagnosi di coppie e triadi (relazione) è indispensabile, perché non è possibile isolare una persona dal suo contesto se vogliamo comprenderne le reazioni e stabilire qual è il giusto intervento per aiutarla. Qualche nota a parte merita l’intervento con gli adolescenti. Si può intervenire solo con ,o staff, o puntare ad un programma che coinvolga anche la squadra.; intervenire su entrambi rende il lavoro più completo, ma questo non sempre è possibile. La psicologia applicata allo sport è ancora poco diffusa, perciò può accadere che i giocatori inizialmente si rifiutino di collaborare, vivendo lo psicologo come una figura invasiva ed inutile. In tal caso è bene cominciare dall’allenatore, visto che è lui, generalmente, a richiedere l’intervento dello psicologo. A volte è sufficiente focalizzare il problema, altre volte sono richiesti interventi più complessi si siatemi più vasti. Bisogna stare attenti alle famose tecniche di rilassamento: non sempre, infatti, sono utili, qualche volta sono addirittura dannose. Allo stesso tempo una maggiore consapevolezza non sempre risolve i problemi, anzi a volte peggiora. Spero di essermi riuscita a spiegarmi circa l’utilità e l’importanza dell’<<approccio psicologico>> e, inoltre di avere chiarito a sufficienza quanto sia complesso e di non facile progettazione. Ciò mal si sposa con le aspettative miracolistiche tanto in voga nella nostra cultura. Non fatevi illudere troppo facilmente da chi vi promette interventi facili ed indolori. Per costruire una casa c’è bisogno

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di un buon progetto e di una buona messa in opera, e questo richiede tempo. Lo stesso dicasi per un intervento psicologico che avanzi pretese scientificitĂ .

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Anna Falco, psicologa e psicoterapista, lavora a Caserta e Caloria (Napoli). Vicedirettrice e didatta della Società Italiana di Psicoterapia Integrata (S.I.P.I.), dirige corsi di specializzazione e psicoterapia per medici e psicologi. Si interessa anche di formazione nel settore dell’insegnamento e di psicologia sportiva. Ha collaborato con la Nazionale maschile di pallacanestro tra il 1994 ed il 1997. .

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