OLTRE PASQUA 2019

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Anno XIII – N. 1 – Gennaio - Marzo 2019

Periodico di informazione e dialogo parrocchiale e del quartiere

La Risurrezione di Gesù: menzogna o verità?

Parliamo di...

Il 40° anniversario della consacrazione nostra chiesa parrocchiale La visita del Papa negli Emirati Le condizioni disumane nei campi profughi greci Come cambia il tessuto commerciale del nostro quartiere


L’Editoriale

Parrocchia “SS. Trinità a Villa Chigi” Via Filippo Marchetti, 36 00199 Roma Tel. 06.86.00733 Fax 06.86.213956

E-mail: boldrin.lucio@gmail.com Sito: www.sstrinita-villachigi.com Orari SS. Messe: Feriali h. 8.00 – 9.00 –19.00 Festivi h. 9.00 – 10.30 – 12.00 – 19.00

IN QUESTO NUMERO:

Editoriale 2 La visita del Papa negli Emirati 6 Il 40° Anniversario della consacrazione della nostra chiesa parrocchiale 8 La vergogna dei campi profughi 12 Il Libro 15 I 90 anni di Domenico Rosati 16 Viaggio in India 18 Condividere la ricchezza 20 Gita parrocchiale a Cerveteri 22 Grande festa della Poesia 23 Spariscono le botteghe storiche 24 Fenomeno Airbnb 26 Resoconto economico 27

Errata Corrige: Nel numero di dicembre 2018 a pag. 6 l’autrice dell’articolo “Il coraggio di essere fragili” è Francesca Iachetti e non Iacchetti. A pag. 14 l’autrice dell’articolo “Teenager e Social Network quale futuro” la dott.ssa Chiara Argento è sociologa e non psicologa. Ce ne scusiamo con le autrici.

NUMERO 1 GENNAIO-MARZO 2019 Reg. Tribunale di Roma n. 120 / 2008 del 18. 3. 2008

Direttore responsabile: p. Lucio Boldrin

Collaboratori: Federica Busato, Angelo Fusco, Mario Gravina, Giampaolo Petrucci Impaginazione: Luca Theodoli

Stampa: PRIMEGRAF Srl, Roma

In ogni numero verranno presentate le varie attività che si svolgono in parrocchia La redazione è aperta ad accogliere suggerimenti e argomenti di dibattito all’e-mail: boldrin.lucio@gmail.com

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La Risurrezione di Gesù: menzogna o verità?

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di p. Lucio Boldrin

a tentazione è credere che il fatto non ci riguardi. Che la sola cosa importante, dopotutto, sia il messaggio di Gesù e che la ragione non possa spingersi oltre un certo limite. In realtà, insegna Pascal (1623-1662), «il passo supremo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la trascendono». Sarebbe dunque superficiale – e umiliante per la ragione stessa – sottrarsi a priori ad un’indagine sul pilastro primo della fede cristiana, vale a dire la risurrezione di Gesù. Non che il resto non abbia alcuna importanza, intendiamoci, ma fu primariamente quell’evento il centro della fede delle prime comunità cristiane, evento che costituisce anche il punto sul quale – direbbe Dostoevskij (1821-1881) – l’«uomo colto», l’«europeo dei nostri giorni» è chiamato a valutare la possibilità di poter «credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo». Diversamente, annotava già San Paolo, «se Cristo non è risorto vana» è la «fede». Al punto che se si volesse riassumere il contenuto della fede cristiana in un’unica frase – osservava Romano Guardini (1885-1968) – si potrebbe dire tranquillamente questo: «Credo nella resurrezione dei morti e nella vita». La risurrezione come questione centrale, dunque. Questione che deve essere anzitutto sottratta a quel silenzio a causa del quale, per dirla con Yves Congar (1904-1995), non se ne parla più o quasi, e poi valutata

senza imbarazzo anche sotto il profilo della storicità dato che «tutto nel Cristianesimo è storico» e la stessa fede «non aggiunge qualche cosa “in più” che non ci sia nel fatto, ma accoglie il fatto o l’evento, integralmente». Di qui la domanda: la risurrezione è una menzogna oppure no? È un’antichissima leggenda metropolitana oppure un «evento effettivamente accaduto»? Trattasi di quesiti della massima importanza dal momento che, com’è stato già osservato, dubitare della storicità della risurrezione non significa dare scarsa importanza ad una fase della vita di Gesù, no: significa mettere apertamente in discussione la sua stessa natura divina, il suo essere Figlio di Dio. Siamo pertanto di fronte ad un bivio cruciale: o Gesù è risorto in quanto Figlio di Dio – e quindi il Cristianesimo, in sostanza, è integralmente vero – oppure è tutta una colossale illusione: tertium non datur. O tutto, o niente.

I VANGELI E LA RISURREZIONE CHE NON C’È Il punto di partenza obbligato per affrontare questo dilemma, ancora una volta, non possono che essere loro, i Vangeli, quattro testi che totalizzano 64.327 parole greche di cui la Chiesa, anche in occasione del Concilio Vaticano II, ha rivendicato «senza esitazione la storicità», e che contengono la grandissima parte delle informazioni che abbiamo su Gesù; al punto che è


stata osservata l’impossibilità di scindere il cosiddetto “Gesù storico” dal Gesù narrato nei vangeli . Lo spazio mi porta a limitarmi ad un’analisi più generale. Analisi che, a proposito di risurrezione, potrebbe iniziare dalla sottolineatura di un dato curioso eppure, di solito, poco considerato: i Vangeli – il primo dei quali, Marco, composto appena dieci anni dopo la morte di Gesù – non la descrivono. Proprio così: nessuna testimonianza diretta. Non per nulla questo dato di fatto viene spesso strumentalizzato da un certo ateismo militante per accusare i credenti nel Risorto di essere creduloni. In realtà è chi prende per buona questa critica a peccare di ingenuità. Vediamo perché. Ora, al di là di quello che affermano alcuni, nei Vangeli – escludendo Giovanni – di risurrezione si parla, eccome se se ne parla: almeno 11 volte (Matteo: 16,21 17,22 20,19 26,32 e 27,63. Marco: 8,31 9,30 10,34 12,96 e

Luca: 18,33), senza contare che in tutto il Nuovo Testamento i termini indicanti la risurrezione ricorrono almeno 100 volte. Il punto, come dicevo poc’anzi e com’è stato più volte osservato, è che a «tutti gli autori del Nuovo Testamento», non è mai venuto in mente neppure «di azzardare una cronaca dell’evento di risurrezione». Un dato, questo, che dovrebbe far riflettere, in particolare coloro che dubitano della serietà della narrazione evangelica: perché mai, se quei testi sono menzogneri, i suoi redattori si sarebbero dovuti trattenere, pur nominandolo, dal descrivere il miracolo dei miracoli, quello sul quale si fonda tutto il resto? Non avrebbe avuto molto più senso, in chiave apologetica, una cronaca – magari condita con effetti speciali, prodigi e colpi di scena – di Gesù che se ne esce vittorioso dal sepolcro? Perché mai, insomma, questo silenzio? L’interrogativo è di quelli impor-

tanti, anche perché tutto si può dire tranne che quei giorni, nella narrazione evangelica, siano stati poco considerati: per dire, nel vangelo di Marco – il più antico – ben 107 dei 658 versetti totali sono dedicati esclusivamente dalla descrizione delle ultime 24 ore della vita di Gesù. Ma della risurrezione no, di come sia avvenuta non si riferisce in alcun modo. Non una parola, silenzio. Peccato. Anche perché, come si è detto, in ottica propagandistica avrebbe giovato – e molto – una cronaca in tal senso. A meno che – e a questo punto l’ipotesi non può più essere trascurata – i Vangeli non siano sul serio resoconti di quel che davvero avvenne, di quello che fu effettivamente visto (e non visto) dagli apostoli. Una sorta di diario scritto per portare sì la fede, ma prima di tutto per tramandare degli eventi che quella fede originarono, a partire dall’incredulità degli apostoli. E proprio «quell’iniziale incredulità degli

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apostoli» – osserva Antonio Socci – mostra «che gli evangelisti non stanno illustrando delle idee teologiche, o un mito, ma riferendo fatti. Fatti concreti, carnali, dettagliati. Fatti inimmaginabili e sorprendenti innanzitutto per loro».

PASQUA, UNA STORIA DI DONNE A favore della volontà di cronaca prima che apologetica dei vangeli, rileva anche un altro aspetto, e cioè la narrazione di quel che accadde la mattina del 9 aprile dell’anno 30 (data sulla quale non c’è però concordanza, essendovi anche l’ipotesi, ancora più suggestiva, che si trattasse dell’1 aprile del 33 d.C.): le prime a vedere il sepolcro vuoto e a riceverne la spiegazione dall’Angelo del Signore sarebbero state delle donne. Ebbene, si dà il caso che a quel tempo – secondo la prassi socio giuridica ebraica – la credibilità delle donne fosse assai irrilevante. Ce lo rammenta anche lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nato sette anni dopo la crocifissione, che nelle sue Antichità Giudaiche ebbe ad annotare: «Le testimonianze di donne non valgono e non sono ascoltate tra noi, a motivo della leggerezza e della sfacciataggine di quel sesso». Chi avesse voluto architettare un racconto fasullo per poi spacciarlo come autentico, quindi, mai e poi mai si sarebbe servito di testimonianze femminili. Eppure, per i Vangeli, la scoperta del sepolcro vuoto è indubbiamente ed esclusivamente una storia di donne. «Un comportamento inspiegabile – commenta Vittorio Messori – qualora fosse stato deciso dai redattori evangelici e non imposto invece – come evidentemente è – da una sconcertante realtà di fatto, visto che la comunità cristiana primitiva non è meno “maschilista” dell’ambiente da cui proviene» . Una ulteriore conferma dell’autenticità di quella scoperta davvero effettuata da delle donne, ci viene dalle parole di Schnackenburg:

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«Per la mentalità giudaica, le donne non venivano prese in considerazione come testimoni; ma ciò nonostante le donne ricordate ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto nella scoperta del sepolcro vuoto […] le donne accompagnano Gesù in tutto il suo cammino […] sono silenziose, ma […] eloquenti testimoni di quell’evento unico e più d’ogni altro importante» . In altre parole la centralità delle testimonianze femminili, oltre ad essere documentata in più fasi della vita di Gesù e a divenire della massima importanza con la sua risurrezione, fu talmente concreta che determinò una vera e propria svolta, perché quelle donne «ebbero notevole importanza agli occhi della Chiesa primitiva per lo storico ruolo da esse sostenuto». A questo punto si può obbiettare che, per quanto curiosi, questi dubbi possono tutt’al più costituire basi per alcune ipotesi e non certo divenire indizi, né tanto meno prove fugando dubbi che rimangono. Esattamente come rimasero ai seguaci di Gesù: il sepolcro vuoto non li convinse affatto – non tutti almeno, e vedremo tra poco perché – della risurrezione. La conferma è nelle parole di Maria di Màgdala, la quale, spaventata, subito ipotizza un furto o comunque un trasferimento improvviso del cadavere: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno messo!». Un pensiero che non riguardò solo lei se si tiene presente che, in un primo momento, gli stessi apostoli non pensarono alla risurrezione, anzi, «la domanda che essi si facevano era probabilmente di questo tipo: Che significava questo? Cos’è accaduto? Tutte le ipotesi erano possibili ma nessuna di esse sembrava convincente. Gli apostoli non sapevano proprio cosa pensare. È vero che sia la Scrittura che Gesù stesso avevano parlato del Messia in termini di prova, sofferenza, morte e risurrezione, ma nessuna delle donne

e dei discepoli poteva immaginare che quelle parole bibliche o di Gesù potessero ora prendere la forma dell’evento che stava sotto ai loro occhi, e che faceva pensare invece ad un’assenza, piuttosto che ad un evento glorioso».

PERCHÉ GIOVANNI «VIDE E CREDETTE»? Anche se in realtà qualcuno prima degli altri si convinse della vittoria di Gesù sulla morte ci fu. A riferirlo, ancora una volta, sono i Vangeli, che narrano di come Giovanni, giunto là dove Gesù doveva essere e non era più, «vide e credette». Come mai? Non poche traduzioni recenti affermano che i due discepoli (Giovanni e Pietro), giunti al sepolcro, scrutando all’interno videro «i teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo». Tuttavia detta traduzione appare poco convincente dal momento che solleva un interrogativo: per quale ragione, vedendo delle bende funerarie ed un sudario ripiegato, Giovanni «vide e credette»? Non è affatto chiaro. A rendersene conto più di altri è stato un sacerdote, don Antonio Persili, che ha scelto di andare a fondo alla questione mettendosi ad analizzare le fonti originali: i Vangeli scritti in greco. Ecco le sue conclusioni: «Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà othónia keímena […] la versione della Cei traduce questa espressione con “i teli ancora là”. Altre versioni la traducono con “i teli per terra”. In realtà il verbo keîmai, da cui viene il participio keímena, non significa genericamente “essere lì” né tantomeno “stare per terra”. Esso indica una posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. Probabil-


mente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse» . Anche la descrizione della posizione del sudario – che secondo traduzioni recenti era «non là con i teli, ma in disparte, piegato in un luogo» – ha convinto poco don Antonio: «non era disteso come le altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l’avverbio khorìs, in senso modale), appariva arrotolato in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre che le versioni correnti traducono banalmente come “in un luogo”. Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto inamidante» . Precisazioni, queste, tutt’altro che secondarie. Perché se davvero all’interno del sepolcro c’erano «fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse» ed il sudario, a differenza di queste, «appariva sollevato, in maniera quasi innaturale», si può ben comprendere – eccome! – perché Giovanni «vide e credette»: vide l’ultima cosa che si aspettava di vedere, la più incredibile, la più impressionante. Tuttavia lo scopo di questo verte su un interrogativo: perché dovrebbe essere “credibile” – ancorché non provabile, ovviamente – la risurrezione di Gesù?

IL DUBBIO E LA GRANDE POSSIBILITÀ Abbiamo visto come l’ipotesi delle ricostruzioni evangeliche come narrazioni propagandistiche regga poco, prima che alla storia, alla logica: troppe cose non tornano – dalla risurrezione “non vista” da alcuno all’arrivo delle donne al sepolcro, dalla cronaca asciutta alla narrazione di apostoli pavidi al punto da lasciare Gesù solo dall’arresto fino al Calvario – se gli autori di quei testi erano davvero

uomini decisi a divulgare il falso. Anche perché – come nota Sanders – nonostante una lettura critica dei Vangeli porti, dopo la risurrezione, a registrare «storie fortemente divergenti su dove e a chi Gesù apparve», una cosa appare certa: «i suoi seguaci erano sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte». In altre parole nessuno nega, dopo il ritrovamento del sepolcro vuoto, la varietà delle esperienze – fino a quel momento coincidenti – vissute da apostoli e discepoli, ma è altrettanto evidente, fra costoro, la comune consapevolezza, anzi la certezza, dell’avvenuta risurrezione. Donde si originarono quella sicurezza e quella determinazione? Gli apostoli furono veramente – come descrisse allusivamente Petronio nel suo Satyricon – dei poveri creduloni che presero sul serio la risurrezione di un cadavere in realtà trafugato e sostituito, combinazione proprio il terzo giorno, con una persona viva, oppure «videro e credettero», e quindi ebbero riscontri concreti del Gesù Risorto? A giudicare da ciò che da dopo Pasqua fecero della loro vita, dedicandosi alla predicazione incuranti pure del martirio, non ci sono dubbi: erano proprio «sicuri del fatto che Gesù era risorto dalla morte», e di lì a qualche tempo lo scrissero – come abbiamo visto – correndo ben due rischi: quello di essere smentiti da persone e testimoni di quei fatti a quel tempo ancora in vita (l’ultimo Vangelo, quello di Giovanni, è stato redatto

sicuramente entro il 90 d.C.), e quello di essere accusati di una narrazione contraddittoria e poco credibile. Eppure loro, che avevano frequentato a lungo Gesù senza però mai fidarsi fino in fondo di Lui – Pietro lo rinnegò non una, ma addirittura tre volte a poche ore dalla crocifissione! -, ad un certo punto, trasformati da una nuova consapevolezza, decisero di spendere quel che rimaneva loro da vivere per annunciare il Risorto. Allucinazione di massa oppure incontro con una realtà talmente grande da dover essere proclamata a tutti i costi? Il mio editoriale si chiude qui: si aprì con una domanda – la risurrezione è una menzogna oppure no? – e con una domanda, inevitabilmente, si conclude. Una domanda che non ha naturalmente lo scopo di convincere nessuno, bensì di sollevare un dubbio, per quanto imponente, in fondo assai ragionevole. Il dubbio, cioè, che in quella remota mattina d’aprile, in effetti, qualcosa di straordinario possa essere accaduto. Qualcosa che cambiò totalmente la vita di chi allora c’era e che, a ben vedere, ancora oggi può cambiare quella di ciascuno. Perché se quel sepolcro era vuoto, lo dicevamo all’inizio, il Cristianesimo non è più una religione fra le altre; se quel sepolcro era vuoto, è tutto vero. E Cristo è veramente risorto.

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La visita di Papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti

Senza libertà religiosa non si è fratelli ma schiavi

di Paolo Rodari*

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BU DHABI. Elogia gli Emirati “per l’impegno nel tollerare e garantire la libertà di culto, fronteggiando l’estremismo e l’odio”, ma nello stesso tempo ricorda quale sia la vera “libertà religiosa”. Essa, dice, “non si limita alla sola libertà di culto, ma vede nell’altro veramente un fratello, un figlio della mia stessa umanità che Dio lascia libero e che pertanto nessuna istituzione umana può forzare, nemmeno in nome suo”. E ancora: “Non si può proclamare la fratellanza e poi agire in senso opposto”. Nel giorno clou del suo viaggio ad Abu Dhabi, con la partecipazione alla “Conferenza globale sulla fratel-

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lanza umana” organizzata dal “Muslim Council of Elders” – un organismo internazionale indipendente con sede nella capitale degli Emirati e che fa capo al Grand Imam di alAzhar, lo Sceicco Ahmed El-Taye – Francesco traccia i princìpi fondamentali che devono essere alla base di una reale convivenza pacifica fra popolazioni e religioni differenti, ricordando che una fratellanza sganciata dal riconoscimento dei diritti dell’altro non è tale. Davanti a esperti, intellettuali, leader islamici, cristiani e anche ebrei che ad Abu Dhabi sono insieme per confrontarsi sull’estremismo religioso ed etnico, Papa Bergoglio – primo vescovo di Roma nella peni-

sola Arabica – traccia le linee per una convivenza reale fra sensibilità diverse senza esimersi dal ricordare che “nel nome di Dio Creatore va senza esitazione condannata ogni forma di violenza, perché è una grave profanazione del Nome di Dio utilizzarlo per giustificare l’odio e la violenza contro il fratello”. E ancora: “Non esiste violenza che possa essere religiosamente giustificata”. In Egitto, Francesco disse che l’unica alternativa all’incontro tra le civiltà è lo scontro tra le inciviltà. Nell’ultimo incontro delle religioni per la pace ad Assisi, 26 leader del mondo islamico lo attesero in piedi per salutarlo e dichiarargli la loro


Il Papa fra lo Sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib

fratellanza. E qui negli Emirati, nel silenzio carico di ascolto del Founder’s Memorial di Abu Dhabi, davanti allo Sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan e ad Ahmad AlTayyib, Grande Imam di Al-Azhar, il Papa insiste sulla ricerca della basi per una convivenza pacifica dicendo “di venire come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo”. La soluzione ai conflitti risiede nella “fratellanza”. Che va oltre ogni violenza “religiosamente giustificata”. Nemico della fratellanza, infatti, “è l’individualismo, che si traduce nella volontà di affermare sé stessi e il proprio gruppo sopra gli altri”. “È un’insidia che minaccia tutti gli aspetti della vita, perfino la più alta e innata prerogativa dell’uomo – dice il Papa - ossia l’apertura al trascendente e la religiosità. La vera religiosità consiste nell’amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come sé stessi. La condotta religiosa ha dunque bisogno di essere continuamente purificata dalla ricorrente tentazione di giudicare gli altri nemici e avversari. Ciascun credo è chiamato a superare il divario tra amici e nemici, per assumere la prospettiva del Cielo, che abbraccia gli uomini senza privilegi e discriminazioni”. Gli Emirati sono riconosciuti da Francesco come Paese capace di lavorare per la tolleranza. Ma occorre sempre essere vigili affinché la pluralità religiosa, che della tolleranza

è espressione, non diventi né “l’uniformità forzata, né il sincretismo conciliante”. Perché “quel che siamo chiamati a fare, da credenti, è impegnarci per la pari dignità di tutti, in nome del Misericordioso che ci ha creati e nel cui nome va cercata la composizione dei contrasti e la fraternità nella diversità”. Più volte la comunità internazionale si è spesa riguardo al vicino Yemen (gli Emirati fanno parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita in Yemen che combatte contro il movimento armato degli Houthi attaccando indiscriminatamente i civili, e provocando quella che l’Onu ha definito “la peggiore attuale crisi umanitaria provocata dall’uomo”) e riguardo alle restrizioni interne che si vivono - anche negli Emirati - rispetto alle minoranze. Per questo Francesco chiede “il coraggio dell’alterità, che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua libertà, e il conseguente impegno a spendermi

perché i suoi diritti fondamentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque”. Perché “senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi”. E “quanto al futuro del dialogo interreligioso, la prima cosa che dobbiamo fare è pregare. E pregare gli uni per gli altri: siamo fratelli!” Il Papa, dopo averlo fatto anche nell’Angelus di ieri, parla esplicitamente dello Yemen, e di quanto accade in Siria, in Iraq e nella Libia. Dice: “Insieme, fratelli nell’unica famiglia umana voluta da Dio, impegniamoci contro la logica della potenza armata, contro la monetizzazione delle relazioni, l’armamento dei confini, l’innalzamento di muri, l’imbavagliamento dei poveri; a tutto questo opponiamo la forza dolce della preghiera e l’impegno quotidiano nel dialogo”. * Vaticanista de “La Repubblica”

Un segno importante: Il saluto del Papa con la messa sotto la grande croce: Alla prima celebrazione pubblica di una liturgia cristiana nei Paesi del Golfo c’erano 180mila persone.

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4 marzo 1979 – 4 marzo 2019: quarant’anni fa la nostra chiesa parrocchiale veniva consacrata

Il 40° anniversario della consacrazione

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A cura della Redazione

uando la Parrocchia SS. Trinità a Villa Chigi ha iniziato il suo cammino, nell’aprile 1962, si stava preparando il Concilio Vaticano II. Il primo parroco, P. Angelo Marcotti, aveva 52 anni. Si era formato nel servizio pastorale della Parrocchia di S. Croce al Flaminio, diretta allora dal venerato P. Emilio Recchia. L’impostazione data da P. Angelo era quella tipica del periodo. La ventata d’aria fresca e di rinnovamento venuta dal Concilio era rappresentata meglio dal giovane P. Vittorino Santi e dallo stile bonario di P. Esterino Benin. Il ’68 portò tensioni e occupazioni non solo nelle scuole, ma anche nella nostra parrocchia, fino alla occupazione della sede, quando nel 1970 P. Vittorino venne trasferito

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a Verona. Furono giorni difficili e di contrapposizioni. Nel ’71 ci fu il primo cambio del parroco, con P. Albino Marin, l’arrivo di P. Silvano Controne e del non ancora ordinato, P. Pasquale Cavallo. Con P. Angelo era stato presentato anche il primo progetto per la nuova chiesa, con l’alta guglia che avrebbe sovrastato i palazzi del quartiere. Con P. Albino venne elaborato un nuovo progetto, che esprimesse meglio la volontà di “stare tra le case”, l’apertura verso la gente. Non era solo un’idea per l’architettura, ma il desiderio di rinnovare il volto di chiesa. Rinnovamento e aggiornamento erano le parole più insistite del momento. Dopo quattro anni P. Albino rinunciava alla conduzione della

parrocchia e rimase come facente funzione P. Maggiorino Mignolli. Degna di nota la celebrazione dell’ordinazione sacerdotale di P. Pasquale Cavallo, nel campo sportivo. L’anno dopo, nel 1976, nuovo cambio, che i superiori pensavano decisivo: arrivarono P. Carlo Zanini e P. Livio Guerra. Intanto era stato spianato il luogo dove doveva sorgere il nuovo complesso parrocchiale, e qualche mese dopo iniziarono le “iniezioni” di cemento per gettare le fondamenta e collegare i vari plinti su cui dovevano sorgere le colonne della nuova struttura. Alla costruzione materiale, visibile, della nuova chiesa, si voleva far corrispondere la costruzione e consolidamento della comunità parrocchiale. Di quei primi anni si ricorda la scelta della visita alle famiglie, la cura delle celebrazioni, la ricerca e consolidamento di un gruppo catechisti/e, gli incontri con i genitori, la costituzione dei consigli pastorali. Uno stimolo continuo lo svolse il gruppo giovani con don Pasquale, fino alla scelta di un cammino anche al di là della parrocchia. Fu emozionante la prima celebrazione nella nuova chiesa ancora cantiere, la notte di Natale 1978. E poi la solenne celebrazione di inaugurazione e consacrazione il 4 marzo 1979. La chiesa appariva ancora spoglia e fredda, ma l’aula gremita di gente, convergente verso l’altare, esprimeva tutta la soddisfazione


perché finalmente “avevamo la nostra chiesa”. Il bello erano le persone, non i muri. L’architetto diceva che aveva ideato una grande tettoia, sotto cui doveva avvenire lo scambio tra fuori e dentro, ma anche viceversa. I muri esano solo dei separé, per il necessario raccoglimento. Tu porti dentro i tuoi drammi e le tue speranze: lì trovi una comunità, una parola, uno spirito, una presenza, ed esci con una forza nuova, illuminato, per una missione. Dopo l’inaugurazione della chiesa, P. Carlo, che aveva seguito con competenza i lavori, chiese di essere sollevato dall’incarico, e venne nominato parroco P. Livio, rimanendo però la stessa comunità religiosa. Ora avevamo la chiesa, ma tutte le attività formative restavano nella vecchia sede di viale Somalia. Si decise allora di far procedere i lavori per avere anche la casa canonica e le opere parrocchiali insieme. Il finanziamento per la chiesa era stato dato dalla diocesi, per il resto dovevamo arrangiarci. Incoscienti, o coraggiosi, abbiamo chiesto alla ditta di proseguire e nell’estate dell’81 siamo entrati nella nuova canonica trasferendo lì tutte le attività. I debiti? Abbiamo chiesto aiuto ai nostri Superiori e alle comunità stimmatine, ma soprattutto abbiamo mobilitato la parrocchia, che ha risposto con generosità. Questo ha aiutato tutti a sentirsi protagonisti, coinvolti. E non ci si fermò solo alle opere interne, ma anche alla recinzione e alle prime strutture sportive. E da qui inizia un impegno sempre più forte e attento anche alla formazione e collaborazione dei laici. Gli elementi portanti furono il volontariato e la formazione di laici per la catechesi, preparati da p. Livio

Guerra e p. Francesco Rossi, che incontravano i parrocchiani terminata la messa domenicale. Non dobbiamo dimenticare che la nostra parrocchia nacque dai ritagli dei territori delle parrocchie di “Santa Maria Goretti”, “Santa Emerenziana” e “Sacri Cuori” che ancora oggi, molte delle famiglie confinanti sentono di appartenervi. Un elemento importante fu la presenza “del fosso di sant’Agnese” una zona di baracche e che vennero smantellate in vista dei mondiali di calcio del ’90 per costruire la tangenziale est. Ma quella situazione di disagio fu luogo di crescita e confronto per alcuni padri e l’opera caritativa della san Vincenzo che poi divenne la Caritas parrocchiale. Di certo elemento di spinta e di crescita della parrocchia fu il Sino-

do Diocesano del 1992 e la presenza di mons. Di Liegro, a livello diocesano per la formazione del Consiglio pastorale, sollecitato a non essere disincarnato dei bisogni del territorio, e che aveva anche il compito di confronto con i politici nel rendere conto del loro operato. Formazione dei catechisti e formazione degli operatori della carità (Caritas). Una particolare attenzione merita l’impegno Caritas parrocchiale che era una globalità tra i bisogni primari (vestire, mangiare e aiuto economico) e attenzione agli anziani e portatori di handicap, fino all’inclusione di stranieri con l’inizio della scuola d’italiano con il forte impegno dei laici. Rispetto ad oggi la caritas parrocchiale, presente fin dal 1986, era un tutt’uno tra ascolto e servizio. Oggi la scuola d’italiano, intitolata “Nino Antola” che verso gli inizi degli anni ’90 che fu colui ce diede la spinta per a favorire l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, oggi ha uno statuto giuridico riconosciuto, a livello europeo, con offerta di corsi che vanno dal livello A0 (alfabetizzazione) fino al B1. È una delle poche scuole nel Lazio con un’offerta così ampia. Il centro d‘ascolto è soprattutto, centro di accoglienza di richieste di lavoro anche se dal 2018 si sta tentando, non senza ritrosie e difficoltà di tenere aperte uno sporte con la presenza di professionisti (medici, avvocati, notai, psicologi, polizia) per dare risposte ad altre esigenze e criticità . La dimensione caritativa si completa colla distribuzione dei viveri una volta ogni 15 giorni. L’IMPEGNO MISSIONARIO È stato sempre importante presente fin dai primi anni

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anche grazie ad un contatto più diretto grazie alla presenza di missionari italiani nei vari paesi di missione, Africa e Amarica Latina in particolar modo. Un forte impegno anche con coinvolgimento di studenti di universitari, con la giornata dei poli, fino al 1995. Poi per i nuovi statuti universitari e il calare di presenza italiane la situazione è ferma alle adozioni a distanza. Presenza importante missionaria e di collaborazione è stata sempre in quegli anni, e tutt’ora presente, del gruppo Jonathan, proveniente dalla parrocchia di sant’Emerenziana impegnato a sostenere le missioni agostiniane in Perù. L’ultimo grande tentativo di coinvolgimento per una missio ad intra e ad extra fu la partecipazione alla missione cittadina del 2000 e una serie di conferenze nel 2005: “Ponti e non muri… prima che l’amore finisca”. Oggi ci si trova nella necessità di ritrovare un nuovo modo col quale porsi, uscendo “dal si è sempre fatto così”, trovando nuove forze, entusiasmo, motivazioni e creare un livello migliore di comunicazione, che i mezzi tecnologici, sembrano avere appiattito: Più tecnologia meno contatto umano. Le persone sembrano catturate da un vortice che da loro tempo per una adeguata preparazione, soprattutto in campo catechetico e di tempo. Corsa che coinvolge anche i bambini e i ragazzi, adulti che partecipano alle varie catechesi e attività parrocchiale. Sembra essere giunto il momento di fermarsi af finché la parrocchia non sia solo “un ufficio di servizi”, ma di nuova formazione e aggregazione di fedeli in crescita con le linee conciliari.

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Il 4 marzo scorso S.E. Cardinal Vicario Angelo De Donatis ha presieduto la concelebrazione per il 40° della consacrazione della nostra chiesa

Una chiesa aperta e in cammino

U

di Danilo Paolini

na parrocchia che si fa tenda grande e accogliente, carovana in movimento, rifugio per chiunque ne abbia bisogno o lo voglia, una comunità-ponte e mai muro: è questa l’immagine, potente e gioiosa, che più di ogni altra è destinata a rimanere della giornata del 4 marzo scorso, quarantesimo anniversario della dedicazione della parrocchia della Santissima Trinità a Villa Chigi. Una festa ricca di spi-

ritualità e d’impegno, coronata dalla visita del cardinale vicario Angelo De Donatis, che ha presieduto una partecipatissima celebrazione eucaristica. E, prima della funzione, ha voluto incontrare i collaboratori parrocchiali: dal Consiglio pastorale ai catechisti, dagli insegnanti di italiano per stranieri al gruppo giovani, dai gruppi di ascolto alla Caritas parrocchiale, dalla Polisportiva “Don Gaspare Bertoni” al gruppo della poesia, a tanti, tanti altri. È


stata l’occasione per un confronto autentico sul come percorrere le ampie strade di fede, umanità e misericordia spianate dal Pontificato di Francesco e dalla Diocesi di Roma. Tanta strada è stata fatta da quando, quarant’anni fa, l’allora cardinale vicario Ugo Poletti inaugurò la nostra parrocchia. Il primo parroco, padre Livio Guerra, era tra noi per festeggiare l’anniversario e così il suo successore, padre Andrea Meschi. «È una storia finora molto bella e ricca», ha detto il cardinale vicario. Una strada, per molti versi, anticipatrice del vento nuovo che sta donando linfa fresca alla Chiesa. Basti pensare alle relazioni che il parroco, padre Lucio Boldrin, ha donato al cardinale al termine della visita: riassumono i contenuti di una serie di conferenze organizzate in parrocchia ben 14 anni fa, nel 2005, e il tema era “Ponti, non muri”. Un titolo che oggi risulta, purtroppo, ancora più attuale e urgente, dato il mare di rancore e pregiudizi nel quale ci si trova a navigare. Dopo aver ricordato che il 4 marzo si festeggia San Lucio, e quindi fatto gli auguri di buon onomastico al nostro parroco, “don Angelo” (come in tanti ancora lo chiamano a Roma e come lui stesso sembra sentirsi, anche dopo la porpora: non per niente ha ricordato per ben due volte “con grande piacere” i dieci anni trascorsi da viceparrocco a San Saturnino) ha sottolineato come «la parrocchia è stata sempre molto vivace e ricca di doni». Ma oggi – ha sottolineato, citando la parte finale della relazione consegnatagli da padre Lucio – «ci si trova nella necessità di ritrovare un nuovo modo di porsi, uscendo dal “si è sempre fatto così”, trovando nuove forze, entusiasmo, motivazioni e creando un livello migliore di comunicazione». Aprirsi, dunque, è il verbo chiave,

oggi che il dilagare della tecnologia sembra aver tolto spazio al contatto umano, «le persone sembrano catturate da un vortice» che nega il tempo per un’adeguata preparazione. Una «corsa» che coinvolge un po’ tutti: catechisti, adulti che partecipano alle varie attività parrocchiali, ragazzi, perfino i bambini. Sembra perciò «essere giunto il momento di fermarsi, affinché la parrocchia non sia solo un ufficio di servizi ma di formazione e aggregazione di fedeli in crescita con le linee conciliari». Un appello che il cardinale De Donatis ha accolto pienamente, osservando che la situazione illustrata riguarda l’intera comunità diocesana: «Questa Chiesa in uscita a cui Papa Francesco ci ha richiamati – ha spiegato – non è tanto inventare cose nuove da fare, ma è un modo di essere nuovo per poter vivere anche le relazioni in modo più vero. E credo che in questo senso il nome della vostra parrocchia è importante, perché nella Trinità le relazioni sono sostanziate dall’amore, dalla carità, e tutte le relazioni che noi viviamo non possono prescindere dall’amore trinitario, si fondano su di esso». Da qui il cammino intrapreso dalla Diocesi, quello del «prelievo, come lo ha definito il Papa, per capire quali sono le malattie spirituali che ci affliggono (in primo luogo, ha poi precisato, l’autoreferenzialità e la frammentazione, ndr), per poi passare a fare memoria ed entrare, adesso, nella dimensione della riconciliazione: chiediamo cioè al Signore la grazia di capire che la comunione non è un appiattimento,

bensì mettere insieme la bellezza dei doni diversi. Per vivere questa dimensione occorre essere riconciliati». Solo così sarà possibile «metterci in ascolto della realtà profonda della nostra città, ascoltare il grido del povero, assumere l’ascolto come atteggiamento permanente» per entrare concretamente nella realtà del territorio, scoprirne i bisogni reali e cercare di dare il nostro contributo. Per essere una comunità feconda e non autoreferenziale. Proprio all’ascolto dei presenti De Donatis ha dedicato la seconda parte dell’incontro e diversi sono stati i temi emersi, in particolare l’esigenza di «entrare davvero dentro la Parola, nel Vangelo, perché – come è stato notato – oggi siamo bombardati da parole con la “p” minuscola che ci cadono addosso e scivolano via come acqua su un vetro». Da qui l’invito del cardinale, facendo riferimento al libro dell’Esodo, a «essere Chiesa capace di camminare, quindi di non chiudersi, di piantare la tenda la sera e di riprendere il cammino la mattina dopo». Adesso, ha aggiunto, «dovremmo essere preoccupati solo di una cosa: non di difendere gli spazi, ma di dare vita». Chiesa piena, si diceva, per la messa presieduta subito dal cardinale e concelebrata, oltre che da padre Lucio, anche dai vicari parrocchiali padre Raffaele Giacopuzzi e padre Silvano Zanella. Nell’omelia, De Donatis si è rivolto in particolare ai molti bambini presenti: «Voi siete il futuro di questa comunità e questa comunità avrà un futuro se voi crescerete in un amore forte verso Gesù e verso i poveri. Siete un dono meraviglioso, siete la speranza della Chiesa». Alla fine sorrisi, foto, strette di mano, canti. Insomma, davvero un giorno di festa.

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Il Moria Refugee Camp di Lesbo

Le condizioni “disumane” dei campi profughi delle isole greche a cominciare da Lesbo

La paura sta uccidendo il senso di umanità?

dalla Redazione

Centinaia di donne incinte, minori non accompagnati, sopravvissuti alle torture e agli abusi sono costretti nel pieno dell’inverno a vivere in condizioni “disumane” nei campi profughi delle isole greche. Migranti a cui viene negato il diritto a un’accoglienza dignitosa, come conseguenza del collasso del sistema di identificazione e di protezione, dovuto alla mancanza di personale qua-

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lificato e a processi burocratici kafkiani.

ai lager libici agli inferi greci. Una tragedia umanitaria senza fine. Storie di sofferenze indicibili, di dignità calpestate, di diritti violati. Storie che hanno un nome, un volto, ma che spesso, troppo spesso finiscono per ridursi a numeri, per tornare a esistere,

mediaticamente, solo se quella sofferenza viene catturata da un flash e si trasforma in una foto che fa versare lacrime il tempo della sua visione. Per poi dimenticare. L’indignazione è considerata tradimento, la solidarietà un reato. Per noi della redazione di “Oltre…” indignarsi e dire no a tutto questo significa restare umani. E, per chi ha la possibilità di avere


uno spazio, anche minimo, nella comunicazione, restare umani vuol dire sostenere quanti quel mondo sofferente praticano ogni giorno, e ogni giorno danno conto di situazioni terrificanti, che non trovano spazio sulle prime pagine dei giornali o nei titoli di testa di un Tg. Restare umani è anche mantenere accesi i riflettori su realtà scomode. Scomode perché è chiamare in causa una Europa silente, e dunque complice e dove tutto si ferma ai propri interessi economici. Scomoda, nonché scioccante, è la realtà portata alla luce da Oxfam (Oxfam è una confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo). Centinaia di donne incinte, minori non accompagnati, sopravvissuti alle torture e agli abusi sono costretti nel pieno dell’inverno a vivere in condizioni “disumane” nei campi profughi delle isole greche. È la denuncia contenuta nel report “Vulnerabili e abbandonati”, diffuso da Oxfam, attraverso tante drammatiche testimonianze di migranti a cui viene negato il diritto a un’accoglienza dignitosa, come

conseguenza del collasso del sistema di identificazione e di protezione, dovuto alla mancanza di personale qualificato e a processi burocratici kafkiani. Nel dossier, le voci di madri che sono state mandate via dagli ospedali a soli quattro giorni da un parto cesareo e che si sono ritrovate a vivere in una tenda assieme ai figli appena nati. Le testimonianze di minori e donne sopravvissuti a violenze sessuali e ad altri traumi, che sopravvivono in campi profughi dove regolarmente avvengono risse e dove di conseguenza i 2/3 di chi è costretto a viverci afferma di non sentirsi mai al sicuro. Nel campo di Moria - che contiene il doppio di persone che potrebbe accogliere vivono ammassate centinaia di persone, con un solo medico per quasi tutto il 2018, incaricato dalle autorità di Lesbo di provvedere all’identificazione e al primo soccorso delle circa 2.000 persone, che arrivavano ogni mese sull’isola. Fino ad arrivare al punto che lo scorso novembre non c’è stato neanche quell’unico medico ad assistere le persone più fragili e garantirne il diritto alla salute. Il tutto in un quadro dove le procedure di identificazione sono cam-

biate tre volte solo nell’ultimo anno, aumentando il caos di cui sono vittime persone che hanno già sofferto traumi indicibili. “È inaccettabile trovarsi nella condizione di non poter identificare le persone che hanno immediato bisogno di aiuto. – rimarca il responsabile emergenze umanitarie. Si è conoscenza di casi di madri con neonati costrette a dormire sotto una tenda e di adolescenti registrati erroneamente come adulti e rimasti bloccati nei campi. Sono moltissimi i casi di persone detenute ingiustamente nonostante siano giovanissime, soffrano di malattie psichiche e o disagi fisici dovuti ai traumi subiti. Una condizione in cui è difficilissimo avere accesso a cure mediche e all’assistenza psicologica. Molti hanno solo due ore al giorno in cui è permesso uscire dal container. Il resto del tempo stanno seduti in un piccolo spazio con altri 15 uomini, tutti con problemi. Lesbo fece notizia quando a visitare i migranti lì ammassati fu Papa Francesco. Era il 16 aprile 2016. Dal Moria Refugee Camp di Lesbo, il Papa aveva lanciato un segnale di vicinanza: “Non siete segue> soli”. E poi aveva sfer-


zato il vecchio continente chiedendo che faccia memoria della sua storia: “L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare”. Così non è. L’inverno ha portato una pioggia incessante a Lesbo e la tendopoli è diventata una vera e propria palude di fango, con le temperature che nelle prossime settimane si abbasseranno ancora sotto lo zero portando la neve. In cerca di qualsiasi fonte di calore le persone hanno iniziato a bruciare tutto quello che trovano, inclusa la plastica. Portano stufe improvvisate e pericolose dentro alle tende, rischiando la vita solo per riscaldarsi. Di fronte a questa situazione l’Unione europea, gli Stati membri devono trovare al più presto una soluzione all’emergenza che si sta consumando nelle isole greche: servono uno staff sanitario adeguato, un diverso sistema di identificazione dei più vulnerabili e trasferimenti regolari dei migranti sulla terraferma. <segue

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Stiamo assistendo ad una chiusura di fatto delle frontiere europee, che tradisce i valori fondanti dell’Unione e il comune senso di umanità che dovrebbe guidarne l’azione. Alle frontiere di Croazia e Ungheria migliaia di uomini, donne e bambini che non hanno più nulla, vengono respinti in Serbia dove sono costretti a vivere intrappolati, come in un limbo. Una situazione che investe anche la frontiera italiana, lungo la rotta del Mediterraneo centrale, dopo la chiusura dei porti decisa dal Governo l’estate scorsa. Tutto questo è insensato e ingiusto Ciascuno Stato deve fare la propria

parte accogliendo una quota di migranti e agire perché si giunga prima possibile alla riforma del Trattato di Dublino, in linea con la posizione del Parlamento europeo. Fare la propria parte. Dimostrare che la civiltà europea non si è inabissate nel “mare della Morte”, il Mediterraneo, o sepolta in una delle tante fosse comuni scavate nel deserto per far scomparire i cadaveri di persone fuggite da guerre e sfruttamento, finite nelle mani dei trafficanti di esseri umani e morte di fame e sete nelle traversate del Sahara o giustiziate perché non potevano pagare il riscatto. Non sappiamo se sia corretto, pensiamo di no, accumunare il mondo delle Ong, quello che a quello degli scafisti. Riteniamo che chi lavora su queste Ong non siano degli eroi. Sono persone che sanno che “salvare una vita è salvare l’umanità”. Non può essere la paura a guidare le scelte per proteggere l’Italia e l’Europa, ma il senso di umanità che molti sembrano aver perso.


Il libro di Antonella Lumini: il racconto di una ricerca di vita spirituale in itinere

“La custode del silenzio”

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a cura di Mario Gravina

on ho conosciuto per- poli, dice Antonella, è possibile vi- soprattutto, non è un libro di testo. sonalmente Antonella vere l’esperienza del deserto e del È, semplicemente, il racconto, ben Lumini, ma leggendo il silenzio. scritto, di una storia personale, di libro “La custode del Tanti anni fa, la Lumini ha sentito una ricerca di vita esistenziale e silenzio” scritto (sotto forma di in- un richiamo (possiamo dire la vo- spirituale in itinere. È un percorso, tervista) in collaborazione con il cazione) che l’ha portata a cercare, una ricerca, una continua scoperta giornalista Paolo Rodari, ho avver- spiritualmente e concretamente, capace di portare pace ed equilibtito la sensazione come di averla un sentiero già percorso nella sto- rio, insieme a esperienze di incontrata. Ci sono libri che non ria da altre persone diventate preghiera ascoltando il silenzio e lasciano indifferenti. Antonella Lu- eremiti, in questo caso, eremita di cercando la bellezza nelle cose più mini, eremita vive e lavora a città. Chiuso il tempo del lavoro, piccole e quotidiane. Per questo la Firenze. In questo libro (edito da Antonella si apre al silenzio e alla Lumini è una testimone di quella Einaudi), la Lumini espone con preghiera. Non si tratta di rifiutare ‘pastorale dell’orecchio’ di cui chiarezza e profondità il suo pen- il mondo, ma di accoglierlo nell’as- parla spesso Papa Francesco. In siero e racconta la sua esperienza colto interiore. È un tempo, questo una società dove tutti chiacchiecontemplativa al giornalista Paolo del silenzio, prezioso, un balsamo rano o gridano, dove tutti hanno Rodari, facendoci vivere, pagina per l’anima che apre spazi più qualcosa da dire, manca chi stia dopo pagina, momenti ricchi di ampi e profondi per meglio capire semplicemente ad ascoltare quanti spunti meditativi sul tema spiri- il mondo in cui viviamo e operi- sono nel disagio, nella pena, tuale del silenzio attraverso un per- amo. E lo spazio fisico in cui An- quanti hanno le vite lacerate e cercorso di impronta monacale. An- tonella Lumini realizza questi cano un approdo. tonella Lumini è impiegata momenti di vita eremitica ha un Mi sono “nutrito” leggendo questo part-time alla Biblioteca nazionale nome preciso: pustinia (dal russo libro e ci sono tornato sopra per centrale di Firenze. Il suo tempo è pustynya, “deserto”). Un luogo in meglio assimilare il suo messaggio. ben diviso tra il lavoro e la cui si prega ascoltando la voce di E, alla fine, ho sentito forte il preghiera, proprio nello spirito, un altro. desiderio di voler realizzare un’espossiamo dire, della regola di San La custode del silenzio, dunque, perienza di pustinia. Certo non è Benedetto Ora et labora. Con la non è un libro che elabora idee, cosa semplice, ma basta spegnere differenza (e qui è racchiuso il suo non è un manuale di meditazione per qualche ora la TV o il computer messaggio) che lei non vive in yoga, non presenta delle teorie, e, o il cellulare per accendere dentro monastero, ma si è ritaglidi noi il silenzio creativo e ata in casa uno spazio di liberarci dai troppi rumori deserto metropolitano dodi una città che sempre ve meditare e pregare ogni meno è a misura d’uomo. giorno. Dopo tanti anni di Per questo, dice Antonella raccoglimento e di vita riLumini, corriamo troppo e tirata ha deciso di racconsiamo depressi e allora, tare questa sua esperienza forse dovremmo rallentare pubblicamente, incontrane imparare ad ascoltarci do gruppi e accogliendo interiormente. Credo che persone nella sua casa, sia un buon suggerimento “eremo di città”. Anche nel da accogliere. Per me lo è Antonella Lumini in meditazione nella sua pustinia bel mezzo di una metrostato.

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Compie 90 anni l’ex presidente delle Acli e del Cir, nonché storico nostro collaboratore

Domenico Rosati, solidarietà e realismo cristiano

di Marco Tarquinio*

Riproponiamo l’articolo apparso sul giornale “L’Avvenire” il 6 febbraio scorso per farci sentire vicini anche come comunità tutta all’on. Domenico Rosati, non solo per un rinnovato augurio di buon compleanno, ma per dirgli il nostro grazie per il suo impegno e presenza in ambito politico e sociale nazionale, ma anche per la preziosa collaborazione e testimonianza che da decenni porta avanti anche nella nostra parrocchia Grazie, Domenico di tutto ciò che sei stato e sei per la nostra comunità parrocchiale e anche per molti Stimmatini. Ad maiora semper.

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ul traffico degli esseri umani e sul soccorso di chi è in pericolo: Mentre a Roma si discute, a Otranto si muore (dicembre 2000), ragionando con dolente chiarezza sul cinismo assassino che stava portando alla morte per annegamento dei profughi curdi in Adriatico e sulla debolezza dell’azione della cooperazione internazionale per scongiurare le migrazioni forzate. Sul diritto d’asilo: Il Governo non si nasconda (ancora dicembre 2000), incalzando la maggioranza di centrosinistra dell’epoca e denunciando la mancata riforma come «l’incompiuta più grave» (marzo 2001).

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Sui meccanismi dell’immigrazione economica ben regolata: L’istituto dello ‘sponsor’ va rivisto, non abolito (settembre 2001), per spingere il Governo di centrodestra a legiferare allo scopo di tenere lontani dal «lavoro nero» uomini e donne venuti in Italia dall’estero; per incentivare la «resistenza civica» dei datori di lavoro alla «infame tentazione» di clandestinizzare la propria manodopera straniera (agosto 2002); e per mettere il dito nella piaga scandalosa della vita e morte dei «cinesi di Prato» immigrati «atipici», pratesi per residenza e arte, ma italiani senza volto né cittadinanza (settembre 2002). Sono tutti temi e ragionamenti tratti da interventi di Domenico Rosati sulle pagine di ‘Avvenire’, proprio al primo inizio del nostro XXI secolo. E ho deciso di citarli nell’incipit di questa piccola testimonianza, - resa per stima e per amicizia, a titolo personale, ma anche da direttore di un giornale che Domenico Rosati legge da sempre e che ha frequentato spesso, in particolar modo tra il 1990 e il 2005, come libero collaboratore. L’ho fatto non perché dicano tutto di lui, della sua visione di cristiano e delle sue passioni di cittadino e di intellettuale, ma perché sottolineano lo sguardo lucido e buono - davvero lucido e autenticamente buono - che l’ex presidente delle Acli (Associazioni

cristiane lavoratori italiani) e del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) ed ex senatore ha saputo e sa esercitare sulla realtà (non solo) italiana. L’unione di lucidità e bontà è vigorosa ambizione del realismo cristiano, ed è bellissima (e profetica) virtù politica e civile, perché aiuta a vivere la contemporaneità senza essere schiavi delle contingenze e, proprio per questo, consente di vedere e interpretare le questioni sociali ed economiche, le sfide culturali e antropologiche, i nodi morali e le esigenze spirituali di una data comunità (come dell’umanità intera) in una prospettiva giustamente profonda, aiutando ad articolare le soluzioni possibili senza perdere la consapevolezza che gli uomini e le donne sono i protagonisti e rappresentano la risposta, e non possono essere mai ridotti al problema in cui sono immersi. Un lusso necessario, la lucidità e la bontà, che Domenico Rosati si è permesso per tutta la vita. E una virtù che ha coltivato, sia con una pronunciata attitudine pubblica al dialogo nella chiarezza delle posizioni (senza timori di essere e apparire in minoranza), sia con una prosa giornalistica semplicemente elegante. Un modo non solo suo, ma suo certamente sì, per tenere insieme sobrietà dei toni e forza delle idee-guida, libertà e fedeltà di cattolico e responsabilità


Domenico Rosati, ex presidente delle Acli e del Cir / Siciliani

di uomo del proprio tempo. Uno stile e una sostanza che ieri e, viene da dire, soprattutto oggi rappresentano un esempio che rincuora quanti non si rassegnano, e non intendono arrendersi, al cattivismo ideologico, che in modo calcolato e calcolatore, sembra essere tornato a dilagare. E che, anche se sfrutta parole d’ordine e sfoggia slogan da ‘pensiero forte’, è esito prevedibile - e per certi versi inevitabile - dell’individualismo e del relativismo assoluto. Il cattivismo perde i contorni del bene e del male e mistifica, non riconoscendo e, dunque, confondendo vittime e carnefici, sfruttati e sfruttatori. E così arriva a segnare col marchio del sospetto, del disprezzo e dell’irrimediabile estraneità ogni alterità, ogni persona e cultura ‘altra’, e squalifica come buonismo, a sua volta ideologico, ogni gesto di umanità, ovvero la ripeto con orgoglio, e non importa che questa parola suoni a molti debole e inattuale - di bontà.

La bontà è la giustizia realizzata per amore, è la civiltà di chi riconosce, accoglie, protegge, forma, assiste, valorizza e pacifica la vita umana. La legge per i cattivisti è l’attrezzo per costruire barriere e l’arma per tutelare gli interessi di mondi separati. Per Domenico Rosati, che ha cercato di dimostrarlo nella sua intensa e lunga militanza associativa e politica e di argomentarlo su giornali e riviste, è invece lo strumento per rendere sempre più giusta la vita del mondo (e lavoro, intrapresa e movimento migratorio sono tutti insieme essenziali e preziosi sintomi di vita), per aprire e presidiare strade di vera comunicazione, cioè di solidarietà aperta e di fraterna inclusione. Torno, infine, al punto da cui sono partito. Tratta degli esseri umani, soccorso umanitario, cooperazione internazionale. Diritto di asilo. Buon governo delle migrazioni. Colpisce e fa riflettere che i temi e i ragionamenti di di-

ciotto anni fa, che ho richiamato nell’incipit (ma l’elenco potrebbe allungarsi e ampliarsi), siano ancora esemplarmente attualissimi. E risulta evidente che i problemi si sono aggravati anche se - assieme ad altri, tanti ma evidentemente non abbastanza - Domenico Rosati si è speso a fondo e ha appunto scritto e detto e fatto per cambiare l’amaro (dis)ordine delle cose. È altrettanto chiaro, però, almeno per chi non si accontenta delle propagande da comizio e non si consola con le maledizioni da talk show che a complicare tutto non è la lucidità e la bontà messe in campo da Domenico Rosati e da quelli e quelle come lui, ma il loro esatto contrario: l’inerzia, l’indifferenza, il calcolo, la miopia, l’ostilità… Insomma, abbiamo più che mai bisogno di generoso realismo cristiano. È ancora tempo di duro lavoro, caro Domenico, è ancora stagione di semina. *Il direttore di Avvenire

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Il viaggio in un Paese misterioso, particolare, colorato e pieno di contraddizioni

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Colori e odori dall’India

di Sofia Alibrandi

rano diversi anni che io e mia sorella volevamo fare un viaggio in India e all’inizio di quest’anno ne è capitata l’occasione e così l’11 gennaio siamo partite con altre 4 persone per questa nuova avventura. Dopo 7 ore e 30 di aereo e con un fuso orario di 4 ore e 30 atterriamo a Delhi (23 milioni di abitanti). Arriviamo in albergo, il tempo di depositare il bagaglio e si inizia subito il tour. L’impatto è abbastanza forte e ho avvertito un senso di disagio che mi è durato qualche giorno.

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Sporcizia dappertutto, gente sdraiata per terra, bisogni in pubblico, bambini scalzi e nudi, donne bellissime con sari coloratissimi, bambini e calzolai accovacciati in terra presi a svolgere i loro mestieri. Mucche sacre che camminavano in mezzo al traffico… Le persone ti guardavano fisse e ti senti un marziano. Molti volevano le foto, c’erano due giovani ragazze nel gruppo, poi dopo qualche giorno ti abitui. Mucche, scimmie, capre, cani pappagalli, scoiattoli, piccioni liberi di circolare in aria e in terra con tutte le problematiche igieniche che lascio immaginare.

Per non parlare dei poveri: file e file di uomini davanti ad un carrettino dove viene dato loro da mangiare e dopo che hanno mangiato, ciottoline e forchette buttate a terra e li rimangono con conseguenze immaginabili con vacche, cani e capre a cercare qualche boccone rimasto. Sinceramente a Delhi, non ritornerei. Per contro vai a Nuova Delhi dove regna la pulizia e l’ordine. È la Delhi ministeriale, la Delhi dei palazzi, la Delhi dei ricchi. Qui si trovano fiori, giardini, lunghissimi viali, bei negozi. Tutto è bello e pulito. La domanda mi


sorge spontanea: perché questa enorme differenza? Il 3° giorno siamo andati a Jaipur la “città rosa” (di arenaria). Finalmente i nostri occhi si sono rifatti: Palazzi dei Maragià estremamente raffinati con colonne cesellate con pietre preziose che sembrano merletti. La passeggiata in elefante per visitare il palazzo del Maragià che sta su una montagnola è stata divertentissima. Qui a Jaipur siamo stati fortunati essendo arrivati in coincidenza con la festa degli aquiloni: centinaia di pezzetti di carta colorata di varie dimensioni che si libravano nel cielo. Bambini e grandi che per strada e sulle terrazze facevano volare i coloratissimi aquiloni: abbiamo vissuto un momento incantato. Il viaggio è continuato per la città di Agra, la città dell’amore con il suo famosissimo Taj Mahal, una delle 7 meraviglie del mondo moderno. Vedere questo bianchissimo palazzo è stata un’emozione talmente forte che mi sono uscite le lacrime. Ti trovi davanti ad una cosa immensa, maestosa, istoriata con colonne e marmi preziosi. Non so descriverlo, non renderei giustizia a

ciò che ho visto, ma l’emozione provata è stata veramente forte, anzi fortissima: il solo vedere questo mausoleo vale il viaggio in India. Ecco, continuo a dire che l’India è un paese delle forte emozioni e contraddizioni! Il 6° giorno con l’aereo da Delhi ci siamo trasferiti a Varanasi, centro della religione Indù e qui un altro colpo! Il sacro Gange accoglie tutti, uomini e donne, vacche, animali, vasi cenerari, panni da lavare in un grande abbraccio. Capite bene l’impatto è stato for-

tissimo, vedere le pire che ardevano bruciando i cadaveri a cielo aperto, c’ha fatto rimanere di stucco. Poi ti riprendi, incrociando, poco lontano, al celebrazione di un matrimonio, con la sposa coloratissima da capo a piedi. Altrettanto lo sposo e gli invitati con balli e canti e suoni. L’aria è piena di festa e allegria tale da coinvolgerti da portarti a ballare assieme a loro. Ora di questo viaggio indimenticabile mi rimangono nel cuore emozioni, colori e un Paese con tutte le sue contraddizioni.

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Dall’obbligo religioso alla filantropia moderna

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Condividere la ricchezza

Di Nicoletta Dentico

n paio di anni fa, in uno dei primi incontri interconfessionali di presso la sede di Banca Etica a Roma, un giovane studente di economia della comunità musulmana, venuto al seguito dell’imam di Centocelle, intraprese un appassionato ragionamento sul valore e l’importanza della zakat islamica. Giustamente. La zakat è l’obbligo religioso di purificazione della propria ricchezza prescritto dal Corano. Ogni persona musulmana è chiamata a questo dovere, particolarmente durante il mese santo del Ramadan, per definirsi autenticamente credente.

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Non è la ricchezza che manca al mondo, ma la condivisione (proverbio cinese)

DALLA ZAKAT ISLAMICA… La zakat, etimologicamente legata al concetto di “purezza”, non è soltanto un meccanismo di redistribuzione economica, dunque. È il terzo dei cinque pilastri dell’Islam, serve a rendere lecita la propria ricchezza materiale, tra-

mite l’erogazione di una porzione della propria disponibilità di capitale (il 2,5%) a sostegno alle comunità più svantaggiate della società islamica, secondo criteri ben definiti. Una pratica vecchia di 1400 anni insomma che, secondo la tradizione narrata dai califfi, ebbe un impatto considerevole sulla riduzione della povertà.

CHI PIÙ HA, PIÙ DONA Chi più dona, più contribuisce alla società e perciò è apprezzato dalla comunità religiosa. Così raccontava il giovane universitario, senza porsi la domanda sulla correlazione fra la quantità della ricchezza e il modo


con cui è stata accumulata (sono in pochi a porsela questa domanda, anche tra i decisori politici e le élite religiose in genere). Del resto, è condivisibile l’entusiasmo per questa visione profonda di contratto sociale tra ricchi e poveri di una società, in cui ogni individuo condivide un dovere morale e normativo di aiutare il prossimo, mettendo mano alle proprie disponibilità (liquidità, azioni e investimenti, proprietà ed altri assets), e con linee di indirizzo sempre più rivolte alle aree di crisi internazionale

…ALLA FILANTROPIA A questo “bene da condividere” dedica la pagina di copertina anche il numero di gennaio della rivista Forbes, con un uso forse un po’ strumentale dell’immagine di Papa Francesco, con riferimento alla ricchezza che diventa filantropia, e alla filantropia che sta cambiando il modo di concepire la gestione della cosa pubblica e di organizzare il proprio lavoro, aprendo un periodo di grande dinamismo e innovazione per l’intero settore. Del resto, sta nello spirito della A chiamare direttamente in causa, in tempo di totale deregolamentazione, il protagonismo degli attori privati. Qui ovviamente usciamo dal territorio dell’obbligo religioso islamico, e ci addentriamo nel modus operandi dell’elargizione volontaria che ha affiliazioni con la cultura religiosa, inutile negarlo, soprattutto con la tradizione protestante.

AL FILANTROCAPITALISMO MODERNO L’imprenditore di successo sta fra i salvati, secondo l’interpretazione del calvinismo di Max Weber, da cui deriva una radice della galassia pentecostale che predica la “teologia della prosperità” (la ricchezza e il suo uso per ottenere la salvezza di Dio). E forse non è un caso che provenga da Seattle il monopolista della filantrocapitalismo moderno, il ricchissimo Bill Gates.

Seattle è la culla della sola religione indigena del Nord America, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (spesso abbreviato in LDS: Latter Days Saints), cioè la chiesa dei Mormoni, nota per la sua concezione secolarizzata in materia di denaro (interessante però considerare che ogni mormone che vuole entrare a far parte della chiesa è tenuto a versarle il 10% dei suoi guadagni). Un terreno scivoloso, quello della filantropia profit, o strategica che dir si voglia, tanto in voga, che reinterpreta individualisticamente i valori solidaristici per operare, con metodologie manageriali e di mercato, una sofisticata ristrutturazione del capitalismo su scala globale. Il sociologo Daniel Bell, nella sua penetrante disamina della cultura capitalistica, mostra la radicale contrapposizione fra la tendenza al profitto personale, frutto della mentalità industriale, e le decisioni orientate al bene comune che sono indispensabili per la società. Vero è che grazie alla tecnologia e all’immediatezza della comunicazione digitale il mondo si è fatto più piccolo e interconnesso, sicché è sempre più difficile ignorare le sfide globali della povertà, della disuguaglianza, del progressivo esaurimento delle risorse ambientali. Ma la contraddizione insanabile tra ricerca sfrenata del guadagno e interesse generale sta alla radice delle ricorrenti crisi economiche, tra le quali la crisi del

2008 è solo la più eclatante per dimensione. Siamo veramente convinti che nel tempo della smodata crescita della ricchezza, e della sua concentrazione nelle mani di una cerchia sempre più esigua di persone, prevalga una maggiore e sincera propensione a dare, a donare, nella logica della restituzione alla società? Forse che i pochi, ricchissimi, si sono resi conto di aver aperto un baratro nel quale essi stessi rischiano di precipitare? Oppure questa vivace spinta ad agire, a trovare soluzioni, trasformando il denaro in potere anche politico, non è che un intervento mirato a indurre un cambiamento profondo della governance in modo da salvaguardare proprio il capitalismo? “Il capitalismo inclusivo e compassionevole” di cui tutti parlano, e che ormai promuovono anche le Nazioni Unite, salva l’anima forse, ma non intacca minimamente i nodi che producono precarietà, disoccupazione, scempio sociale umano. La cultura dello scarto, tanto per usare i termini della teologia di Papa Francesco. Doveva essere un leggero mantello per Max Weber, questa ascesi del capitalismo, e invece è diventata un ingranaggio ineluttabile, “una gabbia di durissimo acciaio”. Vale la pena tenerlo a mente, nel momento in cui tutte le fedi, nessuna esclusa, si collocano dentro un processo culturale di mercato e di finanza globale. Magari, il processo di purificazione merita una nuova attenzione.

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23/3 - Gita a Cerveteri, immersi nella civiltà estrusca

Insieme per comprendere

Di Stefania Basile e Fabrizio Gatti

Viaggiare per comprendere, amare, capire che nessuno è solo. Giovani e diversamente giovani uniti per un giorno nella luce, nel divertimento, nella storia.

Stefania: sì, fuori porta ci piace Sì, quelle belle gite che ci portano ad uscire dalla città, dalla nostra casa, dall’uscio che chiude le nostre abitudini. All’appello aderiscono più di 60 persone, armate di sorriso e voglia di stare insieme. La meta stavolta è Cerveteri, per visitare la necropoli etrusca ‘La Banditaccia’ e, successivamente, il Santuario della Madonna di Ceri. La scelta di viaggiare a km Zero non è solo per contenere i tempi, ma per godere di un Lazio che ci regala tesori, preziose perle da scoprire e da proteggere. L’improvviso caldo primaverile, il camminare, salire e scendere nelle tombe, non rappresentano fatica, bensì attimi di condivisione di un’esperienza, in cui tutti possono riconoscersi in una foto e dire “c’ero anche io!”, parlare con il vicino in pullman, apprendere storie del passato, visitare nuovi luoghi, riportare ricordi, condividere l’agape fraterna in allegria e godere infine di una celebrazione liturgica in una chiesetta all’interno di un borgo quasi lontano dalla realtà, dove ritroviamo Colui che ci ha accompagnato anche in questo viaggio, perché “dove due o più sono riuniti nel mio Nome, io sono in mezzo a loro”… A bordo con noi un amico caro della nostra comunità, che ci ha raccontato del popolo etrusco facendocene innamorare e ci ha guidati in questa esplorazione. Al nostro fianco, come

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sempre, il team dei bambini, coinvolti per aiutarci nelle piccole azioni pratiche, raccogliere le informazioni, prendere appunti, fare foto, e regalarci poi il frutto delle loro preziose annotazioni.

Fabrizio: Conoscere se stessi è arduo. Stare davanti ad un video, tramite un mezzo social, può sembrare più facile, bello, gratificante e senza sforzi. Così appena mi è stato proposto di accompagnare la gita della nostra comunità Parrocchiale a Cerveteri, ho detto “sì” senza esitazione. Da anni su Facebook, ho creato una pagina dedicata al mondo etrusco “La disciplina etrusca, religiosità rasna” dando voce ad un personaggio denominato “Veltur Tulumne” che vuole ricordare a chi legge, la distruzione di un popolo e della sua città: Vejo. Avvenuta secondo le fonti nel 396 a. C. per mano del Console/Dittatore Furio Camillo. Uscire in pullman verso la necropoli della Banditaccia, visitare il museo e vedere dal vivo il famoso “cratere di Eufronio”, sorseggiando poi una spremuta d’uva che richiamava alla mente gli antichi simposi, nella magica giornata che questa primizia di primavera ci ha donato, è stato

mitico. Non voglio annoiarvi sugli aspetti archeologici, sintetizzando vorrei dirvi “pur visitando un cimitero, ci siamo sentiti “vivi come non mai”, facendo tesoro della saggezza di un popolo antichissimo che senza parole, si trasmetteva in noi dai sassi, dai gradini e dalle ombre tombali che ci facevano pensare a case, famiglie e persone Rasna”. I bimbi presenti liberi di girare intorno a noi, ci deliziavano con la novità della loro esperienza, spargendo stupore e sorpresa, come quando un papà mi ha chiesto “di chi è quella mummia che mia figlia ha visto in quella tomba?”. Domanda per me del tutto misteriosa in quanto non sapevo dell’esistenza di mummie in loco, a cui rispondevo con un banale “non so”, ma che poi si spiegava, nel fatto che i bambini, con fantasia, avevano scambiato un manichino per una mummia. Dagli etruschi è nata l’occasione per incontrarsi e stare insieme a tante “persone di buona volontà” che spesso mi camminano vicino, passando una giornata che dire “volata” non esprime il senso rapido di un momento così intenso e vivo, come quando alla fine della Celebrazione Eucaristica, abbiamo ricevuto l’ultimo dono. La spiegazione degli affreschi “Bibbia dei poveri” fatta dal Parroco, Don Riccardo, nella chiesa di Santa Maria Immacolata a Ceri, vera e propria “carezza di Dio” come aveva ben profetizzato e sottolineato nell’Omelia, Padre Silvano. Concludendo, vi raccomandiamo di non perdere la prossima gita, perché non “vendiamo pentole, ma solide e buone realtà”, dove l’amicizia e la condivisione non sono parole vuote.


In Parrocchia per la 20ª giornata indetta dall’Unesco

Grande festa della Poesia

Di Mario De Luca

L’

L’associazione “I versi e la memoria” celebra la 20ª Giornata Mondiale della Poesia 2019 indetta dall’Unesco

Unesco ha istituito la giornata mondiale della poesia dall’inizio del nuovo millennio (il 2000) ed ha indicato un giorno (il 21 marzo di ogni anno) molto bello perché coincide con l’inizio della stagione primaverile ed è il tempo in cui la Chiesa ricordava San Benedetto (dal 1969 la festa liturgica è l’11 luglio e anche il giorno della nascita di Alda Merini n.d.r.). La poesia è una delle forme più alte di cultura ed espressione della bellezza. La forma poetica come anche quella musicale sono strettamente legate all’idea di bellezza; molti ricordano che “la bellezza salverà il mondo” (Dostoevskij) ed anche “la bellezza è una promessa di felicità” (Baudelaire) e “ogni uomo ha diritto di cercare la propria felicità” come ci ricorda la costituzione americana. Per l’Unesco la poesia non conosce frontiere perché la bellezza non conosce frontiere. La poesia può nascere anche inaspettatamente come ci ricorda Benedetto Croce: “…anche nel quotidiano esprimersi e conversare, è dato vedere, se vi si fa attenzione, come di continuo, lungo il suo corso vivace, s’innovino e s’inventino immaginosamente le parole e fiorisca la poesia, una poesia dei più vari toni, severa e sublime, tenera, graziosa e sorridente… “. Pertanto, animata dall’amore per la poesia l’Associazione “I versi e la memoria” nella Parrocchia della SS. Trinità a Villa Chigi, grazie all’impegno del Parroco p. Lucio Boldrin e di Mario Gravina, anche quest’anno ha organizzato un incontro

nei locali parrocchiali dove gli autori partecipanti all’Associazione hanno letto le loro composizioni poetiche e quelle di altri poeti. Hanno partecipato inoltre bambini e ragazzi delle scuole. Ad aprire la serata è stato padre Lucio Boldrin che ha letto una bellissima poesia di Pablo Neruda sul tema dell’amore. Le letture sono state intervallate da musiche e canzoni eseguite brillantemente dai giovani della Comunità parrocchiale animati da padre Raffaele Giacopuzzi. Proprio la presenza di giovani e giovanis-

simi è prova che quando si parla di bellezza i giovani partecipano volentieri alle attività culturali nel territorio. Non c’è dubbio quando la bellezza della poesia rende bella la vita, mentre al contrario la volgarità induce alla violenza. Ne è la prova anche estetica il volto buono, sereno e festoso dei poeti che con mitezza ed eleganza passano del tempo insieme ogni mercoledì all’interno dei locali della parrocchia. E quello dell’Associazione “I Versi e la Memoria” è davvero un esperimento riuscito perché rende accessibile a tutti il mondo della letteratura e della poesia e attraverso la poesia crea momenti di amicizia, fratellanza ed anche convivialità comunitaria. Nel corso degli anni l’associazione “I Versi e la Memoria” è diventata una specie di “casa della poesia”. Recentemente ha raccolto e pubblicato anche un bel volume antologico, con le poesie del gruppo degli appassionati partecipanti. Il libro ha avuto apprezzamento e un gran successo. La poesia ci fa vivere meglio perché consente agli altri di partecipare ai sentimenti che nascono spontaneamente nelle nostre menti e nel nostro cuore.

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I centri commerciali e i negozi online stanno cancellando le nostre botteghe storiche, la nostra memoria storica

Il tessuto commerciale del nostro quartiere cambia

N

di Giulio Anticoli*

ell’ultimo ventennio, il tessuto commerciale di Roma e di conseguenza del nostro quadrante, ha subito una radicale trasformazione, per vari motivi contingenti. L’ultimo censimento che fotografò il periodo che andava dal 2002 al 2012 , ci disse che all’interno delle mura Aureliane le attività artigianali passarono da più di 5000 unità nel 2002 a meno di 2000 nel 2012 e anche nel nostro quartiere, la proporzione fu pressoché la stessa. L’avvento della legge Bersani che nel 1998 abolì di fatto le tabelle merceologiche, decretò la fine della diversificazione d’offerta commerciale nelle nostre strade. Prima di questa triste data le attività economiche non potevano aprire in forma seriale come avviene ora nelle strade souvenir o nei quartieri mangiatoia. Risultato di oggi, una miriade di bar ristoranti, bazar, frutterie, mini market che continuano ad aprire senza freno hanno trasformato i nostri quartieri, creando degrado e zone congestionate di movida, che minacciano la serenità dei residenti. Piazza Istria ne è l’esempio e piazza Vescovio è sulla stessa strada. Favorite anche dalla crisi del 2008 (a Roma percepita nel 2012), queste attività predatrici si sono sostituite, in molte aree del nostro quartiere, a negozi che offrivano servizi primari quali alimentari, ciabattini, falegnami ferramenta ecc.

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Giulio Anticoli

Ricordiamo in viale Somalia per fare degli esempi gli esercizi di un tempo, il negozio di elettrodomestici Berti, quello di musica Volpi (dove potevi ascoltare i dischi in due cabine acustiche munite di poltroncine), il Cigno, il negozio d’abbigliamento per bimbi Fatina, di animali Morrione, di abiti da lavoro Celestini, di carne equina al largo Somalia di alimentari Lamberto, pizzicheria Dolci, il ferramenta Rizza, il cinema Ritz per proseguire con Giro Giro Tondo meraviglioso negozio di giocattoli a viale Libia, il re del vinile Marcotti, Giro Tondo abbigliamento bimbi e, Set, elegante negozio di abiti classici da uomo, tutti spariti

a vantaggio di frutterie, bazar malmessi, ristoranti, sale gioco (tante, da spingere anni fa una prestigiosa testata giornalistica a definire viale Somalia la via delle scommesse). Ben 18 bar sono presenti al momento in 1,5 km di strada e tanti negozi di servizi che una volta trovavano spazio nelle vie limitrofe, oggi quasi totalmente vuote. Un tempo il negozio di vicinato rappresentava il punto di incontro, di condivisione, l’amico da andare a trovare tornando dal lavoro, il posto dove lasciare le chiavi al figlio che rientrava da scuola, un ambiente caldo e confortevole dove condividere un caffè, insomma svolgeva una funzione sociale che trasformava la fredda strada in un ambiente ovattato. Le nuove piazze rappresentate dai centri commerciali, stanno cancellando tutto questo, un patrimonio assolutamente romano, fatto di rapporti dove l’interesse all’essere umano prevaleva su quello della vendita. Stiamo perdendo il nostro tessuto commerciale la nostra identità, le nostre botteghe storiche, la nostra storia e la nostra memoria. La convenzione dell’Unesco datata Parigi 2013, ci dice che un monumento collocato in un contesto culturale che non gli appartiene, rischia di non essere più riconosciuto come patrimonio universale dell’umanità. Da 10 anni di attività sociale ho focalizzato i miei sforzi a far sì che questa memoria non si perdesse a


sensibilizzare le coscienze della politica, purtroppo con scarsi risultati. Quello che possiamo fare noi tutti è capire la gravità di

tutto questo, cercando di fermare con la nostra azione questa emorragia, affinché i negozi che oggi abbelliscono

le nostre strade e incrementano il valore dei nostri appartamenti non diventino spazi vuoti, parcheggi per le nostre auto, un desolato museo a cielo aperto dove il pullulare di vita continuerà ad esistere solo nella nostra memoria. Dobbiamo valorizzare il negozio sotto casa, riflettere prima di cliccare con il mouse acquistando un prodotto da un entità astratta che non lascerà neanche un euro sul territorio dove esercita il suo business. Capire oggi dove faremo vivere i nostri figli è un dovere morale al quale non possiamo esimerci.

*presidente di Roma Produttiva e associazione Botteghe Storiche di Roma.

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Viaggiare ai tempi di Internet e dei social network

Fenomeno Airbnb

Di Diletta Topazio

Airbnb è un nuovo modo di viaggiare ai tempi di Internet e dei social network; il portale stato fondato a San Francisco nel 2008. Si tratta di una community online che permette: • a chi viaggia, di trovare una sistemazione più economica del tradizionale albergo • a chi ha una casa con determinate caratteristiche, di offrire una stanza o l’intero alloggio in affitto per brevi periodi.

I

niziamo col definire i nostri protagonisti, ovvero il sempre più dinamico ed utilizzato sito Airbnb e la cornice dove lo posizioniamo, quella del mercato immobiliare. Airbnb è un portale online che mette in contatto individui in cerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi, con persone che dispongono di uno spazio da affittare, generalmente privati. Questo portale si posiziona quindi nel mercato immobiliare per offrire agli uenti una più semplice, rapida ed economica alternativa ai tradizionali hotel o bed&breakfast, quale concreto esempio di una sharing economy in costate crescita. Trattandosi di un contratto di affitto, seppure di breve o medio periodo, questa nuova alternativa di alloggio va chiaramente ad influenzare le dinamiche di mercato del settore. Riassumendo brevemente, tramite Airbnb si possono prendere in affitto, per giorni o mesi, stanze o case nella località che si desidera, pagando in anticipo tramite il portale, portando avanti la trattativa interamente via internet. Una minuziosa rete di commenti e valutazione degli ospiti precedenti e la possibilità di selezionare le comodità che più si preferiscono, come wifi, balcone, tipologia di letto, pre-

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senza o meno di animali in casa, rendono l’utilizzo di Airbnb semplice ed efficace. Oggi ci caleremo nella realtà di Boston, città giovane ed universitaria, nella splendida regione del Massachusetts, USA, dove è stato condotto lo studio in questione. Iniziamo quindi col delineare le caratteristiche delle persone che decidono di dare in affitto, stanze o proprietà, tramite questo portale. Ben 82% di questi sono dei residenti, che affittano parte della propria abitazione per ottenerne un introito extra, mentre il restante 18% è composto da operatori commerciali che fungono da intermediari. Per quanto riguarda il guadagno del locatario, la durata, in media, di 12 giorni di affitto tramite Airbnb equivale al guadagno di un affitto mensile di lunga durata. Mettendo stanze o immobili in affitto su Airbnb si esclude, di fatto, la possibilità di occuparle con un affittuario di lunga durata, e ciò fa diminuire quindi l’offerta di case o stanze nel mercato tradizionale degli affitti.

La riduzione dell’offerta può causare un aumento del costo medio degli affitti, divenendo essi un bene più “scarso” e difficile da trovare. Nello specifico, siamo interessati nell’identificare l’effetto che Airbnb ha sul costo degli affitti così come sul numero di proprietà o stanze offerte in affitto. Dati alla mano, come abbiamo già intuito, la presenza di questa nuovo portale di affitti, provoca un aumento significativo del costo medio degli affitti, così come una diminuzione delle proprietà messe in affitto tramite il mercato tradizionale. Quindi se da un lato, questa nuova forma di sharing economy fornisce una valida alternativa sempre più in voga, soprattutto tra i giovani, dall’altra ha un effetto economico da non sottovalutare. In conclusione, una mirata risposta economica e politica deve considerare i benefici così come i costi di questa realtà dello sharing economy in continua crescita, per eventualmente decidere in tema di tassazione o libero mercato.


RESOCONTO ECONOMICO 2018 – Parrocchia “SS. Trinità a Villa Chigi”

Come ogni anno presentiamo il bilancio economico approvato dalla commissione economica parrocchiale composta da Marina Ballistrieri, Stefano Bortoli, Enzo Iovine, Gaetano Biallo e il parroco. Grazie a delle offerte straordinarie abbiamo chiuso il bilancio economico 2018 con un attivo di 5.835,18 euro che va ad abbassare il passivo accumulato in questi anni di -14,812,00 euro portandolo a -9.426,80. Come è mia consuetudine non mi lamento perché riusciamo almeno ad affrontare e coprire le spese ordinarie, certo che i lavori da fare che chiederanno interventi straordinari non mancano e non mancheranno. Ma si affronterà una cosa alla volta e magari con un parroco nuovo capace anche di chiedere più di me i conti potranno essere migliori, dato che la generosità di alcuni parrocchiani c’è e ci sarà sempre. Quest’anno, rispetto al 2017 abbiamo avuto circa il 10% di entrate in più, ma anche il 5% di uscite in più. Più vistoso è il calo per le adozioni stimmatine, quasi il 50% in meno. Anche per le intenzioni della celebrazione delle Messe vi è stato un calo di circa il 40%. Mi preme sottolineare che il 85% delle spese di ristrutturazione e messa in sicurezza, circa 25.000,00 euro) sono state sostenute dalla Polisportiva senza incidere sul bilancio parrocchiale. Il lavori svolti riguardano il nuovo impianto di riscaldamento in chiesa, cambiati

tutti i fancoil, le illuminazione dei corridoi e cappella feriale, dandole maggiore dignità, messa norma dell’impianto antincendio, e illuminazione di alcuni spazi esterni della chiesa, per una spesa pari a circa 22.000,00 euro. I lavori urgenti da svolgere entro l’anno: sistemazione dell’impianto elettrico della chiesa e potatura delle piante per una spesa di circa 14.000,00 euro... ci sarebbe la necessità di riverniciare tutte le aule del catechismo e i corridoi, l’ultima tinteggiatura è stata fatta 8 anni fa e varie riparazioni a porte e finestre… ma si farà quello che si potrà con l’aiuto e collaborazione di tutti voi. Ringraziandovi sempre della vostra presenza e generosità, vi ricordo come è possibile contribuire al mantenimento della parrocchia: 1) Attraverso un bonifico bancario c /o Banco BPM di via Tor Fiorenza 567c - 00199 Roma IBAN: IT 97 Z 05034 03242 000000031015 Intestato a: Parrocchia SS. Trinità a Villa Chigi. 2) Attraverso un impegno mensile con le schede presenti in segreteria 3) Attraverso offerte libere da consegnare solo ai sacerdoti della parrocchia Attenzione: nessuna persona è autorizzata a passare di casa in casa a chiedere soldi a nome della parrocchia!

ENTRATE Euro 150.172, 96 di cui

USCITE Euro 144. 337,78 di cui

Questua Ministero Offerte Offerte per i lavori Grest e attività giovanili Uso locali Rimborsi (schede, campetti, comunità) Ben. fam.

44.095,00 11.820,00 7.200,00 36.771,00 22.150,00 3.300,00 22.696, 96 3.410,00

Remunerazione sacerdoti Retribuzione e contributi colf Spese generali (Riscald., luce, acqua, telefono, ...) Attività parrocchiali: (oratorio, catechismo, arr.culto...) Grest e attività giovanili Manutenzione (ordinaria) Manutenzione (straordinaria) Carità parrocchiale Contributo Diocesi Assicurazioni, spese bancarie e tasse “OLTRE” e “La Domenica” Rifiuti Urbani

22.150,00 15.259,28 24.482,33 9.503,00 22.150,00 10.418,08 21.328,54 8.550,00 1.900,00 2.406,82 3.964,40 2.425,00

Differenza Entrate e Uscite: 5.385,18 - passivo 14.812,00 gestione 2016 e 2017 = 9.426,80 ENTRATE / USCITE raccolte per le varie necessità MISSIONI FONDO MESSE ASS. ALCLI GIORNATA MISSIONARIA SOSTEGNO A DISTANZA RACCOLTE VARIE TOTALE E/U

2.645,00 / 2.600,00 10.350,00 / 10.550,00 1.920,00 / 1.920,00 1.600,00 / 1.600,00 8.305,00 / 8.305,00 2.500,00 / 2.500,00 27.320,00 / 27.475,00

Contabilità autonome PAPAVERI E PAPERE POLISPORTIVA GRUPPO MISSIONARIO JONATHAN

10.800,00 / 10.800,00 48,500,00 / 47.150,00 43.200,00 / 35.500,00

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PASQUA 2019 Orario per la Settimana Santa 14 APRILE – Domenica delle Palme (distribuzione degli ulivi in tutte le Messe compresa la prefestiva di sabato 8 Aprile alle h. 19.00) SS. Messe: h. 9.00 – 10.30 – 12.00 – 19.00 h. 10.15: benedizione degli ulivi nel cortile di via Marchetti 18 APRILE – Giovedì Santo SS. Messe: h. 19.00 Messa in Cœna Domini h. 21.00 – 24.00: adorazione all’altare della Reposizione 19 APRILE – Venerdì Santo SS. Messe: h. 8.30 Lodi – 15.00 Via Crucis – 19.00 Celebrazione della Passione del Signore

20 APRILE – Sabato Santo SS. Messe: h. 8.30 Lodi h. 22. 30 Veglia Pasquale e SS. Messa di Risurrezione 21 APRILE – Domenica di Pasqua SS. Messe: h. 9.00 – 10.30 – 12.00 – 19.00 22 APRILE – Lunedì dell’Angelo SS. Messe: h. 9.00 – 11.00 -19.00 A tutta la comunità parrocchiale auguri di serene e luminose festività pasquali da p. Lucio, p. Raffaele, p. Silvano

PER AIUTARE LA PARROCCHIA: Banco BPM di via Tor Fiorenza 567c - 00199 Roma IBAN: IT 97 Z 05034 03242 000000031015 Intestato a: Parrocchia SS. Trinità a Villa Chigi


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