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di Pierre Sorlin, “

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Cosa ci insegnano sulle guerre i documenti audiovisivi?

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di Pierre Sorlin

Nei suoi ricordi della prima guerra mondiale1 Robert Graves racconta un episodio vissuto analogo a quello immaginato da Mario Monicelli ne la Grande guerra. Come i fanti Sordi e Gassman, anche lo scrittore s’imbatté, durante una ricognizione, in un nemico ignaro e indifeso, ed esitava a ucciderlo. Nel film italiano, l’esploratore austriaco intento a prepararsi il caffè, viene abbattuto dal sergente. Nel racconto autobiografico, è Graves a passare il suo fucile al sergente, “tiratore migliore” di lui. Precisa: “Lo fece fuori, però non ero rimasto a vedere”.

Sapere in maniera indiretta, mediata … vedere? Appena nata, nel Seicento, la stampa, usando corrispondenze private, racconti di viaggiatori, messaggi di reporter, diffuse notizie sulle ostilità che si svolgevano in paesi lontani. Via via, l’informazione divenne più precisa. Con la radio, si fece quasi istantanea, però era “filtrata” da intermediari, il cronista, il giornalista, l’annunciatore. E poi, ci fu il cinema che, immediatamente, s’interessò alle operazioni militari che si effettuavano in tutto il mondo, mandando operatori a filmare, da Cuba alla Libia e ai Balcani. Cinegiornali, più tardi telegiornali, oggi video in transito sulle reti sociali: agli articoli della stampa, alla voce della radio, l’epoca contemporanea ha aggiunto una profusione d’immagini. Alla vigilia della prima guerra mondiale la gente era già abituata a guardare e a prendere per oro colato rappresentazioni belliche. Vedere con i propri occhi è come assistere in persona all’evento, “In fine abbiamo la realtà propria” scriveva un inglese dopo aver visto un film sulla battaglia della Somme2. Alla medesima epoca, la Paramount distribuiva in America un film intitolato War as it really is.

Si può, su uno schermo, osservare “la realtà” di una guerra? La risposta, evidentemente, è no. Riprese da cameramen che avevano lavorato presso tutti i contendenti, le immagini di War as it really is erano autentiche

1 Good Bye to all that, Harmondsworth, Penguin, 1960 [1929]. 2 Manchester Guardian, 11 agosto 1916.

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ma mostravano soltanto quello che si poteva filmare facilmente, sfilate di reggimenti, depositi di materiale militare, accampamenti, rovine, aspetti parziali di nazioni impegnate in un conflitto che lasciavano da parte i combattimenti, il quotidiano dei soldati, i cadaveri e le ferite, la mobilitazione economica in favore della lotta, la sostituzione degli uomini mandati al fronte. Che sia scritta, orale o visuale, l’informazione, nel corso delle ostilità, è sempre controllata, giornalisti e operatori non si spostano liberamente, vanno dove sono indirizzati, i cinegiornali menzionano spesso: “approvato dal comando militare”. Timore di rivelare dettagli importanti al nemico, diffidenza nei confronti dei mass-media e della loro propensione a parlare troppo, desiderio di non inquietare l’opinione, spiegano il rigore del controllo. Come vediamo grazie a questa fotografia scattata durante la guerra in Afghanistan gli stati maggiori organizzano pseudo scontri che i cineasti riprendono agevolmente. È comodo, impressiona il pubblico, ma ha poco a che fare con gli scontri sul fronte.

La censura non è soltanto una pressione esterna esercitata dalle autorità, nei paesi democratici, è in buona parte il risultato di un consenso. Il 13 febbraio del 1991, l’aviazione alleata distrusse un rifugio antiaereo nel centro di Bagdad; alla mattina la BBC mandò in onda una chiamata del suo corrispondente che diceva che il rifugio era pieno di civili; la telefonata veniva illustrata con riprese fatte nella città; immediatamente l’ufficio stampa del primo ministro chiese alla rete di separare il commento ufficiale (gli aerei hanno colpito un bersaglio militare) dalla telefonata e di isolare le riprese trasmesse da Bagdad che facevano vedere un città duramente colpita. La BBC assentì e, in un secondo tempo, modificò la trasmissione. Come spiegare questa rapida capitolazione? La stampa di destra si era scatenata contro la televisione pubblica accusata di offendere l’eserci to e di demoralizzare il paese, il governo e la rete erano pronti a tutte le concessioni per evitare nuove critiche.

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Il giornalista che, guidato da un ufficiale, segue uno scontro, può fare domande, ascoltare le voci che circolano, interrogare colleghi e, dopo, abbozzare un resoconto globale dell’evento. L’operatore ha soltanto quello che ha potuto filmare e non aggiungerà niente in seguito. Fino alla guerra del Vietnam, l’attrezzatura era pesante. Nei conflitti successivi è diventata leggerissima, però fare riprese chiare e rilevanti non è alla portata di chicchessia, i video presi con un telefonino fanno impressione senza offrire informazioni utili. Durante la seconda guerra mondiale il War Office britannico aveva vietato ai suoi cineasti di esporsi perché, in caso di incidente, non avrebbe potuto rimpiazzarli con operatori esperti. Televisione e stampa elogiano reporter o fotografi che hanno seguito in diretta un assalto, però c’è una grande differenza tra un giornalista o un fotografo e un operatore che, lavorando per un produttore o un canale televisivo, non diviene mai famoso, anche se ha fatto riprese eccezionali. Nei suoi ricordi sulla guerra del Golfo3, John Simpron, reporter per la BBC, riferisce un fatto caratteristico. Il 17 gennaio, dopo i primi bombardamenti, la BBC ordinò all’insieme del suo personale di partire immediatamente. I tecnici ubbidirono, mentre Simpron rimase a Bagdad: la disciplina è molto più forte tra quelli che si considerano semplici esecutori, un tecnico che non si conforma agli ordini rischia il proprio posto, quando il giornalista continua a telefonare, firma col proprio nome le sue cronache, è conosciuto dal pubblico, cosicché la produzione non può licenziarlo e gli editori si disputano le sue memorie.

Rimasto sul posto, l’operatore non è libero di agire a modo suo, deve mettersi al riparo, il suo campo visivo è ridotto, se vuole ottenere immagini chiare, che “parlino” al pubblico, aspetta la fine di uno scontro per filmare, come questi soldati riprendendo, in Piccardia, nell’aprile del 1917, una trincea tedesca conquista dai francesi. La fotografia sembra un po’ ridicola, non è per niente guerresca, però sullo schermo, con una panoramica estesa e rapida, una didascalia retorica, un accompagnamento vigoroso di pianoforte, l’immagine darà al pubblico l’illusione di una trincea appena occupata.

3 From the House of War, Londra, Hutchinson, 1991.

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L’animazione è indispensabile per rendere un film attendibile. Le direttive del British Ministry of Information indirizzate agli operatori durante la seconda guerra mondiale insistevano sull’argomento: i cineasti devono “trattare seriamente argomenti seri. Gli uomini che fanno esercizi molto duri non devono arricciare il naso... Le riprese di soldati devono mostrarli in attività di soldati... e devono essere i più duri, i più accaniti”4. La medesima preoccupazione appare sui documenti audiovisivi relativi alle guerre successive, nei telegiornali britannici della prima guerra del Golfo, i soldati non si fermano mai, mentre un conduttore fa un commento, o mentre un giornalista intervista un generale, c’è sempre, in secondo piano, uomini che caricano bombe sugli aerei, verificano il materiale, scrutano il cielo. La soluzione migliore per dare vivacità a un film senza rischio per il cineasta sta nel chiedere ai combattenti di simulare davanti alla cinepresa la loro condotta sul fronte. Se un cameraman avesse filmato il mitragliatore che vediamo qui durante una battaglia, si sarebbe e sposto al fuoco del nemico e avrebbe notevolmente imbarazzato il tiratore. Sull’estratto fotografico si nota la calma con la quale l’uomo manovra l’arma. Sarebbe più teso se dovesse resistere a un attacco, però, nel corso della proiezione, il suo rapido movimento semi-circolare e il rumore forte delle pallottole

4 Gianfranco Casadio, Immagini di guerra in Emilia-Romagna. I servizi cinematografici del

War Office, Ravenna, Lungo, 1987.

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non consentono di prestare attenzione alla sua fisionomia, lo spettatore non si accorge di nulla.

Come definire una tale ripresa? Non è un falso, il mitragliatore ha riprodotto i gesti che farebbe di fronte a un attacco. Non è neanche una rappresentazione veritiera. Il film fa effetto perché viene presentato come una testimonianza diretta, garantita dalle voce autoritaria di un commentatore anonimo e perché l’auditorio è pronto a crederlo. Si potrebbe proporre un’altra immagine, ripresa nel corso di una battaglia, dunque autorevole, ma sarebbe poco chiara e deluderebbe l’uditorio. Quando i Marines americani, nella seconda guerra mondiale, cominciarono a riconquistare le isole del Pacifico, il comando creò una truppa speciale di soldati cineasti; non dovevano, come gli operatori mandati dal Pentagono, illustrare la guerra all’intenzione del pubblico, il loro compito era di documentare le tecniche militari dei Marines e dei Giapponesi. Erano presenti a Tarawa (1943) e i loro film, mandati immediatamente al quartiere generale, studiati con la massima attenzione, fecero capire che il momento più pericoloso era

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quello che intercorreva dal salto fuori dalla chiatta da sbarco all’arrivo sulla spiaggia: nell’acqua, i Marines erano un bersaglio ideale per il nemico, l’errore era stato di costruire barconi troppo profondi che dovevano fermarsi a seicento metri dalla riva. La lezione fu utile, negli sbarchi successivi le perdite diminuirono in maniera impressionante. La differenza è notevole tra i film d’informazione, girati da cineasti che pensano allo spettatore, e film militari che tentano di registrare fatti senza tener conto della bellezza o del carattere seducente delle riprese. Nel 1945 i Marines crederono utile esporre, grazie al detto materiale, l’evoluzione delle operazioni nelle isole del Pacifico. Questa visione diretta, limitata ad eventi precisi e minuti non piacque, le proiezioni furono interrotte.

All’inizio della guerra di Corea i documenti vennero presentati in televisione per informare i riservisti che rischiavano di essere mobilitati. L’esperienza fu interessantissima. Gli spettatori furono convinti che lo sbarco nelle isole era stato un massacro. In realtà, la riconquista del Pacifico costò molto più all’aviazione o alla marina che non ai Marines. Però, a causa delle immagini viste alla televisione, molti riservisti tentarono di non essere mobilitati come fanti. I due episodi sono importanti. Il primo, l’indifferenza nei confronti di documenti autentici, mostra che il pubblico non va al cinema per essere informato. Questo non vuol dire che abbia paura di un confronto con immagini orribili, dalla Corea al Vietnam i telegiornali americani non risparmiarono cadaveri, corpi bruciati, vulnerati, sventrati ma questo “realismo”, veloce, inserito nel quadro delle notizie quotidiane tra fatti di cronaca e meteorologia, accompagnato con commenti rassicuranti, era facilmente accettabile. Viceversa le riprese lunghe, necessariamente ripetitive e senza artificio dei Marines parevano noiose. Sullo schermo, la guerra è una forma di spettacolo. Se il film tenta di restituire un evento con la massima precisione, tenendo conto del fattore tempo, delle scadenze necessarie per effettuare ogni spostamento e ogni azione, irrita e mette l’uditorio a disagio.

La gente che va al cinema o accende il televisore per le notizie non si aspetta un resoconto dettagliato e preciso di quello che sta accadendo, la sua curiosità è volatile, effimera. Uno studio dei telegiornali americani negli anni 1978-1980 evidenzia che, nel mese in cui i diplomatici americani furono presi in ostaggio in Teheran, il pubblico smise di preoccuparsi

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della situazione in Estremo Oriente e si appassionò all’Iran, che dimenticò ugualmente dopo qualche tempo5. L’interesse per un evento è proporzionale alla sua novità e inversamente proporzionale alla sua durata, gli interventi militari in Iraq e in Afghanistan hanno provocato, sul momento, un’intensa curiosità, alimentata da servizi televisivi quasi permanenti, poco a poco altri argomenti hanno soppiantato le operazioni, il desiderio di sapere si è dileguato fino all’oblio, dopo pochi mesi la maggioranza non sapeva se i combattimenti fossero ancora in corso.

Le risorse audiovisive relative a un conflitto risultano asimmetriche, sono abbondanti su certi episodi, inesistenti su altri. L’informazione è una merce, si vende, si scambia, ha un valore monetario come qualsiasi prodotto commerciale; mandare operatori e fonici in un posto dove accadono eventi eccezionali significa creare oggetti che produrranno un beneficio sul mercato delle ultime notizie. Abbiamo segnalato il ritiro di molti operatori che lasciarono Bagdad quando, nella prima guerra del Golfo, la capitale irakena fu bombardata. Il canale americano CNN fu l’unico a trattenere sul posto i suoi tecnici che registrarono immagini di esplosioni, di edifici rovinati, di morti e di feriti che inviarono ad Amman, in Giordania, dove erano vendute per cifre fino a dieci mila dollari a cassetta. Per la CNN l’offensiva aerea fu un buon affare, grazie ai suoi operatori il mondo intero osservò distruzioni e incendi. Dopo Bagdad fu dimenticata, le conseguenze umane ed economiche degli attacchi non furono mai registrate.

Mettiamo da parte i film destinati a informare sullo svolgimento di azioni militari, come quelli dei Marines americani. Per il resto, l’informazione audiovisiva è destinata a non combattenti, i soldati la guardano con disprezzo o collera, “tali riprese sono conformi alla guerra come una sagoma somiglia a un individuo vivente, o un sogno alla vita vissuta” notava uno di loro6. I produttori d’immagini adattano i messaggi alle aspettative del loro pubblico. Nei paesi impegnati direttamente in un conflitto si sforzano di rassicurare e di dare fiducia alla popolazione. Gli operatori britannici della seconda guerra mondiale dovevano riprendere soldati di tutte le na-

5 William C. Adams (a cura di), Television Coverage of the Middle-East, New Jersey,

Ablex, 1981. 6 Manchester Guardian, 1° settembre 1916.

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zionalità alleate per dimostrare la forza della coalizione. Le trasmissioni riguardanti le due guerre del Golfo seguivano le medesime direttive, si dava risalto alla partecipazione di contingenti provenienti di tutti i continenti, con un’insistenza particolare sui reparti arabi. Tali documenti sono fondamentali per interpretare la strategia dei dirigenti politici, la loro analisi delle paure e dello stato d’animo della popolazione, ma ragguagliano poco sull’accaduto. Sotto quest’aspetto un paragone tra i cinegiornali tedeschi e russi nel 1941, all’inizio dell’offensiva contro l’Unione Sovietica, è illuminante. Nel campo tedesco la vittoria, ritenuta sicura, è raffigurata attraverso uno schieramento di soldati; due sfilate s’incrociano: da sinistra a destra la Reichswehr va avanti; da sinistra a destra i prigionieri russi, sorridenti perché sono riusciti a sopravvivere, sfuggono ai bolscevichi. Di settimana in settimana lo schema si ripete, i film non documentano una campagna accuratamente preparata e rapida, ignorano il materiale militare del Reich, il quotidiano dei soldati, il problema delle comunicazioni attraverso un paese gigantesco, l’effetto dei bombardamenti, la resistenza, anche se limitata, dei russi: avanti e basta. I cinegiornali russi offrono soltanto discorsi; politici, sindacalisti, colcosiani, soldati si succedono e, di fronte alla macchina da presa, ripetono: “vinceremo”; invece di mettere in rilievo i casi di controffensiva efficace, il potenziale economico, l’immensità del continente, i dirigenti parlano. La disorganizzazione dell’Unione Sovietica, sorpresa dall’attacco tedesco, non basta per spiegare l’assenza d’immagini militari: nel 1941 i sovietici continuavano a credere, come nel decennio precedente, che la parola del partito era l’arma più forte.

Nei paesi non impegnati direttamente nelle ostilità, i fornitori d’immagini pensano prima di tutto a non essere fastidiosi e a divertire, chiedono agli operatori riprese curiose, piacevoli, svaganti capaci di distrarre. Salvo in Iraq il bombardamento di Bagdad fu, sugli schermi, un festival di colori e di luci, in un cielo verde le esplosioni lanciavano sciami di faville, l’annunciatore di CNN non sbagliava quando diceva: “si direbbe il 4 luglio”, giorno della festa nazionale americana, con i fuochi d’artificio che fanno brillare la notte. Non si diceva nulla sugli obiettivi e la tattica degli assalitori, sulla difesa iraqena. I vari servizi mandati in onda sui televisori del pianeta il 17 gennaio del 1991, importantissimi per capire il parere dominante intorno al conflitto, non forniscono dati rilevanti sulla prima tappa del conflitto.

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Il materiale attinente alle situazioni belliche è squilibrato, lacunoso su moltissimi aspetti, ma esauriente su alcuni eventi. In certi momenti, particolarmente all’inizio delle operazioni, molti operatori si precipitano sul posto, la materia è sovrabbondante. Di seguito scarseggia. Il lavoro compiuto dalla Federazione internazionale degli Archivi filmici ha permesso di recuperare e di restaurare film sconosciuti o considerati smarriti. Altri ricercatori hanno recuperato le bobine girate da cineasti dilettanti, già nella prima guerra mondiale e in numero impressionante dopo gli anni trenta. Produttori, registi, giornalisti vedono il profitto che possono trarre da questa ricchezza. Da un lato comprare materiale di repertorio costa meno di fare nuove riprese. Dall’altro le opere retrospettive sulle guerre del passato piacciono, offrono al medesimo tempo movimenti incessanti, azione, eroismo ed emozione. Ogni quindici o vent’anni uno studio o una rete televisiva elaborano una serie sulle guerre mondiali, i conflitti coloniali, le operazioni in Medio Oriente che smerciano facilmente a distributori o canali di altri paesi.

Usando vari fonti, si riesce a esporre visualmente le fasi di una guerra? Le ostilità tra due o parecchie potenze non si limitano a una successione d’operazioni, un conflitto nasce da una congiunzione d’interessi e di opposizioni, di alleanze, di un’evoluzione delle tecniche belliche, di una situazione interna particolare a ogni contendente. Rendere conto in immagini di tali fattori, misurando la loro importanza relativa per i diversi antagonisti, è irrealizzabile, l’immagine fa vedere, non spiega, non commenta. Per forza, la guerra filmata si concentra sugli aspetti militari. Una guerra oppone almeno due avversari, per mostrare una battaglia bisognerebbe bilanciare i due campi ma, l’abbiamo notato a proposito della guerra germano-sovietica, non hanno la stessa concezione dell’informazione filmica, le due visioni non coincidono. Per di più, certe operazioni non sono state filmate, la documentazione visiva è incompiuta. Film e trasmissioni “storici” sono fusioni più o meno abili di elementi diversi. Paradossalmente la parte importante è il commento, un discorso fuori campo riferisce le origini, le fasi principali e gli esiti delle ostilità, non si tratta di un’opera visiva, bensì di un discorso, talvolta esauriente quando è stato scritto da uno storico, talora superficiale. Come mai l’uditorio, che generalmente non amava molto le lezioni di storia, segue con piacere, serata dopo serata, l’insieme del programma?

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È perché viene illustrato grazie a riprese di tipo generico, che non corrispondono necessariamente alla narrazione, ma creano, sullo schermo, l’indispensabile impressione di azione, di vita e di progressione. Ho selezionato, in tre film differenti, immagini utilizzabili per qualsiasi film di guerra. Immaginiamo senza fatica le frasi che potrebbero accompagnarle: “Un fischio dà il segnale, gli uomini, strisciando sui ginocchi, escono a stento dalla trincea, superano i fili spinati, corrono a capo chino, storditi dal rumore dei cannoni” – con un sottofondo assordante di mitraglia. Alle spalle dell’ondata d’assalto (gli operatori hanno lavorato da dietro) gli spettatori corrono verso un avversario che non vedranno perché non è stato filmato.

Nel 1912, andando controcorrente rispetto all’entusiasmo universale scatenato, in Italia, dei cinegiornali sulla conquista della Libia, il giornalista Renato Serra affermava: “C’è della gente che si immagina in buona fede che un documento possa essere espressione della realtà, uno specchio, uno scorcio più o meno ricco, fedele di qualche cosa che esiste al di fuori. Come se un documento potesse esprimere qualche cosa di diverso da se stesso. La sua verità non è altro che la sua esistenza. Un documento è un fatto; la battaglia un altro fatto”7. È da lì che dobbiamo partire, dall’oggetto

7 “Partenza di un gruppo di soldati per la Libia”, (1912), ora in Scritti di Renato Serra (Fi-

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film. Le riprese, se derivano da un evento accaduto, ne sono soltanto un riflesso parziale, non si riferiscono al mondo concreto, bensì alla sfera delle immagini in movimento nella quale siamo entrati alla fine dell’ottocento e nella quale, attraverso il cinema, la televisione, il telefonino, siamo sempre più avvolti. Alle pratiche quotidiane si giustappongono quelle rappresentate e i conflitti armati sono un aspetto di questo doppio orientamento, i cittadini di un paese in guerra accendono il televisore per ottenere, di là del loro quartiere, un sorvolo, una valutazione, una spiegazione di quello che sta succedendo.

Le immagini orientano lo sguardo, lo educano, costruiscono gli avvenimenti, non solo quelli già avvenuti, ma anche quelli futuri. Prendiamo un servizio della BBC, identico a quelli mandati in onda ripetutamente lungo la guerra del golfo: in una prima sequenza il conduttore fa un commento mentre si vedono elicotteri, aerei, missili, tutto un arsenale pronto per l’attacco; c’è poi una sequenza notturna, gli aerei decollano, le luci delle città scintillano nella pianura; un’ultima sequenza ci ricorda che anche sul mare bisogna essere attenti. Questo non meriterebbe un attimo d’attenzione se non si trattasse di una trasmissione del 21 agosto 1990: cinque mesi prima dall’offensiva il rituale visivo era già fissato, organizzato, quello che la gente vede nel gennaio del 1991 era la mera ripetizione di un modello stabilito molti mesi prima.

Si dirà che parlo del momento attuale, che prima non era così. Però, come l’Italia ha conosciuto e apprezzato l’enorme impegno di truppe e di materiale militare nella conquista della Libia, se non grazie al cinema? Perché gli Italiani, quando la guerra fu dichiarata al Regno Unito e alla Francia, erano convinti che avrebbero vinto facilmente se non perché, di settimana in settimana, i cinegiornali avevano dato a vedere un formidabile esercito nazionale? Cinema e televisione proiettano guerre immaginarie che il pubblico fa proprie, perché sono il suo principale, a volte unico contatto con la materialità dei combattimenti.

Per mezzo dell’inquadratura, dei movimenti della cinepresa, del montaggio e della colonna sonora, le opere audiovisive offrono un’interpreta-

renze, Le Monnier, 1958).

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zione di un fatto, una congiuntura, un’impresa, mostrano come l’emittente concepisce la situazione che riprende o, perlomeno, come vorrebbe farla vedere. Abbiamo notato come le rappresentazioni del loro affrontarsi proposte dai Tedeschi e dai Sovietici nell’estate del 1941 non aiutino a seguire le operazioni, ma siano preziose per afferrare lo stato d’animo, le disposizioni, le illusioni dei due campi. Propongo un altro esempio, quello dei cinegiornali repubblicani e nazionalisti nella guerra civile spagnola. Il caso è particolarmente interessante visto che non c’era, come nel conflitto precedente, una notevole diversità culturale e linguistica tra i contendenti. Non incontriamo discorsi programmatici, si tratta di due autoritratti che evidenziano i valori per i quali i due campi combattevano.

I repubblicani mettono al centro l’individuo con un uso sistematico del primo piano. Già il momento dell’arruolamento, presentato come l’adesione entusiasta di un’intera collettività, è filmato come una serie di scelte personali: civili di ogni origine, giovani o anziani, lavoratori o borghesi accettano la disciplina militare per trasformarsi in soldati. In seguito, molto spazio è consacrato alla vita nei campi, alle feste, alla musica, alle lettere dalla famiglia. Durante le scene di battaglia le riprese, abbastanza lunghe, consentono di capire l’obbiettivo delle operazioni. Si insiste sulla protezione del soldato che non deve mai essere esposto al fuoco del nemico senza motivo. Non si nascondono le ferite, ma il pubblico vede che i soldati colpiti sono assistiti, curati, guariti.

Sugli schermi nazionalisti si assiste a una vera mobilitazione non di semplici cittadini, ma di veri soldati, diversi della popolazione civile e da lei separati. La vita negli accampamenti è messa da parte, si va direttamente dalla caserma al fronte. Le lotte, rappresentate attraverso un montaggio rapidissimo, sono una conflagrazione d’immagini, un tumulto di colpi di fuoco, un’accumulazione di riprese piene di movimento, di violenza, di salti in avanti, di gesti che non mostrano come era disposto il campo di battaglia, ma sottolineano la bellezza della guerra e il suo spirito infuso di coraggio e di sacrificio. Non ci sono feriti, soltanto morti onorati come santi martiri da folle disciplinate, condotte da preti.

Il cauto e lento ritmo della battaglia repubblicana, il frenetico movimento dell’assalto franchista, la volontà di proteggere la vita e il culto della morte eroica permettono di capire, meglio dei discorsi ideologici, la

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spietata violenza del conflitto spagnolo e la persistenza di una repressione ancora vigente alla morte di Franco.

Ci sono evidentemente circostanze nelle quali un film o un video sono utili per la storia militare. A patto di conoscere precisamente le condizioni nelle quali furono registrati (luogo, data, operatore, destinazione) possono completare le fonti cartacee, dando indicazioni parziali sulla progressione delle truppe, il comportamento dei mezzi meccanici e dell’armamento, le condizioni di un’avanzata o di una ritirata. Tuttavia, il loro valore principale non è fattuale, i documenti audiovisivi rivelano, prima di tutto, un modo di giudicare e di interpretare circostanze, eventi, iniziative. Sarebbero meramente opinioni individuali se non avessero una larga diffusione e se non fossero un elemento determinante dell’ambito parzialmente concreto, parzialmente figurativo nel quale siamo inseriti. Viviamo con uno schermo, grande o piccolissimo, sotto mano, non è da stupirsi se quello che guardiamo influisce sulla nostra comprensione del mondo.

Tempi di guerra

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