La pace segreta che univa le Europe La nuova cortina di ferro e le Germanie divise Trieste, il caso è riaperto ma Roma non lo sa
IL MURO PORTANTE LIMES È IN EBOOK E IN PDF • WWW.LIMESONLINE.COM
RIVISTA MENSILE - 11/11/2019 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA
RIVISTA MENSILE - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA
RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
14,00 15,00
10/2019 • mensile
CONSIGLIO SCIENTIFICO Rosario AITALA - Geminello ALVI - Marco ANSALDO - Alessandro ARESU - Giorgio ARFARAS - Angelo BOLAFFI Aldo BONOMI - Edoardo BORIA - Mauro BUSSANI - Vincenzo CAMPORINI - Luciano CANFORA - Antonella CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO - Giuseppe CUCCHI - Marta DASSÙ - Ilvo DIAMANTI - Germano DOTTORI - Dario FABBRI - Augusto FANTOZZI - Tito FAVARETTO - Luigi Vittorio FERRARIS - Federico FUBINI - Ernesto GALLI della LOGGIA - Carlo JEAN - Enrico LETTA - Ricardo Franco LEVI Mario G. LOSANO - Didier LUCAS - Francesco MARGIOTTA BROGLIO - Fabrizio MARONTA - Maurizio MARTELLINI - Fabio MINI - Luca MUSCARÀ - Massimo NICOLAZZI - Vincenzo PAGLIA - Maria Paola PAGNINI Angelo PANEBIANCO - Margherita PAOLINI - Giandomenico PICCO - Romano PRODI - Federico RAMPINI Andrea RICCARDI - Adriano ROCCUCCI - Sergio ROMANO - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe SACCO - Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI - Francesco SISCI - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO Giulio TREMONTI - Marco VIGEVANI - Maurizio VIROLI - Antonio ZANARDI LANDI - Luigi ZANDA
CONSIGLIO REDAZIONALE Flavio ALIVERNINI - Luciano ANTONETTI - Marco ANTONSICH - Federigo ARGENTIERI - Andrée BACHOUD Guido BARENDSON - Pierluigi BATTISTA - Andrea BIANCHI - Stefano BIANCHINI - Nicolò CARNIMEO Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE Alberto DE SANCTIS - Alfonso DESIDERIO - Federico EICHBERG - Ezio FERRANTE - Włodek GOLDKORN Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI - Francesco MAIELLO - Luca MAINOLDI - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Giovanni ORFEI Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO - Angelantonio ROSATO - Enzo TRAVERSO - Fabio TURATO - Charles URJEWICZ - Pietro VERONESE - Livio ZACCAGNINI
REDAZIONE, CLUB, COORDINATORE RUSSIE Mauro DE BONIS
DIRETTORE RESPONSABILE Lucio CARACCIOLO
HEARTLAND, RESPONSABILE RELAZIONI INTERNAZIONALI Fabrizio MARONTA
COORDINATORE AMERICA Dario FABBRI
COORDINATORE LIMESONLINE Niccolò LOCATELLI
COORDINATRICE SCIENTIFICA Margherita PAOLINI
CARTOGRAFIA E COPERTINA Laura CANALI
COORDINATORE TURCHIA E MONDO TURCO Daniele SANTORO
CORRISPONDENTI Keith BOTSFORD (corrispondente speciale) Afghanistan: Henri STERN - Albania: Ilir KULLA - Algeria: Abdennour BENANTAR - Argentina: Fernando DEVOTO - Australia e Pacifco: David CAMROUX - Austria: Alfred MISSONG, Anton PELINKA, Anton STAUDINGER - Belgio: Olivier ALSTEENS, Jan de VOLDER - Brasile: Giancarlo SUMMA - Bulgaria: Antony TODOROV - Camerun: Georges R. TADONKI - Canada: Rodolphe de KONINCK - Cechia: Jan KR̆EN - Cina: Francesco SISCI - Congo-Brazzaville: Martine Renée GALLOY - Corea: CHOI YEON-GOO - Estonia: Jan KAPLINSKIJ - Francia: Maurice AYMARD, Michel CULLIN, Bernard FALGA, Thierry GARCIN - Guy HERMET, Marc LAZAR, Philippe LEVILLAIN, Denis MARAVAL, Edgar MORIN, Yves MÉNY, Pierre MILZA - Gabon: Guy ROSSATANGA-RIGNAULT - Georgia: Ghia ZHORZHOLIANI - Germania: Detlef BRANDES, Iring FETSCHER, Rudolf HILF, Josef JOFFE, Claus LEGGEWIE, Ludwig WATZAL, Johannes WILLMS - Giappone: Kuzuhiro JATABE Gran Bretagna: Keith BOTSFORD - Grecia: Françoise ARVANITIS - Iran: Bijan ZARMANDILI - Israele: Arnold PLANSKI - Lituania: Alfredas BLUMBLAUSKAS - Panamá: José ARDILA - Polonia: Wojciech GIEŁZ·Y7SKI Portogallo: José FREIRE NOGUEIRA - Romania: Emilia COSMA, Cristian IVANES - Ruanda: José KAGABO Russia: Igor PELLICCIARI, Aleksej SALMIN, Andrej ZUBOV - Senegal: Momar COUMBA DIOP - Serbia e Montenegro: Tijana M. DJERKOVI®, Miodrag LEKI® - Siria e Libano: Lorenzo TROMBETTA - Slovacchia: Lubomir LIPTAK - Spagna: Manuel ESPADAS BURGOS, Victor MORALES LECANO - Stati Uniti: Joseph FITCHETT, Igor LUKES, Gianni RIOTTA, Ewa THOMPSON - Svizzera: Fausto CASTIGLIONE - Togo: Comi M. TOULABOR - Turchia: Yasemin TAŞKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVI® - Ungheria: Gyula L. ORTUTAY
Rivista mensile n. 10/2019 (ottobre) ISSN 2465-1494 Direttore responsabile
© Copyright
Lucio Caracciolo GEDI Gruppo Editoriale SpA via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma
GEDI Gruppo Editoriale SpA Consiglio di amministrazione
Presidente Vicepresidenti Amministratore delegato Consiglieri
Marco De Benedetti John Elkann, Monica Mondardini Laura Cioli Agar Brugiavini, Giacaranda Maria Caracciolo di Melito Falck, Elena Ciallie, Alberto Clò, Rodolfo De Benedetti Francesco Dini, Silvia Merlo, Elisabetta Oliveri Luca Paravicini Crespi, Carlo Perrone, Michael Zaoui
Direttori centrali
Produzione e sistemi informativi Pierangelo Calegari Relazioni esterne Stefano Mignanego Risorse umane Roberto Moro Divisione Stampa nazionale Direttore generale Corrado Corradi Vicedirettore Giorgio Martelli Prezzo
15,00
Distribuzione nelle librerie: Messaggerie Libri SpA, via Giuseppe Verdi 8, Assago (MI), tel. 02 45774.1 r.a. fax 02 45701032 Responsabile del trattamento dati (dlgs 30 giugno 2003 n. 196) Lucio Caracciolo Pubblicità Ludovica Carrara, lcarrara@manzoni.it Per abbonamenti e arretrati: tel. 0864.256266; fax 02.26681986 abbonamenti@gedidistribuzione.it; arretrati@gedidistribuzione.it La corrispondenza va indirizzata a Limes - Rivista Italiana di Geopolitica, via Cristoforo Colombo 90 00147 Roma, tel. 06 49827110
www.limesonline.com - limes@limesonline.com GEDI Gruppo Editoriale SpA, Divisione Stampa nazionale, Banche dati di uso redazionale. In conformità alle disposizioni contenute nell’articolo 2 comma 2 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ai sensi dell’Allegato A del Codice in materia di protezione dei dati personali ex d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, GEDI Gruppo Editoriale SpA. rende noto che presso la sede di via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma esistono banche dati di uso redazionale. Per completezza, si precisa che l’interessato, ai fini dell’esercizio dei diritti riconosciuti dall’articolo 7 e seguenti del d.lgs. 196/03 – tra cui, a mero titolo esemplificativo, il diritto di ottenere la conferma dell’esistenza di dati, l’indicazione delle modalità di trattamento, la rettifica o l’integrazione dei dati, la cancellazione e il diritto di opporsi in tutto o in parte al relativo uso – potrà accedere alle suddette banche dati rivolgendosi al responsabile del trattamento dei dati contenuti nell’archivio sopraindicato presso la redazione di Limes, via Cristoforo Colombo 90, 00147 Roma.
I manoscritti inviati non saranno resi e la redazione non assume responsabilità per la loro perdita. Limes rimane a disposizione dei titolari dei copyright che non fosse riuscito a raggiungere Registrazione al Tribunale di Roma n. 178 del 27/4/1993 Stampa e legatura Puntoweb s.r.l., stabilimento di Ariccia (Roma), novembre 2019
SOMMARIO n. 10/2019 EDITORIALE 7 PARTE I
Molto meglio della guerra QUANDO LE EUROPE DIVISE ERANO BI-UNITE
43
Leonid N. DOBROKHOTOV - Ma quale Cia! A demolire Muro e Urss ci pensò Gorbačëv
51
George FRIEDMAN - Marx sconftto dalla geopolitica
57
Thorsten HINZ - Il senso di colpa non fa bene alla Bundesrepublik
65
Michael STÜRMER - Berlino divisa dal Novecento
69
Ilko-Sascha KOWALCZUK - Il grido inascoltato dell’Est
77
Pierre-Emmanuel THOMANN - Il sonno della geopolitica genera mostri
85
Laura STANGANINI - Le anime di Stettino
95
Alessandro ARESU - La Prima Repubblica non si scorda mai
105
Piero CRAVERI - ‘La nostra vita all’ombra delle stelle e strisce’
113
Paolo PELUFFO - Ciampi volle l’euro per salvare l’unità d’Italia
PARTE II
IL RITORNO DELLA STORIA E LA NUOVA CORTINA DI FERRO
125
Fabrizio MARONTA, Mauro DE BONIS, Simone BENAZZO, Alberto DE SANCTIS Frammenti europei: atlante del dopo-Muro
133
Federico PETRONI - La nuova cortina di ferro (in appendice: Mirko MUSSETTI A chi serve la Fortezza Trasnistria)
153
Theodore R. BROMUND - La leadership americana in Europa è in pericolo
159
Dario FABBRI - Dell’impossibilità della nazione europea
167
John FLORIO - L’ombra di un sogno: perché l’europeismo è antieuropeo
179
Heribert DIETER - A est di Berlino non si fdano più di noi tedeschi
189
Gian Enrico RUSCONI - La rinascita della nazione tedesca
197
Tonia MASTROBUONI - Ritorno nella Berlino divisa
207
Luca STEINMANN - L’AfD è sintomo, non causa del nazionalismo tedesco
219
Carlo PELANDA - Con la Francia impariamo da Cavour
PARTE III
IL CASO TRIESTE E LA NOSTRA FRONTIERA ORIENTALE
229
Raoul PUPO - Da Topolinia alla Terza Trieste
239
Piero PURICH - Trieste città libera. Ascesa e declino di un’idea rivoluzionaria
251
Stefano BIANCHINI - Le origini esterne della frantumazione jugoslava
263
Diego D’AMELIO - Il risveglio del porto di Trieste fra Mitteleuropa e Cina
273
Paolo DEGANUTTI - L’irriducibile alterità di Trieste
281
Laris GAISER, Fanni TANÁCS-MANDÁK - Uno scalo mitteleuropeo visto da Austria e Ungheria
291
Simone BENAZZO - L’Italia si è fermata a Muggia
AUTORI 301 LA STORIA IN CARTE 303
a cura di Edoardo BORIA
IL MURO PORTANTE
Molto meglio della guerra T
1. RENT’ANNI FA È CROLLATA CON IL MURO DI BERLINO L’EUROPA MENO disunita che storia abbia conosciuto. Il tempo di una generazione dovrebbe bastare a emanciparci dal velo di Maya ideologico che ha oscurato la percezione del canone geopolitico nel quale siamo stati inscritti durante la guerra fredda. Dovrebbe, ma non basta. Nella narrazione corrente l’apertura delle cortine di ferro, di varia cogenza e spessore, che come giunture di una matrëška bisecavano Berlino nel suo centro, le due Germanie lungo l’Elba e di qui le due Europe eterodirette da Mosca e Washington, resta avvolta nei comodi colori della fne del bipolarismo. Premessa della ri-unione d’Europa. Con certo involontario richiamo al mito platonico dell’ermafrodito originario che Zeus spaccò in due metà – donna e uomo – frementi nel cercarsi per ricomporre la perfezione perduta. Anime gemelle che Eros aiuterà a riscoprirsi felicemente una. Negli anni ruggenti del dopo-Muro, sovraccarichi di lirici simbolismi e di ipocrisie pudiche, gergo brussellese e retorica tedesco-federale cantavano la «riunifcazione». Della Germania e dell’Europa. Così postulando la preesistenza di due ermafroditi ante-Muro, imbricati l’uno sull’altro. Ur-Germania e Ur-Europa spaccate dalle inumane barriere sovietico-comuniste, fnalmente riunifcate (la prima) o libere di farlo sfogando l’erotica pulsione a ricongiungersi (la seconda). Che poi uno Stato comprendente gli spazi di Repubblica Federale Germania, Repubblica Democratica Tedesca e Grande Berlino non
7
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
8
sia mai esistito, che l’Europa dall’Atlantico agli Urali o in qualsiasi altra convenzione accademica non abbia mai risposto a un solo potere – tutto questo appariva e a molti tuttora appare trascurabile. O forse nell’immaginifca neolingua dell’europeisticamente corretto, che offre il dover essere come dato di realtà, si può ri-unire ciò che unito mai fu. Qui a Limes, autolimitati dalla geopolitica, siamo piuttosto terraterra. Scarsa fantasia, qualche fssazione, impulso a verifcare/confutare ipotesi incrociando contrastanti punti di vista ci inducono a riesaminare, carte alla mano, le verità ricevute sull’Ottantanove. Affdiamo dunque all’altrui critica una nostra interpretazione della guerra fredda e degli effetti della sua fne. Lunga pace europea fra la resa delle Forze armate tedesche, l’8-9 maggio 1945, e l’instabilità successiva al crollo dell’impero sovietico, infne dell’Urss, fra 1989 e 1991. Ne consegue il ritorno della guerra in Europa (tabella a p. 3940). A partire dai sanguinosi ma non strategici confitti per la successione jugoslava, tra 1991 e 1999, seguiti dalla breve quanto dirimente incursione russa in Georgia del 2008, primo modesto recupero moscovita di province sovietiche dismesse (Abkhazia e Ossezia del Sud), fno allo scontro indiretto fra Usa e Russia nel Donbas, in corso dal 2014. Strategico per due ragioni: si svolge in Ucraina, culla dell’impero russo; vale da indicatore dello stato dei rapporti fra il Numero Uno e il suo nemico permanente, che tuttora (auto)legittima la presa di Washington sulle marche veterocontinentali dei suoi informali domini esterni. Incentrata sulla Germania, di cui apparati e decisori americani continuano a diffdare (carta 1). Siamo così entrati in una fase assai mobile della geopolitica europea. Non è affatto scritto che debba sfociare nella terza guerra mondiale – anche se il valore del nostro continente resta tale per cui i confitti armati che vi insorgono fra potenze maggiori spesso si irradiano in contrade esotiche. È comunque probabile che di qui a dieci o vent’anni la carta geopolitica d’Europa sia alquanto diversa dall’attuale. Né cesserà di alterarsi. Bene tenerlo a mente e prepararsi a gestire i mutamenti, per quanto possibile, al di sotto del grado bellico. A partire dalla perlustrazione realistica del terreno, scansando le trappole delle ideologie ecumeniche o paranoiche, prodotte da assunti di base falsifcati. Ricordando come ai tempi della guerra fredda il con-
IL MURO PORTANTE
1 - BASI E TRUPPE USA INDANIMARCA GERMANIA Mar Baltico Mare del Nord SCHLESWIGHOLSTEIN STOCCARDA Quartier generale dello U.S. European Command e dello U.S. Africa Command 1 WIESBADEN Quartier generale dello U.S. Army Europe che controlla 20.736 soldati 2 HOHENFELS Uno dei pochi centri di addestramento fuori dagli Stati Uniti continentali, vi si addestrano 60 mila soldati l’anno 3 LANDSTUHL Regional Medical Center, l’ospedale militare più grande fuori dagli Stati Uniti, dove transitano i feriti di guerra dal Medio Oriente.
MECLEMBURGOPOMERANIA ANTERIORE
Bremerhaven BREMA
POLONIA
BASSA SASSONIA Berlino
G E R M A N I A BRANDEBURGO SASSONIA-ANHALT
Basi americane di minore importanza NORDRENOVESTFALIA
BELGIO
TURINGIA
ASSIA
SASSONIA
Spangdahlem Wiesbaden 4 Baumholder 1
LUSS. Landstuhl 3
FRANCIA
SAARLAND
5 Ramstein Sembach Kaiserslautern Grafenwöhr
RENANIAPALAT.
Ansbach
TOTALE DEI MILITARI USA IN GERMANIA: 35.232 (giugno 2019)
7 Vilseck
ANSBACH, GRAFENWÖHR e BAUMHOLDER Basi che vedranno un aumento REPUBBLICA di 1.500 soldati entro il 2020 CECA di nuove unità con la creazione di artiglieria e di contraerea
2 Hohenfels Stoccarda
4 SPANGDAHLEM e RAMSTEIN Principali basi della U.S. Air Force in Germania (nonché fra le 7 grandi basi 5 aeree Usa in Europa). A Ramstein c’è anche la sede del quartier generale del Comando aereo Nato. Gli avieri Usa in Germania sono 12.852 6 BÖBLINGEN Nella Panzer Kaserne sorgono i quartier generali dei Marines in Europa (1.228 soldati) e del 1° battaglione del 10° gruppo delle forze speciali Usa, responsabile delle operazioni in Europa 7 VILSECK 2° reggimento di cavalleria, con proiezione verso l’Europa centro-orientale (conduce esercitazioni in Rep. Ceca, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania)
6 Böblingen
BAVIERA
BADEN-WÜRTTEMBERG
AUSTRIA Garmisch
SVIZZERA
ITALIA ©Limes
BREMERHAVEN La U.S. Navy non ha strutture di rilievo in Germania, ma usa Bremerhaven come porto d’appoggio per operazioni nel Mare del Nord e nel Mar Baltico. La navigabilità del fiume Reno garantisce accesso allo heartland dell’Europa. I marinai Usa in Germania sono 406. Area occupata dagli Stati Uniti subito dopo la seconda guerra mondiale
Fonti: Dipartimento della Difesa, U.S. European Command
senso su entrambi i versanti della cortina di ferro postulasse che quell’assetto territoriale fosse per l’eternità, o quasi. E che subito dopo lo tsunami dell’Ottantanove, capace di sradicare tale «perenne» ordine dalle fondamenta in un batter di ciglia del corso universale, fra gli
9
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
10
autoproclamati trionfatori occidentali circolasse il dogma per cui con quella storia fosse terminata la storia. Non sarà inutile revisionare quel recente passato, che così male capimmo e del quale tuttora circolano pericolose oleografe. Per reinterpretarlo con il vantaggio della distanza e con lo scopo di trarne qualche indicazione per il futuro prossimo. Procediamo quindi a ridisegnare la struttura della guerra fredda, studiandone l’assai ineguale correlazione delle forze, celata o almeno edulcorata dai rispettivi Stati profondi perché potenzialmente eversiva degli equilibri condivisi. Per meglio intendere origini ed effetti del subitaneo collasso di quell’ordine (punti 2 e 3). Esercizio tanto più utile oggi che molti ne certifcano la resurrezione («nuova guerra fredda» e affni), con approccio tipicamente metastorico. Poco sensibili ai nominalismi e molto alle peculiarità specifche di ogni assetto, anziché esercitarci nel battesimo delle epoche scegliamo di concentrarci sulle dinamiche geopolitiche. Inclusi gli scarti improvvisi che ne alterano il corso apparentemente predeterminato. Evidenti già solo considerando la fne di quel paradigma durato quasi mezzo secolo, consumata nell’arco di 2 anni e 47 giorni: crollo del Muro (9 novembre 1989); annessione della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) da parte della Repubblica Federale Germania (BRD), al secolo «unità tedesca» (3 ottobre 1990); rinascita della Russia per decomposizione dell’Unione Sovietica (25-26 dicembre 1991). Eventi tutti rigorosamente imprevisti, malgrado le posticce rivendicazioni dei monday morning quarterbacks (registi d’attacco del lunedì mattina, ai quali Frank Sinatra riconosceva di non aver mai perso una partita), metafora tratta dal football americano in omaggio ai profeti del giorno dopo. Caso limite in questo contesto, la resa dell’Urss, avviata con la rinuncia all’impero europeo partendo dalla fetta di Germania che ne costituiva l’antemurale. Suicidio consumato nel giorno di Santo Stefano del 1991 con l’alzabandiera al Cremlino del tricolore russo in vece del rosso stendardo sovietico. Esito che quasi nessuno attendeva tanto rapido e relativamente indolore. Tantomeno i russi, ceppo fondante dell’impero in disgregazione. Letteralmente ammutoliti. Senza parole: al cambio di bandiera non corrispose un nuovo inno cantato, solo il muto Canto patriottico su ottocentesca melodia per pianoforte di Mikhail Ivanovi0 Glinka dal titolo francese (Motif de chant natio-
IL MURO PORTANTE
nal) e dalle quaresimali assonanze polacche (Christe, qui lux es et dies), in ossequio alle radici familiari del compositore. Ci volle Vladimir Putin per guarire i russi dal mutismo acquisito. Il 20 dicembre 2000, con ukaz presidenziale, contro il parere del suo predecessore Boris El’cin, l’ex (si fa per dire) spia che voleva evitare alla Russia la fne dell’Urss ripristinava l’inno sovietico, dotato di nuovo testo alquanto geopolitico e per nulla ideologico dallo stesso autore dei versi intrecciati per la medesima musica, solo sotto Stalin 1. Corale paradigma d’imperiale continuità identitaria. Dedichiamo poi specifca attenzione alla questione tedesca, dilemma ricorrente nella moderna storia d’Europa (punti 4 e 5). L’8 giugno 1985 il presidente della Repubblica Federale Germania, Richard von Weizsäcker, stabiliva: «La questione tedesca è aperta fnché la Porta di Brandeburgo è chiusa» 2. Quattro anni e mezzo dopo le barriere che chiudevano quel monumento, margine fra le due Berlino, venivano rimosse. La metropoli tornava una nella Germania unita, e dal 1999 ne funge di nuovo da capitale. Ma la questione tedesca non è affatto chiusa. Studiare le tortuosità dell’inclusione della Germania comunista (DDR) in quella occidentale (BRD) consente di meglio intendere perché sia tuttora aperta. E perché lo resterà per il tempo visibile. Infne, perlustriamo le correnti geopolitiche in subbuglio nell’Europa attuale (punto 6). Nell’illusione di non farci trovare del tutto spiazzati qualora noi italiani e altri europei fossimo presto chiamati a sfde oggi impensate. Ma da pensare (punto 7). 2. Il Muro di Berlino era portante. In quanto tale e quale metafora del fortifcato confne fra gli imperi europei dell’America (Iea) e della socialista Unione Sovietica (Iesus). Struttura a setti, pensata a prova di sisma geopolitico, la cortina di ferro nelle sue varie declinazioni – 1. Il testo dell’Inno di Stato della Federazione Russa: «Russia – nostro sacro paese/ Russia – nostra terra amata/ Una potente volontà, una grande fama/ Sono il tuo patrimonio per tutti i tempi!/ Sii gloriosa, nostra Patria libera/ Unione eterna di popoli fratelli/ Saggezza ereditata dai nostri antenati!/ Sii gloriosa patria, siamo orgogliosi per te!/ (refrain, n.d.t.)/ Dai mari del Sud al Circolo Polare/ Si estendono i nostri boschi e i campi./Tu sei unica al mondo, sei inimitabile – / Terra natia protetta da Dio/ (refrain)/ Ampi spazi per i sogni e per la vita/ Si aprono davanti a noi per gli anni a venire/ La nostra fedeltà alla Patria ci dà forza/ Così è stato, così è e così sarà sempre!/ (refrain)». L’autore del testo è Sergej Mikhalkov, che compose anche i versi di quello sovietico. 2. Cfr. R. von Weizsäcker, «Die Deutschen und ihre Identität», intervento del presidente della Repubblica Federale Germania alla ventunesima Giornata della Chiesa evangelica tedesca, Düsseldorf, 8/6/1985, bit.ly/325DJVn
11
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
massima quella che dal 1961 riduceva via Muro la Berlino francoanglo-americana a exclave occidentale nella Germania vigilata dall’Urss – era fsicamente veterocontinentale, con a nord rilevanti diramazioni marittime. Ma, per effetto della centralità della posta in gioco europea, si stagliava strategicamente semiglobale. Quella barriera separava e garantiva due superpotenze che più diverse non avrebbero potuto apparire né concepirsi ma che si capivano come pochi nemici nella storia universale. Il principio primo della guerra fredda era l’asserita simmetria geopolitica fra i due blocchi. Simmetria non signifca equipollenza. Europa occidentale, allora e oggi parte dell’impero americano nel Vecchio Continente, ed Europa orientale, allora inglobata nell’impero sovietico oggi quasi integralmente inserita nello Iea, non si equivalevano né mai si sono equivalse per irradiamento e potenza. La prima fu culla di una civiltà plurisecolare prodotta dal rimescolamento dell’elemento romano/latino con quello germanico/barbarico innescato nell’ultimo scorcio dell’impero d’Occidente, spiritualmente irrorato dal cristianesimo. Qui si consolida, tra Costantino e Carlomagno, una civiltà occidentale, con annesso complesso di superiorità 3. E qui si stabiliscono in età moderna gli imperi che a fne Ottocento arriveranno a controllare buona parte del pianeta. Al culmine, i domini di Sua Maestà Britannica, sul cui grado di traslazione Oltreatlantico, negli attuali Stati Uniti d’America, gli animi si dividono. Appassionante disputa. Risolta in punto di geopolitica con la vittoria americana nei due confitti euro-mondiali, la dissoluzione del British Empire come dei domini coloniali delle residuali (im)potenze europee, la correlativa penetrazione militare, economica e culturale degli Usa in Europa occidentale. Sul versante veterocontinentale che già dalla fne della guerra anti-hitleriana si confgura come informale protettorato europeo degli Stati Uniti d’America troviamo tutte le metropoli imperiali, da secoli titolari di vaste colonie extraeuropee: Lisbona, Madrid, Roma, Parigi, Londra, Bruxelles, Amsterdam, Copenaghen, Stoccolma, Vienna, oltre a Berlino (Ovest). Nulla di paragonabile al di là dell’OderNeiße, nell’allora cosiddetto oggi indicibile Est sotto il tallone di Mo-
12
3. Su questo cfr. l’originale studio di G. scotto, L’Europa occidentale da Costantino a Carlomagno, s.l. s.d. (copia in possesso di Limes).
IL MURO PORTANTE
sca. Nella parte americana dell’Europa, antiche o recenti nazioni imperiali sconvolte dalla guerra ma dotate di una gloriosa, spesso boriosa idea di sé. Use dominare. Nel Patto di Varsavia, paesi dall’incerto statuto, per secoli sommersi poi salvati, talvolta inventati, nel caso della Polonia e dell’Ungheria (nel contesto asburgico) dotati di memorie imperiali, non esattamente russofli né specialmente attratti dal verbo marxista e leninista, rosario obbligatorio. Di qui lo iato decisivo fra impero americano e impero sovietico: sotto il primo si stava in genere volentieri, comunisti compresi, sotto l’altro molto meno, marxisti eterodossi inclusi. Questione di benessere, soprattutto, di libertà e democrazia, anche. Sentenza dello sguardo di lungo periodo: storie troppo diverse per farsi una. A meno di non concepire una nuova macelleria, da cui estrarre un improbabile monocrate paneuropeo. Per il bene della pace chiamata guerra fredda, che implicava un certo equilibrio di status geostrategico reciprocamente riconosciuto in ogni dimensione, cosmo incluso (carta a colori 1), Washington scelse di misurare i rapporti di forza con Mosca via l’unico metro tendenzialmente paritario (su tutti gli altri non c’era partita): le armi atomiche. Da non computare in banali termini numerici. Nel 1962 il ministro della Difesa americano, Robert McNamara, calcolava che il rapporto di 17 a 1 quanto a bombe atomiche a favore degli Stati Uniti stabilisse il vero grado di parità con l’Urss. Perché bastava la paura di un paio di esplosioni atomiche sul suolo Usa per inibire Washington. Mosca forse non misurava la profondità dei timori avversari, più probabilmente non se ne fdava. Si dissanguò per raggiungere quantitavimente l’arsenale atomico a stelle e strisce. Operazione compiuta attorno al 1970. Causa non secondaria del successivo collasso. (McNamara, poi convertito al pacifsmo, non aderiva evidentemente alla speranza, cantata da Sting trent’anni dopo, che anche i russi amassero i propri bambini) 4. Nemmeno i signori del Cremlino, dopo gli anni Sessanta, si pensavano capaci di agguagliare l’America al di là del fattore militare. Compensavano in parte il dislivello di potenza attingendo al romanti4. Cfr. sting, «Russians», canzone dell’album di debutto da solista della stella dei Police: The Dream of the Blue Turtles (1985). Struggente anatema contro la logica della mutua distruzione assicurata. A ispirarlo, l’osservazione via satellite delle trasmissioni televisive sovietiche per bambini, da lui molto apprezzate. Verso chiave: «I hope the Russians love their children too» («Spero che anche i russi amino i loro fgli»).
13
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
cismo ideologico fecondato dalla certezza di possedere la scienza della storia passata presente futura. Sentito atto di fede, potente leva di propaganda, distillato dalle tesi elaborate da un geniale russofobo ottocentesco di ceppo ebraico nato nella Treviri appena assegnata alla Prussia. La sua dottrina, opportunamente adattata, divenne ideologia di Stato dell’impero sovietico, imperniato sul suo epicentro russo. 3. Americani e sovietici, con i rispettivi «alleati» – serventi, mai paritari – detenevano ciascuno la propria porzione di Berlino, Germania, Europa. Preoccupati anzitutto che nessuno degli affliati scarrellasse verso il nemico o coltivasse idee proprie. Fosse solo per evacuare il campo dello scontro. Unica consistente eccezione, la Jugoslavia di Tito, dal 1948 cuscinetto antisovietico. Socio occulto dell’Occidente. La bipartizione non era quindi mera contrapposizione totale – militare, ideologica, morale – tra superpotenze ma, in quanto tale, meccanismo di controllo del rispettivo campo, che ciascuno gestiva usando dei propri talenti. Doppio contenimento. Contro il nemico esterno dotato di effcienti quinte colonne e contro gli inaffdabili di casa propria: neutralisti, terzaforzisti, malpancisti. Specie se tedeschi (scontato il pregiudizio sugli italiani). L’architettura della guerra fredda si saldava in roccaforte bifronte a più strati. L’Est legittimava l’Ovest e viceversa. I sovietici non obiettavano a che gli americani fssassero le regole del gioco nei propri feudi. Davano anzi mano al Nemico castigando quando necessario velleitarie deviazioni rivoluzionarie (leggi: eversive dell’ordine geopolitico costituito) di comunisti attivi in Occidente – molti fra loro intimamente felici di trovarsi nel campo che a voce demonizzavano. A loro volta, gli americani lasciavano fare Mosca nel «blocco socialista», vedi invasioni dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968). Lo schema cuius regio eius religio, evocato privatamente da Stalin allo scadere della seconda guerra mondiale 5, scolpito ai tempi dei confitti fra cattolici e protestanti dalla pace di Augusta (1555), confermato da Vestfalia (1648), laicamente ripreso dalla Conferenza di Helsinki per stabilizzare la «distensione» Est-Ovest (1975), era la cifra nel tappeto della competizione sovietico-americana.
14
5. Così Stalin a Milovan Djilas, dirigente della Lega dei comunisti jugoslavi, subito dopo la fne della seconda guerra mondiale. Cfr. M. gilas, Conversazioni con Stalin, Milano 1962, Feltrinelli, p. 121.
IL MURO PORTANTE
Motto confermato il 13 agosto 1961, quando il regime della DDR, anche forzando la mano a Mosca, volle erigere il «vallo di protezione antifascista», più noto come Muro di Berlino, per bloccare l’emorragia di propri cittadini verso le sezioni occidentali dell’ex capitale del Reich. Atto logico e accettabile per Washington, giusto il precetto di Augusta adattato ai tempi nuovi. Valga la premonizione del presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, a fne giugno: «Khruš0ëv sta perdendo la Germania Est. Non può lasciare che accada. Se parte la Germania Est, la Polonia e il resto dell’Europa orientale seguiranno. Dovrà fare qualcosa per fermare il fusso di profughi – forse un muro. E noi non saremo in grado di prevenirlo. Io posso tenere insieme l’Alleanza per difendere Berlino Ovest ma non posso tenere aperta Berlino Est» 6. E poco dopo l’erezione del Muro: «Non è una soluzione magnifca, ma un muro è infnitamente meglio di una guerra» 7. Il bipolarismo era dunque sistema ostile ma integrato. Usa e Urss poggiavano l’una sull’altra, pur senza il fervore delle anime gemelle evocate da Platone. Muro e cortina di ferro formavano la spina dorsale dell’ermafrodito geopolitico. Reggevano un unico organismo. L’acuta contrapposizione produceva sicurezza collettiva, almeno fra Primo e Secondo Mondo: anche in geopolitica talvolta gli estremi si toccano. Ai fan delle tassonomie politologiche potremmo dunque eccepire che in senso sistemico la guerra fredda non fu bipolarismo, ma unipolarismo di coppia mascherata, sorretto dalla frontiera condivisa e sigillato via Bomba dalla mutua distruzione assicurata. Ogni impero, quale ne sia l’armamentario ideologico, l’imprescindibile affato missionario – Stati Uniti e Unione Sovietica ne erano iperdotati – risulta per sua natura riduttore di complessità tanto del sistema mondiale quanto della famiglia geopolitica che governa. Non può farne a meno, se intende ritardare l’entropia che, secolo più secolo meno, lo consegnerà ai libri di storia. La parabola della sua potenza si legge attraverso la maggiore o minore capacità di semplifcare il campo globale sterilizzando o liquidando i rivali più deboli e contenendo i più forti, insieme gestendo eterogeneità e introversioni domestiche. Washington prevalse su Mosca in quanto migliore e assai più legittimato riduttore 6. Cit. in W.W. rostoW, The Diffusion of Power: An Essay in Recent History, New York City 1972, MacMillan, p. 231. 7. Cit. in M.R. Beschloss, The Crisis Years: Kennedy and Khruschev, 1960-1963, New York City 1991, HarperCollins, p. 225.
15
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
16
delle complessità esterne e interne. In ciò aiutata dai metodi poco inclusivi, per nulla seducenti con cui l’Urss si esibiva nel doppio esercizio, consumando il suo patrimonio di credibilità e di fedeltà ideologica urbi et orbi. Vittima della contraddizione fra vitale interesse alla sopravvivenza dell’impero e devozione all’imperativo internazionalista del comunismo, matrice del suo irradiamento geo-ideologico. La cortina di ferro scaricava a terra il peso delle tensioni geopolitiche sovrastanti, curando non sfociassero nello scontro armato diretto. La Grande Muraglia Europea seguiva i princìpi del muro a sacco, tipico dell’ingegneria romana. Due barriere parallele erette al margine estremo dello Iesus, in mezzo spazi recintati, solcati da cavalli di Frisia, minati, vigilati sulla sponda interna da poliziotti e soldati educati a sparare non contro il nemico (partita da giocarsi su altra scala) ma sul connazionale in fuga. Lungo il fronte occidentale, dove specie all’alba della guerra fredda le forze convenzionali erano deboli e rade – il britannico feldmaresciallo Montgomery asseriva di ignorare se i russi possedessero la Bomba ma d’esser certo non disponessero di biciclette, «altrimenti sarebbero già a Brest» – sorgevano ostacoli meno visibili ma tecnologicamente sofsticati. Volti però contro l’Armata Rossa, non certo a intercettare propri cittadini ansiosi di raggiungere il sol dell’avvenire. Rafforzati sulla fronte alpina da mine atomiche disposte presso i passi di prima categoria, quali il Brennero e altri già teatro delle stragi del 1915-18. Da dove in caso di terza guerra mondiale ondate ungheresi, ucraine, infne russe avrebbero ricalcato con esiti probabilmente migliori i percorsi della Strafexpedition o Südtiroleroffensive di Conrad von Hötzendorf, nel 1916. Compito degli atlantici italiani: ritardare al massimo la penetrazione dell’Armata Rossa e associati, aspettando Godot. Ossia rinforzi alleati. Scarsi, tardivi e poco motivati a immolarsi per noi. A Roma si era consapevoli che entro tre-quattro giorni dallo sfondamento della «soglia di Gorizia» e dei valichi altoatesini un maresciallo russo o ucraino avrebbe brindato alla presa di Milano sulla Terrazza Martini. Mentre il governo italiano sarebbe rimasto in sfduciata attesa dello sbarco di reparti aviotrasportati portoghesi e della Guardia nazionale dell’Alabama, che diffcilmente avrebbero rovesciato le sorti della guerra. Se il confitto fosse trasceso al grado non convenzionale, paesi e popoli europei d’avanguardia su entrambi i
1 - LA GUERRA FREDDA SPAZIALE
Stati Uniti
23 ma rzo
Unione Sovietica e paesi del blocco comunista
19
Paesi alleati degli Stati Uniti e amici dell’Occidente
Allarme rapido anti-missili balistici Linee d’allarme Copertura radar degli Stati Uniti
o spazi nello
1°c os mo na uta
se iten tun sta
r
ta au
iative se Init efen D c i teg Apollo Sojuz - 15 lu tra 975 glio S io 1 l 19 g lu 75 83 15 1 1 lo l o p A 9 1 ° 6 sbar 19 co lio sul lug la 7 m o d e 0 Lu re 2 F na Alan S 961 1 h e o p i a Vostok 1 g rd g - 12 1° ma as apr 5 tro ile garin n a 1 G j s i 9 a l t r A 6 e u l i I J s 1 s i o i M z pa 59 os 19 ell on xplorer s 8-E us 195 SS6 -195 7
Sputnik 2 -
57 19
3n ove mb Sputnik re 1-4 ott ob re
57 19
Flotta del Pacifco
Paesi non allineati
Porto Rico
Quantità di basi e infrastrutture statunitensi
Islanda
Cina, Corea del Nord Mongolia, Cuba (regimi comunisti) Principali basi aeree statunitensi
Paesi ex amici dell’Occidente (Libia e Iran)
BELGIO
LUSS.
Posizione truppe Usa (8/5/1945)
SVIZZERA
BadenBaden
Saarbrücken
Brema
Amburgo
Stoccarda
Francoforte
Dortmund
Colonia
N o r d
Bonn
Confni delle zone di occupazione
Confni del Reich (1937)
Confni attuali
FRANCIA
d e l
PA E S I BASSI
M a r e
Monaco
Norimberga
Lipsia Dresda
BERLINO Potsdam
Rostock
DANIMARCA
2 - LA SPARTIZIONE DELLA GERMANIA
E C
L
L O
H I A
N
I
VARSAVIA
Usa-Regno Unito (congiunto)
Regno Unito
Francia
Usa
Area liberata dagli americani e subito ceduta ai sovietici
Urss
Zone di occupazione (1946) Polonia
A
Kaliningrad (già Königsberg) URSS (PRUSSIA DELL’EST fno al 1945)
UNGHERIA
V A C C
O
Danzica
B a l t i c o
Breslavia
VIENNA
O S
O
AUSTRIA
C
P
Stettino
M a r
SPAGNA
IRLANDA
40
ITALIA
110
95
dalla Libia
Territorio sottratto all’Italia dalla Jugoslavia (1945)
Stati che diventano comunisti (1945-48)
Germania Est
Zone sotto il controllo degli alleati
Territori annessi all’Unione Sovietica
Unione Sovietica
verso Stati Uniti e Sudamerica
FRANCIA
Parigi
REGNO UNITO
DANIMARCA
300
2.900
1.850
300 275
250
1.900
3.250
1.850
SVEZIA
ALB. 120
400
100
GRECIA
JUGOSLAVIA
40
50
40
35
3.500
50 100
850
1.950
50
90
1.500
BULGARIA 160
ROMANIA
60
FINLANDIA
30
Confni della Germania nel 1937
verso Stati Uniti, Canada e Sudamerica
Ungheria
Austria
Cecoslovacchia
Germania Ovest
Germania Est
Polonia
Lituania
Lettonia
NORVEGIA
300
Estonia
100
3 - TRASFERIMENTI DI POPOLI (1944-1952)
15
2.300
100
40
410
80
UNIONE SOVIETICA
da Etiopia ed Eritrea
verso Israele e Canada
TURCHIA
600
250
Finnici Estoni, lettoni e lituani Russi Tedeschi Polacchi Profughi sotto l’egida dell’Organizzazione internazionale dei rifugiati Cechi e slovacchi Jugoslavi Italiani Turchi 100 Numero delle persone coinvolte (in migliaia)
Spostamenti coatti ed emigrazioni di:
Wrocław
P
Poznań
L
Katowice
O
N
Kielce
I
A
Olsztyn
VARSAVIA
Cracovia
Lódź
O
Toruń
Danzica
L’viv
Stanislav
Tarnopol
Lutsk
Pinsk
Novogrudok
Grodna
Vilnius
URSS
UNGHERIA OMANIA 4 - LO SPOSTAMENTO DELLA POLONIA VERSO OVEST RNEL 1945
AUSTRIA
CECOSLOVACCHIA
GERMANIA
Stettino
Mar Baltico
Resistenti polacchi deportati in Urss Ritorni in Polonia da varie parti d’Europa
Tedeschi deportati in Urss
Polacchi di ritorno dall’Urss Polacchi di ritorno dai campi in Germania
Migrazione interna dei polacchi verso gli ex territori tedeschi
Trasferimento di 7 mila cechi dalla Polonia in Cecoslovacchia
Trasferimento delle popolazioni bielorusse e lituane verso l’Urss
Tedeschi fuggiti, evacuati o espulsi dalla Polonia Polacchi trasferiti in Polonia da Lituania, Bielorussia e Ucraina sovietiche Trasferimento della popolazione ucraina verso l’Urss
Terre “recuperate” alla Germania nel 1945
Polonia nel 1945
Frontiera polacca nel 1939 Territorio ex polacco annesso all’Urss nel 1945
Rabat
A
Paesi in prima linea nel contenimento della Germania
Imperi centrali espansivi
SPA GN
Gibilterra
Madrid
REGNO DI SPAGNA
Oceano Atlantico
Regno d’Olanda Regno del Belgio Regno di Serbia Regno del Montenegro Regno d’Albania Regno di Grecia Dodecanneso (Regno d’Italia) Cipro (Protettorato britannico)
AFRICA SETTENTRIONALE FRANCESE
Algeri Tunisi
o
Milano
edite rran e
SARDEGNA
CORSICA
Possedimenti britannici nel M
Barcellona
REPUBBLICA FRANCESE
Parigi
Londra
REGNO UNITO
Malta
SICILIA
Roma
REGNO D’ITALIA
Budapest
Varsavia
Sarajevo
Belgrado
Atene
Ankara
Mar Nero
Mosca
IMPERO OTTOMANO
Adrianopoli
REGNO DI ROMANIA
IMPERO RUSSO Kiev
Odessa
Minsk
REGNO DI BULGARIA
IMPERO AUSTRO-UNGARICO
Vienna
Praga
Berlino
Riga
rigi ndra-Pa osca-Lo
sco: M
antitede
IMPERO TEDESCO
lo Triango
5 - L’INCUBO DI MITTERRAND (E NON SOLO)
P
OR TO G AL LO
IRLANDA
REGN
PAESI BASSI
DANIMARCA
NORVEGIA SVEZIA Nord Strea m
b Vy
org
San Pietroburgo Us t’-L ug ESTONIA a
FINLANDIA
sca Mo
Nord Stream Gasdotto strategico russo-tedesco
Faglia di “Caoslandia”
Nuova cortina di ferro Stretti marittimi da controllare
6 - ANTIEUROPA, L’IMPERO EUROPEO DELL’AMERICA
USA
ARABIA S.
BALCANI balcanici
LETTONIA nente erma Nuove vie della seta LIT. nessione p (sfda cinese) IA Con S FEDERAZIONE RUSSA S U BIELORUSSIA Legame di consanguineità e 5 eyes IA-R Greifswald GERMAN Sorella inquieta GERMANIA KAZAKISTAN della Russia Berlino USA BELGIO - GE POLONIA RMA LUSS. NIA T ensione REP. CECA UCRAINA crescente Oceano Atlantico SLOV. FRANCIA AUSTRIA Alleato storico Mar UNGHERIA e sentimentale Caspio Trieste SLOV. ma autocentrato Genova CROAZIA ROMANIA GEORGIA BOSNIA PORTOGALLO Mar Nero ERZ. SERBIA ITALIA SPAGNA Istanbul MONT. KOS. BULGARIA Spazio strategico ma inafdabile MAC. ALB. Teheran TURCHIA GRECIA IRAN Pseudoalleato con IRAQ ambizioni imperiali Atene/Pireo MAROCCO SIRIA ALGERIA (hub cinese) UCRAINA e GEORGIA in lista d’attesa per la Nato Impero europeo dell’America CIPRO Polonia e Romania TUNISIA Territori controllati da Mosca Mar Mediterraneo perni antirussi ISRAELE GIORD. TRANSNISTRIA Gemello strategico GERMANIA RUSSIA DONBAS Paese chiave “alleato” Nemico necessario ABKHAZIA LIBIA quasi nemico OSSEZIA DEL NORD EGITTO
CANADA
AUSTRALIA
NUOVA ZELANDA
O UNITO
PORTOGALLO
DANIMARCA PAESI BASSI BELGIO LUSSEMBURGO
Oceano Atlantico
Albania
Slovenia
Bulgaria
Romania
Ungheria
Slovacchia
Rep. Ceca
Germania Est
Germania Ovest
SPAGNA
REGNO UNITO
Mar Mediterraneo
FRANCIA
Fær Øer
ISLANDA
ITALIA
C
B
Finlandia
GRECIA
D
A
E
LITUANIA
TURCHIA
Mar Nero
GEORGIA
Federazione Russa
UCRAINA
Bielorussia
LETTONIA
ESTONIA
POLONIA
Svezia
CROAZIA
NORVEGIA
Mar di Norvegia
Integrazione nella Nato in stallo
1955
2009
Mar Caspio
Kazakistan
E Macedonia del Nord (in fase di adesione)
D Kosovo
C Montenegro (5/06/17)
B Bosnia-Erzegovina
1999 2004
A Serbia
1990
1982
2019
2017
1952
1949
7 - L’ESPANSIONE VERSO EST DELLA NATO
Mar Mediterraneo
Roma
(EX REPUBBLICA FEDERALE GERMANIA)
ITALIA
SLOV.
Riga
Budapest UNGHERIA
SLOVACCHIA Bratislava
GRECIA
KOS.
Tirana ALBANIA
MONT.
BOSNIA Belgrado ERZ. SERBIA
Atene
BULGARIA Sofa
Bucarest
Kiev
(Rivale strategico della Russia)
T U R C H I A
Ankara
Mar Nero
Mosca
R U S S A
SIRIA
IRAN
Mar Caspio
AZERBAIG.
IRAQ
ARMENIA
GEORGIA
C a u c a s o
©Limes
Primo sito di stoccaggio materiale bellico Usa in Europa centro-orientale (in costruzione)
Paesi contesi (Moldova, Georgia, Azerbaigian) Confni attuali
Transnistria Donbas Abkhazia Ossezia del Sud
OGGI - La nuova cortina di ferro Linea di contenimento anti-Russia Sotto controllo russo:
Ex Urss
IERI - La vecchia cortina di ferro Ex cortina di ferro Acquisizioni territoriali dell’Urss dopo la seconda guerra mondiale
8 - LA NUOVA CORTINA DI FERRO F E D .
U C R A I N A
MOLDOVA
R O M A N I A
Varsavia
Minsk BIELORUSSIA
LETTONIA
Tallinn ESTONIA
FINLANDIA Helsinki
LITUANIA Vilnius Kaliningrad
POLONIA
CROAZIA
AUSTRIA
Vienna
REP. CECA
Praga
Berlino
G E R M A N I A
Stoccolma
SVEZIA
(EX DDR)
DANIMARCA Copenaghen
SVIZZERA
FRANCIA
LUSS.
BELGIO
Amsterdam
PAESI BASSI
Mare del Nord
NORVEGIA Oslo
IL MURO PORTANTE
versanti della cortina di ferro sarebbero stati immolati per primi. Subendo il più o meno equanime trattamento dei loro protettori Stati Uniti e Unione Sovietica, in tal caso correttamente impegnati a proteggersi servendosi dei soci. Per parafrasare Kennedy, meglio che ciascuno distrugga i suoi alleati insieme alle avanguardie nemiche, piuttosto che sé stesso. Sempre che, a qualcuno, sovietico o americano, non sfuggisse la mano nell’illusione di annientare il Nemico a un prezzo (per lui) accettabile. In quanto sistema unitario, la guerra fredda non poteva fnire che con l’olocausto nucleare o con lo schianto subitaneo di una parete del Muro. Senza sparare un colpo. Così fu. L’Unione Sovietica si accartocciò su sé stessa. Quasi triceratopo corroso da tabe interna, mentre all’esterno il tegumento continuava a esibire luccicanti testate nucleari, super-missili balistici, poderose divisioni corazzate 8. 4. Nessuna recente cesura geopolitica è stata volutamente contraffatta da tutti i suoi protagonisti quanto la cosiddetta riunifcazione tedesca. Perché occupando il nucleo centrale del continente, quasi priva di confni naturali quindi condannata a un’irrequieta dinamica territoriale, la Germania è considerata intrinsecamente destabilizzante di qualsiasi ordine europeo. Nessuno spazio veterocontinentale è stato perciò oggetto di tanto pervasive e durevoli infuenze esterne miranti a imbracarne le pulsioni espansive, effettive o presunte. Esercizio avviato nel 1648 con i trattati di Münster e Osnabrück, gli Instrumenta Pacis Westphalicae che suggellarono la fne della guerra dei Trent’anni. Espressione del concetto di sicurezza collettiva con cui il cardinale Richelieu aveva inteso fssare i cardini del contenimento dell’Impero del Centro europeo. Re, imperatori e presidenti di Francia terranno fede alla lezione del ministro capo di Luigi XIII, modulandola secondo gusto, stagioni, urgenze. Arrimer l’Allemagne, «stivare la Germania», ossia «contenerla» – nella versione tedesca (Deutschland einbetten) traspare dalla radice del verbo un tratto di materna dolcezza, quasi si trattasse di «mettere a letto» l’ondivago gigante – rifette il gallicano senso di superiorità misto a timore probabilmente irrevocabile nei secoli dei secoli. E che ha fatto scuola ben 8. L’immagine del triceratopo è sottratta a J.L. gaddis, We Now Know. Rethinking Cold War History, Oxford 1997, Oxford University Press, vedi in specie p. 292.
17
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
18
oltre l’Île de France, percolando nelle teste regnanti e pensanti del resto d’Europa, non esclusi alcuni dei migliori cervelli tedeschi. Più russi e americani. Nei casi acuti tale postura traligna in disturbo psichico: germanofobia. I cui pazienti si dividono fra germanofobi germanici (incurabili giacché spaventati da sé stessi) e allogeni (tanto meno infessibili quanto più distanti dal popolo temuto). L’idea vestfaliana di internazionalizzare politica e geopolitica dell’impero tedesco, coniugando salvaguardia delle libertà germaniche e pace in Europa, è l’archetipo della questione tedesca che dal 1871 – battesimo del Secondo Reich nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versaglia – inquieta o insanguina l’Europa. Sedata durante la guerra fredda via spartizione del Terzo Reich (carta a colori 2) e della sua capitale fra i quattro occupanti (Urss, Usa, Regno Unito e Francia), cui segue dal 1949 al 1990 la parabola di due repubbliche a sovranità diversamente limitata – Richelieu docebat – la Federale (BRD) e la Democratica (DDR), inglobate negli imperi americano e sovietico. Il principio cui Mosca e Washington (con l’indocile seguito franco-britannico) si adattarono, e che i loro suffraganei a Berlino Est e a Bonn s’indussero a condividere, suonava così: «Meglio tutta la metà della Germania che tutta la Germania a metà». Peccato che una metà fosse più metà dell’altra. Alla nascita, la Bundesrepublik vantava rispetto alla DDR il doppio del territorio, il triplo della popolazione, il quintuplo del pil. In più, decisivo, il fattore umano: milioni e milioni di tedeschi orientali varcavano l’Elba in direzione ovest, cercando benessere prima, libertà poi. Al di là del «miracolo economico» tedesco occidentale, la differenza fra le due Germanie era che i cittadini della sezione occidentale aderivano in genere spontaneamente al loro Provisorium, al punto che diversi tra loro nel magico Ottantanove temevano l’abbraccio «fraterno» dei connazionali dell’Est, mentre costoro erano divisi fra pochi credenti nell’esperimento comunista, molti miscredenti disposti o costretti ad adattarvisi, una muta maggioranza di agnostici o rassegnati. Oltre a chi sfdava il divieto di espatriare liberamente votando con i piedi, a rischio della vita. Tutti sotto l’occhiuta sorveglianza di un apparato spionistico senza eguali. Tanto dislivello spiega perché Stalin si fosse adattato controvoglia alla trasformazione della sua zona di occupazione in Stato formal-
IL MURO PORTANTE
mente indipendente. La sua prima scelta era una Germania unita e neutrale, democratico-borghese, in modo da attingere alle ricchezze minerarie e industriali delle zone occidentali e spingere l’infuenza di Mosca al Reno (proprio mentre, ironia suprema, al Dipartimento di Stato si studiava l’opportunità di imprimere tratti di socialismo alla nazione da riabilitare). In attesa dell’inevitabile terza guerra mondiale generata dalle contraddizioni intercapitalistiche, da cui l’Urss sarebbe emersa egemone planetario. La DDR era tenuta di riserva da Stalin e successori come merce di scambio il giorno in cui fosse stato fnalmente negoziato un trattato di pace con il Reich, allora e tuttora soggetto di diritto internazionale. Alla morte del grande dittatore, il capo dei suoi servizi segreti, Lavrentij Pavlovi0 Berija, calcolò in 10 miliardi di dollari il prezzo da estorcere agli americani per la svendita della DDR in cambio di una Germania fuori dai blocchi. Ci rimise la pelle. Nel luglio 1990, Mikhail Sergeevi0 Gorba0ëv, estremo epigono di Lenin, si accontenterà di una cifra imprecisata, comunque modesta, concordata in un molto amichevole incontro con Helmut Kohl, ultimo cancelliere della Germania occidentale. E primo della Bundesrepublik estesa, a (para-)costituzione costante, ai cinque Länder della DDR. Dopo l’avvio della transizione post-comunista in Polonia e l’apertura estiva della cortina di ferro decisa dall’Ungheria per concedere il transito in Austria di migliaia di turisti/profughi in fuga dalla Repubblica Democratica, la rinuncia di Mosca alla dépendance tedesco-orientale non poteva che indurre la disarticolazione, poi lo scioglimento del Patto di Varsavia (1° luglio 1991). Vigeva allora il gorbacioviano «nuovo pensiero», improbabile miscela di ecumenismo e moralismo – del mai visto nella storia russa. Sbarazzarsi dell’impero, di cui la Germania comunista s’ergeva avanguardia sorretta da 390 mila soldati dell’Armata Rossa, era secondo Gorba0ëv pegno per salvare e riformare l’Unione Sovietica, non più nemico ma rispettato socio degli Stati Uniti. Il Cremlino lo aveva comunicato per via riservata alla Casa Bianca nel 1986. Gli americani trasmisero in segreto l’incredibile novella al capo della DDR, Erich Honecker, dai sovietici sospettato, con ragione, di coltivare alle loro spalle rapporti troppo stretti con dirigenti tedesco-federali, specie compagni socialdemocratici. L’insofferenza della vetusta nomenklatura di Berlino Est per la nuova leadership moscovita, cocco-
19
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
lata dall’Occidente e idolatrata dai media tedesco-federali (Gorbymania), non aveva nulla di ideologico, salvo la vernice. Tutta geopolitica: primum vivere. Il 2-3 dicembre 1989, durante il vertice di Malta, Gorba0ëv comunicava a Bush il prossimo scioglimento dell’impero sovietico con annesso ritiro di tutte le truppe. Cessione unilaterale del bottino conquistato nella «grande guerra patriottica» costata 27 milioni di morti (vedi la testimonianza di Leonid Nicolaevi0 Dobrokhotov a p. 43). Ricostruzione confermata qualche anno dopo dall’ex ministro degli Esteri di Gorba0ëv, Eduard Ševardnadze, a Egon Krenz, successore di Honecker: «Lo sai che cosa volevamo? Volevamo serbare l’Unione Sovietica. E per serbarla, dovevamo gettare ogni zavorra» 9. Sic transit Iesus. Musica per le orecchie americane. A differenza dei soci europei, Washington sapeva che il Nemico era sul punto di arrendersi. Quando il Muro di Berlino cadde, Bush senior fu l’unico leader mondiale a non esserne sorpreso. Al primo sguardo l’apertura del confne fra le due Berlino, avvenuta in modo casuale e disordinato per la gaffe di un dirigente della DDR, appariva frutto di capricciosa costellazione astrologica. Non per chi sapeva che cosa stessero cucinando al Cremlino. Nel primo memorandum interno della diplomazia tedesca dopo la caduta del Muro si rimarcava lo iato fra l’entusiasmo del pubblico americano e la maschera asettica di Bush («nessuna espressione sul suo volto») quando la sera del 9 novembre si dichiarò in tv «very pleased» per la liberalizzazione del transito intraberlinese. All’intervistatore che gli chiedeva perché non apparisse euforico, Bush oppose, a inespressione costante, di non essere «un tipo emotivo». E volle assicurare che la riunifcazione tedesca non era all’ordine del giorno 10. Il presidente non intendeva maramaldeggiare. Sapeva che le fortune dell’America erano funzione della permanenza di Gorba0ëv al Cremlino. Conscio che alle sue spalle settori degli apparati sovietici tramavano contro l’eutanasia dell’impero (tecnicamente: svolgevano il proprio compito), come il mezzo golpe abortito nell’agosto 1991 confermerà.
20
9. E. krenz, Wir und die Russen. Die Beziehungen zwischen Berlin und Moskau im Herbst ’89, Berlin 2019, 3a edizione riveduta, Verlag das Neue Berlin, p. 92. 10. Memorandum interno del ministero degli Esteri tedesco, «Reazioni degli Stati Uniti agli eventi a Berlino e nella Rdt dal 9 novembre», Bonn, 16/11/1989. Tratto dagli archivi ministeriali (PA/AA B 32, Bd. 179532, documento 204-322.00), pubblicato in M. dierikx, s. zala (a cura di), When the Wall Came Down. The Perception of German Reunifcation in International Diplomatic Documents, 1989-90, BernBerlin 2019, Diplomatic Documents of Switzerland (Dodis) – Leibniz Institute for Contemporary History.
IL MURO PORTANTE
Gli obiettivi che l’amministrazione Bush senior si poneva nel 1989-91 coincidevano infatti quasi perfettamente con quelli di Gorba0ëv (in tondo le differenze). Primo: fne dell’impero sovietico in Europa. Da inglobare il prima possibile nel proprio, via sgombero dell’Armata Rossa dal centro del continente, sostituita dalle forze dell’Alleanza Atlantica (nel mondo incantato del gorbaciovismo s’immaginava che l’ex Iesus restasse terra di nessuno, cuscinetto tra Iea e Urss). Secondo: consentire a Bonn di annettersi la DDR e la Grande Berlino, non il resto dell’impero nei confni del 1937, pre-Anschluß, base negoziale del futuro trattato di pace concordata tra i vincitori. La linea dell’Oder-Lausitzer Neiße, bonus di Stettino compreso, che il cancelliere Kohl pensava inizialmente di rinegoziare perché pressato dalla lobby dei profughi cacciati da terre storicamente tedesche (carta 2) in seguito alla sconftta del nazismo (14 milioni di deportati o fuggiaschi, 2 milioni di morti, carta a colori 3) era condizione sine qua non per l’allargamento della Bundesrepublik. Condivisa dai quattro vincitori. Garanzia contro futuri rigurgiti espansionistici. Terzo: scongiurare un asse Berlino-Mosca, eterno anatema per ogni geostratega americano (alcuni dirigenti russi coltivavano questo retropensiero, non scoraggiati dai loro interlocutori tedeschi, e il rapporto personale fra Kohl e Gorba0ëv non smentiva il sospetto della loro eccessiva intimità coltivato dall’intelligence a stelle e strisce). Quarto: ponti d’oro al Nemico in ritirata. Non esclusi aiuti economici, da mettere in conto a Kohl. Lunga vita all’Urss umiliata ed evirata. Bush preferiva un ex nemico demoralizzato, infacchito e addomesticabile al prevedibile caos della disintegrazione di una smisurata superpotenza nucleare. E valutava Gorba0ëv il miglior interlocutore russo possibile. Almeno fno alla tarda estate 1991, quando il potere di Gorba0ëv si ridusse a nominale. Sicché Washington decise di virare sulla Russia di El’cin. Al quale toccò sovraintendere, insieme a un drappello di congiurati e con il decisivo aiuto dei servizi americani, alla transizione dall’Urss alla Federazione Russa e alle altre repubbliche ex sovietiche. Scongiurando la dispersione dell’arsenale atomico, non di tutto il materiale bombabile né di alcuni cervelli affttati al miglior offerente. Le cronache raccontano della riunifcazione tedesca come esito del negoziato 2+4: le due Germanie e i quattro vincitori. Nei fatti fu
21
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
22
Carta 2. Lo spazio etnico-linguistico tedesco. Carta tratta da O. Maull, Deutschland, Lipsia 1933, p.64
IL MURO PORTANTE
un patto a tre: Kohl, Gorba0ëv e Bush. Il primo intendeva passare alla storia come padre della patria ritrovata, accelerando al massimo le intese con i derelitti dirigenti della DDR prima che qualcuno a Mosca cambiasse idea. Per presentarsi alle vicine elezioni non da cancelliere della vecchia Bundesrepublik – avrebbe rischiato di perderle – ma da eroe nazionale. Il secondo teneva a salvare faccia e pelle, viste le domestiche resistenze politiche e tecnocratiche, la montante impopolarità in patria, eguale e contraria all’entusiasmo occidentale. Aggrappato alla speranza di evitare la bancarotta dell’Urss, rinunciava perciò alla sua porzione di Germania e di rifesso al resto dell’impero (nel febbraio 1989 aveva completato il ritiro dall’Afghanistan). Il terzo assicurava la regia dell’operazione più strategica per gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, realizzata assicurandosi che il Nemico avesse successo nel progetto di autoamputazione salvavita. Più che Gorba0ëv, gli americani dovettero domare i polacchi, terrorizzati all’idea di dover cedere alla Germania parte dei territori occidentali «recuperati» nel 1945 (carta a colori 4), forse sulla falsariga di piani segreti americani dell’immediato dopoguerra (carta 3). E soprattutto gli imbizzarriti «alleati» euro-occidentali, presi dal panico da «Grande Germania» – pur sempre il più piccolo Stato unitario tedesco della storia. Nelle cancellerie atlantiche, a Londra e a Parigi, a Roma e a Madrid, a Bruxelles e all’Aia, dal 10 novembre, primo giorno di Muro aperto, si dovette esibire compiacimento. Ma dentro quasi tutti portavano il lutto. Presto seguito dalla frustrazione, scoprendo di non poter frenare, tantomeno deragliare, il treno della riunifcazione. Margaret Thatcher era costernata. Convinta che il carattere nazionale tedesco, eccitato dopo decenni di penitenza dall’imminente unifcazione, implicasse periodiche eruzioni bellicose, imprevedibili perché irrazionali 11. François Mitterrand si lasciò scappare «ma questi giocano con la terza guerra mondiale» alla vista dei tedeschi che brindavano a cavalcioni sul Muro. Quando il 20 gennaio 1990 i due si videro a colazione all’Eliseo, il presidente francese osservò che «l’improvvisa prospettiva della riunifcazione aveva prodotto una sorta di choc mentale nei tedeschi». Gli parve fossero «tornati un’altra volta i 11. Documents on British Policy Overseas, Series III, Volume VII (a cura di P. salmon, k. hamilton, s. tWigge), German Unifcation 1989-1990, Abingdon, Oxon – New York, NY 2010, Whitehall History Publishing, pp. 504-509. Lettera di Powell (No. 10) a Wall, 10 Downing Street, 25 March 1990, Confdential. Vedi in particolare «Seminar on Germany: Summary Record».
23
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
tedeschi “cattivi” che erano stati». Poi confdò alla premier britannica di esser stato «molto secco» con Kohl e Genscher. Ai quali aveva comunicato che «senza dubbio la Germania avrebbe potuto, se avesse voluto riunifcarsi, portare l’Austria nella Comunità Europea e persino riguadagnare altri territori persi a causa della guerra. Avrebbe pure potuto prendere più terre di Hitler. Ma avrebbe dovuto tenere a mente le implicazioni». Ovvero: «L’Unione Sovietica avrebbe mandato un inviato a Londra per proporre un trattato di ri-assicurazione e il Regno Unito avrebbe accettato. Il messo sarebbe poi venuto a Parigi con la stessa proposta, e la Francia avrebbe accettato. E così saremmo tutti tornati al 1913» (carta a colori 5) 12. Mitterrand ventilò in quei mesi, senza approfondirne i termini, l’idea della Confederazione Europea quale strumento per controllare la Germania, peraltro respinta da Washington in quanto sospettata di voler emancipare il futuro soggetto europeo dalla tutela americana. Irrealistico ma vero. Quanto a noi italiani. Giulio Andreotti aveva pubblicamente espresso nel 1984, durante la Festa nazionale dell’Unità, il suo amore per la Germania, tanto forte da volerne sempre due 13. Nel 1989-90 l’Italia cercò disperatamente di ricondurre al tavolo atlantico il negoziato sulla riunifcazione, per ragioni di status ma soprattutto perché consapevole che la garanzia contro futuri scartamenti neo-imperialisti della Bundesrepublik allargata poteva venire solo dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica (se fosse sopravvissuta), certo non dall’«Europa», ovvero dalla Cee immersa nelle sue angeliche autorappresentazioni da «potenza civile» (leggi: impotenza). Assai battagliero nel rivendicare rango negoziale all’Italia fu il ministro degli Esteri Gianni De Michelis, che nel febbraio 1990, al vertice di Ottawa, sforò la rissa con Genscher dopo che questi gli ebbe brutalmente obiettato: «You are not part of the game» 14. Per la storia, nell’occasione gli americani simpatizzarono con De Michelis. Confermati nell’idea che in caso di contrasto fra «Europa» (Germania) e Stati Uniti l’Italia avrebbe sempre
24
12. Ivi. Vedi in particolare pp. 216-217. Lettera di Powell (No. 10) a Wall (WRL 020/1), Secret and Personal, 10 Downing Street, 20 January 990, pp. 215-219. 13. Cfr. l’audio del dibattito fra Giulio Andreotti e Paolo Bufalini alla Festa nazionale dell’Unità di Roma, il 13 settembre 1984: «La politica estera dell’Italia», Radio Radicale, www.radioradicale.it. Vedi anche G. FaBrizio, «Andreotti è rimasto isolato», la Repubblica, 16/9/1984. 14. Lo scambio Genscher-De Michelis è citato nel memorandum di Brent Scowcroft al presidente George H. Bush, «Preparing for the Six Power German Peace Conference», Washington, D.C., 19 February 1990, in M. dierikx, s. zala, op. cit., pp. 144-148. Vedi in particolare p. 147.
IL MURO PORTANTE
Carta 3. Progetti americani di revisione del confne germano-polacco. Da M.A. Hartenstein, Die Geschichte der Oder-Neiße-Linie, Rottenburg 2018, Kopp Verlag.
25
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
cercato la gonna di Mamma America. Infne Andreotti si rassegnò, per nulla convinto, alla «Grande Germania». Temeva che il clima da «primavera dei popoli» – festival paneuropeo dell’autodeterminazione – inaugurato dalla riunifcazione tedesca potesse fomentare il separatismo in Jugoslavia. Perfno in Alto Adige. L’unica concessione di Kohl agli altri europei, segnatamente a francesi e italiani, fu la rinuncia al marco e alla Bundesbank in favore dell’euro e della Banca centrale europea. Certifcato di europeismo da scambiare con il platonico placet comunitario all’annessione della DDR. Ma come quasi tutti i velleitari contenimenti della Germania di ricetta transalpina – da Richelieu e Mazzarino a de Gaulle, da Mitterrand via Chirac fno a Macron – gli esiti furono opposti alle intenzioni, grazie ai «criteri» di Maastricht e ai successivi accordi di politica monetaria e fscale nell’Eurozona, di marca rigorosamente germanica. Con gli occhi di oggi, possiamo però stabilire che l’ora della «riunifcazione» tedesca rivelò al mondo il senso profondamente anti-tedesco – con punte di isteria britannica e più controllata furia francese – della costruzione europea in quanto inscritta nell’architettura atlantica. L’Antieuropa era e rimane Antigermania über alles (carta a colori 6) 15. 5. «Cresce insieme ciò che si appartiene». La sentenza declamata dall’ex cancelliere socialdemocratico Willy Brandt la sera del 10 novembre 1989 a Berlino annunciava l’alba del destino che pareva sul punto di compiersi 16. Le due Germanie, da ricentrare sull’antica capitale del Reich, e le due Europe sarebbero cresciute insieme perché stavano insieme. Trent’anni dopo quell’invocazione in forma di postulato suona utopia. O distopia. Di sicuro non è un fatto. Nemmeno un orizzonte in avvicinamento. Perché? Brandt, come tanti sinceri patrioti eurogermanici, proiettava il futuro sul presente. Novello Costantino, leggeva nel cielo sopra Berlino senza Muro l’annuncio del fulgido avvenire: In hoc signo coniugabis. Già, ma chi, che cosa e perché si sarebbe ricongiunto? In base a quale legge della storia? Non era forse il Reich tedesco pervenuto
26
15. Cfr. Limes, «Usa-Germania, duello per l’Europa», n. 5/2017, Limes, «Essere Germania», n. 12/2018, Limes, «Antieuropa. L’impero europeo dell’America», n. 4/2019. 16. «Willy Brandt: “Es wächst zusammen, was zusammengehört”», Deutsche Welle, 13/12/2012, www. dw.com
IL MURO PORTANTE
buon ultimo fra le potenze europee all’unità nazionale, salvo usarne per scatenare due guerre mondiali? Quanto tempo le innumeri tribù (Stämme) tedesche avevano trascorso in armonia sotto lo stesso tetto, unite da caldi vincoli parentali? Il patriarca della socialdemocrazia traeva la sua gioiosa convinzione dalla negazione della storia mentre in buona fede credeva di coglierne il corso. Paradossale frutto dell’obliterazione cui i tedeschi occidentali erano stati «rieducati» dagli alleati: dimenticate ogni passato remoto, concentratevi in espiazione sullo hitleriano dodicennio dell’orrore. Rifondate la vostra identità sui valori occidentali della Legge fondamentale. Rinunciate alla storia per abdicare alla potenza. Pensiamo noi a difendervi dai rossi. Nel caso, muovetevi al nostro segnale. Se la rieducazione dei tedeschi nell’impero americano fu presto attenuata per tener conto della necessità di averli dalla propria parte nello scontro con l’Urss, nella DDR la pedagogia «antifascista» martellata con cadenze marx-leniniste venne addolcita con la dosata riabilitazione del passato democratico-borghese, persino liberal-nazionalista. Con enfasi sulla resistenza anti-hitleriana, eroica quanto esigua. Così inculcando un senso di appartenenza allo Stato meno estemporaneo e opportunistico di quanto l’Occidente sospettasse. Per l’Urss quei tedeschi erano avanguardia della futura Germania unita e neutrale, in cui gradualmente iniettare la propria ideologia e il proprio sistema, senza strappi. E poi, non aveva Stalin stabilito che il socialismo si adatta ai tedeschi come la sella alla vacca? Nessun comune destino, nessuna esclusiva struttura statuale pregressa legava né lega necessariamente le Germanie ritagliate dagli alleati sui resti del Reich. Quel che quasi tutti i leader tedesco-federali, Kohl in testa, non vollero vedere per decenni, lo aveva colto il giorno prima dell’inclusione dei nuovi Länder nella Bundesrepublik l’ambasciatore svizzero a Berlino Est, Franz Birrer, nel suo rapporto d’addio. Vale citarne la conclusione perché potrebbe essere scritta oggi: «Questa non è un’unifcazione, ma un’appropriazione della DDR da parte della BRD, che può essere vista per esempio dal fatto che, a partire da domani, funzionari, giudici, dirigenti economici eccetera della Germania occidentale “invaderanno” questo paese e rimpiazzeranno la gente della DDR. “Il prezzo dell’unità è un nuovo dominio straniero”, come ha scritto lo storico Jörg Fisch. (…) Sarà il nuovo
27
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
Stato capace di diventare un paese natio, anche solo una casa, per tutti i tedeschi? Sapranno i tedeschi orientali identifcarvisi, oppure ancora una volta vi verranno meramente a patti, come molti di loro hanno fatto così a lungo con la «DDR patria socialista»? Può evitarsi una mezzogiornalizzazione (sic) della Germania orientale e una radicalizzazione che ne sarebbe conseguenza quasi necessaria? Tutte questioni cui si potrà rispondere solo negli anni a venire» 17. Ventinove anni e un giorno dopo sarà la stessa cancelliera Angela Merkel, che non ama rievocare la sua prima vita nella DDR, a confermare la previsione del diplomatico svizzero: «Nella Bundesrepublik i tedeschi dell’Est si sentono in maggioranza cittadini di seconda classe. Meno del 40% dei tedeschi orientali valuta riuscita la riunifcazione, addirittura fra chi ha meno di 40 anni si scende ad appena il 20% circa. Meno della metà è contento della democrazia in Germania.» Poi, in raro slancio autobiografco, ricordando la cerimonia per l’unifcazione alla Filarmonica di Berlino, il 3 ottobre 1990: «Tutti erano in festa. D’improvviso sentii mescolarsi in me la preoccupazione alla gioia, quasi un senso d’oppressione. Perché avevo appena scoperto che nottetempo i poliziotti del popolo della DDR (i Volkspolizisten, famigerati guardiani del Muro, volgarmente Vopos, n.d.r.) erano stati vestiti con uniformi di Berlino Ovest. Le loro facce tradivano però chiaramente, in ogni caso per me, di chi si trattasse. Vestire di notte tutti gli uffciali dell’Esercito nazionale popolare (Forze armate della DDR, n.d.r.), tutti i poliziotti del popolo con divise diverse – ma si poteva indossare in una notte anche un altro modo di pensare e di sentire? (…) Avevamo valutato a suffcienza che la singola persona – e certo non solo uffciali e poliziotti, ma noi tutti che abbiamo vissuto nella DDR – non può semplicemente consegnare al guardaroba il suo pensiero, il suo sentimento, la sua esperienza? E che forse nemmeno lo vuole? (…). L’unità statale tedesca è compiuta. L’unità dei tedeschi, il loro essere uniti – questo il 3 ottobre 1990 non era compiuto. E non lo è tuttora» 18. Merkel ha ragione. L’annessione della DDR fu e resta operazione paracoloniale. Oggi i tedeschi orientali sono il 17% della popolazione
28
17. «DDR addio!», rapporto confdenziale dell’ambasciatore svizzero Frank Birrer, Berlino Est, 2/10/1990, in M. dierikx, s. zala (a cura di), op. cit., p. 241. 18. «Rede von Bundeskanzlerin Angela Merkel anlässlich des Festakts zum Tag der Deutschen Einheit am 3. Oktober 2019 in Kiel», www.bundeskanzlerin.de
IL MURO PORTANTE
ma occupano solo l’1,7% degli incarichi di vertice. Nessun rettore di università, solo due su duecento generali e ammiragli vengono d’oltr’Elba 19. Molti tedeschi occidentali non hanno mai considerato autentici compatrioti i cugini orientali. Li bollano piagnoni (JammerOssi), ricambiati con la qualifca di arroganti (Besser-Wessi). Non sono tanto le ridotte ma tuttora visibili diseguaglianze sociali ed economiche a dividere gli animi delle due Germanie, né solo la persistente emorragia demografca – dal 1990 a oggi 1 milione e 200 mila anime hanno lasciato i nuovi Länder per i vecchi. Il Muro è caduto, la cortina sull’Elba pure, ma identità e mentalità restano diverse (grafci 1-4). Germoglia l’Ostalgie, la nostalgia del «primo Stato tedesco degli operai e dei contadini», parallela al rifuto della «dittatura del politicamente corretto» imposta dall’Ovest. Per il 41% dei cittadini dell’Est oggi non c’è più libertà di espressione di quanta ve ne fosse sotto Honecker 20. Ne è rifesso il sistema politico. Qui lo iato fra Est e Ovest è brusco. Nell’ex Germania orientale crescono rigogliosi i nazionalisti xenofobi dell’AfD, resistono gli ex (?) comunisti della Linke, con percentuali a due cifre. La CDU è in grave crisi, la SPD in caduta libera, i Verdi, di moda nei vecchi Länder, nei nuovi sono entità irrisoria. In Germania come nel resto d’Europa la storia non si cancella in un giorno né in trent’anni. Specialmente se si procede per omissioni, censure, immaginarie «ore zero». Vale l’opposto: più si rimuove il passato, più rimbalza. Nulla è nuovo quanto l’antico. Dilaga nei nuovi Länder l’antiquariato Ossi, i cui marchi un tempo derisi e snobbati vanno oggi di moda, specie tra i giovani. Così pure la spesso contraffatta chincaglieria tedesco-democratica – spille, stemmi, medaglie, divise, diplomi distribuiti in gran copia dal regime, a compensare il senso di non essere abbastanza amati dal popolo ingrato. L’Ottantanove ci insegna che la storia abolisce chi vuole abolirla. Ecco la parabola dell’europeismo classico, distillato d’arrogante ideologia. Se c’è una tendenza oggi comune all’intero continente sta nel riuso geopolitico del passato. Senza identità né progetto le comunità 19. Cfr. S. somaskanda, «An Unlikely Solution to Germany’s East-West Divide», The Atlantic, 30/6/2019. Cfr. anche «Jahresbericht der Bundesregierung zum Stand der deutschen Einheit, 2019», a cura del rappresentante del governo per i nuovi Länder presso il ministero federale per l’Economia e l’Energia, www.bmwi.de 20. Cfr. C. Bangel, «Vollgas Schnitzel», Die Zeit, 3/10/2019, www.zeit.de
29
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
Grafico 1 - AUTOIDENTIFICAZIONE DEI TEDESCHI DELL’EST
LEI SI SENTE... ? 70 tedesco dell’Est 60
50
40
30 tedesco 20 2000
1990
2019
Fonte: IfD-Allenbasch
Grafico 2 - SALARI MEDI NEI LÄNDER OCCIDENTALI/ORIENTALI
(euro)
3.500 Länder occidentali
3.000
2.500 Länder orientali
2.000
1.500 2000
30
Fonte: IfD-Allenbasch
2005
2010
2015
2017
IL MURO PORTANTE
Grafico 3 - LA FIDUCIA NELLA DEMOCRAZIA IN GERMANIA
% DI CHI DICE CHE LA DEMOCRAZIA é LA MIGLIORE FORMA DI GOVERNO 80 Länder occidentali 70 60 50 40 Länder orientali 30 20 1990
1995
2000
2005
2010
2019
Fonte: IfD-Allenbasch
Grafico 4 - WESSIS E OSSIS AL VOTO
PERCENTUALI DI VOTO ALLE ELEZIONI POLITICHE DEL 2017 OVEST
EST CDU AfD Die Linke SPD FDP Die Grünen Altri
40
Fonte: Tagesschau
30
20
10
0
0
10
20
30
40
31
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
soffocano. L’armamentario etnico, riverniciato da pseudoscienza, torna a mobilitare. Con prevedibili code d’intolleranza e razzismo. Bianco e Nero invece che Bene e Male. Il principio di autodeterminazione dei popoli conferma la sua micidiale ambiguità. «Dinamite»: pertinente la defnizione di quel dogma tramandataci da Robert Lansing, braccio destro del suo inventore, Woodrow Wilson, il presidente degli Stati Uniti che nel 1919 pensò di salvare la pace universale incardinandola sul teorema più manipolabile che si possa concepire. Modulabile attingendo a fantasiosi diritti storici, come se improbabili, ancestrali catene etno-comunitarie legittimassero il possesso di terre ambite. Smaltita la cortina originaria e il Muro connesso, barriere non sempre informali ridisegnano frastagliati recinti fra tribù rivali, da un estremo all’altro del continente, con forte addensamento nelle ex province sovietiche. Non solo. Nello spazio comunitario in decomposizione perché impreparato al ritorno della storia serpeggiano contese di notevole momento, dalla Catalogna alla Scozia o all’Irlanda. Si ripercorrono sentieri antichi, su base di presunte affnità storiche e culturali, oltre che di strutture economiche imparentate. Riscoprendo Mitteleuropa, Asburgo, Lega Anseatica e quant’altro. Mentre chi trent’anni fa fremeva per il risorgere dell’imperialismo tedesco deve ricredersi, stante la crisi economica, geopolitica e d’identità in cui la Bundesrepublik sembra avvitarsi.
32
6. Osserviamo il campo europeo, stravolto dalla rivoluzione geopolitica scattata tre decenni orsono. Washington ha guadagnato spazi, avvicinando le avanguardie nord-orientali della Nato – sue fedelissime per amore o per forza – alle porte di Mosca (carta a colori 7). Più o meno dov’era schierata la Wehrmacht il 22 giugno 1941. Ne deriva una nuova, informale cortina di ferro (carta a colori 8). Meno fortifcata, molto più incerta e mobile dell’originaria, anche perché l’America ha altri interessi da curare, ora che di fronte non ha il Nemico assoluto. Il tracciato del vallo russo/atlantico appare non lineare, reticolare, ricco di exclave/enclave, interrotto da terre di nessuno, scavato da buchi neri. Deputato solo a dividere, a frammentare. La sfducia, quando non l’odio, massimo nel quadrante baltico, prevale sulla comunicazione. Rispetto alla guerra fredda, le frontiere sono molto meno impenetrabili ma assai più numerose, specie nel campo
IL MURO PORTANTE
ex sovietico. La metafora dell’ermafrodito non ha più senso, semmai dovremmo evocare peculiarissimi frattali. Certo nessun responsabile americano intende attaccare la Russia. Alcuni, per dovere professionale – tenere insieme i sospettosi clienti veterocontinentali – fngono di temerne la controffensiva, o ci credono davvero. Ma l’ostentata volontà americana di declassare la Federazione Russa a potenza regionale ferisce l’orgoglio di Putin e dei suoi patriottici connazionali. Il problema è semmai opposto. Insieme al Nemico, gli Stati Uniti hanno perso un complice. D’ineguagliabile valore. Senza Stalin, Truman non avrebbe goduto della legittimazione geopolitica e d’opinione, domestica e internazionale, necessaria a fondare l’impero europeo. Gemma tuttora irrinunciabile della superpotenza. Tanto più constatando l’inedita penetrazione cinese nell’Euromediterraneo. Xi Jinping pare volervi affancare Putin, in affannosa modalità estrovertita. La strana coppia, che in modi e per scopi diversi cerca di infltrare i ventri molli della Nato, tra Mediterraneo, Nero e Baltico, manovrando lungo la frontiera con lo Iea, è benedizione per la propaganda americana (carta 4). Osservata dall’alto, senza lenti ideologiche né preconcetti geopolitici, la perdita dell’Urss ha sapore ambiguo per gli Usa. Ciò spiega perché Bush padre e gli abili strateghi della sua amministrazione preferissero un’Urss debole, ridotta ma utile come vigilante aggiunto sulle aree mediorientali più indomabili – però anche come contraltare alla Cina individuata già negli anni Ottanta dall’Offce of Net Assessment come sfdante del futuro – al suo inservibile e ingombrante cadavere. La Federazione Russa resta potenza nucleare, energetica, spaziale e cibernetica troppo importante per essere trascurata, specie se anello di congiunzione fra Germania e Cina, ma troppo debole per svolgere i compiti di polizia diligentemente eseguiti per quarant’anni nella sua Europa e nel Terzo Mondo, compresa la repressione dell’islamismo armato (dagli americani). La vittoria nella guerra fredda ha inevitabilmente addolcito la presa americana in Europa e disinibito alcuni partner atlantici. Sia chi da sempre nutre ambizioni grandiose, come la Francia, mal sopportando la dominanza a stelle e strisce nel proprio continente pur riconoscendone la necessità, sia chi come la Germania è stato umi-
33
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
liato in due guerre mondiali e sezionato in quella fredda, mai dismettendo il fondo antiamericano, culturale prima che geopolitico. Restano gli inglesi impegnati a salvare il loro Regno Unito per risognarsi imperiali al fanco del Numero Uno quali inventori e campioni dell’Anglosfera – vedremo quanto utili a Washington. La notizia peggiore per i signori dello Iea è che i popoli disposti a tutto per tenerli a protezione delle proprie case ai tempi del confronto con l’Urss oggi sono piuttosto saturi. Galoppa il neutralismo, o meglio il disimpegno, anche fra atlantici di antica fede (grafci 5-7). Se per disgrazia gli Usa dovessero oggi battersi contro russi e/o cinesi, potrebbero contare su un sostegno d’opinione piuttosto labile nella Vecchia ma persino nella Nuova Europa. I prossimi anni ci diranno se è soprattutto «effetto Trump» o invece, come incliniamo a scommettere, qualcosa di più profondo. Rovesciando la prospettiva, potremmo spiegare queste antipatie o apatie europee quale ritorno alla normalità, la guerra fredda essendo stata eccezione forse irripetibile nelle relazioni transatlantiche. A ciascuno di scegliere fra norma ed eccezione. Grafico 5 - DI QUALE POTENZA TI FIDI DI PIÙ: GLI STATI UNITI O L’UNIONE EUROPEA?
58
54
(in %)
52
48 39 41
40
38 15
12
8 Grecia
8
Repubblica Ceca
60
Francia
3
4
Slovacchia
Germania
56
56
51 33
29 9
Paesi Bassi
Romania
Usa
34
60
28
Fonte: European Council on Foreign Relations
26
26
19
7 Austria
Ungheria
41 32
16 3
14
Italia
41
34
39 36
35 37
30
25
6
6
Spagna
Svezia
Ue
Nessuna
Polonia
Danimarca
IL MURO PORTANTE
Grafico 6 - DA QUALE PARTE IL SUO PAESE DOVREBBE STARE IN CASO DI CONFLITTO FRA USA E RUSSIA? 64
59
53
(in %)
63
65
62
45 33
28 6
Polonia
23
Svezia
17
17
4
6
7
5
Danimarca
Repubblica Ceca
Paesi Bassi
Francia
Spagna
Romania 85
71
70
65
81 65
20
17 4
18 6
68
17
18 9
9 Italia
13
12 6
7
Ungheria
Germania
Slovacchia
Usa
Russia
Nessuna
6
5
7 Grecia
4
6 Austria
Fonte: European Council on Foreign Relations
7. Saremmo davvero miopi se ci illudessimo che tensioni tanto profonde possano risparmiare il nostro paese. Per restare all’area ex asburgica, parrebbe necessario uno sguardo meno distratto all’Alto Adige, dove persino la Südtiroler Volkspartei, partito dello status quo se mai ne esiste uno, ammicca ai separatisti tirolesi su toponimi e coronimi, materia geopoliticamente incandescente. Mentre a Vienna si discetta di doppi passaporti da distribuire a richiedenti altoatesini neanche fossero carte da Monopoli, dossier trattato a Roma quasi da folklore. Riportandoci alla memoria la confessione di un prefetto di Bolzano il quale certifcava a Limes di considerarsi «amministratore provvisorio» di terre altrui. Né per caso abbiamo dedicato un’intera sezione di questo volume a Trieste, dopo che la sottomarina disputa sino-americana su questo strategico scalo mitteleuropeo, già terminale adriatico della vecchia cortina di ferro e attuale posta in gioco nelle partite fra superiori po-
35
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
Grafico 7 - DA QUALE PARTE IL SUO PASE DOVREBBE STARE IN CASO DI CONFLITTO TRA USA E CINA?
24
20
65
63
59
54
20
19
6
7
6
Polonia
Danimarca
Italia
Repubblica Ceca
70
15
15
73
67
13
64
18
6
17
5
6
5
Francia
Spagna
Romania 83
82 73
8
8
4
7
5
Svezia
Paesi Bassi
Ungheria
Germania
Slovacchia
Usa
Cina
Nessuna
6
64
63
17
73
10
(in %)
6
5 Grecia
4
6 Austria
Fonte: European Council on Foreign Relations
36
tenze, vi ha riesposto i limiti della nostra sovranità. E confermato il risveglio di correnti autonomiste che deraglieranno in indipendentismo («Trieste come Singapore») se l’Italia continuerà a snobbare, ricambiata, la città giuliana. Per ignoranza o per dolo. Ma soprattutto per paradossale assenza di una strategia marittima nazionale, su cui, proprio a partire da Trieste, intendiamo attirare l’attenzione pubblica, mirando a convocarvi l’autunno prossimo un evento aperto a tutte le componenti interessate, interlocutori esteri inclusi. Non ne caveremo però nulla se l’Italia continuerà a contemplarsi l’ombelico. Le correnti che agitano l’Europa e il mondo ci trascinano alla deriva, minacciando in prospettiva l’unità nazionale. Mentre la frattura nella continuità della classe politica e dirigente dopo il 1992 – morte e ibernazione della Prima Repubblica senza che ne sia mai nata un’altra – ci spinge a manovre inconsulte. Nulla di geopolitico nelle intenzioni: fare cassa. Molto nelle conseguenze, non solo econo-
IL MURO PORTANTE
4 - L’IMPERO DEL CENTRO NORVEGIA NELL’EUROPA DI MEZZO
FINLANDIA
★
★
★
★ ★
ESTONIA CINA
SVEZIA
RUSSIA
LETTONIA
DANIMARCA Mare del Nord
LITUANIA
Mar Baltico
RUSSIA BIELORUSSIA
Amburgo
P. BASSI
Paesi 17+1 del Ceec Paesi Ue Principali paesi in cui la Cina ha previsto investimenti Passaggio di frontiera
POLONIA GERMANIA
BEL.
REP. CECA
FRANCIA
UCRAINA
SLOVACCHIA
A OV
LD
MO
UNGHERIA
AUSTRIA
SVIZZERA
Budapest SLOV. ITALIA
Timişoara
CROAZIA BOSNIAERZEGOVINA
Belgrado
Boljare
Bar Bari
SERBIA
BULGARIA
KOS.
MONT. CHINA-EUROPE LAND-SEA EXPRESS LINE Progetto infrastrutturale che collega il porto del Pireo con tutta l’Europa centrale
ROMANIA
M a r N e r o
Skopje
MAC.
Kicevo Ohrid
ALBANIA
BAR - BOLJARE Progetto per la costruzione di un’autostrada che colleghi il porto di Bar al confne verso la Serbia
GRECIA
TURCHIA
Corridoio Paneuropeo XI Progetto per il collegamento tra le città di: Bari - Bar - Belgrado - Timişoara
Atene
KICEVO - OHRID Progetto sospeso per la costruzione di un’autostrada
TUNISIAPunto di confuenza di 7 autostrade che collegano Budapest all’Europa
M a r
M e d i t e r r a n e o
(Porto del Pireo sotto il controllo della cinese Cosco) © Limes
37
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
miche. Lasciamo così che russi, cinesi e americani si convincano in parallelo che noi li si voglia giocare con operazioni opache o dilettantesche, degne della migliore commedia all’italiana. Per vedere tutti insieme l’effetto che fa. I nostri interlocutori, per opposte ragioni, non ne sono divertiti. E ci fanno pagar dazio. Sopra e sotto il tavolo. Purtroppo quasi mai siamo in malafede. Anche se ai professionisti altrui, controvoglia assegnati a trattare con noi, pare incredibile. Il nostro primo impulso è sinceramente ecumenico e strettamente economico, condito da opportunismi minimi ai nostri occhi, miserabili agli altrui. Ci illudiamo di guadagnarne universale apprezzamento. Ma perché Stati che si rispettano dovrebbero degnare di attenzione chi, non rispettandosi, per qualche euro in più amerebbe stare con tutti? Salvo scoprire, tardi, di non stare con nessuno. Tantomeno con sé stesso.
38
IL MURO PORTANTE
CONFLITTI E CRISI NELLO SPAZIO EUROPEO DOPO IL 1989 PERIODO
GUERRE, SCHERMAGLIE E CRISI
CONTESTO
1990-91
Attacchi sovietici ai posti di frontiera lituani
Schermaglie di confne fra le truppe sovietiche e le guardie di Vilnius
11-13 gennaio 1991
“Eventi di gennaio”
Breve invasione sovietica della Lituania dopo l’indipendenza
13-27 gennaio 1991
“Le barricate”
Scontri a Riga fra le truppe sovietiche e gli indipendentisti lettoni
27 giugno-7 luglio 1991
“Guerra d’indipendenza della Slovenia”
Confitto fra l’Armata popolare jugoslava e le Forze di difesa territoriale slovene (di fatto propaganda slovena)
1991-92
Prima guerra in Ossezia del Sud
Confitto fra l’esercito georgiano e le milizie sud-ossete, supportate da unità russe
1991-93
Guerra civile in Georgia
Serie di confitti interni alla Repubblica georgiana e putsch militare contro il primo presidente eletto
1991-95
Guerra d’indipendenza della Croazia
Confitto fra le truppe croate e l’Armata popolare jugoslava, poi serbo-montenegrina, appoggiata dalle milizie serbe
1992
Guerra di Transnistria
Confitto fra le forze moldave e romene e le truppe della Transnistria, appoggiate da reparti sovietici e poi russi
30 ottobre-6 novembre 1992
Guerra del Prigorodnyj Orientale
Confitto etnico fra ingusci e gruppi paramilitari osseti nella Repubblica russa dell’Ossezia del Nord-Alania
1992-93
Guerra in Abkhazia
Confitto fra truppe georgiane e forze separatiste abkhase
1992-95
Guerra in Bosnia-Erzegovina
Confitto fra i tre principali gruppi nazionali della ex Jugoslavia (serbi, croati e bosgnacchi), risolto nella creazione della Repubblica Federale di Bosnia ed Erzegovina
21 settembre-5 ottobre 1993
Crisi russa
Scontro istituzionale fra presidente e parlamento russi, culminato nello scioglimento del Soviet supremo mediante l’impiego della forza armata
1994-96
Prima guerra cecena
Confitto armato fra Russia e Cecenia, concluso con la nascita della Repubblica Cecena (Ičkeria)
1995-96
Crisi di Imia/Kardak
Crisi militare fra Grecia e Turchia per il controllo di due isole disabitate nel Dodecaneso
1997-98
Crisi dei missili di Cipro
Confronto Ankara-Nicosia innescato dal progetto cipriota di acquisire avanzati sistemi antiaerei russi S-300
39
MOLTO MEGLIO DELLA GUERRA
40
PERIODO
GUERRE, SCHERMAGLIE E CRISI
CONTESTO
1997
Guerra civile albanese
Serie di disordini e rivolte popolari dovute al collasso socioeconomico del paese dopo la fne del regime comunista
1999
Guerra del Kosovo
Intervento Nato contro la Serbia per porre fne alla repressione serba dei kosovari albanesi
20-26 maggio 1998
Guerra dei sei giorni dell’Abkhazia
Confronto fra le forze paramilitari georgiane e abkhase
1998
Guerra del Daghestan
Invasione della repubblica russa da parte di milizie islamiste e reazione militare di Mosca
1999-2000
Seconda guerra cecena
Campagna militare russa per riconquistare i territori occupati dai separatisti ceceni
1999-2001
Confitto della valle di Preševo
Confitto armato fra le truppe federali serbo-montenegrine e le milizie separatiste d’etnia albanese dell’Uçpmb
4-8 ottobre 2001
Crisi della gola di Kodori
Violenti scontri armati tra le forze abkhase e le milizie georgiane
2001
Confitto nella Repubblica di Macedonia
Confronto armato fra le forze di sicurezza di Skopje e l’Uçk macedone
2004-13
Disordini in Kosovo
Scontri armati fra serbi e albanesi nella ex provincia jugoslava e fra serbi e forze kosovare (dopo il 2008)
2007-15
Guerra in Inguscezia
Scontri armati fra le forze federali russe e ingusce e le milizie separatiste
7-12 agosto 2008
Guerra russo-georgiana (Seconda guerra in Ossezia del Sud)
Confitto fra Georgia e Russia, intervenuta a sostegno delle forze ossetine e abkhase
2014
Crisi della Crimea
Occupazione e annessione della penisola da parte della Russia
2014-in corso
Guerra del Donbas
Confitto armato fra il governo ucraino e le forze separatiste attive nel Donbas con il sostegno russo
1-5 aprile 2016
Scontri nel Nagorno-Karabakh
Confronto militare fra le forze armate azere e l’Esercito di difesa dell’Artsakh, sostenuto da truppe armene
IL MURO PORTANTE
Parte I QUANDO le EUROPE DIVISE ERANO bi-UNITE
IL MURO PORTANTE
MA QUALE CIA! A DEMOLIRE MURO E URSS CI PENSÒ GORBAČËV di Leonid N. Dobrokhotov Fu una marcia leadership sovietica a tradire l’avventura socialista a Mosca e nell’Europa dell’Est. Anche nell’interesse americano. Le nostalgie di oggi tra orgogli e disinganni di ieri. Il saccheggio della DDR e le rivelazioni di Baker. Muri occidentali crescono.
N
1. EL CORSO DELLA SETTANTAQUATTRESIMA sessione dell’Assemblea generale dell’Onu tenutasi lo scorso settembre, il presidente americano Donald Trump ha dichiarato che «lo spettro del socialismo (…) distruttore di Stati e annientatore delle società», resta «una tra le minacce più serie» con cui sono chiamati a confrontarsi gli Stati Uniti. Ha anche affermato che «l’importante per i regimi comunisti e socialisti non sono tanto la giustizia, l’eguaglianza, la lotta alla povertà o il bene del paese, quanto una cosa sola: la detenzione del potere da parte della classe dirigente». Trump aveva già criticato il socialismo in passato, ma questa volta dal pulpito delle Nazioni Unite ha proclamato solennemente: «Oggi ripeto al mondo intero lo stesso messaggio che ho rivolto ai cittadini americani. L’America non sarà mai un paese socialista!». Perché il leader statunitense si preoccupa ora di un tema che parrebbe dimenticato da politici, studiosi e giornalisti occidentali? A chi sono rivolte tali affermazioni? All’inizio degli anni Novanta lavoravo come diplomatico russo negli Usa e ricordo bene come Washington assistette allora al funerale del nostro paese. Con gioia, musica e danze si festeggiava sulla tomba del «comunismo globale» e, in primo luogo, sulla tomba dell’Unione Sovietica, unica superpotenza che poteva competere con gli Stati Uniti a livello militare ed economico e per infuenza sul piano globale. Dopotutto, per gli americani «Urss» e «comunismo» volevano dire la stessa cosa. Più precisamente, non Urss ma Russia. Così in America hanno chiamato il mio paese dal 1922 (anno di formazione dell’Unione Sovietica) al 1991. La lotta contro l’Urss al fne di annientarla era allora, in fondo, una lotta contro la Russia – cosa che a molti si è fatta evidente solo oggi. A prima vista, con il collasso sovietico tutto era destinato a cambiare. Nel giugno del 1992 ero presente alla seduta comune delle Camere del Congresso ameri-
43
MA QUALE CIA! A DEMOLIRE MURO E URSS CI PENSÒ GORBAČËV
cano, durante la quale il nuovo leader russo Boris El’cin condannò pubblicamente il passato sovietico del suo paese, affermando che «l’idolo comunista, che seminò ovunque sulla terra discordia sociale, ostilità e atrocità senza eguali, che diffuse il terrore nella comunità umana, è crollato. Crollato per sempre. E io sono qui per assicurarvelo: sulla nostra terra non gli permetteremo di risorgere!». El’cin affermò in quella sede che «il comunismo non ha un proflo umano» e che «la libertà e il comunismo non sono compatibili». Dal pulpito del Congresso i decenni di potere sovietico furono defniti un «incubo durato settantacinque anni» dall’ex candidato membro del Politbjuro, che espresse «gratitudine sincera e riconoscenza al presidente George Bush e al popolo americano per l’inestimabile sostegno morale» offerto ai russi, i quali grazie a questo aiuto «si sono scrollati di dosso la polvere velenosa del passato». Oggi, era convinto El’cin, «la libertà dell’America si difende in Russia» e il suo discorso si concluse con l’invocazione «Dio benedica l’America» 1. I membri del Congresso e i senatori interruppero sedici volte il leader russo con applausi e ovazioni. Alcuni di loro, notai, avevano gli occhi lucidi per la gioia e la commozione. 2. Richiamato alla memoria questo discorso di El’cin, ho cercato alcuni dati in rete. Secondo un sondaggio del centro liberale russo Levada, nel 2019 il 70% dei cittadini del mio paese considera positivamente Stalin 2, e una netta maggioranza giudica migliore l’Urss degli anni Settanta e Ottanta rispetto alla Russia odierna, giudicando il potere sovietico di allora giusto e vicino al popolo 3. D’altro canto, stando a dati pubblicati dallo stesso centro Levada, il 75% degli intervistati giudica negativamente El’cin e oltre il 90% guarda allo stesso modo alla sua epoca (gli anni Novanta) 4. Ho dato un’occhiata anche al rapporto odierno degli americani con il socialismo. Secondo sondaggi statunitensi, il 47% degli intervistati è pronto a votare un socialista come prossimo presidente Usa 5. Inoltre, secondo ricerche di YouGov promosse dal Fondo per la memoria delle vittime del comunismo (!), tra i giovani millennials (nati negli anni Ottanta e Novanta) il 44% preferirebbe vivere in un paese socialista 6. Da qui provengono le sentenze di Trump e le sue affermazioni relative al fatto che l’America non vivrà mai nel socialismo. L’élite politica americana ha tutti i motivi di preoccuparsi, così come fece tra la fne degli anni Quaranta e l’i-
44
1. B.N. El’cin, Vystuplenie v Kongresse SŠA (17.06.1992) (Discorso al Congresso Usa), mediamera.ru/ post/25615. 2. K. PiPija, Dinamika otnošenija k Stalinu (Dinamica del rapporto verso Stalin), 2019, bit.ly/32xedty 3. Levada-Centr: rossijane do sich por predpo0itajut sovetskuju vlast’ nynešnej (Centro Levada: i russi oggi preferiscono il potere sovietico a quello attuale), 2019, bit.ly/2pxWNOw 4. E. MuchaMEtšina, Otnošenie rossijan v Borisu El’cinu ostaetsja negativnym (Il rapporto dei russi verso Boris El’cin resta negativo), 2016, bit.ly/2MoFuIM 5. Opros: 47 procentov amerikancev gotovy progolosovat’ za socialista (Sondaggio: il 47 per cento degli americani è pronto a votare un socialista), 2019, bit.ly/2Bj5oHI 6. Po0emu molodež’ SŠA vybiraet socializm (Perché i giovani americani scelgono il socialismo), 2017, news.rambler.ru/usa/38337876-pochemu-molodezh-ssha-vybiraet-sotsializm
IL MURO PORTANTE
nizio degli anni Cinquanta. Il grande Albert Einstein allora aveva scritto l’articolo Perché il socialismo?, nel quale dimostrava i vantaggi di questo sistema. Come ricordava nelle sue memorie il padre e teorico della guerra fredda, l’ex ambasciatore Usa a Mosca George Kennan: quando in California tenne delle lezioni sul pericolo sovietico ai fsici americani che lavoravano alla bomba atomica, osservò che molti di loro non celavano simpatie per il socialismo e l’Urss 7. Allo stesso tempo i partiti comunisti in Italia, Francia e molti altri Stati dell’Europa occidentale contavano milioni di tesserati, incluso il pittore Pablo Picasso e molti altri eminenti intellettuali. Partendo da queste considerazioni di carattere storico, ricordo bene la concertata ammirazione in Occidente e nell’Unione Sovietica gorbacioviana nel 1989 alla vista dell’abbattimento del Muro di Berlino. Agli occhi degli oppositori del socialismo, inteso come sistema globale e ideologia, il fatto stesso dell’abbattimento appariva come un’eccezionale vittoria delle «forze del bene» (l’Occidente) sull’«impero del male». Distrutto, il Muro veniva venduto a pezzi dagli ambulanti di strada per marchi e dollari quale reliquia storica. 3. È il caso di osservare che, sebbene il principale oggetto di demonizzazione da parte della propaganda occidentale durante gli anni di questa prima guerra fredda fosse l’Unione Sovietica (oggi stiamo invece attraversando una ben più spietata guerra fredda 2.0), un simile trattamento ricevevano i nostri alleati socialisti dell’Europa orientale e centrale, in primo luogo la Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Il mio lettore occidentale sa bene cosa e come si diceva, scriveva e mostrava al riguardo in quegli anni. Non lo ripeterò. Tuttavia, voglio parlare del modo in cui la gente considerava il nostro paese e il mondo socialista in Europa. Per la verità, è il caso di riconoscere che con il tempo l’idea astratta del comunismo nella nostra coscienza si è sbiadita (e ciò è il risultato non tanto del collasso del socialismo, quanto della diffusione di un modello concreto di realtà sovietica che alla fne degli anni Ottanta si era già arrugginito). Al tempo stesso, tuttavia, la maggioranza assoluta di noi russi è rimasta sovietica nelle sue convinzioni. In Unione Sovietica marcì il vertice dello Stato, il partito, mentre la maggior parte dei cittadini comuni ha ostinatamente continuato a credere negli ideali socialisti (in quella stessa giustizia sociale) e a vantarsi delle proprie conquiste storiche. Da qui proviene l’attuale nostalgia sovietica, nonché il rinnovato, e talvolta negli ultimi tempi accresciuto, prestigio della fgura di Stalin. Questa fede era allora rinsaldata dai successi dei paesi socialisti in Europa. Allora ci si recava di rado nella povera Romania e mai si metteva piede nella bizzarra Corea del Nord, mentre milioni di miei concittadini (sia come turisti, sia su invito privato, che per viaggi di lavoro) visitavano la DDR, l’Ungheria e la Cecoslovacchia: si trattava di paesi che colpivano la nostra immaginazione con il loro livel7. G.F. KEnnan, Memoirs 1950-1963, New York, Pantheon Books, 1972, p.199.
45
MA QUALE CIA! A DEMOLIRE MURO E URSS CI PENSÒ GORBAČËV
46
lo di vita incomparabilmente più alto del nostro, con la loro cultura del quotidiano e gli scaffali dei negozi ricolmi di prodotti di prima scelta. Il ragionamento automatico era questo: signifcava che il socialismo, conservando tutti i suoi vantaggi sociali, ancor più evidenti in questi paesi che nell’Urss (sanità e istruzione gratuite e di qualità, abitazione gratuita del tutto o quasi, ingenti esenzioni fscali per anziani e giovani), era in grado di garantire allo stesso tempo uno stipendio più alto del nostro e prodotti e servizi incomparabilmente migliori. Solo da voi, in Occidente, il collasso del socialismo in Europa si è percepito come «liberazione dal totalitarismo». Da noi questo crollo (rifesso materialmente nell’abbattimento del Muro di Berlino) è stato compreso dalla maggior parte dei cittadini non toccati dalla propaganda di Voice of America o dai media profondamente antisovietici della perestrojka gorbaciovana o come un capriccio o come un’azione a noi apertamente ostile, sovversiva. Ricordo che per volere di Gorba0ëv i nostri soldati furono ritirati dalla DDR, dalla Polonia, dall’Ungheria e dalla Cecoslovacchia senza che fossero destinati loro né una nuova casa né un lavoro, mentre milioni di soldati Nato non solo sono rimasti nelle loro basi dell’Europa occidentale, ma sono avanzati profondamente verso est, avvicinandosi ai confni dell’odierna Russia. Ci tengo a ricordare che i paesi socialisti in Europa, incluso il più forido di essi, ovvero la DDR, non sono capitolati affatto da soli, inaspettatamente, senza guerre né epidemie. Così come l’Urss, essi furono distrutti dai leader moscoviti della perestrojka, da Gorba0ëv, da Jakovlev, da Ševardnadze e colleghi, i quali prima hanno soffocato il patto di Varsavia, quindi il Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica) e poi hanno tradito i partiti al governo e i leader dei paesi socialisti, di fatto Stati e popoli nostri fratelli, per poi fare lo stesso con l’Unione Sovietica. A distanza di decenni da quelle vicende molti di noi si illudono, dando credito a leggende secondo cui a distruggerci allora fu l’onnipotente Cia. Ma la verità è un’altra. A prescindere dagli sforzi dell’agenzia americana (e ce ne sono stati) e dai miliardi di dollari spesi da Washington e dalla Nato per eliminare l’Urss, lo harakiri dello Stato fu organizzato dagli stessi suoi dirigenti, che agivano negli interessi della mafa fnanziaria, degli speculatori criminali e dell’intelligencija liberale. Non nutro dubbi sul fatto che essi allo stesso tempo cercassero di agire in modo da venire incontro anche agli interessi americani e della Nato. È possibile che questi uomini «nuovi» ci fossero anche nei paesi socialisti europei. Tuttavia, sono convinto che, forse a esclusione di Ceauşescu in Romania, i leader dei paesi socialisti in Europa fossero onesti comunisti e uomini in gamba, consacrati al socialismo e all’Urss. Furono traditi in maniera meschina dai nostri dirigenti del tempo. Una conseguenza di ciò fu, ad esempio, l’arresto di Erich Honecker, il temprato antifascista ex leader della DDR, all’epoca malato cronico, che si ritrovò in quella stessa prigione di Moabit a Berlino dove era stato tempo addietro incarcerato dai nazisti. Ricordo al riguardo una mia conversazione avvenuta negli anni Novanta negli Stati Uniti con l’allora ex segretario di Stato Usa James Baker. A un ricevimento ci
IL MURO PORTANTE
ritrovammo allo stesso tavolo. Dopo essermi presentato, condivisi con lui un ricordo: nel 1989 ero a Malta con un gruppo di giornalisti sovietici che seguivano il memorabile incontro tra Mikhail Gorba0ëv e George Bush. A dir la verità, allora noi sedevamo sulla riva mentre l’azione principale si svolgeva, nel bel mezzo di una terribile bufera (si agitava allora anche la natura!), a bordo del battello sovietico Maksim Gor’kij, dove erano riuniti i due presidenti con il loro entourage. Cosa successe allora? Chiesi a Baker. La risposta mi stupì per la sua sincerità. All’inizio dell’incontro, mi raccontò, Gorba0ëv annunciò solennemente che il governo sovietico «nello spirito del nuovo pensiero politico» aveva deciso di sciogliere il Patto di Varsavia e ritirare tutte le truppe sovietiche dall’Europa orientale. Colpiti da questa dichiarazione, continuò Baker, io e Bush chiedemmo se quindi da parte nostra avremmo dovuto sciogliere la Nato e ritirare dall’Europa le truppe americane. No, risposero i russi. Questa è una nostra decisione unilaterale. Voi agite come ritenete. Quanto ci viene a costare questo in dollari? Chiedemmo. Nulla, risposero gli interlocutori. Ma ciò non signifca forse che voi perderete i vostri alleati? È possibile, ma tutto ciò che verrà sarà affare diretto dei popoli di questi paesi. Dopo questo incontro, mi convinsi che fosse stato tutto solo un sogno, mi disse allora Baker. Soltanto le successive azioni del Cremlino mi assicurarono che era avvenuto tutto per davvero. 4. Per quanto concerne la «liberazione» dei popoli dell’Europa orientale e centrale, certamente, allora in molti furono catturati dall’euforia della libertà foraggiata dalla propaganda e dalla voglia di una vita migliore; la gente si riversò in Occidente a frotte, così come avevano fatto i cittadini di Berlino Est e della DDR dopo l’abbattimento del Muro. L’Occidente grazie a questa propaganda e alle illusioni veniva visto da molti come il paese della cuccagna. La realtà per la maggior parte si rivelò però diversa. Stando a sondaggi occidentali, a distanza di settant’anni dalla fondazione della DDR il 7 ottobre 1949 e a trent’anni dalla sua dissoluzione, gli abitanti dell’ex Repubblica Democratica Tedesca hanno nostalgia per questo Stato che oggi non c’è più. Per tali sentimenti è persino comparso un termine apposito, Ostalgie (da Ost, est in tedesco) 8. Non mi è diffcile comprenderli. La prima volta andai in DDR da ragazzo nel 1969; ero tra i capi del «treno dell’amicizia» che era composto di scolari sovietici. Sia il distretto di Cottbus che la capitale Berlino mi rimasero impressi per la cura, l’ordine e l’alto tenore di vita. Mi colpì la visita al museo che era stato istituito oltre la porta di Brandeburgo, dove una mostra raccontava delle innumerevoli provocazioni occidentali ai danni delle guardie di frontiera della DDR; tra queste vi erano anche tentati adescamenti tramite giornali pornografci. In seguito tornai più volte 8. A. Michajlova, Strana, kotoroj net: po0emu nemcy Vosto0noj Germanii nostal’girujut po GDR (Il paese che non c’è: perché i tedeschi della Germania dell’Est hanno nostalgia della DDR), 2017, bit. ly/2MXuNMC
47
MA QUALE CIA! A DEMOLIRE MURO E URSS CI PENSÒ GORBAČËV
in questo Stato, anche su invito privato da parte di amici tedeschi. L’impressione positiva dopo questi viaggi si rinsaldava. Per questo comprendevo benissimo come potevano sentirsi dopo i fatti del 1989 i cittadini della DDR fedeli al proprio paese, al socialismo e all’Urss. Per molti la fne della vita di prima e la necessità di adattarsi all’ordine, all’ambiente e all’ideologia nuovi si rivelarono una prova insuperabile. Nel suo libro Ostalgie. Zu ostdeutschen Erfahrungen und Reaktionen nach dem Umbruch (Ostalgie. Sulle esperienze e sulle reazioni dei tedeschi dell’Est dopo la svolta) Thomas Ahbe, uno di quei tedeschi, ricorda come i sogni di una vita migliore nella Bundesrepublik furono presto sostituiti dalla delusione e dalla mancanza della stabilità del passato. «Il periodo di transizione fu piuttosto duro e doloroso», scrive. «Un lavoratore su due della Germania dell’Est (il 50% della forza lavoro del paese) perse il posto. E, cosa più importante, i tedeschi dell’Est nella Germania unifcata si ritrovarono non rappresentati nella società, governati dall’élite della Germania dell’Ovest». Un altro tedesco dell’Est, Michael Maien, descrive in un suo libro quale sofferenza più dolorosa l’atteggiamento di suffcienza dei tedeschi dell’Ovest nei suoi confronti. Capisco bene questi sentimenti. Nel corso della mia vita sovietica ho incontrato sia eminenti cittadini della DDR – noti scienziati, membri del settore produttivo, intellettuali – che tedeschi comuni. Avevano tutti i diritti di andare orgogliosi di sé e del proprio paese. E improvvisamente in un sol momento, fondendosi con la Bundesrepublik, si trovavano ridotti allo status di paria. È curioso notare che tale offesa storica è divenuta parte della visione del mondo e degli umori anche dei giovani tedeschi dell’Est, che non hanno vissuto la DDR. Stando a sondaggi condotti negli ultimi anni, circa il 40% degli Ossis (tedeschi dell’Est n.d.r.) ritiene che la patria dei genitori fosse uno Stato più giusto e democratico della Bundesrepublik 9. Il 7 ottobre scorso, nella Germania orientale diverse migliaia di persone hanno brindato a un paese che non esiste più, ma che riscuote sempre più interesse. Ancora nel 2009, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, secondo i sondaggi un abitante dell’Est su quattro affermava che nella DDR si viveva meglio. Si può ben comprendere. Negli anni Ottanta il loro paese era una rigogliosa vetrina del socialismo, il sesto produttore industriale in Europa e ai primi posti al mondo nel settore della metalmeccanica, dell’elettrotecnica e dell’elettronica, dell’ottica e della strumentazione. Il sistema scolastico e della ricerca della DDR serviva da modello per molti paesi al mondo. E non parlerò qui dei successi fenomenali nello sport. Tutto ciò è rimasto nel passato. Le imprese, orgoglio del paese, furono distrutte: agli imprenditori della Germania dell’Ovest non servivano concorrenti. La loro chiusura in massa generò nell’Est un’enorme disoccupazione, sconosciuta nel periodo socialista, che colpiva anche i lavoratori altamente specializzati 10.
48
9. Ibidem. 10. A. Sidor0ik, «Gordost’ Ossi: po0emu GDR živet v umach vosto0nych nemcev» («L’orgoglio degli Ossi: perché la DDR vive nella memoria dei tedeschi dell’Est»ı), Aif.ru, 7/10/2019, bit.ly/33HeDxk
IL MURO PORTANTE
L’Occidente si presentò nell’Est del paese come padrone, se non invasore. Come afferma l’ultimo leader della DDR Egon Krenz, incarcerato nella Bundesrepublik per la propria attività politica, quasi tutti gli scienziati e ricercatori che nella DDR insegnavano nelle università e nelle accademie furono licenziati e sostituiti da colleghi occidentali di seconda o terza categoria. Nell’ateneo di Lipsia, ad esempio, dove insegnava Angela Merkel, furono congedati in settemila su dodicimila. Con i tedeschi dell’Est ci si comportava come con i vinti 11. 5. I dirigenti e i cittadini della DDR non furono però le uniche vittime delle vicende dell’autunno 1989. Allora furono di conseguenza destituiti i governi socialisti, alleati sovietici, di Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania. Si dicono felici i popoli «liberati» in questo modo dal «comunismo»? I loro paesi furono neoliberalizzati e, a esclusione di piccole élite floccidentali, la popolazione si impoverì drasticamente. Quasi tutti (eccetto forse la Polonia) esperirono una lunga crisi economica. La fede iniziale nella democrazia occidentale e nel capitalismo è sfumata, mentre la nostalgia in ampia espansione per i «bei vecchi tempi» del socialismo non perde colpi. Già dieci anni fa l’agenzia Reuters col reportage «Nell’Europa dell’Est cresce la nostalgia del socialismo» rilevava che il consenso attorno al modello occidentale di democrazia e capitalismo attraversava una profonda crisi. Da allora la situazione nella maggior parte di questi paesi non è di molto cambiata. Tornando al 1989, occorre riconoscere che quella fu una pagina nera per la storia russa (peggiore fu solo il 1991). Allora tradimmo gli alleati a noi consacrati che costruivano il socialismo. Nel 1991 tradimmo noi stessi. Di cosa sto parlando? I dati dei referendum e dei sondaggi mostrano che, prima di quel periodo buio, sia la popolazione della maggior parte delle repubbliche sovietiche che quella dell’Europa orientale in maggioranza assoluta non pensava affatto ad abbandonare il socialismo e tornare al capitalismo. In conclusione dirò ancora qualcosa sul Muro. Ricordiamo il famoso discorso retorico di Ronald Reagan pronunciato davanti alla porta di Brandeburgo nel giugno del 1987: «Signor Gorba0ëv, apra questa porta! Signor Gorba0ëv, butti giù questo Muro!». Ricordiamo ancora una volta il trionfalismo occidentale nel 1989. E invece ora pensiamo al fervente ammiratore di Reagan, al presidente Trump, che sta erigendo un muro tra Usa e Messico. Pensiamo al premier israeliano Netanyahu, che ha eretto un muro al confne con la Palestina. Pensiamo al muro che il leader ucraino Jacenjuk aveva iniziato a costruire sul confne con la Russia. Pensiamo alle innumerevoli recinzioni con cui i paesi europei si vogliono isolare dai migranti e l’uno dall’altro… Pensiamoci e confrontiamo il prezzo della propaganda in rapporto alla realtà del mondo in cui viviamo. (traduzione di Martina Napolitano) 11. Nemcy razo0arovany ne tol’ko Merkel’, no i itogami ob’edinenija Germanii (I tedeschi sono delusi non solo da Merkel, ma anche dagli esiti della riunifcazione tedesca), 2018, new.rambler.ru
49
IL MURO PORTANTE
MARX SCONFITTO DALLA GEOPOLITICA
di George Friedman
Trent’anni fa, con il Muro cadeva il mito illuminista di una teoria della storia che la pratica del potere aveva volto in distopia. Le contraddizioni del marxismo. La natura imperiale dell’Urss. Gli Usa vinsero perché avevano tempo e seppero usarlo.
T
1. RENT’ANNI FA, UNA FOLLA ANIMATA DA UN misto di gioia e rabbia abbatté il Muro di Berlino. C’era gioia per la fne della divisione della Germania e della tirannia. C’era rabbia per i decenni passati nella paura: dell’oppressione comunista e della guerra, la cui minaccia aveva gravato sull’Europa e sulla Germania sin dal 1945. Un timore era morale e ideologico, l’altro era pratico e geopolitico. Come in tutti i momenti politici chiave, paura e rabbia, ideologia e geopolitica si erano fuse in un mix esplosivo. Trent’anni dopo, diamo per scontate la bancarotta morale del comunismo sovietico e la sua debolezza geopolitica. È diffcile oggi ricordare quanto fosse seducente il marxismo e quanto timore infondesse la forza dell’Urss. Per la mia generazione, nelle migliori università il marxismo non era una forma esotica di dispotismo orientale, bensì una spiegazione persuasiva di come funzionava il mondo e un imperativo morale cui si votavano innumerevoli studenti. La stragrande maggioranza dei marxisti in quella che era defnita la Nuova sinistra adottò tale dottrina come una moda, più che come una passione; una piccola parte della Nuova sinistra, specie in Europa e sostenuta dall’intelligence sovietica, passò all’azione e corse dei rischi, uccidendo, ferendo, rapendo e piazzando ordigni a scopi politici. I secondi avevano coraggio, i primi erano superfciali e cinici. Non c’è dubbio che i cinici fossero i più commendevoli. Tuttavia, ideologicamente il marxismo – nelle sue molteplici varianti – aveva un potere persuasivo che è diffcile da rievocare fnanche per quanti di noi l’hanno vissuto direttamente. La sua attrattiva doveva poco alla democrazia industriale, sebbene inni e slogan operai fossero scanditi regolarmente. Più che del proletariato, tale fascino si nutriva di una rivolta contro la percepita unidimensionalità della ricchezza. Non mi è mai stato pienamente chiaro cosa avessero i marxisti contro la ricchezza, in quanto al tempo ero relativamente povero, ma il ri-
51
52
©Limes
Polonia e Romania, paesi chiave per il contenimento della Russia
Entro il 2020 il contingente 1.500 Usa aumenterà di 1.500 unità per meglio controllare la Germania
Kerneuropa
Tentativo di indebolimento dell’Unione Europea perché considerata parte della sfera d’infuenza tedesca
USA
CANADA
SPAGNA
Possibile realizzazione della base statunitense “Fort Trump” Paesi che hanno frmato un Mou con la Cina (+ Cipro) Paesi Nato
Alleati indispensabili degli Usa Possibile teatro del futuro scontro tra Stati Uniti e Russia
PORTOGALLO
Oceano Atlantico FRANCIA (Alleato sentimentale) Nord Italia
POLONIA
RUSSIA
BULGARIA
TURCHIA
Mar Nero
UCRAINA (Territorio conteso tra Stati Uniti e Russia)
BIELORUSSIA
ROMANIA
GRECIA
ALB.
Mar Mediterraneo
MALTA
MONT.
UNGH. SLOV. CROAZIA
AUSTRIA
LIT.
LETT.
EST.
FINLAN.
REP. CECA SLOVACCHIA
SVEZIA
ITALIA
GERMANIA
1.500
DANIM.
SVIZZ.
PAESI BASSI REGNO UNITO BELGIO LUSS. (Principale alleato militare)
NORVEGIA
EUROPA COME PARTE DELL’IMPERO STATUNITENSE
NUOVA ZELANDA
STATI UNITI REGNO UNITO CANADA AUSTRALIA NUOVA ZELANDA Five eyes, principale organizzazione spionistica del mondo
AUSTRALIA
MARX SCONFITTO DALLA GEOPOLITICA
IL MURO PORTANTE
futo della capitolazione alla vita ordinaria da parte della generazione precedente era intenso. Il marxismo era divenuto l’ideologia dei giovani, che ne celebravano la superiorità morale. Questo fatto non va sminuito. I giovani avevano capeggiato le rivoluzioni europee sin dal 1789 e lo avevano sempre fatto animati da un forte senso di superiorità morale. La passione del giovane Karl Marx, che scriveva tra i clamori del 1848, portò direttamente a Lenin e poi a Stalin. I giovani convinti di essere nel giusto lasciano il segno: chi frequentava le grandi università europee e americane nei decenni precedenti il collasso dell’Urss non poteva ignorarlo. L’acrimonia verso gli ultratrentenni (al tempo considerati vecchi) era una spinta più forte della lotta di classe. Del resto, che i giovani si sentano superiori ai vecchi è un tratto costitutivo dell’illuminismo: crediamo nel progresso e i giovani hanno più futuro degli anziani. Guardando le immagini del Muro che viene giù, salta agli occhi come fossero i giovani a ribellarsi. Non ero a Berlino in quei giorni, ma ci ero stato prima e Berlino era una dinamo del marxismo. Sono moralmente e statisticamente certo che gran parte di quanti ballavano sopra e intorno al Muro fossero marxisti. Quando il Muro crollò, con esso venne giù il marxismo. La cosiddetta Nuova sinistra credeva che il sovietismo fosse un tradimento del comunismo; ma siccome i marxisti sostenevano il determinismo storico, non sono mai riuscito a capire come in un’ottica marxista il marxismo possa aver fallito. In fn dei conti, però, i marxisti della mia generazione avevano più a che fare con il fatto che i loro genitori, plasmati dalla grande depressione e dalla seconda guerra mondiale, si accontentavano di una casa e un’auto, un matrimonio e dei risparmi. I giovani aspirano sempre a qualcosa di più che vivere, anche se poi crescendo si ridimensionano. Il destino del marxismo in Europa e negli Stati Uniti differì molto da quello del marxismo in Unione Sovietica e nell’Europa orientale. Nell’Urss il marxismo morì con Stalin, che insieme a Mao fu l’ultimo grande comunista, in quanto non si limitava a credere ma agiva di conseguenza. Al cuore del comunismo c’era la lotta di classe, la quale non fnì quando il partito vinse. Popolo e partito andavano epurati, plasmati e forgiati in qualcosa di inedito. Era un processo doloroso e Stalin era pronto a imporre tale agonia. Stalin è il miglior argomento che esista contro la sincerità: egli credeva sinceramente non solo nella possibilità di creare una nuova società, ma anche nelle azioni brutali necessarie a tal fne. Stalin uccise il comunismo. Aveva ragione nel ritenere che la creazione di una società nuova richiedesse coercizione; ciò che non capì, o cui forse era indifferente, era che una simile violenza fniva per faccare la società, corrompendola ancor prima che nascesse l’uomo nuovo. Nikita Khrüš0ëv provò a costruire uno Stato comunista senza lo stalinismo, ma quando Leonid Brežnev, Aleksej Kosygin e Nikolaj Podgornyi rovesciarono Khrüš0ëv nel 1964, era la rivoluzione degli esausti. Le loro vite erano costruite su un unico trionfo: essere sopravvissuti a Stalin. Il loro scopo era continuare a sopravvivere. Brežnev distrusse il comunismo cercando di mantenere il potere assoluto e di farci il meno possibile. Sprofondò nella debolez-
53
MARX SCONFITTO DALLA GEOPOLITICA
za e nella corruzione, al pari del suo regime. I pezzi dell’impero non si ribellarono; si limitarono a sfruttare il fatto che l’Urss fosse troppo corrotta e compiaciuta per mantenerli in riga. Più che una rivoluzione, fu una fuga in massa di galeotti da una cella lasciata aperta.
54
2. Il marxismo ha distrutto sé stesso perché ha preso il potere, e ciò alla lunga ne ha minato la credibilità. Se fosse rimasto una teoria inapplicata, oggi avrebbe più seguaci dei pochi che restano. Il marxismo è stato ripudiato come un’ideologia, anche se esso stesso ripudiava l’ideologia in nome del materialismo. Tale dottrina è stata il culmine dell’illuminismo: non solo perché predicava la forma più estrema di eguaglianza, ma anche perché era spietatamente logico, conseguenziale e onnicomprensivo. La sua visione non abbracciava solo politica ed economia, ma anche l’arte, il modo di crescere i fgli, l’agricoltura e lo sport. Aveva teorie su tutto e, con il potere dello Stato a disposizione, niente era fuori dalla sua portata. Da ultimo, il marxismo ha screditato l’illuminismo: era la reductio ad absurdum del pensiero razionale. Il marxismo ha frantumato l’illuminismo in una miriade di prismi, ognuno libero di incarnare le contraddizioni che il marxismo stesso non tollerava. Siamo gli eredi dell’incoerenza che ha lasciato. Ma il marxismo non solo ha fallito nel creare la società che predicava, è stato anche incapace di motivare la Nuova sinistra. Esso non è mai riuscito ad affrancarsi dalla realtà primordiale della condizione umana. Non parlo dell’egoismo e della corruzione, bensì della comunità come fondamento dell’esistenza umana, più importante dell’individuo e di certo più importante della classe. Dall’inizio alla fne, l’Unione Sovietica è stato un impero. Aveva il suo centro a Mosca e un apparato che controllava altri Stati vassalli e meno forti della Russia. Quell’impero poteva vantarsi con l’Occidente di forgiare l’uomo sovietico, ma in realtà il russo era russo, il kazako era kazako e l’armeno restava armeno. Stalin non ha mai annullato questa realtà, malgrado i suoi sforzi. E quando morì, l’aumento della debolezza e della corruzione dello Stato sovietico rese più evidenti e infuenti queste differenze nazionali. La dimensione imperiale dell’Urss, tuttavia, si estrinsecò soprattutto in politica estera. Quando prese il potere, Lenin strinse un patto con la Germania: terra in cambio di pace. Di fatto, Lenin giunse al potere come emissario tedesco, recapitato a San Pietroburgo in un treno sigillato e fnanziato al fne precipuo di rovesciare lo zar e fare la pace con la Germania secondo i termini di Berlino. Lenin si prestò per riuscire a prendere il potere, e quando la Germania fu sconftta recuperò le terre cedute, oltre al resto dell’impero, in una guerra civile in cui reclamò per sé l’impero di Pietro il Grande. A posteriori, la lotta di classe appare una mera premessa, se non un paravento. La realtà era ciò che lo stesso Marx chiamava dispotismo orientale, nel quadro di una capitolazione alla realtà geopolitica. Stalin spese poi gli anni Trenta a preparare la guerra con la Germania, epurando l’Esercito e affamando i contadini al fne di costruire acciaierie e, con esse, armamenti. Il fatto che abbia sbagliato i calcoli sull’inizio non cambia il fne: egli
IL MURO PORTANTE
condusse una guerra spietata per la madrepatria spingendo l’impero sovietico verso ovest, al centro della Germania e nei Carpazi. L’Urss si ancorò all’Europa centrale ingaggiando un confronto con gli Stati Uniti per gli ex imperi europei, resi contendibili dal collasso della potenza veterocontinentale. È somma ironia della storia che il maggior confitto imperiale di tutti i tempi sia stato combattuto dalle due potenze anti-imperiali per eccellenza, Stati Uniti e Unione Sovietica. 3. Oggi sappiamo che l’Urss non aveva futuro. Ma non era affatto così chiaro all’America mentre si impantanava in Corea e perdeva in Vietnam. Non lo era durante la crisi dei missili di Cuba o il blocco di Berlino. Non nel 1980, quando dopo la sconftta in Vietnam gli Stati Uniti si dibattevano nella crisi economica. L’Iran rivoluzionario aveva espulso l’America e i sovietici avevano invaso l’Afghanistan. In Jugoslavia Tito era morto e i sovietici rimestavano nel torbido. La società greca era in pezzi e Mosca fnanziava tutte le fazioni di un’incipiente guerra civile turca. La strategia americana del contenimento era solida in Europa e aveva guadagnato la Cina, ma appariva vulnerabile su una linea che andava dalla Jugoslavia all’Afghanistan. Sempre col senno di poi, possiamo affermare che al tempo l’Unione Sovietica avesse già perso la volontà di potenza. In ogni caso, non avrebbe potuto assumersi rischi nemmeno se l’avesse voluto. Nel 1980 poteva punzecchiare l’America e i suoi alleati, ma la prospettiva di un’offensiva a tutto tondo esisteva solo nella testa degli americani. Eppure, i sovietici continuavano a giocare il gioco della geopolitica. Circondati, cercavano aperture e non trovandole tentavano di spingere gli Stati Uniti a sovraesporsi in giro per il mondo. Erano ovunque. Ma in ultima analisi la loro economia era debole, i loro satrapi erano sfrenati e i loro leader volevano solo godersi le dacie e i piaceri. In parte perché avevano perso ogni fducia nel sistema, in parte perché sapevano di essere deboli. Marx sosteneva che la rivoluzione sarebbe avvenuta in un paese industrialmente avanzato, come la Germania. Invece giunse in un luogo e in condizioni che smentivano la teoria e dove costruire il comunismo era impossibile: l’entroterra euroasiatico, non la penisola europea; un paese impoverito, senza sbocchi ai mari caldi, con un sistema dei trasporti disastroso e una popolazione dispersa. La spinta imperiale verso ovest (Germania ed Europa orientale) regalò dunque ai sovietici una vasta regione che condivideva la povertà russa e che per di più andava occupata e difesa. La soluzione americana fu semplice: aspettare. Di fatto non vi erano alternative, dato che l’invasione di terra aveva già annientato Napoleone e Hitler. La geopolitica imponeva una strategia attendista ad ambo le parti e i sovietici avevano meno tempo dell’America e dei suoi alleati. Così il Muro cadde. I sogni più audaci dell’illuminismo erano stati infranti. I giovani marxisti di Berlino, confusi da una storia che non si conformava ai loro desideri contraddittori, trovarono lavoro alla Siemens e alla Deutsche Bank, o forse a Bruxelles. Gli americani cantarono una vittoria in qualche misura ragionevole, se la strategia del fare niente rientra fra le regole della geopolitica. E l’impero sovieti-
55
MARX SCONFITTO DALLA GEOPOLITICA
co si frantumò in pezzi che non possono essere ricomposti, malgrado un leader che si pensa forse Stalin, ma in realtà è più prossimo a Brežnev. La cosa più importante che avvenne quel giorno, e che non può essere dimenticata, è che la Germania si avviò alla riunifcazione. Dal 1871 in poi, una Germania unita ha posto un problema all’Europa. Troppo produttiva per competervi, troppo insicura per conviverci. Non è questione di ideologia, ma di geografa e di cultura. Messi al muro, i giovani tedeschi sostengono l’austerità in Europa, non accettando alcuna responsabilità per l’avventatezza degli altri europei. E perché dovrebbero? Il crollo del Muro di Berlino, trent’anni fa, pose fne a un’ideologia e a un impero. Non pose fne alla storia, anzi rinnovò il dilemma che travaglia l’Europa dal 1871. Cosa farà ora la Germania e cosa farà il mondo con essa? Questo interrogativo fastidioso si è fatto più pressante. In Europa, a volte la storia gioca brutti scherzi. Ma l’Europa è sempre una sorpresa, o almeno fa di tutto per esserlo.* (traduzione di Fabrizio Maronta)
56
* Questo articolo è apparso originariamente su Stratfor.
IL MURO PORTANTE
IL SENSO DI COLPA NON FA BENE ALLA BUNDESREPUBLIK
di Thorsten Hinz
La Germania post-hitleriana – Ovest prima, unita poi – ha un’identità costruita ‘per sottrazione’ sulla religione civile della colpa storica. Una nazione siffatta è insicura, propensa ai colpi di testa e inadatta al pensiero strategico. L’Ue ha un problema.
B
1. ENCHÉ SIANO PASSATI ORMAI TRE DECENNI dalla ricucitura tra le due Germanie, lo strappo nella rappresentazione tedesca di sé è diventato nel frattempo più profondo. Gli strascichi emergono a livello uffciale, come durante la celebrazione annuale della riunifcazione il 3 ottobre 2017. Allora il presidente Frank Walter Steinmeier esortò gli immigrati approdati in Germania a immergersi nella storia del paese che li ospitava, evidenziandone tre eventi salienti: le due guerre mondiali e l’Olocausto. Neppure immigrati profondamente motivati possono essere attratti dall’integrazione spirituale ed emotiva in un contesto fatto di lacrime, sangue e omicidi di massa. Ciò che di primo acchito parrebbe una retorica propria di Steinmeier, è in realtà la tipica narrazione sulla Germania. Quando leader politici, giornalisti, intellettuali ed ecclesiastici parlano del passato tedesco, essi generalmente non fanno riferimento ai mille anni intercorsi dalla dinastia ottoniana, bensì ai dodici anni di dittatura nazionalsocialista. I secoli precedenti sono relegati nella preistoria e ritenuti signifcativi per la contemporaneità solo laddove vi si possano leggere segni premonitori dell’ascesa di Hitler. Praticata e perfezionata per decenni, questa narrazione si è imposta alla coscienza collettiva e ormai vive di vita propria. Si parla quindi di crimine tedesco, mentre le deportazioni e le esecuzioni di massa sotto Stalin vengono giustamente defnite come crimini staliniani, ossia imputabili a un sistema di terrore e non alla nazione russa (o georgiana). Le scelleratezze naziste sono tramutate in una caratteristica ontologicamente tedesca. Utilizzate da Steinmeier stesso, le espressioni «colpa tedesca» o «responsabilità storica unica» sono entrate nell’uso corrente, gusci vuoti che vengono riempiti alla bisogna con emozione, enfasi morale, costernazione religiosa e temi dell’attualità politica per ricordare ai tedeschi che essi si sono macchiati di un peccato originale storico per cui si trovano sotto la costante pressione di una libertà condizionata.
57
IL SENSO DI COLPA NON FA BENE ALLA BUNDESREPUBLIK
Tale retorica venne introdotta ai massimi livelli dall’ex presidente Richard von Weizsäcker. Il discorso che tenne l’8 maggio 1985 di fronte al Bundestag in occasione del quarantesimo anniversario dalla fne del secondo confitto mondiale ha gettato le basi della cultura del ricordo. Con riferimento all’Olocausto, invitò a «erigere un monumento del pensiero e del sentimento nel nostro animo», conferendogli una dimensione sacrale con la citazione del mistico ebreo Ba’al Shem Tov: «Il ricordo è l’esperienza dell’agire di Dio nella storia. Esso è la fonte della fede nella salvezza». Weizsäcker proveniva da una famiglia di forte credo protestante e prima di entrare in politica era stato un funzionario di spicco nel movimento religioso dei laici. Nella dottrina luterana, l’uomo è scusabile agli occhi di Dio solo per mezzo della fede. Solo da quest’ultima hanno origine l’ispirazione e la forza per compiacere Dio. In un rapporto simile si collocano la «colpa tedesca» e la responsabilità: dal ricordo dei crimini nazisti nasce la consapevolezza di essere obbligati all’altruismo. Anche la politica diviene quindi luogo di un’azione dettata dalla fede, pur vestita con abiti secolari. La sua dimensione teologica si traduce in una rigida morale che domina il dibattito e bolla di immoralità la ricerca della potenza anche solo economica del paese e dei suoi effetti pratici. Essa trascina il mondo intero sotto la propria responsabilità. Il tentativo di oggettivare le conseguenze negative di un’immigrazione di massa dal Terzo mondo verso la Germania si scontra con l’accusa di nazismo, di «non aver imparato dalla storia». Poiché la colpa e la responsabilità non conoscono alcun «punto a capo» (sempre secondo Steinmeier), nessuna salvezza è possibile su questa terra. Il percorso sacro lungo i lati oscuri della storia nazionale conduce quindi in un vicolo cieco e, nel lungo termine, all’autodistruzione. Questa disposizione nevrotica ha origine principalmente dal trauma del Terzo Reich. La sua piena infuenza, tuttavia, si esprime in concomitanza con tradizioni più antiche e fattori esterni. Dall’eredità protestante deriva un’identità nazionale di debole costituzione. Lo Stato nazionale tedesco è di tarda fondazione, essendosi costituito nel 1871. L’impotenza di cui le precedenti entità soffrivano sul palcoscenico europeo veniva compensata dall’idealismo tedesco, i cui disegni flosofci ed estetici trascendono i fni terreni e sorreggono la credenza in una missione etico-culturale di spiccato valore spirituale. Nel poemetto del 1844 «Germania, una faba invernale», Heinrich Heine scrive: «A francesi e russi appartiene la terra./ Ai britannici appartengono i mari./ Ma noi nel regno aereo del sogno/ siamo senz’altro i sovrani».
58
2. Con la fondazione dell’impero tedesco nel 1871, nel cuore dell’Europa vide la luce un’enorme potenza geopolitica, economica e militare. Il suo demiurgo Otto von Bismarck – che aveva condotto tre guerre per l’unifcazione – ben conosceva la pericolosa posizione della sua creatura. Temendo «l’incubo delle coalizioni», portò avanti una politica difensiva. Dopo il ritiro di Bismarck nel 1890, il giovane Kaiser Guglielmo II divenne il rappresentante di un nazionalismo esasperato in cui la «nazione arrivata tardi» (Helmut Plessner) recuperava la coscienza di
IL MURO PORTANTE
sé. Benché fossero più indice di insicurezza che di bellicosità, le esternazioni del monarca – come il sociologo Max Weber registrò – resero i tedeschi tanto temuti quanto oggetto di dileggio all’estero. Allo scoppio della grande guerra nel 1914, la propaganda avversaria ritraeva la Germania popolata di unni aggressivi, militaristi e assetati di sangue. Con la sconftta e la fne della monarchia nel novembre 1918, un tracollo morale fece seguito alla breve fase di affato nazionalista, mostrando come la Germania non disponesse di alcuna risorsa, di alcun concetto riconducibile a una psicologia tedesca da cui partire per un’analisi razionale della catastrofe. Esimi intellettuali che avevano dapprima salutato la guerra come una missione patriottica assunsero il punto di vista dei vincitori e ne introiettarono i giudizi negativi alla stregua di dati di fatto. Ernst Bloch defnì la Germania «radicalmente cattiva, una nazione egoista e quanto mai assetata di potere». La colpa della guerra sarebbe una «qualità psichico-etica» e unico diritto dei tedeschi sarebbe «il pentimento e la presa di coscienza del proprio errore». La lotta intrapresa dall’Intesa, invece, sarebbe stata «un’azione di polizia» contro i «nemici dell’umanità». Tali opinioni suscitarono accese reazioni. Il confronto politico interno si rivelò tuttavia incomponibile e fu reciso nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler e tutto ciò che ne seguì. Nel 1945 marxisti, liberali, conservatori, addirittura nazisti conclamati furono concordi nel dichiarare che la seconda sconftta tedesca era stata totale e riguardava non solo gli ambiti militare e politico, ma anche la morale, lo spirito, la cultura. Simile giudizio traspare dai titoli di alcune delle pubblicazioni uscite poco dopo la guerra: L’aberrazione di una nazione (Der Irrweg einer Nation) di Alexander Abusch, La distruzione della ragione (Die Zerstörung der Vernunft) di György Lukács, La catastrofe tedesca (Die deutsche Katastrophe) di Friedrich Meinecke, La colpa esistenziale tedesca (Deutsche Daseinsverfehlung) di Ernst Niekisch, Congedo dal passato (Abschied von der bisherigen Geschichte) di Alfred Weber. Grande risonanza ebbe La questione della colpa (Die Schuldfrage) di Karl Jaspers. Rifutando una «colpa collettiva», il flosofo enuncia quattro tipi di colpa: criminale per i perpetratori concreti, politica per la popolazione, morale e metafsica per i singoli. Jaspers insiste che la colpa morale e metafsica riguarda un esame di coscienza individuale che non può fungere da pretesto per imputazioni collettive che trascurino possibili moventi egoistici. I tedeschi non potevano permettersi una contrizione da clausura monastica. I vincitori sovietici e i comunisti di Germania identifcavano le radici socioeconomiche del nazismo nella proprietà privata dei mezzi di produzione, in ossequio alla dottrina marxista-leninista. Immediatamente cominciarono l’espropriazione delle industrie e delle grandi aziende agricole nella loro zona di occupazione. Nella Germania Federale venne condotto un programma di «rieducazione» il cui scopo era l’interiorizzazione collettiva dei valori base dell’Occidente liberale attraverso la radio, la stampa e l’istruzione pubblica. Tra le iniziative intraprese, l’offerta di borse di studio per giovani accademici desiderosi di completare la
59
IL SENSO DI COLPA NON FA BENE ALLA BUNDESREPUBLIK
propria formazione negli Stati Uniti. Un ruolo centrale fu assunto dalla Scuola di Francoforte, inizialmente un gruppo di flosof e scienziati di varie discipline che si riallacciarono alle teorie di Hegel, Marx e Freud e nel 1924 fondarono nella città sul Meno l’Istituto per le scienze sociali. Dopo l’ascesa di Hitler al potere, la maggior parte di essi emigrò Oltreoceano. Nel 1950 Theodor Adorno e Max Horkheimer tornarono all’università di Francoforte, dove riaprirono l’istituto grazie all’aiuto americano.
60
3. Negli anni Cinquanta, l’infusso della Scuola di Francoforte era ancora modesto. Innanzitutto, il rapporto con il passato più recente si limitava a un «eloquente silenzio». Secondo il flosofo Hermann Lübbe, vigeva un «consenso normativo» secondo cui il nazionalsocialismo «ha perso sotto ogni aspetto». Malgrado il coinvolgimento inviduale fosse noto a tutti i tedeschi, non era oggetto di aperto dibattito per ragioni sociopsicologiche. Solo così la democrazia avrebbe preso piede in Germania. Due eventi paralleli cambiarono tutto. Nel 1958 i sovietici diedero un ultimatum alle forze alleate affnché ritirassero le loro truppe da Berlino Ovest e la trasformassero in «città libera». Fu l’inizio della crisi berlinese, una guerra di nervi durata anni su cui imcombeva l’inquietante opzione nucleare. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti erano pronti a difendere la propria porzione di città, ma già nell’agosto del 1961 la costruzione del Muro rese chiaro che i loro interessi non collimavano più con l’aspirazione tedesca alla riunifcazione. L’idea di Konrad Adenauer, primo cancelliere della Repubblica Federale, di costringere l’Unione Sovietica a cedere la Germania orientale si rivelò impercorribile. Le potenze occidentali volevano trattare con Mosca in merito a disarmo e distensione e accettavano la spartizione tedesca, un atteggiamento che creò nell’opinione pubblica amara disillusione e timore di nuovi confitti. Il secondo shock giunse nel Natale del 1959, quando la sinagoga di Colonia fu profanata con svastiche da due delinquenti. Nelle settimane seguenti vi furono numerosi imitatori, perlopiù giovani. Alcuni indizi fecero pensare che in molti casi dietro le azioni ci fossero i servizi segreti della DDR. L’Unione Sovietica e la Repubblica Democratica additarono la Germania occidentale come un covo di nazisti, adducendo prove dai propri archivi che accusavano funzionari della Bundesrepublik. Anche nell’Ovest emerse una diffusa sfducia verso i tedeschi. Il parlamento promulgò in fretta e furia una legge contro la sedizione, mentre nelle scuole l’educazione politica guadagnò maggior rilevanza. Ai processi contro gli ex nazisti fu impressa una spinta decisa e gli anni del Terzo Reich divennero oggetto di ampio dibattito da parte di stampa, letteratura, teatro. Cominciò il processo di messa in discussione del passato, la cosiddetta Vergangenheitsbewältigung. Una delle ragioni era il bisogno di fare chiarezza su un passato che gettava ancora ombre fosche sul presente e di solidarizzare con le vittime. Si trattava, tuttavia, anche di una misura di compensazione riconducibile a esigenze di politica estera. Si voleva infatti convincere il mondo della catarsi morale e della buona volontà dei tedeschi al fne di ottenere sostegno dagli alleati e misericordia dagli avversari.
IL MURO PORTANTE
Batté quindi l’ora della Scuola di Francoforte, la cui «teoria critica» offriva una chiave di lettura integrativa del fascismo a partire dalla critica socioeconomica, culturale e ideologica. Questa infuenzò in maniera duratura gli studenti di scienze umane e sociali, i futuri accademici, uomini di Chiesa e membri dell’intelligencija. Al centro della rifessione si collocava una struttura imperniata su una personalità autoritaria che avrebbe permesso la nascita del nazionalsocialismo e si sarebbe potuta superare solamente con una presa di coscienza permanente del passato. A differenza di quanto raccomandato da Jaspers, tuttavia, in tal modo la penitenza, il rimorso e il riconoscimento morale divennero una questione pubblica e uno strumento di abuso e ipocrisia. In Il cordoglio impossibile (Die Unfähigkeit zu trauern), Alexander e Margarete Mitscherlich combinano osservazioni di natura psicoanalitica con una critica dai fni morali, lamentando la «rimozione» del Terzo Reich. Le conseguenze dell’«atteggiamento autistico» dei tedeschi sarebbero uno spiccato «rigore del sentimento» e uno stallo politico che, ad esempio, si espresse nella riluttanza a riconoscere la linea di confne Oder–Neiße. In tale contesto vide la luce nel 1965 La situazione dei profughi e la relazione del popolo tedesco con i propri vicini orientali, uno scritto della Chiesa evangelica comunemente noto come Ostdenkschrift. Nel 1945 la Germania aveva perso nelle proprie regioni orientali un quarto del territorio, perlopiù passato alla Polonia, con milioni di tedeschi sfollati e molti che persero la vita. I redattori dell’Ostdenkschrift sottolineavano di non avere alcuna competenza in merito alle concrete scelte politiche e giuridiche; in compenso, rivendicavano il diritto di creare i «presupposti interiori» per «un giudizio realistico e una riconciliazione autentica» attraverso l’interpretazione del Vangelo. Il testo puntava al riconoscimento della colpa tedesca e alla rinuncia agli ex confni orientali per gettare le basi di un nuovo inizio nei rapporti con la Polonia. L’Ostdenkschrift ebbe accoglienza favorevole e permise al cancelliere Willy Brandt di introdurre nel 1969 la sua nuova politica orientale (Ostpolitik). Ciononostante, costituì un precedente problematico, poiché una questione politica fondamentale veniva decisa con toni religiosi uniti al concetto di «colpa tedesca». Fino agli anni Ottanta si moltiplicarono le voci a favore di un’accettazione della spartizione tedesca come castigo divino. Il movimento studentesco del 1968 radicalizzò tali tendenze e rafforzò l’opposizione alle vecchie generazioni nella battaglia contro il minaccioso ritorno del fascismo. 4. Una cesura nella memoria storica giunse nel 1979, con la trasmissione nella Repubblica Federale della serie televisiva americana Holocaust. Protagonista una famiglia ebrea perfettamente integrata nella società tedesca che durante il nazismo non vuole lasciare il paese con cui si identifca. La maggior parte dei suoi componenti viene uccisa. Con una media tra i dieci e i quindici milioni di spettatori per le quattro puntate, l’impressione fu enorme e durevole.
61
IL SENSO DI COLPA NON FA BENE ALLA BUNDESREPUBLIK
62
Il confronto intenso con la Shoà riempì un vuoto emotivo ereditato dalla spartizione. La Repubblica Federale era uno Stato estremamente effciente – tecnicamente parlando – ma non era che un frammento incompleto. La riunifcazione fu però rinviata a data da destinarsi. Il concetto di «patriottismo costituzionale» si rivelò inadatto alla creazione di vincoli emotivi. Questi ultimi si svilupparono dunque per negazione. L’Olocausto venne sempre più descritto con espressioni colorite, da «frattura della civiltà» a «male assoluto». Già vent’anni prima, Hannah Arendt aveva collegato Auschwitz al concetto kantiano di «volontà malvagia per eccellenza», la cui ragione scatenante è l’opposizione alla legge morale e il male fne a sé stesso. Per Kant si trattava comunque di un principio «diabolico», inapplicabile all’essere umano: un innalzamento metafsico della colpa criminale e politica, sotteso anche al discorso di Weizsäcker. Lo storico Ernst Nolte criticò il fatto che il crimine nazista fosse mistifcato come numinosum, un evento divino, estraneo alla sfera umana, «approcciabile solo in modo religioso, non scientifco». Nel giugno del 1986 Nolte pubblicò un articolo in cui si chiedeva se Auschwitz non potesse essere compresa nel contesto della «guerra civile europea» come risposta ai gulag staliniani, considerati «precedente logico e fattuale». Il dibattito scoppiò tra gli storici, con la tesi di Nolte respinta più per superiorità numerica e mediatica che di argomenti. Ciò che maggiormente sdegnava era che Nolte avesse osato collocare l’Olocausto in uno schema politico-ideologico, in quanto nel frattempo esso era diventato il fulcro di una religione civile. Sussiste un legame tra orgoglio nazionale, preparazione militare, fducia nelle istituzioni e lealtà. Se a reggere una nazione è l’opposto – la convinzione di essere un’aberrazione storica – si va verso l’autodistruzione. L’idea di Europa sembra un compromesso di comodo. Nel 1988 il capo dell’SPD Oskar Lafontaine, nato nel 1943 e un tempo ritenuto enfant prodige della politica tedesca, annunciò che i tedeschi, forti delle loro esperienze pregresse con un «nazionalismo perverso», sarebbero «predestinati» a superare lo Stato nazionale e a «guidare l’unifcazione d’Europa». Lafontaine sostituì la colpa ascetica protestante con la cattolica felix culpa – santa, poiché bisognosa di redenzione – e si riallacciò alla tradizione idealista, tralasciando che gli altri paesi non intendevano minimamente denazionalizzarsi. La generazione politica di Lafontaine fu gettata nel panico dalla caduta del Muro e dalla riunifcazione. La storia aveva amnistiato la nazione colpevole e la sovranità riguadagnata poneva nuove sfde. Fino al 1990, la Repubblica Federale non aveva avuto spazi di manovra politico-militare, di cui invece disponevano le potenze vincitrici. Ciò aveva prodotto una depoliticizzazione della società, inclusi i politici più giovani, la cui comprensione della cosa pubblica si limitava alle questioni socioeconomiche e commerciali. Occuparsi di dossier geopolitici e militari era considerato immorale. Un atteggiamento che confermerebbe il giudizio di Margaret Thatcher, secondo cui i tedeschi avrebbero paura di governarsi da soli e quindi forzerebbero la concentrazione del potere a Bruxelles.
IL MURO PORTANTE
La Repubblica Federale era senza ombra di dubbio il più grande e determinante Stato tra le due Germanie del dopoguerra e assorbì la propria sorella minore orientale appena ne ebbe l’occasione. Malgrado ogni indottrinamento, i cittadini della DDR vedevano nella Bundesrepublik la custode delle sorti dell’intera Germania e in quanto tale responsabile della defnizione dello spazio politico, economico e di discussione. Tuttavia, presto sorsero i primi attriti in merito al diritto d’asilo nella Germania unita, che dopo la caduta del Muro venne presa d’assalto da centinaia di migliaia di stranieri. Si ebbero scontri e tumulti mentre la battaglia contro la xenofobia e un riesumato fascismo riguadagnò la ribalta e il discorso pubblico cadde nuovamente nella narrazione colpevolista. Lo storico berlinese Wolfgang Wippermann sintetizzò il fenomeno in una formula: «Teniamo sempre a mente che dobbiamo riparare all’Olocausto!». In effetti, i maggiori dibattiti post-riunifcazione ebbero come oggetto i rapporti con il passato nazista. Nel marzo 1994, il flm di Steven Spielberg Schindler’s List calamitò l’attenzione di media e politica, con proiezioni speciali per le scuole. Sei milioni di spettatori assistettero alla storia di un tedesco che salvò centinaia di ebrei dallo sterminio. Nel 1996 lo storico americano Daniel Goldhagen pubblicò il saggio I volenterosi carnefci di Hitler (Hitler’s Willing Executioners), che sostiene la presenza di un antisemitismo «eliminazionista» ben radicato nella storia e nella cultura tedesche e descrive l’Olocausto come un demoniaco progetto sociale ascrivibile a un’intera nazione. Benché condannato da illustri storici e ricercatori, il libro fu un trionfo in Germania, tanto che in qualche occasione la televisione pubblica ne trasmise in diretta le presentazioni. Inquietante lo sguardo dei più giovani che affollavano le conferenze, i cui occhi brillavano. Vent’anni dopo, molti di loro diffondono il verbo di Goldhagen nelle scuole, nella politica e nei media. Il 10 maggio 2005 fu inaugurato il memoriale dell’Olocausto dove un tempo sorgeva il Muro e, in epoca prussiana, i giardini dei ministeri. Grande come due campi da calcio, si compone di 2.711 stele di cemento poste tra il Reichstag e il Bundesrat, la Philarmonie e la Porta di Brandeburgo, il più importante simbolo della nazione. Dimensioni, forma e posizione non lasciano dubbi: il memoriale è chiamato a rappresentare il centro morale, spirituale e identitario della Germania odierna. Le affermazioni di Steinmeier rifettono dunque la coscienza di sé della Germania. Non si tratta di un problema esclusivamente sociale, poiché l’escapismo storico e morale interessa anche la politica. Nel 2015 il governo aprì i confni a un fusso incontrollato di migranti e migliaia di persone si radunarono nelle stazioni per accoglierli. Lo storico britannico Anthony Giddens parlò allora di uno «Stato di hippies». Questi ultimi sono i tipici fgli del proprio paese, nelle cui scuole hanno studiato e il cui senso di colpa hanno interiorizzato, tentando di evitarlo in uno sforzo tra il fdeistico e l’ideale. Una nazione così insicura è propensa all’isteria e ai colpi di testa, inadatta al ruolo di leader strategico. D’altra parte, la Germania è attore irrinunciabile dell’Unione Europea. Pertanto, l’Unione tutta dovrebbe occuparsi della sua lacerazione. (traduzione di Alessandro Balduzzi)
63
IL MURO PORTANTE
BERLINO DIVISA DAL NOVECENTO
di Michael Stürmer
La parabola della città simbolo delle grandi dinamiche storicogeopolitiche che hanno segnato il secolo breve. La genesi del Muro. Il grande gioco di Est e Ovest. L’equilibrio nucleare si è costruito anche e soprattutto all’ombra della Porta di Brandeburgo.
L
1. « À RIMANEVA IL FULCRO DELLA TRAGEDIA, la Berlino distrutta. Chi, tra coloro che hanno posato lo sguardo su quello spettacolo assurdo, potrà mai dimenticarlo? La vasta distesa di macerie, con la Porta di Brandeburgo che si staglia, netta, in mezzo a un deserto di estrema desolazione, simile alle montagne della Luna, che a prima vista dava l’impressione di essere stato spogliato di qualsiasi forma di vita – nessuna creatura vivente, grande o piccola, nessun uccello, nemmeno insetti, né rami né foglie, niente di vivo, niente che potesse minimamente collegare la scena alla nostra condizione o esistenza umana. Solo le grottesche carcasse di quelli che una volta erano stati edifci – forse l’Hotel Adlon, Unter den Linden, il Reichstag, chi poteva dirlo?». Ecco cos’era il quartiere Mitte di Berlino nell’estate del 1945, così come la descrisse Malcolm Muggeridge: cuore e centro di quello che un tempo era stato il Reich tedesco e ora luogo di desolazione. Muggeridge, celebre giornalista britannico e uomo chiave dei servizi segreti, si trovava a Berlino nel momento in cui, secondo il protocollo di Londra del 12 settembre 1944 sull’occupazione della Germania, le truppe americane e inglesi prendevano possesso dei rispettivi settori della città. I francesi sarebbero giunti con qualche ritardo all’appuntamento berlinese, dato che i vincitori in principio non avevano previsto alcun posto per i soldati del generale de Gaulle. Cosa che questi non avrebbe mai perdonato agli Anglo-Saxons. Ma come era potuto accadere che quel cumulo di macerie che un tempo era stata la Berlino dei principi elettori, delle altezze reali e poi imperiali, divenisse ora il fulcro di crisi e confitti politici di portata mondiale? I progetti degli Alleati per l’ordine postbellico europeo erano alquanto vaghi. Le conferenze di Casablanca, Jalta e Potsdam rappresentavano dei semplici compromessi formali. Troppo pericoloso per gli esiti della guerra affermare la verità, ovvero che da parte sia di Stalin sia di Churchill si stava già lavorando al riarmo per la fase successiva: Est contro
65
BERLINO DIVISA DAL NOVECENTO
Ovest, Stalin contro le società borghesi. L’eredità della Grande Germania imperiale era troppo importante per poter essere lasciata in mano al rivale politico. Inoltre gli alleati occidentali avevano buone ragioni per non fdarsi di Stalin, che dal 1939 al 1941 era stato complice di Hitler nelle operazioni criminali contro la Polonia e i paesi baltici e che aveva condotto la guerra non certo a partire da convinzioni ideali ma per puro istinto di sopravvivenza, cioè affnché l’Unione Sovietica potesse imporre per sempre la propria presenza in Europa. Più di tutte le dichiarazioni retoriche sul senso e sul fne della guerra, ciò che contava era il vasto insieme degli ex territori imperiali tedeschi, per i quali occorreva stipulare trattati, realizzare fatti e stabilire accordi. Così dichiarò Stalin nel febbraio del 1945 durante una conversazione con l’uffciale dei partigiani jugoslavi Milovan Ðilas: «Questa guerra non è come le precedenti. Chi avanza con i propri carri armati impone allo sconftto il proprio sistema». Il messaggio era chiaro: l’Unione Sovietica di Stalin era lì per rimanerci. E l’America di Roosevelt non era lì per restare; o almeno, così aveva lasciato intendere il presidente americano a proposito dei futuri scenari postbellici alla conferenza di Crimea del febbraio 1945. Il dittatore sovietico quasi non riusciva a crederci: la potenza sovietica che si espandeva inglobando il potenziale tedesco, non era stato forse questo il sogno di Lenin? Non poteva certo sapere che i giorni di Roosevelt erano contati e che il suo successore sarebbe stato un grande stratega, né che le élite americane della costa orientale non erano affatto intenzionate a lasciare l’Europa quale regalo d’addio ai russi. Qualunque fosse il signifcato delle conferenze per l’ordine postbellico, di fatto esse tacquero sulle questioni fondamentali, limitandosi a brevi allusioni e non esprimendo a chiare lettere i reali obiettivi bellici dei partecipanti. Se così fosse stato, il confitto in atto in Europa e per l’Europa avrebbe preso un corso ben diverso negli ultimi mesi. Tuttavia già prima del gran fnale, la resa incondizionata della Wehrmacht, era prevedibile quello che sarebbe successo – e che non poteva non succedere. Come se uno storico con un futo speciale per il futuro stesse tracciando i contorni della storia mondiale dei decenni successivi, il protocollo del 12 settembre 1944 palesò quanto in seguito sarebbe davvero accaduto, con al centro Berlino e a fare da cornice la carta amministrativa della Germania nei confni del 1937, prima delle annessioni di Hitler.
66
2. Nell’autunno del 1944 gli alleati occidentali partivano dal presupposto che l’offensiva fnale sovietica sarebbe arrivata fn quasi al vecchio confne francese – cosa che non avvenne, ma che tuttavia spiega come mai da parte occidentale furono fatte notevoli concessioni alle richieste sovietiche relative alla distribuzione del bottino di guerra. E così ai russi fu riservato l’intero territorio tedesco a oriente della linea Weser-Elba, peraltro con il tacito accordo che il confne della futura Polonia, per grazia di Stalin, si spostasse molto più a ovest; dove non era diffcile immaginare il destino che sarebbe toccato in sorte alla popolazione tedesca. In questo modo Stalin poteva contare non solo sul fatto che la Polonia in futuro non avrebbe
IL MURO PORTANTE
rappresentato più alcun pericolo per la Russia, ma anche sull’eterna inimicizia che si sarebbe creata tra Germania e Polonia. La chiave per comprendere la situazione presente e futura si trovava a Berlino. La Grande Berlino nei confni del 1923 sarebbe stata divisa amministrativamente dapprima in tre e poi, con l’ingresso dei francesi, in quattro settori posti sotto il controllo delle quattro potenze. Il presupposto affnché tutto potesse funzionare pacifcamente era proprio quella stretta collaborazione tra i vincitori che, al contrario, via via che la guerra volgeva al termine veniva meno. Berlino non era Vienna, la Germania non era l’Austria. In effetti la strana spartizione della città, o di quanto ne rimaneva, era già espressione di avvenimenti futuri: disgregazione della coalizione antinazista, divisione della Germania e del mondo, guerra fredda. È molto improbabile che i diplomatici che nell’estate del 1944 a Londra erano intenti a tracciare le linee di occupazione della geografa mitteleuropea comprendessero fno in fondo la portata delle loro decisioni. Stalin negò ai voli alleati che supportavano la rivolta polacca il permesso di atterraggio nello spazio occupato dall’Armata Rossa, dimezzando in tal modo l’effettiva portata degli aiuti occidentali. A Londra, meditando su un’Europa futura sotto il giogo sovietico, Churchill constatava: «Nel cuore di molti alberga una paura inespressa». Nel febbraio del 1945 alle truppe britanniche che stavano avanzando nella Germania settentrionale giunsero direttive riservate – Operazione Unthinkable – secondo cui le unità ancora operative della Wehrmacht dovevano essere mantenute intatte. L’audace piano, tuttavia, fallì per troppa audacia, nonché a causa degli americani. All’inizio del maggio 1945 a Harry Truman, da pochi giorni succeduto a Roosevelt come presidente degli Stati Uniti, fu inviato il famoso telegramma in cui si leggeva che i russi avevano calato una cortina di ferro lungo tutto il loro fronte e che nessuno sapeva cosa stesse accadendo dietro di essa. La coalizione di guerra si stava disgregando, e questo ben prima che la conferenza trilaterale di Potsdam dell’estate del 1945 decidesse le sorti di Berlino, della Germania e del mondo. Un aneddoto a latere: a Potsdam l’ambasciatore americano Harriman accolse Stalin complimentandosi con lui per la vittoria dei suoi soldati sulla Germania. Dopo un attimo di esitazione, giunse la risposta: «Lo zar Alessandro era arrivato fno a Parigi». Stalin si prese la rivincita quando, congratulandosi con Truman per il successo del test della bomba atomica, commentò: «Nuove possibilità per l’artiglieria». Il signore del Cremlino sapeva fn troppo bene che era cominciata un’altra epoca, quella della potenza militare nucleare, e che era avvenuta una rivoluzione strategica – nel gergo del Cremlino, era sorta una nuova correlazione tra le forze. Gli Stati Uniti avevano in mano l’arma di tutte le armi, i sovietici no. 3. Gli Usa dunque da quel momento, e ancora prima di prenderne effettiva coscienza, avevano la possibilità e i mezzi per dominare l’Europa. Il concetto di extended deterrence fu la formula che tenne in piedi il precario equilibrio della guerra fredda; e in nessun luogo ciò fu più drammatico ed evidente che nella
67
BERLINO DIVISA DAL NOVECENTO
Berlino delle quattro potenze. La città divisa divenne per ben tre volte luogo di decisione dell’ordine postbellico: defning moment della storia mondiale. La prima volta fu quando Stalin, con il pretesto di effettuare riparazioni indispensabili su tutte le vie di collegamento terrestri, chiuse l’accesso a Berlino Ovest, rispettando tuttavia il diritto di accesso da parte alleata, compreso il ponte aereo, per garantire la sopravvivenza della città e dei suoi abitanti. Il dittatore allentò la stretta solo quando Truman inviò in missione esplorativa due bombardieri dotati di armi nucleari a lunga distanza in grado, grazie al sistema di rifornimento in volo, di giungere in qualsiasi luogo senza atterraggi intermedi. Stalin comprese il messaggio e tornò allo status quo ante. Ma per il Cremlino quella non poteva costituire l’ultima parola su Berlino, la Germania e l’Europa. Nel 1949 i russi compirono test nucleari, quattro anni più tardi testarono la bomba a idrogeno e nel 1957 lo Sputnik segnalò al mondo che i sovietici erano avanti nello sviluppo missilistico. La tecnologia prometteva un altro equilibrio, la politica una nuova «costellazione di forze». Al contempo tuttavia, nella città dallo status a quattro, il Viermächtestatus, rimanevano aperti gli accessi tra il settore orientale e quelli occidentali; così che la DDR si veniva a trovare in una crisi strutturale permanente in ragione degli esodi di massa dalla sua capitale e delle disastrose condizioni economiche in cui versava. Il presidente americano Kennedy fu sottoposto a un duro esame da parte del leader sovietico Khruš0ëv: brinkmanship nucleare. Kennedy rispose ribadendo tre punti essenziali: diritto di accesso per gli occidentali, autosuffcienza economica dei settori occidentali, diritto all’autodeterminazione. I vertici politici della Germania orientale, con le spalle coperte dall’Unione Sovietica, reagirono dapprima con una linea di flo spinato, in seguito con un muro, mine e una striscia della morte a tagliare a metà la città dei quattro. L’ultima parola di Kennedy fu la constatazione che «un muro è molto meglio che una guerra». Con la costruzione del Muro, il 13 agosto del 1961, a Berlino l’èra del nucleare aveva raggiunto quel moment of truth che sembrava destinato a durare in eterno. La paura e la ragione furono i maestri della diplomazia negli anni della guerra fredda. Il trattato su Berlino delle quattro potenze (1971), con i due neonati Stati tedeschi seduti al tavolo dei bambini, si limitò a descrivere la nuova situazione, senza entrare in dettagli di diritto internazionale; tuttavia, esso contribuì in maniera decisiva a ridurre il potenziale di confitto e ad aprire possibilità di dialogo. Negli anni a seguire le potenze nucleari consolidarono lo status quo mediante il controllo degli armamenti nucleari e convenzionali. Fino alla caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 la città fu, di crisi in crisi, un vero e proprio laboratorio di strumenti per la gestione dei confitti nell’èra dell’apocalisse nucleare. (traduzione di Monica Lumachi)
68
IL MURO PORTANTE
IL GRIDO INASCOLTATO DELL’EST
di Ilko-Sascha KowalczuK
Vista dalla Germania orientale, la riunificazione è stata un brutale processo di apertura a tappe forzate, con costi sociali altissimi e (ingenue) aspettative tradite. Il nodo economico. L’emorragia demografica. L’ex RDT come laboratorio del malessere europeo.
I
1. L MURO DI BERLINO NON CADDE. FU LA società a buttarlo giù la sera del 9 novembre 1989. La dittatura comunista era giunta al capolinea. Il mondo, in quell’autunno del 1989, guardava con il fato sospeso alla Germania Est. Wahnsinn! (pazzesco, incredibile) era l’esclamazione che si udiva di più. Così ebbe inizio un periodo in cui quasi ogni giorno la realtà avrebbe superato ogni fantasia. Prima di quel momento, quasi nessuno dei testimoni dell’epoca aveva avuto la consapevolezza di vivere un rapido passaggio epocale. Molte società del blocco sovietico che fno a poco tempo prima sembravano procedere a passo d’uomo sulla corsia d’emergenza, si ritrovarono a sfrecciare a folle velocità su quella di sorpasso 1. Con la caduta del Muro, il destino della RDT era segnato. La Repubblica Democratica trovava infatti la propria ragione di esistere soltanto come alternativa politica, economica e sociale alla Germania Federale. Fino al giorno delle prime elezioni libere nella RDT, il 18 marzo 1990, era opinione diffusa che avrebbe vinto nettamente il Partito socialdemocratico. La campagna elettorale era stata incentrata su come realizzare l’unità tedesca. La formazione politica sostenuta dal cancelliere federale Helmut Kohl, l’Alleanza per la Germania, proponeva la via più breve. Il suo slogan: «Introduzione immediata del marco tedesco». Nessuno poteva offrire di più. Infatti ottenne il 48% dei voti: un risultato chiarissimo, visto che il 75% degli elettori aveva scelto uno dei partiti sostenuti dagli «occidentali» (CDU/CSU, SPD e FDP). Il premier britannico Margaret Thatcher si congratulò con Kohl per la vittoria, cogliendo appieno il signifcato politico del voto. L’esito elettorale impresse una nuova direzione alle scelte politiche, economiche e sociali tedesche. Il processo di trasformazione fu imposto mediante i tratta1. Per approfondimenti, si rimanda a I.-S. KowalczuK, Die Übernahme. Wie Ostdeutschland Teil der Bundesrepublik wurde, 4. ed., München 2019, C.H. Beck.
69
IL GRIDO INASCOLTATO DELL’EST
ti che portarono all’unione economica, monetaria e sociale in vigore dal 1° luglio 1990 e venne poi suggellato defnitivamente con il trattato di unifcazione. In tal modo la rivoluzione era stata posta su binari istituzionali. All’inizio dell’agosto 1990 il segretario generale della Confederazione dei sindacati tedeschi (DGB), Heinz-Werner Meyer, così sintetizzò quanto stava accadendo nella RDT: aveva l’impressione, dichiarò, che si volessero cambiare le gomme a una macchina lanciata in corsa 2. Nel 1989 la Germania Est registrava 9,7 milioni di lavoratori; a fne 1993 erano 6,2 milioni. La disoccupazione statistica coglieva peraltro solo in parte la realtà del fenomeno nel periodo compreso tra il 1990 e il 1994; forme particolari di disoccupazione, come la Kurzarbeit (il part-time involontario) non trovavano posto nelle statistiche, al pari degli ultracinquantacinquenni espulsi dai processi produttivi con prepensionamento. Inoltre, nel 1990 il sistema di formazione professionale a est subì un tracollo, ma la quota di giovani toccata dal fenomeno non venne rilevata dalle statistiche. La struttura sociale della Germania orientale mutò drasticamente. «Dopo l’unifcazione, la crescita del terziario è proseguita a scapito di industria e agricoltura, già fortemente ridotti. Le gravi carenze del terziario nella RDT, che era circa 25 anni in ritardo rispetto alla Germania Federale, furono colmate quasi di colpo. Nel giro di soli tre anni, a seguito della massiccia crisi che investì l’industria e l’agricoltura tedesco-orientali, si attuarono processi che in Germania occidentale avevano impiegato venticinque anni per realizzarsi» 3. La trasformazione avvenne dunque in forma di un’accelerazione del tutto atipica – almeno fno a quel momento – anche per la stessa società occidentale. Solo diversi anni più tardi sarebbe stato chiaro che il ritmo delle trasformazioni non era stato un’esclusiva dell’Est tedesco, bensì il tratto generale di un’epoca segnata da neoliberalismo, globalizzazione e digitalizzazione. La fducia espressa da Kohl in un discorso televisivo del primo luglio 1990 sul fatto che nessuno sarebbe stato peggio di prima e che ovunque si sarebbero avuti «paesaggi in fore», ricalcava le speranze che avevano improntato il voto del 18 marzo 1990 in Germania est. Basta col guardare le vetrine, ora la stragrande maggioranza delle persone voleva vivere come nelle vetrine. L’esito delle elezioni era stato il segnale di quanto la società tedesco-orientale fosse pronta a scambiare la dittatura con nuove promesse di paradiso. Per la maggior parte della gente libertà e democrazia signifcavano soprattutto avere «soldi veri». 2. A est il 1989 era cominciato per i più senza la minima speranza che qualcosa potesse presto cambiare. Soltanto una piccola minoranza si impegnava attivamente per le riforme. Una minoranza più grande era talmente disperata da
70
2. Cit. in U. FüSSel, «Ein Reifenwechsel in voller Fahrt. Die Lage in den DDR-Betrieben ist schlimmer als befürchtet», Frankfurter Rundschau, 8/8/1990. 3. R. GeISSler, Die Sozialstruktur Deutschlands. Aktuelle Entwicklungen und theoretische Erklärungsmodelle, Bonn 2010, p. 16.
IL MURO PORTANTE
tentare di andarsene, fuggire, anche a costo di affrontare gravi pericoli e mettere a repentaglio la propria vita. Da questo Stato non c’è niente da aspettarsi: era questa l’opinione dominante. A fne anno ecco però la sorpresa, la gioia per tutti: per gli attivi e i rassegnati. Un’immensa, sconfnata gioia. La totale mancanza di speranza si era trasformata in felicità allo stato puro, senza che quasi nessuno avesse dovuto fare niente. La società tedesco-orientale affrontò dunque il 1990 e la riunifcazione all’insegna di enormi aspettative, che si nutrivano della tradizionale quanto cieca fducia nello Stato. Il nuovo Stato prometteva mari e monti: i cataloghi patinati delle vendite per corrispondenza e i canali televisivi pubblicitari occidentali non apparivano più come promesse illusorie, ma come una possibilità di vita che si sarebbe presto realizzata. Se ne sarebbe fatta carico la Repubblica Federale, nel giro di pochi anni. Tuttavia, simili speranze già contenevano in sé un altissimo potenziale di delusione. Per molti tedeschi orientali entrare nel sistema occidentale signifcò davvero la felicità e il successo, il sogno o l’aspettativa di una vita in libertà e benessere materiale. Per molti altri non fu così; essi rimasero profondamente delusi, non soltanto in ragione delle loro estreme aspettative, ma perché di fatto non fu loro concessa alcuna chance di vivere una vita che andasse oltre i sussidi sociali. La Germania orientale incarna il paradigma del più grande errore di calcolo politico compiuto in Germania e in Europa. La convinzione che chi vive in condizioni di pace sociale e di soddisfazione materiale sostenga necessariamente democrazia, libertà e Stato di diritto, ovvero i valori occidentali, è errata. Nello stesso momento in cui i tedeschi dell’Est raggiunsero l’occidente, socialmente parlando, cominciarono a prenderne le distanze. Dalla metà degli anni Duemila, con il sostegno alla sinistra radicale della PDS/Linke e ad altri movimenti populisti; dalla metà di questo decennio appoggiando AfD e le sue appendici di estrema destra. Questo schema non è tipico della Germania orientale; con alcune varianti, lo si osserva in molti paesi. Riconoscimento e disprezzo procedono di pari passo: se non si sente di ottenere riconoscimento, si disprezza. Il riconoscimento è condizione necessaria all’autostima. Ovunque nel mondo vediamo grandi gruppi sociali che non si sentono riconosciuti e che dunque si percepiscono emarginati, esclusi. Non conta se lo sono davvero (in gran parte dei casi, sì), conta che le emozioni sono più potenti delle statistiche. Le emozioni uniscono, le statistiche no. Fino a oggi la Germania orientale ha condotto una vana battaglia in termini di autostima e riconoscimento. Per un momento, tra il 1989 e il 1990, la frattura sociale che segnava la RDT sembrò sanata. Ma fu un’illusione. Già nel 1990 riemerse la vecchia divisione politica, in seguito ampliata e poi rimpiazzata da nuove spinte disgreganti. Per questo è impossibile spiegare l’attuale situazione in Germania orientale limitandosi a ripercorrere gli eventi susseguitisi a partire dal 1990. Le esperienze vissute nel XX secolo furono laceranti per la società tedesca; il processo di trasformazione post 1989 ha riproposto le lacerazioni, in quanto le nuove classi dirigenti dell’Ovest dettarono linee e tempistiche sulla scorta di altre esperienze, posizioni, idee. La mescolanza tra Est e Ovest non si realizzò, gli oc-
71
IL GRIDO INASCOLTATO DELL’EST
LA GERMANIA DEL NOVECENTO 1920-1937 Kiel
PRUSSIA ORIENT.
Danzica
IMPERO TEDESCO NEL 1914
Amburgo Berlino
R
POLONIA
ANIA
M
PERDITE TERRITORIALI NEL 1919-1920 (TRATTATO DI VERSAILLES, 1919)
Breslavia
Weimar
G
E
RUHR
C E C O S L O VA C C
HI
A
FRONTIERE TEDESCHE NEL 1937
FR. UNGHERIA
AUSTRIA
SVIZZ.
1937-1945
OSTLAND
Memel
Danzica
CONFINI DEL REICH (GRANDE GERMANIA) E DEI TERRITORI DA ESSO AMMINISTRATI DIRETT. ALLA FINE DEL 1942
Bialystok
Stettino
M
Varsavia
ANIA
GOVERNATORATO GENERALE DELLA POLONIA
G
E
Berlino
R
C HI A VAC SLO
Norimberga Vienna
Monaco
FR.
ROMANIA
ITALIA
1945-1990
Danzica (Gdansk)
Kiel
Brema Hannover RUHR Bonn
SAAR 1957
R.D.T.
72
R.F.G.
REP. FEDERALE GERMANIA, SETT. 1949
TERRITORI SOTTO AMMINISTRAZIONE:
REP. DEMOCRATICA TEDESCA, OTT. 1949
Stettino (Szczecin) POLONIA
Potsdam
Magonza
U.R.S.S.
POMERANIA
Berlino
Breslavia (Wroclaw)
SLE
SIA
CE
PROTETTORATI
Kaliningrad MASURIA
Lubecca
Amburgo
AMMINISTRATI DIRETTAMENTE
UNGHERIA
AUSTRIA
SVIZZERA
REICH PROPRIAMENTE DETTO Leopoli
BOEMIA MORAVIA
Strasburgo
FRONTIERE TEDESCHE NEL 1937
CO
SL O
Sovietica Polacca
VA C C H IA
Monaco UNGHERIA
dal 1945 fno ai trattati tedesco-sovietico e tedesco-polacco
DIVISIONE DI BERLINO IN BERLINO OVEST E BERLINO EST
IL MURO PORTANTE
cidentali assunsero quasi sempre posizioni di comando. L’Est si percepì sottomesso, declassato e asservito. Caratteristico dei tedeschi dell’Est fu il fatto di doversi giustifcare di essere tedeschi dell’Est. A tal fne esistevano due strategie: negare la propria origine, oppure parlarne in continuazione. Entrambi i metodi non resero le cose più facili. Rivoluzione e riunifcazione non segnarono soltanto i tedeschi orientali: il 1989 reinventò anche la Repubblica Federale, o quantomeno la sua storia, poiché il capitalista renano e l’anticapitalista di Amburgo si ritrovarono d’un tratto dalla stessa parte della barricata nella defnizione dei loro spazi di esperienza e del loro atteggiamento nei confronti della «vecchia» Repubblica Federale. Tra l’altro, i tedeschi dell’Est hanno contribuito involontariamente a riavvicinare i tedeschi occidentali. 3. Gli avvenimenti storici colsero l’Ovest del tutto impreparato sotto ogni aspetto. Il sociologo Niklas Luhmann centrò il punto: «La riunifcazione ha messo fne a quell’idillio che era la Repubblica Federale» 4. Il suo antagonista intellettuale, Jürgen Habermas, era della stessa opinione: «Il crollo del Muro di Berlino non ha risolto neanche uno dei problemi creati dal nostro specifco sistema» 5. Quando nel 1990 RFT e RDT si unifcarono, si parlò molto di una nuova Germania. Di fatto, nessuno o quasi tra Flensburg e Garmisch-Patenkirchen si pose il problema che forse era giunto il momento di abbandonare anche la Repubblica Federale com’era esistita fno ad allora. Nessuno ne vedeva il motivo. Il comunismo spariva, la Germania si ingrandiva, libertà, democrazia, Stato di diritto e capitalismo avevano vinto. Cos’altro doveva succedere? Cos’altro doveva cambiare? Squadra che vince non si cambia! Era più o meno lo stesso pensiero che avrebbe avuto Joachim Löw dopo la vittoria ai Mondiali del 2014 in Brasile. Il sottotesto del «processo di unifcazione» recitava: noi, gli occidentali, abbiamo un sistema vittorioso, superiore al vostro da ogni punto di vista. Non solo economico, politico, culturale; anche le persone sono superiori a voi. Non è colpa vostra se siete stati costretti a diventare dei nani (Baring), ma ora dobbiamo rieducarvi. Naturalmente non si parlava esplicitamente di rieducazione; la parola d’ordine era Anpassung – adattamento, adeguamento. Una defnizione non elegante di quanto si è preteso dai tedeschi orientali: diventare quello che noi (tedeschi occidentali) crediamo di essere. Con il crollo del comunismo l’Occidente si sentì talmente confermato nella propria ragion d’essere da ritenere che la sua missione consistesse nel plasmare a propria immagine e somiglianza il resto del mondo, o quantomeno la Germania Est e l’Europa orientale. Molti tedeschi occidentali che all’epoca si spostarono 4. N. luhmaNN, «Immer noch Bundesrepublik? Das Erbe und die Zukunft», in o. rammStedt e G. SchmIdt (a cura di), BRD ade! Vierzig Jahre in Rück-Ansichten von Sozial- und Kulturwissenschaftlern. Frankfurt/M. 1992, Suhrkamp, p. 99. 5. J. habermaS, «Nachholende Revolution und linker Revisionsbedarf. Was heißt Sozialismus heute?», in J. habermaS (a cura di), Die nachholende Revolution. Kleine politische Schriften VII, Frankfurt/M. 1990, Suhrkamp, p. 197.
73
IL GRIDO INASCOLTATO DELL’EST
nell’Est del paese per lavoro ancora oggi parlano di questa esperienza con toni esotici e quasi coloniali: un misto di curiosità, superiorità, paternalismo, sorpresa che «là» tutto fosse diverso da «qui». Non a caso, gli impiegati statali dell’Ovest trasferiti dal 1990 nell’Est chiamavano il relativo premio in busta paga Buschzulage (bonus savana), termine con cui i funzionari dell’impero guglielmino defnivano i vantaggi economici derivanti dal prestare servizio nelle colonie del Kaiser. All’Est fu impresso il marchio del «diverso», e mai il «diverso» fu considerato paritario. L’economia della RDT fu sottoposta alla terapia più drastica di tutta l’Europa postcomunista. Il crollo economico fu drammatico. Nell’ottobre 1990 la produzione industriale dell’Est era dimezzata rispetto all’anno precedente. Dal primo luglio 1990, giorno dopo giorno si persero decine di migliaia di posti di lavoro. Mentre tutto crollava, l’Ovest attraversava una congiuntura positiva: pessime basi per radicare l’idea di una Germania unita e fermare l’esodo verso ovest. Le banche e le casse di risparmio tedesco-orientali furono svendute a gruppi bancari tedesco-occidentali (Deutsche, Dresdner e altri). Nel complesso le banche tedesco-occidentali spesero 412 milioni di euro per acquisire istituti di credito della RDT, appropriandosi con ciò anche di crediti pari a 22,25 miliardi di euro. Si trattò di uno degli affari più lucrosi dell’epoca, dato che la compravendita non riguardò solo strutture e beni (edifci, terreni, portafogli clienti), ceduti ben al di sotto del loro valore reale, ma anche un intero giro d’affari. I proftti ammontarono a molti miliardi. Le grandi compagnie d’assicurazione (come Allianz) fecero lo stesso, acquistando a cifre irrisorie l’intero sistema assicurativo tedesco-orientale con successivi proftti stellari. Analoga procedura fu applicata alla rete elettrica – svenduta a gruppi occidentali come Preussen Elektra, RWE, Bayernwerk – e ai quotidiani dell’RDT.
74
4. Da metà anni Novanta il pil (prodotto interno lordo) dell’Est tedesco si attestò su una percentuale pari a due terzi di quello della Germania occidentale; ultimamente si registra di nuovo un leggero calo. Le ragioni di questa situazione sono complesse. A fronte degli ingenti sussidi sociali versati nelle casse delle regioni orientali, si è assistito a fenomeni di privatizzazione selvaggia, come pure all’abbandono di forme tradizionali di sovvenzione o intervento statale. La pressione esercitata dai processi economici globali ha reso la Germania orientale, con il suo alto costo del lavoro, scarsamente appetibile agli investitori stranieri. L’economia tedesco-occidentale ha guardato all’Est solo come a un nuovo mercato per l’esportazione. Gli effetti del boom edilizio non hanno avuto lunga durata. Se le città modernizzate e restaurate, i terreni riacquistati all’agricoltura e le infrastrutture ad alta tecnologia rendono evidente l’enorme miglioramento della qualità della vita nelle regioni tedesco-orientali, tanto più forte emerge il contrasto con le loro drammatiche prospettive di crescita. Per trovare la causa principale occorre guardare ad altro. La tanto auspicata spinta da parte di un nuovo ceto medio non c’è stata. L’economia orientale funziona ancora soprattutto come catena di montaggio: non vi si trova alcun quartier generale di grandi gruppi industriali, rari
IL MURO PORTANTE
sono i centri di sviluppo e ricerca. Delle cinquecento maggiori aziende tedesche soltanto sette hanno sede a est. La riunifcazione tedesca è spesso rappresentata come un iter tecnocratico che ha divorato ingenti somme di denaro. I trasferimenti fscali che dal 1991 sono fuiti da ovest a est ammontano – secondo le stime – tra i mille miliardi e i duemila miliardi di euro: cifre talmente esorbitanti che non importa molto sapere quella esatta. La RDT era una società fondata sul lavoro e organizzata attorno al concetto di un’assistenza statale dalla culla alla tomba. Il tracollo totale e improvviso di questo modello non poteva che arrecare conseguenze disastrose. Da questo punto di vista, non è la rivoluzione pacifca del 1989 il miracolo, bensì la pacifca realizzazione del processo di trasformazione tra il 1990 e il 2005. Le persone non persero soltanto il lavoro, ma anche relazioni e reti sociali che in gran parte nascevano e si consolidavano attraverso il lavoro. Non esisteva quasi niente che non fosse in stretto rapporto con la vita lavorativa: reddito, tempo libero, vacanze, assistenza sanitaria e ospedaliera, cultura, assistenza agli anziani, rapporti di amicizia, amore e sessualità, festività e assistenza all’infanzia. Era il lavoro a plasmare l’orizzonte dei valori. Tale mondo non soltanto era sconosciuto ai tedeschi occidentali che dal 1990 si mossero per aiutare i tedeschi orientali; esso non venne da loro neppure percepito. E non poteva esserlo, in quanto distrutto per via istituzionale ancor prima che potessero farne esperienza diretta. Non si tratta di idealizzare quelle relazioni – io le ho odiate e sin da ragazzo le ho rifutate, per quanto possibile – ma occorre prenderne atto per comprendere quello che persero milioni di persone. Per alcuni (incluso il sottoscritto) il guadagno in termini di libertà, diritti e democrazia è valsa la pena. Ma a pensarla così è una minoranza; per la stragrande maggioranza, il saldo tra legalità/democrazia e perdite è negativo. La mobilità che dal 1990 è stata richiesta ai tedeschi dell’Est rappresenta una rottura socioculturale radicale rispetto allo sviluppo «immobile» di prima. Un elemento di continuità, tuttavia, è rimasto e rappresenta un tratto distintivo della Germania orientale: la scelta di andarsene. Dopo il 1990 le regioni orientali persero centinaia di migliaia di abitanti, soprattutto giovani. Dalla loro presenza trassero proftto altre zone della Germania. È un fatto indiscusso che, per più aspetti, di queste persone si senta la mancanza ad est. Considerato l’arco di tempo che va dal 1949 al 30 giugno 1990, sono oltre cinque milioni i tedeschi orientali trasferitisi a ovest: tanti quanti gli abitanti della Norvegia, dell’Irlanda o della Finlandia. Dopo la riunifcazione il fenomeno non terminò, anzi: fno al 1997 si aggiunse un altro milione e mezzo di persone. Nel 2017, nonostante gli spostamenti dall’Ovest all’Est, quest’ultimo (Berlino esclusa) ha perso circa due milioni di abitanti rispetto al 1991. Due fattori demografci avvalorano le pessimistiche previsioni sul futuro della Germania orientale. Primo: prosegue l’abbandono delle campagne, un trend senza dubbio caratteristico delle società occidentali, ma che qui ha assunto dimensioni drammatiche. Secondo: l’insuffcienza del sistema sanitario, fenomeno ormai macroscopico, penalizza ulteriormente una società che invecchia in fretta. La piramide
75
IL GRIDO INASCOLTATO DELL’EST
demografca mette infatti sotto pressione lo Stato sociale, specie nell’Est, la cui decrescita demografca somma bassa natalità ed emigrazione. Territori isolati e con una popolazione invecchiata sono ormai realtà in tutti i Länder orientali. Colpisce, ancora una volta, il ritmo elevato dello spopolamento. 5. I tedeschi dell’Est portano con sé un bagaglio storico pesante. Diversamente dai tedeschi occidentali, fno al 1990 non avevano avuto esperienze democratiche collettive. Ma il desiderio di libertà e democrazia non implica che si sappia come tutto ciò funzioni davvero nella realtà, ovvero quanti oneri comportino libertà e democrazia: molto più onerose e faticose di qualsiasi altra forma di convivenza sociale. Se tutto ciò non è stato appreso, è diffcile accettare lo Stato che garantisce tale forma di convivenza. È necessaria anche la volontà di apprenderlo. L’aspetto più grave è che fno al 1989-90, il regime comunista aveva utilizzato costantemente concetti come democrazia, libertà, giustizia, certezza del diritto, partito, sicurezza sociale per defnire, difendere e legittimare il sistema. Nessuno poteva sottrarsi al bombardamento ideologico. Diversamente dalla democrazia, una dittatura non si basa sulla fducia; non ne ha bisogno. Mentre invece oggi i discorsi tradizionali che sembrano riscuotere particolare successo in Germania orientale sono il pensiero illiberale, il nazionalismo, lo statalismo e il razzismo. Sono strettamente collegati si manifestano nella richiesta di uno Stato forte, nella nostalgia di una «società omogenea», nell’esclusione di stili di vita diversi da quella che assume come tradizione. Anche la visione del futuro fa riferimento a tale tipo di società: omogenea, intatta, calda e solidale, non esposta alle fratture del presente. Lo sguardo in avanti è volutamente rappresentato come un passo (o diversi passi) indietro. Oggi la strada imboccata dalla Germania orientale sembra condurre verso il populismo autoritario. Come sempre nella storia, vi sono però suffcienti motivi per continuare a sperare. Nell’Est la soluzione populista non è ancora sostenuta da una maggioranza ampia; il grosso dei cittadini continua a credere nella democrazia e nella libertà, sebbene un ulteriore slittamento a destra appare probabile. La Germania orientale si è spesso trovata ad anticipare gli sviluppi della Germania occidentale e di altre parti d’Europa. I democratici farebbero bene a prenderla molto sul serio, imparandone la lezione. (traduzione di Monica Lumachi)
76
IL MURO PORTANTE
IL SONNO DELLA GEOPOLITICA GENERA MOSTRI
di Pierre-Emmanuel Thomann
Il tabù geopolitico non è ancora del tutto superato nel nostro continente. La reticenza della Germania influisce sull’impotenza dell’Unione Europea. Il contrasto con le velleità della Francia. Se non scegliamo, altri lo fanno per noi.
S
ECONDO LA SUA STRATEGIA GLOBALE
pubblicata nel 2016, l’Unione Europea intende darsi autonomia strategica. Per farlo, si propone come impero normativo, prevedendo un crescente peso del fattore giuridico nelle relazioni internazionali. Il tutto mentre altri soggetti politici – Stati Uniti, Cina, Russia e India – si affdano a dottrine poggianti sulla concezione classica di potenza. Enfatizzando il concetto di multilateralismo, la geopolitica, intesa come strategia di potenza, resta largamente al di fuori dell’orizzonte delle istituzioni europee. Persistono diversi ostacoli a una reale concezione geopolitica del progetto europeo. Primo, la lettura delle dinamiche mondiali è eredità della guerra fredda e di un defcit di rifessione e di dibattito pubblico a livello strategico. Secondo, le questioni del territorio, delle priorità geografche e delle frontiere sono poco approfondite nei negoziati brussellesi, proprio in quanto sensibili e confittuali. Terzo, la cecità spaziale e la diffcoltà a ragionare in termini di sovranità sono il risultato dell’importanza quasi esclusiva accordata nell’analisi agli ambiti del diritto, dell’economia e della politica. Infne, gli Stati membri hanno una percezione profondamente asimmetrica delle minacce e degli interessi a causa del diverso sviluppo storico e della diversa geografa. Ma la resistenza a pensare in termini geopolitici non è limitata solo a questi fattori. Ha radici ben più profonde.
Retaggio storico: il tabù della geopolitica in Germania Il termine geopolitica (Geopolitk) continua a mantenere una connotazione sulfurea in Germania, a differenza che in Francia. Ancora nel 2010, l’allora ministro degli Esteri e oggi presidente della repubblica Frank-Walter Steinmeier riferi-
77
IL SONNO DELLA GEOPOLITICA GENERA MOSTRI
va di aver provato un «leggero shock» nel ricevere un invito dall’Università di Amburgo a riferire della «riorganizzazione geopolitica del mondo» – lo scompenso non gli ha impedito di tenervi comunque un discorso. Benché quel termine si usi ormai in modo sempre meno tormentato, una nuova scuola geopolitica tedesca ancora non esiste. Fra i cittadini della Repubblica Federale il riferimento naturale è la geopolitica anglosassone, da considerarsi una variante della scuola realista delle relazioni internazionali, allo stesso modo in cui la geopolitica francese praticata all’Institut français de géopolitique è una variante della geografa. L’eredità storica degli eccessi della Geopolitik non ha smesso di impregnare gli animi, al punto che le rivalità territoriali restano un tabù per molti tedeschi. Esistono tuttavia autori che cercano di riabilitare lo spazio geografco e culturale come categoria d’analisi per comprendere come gira il mondo. Per esempio, alcuni universitari di Potsdam e dell’istituto polacco Zachodni hanno creato la rivista Welttrends, Zeitschrift für Internationale Politik, consacrandola alle relazioni internazionali con un focus sui rapporti di forza tra gli Stati. Ancora, l’accademico Karl Schlögel 1 cerca di sottolineare l’attuale pertinenza dell’adagio del geografo tedesco del XIX secolo Friedrich Ratzel, secondo il quale «im Raume lesen wir die Zeit», ossia «è attraverso lo spazio geografco che leggiamo il tempo». Inoltre, Heinz Brill, un militare, deplora la persistenza dei tabù sulla rifessione geopolitica in Germania e prova a riabilitare quest’ultima concentrandosi sulle strategie territoriali degli Stati, sui rapporti di forza bellici e sulla geostrategia 2. Invece, il diplomatico Hans-Ulrich Seidt è dell’avviso che la politica di sicurezza della Repubblica Federale dovrebbe basarsi su una concezione autoctona della geopolitica, senza tuttavia ripiombare nell’ossessione del passato per il territorio e nell’ideologia, dunque concependola come sapere appartenente alle scienze sociali benché al servizio dello Stato. Per sua stessa ammissione, queste idee vanno contro le concezioni della maggioranza negli ambienti politici, universitari e giornalistici, che considerano ancora la geopolitica applicata come qualcosa di anacronistico risalente al XIX secolo e all’inizio del XX 3. Il ricordo dei progetti di potenza resta presente nella memoria tedesca in due modi: come passato che non passa, rafforzando l’incertezza dei tedeschi sulla propria identità; e sotto forma di cultura dell’autocontrollo in politica estera. È dunque diffcile elaborare una dottrina geopolitica all’interno dell’Unione Europea se lo Stato membro più importante, la Germania, resta scettico su questo approccio.
78
1. K. Schlögel, Im Raume lesen wir die Zeit: Über Zivilisationsgeschichte und Geopolitik, Frankfurt a.M. 2009, Fischer Taschenbuch Verlag. 2. H. Brill, Geopolitische Analysen, Beiträge zur Deutschen und Internationalen Sicherheitspolitik 1974-2004, Bissendorf 2005, Biblio Verlag. 3. H.-U. Seidt, «Wozu noch Geopolitik», Standort, Zeitschrift für angewandte Geographie, vol. 30, n. 2, 2006, pp. 104-106.
IL MURO PORTANTE
L’angolo politico-economico del progetto europeo L’incapacità di pensare esplicitamente l’Unione Europea in termini di strategia di potenza origina anche dall’impossibilità durante la guerra fredda di costruire un progetto d’integrazione militare. Negli anni Cinquanta, sulla scia del confitto in Corea, era stata promossa una Comunità Europea della Difesa (Ced). Ma la Nato esisteva già e dunque le rifessioni geopolitiche erano concentrate altrove, peraltro in un’organizzazione a guida anglo-americana. E benché l’inizio dell’integrazione europea avvenisse sulla gestione comune del carbone e dell’acciaio – settori certamente strategici – il progetto era subordinato all’Alleanza Atlantica, il luogo del potere decisionale nella lotta all’Unione Sovietica. Per uno dei suoi promotori, Jean Monnet, la Ced era un modo per accelerare la marcia verso l’Europa federale, con un progetto di unione politica più profonda rispetto alla Ceca. La questione della difesa toccava però il cuore della sovranità degli Stati e dopo oltre quattro anni di diffcili trattative, in particolare a causa della classe politica francese, il piano fu defnitivamente abbandonato nel 1954. I più contrari furono i gollisti, non intenzionati ad approvare un simile trasferimento di prerogative e a creare un’Europa sovrannazionale artifciale perché faceva a pugni con la concezione francese della sovranità. Il fallimento della Ced fu un momento di grande desolazione per il cancelliere della Germania Ovest Konrad Adenauer, che lo descrisse come un giorno nero per l’Europa. Il progetto di difesa europea avrebbe permesso a Bonn, secondo il leader renano, di non restare per sempre semplice oggetto delle altrui strategie e di proseguire nella caccia all’ottenimento dell’eguaglianza dei diritti. L’abbandono del trattato Ced rese più diffcile tutti i piani del cancelliere. La conseguenza immediata fu il riarmo della Repubblica Federale nel quadro della Nato, nella quale il paese fu ammesso nel 1955. Da allora, l’Alleanza Atlantica è rimasta il centro di gravità della difesa del continente. Il naufragio della Ced va peraltro visto come evidente segnale della persistenza dei retropensieri tedesco e francese, un assaggio delle controversie fra le due sponde del Reno sulla natura del progetto d’integrazione europea scatenate dall’ascesa al potere del generale de Gaulle nel 1958. Questo storico e perdurante malinteso franco-tedesco è sempre stato e continua a essere un ostacolo a pensare la potenza all’interno delle istituzioni di Bruxelles. Il tramonto dell’opzione della difesa è risultato in una maggiore attenzione del progetto europeo verso l’integrazione attraverso mezzi economici. È dunque a partire dalla soluzione al quesito di chi dovesse garantire la difesa del continente (risposta: l’America attraverso la Nato) che l’architettura europea è potuta sbocciare.
La nozione di potenza civile A sua volta, questa eredità storica ha come conseguenza un defcit di pensiero geopolitico, che viene giustifcato anche attraverso un’argomentazione ideologica.
79
IL SONNO DELLA GEOPOLITICA GENERA MOSTRI
80
Nelle relazioni internazionali, l’Unione Europea si avvicina a una potenza civile e coltiva i propri modelli di diplomazia e di gestione politica. Tale nozione è stata di fatto trasferita, esportata dalla Germania al livello europeo. Deriva dalla sfducia dei tedeschi nella potenza militare dopo la traumatica esperienza della seconda guerra mondiale. Sin dal dopoguerra, la Repubblica Federale ha impiegato il proprio surplus commerciale al servizio delle pacifche politiche di sicurezza, vedi la Ostpolitik di fne anni Sessanta, con la dottrina del cambiamento attraverso il riavvicinamento (Wandel durch Anhärung). Dopo la caduta dell’Urss e l’emersione di una zona d’instabilità ai confni orientali, la forza economica teutonica è stata messa al servizio della dottrina del riavvicinamento attraverso l’intreccio economico (Anhörung durch Verfechtung) verso la Russia e le ex repubbliche sovietiche, seguendo l’esempio storico della politica di Egon Bahr e Willy Brandt. L’utopia europeista prevede di costruire la pace attraverso l’unità, ma tale unità sembra allontanarsi sempre più nella confgurazione policentrica del mondo e dell’Europa stessa. Tanto più che ovunque nel continente diminuisce la popolarità delle ideologie normative neoliberali e dei diritti umani, crisi di cui sono espressione i sempre maggiori consensi per partiti nazionalisti euroscettici. Dalle origini del progetto europeo fno a oggi esiste inoltre una percezione asimmetrica delle minacce e degli interessi fra gli Stati membri. Ciascuna nazione elabora i propri orientamenti geopolitici in funzione della propria storia e della propria posizione geografca. Infne, la mancanza di dibattito pubblico e politico sulle poste in gioco geopolitiche dell’Ue è un ostacolo alla legittimità stessa del progetto e potrebbe essergli fatale. Si preferisce provare a superare lo stallo evitando di infrangere la narrazione incantata invece di metterla in discussione e tirarne un bilancio. Priva di un trasferimento di sovranità e delle strutture adatte a giocare un ruolo classico, ossia militare, di potenza, l’Unione Europea cerca di affermare la propria identità di potenza normativa. La strategia globale del 2016 non prevede un’analisi delle minacce, a differenza dei documenti equivalenti degli Stati membri. E non è all’ordine del giorno un’armonizzazione delle percezioni di sicurezza, delle priorità geopolitiche e delle dottrine di difesa e di politica estera. È il rifesso di un’assenza di volontà. Così come di una coppia franco-tedesca in panne, anche a causa del Brexit. Senza una strategia di potenza suffcientemente solida da sostenere una vera autonomia strategica, l’aumento dell’enfasi retorica sul diritto internazionale e sui diritti umani sembra inversamente proporzionale all’incapacità collettiva degli Stati europei di incidere sulle crisi in corso ai propri confni. Se a ciò si aggiungono il mai debellato terrorismo jihadista e i fussi migratori, l’impressione di una frammentazione interna sulla questione delle frontiere ne esce rafforzata. L’assenza di rifessione geopolitica in seno all’Ue ha come ulteriore conseguenza di aggravare le relazioni con la Russia, i cui obiettivi mal si accordano con quelli europei.
IL MURO PORTANTE
Europa: incrocio di reti mondiali o spazio protetto? Non c’è ancora una risposta alla domanda su quale fnalità abbia il progetto europeo. Quest’ultimo si è evoluto innanzitutto a causa delle varie crisi che si sono succedute, ma senza mai affrontare davvero gli equilibri interni, ossia la distribuzione del potere fra gli Stati membri. Similmente irrisolto è il quesito sulle fnalità dell’Ue nella globalizzazione. Semplice sottosistema ben regolato ma aperto e sempre più dominato da attori extracontinentali o privati? Oppure potenza che difende uno specifco modello economico-politico all’interno di frontiere più stabili? Questa incertezza è un altro impedimento all’elaborazione di una dottrina geopolitica. Il dilemma europeo è il seguente. Come ha sottolineato lo storico Michael Stürmer, l’equilibrio del continente è stato a lungo considerato come realizzabile a condizione che la Germania non fosse una potenza centrale ma uno scacchiere dominato dagli attori vicini. Il progetto europeo ha contribuito a risolvere la rivalità bellica franco-tedesca, condizione necessaria per la pace europea. Ma la ragione stessa del suo successo, ossia il sistema piuttosto oliato di neutralizzazioni reciproche, ha fnito per ostacolare la ricerca di chiarezza sulle fnalità globali dell’Ue, in particolare fra tedeschi e francesi. Insomma, l’abbandono della Germania potenza, chiave della pace in Europa, si è oggi tramutato in ostacolo al desiderio francese di creare un’Europa potenza. I tedeschi tendono a pensare che l’Ue debba proporsi come modello responsabile per agire come fattore di stabilizzazione in un mondo dove occorra minimizzare i rapporti di forza, compresi quelli militari. L’istinto francese è invece di costruire un’Europa potenza per continuare ad agire in un mondo popolato da potenze classiche, se necessario anche per mezzo della forza. Accanto a essa può trovare posto l’Europa stabilizzatrice, con l’enfasi sul versante giuridico e sul multilateralismo. Ma solo come complemento, non come pilastro esclusivo. Tale ambivalenza permette a Parigi di mantenere un minimo d’intesa francotedesca ma non consente di fare un salto di qualità verso una linea di condotta chiara e una fnalità condivisa. Il ricercatore Nils Hoffmann ha parlato di «rinascita della geopolitica» 4 in Germania non come materia universitaria o come prolungamento della Geopolitik d’anteguerra, ma come ritorno della dimensione spaziale nelle decisioni politiche. Malgrado il perdurante tabù che pesa su questa disciplina, le rappresentazioni geopolitiche tedesche hanno sempre avuto un impatto sulle decisioni strategiche dei vari governi, come l’ancoraggio all’Occidente o la Ostpolitik. Dopo la riunifcazione, è stata la volta della Mittellage (posizione centrale), dell’idea di potenza economica, dell’allargamento dell’Ue e dell’approvvigionamento energetico. Tutto ciò attesta senza dubbio un rafforzamento delle preoccupazioni geopolitiche in conseguenza di un aumento del margine di manovra di Berlino. Ma la prudenza dei decisori tedeschi verso i discorsi sulla potenza ha la conseguenza di rafforzare lo iato tra l’im4. N. hoffmann, Renaissance der Geopolitik? Die deutsche Sicherheitspoltik nach dem Kalten Krieg, Wiesbaden 2012, Springer Verlag für Sozialwissenschaften.
81
IL SONNO DELLA GEOPOLITICA GENERA MOSTRI
magine che si fanno i cittadini dei presunti interessi nazionali e le visioni strategiche degli attori istituzionali.
La rimozione della geopolitica allinea l’Ue alle priorità americane Niente esemplifca meglio questa incapacità di pensare in senso geopolitico della postura della Germania nei rapporti con la Russia. All’inizio della crisi ucraina, le dichiarazioni di John Kerry e Angela Merkel, i due leader più favorevoli alle sanzioni europee contro Mosca, facevano intendere che il comportamento della Russia appartenesse al passato. In una dichiarazione del 3 marzo 2014, l’allora segretario di Stato americano disse che «non si può agire nel XXI secolo come fossimo nel XIX, invadendo un altro paese con un pretesto qualunque» 5. La cancelliera tedesca gli ha fatto eco dieci giorni dopo davanti al proprio parlamento, asserendo che «la guerra in Georgia nel 2008 e quella odierna in mezzo all’Europa in Ucraina sono confitti di zone d’infuenza e di rivendicazioni territoriali tipici del XIX e del XX secolo e che pensavamo ormai superati». In seguito a questa negazione della geopolitica, in linea con la sua esplicita dottrina normativa, l’Unione Europea fa dipendere le relazioni con la Russia dai princìpi del diritto, peraltro dichiarati in modo unilaterale. Come si legge in un documento del Servizio europeo di Azione esterna, «un’evoluzione sostanziale delle relazioni fra l’Ue e la Russia presuppone il pieno rispetto del diritto internazionale e dei princìpi basilari dell’ordine di sicurezza europeo, in particolare l’Atto fnale di Helsinki e la Carta di Parigi. Non riconosceremo l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia né accetteremo la destabilizzazione dell’Est dell’Ucraina» 6. Una risoluzione del 2019 del Parlamento europeo fornisce un’ulteriore chiave di lettura quando dice che «la visione policentrica della Russia del concerto delle potenze contraddice la fede dell’Unione nel multilateralismo e in un ordine internazionale fondato sulle regole» 7. L’adesione alla classica retorica euro-atlantista dimostra come l’Ue sia contraria a un mondo pluricentrico, dunque in favore della leadership degli Stati Uniti. Si considera complementare alla Nato, ma non ha dottrina geopolitica. Di conseguenza, si allinea su quella del principale alleato, Washington, che una strategia geopolitica invece la possiede eccome.
Conclusioni Una migliore comprensione dei problemi geopolitici sarebbe doppiamente utile per l’Ue, sia per la sua capacità di analisi dei confitti territoriali del XXI secolo sia per lo sviluppo di una strategia di potenza fondata sul possesso dello
82
5. «Kerry condemns Russia’s “incredible act of aggression” in Ukraine», Reuters, 2/3/2014. 6. Vision partagée, action commune: Une Europe plus forte. Une stratégie globale pour la politique étrangère et de sécurité de l’Union européenne, Bruxelles 2016, Service européen d’Action extérieure, p. 26. 7. Resolution on the state of EU-Russia political relations, European Parliament, 12/3/2019.
IL MURO PORTANTE
spazio e subordinata alla volontà politica. Riscoprire l’importanza del controllo del territorio, della strategia geopolitica e dell’equilibrio di potenza è necessario se l’Ue vuole mantenere valore aggiunto e una propria pertinenza. Per interpretare un ruolo sulla scena internazionale, l’Ue deve cambiare postura nei confronti del mondo esterno. La globalizzazione è in realtà una lotta per la ripartizione degli spazi. Dopo la seconda guerra mondiale, la creazione di un nuovo ordine fondato sulle istituzioni di Bretton Woods aveva illuso i più che il mondo fosse cambiato, che si fosse evoluto eliminando le rivalità territoriali. Si trattava invece di una Pax americana (e sovietica, fno alla fne della guerra fredda) e questa situazione era temporanea. Siamo ora tornati a una condizione normale, nella quale lo spazio è un elemento determinante della vita degli esseri umani e del comportamento degli attori che più li rappresentano, gli Stati. Non c’è nazione senza territorio, né sicurezza senza controllo dello stesso. In funzione delle futtuazioni demografche e dei progetti politici dell’uomo, gli spazi delle entità politiche sono costretti a evolversi, espandendosi o riducendosi. I progetti geopolitici sono dunque rappresentazioni covate nel ventre delle nazioni e messe in opera quando le circostanze lo permettono. Gli europeisti più ingenui dovranno abbandonare la loro ideologia deterritorializzata perché le nazioni tengono al proprio spazio storico e vogliono le proprie culture e tradizioni difese da un potere sovrano. E le collettività europee sono sempre più restie ad accettare un’identità fondata unicamente su princìpi di diritto provenienti da una visione teorica e ideologica della democrazia. Per navigare il cangiante mondo del XXI secolo, occorre concepire una strategia geopolitica nello spazio e nel tempo, che funzioni come strumento per equilibrare le potenze. Il controllo del territorio e del tempo al servizio di un obiettivo politico costituisce un vantaggio decisivo e un elemento centrale della sovranità. E dipende dalla capacità di riconoscere e apprezzare i limiti spazio-temporali nostri e degli altri. Un’Unione Europea riformata non potrà non defnire una propria strategia geopolitica: il progetto europeo sarà geopolitico o non sarà. (traduzione di Federico Petroni)
83
IL MURO PORTANTE
LA ANIME DI STETTINO
di Laura Stanganini
Con la fine del secondo conflitto mondiale la tedesca città sull’Oder diventa polacca. Un traumatico ‘risarcimento’ voluto da Stalin, anche per tenere Varsavia a distanza da Berlino. Le aperture del dopo Muro e la nuova cornice Ue, tra populismi e progetti transfrontalieri.
C
1. ON L’ABOLIZIONE DEI CONTROLLI DOGANALI tra la Germania e la Polonia, dal dicembre 2007 la Pomerania si trova di nuovo riunita nell’Unione Europea e fnalmente dopo oltre sessant’anni la linea OderNeiße sembra appartenere alla storia. In nessun altro tratto questa demarcazione presentava una così alta confittualità, con un ruolo cruciale affdato alla città di Stettino. Il capoluogo della Pomerania, situato alla sinistra dell’Oder, con 380 mila abitanti in gran parte tedeschi, al termine del secondo confitto mondiale non sarebbe dovuto andare alla Polonia, ma andò diversamente. Come mai? Quale ruolo era stato affdato a Stettino? Quali furono le conseguenze del nuovo confne? Da uno sguardo alla carta della Pomerania, si nota che il confne tedesco-polacco abbandona la «naturale» delimitazione del fume Oder per aprirsi con un ampio angolo che si lascia Stettino a destra per poi percorrere la laguna fno ad attraversare l’isola di Usedom. Sebbene la conferenza di Potsdam avesse stabilito la divisione delle zone di occupazione, il confne tra la parte della Germania occupata dai sovietici e i territori tedeschi destinati alla Polonia era stato lasciato aperto «in attesa di determinazione». Anche il corso dell’Oder pareva contribuire a tale vaghezza dal momento che in quel tratto incontra il mare e gradualmente si confonde con le paludi lagunari, quasi a suggerire un confne indefnito e a offrire motivi di contesa. Più prosaicamente sembra invece che i sovietici avessero sostanzialmente promesso Stettino ai polacchi, i quali a loro volta cercavano di includere nella loro amministrazione territoriale anche le isole di Usedom, Rügen e altri avamposti strategici, facendo appello nelle loro ambizioni a un ritorno a terre patrie di antica memoria, tolte loro dai tedeschi con la Ostpolitik degli imperatori medievali. Si dava quindi alla Polonia (o si toglieva alla Germania) un altro porto, oltre a Danzica, garantendole il controllo sull’Oder, navigabile, utile accesso al bacino
85
LE ANIME DI STETTINO
della Slesia ormai polacco. Per Stettino si preparava quindi un destino diverso rispetto alle altre città sulla Oder-Neiße i cui ponti furono inizialmente distrutti per impedire l’avanzata dell’Armata Rossa, quindi il rientro dei profughi, e poi non più ricostruiti affnché i fumi potessero pienamente adempiere alla loro funzione di barriera. O più banalmente, per recuperare i materiali edili da trasferire in fretta per la ricostruzione di Varsavia. Così Francoforte sull’Oder, Guben e Görlitz si trovarono divise in due entità che sarebbero cresciute, o proprio a causa della loro marginalità decresciute, per oltre sessant’anni. Solo allora ebbe inizio il disgelo su quello che in piena propaganda veniva chiamato Friedensgrenze (confne di pace), seppur presidiato militarmente. Ma altre considerazioni geostoriche suggerivano che per Stettino sarebbe potuta andare diversamente. Se è innegabile che l’area urbana, ma soprattutto quella portuale, si trovino sulla riva sinistra dell’Oder, adottare la stessa soluzione applicata alle altre città sui fumi Oder e Neiße, e quindi dividerla, sarebbe risultato piuttosto sventato poiché avrebbe affdato anche alla Germania il controllo dell’accesso a questa importante via d’acqua. Situata a una settantina di chilometri dal mare aperto, Stettino ha il vantaggio di essere un porto che s’addentra molto nell’interno e di servire un vasto retroterra. Il suo sviluppo risale al 1720, quando divenuta prussiana, s’iniziarono i lavori per la regolarizzazione dell’Oder che proprio in questo punto presenta l’ultimo facile passaggio, prima di suddividersi in più rami e perdersi nelle paludi lagunari. Lo sviluppo industriale e agricolo del retroterra, nonché la crescente importanza assunta da Berlino, ne fecero la porta del Baltico. Ulteriori investimenti portarono all’apertura del collegamento ferroviario con la capitale (distante solo 135 km), a lavori per prolungare la navigazione fno in Alta Slesia (canale Klodnitz) e a collegare l’Oder con la Sprea e l’Havel. Stettino divenne il porto di Berlino e il luogo di villeggiatura degli industriali berlinesi. A sua volta Berlino era il legame di Stettino con la scena culturale internazionale, l’arte, la mondanità. Fino alla seconda guerra mondiale e alla contesa sui confni tedesco-polacchi che si risolse con la sua cessione alla Polonia. Distrutta moralmente e materialmente Stettino ripartiva da zero. Danneggiata dai bombardamenti britannici (oltre il 45% delle abitazioni distrutte) e privata della sua vasta area suburbana, si preparava ad affrontare la rapida sostituzione della popolazione: quella tedesca, espulsa, venne completamente sostituita da quella polacca proveniente dai territori orientali. Dei 268.900 tedeschi censiti nel 1936, nel 1946 ne restavano soltanto 72.900, corrispondenti a una diminuzione del 73%. Ed era solo l’inizio. La città che fno allora aveva guardato a occidente e a Berlino era alla ricerca di una nuova identità. Diversamente da Danzica, non aveva un sostrato polacco da cui ripartire, qui il compito si presentava più diffcile: Stettin doveva diventare Szczecin. Mancando appigli nella storia, ebbe campo libero l’urbanistica socialista.
86
2. La fne della sovranità tedesca sulla Pomerania fu teoricamente sancita già nella conferenza di Jalta (febbraio 1945) allorché si dichiarò che la Polonia avrebbe
IL MURO PORTANTE
LA CICLABILE DELL’ODER-NEIßE
Baia della Pomerania
Ueckermünde 54 km
20
Stettino Ode r
Löcknitz
71 km
Schwedt 11
24
84 km
r de
O
Gorzów Wielkopolski
Küstrin
BERLINO 10
Francoforte sull’Oder
2
P O L O N I A
12
10
92 km
9 Guben Ne
Cottbus
15
Ode r Zielona Góra
98 km
Neiße
iße
G E R M A N I A
68 km
13 Rothenburg 14
4 Bautzen
Görlitz
Dresda 4
4
17
Confni statali Fiumi Pista ciclabile Oder-Neiße Principali autostrade tedesche Città toccate dalla pista ciclabile Località principali
Zittau
Liberec Jablonec
Nova Ves
32,5 Km
R E P U B B L I C A
C E C A
87
LE ANIME DI STETTINO
LE PERDITE E LE CONQUISTE TERRITORIALI DOPO IL 1945 Klaipeda Malmö SVEZIA
Liepaja
Copenaghen
LITUANIA
Mar Baltico
Prussia Orientale
GERMANIA
Stettino
BIELORUSSIA
Danzica
Pomerania
Vilnius
Kaunas
Kaliningrad RUSSIA
Grodno
Bydgoszcz Bialystok
Berlino Poznań
tsdam
POLONIA Varsavia Lódz
Slesia
Dresda
POLESIA
Lublino Breslavia
Rowno
Praga VOL
REPUBBLICA CECA
Confni della Polonia nel 1945 Confni della Polonia nel 1933 Territori ceduti all’allora Unione Sovietica Territori annessi alla Polonia dalla Germania
88
GA
LIZ
INIA
IA
UCRAINA
Prezmysl
Cracovia Katowice
S LO VACC H I A UNGHERIA
dovuto ricevere adeguati compensi territoriali a nord e a ovest a indennizzo dei territori orientali ceduti all’Urss, dove la linea Curzon, già proposta dopo la prima guerra mondiale, avrebbe costituito il nuovo confne orientale. Tuttavia fu durante la conferenza di Potsdam (luglio-agosto 1945) che l’Unione Sovietica giocò un ruolo primario affdandone l’amministrazione alla Polonia, «in attesa della determinazione defnitiva delle frontiere occidentali». Come confne venivano designati i fumi Oder e il tratto lusaziano della Neiße (mentre inizialmente si era pensato al corso della Glatzer Neiße che avrebbe lasciato alla Germania gran parte della Slesia). Unica eccezione a questo confne «naturale» sarebbe stata la sezione da Swinemünde fno all’estuario dell’Oder: lì il confne sarebbe passato a ovest del fume («una linea che parte dal Mar Baltico immediatamente a ovest di Swinemünde e segue il corso dell’Oder fno alla confuenza del Neiße occidentale e lungo il Neiße
IL MURO PORTANTE
occidentale fno al confne con la Cecoslovacchia», articolo IX, conferenza di Potsdam, 2 agosto 1945). Esplicitamente di Stettino non vi era menzione. Dei motivi e delle modalità di riconoscimento di questo tratto si è occupato Bernd Aischmann 1, giornalista e amministratore locale, supportato da una ricca documentazione e da adeguate conoscenze linguistiche. Per delinearne un quadro completo è opportuno risalire alla politica staliniana e all’ingresso il 17 settembre 1939 delle truppe sovietiche nella Polonia orientale, dopo il patto Hitler-Stalin, con l’occupazione dei territori della linea Curzon. Nel giustifcare l’invasione con la protezione degli ucraini e dei bielorussi che vivevano nella Polonia orientale, Stalin affermò che la Polonia per questa perdita avrebbe ricevuto i territori tedeschi a est della Oder-Neiße, senza però defnirne l’esatta estensione. Nel gennaio del 1944, per la prima volta Stalin cedette alle richieste della Lega dei patrioti polacchi, una sorta di contro-governo polacco in esilio a Londra, prevedendo l’inclusione di Stettino, situata a ovest dell’Oder, e del suo avamporto Swinemünde sull’isola di Usedom. Accordi che però non vennero resi noti alla conferenza di Jalta. Dopo l’occupazione di Stettino da parte sovietica il 26 aprile 1945, e fno al ritiro defnitivo dell’amministrazione cittadina tedesca, la situazione si presentò confusa e drammatica per la popolazione civile. Questa dura realtà sarebbe alla base della concessione dei sovietici di due comuni paralleli, uno tedesco e uno polacco, che in questa fase di interregno alimentarono speranze da entrambe le parti. Ma il 28 giugno fu inaspettatamente annunciata la cessione alla Polonia. Aischmann mette in relazione il comportamento di Stalin con il ritiro delle truppe alleate oltre i confni concordati. Come è noto, durante gli attacchi nella primavera del 1945, gli inglesi e gli americani occuparono la parte occidentale di quella che sarà poi la zona di occupazione sovietica rimanendovi fno al 1° luglio. Erfurt, Lipsia, Magdeburgo e Schwerin erano state liberate dagli angloamericani. Fintanto che gli americani erano in Turingia e in Sassonia, Stalin aveva preferito tenere aperta la decisione su Stettino per aver spazio di manovra nei negoziati. Ma dopo l’effettivo ritiro delle truppe poté agire più liberamente. Il 5 luglio 1945 comunicò inequivocabilmente alla conferenza di Potsdam che Stettino sarebbe passata alla Polonia e non incontrò resistenza da parte degli alleati occidentali. Inoltre, l’integrazione dei territori tedeschi nello Stato postbellico polacco e l’espulsione della popolazione tedesca avrebbero creato due antagonisti e le relazioni tra Germania e Polonia sarebbero state compromesse per lungo tempo. Il divide et impera era difatti il motto della leadership sovietica. Tra il 6 e il 10 luglio il personale amministrativo tedesco fu costretto a lasciare la città insieme al suo sindaco, il «compagno» Erich Wiesner. Tuttavia rimanevano aperte diverse questioni sulle misure di compensazione a spese dei tedeschi e si presentavano numerosi problemi pratici tra cui l’enormità dell’esodo della popolazione e le dure con1. B. Aischmann, Mecklenburg-Vorpommern, die Stadt Stettin ausgenommen, Schwerin 2008, Helms Thomas Verlag.
89
LE ANIME DI STETTINO
dizioni di coloro che erano rimasti in città. L’incertezza dei confni, inoltre, e i numeri della popolazione coinvolta, facevano pensare a ripensamenti. Infne, affdando ai polacchi solo la parte urbana di Stettino (non la Grande Stettino del 1939), si privava la città di parti vitali situate ormai oltreconfne. Ciò in parte fu sanato con l’accordo di frontiera di Schwerin del 21 settembre 1945, tra Unione Sovietica e Polonia, che spostò ulteriormente i confni per l’inclusione di Swinemünde e Wollin. L’Urss tuttavia continuò a mantenere il controllo del porto e delle aree a nordovest, sede degli impianti di idrogenazione, che furono smantellati e trasferiti come riparazione a opera di lavoratori tedeschi forzati. Si era arrivati così alla defnizione dei nuovi territori: il Land Meclemburgo-Pomerania Anteriore in Germania e la Pomerania in Polonia, con Stettino capoluogo dell’omonimo voivodato. Il riconoscimento uffciale da parte della DDR arrivò nel 1950 con il trattato di pace di Görlitz con il quale si accettava il confne come Friedensgrenze operando nel 1951 un’ultima correzione territoriale ancora a vantaggio dei polacchi. Il testo riprendeva gli accordi di Potsdam e ugualmente non menzionava l’area urbana di Stettino. Negli anni Cinquanta il problema del confne tedesco-polacco, lungi dall’essere risolto, si spostò in mare, nella baia di Pomerania al largo di Swinemünde, dove la naturale indeterminatezza del percorso alimentava le reciproche speranze, e quindi il confitto, soprattutto per l’accesso ai giacimenti di petrolio e gas offshore. Da allora ulteriori rivendicazioni territoriali da parte della Polonia riguardo alle isole baltiche non trovarono più ascolto. Dopo la costruzione del Muro, i tedeschi della SED anche in un’ottica di pianifcazione economica chiesero l’uso comune del porto di Stettino, prima di avviare in alternativa i lavori di ampliamento dei porti di Rostock e Warnemünde. Un accesso senza ostacoli, sulla scia di quanto stava avvenendo a ovest tra i paesi della Cee, non era però possibile nei paesi socialisti. Dall’altra parte del Muro, nel 1970, la Repubblica Federale del cancelliere Brandt riconobbe, non senza critiche, il confne con il trattato di Varsavia. Il riconoscimento defnitivo da entrambe le parti giunse tuttavia con il trattato di frontiera tedesco-polacco del 14 novembre 1990. Si muovono da allora i primi passi per i trattati transfrontalieri quali la fondazione dell’Euroregione Pomerania nel 1995, mentre dal 2012 l’agglomerato di Stettino nuovamente ricomposto inizia a svilupparsi in un’ottica di area metropolitana transfrontaliera collegata a Berlino.
90
3. Per i tedeschi e i polacchi delle regioni sulle due sponde dell’Oder-Neiße gli anni tra il 1945 e il 1989 sono stati diffcili. Se sulla carta si celebrava l’amicizia tra la Repubblica Popolare di Polonia e la DDR, politicamente la diffdenza è continuata per lungo tempo: pregiudizi e risentimenti sono perdurati, periodicamente ripresi e strumentalizzati politicamente. La fede politico-ideologica comune non era garanzia suffciente. La propaganda si adoperava nella legittimazione: il confne era «di pace» e chi avanzava rivendicazioni un «guerrafondaio». Se nella DDR si pensava che un paziente lavoro diplomatico potesse portare a rivedere i confni (vedi il tentativo di Ulbricht per Stettino nel 1956), da parte polacca non si dimenticavano
IL MURO PORTANTE
SWINOUJSCIE, L’AVAMPORTO DI STETTINO Stettino (su strada)
150 km ca
Berlino
Stettino (linea d’aria)
126,45 km
Berlino
Mar Baltico Kamień Pomorski Międzyzdroje ŚWINOUJŚCIE
WOLIN
USEDOM Usedom Wolin
Golczeów
Zalew Szczeciński Ueckermünde
Nowe Warpno
Eggesin
P O L O N I A Trzebież
Torgelow
G E R M A N I A Confne statale Pasewalk Aeroporto Ferrovia Strade nazionali Parco nazionale Woliński Città
Golenióv Police
STETTINO
Jez. Dąbie
Città del sistema interporto Area urbana di Stettino
gli orrori del passato e si enfatizzava il ritorno alle «terre riconquistate» (ma dimenticando la cessione dei territori orientali per non irritare i «fratelli sovietici»). Inoltre la rapida «polonizzazione» di queste zone, accompagnata dalla sistematica eliminazione delle tracce del passato tedesco, avrebbe comunque reso altrettanto traumatico qualsiasi successivo tentativo di modifca. Se per queste regioni l’origine era slava, il passato tedesco e il presente polacco, il futuro intende essere europeo. A partire dagli anni Novanta, con i primi trattati tedesco-polacchi è partito un lento processo di distensione a cui nel 2004 l’ingresso nell’Ue della Polonia, nonché della Repubblica Ceca, ha dato un forte
91
LE ANIME DI STETTINO
92
impulso: in zone molto provate anche economicamente si sono avviate forme di collaborazione nella consapevolezza che ricostruire un territorio comune potesse rappresentare il volano per un nuovo sviluppo. Diversità e similitudini uniscono le due sponde. Una popolazione etnicamente omogenea da entrambe le parti (raramente la presenza di stranieri supera il 2%), unitamente a disoccupazione, frustrazione, nostalgia e diffdenza verso l’altro, se non vera e propria xenofobia, sono fattori che hanno aperto la strada a movimenti nazional-populisti come in Germania AfD (Alternative für Deutschland, che da queste parti raccoglie il 25-30% dei voti) e in Polonia Diritto e giustizia, legato ai valori conservatori, tradizionali fno alla mitizzazione. Diversamente, se i cattolici in Polonia sono la quasi totalità della popolazione, specularmente a ovest si registra oltre l’80% di atei (i restanti sono luterani): un valore che non è sceso neanche dopo il 1989, al contrario da quanto è avvenuto in altri paesi del blocco. A ogni modo in questi anni entrambe le parti hanno mostrato di voler collaborare attivamente producendo numerosi accordi transfrontalieri e internazionali, mirati a ricucire il tessuto urbano, convinte che con uno sviluppo integrato della città e del suo vasto intorno (leggi comprensori industriali e zone minerarie dismesse) si contribuisca a far ripartire economie in stallo, a progettare storie comuni, a combattere l’emigrazione, la disoccupazione, la denatalità, l’invecchiamento della popolazione. Sono nati così progetti di cooperazione tra la Germania, la Polonia e la Repubblica Ceca, come ad esempio l’Euroregione Neiße, (Euroregion NeißeNisa-Nysa, nel 1991), prima forma uffcialmente riconosciuta di cooperazione transfrontaliera in Europa centro-orientale. Miglioramento delle infrastrutture e adeguamento dei collegamenti sono stati tra i primi interventi realizzati dopo l’ingresso in Europa. Per la loro funzione pratica e l’altrettanto potere simbolico un ruolo chiave è stato affdato ai ponti, ricostruiti per permettere a città ormai da tempo con due nomi di crescere e riforire, mettendo in collegamento le persone, intensifcando i commerci, avvicinando le comunità. Francoforte sull’Oder/Slubice, Guben/Gubin, Görlitz/Zgorzelec hanno pagato cara la loro posizione di frontiera conoscendo decremento demografco, contrazione economica, deperimento urbano. Possono essere considerate delle «piccole Berlino», con un ovest e un est delimitati non da un manufatto di cemento bensì da un corso d’acqua che per oltre quarant’anni ha assolto alla sua funzione di barriera. Passare il fume era, e in parte lo è ancora, fare un salto nel tempo poiché decenni di vita separata hanno creato differenze ormai consolidate che la riunifcazione almeno inizialmente non ha sanato. Riunite da un destino comune sotto l’Ue, queste città hanno intrapreso relazioni amichevoli, e gestiscono insieme progetti e iniziative, autoproclamandosi città europea Europastadt o città Euromodell, come nel caso di Guben/Gubin, oppure come Francoforte sull’Oder fondando l’Università Europea Viadrina. Vittima illustre di un confne inventato era stato anche il prestigioso Parco di Muskau, (Muskauer Park/ Park Muz·akowski). Due secoli addietro il morbido paesaggio solcato dal Neiße aveva ispirato l’eccentrico principe Pückler-Muskau per la
IL MURO PORTANTE
realizzazione di questo sofsticato parco, esemplare nell’accentuato contrasto tra la naturalezza dei suoi paesaggi e le ricche architetture di stampo barocco. Sopravvissuto alla guerra, distrutto e diviso, restò per anni in stato di abbandono. Le velleità estetiche di un bizzarro Junker cosmopolita non erano certo gradite ai gerarchi della DDR che avviarono una prima ricostruzione solo nel 1965, mentre nel frattempo la parte polacca era stata riconosciuta riserva naturale. Con il passaggio nel 1992 al Land della Sassonia nasce la fondazione Fürst-Pückler-Park Bad Muskau e la Fürst-Pückler-Region, per la promozione del turismo culturale. Per la sua importanza nello sviluppo dell’architettura del paesaggio come disciplina, nel 2004 è stato riconosciuto patrimonio dell’umanità Unesco e, ritornato ad antica bellezza, rappresenta un altro simbolo dell’integrazione europea. Sempre in Sassonia, sulla Neiße, nel punto più orientale della Germania, l’affascinante Görlitz, non avendo subito gravi distruzioni, ha conservato numerosi edifci di grande fascino e il suo centro storico, prontamente restaurato, è considerato tra i più belli e meglio conservati di tutta la Germania. Ricongiunta con un ponte pedonale alla gemella polacca Zgorzelec, già nel 1998 si era proclamata Europastadt Görlitz/Zgorzelec ribadendo il suo impegno di inclusione, e preferendo così pensarsi invece che ai margini di una nazione al centro del continente. Se non fosse che traversano soltanto il territorio tedesco, potrebbero ricucire questa linea di confitto i 630 chilometri della pista ciclabile dell’Oder-Neiße (o meglio Neiße-Oder) che poco dopo aver lasciato la Repubblica Ceca entra in Germania, a Zittau, per seguire l’Oder e terminare sull’isola di Usedom. Il tracciato non tocca Stettino, attraversata invece dal percorso di amicizia tedesco-polacco (Deutsch-Polnische Freundschaftsweg) che la unisce a Francoforte sull’Oder. 4. Tuttavia se in questa progettualità l’Europa viene evocata quale garante di un confne veramente di pace che possa far uscire queste regioni dalla marginalità e le rimetta fnalmente al centro della geografa e della storia, i timori di invasioni migratorie, smentite dai numeri, e la disabitudine all’alterità sembrano invece avviare queste zone verso l’implosione in un’identità mitizzata. Uscire da questa dicotomia schizofrenica rappresenta una delle sfde del presente, per non condannarsi a un nuovo isolamento. Tanto più che la Polonia, da subito e prima di altri, aveva guardato oltrecortina. Abbattuto un confne che impediva la crescita, non più ai margini ma al centro del continente e a pochi chilometri dalla Germania, Stettino si rivolge adesso di nuovo a Berlino, per riscoprire una metropoli più vicina di quanto non abbia saputo o voluto essere Varsavia. Tedesca, polacca ed europea Stettino non nega queste tre anime mostrandole anche nel nuovo assetto urbanistico e ricostruendo, dopo l’amputazione territoriale, una rete e un intorno. Metropoli sull’Oder o capoluogo dell’Euroregione Pomerania, guarda a ovest e all’Europa, intende approfttare della nuova situazione geopolitica pensandosi come Strasburgo o Basilea, dove non ci si chiede più da che parte del confne ci si trovi. E gli investitori stanno aspettando.
93
MURO PORTANTE
LA PRIMA REPUBBLICA NON SI SCORDA MAI
di Alessandro Aresu
La fine della guerra fredda ha colto l’Italia non equipaggiata per il nuovo mondo. Il primo periodo post-bellico resta unico vanto della storia unitaria. Col diritto di averne nostalgia. I ‘giganti’ di allora. Possiamo però non rimanere spettatori del passato.
I
1. L 28 SETTEMBRE 2019 SUA MAESTÀ principessa Mary di Danimarca ha inaugurato il ponte che porta il suo nome, e che attraversa il fordo Roskilde. L’opera, costata 133 milioni di euro, è stata assegnata nel 2016 dall’autorità danese delle autostrade Vejdirektoratet a una joint venture tra Rizzani De Eccher (Italia), Besix (Belgio) e Acciona Infraestructuras (Spagna). Rizzani De Eccher, azienda friulana, ha operato per la prima volta in Danimarca, in un ambiente con forti vincoli ambientali e sociali. L’opera ha richiesto 33 mesi di costruzione ed è stata completata tre mesi in anticipo. «In anticipo»: come diavolo è possibile? È forse consentito dalle leggi della fsica? Un mese prima del taglio del nastro da parte della principessa di origine tasmaniana, è stato reso noto un elemento del consuntivo fnale del nostro bilancio dello Stato. Nel 2018 il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha posto 5,7 miliardi in economia: fondi non spesi, nonostante importanti disponibilità di cassa (9,5 miliardi). Anche a fronte del via libera da parte delle occhiute strutture del ministero dell’Economia e delle Finanze, gli investimenti non si muovono 1. In meno di otto anni, dal 27 maggio 1956 al 4 ottobre 1964, e in anticipo rispetto alle previsioni, l’Italia ha unito il Nord e il Sud con l’Autostrada del Sole. Oltre a 755 chilometri di strada, sono costruiti 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 740 opere minori e 57 raccordi, con una media di 94 chilometri di strada all’anno, su un tracciato diffcile 2. Come diavolo è possibile? Sono stati gli italiani a farlo, in Italia. Sono stati i progettisti, gli operai, i dirigenti, i politici italiani, 1. Si veda G. Santilli, «Infrastrutture, fondi non spesi per 6 miliardi», Il Sole-24 Ore, 21/8/2019. Sul ruolo della capacità infrastrutturale nella geopolitica interna, rimando tra l’altro ad A. Aresu, «C’è vita dopo la morte della patria», Limes, «Stati profondi. Gli abissi del potere», n. 8/2018, p. 221; id., «Lo specchio francese rimpicciolisce l’Italia», Limes, «Una strategia per l’Italia», n. 2/2019, p. 73. 2. La sua vicenda è raccontata magistralmente da F. Pinto, La strada dritta, Milano 2011, Mondadori.
95
LA PRIMA REPUBBLICA NON SI SCORDA MAI
durante il periodo che possiamo defnire «Prima Prima Repubblica». L’età dell’oro della storia italiana, che va dai primi passi dell’esperienza parlamentare repubblicana agli anni Sessanta. Non è stato un trentennio glorioso, ma è stato un ventennio indimenticabile. 2. Viviamo tuttora nella Prima Repubblica, non altrove. I passaggi traumatici italiani non hanno condotto a un cambiamento della forma di governo. L’ingresso nella Seconda, nella Terza, nella Quarta Repubblica è una legittima tecnica comunicativa. La sua effcacia è inversamente proporzionale alla sua reiterazione. La saggezza napoletana vi coglierebbe il segno del malocchio. La politologia azzarderebbe una legge della politica italiana, così formulata: qualunque nuova personalità di governo, delusa dall’impossibilità di comando, si consola col taglio del nastro di una nuova Repubblica; poi, in un batter d’occhi, tale personalità passa; il nuovo che avanza annuncia l’avvento di una nuova Repubblica; e così all’infnito. Perché inventiamo nuove Repubbliche? Semplice: perché non sappiamo vivere nel mondo dopo la guerra fredda. Siamo affezionati al vestito che ha preceduto la caduta del Muro. Non riusciamo a separarcene. Non sappiamo affrontare la realtà oltre quella porta. Non comprendiamo né i rapporti di forza né l’importanza delle nostre caratteristiche interne. Quando abbiamo contezza dei problemi, fuggiamo impauriti. La serie televisiva Boris ha fornito la defnizione perfetta degli italiani dopo la guerra fredda: «Senza sapere esattamente cosa vogliono, blaterano sempre di futuro». Se vogliamo individuare una data della paralisi del nostro sistema, fglia della storia politica degli anni Novanta, è il 2001/2: la riforma del Titolo V della Costituzione, la chiusura defnitiva dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Tra questi due passaggi, la circolazione monetaria dell’euro. I due segnaposto – Titolo V e fne dell’Iri – nascono molto più lontano, dalla consunzione della fase iniziale della Prima Repubblica, dove l’arte politica si esprime come «arte del non governo», secondo la traccia di La Malfa-Craveri 3. Gli anni Settanta segnano un’involuzione del sistema. Da un lato, l’istituzione delle Regioni: non è solo colpa loro, ma della confusione che ne segue, mai più sopita. Dall’altro, la perdita di forza del «sistema Beneduce» che aveva retto il paese dal fascismo in poi. Questi aspetti sono centrali, perché l’Italia si pensa in termini economici, più che strategici: realizzazione di investimenti e apertura dei commerci sono cardine di questa identità. Nel secondo dopoguerra, l’uscita italiana dallo stato di minorità è un passaggio industriale. Di classe dirigente, di popolo e di cultura. In nessun paese come l’Italia si coglie il peso dell’eccezione del dopoguerra alla quale Piketty ha dedicato la sua opera 4. Come si può non essere nostalgici di quel momento? È stato epico. Ed è stato un altro mondo, che non potrebbe vivere nel nostro. Pensate a Enrico Mattei che manda le sue truppe per i comuni a costruire infrastrutture di «economia velocità
96
3. Il riferimento è a P. Craveri, L’arte del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica italiana, Venezia 2016, Marsilio. 4. È questo il vero tema di t. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, trad.it. Milano 2014, Bompiani.
MURO PORTANTE
LE GALASSIE DELL’ETERNA SINISTRA DEMOCRISTIANA
IDI
Giuseppe Dossetti
O AT
MU
S I N DAC
NIS M O M A RTI
Franco Rodano
Giulio Pastore
R
E Aldo Moro
ZZA
ZIO NI
i
Pa rt
i to
Sva
RE riat
PRIVAT
Nino Andreatta
Amintore Fanfani
INCA
NI O I lio RNAZ sig
i ex pre Con ra sidenti del i, F Q u ir t t e in ale : Mattarella, Castagn “ Ter n te z a Re pubblica”: Giuseppe Co
d el
ni
U lt
mo
C
OLO
hi
RIEC
I
C AT TOCO
IN
CA
NC
A
O
R
N
IL I
MER
O I N D U S T R I A L I S TA - En M S I rico T d i Mo r begno : P L AN Ma e r T t i aro OA O R D E net ttei N LN G , i l a l e l l t o s i n to, i, Gra E ra, P o D c n r e a O lli, Sara Gu SM S E - M zz A I N et B O I A Z CO
oni an ,V no ce ti
ON A L LI
ETERNI
e nc
sc
97
LA PRIMA REPUBBLICA NON SI SCORDA MAI
potenza» 5, talvolta agendo di notte e ponendo i sindaci davanti al fatto compiuto all’alba. Provate ora a immaginare Mattei mentre entra a una Conferenza di Servizi e riceve una telefonata di Giorgio Ruffolo che gli fa: «Guarda, servono altri ventinove pareri, bisogna bloccare tutto, comunque vada ci metteremo otto-nove anni». Nel passato risiede un’altra lezione per il presente. La reciproca indifferenza tra Nord e Sud è il muro che separa l’Italia. Un muro autolesionista, che ha segnato la (falsa) Seconda Repubblica, che limita la proiezione del paese, che piccona l’interesse nazionale 6. Resta cruciale ricordare il passaggio della «Prima Prima Republica» in cui è successo il contrario. Basti ricordare Ezio Vanoni da Morbegno che poco prima di morire tragicamente in Senato evoca il suo incontro con la povertà dei paesini sardi. Uomini come Vanoni e De Gasperi vedono nella povertà meridionale e delle isole un altro mondo e di esso si fanno veramente carico. Nella «Prima Prima Repubblica», la classe dirigente italiana si sente chiamata a costruire la patria. Anche se di patria si poteva parlare poco, contano i fatti. La pedagogia mediatica e popolare di Ettore Bernabei, la pedagogia alta e ironica di Raffaele Mattioli. Nel 1975 al Piccolo di Milano per ricordare quest’ultimo si schierano Paolo Grassi, Felice Ippolito, Giorgio Amendola, Riccardo Bacchelli, Guido Carli, Giulio Einaudi, Ugo La Malfa. Non male. E non basta. La «Prima Prima Repubblica» non era formata da quattro gatti, ma da un popolo. Anche quando si tratta di due popoli, l’un contro l’altro armato. La mobilità sociale della nostra età dell’oro ha creato storie individuali eccezionali; dalle quali, tuttavia, la popolazione femminile è stata per larga parte esclusa. Nella situazione attuale, siamo rinchiusi nelle nostre piccole cerchie, convinti di essere pezzi di città globali, invero deboli e indifesi. I grandi della «Prima Prima Repubblica» si ritengono corresponsabili, coinvolti, continuamente intenti ad allargare la base. Si consideri l’ampiezza del concetto di classe dirigente in Mattioli: «Tutti coloro che, al governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso, muovendosi in una sfera uffciale ovvero entro spazi propri e autonomi o addirittura alternativi, abbiano svolto, svolgano o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là del puro esercizio d’un mestiere, d’una professione, d’una funzione, per contribuire invece, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico, economico, amministrativo, militare, religioso, culturale, sindacale…) a quella che è, di periodo e ai diversi livelli, la “gestione degli affari del paese”» 7. Per tutte queste ragioni, abbiamo il diritto alla nostalgia della «Prima Prima Repubblica». Il dovere di coltivare la memoria della cultura industriale senza cui il nostro paese perde ogni fbra sociale e identitaria. La memoria delle riviste, Pirelli 8, Comunità, Il Gatto Selvatico, Civiltà delle Macchine, l’esempio delle case editrici, dei grafci e dei letterati che hanno animato il percorso del secondo dopoguerra.
98
5. È il trittico della gloriosa pubblicità Agip. 6. L’idea caratterizza G. Provenzano, La sinistra e la scintilla, Roma 2019, Donzelli. 7. Statuto dell’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente dell’Italia unita, Milano, 5/3/1972, disponibile in La fgura e l’opera di Raffaele Mattioli, Milano-Napoli 1999, Riccardo Ricciardi, p. 306. 8. Si veda ora aa.vv., Umanesimo industriale, Milano 2019, Mondadori.
MURO PORTANTE
3. Dobbiamo esercitare il nostro diritto alla nostalgia con determinazione e, allo stesso tempo, con coscienza dei limiti della nostra gloria. Potevamo permetterci, nel mondo della guerra fredda, la logica delle grandi personalità. I grandi italiani – Mattioli più di tutti – conoscevano i nodi non risolti della situazione, ammonivano quanto il «miracolo» non avesse nulla di miracoloso 9. Un potenziale oggetto di spartizione, come l’Italia della guerra fredda e del dopo guerra fredda, può sviluppare gradi di soggettività? Dipende dalla forza dello Stato, dalla capacità di un popolo di fare scelte, di non essere risucchiato dal gorgo della confusione. Non dipende dai singoli. Eppure, i grandi uomini dominano l’Italia della gloria repubblicana. Essi si muovono come maghi applauditi e ammirati all’estero. Dopo l’omicidio di Mattei nel 1962 e l’uscita di Mattioli dieci anni dopo, sono Carli e Cuccia a restare sulla scena fno alla fne della guerra fredda (Saraceno in misura minore). «Lo spirito di corpo è altissimo», dirà Mattioli a Scalfari nel 1972, scommettendo sulla resistenza della fbra della Comit alla sua stessa defenestrazione politica. Mattioli non si sbaglia tanto sulla Comit. Si sbaglia sull’Italia. Lo «spirito di corpo» costruito dai giganti non sopravvive alle altre fasi della Prima Repubblica. Partecipa della consunzione. Esiste un «segreto di Mediobanca», ricorda Giorgio La Malfa nel suo magistrale ritratto: in una riunione del 1988 sulla sottoscrizione di quote per il patto di sindacato, Bernheim comunica la netta contrarietà dei soci francesi di Lazard, Cuccia lo fa chiamare, e poco dopo l’inscalfbile no si trasforma in sommesso oui 10. Dove fnisce questa magia? Nella tomba di Cuccia. Trent’anni dopo il Muro, la questione manageriale italiana si apre come una voragine. Il blocco del turn-over appalta l’attuazione delle politiche alle società di consulenza straniere. La sentenza della lunga crisi di questo secolo è il vorticoso aumento della povertà minorile. Qualche giovane prende il potere. Mentre centinaia di migliaia di loro coetanei scappano, arrivano in pochissimi. Il confitto tra politica e burocrazia non porta da nessuna parte. L’unico potere italiano continua a essere quello di perdere tempo. La macchina dello Stato poggia sulle spalle di qualche allievo di Sabino Cassese, e se non si fa qualcosa anche quell’ultima riserva andrà a esaurimento. Qui i passaggi della consunzione della Repubblica rivelano la loro drammaticità. È impossibile per l’Italia superare l’ombra dell’Iri. La scommessa di Andreatta, Carli e Draghi, caricata nientemeno che del valore di caduta del «muro» italiano, è stata perduta. È Andreatta – citato vent’anni dopo da Draghi governatore della Banca d’Italia – a sentenziare il 14 novembre 1989: «Se è caduto il Muro di Berlino possono cadere altri steccati. Anche la Banca Commerciale Italiana, la Stet possono essere privatizzate, e senza che lo Stato detenga percentuali di controllo» 11. Nel ricordare nel 1993 Guido Carli, «sempre protagonista, mai succube degli storici eventi che ha vissuto», Draghi gli riconosce il ruolo centrale in un elogio che vale la pena di ripor9. Un punto colto molto bene da G. Carli nella commemorazione di Mattioli al Piccolo Teatro il 17/9/1975, in Ricordo di Raffaele Mattioli, Milano 1975, Casa della Cultura, pp. 38-39. 10. Si veda G. la MalFa, Cuccia e il segreto di Mediobanca, Milano 2014, Feltrinelli, pp. 48-49. 11. B. Andreatta citato da M. draGhi, «Beniamino Andreatta economista», Roma, 13/2/2008.
99
LA PRIMA REPUBBLICA NON SI SCORDA MAI
tare: «Primo e per un certo tempo l’unico uomo di governo a sentire quale profonda esigenza etica, non solo economica, che il confne tra ciò che è pubblico e ciò che è privato dovesse mutare. Né poteva essere diversamente per chi, formatosi negli anni di Menichella ed Einaudi, aveva visto trasformare le creazioni istituzionali di Beneduce in una struttura di potere invadente e pur smagliata, senza razionalità o strategia che presiedesse a defnire i suoi confni. È questo desiderio di ritorno a una costituzione economica più trasparente, più che le ineffcienze, gli sprechi che lo convincono dell’inevitabilità, della necessità, dell’urgenza delle privatizzazioni»12. È un ricordo potente, che riletto oggi salda in un secolo i grandi tecnici/politici italiani con apertura internazionale. Eppure, Andreatta, Carli, Draghi hanno sognato un mondo che non si è materializzato. Per tre ragioni. La prima: Andreatta voleva che il sistema del credito non fosse uno sterminato elenco di nomi e cognomi decisi dall’intermediazione politica. Nobile intento. Certo, i politici non nominano più (tutti) i vertici delle banche. Eppure, col dilagare dell’arte del non governo nel mondo dopo la guerra fredda, l’importanza delle nomine delle società pubbliche e parapubbliche nella vita politica del paese non è diminuita. È aumentata. Anche perché le società con un’azionista di controllo pubblico dominano la nostra piccola Piazza Affari. Il passaggio delle nomine è l’orologio che scandisce i governi, che annuncia i destini, cala i ponti levatoi. È per lo scranno di un collegio sindacale che, fuori dalle ipocrisie, si schierano i poteri, si registrano gli scossoni. Come previsto, anche la chiusura formale dell’èra di Guzzetti ha provocato movimenti tettonici, per esempio nella Cassa depositi e prestiti, chiamata ormai con poco personale a responsabilità enormi. Ora forse comincia una nuova stagione di instabilità del perimetro pubblico, annunciata dall’enigmatico scambio del direttore del Sole-24 Ore con l’amministratore delegato dell’Eni: «Da anni la francese Total ha l’Eni come obiettivo: riuscirà a conquistarla?» «Non so se Total o altre compagnie sono interessate all’Eni. Di sicuro, senza il via libera del governo italiano, nessuno potrà toccarci»13. Veniamo alla seconda ragione: la scommessa sull’impresa privata è cominciata male ed è andata peggio. È stato un passaggio frettoloso, perché è mancata la maturità degli investitori istituzionali italiani, che altrimenti avrebbero potuto giocare un ruolo, come riconosciuto tra gli altri da Giuliano Amato (forse il più lucido nell’analisi, tra i protagonisti di quella stagione). Mentre alcune aziende privatizzate vanno a chi sa fare quel mestiere, in altri casi ciò non accade. Ed è grave. Un ruolo di rilievo è affdato alla galassia Fiat, al tempo affitta da problemi interni, totalmente inadeguata al compito, generando tra l’altro i nodi con cui Telecom deve fare i conti ancora oggi14. La grande storia di successo dell’Italia dopo la guerra fredda, quella delle medie imprese, è estranea a tutte queste discussioni e non trova occasioni di protagonismo predatorio.
100
12. Testimonianza di M. draGhi, In ricordo di Guido Carli (Atti del Convegno Bnl-Abi, Roma, 11/11/1993), Roma 1994, Editoriale Lavoro, p. 76. 13. F. taMburini, «Descalzi (Eni): I rifuti sono il petrolio del futuro», Il Sole-24 Ore, 18/10/2019. 14. Rimando a a. areSu, «Per una geopolitica di Telecom», Limes, «La Rete a stelle e strisce», n. 10/2018, pp. 109-122.
MURO PORTANTE
LE BASI USA/NATO IN ITALIA
Usaraf
(Pisa-Livorno)
Navaf
Niscemi (Muos - Comunicazioni satellitari) ©Limes
Terza ragione: l’ideologia che anima il vincolo esterno è perdente, in un mondo dominato dal matrimonio tra sicurezza e tecnologia e dalla geopolitica della protezione 15. Per usare un eufemismo, non è invecchiata bene l’argomentazione di Carlo Scognamiglio contro le imprese strategiche: «Il concetto di “strategico” è una colossale sciocchezza… Se io guadagno facendo magliette e perdo costruendo astronavi, 15. Rimando a a. areSu, «Geopolitica della protezione», Limes, «La Rete a stelle e strisce», n. 10/2018, pp. 71-83.
101
LA PRIMA REPUBBLICA NON SI SCORDA MAI
per me strategiche sono le magliette, non le astronavi. Eccezione è, forse, la produzione destinata alla difesa» 16. Come è andata a fnire, nel mondo dopo la guerra fredda? Negli Stati Uniti i poteri di intervento delle burocrazie della sicurezza sono colossali, perché asseriscono che la difesa sia qualunque cosa. Anche in Cina ci sono le privatizzazioni: una quota va sul mercato, e il Partito comanda su tutto e tutti. Per raccontare una barzelletta sulla Francia, possiamo scegliere l’argomento della differenza tra pubblico e privato. E così via. Oltre a questi errori di prospettiva, la scommessa è andata perduta perché nel mondo dopo la guerra fredda, nel mondo del vincolo esterno, si è accentuato il cronico disinvestimento italiano in formazione, ricerca e sviluppo, di cui sono colpevoli il pubblico e il privato. Sono stati dispersi i vari «dividendi» dei tassi d’interesse nelle situazioni favorevoli. È esplosa la bolla illusoria di un’economia dei servizi in grado di sostituire il manifatturiero. Temi di cui gli imprenditori italiani, ansiosi di politiche industriali, hanno ormai piena contezza. Cadutoci addosso il Muro, senza sapere cosa vogliamo, blateriamo sempre di futuro. Come per alcune scelte della vita degli individui, i paesi non possono tornare indietro. Possono capire i loro errori, ma solo per essere pronti per la prossima occasione. E adesso, su molte cose è troppo tardi, anche se si è spesso costretti a dire il contrario. Quelli che restano sulla scena somigliano a Edgar, nel fnale del Re Lear, senza trovare le sue parole. 4. L’Associazione nazionale partigiani cristiani ha ricordato Enrico Mattei nel centenario della nascita, il 2006. Offciante Andreotti, che come da copione non dice quasi nulla. Incontenibile il ricordo di Giovanni Galloni, che parla a ruota libera, forse per fare invidia al suo nemico Cossiga. Viene fuori un racconto degno di una serie televisiva con Miriam Leone 17. Il democristiano nato a Paternò rievoca la passione di Mattei combattente per gli pseudonimi (Marconi come partigiano, Este come responsabile Dc, oltre a Monti e Leone): una tecnica per convincere i tedeschi della propria irrilevanza. Il cuore del ricordo di Galloni è il suo incontro del 1953 con Giovanni Marcora, il partigiano «Albertino». Marcora giunge raccomandato da Ardigò e Baget Bozzo, accompagnato dal comandante partigiano di Varese Aristide Marchetti e dall’ex dossettiano di Novara, l’ingegner Gian Maria Capuani (che terrà la relazione vergata da Lazzati al convegno di Belgirate del 27 settembre). Marcora vuole fondare una corrente, attraverso il progetto culturale di un giornale. Galloni gli dice che servono soldi. «Albertino» non è preoccupato. Anzi, è raggiante: per organizzare un comizio di partigiani cristiani prima delle elezioni del 1953, ha ricevuto da Mattei ben 10 milioni di lire dell’epoca. Asserisce di non aver speso una lira perché si è limitato a convocare i partigiani cristiani, che hanno riempito Piazza Duomo di loro iniziativa. Galloni commenta, commosso: «Ecco l’atto di nascita della corrente di Base». Dai soldi di Mattei per un comizio
102
16. C. SCoGnaMiGlio citato in M. Pini, I giorni dell’Iri, Milano 2000, Mondadori, p. 178. 17. La testimonianza di Galloni è in Un protagonista della rinascita italiana. Enrico Mattei, Atti del convegno promosso dall’Associazione nazionale partigiani cristiani per ricordare Enrico Mattei nel centenario della nascita (Roma, 29/11/2006), Roma 2007, Anpc, pp. 13-20.
MURO PORTANTE
nasce tutto. Poi il fondatore dell’Eni fnanzia la Base, come altri movimenti, attraverso la pubblicità nelle riviste, mentre è infastidito dalle richieste di raccomandazioni dei politici democristiani, più numerose della discendenza di Abramo. La sinistra democristiana è la storia politica più rilevante dell’esperienza italiana unitaria 18. L’unica radice di valori e di pratiche che tiene insieme tutto, dall’invenzione del neoatlantismo industrialista all’attuale partito del Quirinale. Dal centralismo all’autonomismo. Dal meridionalismo delle porte della Valtellina al già citato elogio andreattiano delle privatizzazioni, fno all’ultimo passaggio. Alimentato dall’incontro fecondo di Ostpolitik e Federico Fellini in Achille Silvestrini, giunge il puntuale omaggio di Giuseppe Conte all’irpino Fiorentino Sullo e al contributo dei cattolici all’Assemblea costituente 19. Questa è la traduzione dell’espressione «nuovo umanesimo»: sinistra democristiana. Ne discende un corollario sulle quattro lealtà della guerra fredda, in grado di sopravvivere ai singoli interpreti dello spartito. La Repubblica nel suo massimo splendore si è divisa tra Stati Uniti (leader «protettore»), Unione Sovietica (utile contraltare e massimo riferimento dei comunisti), Europa occidentale rappresentata da Francia, Germania Ovest e Vaticano 20. Il punto focale delle quattro lealtà dopo la guerra fredda è rappresentato dall’importante ruolo del Vaticano, forse più della fase precedente in cui «la coabitazione con la Santa Sede era per l’Italia sia un vincolo che un moltiplicatore» 21. Ancor più ampio, oggi, è lo squilibrio di risorse tra la Santa Sede e l’Italia. Sul piano culturale, diplomatico, organizzativo. Paragonata allo Stato, a una Chiesa che ha punte di fragilità, che vive confitti accesi, anche violenti 22, rimane ben altra forza come attore che vive nel lunghissimo periodo. Anzitutto agli occhi delle forze esterne, che vi colgono il pivot italiano. Ciò è vero per tutte le faglie delle crisi internazionali, per tutti gli attori reali in campo, a partire da Washington, Pechino, Mosca, per giungere ad Ankara, Parigi, Berlino, ma anche Abu Dhabi o chiunque esprimerà un lampo di iniziativa. È forse un caso che il segretario generale del Partito comunista cinese e il segretario di Stato americano, pronti a sbranarsi a vicenda, si siano recati in Italia soprattutto per incontrare il papa e per affrontare con il Vaticano le varie questioni aperte? La nascita di un «partito cinese» in Italia non sarebbe possibile se non attraverso il partito vaticano: è un’altra posta in gioco delle profonde divisioni che attraversano la Chiesa. L’altra lealtà che merita approfondimento è quella francese. Si interseca con i passaggi decisivi del muro delle privatizzazioni e del capitalismo italiano, nel gioco tra soggettività e spartizione. In un convegno dell’11 novembre 2011 (il giorno prima delle dimissioni dell’ultimo governo Berlusconi), Marcello De Cecco ha ricordato con nostalgia la sua proposta del 1993 su Le Monde di realizzare «l’unione franco-italiana». «Pensate che cosa sarebbe l’unione franco-italiana, specialmente in 18. Il giudizio è forse reso meno attendibile dal fatto che chi scrive, per quel che vale, vi si riconosce. 19. G. Conte, «Il contributo dei cattolici all’Assemblea Costituente», Avellino, 14/10/2019. 20. Per lo sviluppo della tesi, si veda l. CaraCCiolo, Terra incognita. Le radici geopolitiche della crisi italiana, Roma-Bari 2001, Laterza. 21. Ivi, p. 13. 22. Sulle problematiche della Chiesa, fondamentale l’evento «Francesco e lo stato della Chiesa», V Limes Festival, 4/5/2018, disponibile all’indirizzo bit.ly/2MAdJ04
103
LA PRIMA REPUBBLICA NON SI SCORDA MAI
quel momento in cui avevamo ancora un po’ di partecipazioni statali, grandi imprese, adesso non ci sta più niente», sospira De Cecco con la sua inconfondibile parlata. E aggiunge: «Era veramente quello che ci voleva, ma non perderò il tempo su questo, perché ormai non è più possibile e poi i matrimoni si fanno tra chi li vuole fare, non è un solo partner che decide di farlo, almeno e sono di forze equivalenti» 23. L’opzione italofrancese è un capitolo poco indagato di quell’Italia dopo il Muro, nei primi anni Novanta, ricordato nella testimonianza di Paolo Savona, allora ministro dell’Industria 24. Una sorta di asse Parigi-Milano, con Parigi salda al comando per la sua superiorità fnanziaria, militare e sistemica, è nato poi dagli imprenditori, come ricordato a suo tempo su questa rivista 25 e come sviluppato negli accordi industriali dei protagonisti di Mediobanca e Generali. Vedremo in futuro quali saranno gli effetti dell’attivismo di Leonardo Del Vecchio. Quali matrimoni della fnanza o della difesa si affacceranno all’orizzonte. Diffcile che siano forze equivalenti. L’errore di prospettiva riguarda la libertà di movimento dell’Italia rispetto alla Francia. Macron può mettere in piedi il teatrino del superamento dell’Ena, ma il nucleo della direzione francese è sempre conservato, da un’infuenza maggiore delle banche d’affari e delle imprese pubbliche e private (con una probabile e taciuta riduzione delle opportunità di mobilità sociale rispetto al sistema Ena). Anche con un nuovo decreto del 2019 26, la République ha continuato a dare un’importanza centrale all’informazione strategica e della sicurezza economica, incardinata presso la direzione generale delle imprese (Dge) del ministero dell’Economia e delle Finanze. I francesi compiono istruttoria, coordinamento, anticipazione sulla sicurezza economica, rafforzando i loro apparati a tutto tondo, non solo l’intelligence. E possono bombardare le imprese italiane, se serve, come già accaduto con Fincantieri. 5. La «Prima Prima Repubblica» resta la gloria dell’Italia. Mentre blateriamo di futuro, ci ricorda quello che sappiamo fare. Il suo inesorabile declino ci fa vergognare. La principessa danese vuole che il ponte a suo nome sia completato. Le imprese italiane lo fanno in anticipo, ma non possono realizzare opere a casa loro con tempi decenti. Solo riprendere il flo del nostro vincolo interno consentirà di riacciuffare la Prima Repubblica e, se serve, inaugurare la Seconda. Altrimenti il nostro destino è quello di spettatori del nostro passato. Ammiratori delle gesta di Vanoni, Mattei, Mattioli, col dubbio che siano vissuti e morti invano 27. 23. M. de CeCCo, in «Può l’Italia uscire dall’euro?», Fondazione Roma, Think Tank Report, Roma, 11/11/2011, p. 20. L’articolo originale di M. de CeCCo è «Pour une intégration économique francoitalienne», Le Monde, 2/10/1993. 24. Si veda tra l’altro P. Savona, Come un incubo e come un sogno, Soveria Mannelli 2018, Rubbettino. 25. Rimando a a. areSu, «Lo specchio francese rimpicciolisce l’Italia», Limes, «Chi comanda il mondo», n. 2/2017, pp. 129-137. 26. Décret n. 2019-206 du 20 mars 2019 relatif à la gouvernance de la politique de sécurité économique. 27. Cfr. F. CeCCarelli, Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua, Milano 2018, Feltrinelli.
104
* Le opinioni qui espresse sono personali e non impegnano in alcun modo le istituzioni di appartenenza pro tempore.
IL MURO PORTANTE
‘La nostra vita all’ombra delle stelle e strisce’ Conversazione con Piero Craveri, storico a cura di Lucio CaraCCiolo e Alessandro aresu LIMES La Prima Repubblica nasce e muore con la guerra fredda. In quella fase, l’I-
talia è un semiprotettorato americano. Condivide questo giudizio? CRAVERI Francesco Cossiga è stato il primo a formulare il giudizio di un’Italia «semiservente». Un giudizio radicale giunto alla fne della guerra fredda come contraccolpo alla situazione interna, politicamente sempre più debole. È diffcile non condividerlo. Nel corso della Prima Repubblica, dal 1946 al 1992 l’Italia è parte integrante della sfera d’infuenza americana, cercando tuttavia di ritagliarsi i suoi spazi, di difendere i suoi interessi. Talvolta con successo. LIMES L’Italia esce dalla seconda guerra mondiale sconftta e umiliata. La sua costituzione geopolitica è il trattato di pace del 1947, che sancisce la catastrofe, malgrado la retorica pubblica che ci vorrebbe riscattati agli occhi dei vincitori dalla Resistenza. CRAVERI Infatti il problema di Alcide De Gasperi e del suo ministro degli Esteri Carlo Sforza è mitigare le conseguenze del trattato di pace, che segna la condizione geopolitica di partenza della Prima Repubblica. Al Congresso di Parigi del 1946, De Gasperi riesce a chiudere solo la questione altoatesina, perché aiutato dal ministro degli Esteri sovietico Molotov. I sovietici avevano problemi in Austria, dove si trovavano di fronte un governo flo-occidentale. Su tutti gli altri fronti, nel dopoguerra immediato l’Italia è isolata: dagli inglesi flo-jugoslavi sull’Istria, ai francesi che non ci aiutano affatto, anzi cercano di sottrarci dei territori. Gli americani sono ancora alle prese con un’opinione pubblica isolazionista. Ma l’unico che a Parigi si alza e stringe la mano a De Gasperi, dopo il suo discorso, aperto dalla constatazione che «tutto tranne la vostra personale cortesia è contro di me», è il segretario di Stato americano James Byrnes. L’Italia sarà costretta a ripartire da una condizione molto dura. Dal punto di vista territoriale, oltre a parti rilevanti del nostro spazio storico, perdiamo tutti i possedimenti coloniali oltremare.
105
‘LA NOSTRA VITA ALL’OMBRA DELLE STELLE E STRISCE’
LIMES In quel frangente, è interessante osservare come De Gasperi fosse convinto
106
della possibilità di conservare alcune colonie prefasciste, specie la Tripolitania. Non si rende conto che abbiamo straperso la guerra? CRAVERI C’è un’effettiva insistenza da parte italiana sul problema coloniale che contrasta col buon senso e col gioco delle potenze europee. Siamo interessati a mantenere un piede in Libia, o in parti di essa. Con l’accordo Bevin-Sforza del 1949 gli inglesi avrebbero preso la Tripolitania, dove fra l’altro avevano trovato il petrolio. I francesi puntano sul Fezzan, loro frontiera imperiale in Nordafrica, all’Italia sarebbe stata restituita la Cirenaica. Quanto alle altre colonie italiane, gli inglesi hanno il progetto della Grande Somalia ma sono più morbidi sull’Eritrea. Gli spazi di manovra italiani risultano davvero minimi. Infne producono solo il mandato fduciario sulla Somalia fno al 1960. Nella parte più avvertita delle classi dirigenti comunque la consapevolezza dell’inevitabilità della decolonizzazione è profonda. Per esempio, da Parigi l’ambasciatore Quaroni subito avverte dell’inevitabile ascesa del panarabismo. Nell’opinione pubblica invece l’eredità coloniale è sentita. Fa parte di un’immagine consolidata, da non scalfre più di tanto. Lavorando per la biografa di De Gasperi, ho notato che egli scrive spesso i suoi appunti su carta intestata del ministero delle Colonie, di cui peraltro ha la delega come presidente del Consiglio. Il tema coloniale si trascina fno ai primi anni Cinquanta, persino dopo l’adesione alla Nato. Per la ragione di fondo, che anche a De Gasperi e a Sforza si pone come cogente la necessità di dare risposte a una rilevante quota dell’opinione pubblica italiana, moderata e tendenzialmente di destra, cresciuta nel mito della Grande Italia. Sono consapevoli della velleità di un futuro ancora coloniale, ma non vogliono perdere su questo punto, che ritengono sensibile, il consenso di una grande massa di elettorato che deve restare appannaggio della Democrazia cristiana e dei suoi alleati. LIMES Nella trattativa sul trattato di pace si sarebbe potuto fare meglio o no? CRAVERI No. De Gasperi è stato ingiustamente accusato di aver scelto l’Alto Adige a discapito di Trieste, ma la scelta non dipese da lui. Su l’Istria trovò un vero muro. Gli americani reagirono solo dopo l’occupazione di Trieste da parte delle truppe di Tito. Per un motivo strategico: non volevano che il porto fnisse nelle mani dei russi, che attraverso la Jugoslavia stanno praticamente sul confne italiano. La rottura sovietica con Belgrado nel 1948 sposta il confne Est-Ovest, cambia lo scenario europeo. La cortina di ferro slitta verso est, sulla Drava. Di fatto la Jugoslavia entra nel sistema difensivo dell’Occidente, ne diventa il primo argine. E così riduce il valore strategico dell’Italia. LIMES De Gasperi è consapevole delle forti limitazioni di sovranità imposte dal trattato? Come si muove per salvare i margini di manovra del nostro paese sulla scena internazionale? CRAVERI Per dirla brutalmente, ci sono due carte che gli italiani possono giocare. Una è quella usata da tutti i principali partiti: c’è stata la Resistenza, e l’Italia è stata cobelligerante. Corrisponde a un’immagine fallace, costruita a fni propagandistici e diplomatici, irrealistica. Nelle memorie del segretario di Stato Usa, Dean
IL MURO PORTANTE
Acheson, uno dei «saggi» che hanno disegnato la strategia americana nella guerra fredda, c’è un brano che riprende un incontro con i negoziatori italiani sulla Nato. Acheson commenta di aver capito come sono fatti gli italiani: credono di poter far passare l’idea di aver cancellato la sconftta grazie ai combattenti partigiani e alla cobelligeranza. Ma questa nostra narrazione non è condivisa dagli Usa, tantomeno da inglesi e francesi. Anche i sovietici non la tengono in alcun conto nei rapporti diplomatici. L’unica carta concreta in mano al nostro governo nell’immediato dopoguerra è dunque, col maturare della guerra fredda, l’anticomunismo, quasi ingiocabile al tempo del negoziato sul trattato di pace, quando il Pci, insieme al Psi allora ancora flosovietico, partecipavano alla guida del paese. Questa carta acquista peso negli anni successivi. De Gasperi e Sforza si muovono consapevoli di questo scenario e delle reali forze in campo. Sforza fra l’altro conosce bene gli americani, anche per i suoi probabili legami con la massoneria americana. LIMES Qual è l’approccio americano alla nascente Repubblica Italiana, nel contesto della guerra fredda? CRAVERI Tra il 1947 e il 1950 si costruisce l’impero americano in Europa. Ciò avviene attraverso una svolta nella geopolitica statunitense, profonda ma lenta, perché sconta un’opinione pubblica ancora isolazionista. Negli apparati governativi di Washington questo si traduce, prima della fondazione della Nato, nella tentazione di controllare l’Italia e l’Europa occidentale dall’esterno, senza impegnarvi larghi contingenti militari. Se vogliamo tornare al ruolo più o meno servente dell’Italia nell’impero americano, dobbiamo ricordare per sommi capi la nostra parabola dal trattato di pace alla fallita costruzione di una difesa europea (1947-54). Il Piano Marshall esprime nel 1947 la consapevolezza americana di dover intervenire urgentemente sul piano economico per impedire che in Europa occidentale penetri l’infuenza comunista. Il problema dell’Europa è anzitutto, come sempre, il cosa fare della Germania. Su questo gli americani non hanno idee chiare e defnitive. Pensiamo solo alle tesi di Henry Morgenthau sull’annientamento del Reich, da demilitarizzare e deindustrializzare radicalmente. L’immediato dopoguerra è drammatico per tutti gli europei, vincitori inclusi. Si fa la fame, le capacità produttive sono drasticamente ridotte, milioni di profughi e sbandati sono in movimento. Serve l’aiuto americano. De Gasperi ne è perfettamente consapevole e si muove di conseguenza. Non solo con Truman, anche con i più infuenti leader dell’opposizione repubblicana. Negli Usa uno dei colloqui più importanti lo ha con il leader repubblicano del Senato, Arthur Vandenberg, e si sente dire: «Noi vi diamo gli aiuti, ma un domani l’Italia con chi starà?». E soprattutto, della drammatica crisi europea si rende conto la classe dirigente americana, rappresentata al meglio nell’amministrazione Truman dagli wise men, Marshall e Acheson su tutti. L’alto commissario per la Germania, McCloy, capisce l’urgenza di far ripartire l’economia tedesca. Questa visione prevale sui sospetti e sulle riserve inglesi e francesi, segnate dalla paura del risorgere della potenza tede-
107
‘LA NOSTRA VITA ALL’OMBRA DELLE STELLE E STRISCE’
108
sca. La consapevolezza di dover salvare la Germania dal comunismo, e con essa l’Italia e il resto dell’Europa non occupata dall’Armata Rossa, è la ragione costitutiva dell’idea americana di unifcare il mercato europeo occidentale. È notevole che questo resti, settant’anni dopo, l’unico vero successo dell’europeismo, mentre sono falliti i tentativi di formare una difesa comune (Ced) o addirittura di forgiare una terza forza europea, polo più o meno autonomo fra Usa e Urss. Sul modo di difendere la loro Europa gli Stati Uniti restano a lungo indecisi, quasi fno all’elezione di Truman, nel 1948, che al loro interno è l’ultimo passaggio necessario. La concezione e la strutturazione della Nato cominciano dopo il lancio del Piano Marshall. Processo distinto quindi dal programma economico, anche se strategicamente connesso. In questa fase è importante tenere conto del trattato di Bruxelles (1948), primo abbozzo di difesa euroccidentale, sul quale il nostro governo fu piuttosto scettico. È iniziativa inglese: Bevin si ritira dal Mediterraneo, smantella l’impero, punta ad affermarsi come capofla in Europa. I francesi non ci stanno. Per questo coltivano un europeismo strumentale, in chiave antitedesca e di supremazia rispetto agli inglesi. LIMES Nel 1949 però i francesi sono decisivi per farci entrare nella Nato. CRAVERI Certo. Il punto è che le potenze europee uscite più che ridimensionate dalla guerra si rendono conto che senza tirar dentro gli americani è inutile parlare sul serio di difesa comune. Questo ci porta alla Nato, fondata nell’aprile 1949. Gli americani non hanno grande interesse a farci entrare. Ci aiutano quanto a forniture militari, come fanno con la Turchia e la Grecia, ma non ci vedono subito nell’Alleanza Atlantica. Gli inglesi sono fortemente contrari. È vero: ci aiutano i francesi. I quali hanno l’Algeria da difendere, quindi hanno bisogno dell’Italia come testa di ponte del territorio algerino, che considerano metropolitano. L’adesione dell’Italia alla Nato non è affatto scontata. Abbiamo seri problemi interni. L’opposizione non è solo delle sinistre, ma anche nel mondo cattolico. La dissociazione di Giuseppe Dossetti, contrario al vincolo atlantico, è il caso più evidente. Senza il discorso natalizio di Pio XII nel 1948, che chiama gli occidentali a difendere la cristianità contro l’ateismo comunista, non saremmo entrati nella Nato dall’inizio. La Santa Sede capisce che l’alternativa è tra essere protetti e non esserlo. Lo schieramento di Pio XII per l’America, contro il parere di diversi esponenti della Chiesa italiana, è decisivo. Papa Pacelli dimostra in questo come in altri casi grande lucidità geopolitica, rara consapevolezza dello scacchiere globale e di come difendere la Santa Sede nella contrapposizione fra Occidente ed Oriente comunista. LIMES Il latente neutralismo italiano, confermato anche dopo l’adesione alla Nato, ha avuto conseguenze sugli assetti interni e internazionali? CRAVERI Sugli assetti internazionali, un effetto molto relativo. L’Italia nella guerra fredda è presa per quello che è, in base alla valutazione realistica degli altri attori. Vale per la sua collocazione geografca e geopolitica, malgrado i suoi limiti interni. Questi limiti diventano ancora più evidente con la guerra di Corea (1950-53), che fa compiere un salto ulteriore nella dinamica della guerra fredda.
IL MURO PORTANTE
Sugli assetti interni c’è un aspetto poco indagato nel quale De Gasperi si cimenta. L’Italia non ha allora, né credo abbia adesso, una legislazione di guerra. Lo statista trentino tenta di produrre alcune leggi in materia, come la così detta «polivalente», di cui sopravvive solo la legge Scelba, che vieta la ricostituzione del partito fascista. Ma il vero problema non è la rinascita del fascismo, è la presenza nascosta nel nostro paese di un apparato militare comunista agli ordini di Mosca. Quello che De Gasperi designa come la «quinta colonna interna». Su questo la controversia storiografca è ancora molto vivace. A partire da una certezza: nel dopoguerra l’apparato militare del Pci, guidato da Secchia, esiste eccome. Ed è ben organizzato, piuttosto potente. Certo, non ne conosciamo la forza effettiva. Abbiamo però al riguardo copiosi documenti americani e italiani, nonché sovietici, ripresi nei loro libri da Viktor Zaslavskij e Elena Aga Rossi. Vi si riportano gli incontri dell’ambasciatore sovietico con Secchia, nel marzo del 1948, alla vigilia delle elezioni politiche più importanti della nostra storia, in cui si sfdano lo schieramento moderato imperniato sulla Dc e il fronte social-comunista. L’esito è incerto fno all’ultimo. Secchia afferma di poter bloccare in una settimana la Linea Gotica. Da documenti russi si ha poi notizia di un incontro segreto fra l’ambasciatore sovietico con Togliatti, sul lago di Nemi. Il capo del Pci vuole sapere da Mosca che cosa fare in caso di vittoria. La sconftta elettorale indebolirà moltissimo l’apparato e l’eventuale opzione insurrezionale affdata da Stalin, non a Togliatti, ma a Secchia. Negli anni Cinquanta il «braccio armato» che aveva costituito e di cui si fa cenno nei verbali pubblicati da Silvio Pons sugli incontri di Secchia a Mosca, viene liquidato, anche se restano ancora alcuni depositi di armi, per lo più progressivamente liquidati dopo il 1952. LIMES Abbiamo inquadrato il nesso inziale fra Prima Repubblica e guerra fredda, quasi due facce della stessa medaglia. Non stupisce quindi che i due assetti, interno e internazionale, stiano e muoiano insieme, quarant’anni dopo. Concorda sul fatto che anche la nostra adesione a Maastricht abbia profondamente contribuito alla fne di quell’assetto interno? Ci siamo suicidati? CRAVERI Guido Carli, allora ministro del Tesoro, fgura assolutamente centrale lungo le vicende attraversate dal nostro paese durante la Prima Repubblica (gli americani e gli europei avevano grande considerazione della sua competenza) ha posto la questione nei termini più chiari e brutali: fuori da Maastricht, noi non saremmo stati in grado di amministrarci. Era convinto che solo uno stretto vincolo esterno poteva frenare la dissennatezza delle nostre politiche del bilancio. Infatti, mentre Carli è impegnato nella trattativa che avrebbe condotto alla camicia di forza di Maastricht, a Roma gli gonfavano il bilancio pubblico in modo spaventoso. Maastricht è l’atto conclusivo della politica europea della Prima Repubblica ed anche quello che più contribuisce a determinarne la fne. Mentre si allentavano i legami con gli americani e le coperture che comportavano, si stringono più forte quelli europei, senza la piena consapevolezza di ciò che avrebbero determinato. LIMES Carli era consapevole delle implicazioni di Maastricht in termini di sovranità nazionale. Ma il resto della classe politica lo era?
109
‘LA NOSTRA VITA ALL’OMBRA DELLE STELLE E STRISCE’
CRAVERI Non come Carli. Solo Ugo La Malfa e pochi altri lo erano stati, come poi,
110
negli anni Ottanta, i repubblicani e ad esempio Andreatta. Ho consultato nelle carte di Andreotti la cartella «Maastricht». C’è una noticina a mano in cui dice: sarà duro, ci complicherà la vita, sono le cose che avremmo dovuto fare con l’articolo 81 della costituzione, e adesso bisognerà farle per forza a causa del vincolo europeo. Ma non è solo la politica economica. Maastricht cambia il quadro geopolitico continentale. È rottura totale dell’idea di un’Europa federale, celata dietro al funzionalismo economicistico di Jean Monnet, di cui Jacques Delors, con l’Atto Unico, realizzò l’ultima grande espressione. La bussola si sposta dall’orizzonte sovranazionale, potenzialmente federale, a quello intergovernativo, che può comportare soltanto un esito confederale. Non capisco questa improvvisa scoperta del cosiddetto «sovranismo». È Maastricht che fonda il «sovranismo», o meglio la prevalenza dei rapporti di forza fra Stati nazionali nell’ambito comunitario. Quanto alla nostra politica economica, la verità è che noi propriamente non ne avevamo alcuna. Gli anni Ottanta del Novecento passano per un periodo di grande sviluppo. Ma dobbiamo saper guardare oltre l’euforia del «sorpasso» sulla Gran Bretagna. Il punto è che alla fne di quel decennio comincia a crollare la nostra grande industria, quella che oggi non abbiamo più, escluso il poco rimasto del vecchio nucleo dell’economia mista. Oggi siamo un paese manifatturiero privo ormai di struttura nazionale. Quel passaggio comincia allora. Alla crisi spaventosa delle partecipazioni statali corrisponde la loro liquidazione dissennata, di cui pochi, tra cui Giuseppe Guarino, si resero conto. In ogni caso, la Prima Repubblica non può reggere per via dell’enorme fragilità della struttura economica e dello Stato italiano. Mancano, o almeno vanno drasticamente riducendosi la protezione americana determinata dalla guerra fredda e così non si poteva che aprire una fase di incertezza e declino. Pensiamo a Mani Pulite: la magistratura si sarebbe forse sentita così libera di muoversi, in un’altra fase? Gli americani non glielo avrebbero permesso, anche se non è ben chiaro a quale gioco giocassero in quella congiuntura. LIMES Ma quanto ha contato davvero l’America nella fne della Prima Repubblica? CRAVERI Credo abbia contato molto. Dei diversi fattori che si possono portare, faccio due esempi che riguardano i socialisti e Craxi: un passaggio chiave della crisi della Prima Repubblica è stato lo scandalo Eni-Petromin. In quel caso, chi diede le carte a Leonardo Di Donna, dirigente dell’Eni, che poi le passò ai socialisti vicini a Craxi, sono sicuramente gli americani. Quando i giudici di Milano mandarono la Guardia di Finanza a Villa Wanda, tra le carte di Gelli viene ritrovato l’appunto del conto «Protezione», che sarà uno dei maggiori capi di accusa di Mani Pulite, su cui, già allora, dalla procura di Milano viene richiesta la documentazione alla magistratura di Lugano, che non manda nulla. Finché, dieci anni dopo, non interviene il magistrato elvetico Carla Del Ponte, che poi svolgerà un’importante carriera da funzionario internazionale. Altro esempio sulla fne di Craxi. Prima di Sigonella, il ruolo del leader socialista nella politica estera italiana è marcato dalla sua capacità di stabilire un rapporto
IL MURO PORTANTE
diretto con Washington, persino migliore di quello acquisito dai democristiani. Questo primato gli deriva dalla scelta sugli euromissili. Senza la disponibilità di Craxi a schierare i missili Cruise a Comiso, la Germania non li avrebbe accettati sul proprio territorio, perché esigeva una diversifcazione del rischio. L’Italia di Craxi è la chiave in questa vicenda decisiva per la vittoria dell’Occidente nella guerra fredda. Poi, Sigonella cambia tutto. Craxi voleva rimandare indietro Abu Abbas, il terrorista palestinese protagonista nel 1985 del sequestro della Achille Lauro e dell’assassinio del cittadino americano Leon Klinghoffer. Nella notte Reagan telefona a Craxi. Da interprete funge Michael Ledeen, agente dell’intelligence americana. La traduzione errata che egli fa, induce Reagan a credere che Craxi riconsegnerà agli americani Abu Abbas. Quando il nostro presidente del Consiglio, dopo aver schierato i carabinieri a Sigonella per impedire che gli americani portino via Abu Abbas, libera quest’ultimo, a Washington sono furiosi. Per la cosa in sé e perché Craxi avrebbe mentito al presidente. Craxi tiene duro. A quel punto gli americani rivedono la traduzione – avevano registrato la telefonata, cosa che gli italiani incautamente non avevano fatto – e danno atto a Craxi della correttezza formale del suo comportamento, tanto da fornirgli un «telefono rosso», come quello di Mosca, Londra, Berlino e Parigi, che resterà eredità permanente dei nostri presidenti del Consiglio. La ferita di Sigonella, e la fermezza con cui Craxi si è opposto alla volontà degli Stati Uniti, probabilmente non è stata mai del tutto risanata. Come si sa bene i comportamenti dell’amministrazione americana non derivano da un solo centro di potere, seguono gli indirizzi politici del presidente, ma restano molteplici e diversifcati nella visione dei problemi e nella determinazione degli obiettivi. Col mutare delle circostanze – e la fne della guerra fredda non ha costituito un passaggio marginale – mutano gli orientamenti, compaiono sulla scena nuovi obiettivi e tornano anche opinioni già consolidate. Gli storici del futuro potranno forse stabilire quanto e come quell’episodio abbia poi in parte contribuito al crollo della Prima Repubblica. Ma negli anni Novanta non torna in gioco soltanto l’episodio di Sigonella, c’è altro da parte americana. Certamente sono venuti meno molti di quei fattori di controllo e copertura, nella politica internazionale ed anche in quella interna, con cui solo gli americani allora potevano garantire la classe politica italiana. Questo mutamento di inclinazione dell’attenzione americana verso l’Italia non è stato elemento determinante nel crollo della Prima Repubblica, ma ha avuto certamente il suo peso.
111
IL MURO PORTANTE
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
di Paolo Peluffo
Non per europeismo, ma per patriottismo: lo statista italiano temeva la secessione del Nord se non fossimo entrati nella ‘moneta unica’. Per questo minacciò di far saltare il banco europeo. L’ipotesi di una moneta e di un’intesa franco-italiana. Gli scontri con la Germania.
A
OLTRE VENT’ANNI DALL’INGRESSO
dell’Italia nell’euro (maggio 1998), a cento anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi 1 (dicembre 1920) che ne fu stratega e protagonista, la questione dell’euro è ancora rovente. Fu scelta giusta, saggia per l’Italia entrare nella moneta unica? Poteva l’Italia entrare in un secondo momento e non nel gruppo dei primi paesi? Esistevano alternative all’adesione alla moneta unica che proiettava il sistema produttivo italiano all’interno di un’area a moneta forte con al centro uno dei paesi industriali più forti al mondo, la Germania? Questa scelta, tra gli altri, è stata messa in discussione con veemenza da economisti come Alberto Bagnai 2, che la considerano origine di una potenziale stagnazione secolare del nostro paese, spirale segnata da bassi salari, bassi consumi, calo degli investimenti – fonti di una strutturale riduzione di competitività. Sono argomenti seri che non possono essere affrontati in modo affrettato e superfciale. Gli attori che, in qualsiasi momento storico, si trovano ad assumere decisioni, operano sulla base di conoscenze incomplete e asimmetriche, di un complesso intreccio di obiettivi di breve e di lungo periodo, di convinzioni personali e condizionamenti esterni. Talvolta essi non sono neppure del tutto consapevoli di 1. Si è svolto a Firenze, l’11 ottobre 2019, presso l’Aula magna del rettorato dell’Università degli Studi il secondo convegno internazionale di studi su Carlo Azeglio Ciampi organizzato dal comitato per le celebrazioni del centenario dello statista livornese, che coinvolge Accademia dei Lincei, Corte costituzionale, Banca d’Italia, Scuola Normale Superiore di Pisa, Università di Firenze, Centro di studi politici e costituzionali Piero Calamandrei, Paolo Barile e altre istituzioni. Il convegno di Firenze dedicato a «Carlo Azeglio Ciampi e il suo governo 1993-1994» è stato coordinato da Giuliano Amato, Andrea Manzella, Stefano Merlini, con relazioni di Piero Barucci, Paolo Savona, Luisa Torchia, Nicola Lupo, Giovanni Tarli Barbieri, e interventi e testimonianze di Valdo Spini, Giovanni Orsina, Franco Gallo, Luigi Abete, Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni, Francesco Cavazzuti, Enzo Moavero Milanesi, Roberto Zaccaria, Gianfranco Pasquino. 2. A. Bagnai, Il tramonto dell’euro. Come e perché la fne della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa, Reggio Emilia 2014, Imprimatur.
113
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
quale effettivo progetto e interesse stiano perseguendo; è infatti compito prima del cronista e poi dello storico ricostruire trama e contesto nel quale talune decisioni sono state assunte. Premesso tutto ciò, esiste un flo rosso che attraversa l’azione di Carlo Ciampi e che forse non è inutile ripercorrere, per porre interrogativi anche critici sulle singole scelte fatte. Quel flo rosso non fu, come si è detto e si sostiene, l’europeismo, ma al contrario l’interesse nazionale italiano 3. Ovvero la convinzione che lo Stato nazionale e repubblicano – che era ed è essenziale conservare e rafforzare – fosse in grave pericolo, che fosse dunque prioritario metterlo al sicuro con l’aggancio ai paesi europei più forti e avanzati in un inestricabile groviglio istituzionale. Le dinamiche decisionali di quei passaggi fondamentali che hanno contribuito a determinare la situazione geopolitica dell’Italia di oggi sono raccontate nella mia biografa di Ciampi 4. La convinzione più diffusa, anche nei social media, è che l’Italia giunse all’adesione al trattato di Maastricht con una parità lira-euro assai penalizzante per l’industria italiana (1936,27 lire per un euro). In realtà altro non era che la trasposizione della parità di 990 lire per un marco tedesco (contro le 1.000 lire proposte dal governo italiano) deliberata nel consiglio Ecofn di domenica 24 novembre 1996, nel quale l’Italia richiese il rientro nel sistema monetario europeo e tutto venne deciso 5. Sull’importanza storica delle decisioni di quella domenica di 23 anni fa è importante insistere. Ciampi preparò accuratamente il suo intervento che è riprodotto integralmente nel mio libro 6. Ma vanno ricordati due aspetti tecnici. Il primo è che si creò un dissidio piuttosto netto tra Ciampi e la Banca d’Italia, che la mattina del sabato 23 novembre 1996 aveva accettato al tavolo tecnico delle banche centrali una parità inferiore (cioè con un cambio più «forte» e penalizzante per la lira), a circa 960 lire. Il ministro dovette quindi con fatica risalire la china di una decisione già defnita. Decise quindi di abbandonare l’ipotesi di parità concordata con il presidente del Consiglio Prodi, che partiva da quota 1010, puntando a ottenere quota 1000, in quanto il fatto compiuto dalle banche centrali rendeva irrealistica una richiesta tanto superiore. Il secondo punto è che Ciampi anche in quella occasione era pronto a far saltare il banco, facendo fallire l’intero progetto, se le posizioni italiane non fossero state considerate. Dopo il suo intervento – un’appassionata arringa – nessuno prese la parola. Lui capì che girava male. E allora fece sapere che se l’Italia fosse stata costretta a una parità che non condivideva, avrebbe proposto il giudizio dei mercati, facendo futtuare le monete: «E così vediamo dove si stabilizza il cambio». È chiaro che il mancato accordo avrebbe provocato un’ondata di vendite, facendo scivolare la lira a valori che avrebbero messo in diffcoltà
114
3. In chiave esclusivamente europeista e flo-germanica il saggio, ricco di importanti documenti originali e inediti, del compianto ambasciatore Antonio Puri Purini, Dal colle più alto. Al Quirinale, con Ciampi negli anni in cui tutto cambiò, Milano 2012, il Saggiatore. 4. P. Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi: l’uomo e il presidente, Milano 2007-16, Bur. 5. Ivi, cap. 8: «Il ritorno dal sofferto esilio ovvero il rientro della lira nel sistema monetario europeo», 2a ed., pp. 198-237. 6. Ivi, pp. 231-233.
IL MURO PORTANTE
gli interscambi con Francia e Germania. La Francia soprattutto stava soffrendo la concorrenza italiana, come attestava lo scontro con il presidente Chirac di fne settembre 1996. La partita di poker scivolò, verso l’imbrunire, a favore dell’Italia. L’aspetto paradossale della vicenda è che i nostri partner volevano imporre all’Italia una parità ben più penalizzante (925-940 lire per marco era l’ipotesi di partenza, spostata poi a 950-960), osservando che il nostro paese godeva di una svalutazione fortissima rispetto a quattro anni prima, attestata dal considerevole avanzo di bilancia. Il negoziato portò a incassare e cristallizzare la svalutazione di oltre il 20% del 1992 (quando il marco quotava 780 lire), a rinunciare – riassorbendola parzialmente – alla ulteriore svalutazione del 20% del 1995 (si toccò un picco di 1.200 lire per marco salvo poi ripiegare poco sopra quota 1.000). Ciampi era convinto che quella parità di 990 lire per marco, strappata ai partner con un negoziato furibondo, avrebbe dato all’industria italiana sette-dieci anni di vantaggio, offrendo il tempo per adeguarsi al sistema della moneta forte. Era questo il programma al quale lui si sarebbe dedicato. Questo programma era il cuore della «fase due»: come sopravvivere dentro l’euro. La «fase due» purtroppo saltò nell’ottobre del 1998, con la crisi politica che portò alla caduta del primo governo Prodi.
La paura della secessione del Nord Quello che colpisce oggi, guardando ai fatti di allora, è la sensazione della fretta, di una sorta di urgenza estrema, nella gara per entrare nell’euro. Perché? Da cosa originava questa sensazione di battaglia per la vita e per la morte? Una, non l’unica, ma una delle più rilevanti convinzioni che spinsero Ciampi a una fretta indiavolata, a una determinazione ferrea verso l’euro era la estrema preoccupazione per il progetto secessionista della Lega Nord di Umberto Bossi. Ciampi lo prendeva molto sul serio e ne era preoccupatissimo. Era qualcosa che lo angosciava, che non gli sembrava né chiaro né ben compreso. Pesavano in questo il ricordo del mese di ottobre del 1992, quando il governatore della Banca d’Italia sapeva che in assenza di interventi si sarebbe giunti entro una decina di giorni alla dichiarazione di insolvenza. In quei dieci giorni ci fu una campagna leghista contro i Bot. Ciampi non si riprese mai dal terrore di quei giorni. Anzi, fu ancora più preoccupato da alcune interviste di Gianfranco Miglio (in particolare una al giornale austriaco Der Standard) mentre era presidente del Consiglio, sulla divisione dell’Italia in tre Stati-Cantoni, praticamente indipendenti. Non prese per nulla a ridere quelle dichiarazioni. E aveva ragione. Come confermato nel saggio di Umberto Gentiloni, dove si riporta una dichiarazione di Ciampi a proposito di una sua conversazione privata con Umberto Bossi: «Tempo dopo (Bossi, n.d.r.) mi rivelò qualcosa di più profondo. Ero stato per lui una grande rovina: i suoi interlocutori bavaresi e austriaci gli avevano assicurato che l’Italia non sarebbe mai entrata nell’area dell’euro. Pensava di poter agganciare la Padania all’Europa più ricca e sviluppata; il secessionismo di allora non era uno slogan folcloristico. La nostra politica
115
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
mise in discussione tale assunto impedendo che si potesse trovare nuovo spazio a chi pensava di portare solo un pezzo d’Italia nell’Europa che conta. In questo quadro sconfggemmo la sua linea» 7. L’origine della spinta di Ciampi per l’ingresso dell’Italia nell’euro fn da subito e il progetto di puntare sul patriottismo e sull’orgoglio nazionale traevano origine dalla convinzione che fosse seriamente a rischio l’unità nazionale. L’idea stessa dell’accelerazione decisa dal governo Prodi nel settembre del 1996, anticipando di un anno il raggiungimento della soglia del 3% nel rapporto defcit-pil, con la necessaria imposizione della famigerata «eurotassa», non venne assunta solo per il fallimento del vertice con il governo spagnolo a Valencia – come è stato più volte ricordato dagli stessi protagonisti – ma anche perché due giorni dopo essere tornato da quel catastrofco incontro con Aznar, Ciampi assistette attonito in tv alla prima cerimonia alle sorgenti del Po, con Umberto Bossi che impugnava un’ampolla ricolma d’acqua. Dietro di lui decine di bandiere nuove di zecca con il simbolo padano, il «Sole delle Alpi». Gli parve una cerimonia neopagana che lo ammutolì, rapito in ricordi lontani. Furono questi elementi che lo spinsero con maggiore determinazione verso un obiettivo che gli appariva coincidere con l’interesse nazionale: modernizzare il paese, riorganizzare la macchina pubblica, intrecciare i nostri interessi economici e industriali con partner fortissimi, abbattere i tassi d’interesse, tornare a investire. In questa ottica, appare surreale l’interpretazione di chi, anche recentemente 8 ha puntato il dito contro il patriottismo di Ciampi qualifcandolo senza dubbi come nazionalismo di destra, anzi di estrema destra. La predicazione patriottica ciampiana avrebbe, a dire di un saggista einaudiano, aperto la strada prima alla legittimazione della destra di Fini, poi della Lega nazionalista salviniana. Ricordo distintamente che Ciampi salutò con sollievo – al momento della nascita del governo Berlusconi del 2001 – l’ingresso al governo di Bossi e di altri esponenti della Lega, ritenendo che questa fosse la premessa del superamento del rischio secessionista. Non apprezzò la riforma costituzionale del 2001, votata a maggioranza semplice in parlamento a fne legislatura, e voluta dal centro-sinistra, che indeboliva lo Stato centrale asseritamente per arginare la Lega nella campagna elettorale. Ma non fece nulla per fermarla. In realtà, il patriottismo ciampiano aveva certo radici personali, ma poggiava anche su profonde motivazioni politiche e geopolitiche nate dall’analisi del travagliato percorso della sinistra francese, dalla sua incomprensione del fenomeno de Gaulle, fno alla svolta, insieme europeista e patriottica, della presidenza Mitterrand. Dopo la svolta fnanziaria – uno stupefacente voltafaccia – del 1983 a favore della moneta forte, e l’accordo con la Germania, realizzato dal ministro delle Finanze Jacques Delors (il regista essendo Jacques Attali), la Francia aveva puntato sulla moderazione salariale, abbandonando le nazionalizzazioni, ma al contem-
116
7. U. gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi 1992-2006, Roma-Bari 2013, Laterza, p. 40. 8. Ch. raimo, Contro l’identità italiana, Torino 2019, Einaudi 2019.
IL MURO PORTANTE
po avviando una sorta di patriottismo socialista che fu il collante capace di rendere gestibile la svolta in economia e che culminò nelle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione nel 1989. Sulla natura «progressista» e francese del patriottismo repubblicano di Ciampi (non un patriottismo costituzionale) mi sono dilungato nel saggio La riscoperta della Patria 9 riscritto nel 2012 e nel quale si indicano le rifessioni fatte da Ciampi sul pensiero di Ernest Renan, Robert Putnam ed Eric Hobsbawm. Ciampi immaginava qualcosa di simile all’esempio francese per la sinistra italiana, forse ingenuamente. Né si può dimenticare che durante il diffcilissimo negoziato per il nostro ingresso nell’euro, quando Ciampi era stato più volte disposto a far saltare tutto il progetto, egli aveva immaginato un sistema monetario alternativo organizzato bilateralmente da Francia e Italia contro la Germania, ipotesi che propose al primo ministro francese Édouard Balladur e fece studiare al ministero del Tesoro prima che l’accordo Kohl-Mitterrand non chiudesse quella fnestra negoziale.
Il patriottismo di Ciampi Nel corso del 1998, al ministero del Tesoro si cominciò a lavorare per la «fase due»: come poteva l’economia italiana tornare a crescere e investire senza controllare tasso di cambio, tasso d’interesse, quantità di moneta? Non era chiaro, allora, che si sarebbe giunti alla svalutazione salariale come strumento di politica economica per riportare in equilibrio il sistema, in assenza di una politica monetaria nazionale. Nessuno immaginava, nel 1998, l’infazione zero, la defazione. Si riteneva al Tesoro che con un 2% di infazione, un bilancio in equilibrio, un avanzo primario al 4%, il debito pubblico sarebbe sceso con facilità negli anni. Ci sarebbe stato ampio spazio per gli investimenti. Ciampi confdava che l’accordo sulla politica dei redditi del 1992-93 fosse suffciente a restituire fessibilità al mercato del lavoro. Non immaginava proprio una vasta diffusione della precarietà, come elemento costitutivo del mercato del lavoro futuro. Lo schema Tarantelli-Modigliani, lungamente sostenuto dalla Cisl negli anni Ottanta, accettato dalla Cgil nel pieno della crisi valutaria, proponeva un modello di programmazione del tasso di infazione atteso, come parametro per i salari. L’accordo sul costo del lavoro del luglio 1993 appariva a Ciampi un capolavoro, il suo successo maggiore, un modello che proponeva a ogni interlocutore straniero. Ciò che si doveva aggiungere a questo modello, per affrontare il dopo-euro, era l’urgenza di «costringere», di spingere il mondo produttivo a un grande piano di investimenti. Anche in questo caso, forse, Ciampi si faceva delle illusioni. Glielo disse apertamente Fausto Bertinotti in una conversazione (credo a casa di Sandra Verusio) che venne intercettata e riportata da Eugenio Scalfari in un magistrale articolo su Repubblica, nel 1998: «Non ti fdare dei capitalisti italiani Carlo, quelli 9. P. Peluffo, La riscoperta della patria, venne scritto per una prima edizione Rizzoli nel 2008 e riscritto (ci sono circa cento pagine nuove) dopo il 150° anniversario dell’Unità d’Italia nella edizione Bur del maggio 2012.
117
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
si prenderanno il benefcio della svalutazione e dei bassi salari, venderanno tutto e se ne andranno all’estero o in barca a vela». Nonostante tutto, Ciampi abbozzò un programma che venne affdato a una lunga intervista il 21 agosto del 1998 al Sole-24 Ore che suscitò un putiferio («Il patto sociale di Ciampi. L’aumento degli utili dovrebbe provenire solo dall’ampiamento della base produttiva. Proftti unitari e più investimenti in cambio di maggiore fessibilità del mercato del lavoro», di Mario Calderoni e Alberto Orioli). Negli stessi giorni, mi chiese di organizzare una vera e propria campagna per riaprire la questione meridionale e pensare un nuovo programma di sviluppo per il Mezzogiorno. E per questo chiamò Fabrizio Barca al ministero del Tesoro e del Bilancio. La crisi di governo dell’ottobre 1998 (con la sfducia in parlamento per un solo voto) fu una tragedia per Ciampi che, a quel punto, decise che il suo obiettivo sarebbe stato quello di tornare a fare il presidente del Consiglio. Me lo disse esplicitamente. Consapevole di due aspetti politici: primo, non sarebbe più stato capo di un governo tecnico, ma di un governo del centro-sinistra; secondo: guidare il governo gli avrebbe precluso la strada verso l’elezione a presidente della Repubblica che, in qualche modo, già si intuiva possibile. Tra le due prospettive, Ciampi optò nettamente per Palazzo Chigi. Sapeva che fatta la scelta dell’euro adesso c’era davvero molta fretta per adattare il sistema economico e vedeva in questo la missione fnale della sua vita. Voleva essere protagonista della «fase due». Le cose non andarono in quel verso (ci fu la strenua, effcace, interdizione di Francesco Cossiga) e si giunse a governi di centro-sinistra più deboli di quello presieduto da Romano Prodi. Questo spianò la strada verso il Quirinale a Ciampi, che a un certo punto fermò il libro che avevamo già scritto per Rizzoli, e che era alle prime bozze (titolo: Un Paese serio), che nelle intenzioni avrebbe dovuto rappresentare un manifesto per un patto sociale per lo sviluppo all’interno dell’euro, da proporre come piattaforma al centro-sinistra. Il patriottismo di Ciampi presidente della Repubblica va quindi inquadrato per quello che fu: un progetto che faceva parte di una strategia più vasta di politica economica e istituzionale che non si era potuta realizzare. Restava certamente la convinzione di dover sottrarre a un uso strumentale di parte il patrimonio storicosimbolico del patriottismo, proprio per evitarne un uso ultra-nazionalistico (che Ciampi preconizzava da tempo), per l’intanto da parte del centro-destra vittorioso, giunto nel frattempo al governo nel 2001.
Alle fonti di Maastricht
118
Questa vicenda non è tuttavia inquadrata correttamente se non si fa un ulteriore salto indietro e non si capisce come si giunse al progetto di moneta unica e al relativo trattato, frmato nel febbraio del 1992 a Maastricht. Esso origina almeno dieci anni prima, quando matura una svolta monetarista e antikeynesiana nella classe dirigente degli Stati Uniti che conduce all’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve guidata da Paul Volcker. In
IL MURO PORTANTE
Italia è Ciampi a imboccare con determinazione la strada della stretta monetaria per abbattere l’infazione, all’epoca oltre il 20%. Ma il vero protagonista fu Nino Andreatta, ministro del Tesoro, che progettò il divorzio Tesoro-Banca d’Italia e precipitò il fnanziamento dei titoli di Stato in un mercato con tassi superiori al 15%. In questo modo aprì però la strada a una rapida disinfazione. Fu giusto o sbagliato? Troppa fretta, precipitazione? Eravamo nell’epoca dei governi che duravano meno di un anno. Condivido talune critiche avanzate da Paolo Cirino Pomicino 10 su tempi e modi di una operazione che era coerente con l’idea di puntare alla disinfazione, alla politica dei redditi, alla riduzione dei tassi d’interesse per stabilizzare l’economia italiana. Tutte queste azioni furono parte di un vasto progetto, che comprendeva anche mutamenti strutturali come quello che condusse all’Atto Unico europeo nel 1986 e che, attraverso la graduale liberalizzazione dei movimenti di capitale entro il 1992, creò di fatto le condizioni per rendere accettabile l’idea della moneta unica europea, o forse per creare una urgenza sistemica che, prima o poi, ne avrebbe reso necessaria l’adozione. Si determinò in quegli anni un rovesciamento di posizioni e di convinzioni politiche e culturali, soprattutto all’interno dei partiti socialisti e socialdemocratici in Europa. L’Atto Unico europeo viene predisposto materialmente da Tommaso Padoa Schioppa, direttore generale degli Affari economici e monetari alla Commissione europea, ma pur sempre in prestito da via Nazionale. La creazione di un mondo nuovo, con l’esposizione del debito pubblico a un fnanziamento da trovare in regime di mercati fnanziari completamente aperti e liberalizzati, avveniva mentre si cominciava a predicare l’idea della programmazione, tra sindacati e datori di lavoro, del tasso di infazione atteso, per sostituire la scala mobile, almeno cancellando il punto unico. Di questa battaglia fu protagonista il governo guidato da Bettino Craxi. Ciampi aveva immaginato di sostenere quel percorso di stabilizzazione fnanziaria e fscale che avrebbe potuto culminare nel cambio della moneta, l’introduzione della «lira pesante». Questo progetto venne abbandonato e sostituito dopo il 1988 dal progetto di moneta unica, proprio a causa dell’Atto Unico europeo. La tempistica della svolta di politica economica fu probabilmente sfortunata. Nello scoordinamento tra i diversi «vagoni» di uno stesso «convoglio» che accadde? L’esplosione del debito pubblico. Per la stabilizzazione del bilancio pubblico (che avrebbe dovuto essere contestuale al divorzio del 1981) si dovette attendere il settimo governo Andreotti (ministro del Tesoro Guido Carli), nel biennio 1989-90, che portò l’Italia al pareggio del saldo primario e poi nel 1991 a un primo avanzo. Era troppo tardi. Il nuovo ordinamento – regime fnanziario con piena libertà dei capitali – precipitò l’Italia nell’abisso dei mercati. Iniziò la saga dello spread. E si giunse nel 1992 alla 10. P. Cirino PomiCino, La repubblica delle giovani marmotte. L’Italia e il mondo visti da un democristiano di lungo corso, Milano 2015, Mondadori. Vedi il capitolo «La fnanziarizzazione in Italia», pp. 92 ss.
119
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
storica manovra del governo Amato, che tuttavia giunse pochi giorni dopo la svalutazione del 13 settembre e dell’uscita della lira dallo Sme. Poi, a completare la stabilizzazione giunse la fondamentale azione di Lamberto Dini, con la riforma delle pensioni nel 1995. La flogenesi di questa vicenda che cosa ci insegna? In primo luogo che se isoliamo il periodo dell’ingresso nell’euro – il biennio 1996-98 – l’Italia aveva ben poche alternative. Un ingresso forzato, anticipato, avrebbe massimizzato il benefcio in termini di riduzioni dei tassi d’interesse di un paese che era già, da tempo, in avanzo nella sua fnanza pubblica. Era la tesi di Modigliani: l’aggiustamento dell’Italia negli anni Novanta era solo un gioco delle aspettative, il disavanzo italiano era (allora) frutto solo di illusione monetaria (dovuto a un differenziale esagerato nei tassi d’interesse) e quindi sarebbe stato facile farlo sparire, proprio con l’ingresso nella moneta unica, sfruttando i mercati a favore dell’Italia. Questa fu la strategia di Ciampi, criticato (a ragione) per essere stato molto morbido nei tagli alla spesa pubblica, sui quali in fondo era scettico, proprio per non ferire la macchina pubblica. Il diffcile sarebbe venuto dopo. Franco Modigliani, l’ultima volta che lo vidi, eravamo al Quirinale, mi lasciò con una profezia: «Ora l’Italia rischia di subire l’illusione monetaria al contrario. Penserete di avere un defcit basso, tassi bassi, ma non è così. In termini reali saranno più alti di prima e non ve ne accorgerete». E infatti fu proprio così. I benefci conquistati allora furono delle grandi, importanti, una tantum. Non si costruì la strategia per il futuro. Una strategia alternativa all’euro andrebbe valutata arretrando l’analisi storica controfattuale al principio degli anni Ottanta.
In difesa del nostro Stato nazionale
120
Un elemento che diventa essenziale per immaginare, oggi, una strategia per la crisi italiana è il sistematico diffondersi di una cultura antistatale. Anzi, potremmo individuare nella storia degli ultimi venticinque anni una sequenza ininterrotta di azioni presentate come atti di modernizzazione, effcienza, ma che di fatto sono state poi realizzate in modo distruttivo, quasi mosse da un nichilismo volto alla disarticolazione dello Stato nazionale italiano. Ebbene qui troviamo una seconda motivazione, forte, profonda del progetto neo-patriottico del repubblicanesimo di Ciampi. Riformista sì, europeista certo, ma attraverso il rafforzamento dello Stato e della macchina pubblica. Posso testimoniare il suo profondo dolore per il diffondersi di letture distorte del libro La Casta, pur frutto di una inchiesta di due valorosi giornalisti, ma di fatto prodromo di una dilagante pujaderie contro i colletti bianchi, contro la «burocrazia», contro i dipendenti pubblici funzionale, paradossalmente, alla completa presa di possesso della macchina pubblica da parte del personale politico. Il tema della necessità di amare la macchina dello Stato porta a un’altra questione assai controversa: le privatizzazioni di quello che all’inizio degli anni Ottanta era il più grande patrimonio produttivo del mondo moderno, le Partecipazioni
IL MURO PORTANTE
statali italiane. Nessuno può al momento dire una parola defnitiva su questo fenomeno. Vi furono due tentativi falliti di non smantellare, ma di rinnovare, rendere effcienti le Partecipazioni statali. Il progetto di Giuseppe Guarino di creare due gigantesche super-holding nel 1992 11 aveva tratto origine da rifessioni del Servizio Studi della Banca d’Italia. Il secondo tentativo riguardò proprio Ciampi presidente del Consiglio, ed è stato recentemente raccontato da Paolo Savona, all’epoca ministro dell’Industria: l’ipotesi di creare un accordo strategico tra Francia e Italia in tutti i settori industriali, creando gruppi franco-italiani con nuclei azionari dei due governi. Oggi che noi siamo prede di appetiti francesi, parrebbe incredibile apprendere che negli studi fatti dal Tesoro nel 1993 – in occasione del vertice italo-francese di ottobre – l’Italia risultava ovunque in pareggio negli scambi azionari e talvolta in lieve vantaggio, per esempio nella telefonia e nelle due compagnie aeree. Quanto tempo è trascorso! Ma il tempo e le occasioni perdute non fanno venir meno la possibilità di consolidare oggi ciò che è rimasto. Anzi lo rendono più urgente. Non è scritto da nessuna parte che l’ordinamento europeo vigente impedisca l’esistenza di un settore pubblico nella produzione di servizi e infrastrutture strategiche né che impedisca l’elaborazione di una politica industriale e di politiche di programmazione economica. Infne, la questione tedesca. Un rapporto inevitabile, quello tra Italia e Germania, per storia, per interesse nazionale, per intrecci produttivi. Ma perché ci capiamo così poco? Come si spiega l’infessibile durezza tedesca contro golden rule, investimenti pubblici, ipotesi di Eurobond? Perché l’ossessione di mettere le mani sul patrimonio italiano attraverso garanzie reali sui titoli di Stato? Perché una visione così neoclassica dell’economia e della moneta? Perché due pesi e due misure ai danni delle nostre banche (assai robuste nel confronto bilaterale)? I ricordi degli innumerevoli incontri italo-tedeschi gettano alcuni sprazzi di luce. Resta la necessità di una interpretazione più sistematica dei comportamenti strategici di Berlino, che deve partire dalla storia e s’intreccia con l’abitudine a piegare le politiche europee e gli assetti istituzionali dei trattati ai propri interessi nazionali. Un punto su tutti: gli accordi di Deauville tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, che il 18 ottobre 2011 aprirono la strada al cosiddetto fscal compact, non sono la logica conseguenza del patto di stabilità del 1996 né tantomeno del trattato di Maastricht. Essi rappresentano una rottura degli accordi europei degli anni Novanta. Vennero subìti dagli altri paesi, vittime di mera prepotenza. Ciampi li considerava pericolosi anche per l’Europa, non solo per noi. Furono le decisioni di Deauville a scatenare la crisi che passa sotto il nome (sbagliato) di crisi dei «debiti sovrani». Fu infatti la dichiarazione che la posizione di quel tipo di debiti avrebbe avuto un 11. A. Polimeno Bottai, Alto tradimento. Le carte segrete di Giuseppe Guarino. Privatizzazioni, Dc, euro: misteri e nuove verità sulla svendita dell’Italia, Soveria Mannelli 2019, Rubettino, pp. 67-94. Il capitolo sul fallimento di questo tentativo di riorganizzazione delle aziende pubbliche senza «svendita» è di grande interesse. Si sostiene ancora che Ciampi abbia partecipato al famoso ricevimento sul panflo reale Britannia. A me, Ciampi ha ripetutamente raccontato di essere stato invitato ma di non aver preso parte all’incontro.
121
CIAMPI VOLLE L’EURO PER SALVARE L’UNITÀ D’ITALIA
trattamento giuridico punitivo da parte dei governi europei (con trattato internazionale) a determinare la crisi sui mercati. Epilogo cupo di un nuovo disegno dell’Europa, completamente in contrasto con quello immaginato e sperato da Ciampi negli anni Novanta. È stato scritto che l’Italia di oggi per Ciampi «non è il paese che sognavo», alludendo alla frase pronunciata da Giuseppe Mazzini nel 1870 12. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’Europa: «Non è l’Europa che sognavo». Si poteva prevedere che sarebbe fnita così? Forse sì. Ma da tutto ciò si trae una conclusione: non possiamo disfarci dello Stato nazionale. Dobbiamo impegnarci a tenerlo in buona salute, costi quel che costi.
122
12. C.A. CiamPi, Non è il Paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Colloquio con Alberto Orioli, Milano 2011, il Saggiatore.
IL MURO PORTANTE
Parte II il RITORNO della STORIA e la NUOVA CORTINA di FERRO
MURO PORTANTE
FRAMMENTI EUROPEI ATLANTE DEL DOPO-MURO di Fabrizio Maronta Mauro De Bonis Simone Benazzo Alberto De sanctis
,
,
,
L
. A FINE DELLA GUERRA FREDDA APRE NEL Vecchio Continente una fase, tuttora in corso, di destabilizzazione e disintegrazione. E vi riporta la guerra: dalla Jugoslavia alla Georgia fno all’Ucraina. In quattro carte, ripercorriamo questo tragitto e osserviamo il formarsi di nuove intese.
Il mondo si divide in due di Fabrizio Maronta
Per guerra fredda si intende il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica seguito al secondo confitto mondiale e protrattosi, a fasi alterne, fno al 1991, anno della dissoluzione dell’Urss. Uno scontro combattuto con le armi della propaganda, con le «guerre per procura» (confitti in paesi terzi in cui le due parti sostenevano opposte fazioni) e con il cosiddetto equilibrio del terrore, la proliferazione atomica che garantiva una reciproca deterrenza grazie al principio della «mutua distruzione assicurata» (mad, nell’opportuno acronimo inglese). La matrice strategica di questa fase storica può essere rinvenuta nel famoso Long Telegram inviato a Washington nel febbraio 1946 da George Kennan, al tempo incaricato d’affari degli Stati Uniti a Mosca. In esso l’Unione Sovietica è descritta come «una forza politica fanaticamente convinta che con gli Stati Uniti non possa esservi un permanente modus vivendi»; pertanto, l’unica opzione dell’America era «il fermo e costante contenimento dell’espansionismo russo». Contenimento è il concetto tattico-strategico che defnirà l’approccio statunitense all’Urss nei decenni successivi e che concorrerà in non trascurabile misura a plasmare la politica estera sovietica di questo periodo. Se dunque la guerra fredda inizia, convenzionalmente, con lo sviluppo del contenimento americano, la locuzione risale al 1945 ed è frutto della penna visionaria di George Orwell, che la usa per la prima volta in un saggio dal titolo You and the
125
FRAMMENTI EUROPEI: ATLANTE DEL DOPO-MURO
126
Atomic Bomb. Il confronto ha due dimensioni. Quella prettamente geopolitica ha come posta ultima il controllo della massa continentale euroasiatica, che secondo i canoni della geopolitica classica mackinderiana (da Halford Mackinder) è presupposto del dominio globale. A questa si aggiunge la dimensione politico-ideologica, lo scontro tra due sistemi socioeconomici opposti e flosofcamente inconciliabili, che conferisce un carattere ancor più marcato, quasi millenaristico, allo scontro. Nella fase iniziale, che si conclude nel 1953 con la morte di Stalin, è il reciproco timore a dettare le mosse: ognuna delle due parti percepisce l’altra come tendenzialmente aggressiva, in quel campo di battaglia che è l’Europa immediatamente post-bellica. Prevale l’arrocco, il consolidamento delle «sfere» acquisite nel Vecchio Continente durante la corsa verso Berlino. Stalin vuole cementare il controllo sull’Europa centro-orientale, ma senza provocare uno scontro con l’America. Tuttavia, interpreta la richiesta occidentale di libere elezioni e l’introduzione (da parte statunitense) del nuovo marco tedesco occidentale come elementi volti a destabilizzare la presenza sovietica a est. In questo contesto, il blocco di Berlino (1947) è interpretato come una controspinta sovietica volta a espungere gli occidentali dalla Germania, oltre che dalla città, mentre la successiva guerra di Corea (1950-53) è vista come il tentativo di espellere gli Stati Uniti dall’Asia continentale. Alla morte di Stalin, la nuova fase politica americana sembra volgere il confronto in chiave offensiva. L’amministrazione Eisenhower appare rompere il tabù di un possibile uso dell’arma atomica, mentre il nuovo segretario di Stato John Foster Dulles impegna uffcialmente gli Stati Uniti in una politica di «liberazione» dell’Europa centrale. Come dimostreranno le rivolte polacca e ungherese del 1956, sedate nel sangue da Mosca, tale politica era più un espediente politico interno che un reale proposito di sovvertire gli equilibri defniti a Jalta nel 1945 e cristallizzati negli anni seguenti. Anche perché, nel frattempo, con il consolidamento di Khruš0ëv, l’Unione Sovietica passa al contrattacco, cercando di forzare il contenimento americano su tre direttrici: aumento della deterrenza militare (soprattutto nucleare), sviluppo economico (notoriamente basato sull’industria pesante) e appoggio alle lotte di liberazione nei paesi che vanno decolonizzandosi. L’avvicendamento Khruš0ëv-Brežnev nel 1964 non modifca radicalmente questo andamento. Il riarmo sovietico prosegue a ritmo serrato e verso metà anni Settanta l’Armata Rossa è presente (tra gli altri paesi) in Vietnam, Etiopia, Cuba e Yemen, oltre a sostenere attivamente clientes in Mozambico e Angola. L’enorme sforzo umano e materiale connesso a tale geopolitica contribuirà a quella «sovraesposizione imperiale» di cui da ultimo farà le spese l’impero sovietico, già gravato dalle ineffcienze insite nel suo modello di economia pianifcata. In questa fase, non mancano tuttavia alcuni gesti distensivi tra Usa e Urss, soprattutto nel campo del controllo degli armamenti. Oltre allo sforzo militar-industriale sovietico, a impensierire gli americani in questi anni è l’apparente ambivalenza di alcuni alleati chiave europei, specie la Germania (Ovest), dove l’Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt ammicca nell’ottica di Washington a un compromesso separato con Mosca.
MURO PORTANTE
Come noto, gli eventi tumultuosi del 1989 (crollo del Muro), 1990 (riunifcazione tedesca) e 1991 (dissoluzione dell’Urss) giungono inaspettati. A posteriori, la storiografa tende a rinvenire nella sovraesposizione strategica dell’Urss la causa principale dell’implosione del sistema sovietico, gravato da cronica ineffcienza economica. In particolare, l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) e la contemporanea apertura di Nixon alla Cina concorsero all’indebolimento della posizione geostrategica di Mosca e dunque all’accelerazione degli eventi.
La Russia si riscopre bicefala di Mauro De Bonis
Il crollo del Muro di Berlino lesiona così gravemente le già provate fondamenta dell’impero sovietico che solo due anni più tardi, esattamente il 26 dicembre del 1991, anche l’Urss viene giù. Non prima di aver assistito, nel luglio dello stesso anno, al disgregamento del Patto di Varsavia e alla ritrovata autonomia dal Cremlino dei tanti satelliti euro-orientali, infne alla trasformazione delle repubbliche ormai ex sovietiche in Stati indipendenti. Federazione Russa compresa. Ridotta in taglia e privata di oltre 25 milioni di russi diventati «stranieri» oltre i nuovi confni, la neonata Russia resta il paese più vasto del mondo, con scarsa popolazione e vincolato all’atavico bisogno di sicurezza e autorevolezza. Esigenze messe a rischio da una caotica e ineffciente gestione del potere: il paese vive un decennio di pesante crisi economica e criminale spartizione dei tesori sovietici; insieme, nella Federazione Russa si respira aria di secessioni, dopo l’invito agli spesso turbolenti soggetti federati a prendere l’indipendenza che si desidera, con ben due guerre necessarie per rimettere in riga la ribelle Cecenia e tenere insieme il paese. Gli anni Novanta testimoniano il passaggio malriuscito a un’agognata democrazia e a un’ignota economia di mercato. Il disinganno è il sentimento più diffuso, e l’incertezza per le sorti della federazione/impero, la perdita di prestigio e infuenza internazionale, sommate alla postura sempre meno amichevole del vincitore americano nella guerra fredda, spingono la Russia ad arroccare, optando per una leadership più ferma nella salvaguardia degli interessi nazionali. Spunta così dalle fle dell’ex Kbg la fgura di Vladimir Putin, intenzionato a ridare peso strategico e benessere al paese. Il nuovo leader del Cremlino non rinuncia a ricercare una sempre più stretta collaborazione con Washington e con le potenze europee. La postura del gigante russo continua a essere orientata verso occidente, con particolare accento sull’Europa, terminale privilegiato dei fussi energetici con i proventi dei quali la Russia può fnalmente uscire dalla crisi e tornare a contare nel mondo. Putin riordina il paese anche all’interno, dividendolo in sette distretti che può controllare attraverso uomini di sua fducia e riportando sotto il controllo statale gran parte delle risorse energetiche. Nulla può invece contro il lento ma inesorabile avanzamento della Nato e dell’Unione Europea verso i confni occidentali della Federazione, iniziato già prima
127
FRAMMENTI EUROPEI: ATLANTE DEL DOPO-MURO
della sua ascesa al Cremlino con l’entrata nell’Alleanza Atlantica di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca nel 1999, seguite qualche anno più tardi dai paesi baltici e da altri ex satelliti, che andranno a formare uno strategico cuscinetto di contenimento antirusso. Nelle repubbliche già sovietiche non ancora traghettate verso ovest iniziano a scoppiare rivolte «colorate», prima in Georgia (2003), poi in Ucraina (2004), infne nel lontano Kirghizistan (2005). E si abbozza il progetto di uno scudo antimissile targato Usa da allestire tra Praga e Varsavia. A Mosca si è ormai consapevoli che per l’Occidente la Russia resterà un nemico. Nel celebre discorso di Monaco del 2007 Putin lo dichiara senza mezzi termini. Preparando il paese allo scontro. Il confronto scoppia nell’agosto dell’anno successivo, quando le truppe russe sono chiamate a intervenire in Georgia a difesa dei propri soldati schierati nella regione indipendentista dell’Ossezia del Sud. La rottura con gli Stati Uniti non si risalderà, preceduta dalla corsa per il controllo dell’Artico, dei suoi tesori energetici e delle sue direttrici strategiche, lanciata dal Cremlino con la simbolica posa del tricolore russo sui fondali polari. Putin progetta e realizza poi l’Unione Economica Eurasiatica, meccanismo commerciale e politico a guida russa, che nasce però senza una pedina fondamentale, l’Ucraina. Le proteste di piazza a Kiev del novembre 2013 e la conseguente cacciata del leader florusso Janukovy0, colgono Putin quasi di sorpresa. Il suo alleato slavo più prossimo si divincola dall’abbraccio del Cremlino e sceglie l’Occidente. A Mosca non resta che (ri)prendersi la Crimea e foraggiare le truppe separatiste nel Donbas impegnate in un confitto con l’esercito ucraino, ancora in atto, nel tentativo estremo di evitare al vecchio amico di fnire nelle schiere atlantiche. Un punto di non ritorno nelle relazioni tra Russia e Stati Uniti (più satelliti vari), che porterà la prima a impegnarsi con maggior foga in teatri nei quali mancava dalla caduta dell’Urss, come l’Africa e il Medio Oriente: qui, esattamente in Siria, Mosca spedisce nel 2015 i suoi soldati a combattere al fanco di Damasco e a recuperare due basi militari essenziali in proiezione mediterranea. Ma soprattutto la rottura con l’agognato Occidente la spinge con rinnovato zelo verso oriente, a intrecciare un’intesa, ancora in divenire, con l’altro gigante eurasiatico, la Cina di Xi Jinping impegnata a realizzare le sue vie della seta in direzione Europa. Energia, investimenti e questioni militari (dagli armamenti alle esercitazioni) gli ingredienti per tenere insieme la singolare coppia, oltre al collante della lotta contro il comune nemico statunitense, riuscito suo malgrado a far dispiegare la rattrappita ala orientale alla bicefala aquila russa.
La balcanizzazione della Jugoslavia di Simone Benazzo
128
La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia era nata dalla seconda guerra mondiale, quando i partigiani comunisti guidati da Josip Broz (Tito) avevano ingaggiato gli occupanti nazisti e fascisti, insieme ai loro alleati locali, in una guerri-
MAROCCO
Lisbona
PORTOGALLO
Isole Baleari
FRANCIA
Parigi
TUNISIA
LITUANIA
Riga
Tallinn
ESTONIA LETTONIA
Helsinki
FINLANDIA
AUSTRIA
Malta (G.B.)
Roma
Sofa
BULGARIA
Bucarest
Atene
GRECIA
ALBANIA
Tirana
JUGOSLAVIA
Belgrado
Kiev
Stati satelliti, membri del Patto di Varsavia (1955)
Annessioni dell’Urss nel 1945
Urss nel 1938
La cortina di ferro nel 1955
Cipro (G.B.)
SIRIA
T U R C H I A
Ankara
IRAQ
IRAN
Baku Tbilisi GEORGIA AZERB. ARMENIA
UNIONE S OV I E T I C A
Stati neutrali Democrazia all’occidentale legata all’Urss da trattati d’amicizia
Stati flo-occidentali
Stati occidentali membri della Nato nel 1955
Stato a regime socialista autonomo
CRIMEA
U C R A I N A
ROMANIA
Budapest
UNGHERIA
POLONIA C E CPraga OS L O V Vienna ACC HIA
RDT
ITALIA
RFG SVIZZ.
BELGIO LUSS.
Stoccolma
SVEZIA
Kaliningrad Vilnius Minsk Berlino Varsavia BIELORUSSIA
Copenaghen
DANIMARCA
Oslo
NORVEGIA
Bonn
PAESI BASSI
Isole Shetland
Londra
UNITO
ALGERIA
Madrid
S PAG N A
IRLANDA
Dublino REGNO
ISLANDA
L’EUROPA DELLA GUERRA FREDDA
UCRAINA
BIELOR.
Mar Glaciale Artico
Polo Nord
A re ola P o col Cir
KIRGHIZISTAN
KAZAKISTAN
FEDERAZIONE RUSSA
c
2015 Siria (difesa proiezione mediterranea e mediorientale)
2013 Ucraina (Donbas e Crimea)
Guerre recenti della Russia in difesa degli asset fondamentali 2008 Ossezia del Sud (Georgia)
rti
Export di gas alla Cina Rotte polari
Investimenti verso Est
Putin cerca cooperazione con Bruxelles e Washington (2000-2006) Mosca 2006-2012 avvio svolta verso Est
San Pietroburgo
CORTINA DI FERRO AREA DELL’URSS
Le guerre di Cecenia 1994-1996 Repressione russa dei moti indipendentisti della repubblica federata 1999-2009 Repressione russa contro separatismo e terrorismo islamico
SIRIA
GEORGIA
Berlino
2015 Unione Economica Eurasiatica (Uee)
RUSSIA BICEFALA
o
Attuale Federazione Russa
Rivoluzioni colorate 2003 Georgia 2004 Ucraina 2005 Kirghizistan
Vladivostok
2000 I 7+1 Distretti russi Centrale Nord-Occidentale Volga Meridionale Urali Siberia Estremo Oriente Nord Caucaso (2010)
(fno al 1968)
GERMANIA EST POLONIA CECOSLOVACCHIA UNGHERIA ROMANIA BULGARIA ALBANIA
1955-1991
Patto di Varsavia
DUBROVNIK
Mostar
6 marzo 1992
Popolazione totale ed etnie in percentuale Bosnia-Erzegovina: 3,53 milioni Bosgnacchi/musulmani: 50,1 Serbi: 30,8 Croati: 15,4 Croazia: 4,28 milioni Croati: 90,4 Serbi: 7,8 Bosgnacchi/musulmani: 0,9
Spalato
Zenica
SARAJEVO
Travnik Užice
Priština
8 settembre 1991
GRECIA
BULGARIA
Serbia: 7,19 milioni Serbi: 83,3 Ungheresi: 3,5 Rom: 2,1 Slovenia: 2,08 milioni Sloveni: 83,1 Croati: 1,8 Serbi: 2,0
Confne con l’Unione Europea Paesi Nato (Macedonia: adesione in corso) Popolazione totale ed etnie in percentuale Kosovo: 1,8 milioni Albanesi: 86,6 Serbi: 7,8 Bosgnacchi/musulmani: 1,5 Macedonia del Nord: 2,02 milioni Macedoni: 64,2 Albanesi: 25,2 Turchi: 3,9 Montenegro: 620 mila Montenegrini: 45,0 Serbi: 28,7 Bosgnacchi/musulmani: 8,6
MACEDONIA DEL NORD
Skopje
KOSOVO
17 febbraio 2008
ALBANIA
21 maggio 2006
Podgorica
SERBIA
ROMANIA
Rep. Srpska
Belgrado
Novi Sad
Vojvodina
Subotica
MONTENEGRO
Brčko Bijeljina Tuzla
VUKOVAR
UNGHERIA
Paesi della ex Jugoslavia
Fonte: censimenti 2002 (Slovenia, Macedonia del Nord), 2011 (Serbia, Croazia), 2013 (Bosnia). Per il Kosovo dati elaborati su stima dello European Center for Minority Issues Kosovo.
GUERRA IN KOSOVO (1998 - 99)
Spostamenti delle unità dell’Armata popolare jugoslava Campi di concentramento in Bosnia Erz. Campi gestiti dai croati Campi gestiti dai serbi Campi gestiti dai bosgnacchi/musulmani Città principali assediate dai serbi
Knin
Banja Luka BOSNIA-ERZ.
Zagabria
Bihać
Sebenico
Zara
25 giugno1991
GUERRA IN CROAZIA E BOSNIA (1991 - 95)
Dichiarazioni d’indipendenza
17 febbraio 2008
Maribor
CROAZIA
26 dicembre 1990
Mare Adriatico
ITALIA
SLOVENIA Lubiana
EX JUGOSLAVIA
SPAGNA
IRLANDA
Irlanda del Nord
AUSTRALIA
Catalogna
FRANCIA
SVEZIA
ITALIA
SL.
AUSTRIA
UNGHERIA
SLOV.
POLONIA
LITUANIA
RUSSIA
GRECIA
BOSNIA SERBIA ERZ. BULGARIA MONT. KOS. MAC. DEL N. ALB.
ROMANIA
M
BIELORUSSIA
LETTONIA
ESTONIA
FINLANDIA
CROAZIA
REP. CECA
Berlino
Nord Italia
SVIZZ.
LUSSEMBURGO
BELGIO GERMANIA
DANIMARCA
REGNO PAESI BASSI UNITO Amsterdam
REGNO UNITO
Scozia
NORVEGIA
SPAZIO EUROPEO IN RISTRUTTURAZIONE
PORTOGALLO
Frattura in atto tra Regno Unito e Unione Europea
USA
CANADA
FIVE EYES
NUOVA ZELANDA
Nuova Lega Anseatica
Macedonia del Nord (ingresso in corso)
Paesi Nato
Ankerarmee
Unione Europea
Kerneuropa
UCRAINA
TURCHIA
Donbas
Secessionismi attivi
POLONIA Gruppo di Visegard
Transnistria VA DO OL
MURO PORTANTE
glia di liberazione villaggio per villaggio, e sarebbe stata annientata da altri confitti, questa volta intestini. I prodromi del collasso dell’esperimento jugoslavo si palesano già verso la fne del regno del maresciallo Tito. La costituzione del 1974 riplasma l’assetto della federazione: oltre alle sei repubbliche fondatrici – Slovenia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Bosnia e Croazia – vengono istituite anche due province autonome in Serbia, il Kosovo e la Vojvodina. Quando il maresciallo muore (1980), l’architettura che regge la sua creatura – «Sei Stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito» 1 – perde il suo pilastro portante e scopre presto di avere i piedi d’argilla. La disgregazione della Jugoslavia diventa così una tragedia in quattro atti. Atto primo: Slovenia 1991. Lubiana dichiara la secessione, Belgrado invia l’esercito, ma solo pro forma. Dopo dieci giorni, le forze dell’Armata popolare jugoslava si ritirano nelle repubbliche più a sud, dove confuiscono anche altri reparti e alcune bande paramilitari. Atto secondo: Croazia 1991-95. Zagabria si sottrae all’abbraccio di Belgrado, che reagisce occupando la Slavonia orientale e altre aree della Croazia meridionale, dove si creano delle enclave serbe. Nei quattro anni successivi serbi e croati, mentre combattono aspramente in alcune aree, provano ad accordarsi per spartirsi la Bosnia e coronare i rispettivi sogni espansionistici: la Grande Serbia e la Grande Croazia. Intervallo: Macedonia 1991. Skopje dichiara la propria indipendenza dalla Jugoslavia, nell’indifferenza generale. La tensione tra la maggioranza macedone e la minoranza albanese non degenera in confitto aperto. Gli accordi di Ohrid (2001) pongono le basi per uno Stato parzialmente binazionale. Atto terzo: Bosnia 1992-95. Quando la popolazione bosgnacca e quella croata si esprimono a favore dell’indipendenza, i serbi reagiscono proclamando la secessione e occupando militarmente alcune zone, coadiuvati surrettiziamente dalle forze jugoslave controllate da Belgrado. Se in una prima fase i croati sembrano favorevoli allo smembramento della Bosnia, col tempo allestiscono una fragile cooperazione con i bosgnacchi in funzione antiserba. Tutte le fazioni intraprendono operazioni di pulizia etnica, aprendo campi di concentramento e massacrando la popolazione civile. Per quattro anni Usa, Comunità/Unione Europea e Onu assistono pressoché inermi a un confitto ibrido, incapaci di stabilire se si tratti di guerra civile o di aggressione esterna. Gli accordi di Dayton (novembre 1995) fanno terminare gli scontri e cristallizzano il quadro demografco emerso manu militari. La Bosnia-Erzegovina viene suddivisa in tre entità: la Repubblica Serba, abitata in maggioranza da serbi, la Federazione croato-musulmana (suddivisa in dodici cantoni), dove vivono principalmente le altre due comunità nazionali, e il distretto di Br0ko. Atto quarto: Kosovo 1998-99. Le crescenti tensioni tra maggioranza albanese e minoranza serba spingono Belgrado a schierare nella provincia autonoma le truppe jugoslave, accompagnate ancora da formazioni paramilitari. Si replica, mutatis mutandis, lo scenario bosniaco: mentre combattono per conquistare zone strate1. Filastrocca jugoslava.
129
FRAMMENTI EUROPEI: ATLANTE DEL DOPO-MURO
giche, i miliziani serbi e i guerriglieri kosovari dell’Uçk compiono eccidi di massa contro la popolazione civile. L’intervento della Nato, che bombarda Belgrado e altri centri serbi – e per errore anche diversi campi profughi – sbilancia gli equilibri militari a favore degli indipendentisti kosovari. A metà del 1999 cessano le ostilità: il Kosovo diviene un protettorato Onu. Epilogo: Montenegro 2006. Anche Podgorica si stacca, per via referendaria, da Belgrado. La Jugoslavia, che uffcialmente aveva già cessato di esistere nel 2003, esce defnitivamente di scena. Breve sequel: Kosovo 2008. Priština si dichiara unilateralmente indipendente da Belgrado, iniziando il faticoso processo di riconoscimento sul piano internazionale. A oggi sono ancora molti gli Stati che non hanno allacciato rapporti diplomatici con l’ex provincia serba – Cina, Russia e cinque membri dell’Ue, inter alia. Le guerre che hanno dilaniato la Jugoslavia non hanno visto fronti chiaramente contrapposti e battaglie campali, ma per lo più azioni di pulizia etnica, compiute spesso con mezzi rudimentali da miliziani indottrinati, convinti di proteggere la propria gente da un imminente genocidio. A guidarli generali che combattevano le loro guerre di gioventù – ustaše contro 0etnici, comunisti contro nazifascisti – o guerre immaginarie risalenti virtualmente a secoli prima – Christianitas contro islam, serbi contro turchi. La somma di ondate di pulizia etnica, eccidi, trasferimenti forzati di popolazione, leggi restrittive sulla cittadinanza e pressioni socio-economiche ha prodotto una regione (s)composta in sette Stati piuttosto omogenei sotto il proflo etniconazionale, che complessivamente hanno un pil comparabile a quello del Veneto e una popolazione inferiore a quella del Benelux. Con la convivenza diffcile e spesso artifciosa tra diverse comunità nazionali, la Bosnia è rimasta l’ultimo simulacro di ciò che fu la Jugoslavia.
Altre Europe crescono di Alberto De sanctis
130
La condizione di sostanziale stallo in cui è caduto il progetto europeista dopo i grandi allargamenti orientali e balcanici di inizio millennio ha aperto nuovi spazi a formule concorrenti di ristrutturazione geopolitica dell’Europa. Una tendenza che a ben vedere caratterizza da sempre lo spazio del Vecchio Continente, ma che sembrava esser stata superata dagli eventi del secondo dopoguerra e poi da quelli susseguenti alla caduta del Muro di Berlino. Mai come in questa fase storica gli attori europei si riscoprono invece infragiliti e privi di un’identità comune. Preda di visioni del mondo spesso antitetiche, incapaci di sciogliere i nodi che ne minacciano il futuro unitario e dunque portati a volgere lo sguardo verso formule aggregative più confacenti ai rispettivi interessi nazionali.
MURO PORTANTE
A cominciare dalla Germania e dalla sua storica sfera d’infuenza mitteleuropea. Soggetto fatalmente refrattario a pensarsi in maniera strategica e ad autorizzare indebiti trasferimenti di ricchezza verso l’esterno, la Repubblica Federale sente comunque la necessità di legare a sé il proprio estero vicino per mantenere in piedi un’area di libero scambio ove movimentare capitali, persone e commerci. A maggior ragione potendo contare anche sull’esistenza di una moneta comune come l’euro, nata per imbrigliarne la potenza dopo la riunifcazione e divenuta invece strumento al servizio degli interessi tedeschi. Di qui la nozione di Euronucleo (Kerneuropa): concetto che serve per indicare la sfera d’infuenza geoeconomica germanica nel continente, retta da Berlino e comprendente i suoi clientes dell’Europa centrale (Austria, Slovenia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca), assieme alle marche del Nord Italia, alla Danimarca e al Benelux. Ovvero i territori maggiormente integrati nella fliera produttiva tedesca. Non stupisce che nel frattempo qualcosa si muova timidamente anche sul fronte militare, tradizionale tallone d’Achille della Germania riunita e marchio palpabile della sua riluttanza a inseguire la potenza. Ne è prova sia la crescente cooperazione fra le Forze armate tedesche e quelle dei vicini olandesi, norvegesi, lituani e romeni. È il concetto di Ankerarmee: dove l’«esercito àncora»-Bundeswehr e il complesso militare-industriale federale si propongono di offrire alle più contenute truppe alleate la massa critica necessaria a fargli acquisire capacità ed equipaggiamenti altrimenti mancanti. Ricevendone e integrandone le rispettive specializzazioni. Volgendo lo sguardo ai freddi mari europei del Nord, dalle brume della storia ecco riemergere una coalizione del tutto informale guidata dai Paesi Bassi, che nel nuovo millennio è germogliata attorno alla condivisa aderenza ai precetti del rigorismo fscale. Ovvero il più pressante oggetto del contendere fra i partner Ue dopo la crisi dei debiti sovrani. Sul piano geopolitico, il blocco della nuova Lega anseatica affratella Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania, Lettonia ed Estonia nel comune sforzo di sabotare i tentativi di spostare verso meridione il baricentro decisionale dell’Ue. Battaglia combattuta fno a ieri assieme al nume tutelare britannico, strenuamente ostile alla nascita di un Superstato europeo. In futuro la coalizione nordeuropea potrà alimentare la sua resistenza contando sull’uffcioso sostegno tedesco, con Berlino a servirsi degli anseatici per rintuzzare le velleità egemoniche francesi celate dietro alle nobili proposte di una maggiore integrazione comunitaria. Sul piano securitario il riferimento della Lega resta però lo spazio anglosassone. Peculiarità che la distanzia in maniera netta dalla naturale propensione del mondo germanico a guardare alla Russia come a un potenziale partner e non come a un minaccioso vicino. Nato nel 1991 per accompagnare la transizione di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia dal passato sovietico al futuro euro-atlantico, oggigiorno il Gruppo di Visegrád si presenta come un insostenibile aggregato geopolitico dell’Europa centro-orientale, capace di rinsaldarsi solo quando chiamato a contrastare determinate iniziative geopolitiche di provenienza esogena. Emblematica in questo senso la
131
FRAMMENTI EUROPEI: ATLANTE DEL DOPO-MURO
feroce chiusura all’immigrazione dai paesi islamici e il rifuto di accettare le quote di richiedenti asilo prospettate dalle autorità europee dopo il 2015. Su tutto il resto (o quasi: la dipendenza energetica dal Cremlino fa infatti eccezione), Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava si caratterizzano per interessi contrastanti. Aderiscono con differente convinzione alla Nato, dal granitico ed entusiastico atlantismo polacco alle ben più tiepide partecipazioni slovacca e ungherese. Non posseggono una politica russa condivisa – il pendolo in questo caso oscilla dalla russofobia polacca alla russoflia ungherese e slovacca, passando per quella più smussata dei cechi. E persino nei confronti delle avances commerciali e tecnologiche di Pechino le posizioni non sono affatto univoche. A Budapest c’è ad esempio il più grande centro logistico di Huawei fuori dalla Cina, mentre la Cechia ha optato per escludere il colosso cinese dalle proprie infrastrutture sensibili, ottemperando ai diktat d’Oltreoceano. Le diversità si ricompongono tatticamente solo nelle fasi in cui diventa impellente sostenere le rivendicazioni economiche nei confronti di Bruxelles e opporsi a proposte di armonizzazione fscale o di convergenza salariale paneuropee. Istanze forse importanti per difendere lo status quo regionale, ma del tutto insuffcienti a trasmutare un manipolo di ex province sovietiche in attore geopolitico coeso (e di peso) dell’Europa centro-orientale. Nel graduale processo di riassetto dello spazio europeo non poteva mancare la questione delle rivendicazioni territoriali. Presenti ormai a ogni latitudine del Vecchio Continente, soltanto alcune costituiscono però una minaccia davvero rilevante per lo Stato coinvolto, essendo in grado di metterne a repentaglio tenuta e rango internazionale. Come nel caso del Regno Unito, scosso alle fondamenta dalle spinte centrifughe più o meno manifeste di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, oppure del Belgio, anch’esso a rischio di scomparire nell’eventualità dell’indipendenza delle Fiandre. Se la Baviera è compresa nel computo in virtù della sua formidabile capacità di condizionare a livello politico-economico l’agenda del governo centrale, la presenza di minoranze ungheresi nei vicini di Budapest è fonte di costanti attriti geopolitici. Di recente le condanne del Tribunale supremo spagnolo spiccate contro i dirigenti indipendentisti catalani hanno aperto un nuovo capitolo nella crisi fra Madrid e Barcellona. Se l’indipendenza della regione autonoma appare poco praticabile, è un fatto che il governo spagnolo non sia ancora riuscito a individuare una soluzione di lungo periodo in grado di affrontare le istanze dei catalani. C’è spazio anche per l’Italia, alle prese con la battaglia autonomista delle sue regioni più prospere e con il riaccendersi della questione altoatesina/sudtirolese. La prima preoccupa per la sua capacità di rimettere in discussione la natura stessa dello Stato italiano, la seconda attiene invece al futuro di una regione che resta cruciale per dare compiutezza strategica allo Stivale.
132
IL MURO PORTANTE
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
di Federico Petroni
La linea di separazione fra la Nato e la Russia, ormai protetta solo da modesti cuscinetti, non è mai stata così vicina a Mosca. Non più barriera invalicabile, ma mobile recinto di contesa e possibile conflitto. I tre settori critici. Il caso baltico e quello bielorusso.
U
1. NA NUOVA CORTINA DI FERRO È calata sull’Europa (carta a colori 8 dell’editoriale). Da Murmansk nell’Artico a Sebastopoli sul Mar Nero, una linea ora dura ora permeabile separa la Russia e le sue ambizioni di potenza dalla sfera d’infuenza americana in Europa. Approda su terra dal mare glaciale, corre lungo i confni della Federazione Russa, ingloba la Bielorussia, attraversa l’Est dell’Ucraina fno alla Crimea, per poi tuffarsi e sparire nel Mar Nero. Durante la guerra fredda andava dall’Elba alla foce del Danubio. Oggi sopravvive, solo spostata mille e duecento chilometri più a est, dalla porta di Brandeburgo alle porte di Pietrogrado. Rispetto alla sua versione novecentesca, la nuova cortina di ferro non produce stabilità. Alimenta frizioni. Ripropone la guerra. Quella fra la Nato e il Patto di Varsavia possedeva una certa capacità ordinativa. America e Unione Sovietica fnirono per rispettarla, per ritenerla cogente. «Meglio un muro di una guerra», realizzò John F. Kennedy. Dandosi le spalle presso di essa, le due sfere d’infuenza si sostenevano l’una l’altra. Mentre ciascuna superpotenza erigeva difese, strutturava i rispettivi spazi secondo i propri obiettivi strategici, controllava i clienti locali – con tutte le sfumature del caso, dalla Romania di Ceauşescu alla Francia gollista. Non si osserva niente di tutto questo lungo la nuova cortina di ferro. La crisi ucraina del 2014 ha reinnescato una dinamica confittuale fra il mondo russo e la sfera americana. Il limes europeo fra le due potenze vibra fragile come cristallo di Boemia. Le condizioni sono completamente cambiate rispetto al 1946-91. La linea è troppo vicina alla giugulare della Russia per non infestarle il sonno di incubi. A Mosca non è riconosciuta alcuna legittimità nell’esercitare infuenza nel proprio vicinato, anzi il massimo oggetto del contendere è proprio questo. I rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia sono ancor più sbilanciati a sfavore della seconda di quanto non fossero in epoca sovietica. La posta in gioco non è più assoluta per entrambi.
133
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
Lo è solo per Mosca, mentre è relativa per Washington, la cui priorità è contenere la Cina, benché l’Europa resti irrinunciabile. La soggettività degli attori locali – alcuni troppo traumatizzati dal ricordo del dominio russo per restare lucidi – è di gran lunga accresciuta, in certi casi fno a imporsi sulle scelte tattiche di Cremlino e Casa Bianca, a dimostrazione della minore capacità di mantenere l’ordine o il controllo. Infne, la fuidità del contesto: ieri congelato (l’eccezione jugoslava conferma la regola), oggi disputato. Stati Uniti e Russia competono in tre modi, tutti potenziali fonti di instabilità: a) là dove le due sfere si toccano, rafforzano ciascuno il proprio lato della cortina; b) si contendono i paesi nel mezzo non ancora integrati nelle strutture euro-atlantiche; c) conducono operazioni di disturbo oltrecortina. In formula: durante la guerra fredda si competeva per lasciare la cortina di ferro lì dov’era, ora per defnire dove passa.
134
2. Un limes in Europa fra Stati Uniti e Russia è inevitabile. O almeno lo sarà fnché ciascun attore riterrà il continente imprescindibile per il proprio rango, vuoi di Numero Uno o di grande potenza. Oppure nell’improbabile eventualità che nel mezzo si frapponga qualcun altro, cioè Cina e Germania. L’inevitabilità discende dai rispettivi imperativi strategici. La strategia della Russia le impone di acquisire profondità spaziale per allontanare l’incubo di essere invasa attraverso le sue penetrabilissime frontiere. Per questo, dalla fne del XVII secolo preme per spostare più a ovest possibile in Europa la prima linea difensiva: Pietro il Grande si affacciò sul Baltico, Caterina II annesse le odierne Lituania, Bielorussia e Ucraina, Alessandro I arrivò a Varsavia e al fume moldavo Prut, Stalin fno a Berlino. Non è solo una questione di sicurezza, ma di prestigio, in particolare in Europa. Perché anche possedendo la Polonia non si cancella la radicata convinzione che prima o poi l’egemone del continente attaccherà, come successo con Napoleone, Hitler e gli inglesi. Ma l’espansione territoriale permette ai russi di rivendicare il rango di grande potenza con ambizioni globali. A essere ammessi nel club di chi scrive le regole. Rovesciando il ragionamento, senza sfera d’infuenza la Russia non è legittimata a esercitare il ruolo che la psicologia nazionale si autoassegna. Oggi non solo il raggio d’azione di Mosca è arretrato di mille e passa chilometri rispetto a trent’anni fa. È pericolosamente vicino alla linea San Pietroburgo-Rostov sul Don. Barriera invalicabile. Dietro di essa si spalanca il cuore storico, demografco e industriale della nazione. È da più di cinque secoli, da quando il gran principe di Mosca Ivan III iniziò il raduno delle terre russe, che la Russia non si trovava così schiacciata su tale margine. Come se gli Stati Uniti si difendessero nella Baia di Chesapeake o nel Golfo del Messico. Quando vi erano costretti, semplicemente non erano una grande potenza. La priorità odierna della Russia non è espandersi, ma puntellare i confni occidentali. Evitare che il confronto con la Nato defagri in guerra aperta. Impedire alle ultime ex repubbliche sovietiche di entrare nella sfera d’infuenza euroatlantica. Affdare ai bastioni avanzati di Kaliningrad e Sebastopoli (domani forse anche Ti-
IL MURO PORTANTE
1 - LA DIFESA NORDICA DEGLI USA DURANTE LA GUERRA FREDDA CINA
U R S S
BMEWS Clear-Alaska (STATI UNITI)
Thule Groenlandia BMEWS (DANIMARCA)
BMEWS Fylingdales Moor RE GN O UN ITO
C ANA D A Linea difensiva di pre-allarme
Linea difensiva medio-canadese Quartier generale NORAD Colorado Springs
S TAT I
U N IT I BMEWS Allarme rapido antimissili balistici Urss e paesi satelliti Usa e alleati
135
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
raspol’) il compito di negare al nemico l’accesso al bassopiano sarmatico mediante la temuta contraerea. Il massimo cui Mosca può ambire è estendere la propria infuenza entro gli ex satelliti. A cominciare dalla legittimazione dello status delle terre strappate con la forza alla dissoluzione dell’Urss: Crimea, Donbas, Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud. Se si osservano nel lungo termine la perdita dell’impero sovietico e lo scippo di questi fazzoletti, quello del Cremlino sembra meno un progetto neoimperiale e più un disperato tentativo di gettare salvagenti al Titanic che affonda. La strategia degli Stati Uniti prevede invece di stroncare sul nascere ogni tentativo di un rivale o di una coalizione di rivali di ergersi a egemone dell’Eurasia, la massa bicontinentale decisiva per le sorti del pianeta. Dal punto di vista americano, l’isola-mondo è cinta da una collana di perle fatta di basi e alleanze lungo i mari, gli stretti e gli arcipelaghi più strategici, dall’Equatore all’Artico (carta 1). La cui funzione è preservare la supremazia della talassocrazia contenendo le ambizioni egemoniche di avversari prevalentemente terrestri. Solo in un punto tale linea emerge dal regno di Nettuno per posarsi su terra: l’Europa. Gli Stati Uniti hanno altri approdi in Eurasia (Corea del Sud e Medio Oriente), ma in nessun altro luogo vantano tanto spazio nella loro disponibilità strategica e tanta affnità antropologica. In Europa, la collana di perle coincide con la cortina di ferro, ovunque essa corra. A lungo, dopo la fne della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno indugiato a presidiare gli ex satelliti sovietici, prima per insussistenza della minaccia russa poi perché impegnati altrove in invincibili guerre al terrorismo. Ma con la crisi ucraina del 2014 sono stati forzati ad avanzare le proprie avanguardie militari e le strutture atlantiche verso est. Disattendendo en passant le mezze promesse fatte alla moribonda Urss, la cui classe dirigente, in linea con i princìpi della strategia russa, chiedeva che l’Europa di mezzo restasse un cuscinetto neutrale 1. Ieri per impedirne l’uso come rampa di lancio per un’invasione. Domani, chissà, per recuperarvi l’infuenza perduta. Washington ha mancato alla presunta parola data per varie ragioni. Per adempiere agli oneri tipici di chi eroga sicurezza ai propri clientes (sensibilità imperiale). Per mettere un freno e al contempo pressione a Mosca, consapevole di quanto sia logorante difendersi alle soglie di casa. Per il rifesso antirusso ancora presente nella mentalità delle sue burocrazie. E per occupare fsicamente lo spazio fra Berlino e Mosca. Con l’obiettivo di negare al risorgente nazionalismo tedesco (eredità e assieme specchio della riscoperta dell’identità prussiana) d’intendersi un giorno con la Russia. Come accade da secoli fra due potenze costrette per prossimità e rapporti di forza a venire a patti – o alle mani, in entrambi i casi comunque a discapito dei popoli nel mezzo, polacchi in testa. L’ossessione per la Germania è d’altronde un tratto caratteristico della cultura strategica americana. Da cento e due anni, dall’intervento nella prima guerra mondiale contro l’impero guglielmino, ne informa l’approccio all’Europa.
136
1. J.R. ItkowItz ShIfrInSon, «Deal or No Deal? The End of the Cold War and the U.S. Offer to Limit NATO Expansion», International Security, vol. 40, n. 4, primavera 2016, pp. 7-44.
IL MURO PORTANTE
Groenlandia (DANIMARCA)
Isole Svalbard (NORVEGIA)
Mare di Barents
Linea di contenimento della Russia Isole Svalbard - Norvegia
Basi di sottomarini nucleari Deposito di armi nucleari Basi navali Basi aeree Incursioni aeronavali russe
ISLANDA
Ci
rco
lo
Pol
OCEANO AT L A N T I C O
Penisola di Kola are
Artico
Basi strategiche dei paesi baltici a uso della Nato
SVEZIA
Minoranze russe nei paesi baltici Estonia 25% Lettonia 25% Lituania 5%
NORVEGIA Stoccolma (SVEZIA) Gotland Öland (SVEZIA)
NUOVA CORTINA DI FERRO Settore nordico consolidato Settore centrale poroso Paesi che hanno la frontiera sulla Nuova cortina di ferro nel settore nordico
Basi militari polacche principali a uso dei militari Usa (circa 5.500)
FINLANDIA
Bornholm (DANIMARCA)
Tapa ESTONIA Ādaži LETTONIA
San Pietroburgo
Area Petseri
(Rivendicata dall’Estonia)
LIT. Rukla Redzikowo Elbląg Orzsysz Stettino Powidz Żagań ŁaskVarsavia POLONIA
FED. RUSSA BIELORUSSIA
UCRAINA
2 - LA NUOVA CORTINA DI FERRO-SETTORE NORDICO 3. Uno dei motivi per cui la nuova cortina di ferro non produce stabilità è che non ha ancora trovato una collocazione fssa ovunque sulla penisola europea. Più a sud si scende, meno è defnito il grado di separazione fra le due potenze. Sulla base di questo criterio suddividiamo il limes in tre settori: quello nordico, dove Russia e Nato/Ue confnano; quello centrale, in corrispondenza delle frontiere occidentali di Bielorussia, Ucraina e Moldova, paesi contesi fra il mondo russo e la sfera statunitense; e quello meridionale nel Mar Nero, indefnibile a causa dell’ambiguità della Turchia. Esaminiamoli nel dettaglio. Il settore nordico o artico-baltico (carta 2) corre dalle Svalbard a Kaliningrad lungo le frontiere della Russia con Norvegia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, comprendendo quelle fra Bielorussia e le due repubbliche baltiche. È il
137
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
segmento più netto della nuova cortina di ferro, relativamente stabile e consolidato. Qui non c’è niente che valga da solo la pena di innescare una guerra. I due blocchi militari si stanno consolidando e imparando a conoscere. I rischi derivano semmai dall’eccessiva vicinanza fra di essi e fra gli spaventati clientes americani e l’ex padrone russo. L’Artico non è una posta in gioco in sé, non è scintilla che basta da sola a infammare i rapporti fra Washington e Mosca, ma risente della competizione fra grandi potenze (Cina compresa) altrove 2. La militarizzazione russa oltre il Circolo polare non ha come scopo muovere alla conquista del Polo Nord o degli Oceani cui mai ha avuto accesso, ma estendere la sovranità su terre disabitate e sempre più aperte agli investimenti stranieri – dunque contendibili. Tracciato nel 1826, quello con la Norvegia è l’unico confne europeo della Russia a non essere stato oggetto di una guerra – i norvegesi non vogliono ritenere tale l’invasione sovietica del 1944-45 perché li liberò dal giogo nazista e fu seguita da un ritiro piuttosto ordinato – e simboleggia la vocazione di Oslo a smorzare il più possibile le tensioni con Mosca. Scendendo verso sud, le provocazioni russe nel Baltico sono diminuite negli ultimi tempi, anche se gli attori affacciati su questo mare continuano a temere per le incursioni negli spazi aerei nazionali e sulle isole più strategiche, la danese Bornholm, la svedese Gotland e le fnlandesi Åland. Mosca non rinuncia comunque (ricambiata dalla Nato) a operazioni di disinformazione, intimidazione e cibersabotaggio in terra avversaria. L’Alleanza Atlantica sta sempre più consolidando la presenza in quest’area. In ciascuna delle tre repubbliche baltiche schiera un migliaio di soldati, ha accesso a basi strategiche (Tapa, Ådaži e Rukla) e preposiziona materiale bellico da usare all’occorrenza. Svezia e Finlandia hanno tanto integrato le rispettive Forze armate fra loro e con quelle dell’Alleanza da dover essere ormai considerate parte dello schieramento occidentale, ferme a un passo dall’adesione formale per non adirare il possente vicino. Tuttavia il rinforzo del fanco orientale può anche trasformare la dinamica da stabile a instabile. Non solo perché gliene corrisponde uno speculare da parte russa. Ma perché a preparare la guerra si rischia di fnire per farla. Nel raggio di qualche centinaio di chilometri si concentrano sempre più esercitazioni militari a sorpresa ordinate da Mosca e imponenti manovre della Nato. Come Defender-Europe che nella primavera 2020 porterà 20 mila soldati americani dagli Stati Uniti verso l’Est. È il più massiccio trasferimento di truppe da Oltreatlantico dall’epoca della guerra fredda. Serve a testare la rapidità delle linee di comunicazione oceaniche e terrestri, compito specifco di due nuovi comandi Nato. E a ribadire che lo spazio europeo è nella piena disponibilità strategica americana. Anche alle latitudini polari il contatto fra russi e alleati può generare scossoni, sia pur di magnitudine inferiore. Il triangolo Stati Uniti-Regno Unito-Norvegia, fra le architetture profonde della Nato, ha spostato verso nord-est la linea di conteni-
138
2. Limes, «La febbre dell’Artico», n. 1/2019.
IL MURO PORTANTE
mento della Russia dal varco Groenlandia-Islanda-Regno Unito (Giuk gap in militarese) al varco Svalbard-Norvegia. Cioè a ridosso di uno dei più formidabili bastioni militari russi, la penisola di Kola, base del grosso dei sottomarini nucleari, irrinunciabile icona delle aspirazioni di Mosca alla potenza. La manovra è speculare a quella operata sul Baltico, dunque alimenta nei russi le stesse paranoie. Un altro fattore di perturbazione sono le fbrillazioni degli attori locali. In particolare le memorie baltico-polacche sono impregnate del terribile ricordo delle occupazioni russe. Queste collettività sono troppo vicine alla Russia per non desiderarne una defnitiva neutralizzazione, per non mantenere un’ostilità perenne. Ne dà prova la discriminazione delle cospicue minoranze russe in Estonia (25% della popolazione), Lettonia (25%) e Lituania (5%), che si teme possano essere quinte colonne del Cremlino. Lo dimostra anche il fatto che l’Estonia non rinunci alle rivendicazioni territoriali a est del fume Narva o nell’area di Petseri, trasferite alla Russia durante l’occupazione sovietica nel 1944. Il caso della Polonia illustra invece la capacità di orientare il processo decisionale euroatlantico per soddisfare le proprie esigenze di sicurezza. Varsavia è già il perno del contenimento della Russia: i militari statunitensi sono in aumento (ora sono 5.500) e hanno accesso a 18 installazioni sulla quasi totalità del territorio nazionale (le più importanti a Powidz, Żagań, Elbla̧g, Stettino, Łask, Orzsysz e Redzikowo). Ma per stessa ammissione del suo governo si accontenterebbe se ricevesse solo due divisioni corazzate – è lecito dubitare che smetterebbe di insistere per avere di più. 4. Il settore centrale o peninsulare (carta 3), da Kaliningrad a Sebastopoli e alla Crimea, è quello decisivo e sovraordinante. Siamo nelle piane più mobili d’Europa, passate di mano innumerevoli volte negli ultimi secoli, arene cruciali degli equilibri del continente. È il cuore delle cosiddette bloodlands 3, terre impregnate del sangue delle persone massacrate a milioni nel 1914-45. Qui i confni non sono defnitivi. Sono oggetto di mire irredentiste, come quelle romene sulla Bessarabia o quelle ungheresi sulla Transcarpazia. Non rifettono legami profondi, come quelli delle regioni ucraine di Volinia e Podolia che non vogliono avere nulla a che fare con Mosca e guardano molto più all’Europa ex asburgica. La frontiera polaccobielorussa separa territori appartenuti a Varsavia all’epoca della Confederazione con il Granducato di Lituania e durante la Seconda repubblica (1918-39); tuttavia la scarsa popolazione polacca a est di tale linea (epurata in epoca sovietica) non ha fnora alimentato tensioni centrifughe degne di nota. Questo confne coincide quasi al millimetro con quello della terza spartizione della Polonia (1795), segno che il limite non è recente e non è solo arbitrario. Tanta eredità storica rende la nuova cortina di ferro inevitabilmente più arbitraria. Ma il fattore decisivo a obbligare a tratteggiare soltanto questo segmento è il futuro di Bielorussia, Ucraina e Moldova, vera posta in gioco fra Stati Uniti e Russia. Si tratta di stabilire se resteranno cuscinetti neutrali fra le due sfere o se fniranno 3. T. Snyder, Bloodlands: Europe between Hitler and Stalin, New York City 2015, Vintage.
139
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
per essere inglobate da una delle due. La disputa è delicatissima. La crisi del 2014 si è innescata proprio a causa del tentativo di Kiev di passare al campo euroatlantico. Vladimir Putin sarà valutato dalla storia anche sulla base dell’esito fnale di questa partita: gli annali potrebbero ricordarlo come colui sotto il quale la Russia ha defnitivamente perso l’Ucraina. Inoltre, la Bielorussia e l’Est ucraino hanno legami culturali troppo stretti con i russi per scioglierli senza traumi. Un conto è avere il campo avverso alle porte su 500 chilometri. Un altro su 4 mila. Se mai ciò avverrà, sarà il segnale che Mosca avrà abdicato allo status di grande potenza. E potrebbe innescare altri separatismi interni. Tutti e tre i paesi sono contesi, con intensità variabile. Il perno è l’Ucraina. La guerra nel Donbas dimostra come la nuova cortina di ferro non sia inviolabile: i russi combattono al fanco dei ribelli e il campo euroatlantico sostiene abbondantemente le Forze armate di Kiev. Il governo ucraino sopravvive solo grazie agli aiuti bellici e fnanziari erogati o fortemente sponsorizzati dagli Stati Uniti. Gravita ormai verso occidente, ma non ne farà parte a breve: lo strappo del 2014 brucia ancora, soprattutto nelle cancellerie europee. Ciò a cui si sta dedicando Putin è legittimare i feudi di Donec’k e Luhans’k, cavalcando l’ossessione del presidente ucraino Zelens’kyj per dichiarare pace fatta prima possibile e l’urgenza di Francia e Germania a sgonfare le tensioni con i russi per tornare amabilmente a farci affari. Per i due oblasti ribelli, il Cremlino cerca di ottenere riconoscimento internazionale e statuto autonomo: una secessione non dichiarata. La Bielorussia è diventata contendibile solo di recente, ma la sua importanza è apicale. È l’unico paese d’Europa che i russi possano defnire alleato. Non vassallo, però. E proprio su questo si gioca il braccio di ferro fra Mosca e Minsk 4. La prima vuole assicurarsi qualcosa di più della sua neutralità; perciò rispolvera il progetto di un sovra-Stato, insiste per ottenere una base permanente e minaccia di ridurre le forniture di petrolio. La seconda, spaventata a morte da quanto accade in Ucraina, difende la propria indipendenza; perciò riscopre l’identità e la storia specifcamente bielorusse (non un dettaglio per un popolo abituato a usare la lingua russa), riallaccia i rapporti diplomatici ed energetici con gli Stati Uniti, coopera con la Cina (difesa, infrastrutture, tecnologia), limita i negoziati sull’Unione all’economia e rispedisce al mittente la pretesa di utilizzare con disinvoltura il suolo bielorusso per scopi militari. La dinamica è inversa rispetto all’altro versante della cortina: qui l’attore locale defette le pressioni della grande potenza; di là è Washington a non cedere a tutte le pressioni polacche. L’effetto è di non avvicinare troppo i rispettivi schieramenti militari alla frontiera, garantendo un salutare cuscinetto. Altrettanto non si può dire del confne Russia-Bielorussia. Per ringraziare Minsk delle cortesie, Mosca ha schierato due nuovi reggimenti motorizzati nelle città frontaliere di El’nja e Klincy. Mossa simile alla creazione di una nuova divisione nel 2016 alle soglie dell’Ucraina. La linea rossa è chiara: se la Russia percepirà il tentativo di sflarle la Bielorussia, sarà guerra.
140
4. G.E. howard, «The Gorwing Importance of Belarus on NATO’s Eastern Flank», Jamestown Foundation, settembre 2019.
IL MURO PORTANTE
3 - LA NUOVA CORTINA DI FERRO-SETTORE CENTRALE
Mosca
F E D. RUSSA
ar
Ba
lti
co
LETTONIA
Autoproclamate Repubbliche Popolari di: Luhans’k Donec’k
Kaliningrad (RUSSIA)
El’nja
LITUANIA
M
Reggimenti motorizzati russi
Minsk
Klincy
BIELORUSSIA
P O L O N I A
Paese alleato della Russia
Varsavia
Kiev
U
REP. CECA
C
R
A
I
N
A
SLOVACCHIA M
Regioni ucraine R O M A N I A più flo-occidentali Volinia Podolia Leopoli Territori oggetto NUOVA CORTINA DI FERRO di mire irredentiste Settore centrale poroso Transcarpazia Settore consolidato Bessarabia
A DOV OL
UNGHERIA
Rostovna-Donu
Transnistria
(Bastione russo della nuova cortina di ferro)
Crimea Sebastopoli Mar Nero
La Moldova è la patata meno bollente. Le maggiori potenze sembrano concordare nell’accordarle neutralità, pur continuando ciascuna ad avanzare i propri interessi e a competere per la fedeltà degli attori locali. I quali sono ben contenti di vendersi al migliore offerente, di manovrare gli stranieri per i propri scopi di denaro e potere e di salvaguardare la funzione di snodo di traffci e spie fra Est e Ovest. Rifesso di questa parziale sospensione è il progressivo indurimento dell’ulteriore cortina di ferro dentro la nuova cortina, ossia il bastione della Transnistria, il quale costituisce comunque un potenziale focolaio di tensioni (appendice). 5. Il settore meridionale o eusino si tuffa nel Mar Nero (carta 4). Ma qui la nuova cortina di ferro scolora e si perde. Impossibile determinarne con precisione il percorso. Perché nell’equazione subentra un’altra potenza: la Turchia. Benché membro della Nato, non la si può considerare un perno regionale del contenimen-
141
142
Stefanovikio
Alessandropoli
BULGARIA
Verso la Siria
ANKARA
Grozny
lga
F. V o
G EO R GI A
C A U C A S
S I R I A
T U R C H I A (Rivale strategico della Russia e degli Usa)
n F. D o Rostovna-Donu
on
4 - LA NUOVA CORTINA DI FERRO-SETTORE MERIDIONALE
Suda (base Usa in espansione)
Stretto dei Dardanelli
Istanbul
F. D
Stretto di Kerč
Mar D’Azov
Mar Nero
Sebastopoli
(Bastione russo della nuova cortina di ferro)
Transnistria
U C R A I N A
M. Kogălniceanu Deveselu
R O M A N I A
GRECIA (Alleato Usa) ATENE
Larissa
Mar Mediterraneo
Nuove aree di prospezione
Giacimenti di gas romeno
Accordo Usa-Grecia per la costruzione di tre nuove basi
Basi Nato in Romania
NUOVA CORTINA DI FERRO Settore meridionale
A Z E RB A IG IA N
O
Mar Caspio
K A Z A K ISTA N
Abkhazia Ossezia del Sud
Basi russe in Siria di fondamentale importanza
Convogli navali russi verso la Siria
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
IL MURO PORTANTE
to della Russia. Almeno non come Polonia e Romania. Risponde a logiche proprie. Anela autonomia. Ha maturato una consapevolezza di sé 5 tale da farle perseguire i propri disegni tattici in spregio ai vincoli delle alleanze. Tuttavia, i suoi mezzi non corrispondono (ancora?) ai suoi sogni neoimperiali. Non può smarcarsi dall’obbligo di tenere il piede in due staffe (Mosca e Washington) per soddisfare i propri obiettivi. Soprattutto, la Russia resta in prospettiva un rivale strategico che preoccupa tanto quanto gli Stati Uniti, se non di più. Perché nessuno dei due è disposto a riconoscere ad Ankara un’egemonia mediorientale. Anzi, diversamente dai secondi, la prima ambisce ad alcuni dei territori cui aspira la potenza anatolica. La costante geopolitica della Turchia è dunque la sua ambiguità strategica. Il suo arruolamento ha un costo e un costo sempre più alto. Ma non sarebbe nella posizione di negare lo spazio aereo o di chiudere i Dardanelli qualora gli Stati Uniti ne avessero bisogno per tenere i russi in quella larga baia che è il Mar Nero. Nel frattempo, per premunirsi, Washington ha rinsaldato i rapporti militari con la Grecia, accordandosi per tre nuove basi a Larissa, Stefanovikio e Alessandropoli e per espandere quella di Creta nella baia di Suda. Uno schiaffo tanto agli stretti legami di Atene con Mosca quanto all’acerrimo nemico ellenico, la Turchia. Nell’eventualità che la nuova cortina di ferro attraversi un giorno la Tracia. Sfruttando la parziale copertura di Ankara, Mosca si adopera per rendere il Mar Nero un lago russo. Con il colpo di mano del dicembre 2018 ha di fatto assunto il controllo dello Stretto di Ker0 e consolidato la presa sul Mar d’Azov, obiettivo sempiterno della geostrategia russa da Pietro il Grande in avanti. Nonché cruciale per mettere in sicurezza la foce del Don, porta d’accesso al sistema di navigazione fuviale dell’entroterra sarmatico. Rafforza la presa sulla Crimea, per dare a Sebastopoli la doppia funzione di pedone avanzato dalla difesa antiaerea e di rampa di lancio per i convogli navali diretti a sostenere le operazioni in Siria, essenziali nel recupero di un raggio d’azione (dunque di un rango) mondiale. Il prezzo della militarizzazione di questo porto è però l’oblio delle attività commerciali un tempo forenti, che spingono gli operatori civili sull’orlo della bancarotta. A dimostrazione dell’incapacità della proiezione russa odierna di erogare servizi diversi dalla sfera della sicurezza. Su questo versante, la presenza americana è assai labile. La U.S. Navy si guarda bene dallo schierarsi in modo permanente in queste acque, sia perché lo vieta la Convenzione di Montreux del 1936 sia soprattutto perché la Russia non costituisce una minaccia navale e la si controlla molto meglio stando fuori che non inflandosi in questo stretto budello. La risorsa più importante è la coppia di basi in Romania composta da Mihail Kogălniceanu e Deveselu. La prima è un essenziale snodo logistico soprattutto aereo per condurre operazioni in Asia. La seconda è la stampella meridionale dello scudo antimissile ormai in funzione antirussa sempre più esplicita, alla quale si accoppierà in futuro la polacca Redzikowo. Questo sistema è una delle principali fonti di attrito con i russi. 5. Cfr. D. Santoro, «La Turchia è il solo alleato di Ankara», Limes, «Antieuropa, l’impero europeo dell’America», n. 4/2019, pp. 199-212.
143
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
Più degli abbondanti giacimenti di gas nella Zee romena (che tocca quella rivendicata dai russi grazie al ratto della Crimea), il principale focolaio di quest’area è la Georgia. Dalla quale la Russia ha strappato con la forza nel 2008 le regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud per mantenere un piede a sud del Caucaso, instabile ventre molle dell’impero. L’anelito di Tbilisi verso la Nato rischia di restare non corrisposto ancora a lungo, ma un’impennata delle tensioni fra l’irredentismo georgiano e il desiderio di Mosca di sottomettere il piccolo vicino può far precipitare una nuova crisi internazionale. In questa eventualità la Nato potrebbe contare sulla Turchia, che avrebbe interesse ad arginare l’infuenza russa. 6. La nuova cortina di ferro è meno cogente, più aleatoria anche perché le due potenze si sentono titolate a scavalcarla, a competere anche assai lontano da essa. Caratteristica più pertinente per Mosca, che una sfera d’infuenza vera e propria non ce l’ha più. Ma anche Washington non è esente da operazioni di disturbo in casa del rivale, come gli attacchi cibernetici a scopo dissuasivo o il favore con cui osserva le sempre più frequenti proteste delle classi urbanizzate nei maggiori centri del paese. La vera arena è lo spazio dell’ex Patto di Varsavia, più i Balcani, l’Austria e l’Italia. La Russia cerca di ottenere le risorse necessarie a un gigante cronicamente privo di capitale. Ma essendo dotata di sensibilità imperiale, investe con scopi d’infuenza geopolitica, con la pretesa di incidere sulle scelte dei vari Stati6. Vale ovviamente per l’interdipendenza generata tramite la vendita di idrocarburi. Vale per lo sviluppo dei reattori nucleari di Paks in Ungheria, Hanhikivi in Finlandia (entrata in funzione ritardata al 2028) e Belene in Bulgaria, appalto per il quale si sta spendendo il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Vale per gli investimenti mirati nei settori sensibili per ciascuna economia, dai media ai trasporti fno al turismo (Montenegro): in Bulgaria gli investitori russi arrivano a controllare oltre un quinto del pil. Vale per la proiezione delle banche russe, soprattutto Sberbank e Vtb, e per l’uso della strutturale opacità fnanziaria dell’Austria 7, con cui si ricicla denaro o lo si distribuisce alle reti di clientele locali (oligarchi particolarmente vicini al potere politico, quando non con esso coincidenti) ereditate o addirittura rafforzate dall’epoca sovietica. A questi vettori economici se ne aggiungono altri più tradizionali ed espliciti. Dalle intrusioni cibernetiche alla diffusione della propaganda. Dal sostegno a partiti nazionalisti euroscettici in Germania (Est), Italia, Austria, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Serbia, Grecia fno a missioni di sabotaggio o intimidazione condotte dai servizi segreti. Qualche esempio: la campagna di destabilizzazione per le elezioni in Moldova, il tentato colpo di Stato in Montenegro nel 2016 e l’avvelenamento dell’ex spia Sergej Skri-
144
6. Cfr. h.a. conley, J. MIna, r. Stefanov, M. vladIMIrov, «The Kremlin Playbook: Understanding Russian Infuence in Central and Eastern Europe», Center for Strategic and International Studies, ottobre 2016 e H.A. conley, d. ruy, r. Stefanov, M. vladIMIrov, «The Kremlin Playbook 2: The Enablers», Center for Strategic and International Studies, marzo 2019. 7. S. JoneS, «An Austrian bank’s brush with hot Russian money», Financial Times, 14/10/2019.
IL MURO PORTANTE
pal’ nel Regno Unito, peraltro tutte opera dell’unità 29155 dell’intelligence militare, il Gru 8. A fronte delle non indifferenti risorse stanziate, l’esito della ricerca d’infuenza non è soddisfacente. Il Cremlino riesce a tenere in vita in alcuni paesi una certa affnità e lobby che premono per nuovi gasdotti o al massimo per non recidere ulteriormente i legami commerciali e diplomatici, vedi l’industria tedesca. Ma la pressione non incide mai sulle scelte strategiche di questi Stati. Non basta a mettere il veto alle sanzioni, a contestare l’appartenenza alla Nato, a non voler aderire all’Alleanza o all’Ue oppure a rifornire di energia l’Ucraina e ad aiutarla a non veder interrotti d’un colpo i transiti di gas sul proprio suolo. L’infuenza russa è lacunosa non solo fra gli attori già saldamente nella sfera americana. Ma pure fra quelli balcanici dotati di scarsissimo margine di manovra come Montenegro e Macedonia del Nord. Persino fra quelli con ampie e infuenti minoranze russe, come l’Estonia in cui i partiti espressione di questo segmento demografco non invocano l’uscita dall’Alleanza Atlantica e rivendicano con lo stesso fervore degli altri connazionali i territori sottratti dalla Russia. Puntualmente Mosca s’illude (o non ha la forza per fare diversamente) di determinare le scelte di campo scommettendo sui politici locali, sui leader revisionisti. Come se questi ultimi avessero il potere di sottrarre per decreto il proprio paese a una sfera d’infuenza, fra le operazioni più dolorose al mondo (citofonare Kiev). Come se si trattasse di decisioni di pertinenza di un partito e non fossero violentemente avversate dall’egemone. Come se lo scetticismo verso Bruxelles fosse indotto dal fascino o dai rubli del Cremlino e non da specifci interessi nazionali. Per esempio, il leader ungherese Orbán si affanca alla Russia negli strali all’Ucraina perché ne rivorrebbe un pezzo, non perché sedotto da Putin o per affnità ideologica. Insomma, le operazioni di disturbo di Mosca sono un fastidio tattico, non il primario fattore disgregante del campo euroatlantico. Peraltro, i suoi avversari reagiscono colpo su colpo. Valga per tutti l’Iniziativa dei Tre Mari (Trimarium) a guida polacca-romeno-croata, sostenuta con entusiasmo dagli Stati Uniti. L’obiettivo geopolitico dei progetti di infrastrutture viarie ed energetiche è ridurre la dipendenza dagli assi di comunicazione est-ovest che legano l’Europa centro-orientale a Mosca e a Berlino. I perni di questi piani sono gli impianti di rigassifcazione in Polonia, Lituania, Croazia e Grecia per distribuire nella regione gas naturale liquefatto americano o di altra provenienza, con il fne di aggredire l’egemonia di Gazprom. A ciò si affanca l’investimento per slacciare le repubbliche baltiche dalla rete elettrica russa, anche qui su iniziativa polaccostatunitense, con partecipazione svedese. 7. A differenza della guerra fredda, la nuova cortina di ferro non è più la linea di faglia primaria e decisiva delle partite mondiali. Da essa non dipendono i destini del pianeta. Tanta palma spetta a un altro tratto della collana di perle ameri8. M. SchwIrtz, «Top Secret Russian Unit Seeks to Destabilize Europe, Security Offcials Say», The New York Times, 8/10/2019.
145
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
cana che cinge l’Eurasia: quello che va dal Giappone all’India, l’arco di contenimento della Cina. Conseguenza: le sorti del limes russo-americano sono appese agli esiti del braccio di ferro fra Washington e Pechino. Ciò non precipita l’Europa in una tranquillizzante irrilevanza, ma la subordina a calcoli effettuati su scacchieri lontani. Lo sanno perfettamente le collettività del fanco orientale del Vecchio Continente, consapevoli che potrebbero essere sacrifcate sull’altare di un riavvicinamento fra Mosca e Washington in funzione anticinese. Prospettiva ancora lontana dal materializzarsi, ma drammaticamente presente fra le opzioni strategiche. Tuttavia, questa secondarietà non distende la nuova cortina di ferro. Contribuisce a tenerla in costante fbrillazione. Come Sarajevo nel 1914. Fronte per nulla primario delle partite dell’epoca. Eppure capace di precipitare l’Europa nell’abisso. La rivalità russo-americana non è più il criterio che subordina, e tiene congelato, non solo nel resto del mondo ma – cosa per noi decisiva – nemmeno nel nostro continente e in particolare nel fanco orientale. Per due fattori fondamentali. Il primo è l’ingresso di Pechino in quest’area, in competizione plateale con Washington e latente con Mosca, benché quest’ultima per salvare il matrimonio di convenienza non sbandieri in pubblico le scappatelle del consorte cinese con le cortigiane euro-orientali. Il secondo sono i Balcani, che tornano a offrire focolai in abbondanza, dal Kosovo alla Republika Srpska, dal destino della Serbia a quello della Macedonia del Nord, e dove le proiezioni dei tre pesi massimi si sommano a quelle di Germania, Turchia e Iran. La nuova cortina di ferro non basta più a insulare i suoi versanti dalla competizione fra grandi potenze. È solo uno dei margini che delimita il teatro decisivo di questa gara, l’Europa di mezzo fra Mosca e Berlino, fra Baltico e Mediterraneo. Recinto, non argine.
146
IL MURO PORTANTE
A chi serve la Fortezza Transnistria di Mirko Mussetti
1. Oggi il fume Dnestr (Nistru, in romeno) è l’unico tratto a sud in cui la nuova cortina di ferro va defnendosi con chiarezza (carta). Il tributario del Mar Nero taglia in due da nord a sud la piccola Moldova, situata sul vertice meridionale dell’istmo della penisola europea. Sulla riva destra sorge la romenofona Bessarabia, sulla sinistra la russofla Transnistria. Al pari di altre ex repubbliche sovietiche, lo «staterello» odierno può essere considerato il frutto di un esperimento geopolitico sovietico. I confni dell’allora Repubblica Socialista Sovietica di Moldova furono scientemente disegnati affnché la stessa non godesse di sbocchi sul Mar Nero, che le garantissero autonomia commerciale. Ai territori romenofoni furono aggiunti i distretti della riva sinistra del Dnestr – abitati in prevalenza da slavi (ucraini e russi) – allo scopo di annacquarne l’identità nazionale e sminuirne la coesione sociale, prevenendo dunque l’irredentismo romeno. Il fume, infatti, altro non è che il confne naturale orientale della Moldova, intesa come vasta regione storica romena – già principato nel XIV secolo. L’antica Chişla nouă («Nuova fonte») venne ribattezzata Kišinëv e scelta come capitale, nonostante fosse una città minore, mentre fu impedito lo sviluppo di altri centri urbani. L’industria pesante e le centrali elettriche sovietiche, situate esclusivamente nei territori transnistriani, imposero la defnitiva sudditanza economica della Bessarabia. L’esperimento ebbe pieno successo. Almeno fno alla dissoluzione dell’Urss. Oggi l’infuenza moscovita in Moldova è sempre più ridotta. In ritirata su più fronti, la Federazione Russa non può permettersi di disperdere energie per controllare periferie sempre meno affni e dalla fedeltà alquanto ondivaga. Soprattutto se prive di risorse naturali o industriali. Per questo si è trincerata in Transnistria. Per il Cremlino, è il fume Nistru a rappresentare la vera linea rossa del cosiddetto russkji mir (mondo russo). Non è una novità nella geostrategia russa. L’Urss, stipulando il famigerato patto segreto Molotov-Ribbentrop (1939), voleva posizionare il proprio confne sud-occidentale lungo il fume Prut allo scopo di raggiungere la foce del Danubio. Già la dottrina settecentesca del generalissimo Aleksandr Suvorov aveva intravisto nel controllo militare dei territori transnistriani l’elemento essenziale per il dominio esclusivo della costa nord del Mar Nero e il conseguente accesso ai mari caldi. Non deve dunque stupire che, durante le fasi convulse del ritiro delle truppe sovietiche dai paesi del Patto di Varsavia, i generali dell’Armata Rossa e l’intelligence militare individuarono nella Transnistria il luogo ideale dove trasferire gran
147
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
FORTEZZA TRANSNISTRIA
Progetto di una nuova centrale idroelettrica che ridurrebbe drasticamente il fusso di acqua Possibili infltrazioni dall’Ucraina di gruppi ultranazionalisti Rozkopyntsi
Fium e
D
O B L A S T’ CERNIVEC KA
nes tr
U
C
R
A
I
N
A
F
( B
t Pru me iu
Kolbasna
E
Rîbnița
S
(stoccaggio di munizioni)
S A
MOLDOVA
R A
O B L A S T’ D I O DE S S A
B I
Ungheni
Dubăsari
(centrale idroelettrica)
A
Nuovo gasdotto dalla Romania alla Moldova
Chișinău
S T
Iași
O R
Gura Bâcului Bender
I C A
Odessa O B L A S T’ D I O DE S S A K A) JA BI D A BU SAR S E (B
Giurgiulești Porto mercantile
Ponti di collegamento sul Fiume Dnestr
R
O
M
A
N
I
D anubio
(Moldova)
A ta
d el
Lungo il confne tra Moldova e Transnistria ci sono dogane mobili
(centrale termoelettrica)
)
TRANSNISTRIA Distretti della Transnistria: Camenca Rîbniţa Dubăsari Grigoriopol’ Slobozia Bender Tiraspol’ e hinterland
Possibile ponte aereo russo tra Tiraspol’ e la Crimea Tiraspol’ (capitale) Dnestrovsk
De
l
Kogălniceanu Base aerea Nato
BUCAREST
(aeroporto di Costanza)
nubio Da
B U L G A R I A
148
Costanza
M a r
N e r o
IL MURO PORTANTE
parte delle munizioni stoccate nella DDR e in Cecoslovacchia. È così che a Kolbasna, nel distretto di Rybnica, è sorto il più grande arsenale dell’Europa centroorientale. Per mettere al sicuro gli interessi militari russi, in attesa di tempi migliori, i referenti di Tiraspol dichiararono la precoce indipendenza della regione (2 settembre 1990), addirittura prima di quella moldova (27 agosto 1991). Il breve ma sanguinoso confitto militare del 1992 può essere considerato come la prima guerra proto-ibrida di matrice russa. 2. Al pari di Kaliningrad, la Transnistria è per la Russia un cavallo isolato volto a frenare l’avanzata dei pedoni della Nato nella partita a scacchi con l’America. Fortifcare la regione separatista è obiettivo di primaria importanza per lo Stato maggiore russo. La soluzione ottimale – e fnanziariamente sostenibile – consisterebbe nel dispiegamento dei moderni sistemi balistici Iskander-M e S-400 Triumph sul modello già attuato per l’exclave baltica. Il primo avrebbe la funzione di contrastare la minaccia del sistema missilistico americano Aegis Ashore nella base di Deveselu in Romania (come fatto a Kaliningrad nei confronti della polacca Redzikowo); il secondo quella di proteggere lo spazio aereo transnistriano. Il mix di questi strumenti tattici avrebbe come effetto il raggiungimento di un parziale equilibrio strategico lungo il segmento meridionale dell’Intermarium. Il motivo per il quale il trasferimento non è ancora stato realizzato è dovuto alla completa emarginazione logistica della Transnistria, chiusa tra la Bessarabia e l’ormai nemica Ucraina. Allo studio vi sono diverse soluzioni, tutte rischiose e poco plausibili di successo. Primo, trasportare armamenti russi sfruttando l’impellente necessità (riconosciuta unanimemente) di smaltire le circa 22 mila tonnellate di munizioni malamente stoccate nell’arsenale di Kolbasna al confne con l’Ucraina – in caso di incidente la defagrazione stimata sarebbe simile alla bomba di Nagasaki. Chi può garantire che, oltre all’equipaggiamento necessario per la distruzione delle munizioni, gli aerei cargo russi non atterrino all’aeroporto militare di Tiraspol portando con sé delle batterie missilistiche? Certamente non l’Osce, impossibilitata a monitorare le operazioni di trasferimento senza previo consenso delle autorità di Tiraspol: sia l’aeroporto sia l’arsenale sono situati al di fuori della Zona di sicurezza stabilita con l’armistizio del 1992. La Commissione unifcata di controllo sarebbe quindi impotente di fronte a un accordo segreto tra Vladimir Putin e l’amico di vecchia data Vadim Krasnosel’skij, presidente transnistriano e già suo collega nel Kgb sovietico. Il Gruppo operativo di truppe russe presente nella regione (mille soldati circa) si occuperebbe senza problemi della messa in funzione dei sistemi balistici. Secondo. L’opzione di un ponte aereo unilaterale dalla Crimea verso Tiraspol è in assoluto la soluzione più rischiosa. Sia perché i velivoli potrebbero essere intercettati dai caccia della Nato stanziati nella base aerea di Kogălniceanu (Romania), sia perché potrebbero essere abbattuti dai sistemi S-300 ucraini dispiegati nel Budjak.
149
LA NUOVA CORTINA DI FERRO
Terzo. L’acquisto dei principali accessi internazionali alla Bessarabia, ovvero dell’aeroporto di Chişinău e del porto mercantile di Giurgiuleşti (Gagauzia) sul Danubio, è un’opzione che sta prendendo sempre più piede per stessa ammissione del presidente moldovo Igor Dodon. Lo scopo del Cremlino sarebbe quello di garantirsi con discrezione un accesso preferenziale alla piccola repubblica e, di conseguenza, ai distretti transnistriani. Quarto. Raggiungere un tacito accordo con romeni e americani è diffcile, non impossibile. Ma per favorire il «patto delle spie» è necessario disporre di suffcienti merci di scambio. In questo senso deve essere interpretato l’arresto in Russia di Carina Ţurcan, già responsabile della centrale termoelettrica a Dnestrovsk, con l’accusa di spionaggio in favore della Romania. Un incidente nell’impianto causerebbe vasti blackout sia in Transnistria sia nell’oblast’ di Odessa e potrebbe essere usato come pretesto per operazioni lampo da entrambe le parti. L’arresto ha lo scopo di instaurare un canale segreto con Bucarest e, di rimando, con Washington. La soluzione di accordo tra le intelligence (sempre smentibile) è pienamente integrabile alle precedenti tre opzioni.
150
3. L’idea di una nuova cortina di ferro sul Dnestr è certamente avversata da Moldova e Ucraina. Mentre la prima è impotente, la seconda dispone di maggiori frecce. Dalla chiusura dei rubinetti del gas che riscalda la Transnistria alle infltrazioni di gruppi ultranazionalisti nei distretti nord (Rybnica e Kamenka) a maggior presenza ucrainofona; dall’embargo economico totale alla costruzione della centrale idroelettrica di Rozkopyntsi. Quest’ultima ridurrebbe la pescosità, la navigabilità e la disponibilità di acque per la centrale elettrica di Dubossary in Transnistria. L’intensifcato controllo dei valichi di frontiera orientali riduce già drasticamente la libertà di movimento delle autorità tiraspoline, nonché dei tecnici militari e civili a supporto delle truppe russe e delle milizie transnistriane. A differenza della prima, un’eventuale seconda guerra di Transnistria innescata da Kiev si ridurrebbe a un confitto etnico sul modello balcanico – questa volta ucraini contro russi, con i moldovi deflati. Fortunatamente al momento è un’ipotesi remota. Le pressioni moldove nei confronti della Transnistria invece sono evanescenti. I principali punti di frizione sono costituiti dalle sacche di Dubossary e dalla città di Bendery/Tighina, dove scoppiò il confitto del 1992. Le prime sono aree sotto il controllo moldovo sulla sinistra del Dnestr, ma sovente è impedito agli agricoltori moldovi di raggiungere le proprie terre situate a est della strada Tiraspol-Kamenka (anche organizzando esercitazioni militari). La seconda, pur essendo situata sulla sponda destra del Dnestr, è sotto il ferreo controllo delle autorità transnistriane. Qui le dogane mobili «rubano» metri, mentre la controparte moldova non può installare caselli, poiché signifcherebbe riconoscere indirettamente la sovranità transnistriana. Il potere doganale costituisce il migliore elemento di sovranità tipicamente statuale in mano al regime di Tiraspol. I ponti sul Dnestr sono pochi e facilmente presidiabili: Rybnica, Dubossary, Gura Bâcului, Bendery. Il ferreo esercizio del
IL MURO PORTANTE
controllo delle frontiere, oltre a rimarcare lo spirito indipendentista postbellico, ebbe come scopo iniziale quello di creare uno spazio dove far forire traffci illegali immediatamente profttevoli, volti a fnanziare le politiche separatiste nonché ad arricchire gli oligarchi locali (presidenza Smirnov). Se un tempo la criminalità organizzata, di concerto con lo Stato stesso, si dedicava principalmente ad attività quali il traffco di armi, oggi la classe dirigente tiraspolina tollera principalmente il riciclaggio di denaro sporco e il mining di criptovalute. Lo stesso ex presidente Evgenij Ševšuk è attualmente latitante per aver illegalmente sottratto denaro all’erario mediante una colossale cresta sulla rivendita del gas russo. Cosa mai presa bene da Gazprom che, non sollecitando il pagamento delle forniture, garantiva una sorta di aiuto di Stato alla repubblica non riconosciuta. Il rapporto simbiotico tra i traffci illeciti transnistriani e l’endemica corruzione bessarabica garantisce la salvaguardia di entrambe le classi dirigenti: quella di Tiraspol trae margine di sopravvivenza fnanziaria, quella di Chişinău conserva le proprie rendite di posizione. Almeno fno a quando l’idea di unifcazione con la Romania rimarrà solo uno spauracchio. Una cosa è ormai certa: la prima, dirimente, tappa della nuova cortina di ferro sul Dnestr passa per l’energia. I progetti moldovo-romeni di interconnessione elettrica e del gas procedono spediti e saranno operativi dal 2020. Escludendo la Transnistria, la Bessarabia verrà svincolata dalla dipendenza dalle fonti energetiche orientali e integrata nel mercato romeno. Nell’estate 2020 sarà in funzione il gasdotto Iaşi-Ungheni-Chişinău, rendendo quasi superfuo il gas russo. E la realizzazione di nuove linee elettriche sul Prut permetterà a Chişinău di sottrarsi all’approvvigionamento elettrico dalle centrali transnistriane. 4. Fissare una nuova cortina di ferro sul Dnestr comporterebbe il raggiungimento di un secolare equilibrio strategico sull’istmo della penisola europea, soddisfacendo tutti e tre i principali attori coinvolti. La Romania si sentirebbe spronata a perseguire l’Unirea con la Bessarabia, consolidando l’appagante ruolo geostrategico di bastione euroatlantico. Gli Stati Uniti libererebbero risorse burocratiche da un’area dispendiosa per concentrarle altrove. La Russia potrebbe fare altrettanto e migliorerebbe la sicurezza del poroso fanco occidentale, in particolare nelle vicinanze della strategica Crimea. Ma la linea di contatto fra sfera americana e sfera russa può trasformarsi in amity line solo a patto che Washington superi la visione di Zbigniew Brzezinski – ancora imperante al Pentagono – che riserva al Rimland ucraino una dirimente importanza strategica per la conservazione del dominio a stelle e strisce. E non è ovvio che ciò avvenga in tempi brevi.
151
IL MURO PORTANTE
LA LEADERSHIP AMERICANA IN EUROPA È IN PERICOLO di Theodore R. Bromund Dal punto di vista statunitense, il continente scivola verso il neutralismo. Washington deve ridare all’Europa l’importanza che le spetta. E gli europei capiscano che l’Ue non è fine in sé, ma mezzo per contenere la Germania e unire l’Occidente.
D
1. URANTE LA GUERRA FREDDA GLI STATI Uniti godevano di una posizione preminente in Europa occidentale. Ma oltre a essere contestata da est dall’Unione Sovietica, essa era sfdata all’interno dagli stessi riottosi alleati, specialmente la Francia. Come dimostra l’esempio del ritiro di Parigi dalle strutture di comando militare della Nato nel 1966, Washington adottava un atteggiamento assai misurato. Fino a essere pronta a – benché non sempre contenta di – consentire ai propri soci uno stupefacente margine d’azione. La Nato non era certo un’alleanza fra pari, ma non era nemmeno dominata dagli Stati Uniti. L’America era leader indispensabile, non duce imposto. Come notava un commentatore, se gli Stati Uniti avevano un impero in Europa occidentale, si trattava di un impero su invito 1. Tre vitali condizioni sorreggevano il primato americano. Primo, una sofsticata e sfaccettata comprensione della minaccia sovietica e la necessità di costruire forti istituzioni per contrastarla. Secondo, una corretta lettura della centralità geopolitica dell’Europa. Terzo, l’accettazione del fatto di essere l’unico attore dotato sia del potere sia della fducia necessaria per svolgere quel lavoro. Esaminiamo i tre pilastri nel dettaglio. 2. La minaccia sovietica rese la leadership statunitense necessaria e insieme possibile: se l’Urss si fosse confnata entro le proprie frontiere prebelliche, l’Occidente non sarebbe stato spinto a intraprendere un’iniziativa collettiva. Ci si concentra purtroppo solo sugli aspetti militari del confronto fra Est e Ovest. Fortunatamente il dubbio se Mosca si sarebbe mai spinta a trascinare il Patto di Varsavia in bat1. G. Lundestad, «Empire by Invitation? The United States and Western Europe, 1945-1952», Journal of Peace Research, vol. 23, n. 3, settembre 1986, pp. 263-277.
153
LA LEADERSHIP AMERICANA IN EUROPA È IN PERICOLO
154
taglia contro un avversario armato di testate nucleari è rimasto tale. Ma il rischio con cui l’Europa occidentale si confrontava non fu mai solamente bellico. Come gli americani riconobbero sin dal 1947 con il Piano Marshall, il pericolo era che il Vecchio Continente, sull’onda di un collasso politico o economico, scivolasse verso il neutralismo, sviluppo che avrebbe reso i paesi dell’area vulnerabili a una sovversione dall’interno. Detto altrimenti, la minaccia sovietica in Europa occidentale non era la conquista da parte dell’Est, derivava da una combinazione fra l’infuenza sovietica e le potenziali debolezze sociali interne. La strategia che gli Stati Uniti svilupparono per combattere questa minaccia possedeva molti volti, tanti quanti la minaccia stessa. Combinava quello che oggi descriviamo come soft power (guerra informativa e strategia economica) con quello più duro, tipicamente militare, attraverso la Nato. Ma al centro della risposta americana risiedeva una forte convinzione, una lezione cruciale appresa negli anni Trenta: una cattiva economia porta a una cattiva politica. I liberali statunitensi riconobbero che in quel decennio le politiche commerciali e monetarie predatorie avevano trasformato un crollo delle Borse nella Grande depressione, che a sua volta aveva facilitato l’ascesa del nazismo e poi lo scoppio della seconda guerra mondiale. Secondo gli americani dell’epoca, sarebbe stato impossibile avere democrazie stabili in Europa fnché le stesse non avessero conosciuto una solida crescita economica. Di conseguenza, gran parte della leadership strategica statunitense in Europa occidentale fnì per concentrarsi sulla costruzione di istituzioni economiche. Ancora oggi ne resistono molte. Dal Fondo monetario internazionale, che cercava di prevenire guerre valutarie e svalutazioni competitive, alla Banca europea di ricostruzione e sviluppo (oggi Banca mondiale), dedita a rimettere in piedi le infrastrutture fsiche del Vecchio Continente. Dal Piano Marshall che ha gemmato l’Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo all’Accordo generale su dazi e commercio, oggi Organizzazione mondiale del commercio. Tramite queste istituzioni, Washington diede l’esempio, promuovendo la stabilità e la crescita economica come mezzo per garantire la libertà politica e la democrazia. Anche la stessa Nato, grazie alle sue rassicurazioni, era concepita come strumento di stabilità sociale, oltre che di difesa militare. Questa strategia ebbe successo perché aveva individuato correttamente le fonti dell’instabilità del periodo interbellico e si era dotata di un’architettura per contrastarle. La seconda condizione della leadership americana era una semplice realtà legata al potere mondiale: per gli Stati Uniti, l’Europa occidentale contava più di ogni altro luogo del pianeta, perché centro del potere industriale globale, anche se nel 1945 tale caratteristica era presente solo in potenza. La prima e la seconda guerra mondiale avevano insegnato a Washington che solo uno spazio dotato di simili risorse poteva concretamente minacciare i suoi interessi. Con l’industria americana, giapponese e britannica saldamente nel blocco occidentale e quella sovietica nel campo avverso, restava scoperta solo la manifattura tedesca della Ruhr. Se l’avesse controllata l’Occidente, la supremazia sull’Urss sarebbe stata to-
IL MURO PORTANTE
tale; se l’avesse controllata Mosca, il primato occidentale sarebbe stato in posizione precaria. La seconda condizione della preminenza americana era dunque la consapevolezza di non potersi permettere di perdere un millimetro in Europa occidentale perché ogni suo fazzoletto di terra forniva le basi per vincere la guerra fredda. E quindi anche per perderla. Gli Stati Uniti non si concentrarono mai solo sull’Europa occidentale. Anche l’Asia aveva un ruolo vitale nella strategia a stelle e strisce, dalla Corea al Vietnam. Ma questi due territori erano i primi tasselli del domino, l’Europa occidentale l’ultimo, quello decisivo, caduto il quale Washington avrebbe perso. Di tanto in tanto vari presidenti statunitensi, come Dwight Eisenhower, cercarono di ridurre l’enfasi su questa metà del Vecchio Continente per rendere l’America un alleato più appetibile per le emergenti forze anticolonialiste e nazionaliste nel Terzo Mondo. Ma la «scommessa di Ike» non ebbe i risultati sperati e gli Stati Uniti non furono mai nella posizione di sfuggire alla realtà: l’Europa occidentale era semplicemente più importante più di ogni altro angolo del pianeta 2. Non a caso, la guerra fredda è iniziata e fnita in Europa, fulcro del potere mondiale. Fintanto che riconobbero questo fatto, gli Stati Uniti furono costretti a svolgere un ruolo centrale nello sviluppo di strategie per tenere assieme questo spazio e proteggerlo dalle proprie debolezze interne e dalla minaccia sovietica. Terza e ultima condizione: l’assenza di rivali europei. Il Regno Unito scelse di assistere gli Stati Uniti e le sue scarse prestazioni economiche postbelliche, abbinate alla forte riduzione delle truppe stanziate in Germania, non lo mettevano nella posizione di sfdare Washington anche se l’avesse voluto. L’altro potenziale competitore, la Germania, era contenuto dal senso di colpa, dalla divisione fra Est e Ovest, da istituzioni come la Nato e dal fatto che gli Stati Uniti, l’Urss, la Francia e il Regno Unito si preoccupassero profondamente delle conseguenze di un ritorno tedesco alla potenza 3. La famosa battuta di Lord Ismay sul signifcato della Nato – gli americani dentro, i sovietici fuori e i tedeschi sotto – era assolutamente accurata: l’Occidente non poteva essere difeso senza una forte Germania Ovest, ma nemmeno con una Germania troppo forte. In questo periodo, gli Stati Uniti sostennero la crescita dell’integrazione europea, ma le istituzioni comunitarie esistevano in quanto tasselli di una strategia più ampia, non come fne in sé. In altre parole, le organizzazioni politiche offrivano un altro modo per legare la Germania Federale all’Occidente e per ridurre le barriere commerciali all’interno del continente. Washington attribuiva tanto valore al loro contributo da soprassedere sul fatto che unifcare economicamente l’Europa occidentale avrebbe inevitabilmente discriminato il commercio con gli Stati Uniti. Un’ulteriore conferma di quanta attenzione venisse dedicata a trovare risposte politiche ed economiche a una sfda solo apparentemente militare. Era proprio questo tratto a rendere rimarchevole la strategia statunitense in Europa occidentale durante la 2. M.S. doran, Ike’s Gamble: America’s Rise to Dominance in the Middle East, 2016, Free Press. 3. T.R. Bromund, «America ed Europa hanno lo stesso problema: la Germania», Limes, «Antieuropa, l’impero europeo dell’America», n. 4/2019, pp. 49-56.
155
LA LEADERSHIP AMERICANA IN EUROPA È IN PERICOLO
guerra fredda. La preminenza americana fu il premio della corretta valutazione delle debolezze continentali e della necessità di cooperazione politica e crescita economica di fronte al rischio di un neutralismo indotto dai sovietici. Ma non era una preminenza qualunque: Washington prevaleva all’interno di un’alleanza fessibile tenuta assieme dalla comune consapevolezza sia della minaccia sia dell’urgenza. Una posizione assai più vantaggiosa e meno onerosa di altri tipi di supremazia. 3. Oggi questa strategia è andata in frantumi. Sia perché le circostanze sono cambiate sia perché gli stessi Stati Uniti hanno smesso di metterla in pratica. Il primo e più importante cambiamento è che con la fne della guerra fredda Washington non riconosce più l’Europa come un luogo in cui deve assumere la guida della reazione alle minacce esterne. Lo schema è chiaro: fnché non percepisce evidenti minacce, l’America preferisce che siano gli europei a muoversi in prima persona. Dai Balcani d’inizio anni Novanta, quando gli Stati Uniti indugiarono nella convinzione che fosse giunta «l’ora dell’Europa» 4, all’intervento in Libia nel 2011; dalla maldestra reazione alla caduta del regime di Mubarak in Egitto alla gestione della fuoriuscita dell’Ucraina dall’orbita russa; e dalla trascurabile risposta all’aggressione russa alla Georgia al disinteresse verso la crisi dei rifugiati siriani e africani iniziata nel 2013, Washington ha sempre cercato di esternalizzare la responsabilità delle crisi alle periferie dell’Europa alle principali potenze del continente o alle istituzioni politiche di Bruxelles. Questa tattica si è rivelata palesemente fallimentare. E gli Stati Uniti sono stati costretti a interventi tardivi, a volte intrapresi – come in Kosovo nel 1999 o in Libia nel 2011 – senza un chiaro piano per vincere e senza nemmeno sapere che cosa avrebbe costituito un successo. Quel che stupisce di più è che nessuno sembra aver notato quanto il panorama europeo della sicurezza sia cambiato – in peggio – dal 1991. A inizio anni Novanta, era possibile essere ottimisti sul futuro della Russia, della Turchia, del processo di pace israelo-palestinese e dunque della maggior parte delle periferie europee. L’Algeria e i Balcani rappresentarono vistose eccezioni a questo ragionamento, ma il punto è proprio che vennero percepiti come tali: eccezioni a una tendenza generalmente favorevole verso la democratizzazione e l’europeizzazione. Oggi, invece, la Russia è una potenza chiaramente autoritaria che cerca di dominare i propri vicini, la Turchia cerca di costruirsi un impero neo-ottomano, Egitto e Algeria sono polveriere pronte a esplodere, in Libia regna l’anarchia e del processo di pace israelo-palestinese non resta più nemmeno il nome. Solo Marocco e Tunisia camminano su un sentiero più sicuro rispetto a trent’anni fa ma non bastano a compensare il crollo delle aspettative occidentali nei confronti dei propri vicini. Le speranze di fne millennio erano chiaramente troppo ottimistiche, ma nonostante le prospettive di sicurezza delle periferie europee si siano rivoluzionate, una parallela rivoluzione delle strategie statunitensi ed europee non c’è stata.
156
4. J. GLaurdic, The Hour of Europe: Western Powers and the Breakup of Yugoslavia, New Haven 2011, Yale University Press.
IL MURO PORTANTE
Peggio: queste nuove minacce alla sicurezza non sono state accompagnate, come negli anni Quaranta, da nuove politiche per fortifcare l’Europa. Nell’epoca postbellica, gli Stati Uniti e gli europei puntavano alla crescita; oggi il modello economico continentale predilige la stabilità (dell’euro) a spese della crescita. Il risultato di queste politiche folli si è visto in tutta l’Europa meridionale, dalla Grecia all’Italia fno alla Spagna, con i loro bassi tassi di crescita e l’elevata disoccupazione giovanile. Lo si è visto persino nell’araldo di quest’approccio, la Germania, il cui pil pro capite è scivolato dalla quasi parità con quello statunitense nel 1996 a un ritardo del 25% nel 2017. Né l’Europa si è mostrata disposta ad agire in modo convinto per proteggere i propri confni e i propri sistemi politici dall’infusso dei migranti negli ultimi cinque anni. Il risultato di tanta disfuzionalità è stato di inverare i peggiori incubi di George Marshall nel 1947: il crollo dell’ordine politico europeo e lo scivolamento delle collettività europee nel neutralismo. I sondaggi suggeriscono che il 70% dei tedeschi e persino il 45% dei polacchi preferirebbero non prendere posizione in caso di confronto tra Stati Uniti e Russia 5. Il fallimento dell’Europa nello sviluppare un modello che dia suffciente peso alla crescita economica non ha comportato solo un disservizio nei confronti delle comunità locali. Ha anche contribuito al collasso della seconda stampella della strategia americana della guerra fredda. Semplicemente, l’Europa non appare più così appetibile agli Stati Uniti come prima perché ha perso peso relativo rispetto al resto del mondo e all’Asia in particolare. Si tratta di uno sviluppo inevitabile: la ridotta quota europea della popolazione mondiale avrebbe prima o poi comunque portato a diminuire anche quella dell’economia globale. Ma il Vecchio Continente ha contribuito alla propria perdita d’infuenza adottando un modello che ha ulteriormente depresso la crescita. Di conseguenza, Washington è ora ancor meno incentivata ad attribuire lo stesso valore all’Europa: non solo si era illusa che i suoi problemi di sicurezza fossero risolti, ma non teme più, qualora dovesse mai perderla, di venire sconftta in un confitto esistenziale. L’Europa conta ancora, e tanto, ma meno di un tempo. Sta emergendo una linea di pensiero secondo la quale se l’Europa conterà in futuro non sarà per il suo hard power o per il suo potere economico, ma per la padronanza delle istituzioni multilaterali e la capacità di promuovere un ordine basato sulla certezza delle regole. Strumenti che potrebbero essere diretti tanto contro gli Stati Uniti quanto contro qualunque altra economia che l’Europa ritenga minacciosa 6. Di qui il monito della cancelliera Angela Merkel: al Regno Unito dopo il Brexit non deve essere in alcun modo concesso di diventare la Singapore d’Europa 7. Non è però chiaro come gli europei pensino di fondare una strategia sul multilateralismo e sulla bassa crescita, in particolare in un momento in cui le stesse collettività del continente si mostrano sempre più restie di fronte al modello tede5. S. dennison, «Give the People What They Want: Popular Demand for a Strong European Foreign Policy», European Council on Foreign Relations, 10/9/2019. 6. J. GryGieL, «A New Alliance to Nowhere», The American Interest, 4/10/2019. 7. «Merkel Warns of Danger to EU of Singapore-style UK on Its Borders», The Guardian, 11/9/2019.
157
LA LEADERSHIP AMERICANA IN EUROPA È IN PERICOLO
sco che dà la priorità alla prosperità della Germania rispetto a quella della periferia del nucleo teutonico. La debolezza della strategia multilateralista rifette la debolezza della soggettività dell’Europa, non più al centro del futuro economico, dunque geopolitico, del mondo. Il terzo pilastro della strategia americana della guerra fredda ha subìto danni altrettanto gravi. Con l’emersione di una Germania unifcata all’interno di un’Europa unita, esiste ora, almeno nominalmente, una potenza che può contestare la leadership continentale degli Stati Uniti e che può permettersi di parlare di «autonomia strategica» rispetto a Washington. Nei fatti la contestazione è molto limitata. In parte perché gli Stati Uniti hanno cercato di esternalizzare la gestione di molte minacce alla sicurezza europea alla Germania e all’Ue. E in parte perché le scarse capacità operative degli attori continentali continuano a rendere indispensabile l’assistenza militare americana. Una realtà che le collettività europee tendono a dimenticare, ma di cui una classe dirigente responsabile non può non tenere conto. Ironicamente, oggi a non incoraggiare legami più stretti fra americani ed europei non è la mancanza di nemici – ne esistono in abbondanza. A mancare è una consapevolezza europea che il sistema internazionale è competitivo, che questi nemici contano. Sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno messo in chiaro di ritenere avviata una fase di competizione fra grandi potenze. Ma gli europei preferirebbero nascondere la testa sotto la sabbia. 4. Per risolvere il ridimensionamento della leadership statunitense bisogna prima di tutto adottare tattiche diverse. Se solo Washington riconoscesse quanto ancora ha da guadagnare – e da perdere – in Europa, le darebbe il posto che merita. Il mondo non tornerà mai agli anni Cinquanta, quando il Vecchio Continente era il centro geopolitico indiscusso del pianeta. Ma l’America ha un disperato bisogno di riconoscere che l’Europa non è e non è mai stata un problema risolto. Per realizzarlo, deve parlare con onestà e regolarità agli europei della sua percezione delle minacce, ossia dei nemici e delle sfde derivanti dall’adozione di un modello politicoeconomico squilibrato. Dopotutto, come negli anni Cinquanta, le serve un’Europa di successo, in grado di crescere economicamente, che s’impegni nuovamente in una difesa collettiva contro i nemici della libertà e che rispetti gli Stati nazionali. Gli Stati Uniti devono anche avere chiaro che un’Unione Europea a guida tedesca rappresenta una sfda allo sviluppo di una comunità transatlantica coesa. Washington non sarà mai in grado di riassumere la posizione di leader che l’Europa occidentale le riconobbe a fne anni Quaranta. Ma una Ue percorsa dal risentimento nei confronti di un dominio tedesco e che si defnisce in funzione antiamericana tanto quanto in funzione antirussa può solo allargare la faglia dell’Atlantico. Infne, gli Stati Uniti possono svolgere un ruolo di guida in Europa solo se gli stessi europei decidono di trattare l’Ue non come un fne in sé ma – al pari degli anni Cinquanta – come un semplice mezzo per contenere la Germania e unire politicamente l’Occidente.
158
(traduzione di Federico Petroni)
IL MURO PORTANTE
DELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA NAZIONE EUROPEA
di Dario Fabbri
I fautori degli Stati Uniti d’Europa dimenticano che nazioni e imperi non s’inventano a tavolino. La loro costruzione implica un forte tasso di violenza, quando non cruentissime guerre. Per imporre un gruppo sugli altri, da assimilare. I molti casi che confermano questa tesi.
N
1. EL NOSTRO TEMPO È CONVINZIONE diffusa che, qualora si rintracciassero volontà politica e condizioni economiche, l’Europa potrebbe agilmente tramutarsi in nazione. Tanto progetto risiederebbe nella totale disponibilità dei suoi artefci, sarebbe incline ai loro capricci. Nella politologica illusione di poter creare una soggettività a tavolino, in dimensione perfettamente incruenta. Quasi l’inconscia adesione a una comunità nascesse per calcolo asettico, per ibridazione elitista. Peggio, per approccio utilitaristico alle cose del mondo, per senso economicistico del vivere. Senza comprendere come ogni collettività sia il risultato di un percorso profondamente violento. Sostanziato da soprusi di matrice etnica, dall’inappellabile omologazione di percezioni inizialmente aliene, dalla traduzione di attitudini peculiari in costume generale. Soltanto attraverso la crudeltà, applicata e subita, la presenza sul territorio di uno specifco ceppo si fa emozionale, la coabitazione si trasforma in legame ancestrale, le vessazioni ricevute in una pedagogica sindrome di Stoccolma. In ogni luogo del pianeta, in ogni passaggio cronologico. Non esiste realizzazione innocua di tale impresa, la più feconda per le relazioni umane. Nel suo brutale incedere, la gemmazione dell’identità nazionale passa dalla sopraffazione all’incantamento, fno alla mera affezione. Nella sua fase formativa ogni popolo è frutto dell’imposizione di un gruppo sugli altri, capace di costringere attorno a sé il resto della popolazione asciugandone l’alterità, associandolo al proprio destino. Senza clemenza per le istanze altrui. Successivamente tra le genti prima conquistate poi assimilate scompare il ricordo di ciò che è stato, sostituito da un irrazionale senso di appartenenza, mastice che mantiene omogenea la società, che la inclina a tollerare fatiche e sacrifci. In un processo che traccia la vita di ogni nazione, organo vivente composto di ingiustizie e sentimento. Ovvero, più di quanto potrebbero mai sopportare i minimalisti dirigenti continentali, destinati alla confutazione del proprio disegno. Ignari di tanta realtà.
159
DELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA NAZIONE EUROPEA
2. Per i maîtres à penser comunitari la nazione è idea superata, simulacro di un passato archiviato. Osservatori sprezzanti delle minoranze che tuttora anelano a costituirsi in entità autonoma, bollano come démodée ogni aspirazione territoriale. Tranne quando si tratta di realizzare un’improbabile unione tra gli Stati che compongono l’architettura brussellese. Allora la dimensione nazionale torna improvvisamente legittima, si fa progetto attuabile. Prodotto di un approccio arbitrario alle questioni umane, per cui ogni costruzione identitaria sarebbe perfettamente razionale. Realizzabile da remoto per puro affato intellettuale, come conseguenza di dosaggi riproducibili all’infnito. Stando ai sostenitori degli Stati Uniti d’Europa, o di una minore declinazione di questi, la «nazione comunitaria» dovrebbe formarsi per ragioni disparate. Per inerziale interazione tra i vari popoli che esistono sul continente, magari per fliazione prodotta da genitori di provenienza diversa, scaturigine carnale di un popolo magicamente omogeneo. Così trascurando la semplice osservazione empirica che dimostra come direttamente proporzionale la relazione tra confittualità e aumento dei contatti tra esseri umani. Per inestinguibile interesse economico, motore vigoroso che dovrebbe persuadere «gli europei» a sciogliersi in sensi amorosi, allo scopo di aumentare il benessere. In nome di un calcolo ragionieristico, inspiegabilmente capace di generare una solidarietà diffusa. Oppure per (presunta) profondità strategica, con l’obiettivo di unire le capacità e moltiplicare la potenza di un continente chiamato a sfdare Stati Uniti, Cina, Turchia o Russia (sic). Improvvisamente pronto ad affrontare i grandi imperi della Terra in seguito alla semplice frequentazione tra coloro che vi risiedono. O ancora per disposizione giuridica, attraverso l’assegnazione di medesimi diritti e doveri ai membri della futura collettività estesa. Fino a invertire il principio di causalità tra legge e potere, equivocando la trascrizione dei rapporti di forza per l’origine di questi. In ogni caso, la «nazione europea» sarebbe incubata in ambiente sterile, scientifcamente serafco, tanto nella sua realizzazione quanto nel suo fallimento. In un alveo estraneo alle passioni, alle miserie comuni. Come nello stato di natura immaginato da Jean-Jacques Rousseau, in cui gli uomini agiscono «liberi, sani, buoni, felici» 1, se solo volessero gli europei potrebbero costituirsi in una comunità omogenea e sentita. Assunto astorico, afferente a un politologico ambito di fantasia. Non solo perché nulla capita nel vuoto – qualora esistesse la reale volontà dei popoli europei di fondersi in un’unica stirpe gli Stati Uniti, potenza egemone nel continente, certamente respingerebbero tale sviluppo, si prodigherebbero per provocarne il deragliamento. Soprattutto, la creazione di un popolo è il fenomeno più efferato che l’umanità conosca, intriso di impulsività, lontano da ogni speculazione opportunistica. Capace di causare indicibili sofferenze tra gli abitanti, di stravolgerne la fbra antropologica. Abbastanza per provocare l’incessante tremolio dei teorici europeisti.
160
1. Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, 1755.
IL MURO PORTANTE
In formula: la nazione è un soggetto che si riconosce come inviolabile, composto da esseri umani convinti di possedere un destino comune, conscio della propria differenza rispetto agli altri, intento ad affermarsi nei confronti di questi. Il suo percorso costruttivo comincia con la superiorità di uno specifco ceppo sugli altri, che prescrive il proprio modello culturale, che fssa gli argini entro cui dovrà svilupparsi la storia comune. Quindi, in un periodo successivo realizza la straziante assimilazione delle etnie sottomesse, inserendole tra i suoi membri. Tramite la rieducazione di queste, il loro trasferimento sul territorio, la genetica mescolanza con gli abitanti originari. Soltanto dopo essersi amalgamati nella comunità allargata i gruppi sconftti smarriscono il ricordo delle atrocità subite, delle tragedie sopportate dagli avi. Allora la loro obliosa appartenenza si permea di sentimento, condizione indispensabile per perseguire convintamente l’interesse generale, per sacrifcarsi in favore dei concittadini, per intestarsi le colpe di una sola parte della collettività, per resistere al cospetto delle avversità. Sviluppo che se scandagliato interamente rivela la sua ineludibile cogenza. Perfettamente estranea a ogni invenzione di stampo ideologico, all’osmosi di matrice flosofca. 3. Il primo stadio nell’embrionale vita di un popolo coincide con lo spietato affermarsi di una singola stirpe, depositaria della futura ortodossia. Ogni storia nazionale origina nella sopraffazione, spesso nell’ignavia dei cittadini. Nel XIX secolo l’Italia contemporanea è stata determinata dall’imporsi del ceppo sabaudosardo, intenzionato a estendere la propria potestà sull’intera penisola. Incontrando notevole resistenza nel Mezzogiorno, incarnata dal brigantaggio, fenomeno spesso derubricato nella nostra pedagogia a criminalità ordinaria. Così era composto per due terzi da italiani l’esercito pontifcio che nel 1867 difendeva il Lazio dai piemontesi – addirittura erano tutti italiani i seimila deposti a proteggere Roma, guidati dal generale Giovanni Battista Zappi 2. Al termine dell’unifcazione la Corona confermò una forma standardizzata di forentino come lingua nazionale, provocando il defnitivo scadere del napoletano o del siciliano allo status di dialetti, sebbene nel loro esistere non avessero minore dignità dell’idioma di Dante. Mentre in alcune esternazioni della burocrazia piemontese si rintracciava un atteggiamento tipicamente coloniale nei confronti dei territori annessi. «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini a riscontro di questi cafoni, sono for di virtù civile» 3, scriveva a Cavour nel 1860 Luigi Carlo Farini, spedito nel Mezzogiorno da Vittorio Emanuele. Per molti decenni, specie in epoca pre- e post-fascista, rimase di ascendenza sabauda la classe dirigente del paese – fno al 1999, con l’eccezione di Giovanni Gronchi e di Giovanni Leone (oltre al primo, provvisorio capo dello Stato, Enrico de 2. Cfr. P. K. O’CleRy, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, Milano 2000, Ares. 3. Dispaccio inviato il 27 ottobre 1860 da Luigi Carlo Farini al presidente del Consiglio Camillo Benso conte di Cavour.
161
DELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA NAZIONE EUROPEA
Nicola), i presidenti della Repubblica furono tutti originari del Regno di Sardegna. Oggi il canone linguistico dominante resta quello settentrionale, veicolato in un forentino intriso di nordismi e romanismi. Con gli accenti meridionali tuttora ritenuti bassi, meno prestigiosi di quelli diffusi in Toscana o a nord della linea isoglossa. In Francia si è verifcato nel corso dei secoli il predominio delle genti parlanti la lingua d’oïl – da tempo semplicemente detta francese – a scapito di occitani, bretoni, corsi. Nel XVI secolo la popolazione si scontrò nelle guerre di religione per stabilire se il modello nazionale dovesse essere cattolico o protestante, provocando la morte di almeno tre milioni di francesi. Alla fne del Settecento esplose la rivoluzione per decretare il regime istituzionale di cui dotarsi, se monarchico o repubblicano. Tuttora il fattore parigino-d’oïl primeggia in modo indiscusso, senza concedere nulla alle particolarità regionali, giudicate pressoché eversive. In Germania è stato il fronte prussiano a compiere l’unifcazione, stagliandosi sulle numerose genti autoctone (vestfaliani, bavaresi, sassoni, pomerani, asburgici). Con la battaglia di Sadowa (1866) i prussiani sconfssero defnitivamente gli austriaci, estromettendoli dall’imminente Stato tedesco, e isolarono i bavaresi, improvvisamente orfani del gruppo culturalmente più affne. Nel 1872 fu pubblicato il dizionario Duden, che fssò ortografa e pronuncia prussiane come nazionali. Sebbene Fichte sostenesse che la lingua tedesca esistesse aldilà degli uomini 4. Perfno nell’apparentemente neutrale e pacifca Svizzera il soggetto dominante è prevalso attraverso la guerra. Nel 1847 i cantoni a maggioranza protestante e di stampo industriale – tra questi, Basilea, Berna, Ginevra, Zurigo – annientarono il tentativo di secessione dei cantoni cattolici e agricoli (Lucerna, Friburgo, Vallese, Uri, Schwyz, Unterwalden, Zug). Il confitto, durato circa un mese, causò quasi cento morti e convinse il generale Guillaume Henri Dufour della necessità di creare la Croce Rossa. Da allora l’elemento calvinista è rimasto superiore, benché negli anni siano state soprattutto le sezioni linguistiche (tedesca e romanda) a disputarsi la leadership confederale. Negli Stati Uniti alla metà dell’Ottocento fu l’arrivo di milioni di germanici a trasformare il prevalente gruppo anglosassone, stemperandone l’iniziale matrice britannica in favore di una distinta ascendenza teutonica. Processo lungo e drammatico, concluso nel XX secolo con l’internamento nei campi di concentramento dei cittadini di origine tedesca che non avevano compiuto l’assimilazione. Così è stata necessaria una guerra civile durata quattro anni (1861-1865) per selezionare il modello culturale da adottare, con la defnitiva vittoria dell’approccio yankee sull’alternativa sudista (dixie). Nell’èra attuale l’americano medio resta di discendenza germanica e sentire protestante. L’accento teutonico del Midwest è essenza della dizione perfetta (broadcast english), il prisma esistenziale della costa orientale si è diffuso nell’Estremo Occidente del paese. Mentre gli yankee continuano a distruggere l’iconografa sudista, abbattendo statue e monumenti che ricordano la confederazione schiavista.
162
4. J.G. Fichte, Reden an die deutsche Nation (Discorsi alla nazione tedesca), 1807-1808.
IL MURO PORTANTE
La Cina moderna è nata con la sconftta dei manciù, popolo di lingua altaica, un tempo padrone dell’intero spazio sinico. Quando, dopo il crollo della dinastia Qing, all’inizio del Novecento i nazionalisti han si scagliarono contro questi presentandoli come barbari stranieri. Talmente diversi che negli anni Trenta i giapponesi sfruttarono lo iato culturale per fondare lo Stato fantoccio del Manciukuò, giustifcando l’operazione colonialista come risposta all’egemonia han. Finché al termine della seconda guerra mondiale si verifcò l’assoggettamento dei popoli nordici attraverso notevoli discriminazioni e l’espulsione dalla classe più alta. Trasformazione sancita negli anni Cinquanta da Mao che beffardamente riconobbe lo status di minoranza protetta per i manciù divenuti cinesi. In Indonesia i giavanesi si sono affermati come guida dell’arcipelago attraverso l’occupazione fsica del territorio in cui erano stanziate le altre etnie (sondanesi, malay, maduresi, batak eccetera). Nell’ambito del cosiddetto programma di trasmigrazione (transmigrasi), inaugurato dai colonialisti olandesi e proseguito dal regime di Sukarno, milioni di giavanesi si sono trasferiti nel Borneo, a Sumatra, a Sulawesi (Celebes), a Papua, provocando la disperata resistenza degli abitanti locali, presto relegati a minoranza nelle terre natali. Con una manovra che ha condotto alla defnitiva islamizzazione dell’Indonesia. Per cui da tempo il prototipo giavanese è percepito come intrinseco all’intera popolazione. In Giappone un’etnia esogena di probabile origine coreana, poi nota come yamato, si trasferì nell’arcipelago circa 30 mila anni fa, a scapito degli indigeni e di altri immigrati, su tutti gli Ainu, assimilati o sterminati. Fino a trasformarsi in popolo straordinariamente omogeneo, pressoché chiuso nei confronti dell’esterno. Peraltro in numerosi contesti, segnati dalla presenza di gruppi etnici molteplici e distinti, il ceppo egemone può essere soppiantato da altri contendenti, altrettanto autoctoni oppure giunti successivamente sul territorio. In una condizione di tensione perenne. Così in Germania, dove nel corso dei decenni genti omofone in concorrenza tra loro si sono avvicendate alla guida dello Stato. Qui, negli anni Trenta del Novecento gli austro-bavaresi riuscirono fnalmente a conquistare la leadership attraverso l’ascesa del nazismo, cui seguì l’inevitabile incorporazione dell’Austria e la tragica disfatta nella seconda guerra mondiale. Per decisione statunitense, al termine del confitto la fazione renano-vestfaliana sostituì i predecessori nella Germania occidentale e, dopo la caduta del Muro, guidò l’annessione dell’ex DDR, insediandosi a Berlino. Iniziativa assai costosa, perentoriamente ordinata agli altri tedeschi occidentali, bavaresi compresi, che pure non avrebbero benefciato da tale trasferimento. Oggi la disputa per il perno della nazione vede schierati renani contro prussiani, comunemente detti tedeschi orientali, parzialmente raccolti nelle istanze di Alternative für Deutschland, partito ultranazionalista, spesso scambiato per semplice declinazione locale del sovranismo europeo. Lo stesso in Cina, dove nella millenaria storia locale gruppi etnici differenti si sono alternati alla testa dell’impero. Al termine di sanguinose guerre civili e tragiche devastazioni. A volte tale privilegio è toccato perfno a etnie di estrazione
163
DELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA NAZIONE EUROPEA
allogena, come nel caso dei mongoli della dinastia Yuan (1271-1368), oppure degli stessi manciù della dinastia Qing (1644-1911). Variazioni che hanno sconvolto l’intero quadrante asiatico, come nel basso medioevo quando gli yuan di Kublai Khan provarono a invadere l’arcipelago giapponese in nome dell’impero cinese. Prima che gli han diventassero egemoni incontrastati. Dinamiche efferate che ovunque nel pianeta conducono all’affermazione di un gruppo sugli altri. Disposto nella fase successiva ad accogliere nella nazione le genti sconftte. Con altrettanta crudeltà. 4. Finché sovrano 5, ogni ceppo preminente realizza la coatta assimilazione delle fazioni domate, decretandone il defnitivo dirazzamento. Allora costringe gli altri ad aderire alla sua narrazione, li convince della propria irreversibilità, ne modifca l’impianto etnico. Trasformazione cui sono sottoposte anche le comunità allogene giunte successivamente sul territorio, nonché i singoli immigrati stranieri. La Repubblica romana assimilò forzosamente galli, sanniti, etruschi, umbri, liguri, greci spogliandoli di ogni pertinenza primordiale. Prima di conferire a tutti gli italici la cittadinanza latina, rispettivamente nell’89 a.C. e nel 49 a.C., (Lex Plautia Papiria e Lex Roscia). Dopo la vittoria del canone parigino, nel corso dei secoli lo Stato francese riuscì ad assimilare le minoranze indigene e gli allogeni, specie quelli di provenienza europea. L’Italia risorgimentale indusse i cittadini meridionali ad abbracciare usanze e dizione di stampo settentrionale, fnendo per giudicare di tradizione minore i propri costumi d’origine. Peraltro, in un contesto in cui le differenze tra le varie regioni risulta(va)no inferiori a quelle rintracciabili in altri Stati. Oltre a sinizzare i manciù, durante il Novecento la Repubblica Popolare ha assimilato anche cantonesi e mongoli, trasformandoli in convenzionali han. E ora Pechino prova a realizzare la medesima operazione nei confronti degli uiguri, recentemente trasferiti a migliaia nei campi di rieducazione culturale. La Russia ha normalizzato numerose popolazioni siberiane e turciche, spesso con metodi sanguinari. Senza badare agli inevitabili strazi che questo avrebbe provocato. Ancora. Nel corso dei secoli gli Stati Uniti hanno americanizzato gruppi di recente o più antica immigrazione, attraverso la diffusione di una monoculturale visione del mondo, di un conformismo tanto aggressivo quanto obbligatorio. Oggi impegnati, per decreto della maggioritaria etnia germanica, ad assimilare soprattutto gli ispanici, principale fonte di immigrazione nel paese. Con il muro al confne con il Messico pensato per separare i chicanos dai loro parenti rimasti nella madrepatria, per privare questi delle radici culturali, per condurli allo spaesamento. Misura drammatica, nuovamente intrinseca alla defnizione della nazione. Con il fne ultimo di costituire una collettività che non sia disgregabile attraverso quinte colonne, che non sia annientabile con la semplice occupazione militare.
164
5. Cfr. D. FabbRi, «Perché l’Europa non può assimilare», Limes, «Musulmani ed europei», n. 1/2018.
IL MURO PORTANTE
Soltanto al termine del percorso assimilatorio, gli adottivi membri della comunità recidono il legame con il contesto originario, abbandonano ogni fedeltà aliena. Smarriscono la memoria, dimenticano le sofferenze che affrontarono i loro antenati. Il ricordo degli originari delitti si stempera, fno a estinguersi. Attraverso le generazioni, le ingiustizie patite diventano legittimo strumento di ascesa, si fanno epopea. Si annulla qualsiasi alterità, il destino comune diventa il proprio. Nel nome del popolo cui si sente di appartenere al pari di ogni altro. Siamo in pieno incantamento. I neoassimilati diventano alferi del modello generale, difensori dei mores e della tradizione. Come nel caso di Donald Trump, portabandiera dell’ortodossia wasp dopo che suo padre, tedesco del Palatinato bavarese, fu costretto a fngersi svedese per sfuggire all’internamento in un campo di rieducazione nello Utah. Come nel caso di Angela Merkel, di madre brandeburghese e padre berlinese di ceppo polacco, divenuta principale esponente della leadership renano-vestfaliana, nonostante la discriminazione subita dai suoi concittadini in seguito alla caduta del Muro, nonostante la diffusione di un vibrante orgoglio neoprussiano nel territorio di origine. In tale fase la nazione si fa sentimento. I suoi membri, ormai geneticamente intrecciati tra loro, si intestano una medesima traiettoria, si mostrano disposti a sostenere sforzi e privazioni per perseguire il bene generale. Pronti ad accollarsi le diffcoltà di una sola parte della nazione, a condonarne le colpe semplicemente perché legati a questa. Dentro la collettività oltre ogni consapevolezza, perfno contro la propria volontà. È per istintiva adesione che una parte dello Stato fnanzia il benessere del resto, è per la medesima ragione che i cittadini accettano il trasferimento sul territorio dei loro connazionali ma non degli allogeni, per questo faticano ad ambientarsi all’estero, lontani dalla madrepatria. Fino a obliare l’intero processo che ha generato tanta aderenza. Presenti in un contesto consolidato, a molti anni dai fatti, si raccontano che la fondazione della collettività sia avvenuta in forma morbida, che questa sia replicabile altrove senza sconvolgimenti. Si convincono che la nazione sia questione di semplice arbitrarietà, approntabile in laboratorio, al riparo da ogni dolore. Come per i proponenti gli Stati Uniti d’Europa, allucinati da tale smemorato fraintendimento. Maldisposti per anzianità ed economicismo ad accettare le ingiustizie, i soprusi, i sensi di colpa che la creazione di un omogeneo Stato continentale provocherebbe. Eppure sicuri che se solo volessero o si conoscessero meglio gli europei diventerebbero popolo. Senza crepare. 5. Ogni impresa comincia con un crimine 6. Nella massima di Niccolò Machiavelli vi è la violenta origine delle collettività e l’insensata illusione di uno Stato europeo. Se i vari governanti stabilissero congiuntamente di trasformare il continente in una nazione assisteremmo a un feroce scontro tra popoli autoctoni – quelli veri. 6. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 1531, Ed. Tutte le opere di N. Machiavelli, a cura di M. MaRtelli, Firenze 1971, Sansoni, p. 63.
165
DELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA NAZIONE EUROPEA
Inizialmente declinato in guerra economica e di infuenza, successivamente tradotto in confitto aperto. Nel tentativo di stabilire quale ceppo etnico debba dominare gli altri. Principio inaggirabile di ogni epopea geopolitica. Con i dirigenti europeisti a discettare di quale lingua assegnare all’immaginaria creatura, di quali istituzioni dotarla, al cospetto di un contesto in famme. Anziché condurre alla creazione di una placida realtà, tale svolgimento provocherebbe l’inaspettata irascibilità delle nazioni continentali, già compiute attraverso i secoli, tuttora cogenti oltre la volontà dei loro membri. Di più. Gli abitanti del Vecchio Mondo riscoprirebbero i soprusi commessi e subiti nella lotta per la primazia, tornerebbero consapevoli delle persecuzioni infitte e patite dai loro antenati, degli abusi che ne causarono l’ardore. In un continente anziano e utilitaristico il progetto di collettività allargata diventerebbe un incubo insostenibile. Sconvolti da eventi intrisi di materialità, coloro che vollero l’impresa farebbero autodafé. Si contenterebbero di una architettura essenzialmente commerciale, fondata sulla presunta armonizzazione degli interessi industriali, magari raccontando ancora una volta la cittadinanza come conseguenza diretta dell’economia. Ripiegherebbero su una forma istituzionale soltanto deputata a risolvere le fsiologiche dispute tra Stati, possibilmente attraverso un disinvolto utilizzo del diritto, annunciato come superiore al resto. Apparentemente livorosi nell’addebitare il proprio fallimento alla mancanza di volontà degli Stati membri, alla poca maturità delle opinioni pubbliche. In realtà, intimamente sollevati d’aver schivato il sulfureo odore che la distillazione di una nazione sparge nella storia.
166
IL MURO PORTANTE
L’OMBRA DI UN SOGNO PERCHÉ L’EUROPEISMO È ANTIEUROPEO
di John Florio
L’ideologia europeista è in sé pericolosa per la pace e la democrazia nel nostro continente. Impossibile superare il sistema degli Stati nazionali per imporre un’unica sovranità. I veti tedeschi e le ingenuità francesi. L’Eurozona va smantellata con metodo.
U
1. NO SPETTRO SI AGGIRA PER L’EUROPA: lo spettro della disintegrazione. Potenti tendenze centrifughe scuotono oggi dalle fondamenta l’Unione Europea, oscurando il solare e ingenuo ottimismo di quanti all’alba del nuovo millennio avevano salutato l’introduzione dell’euro e l’allargamento verso est come l’annuncio di un’Europa ormai geopoliticamente e culturalmente unita. L’Unione, questo si diceva, non solo si stava affacciando sulle grandi questioni di sicurezza e difesa, ma con l’affermazione della sovranità monetaria su diversi paesi europei aveva raggiunto un monopolio fnora riconosciuto solo agli Stati nazionali. La cultura politica del totale ottimismo, come l’ha defnita Majone 1, dominava il dibattito politico, accademico e mediatico. «L’Europa ha garantito cinquant’anni di stabilità, pace e prosperità economica», diventando «un modello di integrazione regionale in tutto il mondo», dichiarava trionfalmente il Libro bianco sulla «governance europea» della Commissione (2001). Ma si trattava di un’illusione. L’Europa, di cui si disegnavano futuri luminosi, altro non era che l’ombra di un sogno. Come la crisi permanente dell’euro e la decisione senza precedenti del Regno Unito di abbandonare l’Unione dimostrano ampiamente, la fede di molti accademici e uomini politici nelle «magnifche sorti e progressive» dell’integrazione europea era strutturalmente miope. Tendenze centrifughe in Europa hanno cominciato a emergere dopo il 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e si sono manifestate pienamente all’inizio del XXI secolo. Profonde divergenze nella percezione delle priorità strategiche, configgenti interessi nazionali e la tendenza a ripiegare su una lettura settoriale degli eventi sono apparsi negli stessi anni in cui l’Europa perdeva il suo ruolo geopolitico di bastione antisovietico, originariamente assegnatole dagli Stati Uniti, determinando una profonda e irrisolta crisi di senso del progetto d’integrazione. 1. Cfr. G. Majone, Rethinking the Union of Europe Post-Crisis, Cambridge 2014, Cambridge University Press.
167
L’OMBRA DI UN SOGNO: PERCHÉ L’EUROPEISMO È ANTIEUROPEO
168
2. Lo scoppio delle guerre in Jugoslavia fu il primo, emblematico segnale della contraddizione tra le speranze di unità e la realtà di un’Europa al suo interno profondamente divisa: e questo proprio quando, con la frma del trattato di Maastricht, l’Europa di matrice atlantica si accingeva a varcare (sulla carta) i confni dell’alta politica, con il cambio di nome da Comunità a Unione Europea. Ma nonostante i numerosi tentativi di sottolineare come l’unità fnalmente raggiunta non fosse solo un’espressione giuridica – tra cui l’invio nel 1991 di un team ministeriale della Comunità europea nei Balcani, con esiti impalpabili – l’entusiasmo per la neonata Unione fu subito spento dal gelido soffo della realtà. L’Ue e le sue varie agenzie si dimostrarono del tutto impotenti a fronteggiare la crisi jugoslava, essendo i suoi stessi membri divisi tra coloro che, come la Germania e l’Austria, appoggiavano le repubbliche secessioniste e coloro che, guidati dalla Francia, volevano conservare i confni esistenti e che per questa ragione non erano del tutto insensibili alle posizioni serbe. Come noto, dopo vari massacri in cui le forze di peacekeeping europee stettero a guardare, e dopo che l’impotenza dell’Europa ad agire nel cortile di casa propria risultò non più tollerabile, fu l’America di Clinton a prendere prepotentemente il controllo della situazione, annientando con bombardamenti aerei la capacità serba di compiere ulteriori danni. Se l’unità che l’Europa ambiva a proiettare esternamente si rivelò fn dal suo primo apparire una tragica farsa, ben più drammatica fu però la divisione che la fne della guerra fredda scongelò all’interno della Comunità, tra gli stessi paesi che dagli anni Cinquanta avevano solennemente proclamato di tendere a un’«unione sempre più stretta» (trattato di Roma, 1957). Rivelando che, a dispetto di decenni di «realizzazioni concrete» e integrazione materiale, diffdenza e ostilità tra i popoli d’Europa erano rimasti dove lo scontro bipolare li aveva congelati. Sentimenti ampiamente riscontrabili in occasione della prospettiva della riunifcazione tedesca. È storia che François Mitterrand e Margaret Thatcher, incapaci di nascondere il loro orrore al pensiero della riunifcazione della Germania, fecero del loro meglio per trovare una strategia comune al fne di evitarla, in questo moralmente sostenuti da Andreotti («amo tanto la Germania che ne preferisco due»). È stato lo shock della riunifcazione della Germania, e la conseguente minaccia di uno squilibrio nel rapporto franco-tedesco, la scintilla che ha alimentato il processo che avrebbe condotto a quel risultato geopoliticamente insostenibile ed economicamente fallimentare che è stato la moneta unica. L’euro, presentato come grande successo dell’integrazione, non nasce come il prodotto di disinteressato europeismo, ma come la sintesi, tragicamente incompleta, di sotterranee logiche di potere alimentate da latenti sentimenti di ostilità e sospetto tra gli stessi membri della Comunità («Il trattato di Maastricht è un trattato di Versailles senza guerra», titolava la prima pagina del quotidiano Le Figaro il 18 settembre 1992). Affetti non proprio fraterni, che sono riemersi violentemente con lo scoppio della crisi fnanziaria e dei debiti sovrani, rivelando il grande bluff codifcato nel trattato di Maastricht: la virulenza della crisi economica, il riaccendersi di
IL MURO PORTANTE
fammate di inimicizia e confittualità tra i popoli europei e l’esplosione delle recriminazioni reciproche tra i virtuosi Übermenschen teutonici e le cicale latine non solo hanno messo in luce l’inconsistenza del culmine del processo d’integrazione, che proprio tali confitti avrebbe dovuto trascendere, ma hanno anche sconfessato alla radice la premessa del metodo comunitario, per decenni contrabbandato come «metodo per la pace»: l’idea secondo cui l’integrazione tecnico-economica si autososterrebbe e condurrebbe da ultimo all’emergere di una comunità politica. Un amaro risveglio per molti sonnambuli profeti del sogno europeo, convinti che dal seme della moneta sarebbe sbocciato l’albero dell’unione politica. 3. Eppure la crisi è tutto fuorché accidentale. Essa è l’esito ultimo di quel processo di disintegrazione europea inaugurato dal crollo del Muro di Berlino e dall’improvvisa evaporazione dello scopo strategico per cui l’integrazione dell’Europa fu, in primo luogo, avviata. È impossibile, infatti, comprendere perché l’Unione si sia rivelata, all’inizio degli anni Novanta, un guscio vuoto, senza risalire alle origini geopolitiche e alle motivazioni profonde che hanno sostenuto, nel dopoguerra, l’avvio del processo d’integrazione: quale sia la reale natura dell’europeismo lo si può intuire solo immergendosi nelle torbide acque della storia. A ben vedere, il persistente disaccordo sul signifcato e sul fne (telos) del processo d’integrazione (o «unione sempre più stretta», a cui i leader europei si professano liturgicamente devoti) trova origine nel fatto che i veri architetti dell’unità dell’Europa non furono affatto gli europei: furono gli americani. È un mito quello secondo cui il progetto europeo sarebbe nato dai «padri dell’Europa» Monnet e Schuman. Il progetto fu avviato dagli americani in larga misura contro la volontà e i desideri degli europei. Le stremate nazioni europee, che avevano appena scongiurato che si compiesse il disegno imperiale hitleriano, già accarezzato dal Kaiser 2, di cancellare il sistema degli Stati, e con esso il principio di autodeterminazione dei popoli, diffcilmente sarebbero state ansiosi di «cedere» la loro residua sovranità, così faticosamente riconquistata, in nome di vaghi e inquietanti progetti di unifcazione politica: l’aborto della Comunità Europea di Difesa nel 1954 ne è testimonianza. Dove però non poteva l’idealismo degli europei, potevano la politica estera americana e i suoi persuasivi mezzi. È noto che dopo il repentino cambiamento di linea verso l’ex alleato sovietico – le cui prosaiche intenzioni erano state illustrate a Washington nel febbraio 1946 dal lungo telegramma proveniente da Mosca, frmato da George Kennan – gli Stati Uniti furono costretti a ripensare l’architettura di sicurezza, d’impianto decisamente wilsoniano, che in tempo di guerra Roosevelt aveva immaginato per la pace. E iniziarono a rivedere la strategia per l’Europa alla luce della necessità di «contenere la Russia sovietica». 2. «Il trionfo della Grande Germania, destinata un giorno a dominare tutta l’Europa, è il solo obiettivo dello scontro in cui siamo impegnati», Kaiser Guglielmo II, «ordine del giorno» trovato in possesso di soldati tedeschi catturati al fronte. Cfr. C. andler, Pan-Germanisme, Paris 1915, Armand Colin, p. 81.
169
L’OMBRA DI UN SOGNO: PERCHÉ L’EUROPEISMO È ANTIEUROPEO
I consiglieri di Truman temevano che la mancanza di unità (e prosperità) in Europa avrebbe potuto condurre alla conquista sovietica o alla sovversione interna di matrice comunista. Per questo motivo, il presidente pose come precondizione per gli aiuti del piano Marshall (giugno 1947) che i paesi europei agissero in modo coordinato: esigenza per soddisfare la quale nacque nel 1948 l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (oggi Ocse). Per usare le parole stesse di George Kennan nel citato telegramma: «Nel lungo periodo ci possono essere solo tre possibilità per il futuro dell’Europa occidentale e centrale. La prima è il dominio tedesco. Un’altra è la dominazione russa. La terza è un’Europa federata». Con la prospettiva della rinascita economica e militare della Germania entro strutture euro-atlantiche svaniva per la Francia l’illusione di aver trovato nel piano Morgenthau, discusso da Roosevelt e Churchill nella seconda conferenza di Québec (settembre 1944), la soluzione defnitiva al problema tedesco: convertire la Germania «in un paese a vocazione eminentemente agricola e pastorale». Jean Monnet, che de Gaulle nominò nel 1945 capo della Commissione di pianifcazione industriale del governo francese (Commissariat du Plan), fu il primo a rendersi conto che, se era impossibile impedire la rinascita economica e industriale tedesca, era nell’interesse nazionale francese stringere la Germania in un abbraccio che avrebbe consentito alla Francia di contenere l’antico rivale, sottraendo ai tedeschi il controllo delle risorse della Ruhr con metodi meno spicciativi di quelli adottati nel 1923. Così diventando la prima fra le nazioni europee e bilanciando al contempo il dominio americano. Per farlo, riadattò la logica funzionalista al servizio del federalismo europeo, nei cui ideali, professati da uno sparuto, iperminoritario gruppo di intellettuali, la Francia vide il manto ideale con cui coprire e legittimare la tutela dei propri interessi nazionali 3. Fu così che Monnet presentò a Konrad Adenauer, sul piatto della Dichiarazione Schuman (1950), un piano che prevedeva la gestione del carbone e dell’acciaio europeo (leggi: tedesco) da parte di un’alta autorità sovranazionale – plasmata e dominata dalla burocrazia francese, ça va sans dire. Nasceva così, con il trattato di Parigi del 1951, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca). Se gli Stati Uniti avevano bisogno di un’Europa coesa per contenere l’Unione Sovietica – e non è un caso che le teorie neofunzionaliste che hanno accompagnato il processo d’integrazione europea siano nate in America, dove il Dipartimento di Stato agiva come instancabile patrono dell’idea di «Europa» – la Francia usò l’integrazione europea come strumento per contenere la Germania. Al di là del Reno, la Repubblica Federale Germania battezzata nel 1949 come protettorato americano di fatto, intravvide nella prospettiva dell’integrazione un’opportunità per riacquisire legittimità geopolitica e, in prospettiva, sovranità, consapevole che l’unico modo per farlo era la profonda integrazione nell’Europa occidentale, via Alleanza Atlantica, sempre tendendo verso l’America.
170
3. La logica funzionalista era tesa a «coprire le divisioni politiche con una rete crescente di attività internazionali e agenzie, nelle quali e attraverso le quali gli interessi e la vita delle nazioni possano essere gradualmente integrati», cfr. D. Mitrany, A Working Peace System, London 1943, Royal Institute of International Affairs.
IL MURO PORTANTE
4. L’approccio funzionalista, come capirono benissimo Monnet e Schuman, poteva essere usato per mascherare le contraddizioni dell’Europa post-bellica, divisa da rivalità storiche e immersa in profondi vincoli geopolitici. Il funzionalismo, inoltre, lasciava intendere che la cooperazione materiale, affdata a una burocrazia sovranazionale, avrebbe di per sé neutralizzato i confitti e condotto un giorno all’emergere di una comunità politica. Nelle parole della Dichiarazione Schuman: «L’Europa non si farà tutta in una volta, ma attraverso realizzazioni concrete che creeranno una solidarietà di fatto». Trova qui origine il credo fondativo dell’europeismo storico, secondo cui l’integrazione tecnico-economica – e quindi la proliferazione di apparati burocratici a essa preposti (le istituzioni «comuni») – rappresenterebbe la via maestra verso il sogno dell’Europa unita. È precisamente a questo livello concettuale che si annida però il fraintendimento più profondo, coltivato da tanta parte della classe dirigente italiana, per cui il «processo» d’integrazione avrebbe come telos la terra promessa dell’unione politica. Al di là dell’inconsistenza concettuale, ampiamente dimostrata dalla storia, dei presupposti logici e flosofci di un simile approccio, per smentire alla radice decenni di vuoti dibattiti accademici e politici sul tema è suffciente ricordare ciò che i diplomatici impegnati nei duri negoziati a Bruxelles sperimentano ogni giorno: ovvero che, nonostante le tendenze alla formazione di una società internazionale maggiormente integrata in Europa (questo il senso storico reale del processo d’integrazione), nessun governo europeo si è mai sognato, né mai si sognerà, di mettere in agenda l’abolizione del sistema degli Stati e l’installazione, al suo posto, di una singola autorità politica al cuore dell’Ue. Se c’è una costante nella storia europea dall’alba della modernità è che il sistema degli Stati, variamente coalizzato, ha sempre respinto ogni tentativo di unifcazione politica dell’Europa sotto un unico centro di potere, tale da pregiudicare l’autonomia delle altre parti del sistema. Anche al culmine del loro potere, né la Spagna né la Francia né tantomeno la Germania sono riuscite a stabilire un impero continentale. Benché più volte l’esistenza del sistema degli Stati in Europa sia apparsa prossima alla fne, ogni volta le forze che tendevano a preservarne l’equilibrio hanno prevalso su quelle che volevano rovesciarlo. Ed è indicativo che tale sforzo di resistenza sia stato chiamato «liberazione». Difatti, benché l’Europa abbia certamente formato per gran parte della sua storia un’unità culturale, economica e in senso lato politica (come Res Publica Christiana), tale unità si è sempre espressa sotto specie dell’irriducibile molteplicità di entità, storie, tradizioni e linguaggi in dialogo e competizione tra loro. Ricchezza e dinamicità che secondo gli storici sono il segreto dello straordinario successo culturale, economico e politico del continente. Per farne ancora oggi lo spazio geopolitico decisivo nel mondo. Come spiega Henry Kissinger: «Differenti dinastie e nazioni in competizione erano percepite non come una forma di “caos” da eliminare ma come un intricato meccanismo tendente a un equilibrio capace di tutelare gli interessi, l’integrità e l’autonomia di ciascun popolo. Per oltre mille
171
L’OMBRA DI UN SOGNO: PERCHÉ L’EUROPEISMO È ANTIEUROPEO
anni (…) l’ordine è derivato dall’equilibrio, e l’identità dalla resistenza all’autorità universale» 4. Per questo, assente in partenza ogni volontà di dare vita a un’autentica unione politica, il concetto di «unione sempre più stretta» evocato dai trattati europei era solo destinato a ingenerare crescente confusione sul senso autentico del processo d’integrazione. Confusione pienamente emersa con la caduta del Muro, che scongelò torrenti geopolitici rimasti ghiacciati per quarant’anni in Europa. 5. La rottura del quadro geopolitico europeo avviata negli ultimi due mesi del 1989 colse i leader europei completamente impreparati e rivelò la fragilità costitutiva del «progetto» comunitario, la vacuità delle sue istituzioni nonché la sua dipendenza dalla leadership americana. Anziché segnare la fne della divisione dell’Europa, la caduta del Muro di Berlino portò a galla una divisione molto più profonda di quella che trent’anni di integrazione materiale avessero lasciato sperare. I leader europei pensarono che l’unione monetaria, con l’approfondimento delle logiche di spoliticizzazione, potesse essere un’ottima idea tanto per rispondere alla crisi d’identità in cui il progetto era caduto con l’evaporazione dell’Unione Sovietica, quanto per «europeizzare» la Germania riunifcata 5. Tuttavia, i passi intrapresi a partire dal trattato di Maastricht e dai successivi (compreso quello di Lisbona) hanno fatto solo incursioni nominali nel regno dell’alta politica, aggirando la questione del potere politico. Circostanza emblematicamente illustrata dal fatto che gli architetti dell’unione monetaria abbiano previsto una Banca centrale europea, ma nessun equivalente del cancelliere dello Scacchiere o del ministro delle Finanze. I padri dell’euro allora ci assicuravano che l’unione monetaria sarebbe stata l’anticamera dell’unione politica. Questo nonostante fosse già chiaro dalle regole di convergenza adottate a Maastricht che in realtà non vi era alcuna reale disponibilità a procedere sulla strada di una vera integrazione politica che, come tale, avrebbe richiesto non già l’adozione di mere regole di convergenza, quanto piuttosto meccanismi automatici di redistribuzione fscale per far fronte agli inevitabili shock asimmetrici. Il disegno istituzionale dell’euro, insomma, nonostante la natura squisitamente geopolitica della moneta e i profondi effetti redistributivi che la sua gestione necessariamente comporta (non per altro, insieme al monopolio della forza fsica, la moneta defnisce l’essenza della sovranità statuale), eluse completamente il problema del potere politico, del suo locus e della sua legittimità, trovando nei grossolani dogmi del credo allora dominante, il monetarismo – secondo cui la gestione della politica monetaria sarebbe una questione eminentemente tecnica, da tener
172
4. H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori, Milano 2015, p. 14. 5. Lungi dall’essere il trionfo dell’idealismo europeista, la moneta unica – come abbiamo ricordato – fu il risultato di una spietata entente politica tra François Mitterrand e Helmut Kohl, con cui la Germania rinunciava al suo asset strategico (la Deutsche Mark) in cambio dell’assenso francese alla propria riunifcazione.
IL MURO PORTANTE
lontana dal processo democratico – la cornice teorica che sembrava legittimare da un punto di vista economico l’avventura dell’euro. 6. Ma un’unione monetaria tra paesi con cicli economici profondamente diversi, gelosi delle proprie prerogative sovrane in materia di bilancio e non disposti in partenza a mutualizzare il debito, era una catastrofe annunciata. Saltato per defnizione quel meccanismo automatico volto a frenare gli squilibri macroeconomici che è il tasso di cambio, l’economia dell’Eurozona avrebbe sperimentato l’aumento degli squilibri commerciali e dell’instabilità fnanziaria, generando infne una bolla che, una volta esplosa, avrebbe generato disoccupazione, defazione e recessione. Una crisi da cui sarebbe stato molto diffcile uscire senza spezzare il giogo dell’euro. Ad avvisare inutilmente dei pericolosi esiti di un tale esperimento, negli anni di incubazione di Maastricht, non furono solo alcuni dei migliori economisti del mondo (Rudiger Dornbusch, Paul Krugman, Martin Feldstein, Joseph Stiglitz, per fare alcuni nomi), peraltro completamente ignorati dai leader europei. Un articolo frmato sotto pseudonimo da un gruppo di dissidenti della Banque de France, apparso nel settembre del 1993 sul periodico La Revue des Deux Mondes, aveva denunciato in modo spietato l’analfabetismo economico dell’apparato di potere francese uscito dalla École Nationale d’Administration nonché del suo sommo pontefce, l’ineffabile Jean-Claude Trichet, già presidente della Banca di Francia e primo presidente della Banca centrale europea 6. Il monito più signifcativo sui rischi dell’euro arrivò da chi, più di tutti, aveva seguito dall’interno la genesi della moneta unica: il capo della divisione Affari monetari della Commissione europea, Bernard Connolly. In un coraggioso libro che gli costò il posto e un processo davanti alla Corte di Giustizia, Connolly, dati alla mano, denunciò pubblicamente la follia del progetto, avvisando che Maastricht non sarebbe stato il compimento del trattato di Roma, ma un «manifesto per la divisione e il confitto in Europa». Tentare di legare insieme paesi come la Francia e la Germania mediante una moneta comune non avrebbe forgiato un’unione, al contrario avrebbe trasformato «questioni monetarie nazionali in confitti politici internazionali» 7. Il progetto di unione monetaria, spiegava il manager dell’allora Sistema monetario europeo, avrebbe creato «miseria sociale ed economica», e lo avrebbe fatto in un modo «del tutto prevedibile», distruggendo non solo la prosperità economica e sociale dei paesi coinvolti, ma anche la legittimità politica, l’ami6. La classe politica tedesca invece di economia se ne intendeva. E sapeva che, purché la Banca centrale europea fosse stata un clone della Bundesbank, era nell’interesse dello Stato e della grande industria tedesca cedere all’insistente proposta di abbraccio francese. Per un motivo molto semplice: l’ambizione di rimanere un paese con la bilancia dei pagamenti in attivo era incompatibile con tassi di cambio lasciati liberi di futtuare sui mercati fnanziari. Gli industriali e i vertici della Bundesbank sapevano, già dalla fne del sistema di Bretton Woods, che la Germania non avrebbe potuto permettersi una futtuazione della sua moneta. Se la quotazione internazionale del marco tedesco fosse stata fssata dalla libera contrattazione sui mercati fnanziari, i surplus della Germania avrebbero creato domanda per la sua moneta, e la sua quotazione sarebbe cresciuta al punto da rendere così costosi i suoi prodotti sui mercati stranieri da erodere la sua competitività e infne far sparire i surplus stessi. 7. B. Connolly, The Rotten Heart of Europe, London 1995, Faber & Faber, pp. 390-392.
173
L’OMBRA DI UN SOGNO: PERCHÉ L’EUROPEISMO È ANTIEUROPEO
cizia e la cooperazione tra i popoli d’Europa. Mettendo in gravissimo rischio la stabilità, la legittimità e la pace. Gli fece eco qualche anno più tardi Martin Feldstein, insigne economista di Harvard, che scrivendo nel 1997 su Foreign Affairs mise in guardia i leader veterocontinentali: «Invece di favorire l’armonia intra-europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e all’unione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei confitti all’interno dell’Europa. (…) Contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea». 7. Come un sasso su una sottile lastra di ghiaccio, la crisi fnanziaria ha messo in luce il vulnus politico dell’unione monetaria e l’inconsistenza dell’assunto funzionalista scolpito al cuore del metodo comunitario: l’idea che realizzazioni concrete (l’euro) avrebbero creato una solidarietà di fatto (l’unione politica). La scommessa funzionalista, implicante una lezione sequenziale tra euro ed Europa, si è rivelata una colossale menzogna: la solidarietà – l’unica moneta di cui l’Ue ha drammaticamente bisogno – non è infatti il prodotto ma il presupposto di una comunità di destino. Il processo d’integrazione è giunto oggi a un pericoloso punto di stallo. Ogni soluzione alla crisi strutturale dell’unione monetaria mantenendo l’euro richiederebbe una maggiore centralizzazione dei poteri politici, essenziale per una maggiore integrazione della sfera economica e fscale, condannando comunque i paesi periferici alla desertifcazione economica. Compensata, si fa per dire, dal costante trasferimento di risorse fscali da parte del centro. Ma ogni passo verso un maggior accentramento dei poteri non solo diminuirebbe il controllo democratico diretto su decisioni essenziali che attengono all’autodeterminazione delle comunità politiche che compongono l’unione, ma avverrebbe in assenza di qualsiasi legittimità politica. Come il caso della trojka in Grecia ci ricorda, il rafforzamento della governance centrale («più Europa») non farebbe altro che generare un monstrum politico in cui grandi riforme dal lato dell’offerta dell’economia, regole e decisioni su questioni fondamentali per la vita di una società sarebbero imposte da parte di un centro di potere privo di qualsiasi legittimazione politica. Il risultato di tali tentativi di «forzare la mano» in nome della crisi in direzione di un disegno imperiale (vestito da federalista) potrebbe essere catastrofco. La storia indica che azioni di governo che mancano di legittimità determinano alla lunga rottura dell’ordine pubblico e da ultimo rivoluzione e cambio di regime politico 8. 8. Possiamo comunque essere sicuri che tali sviluppi – caldeggiati da un manipolo di messianici fondamentalisti – non avranno mai luogo. Da una parte perché le tendenze centrifughe già in atto (vedi Brexit) lo impediscono in partenza,
174
8. Cfr. D. MCKey, «The Political Sustainability of the European Monetary Union», British Journal of Political Science, vol. 29, n. 3, 1999.
IL MURO PORTANTE
dall’altra perché la determinazione dell’Ue a perseguire un’unione sempre più stretta è puramente retorica. La totale assenza da parte della Bundesrepublik di qualsiasi disponibilità politica a dare vita a un’unione del debito ne è ampia testimonianza. Del resto, la Corte costituzionale tedesca, in una fondamentale sentenza del 2009, ha messo la pietra tombale sopra a ogni ulteriore progetto di cessione di sovranità, affermando con kantiana categoricità che l’integrazione ha raggiunto con Lisbona il suo «limite estremo»: da qui l’impossibilità che la Repubblica Federale partecipi a una futura evoluzione in senso politico del processo di integrazione. A chi favoleggia di «completare l’unione bancaria» e di «procedere verso un’unione fscale» occorrerebbe far leggere quanto la Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht) specifcava con teutonico rigore dieci anni fa, ovvero che «la responsabilità complessiva in materia di bilancio» deve essere assunta dal Bundestag «con suffcienti margini di scelta politica su entrate e spese» 9, rientrando in uno dei cinque «settori politici centrali» che riguardano «gli spazi in cui si sviluppa la persona e in cui avviene la confgurazione sociale delle condizioni di vita» che non potranno mai e in nessun caso essere «ceduti» a qualche organismo sovranazionale. Con buona pace delle anime belle dell’europeismo. 9. Se ogni strada verso una soluzione pseudo-federalista è de iure e de facto preclusa, la pericolante architettura dell’unione monetaria è inevitabilmente destinata a crollare su sé stessa al primo accenno di tempesta – una bella recessione in arrivo, ad esempio. Dopo dieci anni di crisi, oggi è evidente a chiunque osservi le dinamiche in atto che il mantenimento della moneta unica rappresenta una minaccia politica ed economica per il futuro del continente. In una paradossale eterogenesi dei fni essa ha prodotto l’aumento della confittualità interna e internazionale, e allontanato, anziché avvicinato, la prospettiva della pacifca cooperazione tra i popoli d’Europa. Spingendo i paesi l’uno contro l’altro e fomentando inevitabili dinamiche centrifughe. Nel frattempo, dettaglio non secondario, l’esperimento ha devastato economicamente i paesi che vi hanno partecipato, senza risparmiare dulcis in fundo nemmeno il paese che più di ogni altro ne ha in un primo momento benefciato, la Germania. Prosciugando in meno di un decennio la domanda aggregata in Europa, le politiche defazionistiche varate dai paesi in diffcoltà per tentare di riguadagnare competitività all’interno dell’Eurozona non solo hanno determinato la maggiore contrazione del pil dal 1929, aumentando la disoccupazione e la miseria sociale a livelli impensabili, considerando l’immensa capacità di produrre valore delle socie9. Una traduzione della sentenza, a cura della Corte costituzionale italiana, è disponibile al seguente indirizzo bit.ly/35NPIdi. Si segnala qui il paragrafo 252, che elenca le materie inalienabili da parte della Repubblica Federale: «Per la capacità di autodeterminazione propria di uno Stato costituzionale si considerano da sempre particolarmente sensibili le decisioni sul diritto penale sostanziale e procedurale 1), la possibilità di disporre del monopolio della forza, della forza di polizia all’interno e della forza militare all’esterno 2), le decisioni fondamentali in materia fscale su entrate e uscite – motivate anche dalla politica sociale – della mano pubblica 3), la conformazione delle condizioni di vita allo Stato sociale nonché 4) le decisioni di particolare rilievo culturale, ad esempio in materia di diritto di famiglia, sistema scolastico, educazione e rapporti con le comunità religiose 5)».
175
L’OMBRA DI UN SOGNO: PERCHÉ L’EUROPEISMO È ANTIEUROPEO
tà contemporanee, ma hanno lentamente segato il ramo su cui la «locomotiva tedesca» era seduta 10. Il depauperamento industriale, infrastrutturale, sociale e culturale nei paesi dell’Eurozona è evidente – e di certo, non saranno i green new deals a risolvere i problemi strutturali dell’unione monetaria. Al di là degli squilibri sistemici, la nemesi del fore all’occhiello del progetto d’integrazione si chiama infatti disunione. L’integrazione funzionale, agendo per spoliticizzazione, poteva solo mascherare le divisioni politiche, non trascenderle. Anzitutto perché la spoliticizzazione, intesa come cessione di specifche e limitate competenze a organismi tecnici sovranazionali, era essa stessa il prodotto di tali divisioni: serviva cioè in primo luogo gli interessi politici degli Stati che vi prendevano parte, e non rappresentava affatto un loro superamento nel presunto «interesse europeo». 10. In questo contesto, dove si colloca l’Italia? Purtroppo, da nessuna parte. La classe dirigente del nostro paese non sembra aver sviluppato una coscienza adeguata della portata e della profondità della crisi in atto. Né tantomeno è riuscita a sviluppare, a differenza dei nostri competitori oltre le Alpi e il Reno, una lettura non ideologica del processo d’integrazione, continuando a riaffermare con vuoto e meccanico sussiego la propria dedizione a un’unione sempre più stretta che nessuno in Europa vuole davvero. Nonostante l’evidenza del suo fallimento, l’euro continua a essere interpretato come il simbolo dell’imminente unione politica (aspettando Godot) e venerato da larghi settori della classe dirigente come un fne in sé, da salvaguardare a ogni costo – anche al costo di varare politiche economiche altamente recessive e dai destabilizzanti costi politici, materiali e sociali. Eppure, mai come oggi sarebbe necessario avviare un esercizio di rifessione volto a ripensare il senso e lo scopo dell’integrazione europea. Occorre immaginare nuovi modi di favorire la pacifca e amichevole cooperazione tra i popoli d’Europa: più intelligenti, più fessibili, più effcaci. E rimodulare i mezzi alla luce di un nuovo realismo che sappia coniugare idealità e realtà. Ciò a cui l’Italia dovrebbe aspirare e lavorare non è la riproposizione di un modello d’integrazione fallimentare, ma un nuovo concetto operativo cominciando a immaginare l’impossibile (inteso come l’estremo possibile): smantellare in modo coordinato l’unione monetaria, sistema che si è rivelato economicamente dannoso e politicamente inadeguato. Per farlo, occorrerà tuttavia ridefnire il senso e la direzione dell’azione politica europea, orientandola verso modelli di cooperazione compatibili con la prismatica ricchezza politica, linguistica e culturale del continente. Il senso autentico – l’unico possibile – di «integrazione europea» appare infatti non la fusione né tantomeno lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati, che ha solo aumentato la frammentazione, la segmentazione e il deterioramento
176
10. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro del 30% circa negli ultimi anni ha allontanato per un po’ la recessione; ma sfortunatamente l’America non apprezza i paesi manipolatori di valuta (tra cui nella lista del dipartimento del Tesoro fgura la Germania, tramite Bce) e Trump ha deciso di correggere gli eccessivi squilibri macroeconomici autorizzando dazi per un valore equivalente.
IL MURO PORTANTE
del processo politico, ma la libera cooperazione tra i popoli d’Europa fondata sul rispetto delle prerogative sovrane e democratiche di ciascun paese. La sottomissione «in nome dell’Europa» a una tecnocrazia centralizzata vagamente pseudo-sovietica, del tutto ineffciente perché per defnizione incapace di tener conto della pluralità di esigenze di Stati molto eterogenei tra loro, non è stata e non sarà in grado di creare armonia e pace, ma solo confittualità e ribellione. Non esiste un demos europeo, ma molteplici demoi in Europa, la cui pacifca e amichevole cooperazione deve essere il telos di un nuovo ethos europeo. Per questo l’integrazione europea ripensata alla luce del XXI secolo dovrà forse tornare a guardare al XIX, quando l’esistenza di un «concerto di nazioni» che avvertivano di condividere fondamentali valori comuni seppe tradursi nella messa in opera di istituzioni leggere e fessibili, attraverso cui affrontare in spirito di amicizia e rispetto le più importanti sfde all’ordine internazionale, contemperando alla luce del sole, e non già nascondendoli sotto mistifcanti dispositivi ideologici, i legittimi interessi nazionali degli Stati.
177
IL MURO PORTANTE
A EST DI BERLINO NON SI FIDANO PIÙ DI NOI TEDESCHI
di Heribert Dieter
Lo strapotere economico non basta a rendere la Germania potenza benevola agli occhi dell’Europa orientale. Mercantilismo, unilateralismo e ostentata superiorità morale irritano e inquietano i quattro di Visegrád (e non solo). La lezione di Fulbright.
D
1. AL COLLASSO DELLA CORTINA DI FERRO nel 1989, la Germania è apparsa ai paesi dell’Europa orientale come il partner più importante. Le società dell’Est non speravano solo di eguagliare presto il dinamismo economico tedesco, ma apprezzavano anche l’apertura del paese. Nei dieci anni seguiti al 2004, quando molti paesi dell’Est entrarono nell’Unione Europea, la Germania non era solo rispettata per il suo successo economico; era anche considerata un leader benevolo del processo europeo d’integrazione. Oggi queste percezioni stanno svanendo rapidamente. In molti paesi dell’Europa orientale la Germania è vista come un paese alquanto egoista. Ancor più preoccupante è la percezione che Berlino stia minando il proprio futuro con politiche miopi e mal concepite. Nell’Est dell’Europa, la stella tedesca sta tramontando in fretta. Questo declino sorprende. Per secoli, i tedeschi hanno giocato un ruolo importante in Europa orientale. I cavalieri teutonici dominarono gran parte dei territori lungo il Baltico; la migrazione di tedeschi diede vita a signifcative minoranze alemanne in tutta la regione. Nella seconda guerra mondiale, i soldati tedeschi devastarono molte città e regioni nell’attuale Polonia e in altri Stati dell’Est. Di certo, la relazione con la Germania non è sempre stata idilliaca. Molti europei dell’Est, dunque, guardano ancora ad essa con cautela. Un tempo il paese e i suoi abitanti erano forse ammirati, ma vi è un crescente timore che i tedeschi non comprendano appieno gli effetti delle loro politiche, o che abbiano cessato di essere una forza costruttiva in virtù di scelte unilaterali. Quest’anno cade il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Ma il vivo ricordo di quei giorni, caratterizzati da entusiasmo e grandi aspettative, ha lasciato il posto a una sobria rifessione sugli odierni problemi di cooperazione e integrazione, parte dei quali derivano dal complesso di superiorità dell’Occidente e, soprattutto, della Germania. I tedeschi si consideravano saggi guardiani nel
179
180
USA
76.683.246
S PAG N A
Fonte: Destatis 2017 (Ufcio statistico federale)
177.807.981
170.452.287
FRANCIA
4
ITALIA
RUSSIA
61.877.773
GIAPPONE
44.164.679
CINA
199.305.142
Principali aziende tedesche esportatrici (2017) (capitalizzazioni in miliardi di dollari, fonte: Forbes) 1 Volkswagen 531,4 (industria automobilistica) 2 Daimler 323,2 (industria automobilistica) 3 BMW 241,3 (industria automobilistica) 4 Siemens 163,4 (elettrodomestici, macchinari e prod. varie) 5 BASF 98,9 (chimica) 6 Bayer 92,7 (chimica) 7 Fresenius 65,8 (attrezzature e forniture mediche) 8 Merck 43,3 (farmaceutica) 9 Linde 40,8 (chimica) ©Limes 10 ThyssenKrupp 40,7 (siderurgia)
UNGH.
53.856.273
92.061.257
AUSTRIA
130.254.100
POLONIA
118.598.202 REP. CECA
108.115.690
GERMANIA
99.978.262
SVIZZ.
BELGIO
189.161.362
PAESI BASSI
90.374.994
REGNO UNITO
119.148.366
Primi 15 partner commerciali della Germania (import+export, migliaia di euro)
LA SFERA COMMERCIALE TEDESCA
A EST DI BERLINO NON SI FIDANO PIÙ DI NOI TEDESCHI
IL MURO PORTANTE
nuovo mondo della democrazia e del capitalismo. Si sentivano spinti a sostenere le società civili emergenti nell’Est Europa e fornivano generosamente «aiuto a chi si aiuta». In realtà, si è trattato sempre e solo di benevolo paternalismo. Ciò che continua a mancare è il rispetto per le decisioni divergenti dei paesi dell’Est. Fintanto che questi seguono l’esempio occidentale, Berlino e Bruxelles plaudono; quando se ne discostano, l’attitudine benigna lascia il posto a un’offensiva e sprezzante arroganza: come osano pensare di testa propria? Considerando le elezioni più recenti, Berlino dovrebbe essere scioccata: nei paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), il voto per il Parlamento europeo ha premiato con ampi margini i partiti conservatori. Ciò è successo malgrado, o forse per, la campagna ostile del candidato tedesco Manfred Weber, il quale ha dichiarato pubblicamente di non voler essere eletto presidente della Commissione con i voti dell’Ungheria. Non sorprende che a urne chiuse il partito Fidesz del premier Viktor Orbán abbia rigettato Weber 1. Lo scorso 13 ottobre, gli elettori polacchi hanno premiato il partito nazionalconservatore Diritto e giustizia con un margine nettamente superiore rispetto al 2015: 43,6% contro il precedente 37,6%, peraltro con l’affuenza più alta degli ultimi trent’anni 2. È opportuno ricordare che nella precedente esperienza di governo il partito in questione era stato pesantemente criticato per aver violato gli standard europei e per aver manipolato la selezione dell’alta magistratura polacca. Dopo le elezioni, alcuni commentatori tedeschi hanno avanzato l’ipotesi che i vincitori avessero ingannato gli elettori con promesse irrealizzabili, invece di interpretarne il successo come un atto di insofferenza verso Berlino e Bruxelles 3. Come spesso avviene, non vi è stato in Germania un vero esame di coscienza sui risultati delle elezioni nei nostri vicini orientali. 2. Eppure, a molti tedeschi non dovrebbe sorprendere la declinante popolarità del loro paese in Europa orientale. Essa rispecchia infatti il declinante interesse della Germania verso questa parte del Vecchio Continente. Secondo un sondaggio realizzato dalla Fondazione Körber di Berlino, oggi metà della popolazione tedesca considera un errore l’allargamento a est dell’Ue nel 2004 4. Ciò potrebbe anche essere la conseguenza di una scarsa informazione. Sono pochi i tedeschi che seguono gli sviluppi della Polonia, paese a soli cento chilometri da Berlino. Viceversa, molti polacchi seguono con interesse gli sviluppi tedeschi. Questa asimmetria non è dovuta solo alla differenza di taglia geografca ed economica. La nuova Germania è introversa e assorta nei suoi dilemmi morali. Per molti cittadini dell’Est europeo, si tratta di una fuga dalla realtà 5. Semplicemente, non comprendono il dibattito tedesco 6. 1. Sueddeutsche Zeitung, 13/7/2019. 2. «PiS kann allein regieren», Tagesschau, 14/10/2019. 3. F. Hassel, «Ein teuer erkaufter Sieg», Sueddeutsche Zeitung, 14/10/2019. 4. T. Paulsen, «Macht und Möglichkeiten – Deutschlands Rolle in Osteuropa», Neue Zürcher Zeitung, 7/9/2019. 5. P. Fritz, «Deutschland isoliert sich», Die Welt, 21/8/2019. 6. E. tabery, «Vom Zauber des Stillstands», Die Zeit, 13/10/2016.
181
A EST DI BERLINO NON SI FIDANO PIÙ DI NOI TEDESCHI
182
Nell’ottica di Berlino sono gli altri a essere isolati, non la Germania. Ma per i vicini orientali vale il contrario: il solipsismo tedesco abbraccia la politica energetica, quella migratoria e quella fscale. La crisi dei rifugiati del 2015, oltre ad aver messo le ali ai conservatori polacchi di Diritto e giustizia regalando loro il governo subito dopo la decisione tedesca di chiudere la frontiera, continua a spaccare l’Europa. Dopo il voto dell’ottobre 2019, la continua ascesa di Diritto e giustizia è lamentata da molti commentatori tedeschi. Ciò che essi stentano a comprendere è che in Polonia le attività della Commissione europea contro il paese hanno rafforzato, invece di indebolirlo, il sostegno ai nazionalisti. Il 20 dicembre 2017 la Commissione ha lanciato la prima indagine ex articolo 7 sulle riforme giuridiche polacche, in quanto abolirebbero la separazione tra esecutivo e giudiziario. Molti cittadini polacchi hanno ritenuto che il loro paese fosse trattato ingiustamente, e il fatto che il vicepresidente Timmermans sia un protestante potrebbe non aver giovato alla percezione del suo operato in una società largamente cattolica. Ovviamente, i polacchi hanno notato anche l’assenza di qualsiasi sostegno da parte tedesca in questa disputa. Nel campo economico la relazione è meno complicata, o almeno così sembra. La forza economica della Germania ha dato un notevole contributo allo sviluppo delle ex economie pianifcate. Senza il consistente investimento tedesco, probabilmente tali economie sarebbero cresciute più lentamente. L’industria dell’auto in particolare ha investito pesantemente in Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Audi, ad esempio, produce tutti i sui motori a Győr (Ungheria). Anche Škoda, la controllata di Volkswagen, è una storia di successo. Nel 2018 l’interscambio complessivo della Germania con i paesi di Visegrád ha sforato i 300 miliardi di euro, quasi il doppio del commercio con la Cina. La produzione va a gonfe vele ad est: la Repubblica Ceca è divenuta uno dei principali produttori di automobili dell’Ue, con 1.350.000 veicoli prodotti l’anno scorso, il doppio dell’Italia. In molte economie orientali il tasso di disoccupazione è ai minimi: 3,4% in Ungheria, appena 1,9% in Repubblica Ceca (il minimo su scala europea). Fino a pochi anni fa, in quei paesi non era facile trovare lavoro. Tuttavia, al boom economico-occupazionale non è corrisposto un senso di gratitudine ed entusiasmo. Sebbene la disoccupazione sia molto bassa, i salari restano tra il 30 e il 40% di quelli tedeschi. Siccome i prezzi di molti prodotti, specie alimentari, non sono inferiori a quelli occidentali, molti cittadini dell’Est continuano a sentirsi delusi nelle loro aspettative. Un politico tedesco che ha tentato di convincere un uditorio di Praga dei benefci dell’integrazione economica europea si è sentito chiedere per quanto tempo i polacchi dovranno restare europei di serie B. Forse un rappresentante del peso massimo economico d’Europa non è la persona più indicata a rispondere, ma c’è risentimento per il percepito sfruttamento della manodopera esteuropea da parte delle imprese tedesche (e non solo). L’Europa occidentale dà lavoro, ma si tiene i proftti e per molti europei orientali questa divisione è ingiusta.
IL MURO PORTANTE
3. Alle preoccupazioni economiche si accompagnano quelle per la sicurezza. Per molti esteuropei, la Russia di Vladimir Putin è una minaccia. Hanno vissuto sotto i sovietici per decenni e vi è un timore diffuso che la Russia possa tornare a farsi aggressiva. Certo, queste preoccupazioni possono risultare eccessive e sarebbe probabilmente sbagliato per la Germania approfondire il solco già esistente tra Occidente e Russia. Tuttavia, gli europei dell’Est sono irritati dall’apparente ritrosia dei politici tedeschi a incrementare le capacità militari del loro paese. Molti tedeschi ritengono che le loro convinzioni pacifste dovrebbero essere universalmente condivise, ma ciò è fuorviante. In Polonia, ad esempio, essere indifesi è una prospettiva spaventosa e pertanto la società polacca è scioccata dall’incapacità delle Forze armate tedesche. Inoltre, quando i politici tedeschi equiparano l’aumento della spesa militare al «ritorno all’antica forza militare» i polacchi e altre società orientali si irritano 7. Essi non temono un’invasione tedesca, bensì un esercito tedesco incapace di combattere e dunque di contribuire sostanzialmente a un’alleanza militare. Molti politici tedeschi sentono però di fare la cosa giusta e trasecolano di fronte alle accuse di unilateralismo. Da dove viene questa inconsapevolezza? Un indizio si può rinvenire in un libro scritto oltre cinquant’anni fa dal noto politico americano J. William Fulbright, presidente della commissione Esteri del Senato statunitense dal 1959 al 1974. Al principio della guerra del Vietnam, in l’Arroganza del potere Fulbright osserva la tendenza delle grandi nazioni a confondere la forza con la virtù e vede i paesi forti come particolarmente suscettibili all’idea che la potenza sia un segno del favore divino. Secondo il senatore, le nazioni potenti nutrono spesso la convinzione di avere una responsabilità particolare verso altre nazioni, da rendere più ricche, felici e sagge. Gli Stati meno forti, insomma, devono essere rifatti a immagine e somiglianza della grande potenza 8. Fulbright mette in luce le conseguenze negative dei consigli non richiesti: «A tutti piace dire alla gente quel che deve fare, il che va bene a parte il fatto che il grosso della gente non vuole sentirsi dire cosa fare» 9. L’esempio riportato è quello di tre boyscout che riferiscono con orgoglio la loro buona azione giornaliera: hanno aiutato un’anziana signora ad attraversare la strada. Alla richiesta del perché fosse necessario il loro aiuto, rispondono che la signora non voleva attraversare la strada. Fulbright non si limita a evidenziare gli effetti collaterali dei buoni consigli; sottolinea anche che la scarsa sicurezza in sé stessi porta spesso ad agire in modo missionario nella politica internazionale. Tale considerazione, da egli applicata agli Stati Uniti, ben si attaglia all’odierno ruolo della Germania. Il tono pedagogico della politica estera tedesca tradisce un difetto, piuttosto che un eccesso di fducia del paese in sé stesso 10. 7. Die Welt, 21/8/2019, S3. 8. W.J. FulbrigHt, L’arroganza del potere, Milano 1967, Feltrinelli. 9. Ibidem. 10. Ibidem.
183
184
SPAGNA
Catalogna
SVEZIA
POLONIA
MALTA
ITALIA
SLOV.
CROAZIA BULGARIA
ROMANIA
LIT.
LETT.
EST.
FINLANDIA
GRECIA
REP. CECA SLOVACCHIA AUSTRIA UNGH.
GERMANIA
DANIMARCA
Nord Italia
SVIZZ.
LUSS.
BELG.
PAESI BASSI
FRANCIA
REGNO UNITO
Paesi dell’Unione Europea Mitteleuropa Appendici della Mitteleuropa germanica (Paesi Bassi e Südtirol/Alto Adige) Sfera d’infuenza geoeconomica Estero vicino (Francia) Proiezione estera, soprattutto commerciale
PORTOGALLO
Paesi di madrelingua tedesca Paesi dove almeno il 25% degli studenti studia il tedesco
IRLANDA
LO PSEUDOIMPERO DELLA GERMANIA RUSSIA
CIPRO
111,0 91,4 49,9 40,9 38,0 33,7 33,0 26,4 20,0 10,4
CINA PAESI BASSI STATI UNITI FRANCIA ITALIA
(Fonte: Destatis) REGNO UNITO POLONIA AUSTRIA SVIZZERA REP. CECA
Principali partner commerciali della Germania nel 2018
PAESI BASSI LUSSEMBURGO STATI UNITI SVIZZERA REGNO UNITO FRANCIA ITALIA AUSTRIA GIAPPONE SPAGNA
in miliardi di euro (Fonte: Bundesbank ) 2017
CHI INVESTE IN GERMANIA
in miliardi di euro (Fonte: Bundesbank ) 2017 STATI UNITI 335,2 REGNO UNITO 145,0 CINA 81,0 LUSSEMBURGO 73,0 PAESI BASSI 66,4 FRANCIA 42,0 AUSTRIA 40,7 SVIZZERA 38,8 ITALIA 35,0 BELGIO 33,5
Investimenti diretti esteri DOVE INVESTONO I TEDESCHI
©Limes
A EST DI BERLINO NON SI FIDANO PIÙ DI NOI TEDESCHI
IL MURO PORTANTE
Le élite della politica estera tedesca hanno gradualmente sviluppato un’arroganza del potere e non vi è alcun accenno di aperta discussione in tal senso. Ciò si deve anche al profondo timore di essere etichettati come cattivi europei; molti politici tedeschi temono infatti che le loro eventuali critiche possano rafforzare l’antieuropeismo che alligna a destra e a sinistra. Il risultato è un’adesione irrifessa al paradigma di un’Europa sempre più unita, la cui involontaria conseguenza è che proprio i maggiori sostenitori dell’integrazione europea, i tedeschi, stanno causando seri danni al processo d’integrazione. I guasti di una politica tedesca che oscilla tra arroganza, incertezza e cinismo emergono con chiarezza nel plateale voltafaccia dell’ex capo dei socialisti tedeschi, Sigmar Gabriel. Nell’autunno del 2015 Gabriel disse che la Germania è un paese ricco e che pertanto poteva gestire le conseguenze della crisi migratoria. Egli lodò la profonda umanità dei tedeschi e affermò che l’immigrazione era utile a contrastare l’invecchiamento demografco. Nella campagna elettorale del 2017, Gabriel ha accantonato tutti gli argomenti a favore dell’immigrazione e ha anzi invocato la protezione dei confni esterni dell’Ue 11. In contrasto con la politica tedesca delle porte aperte, i leader dei paesi di Visegrád si ergono a paladini dello status quo. Gli atti terroristici compiuti in Europa occidentale – Parigi, Bruxelles, Nizza e Berlino, solo per citare i più recenti – sono portati a sostegno dell’idea che l’immigrazione incontrollata favorisca sistematicamente il terrorismo. Mentre la Germania chiede ai paesi dell’Est di condividere l’onere migratorio, in altre aree, specie nel campo dell’energia, essa ribadisce il proprio diritto a fare da sola. Quale messaggio arriva agli esteuropei? 4. La costruzione di un secondo gasdotto tra Russia e Germania (Nord Stream 2) è particolarmente controversa: fa infuriare molti e non accontenta nessuno. Il governo tedesco assicura che l’Ucraina non verrà aggirata e che continuerà a benefciare del transito di gas attraverso il suo territorio, ma se è così a che serve il nuovo tubo? Berlino ha ribadito a più riprese che non ha bisogno dei consigli statunitensi riguardo al gasdotto. Il ministro degli Esteri Heiko Maas ha respinto le critiche e ha sostenuto che la politica energetica europea si decide in Europa, non a Washington 12. Se è legittimo che l’amministrazione Trump persegua il proprio interesse commerciale, andrebbero tenuti in conto anche altri europei, cosa che non è avvenuta. Nel 2015 dieci governi europei hanno espresso i loro timori circa Nord Stream 2 in una lettera ad Angela Merkel, ma senza esito. Nel dicembre 2018 il Parlamento europeo ha votato una mozione per fermare il progetto; in precedenza, cento europarlamentari avevano scritto alla cancelliera tedesca al medesimo scopo. La noncuranza tedesca dividerà ulteriormente l’Europa, tanto che c’è chi ha chiamato la Germania a scegliere tra un approccio europeo e uno «Germany frst»13. 11. W. sandner, «Wie man eine deftige Suppe kocht», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18/4/2018. 12. R. Herzinger, «Nord Stream 2 ist antieuropäisch», Die Welt, 18/1/2019. 13. Ibidem.
185
A EST DI BERLINO NON SI FIDANO PIÙ DI NOI TEDESCHI
Su questo sfondo, non sorprende che il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj sia alquanto critico nei confronti della Germania. In un recente colloquio con Trump, Zelens’kyj ha confermato l’idea del presidente americano che l’aiuto tedesco all’Ucraina sia quasi pari a zero. Sebbene Berlino sia stata coinvolta in svariate formule di risoluzione del confitto, tali attività non hanno prodotto la pacifcazione dell’Ucraina orientale. E malgrado il proposito tedesco di applicare le sanzioni economiche alla Russia, l’accordo sul gasdotto mina la credibilità della Germania. Questi confitti avvengono nel pieno di un dibattito sulla leadership europea. Negli ultimi anni, in Europa si sono levate diverse voci che invocano un ruolo maggiore della Germania. In prospettiva la questione diverrà ancor più rilevante, dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione. Berlino è in grado di fornire un’utile prospettiva di cooperazione, a livello europeo e globale? All’interno della Germania, il dibattito in materia si è intensifcato dopo lo scoppio della crisi fnanziaria in Grecia. Nel maggio 2012, l’allora ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski affermò che la Germania era la principale benefciaria dell’integrazione europea e che pertanto doveva fare di più nei periodi di crisi 14. Alcuni hanno sostenuto che il paese più popoloso ed economicamente capace d’Europa debba superare il proprio timore ad assumersi responsabilità. Al contempo, molti politici e commentatori tedeschi hanno chiesto al governo federale di concorrere attivamente a plasmare il processo d’integrazione. L’ultimo esecutivo Merkel, in carica dal marzo 2018, si è posto l’obiettivo di far avanzare rapidamente l’integrazione europea. Tuttavia, tale approccio incontra la resistenza di molti altri paesi europei. Dal suo momento solipsistico nella crisi dei rifugiati del 2015, Merkel non è più percepita positivamente in Germania; molti la giudicano confusionaria e ciò vale anche, o soprattutto, per i paesi dell’Europa orientale. Sinora, la politica estera tedesca ha gettato un’ombra sulle richieste di una maggiore leadership della Germania. In ogni caso, in cosa debba consistere esattamente tale leadership non è mai stato davvero chiaro. Per i precedenti governi Merkel, essa implicava esercitare un controllo e una gestione della politica economico-fnanziaria secondo criteri tedeschi. Tuttavia, altrove i fautori di un maggior ruolo europeo della Germania concepivano la questione in termini assai diversi, aspettandosi che in fase d’emergenza Berlino sostenesse fnanziariamente le altre economie dell’Eurozona. Il governo federale ha però sempre respinto questa ipotesi, rifutandosi altresì di ridurre l’avanzo commerciale. 5. Oggi la relazione tra la Germania e l’Europa orientale appare fortemente deteriorata. La politica estera tedesca è caratterizzata da crescente unilateralismo e da una scarsa volontà di accettare il dissenso. Ciò rifette peraltro la dinamica interna tedesca: il dibattito, sia esso sull’immigrazione o sul cambiamento climatico, è molto schierato. La propensione ad ascoltare le posizioni altrui si è alquanto ridotta.
186
14. «Polnischer Außenminister fordert deutsche Führungsrolle», Spiegel Online, 13/5/2012.
IL MURO PORTANTE
Quando, lo scorso febbraio, Angela Merkel ha incontrato i premier del quartetto di Visegrád, lo iato tra i due campi era palese. In precedenza l’ungherese Orbán si era sentito dire da Merkel che anche i rifugiati sono esseri umani, ma ciò non ha smosso l’Est dal suo rifuto di accogliere migranti, mentre le rimostranze tedesche sulla minaccia posta allo Stato di diritto in alcuni di questi paesi sono cadute nel vuoto 15. A oggi, una grande coalizione politica che include la sinistra (Linke), i socialdemocratici, i verdi e i cristiano-democratici di Merkel insiste sulla superiorità morale della condotta tedesca sull’immigrazione, sintetizzabile come politica delle porte aperte. Tale coalizione non accetta le posizioni divergenti di molti paesi esteuropei, per i quali invece il complesso di superiorità tedesco confgura un atteggiamento antidemocratico. Vista da est, la Germania sta tentando di imporre unilateralmente i termini della cooperazione europea. Data l’esperienza storica che quelle società hanno avuto con il fascismo e lo stalinismo, non sorprende la loro idiosincrasia verso qualsiasi imposizione moraleggiante. La Germania è vista dunque nell’Europa orientale con un misto di invidia e sospetto. Il successo delle imprese tedesche è apprezzato, ma governi e cittadini guardano con diffdenza e preoccupazione all’apparente intolleranza dei tedeschi verso le opinioni e le politiche divergenti. La Germania continua a promuovere l’integrazione europea, ma secondo i suoi termini. Questa sfducia non è nuova. Richard Holbrooke, ambasciatore statunitense in Germania tra il 1993 e il 1994, nutriva profondi dubbi sull’affdabilità e sull’onestà dei tedeschi. Una volta si chiese: «Chissà perché i tedeschi hanno questa reputazione di nazione affdabile, quando non lo sono quasi mai e forse storicamente non lo sono mai stati» 16.
15. A. Meier, «Auf der Suche nach Gemeinsamkeiten», Der Tagesspiegel, 6/2/2019. 16. J. Vinocur, «Awkward Moment for Obama and Merkel», The New York Times, 2/5/2011.
187
IL MURO PORTANTE
LA RINASCITA DELLA NAZIONE TEDESCA
di Gian Enrico Rusconi
L’AfD, sempre più forte nei Länder orientali, reclama per la Germania una forma convenzionale di identità nazionale, archiviata dopo la caduta del Reich. La rilettura dell’89. La Corte costituzionale dà una mano ai sovranisti?
I
1. L TRADIZIONALE CONCETTO DI NAZIONALISMO e quindi la tesi del ritorno del nazionalismo colgono la realtà di quanto sta accadendo oggi in Germania? Quello che è stato identifcato storicamente come nazionalismo nelle sue varianti e radicalizzazioni si presenta oggi con fenomenologie e denominazioni nuove. Si parla di populismo, sovranismo, rivendicazioni völkisch, ossessioni per la sicurezza e il controllo dei confni, rifuto dell’immigrazione, domanda di protezione che esclude chi «non è tedesco». Il quesito classico «chi è il tedesco» acquista nuova e diversa drammaticità nelle regioni orientali (ex DDR) in polemica non solo con gli stranieri, ma contro i concittadini occidentali dai quali ci si sente giudicati negativamente. La si chiami o meno espressione di un nuovo nazionalismo, questa problematica ha trovato nel movimento politico della Alternative für Deutschland (AfD), defnito dai suoi avversari «populista di destra» o «estremista di destra», il nuovo soggetto politico deciso a darle uno sbocco operativo. Il rifuto dell’immigrazione è motivato dalla convinzione che sia in atto una grave minaccia all’integrità della nazione e del suo popolo, concepito come un’indiscutibile omogeneità storica ed etnoculturale. Non si parla apertamente di razza alla maniera nazista (o protonazista), ma di etnopluralismo, che in linea teorica riconosce autonomia e pari dignità a tutte le etnie/culture come tali – purché rimangano confnate nel loro spazio geografco ed etnoculturale. Intanto però rimane fermo il fatto che per la nuova destra non è la cittadinanza di Stato a defnire chi è tedesco – come vuole la costituzione – bensì i criteri d’appartenenza al popolo, criteri völkisch quali sono elencati e defniti dalla stessa destra populista. Questi elementi erano presenti anche nel nazionalismo storico tradizionale, si traducevano politicamente nella richiesta di strutture statuali autoritarie all’interno e all’esterno favorivano aperte competizioni verso altre nazioni sino alla contrapposizione ostile. Questo era – in estrema sintesi – il nazionalismo che ha contras-
189
LA RINASCITA DELLA NAZIONE TEDESCA
segnato la storia della Germania della prima metà del XX secolo, dalla guerra di civiltà (Kulturkrieg) del 1914 contro l’Occidente sino alle tensioni della Repubblica di Weimar coltivate negli ambienti della «rivoluzione conservatrice», prima dell’affermazione del nazionalsocialismo e dello Stato totalitario da esso imposto. Oggi liberali e sinistra obiettano ad AfD di riportare indietro a un nazionalismo con componenti naziste; i suoi intellettuali invece rivendicano alla «rivoluzione conservatrice» degli anni Venti e Trenta di essere stata l’alternativa alla soluzione nazista. Uffcialmente AfD dichiara la propria fedeltà al Grundgesetz, la costituzione. Ma le istituzioni statali deputate alla difesa della costituzione sono in allerta, preoccupate che negli ambienti della destra si verifchino comportamenti lesivi della democrazia e della sua Carta. Il grave attentato antisemita di Halle (9 ottobre 2019) ha brutalmente ricordato che l’antico odio contro gli ebrei, fattore costitutivo del nazionalsocialismo e di ogni razzismo, è sempre latente negli ambienti di estrema destra. Non è facile stabilire cosa rappresenti esattamente il nazionalsocialismo storico per la nuova destra. Al congresso dell’organizzazione giovanile Junge Alternative del 2 giugno 2018 il leader di AfD, Alexander Gauland, ha pronunciato la frase: «Hitler e i nazisti sono soltanto una stronzata (ein Vogelschiß) nell’ultramillenaria storia tedesca ricca di successi». L’affermazione, che a detta dell’interessato non intendeva minimizzare o ignorare i crimini commessi dai tedeschi innanzitutto verso gli ebrei, ha sollevato immediatamente le proteste di tutte le forze politiche. Gauland si è affrettato a precisare che l’«incriminata espressione Vogelschiß» da lui usata indicava semplicemente un escremento animale al quale può essere paragonato il nazionalsocialismo. In sua difesa è intervenuto Björn Höcke (il più radicale tra i rappresentanti della nuova destra), con una precisazione illuminante: «Lo scopo della revisione storica di Gauland non sono i dodici anni del Terzo Reich ma ciò che è stato fatto dopo il 1945. Intende tornare indietro a prima dell’ammissione di colpa fatta dalla Bundesrepublik, indietro rispetto al discorso del 1985 dell’allora capo dello Stato Richard von Weizsäcker, che in nome del popolo tedesco ha interpretato la sconftta tedesca nella seconda guerra mondiale come una liberazione. Le provocazioni di Gauland non sono che il tentativo di reinterpretare radicalmente la storia e la storiografa» 1. Il vero problema infatti non è il riconoscimento esplicito o meno del carattere criminale del nazionalsocialismo storico, ma la «cultura della colpa» che oggi viene coltivata e imposta ai tedeschi in nome di quei crimini.
190
1. B. Ulrich, «Alexander Gauland: Wer ist hier naiv?», Die Zeit, 3/6/2018. «La maggioranza dei tedeschi non ha mai sostenuto Hitler, il quale non ha mai ottenuto una maggioranza democratica attraverso libere elezioni. La libertà di stampa era soppressa e l’opposizione politica combattuta con i metodi più spregevoli che tutti conosciamo. Questo popolo era intimidito. Per fortuna ci sono stati gesti di resistenza contro il nazionalsocialismo che sono importantissimi non tanto per quello che ottennero allora, ma soprattutto per quello che rappresentano per noi tedeschi oggi dal punto di vista psicologico. È importante sapere che nonostante la dittatura ci fossero ancora dei patrioti conservatori come von Stauffenberg che hanno avuto il coraggio di donare la vita per combattere una giusta causa. La sconftta della dittatura nazionalsocialista è stato un fatto positivo». Così B. höcke in un’intervista di L. Steinmann, Limes, «Essere Germania», n. 12-2018, pp. 80-86.
IL MURO PORTANTE
KERNEUROPA
FINLANDIA (sotto l’infuenza tedesca) RUSSIA
SVEZIA ESTONIA
Antagonismo Germania verso Usa e possibile rappresaglia americana IRLANDA
DANIM.
REGNO UNITO
LETTONIA
PAESI BASSI BELGIO LUSS.
LITUANIA
Kerneuropa anti-turca
POLONIA
GERMANIA
FRANCIA
SVIZZ. Nord Italia
PORTOGALLO
REP. CECA SLOVACCHIA AUSTRIA UNGH. SLOV. CROAZIA
ROMANIA
SPAGNA BULGARIA ITALIA
Kerneuropa Catena del valore tedesco (potenziale area Neuro) Francia indecisa se aderire o meno alla Kerneuropa Polonia teme intesa tra Germania e Russia
GRECIA
TURCHIA
MALTA Kerneuropa conciliante con la Russia
CIPRO
Paesi dell’Unione Europea Regno Unito in uscita dall’Ue
©Limes
2. In questo clima, che cosa resta dell’idea di «potenza civile» (Zivilmacht) fondata sulla «società civile» (Zivilgesellschaft), che sino a pochi anni fa sembrava offrire la base solida e irreversibile di una Germania che presumeva di essere «nazione di orientamento» per i membri dell’Unione Europea? Presupposto importante di quella concezione era l’elaborazione critica del passato nazionalsocialista e l’idea di una religione civile basata sulla memoria dell’Olocausto, che a sua volta fondava l’idea del patriottismo costituzionale. Sono rimaste esemplari le tesi enunciate da Jürgen Habermas nel dibattito degli storici (Historikerstreit) dell’ormai lontano 1986: «L’unico patriottismo che non ci allontana dall’Occidente è un patriottismo della costituzione. Una convinta adesione ai princìpi universali della costituzione si è purtroppo potuta formare nella nazione civile (Kulturnation) dei tedeschi soltanto dopo e attraverso Auschwitz. Chi vuole impedirci di arrossire di vergogna per questo fatto con un’espressione vuota come “ossessione della colpa”, chi vuol richiamare i tedeschi a una forma
191
LA RINASCITA DELLA NAZIONE TEDESCA
convenzionale della loro identità nazionale, distrugge l’unica base attendibile del nostro legame con l’Occidente» 2. Oggi questo discorso, che fa del patriottismo costituzionale il superamento del nazionalismo tradizionale, viene attaccato frontalmente dalla nuova destra che accusa i suoi avversari di promuovere un’antinazionale «cultura della colpa». Sulla rivista più rappresentativa dell’AfD, Junge Freiheit, possiamo leggere l’esatto contrario delle tesi di Habermas: «Il più potente demone di oggi è la religione civile in cui Auschwitz prende il posto di Dio». AfD si dichiara orgogliosa della propria identità nazionale «convenzionale», la cui integrità è minacciata dall’immigrazione che ha di mira la sostituzione del popolo tedesco (Umvolkung). In questo contesto, in occasione del trentennale di quella che correntemente è chiamata «la caduta del Muro di Berlino», si è fatta strada una nuova posizione inattesa: l’appropriazione della Wende (svolta) del 1989 da parte della nuova destra. La Wende è stata imposta al governo della DDR da una parte considerevole della popolazione negli ultimi mesi del 1989, svolta che sarebbe stata seguita dalla riunifcazione dei due Stati tedeschi formalizzata soltanto nell’ottobre 1990. Ma la Wende, defnita anche rivoluzione pacifca e accompagnata dal tentativo fallito di riformare dall’interno il sistema socialista 3, va tenuta ben distinta dalla riunifcazione nazionale. In realtà alla nuova destra preme soltanto appropriarsi della parola d’ordine vincente nel 1989: «Wir sind das Volk», «il popolo siamo noi». Trent’anni fa era stata lanciata contro il sistema totalitario della SED comunista, oggi è rivolta contro il sistema democratico governato da Angela Merkel. Ieri e oggi si intende parlare in nome dell’autentico popolo tedesco oppresso. Ma oggi quando AfD dice popolo intende innanzitutto i cittadini delle regioni orientali, come se quelli delle regioni occidentali non fossero anch’essi popolo tedesco. «Ci si sente di nuovo come nel 1989 nella DDR», dichiara Höcke. «Non abbiamo fatto la rivoluzione pacifca per ritrovarci nella situazione di oggi». E tiene i suoi discorsi avendo alle spalle la scritta «L’Est risorge». Gli fa eco il capo di AfD del Brandeburgo, Andreas Kalbitz: «Nel 1989-90 non abbiamo messo in moto questo processo e il popolo non è sceso per le strade per ottenere quanto noi oggi dobbiamo sopportare». Anche Alexander Gauland nel suo discorso di apertura del congresso del partito ad Augusta afferma di avere la sensazione di «vivere gli ultimi giorni della DDR». E paragona AfD, da lui defnita «il solo partito di opposizione e movimento di resistenza antitotalitario di oggi», al Neues Forum, il più importante movimento d’opposizione nella DDR del 1989-90. Senza timore di esagerare, aggiunge che «chi oggi la pensa diversamente viene represso esattamente come un tempo faceva la Stasi» 4. Non passa giorno senza che sui giornali si parli della riscoperta estraneità tra i tedeschi occidentali e una parte consistente dei tedeschi orientali. Sempre e di
192
2. J. habermaS, «Una sorta di risarcimento danni», in aa.VV., Germania: un passato che non passa, a cura di G.E. rUSconi, Torino 1987, Einaudi, pp. 23-24. 3. H. modrow, La perestrojka nella DDR, Milano-Udine 2019, Mimesis. 4. «Die Stasi lebt», Blätter für deutsche und internationale Politik, n. 9-2019, p. 123.
IL MURO PORTANTE
nuovo Wessis contro Ossis, sino a parlare apertamente del ritorno di due Germanie. In termini politici, AfD ha accelerato l’arretramento elettorale già da tempo in atto dei tradizionali «partiti popolari», in particolare della socialdemocrazia, soprattutto ma non solo nella ex DDR. Ha intaccato il prestigio politico personale di Angela Merkel, mettendo in moto nell’Unione cristiano-democratica (CDU) un processo che mira a rinnovare la cultura politica del partito nel segno di un nuovo o di un ritrovato conservatorismo. AfD rimprovera al governo nazionale di aver sacrifcato gran parte della sovranità della Germania all’Ue, parla di una possibile uscita dall’euro, della creazione di due euro (uno per il Nord, un altro per il Sud) o addirittura della reintroduzione del marco, anche se su questi punti le posizioni sono ancora incerte e confuse. L’unico punto fermo è che la Germania non deve rinunciare alla sua posizione economicamente preminente in Europa e non deve assumersi alcun onere di sostegno di altri paesi europei inadempienti e inaffdabili, Italia in testa. Né concedere nulla alla Francia di Macron. Con questo approccio inequivocabilmente nazionalista e sovranista la nuova destra ha sottratto alla sinistra il monopolio della critica al sistema esistente, rovesciandone il senso. Afferma di considerare come propri nemici gli stessi avversari della sinistra radicale: il neoliberismo fnanziario-capitalistico, la globalizzazione. E quando entrano in gioco i diritti della persona o i criteri dell’etica familiare, AfD si colloca su posizioni nettamente tradizionaliste. Ma l’ultima sorpresa è la nuova strategia di rivendicare per sé il concetto di Bürgerlichkeit, affermando di essere un partito bürgerlich (borghese), espressione diretta della società civile, con l’evidente intento di attrarre i conservatori «moderati» e in aperta competizione con la centralità assegnata alla Zivilgesellschaft dai suoi avversari social-liberali. Inutile dire che questi hanno reagito prontamente. È intervenuto lo stesso presidente Frank-Walter Steinmeier sottolineando l’incompatibilità tra la visione autoritaria völkisch di AfD e la visione liberale bürgerlich5. 3. La riappropriazione degli eventi del 1989-90 da parte della destra è il culmine della rivendicazione di rappresentare da sola l’identità tedesca. Nei decenni seguiti alla divisione Est-Ovest si erano esercitate, da ambo le parti, laboriose giustifcazioni che alla fne sembravano aver raggiunto il loro obiettivo: far accettare alla popolazione una situazione considerata irreversibile (al di là delle dichiarazioni uffciali). Da qui lo stupore nel 1989 davanti alla spontaneità con cui la popolazione tutta sembrò riconoscersi come un’unica nazione tedesca. Non c’è dubbio che nella DDR il passaggio cruciale della «svolta» democratica sia stato legittimato dalla convinzione, diventata parola d’ordine di piazza, di essere «un 5. In un’intervista allo Spiegel del 16 settembre u.s., il settimanale chiede a Steinmeier: «Il concetto di Bürgerlichkeit è molto dibattuto in questi giorni. Alexander Gauland (…) ha detto che la sua gente rappresenta la borghesia in questo paese. Che ne dice?». Steinmeier risponde: «C’è da stropicciarsi gli occhi. Borghesia, Stato di diritto e diritti individuali stanno insieme. Lo Stato serve l’uomo. Garantisce diritti umani e civili, statualità del diritto, difesa delle minoranze e libertà da discriminazione. Chi si riconosce in questa tradizione non può coltivare un modo di pensare escludente, autoritario o addirittura völkisch come fa AfD. Tutto ciò è l’opposto del borghese: è antiborghese».
193
LA RINASCITA DELLA NAZIONE TEDESCA
solo popolo» («Wir sind ein Volk») e quindi di ridiventare una «Germania patria unita» («Deutschland einig Vaterland»). Ma non si può negare che per la stragrande maggioranza della popolazione orientale la riunifcazione apparisse la scorciatoia per ottenere democrazia e benessere, sanzionando il fallimento del sistema socialista. La proposta di una nuova DDR riformata fu percepita dalla popolazione come non più credibile. Ma di questa complessa problematica non v’è traccia signifcativa nelle analisi della nuova destra. Quanto alla Bundesrepublik, l’inattesa prospettiva di un unico Stato tedesco aveva sollevato subito in molti intellettuali di sinistra il fantasma di una nuova Grande Germania. Soprattutto quando qualcuno ha ricominciato a parlare di nuovi confni tedeschi orientali oltre l’Oder/Neiße o di insediamento della Nato a est dell’ex DDR. Alla testa di questo movimento di protesta c’erano autori del calibro di Jürgen Habermas e Günter Grass. Il primo parlava di «nazionalismo del marco», il secondo della minacciosa costituzione di un Quarto Reich. A molti sembrarono preoccupazioni legittime, ma poi la riunifcazione ha avuto luogo senza alcun revival nazionalista. Le ragioni di questo mancato nazionalismo vanno ricercate anche in fattori di natura geopolitica. La riunifcazione non è stato un evento semplicemente nazionale perché si è inserito in un mutamento radicale in atto nell’Europa centroorientale che avrebbe travolto l’intero sistema sovietico. Nel 1989-90 nessuno prevedeva questo esito. Dominava l’ottimistica prospettiva di una nuova sicurezza europea di cui la Germania riunita era il passo necessario. E invece la Nato sarebbe arrivata sino ai confni dell’Ucraina, mettendo in moto un processo critico le cui conseguenze durano tuttora. A questo proposito lo storico Michael Stürmer ha coniato una frase perentoria: «La Germania ha guadagnato la sua unità nazionale, la Russia ha perso l’Ucraina» 6. In modo effcace lo storico ha messo a fuoco il nesso tra due eventi a prima vista slegati. Negli anni Novanta è prevalsa l’erronea e semplicistica convinzione della «vittoria dell’Occidente liberale»; Obama è arrivato a defnire la Russia una semplice potenza regionale. Affermare che la Russia ha perso l’Ucraina in coincidenza con l’unifcazione tedesca signifca riconoscere che il confitto oggi in atto tra Kiev, Mosca e l’Europa ha le sue radici nel 1989-90 e nelle sue dirette conseguenze. Non a caso Vladimir Putin oggi ripete che la dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la peggiore catastrofe geopolitica del XX secolo. Ma poi rincara la dose additando il «fallimento del liberalismo» occidentale in generale. Parla di «élite che si sono allontanate dal popolo. La cosiddetta idea liberale ha esaurito il suo scopo». Sono tesi in perfetta sintonia con quelle della nuova destra tedesca, che non nasconde la sua simpatia per Putin. L’ultimo Habermas mostra grande pessimismo per quanto accade in Europa come contraccolpo dei populismi di destra: «Per la prima volta ho seri dubbi sulla fondatezza delle mie vecchie tesi tenacemente sostenute sulle nuove prospettive
194
6. M. Stürmer, «Deutsche und Putin. Die tiefe Ambivalenz der Deutschen gegenüber Russland», Die Welt, 17/5/2018.
IL MURO PORTANTE
LE EUROPE VISTE DALLA GERMANIA ISLANDA
SUDDIVISIONE SECONDO CONFINI DI STATO ATTUALI
DANIMARCA PAESI BASSI LUSSEMBURGO LIECHTENSTEIN MONTENEGRO KOSOVO MACEDONIA ALBANIA
EUROPA ORIENTALE
FINLANDIA
EUROPA SUD-ORIENTALE
RU
SVEZIA
EST. Mare del Nord
EUROPA SETTENTRIONALE
S S I A
NORVEGIA
LETT.
EUROPA OCCIDENTALE MITTELEUROPA (EU. CENTRALE)
LIT.
EUROPA MERIDIONALE
IRLANDA REGNO UNITO GERMANIA
BELGIO
Oceano Atlantico
UCRAINA REP. CECA FRANCIA
SVIZZ.
AUSTRIA SLOV.
SLOVAC. MOLD.
UNGHERIA
CROAZIA BOSNIA ERZ. SERBIA
ITALIA
LLO POR TOG A
BIELORUSSIA SUDDIVISIONE SECONDO CRITERI CULTURAL-SPAZIALI
POLONIA
ROMANIA Mar Nero BULGARIA
SPAGNA GRECIA
TURCHIA
Mar Mediterraneo
MAROCCO
ALGERIA
MALTA TUNISIA
CIPRO ©Limes
Fonte: Proposta del Comitato permanente per i nomi geografci (STAGN), Germania.
per l’Europa. Persino nel parlamento, in cui devono esprimersi interessi sociali comuni al di là dei confni nazionali, il progetto europeo ha perso i suoi profli chiari». Il flosofo teme che «il processo di unifcazione europea si trovi in una curva decrescente. Il punto di non ritorno si riconosce quando è troppo tardi» 7. In un saggio precedente aveva scritto che «l’Unione potrebbe acquistare capacità di azione politica e un nuovo sostegno dei suoi cittadini soltanto se a livello europeo fossero istituiti competenze e bilanci per programmi democraticamente legittimati contro ulteriori divaricazioni tra gli Stati membri» 8. Ma l’unica indicazione politica concreta cui lo stesso Habermas fa affdamento è quella delle proposte riformiste avanzate dal presidente francese Macron. 7. J. habermaS, «Wo bleibt die proeuropäische Linke?», Blätter für deutsche und internationale Politik, n. 12/2018, pp. 41-46. 8. J. habermaS, «Unsere grosse Selbsttäuschung. Ein Plädoyer gegen den Rückzug hinter nationale Grenzen», in ivi, n. 8/2018, pp. 91-96.
195
LA RINASCITA DELLA NAZIONE TEDESCA
Il punto merita una rifessione perché ci riporta al tema del nazionalismo, degli interessi nazionali e della sovranità nazionale ed europea. L’Ue, lungi dal creare «competenze e bilanci per programmi democraticamente legittimati contro ulteriori divaricazioni tra gli Stati membri», sembra dover contare innanzitutto sulla collaborazione tra Francia e Germania. Nel trattato di Aquisgrana del gennaio 2019 solennemente sottoscritto da Macron e da Merkel si parla di «assunzione della responsabilità di agire e parlare con una voce sola a nome dell’Europa». Si mira al rilancio della «sovranità europea» per fondare un’Europa sovrana, unita, democratica. Francamente non capisco come si possa ricorrere ancora alla fnzione di una sovranità europea o condivisa quando viene immediatamente ridimensionata, se non smentita dall’incapacità dei protagonisti di realizzare progetti comuni. I tedeschi, del resto, sin dall’inizio hanno reagito con cautela alle proposte francesi di modifcare l’ordine fnanziario ed economico, perché a loro avviso alterano sostanzialmente quanto sottoscritto a Maastricht e successivamente. È inutile evocare con rammarico i «padri fondatori d’Europa», perché allora la cooperazione europea era nell’interesse immediato delle singole nazioni, nella prospettiva idealizzata di un possibile federalismo. Tutto questo è passato. Al riguardo i tedeschi hanno le idee molto chiare, grazie alla loro autorevole Corte costituzionale federale. Più volte la Corte ha qualifcato l’Ue come Staatenverbund (Confederazione di Stati, in cui essi rimangono «padroni dei trattati»), non Bundesstaat (Stato federale). Lungi quindi dal legittimare una futura comune statualità europea, queste sentenze consentono l’adesione della Germania a un’Europa intesa come associazione di Stati sovrani, purché essa rispetti l’identità nazionale tedesca. L’associazione è basata sull’attribuzione di competenze ben individuate ed è caratterizzata da reversibilità unilaterale. Con il termine Staatenverbund la Corte di Karlsruhe defnisce i limiti del processo d’integrazione e rivendica la competenza di valutare l’applicabilità del diritto comunitario alla Germania. Non so se questo comportamento sia defnibile sovranismo nel senso in cui viene denunciato, ovvero rivendicato, da alcuni paesi dell’Europa centro-orientale. In ogni caso siamo davanti a un atteggiamento che invita a ripensare seriamente il senso politico operativo di una sovranità europea condivisa.
196
IL MURO PORTANTE
RITORNO NELLA BERLINO DIVISA
di Tonia Mastrobuoni
Una passeggiata virtuale nella città bisecata dal Muro, attraverso i luoghi e i personaggi simbolo della stagione postbellica. Sulle tracce di un passato che in parte è ancora qui. Per un inventario delle cose perdute. Il caso Potsdamer Platz.
N
1. ELLA BERLINO DIVISA, L’EST NON ERA sempre a est. Il vecchio Muro spaccava la città a zig zag, stravolgendone i punti cardinali. Tanto che nel 1962 Joachim Rudolph cominciò a scavare da nord a sud per passare sotto il confne della Bernauer Straße e liberare ventinove tedeschi intrappolati nella DDR. A nord c’era Wedding, l’Ovest delle truppe di occupazione francesi; a sud, l’Est della capitale presidiata dai sovietici. Da un anno si era aperta la ferita del Muro nel cuore della città. A oggi, Bernauer Straße è uno dei principali monumenti berlinesi alle aberrazioni della guerra fredda, puntellato di tracce di Muro, miriadi di cartelli esplicativi, un museo. Sotto la lunga arteria che attraversa il Nord della città passarono sette tunnel: alcune colonnine all’angolo con Strelitzer Straße li ricordano. Quello che è passato alla storia come «tunnel 29», l’eroica impresa di Rudolph e un gruppetto di studenti – ideata da due italiani, Domenico Sesta e Luigi Spina – fu immortalata dalla Nbc ed è tra i documenti più preziosi sulle fughe dalla Germania Est. Rudolph stesso era scappato a Berlino Ovest nel 1961, l’annus horribilis della costruzione del Muro. Ma poi cominciò a tornare a est, per salvare gli altri. Quando sbucò dall’altra parte di Bernauer Straße, la prima donna che vide fu Evi. Divenne sua moglie. Quando sono andata a trovarli, al quinto piano senza ascensore di una casa nel sonnacchioso Westend, ho scoperto che in soggiorno è appeso ancora il cartello del civico 7, quello della Schönholzer Straße dove fniva il tunnel, dove poteva esserci la Stasi ad aspettarli. «E invece ci fu Evi», ridacchia Joachim. «Qualche anno fa ho visto che stavano facendo dei lavori sulla facciata dall’edifcio. Temendo che buttassero il cartello con il civico, l’ho rubato». Nell’agosto del 1961, quando cominciò la costruzione del Muro, una parte delle case di Bernauer Straße fu inghiottita da quel confne mortale. Appena i sol-
197
RITORNO NELLA BERLINO DIVISA
dati cominciarono a murare le fnestre del primo piano del civico 48, Ida Siekmann scappò al quarto, gettò un materasso in strada e si buttò. Morì sul colpo. Anche Rolf Urban non sopravvisse al tentativo di gettarsi dall’altra parte delle mura della propria casa che erano diventate il Muro di Berlino. Abitava al civico 1: tentò di calarsi dalla fnestra con una fune di biancheria troppo sottile che si strappò. Oggi ci sono solo alcune sbarre di ferro arrugginito a ricordare quel confne che si fuse con le case. I nuovissimi edifci post-1989, bianchi, grigi, rosa, sono stati ricostruiti qualche metro più in là, come se gli architetti avessero fatto un passo indietro in segno di rispetto. Bernauer Straße è uno dei rari punti della città dove le tracce del Muro non sono state cancellate, dove si vede lo scheletro di quello che non fu mai soltanto un muro, piuttosto una zona ad ampiezza variabile, la «striscia della morte» presidiata dai Vopos, dai poliziotti di frontiera armati, dai cavalli di Frisia, dalle mine antiuomo e dalle torrette di guardia. E dove, sulla facciata di una casa, un gigantesco murale riproduce una delle più famose foto di quell’orribile 1961. Il 15 agosto di quell’anno, quando il Muro è ancora in costruzione, un poliziotto di frontiera trasferito tre giorni prima dalla Sassonia, il Vopo Conrad Schumann, prende la rincorsa, salta il flo spinato col fucile in mano e fugge in Occidente. Il salto viene immortalato dal fotografo Peter Leibing. Per la DDR è un’umiliazione pesante: persino i poliziotti scappano. Anni dopo Schumann raccontò cosa lo aveva spinto a scappare. «Alcuni Vopos trattennero una bambina che era andata a trovare la nonna a est, non la fecero più tornare a Berlino Ovest. I genitori erano solo a pochi metri da lì, dietro il flo spinato». Quell’arteria a nord di Berlino è un’eccezione: molta vecchia DDR è sparita, spazzata via dalla furia della riunifcazione e dell’occidentalizzazione. D’altra parte, come mi ha spiegato Walter Momper, che nell’autunno del 1989 era sindaco di Berlino Ovest e divenne poi il primo sindaco della città unifcata, «quando cadde il Muro i berlinesi dell’Est non vollero più vederlo, vollero che sparisse del tutto, che non ci fossero più tracce del regime». Ma nell’ansia di cancellare ogni residua traccia dei decenni di socialismo reale, rischiano di essere inghiottiti dall’oblio anche dei luoghi importanti. Anche se, come scrive Peter Schneider, sulle carte geografche l’imbarazzo e la rimozione erano palesi anche prima: «Sulla carta di Berlino Ovest il Muro si riconosce appena. Un delicato flo rosa divide la città. Sulla carta di Berlino Est il mondo fnisce con il Muro. Al di là della striscia nera, ampia un dito, che delinea il confne interno, comincia la geografa. Forse neanche ai tempi delle grandi migrazioni (Berlino Ovest, n.d.r.) aveva quell’aspetto».
198
2. La prosecuzione di Bernauer Straße è perpendicolare a Chausseestraße. Al civico 131 fu rinchiuso in casa, per undici anni, un uomo che cantava, sconsolato, «non aspettare tempi migliori». Era il bardo della DDR, la bestia nera del regime: Wolf Biermann. La facciata dell’edifcio è scrostata, il colore è ancora il deprimente marroncino di tanta architettura sopravvissuta della DDR. Fa pensare a Herta Müller, quando nella sua autobiografa si dice convinta che la bruttezza di alcune zone
IL MURO PORTANTE
dei paesi dell’Est fosse programmaticamente avvilente. A un angolo del civico 131 di Chausseestraße i Due Fratelli offrono pizza e insalata a 4,90; l’angolo opposto è occupato da un negozio di vestiti usati. Non c’è nulla che ricordi Biermann. Nulla che segnali che il suo disco più famoso nacque qui e si chiamava proprio Chausseestraße 131. Lo registrò di nascosto – dal 1965 il regime gli aveva imposto il divieto assoluto di cantare – con un microfono Sennheiser talmente sensibile che assorbì i rumori dei tram che passavano sotto casa. Biermann compose ballate che si sussurravano di nascosto, i cui testi venivano copiati a mano e fatti circolare clandestinamente; i suoi dischi venivano contrabbandati in tutto il paese e a ovest. Nella StasiBallade, Biermann cantava, ironico: «Mi sento umanamente legato/ a quei poveri cani della Stasi/ che con la neve e la pioggia a catinelle/ devono sorvegliarmi faticosamente». A oggi Biermann ha scoperto di essere stato assediato da «circa duecento spie», mi ha confessato di recente. «Ma non tutti erano dei bastardi». Nel 1976, dopo un concerto a ovest, a Colonia, la DDR lo buttò fuori. Poco prima, nonostante i lunghi e faticosi anni da dissidente, Biermann dichiarò di ritenere ancora la DDR «la migliore delle due Germanie». L’«Icaro prussiano» restava un comunista convinto. Pensava, come recita un’altra famosa ballata, che «socialismo – va benissimo/ ma quello che ci hanno messo in testa/ è il cappello sbagliato». Quando fu cacciato dalla DDR, una lettera di solidarietà sottoscritta dai principali intellettuali della Germania Est aprì la prima breccia nel Muro, secondo la stragrande maggioranza degli storici. Un brivido di indignazione scosse il paese. E fu la prima volta dalla rivolta del 17 giugno del 1953, quando gli operai che scioperavano contro l’aumento delle ore di lavoro contagiarono migliaia di tedeschi che sflarono sulla Unter den Linden fnché non arrivarono i carri armati sovietici e repressero la rivolta nel sangue. Prima del caso Biermann, la carnefcina del 1953 aveva sopito per due decenni le proteste in piazza. Mentre si sparava per le strade di Berlino, Bertolt Brecht sentì l’esigenza di esprimere in una lettera a Walter Ulbricht la sua solidarietà – «vicinanza» – al partito. Ma una settimana dopo, il 20 giugno del 1953, quando lesse una lettera del capo dell’Associazione degli scrittori, Kurt Barthel, che insultava pesantemente gli operai scesi in piazza, il genio di Augusta che aveva scelto, convinto, la Germania comunista dopo l’esilio americano, cambiò idea. E compose una delle sue più famose e sferzanti poesie, La soluzione: «Dopo la rivolta del 17 giugno/ il segretario dell’Unione degli scrittori/ fece distribuire nella Stalinallee dei volantini/ sui quali si poteva leggere che il popolo/ si era giocata la fducia del governo/ e la poteva riconquistare soltanto/ raddoppiando il lavoro. Non sarebbe/ più semplice, allora, che il governo/ sciogliesse il popolo e/ ne eleggesse un altro?». Un altro indirizzo importante della vecchia Berlino Est è stato inghiottito dalla gentrifcazione: Rykestraße 28, all’angolo con Danziger Straße. Un indirizzo nel cuore di Prenzlauer Berg, uno dei quartieri a più alta densità di bambini, di negozi glamour e di hipster di tutta la Germania. Prima della caduta del Muro e dell’invasione dei techies analcolici e delle «mamme-da-latte-macchiato» che hanno fatto
199
RITORNO NELLA BERLINO DIVISA
esplodere i prezzi delle case, Prenzlauer Berg era il quartiere della bohème e dei ribelli della Berlino Est. Dei punk, degli artisti, degli intellettuali controcorrente che avevano occupato le vecchie case lasciate sftte dalle famiglie di operai che avevano preferito trasferirsi nelle Plattenbauten col riscaldamento centralizzato a Marzahn o nelle periferie della moderna architettura real-socialista. E guai a chiamarlo Prenzlberg, come fa qualcuno con aria navigata. Come scrisse lo scrittore Adolf Endler, che fu sempre al centro di quella scena underground, «chi dice Prenzlberg invece di Prenzlauer Berg si rivela subito come uno venuto da fuori. È un po’ quando uno arriva a San Francisco e dice Frisco. Chiunque capisce al volo: questo non è di qui». A Rykestraße 28 il fsico Gerd Poppe e sua moglie Ulrike avevano conquistato un tipico appartamento di Prenzlauer Berg con il wc nel corridoio. Gli avevano piazzato una vasca da bagno accanto e spostando la porta di casa di qualche metro più in là, il bagno fu semplicemente inglobato nell’appartamento. Nei loro 80 metri quadri in cui qualche doppiofondo negli armadi e nei mobili serviva a nascondere materiali scottanti, i Poppe organizzarono regolarmente negli anni Ottanta affollatissime letture e cofondarono un importante gruppo di opposizione pacifsta, la Initiative Frieden und Menschenrechte (Iniziativa per la pace e i diritti umani). Oggi nulla ricorda quelle serate che furono l’epicentro della resistenza intellettuale della vecchia Berlino Est. Un indirizzo che era sorvegliato notte e giorno dalla Stasi. Adesso davanti all’edifcio bianco, anonimo, un triciclo e due passeggini mi ricordano che siamo nella nuova Prenzlauer Berg. Del mitico appartamento dei Poppe, dell’epicentro della vita intellettuale di Prenzlauer Berg «solo le fnestre sono rimaste ancora al loro posto», ha commentato ironico Gerd Poppe, parlando con i due storici Michael Sontheimer e Peter Wensierski. Tra i frequentatori di casa Poppe c’erano anche parecchie spie, come venne fuori dopo la caduta del Muro. E per tutti fu particolarmente scioccante scoprire che una delle fgure più scintillanti e carismatiche di quelle serate soffocate dal fumo di mille sigarette, interminabili chiacchierate alcoliche e brainstorming sovversivi, si alzava la mattina dopo, ogni volta, e andava a riferire ogni dettaglio a un uffciale della Stasi. Sascha Anderson rimane a oggi una delle più grandi ferite, per i ribelli di Prenzlauer Berg. Anche l’enfant prodige Uwe Kolbe lesse le sue prime poesie dai Poppe. Dopo l’apertura degli archivi della Stasi, Kolbe scoprì che il padre era stato un alto uffciale della Stasi e che anche lo zio aveva lavorato per i servizi segreti della DDR. Qualche anno fa mi disse in un’intervista che lo zio aveva avuto il buongusto di suicidarsi, «almeno».
200
3. Alla scomparsa si può dare anche un altro nome, un meraviglioso nome tedesco, Phantomschmerz. È un termine scientifco, è il dolore che si crede di provare per l’arto amputato. Judith Schalansky è nata dietro la cortina di ferro: a Greifswald, nella città natale di Caspar David Friedrich. Ha dedicato un meraviglioso libro alle cose scomparse e al Phantomschmerz. Nell’Inventario di alcune cose perdute (uscirà a breve in Italia per Nottetempo) un capitolo è dedicato a una
IL MURO PORTANTE
BERLINO DIVISA
Checkpoint solo per tedeschi
F. Havel
Checkpoint aperti a tedeschi e a non tedeschi Quartier generale Quartier generale interalleato
REINICKENDORF
Confne della città Muro di Berlino
PANKOW
Settore francese
WEISSENSEE Bornholmer Straße PRENZLAUER-B.
WEDDING SPANDAU Chausseestraße Staaten TIERGARTEN Invalidenstraße Friedrichstraße Heerstraße Checkpoint Charlie Heinrich- Oberbaumbrücke F. Heine-Straße S
Settore britannico Settore americano Settore sovietico
pr
BERLINO OVEST
ea
Sonnenallee
TEMPELHOF Checkpoint ZEHLENDORF NEUKÖLLN BERLINO Bravo STEGLITZ Waltersdorfer E S T Chaussee
Percorso del Muro nel centro di Berlino fno al 1989
Invalidenstraße
me rS tra ße
BERLINO SENZA MURO
Checkpoint Charlie
es
aße zstr
Mot
rste nst raß e
Pots da
Stra ße
Potsdamer Platz
ch
Bundesallee
Ku rfü
Porta di Brandeburgo GENDARMEN MARKT Wallstraße
e
TIERGARTEN
Str aß
Straße des 17 Juni
s lle
ist
Alexanderplatz
Stazione Friedrichstraße Unter den Linden
Ha
Kle
F. Sprea
zen
Grosser Stern
Stein Platz
MITTE
B ER LIN O
Hofägerallee
Straße des 17 Juni
Alt-M oabit
Mehringplatz
Pri n
ea
Moa bit
traße nens Brun
F. Sp r
e raß est sse au Wilhelm Straße Ch
r Pe
ße tra rS e g er leb
Schönhauser A ll
Chausseestraße
Resti del Muro di Berlino
Reuter Platz
ee
Drewitz
Gitschiner Straße
201
RITORNO NELLA BERLINO DIVISA
delle più discusse operazioni della Berlino riunifcata: la rimozione del Palast der Republik, l’edifcio che ospitava la foglia di fco della nomenklatura della DDR: il parlamento. Ma anche grandi sale per concerti ed eventi pubblici e un ristorante dove il padre di Judith Schalansky portava la sua amante e che «fu il luogo della fne del matrimonio tra i miei», mi ha svelato la geniale scrittrice del Meclemburgo. Il Palazzo del popolo da quindicimila metri quadri affacciava con le sue caratteristiche fnestre a specchio arancioni sulla Unter den Linden. I berlinesi lo chiamavano «il negozio dei lampadari di Erich» (Honecker) o Palazzo Prozzo, un italiano maccheronico che alludeva alla megalomania del gigantesco parallelepipedo bianco e arancione che sembrava precipitato sulla sponda della Sprea come uno sgraziato e geometrico meteorite. Quando cadde il Muro, l’edifcio fu risanato: era pieno di amianto. Poi scoppiò una discussione interminabile sull’opportunità di mantenerlo in vita o buttarlo giù, che divenne immediatamente una battaglia di principio. Il partito che voleva salvarlo difendeva l’idea che non tutto della DDR dovesse essere cancellato dalla faccia della Terra o che il Palast der Republik potesse essere mantenuto anche come un monito. Ma vinse il partito di chi voleva vedere risorgere il Castello degli Hohenzollern, la residenza dei re prussiani che per qualche anno erano riusciti ad attirare a Berlino persino Voltaire. La decisione fu presa dal Bundestag, costò 32 milioni di euro e forse tradisce un pizzico di revanscismo verso la Germania Est, che nell’impeto iconoclasta e antimonarchico nel 1950 aveva raso al suolo la storica residenza degli Hohenzollern con tredici tonnellate di dinamite. Inutili anche le proteste clamorose, come quella del leader della Linke Gregor Gysi, che salì sul tetto per protestare contro la demolizione. Nel 2008, durante i lavori per la ricostruzione del castello, qualcuno scrisse con vernice bianca, su uno dei muri, «la DDR non è mai esistita». Sarcasmo berlinese a parte, il sentimento di «annessione» di cui parlano apertamente scrittori come Thomas Brussig a proposito della riunifcazione, è stato forse sottovalutato troppo a lungo e sicuramente alimentato da discussioni come quella sul Palast der Republik. Sul quale Judith Schalanski è lapidaria: «Chi ha vissuto, come me, una cesura nella storia, le immagini trionfanti dei vincitori, la distruzione dei monumenti, non fa alcuna fatica a riconoscere in qualsiasi visione futura una visione di un futuro passato, in cui le rovine del Castello di Berlino dovranno cedere il posto a una ricostruzione del Palast der Republik».
202
4. Diverso il caso Potsdamer Platz. Non tanto per le Arkaden e i suoi centri commerciali che sono perfetti non-luoghi; percorrendo certi angoli della piazza, all’ombra dei grattacieli più famosi della riunifcazione, si ha la sensazione che si potrebbe essere all’aeroporto di Roma o alla stazione di Amburgo. Sicuramente la Berlinale del cinema ha restituito un carattere più popolare alla gloriosa piazza che divenne il cuore pulsante di Berlino già alla fne dell’Ottocento, quando la stazione dei treni che portavano a Potsdam produsse uno sviluppo rapidissimo del quartiere, accanto alla porta schinkeliana che caratterizzava la piazza. Quella porta è rie-
IL MURO PORTANTE
vocata oggi dai due grattacieli di Renzo Piano e Hans Kollhoff, e un cartello quasi invisibile ricorda che in un pezzo di strada che non esiste più, in una casetta a tre piani, visse il grande romanziere Theodor Fontane. In un’ironica poesia descrisse le passeggiate sempre più brevi al vicino Tiergarten che la vecchiaia gli imponeva. Qui Fontane fnì anche il suo capolavoro, Eff Briest. Potsdamer Platz fu sfgurata dal passaggio del Muro, divenne in parte una landa desolata durante gli anni della Berlino divisa. Se ne ha un’idea guardando Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, girato poco prima della caduta del Muro, quando il vecchio attore Curt Bois si aggira confuso in quel deserto affacciato sulla striscia della morte e dice: «Non riesco a trovare Potsdamer Platz». Anche dopo la caduta del Muro, quando i moderni grattacieli cominciarono a riempire quel vuoto, si sparse la voce che molti diplomatici che si stavano trasferendo da Bonn nella nuova capitale preferissero trasferirsi nelle più caratteristiche Mitte o Prenzlauer Berg. Quanto intervistai Wim Wenders, mi confessò un’altra cosa. Che gli mancavano i buchi tra le case, gli spazi vuoti lasciati dagli edifci bombardati e mai ricostruiti, la vera e propria poesia delle lacune che caratterizzarono Berlino Ovest per tutto il dopoguerra. La furia immobiliare post-riunifcazione ha velocemente riempito quei buchi. Di Potsdamer Platz, Wenders mi disse invece che era convinto che Curt Bois sarebbe stato ancora più disorientato, se l’avesse vista oggi. «A Berlino Ovest ci sono gli accenti luminosi della speranza, della voglia di fare, della volontà di ricostruire, a Berlino Est i melanconici accenti della stagnazione, del ritorno al Medioevo e alla tristezza». Quando Axel Springer inaugura uno dei più controversi grattacieli della Berlino divisa, nel 1966, non nasconde il fervore anticomunista che è poi sempre stato il faro delle sue pubblicazioni, anzitutto della Bild. L’editore più potente d’Europa ha programmato che l’edifcio dorato di 78 metri, il più alto della città, svetti nel quartiere Kreuzberg, a pochi metri dal Muro (nel 1959, quando cominciano i lavori sul progetto dei due architetti milanesi Melchiorre Bega e Gino Franzi e dei colleghi berlinesi Franz Heinrich Sobotka e Gustav Müller, è ancora affacciata sulla Zona di occupazione sovietica). La vicinanza della torre dorata dell’ammiraglia dei tabloid con la Berlino comunista è insomma voluta, è «un grido contro il vento» per dirla con le stesse parole di Springer. Di là del Muro, i bonzi della DDR reagiscono facendo costruire una fla di edifci alti sulla Leipziger Straße, che i berlinesi ribattezzano subito Springerdecker, copri-Springer. Ma l’editore che incarna il fervore antitotalitario e fa frmare ai suoi giornalisti un contratto in cui si impegnano a difendere Israele, è anche l’espressione più reazionaria dell’opposizione ai movimenti studenteschi che sfociarono nel Sessantotto. E il Sessantotto trovò un nemico perfetto in quell’edifcio che fa ombra al Muro e che faceva scorrere in cima, su una tavola luminosa ben visibile ai cittadini di Berlino Est, le notizie dell’Occidente. 5. In Germania la ribellione studentesca – che, come testimonia lo straordinario Vati di Peter Schneider, fu anche una resa dei conti con i padri nazisti – comincia con uno shock che scuote il mondo intero, ma accelera anche la deriva di una
203
RITORNO NELLA BERLINO DIVISA
204
fetta di movimento verso il terrorismo. Il 2 giugno del 1967, durante le proteste per la visita dello scià di Persia e di sua moglie, scoppiano disordini davanti alla Deutsche Oper, nel cuore dell’elegante quartiere di Charlottenburg, dove Reza Pahlavi e sua moglie Farah Diba sono attesi per il Flauto magico di Mozart. I cori «assassini, assassini» accompagnano la loro Mercedes mentre si avvicina sulla Bismarckstraße. Subito i manifestanti subiscono cariche pesantissime a più riprese e vengono dispersi. La raffnata strategia del capo della polizia è la seguente: «Consideriamo gli studenti come una salsiccia: dobbiamo fare un buco in mezzo, così scoppia ai lati». La dichiara fero il giorno dopo, quando la sera prima si è già consumato l’episodio più tragico di quel convulso 2 giugno. Dopo le cariche davanti alla Deutsche Oper, Benno Ohnesorg, studente ventiseienne di germanistica, e sua moglie Christa, si separano all’incrocio tra Krumme Straße e Schillerstraße. Sono scioccati dalla brutalità della polizia; Christa, che è incinta, preferisce tornare a casa. Benno, pur essendo alla sua prima manifestazione, decide di restare. E di attraversare il parcheggio di un edifcio anonimo alla Krumme Straße 66-67 dove la polizia continua a manganellare gli studenti tra le automobili. Ma Ohnesorg non si accorge che qualcuno, nel frattempo, lo segue. Probabilmente non lo sente nemmeno estrarre la pistola dalla fondina e sparargli a bruciapelo un colpo alla testa. Anche perché quando Karl-Heinz Kurras lo ammazza con una Walther calibro 7,65, alcuni colleghi stanno già picchiando lo studente. Uno di loro urla a Kurras: «Sei matto a sparare qui?». Kurras mormora che il colpo «gli è partito». Solo molti anni più tardi, quando vennero aperti gli archivi della Stasi, si scoprì un dettaglio sconvolgente: Kurras era una spia della Germania Est. L’uomo che fu la miccia del Sessantotto tedesco era un agente di Erich Mielke. L’assassinio di Ohnesorg fu dunque il tentativo di creare una strategia della tensione? Oggi storici come Sven Felix Kellerhoff tendono a escludere questa ipotesi. «Kurras agì di propria iniziativa; forse davvero per aumentare la tensione nelle piazze e suscitare un giro di vite», mi ha spiegato l’autore di un libro importante sul caso Kurras. «Ma la Stasi interpretò quell’assassinio come una catastrofe. Era riuscita a infltrare fnalmente un uomo negli alti ranghi della polizia e quello compiva un’azione eclatante». Quando cominciarono i processi contro Kurras, la Stasi tagliò tutti i ponti con lui. Nel 1971, dopo che era stato assolto da ogni colpa dai tribunali berlinesi ed era diventato bersaglio privilegiato dei sessantottini, venne promosso ispettore. I tabloid del gruppo Springer reagirono ai disordini del 2 giugno con titoli inequivocabili: «Chi produce terrore deve accettare durezza», gridò la prima pagina della BZ. La Bild parlò addirittura di «metodi da SA» degli studenti. Un commentatore li accusò di voler «vedere scorrere il sangue». La reazione fece da collante a una generazione di studenti che protestavano ancora in maniera spontanea e poco organizzata. Lontano dalla capitale politica della Germania Federale, Bonn, il Sessantotto tedesco cominciò a Berlino Ovest. Tuttavia, già nella notte del 2 giugno, durante una riunione drammatica nella sede del movimento studentesco socialista SDS, al Kurfürstendamm 140, una stu-
IL MURO PORTANTE
dentessa ventiseienne di germanistica urla che «quella è la generazione di Auschwitz. Non possiamo discutere con loro». È Gudrun Ensslin, che neanche tre anni dopo contribuisce a fondare la RAF (Rote Armee Fraktion = Frazione dell’Armata Rossa). Quella notte gli studenti bocciano la sua proposta di attaccare e occupare una stazione della polizia per rispondere alle cariche davanti alla Deutsche Oper. Ma il germe dell’eversione rossa comincia a contagiare il movimento da quella notte. Uno dei bersagli preferiti delle proteste diventa il grattacielo dorato di Axel Springer. Ad aprile dell’anno successivo, un secondo attacco scioccante fa schizzare la tensione alle stelle. L’11 aprile del 1968 il leader degli studenti Rudi Dutschke viene avvicinato da un uomo mentre sta andando a comprare le gocce per il fglio Hosea-Ché. «Lei è Rudi Dutschke?» gli chiede l’uomo, che si chiama Josef Bachmann ed è un neonazista. Dutschke risponde di sì, Bachmann gli spara a bruciapelo alla testa urlando: «Porco comunista». Quando Dutschke è in ospedale e lotta per la vita, gli studenti dichiarano la Bild – che ha condotto una martellante campagna contro il «capopopolo» dei sessantottini – mandante morale dell’agguato e organizzano una manifestazione davanti al grattacielo Springer. Duemila persone urlano per ore «Springer assassino»; la rivolta contagia nei giorni successivi molte altre città tedesche. Tra i manifestanti berlinesi c’è una famosa giornalista che sceglierà anch’essa, da lì a poco, la clandestinità della lotta armata: Ulrike Meinhof. Il giorno dopo l’attentato a Dutschke dichiara che «se tiri un sasso, è un’azione illegale. Se ne lanci mille, è un’azione politica». La Bild titola: «Terrore a Berlino». Nel 2004, la nemesi. Per il 25° anniversario della morte di Dutschke – che sopravvive nell’immediato, ma muore nel 1979 per le conseguenze di quelle pallottole in testa – il quotidiano Tageszeitung propone di intitolargli la strada che parte da Checkpoint Charlie, passa sotto le fnestre della sua redazione e quella del grattacielo Springer. Un omaggio al Sessantotto che indigna il gruppo della Bild ed entusiasma i berlinesi. Inutile il ricorso ai tribunali da parte di Springer: il municipio del quartiere Kreuzberg, eterna roccaforte rossa, vota a favore. E così fa il 57% degli abitanti dell’ex quartiere operaio ad alto tasso di immigrazione turca. Insomma, nella nuova Berlino riunifcata, bisogna percorrere la strada dedicata al leader della ribellione marxista per accedere al tempio del credo capitalista. Quanto la Bild fosse un vero e proprio simbolo, a est e a ovest del Muro, lo testimoniano gli innumerevoli tedeschi dell’Est che si precipitarono dall’altra parte del confne impossibile appena caduto il Muro, sventolando il giornale a benefcio delle telecamere e dei fotograf di tutto il mondo. Venuti a raccontare la fne del secolo breve e il momento più felice della storia tedesca.
205
IL MURO PORTANTE
L’AFD È SINTOMO, NON CAUSA DEL NAZIONALISMO TEDESCO di Luca Steinmann L’Alternativa per la Germania, ormai diffusa in tutta la Bundesrepublik, indica una svolta geopolitica nelle élite tedesche. Le fonti della sua visione, da Bismarck a Stresemann e a Mohler. L’apertura alla Russia. L’orientamento verso l’interesse nazionale si diffonde persino a sinistra.
L
1. E RIPETUTE AFFERMAZIONI ELETTORALI DI Alternative für Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania) – ultima quella clamorosa in Turingia – che le hanno permesso di schierare dal 2017 una folta pattuglia di deputati al Bundestag e di essere rappresentata nei parlamenti di tutti i Länder, stanno incidendo sulla traiettoria geopolitica della Germania. Fin dalla fondazione dell’AfD, nel febbraio 2013, questo partito nazionalista si propose, con le sue battaglie anti-euro, come il principale concorrente della CDU/CSU sul lato destro dello spettro politico 1. Da quel momento si poterono osservare importanti novità nella geopolitica della Bundesrepublik, soprattutto per quanto riguarda l’Europa 2. In realtà, il riorientamento dell’approccio tedesco al continente, e ai paesi dell’Unione Europea in particolare, era già iniziato a partire dalla crisi economicofnanziaria del 2008. Si parlò allora di «pragmatizzazione» 3 o addirittura di «de-europeizzazione» 4, in quanto l’atteggiamento di Berlino appariva sempre più condizionato dalle priorità di politica interna. Il caso più eclatante in questo senso è stata la gestione della crisi dell’Eurozona, quando Angela Merkel mostrò un’inedita assertività nella difesa degli interessi tedeschi 5. La crescita dell’AfD non è dunque la fonte, bensì uno dei principali sintomi della progressiva riaffermazione della soggettività tedesca sul piano internazionale – che 1. Alle prime elezioni politiche cui ha partecipato nel settembre 2013 la AfD ottenne due milioni di voti, pur non raggiungendo la soglia di sbarramento del 5% per entrare al Bundestag. Alle successive elezioni europee del maggio 2014 conseguì il 7% dei consensi. 2. G. D’OttaviO, La Germania della Cancelliera, Bologna 2014, il Mulino, p. 41. 3. U. Schmalz, «Deutsche Europapolitik nach 1989-1990: Die Frage von Kontinuität und Wandel», in H. SchneiDer, m. JOpp, U. Schmalz (a cura di), Eine neue deutsche Europapolitik?, Bonn 2001, Europa Union, pp. 15-68. 4. G. hellmann, Germany’s EU Policy on Asylum and Defence: De-Europeanisation by Default, Basingstoke 2006, Palgrave. 5. S. BlUmer, W. paterSOn, Germany and the European Union, London 2013, Macmillan International Higher Education.
207
L’AFD È SINTOMO, NON CAUSA, DEL NAZIONALISMO TEDESCO
alcuni defniscono neonazionalismo – cominciata con discrezione già negli anni Cinquanta, sviluppatasi poi dal 1989-90 con l’annessione della DDR e alimentata oggi dalla crescita di formazioni battezzate «nazional-populiste». L’affermazione dell’AfD accelera la rivalutazione e la reinterpretazione in chiave attuale del nazionalismo tedesco di stampo otto-novecentesco, contribuendo a sdoganarlo in buona parte dello spettro politico-partitico e culturale del paese. La retorica della «potenza civile», che distinguerebbe il modo di stare al mondo della Bundesrepublik, è sotto scacco. 2. La fondazione della Repubblica Federale Germania nel 1949 segnò la cooptazione dei tedeschi dell’Ovest nel sistema di sicurezza delle potenze occidentali defnito di «duplice contenimento» 6, che mirava a creare un argine al comunismo internazionale e al contempo a scongiurare il ritorno alla potenza e all’estroversione imperiale della Germania, dunque a cancellarne la soggettività geopolitica. Questo processo si concretizzò con l’integrazione della Bundesrepublik nelle prime strutture europee, a partire dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca) e della poi fallita Comunità Europea di Difesa (Ced), fno all’adesione al trattato di Roma (1957). Sul piano interno l’integrazione europea fu supportata dalla cosiddetta rieducazione (Umerziehung) dei tedeschi, che faceva leva sul patriottismo costituzionale (Verfassungspatriottismus). Esso prevedeva di fatto l’identifcazione dell’interesse nazionale tedesco con quello dell’Occidente, basato a sua volta sull’adesione ai suoi princìpi «universali», ciò che poteva avvenire, per dirla con il flosofo Jürgen Habermas, «soltanto dopo e attraverso Auschwitz». Ovvero attraverso la memoria permanente dell’Olocausto e della colpa tedesca. L’elaborazione critica del passato nazionalsocialista e l’idea di una religione civile basata sulla memoria dello sterminio degli ebrei avrebbero dovuto produrre una nuova identità tedesca: post-nazionale, post-storica, fortemente radicata nell’Occidente. L’integrazione europea fu quindi interpretata dalla Germania di Bonn come il passaggio necessario per l’ancoraggio nel blocco a guida americana. La Germania Federale si propose dunque come «nazione di orientamento» dell’Europa centrata sui valori dell’Occidente, concependosi «potenza civile» (Zivilmacht), fondata a sua volta sulla «società civile» (Zivilgesellschaft). Questa esibita rinuncia alla soggettività tedesca incrociò scarse resistenze nell’opinione pubblica e nella pedagogia della Bundesrepublik fno al 1986, quando si scatenò il dibattito fra gli storici sull’identità nazionale, noto come Historikerstreit 7. Ma sul piano geopolitico e delle politiche economiche il protagonismo tedesco era tornato a manifestarsi già a partire dal formale recupero della sovranità nazionale nel 1955, quando in parte della classe dirigente di Bonn si radicò l’idea secondo cui l’integrazione europea non fosse solo un’imposizione degli ex occu-
208
6. W.F. hanrieDer, Deutschland, Amerika, Europa, Paderborn 1995, Schöningh. 7. Lo scontro tra gli storici fu un dibattito pubblico svoltosi tra il 1986 e il 1987 circa la singolarità dell’Olocausto e l’infuenza che questo ha avuto sulla ridefnizione identitaria della Germania. Iniziato da Ernst Nolte con un articolo pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ad esso seguirono dibattiti vivaci tra chi ne sostenne le tesi e chi invece le attaccò duramente.
IL MURO PORTANTE
panti bensì un’opportunità da cogliere per plasmare e orientare la strategia della Bundesrepublik in Europa e nel mondo. Fin da allora l’approccio dei tedeschi occidentali all’integrazione europea fu tutt’altro che avulso dal perseguimento degli interessi nazionali. Il primo rilevante protagonista di questa linea di pensiero fu l’allora ministro dell’Economia Ludwig Erhard 8, che rifutò il progetto di mercato comune europeo fondato sull’unione doganale e su istituzioni sovranazionali. Ad esso egli oppose una meno impegnativa zona di libero scambio allargata ai paesi sottoscrittori dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (Gatt) e agli Stati membri dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece). Bonn non rifutava l’integrazione nell’Europa occidentale inserita nella sfera d’infuenza americana ma cercava di farla coincidere con i suoi specifci interessi. La troppo rapida creazione di istituzioni sovranazionali, infatti, avrebbe potuto indebolire le relazioni commerciali dei singoli Stati con i paesi terzi. Colpendo soprattutto l’export tedesco, decisivo per la rinascita economica della Germania occidentale. Erhard sintetizzò queste posizioni in un documento 9 di cui il cancelliere Konrad Adenauer, con il consenso della grande industria, tenne conto in occasione delle trattative per il varo del trattato di Roma, riuscendo ad ottenere che l’istituzione del mercato comune fosse realizzata solo per tappe. Il cancelliere, inoltre, era ben conscio della tendenza dei tedeschi a pensare la costruzione europea attraverso le categorie della sovranità e dell’interesse nazionale. Nonostante il manifestato europeismo delle nuove generazioni, decise a smarcarsi dallo stigma dei crimini commessi dai loro padri, nel 1955 il 75% dei tedeschi occidentali si dichiarava contrario all’ipotesi che il Parlamento europeo potesse esprimere decisioni vincolanti, mentre per il 73% l’unifcazione nazionale era prioritaria rispetto all’integrazione europea 10. Infne, il 43% affermava che su questioni riguardanti gli interessi nazionali il Bundestag dovesse avere l’ultima parola. Lo iato fra la difesa dell’interesse nazionale tedesco (Deutschlandpolitik), che sarebbe dovuto culminare nell’unifcazione delle due Germanie, e l’integrazione comunitaria e atlantica venne defnitivamente superata nell’epoca della distensione tra Est e Ovest, soprattutto durante il cancellierato di Helmut Schmidt. La Germania Federale si pose come modello di sviluppo per gli altri paesi europei (Modell Deutschland), fondato sulla combinazione di alta qualifcazione e alti salari per i lavoratori e sulla capacità di coniugare la crescita economica con politiche sociali e assistenziali molto accentuate. In questa fase la Bundesrepublik iniziò ad essere percepita dai partner europei come «economia dominante» 11, abile nel fare valere il proprio punto di vista su quello degli altri, soprattutto nell’ambito di politiche 8. Ludwig Wilhelm Erhard (1877-1987) è stato un economista e un politico della CDU. Fu ministro dell’Economia dal 1949 al 1963, poi vicecancelliere e infne cancelliere dal 1963 al 1966. È considerato il padre del miracolo economico tedesco e dell’economia sociale di mercato. 9. L. erharD, Rifessioni sul problema della cooperazione o dell’integrazione, Archivio federale di Coblenza, 1955. 10. G. D’OttaviO, op. cit., p. 49. 11. m. Kreile, «Die Bundesrepublik Deutschland – économie dominante – in Westeuropa», in ApuZ Aus Politik und Zeitgeschichte, vol. 26, 1978, pp. 3-26.
209
L’AFD È SINTOMO, NON CAUSA, DEL NAZIONALISMO TEDESCO
monetarie che consideravano il marco non solo un elemento determinante per la stabilità dell’Europa ma anche un simbolo identitario intorno al quale costruire un nuovo nazionalismo economico 12. Ciò nonostante, dal punto di vista geopolitico la Germania continuava ad essere considerata un «nano» (weltpolitischer Zwerg), una «potenza civile» (ovvero non militare) il cui modello di comportamento appariva ispirarsi non alla ragion di Stato bensì al cosiddetto «multilateralismo», alla sicurezza collettiva, al diritto internazionale e in particolare ai diritti umani. Su queste condizioni i tedeschi hanno costruito la loro fortuna economica e la propria accettabilità internazionale. E poi legittimato la riunifcazione nazionale. Le dinamiche attuali nei rapporti fra le nazioni evidenziano però l’inattualità di questa postura. La questione geopolitica tedesca (deutsche Frage) 13 è riaperta. E con essa anche la partita per la leadership europea. 3. Con il crollo del Muro di Berlino è venuto meno il più solido argine al ritorno del protagonismo tedesco. La fne del bipolarismo e della divisione della Germania permette infatti di eccedere i vincoli geopolitici che impedivano al modello tedesco di evadere la dimensione economica e monetaria per intraprendere una nuova, aggiornata «via speciale» (Sonderweg), meno condizionata dalle obbligazioni euro-atlantiche. Di qui anche l’emergere di impulsi neo-egemonici. A partire dal 1989 si è diffusa in buona parte della classe dirigente e dell’opinione pubblica germanica l’idea che la fne del duplice contenimento implicasse non solo il superamento dell’anticomunismo, bensì anche delle limitazioni al protagonismo tedesco sulla scena internazionale, fno ad allora mitigato e vestito con i colori europei. Questa tendenza iniziò a manifestarsi fn dall’inizio degli anni Novanta in occasione della prima crisi jugoslava. La Germania appena unita, su impulso dei cristiano-sociali bavaresi della CSU, nel 1991-92 mostrò un’inedita intraprendenza spingendo gli altri paesi europei a riconoscere immediatamente le repubbliche secessioniste di Slovenia e Croazia. Poi, nel 1999, le sue Forze armate parteciparono, sia pure limitatamente, alla guerra del Kosovo (primo impegno militare dopo il 1945). Tuttavia in quegli anni il nuovo protagonismo tedesco venne fortemente limitato da due fattori. Primo, le preoccupazioni dei partner europei, a partire da Regno Unito, Francia e Italia, che temevano lo sganciamento della Germania unita dai vincoli atlantici e comunitari. Per fugare questi timori la Bundesrepublik contribuì in maniera determinante alla nascita dell’Unione Europea (1993), rinunciando al marco tedesco per abbracciare il progetto della «moneta unica» come pegno e garanzia della propria fedeltà all’idea della «Germania europea», ovvero alla rinuncia a ogni sogno di «Europa tedesca». Ma le successive crisi internazionali e guerre europee, dalla carnefcina nei Balcani al confitto in Ucraina, resero chiaro che l’Ue non poteva affermarsi come soggetto geopolitico incisivo.
210
12. G. D’Ottavio, op. cit., p. 53. 13. M. Stürmer, «Die deutsche Frage ist zurück», Die Welt, 22/10/2018.
IL MURO PORTANTE
Secondo, la decisione del governo «rosso-verde» guidato da Gerhard Schröder di smarcarsi dall’intervento americano in Iraq, nel 2003. Scelta giustifcata con la rivendicazione della natura di Zivilmacht della Germania, mentre per i nazionalisti – allora più latenti che visibili – era solo un alibi per non assumersi le proprie responsabilità internazionali e un conseguente ruolo di punta (Führung). A partire dal 2011, quando i rischi economici e geopolitici per la Germania connessi alla crisi del debito greco sono parsi evidenti, Angela Merkel, sostenuta dalla Bundesbank, ha deciso di affermare una nuova forma di leadership nell’Eurozona, poco disponibile a condividere le decisioni con i partner. È in questo contesto che nel febbraio del 2013 nasce l’AfD, partito euroscettico che propone una gestione della crisi ancora meno condivisa, la fne degli aiuti profusi agli Stati indebitati, il ritorno alle valute nazionali o almeno lo scioglimento dell’Eurozona attuale e la sua frammentazione in gruppi più ristretti ed economicamente più omogenei. Dietro questa posizione contingente si celavano già allora prospettive geopolitiche ben più radicali, emerse progressivamente in questi ultimi tempi. Obiettivo: il ritorno alla piena soggettività geopolitica della Germania attraverso il superamento dei vincoli geostrategici, culturali e psicologici legati alla Umerziehung e alla guerra fredda. 4. «Con la fne della guerra fredda è venuta meno la stabilità garantita dai due blocchi, all’interno della quale c’era una chiara dicotomia che permetteva di distinguere l’alleato dal nemico. (…) Samuel Huntington predisse la riemersione di diverse civiltà esistenti da millenni ma rimaste nascoste negli equilibri precedenti. Questo signifcherebbe che non siamo ancora in una post-democrazia ma in un mondo in cui diverse mentalità emergenti potrebbero portare a nuove guerre e a una nuova eterogeneità in cui le diverse culture si potrebbero sviluppare in maniera autonoma» 14. Queste parole di Björn Höcke 15 esprimono il presupposto geopolitico della AfD. Pur rappresentando costui solo l’ala radicale del partito (der Flügel) 16 la sua prospettiva è condivisa da tutti i suoi vertici e in generale dall’ambiente della Nuova Destra 17, in cui l’AfD affonda le radici culturali. La storia tedesca dal 1949 al 1989, ma in buona misura anche nei decenni successivi, viene considerata come dominata dalla volontà di diluirne la potenza in un insieme più grande, secondo la teoria del doppio contenimento. E di scioglierne l’identità in un sistema 14. L. Steinmann, «Sono un prussiano che difende l’identità tedesca. Ma Europa e Germania si ridivideranno», conversazione con B. höcKe, Limes, «Essere Germania», n. 12/2018, pp. 80-86. 15. Björn Höcke è il capogruppo dell’AfD al parlamento della Turingia e uno dei leader emergenti del partito. Ha sostenuto che in merito alla politica della memoria per l’Olocausto sia necessaria una «virata di 180 gradi». 16. La AfD è divisa in due principali correnti: la prima, defnita freiheitlich, è più moderata e rincorre i voti degli elettori di destra disillusi dalla Union. La seconda, chiamata appunto der Flügel, si defnisce völkisch e cerca soprattutto i voti dei tedesco-orientali proponendosi di superare la contrapposizione tra destra e sinistra a favore di un nuovo radicale dualismo tra popolo e partitocrazia. 17. Per Nuova Destra si intende un movimento culturale che si ispira al pensatore francese Alain de Benoist, il quale critica fondamentalmente le idee del ’68, il femminismo e il multiculturalismo. In Germania essa teorizza la difesa dell’identità tedesca attraverso la promozione della «via speciale antioccidentale» della Germania (Sonderweg).
211
L’AFD È SINTOMO, NON CAUSA, DEL NAZIONALISMO TEDESCO
valoriale più ampio e liquido, fondato sui diritti umani, secondo i princìpi del patriottismo costituzionale (in parole povere: la costituzione, tuttora defnita legge fondamentale, è la patria). Oggi, per i leader neonazionalisti la mutazione degli equilibri internazionali rende necessaria la promozione di una nuova politica estera tedesca, incentrata sull’interesse nazionale, liberando la Germania dai vincoli di un passato che deve fnalmente passare. Pietra miliare di questo ragionamento è il superamento dei princìpi flo-occidentali del patriottismo costituzionale. A cominciare dalla religione civile fondata sulla memoria permanente dell’Olocausto, sull’impossibilità di espiare il crimine compiuto contro gli ebrei. Il presupposto di partenza è il rifuto della penitenza interminabile per quel «peccato originale» 18, che legittima l’autocontenimento della potenza germanica sotto la vigilanza della famiglia atlantica diretta dagli Usa e ne impedisce la difesa della propria ragion di Stato. Gli autori di riferimento sono Martin Heidegger, Carl Schmitt, Ernst Jünger, Arthur Möller van der Bruck, Armin Mohler, Ernst Nolte e, più recentemente, Alain de Benoist e Aleksandr Dugin. Il punto di partenza è la lettura del pensiero di Heidegger come indicatore della fnitezza dello spazio e del tempo. Le sue osservazioni vengono trasformate spesso in slogan che esaltano i confni geografci e antropologici tra i diversi popoli e permettono di parlare di «etnopluralismo», di cui il flosofo di Meßkirch sarebbe un anticipatore. Esso in teoria garantisce pari autonomia e dignità a tutte le culture ed etnie purché queste rimangano confnate nel proprio spazio geografco ed etnoculturale. In tal modo la Nuova Destra riesce a liberarsi allo stesso tempo di due vincoli pesantissimi. Il primo è il razzismo biologico propugnato dal nazionalsocialismo, inconciliabile con un sistema plurale in cui tutte le etnie abbiano pari dignità. Il secondo è il «peccato originale» tedesco: la parità tra i popoli, infatti, viene letta come delegittimazione di ogni volontà di porre limiti particolari a uno o più di essi in base a crimini passati, effettivi o presunti. Sul piano geopolitico, l’AfD traduce l’etnopluralismo nel cosiddetto «sovranismo» (parola da loro mai utilizzata e che non esiste in lingua tedesca), fondato sul principio di non interferenza negli affari di altri paesi. Il modello è quello svizzero. Il teorico di riferimento è Armin Mohler. Svizzero, volontario nelle SS e discepolo di Ernst Jünger e Carl Schmitt, nei suoi studi Mohler tentò di ricostruire ex post la cosiddetta «rivoluzione conservatrice» presentandola come alternativa al nazionalsocialismo. Nel dopoguerra Mohler scrisse per Die Welt e fu corrispondente per Die Zeit da Parigi, dove frequentò Alain de Benoist. Per un periodo scrisse i discorsi per il leader bavarese Franz-Josef Strauß 19. Ispirandosi al gollismo teorizzò l’emancipazione geopolitica e militare della Germania Ovest dalla dipendenza ame-
212
18. Il concetto di peccato originale è espresso in Finis Germania, bestseller di Rolf Peter Sieferle, diventato un punto di riferimento per la Nuova Destra. In esso si sostiene che la memoria della colpa tedesca per l’Olocausto nelle modalità imposte dai vincitori avrebbe impedito ai tedeschi di formulare e perseguire i legittimi interessi nazionali. 19. Franz Josef Strauß è stato un politico tedesco per lungo tempo presidente della CSU e presidente della Baviera. Fu ministro della Difesa e ministro delle Finanze e fu candidato senza successo dalla Union alle elezioni federali del 1980.
IL MURO PORTANTE
ricana, per restituirle piena sovranità. Questa sarebbe stata possibile solo qualora i tedeschi fossero tornati sovrani nella lettura – e nella revisione – della propria storia. Di qui il suo sostegno alle teorie revisioniste di Ernst Nolte, che nel 1986 contestò la legittimità del patriottismo costituzionale negando il principio dell’«unicità dell’Olocausto» 20. Sulla scia di Mohler, l’AfD concepisce il nuovo nazionalismo come espressione politica di una profonda critica all’infuenza americana, al liberalismo, all’occidentalizzazione della Germania e, parafrasando Thomas Mann, alla sua implicita degermanizzazione. Sul piano geopolitico ciò si traduce nel tentativo di svincolarsi dalla vigilanza statunitense per avvicinarsi alle nuove democrazie più o meno illiberali e nazionaliste dell’Europa orientale. Ma soprattutto per collegarsi alla Russia. Per farlo il partito non chiede la fuoriuscita della Germania dalla Nato o dalle istituzioni occidentali, ma rivendica l’eredità di Erhard: occorre sfruttare il processo di integrazione nel mercato unico europeo e nell’Occidente dal punto di vista dell’interesse tedesco. Per questo l’AfD recupera l’eredità ideale e geopolitica del nazionalismo tedesco, esaltando le fgure di Otto von Bismarck, pilota della Germania guglielmina, e di Gustav Stresemann, esponente nazional-liberale ai tempi della Repubblica di Weimar, entrambi apertamente lodati dal copresidente del partito, Alexander Gauland. Il «cancelliere di ferro» viene apprezzato soprattutto per aver dato alla Germania il ruolo di potenza centrale (Macht der Mitte) all’interno di un equilibrio europeo che scongiurasse la formazione di coalizioni anti-tedesche. Contraltare alle «potenze laterali» (Inghilterra e Russia) e soprattutto alla cultura liberale delle potenze talassocratiche (Inghilterra e Stati Uniti), considerate ideologicamente e fattualmente antitetiche alla sovranità germanica. Senza però fare mai l’errore di sfdarle apertamente, come invece avrebbero fatto i suoi successori nella fase fnale del Secondo Reich e poi Hitler. Stresemann è fonte di ispirazione non tanto per quanto fece da cancelliere ma piuttosto quale ministro degli Esteri, quando si impegnò nella normalizzazione dei rapporti con i partner occidentali, soprattutto con la Francia. Il suo obiettivo era di porre fne all’isolamento tedesco attraverso una revisione pacifca del trattato di Versailles, avviata nel 1926 con l’ingresso della Germania nella Società delle Nazioni. Un obiettivo, quello di superare la passività internazionale, che secondo Gauland deve essere raggiunto anche oggi attraverso una «rivoluzione pacifca» (friedliche Revolution) defnita «Wende 2.0» («Svolta 2.0»). Creando così un parallelismo con la svolta del 1989 nella DDR 21. Ispirandosi a Bismarck e Stresemann, l’AfD postula dunque il ritorno della Germania alla sua condizione di potenza centrale in Europa, da cui irradiare la sua infuenza globale. Condizione simboleggiata dal necessario ingresso della Bundesrepublik nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu come membro permanente; l’abolizione della Feindstaatenklausel, la clausola della Carta onusiana che prevede 20. E. nOlte, «Il passato che non vuole passare», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 6/7/1986. 21. Su proposta di Gauland l’AfD avrebbe voluto intitolare a Stresemann la propria fondazione, che è in via di costituzione, cosa che è però stata impedita dai discendenti dell’ex cancelliere. Pertanto la fondazione è stata battezzata Desiderius Erasmus Stiftung.
213
L’AFD È SINTOMO, NON CAUSA, DEL NAZIONALISMO TEDESCO
l’adozione di misure straordinarie nei confronti degli «Stati nemici» durante la seconda guerra mondiale, dunque principalmente Germania, Giappone e Italia, qualora questi adottassero una strategia aggressiva. La riforma complessiva delle Nazioni Unite dovrebbe attenersi, di nuovo, a una sorta di equilibrio svizzero fondato sul principio di non interferenza negli affari interni dei singoli paesi. Per legittimare la presenza e l’accettazione della Germania nell’Occidente il partito rivendica le proprie origini liberali sul piano economico, in apparente contraddizione con i princìpi del nazionalismo e dell’etnopluralismo. Come si legge nel programma dell’AfD, «nell’ambito dell’economia auspichiamo un’etica dell’ordine basata sull’economia sociale di mercato come è stata sviluppata da Walter Eucken, Alfred Mueller-Armack, Wilhelm Roepke, e realizzata da Ludwig Erhard». I princìpi dell’economia sociale di mercato vengono però contraddetti quando l’AfD esprime il netto rifuto del liberalismo sul piano valoriale, schierandosi senza compromessi contro la libera circolazione delle persone. Curiosa combinazione tra illimitato liberalismo economico e limitata mobilità degli individui, quest’ultima giustifcata dalle tesi di Möller van der Bruck secondo cui la cultura liberale «ha sepolto le culture, annientato le religioni, distrutto le patrie». Tesi analoga a quelle proposte dalle democrazie illiberali 22. 5. La traduzione di tali princìpi sul piano strategico parte da due perni: le relazioni con gli Stati Uniti e con la Russia. Gli Usa devono restare il principale partner, soprattutto perché primi importatori al mondo di prodotti tedeschi 23. La difesa dell’export germanico è infatti una priorità intorno alla quale l’AfD costruisce un nazionalismo economico che non si differenzia da quello degli altri partiti e della Bundesbank. Le relazioni commerciali con gli Usa come con tutte le altre potenze mondiali devono fondarsi sul bilateralismo. Vi è quindi un rifuto netto degli accordi Ceta, Tisa e Ttip. Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, però, la Germania deve emanciparsi dagli americani. La difesa nazionale tedesca deve ritornare appannaggio della Bundeswehr attraverso la reintroduzione della leva obbligatoria e deve rendersi autonoma dalla supervisione di Washington. Pertanto l’AfD guarda con favore al presunto disimpegno post-imperiale proposto da Donald Trump. Per bilanciare il peso militare degli Stati Uniti viene suggerita l’inclusione della Russia in un sistema di sicurezza collettivo europeo, da avviare con l’abolizione delle sanzioni economiche. Le relazioni con Mosca evadono però la dimensione strettamente geopolitico-economica per abbracciare anche quella culturale e valoriale, marcata dal particolare rapporto che il partito ha con l’Europa orientale, cosa che conferisce una nuova centralità geopolitica ai territori della ex DDR. L’AfD guarda con simpatia alle democrazie illiberali di Polonia e Ungheria, con le quali vuole costruire
214
22. G. rUScOni, Dove va la Germania? La sfda della nuova destra populista, Bologna 2019, il Mulino, pp. 35, 100. 23. L. Steinmann, «Le radici profonde dell’antiamericanismo germanico», Limes, «Antieuropa, l’impero europeo dell’America», n. 4/2019, pp.139-147.
IL MURO PORTANTE
rapporti di collaborazione fondati sulla difesa dell’omogeneità etnica dei rispettivi paesi, sul contrasto all’immigrazione, sul patriottismo, sulla sovranità nazionale e sulle già fortissime relazioni industriali commerciali. Questa prospettiva risente, di nuovo, delle logiche interne alla Germania, dove l’AfD sta ottenendo grandi successi nei Länder orientali. Il confitto tra Est e Ovest si sta giocando in miniatura dentro la Bundesrepublik. Se l’ex Germania Est fosse oggi uno Stato indipendente avrebbe presumibilmente una politica interna ed estera simile a quella condotta da Varsavia e Budapest 24. Secondo Höcke è concreta la possibilità di assistere a una «nuova divisione dell’Europa»: «Da un lato l’Europa occidentale parzialmente africanizzata, fortemente penetrata dall’islam; dall’altra i popoli dei paesi di Visegrád che grazie a Dio lottano per la propria identità culturale» 25. Posizione, questa, che ha spinto il partito ad abbandonare l’irredentismo verso le ex regioni tedesche dell’Europa dell’Est 26 per farsi invece interprete di una nuova Ostpolitik che comprende tutto lo spazio euro-asiatico. Linea che risente dell’infuenza del flosofo russo Aleksandr Dugin, molto amato dalla Nuova Destra, il cui pensiero viene considerato, con un certo azzardo, in armonia con le strategie del Cremlino. Alla globalizzazione quale espressione del dominio americano sull’Occidente Dugin contrappone lo spazio culturale dell’Eurasia. Le nazioni e i popoli sono destinati ad estinguersi all’interno del mondo globalizzato, cosa che implicherebbe l’irrealizzabilità dell’etnopluralismo e del nazionalismo «sovranista». Perché ciò non si avveri è necessario un cambio di paradigma fondato sul concetto di popolo (Volk) come lo intendeva Heidegger: «L’esistente è solo völkisch» (Dasein existiert völkisch) 27. Secondo Dugin, sempre riprendendo Heidegger, questa concezione dell’esistenza può realizzarsi solo all’interno di uno spazio eurasiatico che va da Lisbona a Vladivostok. Su queste basi l’AfD, in quanto fautrice dell’etnopluralismo, vuole legarsi a Putin 28. Sul terreno tattico, ad esempio, il partito ritiene che la Germania debba partecipare attraverso Mosca alla gestione della crisi siriana per instaurare relazioni amichevoli con il regime di al-Asad, con il quale sviluppare strategie condivise di contrasto al terrorismo internazionale e di rimpatrio dei profughi. Con Damasco i dirigenti dell’AfD condividono l’idea di creare dei corridoi umanitari di ritorno per permettere il rimpatrio su base volontaria dei rifugiati, perché essi possano avere un futuro nel proprio paese di origine, secondo i princìpi dell’etnopluralismo. Questo schema, però, viene contraddetto in riferimento alla religione islamica, considerata incompatibile con la cultura tedesca. L’etnopluralismo si svela etnocentrico. Le prospettive geopolitiche dell’AfD disegnano dunque un tentativo di sintesi tra l’armoniosa integrazione della Germania nel blocco occidentale e la sua voca24. A. SOBOczynSKi, «Der neue Ostblock», Die Zeit, 22/3/2018. 25. L. Steinmann, «Sono un prussiano che difende l’identità tedesca…» cit. 26. L. Steinmann, «Valuteremo di volta in volta se il nuovo governo italiano ferirà gli interessi tedeschi», intervista a Alexander Gauland, Huffngton Post, 2/6/2018. 27. G. rUScOni, op. cit., p. 82. 28. A. De BenOiSt, a. DUgin, Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica, Napoli 2014, Edizioni Controcorrente.
215
L’AFD È SINTOMO, NON CAUSA, DEL NAZIONALISMO TEDESCO
zione eurasiatica. Due strade apparentemente contraddittorie, intraprese entrambe per favorire un nuovo protagonismo geopolitico della Bundesrepublik. La prima deve contribuire a superare il passato perché si possano rimuovere i vincoli psicologici e geopolitici del secolo scorso, mettendo così Berlino nelle condizioni di esercitare una sorta di egemonia in Europa. La seconda vuole promuovere l’idea di etnopluralismo, fondata sulla mai abbandonata idea della sovranità imperiale germanica. Essa rischia però di tradursi nell’etnocentrismo, seguendo passi analoghi già fatti in campo economico dove alla progressiva integrazione europea ha corrisposto il ritorno di un certo grado di nazionalismo tedesco e la minore disponibilità germanica a condividere le decisioni importanti con i propri partner. La grande contraddizione di questa strategia a doppio binario è data dalla volontà di Trump di escludere la Germania (e l’Europa tutta) dai grandi confronti che determinano gli equilibri internazionali, da riservare a Stati Uniti, Russia e Cina. Il presidente americano, così ammirato dall’AfD per il suo presunto isolazionismo e il suo ostracismo verso la Nato, non ama la Germania ma vuole utilizzarla come strumento di pressione contro la Russia per scongiurare una saldatura economica tra Berlino e Mosca e frammentare così il progetto eurasiatico. Queste contraddizioni spingono gli oppositori dell’AfD a descriverla come un errore di percorso, incapace di incidere sulle strategie di medio termine della Bundesrepublik. Ma le visioni e le parole d’ordine dei neonazionalisti stanno già infuenzando i partiti tradizionali, che pure dicono di voler combattere l’AfD. La manifestazione più evidente ne è stata la rinuncia di Angela Merkel alla presidenza della CDU, frutto dello scontro interno alla Union tra chi vuole seguire la sua linea e chi invece chiede di tornare su posizioni conservatrici per recuperare voti a destra. La nuova leader cristiano-democratica, Annegret Kramp-Karrenbauer, si pone in continuità ideale con la cancelliera ma ha vinto le primarie con soli 35 voti di vantaggio sul conservatore Friedrich Merz, il quale, sostenuto pubblicamente da Wolfgang Schäuble, coniuga posizioni liberali in economia ed illiberali dal punto di vista valoriale analoghe a quelle dell’Afd 29. Per contrastarne l’ascesa Kramp-Karrenbauer ha dovuto smarcarsi con decisione dalla linea Merkel proponendo controlli più severi delle richieste di asilo, rigore nelle espulsioni, severa difesa dei confni nazionali, oltre a restrizioni su temi etici come aborto, famiglia e matrimoni omosessuali. Kramp-Karrenbauer ha nominato segretario generale del partito Paul Ziemiak, vicino alle posizioni di Merz ed ex presidente della Junge Union, il movimento giovanile del partito, dove è stato sostituito da Tilman Kuban, che in occasione del suo insediamento ha detto che la Merkel «non è un idolo». Mettendo così in luce la volontà diffusa nel partito, soprattutto tra i giovani, di virare a destra. Tesi espressa anche da Alexander Dobrindt, dirigente di spicco della CSU, che ha sostenuto la necessità di una «rivoluzione borghese conservatrice» contro la presunta egemonia delle élite di sinistra. Espressioni e toni impensabili fno a qualche anno fa.
216
29. Merz ha dichiarato di volere sottrarre il 50% dei consensi all’AfD attraverso la riduzione dell’immigrazione e la salvaguardia della cultura e dell’identità tedesca. Le posizioni comunque più conservatrici della Kramp-Karrenbauer lo hanno spinto a dichiarare «grande simpatia» per il nuovo corso della CDU.
IL MURO PORTANTE
Anche sul piano geopolitico l’infuenza del neonazionalismo penetra in tutto lo spettro partitico e ideologico. Toccando persino, e in modo paradossale, la sinistra intellettuale che per bocca di alcuni suoi illustri esponenti 30 ha invitato pubblicamente la cancelliera ad assumere la guida dell’Unione Europea per scongiurare l’affermazione dei «populisti». Ai loro occhi la Merkel sarebbe dovuta diventare il timoniere dell’asse franco-tedesco, formalizzando così il suo ruolo di leader in ambito europeo in quanto «cancelliera del mondo libero» 31, in armonia con i valori del patriottismo costituzionale. Con disappunto costoro hanno però osservato come a partire dal 2017 la Merkel abbia inasprito la de-europeizzazione della politica estera tedesca, reagendo freddamente alle proposte europeiste di Macron. Quanto al trattato di Aquisgrana frmato nel gennaio 2019 da Merkel e Macron, è rimasto fno a oggi poco più che una dichiarazione di intenti. Pur partendo da prospettive e puntando a soluzioni molto diverse, tanto la sinistra intellettuale quanto la destra conservatrice sono giunte alla stessa conclusione: il «gigante» tedesco è chiamato a emanciparsi dall’economicismo per diventare potenza a tutto tondo, abilitata alla geopolitica fondata sull’interesse nazionale. La Bundesrepublik è chiamata a riprendere in mano il proprio destino. Sfda di cui la classe dirigente tedesca è sempre più consapevole ma per la quale non sembra disporre di una strategia chiara e condivisa.
30. Il riferimento è soprattutto ad alcuni articoli apparsi sui Blätter für deutsche und internationale Politik a frma di Albrecht von Lucke e di Jürgen Habermas. 31. «Person of the Year. Angela Merkel Chancellor of the Free World», Time, 21/10/2015.
217
IL MURO PORTANTE
CON LA FRANCIA IMPARIAMO DA CAVOUR
di Carlo Pelanda
L’Italia deve disinnescare la conflittualità con Parigi per bilanciare l’inflessibilità tedesca e contare di più in un’Europa filo-Usa. Occorre far leva sul nostro contributo nel Mediterraneo. Un’alleanza globale delle democrazie come antidoto al declino occidentale.
L’
1. INTERESSE NAZIONALE ITALIANO, CHE chi scrive ritiene «oggettivo» perché non ha alternative vantaggiose, è quello di essere attore più infuente di un’Unione Europea più strutturata e orientata a una convergenza crescente con gli Stati Uniti. Tale concetto corrisponde all’indirizzo sostenuto da Sergio Mattarella, espresso più volte nel 2019 nella veste formale di presidente della Repubblica: partecipazione in posizione rilevante all’Ue, alla Nato e al G7, che sono i principali moltiplicatori di forza per la potenza medio-piccola (ma grande sul piano economico-industriale) dell’Italia. Dal 2010, tuttavia, Roma ha visto le due alleanze rivoltarsi contro i propri interessi nazionali: l’azione franco-americana in Libia e l’applicazione di un eccesso di rigore fscale con esiti depressivi su spinta tedesca, corredata nel 2011 da un intervento esterno franco-tedesco (con sostegno americano) per forzare un cambio di governo in direzione più euro-conformista. L’eccesso tecnicamente immotivato di rigore, combinato con un’architettura incompleta dell’Eurozona dove i debiti nazionali non sono garantiti da un prestatore comunitario di ultima istanza, ha provocato la distruzione di circa il 25% della capacità industriale italiana, con un impatto pesante sul sistema bancario e un aumento della povertà. Nel secondo decennio del nuovo millennio si è così realizzato lo scenario previsto da Martin Feldstein nel 1999 e da altri, tra cui chi scrive: l’architettura dell’area monetaria era così poco e male strutturata da renderla vulnerabile a shock asimmetrici, perché mancava e manca un centro di politica fscale comune fnalizzato sia a bilanciare l’impatto differenziale della moneta unica su economie diverse, sia a compensare crisi nazionali contingenti. L’incompletezza dell’Eurozona, o la sub-ottimalità dell’area monetaria, è tale da mostrare situazioni paradossali: le euronazioni mantengono la sovranità sui debiti pubblici, ma l’hanno ceduta sui mezzi per ripagarlo (bilancio, moneta e cambio) a un agente europeo che però
219
CON LA FRANCIA IMPARIAMO DA CAVOUR
220
non torna loro strumenti compensativi compatibili con le euroregole. Per un’Italia a debito pubblico elevatissimo – pur essendo quello privato tra i minori al mondo – ciò implica una tendenza al declino, perché l’ineffcienza economica interna non può essere riformata via capitalizzazioni adeguate. Tale situazione ha spinto nel 2018 alcune forze politiche a offrire soluzioni rivendicative ed eurodivergenti, fno all’uscita dall’euro. Ma ciò ha complicato la situazione: il mercato internazionale ha portato il costo del debito verso livelli insostenibili, perché senza un’eurogaranzia e in vista di una possibile ridenominazione in lire, ha valutato probabile l’insolvenza. Inoltre, la divergenza con l’Ue ha comportato un isolamento dell’Italia, togliendole la moltiplicazione di forza data dal sistema europeo, in un contesto globale dove dal 2017 l’America è meno incline a sostenere nazioni amiche. Questi dati di fatto mostrano che l’Italia ha come unica opzione quella di riconvergere entro l’Ue, perché è troppo debole per tentare altre strade. Tra i fattori di debolezza inabilitante spiccano il debito, una qualità media degli attori politici troppo bassa per formulare progetti nazionali di riordinamento e di maggiore effcienza economica, nonché – il punto principale – una statualità troppo orizzontale, a causa di un difetto genetico nella sua costituzione, per poter dare a un governo poteri esecutivi suffcienti. La costruzione dello Stato nazionale italiano è rimasta incompiuta e per questo l’Italia resta dipendente da agganci esterni in posizione di inferiorità, perché deve importare sicurezza e stabilità fnanziaria ed economica. Sconftto il progetto nazionale fascista, l’Italia non ne ha costruito uno nuovo nel dopoguerra, ma vi ha rinunciato, mentre Germania e Francia si sono date progetti nazionali forti che hanno contribuito a dare ordine alle rispettive nazioni. Per questo la politica italiana si è data un progetto europeo di scioglimento della sovranità e non di uso strumentale dell’Europa per la moltiplicazione della propria forza nazionale, distrutta o indebolita dalla guerra, come fatto da Francia e Germania. Nel prossimo futuro, dunque, l’Italia non potrà staccarsi dall’Ue né tentare di migliorare la propria collocazione in questa con metodi confittuali. Ma perderebbe ricchezza se convergesse passivamente, come ha fatto nel passato e tende a fare con il nuovo governo in carica dall’estate del 2019, perché la sua ancora notevole ricchezza nazionale sarebbe depredata dalle maggiori potenze europee. Pertanto è una priorità individuare una strategia di (ri)convergenza europea attiva e non penalizzante dell’Italia. Tale priorità è anche motivata dall’indebolimento di Ue e Nato come strumenti di moltiplicazione di forza per l’Italia. L’Ue è parte vulnerabile e contendibile nel confronto tra America e Cina per la supremazia globale. La Nato è a rischio nel contesto generale di una ribellione, e ritiro, dell’America rispetto al mondo da essa stessa creato nel dopoguerra. Il Mediterraneo ribolle. Tale situazione comporta rischi di sicurezza non coperti da soluzioni difensive e rischi perfno peggiori per un’economia dove l’export contribuisce per quasi il 40% – misura maggiore di quella statistica uffciale perché include più indotto nel calcolo – al pil. Pertanto
IL MURO PORTANTE
l’Italia deve comunque farsi parte attiva nell’Ue e nella Nato per mantenere integre le alleanze moltiplicatrici. Il compito per pensatori di strategia di destra e di sinistra, per poi (tentare di) defnire un progetto nazionale duraturo che non cambi troppo al variare dei governi, potrebbe recare il titolo: «Come trasformare l’Italia in una sovranità convergente e contributiva nei confronti degli alleati». Il primo passo, forse il più diffcile, è tentare una convergenza con la Francia evitando una sottomissione e minimizzando, o settorializzando, le frizioni. 2. Dal 1993 diversi governi francesi hanno cercato di conquistare aziende partecipate dallo Stato o private (però con sostegno statale), banche, assicurazioni, quote di risparmio e aziende militari italiane. Altre acquisizioni nei settori della moda, della grande distribuzione e alimentare sono apparse più fenomeni normali di mercato, anche se la pressione su una tipologia ha mantenuto il sospetto di una leva strategica sull’altra. La continuità negli anni della pressione francese sull’Italia segnala la presenza di una strategia predatoria e condizionante che non cambia al variare delle conduzioni politiche. Quale? Probabilmente, negli anni Novanta Parigi ha ritenuto necessario conquistare l’economia italiana per pareggiare la scala di quella tedesca nel timore di non riuscire a bilanciare lo strapotere economico della Germania riunifcata e relative conseguenze geopolitiche. Inoltre, essendo la dominanza militare, caricata di proflo nucleare, il principale strumento di affermazione del potere francese nell’Ue, è comprensibile che Parigi abbia messo in priorità la francesizzazione dell’industria militare europea: sia per non avere concorrenti, sia per poter fnanziare con risorse europee un apparato militare i cui costi eccedono le capacità nazionali. Poiché l’Italia ha un sistema industriale militare notevole, è ovvio aspettarsi che la Francia voglia prenderselo o comunque condizionarlo. Così come è ovvio che l’Italia abbia dovuto difendersi contro il rischio di una perdita di valore tecnologico-strategico residente nel suo territorio nazionale. E ci è riuscita sia cedendo qualcosa, accettando compromessi industriali con la Francia, sia portando le collaborazioni dell’industria militare italiana verso l’asse anglo-americano in concorrenza con quello franco-tedesco. In generale, la Francia non ha conquistato l’economia italiana né tantomeno la sua industria militare. Parecchie penetrazioni, alla fne, sono diventate collaborazioni produttive e – fatto importante per la strategia – la Francia è tra i principali clienti per l’export italiano. Dal 2018, però, la Francia a conduzione Macron ha voluto forzare una collaborazione privilegiata con l’industria tedesca – formalizzata nel trattato di Aquisgrana – e tende a escludere l’Italia dai programmi per la difesa europea per cui è previsto un budget importante a livello di Commissione. L’Italia non è stata invitata – né lo ha chiesto, in verità – a partecipare al progetto del cacciabombardiere franco-tedesco di sesta generazione. Roma ha siglato nel primo autunno 2019 con Londra un accordo per un progetto simile e concorrente, il Tempest. L’Italia avrebbe voluto partecipare, invece, al progetto di carro
221
CON LA FRANCIA IMPARIAMO DA CAVOUR
222
armato di nuova generazione, dovendo sostituire l’Ariete così come i tedeschi il Leopard 2 e i francesi il Leclerc, ma è stata respinta. Questi e altri fatti in altri settori militari fanno intendere una strategia francese di monopolizzazione dell’industria tecnologico-militare, includendo solo i tedeschi e per alcuni programmi la Spagna. In relazione all’Italia sembra esserci, più che un tentativo di conquista, uno sforzo di marginalizzazione e compressione. Tra gli indizi c’è il sorprendente contratto tra cantieri navali italiani e un’azienda militare francese che privilegia la fornitura di armamenti francesi contro quella di un concorrente italiano, pur essendo questo e l’azienda cantieristica posseduti dallo Stato italiano. Come dovrebbe reagire l’Italia? Va considerato che sul piano tecnologico le produzioni franco-tedesche, pur di buon livello, non promettono l’eccellenza richiesta per la superiorità strategica in parecchi settori. Inoltre, l’Italia ha comprato l’americano F35, a cui partecipa sul piano industriale insieme al Regno Unito, mentre Francia e Germania no. La nuova guerra aerea sarà combattuta tra piattaforme, tra cui droni a sciame, connesse in rete informativa «occhio di Dio» e «fulmine di Giove» dove l’America ha un vantaggio di 10-15 anni sul resto del mondo ed è improbabile che Parigi vi possa accedere appieno (includendo la certifcazione per portare armi nucleari statunitensi, cosa che non disturba i francesi che hanno le loro, ma pone problemi ai tedeschi), mentre è più probabile per Londra combinata con Roma. Probabilmente il Tempest anglo-italiano verrà confgurato come piattaforma di sesta generazione a partire dall’esperienza dell’F35. In altre parole, c’è ormai una logica industriale che separa le produzioni franco-tedesche da quelle anglo-italiane. Quindi è inevitabile una concorrenza in parecchi sub-settori militari e tecnologici. Inoltre, l’Italia dovrà vigilare che i soldi Ue – di cui siamo terzo contributore netto – fnanzino progetti franco-tedeschi a cui l’Italia non partecipa. Su questi punti saranno possibili solo compromessi per settorializzare e segregare dalle relazioni politiche le ovvie frizioni che sorgeranno. Un esempio di compromesso è stabilire il requisito del giusto ritorno e concordare una lista di programmi industriali tecnologici a cui l’Italia partecipa con altri europei e quelli in cui opera con altri partner. In sintesi, nel delicato e fondamentale – anche per il trasferimento a tecnologie civili – settore industriale-militare sarà possibile al massimo una conciliazione e qualche cooperazione selettiva (droni, cybersecurity, navi), ma diffcilmente una convergenza complessiva. È un problema? Non tanto, anzi. Il settore militare-tecnologico è un campo di forti divergenze tra Germania e Francia, in cui l’Italia non ha interesse a entrare. Già sulla spartizione dei lavori per il nuovo carro armato stanno volando gli stracci, in Airbus c’è una storia, pur nascosta, di litigi feroci. Inoltre, la Germania tende a rinviare, per poi non farla, la difesa europea proposta con intensità da Macron per timore di un suo sviluppo post-Nato, che non vuole. Ma resta il fatto che il settore industriale-militare, chiave della relazione con la Francia, non sarà un luogo dove tentare relazioni collaborative sistemiche, ma solo settoriali. Va trovato un altro livello dove tentare cooperazioni che poi preparino convergenze intraeuropee.
IL MURO PORTANTE
3. La Germania, comprensibilmente, non vuole impegnarsi in operazioni di sicurezza nel Mediterraneo e dintorni, sia africano sia mediorientale, pur cercandovi penetrazioni mercantilistiche. Ciò lascia la palla o l’onere a Francia e Italia (e Spagna) nello scacchiere. Finora tra i due c’è stata divergenza. Ma nello scenario futuro le turbolenze nell’area – confittualità della Turchia, instabilità dell’Algeria, rischio per la Tunisia, oltre ai vecchi problemi rimasti irrisolti – promettono di essere tali da rendere razionale un’azione convergente e integrata, perché nessuno dei due da solo ha forza suffciente di presidio militare e politico, considerando anche la riluttanza dell’America. L’esempio recente di una missione navale congiunta italo-francese per la difesa delle prospezioni petrolifere di Eni e Total nel mare di Cipro, minacciate dalla Turchia, è un buon segnale di fattibilità. A cui si aggiunge quello di accordi tra Eni e Total che fa intendere l’interesse a cooperare piuttosto che a forzare i rispettivi Stati ad aprire situazioni confittuali. Una pace petrolifera rimuoverebbe un notevole ostacolo alla collaborazione italo-francese. Immagino una forza militare congiunta aeronavale, ma anche capace di blitz e sbarchi, caricata di forza politica da una condivisione di obiettivi strategici. Per l’Africa non dovrebbero esserci grossi problemi. L’Italia ha ambizioni di penetrazione commerciale, di interdizione dei fussi migratori e, conseguentemente, di stabilizzazione di Libia, Algeria, Tunisia e Marocco e di contrasto all’insorgenza islamista. La Francia ne ha di simili con in più quelli di mantenimento della sua infuenza nell’Africa occidentale francofona. L’Italia non ha interessi competitivi in quell’area e non avrà problemi a dare una mano. Ambedue hanno relazioni decenti con la Russia, che sta silenziosamente aumentando la sua presenza in Africa e con l’America, questa vigile nel continente pur riluttante per ingaggi. Sul lato egiziano e mediorientale ci potrebbe essere un problema di intensità delle relazioni con l’Arabia Saudita da parte della Francia, che è un interlocutore tradizionale dell’Iran. Ma è un problema risolvibile o comunque aggirabile. Quale status per questa forza militare e azione politica congiunta? Potrà essere una cooperazione rafforzata entro l’Ue, con integrazioni europee per gli aspetti di sorveglianza, con comando alternato delle operazioni militari. Questo dovrebbe stare fuori dal perimetro Nato, pur usandone l’interoperabilità per la cooperazione bilaterale. Da tempo Parigi spinge per la formazione di una forza europea extraNato. Se togliesse il signifcato post-Nato a tale proposta, enfatizzando quello di missione congiunta e specifca di sicurezza ad hoc, Roma non dovrebbe avere problemi. Pertanto si raccomanda di iniziare un nuovo livello di collaborazione bilaterale in una missione di chiara utilità, anzi necessità, per ambedue. Più che negoziare la fne delle frizioni è meglio instaurare un livello di collaborazione che implicitamente le attutisca. 4. Mentre scrivo sorrido perché sto tentando di copiare la strategia di Cavour di dare qualcosa alla Francia per ottenere molto di più, scusandomi con il fantasma di Garibaldi se ritengo Nizza e la Savoia meno importanti della costruzione dell’I-
223
CON LA FRANCIA IMPARIAMO DA CAVOUR
224
talia e chiedendo perdono ai fantasmi dei soldati piemontesi che nel 1855 morirono in tanti nell’azione anglo-francese contro la Russia in Crimea per ottenere in cambio l’ingaggio successivo dei francesi contro l’Austria. Ma è l’uso più produttivo che l’Italia può fare del suo notevole potenziale militare. La convergenza con quello francese – in alcune missioni integrata da partecipazioni inglesi, spagnole eccetera – è più che suffciente per un presidio non sfdabile del Mediterraneo e alcuni suoi retroterra, nonostante la divergenza crescente della Turchia e la maggiore presenza anche militare della Cina nel settore. Ovviamente è uno scambio: l’Italia aiuta la Francia a prendere un ruolo proconsolare nel Mediterraneo, pur non rinunciando a tutelare i propri interessi – ma cercando di integrarli il più possibile con quelli di Parigi – né sostenendo operazioni non concordate con gli Stati Uniti (e Israele). Queste sono le nuove Nizza e Savoia, direi al cubo. Per che cosa? Evidentemente per una maggiore inclusione dell’Italia nell’elaborazione degli indirizzi esterni dell’Ue non in termini di invito al direttorio europeo – che metterebbe l’Italia in diffcoltà con le nazioni più piccole e comunque le darebbe solo una posizione terza – ma di sostanziale condivisione di indirizzi politici basata sulla costruzione graduale di una reciproca fducia grazie all’esperienza di operazioni militari congiunte. Ad esempio, Italia e Germania hanno il massimo interesse a siglare un accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti, ma la Francia è di traverso. Trovare un modo affnché lo sia di meno è fondamentale per l’interesse nazionale italiano, come lo è evitare che il compromesso avvenga solo sull’asse franco-tedesco per scongiurare possibili compressioni dei due verso l’Italia come spesso avviene. La Germania ha una dipendenza economica crescente dalla Cina che pone problemi di relazione tra Ue e Stati Uniti. La Francia ha relazioni bilaterali con la Cina nei settori nucleare e spaziale, in questo con sospetto di trasferimento di tecnologie duali. Francia e Germania tentano di mantenere gli accessi al mercato americano e cinese, accontentando ora l’uno ora l’altro. L’Italia ha incautamente formalizzato un accordo politico con la Cina, ma non ha molti scambi con quel mercato e recentemente ha depotenziato, fno quasi ad annullarlo, quell’accordo vista la reazione statunitense, ma ha interesse a incrementare gli scambi con la Cina. In sintesi, tutte e tre le nazioni economicamente più importanti dell’Ue hanno il problema di come e dove collocare l’Unione nel confitto tra America e Cina. In teoria la soluzione è semplice: privilegiare la convergenza con gli Stati Uniti, ma negoziando uno spazio di relazioni europee con la Cina che non sia considerato pericoloso sul piano strategico dall’America e allo stesso tempo preservi un certo volume di affari con Pechino. Nei fatti c’è una tendenza verso questa direzione, ma l’America vuole una formalizzazione o comunque un atto politico che permetta maggiore fducia. Un’Italia più infuente per la sua utilità militare, non percepita come ostile dalla Francia (perché il presidio militare del Mediterraneo è fattore di fducia), non sospettabile di tentazioni post-Nato da parte dell’America e con interessi esportativi convergenti con quelli tedeschi, potrebbe essere il fattore chiave per spingere l’Ue verso l’accordo euroamericano.
IL MURO PORTANTE
5. Il pensiero strategico italiano dovrebbe anche rifettere su quale confgurazione delle alleanze moltiplicatrici di forza possa essere la più effcace per l’interesse nazionale. Costruire un’Ue più solida? Certamente, ma non basta. L’Ue è piccola nel nuovo scenario globale e il suo effetto moltiplicatore insuffciente, pur rilevante il reticolo di accordi commerciali esterni creati, ma pericolosamente non sostenuti da un potere militare e politico proporzionale. La Francia ha la tentazione di ergersi a terza forza alla pari di America e Cina. La Germania è anche terzaforzista, ma con intenti di neutralità per lo scopo di preservare il proflo mercantilista dovuto all’enorme peso dell’export sul suo pil combinato con un modello poco liberalizzato che ostacola la crescita del mercato interno via consumi e investimenti. Ma è evidente che se l’Ue tenta di fare la Svizzera sarà oggetto di conquista da parte di America e Cina con la Russia, pur debolissima, pronta ad agire allo stesso modo perché la sua poca forza militare e coesione interna la rendono contendibile. E se tenta di ergersi a potenza imperiale con deterrente nucleare francese, o verrà spaccata dall’America – con il probabile contributo del Regno Unito post-Brexit – oppure non troverà consenso interno suffciente, frammentandosi in altro modo. Cosa, pertanto, potrà rendere l’Ue un moltiplicatore effcace e stabile degli interessi italiani? La partecipazione dell’Ue stessa a un’alleanza globale e progressiva tra democrazie, partendo da un nucleo euroamericano. L’avvio sarebbe nella forma di un mercato a integrazione crescente basato su un reticolo, o matrice, di accordi bilaterali di libero scambio: Ue, Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia, Regno Unito. Tale complesso sarebbe coordinato da un G7 aperto a estensioni che poi potrebbe spingere una convergenza crescente tra tutti sul piano degli standard giuridici e industriali nonché sulle politiche monetarie, creando negli anni (nei decenni) un mercato globale delle democrazie a integrazione crescente, con una formula di sovranità convergenti e reciprocamente contributive. Chiamiamola Free Community. Questa sarebbe il maggiore potere militare, economico e fnanziario del pianeta. Diventerebbe il sostituto compatibile della Pax americana con l’America – ormai francamente anch’essa piccolina – inclusa, quindi una Nova Pax. Sarebbe un complesso politico ed economico molto più grande della Cina che costringerebbe Pechino a rinegoziare il proprio accesso a questo mercato, aprendosi a un condizionamento. Questo eviterebbe un confitto fnale tra capitalismo autoritario e democratico. Inoltre, la massa di risorse disponibili alla Free Community sarebbe grande abbastanza per una funzione di prestatore di ultima istanza che aiuterebbe la Cina stessa a riprendersi dopo le possibili implosioni economiche e/o rivolte probabili in fase di un cambio di potere non regolato da procedure democratiche. Problema che ha di fronte a sé anche la Russia. E problema per la stabilità prospettica dell’intero mercato globale. Risolvibile con l’alleanza globale delle democrazie. Sarebbe ridicolo per l’Italia pensare così in grande? Per l’Ue non lo sarebbe. Inoltre l’Ue ha bisogno di una missione estroversa per dare un motivo comune alle sue nazioni di convergere, imparando a comporre la defnizione dell’interesse nazionale con quello europeo. E delle altre democrazie.
225
CON LA FRANCIA IMPARIAMO DA CAVOUR
In conclusione, la ricerca dell’Italia di una convergenza con la Francia che tolga un ostacolo alla sua convergenza attiva nell’Ue, spingendola a una convergenza euroamericana che poi diventi base per ulteriori integrazioni tra democrazie nel mondo, appare una catena logica e politica che il pensiero politico e strategico italiano non dovrebbe avere timidezze ad affrontare, incorporandola nella missione di un nuovo progetto nazionale, estroverso.
226
IL MURO PORTANTE
Parte III il CASO TRIESTE e la NOSTRA FRONTIERA ORIENTALE
IL MURO PORTANTE
DA TOPOLINIA ALLA TERZA TRIESTE
di Raoul PuPo
La parabola della città giuliana dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi. Le luci artificiali del Territorio Libero. I fiorenti secoli asburgici e i miraggi geopolitici dell’Italia sabauda e fascista. Autonomismi e fragili indipendentismi. Le finestre di opportunità.
C’
1. ERA UNA VOLTA TOPOLINIA. COSÌ ALCUNI commentatori chiamavano con palese ironia il Territorio Libero di Trieste (Tlt), la minuscola compagine statale prevista dal trattato di pace del 1947 proprio al confne tra l’Italia uscita sconftta dal secondo confitto mondiale e la Jugoslavia, che invece la vittoria aveva guadagnato con la guerra partigiana, ottenendone Zara, Fiume e quasi tutta la Venezia Giulia. In realtà, il Tlt non uscì mai dalle pagine dei fumetti, perché la sua realizzazione si incagliò sulle secche della guerra fredda e già alla fne del 1947 inglesi ed americani decisero che era meglio lasciar perdere. Del resto, per loro il Tlt non era mai stato un fne, ma un mezzo. L’obiettivo vero era quello di evitare che Trieste, porto naturale dell’Austria e dell’Europa danubiano-balcanica, fnisse nelle mani dell’Unione Sovietica per il tramite della Jugoslavia. In un primo momento era parso che una tutela internazionale sarebbe stata suffciente e comunque preferibile all’assegnazione della città giuliana a un’Italia debole e disarmata. Poi, a Londra e a Washington ci si rese conto che la creaturina non sarebbe stata vitale, in quanto priva di forme autonome di sostentamento, e che pertanto la sua agonia avrebbe causato altri pasticci. Meglio quindi lasciare tutto come stava, con una guarnigione alleata accampata a Trieste a far da deterrente contro colpi di mano esterni e turbolenze interne. La fettina territoriale avvolta attorno alla città, con una minuscola appendice che le permetteva di confnare per un paio di chilometri con lo Stato italiano, rimase così res nullius, ma i triestini in genere non se resero conto. Il governo militare alleato (Gma) tenne in piedi con la massima serietà la fnzione di amministrare niente più che la Zona A del Tlt, anche perché nessuno sapeva con certezza come sarebbe andata a fnire. Così, costituì ministeri e stampò targhe e carte di identità, che qualcuno prese molto sul serio. Quando poi, agli inizi degli anni Cinquanta, Londra e Washington decisero di premere su Roma per renderla più accomodante
229
DA TOPOLINIA ALLA TERZA TRIESTE
in merito alla spartizione del Territorio con la Jugoslavia, ecco che anche le autorità militari nella Zona A si diedero un gran daffare per sottolinearne la radicale alterità rispetto alla repubblica di De Gasperi, mentre fno a un momento prima si erano studiati di fornire l’impressione opposta. Così facendo, sapevano benissimo di attirarsi l’ostilità dei patrioti italiani, che nel novembre 1954 avrebbero lasciato sei morti per le strade, ma erano anche consapevoli di poter solleticare gli interessi di non pochi triestini. Il fatto è che l’amministrazione alleata aveva portato in città un certo benessere. La guarnigione spendeva per mantenere 10 mila uomini in armi e i 5 mila americani spendevano anche parecchio per divertirsi. Da ciò il forire di affari piuttosto redditizi, anche se non sempre leciti e ancor meno morali. Ma questa era solo la superfcie. Sotto stava molto altro. Innanzitutto, la costruzione dell’apparato amministrativo del Gma apriva possibilità assai gradite di impiego ai ceti medi cittadini, creando una fascia di nuovi pubblici dipendenti legatissimi al potere anglo-americano. Ancor più signifcativi erano gli imponenti fussi fnanziari che il piano Marshall metteva a disposizione del Gma e che questo usava con dovizia per riparare i danni di guerra e rimettere in piedi l’apparato produttivo locale. L’occupazione non poteva che trarne benefcio, ammorbidendo la confittualità sociale. Infne, l’incertezza del destino statuale della Zona A aveva innescato una competizione spasmodica tra le forze politiche, alimentata da ingenti contributi monetari ai contrapposti apparati propagandistici, provenienti da Roma, Belgrado e Mosca. Sicché a partire dalla fne del 1947 un fume di denaro si era per mille rivoli riversato sulla città, già travolta da passioni nazionali e politiche ferocissime. Che ne sortisse uno stato alterato di coscienza a livello collettivo, non può stupire. Dietro le luci al neon della «piccola Broadway», come i giornalisti avevano ribattezzato la via principale della città, si celavano comunque parecchie ombre. Nascosta dal romanticismo neorisorgimentale e dall’estremismo politico di ogni segno, si allargava la disaffezione per la politica pratica, quella che deve saper amministrare la cosa pubblica facendo funzionare i servizi e facendo tornare i conti. Alle spalle della ripresa economica stava una ricostruzione che aveva puntato all’immediato, per ragioni di ordine pubblico, senza porsi il problema della compatibilità del sistema produttivo locale con la ricostruzione italiana e le stesse prospettive dell’area giuliana. Di conseguenza non era stata affatto corretto, anzi rafforzato, lo squilibrio dell’economia locale verso il mare. Ma il mare per Trieste non era più, da decenni, fonte inesausta di ricchezze, a conferma che la posizione geografca, da sola, non signifca molto.
230
2. In cima al golfo adriatico Trieste ci stava infatti da una ventina di secoli, ma soltanto per due di essi il contesto era stato favorevole allo sviluppo emporiale. Bisognava che si dessero alcune condizioni specifche, capaci di farle assumere quel ruolo di terminal continentale che già era stato di Aquileia e di Venezia. In concreto, l’esistenza di un potere statale dominante sia l’emporio sia il suo bacino d’utenza, intenzionato a far convergere – anche artifcialmente – le risorse del re-
IL MURO PORTANTE
IL TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE
Tim
MONFALCONE
CONFINI STATALI CONFINE DEL TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE CAPITALE DEL TLT COMUNI DEL TLT ZONA A DEL TLT ZONA B DEL TLT
TRIESTE
I TA L I A
TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE Stabilito (ma mai costituito) con il trattato di pace di Parigi entrato in vigore il 16 settembre 1947. Termina di fatto con gli accordi di Londra del 5 ottobre 1954. Secondo il trattato sarebbe dovuto essere un territorio demilitarizzato e neutrale. Il Tlt si estendeva a partire dal fume Timavo a nord, comprendeva la città di Trieste (incluso un porto franco che sarebbe dovuto essere amministrato da uno Strumento internazionale), fno al fume Quieto a sud nella penisola d’Istria.
av
o
DUINO Isonz o
Il 5 ottobre 1954, con un memorandum d’intesa frmato a Londra, Italia e Jugoslavia spartivano il Tlt in: Zona A amministrata dall’Italia Zona B amministrata dalla Jugoslavia.
AURISINA SGONICO MONRUPINO ZONA
TRIESTE Golfo di Trieste Mar Adriatico
SLOVENIA
Porto franco di Trieste MUGGIA
CAPODISTRIA PIRANO
A
SAN DORLIGO DELLA VALLE
VILLA DECANI
ISOLA ZONA A ITALIANI: 239.200 (79%) SLOVENI: 63.000 (21%) TOTALE: 302.200 abitanti Soldati statunitensi del Trust (Trieste United States Troops): 5.000 Dragogna Soldati britannici della Betfor (British Element Trieste Force): 5.000
MARESEGO MONTE DI CAPODISTRIA
ZONA
B
UMAGO
Fonte: Governo militare alleato, 1949
ZONA B ITALIANI: 51.000 (75%) SLOVENI E CROATI: 17.000 (25%) TOTALE: 68.000 abitanti Soldati dell’Armata popolare jugoslava: 5.000
BUIE GRISIGNANA VERTENEGLIO
Fonte: Commissione internazionale, 1946
CITTANOVA
Quieto
CROAZIA
231
DA TOPOLINIA ALLA TERZA TRIESTE
232
troterra sullo scalo di sua proprietà, l’unico su cui potesse far conto per affacciarsi sul Mediterraneo. Questo era stato l’impero asburgico. Ne era seguita, dagli inizi del Settecento fno a quelli del Novecento, una raffca di investimenti e privilegi di varia natura, capaci di trasformare un borgo di agricoltori e salinari nel secondo porto del Mediterraneo e in un distretto industriale di primaria grandezza, sede di competenze avanzate, polo di attrazione per imprenditori e scrigno di una notevole accumulazione di capitale. Si trattava di condizioni decisamente irripetibili. Proprio la consapevolezza di tale singolarità aveva conferito toni drammatici al dibattito sul futuro della città, quando l’esplosione dei confitti nazionali aveva spinto molti patrioti italiani a dubitare che gli evidenti vantaggi della dominazione asburgica fossero compatibili con il mantenimento dell’egemonia nazionale italiana. A parte però pochi estremisti, che affermavano di preferire l’erba sui moli al rischio identitario, anche gli irredentisti si rendevano conto che la semplice uscita dal nesso asburgico avrebbe signifcato la catastrofe economica per la città. E quindi oscillavano tra due posizioni: attribuire all’irredentismo una dimensione essenzialmente culturale, senza mettere in discussione la provvida cornice imperiale, ovvero sposare l’oltranzismo nazionalista e imperialista italiano. In questo secondo caso, la scommessa consisteva nel condurre l’Italia a conquistarsi un ruolo prevalente nell’area danubiano-balcanica, rovesciando il tradizionale ruolo della città emporio: non più fnestra dell’entroterra sul Mediterraneo, ma trampolino per l’espansione italiana nella Mitteleuropa. Gettare il cuore oltre l’ostacolo può funzionare assai bene in una carica di cavalleria, un po’ meno quando si tratta di delineare strategie economiche e geopolitiche complesse. Il 1918 segnò la conclusione della prima, grande fase della moderna storia economica di Trieste, quella dell’espansione. A essa ne seguì un’altra, di durata secolare, quella della stagnazione. Niente di strano: sono molte le città, già prospere, cui la storia ha voltato inopinatamente le spalle. Ciò nondimeno, sia i triestini sia le autorità italiane studiarono come reagire alle prospettive di crisi: i risultati furono piuttosto modesti, ma ciò non va addebitato tanto a insensibilità e impreparazione dei pubblici poteri nel comprendere le specifcità locali – come vorrebbe una lunga tradizione di lamentazioni giuliane – quanto ai vincoli imposti dalla nuova situazione internazionale. Spazio centroeuropeo frammentato da confni e barriere doganali; nessun interesse dei nuovi Stati a favorire un emporio divenuto straniero; frantumazione delle tratte ferroviarie, sino a rendere un incubo la nuova logistica; trasformazione dell’area litoranea da periferia immediata di un impero continentale a periferia marginale di un regno mediterraneo; concorrenza degli altri porti della lunghissima penisola italica; debolezza del capitale fnanziario locale: tutto ciò che prima della guerra aveva giocato a favore dello sviluppo, fra le due guerre si convertì in penalizzazione. Per bloccare la crisi, l’unico vero strumento a disposizione dell’Italia sarebbe stata l’implementazione della proposta imperialista, che però mostrò tutta la sua debolezza fn dall’immediato dopoguerra: uscita scossa nelle sue velleità dalla conferenza di pace di Parigi e dal conseguente trattato, l’Italia non riuscì mai né a im-
IL MURO PORTANTE
porre la propria egemonia sulla frastagliata area centroeuropea né a costituire un sistema di alleanze che la ponesse quale protagonista della regione. Di conseguenza, avendo perso il centro di cui era emanazione e il ruolo che l’aveva animata senza riuscire a inventarne un altro, Trieste rimase economicamente senza senso. L’imprenditoria locale cercò in un primo momento di far fronte alle nuove sfde con le proprie forze, ma le illusioni del triestinismo economico vennero spazzate via dalla crisi del 1929. Poi, fu solo assistenzialismo di Stato. Dal punto di vista economico, per l’Italia Trieste non era un valore aggiunto, ma un peso da sostenere per ragioni patriottiche. Unica ma cospicua eccezione il forire delle società assicurative, le cui reti da tempo intessute a cavaliere fra impero asburgico e regno dei Savoia si mostrarono in grado di reggere benissimo ai mutamenti del quadro istituzionale. L’autarchia portò, come in tante altre realtà marginali, una boccata di ossigeno, tutta fnalizzata alla guerra incombente. E il nuovo confitto mostrò subito che non vi era alcuna speranza di ricostruire con le armi una prospettiva di sviluppo per l’economia giuliana se non, forse, ribaltando i presupposti stessi della scelta irredentista. I successi nazisti, che trasformavano in dominio diretto un’egemonia regionale già palese fn dal 1938, resero chiaro a ciascuno che l’Europa di mezzo aveva ora un nuovo padrone, che non era più la vecchia Austria imperiale ma nemmeno l’Italia fascista. Era con il Terzo Reich che bisognava fare i conti. E se a Berlino si fosse deciso che il retroterra danubiano nuovamente unifcato aveva bisogno del suo porto adriatico, non restava che darglielo, sperando che in virtù dell’amicizia con Mussolini, Hitler si accontentasse del controllo economico, senza dirette pretese territoriali. Ovviamente, quando nel 1943 Mussolini fnì fuori gioco e l’Italia cercò maldestramente di cambiare alleanza, l’interesse tedesco per Trieste si tramutò in dominio diretto, nella forma della Zona di operazioni Litorale Adriatico, destinata a prefgurare il distacco dalla compagine statale italiana dell’area a cavaliere delle Alpi orientali. La guerra invece andò diversamente e sul suo fnire Trieste divenne la meta di un’originale corsa fra alleati: jugoslavi da una parte e anglo-americani dall’altra. Gli alleati probabilmente sopravvalutarono la funzione strategica della città, così come fecero per Pola; ma fu solo in base a tali giudizi che entrambe vennero sottratte – se pur con sanguinoso ritardo – a una durevole occupazione jugoslava. Su Pola inglesi e americani si ricredettero subito, su Trieste invece tennero duro, facendone per un certo periodo uno dei «bastioni dell’Occidente», vale a dire uno dei capisaldi della guerra fredda e possibile innesco di un nuovo confitto caldissimo. Il supporto economico al baluardo occidentale verso il comunismo fu ingente ma affatto contingente. Non incise quindi sulle prospettive di sviluppo della città, se mai ne ritardò l’adeguamento alla realtà del nuovo dopoguerra e, nel contempo, alimentò la proverbiale capacità mitopoietica dei triestini: così, al vagheggiamento della «defunta» (l’Austria-Ungheria, in alcuni suoi tratti idealizzata anche da molti patrioti) e al mito del porto franco, si aggiunse quello dell’Eldorado anglo-americano, che nelle illusioni di alcuni si sarebbe potuto prolungare all’infnito se il Tlt avesse davvero preso vita. Di che cosa Topolinia sarebbe campata, è diffcile dire,
233
DA TOPOLINIA ALLA TERZA TRIESTE
dal momento che gli stessi inglesi e americani la davano per spacciata, se non mantenuta a caro prezzo dai contribuenti italiani. Dietro l’indipendentismo peraltro, al di là della cospicua dose di autoinganno, stava uno dei tanti afforamenti del robusto flone autonomista della cultura politica giuliana, trasversale a diverse appartenenze ideologiche. Così, all’epoca asburgica l’autonomia era stata la bandiera della dirigenza liberal-nazionale che dialogava direttamente con Vienna, cui chiedeva investimenti e privilegi in cambio del diritto di amministrarseli da sé. Cancellato dalla frenesia omologatrice del fascismo, l’autonomismo sarebbe rispuntato prontamente nel dopoguerra in diverse versioni. La più radicale fu naturalmente quella dell’indipendentismo, che per qualche tempo trovò largo consenso non solo tra i diretti benefciari dell’amministrazione alleata, ma fra molti dei cittadini che non conservavano affatto un buon ricordo di quella italiana: fra ceti medi delusi dal confronto con l’effcienza asburgica, sloveni perseguitati, operai repressi dal fascismo, non stupisce che il sogno di una soluzione statuale alternativa a quella italiana, apparsa più borbonica che savoiarda, attirasse non pochi elettori.
234
3. Scomparsa dopo il 1954 dall’ordine del giorno, l’opzione indipendentista, per quanto onirica, sarebbe riapparsa piuttosto chiassosamente per più di mezzo secolo dopo, nel bel mezzo della crisi italiana della Seconda Repubblica, mescolando velleità geopolitiche di grandi dimensioni all’italicissimo desiderio di pagar meno tasse. All’epoca si sospettarono losche trame internazionali, ma poi i neoindipendentisti cominciarono a scazzottarsi reciprocamente, segno che il loro breve tempo era fnito. Versioni meno estreme dell’autonomismo sarebbero peraltro state fatte proprie anche da altre proposte politiche, animando il dibattito sulla specialità di Trieste dopo il ritorno dell’amministrazione italiana, confuendo negli anni Sessanta nella spinta impressa da Dc e Psi verso la costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e orientandosi invece nella seconda metà degli anni Settanta verso la richiesta di una più spinta autonomia provinciale da parte della neonata Lista per Trieste. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando Trieste ritornò in seno all’amministrazione italiana, diffcilmente le prospettive economiche potevano essere più nere. Il retroterra ormai non solo era frammentato, ma separato dal porto dalla cortina di ferro. La posizione geopolitica della città appariva quella di una sentinella perduta, precariamente unita al territorio nazionale da un sottile cordone ombelicale: non certo la condizione ideale per attrarre investitori destinati a costruire le loro fabbriche sotto le torrette di osservazione delle sentinelle jugoslave. Ovviamente, doveva supplire lo Stato, ma in quale forma nemmeno i triestini lo sapevano bene. Nell’immediato, non seppero far altro che rispolverare la richiesta di una zona franca, senza sapere però quali contenuti inserirvi. Non se ne fece nulla, anche perché ciò di cui l’economia locale aveva bisogno non era la separazione, ma l’integrazione più stretta con il mercato nazionale e con gli apparati pubblici, gli unici adeguati e disponibili a dirottare risorse per la sopravvivenza
IL MURO PORTANTE
della città ri-redenta. Simbolo della crisi fu la massiccia emigrazione in Australia, legata non solo alle diffcoltà del mercato del lavoro, ma alla più generale caduta di fducia nelle prospettive della città. Pure, Trieste non affondò. Demografcamente, grazie all’apporto degli esuli istriani, che controbilanciarono l’emorragia e rallentarono l’invecchiamento della popolazione. Economicamente, perché gli imprenditori politici pubblici svolsero il loro compito di contenimento della crisi, che non fece peraltro che aggravarsi, dal momento che la proiezione quasi completamente marittima dell’apparato produttivo locale lo espose alle conseguenze non solo della fessione dei traffci, ma del venir meno della navigazione passeggeri – fattore su cui in passato si era retto gran parte dell’indotto della cantieristica – e poi del collasso della cantieristica medesima, con le ristrutturazioni della metà degli anni Sessanta. Massicci investimenti pubblici, attrezzatura della zona industriale di Zaule, tentativo di ragionare in termini comprensoriali con Monfalcone, furono alcuni degli strumenti messi in atto per garantire il galleggiamento della città, con risultati discreti. Ma si trattava, appunto, di tamponare, perché inventare un nuovo ruolo per Trieste era missione quasi impossibile. Tuttavia, qualcuno ci provò. Il tentativo di maggior successo fu condotto a livello micro, a testimonianza del drastico ridimensionamento di prospettive intervenuto in sede locale. Molto semplicemente, una classe politica di nuova generazione, meno ossessionata della precedente dalle esigenze della difesa nazionale, si studiò di trasformare una maledizione in occasione, vale a dire il confne da recinto impenetrabile in veicolo di scambi. E in effetti tra la metà degli anni Sessanta e la fne dei Settanta, attorno al «confne più aperto d’Europa» forì un’economia transfrontaliera – fatta di piccoli e medi traffci verso il mercato jugoslavo, affamato di beni di consumo – che incrementò cospicuamente i conti in banca di parecchi operatori locali. I triestini non direttamente coinvolti nei sùbiti guadagni storsero invece parecchio il naso di fronte alla trasformazione del centro storico in mercato balcanico, ma i vantaggi per il tessuto economico locale furono indubbi. Si trattava però di un esperimento di portata limitata, perché troppo fragile era uno dei due interlocutori, quello jugoslavo. Difatti, a partire dal 1978 l’esplodere della crisi fnanziaria del paese vicino, con i correlati blocchi agli acquisti all’estero, zavorrò irrimediabilmente gli scambi transfrontalieri. Nel frattempo aveva preso corpo un’altra ipotesi, questa volta di ambizioni ben superiori. L’idea non maturò a Trieste, dove non si ragionava più in grande, ma nei ministeri romani e in particolare in quello dell’Industria, incaricato di gestire la fase fnale del negoziato italo-jugoslavo che avrebbe condotto nel 1975 al trattato di Osimo. Si trattava, nientemeno, che di riavviare lo sviluppo della città dotandola di un’ampia base industriale, da realizzare mobilitando, attraverso opportuni incentivi, le risorse di capitali e competenze disponibili in due aree assai dinamiche dei paesi confnanti: il Nord-Est italiano in fase di decollo e la Slovenia, dove si sapeva esistere una volontà d’intrapresa che non trovava possibilità di espressione all’interno del sistema economico socialista. La nuova zona industriale sarebbe dovuta sorgere sul Carso, a cavallo del confne, al di fuori delle linee doganali in modo da poter meglio
235
DA TOPOLINIA ALLA TERZA TRIESTE
servire i mercati esteri. Il nuovo polmone industriale, oltre a generare occupazione, avrebbe dovuto conferire pure nuovo impulso ai traffci portuali, grazie anche alla realizzazione dei raccordi autostradali da tempo desiderati sia a Trieste sia a Lubiana. Sulla fattibilità reale del progetto sono stati espressi vari dubbi, destinati peraltro a rimanere tali perché la proposta venne drasticamente respinta dall’opinione pubblica locale per ragioni politiche e non economiche. Certamente, nel rifuto di quel modello di industrializzazione intensiva che in Italia aveva generato il boom stavano anche ragioni post-moderne, come l’inedita sensibilità ambientale, ma soprattutto ben più tradizionali motivazioni ideologiche, espresse dal timore che i nuovi insediamenti produttivi attirassero in città orde di lavoratori slavi, inquinandone, oltre che l’aria, l’identità nazionale. Apparentemente, si trattava della riproposizione di quello che Carlo Schiffrer, riferendosi all’epoca dell’irredentismo, aveva chiamato il «dualismo freudiano» che tormentava la Trieste contemporanea, stretta fra volontà di difesa nazionale e direttrici di sviluppo aperte all’Europa centrale. Ma se nel 1905 il rischio era reale, nel 1975 era solo inventato. La lezione della storia, che i gestori politici dell’opposizione alla Zona franca industriale conoscevano bene, era di maggior spessore. Ogni ondata di modernizzazione sconvolge gli equilibri preesistenti. Ne è paradigma la stessa storia di Trieste, quando la città nuova, nata per volontà esterna fuori dalle mura di quella medievale, assorbì rapidamente la città vecchia, con buona pace del suo venerando patriziato. Anche nel caso della nuova industrializzazione il riavvio dello sviluppo si sarebbe svolto fuori da ogni possibilità di controllo da parte delle vecchie classi dirigenti triestine, che già avevano perso infuenza nel dopoguerra ma erano comunque riuscite a difendere alcuni spazi grazie alla contrattazione con il potere dello Stato, vero dominus dell’economia. Invece, una fase di crescita accelerata, gestita da un’imprenditorialità lontana che delle risorse locali non avrebbe avuto bisogno, avrebbe condannato all’irrilevanza quelle lobby locali che all’esterno amavano presentarsi come uniche depositarie dei valori identitari tradizionali, sulla base dell’identifcazione a suo tempo compiuta dai vecchi ceti dirigenti fra l’intera città e l’esperienza politica liberal-nazionale. Alla fne dunque degli anni Settanta, languendo sempre la portualità, inaridito il traffco di frontiera, rifutata clamorosamente la prospettiva dell’industrializzazione, ben poco sotto il proflo economico rimaneva da sperare. Gli anni Ottanta e Novanta a Trieste da questo punto di vista furono decisamente assai cupi. Leggerli come anticipazione profetica di un consapevole transito verso la decrescita felice, perché condotta mantenendo un buon livello di benessere, sarebbe una forzatura ex post, certo non condivisa dalle generazioni private di ragionevoli prospettive di occupazione.
236
4. Esistevano, durante l’ultima lunga fase di stagnazione, anche spinte in controtendenza? Fortunatamente sì, anche se non tali da invertire il segno negativo della situazione. Per un verso, la tenuta del terziario non solo pubblico ma anche privato, specie nel tradizionale settore assicurativo, che negli anni Sessanta e Set-
IL MURO PORTANTE
tanta aveva conosciuto nuovo vigore. Per l’altro, l’unica vera novità del sonnolento panorama economico locale. Ci si arrivò di risulta, come compensazione di Stato alla creazione dell’Università di Udine, a sua volta fglia del terremoto del 1976. Ma non fu solo un contentino, bensì una scintilla decisamente luminosa. L’area di ricerca scientifca e tecnologica costituita nel 1978 sviluppava il precedente del Centro internazionale di fsica teorica fondato ancora nel 1964 e divenne rapidamente il pilastro di quello che oggi viene chiamato il «sistema Trieste», vale a dire un pool di centri di ricerca scientifca ad altissimo livello. Come sempre, fra aspettative e realtà c’è qualche piccolo iato. Dall’area e dai successivi insediamenti scientifci quali il sincrotrone, la classe politica locale opportunamente edotta dagli scienziati – che nel piazzare i loro prodotti hanno tutt’altro che la testa fra le nuvole – si attendeva l’innesco di uno sviluppo industriale sostenuto in settori d’avanguardia. Le ricadute produttive effettive sono state ben più circoscritte, ma in ogni caso il «sistema Trieste» ha offerto occasioni d’impiego qualifcato per giovani competenze altrimenti sprecate. Soprattutto, ha costituito un’isola di internazionalità, una sorta di fnestra da cui far entrare aria nuova nelle strade di un’anziana città di provincia. Al di là ancora una volta delle mitologie locali, l’unico vero cosmopolitismo esistente oggi a Trieste è quello della scienza tanto che se – prima dell’attuale boom turistico favorito dalle produzioni cinematografche e televisive – qualcuno nel mondo conosceva ancora Trieste, ciò era dovuto all’attività delle sue istituzioni scientifche. Poi, il Novecento ha fortunatamente deciso di rivelarsi secolo breve con un certo anticipo sul calendario. E negli anni Novanta, dopo la caduta del Muro, del comunismo, dell’Urss e della Jugoslavia, molti hanno pensato che potesse scoccare di nuovo l’ora di Trieste, visto che ancora una volta il contesto si era trasformato. Non esistono però automatismi e la storia non marcia a ritroso. Il venir meno di alcuni dei limiti che avevano tarpato la funzione emporiale della città rappresenta soltanto una delle condizioni di un possibile riavvio dello sviluppo. Ce ne vogliono altre e importanti: interessi forti e attivi su scala ormai globale, competenze adeguate, volontà politica in sede locale, nazionale e internazionale. A cavaliere del nuovo secolo tutte e tre sono mancate. Pure, lo scenario oggi appare più aperto di quanto sia mai stato da cent’anni a questa parte. Alcune lobby locali capaci di zavorrare ogni novità sembrano pesare meno di ieri, alcune persone giuste stanno al posto giusto, soprattutto c’è chi nel mondo sembra intenzionato a puntare su Trieste. D’altra parte, gli scenari globali sono in forte movimento, le fnestre di opportunità possono aprirsi e richiudersi in un baleno, le eredità novecentesche si fanno ancora sentire: le stesse ragioni che hanno consentito alla città giuliana di rimanere in Italia dopo la seconda guerra mondiale – vale a dire la volontà della potenza guida dell’Occidente che il suo porto non cadesse in mano orientale – in circostanze affatto diverse possono limitare le sue prospettive di sviluppo. Esistono insomma virtualità inedite, ma per capire se, dopo una stasi secolare, per l’economia giuliana potrà avviarsi una terza fase, bisognerà riparlarne fra dieci anni.
237
IL MURO PORTANTE
TRIESTE CITTÀ LIBERA ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
di Piero Purich
L’indipendentismo triestino affonda le radici nell’autonomia garantita dagli Asburgo. Le speranze del primo dopoguerra. Il Tlt e l’ambigua politica degli Alleati. Le mire jugoslave e il tramonto della triestinità. Come Roma ha italianizzato una città indefinibile.
A
1. LL’INIZIO DEL SETTECENTO, A CAUSA dello spostamento del baricentro commerciale sull’Atlantico, dei rovesci militari contro i turchi, della progressiva perdita di infuenza sull’Adriatico orientale e dell’inettitudine della propria classe politica, Venezia si presentava come uno Stato estremamente debole. Ne approfttò il sovrano austriaco Carlo VI per proclamare unilateralmente la libera navigazione nell’Adriatico, considerando un atto di pirateria la richiesta di qualsiasi pedaggio da parte della Serenissima. L’imperatore rincarò la dose nel 1719 istituendo due porti franchi a Trieste e a Fiume. La possibilità di dedicarsi a traffci esentasse attirò nella piccola cittadina adriatica un gran numero di commercianti, soprattutto greci ed ebrei, ma anche serbi, armeni, tedeschi e pure veneziani che trovarono a Trieste l’impulso imprenditoriale che la Serenissima aveva completamente perso. A Carlo VI succedette Maria Teresa, che ampliò ulteriormente le esenzioni: nel 1769 Trieste fu dichiarata «Libera città marittima» e le prerogative del porto franco furono estese a tutta la città. Ciò provocò un’espansione economica e demografca senza precedenti. Nel giro di qualche decennio la città quadruplicò la propria popolazione e si ingrandì, con l’interramento delle saline e la creazione del Borgo Teresiano e poi del Borgo Giuseppino. Un’espansione interrotta, solo per pochi anni, dalle occupazioni francesi del periodo napoleonico, quando le imposizioni contributive, daziarie e fscali di Parigi portarono alla cancellazione del porto franco. Vienna lo ripristinò alla fne dell’esperienza napoleonica, dando nuovo impulso allo sviluppo di Trieste. Nel 1815 la città aveva già 45 mila abitanti; alla fne del secolo raggiungeva addirittura il numero di 176 mila. Con la restaurazione le furono restituite anche le tradizionali prerogative di autonomia: dopo il congresso di Vienna venne istituita l’entità territoriale-amministrativa del Litorale austro-illirico, mantenuto sostanzialmente inalterato fno alla caduta dell’impero. All’interno del
239
TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
Litorale Trieste godette di ampi margini di autonomia, dato che nel 1849 la città e il suo ristretto territorio, esteso poco più dei suoi attuali confni comunali, furono dichiarati «Città immediata dell’impero», entità non soggetta cioè ad alcuna Dieta provinciale. Le funzioni della Dieta, la cosiddetta «amministrazione politica di primo grado», furono attribuite direttamente al suo Consiglio comunale, assieme a un’ampia sfera di competenze. Nel 1869 l’apertura del Canale di Suez pose Trieste in una posizione invidiabile di ponte tra l’Oriente e il continente europeo. Le autorità di Vienna potenziarono i collegamenti stradali e ferroviari per mettere in comunicazione il porto adriatico con l’interno della duplice monarchia e con l’intera Europa centrale. Trasformato nel punto nevralgico del commercio austriaco, Trieste divenne in breve tempo il terzo porto del Mediterraneo. Nei primi anni del Novecento la città ebbe uno sviluppo demografco straordinario, arrivando a toccare quota 243 mila abitanti nel 1914, con un incremento di popolazione medio di quasi 5 mila persone all’anno. 2. Lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò completamente questo vertiginoso sviluppo. Crollarono i traffci e una parte consistente della popolazione abbandonò Trieste. Anche le caratteristiche di autonomia della città vennero limitate, per accentrarle nelle mani dell’apparato amministrativo e militare. Con l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria il Consiglio comunale venne sciolto. Esso esprimeva infatti una maggioranza liberalnazionale e dunque potenzialmente irredentista floitaliana – essendo eletto su base censuaria, quest’organo non era tuttavia rappresentativo della reale tendenza politica dell’intera popolazione. Se mai in precedenza Vienna aveva limitato in maniera così sostanziale l’autonomia amministrativa di Trieste, il mese precedente Roma aveva ventilato per la prima volta l’indipendenza della città adriatica. L’8 aprile del 1915 il ministro degli Esteri italiano Sonnino presentò una serie di richieste all’Austria in cambio del mantenimento della neutralità italiana nel confitto. Tra gli undici punti fguravano: la cessione del Trentino all’Italia, lo spostamento del confne all’Isonzo, la costituzione di uno Stato triestino autonomo e indipendente, sul quale l’Austria-Ungheria avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi forma di sovranità, e la cessione dell’arcipelago di Curzola e di Lissa 1. Grosso modo, lo «Stato triestino» avrebbe compreso i territori che attualmente formano la provincia di Trieste e la zona costiera della Slovenia, ovvero la costa nordoccidentale dell’Istria (incluse le cittadine di Capodistria e Pirano) fno al fume Dragogna. Erano chiaramente condizioni inaccettabili per Vienna, che avrebbe dovuto rinunciare al suo porto più importante e a una buona parte dei propri territori occidentali. La cessione del Trentino e del Friuli austriaco fno all’Isonzo avrebbe inoltre posto l’Austria in un’evidente posizione di inferiorità strategica. Il 9 maggio, comunque, Vienna replicò presentando a Roma un documento che prevedeva, in cambio della neutralità italiana, una serie di cessioni territoriali, tra cui tutta la riva
240
1. T.N. Page, Italy and the World War, New York 1920, Charles Scherner’s Sons, pp. 204-205.
IL MURO PORTANTE
IL FRONTE DI GUERRA FRA ITALIA E AUSTRIA Confne italiano il 24 maggio 1915 Confne dopo il trattato di Versailles (1919) Val Pusteria
A l t o
C a r i n z i a
A d i g e Bolzano
C a r n i a A l p
T r e n t i n o
i
CAPORETTO
G
Trento
i u
Udine
l i
Bassano
e
VITTORIO V. F. Pi av e
C a
Trieste
Castelfranco
r s
Verona
o
V e n e t o Venezia
Fronte italiano al 24 ottobre 1917 (Caporetto) Ofensiva austriaca del 24 ottobre 1917 Fronte italiano alla fne del 1917 Dal 24 ottobre al 4 novembre 1918 Ofensiva italiana dopo Vittorio Veneto (ultimo scontro armato contro l’esercito austro-ungarico) Fronte raggiunto il 4 novembre 1918
Mare Adriatico
occidentale dell’Isonzo e l’autonomia di Trieste nell’ambito della duplice monarchia. Gli italiani respinsero la proposta. Il progetto di una forte autonomia per Trieste in seno all’impero riprese vigore nel 1918, alla vigila del collasso ormai inevitabile dell’Austria-Ungheria. In una delle ultime sedute del parlamento asburgico, il leader dei socialisti triestini Valentino Pittoni avanzò la proposta formale di una «città completamente indipendente sotto il patronato della Lega delle Nazioni», comprendente i territori del Friuli e dell’Istria 2. Una larga autonomia per Trieste venne prospettata addirittura dall’imperatore Carlo nell’ambito della ristrutturazione dell’impero in senso federalista, tentativo in extremis di salvarne l’integrità territoriale. L’idea di un’AustriaUngheria federale godeva anche del favore di Lenin e del nuovo governo sovietico, che il 3 novembre lanciò un appello, invitando i popoli della monarchia «all’unione fraterna» 3. Alla caduta dell’impero, una parte dei socialisti triestini iniziò ad auspicare la nascita di una «Libera Repubblica Triestina», una città indipendente sotto il patrona2. G. Sluga, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border, Albany 2001, State University of New York, p. 41; Trieste ottobre-novembre 1918, Comitato Trieste ’68, Milano, 1968, All’insegna del pesce d’oro, vol. 1, p. 84. 3. Sulle proposte di federalizzazione dell’Austria: F. Fejtő, Requiem per un impero defunto, Milano 1990, Mondadori. L’appello di Lenin è a p. 308.
241
TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
to della Lega delle Nazioni. Massimi fautori dell’istituzione della città indipendente furono due esponenti storici del socialismo triestino, Valentino Pittoni e Ivan Regent. Nel loro progetto, lo Stato triestino avrebbe dovuto includere grossomodo l’intero Litorale e fungere da cuscinetto tra Italia, Austria e Jugoslavia, contemperando i futuri e inevitabili attriti tra i tre paesi. Dopo aver inizialmente caldeggiato l’unione alla Jugoslavia, anche la corrente socialista slovena guidata da Rudolf Golouh, palesatasi l’irrealizzabilità dell’opzione jugoslava, abbracciò la prospettiva indipendentista. Alle rivendicazioni di indipendenza si opponevano i «socialisti nazionali» capeggiati dal socialista irredentista Edmondo Puecher, che auspicavano invece l’aggregazione di Trieste all’Italia. Nella turbolenta situazione degli ultimi giorni di guerra i socialisti organizzarono cortei e manifestazioni pro-indipendenza, contrapposti a quelli allestiti dai floitaliani. Il 30 ottobre manifestanti inneggianti a Trieste città libera, all’Internazionale e al socialismo si riversarono nelle strade; sul municipio, accanto al tricolore, venne issata la bandiera rossa. Tuttavia, il progetto indipendentista si rivelò presto un’utopia irrealizzabile. Il porto adriatico, prima e nel corso del confitto, aveva acquisito un valore simbolico e strategico irrinunciabile per l’Italia, che riteneva una vittoria priva di Trieste assolutamente impensabile. Agli occhi di Roma, la città giuliana era divenuta insieme l’inevitabile coronamento del Risorgimento e la testa di ponte per la futura espansione verso i Balcani, e più a est. La direttrice d’avanzamento che le truppe italiane seguirono subito dopo la rotta austriaca di Vittorio Veneto puntava chiaramente a raggiungere quanto prima il capoluogo del Litorale. Negli stessi giorni in cui si consumava la fne dell’impero, l’impossibilità della prospettiva indipendentista si concretizzò nelle decisioni varate dall’autonominatosi Comitato di salute pubblica. Questo organismo cittadino era composto dai rappresentanti dell’irredentismo floitaliano, da quelli socialisti e da quelli sloveni – la minoranza tedesca (circa 12 mila persone) ne era stata esclusa. Il Comitato si era costituito il 30 ottobre con il programma di «effettuare il distacco di Trieste e delle altre terre italiane della regione dal nesso dello Stato austriaco, assumendo nelle nostre mani tutti i poteri civili e militari e tutte le istituzioni della città» 4. La città fronteggiava allora emergenze gravissime: interruzione della fornitura di derrate alimentari, arrivo in città degli sbandati austriaci dal fronte e dei primi prigionieri italiani rilasciati o fuggiti dai campi di raccolta in Austria, disordini di piazza contro i simboli e le istituzioni asburgiche, banditismo e saccheggi nei depositi di viveri, focolai di epidemie. Già il 31 ottobre, quindi, il Comitato decise di inviare tre delegati – Antonio Samaja per il fascio nazionale, Alfredo Callini per i socialisti e Josip Ferfolja come rappresentante degli sloveni – presso il comando della Flotta italiana a Venezia per richiedere l’invio di una squadra navale dell’Intesa. Gli emissari avrebbero fornito le mappe dei campi minati nel Golfo di Trieste per permettere alle navi di raggiungere agevolmente la città. Con questa missione dei delegati del Comitato, si azzerava la possibilità di realizzazione dei progetti indipendentistici. Arrivati a Venezia, infatti, con una sorta di Putsch interno alla
242
4. Trieste ottobre-novembre 1918, vol. 1, cit., p. 150.
IL MURO PORTANTE
missione, il rappresentante liberalnazionale Samaja sollecitò l’ammiraglio del Comando fotta a inviare truppe che occupassero la città in nome dell’Italia. Il 3 novembre il generale Carlo Petitti di Roreto, già nominato governatore, sbarcò dalla motonave Audace insieme ai primi soldati italiani, dichiarando subito: «In nome di Sua Maestà il Re d’Italia prendo possesso della città di Trieste». L’occupazione della città venne poi formalizzata con l’assunzione delle funzioni di governatore e con il successivo decreto che sanciva l’attribuzione a questa carica dei poteri politici e amministrativi nella Venezia Giulia occupata dal Regio esercito, lo scioglimento del Comitato di salute pubblica, la reintegrazione nelle proprie funzioni della rappresentanza comunale sciolta nel 1915. Già i primi atti dell’amministrazione italiana frustravano quindi i fautori della città libera, che sostenevano una soluzione della questione sull’appartenenza territoriale di Trieste sulla base delle decisioni della conferenza di pace o di un plebiscito organizzato secondo i princìpi enunciati dal presidente americano Woodrow Wilson. Anche a causa della condotta autoritaria dei nuovi organi di governo locale italiani, l’anno seguente i socialisti indipendentisti radicalizzarono le proprie posizioni. Ivan Regent e Giuseppe Tuntar auspicarono la creazione di una repubblica sovietica italo-slava nella Venezia Giulia, mentre Valentino Pittoni, ormai autoesiliatosi a Vienna, propose la strutturazione di Trieste come uno Stato separato nella neonata Repubblica austriaca che mantenesse il sistema giuridico, sociale ed educativo austriaco. 3. Se fno alla seconda guerra mondiale qualsiasi accenno a un’indipendenza triestina venne soffocato, l’idea di staccare Trieste e la Venezia Giulia dal nesso con l’Italia riguadagnò vigore durante il confitto. Il comunista Pinko Tomaži0 teorizzò la liberazione della Venezia Giulia e la sua associazione con una repubblica sovietica slovena 5. Anche se, in seguito all’invasione della Jugoslavia da parte dell’Asse (e alla fucilazione di Tomaži0), quest’idea venne abbandonata, il movimento partigiano di orientamento comunista – l’unico in grado di compiere azioni effcaci contro i nazifascisti nell’area – continuava ad auspicare il distacco di questo territorio dall’Italia e la sua annessione alla Jugoslavia. La maggioranza del movimento partigiano era composto da sloveni che sognavano l’unione alla madrepatria, ma la motivazione principale alla base della popolarità di questa opzione era di tipo ideologico. I comunisti vedevano nella futura Jugoslavia di Tito un paese dove si sarebbe edifcato il socialismo, mentre l’Italia, nel corso del confitto, andava sempre più proflandosi come una zona d’infuenza occidentale. Per questo l’unione di Trieste e della Venezia Giulia alla Jugoslavia era caldeggiata anche dalla maggioranza dei comunisti italiani. Le autorità jugoslave, proprio per avere il massimo appoggio da parte della classe lavoratrice italiana triestina, iniziarono a parlare della città come della «settima repubblica jugoslava»: a Trieste sarebbe stato garantito lo status di entità federata e alla popolazione italiana i diritti di minoranza nazionale 6. 5. M. Kacin-Wohinz, Pinko Tomaži0, Slovenski biografski leksikon, Ljubljana 2013, ZRC, SAZU. 6. B. novaK, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Milano 1996, Mursia, p. 148; D. de caStro, La questione di Trieste, Trieste 1981, Lint, vol. 1, p. 213.
243
TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
Al distacco di Trieste dall’Italia puntavano anche i tedeschi, che nel settembre del 1943 annessero l’intera Venezia Giulia denominandola Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico). La propaganda nazista sottolineò il legame del territorio con la Mitteleuropa e il suo passato austriaco, dando il via a una serie di iniziative tese a rilanciare il legame con la Germania (trasmissioni radio, giornali, iniziative di circoli culturali). In questo modo i tedeschi si accattivarono le simpatie di una parte della borghesia cittadina, legata già prima della Grande guerra al mondo austrotedesco e profondamente delusa dalla politica economica dell’Italia verso la città, che aveva perso il dinamismo dell’epoca asburgica. La complessa situazione etnico-politica del territorio spinse alcune forze politiche e alcuni intellettuali a teorizzare soluzioni innovative. Nel 1943 il Partito d’azione (Pd’A) propose l’autonomia regionale per il territorio, nel quadro di un’Europa federale – un’anticipazione, mutatis mutandis, dei più recenti progetti di Euroregione. L’anno successivo Emanuele Flora, avvocato e membro egli stesso del Pd’A, prospettò la trasformazione di Trieste, del suo hinterland e di altre «comunità etniche italiane» in enclave italiane in Jugoslavia collegate al Belpaese da un sistema stradale sotto il controllo delle nasciture Nazioni Unite, in modo da «creare un’atmosfera di collaborazione tra Italia e Jugoslavia». Flora fu espulso dal Pd’A l’anno seguente, quando la situazione politica favorì l’ascesa dell’ala destra del partito. Il suo progetto fu considerato «slavoflo» e «flocomunista»7. Nel 1945 Gaetano Salvemini sostenne che i princìpi wilsoniani non potevano essere applicati in un territorio così etnicamente variegato: a Trieste e in Istria «italiani e slavi sono indissolubilmente confusi». Secondo Salvemini, alla Venezia Giulia andava garantita una larga autonomia dentro lo Stato italiano: le comunità rurali slave e le municipalità italiane avrebbero dovuto conseguire il massimo grado di autonomia; il confne tra Italia e Jugoslavia avrebbe dovuto essere amministrativo e non economico o politico, permettendo la massima libertà di movimento ai suoi abitanti 8. Analogamente, anche lo statistico triestino Pierpaolo Luzzatto Fegiz affermò che a Trieste andava abbandonata l’idea di confne: «Un confne non dovrebbe essere più considerato un muro invalicabile, fssato defnitivamente per il tempo a venire» 9. 4. Le questioni teoriche furono superate dai fatti. Il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 sancì la nascita del Territorio libero di Trieste (Tlt). La creazione del Tlt non fu però il provvedimento considerato più valido per risolvere la confittualità di confne italo-jugoslava, quanto piuttosto la soluzione più pratica all’incapacità di trovare un accordo tra occidentali, Unione Sovietica e Jugoslavia.
244
7. G. Sluga, «Inventing ethnic spaces: “Free Territory”, Sovereigny and the 1947 Peace Treaty», in Prispevki z mednarodne konference “Pariška mirovna pogodba. Nova Jugoslovansko-italijanska meja in prikju0itev Primorske k Sloveniji” (Contributi dalla Conferenza internazionale “Il Trattato di pace di Parigi. Il nuovo confne italo-jugoslavo e l’annessione della Primorska alla Slovenia”), Koper-Nova Gorica, 25-27/9/1997, Acta Histriae, VI, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko, Znanstveno-raziskovalno središ0e Republike Slovenije, Koper 1998, p. 175. 8. G. Sluga, op. cit., pp. 136-137. 9. Ivi, p. 138.
IL MURO PORTANTE
L’ALLARGAMENTO A NORD-EST DOPO LA FINE DELLA GRANDE GUERRA
AUSTRIA Alto Adige Bolzano Tr e n t i n o
Ca
do
re
UNGHERIA Slovenia
Trento
Gorizia
Lubiana Zagabria
Trieste Ca
rs
Venezia
Pirano Istria
I TA L I A
Pola
o
Verona
Parma
Stato libero di Fiume, creato con il trattato di Rapallo (1920) e annesso dall’Italia con il trattato di Roma (1924) REGNO DEI SERBI, C R O AT I E S L O V E N I
Cherso Lussino
Bologna
Zara
Firenze
SAN MARINO Spalato
Ancona
Trattato di Rapallo Territori assegnati all’Italia
Mar Adriatico
Isole e città assegnate all’Italia Trentino e Alto Adige assegnati all’Italia con il Trattato di Saint-Germain (1919)
Lagosta Pelagosa
In base al trattato il Tlt sarebbe stato smilitarizzato e neutrale, la sua integrità e indipendenza sarebbero state garantite dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avrebbe avuto come lingue uffciali l’italiano e lo sloveno (con la possibilità di includere in futuro anche il croato), avrebbe dovuto avere moneta propria, una costituzione e un parlamento. La massima autorità di governo sarebbe stato il governatore nominato dal Consiglio di Sicurezza, che non avrebbe potuto essere cittadino italiano, jugoslavo o del Territorio libero. In realtà, occidentali e sovietici non trovarono mai un accordo sulla nomina del governatore, impedendo il reale funzionamento del Territorio libero. Il Tlt fu provvisoriamente diviso in due zone: la Zona A amministrata dagli angloamericani, corrispondente grosso modo all’attuale provincia di Trieste, e la Zona B a sud fno al fume Quieto, controllata dagli jugoslavi. Nella Zona A, ancor prima della frma del trattato, l’indeterminatezza della situazione triestina aveva fatto rinascere aspirazioni indipendentiste. Nel luglio del 1945 il comitato promotore di un «Fronte separatista per lo Stato adriatico» aveva pubblicato una dichiarazione a favore dell’indipendenza triestina. In agosto era stato costituito da Mario Giampiccoli e Teodoro Sporer il Fronte dell’indipendenza. E più tardi l’avvocato Mario Stocca fondò un altro movimento indipendentista: il Blocco triestino. Gli indipendentisti riconoscevano nel melting pot triestino la caratterizzazione di un’i-
245
TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
dentità cittadina molto più forte delle appartenenze nazionali, creata proprio dal fondersi di mondo latino, slavo e tedesco. Nel biennio 1947-48 anche nel mondo sloveno non comunista della Zona A nacquero nuovi partiti: l’Unione democratica slovena (Slovenska demokratska zveza, Sdz) e l’Unione cristiano-sociale slovena (Slovenska krš0anko-socialna zveza, Sksz) seguiti nel periodo 1949-50 da un altro piccolo movimento, composto perlopiù da intellettuali: il Gruppo degli sloveni autonomi (Skupina neodvisnih slovencev, Sns). Poiché tutte e tre queste formazioni avevano nel proprio programma la realizzazione effettiva del Tlt, nel 1950 diedero vita all’Akcijski odbor za obrambo Sto-ja (Comitato d’azione per la difesa del Tlt). Il Partito comunista della Regione Giulia, al momento della sua fondazione (agosto del 1945) era favorevole all’unione di Trieste alla Jugoslavia. Dopo la frma del trattato di pace, tuttavia, modifcò la propria politica (e pure il nome, diventato Partito comunista del Tlt, Pctlt), sostenendo la creazione di un’assemblea costituente democratica triestina che elaborasse una costituzione del Tlt, rendendolo una reale entità statale autonoma e indipendente. L’arrivo a Trieste di Vittorio Vidali e, poco dopo, la rottura tra Stalin e Tito portarono all’espulsione dei titoisti dal Pctlt. I comunisti fedeli a Belgrado si presentarono alle successive elezioni come Fronte popolare italo-sloveno. Entrambi i partiti mantennero comunque un orientamento favorevole al Tlt. In pratica, a Trieste tutti i partiti che non si riconoscevano nel cosiddetto «blocco italiano» (Dc, Pli, Pri, Msi, Psvg – Partito socialista della Venezia Giulia – e monarchici) erano favorevoli all’indipendenza della città. Tuttavia, i fortissimi contrasti di tipo ideologico e nazionale tra questi vari movimenti non permisero di trovare un accordo e una linea comune da contrapporre al «blocco italiano». Una parte delle autorità del Governo militare alleato (Gma) operanti in ambito locale cercò davvero di costituire un Territorio libero funzionante, che fosse in grado di scardinare il forte dualismo politico Italia-Jugoslavia del territorio, come pure il dualismo etnico italiani-sloveni. Il colonnello Alfred Bowman, una delle più alte cariche presenti a Trieste, sosteneva che il Tlt non avrebbe dovuto essere considerato «né uno Stato, né una nazione». Sebbene Bowman sperasse che il Territorio libero producesse un’innovazione nel concetto di identità e appartenenza etnico-nazionale, diluendone così il potenziale di confitto, guardava a questa prospettiva con molto scetticismo. «Ci vorranno due generazioni [ai cittadini del Tlt] per considerarsi come membri di uno Stato sovrano piuttosto che sloveni o italiani» 10, affermava. Anche alcune realtà economiche vedevano positivamente una Trieste indipendente il cui porto franco, previsto dal trattato di pace, avrebbe facilitato i commerci e i traffci. La prospettiva del Territorio libero raccoglieva, inoltre, il favore dei cittadini non orientati in senso nazionale, che vi scorgevano la possibilità di un futuro individuale economicamente forido, simile a quello dei cittadini di città come Hong Kong e Singapore.
246
10. Ivi, pp. 143-144.
IL MURO PORTANTE
Tuttavia, le autorità alleate del Tlt, in primis il comandante del Governo militare alleato (Gma) generale Airey, agirono con forte ambiguità nei confronti del territorio che erano chiamate ad amministrare. Anziché lavorare nel senso di un’effettiva realizzazione del Tlt, gli angloamericani permisero all’Iri di mantenere la proprietà di tutte le più grandi realtà industriali della città. Il governo italiano aveva il controllo della quasi totalità delle industrie triestine e conseguentemente dei posti di lavoro che queste garantivano. Inoltre, l’Iri amministrava direttamente le fliali triestine della Banca commerciale italiana, del Banco di Roma e del Credito italiano, detenendo così il monopolio del credito verso l’industria e il commercio. Anche la gestione e il coordinamento degli aiuti Erp (Piano Marshall) per Trieste non venivano stabiliti dalle autorità alleate della città, bensì da una commissione mista situata a Roma. Tutto ciò faceva già rientrare de facto la Zona A del Tlt nel sistema economico italiano. A livello amministrativo, alcune delle cariche interne del Gma furono assegnate a personale italiano di chiaro orientamento flogovernativo, sbilanciando così il funzionamento stesso dell’amministrazione alleata a favore della componente «pro-Italia». Venne creata la carica di presidente di Zona, affdata al democristiano Gino Palutan che, grazie alla propria posizione, permise l’insediamento a Trieste di circa 30 mila profughi istriani (tendenzialmente elettori della Dc), sbilanciando anche gli equilibri elettorali della città a favore dell’Italia. Con il tempo il Gma ridusse gradualmente le proprie attribuzioni delegandole sempre di più alle autorità locali, in primis al Comune di Trieste, saldamente nelle mani del sindaco Bartoli e della corrente degasperiana della Dc). Si limitò a funzioni simili a quello di un governo centrale, lasciando agli enti locali la gestione pratica dell’amministrazione ordinaria. Questa situazione provocò le proteste della Jugoslavia (e dei partiti indipendentisti), inducendo Londra e Washington a sostituire Airey con il più neutrale Winterton. La nomina di Winterton cristallizzò la situazione, impendendo ad altri profughi istriani di fermarsi in città, ma ormai il quadro, a livello amministrativo ed elettorale, era stato fortemente modifcato a favore dell’Italia. Ciononostante, il consenso elettorale verso l’opzione indipendentista crebbe di anno in anno: nelle elezioni amministrative del 1949 la percentuale di voti raccolti dai partiti favorevoli al Tlt fu di poco inferiore al 35%. Nel 1952, dopo la rottura Tito-Stalin, che rese più lontana la prospettiva di un Tlt subordinato a Belgrado (o addirittura annesso dalla Jugoslavia), un numero sempre maggiore di triestini si sganciò dall’idea dell’unione all’Italia, trovando ben più appetibile la creazione di una città indipendente. Nelle elezioni amministrative di quell’anno la percentuale di elettori favorevoli al Tlt crebbe al 37,7%. In ambito internazionale, accodandosi alla diplomazia italiana – che auspicava un plebiscito per risolvere la questione di Trieste ponendo ai cittadini del Tlt la scelta tra Italia e Jugoslavia – gli indipendentisti proposero a loro volta l’organizzazione di una consultazione popolare, in cui sarebbero state però previste tre opzioni: Italia, Jugoslavia o Tlt. Quando la proposta del referendum con tre opzioni venne fatta propria dalla Jugoslavia, il governo italiano smise di sostenerla.
247
TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
5. Il 5 ottobre del 1954 le diplomazie inglese, americana, jugoslava e italiana, dopo una serie di complesse trattative, trovarono un accordo che risolveva defnitivamente la questione di Trieste: con il Memorandum di Londra la Zona A passava all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Una modifca del confne tra le due zone assegnava alla Jugoslavia anche un settore del Muggesano che era appartenuto alla Zona A. Il 26 ottobre Trieste fu defnitivamente ricongiunta all’Italia. Gli indipendentisti protestarono fortemente contro la spartizione del Tlt, considerata un accordo che passava sopra le teste degli autoctoni e violava il trattato di pace. Anche i partiti autonomi sloveni stigmatizzarono la fne del Territorio libero, affermando che, mentre nel Tlt gli sloveni sarebbero stati una delle componenti fondanti dello Stato, in Italia fnivano con l’essere una piccola minoranza in una popolazione di decine di milioni di italiani. Il Pctlt protestò contro la mancata organizzazione della consultazione referendaria, ma preso atto della nuova situazione espresse lealtà verso la nuova amministrazione italiana e confuì in tempi rapidissimi nel Pci. Il Memorandum di Londra cancellò le prospettive di realizzabilità del Tlt, anche perché, partito il Gma, le nuove autorità italiane ricominciarono a insediare a Trieste decine di migliaia di profughi istriani. Il ministero dell’Interno italiano sottolineò spesso come più di un terzo della popolazione di Trieste continuasse a essere ostile a Roma 11. L’insediamento degli istriani, in gran parte orientati politicamente verso i partiti di governo e con un sentimento di italianità ben più solido di quello triestino, signifcava la modifca del tessuto politico ed etnico della città in senso favorevole all’Italia. Nel 1971, su una popolazione comunale di 271.879 abitanti, si contavano più di 70 mila persona nate nei territori ceduti alla Jugoslavia diciassette anni prima. Il ritorno dell’Italia a Trieste portò a un irrimediabile ridimensionamento dell’idea di una Trieste indipendente, attivamente propiziato dai continui atti di ritorsione nei confronti degli indipendentisti intrapresi dalle autorità italiane. Già il 2 maggio 1952 in una seduta del parlamento italiano si era sostenuto che, una volta avvenuta la riannessione della città adriatica all’Italia, tutti i dipendenti civili del Gma sarebbero stati assunti nella futura amministrazione italiana, «eccetto le persone impegnate contro l’annessione del Tlt all’Italia» 12. Una dichiarazione di questo genere, insieme al ricordo non lontano degli assalti e delle devastazioni compiuti contro la sede del Fronte dell’indipendenza durante le manifestazioni del biennio 1952-53, non lasciava presagire nulla di buono per coloro che avevano lottato per l’indipendenza della città. Dopo l’ottobre 1954 a diversi militanti indipendentisti fu bloccato il rilascio del passaporto o ne fu limitata la validità. In altri casi fu congelato o rallentato l’iter per il conseguimento di documenti necessari per l’assunzione o per la continuazione del lavoro, causando talvolta la perdita del posto o il licenziamento 13. Addirittura,
248
11. P. Purini, «L’emigrazione da Trieste nel dopoguerra», Annales, 10, 1997, p. 257. 12. B. novaK, op. cit., p. 374 13. J. deKleva, Enoletni obra0un, Trst 1956, Jadranski Koledar, p. 34.
IL MURO PORTANTE
quando un dirigente indipendentista venne aggredito e malmenato a sangue da militanti di destra per aver parlato dell’Italia come Stato occupante, essendosi difeso e in seguito citato in causa dai suoi aggressori fu condannato a due anni di reclusione per vilipendio e lesioni volontarie. I movimenti indipendentisti vennero penalizzati anche alle elezioni amministrative del 1956. Il commissario generale per il territorio di Trieste Giovanni Palamara, la più alta carica della nuova amministrazione italiana, escluse dall’agone elettorale l’Unione triestina – il movimento unitario degli indipendentisti formatosi nel gennaio dell’anno precedente – adducendo come pretesto un errore nella compilazione dei documenti richiesti per la candidatura. I militanti indipendentisti sostennero che l’esclusione dalla tornata elettorale violava i princìpi fondamentali della democrazia, e che dietro alla decisione della commissione elettorale si nascondesse il preciso intento di punire un soggetto politico che alle precedenti elezioni aveva ottenuto 27 mila consensi. La strategia di Palamara si dimostrò effcace: nelle elezioni successive del 1958, i due partiti indipendentisti (nuovamente separati) persero molti suffragi. Tale calo può essere attribuito anche al forte movimento emigratorio che si sviluppò a Trieste nel biennio 1954-55. A partire da quegli anni, con strascichi fno al 1960, circa 25 mila triestini lasciarono la città per emigrare in Australia, un numero non molto distante dai 17 mila voti persi dai partiti indipendentisti tra 1952 e 1958. Anche se nella storiografa triestina «uffciale» e «accademica» si parlò (e si parla ancora) di un’emigrazione dovuta principalmente a questioni economiche, il fatto che oltre metà degli emigranti avesse un’occupazione a Trieste contraddice questa versione. È incontestabile che ci fu una vasta fetta della popolazione che non gradì la soluzione italiana della «questione di Trieste». Le stesse autorità italiane spinsero quanti più triestini possibile a emigrare all’estero. Per volontà del commissario Palamara, tutti gli ex lavoratori del Gma che avessero deciso di emigrare in Australia avrebbero benefciato di incentivi economici particolarmente vantaggiosi. Diversi episodi avvenuti durante le partenze delle navi per l’Australia suggeriscono che non tutti i triestini apprezzavano il ritorno dell’Italia, confermando come l’emigrazione avesse anche motivazioni politiche. Su una delle navi in partenza per l’Australia venne esposto uno striscione dove, parafrasando il testo del discorso del sindaco Bartoli in occasione del ritorno dell’Italia («È la madre che ritorna per farci vivere liberi»), si leggeva l’affermazione sarcastica: «La madre è tornata, i fgli partono» 14. Quando i due partiti indipendentisti si fusero nuovamente nel 1966, sotto la guida di Giovanni Marchesich, dando vita al Movimento indipendentista triestino, il peso politico dell’indipendentismo era ormai scarso. Sporadicamente, continuarono a verifcarsi episodi di fastidio verso l’Italia 15, ma la sempre maggior integrazione degli istriani nel tessuto cittadino, il numero crescente di immigrati dal resto 14. C. tonel, Rapporto con Trieste, Trieste 1987, Dedolibri, p. 73. 15. La sezione triestina del Partito comunista, ad esempio, dovette stampare per alcuni anni due tessere diverse, perché un certo numero di militanti non gradiva quella con il tricolore.
249
TRIESTE CITTÀ LIBERA. ASCESA E DECLINO DI UN’IDEA RIVOLUZIONARIA
dell’Italia e l’inserimento a tutti gli effetti di Trieste nell’apparato statale italiano portarono a una defnitiva metamorfosi della struttura etnica e politica della città. Trieste, che era stata uno dei centri più laici, socialisti e operai dell’impero austroungarico, divenne una città cattolica e democristiana. L’industria e l’imprenditorialità della città furono quasi completamente azzerate e si assistette alla creazione di un’economia assistita che legò sempre di più la città a Roma, facendo dipendere i fnanziamenti dalle amicizie e dalle reti clientelari politiche che si potevano vantare nella capitale. La dirigenza politica democristiana e istriana di Trieste, che aveva fatto dell’italianità uno dei perni della propria politica, riprese quella retorica uffciale, già cara al fascismo, della «città italianissima». La vocazione triestina all’autonomia, da sempre forte e con spinte centrifughe, venne imbrigliata in un nesso fortissimo con l’Italia, tanto che, dopo il trattato di Osimo (1975), la neonata Lista per Trieste, pur ponendo l’autonomia come punto fondamentale del proprio programma, sottolineò con decisione la propria imprescindibile italianità 16.
250
16. P. Purini, «Mutamenti etno-demografci a Trieste nel periodo 1943-1954», in J. Pirjevec, g. Bajc, B. KlaBjan (a cura di), Vojna in mir na Primorskem, Univerza na Primorskem, Zgodovinsko društvo za južno Primorsko, Znanstveno-raziskovalno središ0e Koper, Koper 2005, pp. 267-268.
IL MURO PORTANTE
LE ORIGINI ESTERNE DELLA FRANTUMAZIONE JUGOSLAVA
di Stefano Bianchini
All’origine della dissoluzione della creatura di Tito ci furono anche le divisioni fra gli Stati europei. La fallita ‘politica dei criteri’, fondata sulle ambiguità del principio di autodeterminazione. Il ruolo della Germania e la coincidenza con il negoziato su Maastricht.
B
ENCHÉ LA FRANTUMAZIONE DELLA Ju goslavia sia stata in larga misura preparata da una lunga crisi economicosociale, su cui si sono innestate divaricanti (e fra loro incompatibili) decisioni delle sue élite politiche in cerca di nuove forme di legittimazione del potere, non c’è dub bio che molti soggetti esterni abbiano contribuito, con le loro azioni, a favorirne il tragico destino, non sempre consapevolmente e non necessariamente nella fase fnale che ha preceduto il crollo della Federazione. Certo, con la seconda metà del 1989, in seguito alla conclusione della guerra fredda, si è venuta determinan do una fase storica di estrema fuidità, i cui cambiamenti – in parte destabilizzanti – hanno successivamente prodotto nuovi modelli di dipendenza e interazione. In questo contesto, le rapide modifche nel quadro geopolitico continentale si sono concretizzate, nel SudEst europeo, in una serie di guerre sanguinose. Per parte sua, il polo euroatlantico (compreso, come vedremo, il Vaticano) ha affrontato la fase di transizione determinatasi con il crollo del sistema socialista e la fne del Patto di Varsavia promuovendo una stabilizzazione regionale fondata su propri «criteri» di riferimento, di forte pregnanza politica e valoriale: elezioni libere e multipartitiche, pieno rispetto dei diritti politici e civili, autodeterminazione non meglio specifcata. Nelle intenzioni, questi precetti avrebbero dovuto rappresentare una guida per i paesi europeoorientali, cui attenersi per superare il rischio di con fitti, ma anche per rientrare nell’alveo euroatlantico non scevro di tentazioni ege moniche su scala continentale, se non mondiale. Tuttavia, il richiamo a «criteri» che si immaginavano oggettivi ha mostrato pre sto i suoi limiti allorché ha dovuto confrontarsi con il processo di disgregazione della Jugoslavia. Interpretati dalle parti in causa in modi contrastanti, quei criteri hanno di fatto contribuito a rendere sempre più inestricabile l’individuazione di soluzioni condivise, tanto più che con il passare del tempo la loro stessa coerente
251
LE ORIGINI ESTERNE DELLA FRANTUMAZIONE JUGOSLAVA
applicazione è stata messa in dubbio dal comportamento poco lineare dei paesi promotori. Sicché dopo dieci anni di guerre e quasi trenta di mediazioni diploma tiche, la stabilità nello spazio postjugoslavo è obiettivo ancora da raggiungere. Fra i criteri che più hanno esercitato un impatto controverso vanno considera ti il ricorso binario ad anticomunismo e nazionalismo separatista, il richiamo ai diritti umani e al principio di autodeterminazione (non meglio specifcato, come si vedrà più avanti). Quest’ultimo, inoltre, è maturato anche nell’ambito della coope razione regionale e transfrontaliera, in un quadro più generale di sottovalutazione politica delle implicazioni che la frantumazione degli Stati avrebbe potuto implica re per la pace in Europa 1.
Anticomunismo e nazionalismo È noto come l’anticomunismo sia stato il principale cemento del campo occi dentale durante la guerra fredda. Meno noto è il modo in cui esso ha sollecitato il nazionalismo separatista. Certo, la polemica contro l’oppressione sovietica nei con fronti dei paesi del blocco orientale ha assunto anche i tratti della difesa della so vranità nazionale contro l’ingerenza di Mosca. Tuttavia, ciò ha costituito solo un aspetto del problema, quello più evidente e legato alla realtà degli Stati esistenti. In realtà, l’anticomunismo è stato veicolo di sostegno esterno pure del nazionalismo secessionista o etnico, specie nei confronti delle comunità multietniche e/o federa li dell’Est europeo, tra l’altro in netto contrasto con il mito del nazionalismo civico liberale che si era «cucito addosso» l’Occidente. Una conferma in questo senso si ebbe nel 1978 allorché il consigliere ameri cano per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski incontrò a Uppsala, in Svezia, alcuni colleghi statunitensi durante un congresso internazionale di sociologi, ai quali fece alcune dichiarazioni riservate, che vennero però captate dai servizi se greti croati. Questi informarono direttamente la presidenza jugoslava (all’epoca Tito era ancora vivo). In quell’occasione, ben descritta da Raif Dizdarevi© nelle sue memorie, Brzezinski sostenne come fosse interesse dell’Occidente appoggiare le «forze centralistiche» in Jugoslavia, nella misura in cui queste si opponevano all’Urss. Al tempo stesso, essendo la Jugoslavia un paese socialista, ossia espressione di un sistema contrastato sul piano ideologico, politico ed economico dagli Usa, questi ultimi dovevano aiutare «tutte le forze separatistiche e nazionalistiche in quanto “nemici naturali” del comunismo come ideologia» 2. E in effetti, tenendo conto del la diaspora di fuoriusciti nazionalisti della Federazione titina e del loro ruolo nel mantenere viva durante tutta la seconda metà del Novecento una aspettativa (an che con atti di terrorismo) che era, al tempo stesso, anticomunista e antijugoslava, ben si comprende quanto la convergenza fra questi due atteggiamenti fosse consi derata a Washington un utile grimaldello per indebolire l’avversario.
252
1. S. Bianchini, Liquid Nationalism and State Partitions in Europe, Cheltenham UK, Northampton MA 2017, Edward Elgar, pp. 185195. 2. R. DizDarevi©, La morte di Tito, la morte della Jugoslavia, Ravenna 2001, Longo, p. 502.
IL MURO PORTANTE
Certo, a tale ambivalente comportamento la politica internazionale aveva fatto strumentalmente ricorso altre volte nel passato: la Germania, ad esempio, agì ana logamente dopo il 1916 nei confronti della Russia zarista. Per opposte ragioni an che Wilson e Lenin si affdarono alle pulsioni nazionali nella speranza di modifca re il quadro geopolitico europeo a proprio vantaggio. Hitler fece di peggio. Ma Brzezinski aggiunse un’ulteriore, interessante considerazione, giacché collegò la strategia binaria di anticomunismo e nazionalismo separatista al debito jugoslavo, già elevato a quel tempo. Egli suggerì, infatti, di incoraggiare Belgrado ad assume re nuovi debiti, perché anche la questione economicofnanziaria avrebbe avuto un peso rilevante nel rafforzare gli interessi americani nei Balcani. Resta da vedere, poi, fno a che punto esistesse la consapevolezza delle riper cussioni che avrebbero potuto innescare tali indicazioni politiche, e se partiti e governi, come spesso accade, fossero certi di poterne controllare l’impatto sul ter reno. Quanto accadde successivamente lascia intendere, comunque, che l’impre parazione fosse dominante. In effetti, il 18 ottobre 1990 la Cia elaborò una analisi riservata sulla situazione jugoslava in cui ammetteva la possibilità di «sporadici e spontanei atti di violenza etnica», mentre negava, almeno a breve termine, la pos sibilità che si verifcasse una guerra civile organizzata fra le repubbliche, convinta che la Serbia – impegnata a tener sotto controllo gli albanesi del Kosovo – non avrebbe avuto la forza di stabilire un controllo militare sulle regioni serbe in Croa zia e BosniaErzegovina, dove peraltro erano da prevedere rivolte serbe anche di ampia portata. Curiosamente, nelle righe successive, il documento ammetteva che gli Usa avrebbero potuto fare ben poco per preservare l’unità jugoslava, mentre i leader secessionisti si sarebbero tutti rivolti a Washington per affermare i rispettivi diritti di autodeterminazione. In conclusione, il rapporto attribuiva agli europei una certa capacità di infuenza che gli estensori del testo ritennero però non sarebbe stata utilizzata. Al contrario, essi si dissero convinti che la maggioranza, compresi i tedeschi, avrebbe tranquillamente accettato la dissoluzione dello Stato federale. E così, in effetti, avvenne 3.
Diritti umani e autodeterminazione In Europa occidentale il 1990 fu un anno di particolare eccitazione. Il rapido crollo del campo sovietico e la pressante richiesta di taluni paesi dell’Europa cen troorientale di essere inclusi nella Comunità europea avevano rafforzato il mito, attivamente trasmesso dai media, della «riunifcazione» del vecchio continente, la sciando intendere che si stessero aprendo le porte a nuove opportunità di svilup po. Al tempo stesso, l’invasione irachena del Kuwait e le incertezze dello scontro politico in Urss fra Gorba0ëv e El’cin richiamarono l’attenzione delle cancellerie occidentali che, pertanto, non attribuirono rilevanza ai primi scontri armati verif catisi in agosto in Croazia. 3. Yugoslavia: From “National Communism” to National Collapse. US Intelligence Community Estimate Products on Yugoslavia 1948-1990, Washington D.C. 2006, National Intelligence Council, p. 659.
253
LE ORIGINI ESTERNE DELLA FRANTUMAZIONE JUGOSLAVA
La sottovalutazione delle tensioni che stavano montando nella Federazione jugoslava si deve a diversi elementi. Innanzi tutto, la convinzione che una guerra in Europa non fosse possibile, soprattutto dopo la fne della contrapposizione fra i due blocchi. Anzi, ben radicata era la certezza che, in caso di disordini, sarebbe bastato un movimento di truppe della Nato per contenere ogni «velleità di ricorso alla violenza». Piuttosto, il nuovo contesto europeo sembrava spianare la strada alla riconciliazione, alla pace e alla sicurezza internazionale. Inoltre, la fne della guerra fredda contribuì a ritenere irrilevante, sul piano geopolitico, il ruolo della Jugoslavia non allineata, i cui «nervosismi interni», così si pensava, avrebbero potu to essere contenuti dall’offerta di nuovi crediti e di un accordo di associazione con la Comunità europea 4. Invero, la proposta giunse troppo tardi, appena nell’aprile 1991, e fu reiterata da Santer a Belgrado in maggio, quando ormai, in due separati incontri, i leader di Serbia, Slovenia e Croazia avevano già concordato la dissolu zione del paese (ciò era avvenuto rispettivamente a Belgrado il 24 gennaio e a Karadjordjevo il 25 marzo 1991) 5. Il vero anno di svolta per la geopolitica europea fu, insomma, il 1990. Non solo perché si svolsero allora le elezioni multipartitiche in tutte e sei le repubbliche jugo slave, con risultati alterni che avevano tuttavia rafforzato le componenti separatiste quasi ovunque, ma anche perché fu l’anno dell’unifcazione tedesca. Evento, questo, di enorme importanza strategica e dalle imprevedibili ripercussioni continentali. È impossibile tenere separati questi due aspetti, giacché fu allora che mostra rono di avere un’incidenza inaspettata nelle relazioni europee il richiamo al rispet to dei diritti umani e dell’autodeterminazione. Temi, questi, che furono al centro anche dell’azione diplomatica vaticana, attivamente impegnata a sostenere il rico noscimento dell’indipendenza slovena e croata. La vittoria della coalizione di cen trodestra in Slovenia (sia pure assieme alla conferma alla presidenza di Milan Ku0an, ossia un esponente di punta della Lega dei comunisti che, tuttavia, si era sempre più esposto a sostegno dell’autonomia e poi dell’indipendenza slovena) e quella di Franjo Tudjman in Croazia avevano aperto inediti scenari nella Federazio ne e, soprattutto, incoraggiato i due nuovi esecutivi ad aprire proprie rappresen tanze a Bruxelles (con il compito di fare lobby a sostegno dei propri diritti nazio nali), a spedire delegazioni in diversi paesi europei e in Vaticano per sondare le loro reazioni e ottenere il sostegno a una prossima dichiarazione di indipendenza. In questo modo, l’eventualità di un riconoscimento dell’indipendenza di Slo venia e Croazia venne sì in larga misura determinata dal peso di un’opinione pub blica favorevole, specialmente in Austria, Germania, Svizzera, Danimarca, in parte anche Italia, e in Vaticano, ma fu altresì accelerata dai risultati elettorali nelle due repubbliche. Questi, infatti, avevano attribuito una legittimità democratica ai gover ni di Lubiana e Zagabria, a loro volta interessati a evidenziare la propria diversità rispetto al parlamento federale e alle istituzioni jugoslave «ancora comuniste». L’o
254
4. B. craWforD, «Explaining Defection from International Cooperation: Germany’s Unilateral Recogni tion of Croatia», World Politics, n. 4, vol. 48, 1996, p. 493. 5. S. Bianchini, Sarajevo: le radici dell’odio, Roma 2003, Edizioni associate, pp. 8082.
IL MURO PORTANTE
biettivo era sostanzialmente quello di rendere compatibile la convergenza «antico munismo/nazionalismo separatista» con l’avvento della democrazia, approfttando – in Slovenia – delle critiche rivolte alla Serbia per la violazione dei diritti umani in Kosovo, mentre in Croazia si preferiva insistere sul clima di oppressione politico religiosa imposta dalla Jugoslavia comunista. In realtà, tutti e sei i governi repub blicani (Serbia inclusa) impedirono in tutti i modi le elezioni multipartitiche a livel lo federale. In tal modo, infatti, essi ingarbugliavano le carte, perché oggetto dello scontro diventava la Federazione, spesso confusa all’estero con le politiche attuate in Serbia, cosa che però tornava comodo a tutte le repubbliche jugoslave, ancorché per motivi diversi. Slovenia e Croazia, ad esempio, vedevano rafforzarsi il proprio proflo distintivo (e vittimistico), mentre la Serbia cercava di approfttarne per sta bilire la propria egemonia laddove la distribuzione demografca del proprio grup po etnico la poteva avvantaggiare. Intanto, la rete dei contatti internazionali di Lubiana e Zagabria si intensifcava in varie direzioni. Se la Slovenia si presentava molto attiva a Bruxelles e in Austria, la Croazia inviò propri rappresentanti in Norvegia e Svezia per comprendere come fosse stata gestita la separazione fra i due Stati nel 1905. Inoltre, il governo di Za gabria iniziò una trattativa segreta con l’Ungheria, al fne di acquistare illegalmente armamenti dal blocco sovietico in disfacimento. In effetti, ricevette da Budapest dai 36 mila ai 50 mila kalashnikov e quando l’accordo fu scoperto ne seguì un grande scandalo politico che aggravò le già tese relazioni interrepubblicane 6. Per parte sua, la Chiesa cattolica aveva accresciuto di molto la propria infuen za in Croazia a partire dalle celebrazioni per l’anniversario dei 13 secoli di cristia nesimo, celebrati a Marija Bistrica nel giugno 1981. La partecipazione massiccia all’evento aveva rafforzato la tradizionale tendenza della locale Chiesa cattolica a identifcarsi con la nazione croata. Le sue relazioni con il Vaticano poterono inoltre avvantaggiarsi del legame stabilito con papa Giovanni Paolo II, a sua volta assai sensibile al nesso anticomunismonazionalismo per propria formazione culturale. È altresì vero che, per la Chiesa cattolica croata, l’assioma anticomunismonaziona lismo si allacciava culturalmente (e solo in parte ambiguamente) allo Stato fantoc cio e antisemita creato nella seconda guerra mondiale dagli ustaša, contribuendo così a fornire loro una rilegittimazione storicoculturale, ancorché imbarazzante. Tuttavia a Tudjman servivano alleati: la Chiesa era un potente veicolo di promozio ne del consenso nazionalista, e il suo passato di generale partigiano permetteva di attenuare il peso di tale, ingombrante, eredità. In questo quadro, oltre a visitare il papa in Vaticano ben due volte, il 25 maggio e il 3 ottobre 1991, e rivolgersi a lui con una missiva il 30 agosto, Tudjman poté contare sull’attivismo di alcuni monsi gnori come Nikola Eterovi© e JeanLouis Tauran, della segreteria di Stato, di Josip Uha0 del segretariato della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e, soprattutto, sull’attività diplomatica del cardinale Angelo Sodano. Sicché, già il 3 ottobre il Vaticano annunciò pubblicamente di stare esercitando la propria azione 6. S. WooDWarD, Balkan Tragedy, Washington D.C. 1995, Brookings Institutions, p. 149.
255
LE ORIGINI ESTERNE DELLA FRANTUMAZIONE JUGOSLAVA
diplomatica in favore dei riconoscimenti di Slovenia e Croazia, facendo leva su diritti umani, autodeterminazione e necessità di internazionalizzare il confitto per avere la possibilità di intervenire nel paese. Coerentemente con questo disegno, la Chiesa cattolica sollecitò il sostegno della Conferenza episcopale bavarese che, a sua volta, esercitò un’infuenza decisiva sulla CSU, partner di governo della CDU di Kohl. Nel meccanismo geopolitico che si andava delineando, la cattolica Baviera aveva cominciato a svolgere un ruolo di grande rilevanza anche perché, assieme a Toronto, ospitava la maggior concentrazione di emigrati croati e intratteneva ottimi rapporti con l’allora ministro degli Esteri austriaco Alois Mock, aperto sostenitore della causa slovena 7. Erhard Busek, altro esponente dei popolari austriaci, secondo il ministro degli Esteri italiano Gianni De Michelis, incoraggiò apertamente Lubiana alla secessione alla fne del 1990. Tali convergenze, tanto religiose quanto politiche, parvero a un certo punto disegnare uno spazio geopolitico in Europa centrale ispirato al mito della Mitteleu ropa 8. La vicinanza austroungherese con la Baviera, la Slovenia e la Croazia aveva trovato ulteriori agganci nella comunità di lavoro AlpeAdria, nata nel 1978 come struttura di cooperazione transfrontaliera fra enti regionali contigui. All’epoca, fra tali regioni la Jugoslavia aveva incluso Slovenia e Croazia. Successivamente, però, con l’approssimarsi della crisi federale, le due repubbliche jugoslave avevano ini ziato a far leva sull’associazione AlpeAdria come occasione per sviluppare allean ze e preparare il proprio riconoscimento internazionale, trovando una rispondenza positiva nelle regioni che la componevano. E tuttavia, il richiamo alla Mitteleuropa, che poteva essere caro al flone culturale austrobavarese (ancorché rappresentato sul piano culturale e progettuale in modi difformi già a cavallo fra Otto e Novecen to), era strumentale e temporaneo, almeno nel caso delle repubbliche jugoslave, giacché il loro obiettivo era l’indipendenza ed, eventualmente, specie a Lubiana, l’integrazione nella Comunità europea, sintetizzata dallo slogan elettorale «Evropa Zdaj» («Europa adesso») dei comunisti sloveni. Fu, comunque, in questo crogiuolo di convergenze fra componente cattolico vaticana, austrobavarese, con simpatie ungheresi e il sostegno dell’emigrazione croata a Monaco che si posero le basi per il riconoscimento di Slovenia e Croazia. Non si trattò, tuttavia, di un percorso semplice. La «politica dei criteri» giocò indub biamente un ruolo determinante, specialmente il riferimento ai diritti umani e all’autodeterminazione. Solo che questi criteri erano (e sono) altamente dirimenti. Ad esempio, l’insistenza sui diritti umani fu un aspetto dominante fra quanti, negli Usa, si pronunciarono già nella prima metà del 1991 a favore dell’indipendenza di Slovenia e Croazia, manifestando attenzione anche alle condizioni degli albanesi in Kosovo. Al contrario, l’autodeterminazione ebbe un richiamo maggiore in Germa
256
7. L. caracciolo, «Che cosa cerca la Germania in Jugoslavia», Limes, «Occidente, fne del mondo»?, n. 3/1994, p. 129. 8. L. caracciolo, ivi, pp. 130132; J. neuBauer, Mitteleuropa, Central Europe, Eastern Europe, EastCentral Europe, Amsterdam 2003, Kakanien Revisited, pp. 46.
IL MURO PORTANTE
nia. Per ragioni diverse, la FAZ (Frankfurter Allgemeine Zeitung), i Verdi, seguiti dai socialdemocratici, dallo stesso Willy Brandt e alla fne anche da Kohl e Gen scher si concentrarono su questo principio che tanto aveva pesato nel favorire l’unifcazione tedesca nel 1990 9. E ciò avvenne, fra l’altro, senza mai mettere in discussione l’inviolabilità dei confni esterni, come del resto era accaduto con l’in clusione dei cinque Länder della DDR nella Repubblica Federale, in ciò rispettando due princìpi fondamentali dell’Atto di Helsinki. Curiosamente, fu invece il Vaticano a insistere sulla applicabilità di ambedue i criteri, come si evince da un rapporto del cardinal Sodano che, peraltro, risale a un’epoca successiva ai fatti 10, ma che è coerente con le pressioni da lui esercitate sul ministro degli Esteri olandese van den Broek nell’agosto 1991. La forbice interpretativa che si aprì sulla questione dei criteri dipese in larga misura dalle diverse sensibilità politiche con cui ciascuno rileggeva l’Atto fnale di Helsinki del 1975. Gli americani, in particolare Warren Zimmermann, ambasciatore a Belgrado fra il 1988 e il 1992, concentrarono l’attenzione sulla violazione dei di ritti umani in Kosovo, dove si recarono ripetutamente delegazioni del Congresso, cui seguirono numerosi ammonimenti a Belgrado (senza che fosse mai chiaro se ci si rivolgeva alla Federazione o alla Serbia). Molto ambiguamente, però, Washing ton confermò a più riprese il proprio sostegno all’unità jugoslava, anche se in precedenza aveva rifutato un aiuto economico al primo ministro Markovi©, allor ché questi stava per lanciare la sua riforma economica, indebolendolo in partenza. Successivamente, sempre gli Stati Uniti, insieme a Cee, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale avevano ritenuto vitale la riprogrammazione del debito e il suo pagamento, andando così a strozzare le possibilità di ripresa del paese. Ep pure, quando il segretario di Stato Baker visitò Belgrado alla vigilia del confitto (21 giugno), questi reiterò una posizione favorevole all’unità del paese, condannò eventuali dichiarazioni unilaterali d’indipendenza, ma anche la tentazione di usare la forza. E, in effetti, a Washington si riteneva che all’Esercito jugoslavo spettasse solo, per obbligo costituzionale, la difesa dei confni rispetto a un’aggressione esterna, non un coinvolgimento in dinamiche interne 11. In Germania, invece, la lettura del documento di Helsinki fu più ampia e com plessa. Essa riguardava la questione dei confni e il diritto all’autodeterminazione, anche se tutto ciò comportava una rilevante disparità di valutazioni. Intanto, per un paradosso storico il rispetto dell’inviolabilità dei confni era stato voluto nel 1975 da Brežnev, mentre l’indicazione dell’autodeterminazione dei popoli era stata fer mamente richiesta dalla Jugoslavia. Ma all’epoca, Brežnev intendeva ottenere la legittimazione in particolare del confne tedescopolacco (e, comunque, si riferiva ai confni di Stato), mentre la Jugoslavia aveva inteso inserire un elemento di ga 9. T. zipfel, «Germany and the Recognition of the Sovereignty of Slovenia and Croatia», Perspectives, n. 67, 1996, pp. 142145; S. lucarelli, Europe and the Breakup of Yugoslavia, The Hague 2000, Kluwer Law International, pp. 138142. 10. A. SoDano, 25 anni di pontifcato al servizio della pace, 18/10/2003, pp. 89, bit.ly/3495jmm 11. S. WooDWarD, op. cit., p. 161; L. SilBer, a. little, Yugoslavia: A Death of a Nation, London 1997, Penguin Books, pp. 150151.
257
LE ORIGINI ESTERNE DELLA FRANTUMAZIONE JUGOSLAVA
ranzia per la propria indipendenza rispetto a sempre possibili interferenze sovieti che. Con il 1990, però, questo scenario era completamente mutato. I confni cui alludevano adesso i partiti tedeschi al Bundestag erano quelli «amministrativi» che, con l’indipendenza di Slovenia e Croazia, sarebbero diventati «automaticamente» di Stato (purché fossero riconosciuti come tali da tutte le parti in causa). L’autodeter minazione, invece, innescava ulteriori incertezze, perché – se riferita ai popoli – avrebbe dovuto implicare (come chiedeva la leadership serba) una diffcile modi fca delle demarcazioni amministrative a causa della complessa distribuzione de mografca; se, invece, fosse stata un’autodeterminazione di tipo territoriale, come chiedevano Lubiana e Zagabria, le repubbliche avrebbero dovuto essere conside rate degli «Stati nella Federazione», dalla cui separazione sarebbero sorte nuove, signifcative minoranze, che a loro volta avrebbero prevedibilmente chiesto di ri congiungersi alla madrepatria. Fu proprio tale polarizzazione interpretativa del di ritto all’autodeterminazione a costituire un effcace casus belli, fra i tanti che stava no maturando. Di questi problemi, in verità, la leadership tedesca era al corrente già nel 1991, quando ormai la pressione di Bundestag, del Vaticano, delle delegazioni slovena e croata, oltre che della Baviera, erano diventate molto forti. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, il 23 giugno 1991 i ministri degli Esteri degli Stati membri della Cee (e, dunque, anche il rappresentante della Germania) erano ancora impegnati nella ricerca di un compromesso interno sulla Jugoslavia, mentre stavano conclu dendo i negoziati per il trattato di Maastricht. E alla fne tutti convennero che non fosse il caso di riconoscere alcuna dichiarazione unilaterale di indipendenza, peral tro già annunciata a Lubiana e a Zagabria 12. Fu, quindi, solo quando il confitto armato scoppiò in Slovenia che Kohl e Genscher rovesciarono la propria posizione, spezzando l’unità della Cee e premen do sui propri partner per soddisfare le richieste delle due repubbliche jugoslave.
Il fallimento della ‘politica dei criteri’ Nonostante le resistenze di alcuni Stati membri della Cee (Francia e Regno Unito in primis), Vaticano e Germania si adoperarono da allora per il riconosci mento di Slovenia e Croazia, facendo leva sull’aggressione esercitata militarmente dalla «Serbia comunista» e sulla brutalità delle azioni militari compiute, in particola re con gli assedi di Dubrovnik e Vukovar. La situazione nella Cee si mantenne peraltro controversa, giacché le divisioni fra gli Stati membri sulla questione jugo slava si intrecciavano ai complessi negoziati per il trattato di Maastricht, la cui frma era prevista all’inizio del nuovo anno 13. L’esigenza di salvaguardare la coesione all’interno della Cee condusse, il 5 lu glio 1991, a un nuovo, faticoso compromesso in base al quale fu proposta ai pre
258
12. S. lalonDe, Determining Boundaries in a Conficted World: The Role of Uti Possidetis, Montreal 2002, McGillQueen’s Press, p. 174. 13. S. lucarelli, op. cit., pp. 143148.
IL MURO PORTANTE
sidenti delle sei repubbliche la creazione di una confederazione. Ma il progetto era già stato scartato, in più occasioni, da uno o più leader jugoslavi e quindi non se ne fece niente 14. Nel frattempo, anche l’Italia aveva cominciato a riconsiderare la sua posizione, inizialmente favorevole all’unità jugoslava, avendo concordato con Belgrado la costituzione sia della Quadrangolare, sia dell’Iniziativa Adriatica fra 1989 e 1990. Ora, invece, Roma era diventata più propensa alla causa del ricono scimento, per la quale si spesero prima il presidente Cossiga, poi il Pds, ispirando si al principio dell’autodeterminazione. Ma la vera svolta avvenne a Venezia, in settembre, allorché il ministro degli Esteri De Michelis incontrò il suo omologo Genscher e fu da questi convinto a mutare radicalmente opinione 15. Fra gli altri argomenti utilizzati a favore dei riconoscimenti da parte della Ger mania e dello stesso Vaticano vi era la convinzione che fosse indispensabile tra sformare il confitto da civile in internazionale allo scopo di fermare le operazioni militari in Croazia consentendo l’intervento di forze esterne (dell’Onu, della Csce o della Nato) in funzione di peacekeeping. L’incertezza, tuttavia, durò ancora alcuni mesi. All’inizio di dicembre Kohl annunciò che i riconoscimenti erano ormai pros simi. Il 16 dicembre i membri della Cee – ormai concentrati su Maastricht – decise ro di procedere in tal senso, alla luce di alcuni criteri relativi a diritti umani e rispet to delle minoranze, assegnando a una commissione arbitrale presieduta dall’avvo cato Robert Badinter il compito di valutarne il rispetto entro la metà di gennaio 1992. Ciò nonostante, la Germania ruppe gli accordi e riconobbe unilateralmente i governi di Lubiana e Zagabria il 23 dicembre 1991. Molti studiosi 16 si sono chiesti quali siano state le ragioni alla base di un tale comportamento. Certamente, in Vaticano hanno inciso sia la sensibilità etnoreli giosa verso due repubbliche i cui abitanti erano in buona misura cattolici, sia la convergenza fra anticomunismo e nazionalismo separatista, confortata da una let tura selettiva dell’Atto fnale di Helsinki. Per la Germania, invece, sono stati deter minanti la forte pressione interna (generalmente molto critica verso la Serbia e verso l’esercito jugoslavo, il cui carattere federale stava rapidamente declinando); il ruolo svolto dall’autodeterminazione (che era già stato essenziale per condurre a unifcazione le due Germanie); nonché la convinzione che si sarebbe inviato in tal modo un inequivocabile segnale di deterrenza alla Serbia bloccandone sul nascere le operazioni militari. Nell’insieme, si trattò di considerazioni presto rivelatesi tragicamente sbagliate, anche per l’incoerenza con cui furono perseguite. Ad esempio, la decisione fnale sui riconoscimenti, presa dalla Cee a gennaio, modifcò le conclusioni cui era giun ta la commissione Badinter. Violando i criteri ai quali la commissione si era affda ta, soprattutto in tema di protezione delle minoranze, in base ai quali aveva giudi 14. T. zipfel, op. cit., p. 138. 15. G. De MicheliS, «Così cercammo di impedire la guerra», Limes, «La Russia e noi», n. 1/1994, p. 233; R. caplan, Europe and the Recognition of New States in Yugoslavia, Cambridge 2005, Cambridge Uni versity Press, pp. 100103. 16. R. caplan, op. cit., pp. 4148; B. craWforD, op. cit., pp. 458504; T. zipfel, op. cit., pp. 140143; S. lucarelli, op. cit., pp. 130142:
259
LE ORIGINI ESTERNE DELLA FRANTUMAZIONE JUGOSLAVA
260
cato insuffcienti le garanzie offerte dalla Croazia mentre aveva ritenuto soddisfa centi quelle stabilite in Macedonia, il Consiglio ribaltò il giudizio pervenutogli, su bendo il veto greco nei confronti di Skopje e sull’altro fronte la pressione tedesca a sostegno di Zagabria che, fra l’altro, Berlino aveva ormai riconosciuto. In tal modo, la credibilità delle procedure messe in atto dalla Cee subì un duro colpo nell’opinione pubblica del SudEst europeo. Inoltre, i riconoscimenti non fermarono il confitto, che continuò in Slavonia, Krajina, Dalmazia e Raguseo, ove erano impegnate le truppe montenegrine. Presto la guerra investì la BosniaErzegovina. Successivamente, anche Serbia e Montene gro (a causa del Kosovo) e la stessa Macedonia furono coinvolte da operazioni militari. Nel caso specifco del Kosovo, l’intervento della Nato fu primariamente giustifcato dalla volontà di ristabilire il rispetto dei diritti umani violato dalla Serbia. Tuttavia, in precedenza, la Commissione Badinter aveva rifutato di trattare sia il caso degli albanesi del Kosovo sia quello dei serbi di Croazia come rientranti nel quadro di riferimento dell’autodeterminazione (nonostante quelli avessero tenuto dei referendum, ritenuti illegali rispettivamente dalla Serbia e dalla Croazia). Sicché l’impressione che l’Occidente applicasse «doppi standard» a seconda delle situazio ni e delle proprie convenienze si è presto radicata nei Balcani trovando, successi vamente, ulteriori conferme. Infne, le mediazioni internazionali seguite all’internazionalizzazione del con fitto si sono rivelate, per anni, inadeguate soprattutto perché a essere coinvolti e/o consultati furono solo i «signori della guerra». Alla fne, la sospensione delle ostilità e le fragili paci che si sono susseguite a partire dal 1995 hanno sostanzialmente premiato l’obiettivo dei belligeranti di costruire Stati etnonazionali a discapito di politiche di integrazione. Il risultato fnora raggiunto ha confermato il prevalere della sovranità statuale, ancorché territorialmente ridimensionata, rispetto alle pro spettive di integrazione. Certo, l’insistenza della Ue per preservare il carattere multietnico degli Stati successori della Jugoslavia attraverso una discriminazione positiva delle minoranze (inserita nei vari trattati di pace) rispondeva a un tentativo vòlto a ridimensionare l’omogeneizzazione in atto dello Stato etnonazionale. Ma, come si è notato con il passare del tempo, si è trattato più di formule che di fatti concreti. E sebbene Slo venia e Croazia siano entrate nella Ue, i loro confni sono ancora oggetto di con testazione, mentre la cooperazione regionale balcanica stenta a svilupparsi. Così la situazione si è trascinata nel tempo, fra speranze di ricomposizione, mancate rifor me, sforzi riformatori di alcune leadership e «fatica da allargamento». In questo quadro di prolungate incertezze, nell’autunno del 2019, la Ue ha nuovamente rin viato l’apertura dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord (che nel frattempo aveva modifcato il suo nome per venire incontro alle richieste gre che) per prevalenti motivazioni di provenienza francese. Sicché, non solo la credi bilità dell’Ue è stata messa di nuovo in discussione, ma sempre più – nella valuta zione degli eventi segnata dal crescere della distanza storica – l’ambiguità politica con cui Ue e Usa hanno accompagnato il processo di disintegrazione della Jugo
IL MURO PORTANTE
slavia fra il 1995 e il 2001 è apparsa anticipatrice delle tendenze sovraniste (o neo nazionaliste) successivamente emerse in vari paesi della Ue a seguito della crisi politica ed economicofnanziaria esplosa fra il 2005 e il 2008. In altre parole, la mancata capacità occidentale di offrire un percorso di trasfor mazione democratica alla Federazione jugoslava, quando ancora c’era il tempo per farlo cooperando con il governo di Ante Markovi©, è dipesa in larga misura da un persistente predominio politicoculturale del modello nazionale, che ha esercitato i propri effetti negativi sullo stesso processo di integrazione europea, nonostante la crescente interdipendenza a livello globale. Certo, l’unifcazione tedesca ha infuito in modo rilevante sulle aspirazioni alla ricomposizione etnonazionale nei Balcani. Non fu un caso che i Dodici avessero deciso di frmare il trattato di Maastricht subito dopo i riconoscimenti di Slovenia e Croazia, nella speranza che il consolidamento dell’Unione Europea attraverso l’eu ro e la cittadinanza europea avrebbe frenato una tendenza altrimenti pericolosa per la pace, come rimarcò il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer nel suo fa moso discorso all’Università Humboldt nel 2000 17. Ma quel progetto europeo è ri masto incompiuto. Nel frattempo, i riconoscimenti voluti da Germania e Vaticano nel 1991 non hanno prodotto i risultati attesi, almeno per quanto attiene alla stabi lizzazione regionale, sia pure su nuove basi geopolitiche ricomposte entro un quadro controllato di delimitazioni amministrative elevate a confni di Stato, come essi avevano suggerito. L’aspirazione alla loro modifca, invece, è ancora viva e attuale nelle leadership locali e recentemente è stata sollecitata da esperti inglesi e americani, favorevoli allo scambio di territori, ad esempio, fra Serbia e Kosovo, incontrando, ancora una volta, la fera opposizione tedesca e la resistenza della Ue (nel nome dei princìpi di Helsinki). Il perdurare della crisi jugoslava si è intrecciato con i limiti, culturali oltre che politici, manifestati proprio dal processo di integrazione europea che oggi deve af frontare, fra le altre, anche le crisi del Brexit e della Catalogna, così come le chiusu re sovraniste di vari partiti e Stati membri. Pertanto, la loro interdipendenza, ancora attiva, non lascia presagire – se dovesse protrarsi – un futuro sereno per l’Europa.
17. J. fiScher, «From Confederacy to Federation: Thoughts on the fnality of European integration», Berlin 2000, Humboldt University, p. 5, bit.ly/2MQ8Ik6
261
IL MURO PORTANTE
IL RISVEGLIO DEL PORTO DI TRIESTE FRA MITTELEUROPA E CINA
di Diego D’Amelio
Nelle nuove vie della seta l’ex perla dell’impero asburgico vede un’opportunità per tornare grande. Le mosse dell’Autorità di sistema portuale e le promesse di Roma. La concorrenza con Capodistria. La guerra dei dazi Usa-Cina plasmerà lo sviluppo dello scalo.
I
1. L 18 MARZO 1719 L’IMPERATORE AUSTRIACO Carlo VI istituì il regime di porto franco, che avrebbe fatto la fortuna di Trieste nei due secoli successivi. Un borgo di pescatori e aristocratici decaduti si trasformò in una città cosmopolita e borghese, grazie alla sua collocazione geografca, ma soprattutto a una scelta politica che ne fece l’affaccio dell’impero asburgico sul mare. Esattamente tre secoli dopo e a trent’anni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, che segnò la fne della divisione bipolare che vedeva Trieste collocata a pochi passi dalla Jugoslavia socialista, lo scalo sembra essere uscito da un lungo declino. La rinascita passa per lo sviluppo di un mercato centroeuropeo, tornato unito dopo la fne della cortina di ferro, e per l’interesse di operatori di livello globale. Il caso più eclatante è la frma del memorandum tra l’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale, presieduta da Zeno D’Agostino, e China Communications and Construction Company (Cccc), gigantesca società pubblica utilizzata da Pechino come braccio operativo nei progetti infrastrutturali delle nuove vie della seta. L’accordo stipulato a fne marzo vede Cccc intenta a valutare il proprio coinvolgimento nello sviluppo ferroviario dello scalo e Trieste invitata a partecipare a terminal cinesi e centroeuropei. Si tratta di uno dei piatti forti delle intese concordate a Roma davanti al presidente Xi Jinping e precedute dalle dure critiche di Usa e Ue per le conseguenze strategiche di quel passo. Il governo Conte e l’Autorità portuale hanno sempre sottolineato la natura meramente commerciale della partnership che ha inserito Trieste nella Belt and Road Initiative (Bri) e che si spiega con la volontà del Dragone di deviare verso l’Alto Adriatico parte dei traffci concentrati nel Pireo. Sempre ammesso che la guerra fredda tra Washington e Pechino non faccia sfumare un avvicinamento che in primavera era dato per scontato dagli osservatori e che ora è soggetto a un rallentamento. La Cina non è l’unica ad avere interesse per il porto giuliano, cui si
263
IL RISVEGLIO DEL PORTO DI TRIESTE FRA MITTELEUROPA E CINA
guarda anche dalla più familiare (almeno per Trieste) area mitteleuropea. Dopo l’accordo chiuso a luglio per la creazione di un terminal a servizio esclusivo dell’Ungheria, si proflano possibilità di ulteriori investimenti da parte di compagnie ferroviarie e marittime austriache e tedesche. Negli ultimi anni hanno inoltre fatto sondaggi su Trieste realtà come Dubai Ports World, Psa Singapore, Msc, Qatar Investment Authority, Yildrim e i concorrenti scali del Nord Europa, che potrebbero valutare di aprire una succursale a Trieste. Per spianare la strada alle merci verso l’Europa di mezzo diventa strategico il raddoppio ferroviario per il quale Autorità e Rete ferroviaria italiana hanno a disposizione una capacità di investimento di 180 milioni, che potrebbe essere rafforzata dalla partecipazione cinese. Sul fronte mare sono intanto in piedi trattative fra grandi attori e terminalisti privati. La piattaforma logistica, in fase di ultimazione, sarà la base per la costruzione del Molo VIII, destinato a diventare il più grande del porto: compagnie cinesi stanno trattando l’ingresso nella società di gestione e sono interessate agli imminenti lavori per l’allungamento del Molo VII, gestito da Msc e T.O. Delta. In Molo V e VI la danese Dfds sta infne consolidando la sua presenza in alleanza con le compagnie turche U.N. Ro-Ro ed Ekol, sebbene l’autostrada del mare da Istanbul sia entrata in crisi e i venti di guerra non depongano per un miglioramento. Come nel 1719, Trieste sembra vicina a una svolta. È la geopolitica ad aver reso prospera la città quando era unico porto dell’impero austriaco, ad averne segnato il declino quando buona parte del suo retroterra fnì sotto i regimi comunisti e a riaccenderne le speranze ora che la caduta del Muro e l’integrazione europea hanno riunito gli Stati eredi della Mitteleuropa e prodotto un rilevante sviluppo industriale nella parte orientale del continente.
264
2. Porto periferico rispetto al resto della penisola e unico in Italia con una proiezione quasi esclusivamente internazionale, Trieste detiene il primato nazionale per traffco ferroviario e tonnellaggio. Dall’arrivo di Zeno D’Agostino nel 2015, le statistiche sono in crescita e lo scalo pare essersi svegliato dopo la crisi indotta dalla defagrazione dell’impero asburgico e dalla guerra fredda. Nella cornice comunitaria, il porto può tornare a sfruttare le fortune della sua geografa, dai fondali naturali di diciotto metri alla collocazione nel punto più settentrionale dell’Adriatico, a poche centinaia di chilometri dal cuore d’Europa. Tali elementi calamitano le attenzioni di arabi, austriaci, cinesi, danesi, tedeschi, turchi e ungheresi: l’Alto Adriatico si sta riaprendo al mondo e Trieste spera in un aumento consistente dei traffci e in una nuova industrializzazione. Il porto giuliano si attesta oggi su un traffco container da 725 mila teu all’anno contro i 2,6 milioni di Genova, per non parlare della distanza siderale dai colossi nordeuropei, cui Trieste vorrebbe rosicchiare posizioni nel prossimo futuro. Nel 2009 il traffco di contenitori non arrivava a 300 mila teu, ma dal 2015 lo scalo ha agganciato il trend dell’Alto Adriatico, che dal 2008 ha visto i porti del Napa (Trieste, Venezia, Ravenna, Capodistria e Fiume) segnare un incremento dell’80% dei
IL MURO PORTANTE
volumi. I piani di sviluppo dell’Autorità prevedono un raddoppio dei container nel 2030, grazie al traino della crescita economica centroeuropea e al boom dei traffci nel Mediterraneo, passati da 10 a 50 milioni di teu in vent’anni. Trieste non ha rivali in Italia per tonnellaggio, indicatore che ne fa l’undicesimo porto in Europa: nel 2018 sono stati movimentati 62,7 milioni di tonnellate, con un +1,2% sull’anno precedente. Il dato è alterato dalle quantità di greggio pompato dall’Oleodotto transalpino verso Austria e Germania, che fanno di Trieste il primo porto petrolifero del Mediterraneo. Grazie alla crescita degli altri trasporti, il peso della componente petrolio sui volumi complessivi è comunque sceso in poco tempo dal 75% al 68%. I container si distinguono al contrario per un aumento signifcativo: il 2018 ha registrato un +17.7% sul 2017, mentre nello stesso anno i porti italiani hanno perso il 2,4%. Il primo semestre 2019 si distingue per un ulteriore +13,3%, con la speranza di chiudere l’anno attorno agli 800 mila teu. Per mettere sulla stessa bilancia anche i traffci ro-ro dalla Turchia, l’Autorità portuale richiama la somma di container, semirimorchi e casse mobili, pari nel 2018 a 1,4 milioni di teu equivalenti, con un +7,7% sull’anno precedente. L’anno scorso si sono contati 300 mila rotabili trasferiti, ma nel primo semestre 2019 la situazione è precipitata con un crollo del 30%. Trieste spicca però soprattutto per la rivoluzione delle modalità di trasporto via terra. Alla crescita dell’1,2% dei volumi dello scalo corrisponde infatti un +12% dei collegamenti su ferro: con quasi 10 mila treni movimentati nel 2018 (pari a 200 mila camion tolti dalla strada), Trieste è il primo porto ferroviario in Italia, se si considera che Genova ne fa 7 mila con più del triplo del traffco container. Nel 2015 i convogli in arrivo e partenza sono stati poco meno di 6 mila: l’aumento è del 63% in tre anni e sono ormai oltre duecento i treni che ogni settimana collegano lo scalo con hub dislocati in tredici Stati del Vecchio Continente. I container trasportati su ferro sono il 55% del totale, mentre i rimorchi toccano il 24%. Risultati lusinghieri per un porto che, secondo le stime dell’Agenzia imprenditoriale operatori marittimi, fattura 1,3 miliardi e dà lavoro a 11 mila persone tra occupazione diretta, indiretta e indotto, concorrendo a produrre il 9% del pil della provincia di Trieste. 3. L’impulso impresso dall’Autorità portuale attraverso un più razionale sfruttamento delle infrastrutture esistenti ha il suo contraltare nel nuovo piano regolatore dello scalo, approvato nel 2015 e basato su quattro assi: costruzione della piattaforma logistica (da cui partirà il Molo VIII), allungamento del Molo VII, creazione di un terminal a servizio dell’Ungheria e unifcazione dei Moli V e VI. Sono questi gli asset che, se pienamente realizzati, faranno uscire dal nanismo le banchine triestine. Il porto si svilupperà verso est, ma serviranno capitali stranieri, perché si stimano investimenti per oltre un miliardo di euro. La realizzazione più vicina è la piattaforma logistica: 28 ettari di piazzali e 482 metri di attracco dati per trent’anni in concessione alla società locale Plt. La fne dei lavori è annunciata per il primo semestre 2020, dopo uno slittamento per bonifche
265
IL RISVEGLIO DEL PORTO DI TRIESTE FRA MITTELEUROPA E CINA
266
ambientali. Presidente della società è Francesco Parisi, erede di una dinastia di spedizionieri attivi a Trieste da inizio Ottocento e capaci di aprire una decina di succursali in Estremo Oriente. Dopo aver investito 30 milioni, cui se ne aggiungono 100 di fondi pubblici, Plt è alla ricerca di un partner industriale interessato alla gestione del terminal e capace di assicurare quei volumi di traffco che giustifchino la progettazione del Molo VIII nel prossimo biennio. Dopo i sondaggi di diverse realtà estere, la trattativa più avanzata è quella in atto da oltre due anni con China Merchants, società con sede a Hong Kong, specializzata nella conduzione di scali portuali. Il gigante cinese è alleato con i francesi di Cma Cgm, terza compagnia di navigazione mercantile al mondo, che valuta di deviare a Trieste parte del proprio traffco container diretto in Alto Adriatico, al momento concentrato tra Venezia e Capodistria. Stando agli annunci, il confronto con China Merchants avrebbe già dovuto dare i suoi frutti, ma nulla si muove, complice il ritardo dei lavori e l’ostilità crescente tra Washington e Pechino. Soggetti europei starebbero cercando di inserirsi, ma la loro identità è coperta da riserbo. Per il momento emerge solo l’interesse della compagnia Rail Cargo Austria (Rca), che potrebbe rilevare quote di Plt per offrire i servizi ferroviari a chiunque gestirà i moli. La partita riguarda da vicino la riconversione della Ferriera di Servola: il Gruppo Arvedi si è deciso a chiudere la produzione di ghisa a Trieste e le zone occupate da cokeria e altoforno sono destinate a diventare una piastra ferroviaria affancata alla cosiddetta Grande stazione di Servola, che sarà posta a servizio del Molo VIII permettendo di dar vita a treni da 750 metri. Se il Molo VIII è il futuro, l’adiacente Molo VII è il presente. La banchina in concessione a Trieste Marine Terminal (Tmt), proprietà 50% Msc e 50% T.O. Delta, movimenta container per 625 mila teu all’anno attraverso un sistema di collegamenti che conta dodici coppie di treni con l’Austria, quattordici con l’Ungheria, dieci con la Germania, quattro con la Slovacchia e tre con la Repubblica Ceca. Fra le aziende clienti fgurano Audi, Red Bull, Rauch, Bosch, Philips e Samsung. Dopo la morte del presidente di T.O. Delta Pierluigi Maneschi, sono pervenute offerte da parte del Fondo F2i e da fondi esteri: proposte rispedite al mittente da Tmt, che ha confermato la volontà di procedere all’allungamento del molo e che per la stessa ragione ha respinto nel corso dell’anno anche il corteggiamento di Cccc. L’assegnazione dei lavori avverrà nei primi mesi del 2020: al termine il Molo VII sarà lungo 870 metri, largo 400 e dotato di ulteriori due gru con un investimento complessivo da 80 milioni. Tmt sarà a quel punto l’unico terminalista dell’Adriatico a poter operare contemporaneamente su due grandi navi oceaniche. Novità sono in programma anche per i Moli V e VI, capolinea dell’autostrada del mare fra Trieste e Turchia. Nel primo semestre 2019 i traffci ro-ro sono andati incontro a una drastica contrazione, a causa delle diffcoltà economiche tedesche, della crisi politica turca, della perdita di valore della lira e della scelta degli operatori di aumentare i noli e la capacità dei traghetti riducendo la frequenza delle partenze. Parisi ha da poco lasciato il Molo VI per dedicarsi alla piattaforma, vendendo le proprie quote ai turchi di Ekol, che ora detengono il 100% della
IL MURO PORTANTE
IL CORRIDOIO BALTICO-ADRIATICO Rete ferroviaria Rete stradale Città attraversate dalla rete ferroviaria Stazioni ferroviarie Porti Aeroporti
Gdynia
RUSSIA
Danzica
Mar Baltico Świnoujście
P O L O N I A Stettino
Berlino Poznań
Varsavia
G E R M A N I A
Wrocław Jelcz Miłoszyce Opole Rudziniec Gliwice
Praga
Katowice Cracovia
Ostrava
REPUBBLICA CECA Přerov Brno
Bře
cla v
Zilina
S LO VACC H I A Vienna Kittsee
Bratislava
AUSTRIA
Budapest Graz
Villach
UNGHERIA
Maribor Udine Cervignano
SLOVENIA
Trieste
Padova
Bologna
Lubiana
Pivka Divača Capodistria Venezia Fiume
Mar Adriatico Ravenna
Zagabria CROAZIA
BOSNIAERZEGOVINA
SERBIA
Belgrado ©Limes
267
IL RISVEGLIO DEL PORTO DI TRIESTE FRA MITTELEUROPA E CINA
concessione di una banchina con 1.500 metri di attracchi, che vive grazie ai rotabili della compagnia di navigazione turca U.N. Ro-Ro e della sua controllante danese Dfds. In un futuro prossimo Ekol cederà probabilmente la società di gestione a Dfds, che detiene anche la maggioranza della concessionaria del Molo V, in partecipazione con la triestina Samer & Co. Shipping. I turco-danesi potrebbero così diventare padroni di entrambi i moli, potendone valutare l’unifcazione prevista dal piano regolatore. A completare il quadro, c’è l’approdo a Trieste di una società pubblica ungherese, che ha frmato un preaccordo per la creazione di un terminal nella zona delle dismesse raffnerie Aquila. A fne 2018 il premier Viktor Orbán ha formalizzato la rinuncia a investire 200 milioni sul raddoppio della ferrovia Capodistria-Divaccia, puntando sul porto di Trieste. Gli assi sovranisti non c’entrano, perché il confronto era cominciato prima dell’ascesa del governo gialloverde. La conclusione dipenderà dalla capacità delle istituzioni italiane di defnire un piano per la bonifca dei terreni, preliminare alla realizzazione di una banchina e un terminal multipurpose da 34 ettari, attraverso cui Budapest vuole importare materie prime ed esportare la propria manifattura, senza escludere la trasformazione industriale in regime di punto franco. L’Autorità portuale ha proposto al Mise di defnire un accordo di programma unico per la bonifca dei terreni della Ferriera e di quelli dell’ex Aquila. Il tempo è tiranno, perché gli ungheresi attendono risposte entro l’anno per autorizzare un investimento da un centinaio di milioni, legato a una concessione da 60 anni. Il disimpegno ungherese da Capodistria dipende dalla saturazione della linea ferroviaria dello scalo sloveno, che registra volumi di traffco più alti (un milione di teu e un +7,7% per i container nel 2018, abbassatosi però nel primo semestre 2019 al +2%), sospinti da costo del lavoro e tassazione contenuti. I terminalisti triestini prevedono di avere a disposizione cinque anni per tentare il sorpasso sfruttando la diffcoltà dei vicini a realizzare il raddoppio ferroviario. Prospettiva ben diversa dagli echi di inizio millennio, quando c’era chi ragionava su un porto unitario di Trieste-Capodistria nell’ambito dell’euroregione. Lubiana prevede di ultimare entro il 2026 l’opera da 27 chilometri, che costa tuttavia più di un miliardo e sconta inoltre l’instabilità dei governi sloveni, la diffcoltà a reperire le risorse e la battaglia ambientalista, riesplosa a causa della necessità di scavare gallerie nel terreno carsico e del recente deragliamento di un treno con sversamento di kerosene.
268
4. L’Autorità portuale ha avviato la sua rivoluzione ferroviaria a cominciare dalla riorganizzazione delle modalità di manovra interne allo scalo, col risultato di velocizzare i tempi di uscita dei convogli grazie all’utilizzo di un unico operatore in house (Adriafer), che costituisce una peculiarità nel panorama dei porti italiani. A ciò si aggiunge la scelta di aumentare le capacità di stoccaggio, mettendo in rete gli interporti dislocati in Friuli-Venezia Giulia: operazione già compiuta nel caso di Fernetti e Cervignano, in divenire a Gorizia, allo studio a Pordenone. La scommessa sul mare non potrà essere vinta senza un ambizioso potenzia-
IL MURO PORTANTE
mento ferroviario. Il porto ha una capacità massima di 14 mila treni all’anno e si sta avvicinando alla saturazione, essendo destinato a superare a fne anno i 10 mila convogli. L’Autorità portuale e Rf hanno messo in campo il progetto Trihub, che promette di raddoppiare entro il 2025 i volumi potenziali, portandoli a 25 mila treni all’anno, pari a 2 milioni di teu movimentati. Il piano poggia su un investimento pubblico da 180 milioni, in buona parte già stanziati da Rf e Autorità portuale. Serviranno a modernizzare la stazione di Campo Marzio e a mettere in cantiere gli snodi di Servola e Aquilinia che sosterranno l’espansione del porto a est. La «cura del ferro», come la chiama D’Agostino, non rappresenta nulla di nuovo: nel passaggio dalla dimensione emporiale a quella industriale, il porto austriaco prosperò proprio grazie ai collegamenti ferroviari con l’hinterland e alle esenzioni fscali sulle merci. Per un porto collocato all’incrocio fra i corridoi europei Adriatico-Baltico e Mediterraneo, Trihub è fondamentale per consolidare la funzione di porta d’accesso verso l’Europa centrale. Un ruolo che Trieste già esercita, visto che su otto operatori ferroviari presenti nello scalo (altro unicum in Italia) è una compagnia austriaca a movimentare i maggiori volumi. Rca conta 2.800 treni e ha da poco stretto un accordo con Autorità e Rf per migliorare i servizi intermodali fra lo scalo e i terminal dell’Europa centrale. Dietro Rca si pone con 1.800 viaggi all’anno l’altoatesina Rail Traction Company, collegata a Deutsche Bahn e desiderosa di recuperare le quote di mercato perse in questi anni: un terzo dei treni in partenza da Trieste è infatti diretto in Germania con più di 50 collegamenti settimanali dai vari moli. Seguono Merci Italia Rail con 900 treni, Inrail con 600 e la francese Captrain con altri 600, senza dimenticare i 2 mila convogli movimentati da Compagnia ferroviaria italiana per conto di Siderurgica Triestina e gli 800 treni a corto raggio appannaggio di Adriafer. Attraverso i binari il porto è collegato dal Belgio all’Ungheria, passando per gli scali baltici di Kiel e Rostock. Con lo stop al progetto di alta velocità Trieste-Mestre e la stasi che circonda la più economica velocizzazione della linea attuale, la proiezione centroeuropea del porto è evidente. L’Autorità portuale vuole consolidarla attraverso una strategia di ingresso con piccole quote in alcuni interporti del Vecchio continente, per essere coinvolta nelle iniziative di sviluppo dei «porti di terra» che guardano a loro volta a Trieste, come dimostrano le numerose presenze registrate nella prima edizione del Trieste Intermodal Day. Nel mirino dell’Autorità portuale ci sono gli interporti di Neuss Trimodal a Düsseldorf, di Fürnitz a Villaco (allo studio un corridoio doganale per treni container), di Bettembourg in Lussemburgo, di Budapest-Mahart in Ungheria e di Košice in Slovacchia. Quest’ultimo è inserito nel memorandum frmato tra Autorità portuale e Cccc, in cui si immagina un coinvolgimento di Trieste nella realizzazione del terminal incastonato fra Slovacchia, Ucraina e Ungheria, pensato dalla Cina come uno degli snodi europei delle nuove vie della seta. Collaborazioni sono già in piedi con l’interporto di Duisburg (scelto a sua volta da Pechino come capolinea terrestre della Bri), che potrebbe acquisire quote dell’interporto triestino di Fernetti
269
IL RISVEGLIO DEL PORTO DI TRIESTE FRA MITTELEUROPA E CINA
per offrire ai propri clienti un’alternativa ai porti del Nord Europa. Due nuovi protocolli sono stati intanto frmati a Monaco dall’Autorità portuale: con la danese Dfds e la tedesca Kombiverkehr per avviare un servizio bisettimanale di treni diretti a Norimberga e con il polo di Bettembourg per aprire a collaborazioni che prevedono intese riguardanti la parte via terra delle nuove vie della seta. L’Autorità portuale sta pure valutando di inaugurare una connessione ferroviaria diretta con Chengdu, nella consapevolezza che le regioni meridionali cinesi sono mal collegate ai porti. Collegamenti su binario già esistono d’altra parte fra l’Impero del Centro e Duisburg, Varsavia, Lione, Madrid e Londra, solo per fare qualche esempio. Sempre a Monaco la Regione Friuli-Venezia Giulia e il Land della Baviera hanno discusso partecipazioni reciproche nei sistemi logistici delle due regioni. Trieste è porto di riferimento per il sistema economico bavarese e non soltanto per le merci: l’Oleodotto transalpino pompa ogni anno 35 milioni di tonnellate di greggio, coprendo il 40% del fabbisogno energetico della Germania (il 100% di Baviera e Baden-Württemberg), il 90% dell’Austria e il 50% della Repubblica Ceca.
270
5. Il 23 marzo l’Autorità portuale e la compagnia statale cinese Cccc hanno siglato un Memorandum of understanding (Mou) nella cornice degli accordi offciati dal primo ministro Giuseppe Conte e dal presidente Xi Jinping. Il patto riguardante Trieste fa parte della strategia di interconnessione globale Bri e prevede l’inserimento del Dragone nello sviluppo ferroviario del porto, un’alleanza strategica nell’interporto di Košice e la pianifcazione di una catena logistica per l’export in Estremo Oriente di prodotti italiani, a cominciare dall’enogastronomia. In questi anni i cinesi hanno già costruito una presenza stabile in Europa investendo con Cosco Shipping, China Merchants e Cccc nei terminal di Anversa e Zeebrugge in Belgio, Rotterdam in Olanda, Pireo in Grecia, Bilbao e Valencia in Spagna, Vado Ligure in Italia. La strategia è rafforzata dall’acquisto del 49% della francese Terminal Link da parte di China Merchants, che controlla così una quindicina di moli in Europa. Senza dimenticare l’interesse di Cccc e Cosco per la realizzazione della banchina alti fondali di Venezia e per la diga foranea di Genova. Dopo aver scoperto vantaggi e potenzialità di un accesso all’Europa da sud, Pechino ha preso atto delle diffcoltà a trasformare il Pireo nel punto di partenza di collegamenti via terra verso il cuore del continente, tanto da avere allo studio attività di «feederaggio» con lo scalo croato di Fiume, per salire da lì verso l’Europa centrale via treno. L’Alto Adriatico e Trieste in particolare sono l’alternativa più semplice, ma il coinvolgimento cinese nel piano Trihub si limita al momento allo studio di fattibilità dello snodo di Aquilinia. Un rallentamento ha avuto anche la cooperazione a Košice, sebbene l’Autorità stia partecipando alla stesura del business plan e abbia incontrato esponenti del governo slovacco. La frenata riguarda gli investimenti cinesi in Europa: a pesare sono la guerra dei dazi con gli Stati Uniti e la volontà di Pechino di valutare l’atteggiamento del nuovo governo italiano. Più avanzato è invece il confronto sull’export in Cina. D’Agostino ha visitato piattaforme logistiche di mare e di terra nell’area del
IL MURO PORTANTE
Guangdong e a Nanchino, dove sono state gettate le basi per un accordo commerciale sulla distribuzione di vino con Suning, forte di 1.600 punti vendita in più di 700 città fra Cina e Giappone, cui si aggiungono l’e-commerce e l’acquisizione dei 200 ipermercati Carrefour in Cina. Il ministro Paola De Micheli sostiene l’iniziativa. Molto dipenderà dal Pd, che nel 2017 ha aperto la via agli accordi su Trieste con le visite del primo ministro Paolo Gentiloni e della presidente della Regione Debora Serracchiani, criticando successivamente le intese perché frmate fuori dalla cornice comunitaria. Ex presidente di Assoporti e vicepresidente dell’European Sea Ports Organisation, D’Agostino crede nell’apertura ai capitali del Dragone, il cui interesse è stimolato anche dal regime di porto franco internazionale e dalla possibilità di creare un parco industriale dove trasformare merci in esenzione fscale, sfruttando le potenzialità delle limitrofe aree manifatturiere attualmente semi-dismesse. L’eventuale gestione di terminal portuali avverrebbe in una cornice comunitaria: non attraverso la vendita di asset, ma grazie al sistema di concessioni demaniali vigente in Italia, come l’Autorità portuale sottolinea sempre per marcare la distanza dalla situazione del Pireo. Saranno però gli sviluppi dei contrasti Usa-Cina e i margini di manovra di Roma a dire se il Mou di Villa Madama sia stato solo occasione per una campagna pubblicitaria globale gratuita o avrà ricadute sul porto di Trieste e sull’economia della regione. A marzo l’amministrazione Trump aveva chiesto pubblicamente di non apporre la frma sulle 29 intese sancite a Villa Madama, accompagnate da un troppo timido ancoraggio all’Alleanza Atlantica da parte dell’esecutivo M5S-Lega, la cui crisi nei mesi scorsi ha consigliato prudenza alle istituzioni italiane sulle aperture da fare a Pechino. Nel caso di Trieste, le pressioni americane hanno ottenuto l’eliminazione del termine «strategico» dall’intestazione del Mou e la cancellazione di ogni riferimento a cooperazioni sulle infrastrutture digitali. La Cina è d’altronde uno Stato rivale della Nato e per gli Usa il porto di Trieste ha una valenza strategica che si considera messa a rischio dalla politica di espansione delle nuove vie della seta, anche per la vicinanza con la base militare di Aviano. Nonostante la già solida presenza dei cinesi nei porti europei, Bruxelles ha stigmatizzato l’iniziativa autonoma italiana nei confronti della Cina: poco tempo dopo la frma di Roma, la Francia ha a ogni modo stipulato accordi di portata economica ben maggiore. 6. Unico porto italiano in maggioranza dedicato a traffci estero su estero, Trieste si affaccia sul futuro domandandosi cosa si realizzerà delle tante prospettive aperte e che benefci potranno esserci per lo sviluppo di una città che viene da decenni di «felice» declino assistito. A trecento anni dall’istituzione del porto franco, la svolta sembra a portata di mano, ma serviranno da una parte una precisa strategia di politica estera che accompagni o riorienti le possibili intese con la Cina e dall’altra velocità di esecuzione su infrastrutture, bonifche dei siti inquinati e attuazione del (teoricamente) nuovo regime di esenzione fscale defnito nel giugno 2017 dal decreto Padoan-Delrio. La palla passa dunque a Roma, cui spetta defnire
271
IL RISVEGLIO DEL PORTO DI TRIESTE FRA MITTELEUROPA E CINA
la natura delle relazioni con Pechino, realizzare nei tempi il raddoppio ferroviario e mantenere gli impegni assunti dal ministro Stefano Patuanelli sulla messa in sicurezza dei terreni della Ferriera di Servola e dell’area ex Aquila destinati a riconversione logistica. Il governo dovrà inoltre mettere mano una volta per tutte all’applicazione del sistema di franchigie doganali che Trieste ha ereditato dal trattato di pace del 1947, mai effettivamente decollato. L’ultimo tassello della strategia di rilancio dell’Autorità portuale sta nel mettere in funzionamento un regime di esenzioni fscali non dissimile da quello asburgico, con la possibilità di importare, trasformare ed esportare merci senza pagare dazi, accise e Iva. L’opportunità è oggi disponibile a Suez, in Cina e a Dubai, ma sarebbe unica nel contesto europeo. Gli accordi con le dogane sono tuttavia fermi, nonostante i capannoni per stoccaggio e lavorazione siano pronti, dopo l’acquisto di parte degli spazi occupati dallo stabilimento Wärtsilä a Bagnoli. Ventiquattro ettari fra aree coperte e scoperte, che oggi servono per la logistica e che domani ospiteranno anche magazzini refrigerati per l’export in Cina, ma dove non si vedono quegli insediamenti manifatturieri promessi da Autorità e Regione entro la fne del 2017. Il presidente dell’Autorità di sistema portuale ha sulla carta il potere di autorizzare l’avvio di nuove attività industriali in punto franco, ma il decreto prevede che ciò avvenga in accordo con l’Agenzia delle dogane, che ha preautorizzato una sola lavorazione in due anni, nonostante diverse manifestazioni di interesse. Il governo non ha inoltre mai spinto per ottenere il riconoscimento dell’Ue e il regime speciale viene ancora trattato come una comune zona franca, certo utile ma dal potenziale ridotto rispetto agli annunci. Il ministro De Micheli ha annunciato l’apertura di un tavolo con il Mef per sbloccare la stasi, impegno preso anche dal collega Patuanelli. La prossima battaglia per Trieste si giocherà su questo: se FreeEste si metterà in moto, il regime di franchigia potrà essere esteso al vicino consorzio industriale Coselag, controllato dall’Autorità e dotato di spazi e binari poco sfruttati. L’impegno di Roma sarebbe la prova della fne dello scarso interesse fnora dimostrato nel creare uno scalo settentrionale che, al contrario di Genova e Venezia, operi al servizio della Mitteleuropa e non dell’industria italiana. Il porto franco già permette invece al momento di sfruttare l’extradoganalità per non pagare tasse di importazione ed esportazione su traffci fra due Stati extraUe con scalo intermedio a Trieste. Nel caso sia invece coinvolto uno Stato Ue ci sono comunque l’opportunità di un pagamento delle imposte differito di 180 giorni e semplifcazioni per i veicoli commerciali diretti all’estero. Un porto esente da dazi nella stagione della guerra dei dazi. Ma solo un salto di qualità con la piena attuazione del porto franco permetterà di avviare quegli insediamenti industriali che, grazie allo stimolo dalle franchigie e alla possibilità di applicare i marchi made in Italy e made in Ue, permetterebbero di generare un’occupazione che vada oltre le attività puramente logistiche, destinate ad andare incontro a una sempre più intensa automazione.
272
IL MURO PORTANTE
L’IRRIDUCIBILE ALTERITÀ DI TRIESTE
di Paolo Deganutti
Gli indipendentisti invocano lo sviluppo del porto franco stabilito dagli accordi del secondo dopoguerra. I fasti asburgici e il declino post-annessione. La Mitteleuropa come entroterra naturale. Il mito delle città Stato. Trieste è troppo internazionale per essere italiana.
G
1. IÀ NEL 1970 LO STORICO BOGDAN NOVAK scriveva: «La questione di Trieste potrebbe essere nuovamente portata all’attenzione del mondo (…) da una grande crisi economica in Italia che potrebbe provocare una grave disoccupazione nella città. Gli italiani di Trieste sarebbero indotti a prendere in considerazione il retroterra come soluzione e a chiedere di internazionalizzare la città» 1. Nel 2013 l’endemico spirito autonomista di Trieste, nelle sue varie gradazioni – dall’autonomismo moderato e borghese all’indipendentismo radicale e popolare – è riafforato come un fume carsico in superfcie. Alcune imponenti manifestazioni popolari hanno riproposto il tema del Territorio libero di Trieste (Tlt) e del porto franco internazionale, con striscioni e comizi in italiano, sloveno, tedesco, inglese e il dialetto «triestin» come lingua franca 2. Secondo la tesi indipendentista, che segue un approccio legalitario tipicamente triestino dovuto alla proverbiale fducia «asburgica» in leggi e istituzioni, il Tlt istituito dal trattato di Parigi (1947) andrebbe considerato ancora valido de iure. Nessun trattato o accordo successivo di rango minore avrebbe avuto il potere di modifcarlo, né il Memorandum di Londra (1954) né il trattato bilaterale di Osimo (1975). Soprattutto, l’indipendentismo mette al centro, concretamente, lo sviluppo del porto franco internazionale di Trieste, previsto dai trattati citati e regolato dall’allegato VIII del trattato di pace ritenendolo, a buon diritto, il vero cuore dell’economia locale, in grado di assicurare prosperità a un territorio autonomo. Per effetto di questi trattati precedenti alla formazione dell’Unione Europea (e da essa recepiti), il porto franco di Trieste è il solo in Europa a cui è garantita la piena 1. B.C. Novak, Trieste 1941-1954, Chicago 1970, University of Chicago Press (edito in Italia da Mursia, p. 441). 2. A. Luchetta, «Se Trieste rinnega l’Italia», Limesonline, 27/1/2014; «Basta dialogo, il Movimento Trieste Libera passa all’autodifesa dall’Italia», Limesonline, 4/3/2014.
273
L’IRRIDUCIBILE ALTERITÀ DI TRIESTE
extraterritorialità doganale. Ciò lo rende un unicum su cui nemmeno Bruxelles ha poteri di intervento. Extraterritorialità doganale che ha fatto ipotizzare, in seguito al Brexit, il suo utilizzo anche come sede di grandi imprese attualmente nel Regno Unito, riproponendo quel Centro fnanziario offshore previsto dalla legge 19/1991 promulgata nel clima di euforia esploso alla caduta della cortina di ferro, ma mai realizzato malgrado sponsor importanti come le Generali. Da oltre sette decenni l’Italia si dimostra molto restia alla piena attuazione del regime di porto franco nelle modalità previste dall’allegato VIII, che pertanto è diventato il centro delle rivendicazioni del Coordinamento lavoratori portuali Trieste (Clpt), il sindacato maggioritario dei lavoratori portuali triestini. Come ha dichiarato Paola De Micheli, ministro dei Trasporti, «l’Agenzia delle dogane non ha mai voluto compiutamente riconoscere il regime di extradoganalità del porto franco triestino». Non vi è necessità di riconoscimenti a livello Ue, essendo il regime di Trieste stato escluso dal regime comunitario (intervista a Il Piccolo 24/10/2019). Così lo striscione «Allegato VIII» fgura sempre alla testa dei cortei dei portuali, che lo scorso luglio hanno ottenuto l’apertura di un tavolo di alto livello su questo tema al ministero dell’Economia. Per comprendere appieno la particolarità della situazione triestina, bisogna partire dalla considerazione che qui i lavoratori portuali si stanno mobilitando per ottenere l’applicazione di un trattato internazionale stipulato oltre settant’anni fa, pienamente sostenuti in questo dalle imprese e dagli spedizionieri che operano nel porto. 2. L’importanza dell’economia portuale per il territorio è accuratamente documentata dall’Analisi di impatto economico del porto di Trieste, svolta dall’Agenzia imprenditoriale operatori marittimi (Aiom) presieduta dal professor Sergio Bologna. Le cifre presentate in questo documento parlano chiaro. Lo studio ha stimato un fatturato annuo prodotto nel 2018 direttamente dal porto, pari a 1,3 miliardi di euro, per un valore aggiunto di 497 milioni di euro. L’occupazione diretta è di 5.070 unità e quella indiretta di 2.142. Il valore dell’indotto in termini di fatturato è di 1,5 miliardi di euro e l’occupazione indotta di 3.974 unità. Complessivamente, il comparto portuale produce 2,8 miliardi di fatturato, 1 miliardo di valore aggiunto e un’occupazione complessiva di 11.186 unità. Lo studio ha altresì calcolato il gettito fscale generato dal porto: 205 milioni per le casse statali e 274 milioni per quelle regionali. In termini relativi, il porto e il suo indotto rappresentano il 12% dell’occupazione della provincia di Trieste. In termini di pil, invece, il porto rappresenterebbe il 9% della ricchezza prodotta nel territorio provinciale. Malgrado queste cifre 3, la politica locale aveva quasi scordato l’importanza del porto franco internazionale per l’economia e la vita della città, puntando invece su strategie economiche tanto astratte quanto ineffcaci, incentrate sull’urbanizzazione di aree già portuali in chiave turistica e non sullo sviluppo di attività produttive in zona franca e sulla portualità.
274
3. Dati in M. Sommariva, «I porti marittimi da locale a globale», Sistemi di Logistica, autunno 2019.
IL MURO PORTANTE
Il merito dei movimenti indipendentisti è stato, indubbiamente, quello di rifocalizzare il dibattito pubblico sulle tematiche del porto franco e dell’internazionalizzazione, istanze ormai universalmente affermatesi. Andando oltre la disputa giuridica sull’attualità del Tlt, la sostanza che concretamente alimenta questa visione, scevra di qualsivoglia rivendicazione di tipo identitario, molto presente in quasi tutti gli indipendentismi (veneto, sardo, catalano o scozzese), è iscritta nel dna della città. Come sottolinea il bel libro di Claudio Magris e Angelo Ara, Trieste: un’identità di frontiera, o quello di Jan Morris Trieste o del nessun luogo, non vi è alcuna identità defnita. In realtà, Trieste è una vera città solo da meno di tre secoli. Si è sviluppata intorno al porto franco istituito dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo nel 1719 ed è cresciuta grazie all’impulso fornito da Maria Teresa d’Austria, che vi fece affuire da tutto il mondo operatori e mercanti, di svariate etnie, lingue e religioni. Uno sviluppo travolgente evidenziato anche da un acuto osservatore come Karl Marx. Due suoi articoli, usciti sul New York Tribune rispettivamente il 9 gennaio e il 4 agosto 1857, ne attribuivano il merito sia al vasto entroterra europeo, il «mercato unico» dell’impero, sia al fatto che «Trieste aveva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato». Scriveva l’autore tedesco: «Popolata di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela, [Trieste] non piegava sotto le tradizioni. Mentre il commercio veneziano dei cereali non usciva dai vecchi rapporti, Trieste allacciava il suo destino con la stella sorgente di Odessa, e al principio del XIX secolo, escludeva la rivale dal commercio mediterraneo dei cereali». È curioso ricordare che la famosa scalinata di Odessa (a sua volta porto franco dal 1819), ripresa nel flm La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn fu costruita con pietre arenarie delle cave triestine, i masegni, fatte arrivare appositamente dal porto franco di Trieste. Forse è stato proprio il tentativo di superare l’intrinseca debolezza del sentimento di identità nazionale a produrre, a Trieste, icone tragiche del nazionalismo italiano più radicale. Come Wilhelm Oberdank, successivamente italianizzato in Guglielmo Oberdan, fglio illegittimo della domestica slovena Josepha Oberdank, e diversi altri irredentisti italiani, dai cognomi slavi o tedeschi: Adolfo Liebman, Giani Stuparich, Scipio Slataper, Marco Prister. 3. Le radici dell’endemico autonomismo/indipendentismo triestino affondano nella frustrazione provocata dall’essere decaduti dallo status di porto principale (e terza città) del più grande impero europeo a piccola città periferica di uno Stato a sua volta periferico e arretrato, nel rapporto profondo tra la città e il suo porto franco internazionale e nella funzione che quest’ultimo ha svolto, e soprattutto subìto, nelle dispute geopolitiche internazionali. Come scriveva profeticamente Luigi Einaudi («se l’Italia vorrà conservare Trieste, lo potrà fare solo a condizione di non voler sfruttare il porto di Trieste a vantaggio esclusivo degli italiani» 4) e come 4. L. eiNaudi, Guerra ed economia - Prediche, Roma-Bari 1920, Laterza, p. 42.
275
L’IRRIDUCIBILE ALTERITÀ DI TRIESTE
hanno sempre sostenuto i veci nati durante l’impero, tra cui il poeta Biagio Marin (autore di una struggente poesia sul tema 5), il porto di Trieste avrebbe perso «gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo e aggregato all’Italia». Cioè quanto è puntualmente avvenuto a partire dall’annessione successiva alla prima guerra mondiale. L’attuale popolazione di Trieste (204.849) è inferiore a quella censita nel 1910, ovvero 229.510, cui si sommavano più di 35 mila immigrati giunti dal Regno d’Italia. Un caso unico tra le città europee, che da inizio secolo hanno generalmente moltiplicato il numero degli abitanti, segno di una decadenza pronunciata e costante. Prendendo a esempio i collegamenti ferroviari passeggeri, oggi non vi è più alcuna linea diretta con Vienna, mentre la linea ferroviaria austriaca Trieste-Vienna fu inaugurata già nel 1857. Una situazione peggiore di centosessanta anni fa, che testimonia quanto è stato fatto per tagliare le radici mitteleuropee di Trieste, in ossequio al nazionalismo italiano. E basta un viaggio per notare come il collegamento ferroviario passeggeri tra Trieste e il resto dell’Italia – via Venezia – sia ineffciente e distante da qualsiasi standard moderno. Tutt’altra cosa è il collegamento merci del porto franco internazionale con il naturale entroterra mitteleuropeo. Utilizzando vettori esteri e sfruttando la ramifcata rete ferroviaria lasciata in eredità dall’impero, compresi ponti e viadotti datati 1857, l’Autorità portuale ha fatto della ferrovia la principale modalità di trasporto terrestre, realizzando un forte e costante incremento annuo (10 mila treni standard registrati nel 2018, dato stimato in crescita per il 2019). Come sostenuto da più parti, l’impressione è che l’Italia abbia voluto Trieste per farne un simbolo di unità nazionale, per poi dimenticarsene rinunciando a utilizzare le notevoli potenzialità geoeconomiche del suo porto franco. Il risentimento per questo «oblio» aveva già alimentato il dirompente fenomeno autonomista della Lista per Trieste (il cosiddetto «Melone»), che nelle elezioni comunali del 1978 scardinò il sistema partitico locale. Ma questa formazione politica era egemonizzata dai nazionalisti delusi dall’Italia «matrigna», ultimi eredi della borghesia liberal-nazionale italiana della prima metà del Novecento, che riuscirono a strumentalizzare l’autonomismo latente e il «portofranchismo» endemico, capitalizzando il sentimento di rancore tipico dell’amante tradito. Ora, nel neoindipendentismo triestino questi sentimenti ambivalenti verso l’Italia sono invece assenti. Il fne è esplicitamente ottenere quella «internazionalizzazione della città» di cui parlava Novak. Prevale, in questa visione, la convinzione che gli interessi di Trieste e del suo porto franco internazionale divergano irrimediabilmente da quelli nazionali italiani. Roma sembra preferire lo sviluppo di un sistema portuale concorrente, insensibile alle tematiche della portualità internazionale, proprio mentre le zone franche si stanno invece moltiplicando e sviluppando in tutto il mondo. A partire
276
5. La poesia recita: «Trieste è felice stasera/ Celebra con trasporto la sua futura sventura/ Perché tutte le volte che questa nostra città si è concessa con sconfnato entusiasmo all’Italia amata, ha subito imboccato la triste strada della decadenza/ Noi eravamo il gioiello dell’Impero di Maria Teresa e il porto dell’Austria/ Eravamo la rosa profumata degli Asburgo/ Con l’Italia saremo un piccolo fondaco gestito in modo sbrigativo dai burocratici e diventeremo una società strozzata e rassegnata di facili guadagni e di indomabili nostalgie/ Oggi è cominciato il nostro tramonto».
IL MURO PORTANTE
dalla Cina: fn dai tempi di Deng, Pechino ne ha fatto uno dei principali motori di sviluppo della propria economia. 4. La sensazione di abbandono è peraltro corroborata dai risultati di un secolo di annessione: isolamento dall’entroterra naturale europeo – solo ora in via di superamento – e fallimento dell’integrazione con il sistema economico italiano, che gli irredentisti avevano invece prefgurato. Mettiamo a confronto i due porti che l’Italia ha recentemente indicato come possibili terminal delle nuove vie della seta: Trieste e Genova. A Trieste, il 90% delle merci attualmente transitanti per il porto franco internazionale riguarda i traffci con l’Europa centro-orientale. Esempio chiarissimo dell’integrazione nella catena di distribuzione tedesca è l’oleodotto transalpino Tal/Siot, che da cinquant’anni pompa petrolio greggio fno a Ingolstadt, in Baviera, fornendo il 40% del fabbisogno petrolifero tedesco (il 100% delle regioni della Baviera e del Baden-Württemberg), il 90% di quello austriaco e oltre il 30% di quello ceco. Solo il 10% dei traffci è diretto verso l’Italia. Dunque un porto che fa da snodo tra l’Europa e l’Oriente (lontano e vicino), utilizzando il Canale di Suez e il suo recente raddoppio, come descritto da Luigi Einaudi già nel 1915. Dal canto loro, i traffci del porto di Genova interessano per il 47,4% la Lombardia, per il 18,4% il Piemonte, per l’8,6%, l’Emilia-Romagna e per l’8,2% il Veneto. Complessivamente, circa il 90% dei traffci è destinato all’Italia – il contrario di Trieste. C’è da meravigliarsi se Genova ha prodotto Balilla, mentre a Trieste predominano indipendentismo e cosmopolitismo? Non c’è nemmeno da stupirsi se a Trieste prevalga l’opinione che le nuove vie della seta lanciate da Pechino non siano un pericolo, bensì un’opportunità per ritornare all’antica funzione di fulcro fra Occidente e Oriente, frustrata dall’isolamento conseguente all’annessione all’Italia avvenuta nel primo Novecento. La decadenza del porto di Trieste seguita al distacco forzoso dall’entroterra naturale e all’aggregazione al sistema politico-economico italiano, rivelatosi indifferente (quando non ostile per motivi di concorrenza), ha prodotto il tracollo dell’industria navalmeccanica e di quel tessuto industriale che di norma prospera intorno ai grandi porti. Si è assistito all’instaurazione di un’economia assistita e all’elefantiasi del pubblico impiego. A Trieste, il pil prodotto dal settore industriale ammonta ora a circa il 9%, mentre in Friuli al 21%. La media nazionale italiana è del 18,5% e quella della stessa Roma è del 13%. Per fare un paragone, la Germania ha il 27,5% e la città Stato portuale di Singapore il 26%. La via maestra per venire fuori da questa penosa situazione è quella intrapresa dall’Autorità portuale: utilizzare il regime di porto franco, magari completato con fscalità di vantaggio, per favorire insediamenti industriali e produttivi che mantengano sul territorio il valore aggiunto dei traffci portuali e sviluppare al massimo le connessioni internazionali. E qui il rapporto con l’Asia e la Cina diventa cruciale per la città portuale dove è stato progettato il Canale di Suez 6, che con la sua realizzazione ha regalato a Trieste una posizione centrale nei traffci tra Europa e Oriente. 6. L. Goriup, «Se esiste il Canale di Suez il merito è di Revoltella», Il Piccolo, 5/12/2017.
277
L’IRRIDUCIBILE ALTERITÀ DI TRIESTE
Trieste, come spesso accaduto, per esempio durante la prima guerra mondiale e nella guerra fredda, si trova nuovamente al centro di tensioni geopolitiche importanti. Non più solo intraeuropee stavolta, ma principalmente tra Usa e Cina. Il porto di Trieste è ritenuto, geopoliticamente e militarmente, troppo strategico per poter diventare tout court un terminal delle nuove vie della seta a disposizione della Cina. Probabilmente il punto di equilibrio tra spinte contrapposte va ricercato nella sua particolare natura di porto franco internazionale, da mantenere a disposizione di tutti gli Stati, senza privilegi o discriminazioni. È dalla sua posizione «terza» e neutrale nei confitti che un porto franco può trarre vantaggio, così come la franchigia doganale e daziaria lo agevola in un periodo di crescente protezionismo e guerre commerciali. E questo è anche uno dei motivi che induce a sviluppare sentimenti autonomisti in opposizione agli Stati nazionali e al loro necessario schierarsi nel contesto internazionale.
278
5. Il manifestarsi, con andamento carsico, di movimenti popolari e organizzazioni autonomiste/indipendentiste a Trieste, focalizzate sulla promozione del porto franco internazionale, non ha niente a che fare con chiusure identitarie localiste. È piuttosto espressione della spinta all’internazionalizzazione e alla piena realizzazione del ruolo di nodo di traffci e connessioni internazionali. Questa è da trecento anni l’anima profonda di questa città, che non può lasciarsi ingabbiare nel nazionalismo senza deperire. Come pochi sanno, è qui che nel 1827 Josef Ressel ha inventato, collaudato e brevettato l’elica navale, dispositivo che ha rivoluzionato la navigazione, in un contesto di effervescente sviluppo economico e culturale. In questa visione, l’autonomia e il distacco dalle pastoie burocratiche e dalle ineffcienze dello Stato nazionale – vissuto come un’obsoleta struttura centralistica, con una classe politica incapace non solo di produrre visione strategica, ma semplicemente di stare al passo con gli sviluppi dei traffci internazionali – sono ritenuti passaggi necessari. Presupposti per poter sviluppare le evidenti potenzialità geoeconomiche della città portuale in questa nuova fase. La missione storica e geopolitica di Trieste, pena la perdita della sua ragion d’essere, è quella di servire, come porto franco, un’ampia area plurinazionale, quale che sia la forma politica più consona al momento storico. Forte resta il fascino esercitato dalle città Stato portuali che si pongono sulla scena globale come nodi della rete di traffci e connessioni internazionali, gestite da amministrazioni locali snelle, effcienti e ben sintonizzate sulle necessità dell’apparato produttivo e della società civile. Innanzitutto Singapore, un mito per gran parte degli indipendentisti triestini, ma anche Brema e Amburgo, che tuttora sono Stati con istituzioni proprie federati alla Germania. E non potrebbe essere diversamente in una città portuale sempre più integrata nella catena del valore tedesca e che risente dell’infusso delle faglie geopolitiche riattivate dal rimescolamento degli assetti europei e dalle tensioni globali. Dal Trimarium alle rivendicazioni autonomiste nel Nord-Est italiano (ma anche in Baviera); dal riemergere del concetto di Kerneuropa e di «Europa di Mezzo» (Mitteleuro-
IL MURO PORTANTE
pa) non solo come nostalgia culturale, ma come area di integrazione economica. Per arrivare infne ai confronti su larga scala tra Usa, Cina e Russia. L’autonomismo/indipendentismo triestino è attraversato da sentimenti ambivalenti: voglia di distacco (dall’Italia) e di integrazione (con l’Europa di Mezzo), nostalgia per i fasti passati e proiezione verso un futuro globale. Paradossalmente, a Trieste il più forte impulso politico verso un mondo interconnesso sembra essere quello che apparentemente indicherebbe la direzione contraria: il decentramento e l’autonomia da uno Stato nazionale ineffciente e attraversato da forti spinte verso chiusure nazionaliste, quelle che ora si usa denominare «sovraniste».
279
IL MURO PORTANTE
UNO SCALO MITTELEUROPEO VISTO DA AUSTRIA E UNGHERIA di Laris Gaiser e di Fanni Tanács-Mandák
S
BOCCO MARITTIMO PRIVILEGIATO
dell’Ungheria sin dall’Ottocento, oggi la città rivaleggia con Capodistria – e in misura minore con Fiume – per diventare lo scalo principale della rediviva Mitteleuropa. I passi falsi della Slovenia. Il nuovo terminal triestino al servizio di Visegrád e l’avanzata del Pireo «cinese». Perché Italia e Austria devono giocare insieme.
Venti asburgici e lentezze italiane di Laris Gaiser
1. Ragionando sulle eventuali convenienze geoeconomiche dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, il futuro presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi scriveva: «Perché ci dovremmo battere? Povero il Trentino, poverissimi il Carso, l’Istria e la Dalmazia, inferiori a molte delle peggiori terre del Regno. Unica ricchezza il porto di Trieste, il quale perderebbe però gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo ed aggregato all’Italia, la quale stenta a dare alimento al suo vecchio e non ancora risorto porto di Venezia. (…) Perciò a noi interessa conservare a Trieste la sua situazione di porto dell’entroterra slavo tedesco. Raggiungere tal fine, per quanto dipenda dall’opera nostra non è impossibile: basta considerare Trieste come un porto franco, ammettendo in franchigia tutte le merci destinate all’importazione ed all’esportazione per o dall’entroterra slavo tedesco. Basta segnare ai tratti di ferrovia correnti fra Trieste ed il confine politico tariffe minime, di concorrenza e di penetrazione. (…) Se l’Italia, dopo averla conquistata, vorrà conservare Trieste, lo potrà fare soltanto a condizione di non volere sfruttare il porto di Trieste a vantaggio esclusivo degli italiani. Angariare gli slavi ed i tedeschi, frastornare con dazi doganali e tariffe ferroviarie il traffico da Trieste verso le regioni rimaste all’Austria od assegnate alla nazione serbocroata sarebbe un suicidio per noi. Sarebbe la rovina del porto di Trieste. Per il traffico dell’entroterra veneto lombardo
281
UNO SCALO MITTELEUROPEO VISTO DA AUSTRIA E UNGHERIA
basta il porto di Venezia. Trieste vive come un punto di intermediazione fra i porti d’oltremare e l’entroterra slavo tedesco. Sopprimere questo traffico vorrebbe dire ridurre Trieste ad un porto di pescatori» 1. Mai analisi fu più lungimirante. Trieste divenne italiana e morì, ovvero entrò in un lungo stato comatoso dal quale, grazie alla profonda rivoluzione geopolitica in corso, si sta risvegliando solo negli ultimi anni. Da punto d’incontro di mondi diversi ed effervescente centro commerciale, perdendo il suo entroterra divenne sinonimo di frizioni, acuite col passare degli anni proprio dalla mancanza di una funzionante economia. La conquista di Trieste da parte delle truppe italiane segnò l’avvio di una lunga decadenza economica e sociale, che si è protratta fino ai giorni nostri anche attraverso l’èra del confronto bipolare durante la quale la città era una delle due estremità della cortina di ferro descritta da Winston Churchill in occasione dello storico discorso di Fulton. Se in seguito al primo conflitto mondiale Trieste aveva perso i suoi mercati centroeuropei di riferimento, in quanto disintegrati tra varie nazioni, dopo la seconda guerra mondiale era impensabile che l’Italia potesse favorire il funzionamento di un porto che giocoforza avrebbe servito le economie nemiche degli Stati socialisti. Alla decadenza si aggiunse la stagnazione. La presa di Trieste da parte dell’esercito jugoslavo nel 1945 rientrava esattamente in questa ottica. A Tito serviva un porto che garantisse alla Federazione socialista una connessione commerciale con il mondo. Quando lo perse definitivamente in seguito alla sottoscrizione del Memorandum di Londra, decise di costruirne uno nuovo dalle fondamenta, quello di Capodistria. 2. Il porto franco di Trieste fu voluto dall’imperatore Carlo VI nel 1719 con una patente che ha cambiato la storia della città, dell’impero asburgico e dei commerci mondiali. La visione di Carlo VI diede frutti forse insperati. Lo sviluppo tecnologico, finanziario, commerciale, culturale e sociale intorno a Trieste fino al 1918 fu unico al mondo, ma soprattutto fu fondamentale per la stabilità di una regione, quella dell’Europa centrale, da sempre zona cuscinetto frapposta tra gli appetiti geopolitici delle diverse potenze mondiali. Per poter sviluppare il porto franco, i governi viennesi concessero numerose facilitazioni ai cittadini dell’impero per il loro trasferimento verso l’antica Tergeste. Vennero migliorate le connessioni logistiche con l’entroterra e si posero le premesse per la creazione di un grande mercato unico esteso dalla Toscana alla Galizia, collante di ben tredici nazioni, lingue e culture diverse. Se oggi una lettera inviata per posta percorre la distanza tra Trieste e Vienna mediamente in una settimana, gli archivi austriaci testimoniano che all’istituzione del porto franco le missive abbisognavano di sole ventiquattro ore. Se un secolo più tardi la ferrovia Südbahn (Ferrovia Meridionale) tra Trieste e Vienna garantiva una connessione diretta tra la capitale politica e quella economica, oggi per arrivare a Vienna sulle
282
1. L. Einaudi, Guerra ed economia-Prediche, Roma-Bari 1920, Laterza, pp. 1,42.
IL MURO PORTANTE
ruote ferrate il numero dei cambi di treno necessari per giungere a destinazione richiede ai viaggiatori un alto tasso di pazienza. Quando la storica Ferrovia Meridionale passante da Lubiana rischiava di danneggiare gli interessi economici dello Stato multinazionale a causa degli alti costi applicati dal concessionario, agli inizi del XX secolo il palazzo dell’Hofburg diede forma all’Alpenbahnenprogramm. Decisero di costruire la Transalpina ovvero una seconda connessione con il porto imperiale passante a nord dell’odierna Slovenia, discendente attraverso Gorizia fino al mare, che connetteva direttamente anche i mercati boemi e moravi. Oggi, ancora a causa dei retaggi della guerra fredda, che fece scendere al minimo indispensabile le possibilità di scambi tra est e ovest, questa linea è inutilizzabile nella sua parte finale. L’Italia pertanto gestisce la maggioranza dei suoi flussi in uscita da Trieste, il cui porto contiene ben 70 km di ferrovia, attraverso la Pontebbana e gli snodi intermodali del Nord-Est nazionale, mentre Capodistria si poggia completamente sull’arteria storica della Südbahn passante nel suo territorio nazionale che si dirama, prima del confine austriaco, anche verso l’Ungheria. 3. A trecento anni dall’istituzione del porto franco, a centosessantadue anni dall’inaugurazione della Ferrovia Meridionale e a cento dalla disgregazione dell’impero austro-ungarico, si può dire che Trieste e Capodistria gestiscano ancora oggi le proprie strategie sulle medesime infrastrutture o direttrici del passato, ma soprattutto che le due vecchie capitali dell’impero, Vienna e Budapest, siano ancora tra i principali clienti dei loro servizi. Il capoluogo giuliano a oggi è il primo porto ferroviario d’Italia, con ben 10 mila treni registrati nel 2018, e da decenni è anche il principale terminal energetico della Baviera mentre la capitale marittima slovena rappresenta uno dei maggiori porti europei per l’importazione e l’esportazione di automobili. Ma è nel settore della movimentazione intermodale che le due realtà si stanno contendendo la futura sfida della logistica. Negli ultimi anni, a Trieste, il settore intermodale basato sui container è in forte espansione. Quindici anni fa nel porto giuliano si mobilitavano solamente 177 mila container (teu), mentre nel 2018 la cifra è salita a 626 mila. Nel 2019 dal porto di Trieste partono circa 20 coppie di treni settimanali destinati ai mercati austriaci, ungheresi, slovacchi e cechi. In questo specifico campo però i numeri rimangono sensibilmente inferiori a quelli di Capodistria. In Slovenia calcolano di poter sorpassare la cifra del milione di teu entro la fine del 2019 e di mantenere ancora a lungo il titolo di principale porto di Vienna e Budapest. Negli ultimi dieci anni infatti il numero di merci consegnate al mercato austriaco è sestuplicato: rappresenta il 33% delle quote di mercato e arriva a superare i sette milioni di tonnellate. Dal 2010 Vienna ha sostituito Budapest quale principale partner commerciale di Luka Koper (il porto di Capodistria). E nonostante quest’ultima abbia fondali assai più bassi di quelli triestini, essa rappresenta il volano dell’import-export austriaco e detiene tuttora la movimentazione del 70% dei container legati al mercato ungherese.
283
UNO SCALO MITTELEUROPEO VISTO DA AUSTRIA E UNGHERIA
Il rapporto tra Trieste e Capodistria è dinamico. Nonostante ogni autorità portuale dell’Adriatico settentrionale faccia riferimento alla reciproca complementarità e al bisogno di collaborazione, qualora volessero catturare sempre maggiori flussi di navi mercantili provenienti dal Canale di Suez, intercettandone le rotte dirette ai porti dell’Europa settentrionale, gli scali di Venezia, Trieste, Capodistria e Fiume tendenzialmente guarderebbero principalmente ai propri interessi. In tal senso vanno perciò interpretate anche le varie decisioni strategiche prese da Italia e Slovenia per lo sviluppo delle proprie infrastrutture legate al futuro dei reciproci porti del golfo triestino, all’interno di un contesto regionale nel quale Lubiana e Roma vedono realizzarsi la propria connessione al corridoio Baltico-Adriatico in maniere differenti. Roma punta sulla connessione con Vienna attraverso il Tarvisio e la costruzione del traforo del Semmering, lungo ben 27 km. Mentre Lubiana, da sempre politicamente opposta a favorire il collegamento merci con Trieste, scommette sulla modernizzazione della propria infrastruttura, ovvero la vecchia Ferrovia Meridionale d’imperiale memoria. Nel 2015 il Comitato interministeriale per la programmazione economica ha stanziato ben 50 milioni di euro per il potenziamento della rete ferroviaria a servizio del porto di Trieste, mentre l’Autorità portuale nel 2016 ha finanziato con 615 mila euro l’ammodernamento della propria rete interna. La Slovenia da parte sua, dopo decenni di discussioni politiche, nel 2017 ha deciso di procedere alla costruzione del secondo binario per collegare il porto di Capodistria, che a oggi gestisce l’intero flusso merci con un solo binario, con l’entroterra carsico. Un progetto approvato dal governo di Lubiana per l’esorbitante cifra di un miliardo e mezzo di euro. Proprio quest’ultimo progetto, ovvero le difficoltà legate alla sua approvazione e gestione, potrebbe essere quello che indirettamente sta favorendo nell’ultimo anno la pianificazione strategica dello scalo triestino. L’Autorità portuale locale ha infatti lavorato affinché da una parte la Rete ferroviaria italiana (Rfi) sottoscrivesse lo scorso marzo due memorandum d’intesa con le ferrovie austriache e il gestore logistico Rail Cargo Austria (Rca) e dall’altra invogliasse il governo magiaro a garantirsi per sessant’anni una concessione su 32 ettari di terreno fronte mare per trasformarli col tempo in un porto ungherese sull’Adriatico. L’accordo tra le ferrovie dovrebbe favorire l’eliminazione dei colli di bottiglia e l’aumento esponenziale del numero dei treni merci tra Trieste e Vienna. Due fattori che, dal punto di vista viennese, potrebbero facilitare l’Austria nel posizionarsi – il giorno in cui la strategia cinese delle vie della seta dovesse effettivamente realizzarsi – quale principale connettore ferroviario tra l’Europa e la Cina.
284
4. Il rilancio dei commerci tra Oriente e Occidente, la volontà italiana di riaprire Trieste quale porto franco a disposizione delle economie straniere, unitamente al fatto che dall’Austria da decenni passano anche alcuni importanti gasdotti e oleodotti di fondamentale importanza per gli interessi strategici del Belpaese, sono i fattori alla base di una ritrovata dinamicità nelle relazioni ufficiali tra
IL MURO PORTANTE
Roma e Vienna. Tra le due capitali non vi sono frizioni o contenziosi aperti. Ambedue hanno solo da guadagnarci dall’approfondimento delle relazioni bilaterali, che hanno per di più la fortuna di poter germogliare sul fertile terreno della reciproca simpatia tra i due popoli. Solo il recente cambio dei governi nelle due capitali ha influito sensibilmente sul positivo quadro generale. In un periodo di riassestamento politico interno e in piena campagna elettorale, il parlamento austriaco ha approvato a settembre la possibilità di concedere la doppia cittadinanza ai cittadini italiani, sudtirolesi, d’origine austriaca. Il voto, che di primo acchito potrebbe sembrare una mossa provocatoria o per lo meno ruvida nei confronti dell’Italia, in verità sottopone la fattibilità della decisione a un previo accordo con il governo italiano. La mossa del parlamento viennese deve essere interpretata nel contesto della lotta politica interna austriaca in un periodo nel quale il partito conservatore Fpö, sostenitore della proposta, doveva essere elettoralmente isolato. L’Austria non ha preso una decisone ultimativa e sovrana capace, automaticamente, d’incrinare le buone relazioni con il nostro Stato. Per spiegare il tutto il capo del Partito popolare austriaco Sebastian Kurz ha fatto pervenire in maniera riservata nelle settimane passate al presidente del Consiglio Conte la richiesta di un incontro chiarificatore. A Roma, hanno ritenuto il momento politicamente poco conveniente e preferito attendere che a Vienna si formi prima il nuovo esecutivo. In attesa che ciò avvenga, tra i due Stati i progetti di collaborazione si continuano a sviluppare senza ulteriori frizioni degne di nota, con lo sguardo ben fisso sull’orizzonte di medio e lungo termine. Il fatto che il governo italiano abbia nel 2017 formalmente ridato a Trieste lo status di porto franco, superando in tal modo le storiche remore politiche legate allo spauracchio della vena indipendentista da sempre presente nella città, conferma la volontà nostrana di rilanciare la porta dell’Europa centrale e quindi fornisce alle capitali della regione una sicurezza di pianificazione fino a ora mancante. 5. Secondo le dichiarazioni del ministro degli Esteri ungherese, la presenza delle scelte espansive di Pechino è anche alla base della mossa portata avanti dal governo di Budapest. Trieste sarebbe stata scelta per il suo posizionamento proattivo all’interno del progetto delle nuove vie della seta. Una decisione che potrebbe, col tempo, apportare un forte colpo alle entrate di Capodistria. La scelta del porto di Trieste da parte di Viktor Orbán è l’atto finale di una lunga saga che ha visto il primo ministro magiaro agire da protagonista negli ultimi vent’anni. Salito per la prima volta al potere alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, dichiarò di voler dotare l’Ungheria di un proprio porto nell’Adriatico. Il porto della città di Fiume fu, per motivi storici e connessioni economiche legate all’epoca della Corona d’Ungheria, la scelta iniziale, quasi obbligatoria. Tuttavia, la collaborazione con Zagabria risultò difficile. Prima, la Croazia decise di far saltare la partnership dell’azienda energetica ungherese Mol con la locale Ina. Poi, anziché progettare il rinforzo della connessione ferroviaria del porto di Fiume (un
285
UNO SCALO MITTELEUROPEO VISTO DA AUSTRIA E UNGHERIA
porto privo di entroterra e quindi costretto a massimizzare la mobilità logistica), preferì indirizzare le proprie capacità finanziarie verso la costruzione del ponte di Sabbioncello che, aggirando la piccola porzione di Bosnia-Erzegovina, collegherà Ragusa al resto della Dalmazia. Budapest perse quindi ogni speranza per Fiume. Conseguentemente, Orbán iniziò a guardare con maggiore attenzione alla Slovenia. Nel mese di gennaio 2016, in occasione di un vertice bilaterale tra i governi di Lubiana e Budapest, ammise candidamente che il porto di Capodistria è a tutti gli effetti il porto dell’Ungheria e si dichiarò pronto a sostenere finanziariamente il progetto sloveno di costruzione del secondo binario a favore di Luka Koper. Contribuendo con 200 milioni di euro, lo Stato ungherese sperava d’ottenere in cambio il 2,8% dei futuri profitti e cinque ettari di terreno nel parco industriale da adibire a centro logistico destinato a servire gli interessi commerciali di Budapest. Ma dopo tre anni di colloqui, condotti dal ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó con le controparti slovene, doveva risultare chiaro che Lubiana preferiva fare da sola. Spartirsi la cospicua torta dell’investimento in casa, senza l’ingombro di controllori esterni, risultava più importante del mantenimento della leadership di Luka Koper nei confronti del mercato magiaro. Giocoforza a Orbán rimaneva come unica soluzione finale Trieste, anche senza la scusante dell’ipotetico futuro ingaggio cinese e nonostante i costi di trasporto attraverso la rete ferrata slovena rimangano più convenienti. Per l’odierna Ungheria lo sbocco al mare è una questione d’interesse nazionale. Quando fu ufficializzato l’accordo con Trieste, il portale informativo magiaro PestiSrácok sottolineò che il paese aveva finalmente trovato uno sbocco sull’Adriatico dai tempi del trattato di Trianon e che a ottenerlo, anziché sloveni o croati, erano stati gli italiani. Oggi, la somma totale della movimentazione ferroviaria dei porti di Trieste e Capodistria supera quella del porto di Rotterdam. Le mosse dell’Austria e dell’Ungheria, unitamente alle scelte effettuate dall’Italia e dalla Slovenia per aumentare le proprie capacità competitive, dimostrano che l’Alto Adriatico sta tornando a contare. Vi sono ancora amplissimi margini per creare sinergie collaborative nonostante le difficoltà del passato, ma la dinamicità delle relazioni geoeconomiche globali sta comunque ridando slancio alle potenzialità dell’Europa centrale. Soprattutto sta ridando ai suoi porti la ragion d’essere di cui per decenni erano stati privati. Una regione tanto frammentata quanto quella compresa tra Stettino e Trieste da tutto ciò può solo ritornare a trarre grandi benefici economici, sociali, culturali e politici.
286
IL MURO PORTANTE
Un porto (anche) ungherese di Fanni Tanács-Mandák
1. Per circostanze storiche e condizioni geografche, gli ungheresi non sono un popolo di mare. Il loro rapporto con il mare è sempre stato determinato e formato da Trieste. Posta tra Italia, Europa centrale e Balcani, la città è in posizione strategica, all’incrocio di due corridoi intermodali transeuropei: quello mediterraneo e quello adriatico-baltico. Trieste è geografcamente mediterranea, ma per storia è mitteleuropea. Ha dinamici rapporti economici, culturali e politici con l’Ungheria fn dall’inizio della monarchia austroungarica, eccettuati brevi periodi del XX secolo, ed è sempre stata una meta gradita dagli ungheresi. Dalla seconda metà dell’Ottocento Trieste divenne il più importante centro commerciale marittimo per entrambe le parti, austriaca e ungherese, dell’impero. Il suo porto franco restò importante anche nel periodo d’oro di Fiume (nel cui scalo il governo ungherese investì 150 miliardi di forini al cambio attuale), perché Trieste offriva più rotte internazionali. Dal 1858 fu molto ben collegata con Vienna tramite ferrovia e questa tratta, insieme alla Nagykanizsa-Budapest, collegava di fatto la capitale ungherese alla via marittima della monarchia. L’infrastruttura, insieme alla cancellazione dei dazi interni tra Austria e Ungheria, rese questa tratta commerciale una delle principali del tempo. Fin dal periodo asburgico la maggior parte delle esportazioni ungheresi (specie i cereali) avviene attraverso il porto adriatico di Trieste e il porto di Braila, nel delta del Danubio. Dopo l’intermezzo della prima guerra mondiale, le esportazioni ungheresi via Trieste ripresero quota e tra le due guerre mondiali numerose aziende triestine avevano attività e interessi a Budapest (Generali, Riunione Adriatica di Sicurtà, Stock, Francesco Parisi Casa di Spedizioni). Oltre ai rapporti economici, furono diverse le personalità ungheresi emblematiche nella vita culturale e pubblica di Trieste. Tra i più infuenti vi fu Theodor Mayer, fondatore e proprietario del quotidiano Il Piccolo, in seguito senatore e primo datore di lavoro di James Joyce in città. Nel mondo letterario spicca Italo Svevo, su cui ebbe un effetto decisivo Marino de Szombathely, famoso professore di lettere, che infuenzò tanti altri intellettuali triestini. Nel campo imprenditoriale, basta menzionare le famiglie Frigessi e Illy (la nota dinastia del caffè). Oggi tra i punti salienti dei rapporti politici fra Trieste e Ungheria vi è l’Iniziativa Centro Europea, la cui segreteria ha sede nella città. Si tratta dell’organizzazione regionale più antica e articolata operante nel Centro e nel Sud-Est d’Europa. Istituita l’11 novembre 1989 a Budapest con il nome di Quadrangolare per il dialogo tra Italia, Austria, Ungheria e l’allora Jugoslavia, oggi conta 17 Stati membri. 2. L’Italia è al quinto posto sia tra i principali partner commerciali dell’Ungheria, sia tra gli investitori stranieri. Secondo i dati dell’Agenzia Ice, nel 2018 l’interscambio bilaterale è stato pari a 10,1 miliardi di euro, con un incremento del 5,2%
287
UNO SCALO MITTELEUROPEO VISTO DA AUSTRIA E UNGHERIA
288
rispetto al 2017. Tale dato corona una tendenza all’espansione dei rapporti commerciali tra i due paesi, aumentati del 33% tra il 2014 e il 2018. In Ungheria sono presenti oltre 2 mila aziende a proprietà o partecipazione italiana, che impiegano circa 25 mila persone e fatturano nel complesso oltre 4 miliardi di euro. Le aziende italiane scelgono l’Ungheria per la vicinanza geografca e perché la considerano una porta sull’Europa centro-orientale. Vicinanza, intrinsechezza storica e cultura cristiana creano una base solida per i rapporti tra i due paesi in ambito Ue e Nato, anche se sull’immigrazione dal 2015 si registrano seri disaccordi. Il commercio internazionale ha un peso non trascurabile nell’ambito dell’economia ungherese, pertanto il trasporto delle merci è una questione strategica per Budapest. L’80% dell’export nazionale è verso i paesi dell’Unione Europea, dove giunge prevalentemente su strada e rotaia. L’esportazione per via marittima sfrutta principalmente quattro porti: per il 25-30% Amburgo (verso il Nordamerica), il resto passa per i porti adriatici di Capodistria, Trieste e Fiume (verso l’Asia). Su un traffco container totale di circa 308 mila unità nel 2018 (196 mila per l’import e 112 mila per l’export), le esportazioni attraverso i tre porti adriatici sono state pari a circa 80-90 mila container. Negli ultimi anni tale traffco è aumentato non solo grazie alla crescita economica ungherese (+5,2% nel secondo trimestre 2019), ma anche allo sviluppo dell’industria automobilistica (+11% nel primo trimestre 2019). Una tendenza che appare destinata a continuare con la nuova fabbrica della BMV a Debrecen. Il governo ungherese già nel 2017 ha dichiarato di voler costruire un terminal dedicato al proprio traffco in uno dei porti adriatici. Il fatto che lo sviluppo del corridoio di trasporto croato-ungherese non sia tra le priorità del governo croato, ha portato Budapest a scartare Fiume e Capodistria (il porto da cui oggi transita il grosso delle esportazioni ungheresi via mare, sebbene vi sia un’unica linea ferroviaria che lo collega alla località di Diva0a). Così il governo ungherese ha iniziato a concentrarsi su Trieste, con l’idea di farne il porto principale per l’Ungheria. Una strategia favorita dalla dichiarata volontà del porto triestino di investire sull’intermodalità (nave-ferrovia) per meglio connettere l’Europa centro-orientale (specie Austria, Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) con il vicino ed estremo Oriente. Negli ultimi 4 anni il traffco merci ferroviario è raddoppiato; nel 2015 c’era solo una coppia di treni alla settimana fra Trieste e Budapest, oggi sono 14. La T.O. Delta e la Trieste Marine Terminal hanno individuato nel mercato ungherese una priorità e hanno aperto uffci a Budapest, mentre nell’autunno 2017 l’Autorità portuale italiana dell’Adriatico orientale ha cominciato a negoziare con il governo ungherese la costruzione di un nuovo terminal. Secondo fonti governative ungheresi, sin dall’inizio l’Autorità è stata molto attiva e motivata. Nell’estate 2019 Budapest ha annunciato la costruzione di un terminal multifunzione e di una base logistica a Trieste. Lo Stato ungherese ha comprato un’area servita dalla ferrovia (con la stazione Aquilinia) già sede di un impianto di raffnazione petrolifera: 32 ettari, una banchina di 300 metri con un pescaggio di 13 metri e un’ampia area logistica di retrobanchina adatta a stoccare e gestire le merci. Circa il 20% dell’area
IL MURO PORTANTE
è zona demaniale. Si prevedono investimenti tra i 60 e i 100 milioni di euro, con l’obiettivo di cominciare l’attività fra 3-5 anni. Il terminal sarà destinato in prevalenza al commercio estero ungherese, ma potrebbe servire anche altri paesi dell’Europa centrale. Da questo punto di vista, la scelta del ministro degli Esteri e del Commercio Péter Szijjártó di annunciare il nuovo terminal alla cerimonia d’apertura del Forum logistico Visegrád 4+ appare simbolica. Dopo l’Ue, il maggior partner commerciale dell’Ungheria è la Cina e il governo ungherese ha dichiarato diverse volte di voler proporre la nazione magiara come collegamento tra la Cina e i paesi dell’Europa centro-orientale. A tal fne, Budapest progetta sviluppi notevoli della rete stradale (3.200 miliardi di forini) e ferroviaria (1.500 miliardi di forini) nazionale da qui al 2022. Tra i progetti internazionali spicca invece la linea ferroviaria ad alta velocità Belgrado-Budapest (336 chilometri), parte delle nuove vie della seta cinesi. La linea sarà per 152 chilometri in territorio ungherese e sarà costruita in gran parte (85%) grazie al prestito della cinese Eximbank; il resto sarà coperto dallo Stato ungherese. Quando la linea sarà operativa, nel 2023, verranno dimezzati (da otto a quattro ore) i tempi di percorrenza fra la capitale ungherese e quella serba, sviluppando così il collegamento intermodale nave-ferrovia dall’Estremo Oriente all’Europa centrale tramite il porto greco del Pireo. Tuttavia, fnché non saranno adeguati anche i tratti meno veloci (specie in Macedonia e nel Sud della Serbia), il tempo di percorrenza totale dal Pireo a Budapest rimarrà di 3-4 giorni, permettendo al porto di Trieste di mantenere il suo ruolo cruciale per i paesi dell’Europa centrale (inclusa l’Ungheria) nel loro commercio con l’Asia.
289
IL MURO PORTANTE
L’ITALIA SI È FERMATA A MUGGIA
di Simone Benazzo
In Istria i nostri connazionali sono sempre meno. E mentre sbiadisce la memoria storica della presenza italiana, muta il concetto di appartenenza nazionale. Il Memorandum di Londra e la ‘cattività’ jugoslava. I nuovi istriani e l’Euroregione mancata. Non si nasce italiani. Specialmente se non si è nati in Italia. Nelida Milani Kruljac
G
1. LI APPUNTAMENTI DEL 2019 – I CENT’ANNI dall’impresa di Fiume e i trenta dalla caduta del Muro di Berlino – hanno avuto un sapore amaro per gli italiani che vivono oltre Muggia. L’anniversario dell’iniziativa di Gabriele D’Annunzio ha fornito il destro per esibire un patriottismo di maniera (si veda la querelle relativa alla statua del poeta inaugurata a Trieste), ma ha anche rievocato una fase della storia nazionale in cui il destino degli italiani d’Istria stava a cuore ai connazionali. Soprattutto, l’anniversario della caduta del Muro è stato vissuto con una certa malinconia. E non solo perché, rispetto al 1989, gli italiani in Istria formano oggi una comunità sempre più piccola, anziana e assimilata, ma anche perché in questo «microcosmo di frontiera» la fne della guerra fredda aveva suscitato grandi entusiasmi e aspettative ambiziose, puntualmente deluse nei decenni seguenti. 2. Lo stato attuale non si può difatti defnire roseo 1. In tutta l’Istria la popolazione italiana si aggira attorno alle 15 mila persone, di cui un quinto in Slovenia, dove si concentra quasi esclusivamente a Capodistria (712), Pirano (698) e Isola (430). Si contano 26 istituti scolastici italiani, dove studiano meno di 5 mila studenti. Otto le città o i comuni dove almeno il 10% della cittadinanza si è dichiarato di nazionalità italiana all’ultimo censimento. La dimensione ridotta di Grisignana permette a questo paesino di essere l’unico comune a maggioranza italiana di tutta l’ex Jugoslavia pur avendo solo 400 cittadini di nazionalità italiana. Nella penisola la rete delle comunità italiane, incaricate di tenere viva la cultura e la lingua, si compone di 53 centri, per circa 32 mila soci. Queste comunità, 1. Dati forniti dalla presidenza dell’Unione Italiana.
291
L’ITALIA SI È FERMATA A MUGGIA
come l’Unione italiana che le coordina, stanno vivendo una fase di ricambio generazionale, dopo che per molti decenni si sono avvicendate al vertice pressoché sempre le stesse facce. Sopravvivono inoltre alcune istituzioni, come il Centro ricerche storiche di Rovigno, la casa editrice Edit, Radio e Tv Capodistria, lo storico quotidiano La Voce del Popolo, cui si sommano associazioni culturali di vario tipo. In alcune facoltà universitarie croate (Pola, Capodistria e Fiume) si tengono corsi di lingua e storia italiana. A fronte di questi numeri, oggi che gli steccati intercomunitari sono stati in gran parte abbattuti (pratiche come il matrimonio misto sono universalmente accettate), il processo di assimilazione è molto avanzato. Alle scuole italiane, dove già gli insegnanti spesso non sono di madrelingua italiana, si iscrivono sempre più non italofoni, contesto che favorisce l’utilizzo di croato e sloveno come lingue di comunicazione fuori dall’orario di lezione. Come il resto dei propri concittadini, gli istriani di nazionalità italiana che si formano a queste scuole tendono a emigrare nel resto dell’Ue, cercando un lavoro, uno stipendio o un clima socio-culturale migliori. E l’Italia, di cui parlerebbero anche la lingua, non fgura tra le mete più attrattive. In direzione contraria sono in pochi a muoversi, per lo più spinti da ragioni di convenienza fscale. In una prospettiva prettamente normativo-giuridica, il quadro odierno pare sì critico – italiani e italofoni sono in costante diminuzione – ma non discriminatorio. Per la minoranza, tutelata da accordi bilaterali e generalmente integrata nel tessuto socio-economico, il presente è tutto sommato accettabile. A inquietare sono per lo più il futuro e, soprattutto, il passato. Esito emblematico degli sconvolgimenti del secolo breve, nella penisola il paesaggio della memoria è stato difatti completamente deturpato. 3. Durante il XX secolo, l’Istria ha già visto alcune comunità storiche estinguersi, venendo assorbite dalla maggioranza per vie variamente coercitive. Il caso più emblematico è stato quello degli istrorumeni (o cici), minoranza dalle nebulose origini valacche. Andrea Glavina, «apostolo degli istrorumeni», pensava di poter salvare la sua nazione sposando la causa irredentista italiana. La fedeltà a Roma gli valse il diritto di fondare il primo comune istrorumeno nella natia Valdarsa (in croato Šušnjevica). Quest’oasi linguistica ebbe vita breve, venendo presto ingurgitata dall’avvento della Jugoslavia socialista. Oggi ne rimane poco di più di qualche testimonianza scritta e il Calendar lu Rumen din Istria vergato da Glavina. Il precedente istrorumeno, mutatis mutandis, incombe tetro sulla minoranza italiana. Fu proprio un esule italiano il primo a intravedere nei confitti degli anni Novanta il rischio del «memoricidio». Nella sua autobiografa, lo spalatino Enzo Bettiza si dichiarava animato dalla necessità di salvare quel «microcosmo di frontiera», dove aveva vissuto fno alle soglie dell’età adulta, dall’«olocausto memoricida» che stavano compiendo i distruttori della Jugoslavia 2. Corollario meno cruen-
292
2. E. Bettiza, Esilio, Milano 1995, Mondadori.
IL MURO PORTANTE
to ma ugualmente letale delle operazioni di pulizia etnica, la rimozione delle tracce e del patrimonio di una comunità autoctona, o perlomeno longeva, erano funzionali alla repentina etnicizzazione dei territori conquistati. Un fenomeno comparabile, seppure non riconducibile ad attori (o pratiche) militari, si registra oggi nella penisola adriatica. Il processo di cancellazione della memoria degli italiani oltrecortina è proceduto più spedito della loro riduzione in termini numerici. Ha comportato relegare all’oblio anche la memoria della convivenza fra comunità diverse che, sebbene mai del tutto scevra di attriti e spesso fondata su una gerarchizzazione incontestabile delle diverse comunità nazionali, rappresentò una realtà di fatto per lunghi periodi, come durante il dominio asburgico. Fino almeno alla metà del XVIII secolo in Istria erano raramente identifcabili identità nazionali chiaramente delimitate. La principale differenziazione tra popolazioni in gran parte poliglotte si innestava sul divario tra città, a organizzazione municipale, e campagna, a organizzazione feudale. «Né in Italia né in Istria si insegna perché siamo qui», sintetizzano i rappresentanti della minoranza. Le comunità di cittadini croati, emigrati nella penisola – specialmente dalla Bosnia – durante la disgregazione della Jugoslavia, sanno poco della presenza storica italiana in Istria, considerano i concittadini italiani alla stregua di emigrati di recente arrivo. E nemmeno molti dei turisti italiani, fniti in Istria per una vacanza a Pola o Parenzo, solitamente ne sanno tanto di più; approvano i cartelli bilingue spiegandoseli come una sagace trovata turistica, suggerita dalla vicinanza con il Belpaese. Nazario Sauro ha un via intitolata in parecchi capoluoghi dello Stato italiano, ma pochi ne conoscono il motivo; la sua casa natia a Capodistria ha visto giorni migliori. Anche ad Arsia, prototipo istriano della sarda Carbonia inaugurata da Benito Mussolini in persona nel 1937, la lingua di Dante è pressoché sparita. Investiti dalla turisticizzazione, i memorabilia dell’epoca veneziana o del periodo asburgico sono stati degradati a semplici souvenir. Scomparsa (o resa superfua) la minaccia concreta della repressione, oggi la comunità italiana non è a rischio estinzione per l’aggressione cosciente di un qualsivoglia attore, bensì per effetto secondario di fenomeni globali – impoverimento, migrazioni e diffusione di appartenenze post-nazionali – contro cui governi e autorità locali si sono dimostrati incapaci di elaborare una strategia adattiva effcace. Un disegno capace di sanare in primis la frattura cardinale, quella fra esuli e «rimasti» 3. Le sofferenze di chi si ritrovò sul «treno della vergogna» e di chi scelse di rimanere a casa, per farsi bollare come «fascista» dai vicini e come «comunista» in Italia, si sono sedimentate in memorie diverse, largamente inconciliabili. Queste memorie, nel tramandarsi alle seconde e alle terze generazioni, si sono progressivamente diluite in un senso di appartenenza affevolito a causa dei processi di assimilazione subiti, rispettivamente, in Italia e in Jugoslavia. 3. Si veda il libro Bora (Milano 2018, Frassinelli), scambio epistolare tra Anna Maria Mori e Nelida Milani (citata in esergo), le cui famiglie operarono scelte opposte.
293
L’ITALIA SI È FERMATA A MUGGIA
4. Gli avvenimenti «della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confne orientale» 4, affrontati esaustivamente da altri contributi presenti in questo volume, si conclusero nella separazione dell’Istria dallo Stato italiano. Sostanzialmente, Roma aveva perso la propria sovranità sulla regione amministrata già nel 1943, con la creazione dell’Adriatisches Küstenland (Litorale adriatico) da parte dei nazisti. Al termine della seconda guerra mondiale, con il trattato di Parigi (1947) si vide imporre la suddivisione dell’area in Zona A (controllata dagli alleati) e Zona B (gestita dalla Jugoslavia). Si istituiva il Territorio Libero di Trieste (Tlt), una zona cuscinetto che avrebbe avuto uno statuto speciale e una popolazione mista. Successivamente, il graduale allontanamento di Tito dall’orbita sovietica, inaugurato con lo scisma del 1948, propiziò la frma del Memorandum di Londra 5, che assegnava a Belgrado l’intera Zona B. Quest’intesa, frmata il 5 ottobre 1954 per l’Italia dall’ambasciatore Manlio Brosio, che più tardi diverrà il primo italiano a ricoprire la carica di segretario generale della Nato, sanciva de facto la fne del Tlt e la formazione dei confni attuali. La prima norma giuridica che regolava il trattamento delle comunità italiane rimaste fuori dalla madrepatria era proprio lo Statuto speciale allegato al Memorandum di Londra. Provando a legare i destini della minoranza italiana in Jugoslavia a quella «jugoslava» in Italia, gli accordi si basavano sul principio della reciprocità. Veniva garantita la possibilità di avere istituzioni scolastiche nella propria lingua madre e, inter alia, si fssava al 25% la presenza della popolazione di minoranza necessaria a rendere obbligatorio il bilinguismo visivo nei centri abitati 6. La progressiva apertura di Belgrado al campo occidentale portò alla sigla del trattato di Osimo (10 novembre 1975). Oltre a riconoscere anche de iure l’effettivo assetto del confne italo-jugoslavo, Roma e Belgrado stipulavano ulteriori garanzie per la tutela dei diritti delle rispettive minoranze, introducendo la possibilità di trasferirsi in maniera pacifca da uno Stato all’altro e, per gli esuli, di ottenere un indennizzo per i beni confscati dall’occupante/liberatore jugoslavo 7. Concretamente, durante la guerra fredda, l’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume, nata durante la Resistenza per valorizzare le peculiarità culturali della minoranza italiana nella nascitura Jugoslavia plurietnica e socialista, agì sempre conformemente alla volontà uffciale. I suoi vertici furono frequentemente destituiti e rimpiazzati con portavoce più graditi a Belgrado e satrapi locali. Le voci critiche che auspicavano apertamente il sostegno di Roma o denunciavano le prevaricazio-
294
4. Legge 30 marzo 2004, n. 92: «Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confne orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati», www.camera.it/parlam/leggi/04092l.htm 5. Memorandum di Londra (1954), anvgd.it/documenti/MemorandumdiLondra.pdf 6. M. aBram, «Nazionalità, lingua e territorio nel socialismo jugoslavo: il bilinguismo a Fiume (19471955)», Qualestoria, n. 1/2018. 7. Trattato di Osimo (1975), www.anvgd.it/documenti/TrattatodiOsimo.pdf
IL MURO PORTANTE
GLI ULTIMI ITALIANI IN ISTRIA ITALIANI NELLA EX-JUGOSLAVIA Croazia: 17.807 (0,42%) Istria (croata): 12.543 (6,03%) Slovenia: 2.258 (0,11%)
I T A L I A S L O V E N I A
TRIESTE Muggia Koper/Capodistria Piran/Pirano
Izola/Isola d’Istria
Buzet/Pinguente Umag/Umago Buhe/Buie RIJEKA/FIUME Oprtalj/Portole Brtonigla/Verteneglio Grožnjan/Grisignana (unico comune Novigrad/Cittanova a maggioranza ISTRIA italiana in Croazia) Poreč/Parenzo
C R O A Z I A
Pazin/Pisino Labin/Albona
KRK
Rovinj/Rovigno Bale/Valle Vodnjan/Dignano Comuni con popolazione italiana
Pula/Pola
CRES
Comuni con almeno il 10% di popolazione italiana Città dove si tengono corsi d’italiano POLA, CAPODISTRIA, FIUME
RAB
Fonte: Unione italiana, Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia, ufci statistici di Croazia (censimento 2011) e Slovenia (censimento 2012)
ni subite dai cittadini jugoslavi di nazionalità italiana, invocando una maggior libertà d’azione, venivano represse o isolate. Su tutte quelle di Antonio Borme, che, invitando l’Unione a impegnarsi per allacciare relazioni e contatti con il mondo culturale italiano, già nel 1964 lamentava che la crescita culturale della comunità italiana in Istria e Quarnero sarebbe stata destinata alla stagnazione o addirittura alla regressione se non avesse ricevuto il costante «apporto» dell’Italia. Infatti, sebbene la Lega dei comunisti non intraprese mai azioni concrete per chiudere gli istituti di lingua italiana, le espressioni di italianità venivano variamente ostracizzate. La lingua italiana – il cui utilizzo era teoricamente garantito – suscitava poca simpatia, venendo istintivamente riconnessa all’italianizzazione forzata subita dalle popolazioni slave (prima e durante il fascismo) e all’occupazione
295
L’ITALIA SI È FERMATA A MUGGIA
(1941-43) 8. Sul versante italiano, poiché attività promosse direttamente da Roma erano virtualmente interdette oltreconfne, all’Università popolare di Trieste (Upt) fu delegata la funzione di «ente morale». Agendo da trait d’union, l’Upt mantenne, con il sottaciuto nulla osta di Belgrado, la relazione tra la comunità italiana oltrecortina, di cui formava gli insegnanti e supportava l’attività culturale, e le autorità italiane. Solo durante gli anni Ottanta la società jugoslava iniziò a tollerare l’emersione di istanze nazionaliste che, se nel caso delle maggioranze nazionali (relative) propiziarono le note carnefcine del decennio successivo, nel caso della risicata minoranza italiana si traducevano nella presa di coscienza della propria identità e nella rivendicazione di una maggiore libertà d’espressione. La caduta del Muro di Berlino sembrava creare le condizioni adatte affnché queste aspirazioni si materializzassero. 5. La fne della guerra fredda coincise con una nuova primavera per la comunità italiana in Istria. Al primo censimento tenuto nella Croazia (virtualmente) indipendente aumentò per la prima volta il numero di coloro che si dichiararono italiani (21.708 persone). Fiorirono le associazioni culturali e, concretizzando un processo partito con il «risveglio dell’88», l’Unione italiana si riorganizzò su basi democratiche, proiettandosi come l’interlocutore primario di Roma nella regione. In Italia, gli sciovinisti dalla fantasia più fervida caldeggiavano una revisione degli accordi di Osimo, o addirittura un sodalizio con Belgrado in funzione anti-croata, al fne di riconquistare i territori assegnati all’Italia all’epoca del trattato di Rapallo (1920), sfruttando l’incipiente confitto che si preparava a smantellare la federazione titina. Si ritornò a parlare di «questione istriana» 9. Sul fronte interno, nei primi anni Novanta la situazione giuridica degli italiani in Istria visse una fase di rapidi avanzamenti, sia nel diritto interno sia negli accordi internazionali, assumendo grossomodo l’assetto attuale. Roma iniziò ad allocare fondi per iniziative come la restaurazione del patrimonio immobiliare e l’organizzazione di manifestazioni culturali, stimolando l’interazione tra gli italiani residenti dalle due parti del confne. Allo stesso tempo, la nuova legge sulla cittadinanza promulgata nel 1992 dal governo Andreotti VII – il primo a istituire un ministero per gli Italiani all’estero e l’Immigrazione – garantì la cittadinanza agli istriani di origine italiana 10. Nel 1991 Lubiana varò la propria costituzione, garantendo alla minoranza (anche ungherese) un seggio protetto in parlamento e confermando il diritto al bilinguismo sancito in epoca jugoslava nelle aree dove risiedevano cospicue comunità italiane (Pirano, Capodistria e Isola). Nel 1992 l’Italia
296
8. E. GoBetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma-Bari 2013, Laterza. 9. A. Sema, «Questione istriana o istrianische angelegenheit», Limes, «A che serve l’Italia», n. 4/1994. 10. Questa legge verrà in seguito emendata nel 2006, quando la cittadinanza verrà concessa ai «soggetti che siano stati cittadini italiani, già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava» e ai loro «fgli o discendenti in linea retta». Provvedimento veementemente criticato da Lubiana e Zagabria.
IL MURO PORTANTE
strinse i primi accordi bilaterali con i vicini, su tutti il Memorandum d’intesa tra Croazia, Italia e Slovenia sulla tutela della minoranza italiana in Croazia e Slovenia, che si evolvette poi nel trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia concernente i diritti minoritari (1996), lista di ambiziosi provvedimenti rimasta in parte lettera morta. Queste trattative si svolgevano sullo sfondo della guerra di disgregazione della Jugoslavia che coinvolse la Slovenia per dieci giorni nell’estate del 1991 e la Croazia negli anni 1991-95. Se l’ottenimento della cittadinanza italiana permise a molti nuovi italiani di sottrarsi all’invio al fronte, non poteva bastare a fugare le preoccupazioni che le ostilità si estendessero anche alla penisola adriatica. I dispacci provenienti da Krajina, Slavonia orientale e Dalmazia rendevano plausibile un inasprimento delle tensioni anche in Istria, dove serpeggiava il timore che il neopresidente Franjo Tudjman scegliesse di reprimere, potenzialmente manu militari, l’autonomia della regione meno croata dello Stato che andava plasmandosi 11. La penisola si mostrava difatti pressoché immune dalle pulsioni nazionaliste che investivano il resto della Croazia, travolta da un revival di patriottismo che non si peritava di rispolverare simboli e slogan del periodo ustascia. In opposizione al nazionalismo imperante a Zagabria e nelle aree dove infuriavano i combattimenti con i serbi e i bosgnacchi/musulmani, si rafforzava in quegli anni un’identità istriana imperniata sulla plurietnicità. Le élite della penisola, dove tutt’oggi risiede la maggioranza dei pochi bosgnacchi rimasti in Croazia, rivendicavano il carattere della loro terra e si spingevano a sognare un’Istria riunifcata, in qualche modo autonoma dalle capitali dei neonati Stati jugoslavi. Tuttavia, mentre il confne italosloveno diveniva in parte più permeabile, già dal 1991 la popolazione istriana dovette fare i conti con un nuovo confne duro, quello tra Slovenia e Croazia, entrambe prontamente riconosciute da Germania e Austria. Una mossa a sorpresa che spiazzò Roma, privandola di una carta negoziale preziosa nelle trattative con i vicini, smaniosi di abbandonare al più presto i Balcani dopo la cattività nella «gabbia dei popoli» jugoslava. Nel 1990, l’alterità rivendicata dall’Istria, che ben si sposava con la coeva fammata post-storica, si era materializzata nella fondazione della Dieta democratica istriana (Ddi). Forza politica di ispirazione liberale e dichiaratamente bilingue capace di convertire il sentimento di appartenenza regionalista in capitale elettorale, la Ddi offriva una proposta politica che pareva attagliarsi perfettamente alle esigenze della comunità italiana. Mirava a riplasmare l’Istria post-jugoslava come una polis coabitata da popolazioni concordi nello scindere cittadinanza da nazionalità, nella convinzione che le differenze inter-comunitarie fossero minori di quelle che opponevano la penisola al resto del paese. Per gli italiani questo avrebbe signifcato la possibilità concreta di salvaguardare la cultura italiana nell’area istroquarnerina e l’occasione di coinvolgere la diaspora nel tentativo di ricomporre – simbolica11. S. andreini, L’Istria e la minoranza italiana nella crisi jugoslava 1974-1994, Civitavecchia 2006, Prospettiva Editrice.
297
L’ITALIA SI È FERMATA A MUGGIA
mente e formalmente – la comunità italiana istriana nella sua originaria integrità. Mentre pressoché in tutto il resto della Croazia trionfarono i nazionalisti dell’Hdz guidati da Tudjman, in Istria la Ddi stravinse le elezioni parlamentari del 1992, inaugurando un’egemonia tuttora incontrastata. Sul piano internazionale, il progetto più adatto per soddisfare le istanze regionaliste sarebbe stata la trasformazione dell’Istria in un’Euroregione 12, nel contesto della prospettiva di un’«Europa delle Regioni», ipotizzata evoluzione dell’organismo comunitario europeo. Eccitando inconfessabili pulsioni cripto-asburgiche, questa futuribile Euroregione compresa tra Adriatico e arco alpino sembrava avere già una capitale designata. Nei primi anni Novanta, con la parziale apertura delle frontiere e il riposizionamento degli Stati emersi dal Patto di Varsavia, Trieste credette di aver recuperato il proprio hinterland senza colpo ferire. Iniziando a sognarsi ancora mitteleuropea, il capoluogo giuliano riavvolse il nastro fno allo sbarco del cacciatorpediniere Audace nel 1918. Prese a condurre una propria politica estera, idealmente autonoma dalle pastoie romane, deputata a trasformare quello che era stato il porto principale dell’impero austro-ungarico nel baricentro della rediviva Europa centrale. Il generale favore degli altri attori regionali (oltre a Slovenia e Croazia, anche Länder austriaci come la Carinzia) e di Roma all’eventualità che il Friuli-Venezia Giulia sfruttasse i propri vantaggi di posizione era dato per scontato. Si intensifcò dunque la cooperazione transfrontaliera e si stanziarono fondi signifcativi per la realizzazione del famigerato Corridoio V, quel Lisbona-Kiev che avrebbe spalancato le fertili pianure dell’Europa post-comunista (e poi post-sovietica) ai navigati investitori occidentali. Recuperata intatta la profttevole centralità geopolitica, l’Euroregione istriana avrebbe dovuto fare la parte del leone in questo progetto faraonico di integrazione logistico-economica su scala continentale. Si comprese presto però che Roma, Zagabria e Lubiana (ma anche Vienna e Berlino) avevano altri piani, non necessariamente sincronizzati e armonizzabili. Divise geografcamente, Trieste e l’Istria rimasero unite dall’avversione rancorosa verso i rispettivi governi centrali, incapaci o indisponibili a contemperare gli interessi nazionali con le spinte propulsive di province di confne che si erano illuse di potersi saldare, resuscitando i fasti passati. Il progetto dell’Euroregione, che sull’abbattimento dei confni aveva puntato, sfumò defnitivamente agli albori del nuovo millennio. Quando nel 2004 la Slovenia entrò nell’Ue e cadde il più poroso muro di Gorizia, un altro confne, quello sloveno-croato che separava le due porzioni di Istria non italiana, si fece più spesso. Il limes tra l’Europa post-storica e i selvaggi Balcani si spostava di una trentina di chilometri, adagiandosi sul fume Dragogna. Anche dopo il suo arretramento verso sud, in seguito all’entrata di Zagabria nella Nato (2009) e nell’Ue (2013), la frontiera è rimasta in piedi. Infatti, a rimarca-
298
12. L. BoGliun-deBeljuh, «Come faremo la nostra Euroregione Istria», Limes, «A che serve l’Italia», n. 4/1994.
IL MURO PORTANTE
re la distanza con l’euforia euro-regionalista di fne secolo, al momento la Croazia non è nemmeno parte dell’area Schengen. Uno degli ostacoli principali posti da Lubiana all’entrata dell’ex repubblica consorella nell’area di libero scambio è la questione della Baia di Pirano 13. Nonostante le sentenze favorevoli a Lubiana, Zagabria continua a impedire al vicino settentrionale l’accesso diretto alle acque internazionali. Un lungo contenzioso che, logorando i rapporti bilaterali, non può che avere ricadute negative sulle comunità italiane croata e slovena che abitano ai due lati del confne istriano. A distanza di quasi tre decenni, complessivamente, per la comunità italiana il bilancio del regionalismo è in chiaroscuro. Se la diffusione e il radicamento dell’identità istriana hanno preservato il clima di tolleranza distintivo della penisola e permesso a esponenti italiani di occupare posizioni politiche di rilievo, nel tempo si sono però dimostrati un boomerang. Invogliando molti di loro a identifcarsi innanzitutto come istriani, l’enfatizzazione dell’istrianità 14 ha eroso ulteriormente il numero di coloro che si considerano di nazionalità italiana, contribuendo al declino demografco. All’ultimo censimento sono triplicati gli abitanti della penisola di nazionalità «istriana» (25.491) rispetto a dieci anni prima 15 – tra questi probabilmente anche alcune persone che a inizio millennio avevano optato per dichiararsi italiani. 6. Se nel 1954 Roma ha perso l’Istria, negli ultimi anni ha perso gli italiani che ci abitano. Nonostante i ragguardevoli (pur incostanti) fondi stanziati per la minoranza, lo Stato italiano non è riuscito a elaborare una strategia coerente e coordinata con attori locali, rappresentanti della minoranza e autorità croate e slovene. Questa carenza rifette un più trasversale disinteresse nei confronti di Trieste 16 e, soprattutto, dell’area balcanica 17, dove pure operano parecchi attori economici registrati nel Belpaese. Una negligenza che ha trovato una metafora adatta a fne del 2018, quando l’Upt è stata commissariata in seguito alla scoperta di un bilancio in rosso, frutto della gestione non sempre oculata dei fondi ricevuti dallo Stato centrale. Iniziative propagandistiche estemporanee, rivolte soprattutto all’elettorato interno, non hanno giovato a una rifessione di lungo periodo sul futuro della comunità italiana in Istria. I timori di essere tacciati di revanscismo generano un cortocircuito logico secondo cui il solo ponderare delle misure per garantire un futuro agli italiani oltreconfne che non sia di mera sopravvivenza sarebbe ipso facto sciovinista. 13. P. Quercia, F. eichBerG, «La Croazia balcanizza l’Adriatico», Limes, «Il nostro Oriente», n. 6/2003. 14. M.P. PaGni, m. Galli, «Contesa tra due patrie, l’Istria sceglie il regionalismo», Limes, «La guerra in Europa», nn. 1-2/1993. 15. A. marSanich, «In venticinquemila si dichiarano “istriani”. Sono il 12 per cento», Il Piccolo, 19/12/2012. 16. «L’Europa non è europea», editoriale, Limes, «Antieuropa, l’impero europeo dell’America», n. 4/2019. 17. P. Quercia, «Perché abbiamo perso i Balcani», Limes, «A chi serve l’Italia», n. 4/2017.
299
L’ITALIA SI È FERMATA A MUGGIA
L’esito paradossale è che quest’attitudine deliberatamente acquiescente, quando fatta propria dalle istituzioni, magnifca la voce degli sparuti ma queruli irredentisti (invariabilmente residenti al di qua del confne) sovrastando la voce degli autoctoni, per molteplici ragioni ben più interessati alla cooperazione di Roma con Lubiana e Zagabria. Pur ammettendo il tramonto dell’ipotesi euro-regionalista, gli esponenti della minoranza continuano infatti a intessere collaborazioni di ampiezza minore con altri soggetti dell’area, non da ultimo la minoranza slovena in Italia. Aspettando che Roma recuperi una profondità strategica capace di trascendere la mera dimensione fnanziaria e supportare proattivamente lo sviluppo delle comunità di connazionali in Croazia e Slovenia.
300
AlessAndro Aresu - Consigliere scientifco di Limes. simone BenAzzo - Diplomato al Collegio d’Europa, collaboratore di Limes. stefAno BiAnchini - Professore ordinario di Politica e storia dell’Europa orientale presso il dipartimento di Scienze politiche e sociali, Università di Bologna, Campus di Forlì. edoArdo BoriA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Geografa e di Geopolitica. Consigliere scientifco di Limes. theodore r. Bromund - Senior Research Fellow per le Relazioni anglo-americane al Margaret Thatcher Center for Freedom, Heritage Foundation. Piero crAveri - Professore emerito di Storia contemporanea, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa. Presidente della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. diego d’Amelio - Giornalista del Piccolo di Trieste. Si occupa di politica interna, attualità ed economia. mAuro de Bonis - Giornalista, redattore di Limes. Esperto di Russia e paesi ex sovietici. PAolo degAnutti - Giornalista. Direttore di testate economiche locali. AlBerto de sAnctis - Consigliere redazionale di Limes, studioso di geopolitica dei mari, analista presso l’uffcio Analisi & Strategie di Utopia. heriBert dieter - Visiting Professor, Asia Global Institute, Università di Hong Kong. leonid n. doBrokhotov - Esperto in storia e politica degli Stati Uniti e relazioni russo-americane. Professore alla facoltà di Sociologia dell’Università Statale Lomonosov, Mosca. dArio fABBri - Giornalista, consigliere scientifco e coordinatore America di Limes. Esperto di America e Medio Oriente. george friedmAn - Fondatore e ceo di Geopolitical Futures. lAris gAiser - Membro dell’Itstime presso l’Università Cattolica di Milano e Senior Fellow al centro studi Globis dell’Università della Georgia (Usa). Insegna Geoeconomia e Geopolitica all’Accademia diplomatica di Vienna. thorsten hinz - Giornalista e scrittore. È opinionista per il settimanale Junge Freiheit, testata di riferimento dell’area culturale della Nuova Destra tedesca, di cui è stato caporedattore alla cultura per quattro anni. ilko-sAschA kowAlczuk - Storico e scrittore. I suoi lavori sono incentrati soprattutto sulla DDR e sulla Stasi. Nel 2019 è stato incaricato dal governo tedesco di
301
supervisionare la preparazione delle celebrazioni per i 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Il suo ultimo libro è La conquista. Come la Germania dell’Est divenne parte della Repubblica Federale. fABrizio mArontA - Redattore, consigliere scientifco e responsabile relazioni internazionali di Limes. toniA mAstroBuoni - Corrispondente da Berlino per la Repubblica. mirko mussetti - Analista di geopolitica e geostrategia. Ha pubblicato Áxeinos! Geopolitica del Mar Nero (2018) e Némein. L’arte della guerra economica (2019). cArlo PelAndA - Professore straordinario a tempo determinato, Università degli Studi Guglielmo Marconi. PAolo Peluffo - Consigliere della Corte dei Conti, segretario generale del Cnel, già portavoce del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. federico Petroni - Consigliere redazionale di Limes e presidente di Geopolis. rAoul PuPo - Storico, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste. Piero Purich - (già Purini, recentemente ha ripreso il cognome italianizzato durante il fascismo), storico e musicista, ha studiato in Italia, Slovenia e in Austria, conseguendo il dottorato presso l’università di Klagenfurt. Tra le sue opere Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, 2014) e lo spettacolo Rifuto la guerra. Pacifsti, renitenti, disertori, ammutinati: la grande guerra dalla parte di chi cercò di evitarla. giAn enrico rusconi - Professore emerito di Scienze politiche presso l’Università di Torino. lAurA stAngAnini - Dottorato in Geografa a Berlino. Assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, si è dedicata ai temi dell’immigrazione in Toscana e della valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale. Ha collaborato con Uniscape, network delle università europee per l’applicazione della Convenzione europea del paesaggio. lucA steinmAnn - Giornalista. michAel stürmer - Storico, editorialista di Die Welt. fAnni tAnács-mAndák - PhD, è ricercatrice di Scienze politiche presso l’Università Nazionale del Servizio Pubblico di Budapest e presso l’Istituto degli Affari Esteri e del Commercio Estero d’Ungheria. Pierre-emmAnuel thomAnn - Dottore in geopolitica.
302
La storia in carte a cura di Edoardo Boria 1. Di muri Berlino ne ha conosciuti anche altri oltre a quello di cui Limes ricorda la caduta in questo numero. Nell’immagine 1 il primo, quello medievale lungo il canale della Sprea. Per ironia della sorte, mentre stava nascendo l’ultimo muro, i resti del primo venivano tutelati con la dichiarazione di monumento storico (1948). Sull’altro lato del fume si può vedere Kölln, città gemella che nel 1710 confuì insieme ad altri sobborghi nel nuovo assetto amministrativo di un centro urbano fnalmente all’altezza della capitale di un ambizioso regno, la Prussia. Fonte: J.G. MeMhardt, Grundriß der Beyden Churf. Residentz Stätte Berlin und Cölln an der Spree (Pianta delle due residenze elettorali di Berlino e Kölln sulla Sprea), 1652 2-5. La pianta del sistema di trasporto ferroviario di Berlino del 1931 (fgura 2), integrando la ferrovia interna (Stadtbahn) con il raccordo anulare ferroviario (Ringbahn), suddivide la città in quattro spicchi simmetrici formulando un oscuro presagio di ciò che accadrà dopo la guerra quando venne distinta in quattro aree di occupazione. La fgura 3 del 1952 ci mostra proprio questi quattro settori, con “F” che sta per francese (a nord), “B” per britannico (a ovest), “A” per americano (a sud) e infne “D” per… tedesco (a est), anche se la realtà avrebbe suggerito “R” per russo! Più tardi la città assumerà la nota bipartizione in un settore occidentale e uno orientale, e infatti nella pianta del 1975 (fgura 4) il sistema non è più integrato. L’enclave di Berlino Ovest forma una propria rete mentre le linee del sistema orientale si interrompono in corrispondenza dei confni con l’altro settore, salvo conservare il raccordo anulare per connettersi con Potsdam, più a ovest di Berlino Ovest. Si notino nell’immagine più vecchia i percorsi perfettamente lineari o perfettamente circolari. Perfezioni vere solo nel disegno perché in realtà la ferrovia procedeva in modo tortuoso. Il primato del popolarissimo diagramma schematico della metropolitana è generalmente attribuito a Londra, di cui rappresenta un logo popolarissimo in tutto il mondo (fgura 5). Ma si avanza qui l’ipotesi, contraria al senso comune, che tale primato vada invece attribuito a Berlino con la pianta 2. Si intende cioè sostenere che fu Berlino e non Londra la prima città al mondo a dare vita a un disegno schematico della propria rete di trasporto, da allora divenuto il modello per ogni rappresentazione di una rete sotterranea. Dopo alcune titubanze quella di Londra venne effettivamente resa disponibile al pubblico nel 1933 mentre a Berlino lo schema 2 porta la data 1931 in basso a destra e probabilmente circolò uffcialmente già l’anno seguente. Esso è infatti sicuramente precedente – e con ogni probabilità di molti mesi – al 15 maggio 1933, quando vennero elettrifcate alcune linee che nello sche-
303
ma risultano ancora a vapore (è inoltre successivo al 1° dicembre 1930 poiché solo da quel momento la rete prende il nome di S-Bahn). In ogni caso, è corretto considerare la pianta della metropolitana di Berlino almeno coeva a quella di Londra. Sul piano grafco, inoltre, va notato che risultava più innovativa la sua soluzione per le fermate: non pallini di diffcile individuazione come nello schema di Londra ma rettangoli perfettamente leggibili. Inoltre, sul piano della storia dell’information design può essere interessante rilevare che lo schema di Berlino era non meno stilizzato – e dunque non meno moderno – di quello di Londra. Una sensazione accentuata dalla linea perfettamente circolare che attorniava interamente la città. Fonte fg. 2: S-Bahn Berlin, 1931 Fonte fg. 3: S-Bahn Berlin, 1952 Fonte fg. 4: Übersichtsplan der S-Bahn, 1975 Fonte fg. 5: H. Beck, London Underground Rail System, 1933 6. Un ebreo che tentava di scappare dai rastrellamenti nazisti doveva conoscere il mondo per sapere dove rifugiarsi. Gli veniva in aiuto il Philo-Atlas da cui è tratta la carta 6, che mostra le distanze da Berlino verso altre città del mondo che il perseguitato poteva utilizzare come tappe intermedie o fnali della propria fuga. Nella prefazione l’opera si autodefnisce «dizionario ebraico specializzato, indiscutibilmente attuale» e si concepisce come ausilio al salvataggio della propria comunità: «I movimenti migratori ebraici dei nostri giorni hanno completamente trasformato la vita ebraica e hanno allargato di molto la sfera d’azione dell’assistenza sociale ebraica. Il singolo ebreo si trova di fronte a compiti e decisioni che richiedono una mole di conoscenze sia generali sia specifcamente ebraiche. Il Philo-Atlas vorrebbe aiutare a trovare una risposta alle innumerevoli nuove domande sorte. Vorrebbe essere un prontuario per gli emigranti, una guida per gli immigrati e un collegamento tra gli emigrati e le persone rimaste”. Che non fosse un atlante per turisti si capisce facilmente. Delle grandi città del mondo non si sofferma sui monumenti ma sui luoghi dove richiedere documenti, permessi di transito e visti. Le località privilegiate non sono mete tradizionali di villeggiature balneari o termali ma i porti da cui imbarcarsi per fuggire ai campi di sterminio, ancora non allestiti ma di cui si avvertiva già l’agghiacciante presenza. Fonte: G. Wiesenthal, Entfernungen in der Welt (Distanze nel mondo), da Philo-Atlas. Handbuch für die Jüdische Auswanderung, Philo Jüdischer Buchverlag, Berlino, 1938, tav. 20.
304
1.
2.
3.
4.
5.
6.
GRANDI STORIE, PICCOLO SPAZIO. filatelia Una storia si può raccontare con un libro, un film, una canzone, una serie tv. Ma quando è davvero grande basta un francobollo. Come quella di Giuseppe Garibaldi, di Anita e dell’eroica impresa di riunire l’Italia. Per acquistare i francobolli e tutti gli altri prodotti filatelici vai su poste.it Diventa anche tu collezionista di grandi storie.
.