Felicita De Negri, Presentazione
PUBBLICAZIONI DEGLI ARCHIVI DI STATO SAGGI 95
PER UNA STORIA NON ANTROPOCENTRICA L’UOMO E GLI ALTRI ANIMALI
Catalogo della mostra e Atti del convegno di studi Archivio di Stato di Salerno, maggio 2009
a cura di
EUGENIA GRANITO E FRANCESCO MANZIONE
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE GENERALE PER GLI ARCHIVI 2010
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Per una storia non antropocentrica
DIREZIONE GENERALE PER GLI ARCHIVI Servizio III - Studi e ricerca
Direttore generale per gli archivi: Luciano Scala Direttore del Servizio III: Patrizia Ferrara
L’iniziativa ha avuto il patrocinio della Provincia di Salerno - Assessorato tutela animali
2010 Ministero per i beni e le attività culturali Direzione generale per gli archivi ISBN 978-88-7125-304-6 Vendita: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato - Libreria dello Stato Piazza Verdi, 10 - 00198 Roma
Stampato nel mese di marzo 2010 a cura della Plectica editrice - Salerno
Felicita De Negri, Presentazione
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SOMMARIO
Presentazione di Felicita De Negri
VII CATALOGO DELLA MOSTRA
Introduzione di Eugenia Granito
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Percorso espositivo
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I. Il tradizionale amico dell’uomo: il cane
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II. Al pascolo e in transumanza. Gli allevamenti di mucche, bufale, pecore, capre e maiali
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III. Il cavallo e i suoi fratelli poveri: il mulo e l’asino
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IV. Al lupo! Al lupo! La lotta agli animali pericolosi per il gregge e per il raccolto
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V. Uccidere per divertimento. La caccia
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VI. Dal magister maniscalcus al veterinario. I medici degli animali
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VII. Animali d’archivio. Marche tipografiche e alfabeti figurati dai libri antichi del Fondo Bilotti. I disegni di animali nella documentazione archivistica
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VIII. Gli animali nella stampa e nella letteratura
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IX. Animali su moneta contante. Dalla raccolta numismatica di Paolo Emilio Bilotti
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Appendice: La tutela giuridica degli animali di Maria Cioffi
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ATTI DEL CONVEGNO Programma
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Introduzione di Eugenia Granito
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RENATA CANTILENA, Pecus e moneta nelle società del mondo antico. Qualche spunto di riflessione sul rapporto tra il mondo animale e il denaro
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Per una storia non antropocentrica
VI
MICHELA ANGELLOTTI, Il lapidario del quadriportico del Duomo di Salerno: lo zoo di pietra
149
PIETRO PAOLO ONIDA, Il problema della qualificazione dogmatica dell’animale non umano nel sistema giuridico-religioso romano
159
SILVANA CASTIGNONE, Animali e diritto: da “cose” a soggetti
191
EUGENIA GRANITO, Filosofi per gli animali. Linee di una filosofia non antropocentrica
201
MARISTELLA LA ROSA, Carte d’Archivio e mondo naturale. Per una riflessione storica ed etica sul rapporto uomo-animale
239
FRANCESCO MANZIONE, Carte d’Archivio e memorie di vita vissuta
249
ORLANDO PACIELLO, Il medico veterinario nel rapporto uomo-animale: nuove strategie per il benessere degli animali
265
VINCENZO FERRARA, Frodi e maltrattamento di animali
271
REMIGIO LENZA, Flora e fauna dell’oasi di Persano
287
Tavola rotonda: I diritti degli animali. Quale fondazione teorica per un’etica animalista? LUISELLA BATTAGLIA MARINA LESSONA FASANO LUCIA FRANCESCA MENNA GIUSEPPE REALE MICHELE SCOTTO DI SANTOLO
293 304 318 320 326
I relatori Indice dei nomi
329 333
Felicita De Negri, Presentazione
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Presentazione
Particolarmente impegnativa, sin dal titolo prescelto, appare l’impostazione della mostra di cui oggi si pubblica il catalogo, accompagnato dalle relazioni dei partecipanti al convegno che si è svolto il 25 e 26 maggio 2009, in apertura della manifestazione. L’intento è di guardare al rapporto uomo-mondo animale nella storia a partibus animalium, dal punto di vista di coloro che, in un’ottica tradizionale, sembrano viceversa rappresentare semplici strumenti di cui l’uomo si avvale per soddisfare i propri bisogni. Vero è che la mostra propone testimonianze «prodotte dalla specie dominante, l’uomo», nel quadro del secolare sfruttamento degli animali, soprattutto come fonte alimentare e di energia. Tali testimonianze, pur eterogenee per qualità, provenienza e collocazione temporale – si tratta di documenti, libri, monete, foto, disegni, dall’antichità al secolo XX – sono tutte parimente viziate dal contesto di origine; sicché, come ben rilevato dai curatori del catalogo, consentono di ricostruire non certo la storia degli animali ma piuttosto il posto che l’uomo ha assegnato agli animali «nella sua storia». All’abituale sforzo di comprensione che ogni mostra documentaria impone al visitatore, in ragione delle caratteristiche peculiari insite nel bene culturale documento, si deve aggiungere allora, in questo caso, un’attenzione ancor più vigile e, direi, partecipe della tensione ideale sottesa alla manifestazione, affinché gli animali, presenti nella veste di meri oggetti, possano assurgere, grazie ad un capovolgimento di prospettiva, al rango di protagonisti. Indubbiamente, i documenti esposti comprovano la permanenza nell’uomo, pur attraverso successivi adattamenti, di un atteggiamento improntato alla negazione dell’autonoma dignità dell’animale. Esso, quando non si presta a nessuna delle svariate forme di utilizzazione che l’essere umano ha storicamente attuato, viene percepito come una minaccia alla collettività (si vedano i casi del lupo e del cane randagio) e di conseguenza è destinato, unica alternativa possibile, alla soppressione. Anzi, la sua uccisione assume il valore di gesto a tutela della sicurezza della comunità e come tale riceve un pubblico riconoscimento. Tanto più colpiscono la nostra attenzione, in
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Per una storia non antropocentrica
siffatto panorama, gli esempi – rari in verità – dai quali traspare un rapporto uomo/ animale non privo di rispetto, sicché il primo sembra riconoscere al secondo la considerazione dovuta ad un individuo: il pensiero va all’amicizia solidale che lega l’alpino al suo mulo, compagno fidato di marce faticose; o al vincolo personale che consente al massaro di chiamare per nome, una ad una, le bufale al momento della mungitura. L’uomo, come ha osservato uno dei coautori del volume, «ad un certo punto della sua storia ha preso le distanze dalla propria origine animale»; grazie al linguaggio e al raziocinio, ha assunto una posizione predominante sulle altre specie viventi, sottomettendole ai suoi bisogni. Eppure, il mondo animale ha continuato ad esercitare nei suoi confronti una forte attrattiva, quasi che, nel profondo, i legami fra i due esseri, l’uomo e l’animale, fossero rimasti ben saldi: prova ne sia «il ruolo simbolico assunto dagli animali nelle varie epoche storiche». Lo ritroviamo nei tipi delle monete provenienti dal Fondo Bilotti, dove sono raffigurati gli animali più diversi, a rappresentare ognuno un significato, che si connette con la storia dell’autorità emittente. Ma anche le marche, con cui gli antichi tipografi contrassegnavano i libri usciti dai loro torchi, fanno ricorso all’immagine di un animale, secondo una scelta non casuale, per connotare l’attività attraverso un implicito richiamo alla simbologia della tradizione classica e cristiana. Ancora, esempi di un uso simbolico dell’immagine dell’animale si riscontrano nel linguaggio dell’araldica, come pure nelle decorazioni lapidee di importanti monumenti, quale la cattedrale di S. Matteo in Salerno. Il simbolismo delle raffigurazioni animali, cui la mostra dedica un’apposita sezione, diviene uno dei temi affrontati nel convegno che alla mostra fa da contrappunto, sviluppandone su più fronti le premesse ideali e intrecciando la ricostruzione storica con l’analisi del presente. Gli studiosi convenuti, dopo aver relazionato ciascuno a seconda della propria specifica area di competenza (dalla numismatica al diritto romano, dalla storia dell’arte alla ricerca d’archivio, dalla storia del pensiero alla riflessione filosofica, al diritto positivo, alla veterinaria), si sono confrontati, nella tavola rotonda conclusiva, intorno a problemi non soltanto di etica animalista, ma piuttosto di «etica tout court», come acutamente notato da uno degli intervenuti. Se la crisi dell’idea di progresso ha inferto «uno scossone» alla «ben radicata concezione antropocentrica» che ne era un corollario – lo ha ricordato il dibattito – possiamo affermare che è ormai tempo di «mettere al bando lo specismo», l’arrogante pretesa dell’uomo di mantenere in uno stato di soggezione tutte le altre specie viventi. D’altra parte, per dirla con Regan, «non è in alcun modo possibile sostenere la causa del riconoscimento dei diritti degli animali senza sostenere la causa dei diritti degli esseri umani». La difesa degli animali in quanto individui, dotati di un valore in sé,
Felicita De Negri, Presentazione
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indipendente dagli interessi e dai desideri degli esseri umani, va dunque di pari passo con la difesa di quanti, fra gli uomini, sono anch’essi vittime dello sfruttamento, questa volta da parte di propri simili. Mi preme, infine, sottolineare l’importanza che problemi di così bruciante attualità siano dibattuti su iniziativa dell’Archivio di Stato di Salerno, a dimostrare, una volta di più, che la trasmissione della memoria documentaria, cui esso è deputato, non si riduce ad un mero atto di conservazione ma è continuo ripensamento del passato alla luce delle domande e delle necessità del presente. FELICITA DE NEGRI Direttrice Archivio di Stato di Salerno
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Per una storia non antropocentrica
Eugenia Granito, Introduzione
Catalogo della mostra Archivio di Stato di Salerno, maggio 2009 - gennaio 2010
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
Eugenia Granito, Introduzione
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Ricerca documentaria e bibliografica ARCHIVIO DI STATO DI SALERNO: Caterina Aliberti, Maria Cioffi, Renato Dentoni Litta, Eugenia Granito, Francesco Innella, Francesco Manzione, Maria Teresa Schiavino, Anna Sole. Con la collaborazione di Silvana Sciarrotta, Università degli Studi della Basilicata ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI SALERNO: Lucia Napoli, Raffaele Contino, Maria Manzo BIBLIOTECA COMUNALE “S. AUGELLUZZI” DI EBOLI: Teresa Meola CENTRO STUDI “S. AUGELLUZZI” DI EBOLI: Francesco Manzione AZIENDA AGRICOLA SPERIMENTALE REGIONALE “IMPROSTA” DI EBOLI: Luciano Tonetti ISTITUTO TECNICO AGRARIO “GIUSTINO FORTUNATO” DI EBOLI: Raffaele Barone ASSOCIAZIONE CULTURALE “PERSANO NEL CUORE”: Antonino Gallotta
Immagini ed elaborazioni grafiche Enzo Di Somma, Antonio Gentile
Si ringraziano per la documentazione concessa in prestito: Archivio di Stato di Caserta Dott.ssa Adriana Langella Dr. Antonino Gallotta
Si ringrazia il personale dell’Archivio di Stato di Salerno per la preziosa collaborazione.
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
Abbreviazioni AASRIE APG APL AS CE ASCS AS SA BCE CSE ITAE
Azienda Agricola Sperimentale Regionale “Improsta”, Eboli Archivio privato Antonino Gallotta Archivio privato Langella Archivio di Stato di Caserta Archivio Storico del Comune di Salerno Archivio di Stato di Salerno Biblioteca Comunale “S. Augelluzzi” di Eboli Centro Studi “S. Augelluzzi” di Eboli Istituto Tecnico Agrario “Giustino Fortunato” di Eboli
Eugenia Granito, Introduzione
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Introduzione
La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo (...) insieme agli animali (...) e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? MICHEL DE MONTAIGNE, Apologia di Raymond Sebond
La ricerca storica ha, in genere, rivolto la sua attenzione esclusivamente alle vicende umane, ignorando gli animali che, tutt’al più, compaiono sullo sfondo, come “strumenti” di cui l’uomo si serve. La storiografia ha sempre avuto un’ottica antropocentrica, considerando quello in cui viviamo come il mondo dell’uomo per eccellenza, nel quale egli è il padrone e le altre specie viventi gli ospiti, da soggiogare o da sterminare, a seconda delle sue necessità. La presente mostra vuole rappresentare un’inversione di tendenza e proporre testimonianze di vario genere (documenti, libri, monete, foto, disegni) riguardanti gli animali, che di certo non consentono di ricostruire una loro storia, bensì il posto che hanno avuto o, per meglio dire, che è stato loro assegnato dall’uomo nella sua storia. Si tratta, quindi, di testimonianze prodotte dalla specie dominante, l’uomo, per soddisfare propri bisogni, quali l’acquisto, l’allevamento e l’utilizzazione di animali o,
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
dal lato opposto, la loro distruzione, se ritenuti dannosi, da cui talora emergono anche informazioni sulle loro condizioni di vita. La mostra ha un titolo che, in qualche misura, vuole essere provocatorio, soprattutto per quell’aggettivo “altri”, che precede la parola “animali”, che, a primo acchito, può sembrare strano, ma che, in realtà, si propone di accorciare le distanze tra l’essere umano e le altre specie viventi e rappresenta un monito al rispetto nei loro confronti, oltre che un invito, rivolto all’uomo, a non ergersi a padrone dell’universo e di tutte le creature che in esso albergano. Il materiale esposto appartiene, oltre che all’Archivio di Stato di Salerno, all’Archivio Storico del Comune di Salerno, alla Biblioteca Comunale “Simone Augelluzzi” di Eboli, al Centro Studi “Simone Augelluzzi”, anch’esso di Eboli, all’Associazione Culturale “Persano nel cuore”, all’Azienda Agricola Sperimentale Regionale “Improsta”, all’Istituto Tecnico Agrario “G. Fortunato” di Eboli ed a privati, che hanno messo generosamente a disposizione la documentazione in loro possesso. Il percorso espositivo, che si articola in nove sezioni, tratta degli animali e del loro rapporto con l’uomo, così come emerge dalla documentazione archivistica, nonché del significato simbolico che essi assumono nelle monete, nelle marche tipografiche, nei disegni che compaiono sulle antiche carte e nella letteratura. Una sezione è dedicata alla medicina veterinaria ed alla sua evoluzione nel tempo. Largo spazio è riservato all’allevamento del bestiame – soprattutto di mucche, di bufale e di cavalli – molto diffuso nella Piana del Sele. Oltre a fornire latte, le bufale erano anche adibite allo spurgo delle acque dei fiumi. Nel Sarno la cosiddetta mena delle bufale si ripeteva ogni tre o quattro anni e consisteva nel far calpestare il letto del fiume da una quarantina di questi animali per più giorni consecutivi, in modo da consentire alle arene e alle pietre che lo ingombravano di defluire insieme alle acque 1. Nei Protocolli notarili si sono rinvenuti alcuni inventari di bufali, finanche con l’indicazione dei loro nomi 2, che era necessario conoscere, perché gli animali erano in grado di comprenderli e solo se chiamati, si avvicinavano 3. Niente di più lontano dagli attuali allevamenti intensivi, dove ciascun capo è contrassegnato da un numero, la mungitura è meccanizzata ed è cessato ogni rapporto con l’uomo. Ma negli allevamenti intensivi non esiste neppure il rapporto degli animali tra loro: il vitello è allontanato dalla madre pochi giorni – o addirittura poche ore – dopo la nascita e viene allatARCHIVIO DI STATO DI SALERNO (d’ora in poi AS SA), Intendenza, b, 1723, fasc. 4. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2637, a. 1701, notaio Rocco de Antola di Eboli, Inventario d’animali bufalini consegnati dall’Eccellentissimo Duca delle Serre alli Signori Dottori Domenico Antonio e Gioacchino de Galardo e Giovanni Battista de Cristofaro. 3 Ancora oggi, in alcune località dell’alto Cilento, si sentono i pastori che chiamano con nomi fantasiosi le capre, inerpicatesi su qualche erta scoscesa, per farle tornare al gregge. 1
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Eugenia Granito, Introduzione
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tato artificialmente con latte per uso zootecnico, perché quello materno deve essere completamente munto, mentre prima qualche mammella era esclusa dalla mungitura per consentire al piccolo di succhiare, come si vede in una foto dell’archivio fotografico Gallotta esposta in mostra, che offre un’immagine bucolica, ormai ricordo del passato. L’esistenza di questi animali, ridotti a «macchine che trasformano il mangime in carne» 4, si conclude al macello, dove da esseri viventi si trasformano in carne. Un documento della direzione del pubblico macello di Salerno del 1° marzo 1959 impartisce minute disposizioni su come sezionare i corpi di bufali e vitelli: «effettuato lo scuoiamento, si distaccano la testa dall’articolazione occipito-atloidea e gli arti, (…) si asportano le mammelle nelle femmine in lattazione (…) quindi si pratica la eviscerazione (…)» 5. In tal modo esseri che respiravano, si muovevano, muggivano, diventano pezzi di carne da esporre in macelleria. Ma questi animali non forniscono solo carne, latte e pelli all’uomo: in passato, prima che si diffondesse la meccanizzazione in agricoltura, gli prestavano anche un aiuto essenziale nel lavoro dei campi, come testimoniano alcune foto esposte nella mostra, che ritraggono buoi aggiogati all’aratro o a carri. Muli ed asini erano usati come mezzi di trasporto, che consentivano di portare le merci anche in zone impervie. Come ha scritto Silvana Castignone, «si riflette sempre troppo poco sull’enorme peso che gli animali hanno avuto nella nostra storia e nel nostro processo di civilizzazione: e quindi sul debito di riconoscenza che l’umanità ha verso di loro, in termini di sopravvivenza e a causa dell’immane carico di fatica di cui abbiamo sempre gravato le loro spalle, scaricandolo dalle nostre» 6. I Protocolli notarili forniscono altresì interessanti testimonianze sulle epidemie che periodicamente colpivano il bestiame. Particolarmente grave fu quella degli anni 1737-1738, dovuta al rigore dell’invernata, che imperversò in tutto il regno di Napoli e provocò, nella sola Piana di Eboli, la morte di centinaia di bufale, mucche, cavalli, asini e maiali 7. Talora la mortalità degli animali era dovuta all’eccesso di lavoro a cui erano sottoposti. Un atto notarile redatto ad Eboli nel febbraio del 1533 richiama l’attenzione sul malessere di un cavallo che «sta stiso in ditto loco et sta molto tristo (...) perché ipso [il padrone] lo ha fatigato et carriato sterpuni et postoli piso insopportabile, per quisto sì 4 Così PETER SINGER, Tutti gli animali sono uguali, trad. it. in S. CASTIGNONE (a cura di), I diritti degli animali, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 158. 5 ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI SALERNO, Anno 1964 – Mattatoio – Preparazione animali macellati – Cat. IV IV 26/3. 6 S. CASTIGNONE, Povere bestie. I diritti degli animali, Venezia, Marsilio, 1999, p. 17. 7 Cfr. le numerose testimonianze in proposito rinvenute in AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5296, a. 1738, notaio Diodato Mele di Salerno; b. 5305, a. 1738, notaio Carmine Sabatino di Salerno; b. 5317, a. 1740, notaio Simone Antonio de Fenza di Salerno.
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
lo ditto cavallo sta male» 8. Un successivo atto notarile, redatto anch’esso ad Eboli nel 1614, parla di «un cavallo stornello (...) molto maltrattato (...) tutto strangosciato» 9. E queste erano le condizioni di vita degli animali non solo in un passato remoto, ma anche nelle epoche più recenti. Basti leggere alcuni racconti del Verga, come L’asino di San Giuseppe, o qualche processo della Corte d’Assise, come quello a un carrettiere di Pellezzano, che nel dicembre del 1905 fu sorpreso a frustare violentemente tre bestie da tiro legate ad un carro carico di carbon fossile e fu arrestato non per aver maltrattato gli animali, ma perché aveva insultato le guardie municipali di Salerno, che lo avevano invitato a desistere 10. Al lavoro eccessivo si aggiungevano i ricoveri non idonei e l’alimentazione insufficiente. Una relazione del veterinario provinciale Domenico Pucciarelli del 1863 attribuisce la malattia che aveva colpito i cavalli della real razza Persano alla «mancanza di quelle cure che la igiene altamente proclama, non solo per il miglioramento delle razze equine, ma ancora per la conservazione della salute», al «nutrimento scarso e poco soddisfacente» e al «difetto di ricoveri», fattori che arrecavano danni soprattutto nella stagione fredda 11. E comunque, se arrivavano alla vecchiaia, per cui non erano più buoni né per il tiro né per la sella, il destino dei cavalli era il macello 12. Né migliore era la sorte del cane, il primo animale ad essere stato addomesticato, circa quindicimila anni or sono, considerato come l’amico dell’uomo per eccellenza. A causa della diffusione della rabbia i cani vaganti erano ritenuti un pericolo e venivano sterminati. Fino al 1885 l’unico rimedio preventivo contro lo sviluppo dell’idrofobia consisteva nella soppressione degli animali vettori del virus. Nel luglio del 1885 Pasteur mise a punto una cura preventiva antirabbica, testata prima sui cani e poi sull’uomo. Pochi mesi dopo la Giunta municipale di Torino deliberò di importare e sperimentare la scoperta di Pasteur e fu fondato l’Istituto antirabbico presso l’Ufficio d’igiene torinese, a cui fece seguito, nel 1886, l’istituzione di un analogo Istituto in Napoli e, negli anni successivi, di quelli di Palermo, Padova, Milano, Bologna e Roma 13. Il AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2515, a. 1533, notaio Giovanni Pietro de Forgione di Eboli. 9 AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1614, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli. 10 AS SA, Tribunale Civile e Correzionale di Salerno - sezione penale - e Corte d’Assise, b. 1857. 11 AS SA, Prefettura, I serie, b. 1077, fasc. 1. 12 Cfr. l’Avviso d’asta per la vendita di quadrupedi del 2 maggio 1953, conservato nell’Archivio privato Antonino Gallotta, con il quale furono posti in vendita diciassette cavalli ormai anziani, destinati ad essere macellati. 13 Cfr. in proposito A. CALABRESE, L’Istituto antirabbico di Napoli dalla fondazione (1886) ad oggi, Napoli, Tipografia napoletana F. Ricciardi, 1911. 8
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direttore dell’Istituto napoletano, Alfonso Calabrese, al fine di impedire la diffusione della rabbia, raccomandava «di usare misure severe contro i cani vaganti»: essendo essi i principali veicoli della malattia, a suo avviso «bisognerebbe distruggerli senza pietà» 14. A tale misura si sarebbe dovuta affiancare quella «dell’uso obbligatorio della museruola per i cani che hanno padrone, sui quali dovrebbesi far gravare una forte tassa» 15, disposizione, questa, che, quando fu applicata, indusse sovente all’abbandono degli animali e, quindi, all’aumento del randagismo 16. In molti casi lo zelo mostrato dalle autorità nel combattere l’idrofobia si convertì in una sorta di persecuzione nei confronti dei cani: se in un paese un solo animale dava un morso a qualcuno, questo era motivo sufficiente per sterminare tutti i cani presenti sul territorio comunale. In un documento della metà dell’Ottocento, in cui si lamenta la presenza di numerosissimi randagi a Salerno, la loro uccisione era affidata ai cosiddetti canettieri, fatti venire apposta da Napoli, che nel 1852 riuscirono ad ammazzare nell’arco di quarantotto ore ben centoquindici cani 17. Anche il sindaco di Pagani, come si legge in un altro documento del 1879, si serviva di ammazzacani, arrivati pur’essi da Napoli, per far uccidere, secondo un’antica consuetudine, notte tempo i randagi 18. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento si susseguirono le ordinanze dei sindaci dei vari comuni della provincia che vietavano il libero vagare dei cani per le strade cittadine e prescrivevano ai loro padroni l’uso di solide museruole e di lacci per condurli in giro. Per gli animali trovati liberi era previsto l’accalappiamento o, se ritenuti pericolosi, addirittura l’uccisione immediata, come si legge in una nota del sindaco di Vietri sul Mare del 1904 19. I cani catturati erano tenuti in custodia per due o tre giorni, trascorsi i quali, qualora nessuno li avesse reclamati, venivano uccisi. È da dire che era previsto, per il padrone che avesse voluto riscattare il suo cane, il pagamento di una contravvenzione, oltre al rimborso delle spese per la custodia e il mantenimento dell’animale, per cui era difficile che qualcuno andasse a farne richiesta. L’uccisione dei cani randagi accalappiati è durata fino alla legge del 14 agosto 1991, con la quale si è vietato anche che fossero destinati alla vivisezione. Ibid., p. 45. Ibidem. 16 Alcuni cittadini di Camerota, in un ricorso presentato nel marzo del 1926 contro l’aumento della tassa sui cani, protestando di non essere in grado di pagarla, affermano che «se di tale tassa fossero stati a conoscenza, non avrebbero continuato a tenere i loro cani» (AS SA, Prefettura, II serie, b. 258, fasc. 21). 17 AS SA, Intendenza, b. 1723, fasc. 4. 18 AS SA, Prefettura, I serie, b. 1077, fasc. 21. 19 AS SA, Prefettura, I serie, b. 1081, fasc. 3. 14 15
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
Vi erano poi gli animali selvatici che danneggiavano il raccolto, come i cinghiali, e quelli che ammazzavano il bestiame allevato, come i lupi. Per l’uccisione di questi ultimi erano previsti dei premi, più elevati per le femmine, soprattutto se gravide. Per ottenere la ricompensa si esibivano le orecchie dell’animale, che venivano allegate alla richiesta di premio. Ma la caccia, com’è noto, non aveva – e non ha – come bersaglio soltanto animali pericolosi, ma anche – e soprattutto – innocue bestiole, uccise o catturate vive per mero divertimento. In età feudale era riservata ai signori, che comminavano pene severe a chi osava uccidere la selvaggina nei loro feudi, senza ottenerne prima il permesso 20. Dopo l’abolizione della feudalità scomparvero le riserve di caccia e i terreni furono aperti a tutti. Furono sì varate delle leggi per limitare l’attività venatoria, onde evitare la distruzione della fauna 21, ma sovente venivano disattese. Da alcuni verbali di contravvenzione, rinvenuti negli incartamenti della Corte d’Assise, risalenti agli anni Venti del Novecento, si rileva come fosse diffusa la pratica dell’uccellagione, che si esercitava servendosi di reti fisse o vaganti e del richiamo di quaglie accecate, rinchiuse in gabbie 22, nonostante che la legge 24 giugno 1923, n. 1420, all’art. 22, lett. g, vietasse l’uso di uccelli accecati sia per la caccia che per l’uccellagione. Di certo non mancava una legislazione a tutela degli animali. Se il codice penale borbonico del 1819 non prevedeva alcuna sanzione per chi li maltrattava, quello sardo-italiano, vale a dire il codice penale del regno di Sardegna del 1859, esteso, dopo l’unità, al nuovo regno d’Italia, comminava una contravvenzione a «coloro che in luoghi pubblici incrudeliscono contro animali domestici» (art. 685, capo 7°). Il codice Zanardelli, entrato in vigore il 1° gennaio 1890, superando i limiti del precedente codice penale, all’art. 491, estendeva la tutela a tutti gli animali, non soltanto ai domestici, lasciando cadere anche il limite dei luoghi pubblici. Il ministro, nella sua relazione di accompagnamento al codice, scrive che «le crudeltà usate verso gli animali (...) devono essere conSi veda, ad esempio, il Banno e comandamento d’ordine del Sacro Regio Consiglio, datato Napoli, 9 dicembre 1730, emanato ad istanza di don Giancarlo Doria, principe d’Angri, duca di Eboli, conte di Capaccio e barone del feudo di Lagopiccolo, con il quale si vietava di andare a caccia nei territori dei feudi di Capaccio e di Eboli «senza licenza in scriptis di detto Illustrissimo signor Principe, e ciò sotto pena di docati mille contro ogni ciascun Controveniente» (il Banno è trascritto in un atto notarile, datato Eboli, 18 luglio 1785, cfr. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2342, a. 1785, notaio Pasquale La Francesca di Eboli). 21 La prima fu il regio decreto di Gioacchino Murat, datato Napoli, 14 marzo 1811, che vietava ogni tipo di caccia dal 1° aprile alla fine di giugno di ciascun anno. Dal divieto era esclusa la caccia agli animali nocivi, quali orsi, lupi e volpi. 22 AS SA, Tribunale Civile e Correzionale di Salerno - sezione penale - e Corte d’Assise, b. 2331. Da tutti e tre gli incartamenti processuali rinvenuti risulta che le quaglie accecate non sopravvissero se non per poco tempo ai maltrattamenti subiti. 20
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dannate e proibite, poiché il martoriare, con animo spietato, esseri sensibili, recando loro fieri tormenti, non cessa d’essere un male, perché quelli che ne soffrono sono privi dell’umana ragione. Queste crudeltà contrastano ad ogni senso di umanità, di compassione, di benevolenza, spengono nell’uomo avvezzo a infierire contro le creature animate che lo circondano ogni sentimento mite, pietoso e gentile, lo rendono insensibile alle altrui sofferenze, e così lo induriscono anche contro i suoi simili ...» 23. L’art. 491 prevedeva sanzioni non solo in caso di maltrattamenti, ma anche di «fatiche manifestamente eccessive» e di «esperimenti tali da destare ribrezzo», eseguiti fuori dei luoghi destinati all’insegnamento 24. La legge 12 giugno 1913, n. 611, specificava più analiticamente le varie forme di maltrattamento, punite a norma del citato articolo del codice Zanardelli: oltre agli atti di crudeltà, era proibito anche l’impiego di animali che, per vecchiaia, ferite o malattie, non fossero più in grado di lavorare. Erano altresì vietati i giochi che implicassero strazio di animali, le sevizie nel trasporto, l’accecamento degli uccelli e, in genere, ogni inutile tortura. L’art. 2 della citata legge concedeva la personalità giuridica alle società protettrici degli animali, le cui guardie “zoofile” dovevano essere riconosciute come agenti di pubblica sicurezza, purché in possesso dei requisiti previsti dalla legge. L’art. 8 stabiliva che la metà delle ammende a cui sarebbero stati condannati i contravventori delle disposizioni legislative avrebbe dovuto essere devoluta alle Società protettrici degli animali. Se le testimonianze sui maltrattamenti inflitti agli animali sono alquanto numerose, non si rinviene, invece, alcuna documentazione inerente alla loro tutela o all’esistenza, in provincia di Salerno, di associazioni protezioniste. Fa eccezione un articolo pubblicato nel 1875 su «Il Picentino», organo della Reale Società Economica e del Comizio Agrario di Salerno, intitolato Società protettrice degli animali, firmato da Agostino Magliani, che ne era presidente, e da V. Grazi, in qualità di segretario 25. La “Società protettrice degli animali contro i mali trattamenti che subiscono dai guardiani e dai conducenti” fu fondata nel 1871 a Torino per iniziativa di Garibaldi e del suo medico personale, Timoteo Riboli, su sollecitazione della gentildonna inglese Anna Winter, che ne divenne presidente onorario. Negli anni successivi ne sorsero molte altre, diffuse soprattutto nell’Ita23 Il codice penale per il Regno d’Italia, interpretato dall’avvocato Giulio Crivellari, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, vol. VIII, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1898, p. 618. 24 È da dire che la legislazione italiana dell’epoca era molto più mite nei confronti dei reati contro gli animali di quella degli altri paesi europei. Il citato art. 491 comminava esclusivamente pene pecuniarie, mentre la legge francese Grammont del 2 luglio 1850, il codice belga, quello dei Paesi Bassi e quello tedesco prevedevano addirittura l’arresto (cfr. il commento del giurista Giulio Crivellari a Il codice penale per il Regno d’Italia ..., vol. VIII, cit., pp. 623-624). 25 Cfr. «Il Picentino», giornale della Real Società Economica ed organo del Comizio Agrario di Salerno, anno XVIII, 1875, pp. 91-94.
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lia settentrionale. La “Società napoletana per la protezione degli animali” vide la luce nel 1891. Per quanto riguarda la difesa dei diritti degli animali l’Italia si trovava in ritardo rispetto ad altri paesi europei e soprattutto rispetto all’Inghilterra, dove fin dal 1824 era nata la “Society for the Prevention of Cruelty to Animals” 26. Le varie Società costituitesi in Italia, nel 1929, con r.d. del 28 gennaio, n. 55, diedero vita alla “Federazione nazionale fra le società zoofile e per la protezione degli animali”, che nel 1938 fu sostituita dall’”Ente nazionale fascista per la protezione degli animali”. All’indomani della caduta del fascismo scomparve l’aggettivo “fascista”, e la società prese il nome che tuttora conserva. L’ENPA divenne un ente pubblico e fu posto alle dipendenze del Ministero degli interni fino al 1979, quando venne privatizzato, perdendo la personalità di diritto pubblico, ma conservando la qualifica di ente morale, con un proprio corpo di Guardie zoofile. Nell’articolo pubblicato su «Il Picentino» Agostino Magliani, finora a noi noto solo come ministro delle Finanze prima nei governi Cairoli e poi in quelli Depretis, si presenta in veste di animalista e, in qualità di presidente della “Società protettrice degli animali”, spezza più di una lancia in difesa dei loro diritti. Gli stranieri che visitano l’Italia – è questa l’amara constatazione da cui prendono le mosse le riflessioni del Magliani e del Grazi – se, da una parte, sono colpiti dalle bellezze naturali ed artistiche della penisola, dall’altra non possono non biasimare le «abitudini d’insensata crudeltà» nei confronti degli animali. Abitudini diffuse soprattutto nelle campagne e di certo ben note al Magliani, che era originario di un piccolo paese della provincia di Salerno, Laurino. Per inculcare nella «gente campagnola» il rispetto degli animali, fa leva sul principio del tornaconto e cerca di convincerla che chi li maltratta «reca danno economico a se stesso, perché gli fa indocili e riottosi, ne scema la fecondità e li rende inetti a forti e lunghi lavori; se sapesse che distruggendo senza discernimento i volatili per lucro o pel diletto di un giorno va irreparabilmente incontro a gravi danni e a lunghi dolori: siffatta gente rinsavirebbe senza dubbio e terrebbe altra via». Magliani spera nel sostegno dei Comizi agrari, che «veggono meglio di noi i danni gravissimi che il maltrattamento come il non buon trattamento degli animali, l’abuso della caccia e della pesca e lo sperpero de’ nidi producono sulla pubblica economia». Auspica che nelle scuole si insegnino «i precetti cardinali intorno a’ doveri nostri verso gli animali irragionevoli» ed addita quale modello da seguire l’Inghilterra, «paese di floridissima agricoltura», ricca di società protezioniste, oltre che di associazioni di agricoltori, dove «lo studio delle cose rurali ha presso di loro tra i principali canoni il rispetto e la tutela degli animali». Sulla storia del movimento per i diritti degli animali cfr. S. TONUTTI, Diritti animali: storia e antropologia di un movimento, Udine, Forum Edizioni, 2007. 26
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Come il Magliani denuncia in questo suo scritto, gli stranieri – e gli inglesi in particolare – inorridivano di fronte ai maltrattamenti degli animali, purtroppo molto diffusi nel Belpaese. Un’anonima ragazza inglese, che trascorse dei periodi di villeggiatura estiva a Cava alla metà del XIX secolo, in un suo libro di memorie 27, stigmatizza l’abitudine dei cavesi (peraltro diffusa in tutto il Mezzogiorno) di accecare gli uccelli affinché cantassero meglio: «orrori ripugnanti – scrive – che fanno ribollire il sangue inglese di impotente indignazione dinanzi ad atrocità che gridano vendetta sull’uomo» 28. Oltre agli animali reali, su cui ci forniscono informazioni di svariata natura, nelle carte d’archivio se ne trovano altri, in disegni ed immagini di vario genere, come quelli raffigurati nella platea della chiesa di Santa Maria Maggiore di Atena Lucana 29, che portano nel becco delle frecce per indicare i punti cardinali. Si tratta, in parte, di uccelli del luogo, che l’ignoto artista avrà avuto di sicuro modo di osservare, in parte di creature fantastiche, frutto della sua immaginazione. Si potrebbe dire che alla logica dello sfruttamento, che ha in larga misura contrassegnato – e contrassegna ancora oggi – il rapporto uomo-animale, si affianchi l’ammirazione per queste splendide creature, di cui forse non abbiamo mai cercato di comprendere fino in fondo l’intima natura. EUGENIA GRANITO Archivio di Stato di Salerno
La Cava ovvero I miei ricordi dei Napoletani. memorie di un’anonima autrice inglese del XIX secolo. Il libro, rinvenuto presso la British Library di Londra, è stato tradotto da F. Guida, Cava 1998. 28 Debbo la citazione a G. FOSCARI, Cava nella seconda metà dell’Ottocento. Note sulle Memorie di un’anonima autrice inglese, in «Rassegna Storica Salernitana», nuova serie, XVI 1, giugno 1999, pp. 314-315. 29 AS SA, Corporazioni religiose, b. 4, vol. 1. 27
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Percorso espositivo
I Il tradizionale amico dell’uomo: il cane II Al pascolo e in transumanza. Gli allevamenti di mucche, bufale, pecore, capre e maiali III Il cavallo e i suoi fratelli poveri: il mulo e l’asino IV Al lupo! Al lupo! La lotta agli animali pericolosi per il gregge e per il raccolto V Uccidere per divertimento. La caccia VI Dal magister maniscalcus al veterinario. I medici degli animali VII Animali d’archivio. Marche tipografiche e alfabeti figurati dai libri antichi del Fondo Bilotti. I disegni di animali nella documentazione archivistica VIII Gli animali nella stampa e nella letteratura IX Animali su moneta contante. Dalla raccolta numismatica di Paolo Emilio Bilotti
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I
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Così dicean tra lor, quando Argo, il cane ch’ivi giacea, del paziente Ulisse, la testa ed ambo sollevò gli orecchi. (...) Negletto allor giacea nel molto fimo di muli e buoi sparso alle porte innanzi, finché, i poderi a fecondar d’Ulisse, nel togliessero i servi. Ivi il buon cane, di turpi zecche pien, corcato stava. Com’egli vide il suo signor più presso e, benché tra quei cenci, il riconobbe, squassò la coda festeggiando, ed ambe le orecchie, che drizzate avea da prima, cader lasciò: ma incontro al suo signore muover, siccome un dì, gli fu disdetto. Ulisse, riguardatolo, s’asterse con man furtiva dalla guancia il pianto (...) ed Argo, il fido can, poscia che visto ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse, gli occhi nel sonno della morte chiuse. Odissea, XVII, 350-397
Documenti Pagani, 17 maggio 1879 Il sindaco di Pagani informa il prefetto che in quel paese, per antica consuetudine, si facevano uccidere di notte i cani vaganti. Avendo ricevuto reclami da vari cittadini per
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la presenza di cani per le strade del paese, ha chiesto al questore di Napoli due «ammazzacani», che «hanno adempito al servizio» di sopprimere i randagi. AS SA, Prefettura, I serie, b. 1077, fasc. 21 Scafati, 25 maggio 1887 Avviso del sindaco di Scafati con cui vieta la circolazione dei cani sprovvisti di collare e di museruola, che saranno accalappiati e, se non reclamati dai proprietari entro quarantotto ore, uccisi. AS SA, Prefettura, I serie, b. 1077, fasc. 21 San Marzano sul Sarno, 6 settembre 1891 Regolamento per la tassa sui cani. AS SA, Prefettura, II serie, b. 1454, fasc. 30 La legge del 20 aprile 1871 stabiliva norme a cui i comuni dovevano attenersi nella formazione dei regolamenti, tra cui anche quello per l’imposizione della tassa annuale sui cani che gravava su tutti i cittadini possessori o custodi di un cane. Erano esenti dalla tassa i cani riconosciuti indispensabili alla custodia degli edifici rurali, i cani da latte fino a quattro mesi dalla nascita e quelli posseduti da forestieri che non dimoravano nel comune per più di un trimestre. Era previsto l’accalappiamento per i cani trovati a vagare per le pubbliche strade senza museruola e collare. Questi venivano condotti al deposito municipale, dove rimanevano per tre giorni, decorsi i quali, se nessuno li reclamava, venivano venduti o uccisi.
Salerno, 20 novembre 1896 Circolare del prefetto con la quale, a causa di vari casi di idrofobia verificatisi in diversi comuni della provincia, si ordina ai sindaci di vietare il libero vagare dei cani per le strade cittadine e di prescrivere ai loro padroni l’uso di solide museruole e di lacci con cui condurli in giro. I sindaci dovranno altresì ordinare l’immediata uccisione dei cani che abbiano dato segni di idrofobia e, qualora abbiano morsicato altri animali, questi dovranno essere tenuti segregati e sotto osservazione affinché, nel caso che manifestino i sintomi della rabbia, possano essere uccisi. AS SA, Prefettura, I serie, b. 1081, fasc. 3 Vietri sul Mare, 1° gennaio 1904 Il sindaco di Vietri sul Mare, constatato il notevole numero di cani presenti sul territorio comunale, ne vieta la libera circolazione e dispone che quelli vaganti trovati dalle guardie municipali siano accalappiati o uccisi, a seconda della loro pericolosità. I cani accalappiati verranno comunque ammazzati, qualora non riscattati dai loro padroni, che saranno assoggettati al pagamento della relativa contravvenzione, oltre che delle spese per la custodia ed il mantenimento dell’animale di loro proprietà. AS SA, Prefettura, I serie, b. 1081, fasc. 3
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Furore, 16 ottobre 1918 Delibera comunale sull’approvazione del regolamento per la tassa sui cani, per la loro detenzione e per la profilassi della rabbia canina. AS SA, Prefettura, II serie, b. 618, fasc. 23 La tassa, ai sensi del decreto luogotenenziale del 12 settembre 1918, era applicata a chiunque detenesse a qualsiasi titolo nel territorio comunale uno o più cani ed era variamente commisurata a seconda delle categorie dei cani, che erano così distinte: cani di lusso o di affezione, cani da caccia o da guardia, cani esclusivamente adibiti alla custodia degli edifici rurali e del gregge e cani tenuti a scopo di commercio. L’articolo 5 stabiliva le somme da pagare secondo l’appartenenza alle tre categorie, mentre l’articolo 6 elencava i cani esenti da tassa: quelli adibiti alla guida dei ciechi ed al trasporto dei mutilati poveri, quelli appartenenti a persone di passaggio nel comune, la cui permanenza non superasse i due mesi, e i cani lattanti per un periodo di almeno due mesi. Il titolo II dava disposizioni in merito alla detenzione dei cani ed alla profilassi della rabbia canina. Ogni cane doveva essere munito di collare e placchetta di metallo contenente il nome dell’animale e il numero di matricola e, nei luoghi pubblici e nelle strade, era obbligatoria la museruola, se l’animale non era tenuto al guinzaglio. Quando queste norme non venivano rispettate, i cani erano accalappiati o sequestrati e rimanevano di proprietà del comune fino a che non fossero reclamati dai legittimi proprietari. Per la profilassi della rabbia era necessaria la denunzia al sindaco o all’Ufficio sanitario di tutti i casi manifesti o sospetti, nonché di tutti gli episodi di morsicatura da cani. L’animale riconosciuto affetto da rabbia veniva immediatamente abbattuto, la carogna infossata e la località dove si trovava era disinfettata con acqua bollente e calce viva, le pareti venivano raschiate ed imbiancate, il canile bruciato ed infine la catena con cui il cane era stato legato veniva sterilizzata a fuoco. La testa e il collo dell’animale abbattuto o morto erano inviati in cassa metallica all’Istituto antirabbico.
Agropoli, 1 agosto 1919 Regolamento per l’applicazione della tassa sui cani, resa obbligatoria in seguito al decreto luogotenenziale del 12 settembre 1918. AS SA, Prefettura, II serie, b. 41, fasc. 19 Camerota, 10 marzo 1926 Ricorso di alcuni cittadini possessori di cani da caccia avverso il ruolo della tassa sui cani, a partire dal 1921. AS SA, Prefettura, II serie, b. 258, fasc. 21 In seguito all’aumento della tassa da 5 a 20 lire, i reclamanti affermano che «non sono allo stato di pagare l’annua tassa di lire 20 e, se di tale tassa fossero stati a conoscenza, non avrebbero continuato a tenere i loro cani». Agropoli, 3 gennaio 1931 Liquidazione di competenze all’accalappiatore di cani. AS SA, Prefettura, II serie, b.43, fasc. 27
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SALERNO: DAI “CANETTIERI” AL CANILE 1818-2005 Nel 1818 era proibito in città il passeggio di cani «non padronati» e nel 1862, per paura dell’idrofobia, con l’aiuto di tre «canettieri» chiamati appositamente da Napoli, furono uccisi 114 cani. Nel 1886 il problema del ricovero dei cani vaganti fino al momento dell’uccisone fu evidenziato, ma non risolto. In seguito il comune prese in fitto un locale. Nel 1910, per l’abbattimento dei cani vaganti, fu adottato il metodo dell’asfissia con gas illuminante da far fuoriuscire in apposite cassette accessoriate con chiusura ermetica e capaci di contenere più animali. A tale scopo fu utilizzato un casello di ferro, trasportabile e capace di contenere cinque cani, che fu depositato nei locali delle antiche Casermette al Macello pubblico (sul Corso Garibaldi, approssimativamente all’incrocio con via SS. Martiri Salernitani e il Lungomare): il luogo era anche deposito dei carribotte e di altri utensili per il pubblico innaffiamento. I suddetti locali, ai quali si accedeva da un ingresso separato, risultarono ben presto insufficienti e anche inagibili a causa dell’infiltrazione delle acque dalle mura e della mancanza del selciato. Nel 1923 fu adattato il locale in rovina esistente nell’ex Piazza d’Armi (a confine tra Torrione e Pastena, lato mare). Nel gennaio del 1929 il direttore dell’Ufficio d’igiene chiese con urgenza l’edificazione di nuovi locali e, pertanto, si valutò di costruirli in economia attigui al nuovo macello, che sarebbe sorto in via Gelsi Rossi (area dell’ex mercato, ora abbattuto). Il progetto divenne definito nel marzo del 1931 e prevedeva la costruzione dei locali a sud della stalla di sosta del reparto contumaciale. I lavori terminarono nel mese di maggio del 1932. L’accesso al canile avveniva mediante due porte. Il locale presentava un corridoio centrale ai lati del quale erano stati realizzati dieci comparti alti m. 2,20, chiusi da porticine di ferro, separati tra di loro da intelaiature in cemento armato. L’ambiente veniva areato ed illuminato da cinque finestrini muniti di cancellate in ferro. Il pavimento era stato coperto da battuto di calcestruzzo cementizio. Ai lati del pavimento vi erano due canaletti atti a ricevere le urine e le acque di lavaggio delle fontane: tutti i liquidi, tramite apposito tombino, venivano scaricati nell’Irno. Ognuno dei dieci comparti era dotato di una vaschetta di cemento per abbeverare i cani. Nel marzo del 1936 il canile presentava varie lesioni in diversi punti e la porta d’ingresso non poteva essere chiusa: i cani ivi custoditi correvano pericolo. Tutto ciò era stato causato da dissesti statici alle mura per il cedimento del piano di posa, a seguito dei lavori di ampliamento del ponte sull’Irno e per lo spostamento della ferrovia Salerno-Battipaglia. L’amministrazione comunale chiese alle Ferrovie di
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provvedere alle necessarie opere di consolidamento. Dopo vari solleciti, nel giugno del 1937 intervenne il comune. Nel 1953 il canile avrebbe dovuto essere impiantato in un’area di proprietà comunale confinante con la stalla di sosta del mercato ortofrutticolo, sempre in Via Gelsi Rossi. L’intervento, pur rivestendo carattere d’urgenza «per l’assetto dell’importantissimo servizio di polizia veterinaria», non partì a causa dei problemi di mano d’opera. Il 12 gennaio 1955 l’area destinata alla costruzione del canile municipale risultava erosa a seguito dell’alluvione dell’ottobre del 1954 e pertanto, dopo aver eseguito dei lavori di sostegno, la costruzione del canile si sarebbe dovuta realizzare sempre in via Gelsi Rossi, ma spostata a ridosso del muro di cinta del mercato ortofrutticolo. Il 24 luglio 1956 il veterinario comunale suggeriva di adattare in via provvisoria almeno due locali presso la rimessa della Nettezza urbana in costruzione in via Lauro Grotto, in località Calcedonia. Nell’estate del 1957 il canile non era ancora collocato in spazi idonei. All’epoca la soluzione del problema risultava più urgente, perché erano in corso i lavori per abbattere l’ex caserma Umberto I (su Corso Garibaldi, nell’area di fronte a Piazza Mazzini), nella quale era attrezzato anche il locale di fortuna adattato a tale scopo. Il comune decise di costruire il canile, ritenuto oramai un «importante pubblico servizio», in un luogo distante dal centro abitato, ma non eccessivamente: la zona ad oriente del cimitero, nei pressi dello stabilimento D’Agostino, «in adiacenza ai locali da realizzarsi per il servizio dei trasporti funebri (…) di proprietà della Ditta Gatti Francesco». Il nuovo canile, molto più ampio, prevedeva numerosi box «per cani comuni e cani di lusso e (...) per cani sospetti», oltre ai locali per la direzione, gli uffici, la visita medica e l’attesa, la camera a gas e il forno d’incenerimento, la cucina, il garage, l’alloggio per il custode, il giardino. Nell’agosto del 1957 fu approvata la realizzazione del Canile municipale «in località Brignano, in una zona ad oriente del Cimitero, lungo la strada di Brignano, in località, comunque, notevolmente lontana dal Pio luogo e dal centro abitato»: il Canile di via S. Alfonso Maria dei Liguori. Nel 1988 il canile venne ubicato in località Ostaglio (Fuorni) in un prefabbricato. La scelta del prefabbricato fu dettata dall’urgenza di ottenere un locale idoneo visto che, mancandone uno, l’U.S.L. aveva sospeso sul territorio comunale la cattura dei cani randagi. Nel 1991, con apposita convenzione, il canile municipale fu affidato in gestione all’Associazione zoofila salernitana. La suddetta struttura è ancora in uso e, secondo la normativa vigente, il comune di Salerno l’affida in gestione ad associazioni non lucrative di utilità sociale, di volontariato animalista e per la protezione degli animali, con sede nel territorio comunale, o comunque
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nell’ambito territoriale della provincia di Salerno. Con la medesima modalità di gestione, dal 2005, per rispondere a nuove e pressanti esigenze, è stato aperto nella proprietà comunale di Monte di Eboli un secondo rifugio per cani, affidato alla Lega nazionale per la difesa del cane. Maria Manzo
Documenti Salerno, 5 agosto 1852 Il commissario di Polizia di Salerno chiede all’intendente di far venire nella città i canettieri per far uccidere i cani «che in frotta girano per ogni strada e massime la notte, e sono da temersi non solo per la moltitudine di essi, ma anche per l’eccessivo caldo». AS SA, Intendenza, b. 1723, fasc. 4 In città vi erano numerosissimi cani, che vagavano per le strade specialmente di notte. Temendo che potessero costituire un pericolo, anche perché vi era il timore che fossero idrofobi, se ne dispose l’uccisione e, dal momento che in città non si trovavano persone capaci di provvedervi, si chiamarono dei canettieri da Napoli, che venivano pagati con il compenso di un carlino a cane. Nel mese di agosto furono ammazzati 88 cani. Da un altro documento dell’anno successivo, si rileva che nel 1852 i canettieri venuti da Napoli avevano «nello spazio di 48 ore consecutive, assistiti da’ bassi agenti di polizia, ucciso centoquindici cani».
Salerno, 30 dicembre 1910 Nel locale delle antiche Casermette al Macello pubblico viene depositato il casello di ferro da utilizzare per l’abbattimento dei cani vaganti con l’uso del gas illuminante. Tale metodo di soppressione era ritenuto dall’Ufficio d’Igiene più rispondente al «senso zoofilo» che aveva condotto l’amministrazione comunale a considerare necessario l’abbattimento dei cani. ASCS, Polizia urbana – Canile Municipale 1910, Urb. Storico 123 (coll. provv.) Il macello era ubicato su Corso Garibaldi, approssimativamente nell’area tra il Lungomare e Via SS. Martiri Salernitani. Il Casello, realizzato come struttura trasportabile ma non smontabile, dalle dimensioni esterne di metri 2.00x1.00x1.00, accessoriato con chiusura ermetica, poteva contenere cinque cani.
Salerno, 2 marzo 1931 Progetto per la costruzione del canile a sud della stalla di sosta del reparto contumaciale del nuovo macello alla via Gelsi Rossi, a ridosso del muro divisorio dell’area contumaciale da quella annessa ai padiglioni di mattazione. La costruzione del canile serviva anche ad ovviare a una grave deficienza del servizio di profilassi antirabbica.
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ASCS, Polizia urbana – Canile Municipale 1910, Urb. Storico 123 (coll. provv.) Il nuovo macello era ubicato nell’area dell’ex mercato di Via Gelsi Rossi ora abbattuto. La Ditta Aniello Durante il 18 luglio 1931 si aggiudicò i lavori, che terminò nel mese di maggio 1932.
Salerno, 17 ottobre 1935 Il direttore dell’Ufficio d’igiene segnala la situazione di particolare sovraffollamento del canile, causata dall’inagibilità di tre quarti della sede per i lavori di ampliamento della stazione ferroviaria. ASCS, Canile Municipale, Urb. Storico 123 (coll. provv.) In quel periodo il canile ospitava numerosi cani, in parte catturati, in parte consegnati dai proprietari per ordine dello stesso direttore, per un caso di rabbia manifestatosi ad Ogliara. Tra i cani ospitati nel canile ve ne erano molti di valore che non potevano essere né uccisi né rilasciati. Di conseguenza risultava necessario costruire un ricovero d’urgenza per i cani accalappiati.
s.d. [1950] Foto, realizzate a cura della Scuola italiana cani guida per i ciechi di Firenze, che ritraggono cani guida al lavoro. ASCS, Anno 1957 - Scuola nazionale cani guida per i ciechi – Contributo, Cat. II V 9/2
Firenze, s.d. [1954] Cartoncino dell’Ufficio targhe dell’Unione italiana ciechi, inviato ai comuni per l’ordinativo di medaglie distintivo della tassa sui cani, con la specificazione delle quattro diverse categorie in cui risultavano divisi i cani, in base alla loro destinazione.
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ASCS, Anno 1953 - Imposta sui cani - Fornitura di piastrine, Cat. V IV 19/1 In particolare, sul cartoncino risultano specificate le seguenti tipologie: cani di lusso o di affezione, cani da caccia e cani da guardia, cani tenuti a scopo di commercio, cani adibiti alla guida dei ciechi, al trasporto dei mutilati poveri, alle custodie degli edifici rurali e del gregge.
Salerno, 15 aprile 1955 L’ingegnere capo municipale relaziona sullo stato della sponda sinistra del fiume Irno, erosa in seguito all’alluvione del 25-26 ottobre 1954. I conseguenti e necessari interventi di sostegno e di protezione avrebbero rinviato la costruzione del nuovo canile, che era stata prevista sulla striscia di terreno compresa tra il fiume e il muro di cinta del mercato. ASCS, Canile – 1954/57, Urb. Deposito 485 (coll. provv.) Firenze, s.d. [gennaio 1956] Lettera con la quale l’Unione italiana ciechi chiede al comune di Salerno di conferirle l’ordine per il fabbisogno di piastrine contrassegno dell’imposta sui cani, da applicarsi al collare «a comprova della effettuata denunzia tanto per i cani soggetti al tributo, quanto per quelli esenti». ASCS, Anno 1953 - Imposta sui cani- Fornitura di piastrine, Cat. V IV 19/1 Erano esenti dalla tassa i cani adibiti alla guida dei ciechi, all’accompagnamento dei mutilati poveri, alle custodie degli edifici rurali e del gregge. Dalla lettera emerge che l’Unione italiana ciechi aveva l’esclusiva della fabbricazione e della vendita ai Comuni delle targhe per i cani.
Cava de’ Tirreni, 27 giugno 1965 Brochure del Gruppo cinofilo salernitano “Antonio Lupi”, relativa alla promozione della VI Esposizione nazionale canina, svoltasi nella Villa Rende di Cava de’ Tirreni. ASCS, Anno 1949 – Macello – Acquisto di pompa insufflatrice, Cat. IV IV 26/2 Nel documento vengono indicati la composizione della giuria, i premi di qualifica, i premi d’onore e quelli speciali, le tasse d’iscrizione per i soggetti da sottoporre al giudizio e per i soggetti fuori concorso, il corredo del cane. La brochure contiene un elenco delle dodici classi dell’esposizione: classe campioni, classe libera, classe riservata, classe di lavoro, classe giovani, classe privata, classe Salerno, classe cucciolini, classe di coppia, classe di gruppo, classe di muta, classe L.I.R. – suddivise per sesso, tranne le ultime quattro classi.
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Al pascolo e in transumanza. Gli allevamenti di mucche, bufale, pecore, capre e maiali
Spesso davanti ai templi maestosi degli dèi, vicino agli altari su cui brucia l’incenso, cade sgozzato un vitello, e dal petto gli sgorga un caldo fiotto di sangue. E la madre privata di lui si aggira per i verdi pascoli, e riconosce a terra le orme stampate del suo zoccolo bifido; e scrutando tutto attorno per vedere se può individuare da qualche parte il figlio perduto, si ferma e riempie di lamenti il bosco frondoso; e torna continuamente a controllare la stalla, trafitta dallo struggente rimpianto per il suo giovenco. Né i verdi salici, né l’erba ravvivata dalla rugiada, né i fiumi ben noti che scorrono entro le alte rive possono rallegrare il suo cuore, o allontanare da lei il dolore improvviso. E neanche la vista di altri vitelli sui pascoli rigogliosi può distrarla o alleviare il suo dolore: è il proprio, è il noto che cerca. LUCREZIO, De rerum natura, II 352-365
Documenti Eboli, 10 ottobre 1616 Daniele e Giovanni Ferraro vendono a Giacomo de Arminia la metà di una masseria composta di 1640 pecore ed alcuni cani, posta nel territorio di Eboli, per il prezzo di 1230 ducati 1. 1
Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta.
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AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1616, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli Eboli, 11 marzo 1617 Andrea Gibone di Eboli promette a Francesco Cheche di Pettorano, provincia dell’Aquila, di trasportare con quattro carri tirati da sedici buoi duecento canne di legno di ontano e frassino dal luogo detto Volta di Corrado fino alla marina di Campolongo, per caricarlo su delle barche 2. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1617, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli. Il taglio del legname nella piana del Sele, agli inizi del XVII secolo, era molto diffuso e per il suo trasporto venivano utilizzati carri tirati da buoi, che lo trasportavano a vari attracchi sul Sele o sul Tusciano, dove, per mezzo di chiatte, veniva portato fino alla marina di Campolongo e caricato su barche.
Eboli, 5 gennaio 1618 Paolo Breghino di Eboli vende al dottor Orazio Corcione un terzo di una mandria di 35 porci grandi e di 32 porci piccoli, mentre i restanti due terzi li vende a Bartolomeo Marra e a Francesco Sorice per il prezzo di 126 ducati, alla ragione di 5 ducati al paio per i porci grossi e 17 carlini per ogni maiale piccolo. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2592, a. 1618, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli Eboli, 18 febbraio 1701 Don Giacomo de Rossi, duca di Serre, consegna ai magnifici U.I.D (utriusque iuris doctores) Domenico Antonio e Gioacchino de Galardo e Giovanni Battista de Cristofaro di Eboli una masseria, posta nel luogo detto Persano, composta di 125 bufale figliate, 113 bufale sterpe (bufale che non avevano ancora avuto figli), 64 genche terzegne (bufale di tre anni), 103 annutoli mascoli e femine (vitellini fino a tre anni maschi e femmine) e 152 assiccaticci mascoli e femine (vitelli svezzati maschi e femmine), il tutto per un valore di 7692 ducati, 2 tarì e 10 grana 3. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2637, a. 1701, notaio Rocco de Antola di Eboli All’atto è allegato un “Inventario d’animali bufalini consegnati dall’Eccellentissimo Duca delle Serre alli Signori Dottori Domenico Antonio e Gioacchino de Galardo e Giovanni Battista de Cristofaro”, che riporta i nomi delle bufale. Il massaro aveva il compito di coordinare tutte le attività inerenti al buon funzionamento della 2
Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta. 3 Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta.
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masseria e, al momento della mungitura, che avveniva di solito alle prime luci dell’alba, con i suoi bufalari, chiamava le bufale con il nome che era stato loro assegnato. Ogni bufala chiamata si staccava dal branco e si faceva avanti per essere munta.
Salerno, 9 settembre 1738 Testimonianza sulla morte improvvisa, di cui non è specificata la causa, di molti animali presenti in una masseria sita nel territorio di Montecorvino. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5305, a. 1738, notaio Carmine Sabatino di Salerno Rosario Galdo, originario di Altavilla, testimonia di aver esercitato il mestiere di massaro dal mese di gennaio del 1737 nella masseria di Fortunato Viscatale, nello Stato di Montecorvino. Durante l’inverno molti animali (bufale, vitelli, cavalli) erano morti. Dopo questa «disgrazia» Rosario aveva preferito licenziarsi.
Salerno, 25 settembre 1738 Testimonianze sulla morte di alcuni animali in una masseria nel territorio di Eboli. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5305, a. 1738, notaio Carmine Sabatino di Salerno Diversi testimoni, che avevano in precedenza lavorato nella masseria di Fortunato Viscatale, attestano che, nella difesa, durante il passato inverno erano deceduti molti animali: «bufale matracine (che hanno avuto i figli), e di carro numero cinquanta cinque, uno Genco Trifegno (vitello di tre anni) e due Genche (vitelle), Annicchi (vitellini fino a tre anni) n° quarantotto, vitelli n° sessanta due, due Giumente ed un cavallo (…) per essere stata detta invernata giacciosa e freddi orridissimi».
Salerno, 2 ottobre 1738 Testimonianza relativa all’epidemia verificatasi nel 1738. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5296, a. 1738, notaio Diodato Mele di Salerno Due lavoratori testimoniano di aver portato ad Aversa due bufali da utilizzare per arare i terreni e per trainare i carri. I due animali valevano ben 100 ducati, perché in quel periodo vi era una grande «penuria di animali bufalini e vaccini» a causa di una devastante epidemia.
Salerno, 7 ottobre 1738 Testimonianze in merito alle motivazioni che avevano provocato la morte improvvisa di numerosi animali in una masseria di Montercovino ed anche in altre parti del Regno di Napoli. Le cause della mortalità erano state due: un inverno particolarmente freddo e l’epidemia che aveva imperversato nel Napoletano. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5305, a. 1738, notaio Carmine Sabatino di Salerno Diversi testimoni dichiarano che nell’inverno che era appena trascorso «morirono in tutte le difese della piana d’Eboli gran quantità di animali di ogni genere, cioè di bufale, bacche, giumente, cavalli, porci asini ed altri e
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specialmente nella masseria di bufale del Sig. D. Fortunato Viscatale che tiene nella Difesa nova del Stato di Monte Corvino, e questo è accaduto per l’orridezza della sodetta Invernata per essere stata giacciosa e per il male epidemico, che è corso, e corre per tutto il presente Regno».
Salerno, 9 aprile 1740 Testimonianza, resa in seguito alla richiesta di D. Matteo Genovese di aver bisogno di una «fede di verità», in cui si fa riferimento ad un’epidemia che aveva causato, tra il 1738 ed il 1739, la morte di molti animali. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5317, a. 1740, notaio Simone Antonio de Fenza di Salerno Diversi «massari» di bufale sostengono che nel 1738 e nel 1739 la Piana di Eboli e la Piana di Montecorvino erano state interessate da un «morbo epidemico negl’animali bufali, e vaccini», che aveva provocato la morte di molti capi. In particolar modo, nella masseria di Matteo Genovese, erano deceduti all’incirca settecentocinquanta bufali, sia di piccola che di grande taglia. A causa della morte di questo enorme numero di animali, a Genovese era rimasta inutilizzata tutta l’erba, né aveva potuto far pascolare altro bestiame, perché il Regio Uditore Carlo Antonio Pellegrino aveva espressamente proibito di far entrare nuovi bufali nella difesa per evitare la diffusione dell’epidemia.
Capezzano, 17 agosto 1753 Testimonianza sulla presenza di una malattia che aveva contagiato alcune capre. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5387 a. 1753, notaio Berardino Galdo di Salerno Due testimoni, Angelo Galdo e Donato Majorino, entrambi del casale di Capezzano, sostengono che due massari di capre, Nicola Pizza ed Amato Barbone di Montella, erano arrivati nel casale insieme con il loro gregge, per pascolare nei territori di Domenico Antonio Russo. Ma il Pizza, dopo un mese, aveva avuto il presentimento che le capre del Barbone «avessero la rugnia». Erano così insorte tra i due pastori alcune controversie, al cui termine il Barbone veniva costretto ad andar via, lasciando l’utilizzo dell’intero pascolo alle capre del Pizza.
Salerno, 1 novembre 1757 Contratto di società relativo all’apertura di un negozio di animali. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5321 a. 1757, notaio Simone Antonio de Fenza di Salerno La società, di durata annuale, intercorreva tra Costanza Mauro e Baldassarre Prota, quest’ultimo «espertissimo nel negozio di animali». Costanza fungeva da “imprenditrice”, investendo 300 ducati nella società, Baldassarre doveva usare il denaro per acquistare «animali neri, vaccini, ed altre specie», ed avrebbe anche lavorato all’interno del negozio. Ogni settimana, di martedì, i due soci dovevano valutare tutte le entrate e le spese del negozio, per evitare eventuali perdite. Sono specificate le clausole societarie.
Cava, 27 dicembre 1773 Testimonianza riguardante un furto di capre, che pascolavano nel territorio di Cava, da parte di alcuni malviventi di Nocera. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2263 a. 1773, notaio Placido Siani di Cava
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Si tratta della testimonianza resa da due abitanti di Cava, Fortunato Siano e Carlo Pisapia, entrambi mastri «mannesi». Essi dichiarano che il 21 dicembre, mentre stavano lavorando, avevano sentito Aniello Salzano, un pastore che pascolava le capre di Lorenzo Trombetta, gridare forte per chiamare in suo soccorso un altro «capraro» che, non udendo le grida del compagno, non aveva risposto al richiamo. Cinque o sei malviventi di Nocera avevano ferito Aniello ad un braccio ed erano riusciti a rubargli alcuni animali, lasciandogliene quattordici.
s.d. [1838] I proprietari del comune di Sarno chiedono all’intendente della provincia di Principato Citeriore di ripristinare la mena delle bufale nel letto del fiume Sarno. AS SA, Intendenza, b, 1723, fasc. 4 I proprietari espongono all’intendente che «da tempo immemorabile nel letto del fiume Sarno, che viene composto dalle acque sorgenti nel pubblico mercato, da quelle di S. Marina e dalle altre della Foce, è stato solito in ogni tre, quattro anni farsi la mena delle Bufale, onde depurarsi il letto del fiume suddetto dalle arene e pietre, che vengono tramandate in tempo di piogge da’ monti superiori». La mena delle bufale consisteva nel far calpestare il letto del fiume da quaranta bufale per quaranta giorni «in ragione di sei ore al giorno, affinché calpestando l’arena e le pietre, delle quali si trova interrato possono farle fluire colle acque e farlo ribassare». Alla mena delle bufale contribuivano anche i comuni vicini di San Valentino, San Marzano e Striano.
Campagna, 26 dicembre 1867 Decreto del sottoprefetto di Campagna con il quale si sospende la delibera comunale del 29 ottobre 1867, che concedeva una proroga, a tutto ottobre 1868, ai proprietari di animali caprini per «disfarsene intieramente». AS SA, Prefettura II Serie, b. 317, fasc. 3 Per ovviare ai danni che le capre arrecavano ai boschi, l’amministrazione comunale di Castelcivita aveva deliberato che tutti i proprietari di animali caprini dovessero provvedere alla loro vendita. Il sottoprefetto di Campagna aveva ritenuto illegale tale decisione, in quanto era in contrasto con le leggi vigenti sulla libertà delle industrie, che, per ovviare ai danni arrecati dalle capre ai boschi, prevedevano che fossero assegnati loro i luoghi dove pascolare e, se il numero di esse era esorbitante, il consiglio comunale poteva, con apposito regolamento, limitarlo.
Salerno, 1874 Foto di una mucca riproduttrice, esemplare della razza grande delle pianure della provincia di Salerno. AS SA, Prefettura, I serie, b. 666, fasc. 4
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Salerno, 1874 Foto di un bue riproduttore, esemplare della razza grande delle pianure della provincia di Salerno. AS SA, Prefettura, I serie, b. 666, fasc. 4 Nocera Superiore, 27 ottobre 1885 Tassa sul bestiame. AS SA, Prefettura, II serie, b. 1003 La giunta municipale propone di unificare le precedenti tasse sul bestiame e sulle bestie da tiro, da sella e da soma ed indica in una tabella l’importo da pagare per ogni singola specie di animale tra cui compaiono anche bufali, bufale e bufalotti.
Nocera Superiore, 7 marzo 1888 Ricorso di alcuni negozianti di animali bovini contro la decisione della giunta comunale del 23 febbraio 1888 circa la tassa sul bestiame. AS SA, Prefettura, II serie, b.1003 I ricorrenti affermano di non allevare bovini né di esercitare alcuna industria che richieda l’uso di questi animali, che vengono trattenuti solo il tempo necessario, che non oltrepassa gli otto giorni, per poterli spostare da un mercato all’altro.
Furore, 31 gennaio 1902 Regolamento per la tassa sul bestiame. AS SA, Prefettura, II serie, b. 615, fasc. 18 La tassa era regolata dalle norme previste dal regolamento provinciale, approvato con r.d. del 13 maggio 1880, e dall’articolo 67 del regolamento generale del 19 settembre 1899 per l’esecuzione della legge comunale e provinciale. Erano soggetti alla tassa i possessori e detentori di cavalli, muli, asini, buoi, tori, vacche, vitelli, capre, pecore e montoni.
Conca dei Marini, 4 maggio 1922 Processo verbale della giunta municipale di Conca dei Marini relativo all’aumento della tassa sul bestiame. AS SA, Prefettura, II serie, b. 513, fasc. 45 Dovendo provvedere al pareggio del bilancio comunale per l’anno 1922, la giunta aveva deliberato di aumentare la tassa sul bestiame, considerata un provento più sicuro rispetto ad altre tasse comunali.
Salerno, 7 agosto 1923 Comunicazione al prefetto del maggiore comandante la Divisione dei Carabinieri di Salerno sulla fiera del bestiame tenuta ad Acerno nei giorni 6, 7 e 8 agosto, in occasione dei festeggiamenti per il santo patrono, san Donato. AS SA, Prefettura, Gabinetto, b. 198, fasc. 3
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Poiché il prefetto, in una precedente lettera del 31 luglio indirizzata al Comando Divisione dei Carabinieri, chiedeva informazioni sul numero approssimativo degli animali posti in vendita durante la fiera, veniva comunicato che, oltre agli animali da trasporto, tra cui venticinque cavalli di razza Masucci di Montella, erano presenti soprattutto capre e pecore, buoi, mucche e vitelli.
Salerno, 20 gennaio 1932 Distinta degli utili ricavati dalla vendita di quattro vitelli bufalini, macellati e daziati, avvenuta in Salerno, nelle beccherie di Vito Stornello, in via Dogana Regia, e di Matteo Saracino, in via Macello. ASCS, Anno 1932 - Imposte di consumo – Animali bufalini -, Cat. V V 23 Nella distinta viene indicata la specificazione delle spese di acquisto e la tipologia della carne ricavata dalla macellazione dei vitelli.
L’ARCHIVIO FOTOGRAFICO GALLOTTA L’archivio fotografico Gallotta è conservato presso la Biblioteca Comunale “S. Augelluzzi” di Eboli, sezione mediateca, ed è formato quasi completamente dal fondo del fotografo Luigi Gallotta. Nato a Eboli nel 1898 e morto nel 1995, Gallotta aveva imparato a fotografare in giovanissima età con un piccolo apparecchio a cassetta Kodak e nella sua lunga vita ha ricevuto innumerevoli onorificenze, tra cui il premio internazionale di fotografia a Budapest nel 1927. Incaricato, tra l’altro, di documentare, negli anni Trenta, le attività del Centro Allevamento Quadrupedi di Persano, fu chiamato dalla Federazione dei Fasci di Salerno quale fotografo ufficiale di tutte le iniziative promosse dal regime in provincia. Le foto di Luigi Gallotta hanno fatto parte di pubblicazioni e cataloghi, tra cui la Storia del Mezzogiorno edita dalla casa editrice Editalia ed il volume Gli anni del regime 1925-1939 di E.P. Amendola e P. Iaccio, facente parte della collana Storia fotografica della Società italiana. È del 1983, presso il Centro culturale di S. Fedele di Milano, l’unica mostra fotografica nazionale a lui dedicata, intitolata Eboli. Cultura e immagini. L’archivio, acquistato dal comune di Eboli nel 1985, è formato da 45.000 negativi in lastre e pellicole di vario formato (principalmente 6x6 e 6x9), che documentano le trasformazioni urbane di Eboli e della Piana del Sele e, insieme a queste, le tracce di un mondo contadino e della sua evoluzione, gli avvenimenti pubblici, di carattere civile, militare o religioso della provincia di Salerno e del capoluogo, le antiche feste e tradizioni popolari, i ritratti di intere generazioni.
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Attualmente è in fase di realizzazione un ampio progetto di recupero, inventariazione, catalogazione informatizzata, acquisizione delle immagini e pubblicazione sul sito www.archiviofotograficoeboli.it. Ciò consentirà la fruizione, la diffusione e la valorizzazione dell’archivio che, quale album fotografico della storia del Novecento, rappresenta un patrimonio di inestimabile valore culturale, non solo per Eboli e per l’intera provincia di Salerno, ma per il Mezzogiorno d’Italia. Teresa Meola
Documenti Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Allevamenti di maiali nella Piana del Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Scrofa e maialini nella Piana del Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Allevamenti di buoi e di mucche nella Piana del Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
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Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Mucche e vitelli in una stalla nella Piana del Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Buoi che tirano l’aratro nella Piana del Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Allevamenti di bufale nella Piana del Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
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Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Bufali nel fiume Sele. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Marchiatura degli animali. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
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Persano, 1940 Toro da monta di razza podolica dell’allevamento Persano. APG Persano, 1948 Mucche di razza podolica dell’allevamento Persano. APG Campogalliano (Modena), 3 novembre 1956 Brochure illustrativa della ditta Crotti, relativa agli strumenti per la pesatura del bestiame. ASCS, Anno 1955 – Civico Mattatoio – Lavori di completamento, Cat. IV IV 26/2 Nel depliant sono presentati gli strumenti meccanici utili nelle fattorie, nei mercati e nelle aziende agricole.
Salerno, 1 marzo 1959 Manifesto della Direzione del Macello contenente prescrizioni sulle modalità di macellazione degli animali bovini e bufalini. ASCS, Anno 1964 – Mattatoio – Preparazione animali macellati - Cat. IV IV 26/3 Nel manifesto viene indicata quella che doveva essere – dopo lo scuoiamento dell’animale – la successione delle varie parti da asportare, a seconda che si trattasse di maschi o di femmine, con la relativa eviscerazione.
L’ISTITUTO TECNICO AGRARIO “GIUSTINO FORTUNATO” DI EBOLI L’Istituto tecnico agrario “Giustino Fortunato” di Eboli, unico nella provincia di Salerno, vanta radici storiche che risalgono al 1882. La favorevole posizione geo-climatica di Eboli, sul versante destro della bassa vallata del Sele, centro agricolo con fertile territorio coltivato a cereali, frutteti, vigneti, uliveti e con una fiorente industria zootecnica, aveva sollecitato l’iniziativa della borghesia agraria locale ad istituire la Scuola pratica di agricoltura per la formazione di abili agricoltori, fattori e castaldi. La scuola venne fondata con decreto del re Umberto I come scuola pratica, in seguito scuola consorziata, scuola tecnica ed infine Istituto tecnico agrario statale, quinquennale, con decorrenza dal 1° ottobre 1951. La specificità e il valore aggiunto dell’Istituto sono strettamente connessi con la storia di questa istituzione, con l’esperienza didattica acquisita, con la qualità e l’efficienza dei laboratori didattici, nonché con il radicamento in una realtà territoriale con tradizionale vocazione agricola, tanto da essere oggi punto di riferimento per tutta la Pro-
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vincia. Proprio perché radicato sul territorio, altre componenti esterne alla scuola – ma ad essa connesse nel processo di formazione – riconoscono all’Istituto tecnico agrario “Giustino Fortunato” un ruolo significativo per la comunità: l’Istituto è sede di congressi e convegni su tematiche di interesse agricolo, zootecnico, ambientale; gestisce corsi di specializzazione post-diploma, corsi di aggiornamento; attiva rapporti di scambio e collaborazione nel settore tecnico-professionale con enti e strutture territoriali, con l’obiettivo di realizzare una rete sul territorio per favorire l’avvicinamento e l’inserimento degli allievi nel mondo del lavoro; detiene infatti rapporti con l’Università di Napoli (Facoltà di Agraria di Portici) e di Potenza (Scienze Agrarie e Forestali), atenei verso cui convergono i diplomati dell’Istituto. Inoltre, in virtù della sua appartenenza ad “Europea”, associazione degli Istituti per l’agricoltura fra tutti i Paesi comunitari, partecipa due volte l’anno ai convegni generali che vengono svolti nelle nazioni che in quel semestre esprimono la presidenza della Comunità. Negli ultimi tempi, stante lo sviluppo dell’allevamento bufalino, che consente la produzione di un formaggio a pasta filata fresco di alta qualità, la mozzarella di bufala, l’Istituto ne segue con grande attenzione l’andamento. Raffaele Barone
Documenti Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Giovane bufalotto. ITAE Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Bufalo legato a un carro, adibito a lavori agricoli. ITAE
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Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Coppia di buoi legati a un carro. ITAE
Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Bufali al guado nel fiume Sele. ITAE
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Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Bufala da latte. ITAE Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Mungitura delle bufale. ITAE
Eboli, 1956 Verro Tigellino di anni quattro in dotazione all’Istituto Tecnico Agrario “G. Fortunato” di Eboli. ITAE
L’AZIENDA AGRICOLA SPERIMENTALE REGIONALE “IMPROSTA” Nel Seicento, da un documento del 1634, risulta che il territorio era denominato Lamprosta ed apparteneva ad Augustino Ferraro de Ebolo. Su di esso vi erano una torre, una fontana e una pagliara. Si ritiene che quella torre sia l’antica bufalara (o casone o casion-
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cello), attualmente presente in azienda ed allora ricovero dei gualani, vale a dire gli addetti al bestiame, alla stregua dei butteri. Successivamente la proprietà fu acquisita dalla famiglia Martucci o Martuccio, distinto e facoltoso casato presente ad Eboli fin dal secolo XVI. Sono degli inizi dell’Ottocento le prime cartografie in cui compare il territorio dell’Improsta, con denominazione Ambrosta, che ricorda un’espressione del dialetto ebolitano “rin’t a’ prost’”, che vuol dire “all’interno del bosco”; questa denominazione è la più attendibile, essendo allora l’area ricca di zone boschive. Dalle cartografie si rileva che sul territorio denominato Ambrosta era presente solo una casa rurale (bufalara), come si desume dai registri del Catasto Murattiano di Eboli. Nel 1841 la tenuta Improsta fu venduta alla famiglia Farina di Baronissi, che rappresenta una delle dinastie agrarie protagoniste dei processi di rammodernamento della Piana del Sele. Con la società anonima delle bonifiche fondata da Mattia Farina, deputato e presidente della deputazione provinciale del Regno, furono riprese, agli inizi ’900, le opere di trasformazione agraria nella Piana, tra cui una grande diga sul fiume Sele per alimentare i canali di irrigazione. In tal modo si recuperarono alla coltura vaste aree paludose e malariche. L’Azienda è dotata di antiche costruzioni, di notevole pregio storico ed architettonico, che costituiscono il nucleo originario del centro aziendale. Il fabbricato “Palazzo”, costruito nel 1843 per volontà del senatore Farina su progetto di scuola vanvitelliana, fu una delle dimore della famiglia Farina, in quei tempi proprietaria di circa 8.000 ettari di terreno nella piana del Sele. Le Bufalare (originariamente chiamate Casoni) erano costruzioni di solito a pianta circolare che servivano da ricovero ai braccianti impiegati in lavori stagionali ed ai gualani. Al centro di queste tipiche costruzioni si trovava situato un camino munito di una grande cappa, il cosiddetto focone, che era utilizzato di giorno per la lavorazione del latte, dal quale si ricavavano caciocavalli, burro, ricotta e soprattutto provole, che venivano poi sottoposte al procedimento di affumicatura; di sera serviva per cucinare, riscaldarsi e come punto di ritrovo dei lavoratori con le loro famiglie. La tipica forma circolare consentiva una funzionale divisione in settori adibiti a dormitorio per chi vi pernottava ed una migliore difesa dal brigantaggio. Nel solaio situato subito sotto la copertura dormivano invece i più giovani e vi si accatastavano le provviste alimentari. La costruzione della bufalara dell’Improsta si fa risalire alla metà del ’600 ed ha avuto diverse destinazioni d’uso nel corso dei secoli: da quello tipico di ricovero della manodopera a dormitorio per i monaci, a scuderia per i cavalli e deposito degli attrezzi di lavoro. Sin dall’inizio risulta presente sui terreni dell’Improsta la bufala, allevata allo stato brado e munta a mano, tutt’al più alloggiata in ricoveri di fortuna durante la notte. Maggiori dettagli si hanno sull’allevamento del cavallo di razza “Persano”, di cui diversi soggetti furono acquistati dai Farina ed altri allevatori della zona allorquando, nel 1874, il decreto del ministro della guerra Cesare Ricotti sancì la fine (per fortuna non defini-
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tiva) di tale razza. L’allevamento del cavallo in azienda ebbe quindi un notevole impulso con strutture appositamente realizzate, come il fabbricato Gualaneria, e recinti di doma e sgambata situati nei parchi denominati tuttora “Delle Cavalle” e “Gruppo”. Tale attività fu portata avanti con profitto fino agli anni ’30-’40. Nel 1931 i terreni della tenuta Improsta passarono nelle mani degli Amendola di Avellino, altra importante famiglia di agrari. L’opera di bonifica divenne punto centrale per il nuovo ciclo produttivo che investì la Piana del Sele. Per i terreni dell’Improsta la bonifica integrale, che si concluse negli anni Cinquanta, comportò il risanamento di tutta l’area paludosa e quindi la messa a coltura di altri ettari. Le capacità imprenditoriali e agricole degli Amendola fecero in modo che la loro nuova proprietà rientrasse nel ciclo virtuoso che vide protagonista la Piana negli anni Trenta e, successivamente, nel progetto di ricostruzione del secondo dopoguerra, ma soprattutto nel nuovo piano di trasformazione fondiaria del Consorzio di Bonifica del 1949. Nel 1956 l’Improsta fu rilevata dall’Ente nazionale per la cellulosa e la carta, che ne fece una delle aziende leader per il Meridione nella ricerca e produzione di materiale vivaistico per il rimboschimento, nell’ottica istituzionale della riduzione del deficit che l’Italia aveva nei confronti dell’import di materia prima per la cellulosa. Allora furono rilevati dall’Ente, con il patrimonio, alcuni cavalli trottatori e le bufale, allevate allo stato brado di giorno e, di notte, tenute alla greppia nei ricoveri del vecchio stallone. La gestione fu affidata alla Società agricola e forestale, una S.p.A. appositamente creata per avere una più efficiente operatività nella conduzione delle aziende sparse su tutto il territorio nazionale. Fu quello il momento in cui per l’allevamento bufalino si segnò una svolta innovativa, passando alla stabulazione libera in ampi recinti e alla mungitura meccanica in moderne strutture di stalla. Da ricordare il contributo dato dall’azienda, insieme ai maggiori allevatori della zona, alla costituzione dell’Associazione provinciale allevatori di Salerno (1963), che ebbe un ruolo rilevante nella selezione della riconosciuta razza della “Bufala mediterranea”. Nel 1994 l’ENCC è stato posto in liquidazione e, per un periodo di quasi dieci anni, la gestione ha mirato soprattutto al mantenimento del patrimonio e dell’allevamento, finché nel 2003 il complesso di beni patrimoniali denominato “Improsta” è stato devoluto a titolo gratuito alla Regione Campania. La Regione ha visto nell’acquisizione di tale bene la possibilità di realizzare un centro regionale di ricerca applicata nel settore agro-alimentare, di servizi avanzati e un’azienda pilota per i principali comparti produttivi. L’“Improsta” si presta altresì ad essere sito multifunzionale presso il quale ospitare iniziative convegnistiche, seminariali, divulgative, didattico-formative e di servizio. La gestione dell’azienda è affidata al Consorzio per la ricerca applicata in agricoltura (C.R.A.A.), un’associazione senza fini di lucro che annovera tra i suoi soci, oltre alla
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Regione Campania, l’Università degli studi “Federico II” di Napoli, l’Università degli studi del Sannio, l’Università degli studi di Salerno e la Eureco Spa. Luciano Tonetti
Documenti Eboli, 1956-1957 Registro del bestiame con l’indicazione dei nomi delle bufale e della loro età. AASRIE Eboli, s.d. [anni ’60 del XX secolo] Bufale lattifere nella Gualaneria. AASRIE
Eboli, s.d. [anni ’60 del XX secolo] Bufale lattifere al rientro dal pascolo. AASRIE
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Il cavallo e i suoi fratelli poveri: il mulo e l’asino
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Il cavallo e i suoi fratelli poveri: il mulo e l’asino
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. (...) Adesso non soffre più. L’asino grigio se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegare un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. – Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: – Non più! non più! – Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio». GIOVANNI VERGA, Rosso Malpelo
Documenti Eboli, 19 febbraio 1533 Il nobile Cicco de Forgione di Eboli protesta contro Jesomundo de Stefanino, doganiere della terra di Eboli, per il maltrattamento di un cavallo 1. 1
Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta.
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2515, a. 1533, notaio Giovanni Pietro de Forgione di Eboli Eboli, 22 novembre 1618 Francesco de Nella di Eboli protesta contro il capitano Annibale de la Calce per aver provocato, nel luogo detto Scorziello di Eboli, la caduta di un suo cavallo nel fango, per liberarlo dal quale fu necessario farlo tirare dai buoi. Il cavallo, tuttavia, «per lo travaglio che hebbe et freddo che pigliò per detta acqua, et fangho dove era impollato, per revenirlo per stare per morto li facestino fare fuoco et tutto se scaldò alla schena et avendolo reportato al mastro per farlo governare da dì in dì va peggiorando et dubito che non se mora per la causa predetta» 2. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2605, a. 1618, notaio Francesco Ritio di Eboli Salerno 21 maggio 1753 Testimonianza sulla morte per soffocamento di un somaro. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5313 a. 1753, notaio Nicola de Berardinelli di Salerno. Pietro Penna, Giuseppe Mensa, Giovanni Rè, Francesco Russo e Giuseppe Troiano della Terra di San Gregorio, di mestiere «vettorino, o siasi viaticale in trasportar grano» nella Dogana di Salerno sostengono che, in un viaggio a Salerno, avevano alloggiato insieme ad un loro paesano, Antonio Urso, i propri somari nella stalla di mastro Aniello Borriello. Quest’ultimo aveva fatto sistemare all’interno della stalla molti muli, ma anche altre specie di animali. A causa del sovraffollamento il somaro di Antonio era morto soffocato, «oppresso e calpestato» dagli altri muli.
Salerno, 27 novembre 1755 Testimonianza sulla morte di una mula. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5309 a. 1755, notaio Carmine Sabatino di Salerno Il 4 novembre 1755 erano giunti a Salerno nell’«alloggiamento» dei coniugi Gerardo Campagnia e Rosa Petito quattro persone di Cedogna con tre mule ed una giumenta. Uno di loro, che possedeva una mula di «pelo castagnaccio», si era preoccupato di trovare all’interno della stalla una sistemazione idonea per l’animale. Dopo tre giorni passati a Salerno, Domenico, a mezzanotte del terzo giorno, si era recato nella stalla per dare da bere alla mula, ma essa aveva preso poca acqua, pur mangiando come al solito. Alle quattro era ritornato di nuovo nella stalla insieme al proprietario ed entrambi avevano visto che nella mangiatoia era rimasta poca paglia, segno che l’animale aveva mangiato. La mattina successiva, però, avevano trovato la mula morta. I due coniugi sostennero che non vi era stata alcuna negligenza da parte loro. In seguito, «nel scorticarla trovarono la mula morta di morbo repentino». 2
Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta.
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Eboli, 30 maggio 1770 Morte di Antonio Vecchione, calpestato da un cavallo, da lui selvaggiamente picchiato. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2691 a. 1770, notaio Biagio Elefante di Eboli. Il Vecchione, che doveva condurre un cavallo a Moliterno, arrivato a Zuppino, siccome l’animale non voleva guadare un corso d’acqua, «con un buon legno nelle mani tirò molte bastonate al detto cavallo», che «capricciandosi passò l’acqua medesima». In seguito, «impavoritosi il detto cavallo per causa di dette bastonate», urtò il Vecchione, che cadde a terra, e lo calpestò ferendolo gravemente, per cui qualche ora dopo morì. I presenti testimoniano che l’incidente fu dovuto ai maltrattamenti che avevano terrorizzato l’animale «senza che il cavallo suddetto ve li avesse avuta causa alcuna».
Sarno, 1 maggio 1809 “Mappa” dei cavalli del comune di Sarno. AS SA, Intendenza, b. 2840, fasc. 7 Con r.d. del 1° marzo 1809 si impartirono disposizioni in merito alla requisizione di 600 cavalli, a cui erano chiamate a partecipare tutte le province del regno. Ai privati, possessori di animali adatti ai servizi della cavalleria, veniva corrisposta una somma che variava dai 70 ai 90 ducati. I cavalli scelti dovevano avere delle caratteristiche ben precise: età di cinque anni, taglia di almeno quattro piedi e quattro pollici e tutte le qualità necessarie per servire la cavalleria. Il 3 marzo dello stesso anno, in esecuzione del citato regio decreto, furono emanate Istruzioni per permettere agli amministratori comunali la predisposizione delle mappe dei cavalli posseduti dai privati. Esse dovevano contenere il nome e la professione dei proprietari, il numero, l’età e l’impiego dei cavalli requisiti. Tra i capi presentati dal comune di Sarno ne furono scelti due per uso di sella, di razza baio, di età tra i sei e i sette anni.
Salerno, 15 giugno 1862 Quadro della monta dell’anno 1862 dello stallone inglese Londrich, «puro sangue di manto bajo». AS SA, Intendenza, b.1725, fasc. 5 Il documento riporta i nomi delle giumente che si sono accoppiate con lo stallone, i loro connotati e i nomi dei proprietari, tra cui il principe d’Angri, Mattia Farina e il marchese Adinolfi. Per il periodo della monta era previsto il pagamento di ducati 6 e carlini 6 al palafreniere. Per ogni giumenta viene indicato l’inizio della monta e la data in cui ha rifiutato lo stallone, che in genere coincide con il momento in cui la cavalla è rimasta incinta. Purtroppo il quadro non è stato completato con i dati relativi alla nascita e ai connotati dei cavalli.
Salerno, s.d. [1863] Relazione del veterinario provinciale Domenico Pucciarelli sulla malattia sviluppatasi tra i cavalli della real razza di Persano. AS SA, Prefettura, I serie, b. 1077, fasc. 1 Il veterinario ritiene che la causa principale della malattia sia «la mancanza di quelle cure che la igiene altamente proclama, non solo per il miglioramento delle razze equine, ma ancora per la conservazione della salute». A ciò
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bisogna aggiungere «la mal regolata alimentazione» e «il difetto di ricoveri», che provocano danni soprattutto nella stagione fredda. I cavalli, «che si trovavano in non troppo lodevoli condizioni a causa di un nutrimento scarso e poco soddisfacente» venivano colti più facilmente dalla broncopolmonite.
Salerno, s.d. [luglio 1864] Relazione del veterinario provinciale Domenico Pucciarelli sulle razze equine della provincia e sul modo di migliorarle. AS SA, Prefettura, I serie, b. 665, fasc. 1 Tra le varie razze equine della provincia – scrive il veterinario - la più pregiata è quella di Persano, che trae origine dall’accoppiamento di cavalle italiane con stalloni arabi, persiani e spagnoli. I cavalli appartenenti a questa razza «hanno una cedevolezza al lavoro indicibile, da non commettere la minima disobbedienza, sono rimarchevoli per protratta vigoria di salute, in guisa che a 15 anni sono laboriosi al travaglio. I prodotti di questa razza hanno una aggiustatezza di proporzioni con quel nesso e garbo, tanto necessario per rimarcarsi cavalli ben fatti (…) Sono buoni per uso di sella, ottimi per la carrozza».
Santa Maria Capua Vetere, 9 marzo 1872 Elenco delle stazioni di monta dipendenti dal Deposito cavalli stalloni di Santa Maria Capua Vetere, con l’indicazione del numero dei cavalli, dei loro nomi e della razza. Tra le stazioni di monta vi sono quelle di Castelnuovo Cilento, Eboli (tenuta Improsta) e Persano. AS SA, Prefettura, I serie, b. 665, fasc. 6 San Cipriano, 18 maggio 1880 Delibera sull’imposizione della tassa sulle bestie da tiro, da sella e da soma. AS SA, Prefettura, II serie, b. 1421, fasc. 10 Spesso le amministrazioni comunali, per sopperire alla mancanza di cespiti, deliberavano l’imposizione di una tassa sugli animali definiti da fatica, come gli asini, i muli, i buoi, nonché i cavalli tenuti sia per il lavoro che per lusso, secondo una tariffa stabilita dalla Deputazione provinciale.
Salerno, 1° dicembre 1905 Verbale di arresto di un cocchiere di Pellezzano, che aveva bastonato ripetutamente con il manico della frusta tre animali da lui guidati, legati ad un carro carico di carbon fossile. AS SA, Tribunale Civile e Correzionale di Salerno - Sezione penale - e Corte d’Assise, b. 1857 Il cocchiere fu arrestato non tanto per il reato di maltrattamento di animali, previsto dall’art. 491 del codice penale Zanardelli, quanto per oltraggio con minacce e resistenza ad agenti della forza pubblica, per gli insulti rivolti alle guardie municipali di Salerno, che lo avevano invitato a non percuotere più gli animali.
Scafati, 28 dicembre 1925 Delibera sull’imposizione del dazio sui foraggi ed approvazione del relativo regolamento.
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AS SA, Prefettura, II serie, b. 1654 Per far fronte al crescente sviluppo dei servizi sempre più ampi e completi che il comune offriva ai cittadini, l’Amministrazione deliberò l’imposizione di una tassa annua fissa sul consumo di foraggio per ogni animale equino. Si prevedeva che il gettito della nuova tassa avrebbe agevolato di molto le finanze comunali, in base ai risultati del censimento di tutti gli equini esistenti nel comune, distinti in cavali di lusso, se posseduti per esclusivo uso di diporto, cavalli ordinari, cavalli ad uso dell’esercito, con esclusione di quelli da sella per gli ufficiali, cavalli da lavoro, da trasporto o addetti all’industria vetturiera ed i muli.
Eboli, s.d. [anni Trenta-Quaranta del XX secolo] Muli che trasportano dei carichi per un sentiero di montagna. BCE, sez. Mediateca, Archivio fotografico Gallotta
IL CAVALLO PERSANO. LA SUA STORIA E IL SUO AMBIENTE Nel 1758 il feudo di Persano entrò a pieno titolo fra i beni personali dei Borbone. Carlo III intraprese immediatamente la ricostruzione della casina di caccia, secondo pianta e relazione dell’ingegnere militare Juan Domingo Pianz. Contemporaneamente il sovrano diede inizio alle opere di disboscamento, alla costruzione di strade e del villaggio per il personale, avente come obiettivo principale l’allevamento del cavallo. I Borbone allevavano giumente anche a Carditello, in provincia di Caserta, e a Ficuzza, in Sicilia. Nel 1741, in seguito alla firma di un trattato di pace e di commercio tra il Regno di Napoli e l’Impero Ottomano, l’ambasciatore turco Efendi, in missione a Napoli, portò al re, come dono del Sultano, quattro stalloni di bellezza esotica, in seguito a Persano razzatori per lungo tempo. I Borbone fecero venire dalla Spagna riproduttori spagnoli che apportarono alla mandria regalità e andatura di classe. La regia razza assurse a grande rinomanza. Le
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caratteristiche del cavallo tipo erano così descritte: testa altera e quadrata, carica di ganasce, taglia non molto elevata, arti robusti, andatura rilevata. Nel 1860, all’indomani dell’Unità, la gestione dei cavalli di Persano passò al ministero della guerra, con l’intento di far riprodurre soggetti per rifornire i reggimenti di cavalleria. Ma nel 1874 il ministro Cesare Ricotti sancì la soppressione della real razza. I migliori capi furono acquistati dagli allevatori più accorti. Persano diventò così un Centro deposito cavalli. È col decreto n. 211 del 14 novembre del 1900 che il governo dell’epoca «ricostruisce la razza, con l’obbiettivo di riaffermare un ben determinato tipo di cavallo da sella per la truppa e di diffonderlo nelle razze private, offrendo agli allevatori a buone condizioni sia stalloni che fattrici con i prodotti che si otterranno». Le figlie delle cavalle di razza Persano, disperse nel 1874, furono ritrovate, soprattutto con i dati segnaletici dei certificati di origine, presso le caserme di cavalleria, presso gli allevamenti dei dintorni, in Sardegna, in Sicilia e presso l’allevamento di S. Rossore. Si ripartì con questo nucleo di fattrici: n. 61 indigene, n. 3 puro sangue arabo, n. 8 provenienti da S. Rossore (ex razza Persano), n. 10 irlandesi, n. 3 ungheresi, n. 15 meticce anglo-orientali. Il riproduttore era orientale, ma incominciava a farsi strada prepotentemente il puro sangue inglese. Si affacciarono nel panorama ippico della piana di Salerno i puro-sangue inglese My First, Baccelliere, Baby Lon. Persano preferì la tecnica del meticciamento, pur mantenendo un limitato numero di fattrici a disposizione del puro sangue inglese. Le prove funzionali che si tenevano tutti gli anni a Persano, generalmente nei mesi di maggio e ottobre, presso l’ippodromo Principe di Piemonte, servivano a verificare sul campo, attraverso un iter complesso e completo, la bontà delle scelte allevatoriali. Queste gare vennero espletate dal 1929 al 1952. Diventò essenziale il riproduttore da utilizzare. Lo stallone orientale proveniva da zone a vasta cultura equina, come l’Arabia, la Siria, l’Egitto, la Persia. Questi soggetti non avevano padri e madri contaminati da sangue inglese. Il puro sangue inglese, invece, deve le sue fortune ad un certo Mr. Weatherby che, intorno alla metà del Settecento, scrisse il suo famoso libro sulla genealogia, andando indietro nel tempo sino alle fattrici del marchese di Mantova e della duchessa di Torino. Nella breve disamina della nascita del puro sangue inglese non si può ignorare la funzione del napoletano Prospero D’Osma, a cui fu affidato l’allevamento della regina Elisabetta, che versava in condizioni pietose. L’allevamento è ancora operativo ad Hampton Court, dopo 500 anni dall’intervento del Prospero D’Osma. Anche se l’allevamento del cavallo catalizzava le migliori energie, non si può ignorare la presenza della mucca podolica, animale poderoso destinato ai lavori dei campi ed alla fornitura di latte e derivati. Viveva e prosperava in simbiosi con il cavallo, connotandosi nella realtà sociale come fattore importante nella creazione di posti di lavoro.
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Generazioni di uomini calavano dai paesi circostanti, Altavilla Silentina, Serre, Albanella, Capaccio, Paestum, i cosiddetti gualani, che avevano in custodia questo animale. Ancora oggi sono visibili, dopo 50 anni dalla chiusura delle attività, nel complesso allora chiamato vaccheria, i due silos, il capannone capace di contenere centinaia di animali e la pila dell’acqua, profonda e lunga, per abbeverarli, quasi intatti, a testimoniare una stagione della vita lunga e laboriosa che consentì il recupero della razza, che è in via di estinzione. L’allevamento del cavallo a Sud di Salerno cresceva e prosperava. Le migliori linee femminili, confortate anche dai risultati delle prove funzionali, venivano accostate ai purosangue inglesi erariali. Da qui Veronica, Dalila, Zagora, madri dei superlativi Merano, Posillipo, Pagoro, saltatori internazionali, vincitori di Olimpiadi e Coppe del mondo. Merano e Posillipo nacquero dal purosangue inglese Ugolino da Siena, sui terreni di Pontecagnano, in provincia di Salerno, di proprietà dei nobili Morese. Pagoro era figlio del purosangue inglese Grazzano. Entrambi i purosangue inglesi appartenevano alla famiglia del grande Teddy, uno dei maggiori razzatori di inizio secolo. Il ridimensionamento dell’apparato allevatoriale avvenne negli anni ’50, con l’emanazione della legge di riforma agraria, che portò come conseguenza la soppressione di alcuni centri e la nascita di Istituti di incremento ippico, al posto dei depositi stalloni. Persano diventò una sezione di raccolta quadrupedi, conservando un nucleo di fattrici selezionate fondamentalmente provenienti dall’antica razza Persano, con quattro stalloni. La fattrice Persano ha nel suo patrimonio genetico la predisposizione all’esaltazione di qualità fenotipiche quali una solida struttura scheletrica, un’indole molto docile, groppa larga, torace profondo e partecipazione attiva a prove funzionali e attitudinali. Gli stalloni, invece, mostrano ampia cavalcabilità, treni anteriori e posteriori poderosi, vivacità, tendini distaccati e resistenti, linea atletica. Quando si ventilò l’ipotesi, da parte della dirigenza militare, di trasferire la real razza presso il Centro Quadrupedi di Grosseto, la risposta da parte del personale dipendente fu un no netto e preciso, motivandolo con una ragione che, nel corso degli anni, si è rivelata esatta: nel giro di poco tempo la razza sarebbe sparita, poiché non adatta a sopportare il clima avverso di quella parte della Maremma Toscana. In seguito il provvedimento del ministro della difesa Tanassi, che trasferiva tutta la forza a Grosseto, si concretizzò il 30 settembre 1972, data in cui l’ultimo convoglio lasciò i cancelli della tenuta, senza più farvi ritorno. Al primo impatto ambientale alcune fattrici morirono, altre si ammalarono, altre ancora non riuscirono più a produrre nel loro normale standard, con i puledri che presentavano difetti e tare irreversibili. L’obiettivo più forte, più impegnativo, che le migliori energie del Salernitano si sono date, riguarda il ritorno della mandria nei luoghi di origine, con lo scopo di favorire anche occasioni di riscatto sociale per le popolazioni del posto.
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Le foto conservate nell’archivio privato di Antonino Gallotta sono opera di vari fotografi: Luigi Gallotta, Vivoli di Agropoli, Cimmino di Eboli, Messina di Battipaglia, Apicella di Salerno. Antonino Gallotta
Documenti Eboli, anni Venti Allevamento di cavalli di proprietà Jemma in località Cioffi. APG
Persano, 1928 Tancredi, stallone di punta. APG Persano, anni Trenta Fattrici e puledri sulle strade della transumanza. APG Persano, 1932 Puledri che riposano all’ombra di una quercia. APG
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Persano, 1934 Giovani fascisti fanno esercizi ginnici a cavallo. APG
Persano, 1935 Giovani fascisti al campo di equitazione di Persano APG Persano, 1936 Gara presso l’ippodromo di Persano APG Persano, 1940 Fattrici e puledri della razza Persano al pascolo. APG
Persano, 1948 Cavalli che si abbeverano nel fiume Calore. APG Persano, 1953 La cavalla Vempia, derivata inglese, figlia di Lautarus e di Empia. APG
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Persano, 1953 Un maggiore veterinario esegue l’intervento di castrazione di un cavallo. APG La castrazione era fatta a crudo, senza anestesia. Il cavallo non era addormentato, ma soltanto legato.
Persano, 2 maggio 1953 Avviso d’asta per la vendita di diciassette cavalli dell’allevamento di Persano, riformati all’età di 18 anni. APG
Al lupo! Al lupo! La lotta agli animali pericolosi per il gregge e per il raccolto
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IV
Al lupo! Al lupo! La lotta agli animali pericolosi per il gregge e per il raccolto
Il lupo è sempre stato considerato dall’uomo un animale selvaggio, difficile da controllare e da addomesticare, ma, nel contempo, ammirato ed apprezzato per il suo coraggio. Già presso i popoli antichi aveva una sua valenza positiva. Per gli Egizi era la divinità con la testa di lupo che traghettava le anime buone; nell’antichità classica era temuto perché pericoloso per il bestiame, ma non per l’uomo che, anzi, amava possedere amuleti fatti con occhio o denti di lupo e credeva nelle proprietà terapeutiche del suo fegato e della sua carne; presso i Romani era la belva che aggrediva le greggi, ma anche l’animale benevolo che allattò Romolo e Remo. I cambiamenti economici, sociali ed ambientali che si ebbero dal medioevo all’età moderna determinarono uno stato di conflittualità tra l’uomo, che aveva sempre più bisogno di spazio per produrre le proprie risorse alimentari, e il lupo, che invadeva questi spazi per garantire la sua sopravvivenza. Bestia immonda ed incarnazione del diavolo per il mondo cristiano, il lupo era oggetto di vere e proprie battute di caccia, poi regolate da leggi e provvedimenti che giungeranno fino ai giorni nostri, con la dichiarazione di animale appartenente a specie protetta. Interessante, in quanto resterà valida anche dopo l’Unità d’Italia, è la legge sull’amministrazione delle acque e foreste e del pubblico demanio del 18 ottobre 1819 che, al titolo XI, tratta della caccia e, all’articolo 180, permette ai cittadini, muniti di licenza, la caccia agli orsi, ai lupi, ed alle volpi anche nei mesi in cui era sospesa l’arte venatoria. Per gli uccisori di lupi era previsto un premio in danaro, che variava secondo il sesso e l’età dell’animale. Per un lupo il premio era di ducati cinque; per una lupa di ducati sei, che salivano ad otto se gravida; per un lupicino di ducati tre e per un lupatello catturato nella tana di ducati uno. Questi premi erano pagati dal cassiere del comune dove era avvenuta l’uccisione, su ordinanza dell’intendente. Il sindaco, certificata l’uccisione del lupo, faceva mozzare in sua presenza le orecchie dell’animale.
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
Tra le carte dell’Archivio di Stato di Caserta, nei fondi Intendenza e Prefettura, sono conservate ancora le piccole orecchie di un luparello e quelle più grosse di un lupo, a testimonianza della loro uccisione avvenuta nei boschi circostanti. Anche la provincia di Salerno, per la morfologia del suo territorio ricco di montagne e quindi di zone boscose, ha costituito un habitat naturale per il lupo, per cui, nella serie Boschi del fondo Intendenza, non mancano incartamenti relativi alla presenza e all’uccisione di lupi. Caterina Aliberti
Documenti Eboli, 11 maggio 1773 1
Sulla presenza di numerosi daini nella Real Tenuta di Persano . AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2337, a. 1773, notaio Pasquale La Francesca di Eboli Alcuni maestri maniscalchi ed allievi maniscalchi, dei “chiuditori di siepi” ed un proprietario di buoi dichiarano che, essendo cresciuto a dismisura il numero degli animali selvaggi e, in particolare, dei daini nella Regal Caccia di Persano, si introducono nelle difese vicine e divorano l’erba e le ghiande, per cui viene a mancare il foraggio agli animali da allevamento, che nel passato rigido inverno maggiormente hanno sofferto la fame. I padroni, pertanto, per non farli perire, sono stati costretti ad acquistare paglia e fieno con somma spesa, ma, ciò nonostante, è morta una grande quantità di bufali, mucche e giumenti.
Caserta, 19 dicembre 1815 Regio decreto di Ferdinando IV che autorizza l’uso delle tagliole per la distruzione degli animali nocivi. AS SA, Collezione leggi e decreti L’art. 10 del regio decreto del 31 ottobre 1815 sulla caccia proibiva l’uso delle tagliole, che, invece, con questo decreto, viene autorizzato per «la distruzione degli animali di rapina riconosciuti generalmente come devastatori de’ campi e del bestiame».
Napoli, 18 ottobre 1819 Legge sull’amministrazione delle acque e foreste e del pubblico demanio. 1
Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta.
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AS SA, Collezione leggi e decreti La legge, al titolo XI, tratta della caccia e, all’articolo 180, stabilisce che sia consentita ai cittadini muniti di licenza la caccia agli orsi, ai lupi e alle volpi. Il successivo articolo accorda premi in danaro agli uccisori di lupi, che variano a seconda del sesso e dell’età dell’animale.
San Gregorio (Caserta), 26 giugno 1826 Processo verbale sul premio concesso a due bracciali del comune di Castello per l’uccisione di un luparello nel Matese, in località Bosco di Selva Maturi, tenimento di Piedimonte. AS CE, Intendenza di Terra di Lavoro, Affari comunali, Piedimonte d’Alife, b. 2729 I due uomini hanno ritrovato nel bosco, sul monte Matese, un piccolo lupo, che è morto dopo alcuni giorni, nonostante essi lo abbiano nutrito con latte. In base all’articolo 183 della legge 18 ottobre 1819 era previsto il pagamento di un premio a chi uccideva un lupo, pertanto, per ricevere il compenso dovuto, i due uomini hanno reciso le punte delle orecchie al lupicello e le hanno presentate al sindaco.
Bellosguardo, 29 gennaio 1846 Verbale redatto dal primo eletto, Giuseppe Palamone, assistito dal cancelliere Nicola Morrone, circa il compenso dovuto al capo di sezione Mariano Marmo per l’uccisione di una lupa con un colpo sulla testa. AS SA, Intendenza, b. 1498, fasc. 26 Sala, 15 maggio 1846 Comunicazione del sottintendente del distretto di Sala all’intendente sulla cattura, da parte di Domenico Matteo e Vito Abenante, entrambi di Casalnuovo, di sette lupicini direttamente dal covile. AS SA, Intendenza, b. 1506, fasc. 8 Bellosguardo, 28 dicembre 1849 Delibera decurionale sull’uccisione, a colpi di schioppo a palle, da parte della guardia urbana Vincenzo De Vita, di una lupa di circa due anni. AS SA, Intendenza, b. 1498, fasc. 26 Roccapiemonte, 2 gennaio 1851 Uccisione di una lupa nel luogo detto Gallo, da parte del massaro di pecore Raffaele Ciancio. AS SA, Intendenza, b. 1555, fasc. 1 Sala, 23 marzo 1852 Sull’uccisione di un lupo in località Vallecuzza.
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AS SA, Intendenza, b. 1506, fasc. 8 Il giorno 10 marzo il contadino Giuseppe Croccia di Casalnuovo era intento a lavorare la terra con i suoi buoi in località Vallecuzza, quando fu attirato dalle intense grida dei pastori a causa della presenza di un lupo «di smisurata grandezza». Il Croccia si pose davanti ai suoi animali per proteggerli ma, sventuratamente, fu assalito dalla belva e, in seguito a colluttazione, anche se riuscì a soffocare con le mani il lupo, fu da quest’ultimo ferito nel braccio sinistro. Temendo che l’animale fosse affetto da rabbia, il contadino fu prontamente medicato ed affidato alle cure del medico condotto. Ma il 26 aprile il Croccia si ammalò di rabbia e morì il 29 dello stesso mese.
Vallo, 16 aprile 1861 Delibera decurionale circa il premio di ducati cinque da accordarsi a Carmine Laurito, guardia nazionale di Cannalonga, per l’uccisione di un lupo di circa otto anni nel fondo denominato Buonoriparo. AS SA, Intendenza, b. 1588, fasc. 18 Piedimonte, 9 febbraio 1869 Verbale dell’uccisione di un lupo, redatto per ottenere il relativo compenso. AS CE, Prefettura, 5° inventario, b.172, fasc. 6723 Due contadini, entrambi del comune di Gallo, presentano al sindaco il corpo di un lupo e dichiarano che, essendosi recati in un bosco per legnare, tutto a un tratto si videro circondati da tre lupi che li volevano aggredire. Per difendersi incominciarono a scagliar pietre contro di essi e ne ferirono alla testa uno, che si accasciò. Lo uccisero quindi a colpi di scure, mentre gli altri due si dispersero nel bosco. I contadini fanno quindi richiesta del premio previsto e, per ottenerlo, viene tagliata l’estremità delle orecchie dell’animale per inviarle al sottoprefetto del Circondario.
Uccidere per divertimento. La caccia
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Uccidere per divertimento. La caccia
Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini ella aveva nel becco un insetto: la cena de’ suoi rondinini. Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano. GIOVANNI PASCOLI, X agosto
Documenti Eboli, 18 luglio 1785 Alla presenza di don Marco Ferrari, agente generale del principe Doria D’Angri, viene trascritto l’Epitaffio esistente presso il ponte sul fiume Battipaglia o Tusciano 1. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2342, a. 1785, notaio Pasquale La Francesca di Eboli. L’Epitaffio riproduceva un «Banno e comandamento d’ordine del Sacro Regio Consiglio», datato Napoli, 9 dicembre 1730, emanato ad istanza di don Giancarlo Doria, principe d’Angri, duca di Eboli, conte di Capaccio e barone del feudo di Lagopiccolo, con il quale si vietava di andare a caccia nei territori dei feudi di Capaccio e di Eboli «senza licenza in scriptis di detto Illustrissimo signor Principe, e ciò sotto pena di docati mille contro ogni ciascun Controveniente». 1
Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta.
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Uccidere per divertimento. La caccia
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Napoli, 14 marzo 1811 Regio decreto di Gioacchino Murat che vieta ogni tipo di caccia dal 1° aprile alla fine di giugno di ciascun anno. AS SA, Collezione leggi e decreti Dal divieto era esclusa la caccia agli animali nocivi, quali orsi, lupi e volpi.
Napoli, 14 gennaio 1826 Lettera con cui l’amministratore del Real Sito di Persano chiede all’intendente della provincia di Salerno di dare disposizioni affinché la mattina di venerdì 20 gennaio si radunino in Eboli tutti i cani necessari alla battuta di caccia che il re intende fare la domenica successiva. AS SA, Intendenza, b. 2446, fasc. 5 V. GRAZI, A. MAGLIANI, Società protettrice degli animali, in «Il Picentino», giornale della Real Società Economica ed organo del Comizio Agrario di Salerno, anno XVIII, 1875. AS SA, Periodici I due autori dell’articolo sono, rispettivamente, il segretario ed il presidente della Società protettrice degli animali, fondata nel 1871 a Torino per iniziativa di Garibaldi, del suo medico personale Timoteo Riboli e della gentildonna inglese Anna Winter. A quattro anni di distanza dalla fondazione della Società, Agostino Magliani, che intanto ne era diventato presidente, scrive insieme al Grazi questo lungo articolo in cui condanna i maltrattamenti inflitti agli animali e soprattutto prende posizione contro la caccia. In primavera «ferve l’allegro lavorio della nidificazione», ma gli uccelli «per mala sorte loro e nostra son pure adocchiati e spiati dalla turba de’ ragazzi di campagna cupidi di rubarne le uova e i piccioni», che fanno a gara a distruggere i nidi. Sennonché tale «mania di distruzione che in ogni primavera imperversa nella ragazzaglia campestre è scontata dal paese con danni perenni, e costerà assai più col tempo». Il Magliani e il Grazi, pertanto, esortano i Comizi agrari a spingere i sindaci e i prefetti, con i quali sono in contatto, ad emanare disposizioni a tutela degli animali ed a sensibilizzare essi stessi i contadini al rispetto nei loro confronti.
Roma, 11 febbraio 1882 Circolare del ministro di Agricoltura, industria e commercio sulla caccia abusiva in tempo di divieto. AS SA, Prefettura, I serie, b. 681, fasc. 2 Il ministro invita i prefetti ad effettuare controlli non solo per impedire la caccia abusiva in tempo di divieto, ma anche per proibire nelle città il mercato della cacciagione in questo periodo.
Salerno, 20 aprile 1887 Prospetto statistico della selvaggina e degli uccelli minuti introdotti nei comuni di Campagna e di Vallo della Lucania negli anni 1884-1886. AS SA, Prefettura, I serie, b. 681, fasc. 3
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Salerno, 1° agosto 1906 Regolamento della caccia per la provincia di Salerno. AS SA, Prefettura, I serie, b. 681, fasc. 2 Dal 1° aprile al 15 agosto era vietata ogni forma di caccia con qualunque mezzo. La caccia alle quaglie e agli altri uccelli immigrati era permessa fino al 30 maggio lungo le spiagge marine e nei terreni incolti. La caccia alle quaglie con mezzi diversi dal fucile era consentita solo dal 1° ottobre.
Roma, 1911 Periodi di tempo stabiliti dai Consigli provinciali per l’esercizio della caccia nell’anno 1911-1912, estratto dal Bollettino del Ministero di agricoltura, industria e commercio, anno X, vol. II, serie B, fascicolo 5 del 1 settembre 1911. AS SA, Prefettura, I serie, b. 681, fasc. 4 Castel San Giorgio, 10 settembre 1925 Verbale di contravvenzione a carico di Nobile Caiazza di Siano, sorpreso mentre esercitava l’uccellagione servendosi di una rete vagante e del richiamo di quarantanove quaglie accecate, rinchiuse in dodici gabbie. AS SA, Tribunale Civile e Correzionale di Salerno - Sezione penale - e Corte d’Assise, b. 2331 La contravvenzione fu fatta in base alla legge 24 giugno 1923, n. 1420, che, all’art. 22, lett. g, vietava, sia per la caccia che per l’uccellagione, l’uso di uccelli da richiamo accecati, nonché in base all’art. 491 del codice penale Zanardelli concernente il maltrattamento degli animali.
Castel San Giorgio, 10 settembre 1925 Verbale di contravvenzione a carico di Enrico Caiazza di Siano, sorpreso mentre esercitava l’uccellagione senza licenza, servendosi di una rete vagante e del richiamo di ventisette quaglie accecate, rinchiuse in tre gabbie. AS SA, Tribunale Civile e Correzionale di Salerno - Sezione penale - e Corte d’Assise, b. 2331 Castel San Giorgio, 19 settembre 1925 Verbale di contravvenzione a carico di Domenico Caiazza di Siano, sorpreso mentre esercitava l’uccellagione senza licenza, servendosi di una rete fissa e del richiamo di diciassette quaglie accecate, rinchiuse in sei gabbie. AS SA, Tribunale Civile e Correzionale di Salerno - Sezione penale - e Corte d’Assise, b. 2331
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L’assistenza sanitaria degli animali, fino al secolo XVIII, era affidata unicamente ai maniscalchi, che, oltre a provvedere al benessere e alla salute dei cavalli, si prendevano cura anche di tutti gli altri animali domestici. Essi si occupavano del pareggio e della ferratura degli zoccoli degli equini ed esercitavano anche funzioni di medici veterinari, visitando gli animali, verificandone lo stato di salute, diagnosticandone le malattie e decidendo le cure da somministrare. Nella seconda metà del Settecento numerosi sono i documenti che testimoniano tali funzioni. Già in un atto rogato dal notaio Giuseppe Vassallo di Eboli nel 1614 si ha testimonianza dell’attività di medico veterinario svolta dal maestro maniscalco Giovanni Giacomo de Lustria, il quale dichiarava di aver visitato un cavallo che presentava tracce di maltrattamenti e raccomandava, per evitare la morte dell’animale, di curarlo per molti giorni con i medicamenti necessari e riposo assoluto 1. Da questa testimonianza si evince chiaramente come il magister maniscalcus non fosse solo un semplice artigiano, ma esercitasse una vera e propria attività medica, che si può senz’altro individuare come l’antesignana dell’arte veterinaria. I proprietari ricorrevano a maniscalchi di fiducia in caso di epidemie e malattie e spesso ne richiedevano l’intervento dopo l’acquisto di animali, per avere garanzie sul loro stato di salute ed in alcuni casi anche a seguito della morte di un animale per chiarirne le cause. Un atto notarile del notaio Biagio Elefante di Eboli del 18 gennaio 1771 ci testimonia di un vero e proprio consulto per la morte di una mucca di proprietà del principe d’Angri, eseguito dai maniscalchi Nicola Elefante e Salvatore Bernardo e da un altro esperto. Essi effettuarono l’autopsia sul corpo dell’animale, procedendo ad aprirCfr. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a.1614, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli. 1
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lo, a sezionarlo e ad esaminare gli organi interni «a’ fine di riconoscere il male per cui sia morta» 2. I maniscalchi di solito apprendevano l’arte della medicina veterinaria praticando le botteghe di altri artigiani e generalmente non avevano titoli di studio, né seguivano corsi specifici, in quanto non esistevano scuole adibite a tali insegnamenti. La grande mortalità, causata dalle epidemie che si diffusero in vari paesi europei dal secolo XV al secolo XVII, fu senz’altro una delle principali motivazioni che determinarono un maggiore interesse verso il mondo animale. Inizialmente non si può parlare di una vera e propria sensibilità nei confronti degli animali e del loro benessere, ma sicuramente alla base dell’attenzione verso la loro salute vi era la preoccupazione che alcune malattie che li colpivano, specie la peste bovina, potessero essere contagiose anche per l’uomo. Già a partire dal secolo XV in diversi paesi europei erano stati creati degli uffici o magistrature di sanità con il compito di far fronte alla diffusione delle epidemie contagiose tra gli animali e di fornire ai maniscalchi, che operavano sul territorio, indicazioni sulle misure terapeutiche e sulle profilassi da seguire. Nel secolo XVIII il forte incremento della popolazione e la relativa maggiore domanda di generi alimentari stimolarono la crescita della produzione agro-zootecnica e si venne diffondendo il concetto che, alla base del miglioramento dell’economia di un paese, ci fosse anche la salvaguardia del patrimonio zootecnico, che iniziò ad essere considerato per la prima volta un bene di sviluppo. È in questo clima che si iniziò ad avvertire la necessità di elevare a vera e propria scienza medica la veterinaria, che fino ad allora era stata un’arte empirica, esercitata da persone che non seguivano veri e propri studi, ma che, in genere, imparavano a curare gli animali con la pratica 3. In questo periodo, per la prima volta, comparvero ufficialmente scuole di medicina veterinaria: la prima in Italia fu istituita a Torino nel 1769, successivamente ne sorsero anche in altre città. A Napoli nacque nel 1795 e inizialmente l’accesso fu limitato ai militari di carriera e solo nel 1802 fu ampliato a tutti. La scuola di veterinaria di Napoli subì varie vicissitudini prima di diventare definitiva, infatti fu chiusa una prima volta nel 1799 e successivamente nel 1806, con l’arrivo dei francesi. Però durante il regno di Gioacchino Murat furono prese varie iniziative per il ripristino della scuola e del corpo insegnante e nel marzo del 1815 furono assegnati al Ministero dell’interno i locali del Cfr. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2691, a. 1771, notaio Biagio Elefante di Eboli. 3 Cfr. E. CABASSI, G. LIUZZO, La nascita delle scuole di veterinaria, in Centocinquanta anni dalla riattivazione dell’insegnamento medico veterinario a Parma, Università degli Studi di Parma, 1995. 2
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monastero di Santa Maria degli Angeli alle Croci, affinché venissero destinati come sede della Scuola di Veterinaria e dell’Orto botanico. Solo con il ritorno dei Borboni si riuscì a portare a termine il programma avviato dal Murat: con il regio decreto emanato dal re Ferdinando IV l’11 ottobre 1815 si dispose l’istituzione di una scuola per l’istruzione teorica e pratica di veterinaria e si scelse come sede il «locale dell’abolito convento di S. Maria degli Angioli alle Croci». In base a tale decreto era previsto l’insegnamento di sei materie e la presenza presso la scuola di un convitto per gli allievi, un orto per le piante necessarie alla veterinaria, una prateria ed un ospedale per la cura degli animali. L’organizzazione della Scuola di veterinaria fu regolamentata successivamente col decreto del 23 settembre 1823, con cui furono date disposizioni molto dettagliate sul metodo e sulle materie di insegnamento, nonché sull’intera organizzazione della scuola e del convitto. Si dispose che la Regia Scuola di Veterinaria fosse affidata alla responsabilità di un rettore, nominato dal re, che aveva il compito di curare il regolare andamento della scuola e di vigilare sulla disciplina e sulla morale tenuta dagli allievi. Il rettore era affiancato da un direttore, anch’egli di nomina regia, a cui erano affidati gli aspetti più propriamente tecnici, legati alle varie materie di insegnamento teorico e pratico, e la cura dell’orto, della prateria, della farmacia e dell’ospedale per gli animali. Gli allievi ammessi alla scuola dovevano avere età compresa tra i 16 ed i 25 anni, era fatta eccezione solo per qualche individuo che avesse «favorevoli disposizioni a poter divenire ottimo veterinario». Alla scuola era annesso un Ospedale veterinario, dove chiunque poteva portare «cavalli, buoi, ed altri animali, che sieno infermi, per essere guariti (...), ottenendo ivi la medicatura franca, col pagare soltanto i foraggi, ed i medicamenti opportuni». L’ospedale veterinario era sotto la cura del professore di clinica veterinaria, anche se dipendeva sempre dal direttore. Annessa allo stabilimento veterinario era prevista una farmacia, che doveva conservare tutti i medicamenti semplici ed i preparati per la cura degli animali, destinati sia all’uso dell’ospedale veterinario che alla vendita al pubblico. La farmacia era diretta dal professore di botanica, chimica e farmacia, sempre però alle dipendenze del direttore dello stabilimento. Nell’orto botanico erano coltivate le piante necessarie alla medicina veterinaria e quelle principali per le praterie e i foraggi. Il professore di chimica, responsabile dell’orto botanico ed agrario, non solo aveva il compito di far coltivare le piante necessarie ai bisogni della farmacia, ma provvedeva anche all’istruzione teorica e pratica dei giovani 4. Nei primi decenni del secolo XIX, con la nascita delle scuole di veterinaria, la figura dei medici veterinari venne ad affiancare e quindi gradualmente a sostituirsi a quella dei 4
Cfr. AS SA, Intendenza, b. 1723, fasc. 3.
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maniscalchi, anche se generalmente questi ultimi ancora continuavano ad occuparsi della cura degli animali e non era raro il verificarsi di conflitti tra le due categorie. Con la ministeriale del 13 giugno 1834, oltre a dare precise istruzioni sul corso di studi per veterinari, si definivano i loro compiti ed i rapporti che dovevano avere con i maniscalchi, che continuavano ad operare sul territorio provinciale. In caso di malattie epidemiche o contagiose, il veterinario provinciale aveva compiti di controllo su tutta la provincia, inoltre doveva vigilare sui maniscalchi, visitarli periodicamente ed autorizzarli ad esercitare la mascalcia e doveva controllare anche gli animali da loro curati, stilando dei dettagliati rapporti con la descrizione della malattia, i sintomi e le cure prestate. Per la sua esperienza in materia di animali, era tenuto anche a dare suggerimenti per il miglioramento delle razze ed a lui era affidato l’onere di aprire una scuola di mascalcia di durata triennale. Nelle istruzioni erano poi dettagliatamente indicate le varie materie di studio da tenersi nella scuola nel corso dei tre anni 5. Nella successiva ministeriale del 15 ottobre 1834, a seguito della richiesta di un professore veterinario di Principato Ulteriore «di vietarsi a’ maniscalchi (...) di curare gli animali, ignorando essi affatto i principi di Scienza Veterinaria», veniva evidenziata la necessità di non «far correre le cose nello stesso stato di disordine in cui sono state finora …» e si davano disposizioni all’intendente sui compiti dei veterinari proprio per «conseguirsi lo scopo di scuotere, cioè, dall’empirismo, cui finora per l’ignoranza de’ principi scientifici è stata soggetta la cura de’ bruti, utili all’industria, ed agli altri usi privati della vita». Non si vietava ai privati di continuare a servirsi del maniscalco di fiducia per la cura dei propri animali, ma si affidava al veterinario un compito di controllo e di guida sull’operato dei maniscalchi, cercando, in tal modo, di perseguire «l’intento di diffondere nella provincia i principi della scienza Veterinaria» 6. In attuazione delle istruzioni ministeriali anche a Salerno fu istituita una scuola di veterinaria, le cui vicende si possono in parte ricostruire attraverso i carteggi contenuti nel fondo Intendenza. Nel 1835 esercitava la carica di medico veterinario della provincia di Principato Citeriore il dottor Giuseppe Ippoliti, che in varie suppliche inviate all’intendente chiedeva di essere fornito degli strumenti necessari per esercitare la sua professione, di essere dotato della prevista uniforme e chiedeva anche l’aumento del soldo a lui assegnato, in quanto non riusciva a percepire altri emolumenti da privati, perché i proprietari di animali continuavano a servirsi dei maniscalchi. Il dott. Ippoliti suggeriva altresì all’intendente, al fine di attuare i corsi di insegnamento previsti per i maniscalchi, di trovare un locale idoneo per tenere le lezioni teoriche e pratiche, con un gabinetto 5 6
Cfr. AS SA, Intendenza, b. 1725, fasc. 4. Cfr. AS SA, Intendenza, b. 1724, fasc. 2.
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dove conservare gli scheletri, ed «un locale ossia una scuderia da poter introdurre e ricevere gli animali ammalati, ed un sito da adibirsi alle sezioni anatomiche» e proponeva di «obbligare i maniscalchi ed i proprietari a recare in detto Ospedale gli animali infermi per essere curati», auspicando che, con questi mezzi, sarebbe potuta «un giorno fiorire la scienza veterinaria» 7. Nel maggio del 1841 l’intendente di Principato Citeriore incaricò l’ingegnere Giuseppe Lista di scegliere uno dei bassi sottoposti all’edificio della Gran Corte Criminale da adibire a sede della Scuola di mascalcia, a seguito dell’approvazione del ministro degli Affari interni e con l’assistenza del veterinario provinciale Giuseppe Ippoliti. L’ingegnere, dopo vari sopralluoghi nei locali, ritenne che era possibile adibire a tale scopo «il basso che formava il primo carcere all’Est della prelodata G. C. distinto in tre compresi: il primo che avrà l’ingresso dalla strada sarà destinato per la scuola; il 2° in testa al suddetto ingresso servirà per gli scheletri degli animali; ed il 3° a sinistra del 1° di piccolissima estensione servirà a riporre de’ piccoli oggetti di uso del Maestro e della Scuola» 8. Sul restauro di tutti i bassi sede dell’antico carcere era già stato redatto un progetto di 1800 ducati risalente al 1837 e nel 1840 vi era stata l’approvazione del ministro degli Affari interni. Nel gennaio 1845, però, ancora non erano iniziati i lavori ed il veterinario provinciale Ippoliti, in una sua supplica inviata al ministro segretario di Stato degli Affari interni, lamentava la mancata apertura della scuola, nonostante fossero stati assegnati a tale uso i bassi della Gran Corte Criminale e fosse stato anche redatto il relativo progetto. L’ingegnere Lista, in una lettera all’intendente del 10 aprile 1845, specificava che i bassi della Gran Corte Criminale erano assegnati alla Scuola di mascalcia, per il cui progetto era prevista la spesa di circa duecento ducati, e che un locale con l’apertura sulla strada era stato destinato a sede della scuola, un secondo basso, invece, alla conservazione degli scheletri degli animali, ed un terzo per riporvi gli oggetti. Ma ancora nel 1853 non era stato realizzato nulla, infatti fu dato l’incarico al direttore del Corpo degli ingegneri delle Acque e Strade di trovare a Salerno un locale idoneo ad ospitare la Scuola di Veterinaria e furono segnalati ancora una volta, come adattabili a tale scopo, i locali esistenti verso il vicolo Barbuti, nel palazzo della Gran Corte Criminale di proprietà della provincia. Tali locali erano all’epoca occupati dalle anticaglie tolte dal teatro dismesso, per cui era necessario che il comune si incaricasse di liberare gli spazi occupati e per facilitare l’accesso degli animali era anche necessario creare l’apertura di un ingresso particolare nel vicolo 9. Anna Sole Ibidem. Ibidem. 9 AS SA, Intendenza, b.1725, fasc. 4. 7 8
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Documenti Eboli, 31 luglio 1614 Il magnifico Giovanni Giacomo de Lustria, maestro maniscalco di Eboli, dichiara di aver visitato un cavallo di Decio Corcione, che presentava tracce di maltrattamenti e che era tutto strangosciato, raccomandando, per evitare la morte dell’animale, di curarlo per molti giorni con i medicamenti necessari e riposo assoluto 10. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1614, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli Questo documento evidenzia in modo inequivocabile i compiti che svolgeva il maestro maniscalco agli inizi del ’600. Considerando che Giovanni de Lustria aveva il titolo di “magnifico”, si può senz’altro affermare che l’arte del maestro maniscalco andava ben oltre quelli che sono oggi i compiti del maniscalco e che la figura del magister maniscalcus che emerge da questo documento lo colloca sicuramente tra gli antesignani dei veterinari.
Salerno, 19 settembre 1748 Testimonianza attestante la malattia di un cavallo, da cui si evince la duplice funzione che veniva svolta dal maniscalco: artigiano e “veterinario”. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5307, a. 1748, notaio Carmine Sabatino di Salerno Alcuni testimoni asseriscono che presso l’«alloggiamento nominato Casa Barrera», dove abitualmente si fermavano a passare la notte molte persone, una sera vi era anche il servitore del marchese di Brienza, che aveva portato con sé un cavallo di «pelo morello», di proprietà del nobile, per venderlo alla fiera di Salerno. Questi aveva dato da bere al cavallo prima di riportarlo nella stalla, ma, rientrato nel locale, lo aveva trovato morto. Aveva fatto allora visitare l’animale dai maniscalchi, che «anno congetturato essere stato un male denominato cola capasso».
Salerno, 7 giugno 1754 Testimonianza riguardante la malattia mortale di un cavallo, da cui emerge la funzione di “veterinari” esercitata dai maniscalchi. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5332, a. 1754, notaio Giacomo Ricciardi di Salerno Matteo Battista ed Aniello Borriello, maestri maniscalchi, erano stati chiamati da Pascale di Palma per visitare un suo cavallo «morello». I due, esaminando l’animale, si erano accorti che esso non poteva inghiottire, gli avevano praticato perciò diversi «medicamenti», ma, dopo tre giorni di cure, avevano ritenuto che non c’era alcun rimedio da utilizzare per poter guarire il cavallo, essendo la malattia contratta di tipo mortale. Il «ciammorio» aveva devastato completamente l’animale tanto da causarne la morte. Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta. 10
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Salerno, 16 dicembre 1754 Testimonianza relativa all’acquisto di un cavallo malato, resa alla presenza di due maniscalchi che fungevano da “veterinari”. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 5332, a. 1754, notaio Giacomo Ricciardi di Salerno Giuseppe Punzo, cocchiere del regio governatore di Salerno, e Pascale Buonomo, «solapianelli» originario di Napoli, all’inizio di settembre del 1754 erano andati a Napoli per acquistare un cavallo «morello di carrozza». Trovato il cavallo, lo avevano comprato per 30 ducati, senza però farlo visitare prima da un maniscalco, come desiderava l’acquirente. Appena arrivati a Salerno, l’animale aveva iniziato a zoppicare. Chiamati due maniscalchi per visitarlo, si erano accorti che era «difettoso in mali antichi detti sponda, e gliorda, e che si rendeva incurabile a guarirsi».
Eboli, 18 gennaio 1771 I maniscalchi Nicola Elefante e Salvatore Bernardo e l’esperto di animali Berniero La Porta, su incarico di don Giovanni Amedeo Ferrari, agente generale del principe Doria d’Angri, effettuano nel luogo detto Annunciata di Eboli l’autopsia di una vacca morta, proveniente dalla Germania, di proprietà del duca 11. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2691, a. 1771, notaio Biagio Elefante di Eboli I maniscalchi, procedendo all’apertura e sezionamento della mucca con l’ausilio di Gennaro Marano, esperto in quest’arte, notarono innanzitutto che il ventre dell’animale mostrava tracce di sabbia di mare. Quindi, passando ad esaminare la cistifellea, la milza e la vescica, osservarono che la prima si presentava talmente ingrossata da aver prodotto un travaso di fiele, la seconda risultava quasi putrida ed la vescica era piena di sangue. Per questi motivi, alla fine di un vero e proprio consulto veterinario, dedussero che la vacca, come accaduto altre volte ad animali simili, era morta per male di fiele e di milza a causa dell’ingestione di acqua frammista a sabbia.
Napoli, 1823 Regolamento per il Convitto annesso alla Scuola Veterinaria. AS SA, Intendenza, b. 1723, fasc. 3 Il Regolamento, emesso con real decreto del 23 settembre 1823, dava disposizioni per il Convitto annesso alla Scuola Veterinaria in seguito al real decreto dell’11 ottobre 1815. Responsabile della morale, della disciplina ed in genere di tutto il regolare andamento dell’Istituto veterinario era il rettore, nominato dal re, vi era poi il direttore, sempre di nomina regia, che curava l’insegnamento teorico e pratico, l’orto per le piante necessarie alla veterinaria, la prateria, l’ospedale per la cura degli animali e la farmacia. Erano ammessi al convitto alunni di età compresa tra i 16 ed i 25 anni, era fatta eccezione solo per qualche individuo che avesse «favorevoli disposizioni a poter divenire ottimo veterinario». Alla scuola era annesso un ospedale veterinario, dove chiunque poteva portare «cavalli, buoi, ed altri animali, che sieno infermi, per essere guariti (...) tenendo ivi la medicatura franca, Il documento è pubblicato in Appendice al saggio di Francesco Manzione, Carte d’archivio e memorie di vita vissuta. 11
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col pagare soltanto i foraggi, ed i medicamenti opportuni». L’ospedale veterinario era sotto la cura del professore di Clinica Veterinaria, però dipendeva sempre dal direttore. Annessa allo stabilimento veterinario doveva esserci una farmacia, in cui si trovavano tutti i medicamenti semplici ed i preparati per la cura degli animali, che erano sia per uso dell’ospedale veterinario, che per la vendita al pubblico. La farmacia era diretta dal professore di botanica, chimica e farmacia, sempre però alle dipendenze del Direttore dello stabilimento. Nell’orto botanico erano coltivate le piante necessarie alla veterinaria e quelle principali per le praterie e i foraggi. Il professore di chimica, responsabile dell’orto botanico ed agrario, non solo aveva il compito di far coltivare le piante necessarie ai bisogni della farmacia, ma provvedeva anche all’istruzione teorica e pratica dei giovani.
13 giugno 1834 Copia della ministeriale del 13 giugno 1834, indirizzata agli intendenti, con l’indicazione dei regolamenti e dei doveri del veterinario provinciale e degli studi da far seguire agli alunni nel corso di tre anni. AS SA, Intendenza, b. 1725, fasc. 4 Il veterinario provinciale aveva il compito di dirigere la polizia medica della provincia sia per le malattie epidemiche che per quelle contagiose e per tutte le altre. Era tenuto a stilare rapporti per ogni animale curato da un maniscalco, con la descrizione dei sintomi della malattia e delle cure apprestate, inoltre doveva compilare dei piccoli trattati pratici circa la cura degli animali. Era tenuto anche a dare suggerimenti per il miglioramento delle razze e ad adoperarsi in situazioni di contestazioni sugli animali. A lui spettava l’onere di aprire una scuola di mascalcia di durata triennale. Nel primo anno si tenevano corsi di ippometria, cioè sulla denominazione delle varie parti esterne del cavallo, sulla bellezza, difetti e proporzioni, nonché sull’età, mantelli ed andature, ed altri corsi di osteologia, cioè studi su ossa, articolazioni e legamenti. Le lezioni del secondo anno vertevano sulle pratiche di ferratura e sullo studio del piede e delle varie deformità e difetti, nonché sui sistemi circolatorio e nervoso. Infine l’ultimo anno era dedicato allo studio delle principali regole igieniche ed alla bassa chirurgia. Il veterinario provinciale, inoltre, doveva tenere un registro di tutti i maniscalchi, visitarli periodicamente ed autorizzarli all’esercizio della mascalcia e ad eseguire interventi sugli animali. I maniscalchi avevano l’obbligo di far conoscere al veterinario gli alunni che istruivano ed erano tenuti a mandarli alla Scuola di Veterinaria.
Napoli, 15 ottobre 1834 Disposizioni del ministro segretario di Stato degli Affari interni all’intendente di Principato Citeriore sugli obblighi del veterinario provinciale, a seguito della richiesta del professore veterinario della provincia di Principato Ulteriore, Francesco Tocco, di vietare ai maniscalchi di curare gli animali, in quanto ignorano del tutto i principi della scienza veterinaria. AS SA, Intendenza, b. 1724, fasc. 2 Eboli, 4 giugno, 1835 Esposto di Pasquale d’Apice, professore veterinario di Sicignano, contro i soggetti che abusivamente esercitano la veterinaria. AS SA, Intendenza, b. 1724, fasc. 2
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Salerno, 19 ottobre 1841 Relazione del direttore provinciale del Corpo degli ingegneri delle Acque e Strade, Giuseppe Lista, all’intendente sul locale della Gran Corte Criminale da adibire a sede della scuola di mascalcia. AS SA, Intendenza, b. 1724, fasc. 2 Il locale individuato per sede della scuola di mascalcia era «il basso che formava il primo carcere all’Est della prelodata G. C. distinto in tre compresi: il primo che avrà l’ingresso dalla strada sarà destinato per la scuola; il 2° in testa al suddetto ingresso servirà per gli scheletri degli animali; ed il 3° a sinistra del 1° di piccolissima estensione servirà a riporre de’ piccoli oggetti di uso del Maestro e della Scuola».
Salerno, 8 gennaio 1845 Supplica di Giuseppe Ippoliti, professore veterinario provinciale di Principato Citeriore, al ministro segretario di Stato degli Affari interni, per l’apertura della scuola di veterinaria. AS SA, Intendenza, b.1725, fasc. 4 Il professore Ippoliti lamenta la mancata apertura della scuola di veterinaria a Salerno, perché non è stato assegnato il locale da adibire a tale scopo. Nel maggio del 1841 l’ingegnere provinciale Giuseppe Lista fu incaricato della scelta del locale ed individuò uno dei bassi sottoposti alla Gran Corte Criminale, ma, nonostante fosse stato redatto anche un progetto, ancora nel 1845 non si erano iniziati i lavori.
Salerno, 2 maggio 1855 Il direttore delle Opere pubbliche del Principato Citeriore comunica all’intendente quale locale sarebbe idoneo per stabilirvi la Scuola di veterinaria. AS SA, Intendenza, b.1725, fasc. 4 Il direttore del Corpo degli ingegneri, incaricato di trovare un locale idoneo a stabilire a Salerno una Scuola di veterinaria, segnala come adattabile a tale scopo una porzione dei locali esistenti verso il vico Barbuti, nel Palazzo della Gran Corte Criminale. Tali locali, di proprietà della Provincia, erano all’epoca occupati dalle «anticaglie tolte dal teatro dismesso», per cui era necessario che il comune si incaricasse di liberare gli spazi occupati. Per facilitare l’accesso degli animali era prevista l’apertura di un ingresso particolare nel vicolo.
s.d. [metà del sec. XIX] E. GIORDANO, Sulla peste bovina, pubblicato a cura della Reale Società Economica del Principato Citeriore. AS SA, Intendenza, b.1727, fasc. 3 L’autore si sofferma sull’origine della malattia, sui suoi caratteri specifici, sulle misure per preservarne il bestiame e sui mezzi curativi.
Novembre 1899 Tesi di laurea in medicina veterinaria di Luigi Langella di San Marzano sul Sarno.
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APL La tesi, che è manoscritta, verte sul tema “Influenza del cavallo”, patologia della quale l’autore illustra l’eziologia, la forma clinica, la diagnosi, la prognosi e la cura. Una ricca bibliografia conclude lo scritto. Foto dei veterinari Luigi e Giuseppe Langella. APL Luigi Langella (1872-1944) nacque a San Marzano sul Sarno, si laureò in medicina veterinaria presso l’Università degli Studi di Napoli con una tesi sulla “Influenza del cavallo”. Esercitò la professione nei comuni di Nocera Superiore, Sarno, San Marzano sul Sarno e San Valentino Torio. Fu componente della Commissione straordinaria dell’Ordine dei medici veterinari della provincia di Salerno e ricoprì anche l’incarico di segretario provinciale del Sindacato veterinari di Salerno. Fu altresì nominato delegato della Croce Rossa Italiana. Giuseppe Langella (1914-2006), figlio di Luigi, nacque a San Marzano sul Sarno, si laureò in medicina veterinaria a Napoli il 5 novembre 1936 con il massimo dei voti e la lode. Nello stesso anno superò brillantemente l’esame di abilitazione per l’esercizio della professione. Nel 1939 fu nominato assistente incaricato presso l’Istituto di anatomia normale con istologia ed embriologia presso la facoltà di Medicina veterinaria di Napoli. Nel maggio del 1940 divenne assistente ordinario del prof. Francesco Naglieri, preside della facoltà. Negli anni accademici 1940-1941, 1944-1945, 1945-1946 ricevette premi di operosità scientifica. Durante il secondo conflitto mondiale divenne ufficiale del Corpo veterinario militare. Gli fu conferito l’incarico di professore per l’insegnamento di Igiene zootecnica dal 1943 al 1944 e di Tecnica delle autopsie e diagnostica cadaverica dal 1946 al 1947. Nel dopoguerra impartì lezioni ed esercitazioni ai reduci, espletando presso la facoltà di Medicina veterinaria di Napoli numerosi corsi di anatomia degli animali domestici, di istologia ed embriologia, di approvvigionamenti annonari. Alla morte del prof. Naglieri, gli fu affidato l’insegnamento del maestro, la docenza di anatomia e fisiologia degli animali domestici presso la facoltà di Agraria dell’Università di Napoli in Portici, corso che tenne fino al 1953. Avviò ricerche scientifiche e scrisse diversi lavori, tra cui una memoria scientifica sulla “Tecnica delle iniezioni dei vasi”. È stato consigliere dell’Ordine dei medici veterinari della provincia di Salerno. La sua passione per la ricerca e per l’insegnamento lo richiamò alla cattedra di anatomia veterinaria sistematica e comparata, incarico che ricoprì per diversi anni, fino al pensionamento, presso la facoltà di Medicina veterinaria di Bari.
Napoli, 1913 REALE ISTITUTO D’INCORAGGIAMENTO DI NAPOLI, Progetto per la Sede definitiva della Sta-
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zione sperimentale per le malattie infettive del bestiame, in Napoli, a cura di N. MORI e di S. MORI, Napoli, Cooperativa Tipografica, 1913 AASRIE Milano, 1916 DIREZIONE GENERALE DELLA SANITÀ PUBBLICA, La virulenza del sangue negli animali affetti da afta epizootica, a cura di G. COSCO e A. AGUZZI, Milano, Premiata Tipografia “Agraria”, 1916 (estratto dalla rivista «La Clinica Veterinaria», anno 1916, n. 7). AASRIE Il testo è stato redatto in base agli esperimenti sulla profilassi dell’afta epizootica, eseguiti nella R. Cascina di Poggio a Caiano (Firenze), diretti dal dottor Giuseppe Cosco, ispettore generale veterinario.
Salerno, s.d. REGIONE CAMPANIA - ISPETTORATO PROVINCIALE DELL’AGRICOLTURA - UFFICIO DEL VETERINARIO PROVINCIALE DI SALERNO, Sulle profilassi delle principali malattie infettive e parassitarie degli allevamenti ovini e caprini, Salerno, Tip. Volpe, s.d. AASRIE Questo opuscolo, che riguarda le malattie delle pecore e delle capre, è stato scritto, come spiega la Premessa, per i pastori, «per coloro, cioè, che dedicano alla cura del gregge la loro giornata, continuando un’attività che da migliaia di anni costituisce una delle prime industrie dell’uomo e che, come nessun’altra, viene esercitata nello stesso modo da secoli». Le malattie prese in esame sono: le principali forme di mastiti, la brucellosi, la distomatosi epatica, la strongilosi, la teniasi, la pedaina e la idatidosi.
Salerno, 28 maggio 1920 Modulo di capitolato unico per le condotte veterinarie comunali per la provincia di Salerno, approvato dal Consiglio sanitario provinciale. APL Salerno, 10 giugno 1920 Manifesto a stampa con cui il prefetto di Salerno ordina che nell’elenco delle malattie infettive e diffusive del bestiame, per le quali è obbligatoria la denuncia, venga aggiunta la pleuro-polmonite essudativa delle capre, al fine di adottare misure speciali per circoscrivere e combattere in modo efficace la epizoozia. AS SA, Prefettura, Gabinetto, b. 198, fasc. 3 Salerno, 1928 Albo dei veterinari della provincia di Salerno per l’anno 1928. APL
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s.d. [anni Trenta del XX secolo] Foto della facciata principale della facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli, che ha sede nell’ex monastero di Santa Maria degli Angeli alle Croci. APL
s.d. [anni Trenta del XX secolo] Foto della Sala del preside della facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli. APL
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s.d. [anni Trenta del XX secolo] Foto di una sala della facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli, con un gruppo di veterinari che esegue un intervento chirurgico su di un cavallo. APL ROMA, 1939 MINISTERO DELLA GUERRA - COMANDO DEL CORPO DI STATO MAGGIORE, Nozioni d’ippologia per i corsi allievi ufficiali di complemento, Roma, Edizioni de “Le Forze Armate”, 1939. APG Questo breve trattato di ippologia riguarda sia il cavallo che il mulo, entrambi adibiti ad usi militari. Il cavallo – si legge all’inizio del volume – «nella mitologia era consacrato a Marte, dio della guerra, come l’animale più utile nelle battaglie; infatti, esso oltre che essere mezzo di trasporto per tutte le armi, rappresenta per la cavalleria un’arma vera e propria». Il mulo, nato dall’accoppiamento dell’asino con la cavalla, dotato di una capacità di lavoro superiore a quella del cavallo, in campo militare «assurge a mezzo indispensabile di trasporto. Chi ha preso parte alla guerra europea [la prima guerra mondiale] ha sempre vivo il ricordo degli utili servizi resi da questo umile ausiliare. Viveri, armi, munizioni, materiali di ogni genere furono da lui trasportati sfidando intemperie ed asperità alpine fino alle regioni delle nevi perpetue». Il trattato si sofferma sulla costituzione fisica di questi due animali, sulle varie patologie da cui possono essere affetti, sulla loro alimentazione e l’igiene.
Calendario dell’anno 1961 per celebrare il centenario della fondazione della Scuola del Servizio Veterinario Militare di Pinerolo. In copertina riproduzione di un ufficiale veterinario nell’uniforme del 1861. APG
s.d. Serie di ferri forgiati dal maresciallo maniscalco Vincenzo Blasi: normali, correttivi, terapeutici, in uso presso la Scuola del Corpo Veterinario Militare di Pinerolo. APG
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Animali d’archivio. Marche tipografiche e alfabeti figurati dai libri antichi del Fondo Bilotti
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Animali d’archivio. Marche tipografiche e alfabeti figurati dai libri antichi del Fondo Bilotti. I disegni di animali nella documentazione archivistica
I LIBRI ANTICHI DEL FONDO P.E. BILOTTI Figura di studioso “solitario e schivo”, come lo definì il Croce, Paolo Emilio Bilotti fu un appassionato bibliofilo, numismatico e collezionista. Il fondo bibliografico che porta il suo nome è costituito di oltre 3500 unità tra manoscritti, edizioni dal 1500 al 1700, notevoli testi del XIX e XX secolo sulla storia di Napoli e del Mezzogiorno, oltre ad una gran quantità di materiale minore – opuscoli, numeri sparsi di riviste, estratti ecc. – preziosa documentazione della produzione editoriale salernitana del sec. XIX e dei primi anni del XX secolo. È evidente, nella composizione del fondo, che non si tratta della biblioteca di uno studioso tout court, ma di un appassionato della storia del libro e delle belle edizioni, soprattutto antiche, come dimostra la presenza di tanti volumi disparati, fra cui il bel “Dante” stampato dai Sessa nel 1595, un in-folio splendidamente illustrato; il trattato astronomico del famoso matematico ed astronomo Giovanni da Regiomonte (pseudonimo di Johannis Müller da Königsberg), stampato nel 1504 a Venezia da Pietro Liechtenstein, o il Commentaria in librum Galeni de Ratione curandi per sanguinis missionem, scritto a Salerno da Giovanni Nicola Ruggiero, medico dello studio salernitano, e stampato a Campagna da Domenico Nibbio e Francesco Scaglione nel 1570, raro esemplare della produzione tipografica di questa cittadina campana. Il fondo ha sempre offerto diversi interessanti percorsi di ricerca, sia tematici che paratestuali: la storia del libro dal XVI al XIX secolo vi è tutta raccontata, mentre per il XVIII secolo vi si trovano interessanti opere sulla storia del Regno di Napoli e, per il XIX, è molto presente il Risorgimento nelle testimonianze dirette dei protagonisti. In questa sede sono individuati due percorsi: uno è quello della raccolta numismatica, cui fa da sfondo una ricca documentazione bibliografica; l’altro è appunto la presenza degli animali negli apparati iconografici della tipografia dal Cinquecento al Settecento. Maria Teresa Schiavino
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GLI ANIMALI COME SIMBOLO NELLE MARCHE TIPOGRAFICHE DEL XVI SECOLO La marca tipografica compare circa una cinquantina di anni dopo l’invenzione della stampa, nella seconda metà del XV secolo. Se in una prima fase il libro a stampa era rimasto per molti versi simile ad un manoscritto, con l’evolversi della figura del tipografo-stampatore nasce anche un prodotto nuovo dal punto di vista grafico-editoriale: molto più uniforme, esteticamente e linguisticamente. Compare il frontespizio, spesso elegantemente decorato, che raccoglie tutte le informazioni prima sparpagliate tra incipit e colophon. Qui trovano posto le informazioni relative al titolo, all’autore, all’edizione dell’opera ed al tipografo, il quale spesso si munisce di un simbolo, un marchio che renda immediatamente riconoscibile un libro uscito dai suoi torchi. Si tratta in genere di un’incisione su legno, detta xilografia. Ognuno di questi legni poteva essere usato per centinaia di impressioni e per diverse edizioni. Non poteva però bastare per tutte le edizioni di un tipografo, che nel tempo propone quindi diverse varianti della sua marca, a volte anche per ragioni legate ai diversi formati di stampa. La marca tipografica si arricchisce sempre di più nel corso del tempo, vi si aggiungono motti o simboli e diventa in qualche modo la “dichiarazione d’intenti” del tipografo, per il significato che si cela dietro l’immagine prescelta. È il caso di Aldo Manuzio, ad esempio, che aveva scelto come emblema un delfino che si avvolge ad un’ancora: «Tale marca divenne celebre nella storia della tipografia sotto il nome di “Ancora Aldina”. Il delfino, tanto rapido nel fendere le onde, ricorda la velocità, la solerzia, l’assiduità, l’impegno; l’àncora, che si aggrappa al terreno trattenendo solidamente il battello, rappresenta la solidità, la prudenza, la riflessione; insomma, ponderatezza e prudenza nella concezione dei programmi di lavoro; ma rapidità nella loro esecuzione» 1. La presenza degli animali all’interno di queste marche si collega dunque al discorso sulla loro simbologia (vedi infra, Gli animali nella letteratura) ed è mutuata molto spesso dalle simbologie cristiane medievali. Presentiamo qui una serie di marche con motivi di animali, che vanno dal sec. XVI al sec. XVIII 2. Maria Teresa Schiavino
1
G.M. PUGNO, Trattato di cultura generale nel campo della stampa, Torino, Sei, 1964, vol. 3, p. 97. Per approfondimenti sulle origini della stampa cfr tra gli altri G.M. PUGNO, Trattato di cultura generale ..., cit., voll. 2, 3; G. ZAPPELLA, Le marche tipografiche dei tipografi italiani del ’500, Milano, Bibliografica, 1986; e M. SANTORO, Storia del libro italiano, Milano, Bibliografica, 2008. 2
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API Le api simboleggiano l’operosità, l’industria, la diligenza, e l’artificio. Ben si adattano al lavoro del tipografo, lento e metodico, costante, rivolto alla diffusione della conoscenza. In questo caso abbiamo uno sciame di api che vola intorno ad un rogo, anche questo simbolo di lavoro incessante. È marchio del tipografo napoletano Giuseppe Cacchi. Immagine tratta da GIOVANNI PONTANO, Historia della guerra di Napoli […], Napoli, appresso Giuseppe Cacchi, 1592.
AQUILA E DRAGO L’aquila è, in tutte le simbologie, un’immagine di grande potenza: è considerata la regina degli uccelli per la sua capacità di librarsi in spazi altissimi, ma anche per la sua regale solitudine. Rappresenta tutte le forze che vanno verso l’alto, dalla morte alla vita, dal mondo materiale a quello spirituale. Il drago, animale fantastico, è invece un simbolo del male, associato al fuoco e alle viscere della terra. Si tratta in questo caso di uno stemma diviso in due campi, occupati ognuno da un animale. Lo stemma porta le insegne papali, forse perché il testo è dedicato al papa Paolo V. 1616. Immagine tratta da LEONE, VESCOVO DI OSTIA, Chronicon antiquum Sacri Monasterii Cassinensi, Napoli, Tarquinio Longhi, 1616.
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AQUILA E SERPENTE L’aquila viene a volte associata, per contrapposizione, al serpente, che contribuisce al suo significato. Insieme formano una coppia di opposti complementari, dove l’aquila simboleggia la luce, il cielo, le forze superiori mentre il serpente è l’oscurità, la terra, le forze oscure del sottosuolo. L’aquila che si nutre di serpenti incarna idealmente il trionfo del bene sul male. Il serpente è, da parte sua, simbolo doppio: prudenza e riflessione da una parte, tradimento e perfidia dall’altro: fu un serpente, in effetti, nelle cui sembianze si nascondeva Satana, a condurre Adamo ed Eva al peccato di disobbedienza e a gettare dunque il mondo nella disarmonia. Ma è anche simbolo della salute, ed in questo senso è usato infatti sul bastone di Esculapio, dio della medicina, al cui caduceo si attorciglia, mentre l’aquila simboleggia il potere, la forza, la vittoria, il rinnovamento. In questa marca, del lionese Guillaume Rouille, l’Aquila poggia le zampe sul mondo, mentre in basso due serpenti con le code aggrovigliate sollevano la testa verso di lei. Reca il motto In virtuti et fortuna. Immagine tratta da VAIRO, PIETRO, De medendis humanis corporis mali Enchiridion vulgo veni mecum dictum, Lugduni, Apud Gulielmum Rouillium sub Scuto Veneto, 1565.
CERVO E SERPENTE Il cervo condensa una molteplicità di significati, il più forte dei quali è quello della purezza e dell’onore. In questa illustrazione (non si tratta di una vera e propria marca) settecentesca del napoletano Giovanni Di Simone lo troviamo accostato al serpente attorcigliato alla freccia. Immagine tratta da Riflessioni su le nuove scoperte di Ludovico Antonio Muratori, Napoli, per Giovanni Di Simone, 1746.
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DELFINO Manuzio, uno dei più noti stampatori del ’500, scelse come suo simbolo un delfino che si avvolge intorno ad un’ancora. Si tratta di un animale che sin dall’antichità era considerato amico dell’uomo e si narrava che avesse salvato molti marinai in procinto di annegare. Dall’antichità classica il rispetto per questo animale è transitato in epoca cristiana, quando per l’affetto che si credeva portasse ai mortali, i primi cristiani lo elessero simbolo ed immagine di Cristo Salvatore.
DRAGO E SAN GIORGIO Nell’iconografia cristiana, il drago è simbolo del male ed è di solito infilzato dalla lancia di un santo, che può essere san Giorgio o san Michele. Lo troviamo nell’Apocalisse di san Giovanni, come minacciosa entità terrestre associata al serpente e a Satana. Questa simbologia si è trascinata sin nel medioevo, dove appare come simbolo di minacce oscure, come nelle fiabe e nelle leggende in cui delle fanciulle devono essergli sacrificate. La nostra marca appartiene al milanese Giorgio Rusconi, che la scelse probabilmente come marca parlante (Giorgio è il nome del tipografo). Il bellissimo frontespizio è incorniciato in motivi di fiori, foglie ed animali, recante al centro una vignetta con San Giorgio che uccide il drago. Immagine tratta da Terentius cum quinque comentis: videlicet Donati Guidonis: Calphur Ascentii et Seruii. Venezia 1521.
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FENICE La fenice è un animale mitologico le cui origini risalgono alle religioni legate al Sole dell’antico Egitto. Sacrum Soli, la definiva Tacito. È emblema di longevità, di fama che non tramonta mai, ma anche di nome senza macchia, e soprattutto di resurrezione. Essa fa parte della classe degli animali immaginati dalla fantasia dell’uomo, gli animali favolosi ed immortali: la fenice infatti, nel sentir arrivare la morte, si costruiva un nido sul quale si coricava. I raggi del sole lo incendiavano, bruciando anche l’uccello, ma dalle ceneri nasceva un uovo da cui un’altra fenice usciva, assicurando l’immortalità alla specie. Per questo motivo in età cristiana essa fu assunta a simbolo del Cristo che risorge dalla morte. Ritroviamo il suo mito, con un carattere più profano, in molti testi della poesia romanza francese ed italiana. In relazione al suo uso come marca tipografica, sembra che sia stata scelta per celebrare «l’apoteosi del pensiero che, custodito dal libro, trasvola imperituro attraverso i secoli». Fu usata come marchio da Giovanni Giolito de’ Ferrari e dai suoi figli, oltre che da altri tipografi meno noti. Lo troviamo, nella nostra marca del 1778, come simbolo del patavino Giovanni Manfré, che riporta tutta la simbologia: il sole dardeggiante, le fiamme ed il motto Post Fata resurgo, e come marca del napoletano Giovanni Paci, col motto Sic Quoque vivit amor (1658). Immagini tratte da SCHREVEL, CORNELIUS, Lexicon Manuale Graeco-Latinum et Latino-Graecum, Padova per la tipografia del Seminario da Giovanni Manfré, 1778. Riassunto delle Ragioni, e giurisdittione, spettanti alli signori Cioffi, et Pinto della Città di Salerno, nella marina, e territorio del Tarcinaro…, in Napoli, per Gio.Francesco Paci, 1658.
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GATTO La simbologia del gatto proviene dall’antico Egitto, dove l’animale era considerato la manifestazione terrena di Bastet, dea della salute e divinità protettrice della fertilità, della maternità e delle gioie terrene (danza, musica e sessualità), rappresentata con corpo di donna e testa di gatto. Simbolo di indipendenza, di abilità e di furbizia, ma anche di diffidenza, animale misterioso e nobile, dotato di sensibilissimi strumenti di percezione, è stato sempre considerato come un essere soprannaturale anche quando, nel medioevo, era una soprannaturalità negativa, in quanto era visto come animale del diavolo. Il gatto è la notissima marca della famiglia di tipografi Sessa, di Venezia, che lo ritraggono in modi diversi, tra cui anche quello di portare in bocca un topo. Immagine tratta da Dante Con L’Espositioni di Christoforo Landino, Et D’Alessandro Velluttello. Sopra la Sua Comedia dell’Inferno, del Purgatorio, & del Paradiso, Con Tauole, Argomenti, Allegorie; & riformato, riueduto, & ridotto alla sua vera Lettura, Per Francesco Sansovino Fiorentino. - In Venetia: Appresso Gio. Battista, e Gio. Bernardo Sessa, fratelli, 1596.
LEONE Il simbolo del leone non ha quasi bisogno di commenti: l’animale più fiero e regale di tutti i bestiari, simboleggia la grandezza, il coraggio, la forza, la magnanimità. Nel corso del medioevo rappresentava anche la resurrezione, perché si narrava che i suoi piccoli, appena nati, giacessero come morti per tre giorni, finché il padre non soffiava loro sul muso l’alito della vita. È spesso usato come marca parlante (usato cioè da tipografi che avevano nome Leone) o come insegna di officina. Lo ritroviamo a Napo-
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li, come simbolo della tipografia Rispoli, e a Venezia, di quella di Valerio Bonelli: in questo caso poggiato con le zampe anteriori a una colonna. Immagini tratte da DE ANGELIS, FRANCESCO GIUSEPPE, Tractus de officialibus Baronum civilem, et criminalem jurisdictionem habentium, Napoli, Nicola e Vincenzo Rispoli, 1733. CARAVITA PROSPERO, Prosperi Caravitae Ebolitani Provinciarum Principatus Citra & Basilicati Regij Advocati commentaria super ritibus magnae Curiae Vicariae Regni Neapolis. Venetiis, apud Valerium Bonellum, expensis Iacobi Anielli Mariae, bibliopolae Neapoletani, 1586.
SALAMANDRA La salamandra è un animale reale, simile ad una lucertola, che ha sin dall’antichità alimentato la fantasia umana. Considerata erroneamente resistente al fuoco, è diventata un simbolo anche alchemico della trasformazione e della purificazione attraverso il fuoco. È scelta molto spesso dai tipografi come simbolo della gloria duratura che è affidata ai libri. Si tratta, in questo caso, dell’insegna dell’officina di Damiano Zenaro, veneziano, e porta il motto Virtuti Sic cedit invidia. Il volume è del 1581. Immagine tratta da: RUSCELLI, GIROLAMO, De’ commentarii de la lingua italiana […] In Venetia, appresso Damian Zenaro, alla Salamandra, 1581.
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I CAPILETTERA FIGURATI DELLA TIPOGRAFIA MANUZIANA Si apre qui una piccola pagina sulla storia della stampa a caratteri mobili e su una delle sue figure più rappresentative: Paolo Manuzio, figlio di Aldo. Aldo Manuzio nacque a Bassiano (Velletri) nel 1450. Umanista appassionato alla nascente arte della stampa, fondò a Venezia la tipografia da cui uscirono bellissime edizioni di classici latini e greci, che sono entrati nella storia del libro per la cura dedicata alla veste tipografica. Suoi collaboratori, nel recupero e nella riproposta del patrimonio culturale classico, furono filologi e letterati tra i maggiori del tempo: Pietro Bembo, Erasmo, i componenti dell’Accademia Aldina. Pubblicò oltre 130 edizioni in greco, latino e italico che rispecchiano chiaramente la cultura del suo tempo: Homeros, Aristoteles, Aristofanes, Virgilius, Euklides, Tolomeus, Arkhimedes, Alighieri, Petrarca, Poliziano, i classici che formavano il “canone” della letteratura umanistica. Fu Manuzio a inventare il formato in ottavo e il carattere corsivo (corsivo italico o aldino). Lui stesso fu autore di grammatiche classiche, di un trattato di metrica e di traduzioni dal greco e dal latino. Alla sua morte la tipografia passò al figlio Paolo Manuzio (in latino Paulus Manutius; Venezia 1512-Roma 1574), che ereditò sia la tipografia che la passione del padre per i classici e per l’editoria. Curò, in particolare, l’edizione di testi latini, mantenendo lo stile e le innovazioni tipografiche introdotte con le aldine. Erudito, di formazione umanistica, scris-
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se numerose dissertazioni, in particolare sulle antichità romane fra le quali il De legibus (1557) e il De senatu (1581), e commentò diverse opere di Cicerone come, ad esempio, quella che qui esponiamo. Maria Teresa Schiavino CICERO, MARCUS TULLIUS In Epistolas M. Tullii Ciceronis Quae familiares vocantur Paulli Manutii Commentarius […] Venetiis, apud Aldum, 1579. AS SA, Fondo Bilotti. L’opera, stampata dopo la morte di Paolo Manuzio, è un in-folio recante sul frontespizio il ritratto di Aldo Manuzio e sul verso del frontespizio il ritratto di Paolo (la prima edizione delle Lettere familiari era stata stampata da Aldo nel 1502). Il testo è decorato con capilettera figurati con animali. I capilettera usati nella stampa di questo volume appartengono a due serie diverse, una decorata con soli animali, l’altra con animali fantastici, di cui fanno parte la vergine o sirena ed il caprone col diavolo. L’iconografia di questi animali è la stessa delle marche tipografiche.
LE RAFFIGURAZIONI DI ANIMALI NEI DOCUMENTI D’ARCHIVIO Talora nei documenti archivistici si rinvengono disegni di animali, espressione della vena artistica di colui che li ha redatti. La loro presenza può essere casuale ed ha un fine meramente ornamentale, oppure serve a fornire qualche indicazione. La Platea della chiesa di Santa Maria Maggiore di Atena Lucana è corredata da ventinove piante topografiche a colori delle sue proprietà terriere, su ognuna delle quali è raffigurato un animale – soprattutto uccelli. La funzione di questi animali è quella di segnalare i punti cardinali: il loro becco – o la freccia che stringono – indica il Nord. L’animale raffigurato può essere anche un “animale parlante”, nel senso che sta al posto di una parola, come il galletto usato quale signum tabellionis dal notaio Adriano Gallo. Vi sono infine gli animali che compaiono sugli stemmi, che talora si rinvengono nella documentazione d’Archivio, come quello della famiglia De Rosa di Campagna, presente su alcuni protocolli del notaio Tommaso De Rosa. Sullo stemma è raffigurato un leone rampante, con la bocca aperta, la lingua sventolante, la coda ripiegata sulla schiena e la testa di profilo, che è la posizione classica in cui questo animale compare in araldica 3. Il leone simboleggia la forza, la grandezza, il comando, il coraggio, la magnanimità.
3
Cfr. P. GUELFI CAMAJANI, Dizionario araldico, rist. anast. eseguita sull’edizione di Milano del 1940, Bologna, Arnaldo Forni, 1973, pp. 332-334.
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Documenti Roma, 24 aprile 1638 Atto rogato dal notaio Adriano Gallo, il cui signum tabellionis è un galletto. AS SA, Corporazioni religiose, pergamene della mensa arcivescovile di Salerno
Campagna, 1644 Protocollo dell’anno 1644 del notaio Tommaso De Rosa, recante sul frontespizio lo stemma della famiglia, su cui è raffigurato un leone rampante. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 773, a. 1644
Atena, 1859 Platea della chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore di Atena. AS SA, Corporazioni religiose, b. 4, vol. 1
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Gli animali nella stampa e nella letteratura
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Gli animali nella stampa e nella letteratura
Parlare della presenza degli animali nella letteratura costituirebbe un discorso molto più lungo e complesso di quello che è possibile elaborare in queste poche pagine. Le suggestioni provenienti dal nostro patrimonio bibliografico hanno fornito una serie di spunti in base ai quali delineare le infinite declinazioni del rapporto uomo-animale nella storia della letteratura di tutti i tempi. I documenti esposti in questa sezione della mostra, eterogenei per tipo ed epoca, provengono dal Fondo Paolo Emilio Bilotti per quanto riguarda i volumi antichi, dal fondo Libreria Carrano per la parte che concerne i libri per ragazzi, mentre le riviste degli inizi del ’900 provengono dalla biblioteca del Centro Studi “Simone Augeluzzi” di Eboli. Ad un certo punto della sua storia l’uomo ha preso le distanze dalla propria origine animale. «Animale che si distanzia dalla propria animalità», lo definisce Luisella Battaglia 1, l’uomo si mette a distanza anche dal mondo, che diventa per lui un oggetto di studio, oltre che di conquista. Il discrimine tra il prima e il dopo è la capacità di parlare, immaginare, e infine, ragionare. Il dominio sulle parole, le possibilità della memoria ha dato all’uomo un potere molto grande sulle altre specie viventi, animali e vegetali, che popolano la comune madre terra. La capacità di interrogarsi sul proprio essere e sul proprio destino, ponendolo un po’ più in là di quell’essere «animale bipede implume» di cui parlava Platone, lo getta in una condizione altra, terribile e meravigliosa al tempo stesso. Pascal definisce l’uomo una «Chimera», sottolineandone la natura ambigua, contraddittoria. In realtà è il pensiero umano a spezzare, in qualche modo, l’originaria unità che esisteva tra la terra e tutti gli esseri viventi. In tutti i miti primordiali ritroviamo le tracce di questa “innocenza perduta” che allontana l’uomo dalla terra con una sorta di 1
L. BATTAGLIA, Le ragioni di un convegno, in CENTRO DI BIOETICA, Lo specchio oscuro. Gli animali e l’immaginario degli uomini, atti del convegno internazionale del Centro di Bioetica, Genova, 16-18 novembre 1990, Torino, Satyagraha editrice, 1993, p. 10.
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maledizione. L’uomo è scacciato dall’Eden, a cui potrà tornare solo dopo la morte, nella religione ebraico-cristiana: nel paradiso terrestre gli animali parlavano, e questo è durato fino al momento in cui Adamo, col peccato originale, ha provocato la caduta disastrosa di tutte le specie viventi 2. Ma anche in altre religioni primitive ritroviamo questa angoscia della perdita di una originaria unità con la terra: per gli indios Guaranì, una popolazione migrante delle foreste brasiliane, è “la Terra senza il Male” il luogo a cui tornare: la patria del vero linguaggio, la dimora dei propri simili, un luogo di serenità e di riposo 3. Nel mondo primordiale uomini ed animali vivevano fianco a fianco, come nel quadro di Rousseau il Doganiere. Gli uomini della preistoria attribuivano ad un animale, e poi a tutta la specie, il ruolo di capostipite della tribù, come afferma Freud in Totem e tabù; il totem animale era un simbolo che coagulava sentimenti di identificazione e di appartenenza, oltre a stabilire le leggi primordiali che regolavano la convivenza del gruppo. Nelle culture cosiddette “primitive”, culture senza scrittura e senza storia, troviamo infatti tracce di un differente modo di rapportarsi dell’uomo con ciò che lo circonda, ma soprattutto con tutto ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza: se la caccia è necessaria per garantire la sopravvivenza della tribù, del gruppo, il cacciatore non può mangiare l’animale da lui stesso ucciso, ma deve offrirlo, renderlo disponibile per il gruppo sociale 4; ed egli si nutrirà dell’animale ucciso da altri. Allo stesso modo, gli indiani del Nordamerica cacciavano solo i bisonti necessari alla tribù per superare l’inverno, lasciando gli altri liberi di correre per le praterie; solo l’arrivo dell’uomo bianco e del suo sistema di valori – l’accumulo, la vendita, lo scambio – porterà alla decimazione quasi completa di questi animali. In altre tribù, il cacciatore “ringrazia” l’animale per essersi voluto sacrificare per lui. Si tratta di un sistema simbolico di rapporti col mondo animale che presuppone un divieto originario di uccidere, un tabù: se si uccide, ci deve essere una giustificazione. In sistemi culturali più complessi gli animali sono stati considerati a lungo come rappresentazioni delle divinità – vedi la zoolatria egizia, che ha origine nel mondo agricolo-pastorale della preistoria, in cui la vacca (Hathor), il cui latte era indispensabile per la vita umana, divenne madre del genere umano, mentre il toro e l’ariete simboleggiavano la forza della virilità; e poi il gatto e il cane, primi fra gli animali non produttivi ad essere addomesticati, hanno dato il loro volto alle principali divinità egizie (Bastet, Anubi). Per non parlare delle innumerevoli bestie di cui Zeus prende la forma per le sue con2
Libro dei Giubilei, III, 28. Cfr. F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico degli animali, Milano, Luni, 2001, p. 20. 3 Cfr. U. GALIMBERTI, La terra senza il male, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 27. 4 P. CLASTRES, La società contro lo Stato, cit. in U. GALIMBERTI, La terra senza il male, cit., p. 77.
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quiste, il serpente per i Maya, il toro per i Greci – il mito del Minotauro a Creta, l’isola di Delo piena di sculture che rappresentano il toro, ma anche l’agnello per i cristiani, la vacca sacra per gli Indiani, etc. Gli animali, reali e fantastici, hanno dunque, sin dalle origini, popolato la fantasia degli umani, ponendosi a volte come muti rappresentanti degli dèi sulla terra, a volte come specchio di caratteristiche prettamente umane, a volte come semplici compagni di viaggio. Tutta la storia della letteratura è costellata della loro presenza. Sostiene il paleontologo Stephen Jay Gould che gli uomini sono animali narratori di storie: storie i cui protagonisti sono molto spesso animali. Nella storia della letteratura infatti, forse più che in qualunque altra manifestazione dello spirito umano, si può comprendere quanto profondamente sia avvertito dall’uomo il legame coi suoi fratelli animali. Questo legame è declinato in innumerevoli forme, tutte quelle che la fantasia letteraria è riuscita ad elaborare. LA METAMORFOSI In biologia la metamorfosi è il fenomeno che vede molti animali soggetti ad una serie di mutamenti di forma e di struttura prima di giungere al completo sviluppo. È forse in questa evidenza biologica – mutuata dalle religioni antiche nei propri riti, nei culti e nelle pratiche – l’origine di tanti miti in cui uomo ed animale si confondono spesso in continue metamorfosi. Questa confusione esprime bene il sentimento di appartenere ad un unico piano dell’esistenza, che è quello di tutte le specie sul corpo della madre terra, a partire da Proteo, il dio di cui parla Omero nell’Odissea e che assume varie forme animali e vegetali (“prima diventò un leone dalla folta barba, poi drago, pantera, grosso cinghiale. Diventava fluida acqua e albero dalle alte foglie”), fino a Teti, che per sottrarsi all’amplesso di Peleo si trasforma successivamente in fuoco, acqua, pantera, leone, serpente, albero e infine seppia (forma nella quale Peleo infine la possiede). In questa fase il senso di identità dell’uomo si confronta ancora con la meraviglia di fronte alla grande complessità della natura. «L’Antichità greco-romana possiede due volti: da una parte, un mondo di dei ed uomini dove tutto è eroico e nobile (…) dall’altra un mondo di esseri fantastici dalle origini complesse, spesso venuti da molto lontano, e che presentano mescolanze di corpi e nature eterogenee. Eppure si tratta della medesima visione di un’epopea fatta di elementi e aspetti molteplici, che costituiscono un universo completo ed unico» 5. Le Metamorfosi di Ovidio, considerate, per la grande ricchezza delle storie narrate, una specie di 5
J. BALTRUŠAITIS, Il Medioevo fantastico, Milano, Adelphi, 1993, p. 44.
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enciclopedia del mito antico, raccontano di questo complesso rapporto fra l’uomo e la divinità, fra l’uomo e la natura 6. Ritroviamo ancora la metamorfosi nel genere della fiaba e della tradizione popolare. Celebre ad esempio La sirenetta di Hans Christian Andersen, in cui la trasformazione del corpo è assimilata alla rinuncia alle proprie origini, e diviene una coscienza dolorosa della perdita di sé, ma da ricordare anche i topolini trasformati in cocchieri dalla fata buona, nella fiaba di Cenerentola. Nelle leggende medievali del ciclo arturiano, è la fata Morgana a possedere il potere di trasformarsi – potere che ha rubato a Merlino – mentre nella moderna storia di Harry Potter, che è un po’ il compendio di tutti i temi del genere fantastico, la magia ha una sua propria scuola, e la metamorfosi è una delle materie di studio, chiamata trasfigurazione. Nella letteratura popolare la più conosciuta e terrificante delle metamorfosi è quella che vede l’uomo trasformarsi in lupo mannaro, feroce essere incapace di riconoscere persino i propri cari. Ma abbiamo anche metamorfosi meno inquietanti, all’apparenza, come quella del burattino Pinocchio che viene mutato in asino a causa della sua inclinazione ad una vita dissipata, in un’epoca in cui la coscienza del lavoro e del dovere era profondamente radicata nella società. La più allucinante metamorfosi della storia della letteratura è invece quella di Gregor Samsa in La metamorfosi di Franz Kafka: l’uomo, trasformatosi in un enorme insetto repellente, viene lentamente abbandonato al proprio destino dai suoi stessi familiari. La metamorfosi in letteratura ha sempre una valenza negativa, angosciosa: la perdita della forma originariamente legata all’io, dunque una scissione all’interno dell’unità originaria dell’individuo. GLI ANIMALI COME SPECCHIO DI VIZI E VIRTÙ UMANE Dalla metamorfosi, in cui uomo ed animale sono semplicemente forme diverse assunte dalla stessa materia, si passa, nelle favole di Esopo, ad una rappresentazione degli animali che sono presi a modello dei vizi e delle virtù umane. Si tratta di un corpus di 358 fiabe, scritte dallo scrittore greco nel VI secolo a. C., costituite probabil6
Il volume di MARIA TIBALDI CHIESA, La leggenda aurea degli dei e degli eroi, illustrata da Mario Zampini (e pubblicata a Torino dalla Utet nel 1947 per la mitica collana La Scala d’oro) è una rielaborazione per ragazzi dei principali miti raccontati da Ovidio: le api ed una capretta nutrono il neonato Giove che la madre Rea ha messo in salvo dal padre Crono; la fanciulla Aracne, tessitrice più abile di Atena, viene da quest’ultima trasformata in ragno; il Minotauro, uomo con la testa di toro, vive recluso in un labirinto finché non sarà ucciso da Teseo.
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mente da un nucleo primario di favole a cui nel corso dei secoli se ne sono aggiunte altre di varia origine. Le favole di Esopo sono archetipiche: rappresentano cioè l’archetipo di tutti quei racconti che vanno sotto la definizione corrente di “favola” (definizione basata principalmente sulla favola esopica), e che avrà illustri seguaci in Fedro, e poi in Lafontaine. Sono componimenti brevi, dei lampi di narrazione i cui protagonisti sono animali personificati, o uomini indicati attraverso la loro attività – il vasaio, il calzolaio – ed hanno lo scopo dichiarato di comunicare una morale: «Se Omero è il poeta degli eroi, dei nomi propri, (…) in Esopo solo gli dei hanno un nome: anonimi gli uomini; per il resto, di volta in volta si adopera la volpe, il lupo, il leone come se fossero personaggi singolari: in realtà, non ci sono personaggi ma unicamente ruoli» 7, i ruoli di rappresentare sentimenti umani – ingordigia, avarizia, furbizia, generosità, sentimenti minuscoli, come minuscolo, sintetico è il mondo di Esopo. Nella favola di Cappuccetto Rosso il lupo cattivo, uno dei personaggi ricorrenti della narrativa popolare, personifica la cattiveria, l’inganno, ma anche la stupidità che porta alla sua sconfitta finale. Questo animale appare soprattutto nei racconti che hanno scopo di ammonimento, come rappresentazione simbolica del male e del pericolo, da cui bisogna guardarsi. L’origine dell’attribuzione al lupo di questo carattere malefico si deve cercare nell’antico mondo contadino, in cui l’animale rappresentava un reale pericolo per la vita delle persone e degli animali domestici ed era costantemente cacciato. Ad un livello più profondo rappresenta molto probabilmente le forze oscure ed ingannevoli che spesso governano la volontà individuale. L’episodio della vita di san Francesco, in cui il Santo ammansisce il feroce lupo che terrorizzava la città di Gubbio, e che si conclude con un patto di pace fra il lupo e la città per cui il lupo rinuncia ad attaccare i cittadini i quali, da parte loro, si impegnano a nutrirlo ogni giorno, diventa una dichiarazione di innocenza, un’assoluzione del lupo costretto ad uccidere solo per sopravvivere. GLI ANIMALI NELLE FIABE DI MAGIA Le fiabe provengono tutte dalla letteratura orale, gli antichi “conti” della tradizione popolare raccolti e rielaborati dai vari Grimm, Andersen, Perrault e, in Italia, da Giambattista Basile. Nel loro mondo fantastico, pervaso di antichi terrori e di mistero, gli animali sono a metà tra i due mondi – quello umano e quello fantastico, e, a volte, mediano tra realtà e magia. In questo spazio in cui animalità e magia si incontrano, gli animali ricoprono spesso ruoli fondamentali: sono a volte i consiglieri dell’uomo, o del 7
G. MANGANELLI, intr. a ESOPO, Le favole, Milano, Bur, 2007, p. 7.
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ragazzo, come nel caso del Gatto con gli Stivali di Perrault (che ritroviamo nel racconto Gagliuso di Giambattista Basile), il quale aiuta un ragazzo considerato un po’ sciocco a diventare un potente signore. Le indicazioni sono date sotto forma di enigmi da sciogliere, o come preziosi amuleti che al momento opportuno rivelano il proprio potere, come nel caso dei Tre Re Animali di Giambattista Basile, in cui tre principi, trasformati in delfino, cerco e falco da una fata, comprendono il linguaggio degli animali che diventano loro alleati. In questo caso, la fiaba riporta allo stato delle cose del “c’era una volta”, la mitica era nella quale animali ed umani condividevano la stessa dimensione del sapere: quell’Eden in cui gli animali erano dotati di parola. GLI ANIMALI COME SIMBOLO Nel mondo medievale è stata molto forte la rappresentazione simbolica degli animali, mutuata dal mondo greco e latino e innestata col cristianesimo, in quella continuità di modelli che è carattere peculiare della cultura occidentale. Nel medioevo il mondo stesso è un simbolo, in ogni realtà si nasconde un mistero che sta all’uomo scoprire, ma ogni mistero, ogni indagine deve essere affrontata in una prospettiva religiosa. È questo il caso dei Bestiari medievali, un genere letterario didascalico che pretendeva possedere una forte valenza scientifica, anche se oggi sappiamo bene che nel medioevo le verità scientifiche derivavano raramente dall’osservazione empirica, ma provenivano da antichi testi e venivano filtrate attraverso i dogmi della religione e della fede. Sant’Agostino, nel De Doctrina christiana, sancisce in modo sistematico la subordinazione delle scienze naturali alla teologia: «Le considerazioni che riguardano la simbologia degli animali si inquadrano in una teoria generale dei segni, i cui principi sono enunciati nei capitoli iniziali del II libro» 8. Secondo questa teoria, ad esempio, i signa traslata sono quelli che comportano una stratificazione di dati semantici. A questo proposito Agostino riporta l’esempio del bue: con questo nome si definisce sia l’animale che la famosa citazione della Scrittura. Con sant’Agostino, dunque, il mondo e gli animali diventano una selva di simboli, di rinvii, una strada verso le verità rivelate. Questa concezione si manterrà per tutto il medioevo, perdurando sino al XVI secolo e scivolando poi nelle rappresentazioni degli animali nelle imprese, nelle marche, nelle insegne araldiche. Nel nostro caso i simboli delle marche tipografiche, che fanno parte dell’apparato para-testuale, sono un esempio lampante della persistenza di queste stratificazioni di significato. La loro provenien8
Ibid., p. 31.
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za è la stessa che per la glittica: l’importanza della moneta è decisiva nella trasmissione di certi temi. Ma un esempio ancora più pregnante è il Trattato delle Imprese di Giulio Cesare Capaccio, il cui terzo volume, dal titolo “… Ove nel figurar degli emblemi e nella proprietà di piante ed animali di molte imprese si fa menzione” è interamente dedicato alla simbologia delle piante e soprattutto degli animali e del loro uso negli stemmi, nelle marche e negli emblemi. GLI ANIMALI FANTASTICI Sirene, satiri, draghi, centauri, unicorni, fenici, basilischi, cavalli alati, grifoni e minotauri sono solo una parte del fantastico mondo animale creato dalla fantasia degli umani. Gli antichi, soprattutto gli egizi, i greci e i babilonesi, hanno creato immortali figure di animali inesistenti, che popolano ancor oggi miti e leggende. L’animale fantastico, tale sia per un’anomalia della natura, sia perché generato da un evento straordinario, incarnava sempre qualità mistiche o divine, e rappresentava l’epifania del divino nella dimensione umana. Uno di questi è Pegaso, il cavallo alato uscito dal corpo della Gorgone Medusa, che dà origine col suo zoccolo ad una sorgente ispiratrice delle Muse. Omero narra di come, cavalcando Pegaso, l’eroe Bellerofonte abbia vinto ed ucciso un pauroso mostro anch’esso alato, la Chimera, il cui corpo è fatto di parti del leone, della capra e del drago. La Sfinge che sfida gli uomini sul piano dell’intelligenza è un altro esempio, insieme alle sirene che affascinano Ulisse col loro canto inimitabile, che tocca le corde più profonde del cuore umano. Gli animali fantastici transitano dal mondo classico a quello medievale, come testimoniano il Liber monstrorum di Adelmo di Mamesbury (640-709) cui hanno attinto poi «quasi tutti gli enciclopedisti e gli scrittori di cose naturali» 9 dei secoli successivi, ma anche la Divina Commedia di Dante, pullulante di animali, fantastici e non. E non dimentichiamo l’Ippogrifo, la cavalcatura del mago Atlante, descritta dall’Ariosto nell’Orlando Furioso: domato da Bradamante e usato da Ruggero, lo cavalca Astolfo fino alla Luna per recuperare il senno perduto di Orlando. La classificazione meticolosa e precisa di tutte le creature fantastiche che l’immaginazione umana è riuscita ad elaborare è un modo, probabilmente, di “addomesticare” i mostri, di internarli tra le pareti del libro per renderli innocui e non più terrificanti. I Bestiari fantastici restano comunque una passione degli scrittori anche contemporanei, come dimostrano il Bestiario di Julio Cortazar e il Manual de zoologia fantastica compilato da Borges nel 1957. 9
F. ZAMBON, L’alfabeto simbolico degli animali, cit., p. 81.
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GLI ANIMALI NELLE RAPPRESENTAZIONI SCIENTIFICHE DEL ’700 Solo nel ’600 e nel ’700, col diffondersi di una nuova cultura scientifica, nasce una ricerca basata sull’osservazione della natura, così come predicato da Bacone e Galileo. Le scienze naturali risentirono fortemente di questa nuova tendenza: l’enciclopedismo dei naturalisti del secolo XVIII è il tentativo di estendere e sistematizzare le conoscenze il più precisamente possibile. Fortissima è la necessità di generalizzare, di trovare nuove leggi e teorie. In questo sistema di ricerca, nella strada indicata da Linneo, si pone l’opera Abrégé d’histoire naturelle des quadrupedes vivipares et des oiseaux, compilato da François Holandre, naturalista francese di cui non si hanno molte notizie biografiche, intorno alla fine del ’700. GLI ANIMALI DEI SANTI Nelle vite dei santi si trova spesso il santo in compagnia di un animale, che diventa un po’ il suo simbolo: Gesù stesso, rappresentato come il buon Pastore, con l’agnello in spalla, san Rocco e il cane, sant’Antonio abate e il porcellino, san Girolamo e il leone, san Francesco e il lupo (ma il Santo parlava a tutti gli animali, che lo capivano), sant’Agnese e l’agnellino, sant’Ambrogio e le api, san Colmano (ma anche san Gallo) ed il suo gallo, san Gerardo e i muli. «Quello che tratta della relazione santo e animale è certamente un “genere” letterario utile per parlare del monaco o del santo che vive in armonia con l’intera creazione, così come profetizzato da Isaia: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno assieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi”. L’intensità di queste immagini ci ricorda che la comunione perfetta tra l’uomo e il creato o almeno la nostalgia dei tempi paradisiaci, è un tratto essenziale della santità» 10. GLI ANIMALI NELLA LETTERATURA DELL’OTTOCENTO E DEL NOVECENTO Nel solco di questa tradizione letteraria si può leggere anche il rapporto uomoanimale così come si colloca nella letteratura contemporanea: in realtà l’uomo non ha mai smesso di usare l’animale come metafora della propria condizione umana. La solitudine del combattimento di Achab contro la balena nel Moby Dick di Melville e 10
I.F. SCARSATO, in «Il Messaggero di Sant’Antonio», luglio-agosto 2007.
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l’inseguimento, altrettanto solitario, del marlin da parte di Santiago ne Il Vecchio e il mare, possono paragonarsi alla lotta per la sopravvivenza che si combatte nelle foreste del Nord America in cui l’uomo ha solo il cane come compagno. La wilderness in cui sono calati i protagonisti dei romanzi di Jack London in Zanna Bianca e in Il richiamo della foresta è il ritorno ad un mondo primordiale, istintivo e lontano dall’assordante rumore della civiltà, in cui l’uomo e l’animale combattono fianco a fianco la propria lotta per la vita. Altri animali popolano il mondo della letteratura contemporanea, ed è difficile anche farne un semplice elenco. Ricordiamo il cane protagonista de L’uomo e il cane di Carlo Cassola, incapace di sfuggire alla sua condizione di schiavo della casa e del padrone, Cane e padrone di Thomas Mann, che descrive il bellissimo rapporto tra un uomo e il suo cane; i gatti misteriosi di Baudelaire, gli animali che popolano il mondo contadino del confinato Carlo Levi, ma anche il cane Pallino del racconto di Bulgakov Cuore di cane, povero animale cui vengono trapiantati organi umani che lo trasformano in un’oscena parodia dell’uomo. Un recentissimo romanzo per ragazzi, Ecorchés vifs di Andro Caniart, pone in maniera drammatica il problema degli abusi crudeli cui la nostra società sottopone gli animali. Quattro bambini affidati ai genitori adottivi si ritrovano nell’inferno di un’orrenda fabbrica di pellicce, dove gli animali sono tenuti in gabbia, spellati vivi, trasformati in cose 11. Il rapporto dell’uomo con gli animali si declina anche nella forma di un rispetto profondo verso le altre specie, come nei racconti del romanziere russo Tolstoj che, soprattutto ne Il primo giardino, esprime il suo amore non solo per l’umanità, ma per tutte le forme di vita sensibile esistenti sulla terra, come ne L’eterna Treblinka fa Isaac B. Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978. In ogni caso la letteratura pone sempre gli animali al confine con un mondo altro, da cui l’uomo ha preso le distanze, muti testimoni di una diversa possibilità dell’esistenza. Maria Teresa Schiavino
Catalogo GLI ANIMALI COME SPECCHIO DEI VIZI E DELLE VIRTÙ UMANE PHAEDRUS, Le ffavole de Fedro liberto d’Augusto sportate ‘n ottava rimma napoletana da Carlo Mormile. Co le Nnote, che rechiarano lo senso; e scommogliano la radeca de le pparole, e de l’additte 11
A. CANIART, Ecorchés vifs, St. Maur-des-Fossés, Jet d’encre, 2009.
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Napoletane, fatte da lo mmedesemo Autore. Parte primma. - Napole, chist’Anno 1784. - v. 8° (21 cm). AS SA, Fondo Bilotti, Antiq. GLI ANIMALI COME SIMBOLO CAPACCIO, GIULIO CESARE, Del trattato delle imprese di Giulio Cesare Capaccio, libro primoterzo. In Napoli, ex officina Horatij Salviani, appresso Giovanni Iacomo Carlino, & Antonio Pace, 1592. AS SA, Fondo Bilotti I tre volumi sono rilegati insieme. Il terzo volume, dal titolo “…Ove nel figurar degli emblemi e nella proprietà di piante ed animali di molte imprese si fa menzione”, è interamente dedicato alla simbologia delle piante e soprattutto degli animali e del loro uso negli stemmi, nelle marche e negli emblemi. Quest’opera testimonia dell’importanza che la simbologia animale aveva nell’ambito della cultura del Cinquecento. Giulio Cesare Capaccio nacque a Campagna d’Eboli (Salerno) nel 1552 e morì a Napoli nel 1634. Ricevette una formazione filosofica presso i Domenicani, a Campagna, nello stesso convento in cui visse Giordano Bruno. Studiò il diritto a Napoli e Bologna. Fu autore della Historia neapolitana (Napoli, 1607) e scrisse un trattato di epistolografia, Il Segretario (Roma, 1589). Curò una sorta di rifacimento della fortunata opera di Alciato Emblemata nel trattato Il Principe (Venezia, 1620), di argomento politico. L’ultima opera, Il forastiero (Napoli, 1630), teorizza lo stato clericale.
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GLI ANIMALI NELLA RAPPRESENTAZIONE SCIENTIFICA SETTECENTESCA HOLANDRE, FRANÇOIS, Abrégé d’histoire naturelle des quadrupedes vivipares et des oiseaux. Par M. Holandre, Docteur en Medecine, Directeur du Cabinet d’Histoire Naturelle de S. A. S. Monseigneur le Prince Palatin, Duc regnant de Deux-Ponts, Correspondant de la Societé Royale de Medecine de Paris, Membre Honoraire de la Societé des Antiquites de Cassel. Tome premier[-quatrieme]. - [Paris?] Aux Deux-ponts,chez Sanson & Compagnie, 1790. - 4 v. + 2 di tav. : ill. ; 8°. AS SA, Fondo Bilotti, Antiq. A 4 6 a/f Il Settecento, il secolo dei Lumi, vede nascere insieme ad una mentalità più spiccatamente scientifica anche la necessità di classificare la conoscenza, in tutti i campi, soprattutto quello naturalistico. Il nome più noto è quello di Linneo, che nel suo Systema Naturae del 1758 classificò oltre 4000 animali, utilizzando una “classificazione artificiale” degli organismi, basata su caratteri esterni ed evidenti, come, per esempio, la disposizione dei denti nei mammiferi, il tipo di becco e zampe negli uccelli, o la posizione delle pinne nei pesci: così si raggruppavano insieme organismi che avevano almeno un carattere comune, facilmente riscontrabile, pur differendo tra loro per altri particolari. Questo metodo, o sistema, era inoltre più conveniente e rapido per l’identificazione di vegetali e di animali.
GLI ANIMALI NELLA LETTERATURA DELL’OTTOCENTO E DEL NOVECENTO DAL “FONDO LIBRERIA CARRANO” MARIA TIBALDI CHIESA, La leggenda aurea degli dei e degli eroi, illustrata da Mario Zampini. Torino, Utet, 1947 AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi, La Scala d’Oro 0018. Una rielaborazione degli antichi miti greci, in cui uomini, dèi ed animali vivono su un unico piano dell’esistenza: le api ed una capretta nutrono il neonato Giove che la madre Rea ha messo in salvo dal padre Crono; la fanciulla Aracne, tessitrice più abile di Atena, viene da quest’ultima trasformata in ragno; il Minotauro, uomo con la testa di toro, vive recluso in un labirinto finché non sarà ucciso da Teseo.
BASILE, GIAMBATTISTA, Fiabe da “Lo Cunto de li Cunti”, a cura di Ignazio Drago, con illustrazioni e tavole di Roberto Faorzi, Firenze, Marzocco, 1956. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi 0525. CARLO COLLODI, Le avventure di Pinocchio, con illustrazioni a colori di Roberto Sgrilli e in bianco e nero di Alberto Bianchi. Milano, Bietti, 1943. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi 0478. In Pinocchio due sono gli animali protagonisti: il grillo ed il ciuchino (sarebbero tre, ma in realtà la balena che ingoia e salva Geppetto non ha più nulla della tragica dimensione di Moby Dick). Il grillo è il lato buono, la coscienza inascoltata; il ciuchino è la storditaggine dell’infanzia, l’incapacità di mettere freni, il desiderio di fuga. Tra di loro Pinocchio è tirato da una parte e dall’altra, sempre in bilico tra due opposte tensioni. Il Gatto e la Volpe, invece, sono due figuranti che rappresentano il male del mondo, cui soccombono gli ingenui e i faciloni.
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OSTILIO LUCARINI, Somaròpoli, Roma, Casa Editrice Mediterranea, 1950. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi 0632. LONDON, JACK, Zanna Bianca, illustrato da L. Buffolente, Milano, il Carroccio, s.d. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi 0001.3 Zanna Bianca e Il richiamo della foresta, dello scrittore americano Jack London, raccontano del gelido Nord americano dove la relazione più intensa non è tra uomo ed uomo, ma tra uomo ed animale, soprattutto il lupo da slitta.
WOLF, PETER GRAY, Il Fanciullo che viveva con gli orsi grigi, illustrato da A.M. Bozzola. Torino, Lattes, 1946. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi, 0247. MELVILLE, HERMAN, Moby Dick, illustrato da Roberto Lemmi, Firenze, Bemporad Marzocco, 1957. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi 0051. Moby Dick o la balena bianca, dello scrittore americano Herman Melville, è un grande romanzo ambientato sull’oceano. Scritto originariamente per un pubblico adulto, ha goduto di una grande fama ed ha avuto innumerevoli riduzioni per ragazzi. In questo romanzo la mitica balena rappresenta la forza della natura selvaggia e incontrollabile contro cui nulla può l’ostinazione del cacciatore di balene. La sfida tra l’uomo e l’animale, la finale follia del capitano Achab, lo sfondo assoluto dell’oceano fanno di quest’opera un classico della letteratura. La balena era considerata da Hildegarde von Bingen come la più potente bestia creata da Dio.
GRAZIANO CAMILLUCCI, EUGENIA, Quando Dio creò gli animali, Torino, Paravia, 1949. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi, 0591. ANGUISSOLA, GIANNA, Gli animali al principio del mondo, illustrato dall’autrice. Milano, Garzanti, 1939. AS SA, Fondo Libreria Carrano, Ragazzi, 0771. IL FONDO LIBRERIA CARRANO La Libreria Carrano è nata negli anni ’20 nel cuore dell’antico centro commerciale di Salerno, in via Giovanni da Procida, per iniziativa di Giuseppe Carrano, ed ha accompagnato per oltre sessant’anni la vita culturale della città. È stata per lunghi anni un vitale centro di aggregazione culturale e l’attività di vendita era talvolta affiancata anche da piccole iniziative editoriali. Nel 1930 la libreria si trasferì in via Mercanti, seguendo lo spostamento del centro di gravitazione del commercio cittadino. Negli anni del fascismo fu un punto d’incontro degli intellettuali de-
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mocratici salernitani. Alla morte di Giuseppe Carrano, nel 1948, l’attività fu continuata dal figlio Umberto, cui si deve l’impostazione “internazionalista” che ha attirato presso la libreria studenti, studiosi ed intellettuali nel corso di alcuni importanti decenni. Nel processo di sorprendente crescita demografica, economica e culturale che investe Salerno negli anni ’60 – accelerato ancor di più dall’ampliarsi dell’insegnamento universitario che dall’Istituto di Magistero si apriva ad altri corsi di laurea sia umanistici che scientifici – la domanda culturale aumenta in maniera esponenziale. La libreria Carrano si trova al centro di questo fermento, divenendo in breve luogo non istituzionale di confronto e di discussione, libreria preferita da un pubblico di lettori costante ed altamente qualificato, al quale essa offriva servizi di informazione bibliografica, aggiornamento continuo delle novità della produzione editoriale italiana, un ricco assortimento delle più importanti riviste, italiane e straniere, specializzate nei diversi settori culturali, e, soprattutto, uno spazio libero di incontro, cosa di cui le giovani generazioni erano affamate. Quando, negli anni Ottanta del Novecento, avviene la trasformazione completa del mercato editoriale, la libreria Carrano viene sopraffatta, come tante altre piccole librerie, dal nascere dei grandi supermercati di libri, che offrono un vasto assortimento, ma quasi nessun rapporto con la classica figura del libraio. Chiusa nel 1986, nel 2000 Umberto Carrano ne ha donato tutte le giacenze di magazzino all’Archivio di Stato di Salerno, con la sola richiesta di mantenere l’integrità del fondo e di renderlo disponibile all’utenza cittadina. I volumi – che nel loro insieme costituiscono un pezzo di storia della città – riguardano soprattutto la storia del mondo contemporaneo nella produzione editoriale degli anni ’60-80, ma vi si trovano anche letteratura, poesia, sociologia, economia, diritto ed un piccolo fondo di libri per ragazzi, che costituisce una sorta di “archivio” della letteratura per gli anni verdi, in cui sono presenti veri e propri classici del genere, illustrati dalle matite di famosi disegnatori. Umberto Carrano, morto nel 2004, possedeva anche una grande sensibilità animalista, come dimostra le lettera che qui riportiamo, in cui un cane randagio lo ringrazia per avergli trovato una famiglia. Maria Teresa Schiavino LETTERA DI UN CANE AL SUO AMICO LIBRAIO Caro Umberto, ho sentito il bisogno di salutarti anch’io. Tra tante persone importanti mi sento un po’ a disagio, ma questa mia breve lettera dirà di te più di tutti i discorsi che hanno fatto e che faranno. Parlerò di te che amavi le piante, i libri, gli animali, il mare, le sfide.
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Era il 13 maggio del 1995: alla libreria Guida era ospite Dacia Maraini ed io, che sono un cane colto, mi sono accucciato ai piedi della scrittrice e ho dormito mentre lei parlava con il pubblico. I continui applausi hanno disturbato il mio sonnellino e allora ho gironzolato un po’ tra i libri e così ti ho visto. Mi sono avvicinato, ti ho odorato e tu mi hai fatto una carezza spettinandomi le orecchie, poi mi hai tolto il collare troppo piccolo che mi avevano lasciato al collo i tizi che mi avevano abbandonato e mi hai detto che ero bello. E io gonfiavo il pelo, perché speravo che mi portassi a casa tua, invece mi hai presentato dei tipi che a te piacevano e dicevi loro che ero proprio un bel cane e li hai incoraggiati ad affrontare la mia adozione. Ricordo che avete chiuso le porte della libreria mentre io ero un po’ timoroso e quasi quasi avevo pensato di tornare ai giardinetti. Avevo già fatto qualche passo quando tu mi hai chiamato: DICK, VIENI! Io sono salito nella macchina di quei tuoi amici e siamo andati a casa tua, dove mi hai regalato una coperta rossa e una branda del tuo vecchio Napoleone (povero cane, che razza di nome gli avevi dato!) e mi hai affidato a quei tipi, che ormai da dieci anni sono i miei padroni. Qualche volta ti penso: ti devo la vita e il nome. Quando i miei padroni, con le lacrime agli occhi, mi hanno spiegato che tu eri in cielo, ho abbaiato alle stelle per chiamarti, ma tu non mi hai sentito! Volevo solo dirti grazie per quelle coccole che mi hai fatto e per quei tipi che mi hai presentato, sai quelli che pensano di essere i miei padroni, mentre invece il padrone sono io! Hanno imparato qualcosa, ma devono farne di strada per diventare come te! Grazie per esserci stato!!!!!!!!!!! Il tuo amico Dick (Lettera scritta da Rosario Casolaro, direttore della Libreria Guida di Salerno, a nome del suo cane Dick in occasione della giornata commemorativa per la morte di Umberto Carrano)
GLI ANIMALI NELLA STAMPA Il bel micio in «Scena Illustrata», anno XXXVIII, Firenze, 15 aprile 1902 CSE ERMINIA VESCOVI, Robinson Miagolé in «Cordelia», rivista settimanale per le signorine, anno XXIII, n. 2, gennaio 1914 AS SA, Biblioteca GIACINTO MARTORELLI, Il colombo viaggiatore in «Touring Club Italiano», rivista mensile, anno XXI, n.1 gennaio 1915 CSE
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La caccia e il sentimento in «Scena Illustrata», anno LIII, Firenze, 1-15 aprile 1917 CSE Gattologia in «Scena Illustrata», anno LIII, Firenze, 1-15 gennaio 1917 CSE
Commensale impaziente, illustrazione di un cagnolino con la sua padroncina in «Scena Illustrata», anno LVI, Firenze, 1-15 maggio 1920 CSE PRIMO SCARDOVI, Bombolina, storia di una gattina. in «Scena Illustrata», anno LXI, Firenze, 1-15 febbraio 1925 CSE VINCENZO BRUNO, Cagnette e micini In «Scena Illustrata», anno LXIII, Firenze, 1-15 aprile 1926 CSE
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IL CENTRO STUDI “SIMONE AUGELLUZZI” DI EBOLI Le prime notizie sulla fondazione del Centro Studi “Simone Augelluzzi” risalgono al 1926, anno in cui fu costituita l’omonima biblioteca, donata successivamente al comune di Eboli. Fino alla sua legale costituzione, avvenuta nel 1997, esso era parte integrante della biblioteca, alla quale dava supporto logistico nella catalogazione dei volumi. Lo scopo del Centro è la salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali della provincia di Salerno, partecipando con enti pubblici ed associazioni private alla realizzazione di eventi culturali. Dalla sua costituzione il Centro ha realizzato una serie di mostre e dibattiti su vari argomenti e molto spesso ha collaborato con l’Archivio di Stato di Salerno. Tra le manifestazioni promosse si ricordano: una mostra e un convegno dal titolo 1897-1997: Un secolo di luce, organizzati nel 1997, in occasione del centenario dell’illuminazione elettrica di Eboli, con la collaborazione dell’ENEL di Napoli e del centro regionale dell’ENEA; una mostra documentaria e un convegno dal titolo Castrum Sacci Veteris, tenutisi nel comune di Sacco nel 1997; una mostra dal titolo Il brigantaggio postunitario in provincia di Salerno, allestita nel 2000 a Teggiano, poi diventata itinerante; la mostra documentaria su Il ruolo della Chiesa salernitana durante l’alluvione del 1954, realizzata nel 2004 in collaborazione con l’Archivio Diocesano di Salerno; nel 2007 ha partecipato alla mostra, allestita dall’Archivio di Stato di Salerno in occasione del bicentenario della nascita di Garibaldi; nel 2008 è stato promotore della mostra di giornali d’epoca e del convegno sul tema Dalla caduta del fascismo alla Costituzione attraverso la stampa. La realizzazione di tante iniziative è stata resa possibile dalla preziosa emeroteca esistente presso il Centro, costituitasi grazie ad un’opera di sensibilizzazione capillare che ha consentito il recupero di giornali e riviste posseduti da privati. La raccolta dei giornali comprende circa 60 testate, sia nazionali che locali, che vanno dalla fine dell’800 agli anni sessanta del ’900, e, pur non essendo complete, contengono numeri riguardanti i momenti più importanti della storia d’Italia, dalla guerra italo-turca alla prima guerra mondiale, dall’avvento del fascismo allo scoppio del secondo conflitto mondiale, dalla spedizione tragica di Umberto Nobile alla guerra d’Etiopia, dalla caduta del fascismo alla Costituente e alla Costituzione e così via. Il Centro conserva altresì una quarantina di riviste, che per una buona metà sono a colori, di vario genere, ma soprattutto di attualità e di letteratura. Francesco Manzione FERNANDO DENTONI LITTA, O’ cavallo r’a posta in «Il Duca», 15 gennaio 1990 AS SA, Archivio privato Fernando Dentoni Litta
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L’Autore è stato uno dei più attenti custodi della memoria storica di Salerno e di gran parte della sua Provincia. Fin da ragazzo fu un sensibile testimone della sua epoca, cogliendone gli aspetti più intimi, legati alle tradizioni e ai costumi di una società che andava trasformandosi profondamente, segnalandoli puntualmente in una pubblicazione dedicata alle tradizioni popolari salernitane. Nel 1943, in un momento cruciale della nostra storia più recente, si trovò ad operare in un osservatorio privilegiato quale poteva essere la Capitaneria di Porto di Salerno e divenne così testimone diretto delle vicende legate allo sbarco di Salerno, tenendo un diario che fu pubblicato successivamente alla sua morte. Nel dopoguerra iniziò la sua attività presso il Comune di Salerno, dove ebbe modo di consultare la documentazione conservata traendone spunto per altre due pubblicazioni: Amministratori del Comune di Salerno dal 1799 al 1967 ed uno Stradario con una raccolta sistematica sulla toponomastica cittadina. In seguito ebbe modo di pubblicare vari articoli sul filo della memoria, tra i quali trova posto quello dedicato al cavallo adibito al trasporto della posta. L’attenzione rivolta al servizio postale travalica ovviamente il suo significato reale, spostandosi sul piano di un sentimento popolare che guardava con bonomia, ma anche con realistica valutazione le caratteristiche del cavallo destinato al traino del carretto adibito al trasporto della posta. Il suo incedere faticoso, l’aspetto malandato avevano fatto fiorire una serie di adagi popolari dove tali caratteristiche divenivano motivo di considerazioni su fatti e persone che in qualche modo potevano essere paragonati allo sfortunato animale. Dopo la scomparsa dell’Autore la sua raccolta di documenti, appunti e memorie, oltre ad una ricca collezione fotografica, è stata depositata presso l’Archivio di Stato di Salerno.
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Animali su moneta contante. Dalla raccolta numismatica di Paolo Emilio Bilotti a cura di SIMONA VENTO
PAOLO EMILIO BILOTTI Il prof. Paolo Emilio Bilotti è stato direttore dell’Archivio provinciale dello Stato di Salerno dal 1891, quando giunse dalla natia Villafiorita, in provincia di Cosenza, fino al 1927, anno della sua morte. Egli fu l’organizzatore delle prime strutture dell’Archivio provinciale dello Stato e seguì attivamente le vicende culturali cittadine, partecipando, tra l’altro, alla fondazione della Società salernitana di storia patria. Precursore della moderna storiografia, archeologo e numismatico, promotore di associazioni culturali ed umanitarie, è stato un importante riferimento per molte generazioni di salernitani e di meridionali che hanno conservato vivo, fino ai nostri giorni, il ricordo della sua presenza e dei suoi insegnamenti. Nel corso della sua attività pubblica e privata ebbe modo di raccogliere una ricca documentazione, una notevole raccolta bibliografica e un importante medagliere, composto da circa 11.000 monete antiche e moderne. Si tratta, in massima parte, di monete prodotte e circolanti in Italia meridionale e in Sicilia, la quale cosa ne denuncia la provenienza da area meridionale. Tra le coniazioni più antiche si annoverano monete in argento di fine VI secolo a.C. di Metaponto, tra le più recenti esemplari successivi all’Unità di Italia. In considerazione del particolare rapporto del prof. Bilotti con la città di Salerno, la famiglia, nella persona del fratello Ferdinando, il 15 agosto 1939, stabilì con il prof. Leopoldo Cassese, succeduto alla guida dell’Archivio di Salerno, con l’approvazione del Ministero dell’Interno, da cui allora dipendeva l’Amministrazione archivistica, il deposito dell’intero fondo documentario, bibliografico e numismatico. Renato Dentoni Litta
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NELLO STUDIO DEL NUMISMATICO Per il collezionista Paolo Emilio Bilotti la passione del bibliofilo si fonde con quella del numismatico. Nel suo studio non si trovano solo testi recenti di numismatica, necessari per la conoscenza e la classificazione delle monete, ma anche le opere di famosi numismatici del passato, risalenti agli albori di questa scienza. È solo col Rinascimento che nasce un interesse “scientifico” per le monete, sino a quel momento considerate soltanto all’interno degli studi sull’antichità, e si comincia ad esaminare e a classificare le grandi collezioni. L’opera di Costanzo Landi, letterato ed erudito del XVI secolo, In veterum numismatum Romanorum miscellanea explicationes, ne è una testimonianza. Verso la fine del ’700, con l’abate Eckel e la sua opera Doctrina numorum veterum (pubblicato a Vienna in otto volumi tra il 1798 e il 1799) nasce la numismatica come scienza e metodo. Contemporaneo di Eckhel, il francese Mionnet pubblica tra il 1806 e il 1813, in 7 volumi, la Description de médailles antiques grecques et romaines avec leur degré de rareté et leur estimation. Alcuni di questi autori sono presenti nella collezione di Bilotti, insieme a testi di Rickhe de Josse (sec. XVII), di Johann Heinrich Schulze, del provenzale Dominique Magnan e dell’italiano Francesco Daniele, eruditi studiosi di storia antica, fino a Sambon, (sec. XVIII), al Garrucci, al Riccio, al Diodati (sec. XIX) e a Memmo Cagiati (inizi del ’900), autore di un vero e proprio manuale per i collezionisti di monete. L’importanza che questi studi hanno avuto nella loro epoca e in quelle successive è testimoniata dai luoghi di stampa, spesso molto distanti dalla residenza degli autori – l’opera di Costanzo Landi, italiano, fu stampata a Lyon (Lugduni Batavorum) nel 1560. Anche le innumerevoli traduzioni sono una conferma della diffusione a livello europeo di questi testi. Maria Teresa Schiavino GLI ANIMALI COME IMMAGINE MONETALE Fin dalle più antiche emissioni (fine VII a.C.) sulle monete appaiono figure di animali di ambito terrestre e marino, animali domestici, belve, selvaggina, uccelli di vario genere, oppure animali fantastici collegati al mito. Queste raffigurazioni, spesso realizzate con grande perizia e realismo, sono indice dell’incisivo ruolo simbolico assunto dagli animali nelle varie epoche storiche. Per comprenderne il significato va tenuto presente che le rappresentazioni di ogni genere apposte sulla moneta (quelle che noi chiamiamo tipi e i Greci definivano s»mata = segni per comunicare) sono la garanzia del loro valore e rappresentano la comunità che le ha prodotte. Attraverso queste immagini, ciascuna autorità emittente intendeva rendersi
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manifesta. I contenuti ideologici che sottendono la scelta del tipo (scene di animali o altro) hanno senso soltanto se si tiene conto del contesto culturale di riferimento e se si procede al raffronto con fonti di diversa natura. Renata Cantilena 1. Animali regali: il leone e l’aquila Uno degli animali più rappresentati su moneta è il leone, simbolo del potere regale, presente fin dalle prime serie monetali battute nel regno della Lidia, in Asia Minore. Del leone è raffigurata la testa, l’intero corpo o anche la sola zampa. In posizione araldica, accovacciato, al passo o all’attacco mentre azzanna la preda, è la fiera che in ogni epoca evoca la forza e la possanza. Il leone è emblema di Apollo e, in quanto animale a lui sacro, è l’impronta delle monete di Leontini, colonia greca in Sicilia, su cui una testa di leone, abbinata con la testa del dio, allude al nome stesso della città. Sconfiggere il leone è impresa da eroi o semidei e, non a caso, Ercole che strozza il leone compare piuttosto di frequente sulle monete greche. L’immagine assume diverse sfumature semantiche: da celebrazione di vittorie dei Greci contro il barbaro a paradigma di agoni giovanili. Ancor più del leone, il simbolo della regalità è l’aquila, l’uccello rapace dalla vista acuta che tutto scruta dall’alto e veloce ghermisce la sua preda. In quanto rappresentazione del potere assoluto, la sua immagine connota soprattutto le emissioni monetali di epoca imperiale: da Roma agli Imperi di età moderna. Talvolta, come sulla moneta del Divo Augusto qui esposta, l’aquila ha tra gli artigli il globo terrestre, a rappresentare il controllo dell’imperatore sull’intero ecumene. Spesso l’aquila reca una corona e/o un ramo di palma, segno della vittoria o dell’immortalità. In epoca moderna, in Italia meridionale, il leone e l’aquila sono stati simbolicamente utilizzati soprattutto per esaltare la dinastia dei Borbone. Renata Cantilena 1.1 Siracusa D / SURAKOSIWN. Testa giovanile di Eracle a s. con i capelli cinti da una benda. R / Leone a d. con una zampa anteriore sollevata; sopra, la clava. AE; gr. 8,05; mm. 21-18; conservazione mediocre. Fine IV - inizio III secolo a.C. CNS II, p. 289, 150 (Rs 63)
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1.2 Tiberio D / DIVVS AVGVSTVS PA[T]ER. Testa radiata di Augusto a s.; bordo perlinato. R / Aquila con ali aperte su globo. Ai lati S C. AE. Asse; gr. 10,63; mm. 27; conservazione mediocre. Roma, 34-37 d.C. RIC I, p. 99, 82 1.3 Gallieno D/ AUT K P LIK GALLIENOS SEB. Busto laureato di Gallieno a d. R/ ENATOU a s., L a d. Aquila ad ali chiuse a s., con corona nel becco e ramo di palma; bordo perlinato. Billione; tetradrammo; gr. 9,87; mm. 23-22; conservazione buona. Alessandria d’Egitto, 261-262 d.C. SNG Milano, p. 448, 1726 1.4 Ferdinando IV di Borbone D / FERD Aquila a s.; bordo perlinato. R/ In una corona 2 grani; in esergo 1803 ; bordo perlinato. Rame. Due grani; gr. 5,48; mm. 26-25; conservazione buona. 1803 2. Animali sacri agli dei Nella scelta dell’elemento figurativo in grado di rappresentare la comunità, solitamente, le città greche hanno fatto ricorso alla divinità protettrice o a culti locali e miti di fondazione, evocati – soprattutto nelle fasi iniziali della monetazione – attraverso un animale ad essi collegato (come la tartaruga di Egina, il pegaso di Corinto, il cervo di Efeso). Solo a partire dallo scorcio del VI secolo a.C., si è affermata la consuetudine di riprodurre la vera e propria effige del dio (in genere la testa di profilo o, meno di frequente, a immagine intera) o di numi tutelari locali; sovente ciascuno di essi è raffigurato con l’animale assurto a proprio simbolo. L’aquila rappresenta Zeus e per questo a volte stringe un fulmine tra gli artigli; la civetta, capace di vedere anche al buio, è l’uccello sacro ad Atena, dea della saggezza e
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del discernimento; il pavone allude a Giunone. Sulla moneta di Antonino Pio, qui esposta, i tre uccelli sono raffigurati insieme e rappresentano la triade capitolina: Giove tra Giunone e Minerva. Zeus e l’aquila sono presenti sulle monete di molte città greche, in particolar modo quelle dove il culto del re degli dèi era più radicato, come ad esempio Locri, in Magna Grecia, o Agrigento in Sicilia. Nei regni ellenistici, il sovrano soleva paragonarsi a Zeus; per questo motivo i Tolomei in Egitto hanno scelto di apporre la testa di Zeus e l’aquila sulle proprie abbondanti coniazioni. In quanto simbolo della vittoria, l’aquila (che, come è noto, era utilizzata come insegna militare delle legioni romane) appare riprodotta su monete coniate in circostanze belliche, a Roma e altrove. Ad esempio, durante le guerre tra Roma e Cartagine, un’aquila ad ali spiegate compare sulle emissioni del popolo dei Mamertini, i mercenari di origine campana seguaci di Marte, alleati di Roma, oppure dei Bretti, popolo del Bruzio alleato di Annibale. Uno degli appellativi di Atena è quello di “glaucopide” = dea dallo sguardo di civetta. La civetta (glaÚx in greco) è il tipo monetale caratteristico di Atene, la città della dea Atena, in uso per circa cinque secoli (dal VI al I a.C.). Non a caso le abbondanti coniazioni in argento di Atene, di cui gli Ateniesi andavano fieri, dai Greci venivano comunemente chiamate glaàkej = le civette. Ancora oggi, il pezzo da 1 Euro coniato in Grecia è contrassegnato con una civetta. L’uccello di Atena compare sulle monete di diverse città greche, quasi sempre abbinato con la testa della dea. Il tipo ha trovato ampia diffusione in numerose zecche attive in Magna Grecia dal V al III a.C. Le tre monete qui esposte sono rispettivamente di Velia, Venosa e Teate Apulum. Il pavone è l’uccello sacro a Giunone, sposa di Giove, protettrice del matrimonio e dei figli generati dall’unione. La dea e il suo pavone sono rappresentati, in particolare, sulle serie coniate a nome delle mogli e madri degli imperatori romani del II secolo d.C. Secondo la tradizione, dopo la morte e la divinizzazione delle imperatrici, la loro anima era elevata in cielo sulle ali di un pavone. Talvolta, a celebrare la memoria della Augusta, sulle monete, accanto al pavone con la coda aperta, vi è la scritta CONSACRATIO. Renata Cantilena 2.1 Antonino Pio D / ANTONINVS| AVG PIVS PP TR P. Testa laureata di Antonino Pio a d. ; bordo perlinato. R / COS III. Civetta, aquila e pavone con la coda aperta; in esergo S C; bordo perlinato. AE. Quadrante; gr. 2,44; mm. 17; conservazione mediocre.
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Roma, 140-144 d.C. RIC III, p. 118, 709b 2.2 Tolomeo II, re di Egitto D/ Testa di Zeus Ammone a d.; bordo perlinato. R/ PTOLEMAIOU BASILEWS. Aquila su fulmine con ali aperte a s.; a s. scudo ovale; bordo perlinato. AE; gr. 16,80; mm. 28-27; conservazione mediocre. 285-246 a.C. Mørkholm, p. 105, 305 2.3 Mamertini D / AREOS, a d. Testa laureata di Ares a d.; dietro cuspide di lancia. R / MAMERTINWN. Aquila su fulmine con le ali aperte a s. AE; gr. 15,05; mm. 27-26; conservazione mediocre. 263-241 a.C. CNS I, p. 94, 7/2 2.4 Velia D/ Testa di Eracle con leonté, a d. R/UELH. Civetta a d. con ali chiuse su ramo di olivo. AE; gr. 2,28; mm. 15-14; conservazione mediocre. Fine V sec.- IV a.C. Rutter, p.121, 1321 2.5 Venusia D/ Testa di Atena a s., con elmo corinzio; in alto due globuli (segno di valore). R/ VE, in alto a d. Civetta con ali chiuse su un ramo di olivo; bordo perlinato. AE; gr. 5,75; mm. 20-19; conservazione cattiva. Fine III a.C Rutter, p. 83,722 2.6 Teate Apulum D/ Testa femminile a d. R/ TIATI a s. Civetta a d. su ramo di olivo; in basso cinque globuli (segno di valore). AE; gr. 17,08; mm. 29-28; conservazione cattiva. Ultimo quarto del III a.C. Rutter, p. 81, 702
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2.7 Marco Aurelio (dopo la morte di Faustina II) D / DIVA FA[VS]TINA PIA. Busto drappeggiato di Faustina II a d. R / [C]ONSAC[R]ATIO. Pavone con ali aperte. AR. Denario; gr. 2,68; mm. 21-20; conservazione mediocre. Roma, 176-180 d.C. RIC III, p. 349, 1703
3. Il cavallo, il più nobile degli animali e le mule da traino Il cavallo è l’animale più raffigurato sulla moneta antica e post-antica, a partire dalle serie arcaiche di Atene (metà VI a.C.) fino al XX secolo. Sulla moneta si succedono nel tempo cavalli fermi o al galoppo, imbrigliati o a redini sciolte (in tal caso a simboleggiare la conquista della libertà); cavalli al pascolo; divinità, eroi, guerrieri, imperatori a cavallo in momenti di pace e in momenti di guerra; cavalieri, bighe, trighe e quadrighe al passo o al galoppo, in scene di agoni o di trionfi, o in rappresentazioni di carattere funerario. L’immagine del cavallo è un tema affrontato, in Oriente come in Occidente, da migliaia di incisori di conio che hanno prodotto creazioni artistiche di eccellente qualità o raffigurazioni mediocri e ordinarie. Più rara di quella dei cavalli è la raffigurazione su moneta delle meno nobili mule. In antico, come emblema monetale il cavallo caratterizza soprattutto le emissioni puniche, a Cartagine e negli insediamenti in Sicilia, in Sardegna, nelle penisole italica e iberica. In epoca rinascimentale, gli Aragonesi del regno di Napoli apposero l’iconografia del cavallo (equus) sulla moneta come esemplificazione propagandistica della aequitas, ribadita anche nell’iscrizione. Questa moneta in rame puro, introdotta nel 1472, fu chiamata, appunto, il “cavallo”. Renata Cantilena 3. 1 Siracusa D / ZEUS ELEUQERIOS. Testa laureata di Zeus Eleutherios a s. R / SURAKOSIWN. Cavallo libero al galoppo a s. AE; gr. 20,56; mm. 27; conservazione mediocre.
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344-336 a.C. CNS II, p. 185, 80 3. 2 Zecca punica D / Testa della dea Tanit a s. R / Testa di cavallo a d. AE; gr. 4,33; mm. 18; conservazione mediocre. IV-III sec. a.C. CNS III, p. 394, 21/5 3. 3 Zecca punica D / Testa della dea Tanit a s. R/ Cavallo a d., dietro palma. AE; gr. 2,97; mm. 16-14; conservazione buona. III sec a.C. CNS III, p. 389, 20/14 3. 4 Capua D / Testa laureata di Giove a d.; bordo perlinato. R / KAPU (in osco), in esergo. Diana su biga a d; bordo perlinato. AE; gr. 11,10; mm. 24-23; conservazione cattiva. 215-211 a.C. Rutter, p. 65, 488 3. 5 Roma D / Testa di Apollo a d. R / Giove su quadriga al galoppo a d. AR. Denario; gr. 3,57; mm. 18; conservazione buona. 86 a.C. RRC, p. 366, 350 A2 3. 6 Gaius (in memoria di Agrippina) D / AGRIPPINA MF MAT C CAESARIS AVGVSTI. Busto drappeggiato di Agrippina a d. con capelli raccolti sulla nuca. R / SPQR MEMORIAE AGRIPPINAE. Carro funebre a d. trainato da due mule. Oricalco. Sesterzio; gr. 23,85; mm. 35; conservazione mediocre. Roma, 37-41 d.C. RIC I, p. 112, 55
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3. 7 Nerone D / NERO CLAVD CAESAR AVG GERM PM TR P IMP PP. Testa laureata di Nerone a s.; bordo perlinato. R / DECVRSIO, in esergo. Nerone con lancia in mano d., corazzato e con mantello su cavallo a d., dietro di lui un soldato a cavallo con un vessillo; ai lati S C. Oricalco. Sesterzio; gr. 26,34; mm. 35-34; conservazione mediocre. Roma, 64 d.C. RIC I, p. 162, 164 3. 8 Traiano D / [IMP CAES] NERVAE TRAIANO AVG GER DAC PM TR P CO[S V PP]. Testa laureata di Traiano a d. R / SPQR OPTIMO PRI[N]CIPI. Traiano su cavallo in corsa a d. colpisce con la lancia un nemico Dacio; in esergo S C. AE. Asse; gr. 10,76; mm. 27-26; conservazione mediocre. Roma, 103-111 d.C. RIC II, p. 282, 543 3. 9 Marco Aurelio D / M. AVRELIVS ANTONINVS PIVS AVG IMP P M TR P X[..]. Busto laureato di M. Aurelio a d.; bordo perlinato. R / IMP II COS III P P. L’imperatore su quadriga trionfale al passo verso d.; ai lati S C; bordo perlinato. Oricalco. Sesterzio; gr. 36,00; mm. 35; conservazione buona. Roma, 164-165 d.C. RIC III, p. 284, 908 3. 10 Commodo D / L. AVREL COMMODVS AVG GERMAN […] COS II P P. Busto laureato di Commodo a d.; bordo perlinato. R / COS II P P , in esergo. La Vittoria su quadriga a s.; bordo perlinato. AE. Medaglione; gr. 54, 28; mm. 39-38; conservazione mediocre. Roma, 180 d.C. Gnecchi, p. 55, 37 3. 11 Vittorio Emanuele III D / VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA. Busto di Vittorio Emanuele III a d., in divisa; sotto il collo D. CALANDRA; bordo lineare.
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R / L’Italia in armi, stante su quadriga a s.; in campo, in basso a s., 1914; in esergo L. 2 tra nastri annodati; bordo lineare. AR. 2 Lire; gr. 10,40; mm. 27; conservazione ottima. 1914.
4. Animali in guerra e da combattimento: il toro all’attacco, il bellicoso galletto, il possente elefante Gli animali accompagnano l’uomo in ogni sua attività, in tempo di pace e in tempo di guerra. Sul piano simbolico, non di rado, propositi belligeranti o affermazioni di potenza militare sono resi sulla moneta attraverso la raffigurazione di animali all’attacco. Considerando che nel mondo antico i momenti di grande mobilitazione militare sono quelli in cui si è coniato in quantitativi maggiori per il pagamento e per il mantenimento degli eserciti, non sorprende che molti tipi monetali raffigurino animali aggressivi o animali utilizzati in battaglia, come per esempio gli imponenti elefanti, impiegati in guerra soprattutto dai sovrani dei regni ellenistici succeduti ad Alessandro Magno. Il toro o il vitello sono considerati animali “totemici” delle popolazioni indigene dell’Italia antica. La prima città a coniare in Magna Grecia (circa 540-510 a.C.) è Sibari (colonia achea): sulle sue monete campeggia un vigoroso toro retrospiciente, il cui significato originario non è ancora ben chiaro. Turi, colonia panellenica fondata alla metà del V a.C. nel territorio un tempo di Sibari, sceglie come immagine monetale un toro che in un primo momento è raffigurato al passo, poi, a partire dalla fine del V a.C., in posizione di attacco. Come Turi anche Poseidonia, colonia di Sibari, ha sulle sue monete il toro, dapprima al passo, poi all’attacco. Il toro “cozzante” evoca un impeto travolgente, rivelando l’intento delle comunità emittenti di comunicare vitale energia. Assai eloquente è l’immagine propagandistica del denario coniato dai popoli italici durante la guerra sociale contro Roma (91-88 a.C.): il toro (che rappresenta gli Italici) schiaccia la lupa (emblema di Roma). Talvolta anche gli animali da cortile sono stati utilizzati come immagine monetale; tra questi, il gallo che canta sul fare del giorno. Il galletto è l’™p…shmon, cioè l’emblema monetale, di Imera, colonia greca in Sicilia, il cui nome ha a che fare con il termine greco
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¹mšra = giorno. Il gallo canta al mattino esortando al risveglio e per questa sua caratteristica è diventato sulla moneta il simbolo di incitazione ad atteggiamenti di “all’erta”. Durante la prima guerra punica, sulle serie coniate da Napoli e dalle colonie latine della Campania antica, alleate di Roma, un battagliero galletto invita alla mobilitazione militare. Come si può vedere dall’esemplare qui esposto di Calvi Risorta (l’antica colonia Cales), sul lato opposto di queste stesse monete vi è la testa della dea armata Minerva ad assicurare la sua protezione. La prima volta che i Greci incontrarono elefanti da guerra fu nella battaglia di Alessandro contro i Persiani a Gaugamela (331 a.C.). L’impressione suscitata nell’esercito macedone fu tale che si narra di sacrifici propiziatori compiuti in onore di Phobos (la divinità della Paura). Secondo la tradizione, i Romani conobbero gli elefanti in occasione della guerra contro Pirro quando, terrorizzati alla loro vista, furono sconfitti presso Eraclea in Lucania (280 a.C.). La traversata delle Alpi di Annibale con gli elefanti africani da guerra, tra cui il leggendario e valoroso Surus, deve aver alimentato a suo tempo un’ampia propaganda filo-cartaginese. Le cittadine campane alleate di Annibale hanno riprodotto un elefante sulle proprie monete per esaltare la loro alleanza con Cartagine, in occasione della seconda guerra punica. Cesare, invece, ha utilizzato l’immagine dell’elefante per celebrare le sue imprese in Gallia. In seguito, sulle monete imperiali romane, l’elefante perde il significato di invincibile macchina da guerra e la sua rappresentazione si riferisce piuttosto ai giochi e alle parate da circo svolte, grazie alla munificenza dell’imperatore, mettendo in campo animali esotici e belve. Renata Cantilena
4.1 Turi D / Testa di Atena a d. con elmo attico ornato da ippocampo. R / QOURIWN. Toro cozzante a d.; in alto Nike in volo. AR. Triobolo; gr. 1,24; mm. 12- 11; conservazione cattiva. Seconda metà del IV sec. a.C. Rutter, p. 155, 1919 4.2 Poseidonia D / POSE a s. Posidone in piedi a d. nell’atto di scagliare il tridente.
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R / Toro stante a d.; in alto delfino. AR. Diobolo; gr. 0,22; mm. 9-8; conservazione buona. Fine del V sec a.C. Rutter, p. 111, 1152 4.3 Poseidonia D / Appena visibile: Posidone in piedi a d. nell’atto di scagliare il tridente. R / Toro cozzante a d.; in alto delfino. AE; gr. 5,68; mm. 18-17; conservazione mediocre. Seconda metà del IV- inizio III a.C. Rutter, p. 112, 1174
4.4 Cales D / Testa di Minerva a s. con elmo corinzio. R / CALENO a d. Gallo a d.; in alto a s., un astro. AE; gr. 7,13; mm. 19-18; conservazione buona. 270-250 a.C. Rutter, p. 59, 435 4.5 Cesare D / Elefante a d. che schiaccia con le zampe un serpente; in esergo CAESAR R / Simboli del pontificato: coppa per il vino, aspersorio, scure, berretto sacerdotale. AR. Denario; gr. 2,90; mm.17-16; conservazione ottima. 49-48 a.C. RRC, p. 461, 443 4.6 Antonino Pio D / ANTONINVS AVG PIVS PP TR P XII. Testa laureata di Antonino Pio a d. R / MVNIFICENTIA AVG. SC. Elefante a d. ; in esergo COS IIII. AE. Asse; gr. 7,47; mm. 27-25; conservazione buona. Roma, 148-149 d. C. RIC III, p. 134, 862
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5. Animali immaginari e animali nel mito In tutte le epoche storiche e in tutti gli ambiti culturali l’effetto della immaginazione ha prodotto strane creature legate al mito, le cui raffigurazioni popolano ogni genere di opere. L’infinita varietà delle reali specie animali, evidentemente, non è bastata agli uomini per rappresentare in un’unica creazione gli insiemi di qualità di valori o di disvalori propri dei viventi in terra, in cielo e nelle acque. Animali fantastici non mancano sulle monete antiche come immagine principale, come simbolo accessorio o ad ornare armi ed elmi delle divinità raffigurate. In epoca greca e romana gli animali mitologici riprodotti con maggiore frequenza sono il pegaso (cavallo alato), la chimera (testa di leone, testa di capra sulla schiena, coda di serpente), il grifo (corpo di leone, testa di aquila, coda di serpente), l’ippogrifo (corpo di cavallo, testa e ali di aquila) e l’ippocampo (parte anteriore del corpo e testa di cavallo, ali e coda di pesce). In epoca post-antica questi ed altri animali stravaganti sono utilizzati soprattutto per stemmi e blasoni nobiliari. Pegaso, il mitico cavallo alato nato dal sangue della Medusa decapitata da Perseo, è il tipo monetale di Corinto, dalle origini della coniazione (metà VI a.C.) fino alla chiusura della zecca (308 a.C.). Fu scelto come emblema monetale perché legato alla tradizione dell’eroe Bellerofonte, il quale con l’aiuto di Atena riuscì ad aggiogarlo per sconfiggere la Chimera. Dallo scorcio del VI a.C. sull’altro lato della moneta corinzia appare la testa di Atena. Queste impronte resteranno fisse sugli stateri di Corinto e su quelli delle sue colonie, definiti per questo ‘pegasi’. Nell’Onomasticon di Pollux sono chiamati póloi (in greco pîloi = puledri). La tradizione narra che Bellerofonte, punito da Zeus, cadde dal pegaso in volo colpito da un insetto velenoso e il cavallo alato salì in cielo trasformandosi in costellazione. La moneta qui esposta, un denario di età flavia, testimonia la “fortuna” del pegaso come tipo monetale in epoca romano-imperiale. I fiumi, i canali, le sorgenti hanno grande importanza nelle attività economiche, fonte di approvvigionamento di acque e indispensabili per gli usi agricoli, vie di transito, ambiente di vita per gli animali. Oggetto di culto, i fiumi sono stati immaginati dagli antichi sotto sembianze umane o come benefiche creature a metà uomo e a metà toro, montone o ariete, con le fattezze di una figura giovanile con corna o testa di toro, di uomo maturo con barba fluente, oppure di toro a volto umano. Il toro è simbolo di fertilità e, come i fiumi, è essenziale per la sussistenza dell’uomo. Per rendere il moto perpetuo delle acque del fiume, l’animale è raffigurato sulla moneta in posizione di nuoto perenne. La sua immagine appare come tipo monetale in varie città greche, magno-greche e siceliote. Metà toro e metà uomo è raffigurato,
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ad esempio, l’Acheloo, il fiume greco che scorre tra l’Acarnania e l’Etolia, venerato come dio e per questo paragonato da Erodoto al Nilo. Nella Campania antica il toro a volto umano è il sema monetale di Napoli perché la leggenda vuole che la sirena Partenope (testa di donna - corpo di uccello, poi corpo di donna - coda di pesce) sia nata da una goccia di sangue di Acheloo. L’impronta della moneta napoletana fu a tal punto nota e peculiare da essere utilizzata a più riprese, tra la fine del V e il III a.C., anche da altre comunità campane e da colonie latine in Campania. La forza della lupa, fiera nutrice, ha ispirato il più celebre dei miti di Roma, connesso alla fondazione stessa della città eterna. L’immagine della lupa che allatta i gemelli Romolo e Remo compare per la prima volta sulla moneta romana nella prima metà del III a.C., quando su un didrammo d’argento viene riprodotto il gruppo scultoreo che nel 296 a.C., come narra Livio, fu dedicato presso il fico Ruminale dagli Ogulni. La raffigurazione riappare poi su un denario della fine del II a.C. e diventa frequente sulle emissioni di Augusto, di Adriano e degli Antonini. La moneta esposta appartiene ad una serie del tempo di Costantino emessa in onore di Roma e per questo raffigurante i temi propri della “romanità”: Roma armata e con paludamento imperiale e, sull’altra faccia, la lupa con i gemelli. Renata Cantilena 5.1 Kainon (comunità di mercenari in Sicilia) D / Grifo. ad ali spiegate in corsa a s. R / KAINON, in esergo. Cavallo al galoppo a s. AE; gr. 10,82; mm. 21-1; conservazione buona. Zecca in Sicilia (Alesa?), circa metà IV a. C. CNS I, p. 249, 1/4 5.2 Siracusa D / SURA, a s.. Testa di Atena con elmo corinzio a s. R / Ippocampo a s. AE; gr. 8,90; mm.21-19; conservazione mediocre. Fine V - I metà IV sec. a.C. CNS II, p. 88, 45/5 5.3 Vespasiano per Domiziano D / CAESAR AVG F DOMITIANVS. Testa di Domiziano laureato a d.; bordo perlinato.
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R / COS IIII. Pegaso a d.; bordo perlinato. AR. Denario; gr. 2,96; mm. 19-18; conservazione ottima. Roma, 76 d. C. RIC II, p. 42, 238
5.4 Neapolis o altra zecca campano-sannitica D / Testa di Apollo a s.; dietro scudo ovale. R / Toro con volto umano a d. incoronato da una Nike in volo. AE; gr. 4,51; mm. 20-19; conservazione mediocre. Circa 264-241 a.C. Rutter, p. 71, 589 5.5 Costantino D / VRBS ROMA. Busto di Roma a s. con elmo e con mantello imperiale; in esergo RBQ ; bordo perlinato. R / La lupa che allatta i gemelli a s.; in alto due astri; in esergo RBQ; bordo perlinato. AE. Follis; gr. 2,29; mm. 17; conservazione ottima. 330-331 d. C. RIC VII, p. 336, 338 6. Il mondo marino: il polpo e il granchio, simboli di astuzia e di sapere tecnico; i delfini e le conchiglie Pesci, crostacei, molluschi e conchiglie di ogni genere non di rado ricorrono sulle monete delle città di mare, soprattutto in epoca greca, come tipo principale o come simbolo aggiuntivo. Talvolta si riferiscono alla fauna caratteristica di un determinato luogo (un esempio è il mitilo, tipico mollusco dell’area flegrea, della moneta di Cuma tra V e IV a.C.); molte altre volte si ricollegano a divinità e a miti, oppure sono utilizzati in senso metaforico come metonimia. Il polpo appare come tipo principale o secondario in città sul mare in Grecia, in Etruria, in Magna Grecia e in Sicilia: elemento naturalistico o prescelto come simbolo
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di adattabilità e di scaltrezza, doti attribuitegli da più autori greci. Il granchio è diventato il sema di Agrigento (in greco Akr£gaj), perché il nome della città deriverebbe da kr£ggh (= granchio), oppure in quanto ispirato da Kos, l’isola greca da cui un gruppo di coloni giunse nella città siceliota (le monete di Kos recano infatti l’immagine del granchio). Il crostaceo, per via delle zampe a tenaglia, si ricollega anche all’arte di forgiare il metallo e quindi al dio Efesto/Vulcano. Come icona monetale è presente in Sicilia e su monete di popoli e di antiche città dell’odierna Calabria. Afrodite nacque tra la spuma marina e fu trasportata a Cipro dai delfini o su una conchiglia. Alla dea si riferiscono molti simboli marini e soprattutto il delfino. In varie culture il legame di solidarietà tra l’uomo e il mare, e il dio e il mare, si esprime attraverso il delfino, cetaceo collegato in antico a più divinità (Apollo, Posidone, Eros). Tra tutte le specie marine viventi, il delfino è il soggetto più presente nella letteratura, nel mito e nelle raffigurazioni di epoca greca e romana, tra cui le icone monetali. I delfini campeggiano sulle monete di molte città magno-greche e siceliote (a voler citarne qualcuna, Poseidonia, Taranto, Siracusa), riprodotti accanto a Posidone, oppure con Eros, con Posidone o con Taras (mitico eroe fondatore di Taranto), in groppa, o in circolo come raffinato motivo decorativo intorno alla testa di ninfe marine. Un mitilo tra delfini ricorre su piccole monete in bronzo con la scritta Irnthi, da attribuire forse all’antica Sorrento. La conchiglia si trova anche nel repertorio iconografico delle prime serie di Roma in bronzo pesante e sulle monete di colonie latine come Rimini, Venosa e Lucera. Renata Cantilena 6.1 Siracusa D / Testa della ninfa Aretusa a d.; bordo perlinato. R / SURA, in basso. Polpo AR. Litra; gr. 0,69 mm. 13-12; conservazione buona. Circa metà V sec. a.C. CNS II, p. 28, 9 6.2 Agrigento D / Aquila a s., a testa bassa, con lepre tra gli artigli. R / Granchio; in basso tre globuli (segno di valore) e un animale marino. AE; gr. 7,01; mm. 19; conservazione mediocre. Fine V sec. a.C. CNS I, p. 153, 59
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6.3 Crotone D / Testa di Eracle a s. R / KRO, in basso. Granchio. AE; gr. 3,13; mm. 15; conservazione mediocre. IV a.C. Rutter, p. 174, 2225 6.4 Siracusa D / SURA. Testa di Atena a s., con elmo corinzio e corona di olivo. R / Astro tra due delfini. AE. Litra; gr. 32,82; mm. 31-28; conservazione mediocre. Fine V- I metà del IV a.C. CNS II, p. 120, 62/111 6.5 Irnthi (Sorrento?) D / Testa laureata di Apollo a d. R / Mitilo circondato da tre delfini; bordo perlinato. AE; gr. 2,17; mm. 15-14; conservazione buona. II metà del IV a.C. Rutter, p. 68, 544 6.6 Brindisium D / Testa di Nettuno a d. R / BRVN, in basso. Taras in groppa al delfino a s. con Nike sulla mano d. AE; gr. 7,39; mm.21-20; conservazione cattiva. II metà del III sec. a.C. Rutter, p. 85, 738 6.7 Roma D / Conchiglia, lato esterno, tra due globuli (segno di valore). R / Conchiglia, lato interno. AE. Sestante; gr. 36,39; mm.34; conservazione mediocre. Circa 280-260 a.C. RRC, p. 137, 21/5 6.8 Lucera D / Testa di Cerere a d., velata e incoronata; due globuli (segno di valore) a s. R / LOVCERI, in esergo. Conchiglia.
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AE. Bioncia; gr. 6,85; mm.17; conservazione mediocre. Fine III a.C. Rutter, p. 80, 681
Abbreviazioni bibliografiche CNS I R. CALCIATI, Corpus Nummorum Siculorum, vol. I, Milano 1983 CNS II R. CALCIATI, Corpus Nummorum Siculorum, vol. II, Milano 1986 CNS III R. CALCIATI, Corpus Nummorum Siculorum, vol. III, Milano 1987 Gnecchi F. GNECCHI, Medaglioni Romani, vol. II, Milano 1912 Mørkholm O. MØRKHOLM, Early Hellenistic coinage from the accession of Alexander to the Peace of Apamea, Cambridge 1991 RIC I C.H. V. SUTHERLAND, Roman Imperial Coinage, vol. I, London 1984 RIC II H. Mattingly, E. Sydenham, Roman Imperial Coinage, vol. II, London 1926 RIC III H. MATTINGLY, E. SYDENHAM, Roman Imperial Coinage, vol. III, London 1930 RIC VII P.M. BRUUN, Roman Imperial Coinage, vol. VII, London 1996 RRC M.H. CRAWFORD, Roman Republican Coinage, Cambridge University Press, Londra 1974 Rutter N.K. RUTTER, Historia numorum. Italy, British Museum Press, London 2001 SNG Milano Sylloge nummorum graecorum. Italia. Milano Civiche raccolte numismatiche. Aegyptus, vol. XIII, Milano 1992
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Appendice
La tutela giuridica degli animali
Si discute oggi di un insieme di norme che si prefiggono di fornire strumenti di tutela nei confronti degli animali. Restano però infinite sofferenze, intollerabili abusi, colpevoli indifferenze nei loro confronti. Le difficoltà incontrate in merito alla discussione e approvazione delle leggi che illustriamo dimostrano quanto sia ancora lungo il cammino per affermare compiutamente il principio della responsabilità dell’uomo verso gli animali e per promuovere la salvaguardia delle biodiversità. Eppure la presenza degli altri esseri viventi rappresenta anche un grande arricchimento per la vita sociale. Sono sempre più numerose le persone che convivono con un animale, la cui presenza richiede attenzione e cura costante. La scelta di soffermarsi sull’aspetto legislativo non esclude la consapevolezza che le norme giuridiche rappresentino solo uno degli strumenti per raggiungere l’obiettivo di migliorare i rapporti fra le specie. Le leggi sono la condizione necessaria ma non sufficiente per garantire il benessere degli animali. Con l’entrata in vigore di un importante modifica del codice penale che istituisce un nuovo titolo “Dei delitti contro il sentimento verso gli animali” è opportuno ripercorrere sinteticamente il cammino normativo per mettere in risalto le ultime disposizioni innovative. Il codice penale attualmente in vigore in Italia è il Codice Rocco, che ha preso il nome dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco e risale al 1930. La disposizione contenuta all’art. 727, che riprendeva la norma dell’art. 491 del Codice Zanardelli, ha avuto per lungo tempo un’importanza essenziale per la tutela dell’animale non umano. Si è più volte osservato però che la disposizione del Codice Rocco, prevista per i reati contro la moralità pubblica e il buon costume, come quella del Codice Zanardelli, non tutelava l’animale come essere senziente, ma pur sempre l’uomo. Più precisamente essa si motivava con l’obiettivo di evitare il sentimento di orrore che l’uomo avverte di fronte a forme di incrudelimento nei confronti di altri esseri viventi. L’animale, si diceva anche, è semmai l’oggetto materiale, la cosa sulla quale si è diretta la condotta dell’autore del reato, non l’oggetto della tutela, che è quindi ancora l’uomo. Contro questa lettura
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dell’art. 727 c.p. da più parti si erano proposte interpretazioni che miravano a riconoscere anche all’animale non umano una tutela diretta in quanto essere vivente in grado di provare dolore. Fino a che si è giunti a una sentenza della Corte di Cassazione del 14/3/90 che ha recepito e proposto all’attenzione di tutti la tutela degli animali in quanto autonomi esseri viventi. Anche sulla spinta dell’orientamento scientifico alla base della sentenza della Cassazione, nella nuova formulazione dell’art. 727 c.p. a seguito della l. 22/11/93 n. 473, si era finalmente dato peso all’animale. Il reato manteneva la natura contravvenzionale, ma si ampliava la nozione di maltrattamento anche a sofferenze di tipo psicologico. La l. n. 281 del 14/8/91, intitolata “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”, ha introdotto il principio del rispetto della vita animale, sia attraverso la norma che sancisce il divieto di controllare la diffusione della popolazione canina e felina tramite la soppressione, sia attraverso il divieto di sottoporre gli animali ricoverati nei canili a vivisezione. È una legge quadro che fissa norme e principi generali ed è ritenuta una grande riforma a favore dei diritti degli animali. Per comprenderne pienamente la portata innovativa occorre ricordare che fino al 1991 i cani rinchiusi nei canili comunali erano uccisi dopo tre giorni di permanenza o ceduti ai laboratori di vivisezione. Per i gatti si procedeva a soppressioni di massa e potevano anch’essi essere usati per la vivisezione. La L.281/91 segna la fine della pena di morte per gli animali senza padrone. Fra i principi fondamentali della legge si ricorda il controllo della popolazione felina e canina attraverso la prevenzione e non con l’uccisione e i cani ricoverati nei canili possono essere soppressi solo se gravemente malati o in caso di comprovata pericolosità, così come i gatti che vivono liberi e che devono essere sterilizzati dall’autorità sanitaria e riammessi nella loro colonia. Nel luglio del 2004 è stata approvata la L. n.189 in materia di “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”, con la quale si è introdotta nel codice penale una nuova tipologia di “Delitti contro il sentimento degli animali”. La denominazione di tali delitti risente ancora però di un atteggiamento antropocentrico. Anche la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale, presentata a Bruxelles il 26/1/78 e quindi proclamata a Parigi, ad iniziativa dell’UNESCO, il 15/10/78, contiene alcuni principi di grande rilievo giuridico, a cominciare dall’art.1 in cui si stabilisce che «Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza». La Dichiarazione è stata improntata a una visione non antropocentrica, ma biocentrica proponendosi di trovare un equilibrio fra le diverse forme di vita. Questa impostazione risulta chiara sin dalla Premessa nella quale, dopo l’esordio in cui gli animali non umani sono considerati titolari di diritti, si afferma il riconoscimento da parte
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dell’uomo del «diritto all’esistenza» delle altre specie come «fondamento della coesistenza delle specie nel mondo». Essa si esplica ancora nell’art. 2, in cui si afferma il diritto dell’animale ad essere rispettato; nell’art. 3, in cui si prevede che l’animale non debba essere sottoposto a maltrattamenti; negli artt. 4 e 5, in cui si stabilisce il diritto dell’animale a vivere in un ambiente adeguato alla specie di appartenenza. Uno dei traguardi più importanti della svolta degli anni novanta è quindi la l. 473/ 93, attraverso la quale è stato modificato l’art. 727 c.p. e il reato di maltrattamento è stato definito in modo più preciso, anche se non del tutto soddisfacente. Con la nuova legge si giunge ad un ben più articolato e complesso sistema sanzionatorio, poiché è previsto il divieto di maltrattamento in senso generico; è stabilita l’impossibilità di utilizzare gli animali in giochi, spettacoli, lavori, che non siano idonei alla loro natura, valutata anche secondo le loro caratteristiche etologiche; è sanzionata la detenzione non idonea perché incompatibile con la natura dell’animale; è punito l’abbandono di animali domestici o che abbiano acquisito l’abitudine alla cattività. Il punto debole è rappresentato dal fatto che il reato è un reato-contravvenzione e tutte le sanzioni rientrano nell’ipotesi dell’ammenda che permette di evitare il processo mediante il pagamento di una somma di danaro. La norma è stata modificata dalla l. 189/04. L’entrata in vigore della nuova legge rappresenta un importante passo in avanti per la tutela degli animali. Maltrattare gli animali ora è reato punito con la reclusione. Il cammino scelto dal Parlamento è stato quello di affrontare in un’unica legge sia l’aggravamento delle pene per i maltrattamenti, sia il divieto di combattimenti fra gli animali. La tutela degli animali, così come evidenziata, è pertanto collegata alle autorità e agli enti preposti, che hanno compiti di vigilanza o di repressione: i Carabinieri, il personale medico-veterinario ASL, le guardie volontarie delle associazioni ambientaliste ed animaliste, gli agenti della polizia giudiziaria, il nuovo nucleo specializzato in materia di reati contro gli animali del Corpo Forestale dello Stato (NIRDA), l’autorità giudiziaria e gli enti locali che svolgono ruoli diversi ma complementari e che, per operare in modo ottimale, debbono necessariamente collaborare fra di loro. In particolare il Nucleo investigativo per i reati in danno degli animali (NIRDA) costituisce la grande novità. È la struttura responsabile del controllo dei reati in danno degli animali, individuata all’interno del Corpo Forestale dello Stato già nel maggio 2005, sulla base delle competenze derivanti alle Forze di polizia dalla legge sopramenzionata. All’Ufficio per i reati in danno degli animali, istituito nel suo seno, è stato affidato l’incarico di curare il coordinamento, l’indirizzo e la gestione operativa dell’attività di vigilanza, prevenzione e repressione dei reati compiuti in danno degli animali. Tale struttura svolge attività investigative altamente specializzate che richiedono continuo aggiornamento, in collaborazione,
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come abbiamo detto, con altri soggetti pubblici e privati. Si tratta di fronteggiare vere e proprie organizzazioni criminali che operano su tutto il territorio nazionale e che ricavano dalle loro attività illecite somme ingenti. Dopo la droga, a livello mondiale, il commercio clandestino di animali è la seconda fonte di guadagno della malavita organizzata. Tra gli illeciti accertati il tipo di reato più comune è senza dubbio quello del maltrattamento degli animali e della detenzione incompatibile con la loro natura. Le associazioni animaliste e i volontari in genere svolgono in questo campo un lavoro difficile e spesso pericoloso per la loro incolumità, tenuto conto del fatto che coloro che compiono attività illecite a scopo di lucro nei confronti degli animali sono spesso delinquenti abituali costituiti in vere e proprie associazioni criminali. È prevista una specifica norma che punisce l’uccisione di animali: chiunque per crudeltà o senza necessità cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da 3 a 18 mesi. Viene punita l’uccisione di qualsiasi animale, naturalmente salvo i casi in cui ciò sia consentito in base alle leggi in vigore. D’ora in poi potrà essere sanzionato anche chi uccide un animale che non appartiene a nessuno. Il reato di maltrattamento di animali prevede la reclusione da 3 mesi a un anno o la multa da 3.000 a 15.000 euro per chiunque provochi una lesione ad un animale, lo sottoponga a sevizie, a comportamenti o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche. La pena è aumentata della metà se dai fatti deriva la morte dell’animale. La stessa pena è prevista per chiunque somministra sostanze stupefacenti o attua trattamenti che rechino danno alla salute degli animali. Chi provoca sevizie agli animali, in occasione dell’organizzazione di spettacoli o manifestazioni pubbliche, è punito con la reclusione da 4 mesi a 2 anni e con la multa da 3.000 a 15.000 euro, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con aumento da un terzo alla metà se i reati sono commessi in relazione a scommesse clandestine o per trarne profitto o se ne deriva la morte dell’animale. È inoltre vietato promuovere o organizzare combattimenti tra animali, che ne mettano in pericolo l’integrità fisica, nonché l’allevamento e l’addestramento di animali per destinarli al combattimento. In caso di condanna, per i delitti sopra descritti è sempre ordinata la confisca dell’animale, salvo che appartenga a persona estranea al reato. Gli animali oggetto di sequestro e confisca sono affidati alle associazioni e agli enti che ne faranno richiesta, individuati con un decreto del ministro della Salute. L’art. 638 riguarda il reato di uccisione o danneggiamento di animali di proprietà altrui. Il proprietario dell’animale deve chiedere al giudice, entro tre mesi dal giorno in cui è venuto a conoscenza del fatto, di perseguire chi gli ha ucciso o danneggiato l’animale di sua proprietà. La pena può essere la reclusione fino ad un anno o una multa. È punito altresì l’abbandono degli animali domestici o che hanno acquisito abitudini alla cattività e la detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e che provochino loro gravi sofferenze. Questi com-
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portamenti sono puniti con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. È previsto infine il divieto di utilizzare cani e gatti per la produzione o il confezionamento di pelli, pellicce, capi di abbigliamento e di commercializzarne e introdurne le pelli nel territorio nazionale, con confisca e distruzione del materiale. In alcuni casi gli animali vengono tutelati dagli enti locali con apposite ordinanze emanate contro i maltrattamenti perpetrati nei loro confronti, come è avvenuto nel comune di Bologna, che, con un’ordinanza del 1998, individua una serie di comportamenti vietati, lesivi della salute degli animali. Infine, poiché è importante che i giovani vengano educati a rispettare gli animali, la l. 189/04 prevede, tra l’altro, la possibilità per lo Stato e per le Regioni di promuovere un’effettiva educazione nelle scuole in materia di etologia comportamentale degli animali e del loro rispetto. Maria Cioffi
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Per una storia non antropocentrica. Catalogo della mostra
Eugenia Granito, Introduzione
Atti del convegno di studi Archivio di Stato di Salerno, 25-26 maggio 2009
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Per una storia non antropocentrica. Atti del convegno
Eugenia Granito, Introduzione
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PROGRAMMA Salerno, Archivio di Stato
25 maggio 2009 Indirizzi di saluto: Imma Ascione - Direttore dell’Archivio di Stato di Salerno Pierangelo Cardalesi - Assessore per la Tutela animali della Provincia di Salerno Giovanni Bruno - Presidente dell’Ordine dei medici veterinari della provincia di Salerno Presiede: Maria Luisa Storchi - Soprintendente archivistico per la Campania Renata Cantilena - Pecus e moneta nelle società del mondo antico. Qualche spunto di riflessione sul rapporto tra il mondo animale e il denaro Michela Angellotti - Il lapidario del quadriportico del Duomo di Salerno: lo zoo di pietra Pietro Paolo Onida - Il problema della qualificazione dogmatica dell’animale non umano nel sistema giuridico-religioso romano Silvana Castignone - Animali e diritto: da “cose” a soggetti Eugenia Granito - Filosofi per gli animali. Linee di una filosofia non antropocentrica Maristella La Rosa - Carte d’Archivio e mondo naturale. Per una riflessione storica ed etica sul rapporto uomo-animale Francesco Manzione - Carte d’Archivio e memorie di vita vissuta Orlando Paciello - Il medico veterinario nel rapporto uomo-animale: nuove strategie per il benessere degli animali Vincenzo Ferrara - Frodi e maltrattamento di animali Remigio Lenza - Flora e fauna dell’oasi di Persano
Proiezione del documentario Criniere al vento (1939) dell’Associazione culturale “Persano nel cuore” - presentazione a cura di Antonino Gallotta
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Per una storia non antropocentrica. Atti del convegno
26 maggio 2009 Tavola rotonda I diritti degli animali. Quale fondazione teorica per un’etica animalista? Presiede ed introduce: Luisella Battaglia Intervengono: Marina Lessona Fasano, Lucia Francesca Menna, Simone Pollo, Giuseppe Reale, Michele Scotto di Santolo
Eugenia Granito, Introduzione
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Introduzione
L’argomento della mostra è stato anche oggetto del convegno svoltosi il 25 e 26 maggio 2009, che ha messo a fuoco le problematiche inerenti al rapporto tra l’uomo e le altre specie viventi sia dal punto di vista storico che dell’attualità. Il tema è stato analizzato da una pluralità di prospettive, per cui il convegno ha avuto il carattere dell’interdisciplinarità: nella prima tornata dei lavori studiosi di numismatica, di storia dell’arte, del diritto ed archivisti hanno illustrato il significato della presenza degli animali sulle monete, nelle sculture medievali, nei documenti d’archivio, nonché la posizione da loro occupata nella tradizione giuridica occidentale, dalla romanità ad oggi, e nel pensiero filosofico. Mentre la prima parte del convegno ha analizzato il rapporto uomo-animale da una prospettiva storica, la seconda ha rivolto l’attenzione alla realtà odierna, affrontando tre specifiche tematiche: la cura della fauna selvatica in un’oasi del WWF, le strategie adottate dal servizio veterinario per la tutela del benessere degli animali, i reati commessi a loro danno, così come emergono dal lavoro quotidiano del Nucleo Antifrodi dei Carabinieri di Salerno, competente per tutta Italia meridionale. La parte conclusiva del convegno ha avuto un taglio più prettamente teoretico ed è stata strutturata come tavola rotonda, per consentire al massimo il confronto di idee, che avrebbe perso di vivacità, qualora si fosse articolato in relazioni distinte l’una dall’altra. La tavola rotonda – vertente sul tema I diritti degli animali: quale fondazione teorica per un’etica animalista? – ha visto impegnati filosofi ed etologi a dibattere le tematiche concernenti il rapporto uomo-animale e i suoi riflessi nella sfera dell’etica. Si tratta di tematiche che pongono interrogativi di grande rilevanza: è legittimo parlare di diritti degli animali, come già Rousseau duecentocinquant’anni or sono, per il motivo che «essendo in qualche modo simili alla nostra natura per la sensibilità di cui sono dotati, si penserà che anch’essi debbano partecipare al diritto naturale, e che l’uomo abbia dei doveri verso di loro» 1? 1
J.J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 32.
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Oltre al razzismo, è possibile mettere al bando anche lo specismo? «I francesi – scriveva più di due secoli fa Bentham – hanno scoperto che il nero della pelle non è una ragione per cui un essere umano debba essere abbandonato senza rimedio al capriccio di un carnefice. Può arrivare il giorno in cui si riconoscerà che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’os sacrum sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso destino?» 2. Sono esclusivamente l’uso della ragione, della quale l’uomo si arroga superbamente il monopolio, e quello del linguaggio a conferire ad una specie vivente dei diritti? Oppure, come scrive ancora Bentham, «la domanda da porre non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”» 3. Ed ancora: dopo Darwin lo stesso concetto di “specie” non si è forse realativizzato, in quanto che, con la teoria evoluzionista, diventa difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra una specie e l’altra? Con che pretesa può l’uomo arrogarsi dei diritti da cui esclude altri viventi, come i primati, che hanno un patrimonio genetico tanto simile al suo? Il 15 ottobre 1978 è stata proclamata a Parigi, presso la sede dell’UNESCO, la Dichiarazione universale dei diritti dell’animale. Quanto di ciò che è previsto da questo documento è diventato realtà e quanto invece è rimasto sulla carta? Di certo oggi il tema del rapporto dell’uomo con le altre specie viventi ha acquistato un rilievo prima sconosciuto. In passato l’espressione “protezione degli animali” richiamava alla mente l’immagine di qualche anziana signora che prodigava cibo per strada ai randagi. Oggi il termine animalismo ha ben altro spessore e si collega ad un dibattito teorico che ha in Peter Singer e Tom Regan i suoi corifei. E tuttavia, nello stesso tempo, lo sfruttamento delle altre specie viventi da parte dell’uomo ha raggiunto dimensioni prima sconosciute: gli allevamenti intensivi e l’estendersi della vivisezione dalla ricerca medica alla produzione di cosmetici infliggono agli animali sofferenze inimmaginabili nel passato. In nome della logica del profitto, che non sa che farsene dell’etica, sterminate masse di esseri viventi sono ridotte allo stato di macchine per produrre merci al più basso prezzo possibile, in netta antitesi con quanto è prescritto dall’art. 2 della citata Dichiarazione, secondo cui «Ogni animale ha diritto al rispetto; l’uomo, in quanto specie animale, non può attribuirsi il diritto di sterminare gli altri animali o di sfruttarli violando questo diritto; ogni animale ha diritto alla considerazione, alle cure e alla protezione dell’uomo». A trent’anni di distanza, come emerge 2
J. BENTHAM, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino, UTET, 1998, pp. 421-22. 3 Ibidem.
Eugenia Granito, Introduzione
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da qualche contributo presentato a questo convegno 4, non è cambiato molto, nonostante si siano moltiplicate le disposizioni di legge a favore degli animali. «L’Homo necans, fondatore di una civiltà basata sulla guerra e sul mattatoio, – ha scritto qualche anno fa Gino Ditadi – ha costruito un’etica, una religione, una politica, una falsa coscienza, che sembrano essere diretta espressione del suo agire assassino» 5. Ma difendere i diritti degli animali non significa trascurare quelli degli esseri umani; al contrario, i primi sono per più versi strettamente collegati ai secondi. Lo sfruttamento delle altre specie viventi si accompagna sovente a quello delle popolazioni del Terzo Mondo, giacché, com’è stato rilevato da più parti, l’alimentazione fornita agli animali degli allevamenti intensivi sottrae cibo ai paesi poveri: «nei paesi ricchi – ha scritto Peter Singer – diamo la maggior parte dei nostri cereali agli animali, e la convertiamo così in carne, latte e uova (...) Se smettessimo di usare come foraggio cereali, soia e farina di pesce, la quantità di cibo risparmiata – distribuita a chi ne ha bisogno – sarebbe più che sufficiente a debellare la fame in tutto il mondo» 6. La questione del rapporto uomoanimale tira in ballo quella dei rapporti interumani, ma allora il dibattito sull’etica animalista non dovrebbe estendersi a quello sull’etica tout court? «Abbiamo bisogno di una nuova etica – ha scritto ancora Gino Ditadi – saldamente fondata non meramente sul piano filosofico, ma su quello fattuale. Abbiamo bisogno di una nuova etica perché abbiamo bisogno di una nuova civiltà i cui fondamenti non siano né lo sfruttamento disumano dell’uomo né quello bestiale degli animali» 7. Già un trentennio fa Hans Jonas aveva messo in guardia contro la violazione della natura che, a suo avviso, andava di pari passo con la civilizzazione dell’uomo, sostenendo la necessità di un ripensamento dell’etica, il cui fondamento avrebbe dovuto essere il valore di tutti gli esseri viventi: «Ogni essere vivente è fine a se stesso e non ha bisogno di una giustificazione ulteriore: sotto questo aspetto l’uomo non è in nulla superiore agli altri esseri viventi, eccetto che per poter essere soltanto lui responsabile anche per loro…» 8. La superiorità che l’uo4
Si veda la relazione di Vincenzo Ferrara, comandante del Nucleo Antifrodi Carabinieri di Salerno, che fornisce, con dovizia di particolari, un quadro sconvolgente del doping ai danni dei cavalli da corsa. 5 Introduzione a TEOFRASTO, Della pietà, a cura di G. DITADI, Este (PD), Isonomia, 2005, p. 113. 6 P. SINGER, Etica pratica, Napoli, Liguori, 1989, p.161. 7 G. DITADI, Oltre la cultura del sacrificio di sangue. Note su cristianesimo e mondo animale, in Le creature dimenticate. Per un’analisi dei rapporti tra Cristianesimo e questione animale, a cura di L. BATTAGLIA, Cesena, Macro, 1998, p. 44. 8 H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1993, p. 124.
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mo si arroga sulle altre specie, lungi dal legittimare i soprusi nei loro confronti, deve fargli sentire tutto il peso della sua responsabilità, alla quale non gli è lecito sottrarsi. Saprà l’uomo assumersi questa responsabilità? Finora gli animali sono stati trattati quasi esclusivamente come beni di consumo e, se inutili rispetto alle esigenze umane, come esseri da sterminare senza esitazione. «La scomparsa degli animali – ha scritto Cioran – è un fatto di una gravità senza precedenti. Il loro carnefice ha invaso il paesaggio: non c’è posto che per lui. L’orrore di vedere un uomo là dove si poteva contemplare un cavallo!» 9. Sarà possibile operare un radicale mutamento di rotta? Sono questi gli interrogativi sottoposti all’attenzione degli studiosi che hanno aderito alla tavola rotonda conclusiva del convegno, né sembri strano che un Archivio di Stato, luogo per definizione deputato alla conservazione della memoria del passato, allarghi il suo campo d’indagine anche al presente e addirittura al futuro attraverso una riflessione sull’etica, che è l’ambito d’elezione del dover essere. In realtà, l’attenzione verso il passato, se non è curiosità meramente “archeologica”, scaturisce dall’esigenza di comprendere il presente e di progettare il futuro. «La massima virtù dello storico» – ha scritto appunto un grande storico – è la «facoltà di apprendere ciò che vive» 10. Niente di più vivo del tema qui affrontato, che coinvolge non solo le coscienze individuali, ma anche le scelte etiche e politiche dell’intera società. EUGENIA GRANITO Archivio di Stato di Salerno
9
E.M. CIORAN, Il funesto demiurgo, Milano, Adelphi, 1992, pp. 124-25. M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 54.
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RENATA CANTILENA
Pecus e moneta nelle società del mondo antico. Qualche spunto di riflessione sul rapporto tra il mondo animale e il denaro
Gli organizzatori di queste originali giornate di studio mi hanno invitato a parlare delle relazioni tra la moneta nelle società del passato e il mondo animale. È un argomento, denso di spunti e di stimoli, che può essere affrontato da varie angolazioni. In effetti il rapporto, intimo e profondo, della moneta antica con gli animali affonda le sue radici nella concezione stessa che sottende il denaro. La moneta è una delle forme del denaro, il quale ha assunto vari aspetti nel corso del tempo e a seconda del tipo di società che lo ha utilizzato. Il denaro, in sostanza, corrisponde a segni convenzionali definiti da determinati gruppi sociali per esprimere il valore delle cose. L’esigenza di stabilire rapporti proporzionali sulla base di un condiviso criterio di valutazione si è andata consolidando in conseguenza all’affermarsi di norme o di consuetudini atte a regolare i rapporti tra i membri di una comunità e le sue componenti sociali. La moneta al suo apparire, allo scorcio del VII a.C., è un pezzo di metallo prezioso tagliato secondo un peso prestabilito e convalidato attraverso l’apposizione di un sigillo di garanzia (quello che i numismatici chiamano “il tipo” e i Greci sÁma = segno per comunicare, ovvero l’immagine impressa con il conio). Essa rappresenta il mezzo più idoneo ad assolvere le funzioni di corrispettivo di valori per regolare il trasferimento di merci e di prestazioni e per saldare quanto dovuto. Il denaro nelle comunità della Grecia antica e a Roma è una moneta metallica di valore legale garantito dall’autorità emittente, ma le funzioni di riserva e misura del valore sono state anche assolte, in estesa misura, da altre forme di denaro (bestiame, metallo in lingotti, beni immobili come i patrimoni fondiari) i cui usi risalgono ad epoche di gran lunga precedenti l’introduzione della moneta. Tra questi, particolare rilievo assume appunto il bestiame, fonte di sussistenza essenziale in tutte le società del passato.
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Per una storia non antropocentrica. Atti del convegno
Il bestiame, bene di prestigio e metro di valutazione In diversi ambiti geografici, e soprattutto in quelli dediti ad attività legate all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, il termine stesso utilizzato per designare la moneta o il salario deriva o coincide con il nome dell’animale più ricercato: a Roma pecunia e peculium da pecus (gregge), come in India rupìa da roupa (gregge); nelle comunità nordiche fee (salario) da vieh (gregge); in semitico keref (salario e montone); nel mondo arabo gemel indica il cammello e il salario. Nel II millennio, il codice babilonese del re Hammurabi (1792-1750) attesta il pagamento di multe in sicli d’argento e ne riferisce l’equivalenza con il bestiame (un siclo vale quanto un maiale, due sicli quanto un montone). In Egitto, un’iscrizione da Tebe, datata alla fine del II millennio, menziona un accordo per cui un toro scambiato contro grano, olio, miele, tessuto, legna, è equivalente a 119 deben di rame. Nel mondo greco, come ben documentano i poemi omerici, il bue è metro di valutazione ricorrente. I premi fissati da Achille per le gare di tiro con l’arco e di lotta sono, a scalare, un tripode che vale dodici buoi, una donna che ne vale quattro, una lancia e un lebete che ne valgono uno (Iliade XXIV, 229-234); le armi di Diomede sono valutate nove buoi (Iliade VI, 235-236); venti ne costa Euriclea acquistata da Laerte (Odissea I, 430-431) e il corrispettivo di cento buoi è il prezzo di Licaone portato a vendere a Lemno (Iliade XXI, 79). Sono fissate in buoi anche le multe previste nelle più antiche legislazioni; a titolo esemplificativo, si possono citare le leggi draconiane che stabiliscono le ammende in buoi e montoni o le equivalenze tra pecus e rame a peso definite nelle XII tavole delle leggi romane dei decemviri. Il bue, proprio per il suo essere un bene universale di prestigio, è per eccellenza l’oggetto sacrificale da offrire agli dèi ed è ricompensa o premio. A Delo, ancora in età classica, l’araldo annunciava le ricompense in buoi ai teori (Pollux, Onom. IX, 16 a). La moneta è erede di talune delle funzioni assolte in precedenza dal bestiame. Questo era ben chiaro ai suoi primi fruitori; infatti, in ambiente latino ricorrono numerose testimonianze nei testi sul fatto che la moneta fu chiamata pecunia perché, come le mandrie e gli armenti, essa costituiva la base principale di ogni ricchezza 1. 1
«Nomina pecunia, et peculii tracta videntur a pecore, quod non solum veteres possederunt, sed adhuc apud quasdam gentes unum usurpatur divitiarum genus» (COLUMELLA, Lib. VII); «Est scientia pecoris parandi, ut fructus quam possint maximi capiantur ex ea, a quibus Pecunia nominata est. Nam omnis pecunia Pecus est fundamentum» (VARRONE, De Rust., Lib. II, cap. I); «Caetero luxuria nondum instrumenta vigebant/ Aut pecus, aut latam dives habebat humum/ Hinc etiam locuples, hinc ipsa pecunia dicta est» (OVIDIO, Fast., Lib. V 279).
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In questa tradizione si colloca l’affermazione di Plinio e di altri autori che, in virtù degli usi premonetari del bestiame, impropriamente riferiscono che le raffigurazioni scelte per le prime monete di Roma furono quelle di buoi, pecore e maiali (gli animali che per il loro valore erano offerti in sacrificio agli dèi nei Suovetaurilia), attribuendo così una duplice origine al termine pecunia, il quale sarebbe derivato dal bene sostituito dalla moneta, ma anche dall’effige su di essa riprodotta 2. Peraltro, dal tipo monetale del bue sarebbe derivato il proverbio latino Bos linguam conscendit (il bue monta sulla lingua), riferito ai giudici che si facevano corrompere dal denaro. Plutarco si spinge ancora oltre e, nella Vita di Teseo (XXV, 3), nel ricordare che secondo il mito l’eroe fu il primo a introdurre la moneta ad Atene, aggiunge che su di questa era impresso un bue o un toro in ricordo del toro di Maratona da lui aggiogato o della sconfitta inferta a Tauro, il generale di Minosse. Ovviamente quanto Plutarco riferisce è pura fantasia e le raffigurazioni di animali sulle prime emissioni di Atene, le cd. Wappenmünzen, ovvero la testa di bue, il cavallo o parti di un cavallo, la civetta, la testa di leone, appartengono ad un repertorio che comprende altre impronte, come il gorgÒneion, la triskel»j, la ruota, l’astragalo. Non diversamente a Roma: anche se un toro o un suino appaiono tra i primi pezzi di bronzo di uso monetario contrassegnati con un elemento figurativo, va tenuto presente che queste immagini rientrano in un insieme comprendente vari generi di raffigurazioni, il cd. aes signatum, che presenta quindici differenti impronte ottenute per fusione in matrice, variamente abbinate: toro/toro, ancora/tripode, tridente/caduceo, scudo/scudo, spada/fodero, spiga/tripode, anfora/punta di lancia, polli sacri/rostri di nave, ramo con foglie/cornucopia, aquila/pegaso, elefante/maiale. In particolare, a proposito del maiale, l’associazione con l’elefante fa ricordare quanto racconta lo stesso Plinio e cioè che questi bestioni (che i Romani conobbero per la prima volta, rimanendone terrorizzati, durante la guerra contro Pirro) possono essere spaventati dal verso del maiale. Quindi a Roma, ma come in tutto il resto della produzione monetaria del mondo antico, la presenza di animali su moneta è dovuta a motivazioni diverse da quelle proposte da Plinio e dagli altri autori latini citati. Essi, nel proporre l’etimologia della parola pecunia ricorrendo all’immagine del pecus su di essa riprodotta, sono stati suggestionati dal fatto che in Grecia, realmente, in molti casi la moneta prendeva il nome dall’ani2
«Servius Rex ovium, boumque effigie primis assignavit» (PLINIO, N.H. XVIII, 3); «Pecunia ipsa a pecore appellata» (PLINIO, N.H. XVIII, 3); «Servius rex primis signavit aes (…) Signatum est nota pecundum» (PLINIO, N.H. XXXIII, 13); «Pecunia aut bovem, aut ovem, aut vervecem habet signum» (VARRONE, De vit. Pop. Rom., I); «Et numis vetustissimis bovem, vel ovem, vel suem insculpserunt» (PLUTARCO, Quaest. Rom.).
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male raffigurato. Celènai (= tartarughe) sono chiamati i didrammi di Egina e pîloi (= puledri) sono detti gli stateri di Corinto; quanto alle monete di Atene, le abbondanti coniazioni in argento di cui gli Ateniesi andavano fieri dai Greci venivano comunemente chiamate glaàkej (= civette). Aristofane gioca su questo appellativo: negli Uccelli, uno spiritoso passo recita: «Le civette del Laurion non ti abbandoneranno mai, ma nidificheranno vicino a te; lascia le loro uova nei tuoi borsellini e lascia uscire le piccole monete d’argento».
Gli animali come icona monetale L’altra angolazione da cui è interessante affrontare il rapporto animale-moneta nel mondo greco e romano riguarda non più l’aspetto funzionale bensì quello iconografico. Figure di animali di ambito terrestre e marino, animali domestici, belve, selvaggina, uccelli di vario genere, oppure animali fantastici collegati al mito, sono spesso presenti sulla moneta antica, in Grecia come a Roma, in raffigurazioni realizzate con grande perizia e realismo. Per comprenderne il significato va tenuto presente che il tipo apposto sulla moneta è l’espressione più evidente del processo di significazione teso a connotare l’immagine di sé che una comunità intende promuovere nel momento in cui immette in circolazione la propria moneta. Uno Stato o un sovrano per garantire il valore della moneta si rende manifesto attraverso l’immagine delle sue emissioni e allora perché mai una città greca, un magistrato monetario romano o un imperatore hanno scelto come emblema un animale? Il tentativo di comprendere i contenuti ideologici che sottendono un tipo monetale (scene di animali così come ogni altro soggetto) ha senso soltanto se si tiene conto del contesto culturale di riferimento. Un animale non riveste sempre lo stesso significato e il valore semantico della sua immagine può assumere molteplici accezioni. In molte situazioni può risultare davvero poco chiaro. Nessuno è in grado, per esempio, di affermare con certezza il motivo per cui su una delle prime monete arcaiche, un certo Phanes per garantirne il valore abbia voluto apporre un cervo come sema, come indica la leggenda in greco che affianca l’immagine: “Sono il segno di Phanes”. La piccola esposizione di monete della collezione Bilotti 3, allestita in occasione delle giornate di studio, offre un assaggio di come l’immagine di uno stesso animale possa 3
Paolo Emilio Bilotti, direttore dell’Archivio provinciale di Stato di Salerno dal 1891 al 1927, raccolse una ricca collezione di monete, un insieme di circa 11.000 esemplari, di epoca greca, romana, medievale e moderna. Si tratta, in massima parte, di monete prodotte e circolanti in Italia
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mutare di significato 4. Prendiamo ad esempio il leone, uno degli animali più rappresentati su moneta, simbolo del potere regale, presente fin dalle prime serie monetali battute nel regno della Lidia, in Asia Minore. Del leone è raffigurata la testa, l’intero corpo o anche la sola zampa. In posizione araldica, accovacciato, al passo o all’attacco mentre azzanna la preda, è la fiera che in ogni epoca evoca la forza e la possanza. Il leone è emblema di Apollo e, in quanto animale a lui sacro, è l’impronta delle monete di Leontini, colonia greca in Sicilia, su cui una Tetradrammo di Cartagine testa di leone, abbinata con la testa del dio, coniato in Sicilia (380-350 a.C.) allude al nome stesso della città. Sconfiggere il leone è impresa da eroi o semidei e, non a caso, Ercole che strozza il leone compare piuttosto di frequente sulle monete greche. L’immagine assume diverse sfumature semantiche: da celebrazione di vittorie dei Greci contro il barbaro (come si è inteso per la moneta d’oro di Dionigi, il tiranno greco di Siracusa della fine del Vprimi decenni del IV a.C., che sconfisse i “barbari” Cartaginesi) a paradigma di agoni giovanili. Inoltre, l’animale è anche sacro alla Grande Dea di origine anatolica, la Madre che nutre i leoni della Frigia e domina la natura selvaggia. Forse il leone presente sulla moneta tardo-arcaica di Cizico e, in ambito foceo, su quelle di Focea, di Massalia e di Elea si riferisce al culto ancestrale per questa divinità. Infatti, nella scelta dell’elemento figurativo in grado di rappresentare la comunità, solitamente, le città greche hanno fatto ricorso alla divinità protettrice o a culti locali e miti di fondazione, evocati – soprattutto nelle fasi iniziali della monetazione – attraverso un animale ad essi collegato, come la tartaruga di Egina, il pegaso di Corinto, il cervo di Efeso. Solo a partire dallo scorcio del VI secolo a.C., si è consolidata la consuetudine di riprodurre la vera e propria effige del dio (in genere la testa di profilo o, meno di frequente, a immagine intera) o di meridionale e in Sicilia, la quale cosa ne denuncia la probabile provenienza da area meridionale. Tra le coniazioni più antiche si annoverano monete in argento di fine VI a.C. di Metaponto, tra le più recenti esemplari successivi all’Unità di Italia. 4 Le monete sono state esposte in sei vetrine nella mostra documentaria allestita presso l’Archivio di Stato di Salerno (maggio-novembre 2009). Nel presente testo sono indicati tra parentesi quadre i numeri di catalogo degli esemplari presentati.
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numi tutelari locali. Sovente ciascuno di essi è raffigurato con l’animale assurto a proprio simbolo. Come il leone, simbolo della regalità è l’aquila, l’uccello rapace dalla vista acuta che tutto scruta dall’alto e veloce ghermisce la sua preda. L’aquila rappresenta il re degli dèi, Zeus, e per questo a volte stringe un fulmine tra gli artigli. Zeus e l’aquila sono raffigurati sulle monete di molte città greche, in particolar modo quelle dove il culto del dio era più radicato, come ad esempio Locri, in Magna Grecia, o Agrigento in Sicilia. Nei regni ellenistici, il sovrano soleva paragonarsi a Zeus; per questo motivo i Tolomei in Egitto hanno scelto di apporre la testa di Zeus e l’aquila sulle proprie abbondanti coniazioni [cat. 2.2]. In quanto simbolo della vittoria, l’aquila (che, come è noto, era utilizzata come insegna militare delle legioni romane) appare riprodotta su monete coniate in circostanze belliche, a Roma e altrove. Durante le guerre tra Roma e Cartagine, un’aquila ad ali spiegate compare sulle emissioni del popolo dei Mamertini [cat. 2.3], i mercenari di origine campana, seguaci di Marte, alleati di Roma, ma pure su quelle dei Bretti, popolo del Bruzio alleato di Annibale. Poiché il rapace rappresenta il potere assoluto, la sua immagine connota soprattutto le emissioni monetali di epoca romano-imperiale. Talvolta, come sulle monete di Tiberio dedicate al Divo Augusto, l’aquila ha tra gli artigli il globo terrestre, a rappresentare il controllo dell’imperatore sull’intero ecumene [cat. 1.2]. Spesso reca una corona e/o un ramo di palma, segno della vittoria o dell’immortalità [cat. 1.3]. Da Roma imperiale all’aquila bicipite dei regni e degli imperi di età moderna: si ricorderà solo che, nell’Italia meridionale, il leone e l’aquila sono stati simbolicamente utilizzati soprattutto per esaltare la dinastia dei Borbone [cat. 1.4]. Tornando agli animali sacri agli dèi presenti sulla moneta greca, non si può non citare la civetta, tipo monetale caratteristico di Atene, la città della dea Atena di cui uno degli appellativi è appunto quello di “glaucopide” (= dea dallo sguardo di civetta). L’immagine monetale restò in uso per circa cinque secoli (dal VI al I a.C.) e, ancora oggi, il pezzo da 1 Euro coniato in Grecia è contrassegnato con una civetta. L’uccello di Atena compare sulle monete di diverse città o comunità, quasi sempre abbinato con Tetradrammo di Atene la testa della dea, ed è una delle impronte (circa 450-525 a.C.) monetali di Elea [cat. 2.4]. Il tipo ha trova-
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to ampia diffusione in numerose zecche attive in Magna Grecia dal V al III a.C. [cat. 2.5 e 2.6]. Se la civetta, capace di vedere anche al buio, è l’uccello sacro ad Atena, dea della saggezza e del discernimento, il pavone allude a Giunone, sposa di Giove, protettrice del matrimonio e dei figli generati dall’unione. Per questo motivo, la dea e il suo pavone sono rappresentati sulle serie coniate a nome delle mogli degli imperatori romani di II d.C. Secondo la tradizione, dopo la morte e la divinizzazione delle imperatrici, la loro anima era elevata in cielo sulle ali di un pavone. Talvolta, quindi, per celebrare la memoria della Augusta, accanto al pavone con la coda aperta, vi è la scritta CONSACRATIO [cat. 2.7]. Su una moneta di Antonino Pio, i tre uccelli (pavone, aquila e civetta) sono raffigurati insieme e rappresentano la triade capitolina: Giove tra Giunone e Atena [cat. 2.1]. I più svariati significati ha assunto nel tempo l’immagine del cavallo, forse l’animale più raffigurato sulla moneta antica e post-antica, a partire dalle serie arcaiche di Atene (metà VI a.C.) fino al XX secolo. Il cavallo è un tema affrontato da numerosi incisori di conio che hanno prodotto creazioni artistiche di eccellente qualità o raffigurazioni mediocri e ordinarie. Sulla moneta si succedono destrieri, fermi, al pascolo, o al galoppo, imbrigliati o a redini sciolte e in tal caso a simboleggiare la conquista della libertà, come su una moneta di Siracusa liberata dalla tirannide dei Dionisii [cat. 3.1]; divinità, eroi, guerrieri, imperatori a cavallo in momenti di pace e in momenti di guerra [cat. 3.7 e 3.8]; cavalieri, bighe, trighe e quadrighe al passo o al galoppo [cat. 3.4, 3.5, 3.10, 3.11] in scene di agoni o di trionfi [cat. 3.9]. In antico, come emblema monetale, il cavallo caratterizza soprattutto le emissioni puniche [cat. 3.2 e 3.3], ma c’è un lasso di tempo, quello che coincide con gli anni della conquista di Roma dei popoli e delle città dell’Italia meridionale, in cui un destriero libero, senza redini, al galoppo è presente su una delle prime serie di Roma e su quelle di altre città filo-romane della Daunia (Salapia, Luceria), della frentana Larino e anche di Benevento. La sua ricorrenza sulle monetazioni di questi centri risale forse agli intenti della propaganda ideologica di Roma che puntava a legare a sé le élites locali, utilizzando il tema di una comune discendenza da eroi legati al mito troiano. Infatti in Daunia era assai diffuso il culto di Diomede, eroe greco legato alla sfera dell’allevamento equino e – secondo tradizioni mitografiche locali – fondatore di Arpi, di Salapia e di Benevento. In epoca rinascimentale, invece, gli Aragonesi del regno di Napoli apposero l’iconografia del cavallo (equus) sulla moneta come esemplificazione propagandistica della aequitas, ribadita anche nell’iscrizione. Questa moneta in rame puro, introdotta nel 1472, fu chiamata, appunto, il “cavallo”.
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Pesci, crostacei, molluschi e conchiglie di ogni genere non di rado ricorrono sulle monete delle città di mare, soprattutto in epoca greca, come tipo principale o come simbolo aggiuntivo. Talvolta si riferiscono alla fauna caratteristica di un determinato luogo (un esempio è il mitilo, tipico mollusco dell’area flegrea, della moneta di Cuma tra V e IV a.C.), molte altre volte si ricollegano a divinità e a miti, oppure sono utilizzati in senso metaforico come metonimia. Il polpo, ad esempio, appare come tipo principale o secondario in città sul mare in Grecia, in Etruria, in Magna Grecia e in Sicilia [cat. 6.1]: è un elemento naturalistico o è prescelto come simbolo di adattabilità e di scaltrezza, doti attribuitegli da più autori greci 5? Il granchio è il sema di Agrigento (in greco Akr£gaj) [cat. 6.2], perché il nome della città deriverebbe da kr£ggh (= granchio), oppure in quanto ispirato da Kos, l’isola greca da cui un gruppo di coloni giunse nella città siceliota (le monete di Kos recano, appunto, l’immagine del granchio)? Il crostaceo, peraltro, per via delle zampe a tenaglia, si ricollega anche all’arte di forgiare il metallo e quindi al dio Efesto/Vulcano. Come icona monetale il granchio è presente in Sicilia e su monete di popoli e città dell’odierna Calabria [cat. 6.3]. Molti simboli marini si riferiscono poi ad Afrodite, la dea nata tra la spuma marina e trasportata a Cipro dai delfini o su una conchiglia. Il delfino – che tra tutte le specie viventi nel mare è il soggetto più presente nella letteratura, nel mito e nelle raffigurazioni di epoca greca e romana – è collegato ad Afrodite e al figlio Eros, ma anche ad altre divinità, come Apollo e Posidone. I delfini campeggiano sulle monete di molte città magno-greche e siceliote (a voler citarne qualcuna, Poseidonia, Taranto, Siracusa), accanto a Posidone oppure con Eros, con Posidone o con Taras (mitico eroe fondatore di Taranto) in groppa [cat. 6.6]. Talvolta sono raffigurati in circolo, come raffinato motivo decorativo, intorno alla testa di ninfe marine o di una conchiglia [cat. 6.5]. Statere di Taranto Gli animali accompagnano gli dèi, ma (circa 480-460 a.C.) anche l’uomo in ogni sua attività, in tempo di pace e in tempo di guerra. Sul piano simbolico, non di rado, propositi belligeranti o affermazioni di potenza militare sono resi sulla moneta attraverso la raffigurazione di 5
Tra altri: OPPIAN. Hal., II, 232-233, 236, 239; PLUTARCO, De Sol. Anim., 979.
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animali all’attacco. Considerando che nel mondo antico i momenti di grande mobilitazione militare sono quelli in cui si è coniato in quantitativi maggiori per il pagamento e per il mantenimento degli eserciti, non sorprende che molti tipi monetali raffigurino animali aggressivi o animali utilizzati in battaglia, come gli elefanti da combattimento, impiegati soprattutto dai sovrani dei regni ellenistici succeduti ad Alessandro Magno. La prima volta che i Greci incontrarono elefanti da guerra fu nella battaglia di Alessandro Magno contro i Persiani a Gaugamela (331 a.C.). L’impressione suscitata nell’esercito macedone fu tale che si narra di sacrifici propiziatori compiuti in onore di Phobos (la divinità della Paura). Invece, secondo la tradizione, i Romani conobbero gli elefanti in occasione della guerra contro Pirro e, terrorizzati alla loro vista, furono sconfitti presso Eraclea in Lucania (280 a.C.). La traversata delle Alpi di Annibale con gli elefanti africani, tra cui il leggendario e valoroso Surus, deve aver alimentato a suo temTetradrammo di Seleuco po un’ampia propaganda filo-cartaginese e coniato a Pergamo (281-280 a.C.) persino le cittadine campane, per esaltare la loro alleanza con Annibale durante la seconda guerra punica, hanno riprodotto un elefante sulle proprie monete. Cesare, invece, ha utilizzato l’immagine monetale del pachiderma per celebrare le sue imprese in Gallia [cat. 4.5]. In seguito, sulle monete imperiali romane, l’elefante perde il significato di invincibile macchina da guerra e si riferisce piuttosto ai giochi e alle parate da circo svolte mettendo in campo animali esotici e belve, grazie alla munificenza dell’imperatore [cat. 4.6]. Anche l’icona del cosiddetto “toro cozzante” evoca un impeto travolgente, rivelando l’intento delle comunità emittenti di comunicare vitale energia. Il toro o il vitello sono considerati animali “totemici” delle popolazioni indigene dell’Italia antica. La prima città a coniare in Magna Grecia (circa 540-510 a.C.) è Sibari: sulle sue monete campeggia un vigoroso toro retrospiciente, il cui significato originario non è ancora ben chiaro. Certo è che Turi, colonia panellenica fondata alla metà del V a.C. nel territorio un tempo di Sibari, sceglie come immagine monetale un toro che in un primo momento è raffigurato al passo, poi a partire dalla fine del V a.C. in posizione di attacco [cat. 4.1]. Come Turi anche Poseidonia, colonia di Sibari, ha sulle sue monete il toro, dapprima al passo, poi all’attacco [cat. 4.2 e 4.3].
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Talvolta, pure gli animali da cortile sono stati utilizzati come tipo monetale. Un gallo è l’episemon di Imera, colonia greca in Sicilia, il cui nome ha a che fare con il termine greco ¹mšra (= giorno). Il gallo canta al mattino esortando al risveglio e per questa sua caratteristica è diventato il simbolo di incitazione ad atteggiamenti di “all’erta”. Durante la prima guerra punica, sulle serie monetali coniate da Napoli e dalle colonie latine della Campania antica, un battagliero galletto invita alla mobilitazione militare. Non a caso, sul lato opposto di queste stesse monete, vi è la testa della dea armata Atena ad assicurare la sua protezione alle città alleate di Roma [cat. 4.4]. L’infinita varietà delle reali specie animali non è bastata agli uomini per rappresentare in un’unica creazione gli insiemi di qualità di valori o di disvalori proprie dei viventi in terra, in cielo e nelle acque. In tutte le epoche storiche e in tutti gli ambiti culturali, quindi, l’effetto dell’immaginazione ha prodotto strane creature legate al mito, le cui raffigurazioni popolano ogni genere di opere. Vasto è il repertorio degli animali fantastici apposti sulla moneta come immagine principale, come simbolo accessorio o ad ornare armi ed elmi delle divinità raffigurate. In epoca antica, gli animali mitologici riprodotti con maggiore frequenza sono il pegaso (cavallo alato), la chimera (testa di leone, testa di capra sulla schiena, coda di serpente), il grifo (corpo di leone, testa di aquila, coda di serpente) l’ippogrifo (corpo di cavallo, testa e ali di aquila) e l’ippocampo (parte anteriore del corpo e testa di cavallo, ali e coda di pesce) [ cat. 5.1 e 5.2]. Pegaso, il mitico cavallo alato nato dal sangue della Medusa decapitata da Perseo, è il tipo monetale di Corinto, dalle origini della coniazione (metà VI a.C.) fino alla chiusura della zecca (308 a.C.). Fu scelto come emblema monetale perché legato alla tradizione dell’eroe Bellerofonte, il quale con l’aiuto di Atena riuscì ad aggiogarlo per sconfiggere la Chimera. Dallo scorcio del VI a.C. sull’altro lato della moneta corinzia appare la testa di Atena. La tradizione narra che Bellerofonte, punito da Zeus, cadde da Pegaso colpito in volo da un insetto velenoso e il cavallo alato salì in cielo trasformandosi in costellazione. Ancora durante l’Impero romano, il pegaso veniva talvolta utilizzato come tipo monetale [cat. 5.3]. In età post-antica altri animali stravaganti sono utilizzati soprattutto per stemmi e blasoni nobiliari. Legate al mito sono, inoltre, le raffigurazioni monetali di animali sotto sembianze umane, scelte a simboleggiare elementi della natura dei luoghi, come fiumi, canali, sorgenti. Fonte di approvvigionamento di acque e indispensabili per gli usi agricoli, vie di transito, ambiente di vita per animali e dunque oggetto di culto, i fiumi sono stati immaginati dagli antichi come benefiche creature a metà uomo e a metà toro, montone o ariete, con le fattezze di una figura giovanile con corna o testa di toro, di uomo maturo con barba fluente, oppure di toro a volto umano. Il toro è simbolo di fertilità e, come i fiumi, è essenziale per la sussistenza dell’uomo. Per ren-
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dere il moto delle acque di un fiume impetuoso, l’animale è raffigurato di frequente sulla moneta in posizione di nuoto perenne. La sua immagine appare come tipo monetale in varie città greche, magno-greche e siceliote. Metà toro e metà uomo è raffigurato, ad esempio, l’Acheloo, il fiume greco che scorre tra l’Acarnania e l’Etolia, venerato come dio e per questo paragonato da Erodoto al Nilo. Nella Campania antica il toro a volto umano è il sema monetale di Napoli perché la leggenda vuole che la sirena Partenope sia nata da una goccia di sangue di Acheloo. L’impronta della moneta napoletana fu a tal punto nota e peculiare da essere utilizzata a più riprese, tra la fine del V e il III a.C., anche da altre comunità campane e da colonie latine in Campania [cat. 5.4]. In una pur breve rassegna di esempi di animali leggendari va ricordata, infine, la lupa. La sua forza di fiera nutrice ha ispirato il più celebre dei miti di Roma, connesso alla fondazione stessa della città eterna. L’immagine della lupa che allatta i gemelli Romolo e Remo compare per la prima volta sulla moneta nella prima metà del III a.C., quando su un didrammo d’argento di Roma viene riprodotto il gruppo scultoreo che nel 296 a.C. fu dedicato presso il fico Ruminale dagli Ogulni. La raffigurazione riappare poi su un denario della fine del II a.C. Ancora al tempo dell’imperatore Costantino, su una moneta emessa in onore dell’Urbe e per questo raffigurante i temi propri della “romanità”, è raffigurata Roma armata e con paludamento imperiale e, sull’altra faccia, la lupa con i gemelli [cat. 5.5]. Del resto in precedenza, non a caso, gli Italici insorti contro Roma, avevano apposto sui denari battuti negli anni del bellum sociale (90-87 a.C.) l’eloquente tipo della lupa Denario del bellum sociale schiacciata dal toro italico, a propugnare con (91-88 a.C.) forte intento propagandistico la forza dell’esercito dei socii. Roma si riconosceva nella lupa, invece le popolazioni italiche si identificavano con il toro o il vitello. Se di alcuni tipi monetali con animali scelti come simbolo è comprensibile il significato, per molti altri esso è oscuro. Per ben pochi, infatti, è di ausilio il conforto delle fonti e anche in questi casi la loro interpretazione non è univoca. Si può citare, in proposito, la questione della biga di mule e della lepre, tipi monetali di Reggio e di Messa-
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na, messi in relazione con un celebre passo di Aristotele 6. Il filosofo racconta che Anassila, tiranno di Reggio, partecipò alla 73esima olimpiade (480 a.C.) nella gara della corsa dei carri trainati da mule e, conseguita la vittoria, organizzò un sontuoso banchetto al quale furono invitati tutti i Greci presenti ad Olimpia. Al rientro a Reggio, il tiranno coniò la moneta con l’auriga su biga di mule e commissionò a Simonide un epinicio per la sua vittoria, che il poeta compose solo dietro un lauto compenso, nobilitando le mule con l’epiteto di “figlie delle cavalle dal piede di tempesta” e dimenticando che esse erano anche figlie di asini 7. Lo scherno di Aristotele fornisce la spiegazione della presenza di una biga di mule sulla moneta di Anassila, ma più sibillina è la sua annotazione circa la lepre. Cosa intendeva dire Aristotele affermando che le lepri furono introdotte da Anassila in Sicilia? Che Anassila importò nell’isola l’animale, il culto dell’animale o le monete con la lepre (chiamate “lepri” per la loro raffigurazione)? Gli esempi di polisemia dell’animale come emblema monetale sono molteplici. In ogni caso, al di là della diversità del significato di ciascuna impronta, l’elemento che accomuna le raffigurazioni sulle monete greche e romane è indubbiamente l’incisivo ruolo simbolico assunto dagli animali nel mondo antico, specie viventi con i quali l’uomo si è da sempre confrontato. Esseri amati, temuti, divinizzati, addomesticati, ma innanzitutto rispettati. Non va dimenticato, infatti, che nella Grecia antica il rapporto uomobestia è alla base di ogni forma di regola sociale: la carne nutre l’uomo, ma la si mangia solo durante il banchetto sacrificale, rituale che ristabilisce l’ordine umano, voluto dagli dèi. Chi mangia la carne è mortale come l’animale che uccide per nutrimento; è necessario dunque sacrificare agli dèi la parte migliore dell’animale per ristabilire l’equilibrio turbato dalla sua uccisione, intesa come atto di sanguinosa violenza. Mi piace concludere ricordando le parole di Senofane sulla relatività del punto di vista degli uomini che figurano gli dèi a propria immagine e somiglianza : «…se avessero mani i bovi i cavalli e i leoni e fossero in grado di dipingere e di compiere con le proprie mani opere d’arte come gli uomini, i cavalli rappresenterebbero immagini di dèi e plasmerebbero statue simili a cavalli, i bovi a bovi, in modo appunto corrispondente alle figura che ciascuno possiede …». Seguendo il paradossale punto di vista del filosofo di Colofone verrebbe da chiedersi: e se gli animali fossero in grado di coniare moneta, cosa avrebbero scelto per le loro raffigurazioni?
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ARISTOTELE, Rhet. III, 1405 b 23, p. 181 (Roemer). SIMONIDE, Frg. 515 (Page).
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MICHELA ANGELLOTTI
Il lapidario del quadriportico del Duomo di Salerno: lo zoo di pietra
La Cattedrale di S. Matteo è senza dubbio il monumento principale della città di Salerno, ma poco ci si sofferma nel quadriportico ad osservare tutte le opere in esso contenute, le decorazioni nonché i loro significati. Fu Roberto il Guiscardo che, dopo la conquista di Salerno, divenuta capitale dei suoi possedimenti in Italia, nel 1076 decise di costruire la chiesa in onore di san Matteo Evangelista, in cui conservare le sue spoglie, ma anche per riguadagnare il favore della cittadinanza sconfitta in seguito alla disfatta dell’ultimo principe longobardo Gisulfo II, fratello di Sichelgaita. L’opera del normanno Roberto fu fortemente appoggiata dall’arcivescovo Alfano I, medico e poeta, formatosi a Montecassino e legato all’abate Desiderio, di cui condivideva l’opera di rinnovamento spirituale e religioso della Chiesa. L’edificio, costruito sul suolo occupato in precedenza dalle due chiese di S. Maria degli Angeli e S. Giovanni Battista, ha tuttora un impianto planimetrico dettato dall’aspirazione alle forme pure delle basiliche paleocristiane: atrio porticato, basilica a croce latina divisa in tre navate da due colonnati e transetto, su cui si aprono tre absidi e al di sotto del quale si trova la cripta dove nel 1081 vennero riposte le spoglie di S. Matteo e dei Santi Martiri Salernitani. Si accede al duomo attraverso lo scalone settecentesco a doppia rampa attribuito a Cosimo Fanzago, scultore ed architetto di origine bergamasca, attivo e molto famoso a Napoli, fatto realizzare dall’arcivescovo Carafa, in sostituzione di quello originario a pianta circolare. La facciata, sopraelevata, venne realizzata invece nel 1768 dall’arcivescovo Sanchez de Luna (in ricordo di questo è presente una lapide e lo stemma che campeggiano tuttora in alto). L’attuale aspetto neoclassico gli viene conferito nel 1837 sotto l’arcivescovo Marino Paglia. Altro elemento, in facciata, riconducibile al Settecento è un affresco, posizionato nella lunetta al di sopra del portale d’accesso al quadriportico. Fino al 1947 l’aspetto del quadriportico era stato sia quello voluto dall’arcivescovo Fabrizio De Capua, che nel 1733 fece realizzare la balaustra, al di sopra del nar-
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tece, su cui fece collocare le statue di S. Matteo, S. Bonosio e S. Grammazio, opere del napoletano Matteo Bottigliero, che quello voluto nel 1747 dall’arcivescovo Casimiro Rossi, che lo fece adornare di stucchi. Della decorazione originaria normanna si venne a conoscenza nel 1947, durante il rilevamento dei danni arrecati dai bombardamenti agli intonaci e alle murature. Il restauro ha così messo in luce l’originario aspetto caratterizzato dall’alternarsi di materiali diversi, tipico dell’architettura romanico-campana e presente a Salerno anche nei resti di Castel Terracena, della Curia Arcivescovile, della Chiesa di S. Benedetto e di Palazzo Fruscione. La costruzione ed il completamento dell’atrio, con l’aggiunta del campanile, avvenne entro la metà del XII secolo; infatti quando nel 1085 venne consacrata la basilica, nell’atrio era stato completato solo il colonnato ed il loggiato sovrastante il nartece. Il colonnato venne realizzato, secondo l’uso medievale, riutilizzando materiali provenienti da edifici più antichi: le ventotto colonne, i capitelli e le basi che lo compongono sono tutte, infatti, di diversa qualità di marmo e fattura. Ad esempio, un frammento di un monumento romano, forse un’ara, è stato riutilizzato come base di una colonna (la colonna di destra dell’arcone del nartece).
Lo zoo di pietra Le prime decorazioni che incontriamo e che riproducono animali si trovano sul portale dell’atrio, comunemente chiamato porta dei leoni. È un portale romanico costituito da due stipiti laterali con alla base due sculture di notevole importanza, e nella parte alta chiuso da un architrave sormontato a sua volta da un archivolto che contiene l’affresco settecentesco raffigurante S. Matteo. La scritta che delimita l’architrave DUX ET IORDANUS CAPUANUS REGNENT AETERNUM CUM GENTE COLENTE SALERNUM ricorderebbe la pace fatta da Roberto il Guiscardo, che insieme ad Alfano I fu il fautore della costruzione del tempio dove custodire le spoglie dell’Evangelista Matteo, con Giordano di Capua nel 1079, oppure, secondo una tesi più recente, nel DUX dovrebbe riconoscersi Boemondo o Ruggero Borsa, eredi del Guiscardo, ed in Giordano, DIGNITUS PRINCEPS morto nel 1091, il nuovo committente dei lavori del Duomo. Le due sculture alla base degli stipiti, attribuibili a maestranze lombarde, rappresentano, nelle fattezze del leone e della leonessa che allatta il piccolo, i simboli della Potenza della Chiesa e della Carità. Nelle manifestazioni dell’arte figurativa medievale sono frequenti le rappresentazioni di animali, cui i contemporanei, a prescindere dal valore decorativo ed estetico, attribuirono precise valenze simboliche, ben riconoscibili ed interpretabili alla luce della dottrina religiosa cristiana.
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Sin dall’antichità il leone è stato considerato emblema di forza e fierezza ed appare nell’iconografia sia sacra che profana con significati diversi. L’animale è largamente presente nell’arte medievale in Campania, singolo o in coppia; spesso come guardiano dell’ingresso (ad es., portale d’ingresso nella Cattedrale di Carinola, Caserta), sul modello delle chiese padane o anche in funzione stilofora a reggere le colonne degli amboni (ad es., ambone Rufolo nella Cattedrale di Ravello). In età medievale i leoni, presenti come sentinelle dell’ortodossia cristiana, fanno da scenografia alle cause civili ed ecclesiastiche che venivano discusse e risolte sui sagrati delle chiese e dove venivano formulati i giudizi secondo la nota formula: inter leones et coram populo (tra i leoni e il popolo riunito). Anche l’architrave presenta elementi di simbologia cristiana. Il tralcio di vite richiama alla memoria le parole di Cristo: Io sono la vite voi i tralci, mentre i datteri delle palme beccati dagli uccelli alludono al nutrimento dell’anima. Nonostante associati a visioni favorevoli, nell’immaginario mitologico, gli uccelli sono talvolta portatori di sventura. In genere, nell’antichità, gli uccelli raffiguravano, come le farfalle, l’anima umana che abbandona il corpo al momento della morte, ed è con questa valenza che vengono rappresentati nelle catacombe paleocristiane. Nelle rappresentazioni medievali, invece, spesso simboleggiano il paradiso dei Cristiani, in tal modo vengono raffigurati mentre beccano frutti da palme, tipico albero del paradiso. Ai due lati dell’architrave sono presenti invece la scimmia (sulla sinistra) e un leone rampante (sulla destra). La scimmia ha spesso ispirato sentimenti di avversione ed è stata associata al malvagio e al mostruoso. Descrivendone le caratteristiche, Plinio ne ricorda le fattezze umane e l’abitudine a imitare l’uomo. I bestiari medievali ne fan-
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no la personificazione del diavolo e del male, evidenziandone il temperamento instabile, frivolo e dispettoso. Nell’iconografia medievale la sua immagine ha evocato in particolare quella dell’eresia e dell’idolatria; da san Pier Damiani (De bono religiosi status …) come simbolo della lussuria. Non è ben chiaro con quale simbologia sia rappresentata nella scultura al lato dell’architrave, sicuramente diversa da quella alla sommità del reliquiario di san Matteo donato da Cecio Frangipane a Desiderio di Montecassino negli anni Settanta dell’XI secolo, oggi conservato a Roma. Altre rappresentazioni di animali si ritrovano sulla facciata interna e precisamente sugli stipiti del portale centrale. Su questi ultimi corre un motivo a girali vegetali all’interno dei quali sono raffigurati animali sia della terra, come il cane, la volpe; sia dell’acqua, come il grande pesce; sia dell’aria, come la civetta, il pavone, sia uccelli che creature fantastiche come l’unicorno. Al cane si accompagna spesso un’immagine positiva, per lo più legata al concetto di fedeltà. Nell’iconografia religiosa è un cane ad accompagnare Tobia durante il viaggio con l’arcangelo Gabriele e compare anche nelle raffigurazioni della Natività, dell’Adorazione dei pastori e dei magi. In ambito mitologico, il cane appare come attributo di Diana, dea della caccia, e di altri cacciatori come Adone, Cefalo e Atteone. Assume valenza negativa, invece, in alcune rappresentazioni dell’Ultima cena, dove viene ritratto ai piedi di Giuda, oppure mentre sta affrontando un gatto, alludendo in questo caso al contrasto e all’inimicizia. Della volpe i bestiari medievali danno un giudizio di animale molto furbo, fraudolento, astuto, ingegnoso, falso e sleale, per lo più legato alle bizzarre indicazioni su come riesca a procurarsi il cibo. Quando ha fame e non ha nulla da mangiare, va a cercare un luogo ove ci sia della terra rossa e vi si rotola per sembrare tutta insanguinata, poi si getta a terra e resta immobile, trattiene il fiato e si gonfia tutta; gli uccelli che la vedono, credendola morta, si avvicinano alla sua bocca e lei, veloce quanto astu-
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ta, li afferra e li divora. Per le sue caratteristiche è paragonata al diavolo, che è morto alla fede e nell’anima e, come lei, afferra i peccatori nelle sue grinfie. Coloro che imitano il suo comportamento sono perciò i peccatori della carne, i lussuriosi, ma anche i bugiardi, i ladri, gli idolatri e gli assassini. È citata più volte nelle Sacre Scritture, sempre come esempio di amoralità, per la sua natura fraudolenta e le ingannevoli astuzie. Interessante la rappresentazione della volpe in Costa d’ Amalfi dove, nella chiesa di santa Maria dell’Assunta a Positano, in una lastra marmorea murata nel campanile, compare nell’atto di inseguire dei pesci; da qui la leggenda della volpe pescatrice, molto diffusa localmente e che alluderebbe alla consumata abilità, sia per terra che per mare, degli uomini della costiera. Il grande pesce, chiamato così nella Bibbia, è l’animale che inghiotte Giona, punito per essersi rifiutato di predicare nella città pagana di Ninive, contravvenendo all’ordine del Signore. Il profeta rimane all’interno dell’animale per tre giorni e tre notti finché, dopo aver pregato Dio, viene rigettato fuori. Matteo riprende questo episodio interpretandolo come prefigurazione della Resurrezione di Gesù. Il passo dell’Evangelista è stato quindi inteso quale inequivocabile simbolo della resurrezione. Nei bestiari medievali, invece, il grande pesce assume una valenza negativa. Si racconta, infatti, che i marinai possono scambiare il dorso dell’animale per un isolotto e approdarvi con le navi; quando però accendono i fuochi per cucinare il cibo, l’enorme animale avverte il calore e si immerge, trascinando con sé gli sfortunati avventori. Allo stesso modo, chi non crede o chi ignora le azioni del diavolo finisce per essere trascinato nell’abisso infernale. Si dice anche che il cetaceo si procuri il cibo aprendo la bocca che emana un dolce profumo: i pesci, attratti dalla fragranza, vengono così inghiottiti. Lo stesso capiterà a coloro i quali, privi di fede, si fanno attrarre dalle lusinghe dei piaceri divenendo preda del diavolo. Per questo motivo la bocca spalancata del grande pesce può alludere alla bocca dell’Inferno.
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L’immagine della civetta, originariamente animale sacro a Minerva, dea della sapienza, è diventata emblema del sapere e, talvolta, per questo, viene raffigurata su una pila di libri come simbolo di conoscenza e saggezza. Nonostante ciò, nelle credenze popolari ha assunto un’accezione negativa. Già Plinio ricorda che, essendo un animale notturno, è considerata un uccello funebre e, se avvistata di giorno, di sinistro auspicio. La sua cattiva fama le viene attribuita anche dalle Sacre Scritture: in un passo del profeta Isaia si dice che sul paese di Edom si abbatterà l’ira del Signore e su quelle terre, che diverranno deserte e desolate «il gufo e il corvo vi faranno dimora». La civetta, oltre che sullo stipite del portale, viene raffigurata anche all’interno della cattedrale nei capitelli dell’ambone Guarna. I pavoni sono gli animali sacri a Giunone, sposa di Giove e regina degli dei. Inizialmente considerati emblema della resurrezione, divengono in seguito anche simbolo di superbia. Secondo la leggenda, le macchie colorate sulla coda del pavone sono gli occhi di Argo, posti da Giunone sulla coda dell’animale a lei sacro in memoria del fedele guardiano dai cento occhi ucciso da Mercurio. Il cristianesimo delle origini attribuisce all’animale significati per lo più positivi. In base alla credenza secondo la quale il pavone ogni anno in autunno perde le penne che ricrescono in primavera, l’animale è diventato il simbolo della rinascita spirituale e quindi della resurrezione. Inoltre i suoi mille occhi sono stati considerati emblema dell’onniscienza di Dio. Solo in un secondo momento i bestiari medievali ne hanno dato un’interpretazione negativa, legata al fatto che l’animale ama molto gironzolare esibendo il suo piumaggio e guardandosi intorno con presunzione. Il volatile è quindi divenuto simbolo di superbia e arroganza; quando però osserva le sue zampe piuttosto brutte s’intristisce, perché stridono con il suo aspetto meraviglioso. Allo stesso modo l’uomo deve gioire dei propri meriti, ma non deve dimenticare i suoi difetti e rischiare di costruire la propria vita sul nulla.
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Anche qui come nell’architrave del portone dell’atrio ritroviamo gli uccelli. Una ulteriore presenza di questi animali è all’interno della cattedrale eseguiti, in questo caso in mosaico, sull’iconostasi. L’unicorno è l’ unico animale fantastico che ritroviamo negli stipiti. Viene riproposto due volte, sia sullo stipite di destra che di sinistra. Raffigurato come un cavallo, di solito bianco, con un lungo corno acuminato e attorcigliato sulla fronte, a volte con barba caprina, coda di leone e zampe bovine. Le prime testimonianze dell’esistenza di questo animale risalgono allo storico greco Ctesia, originario di Conidio e vissuto tra il V e IV secolo a. C., che nei suoi scritti sull’India racconta della presenza in questo paese di un animale selvatico simile al cavallo, con un corno sulla fronte dalle straordinarie proprietà terapeutiche. Forse si trattava del rinoceronte indiano, ma questa strana e misteriosa figura s’insinuò subito nell’immaginario collettivo, assumendo le fattezze dell’unicorno. La religione cristiana ne fa un simbolo di purezza e castità e la sua effige finisce per comparire nei bestiari medievali, che ricordano le leggendarie qualità dell’animale, a cominciare dal potere del suo corno di scoprire e neutralizzare i veleni. Viene, quindi, descritto come un essere piuttosto selvatico e ribelle, impossibile da catturare se non grazie a uno stratagemma. Secondo la tradizione, l’animale può essere avvicinato solo da una vergine; i cacciatori allora lasciano una fanciulla sola in mezzo a una radura e si nascondono nei dintorni. L’animale scorgendo la ragazza, le si avvicina, e non appena si adagia sul suo grembo, addormentandosi, viene immediatamente catturato. Nell’episodio della caccia dell’unicorno si è voluto scorgere l’allusione alla passione di Gesù, anche se in realtà prevalse il simbolo della purezza e castità associato direttamente all’animale. Alla base degli stipiti vi sono due leoni, raffinate sculture di gusto islamico; al di sopra, invece, gli stipiti sono sormontati da un architrave simile a quello del portale dei leoni, sicuramente proveniente da un edificio
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romano, recante sui bordi una scritta in cui è espressa la speranza di Roberto il Guiscardo di poter guadagnare il regno dei cieli avendo dedicato il tempio all’apostolo Matteo: A DUCE ROBERTO DONARIS APOSTOLE TEMPLO PRO MERITIS REGNO DONETUR IPSE SUPERNO. Le porte, in bronzo, che danno accesso alla navata centrale, furono fuse a Costantinopoli alla fine dell’XI secolo, e donate da Landolfo Butrumile e dalla moglie Guisana. In ricordo della loro donazione, le lastre tombali dei due coniugi, in precedenza collocate nel pavimento della Basilica, sono ora murate e posizionate sul muro alla sinistra del portale. Le porte sono formate da cinquantaquattro riquadri di cui quarantasei sono decorati da una croce latina, mentre in otto sono raffigurati i santi Paolo, Simone, Pietro, il Cristo benedicente, la Vergine, S. Matteo con ai piedi i donatori, due ippogrifi che si abbeverano ad una fonte ed infine la scritta in cui Landolfo dice di donare le porte al tempio dell’Apostolo, sperando nella remissione dei propri peccati. La tecnica che venne utilizzata per le formelle è quella dell’ageminatura, inserendo cioè argento nel solco inciso del bronzo, in modo da dare più rilievo alla decorazione. Anche all’interno della cattedrale si trovano decorazioni che raffigurano animali. Sull’ambone Ajello (XII sec.), collocato sulla destra della navata centrale, si staglia il gruppo scultoreo del leggio, che rappresenta un’aquila che artiglia il capo di un uomo che schiaccia delle fiere, avvolto tra le spire di un serpente: un’iconografia che ha avuto una diffusione notevole nei lettorini di diverse cattedrali campane. L’aquila, nella cultura cristiana, mantiene significati positivi. Quando lotta con il serpente è stata interpretata come Gesù che affronta il diavolo. I bestiari medievali ricordano il fenomeno della rigenerazione del rapace. Si dice infatti che, quando invecchia, la sua vista inizia ad offuscarsi. Allora l’aquila vola vicino al sole, che brucia il velo che le appanna la vista, e si precipita nell’acqua per poi riemergerne completamente rinnovata. In ciò si è voluto scorgere l’immagine dell’uomo che si rinnova alle sorgenti dello Spirito, come afferma Giovanni nel suo Vangelo. Secondo i commentatori delle Sacre Scritture, lo stesso Giovanni è raffigurato come aquila poiché la sua descrizione di Dio è la più diretta.
Michela Angellotti, Il lapidario del quadriportico del Duomo di Salerno
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Il serpente è l’incarnazione del male e del demonio, è il terribile tentatore di Adamo ed Eva, responsabile del peccato originale. Il rettile può apparire anche nelle scene della Crocifissione, in ricordo del peccato originale e della contemporanea redenzione dell’uomo grazie al sacrificio di Gesù. Anche sull’iconostasi della cattedrale si ritrova il serpente, in questo caso realizzato a mosaico.
BIBLIOGRAFIA Il mondo animale nell’arte medievale in Campania, a cura del Gruppo archeologico salernitano, in «Salternum», IX (2005), n. 14-15 La Cattedrale di S. Matteo. Schede e itinerari didattici, Salerno 1992 (Passeggiate Salernitane, 6) F. PERRI, Dizionario di mitologia classica, Milano, Garzanti, 1964.
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PIETRO PAOLO ONIDA
Il problema della qualificazione dogmatica dell’animale non umano nel sistema giuridicoreligioso romano
Premessa L’oggetto del presente lavoro necessità di qualche spiegazione. La qualificazione giuridica dell’animale non umano è certo tema di grande importanza anzitutto per l’analisi della ‘questione animale’ e dunque per la valutazione del rapporto tra uomo e altri esseri animati 1. Precisare tale qualificazione significa individuare uno spazio al quale ricondurre l’animale non umano in quanto essere vivente, per quello che esso è, indipenPer una prima analisi della letteratura sulla “questione animale”, con riferimenti anche alla soggettività degli esseri non umani, si vedano: I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, a cura di S. CASTIGNONE - G. LANATA, Bologna, Il Mulino, 1985; I diritti degli animali, a cura di S. CASTIGNONE - G. LANATA, Centro di Bioetica-Genova, Atti del Convegno nazionale, Genova 23-24 maggio 1986, Genova, KC, 1987; T. REGAN - P. SINGER, Diritti animali, obblighi umani, tr. it. di P. Garavelli, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987; P. SINGER, In difesa degli animali, tr. it. di S. Nesi Sirgiovanni, Roma, Lucarini, 1987; ID., Il movimento di liberazione animale, a cura di P. CAVALIERI - A. PILLON, Torino, Sonda, 1989; T. REGAN, I diritti animali, tr. it. di R. Rini, Milano, Garzanti, 1990; P. CAVALIERI - P. SINGER, Il Progetto Grande Scimmia: eguaglianza oltre i confini della specie umana, Roma, Theoria, 1994; L. BATTAGLIA, Etica e diritti degli animali, Roma-Bari, Laterza, 1997; P. CAVALIERI, La questione animale. Per una teoria allargata dei diritti umani, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente, a cura di A. MANNUCCI - M. TALLACCHINI, Milano, Giuffrè, 2001; L. GALLENI - F. VIOLA - F. CONIGLIARO, Animali e persone: ripensare i diritti, Milano, Giuffrè, 2003; P. SINGER, Liberazione animale, a cura di P. Cavalieri, tr. it. di E. Ferreri, Milano, Net, 2003; V. POCAR, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari, Laterza, 2005; F. RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino, Giappichelli, 2005; B. DE MORI, Che cos’è la bioetica animale, Roma, Carocci, 2007; P.P. ONIDA, Macellazione rituale e status giuridico dell’animale non umano, in «Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana», 6 (2007) (= http://www.dirittoestoria.it/6/Contributi/OnidaMacellazione-rituale-status-giuridico-animale.htm) (= «Lares», 74 [2008], pp. 165 sgg., da cui si cita). 1
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dentemente per quanto possibile dalle sovrapposizioni antropocentriche dovute all’uso delle categorie giuridiche moderne di soggetto e di oggetto di diritto 2. Su un piano più ampio rispetto alla ‘questione animale’, la qualificazione giuridica dell’animale non umano è anche tema la cui analisi è utile alla comprensione della stessa concezione generale del diritto. Sulla base delle riflessioni della filosofia greca in materia di condizione degli animali non umani, la giurisprudenza romana, per il tramite della concezione del diritto naturale di cui si riteneva essere parte non solo gli uomini ma anche gli altri animali, giunse a una concezione generale del diritto. Non si tratta, quindi, di un tema bizzarro, come forse potrebbe sembrare a prima vista, ma di un tema ancora oggi centrale per la scienza giuridica 3. Nonostante nelle fonti giuridiche romane siano innumerevoli i riferimenti al mondo animale, il tema della condizione giuridica degli animali non umani non ha suscitato molto interesse nella dottrina romanistica. Solo negli ultimi anni alcuni studi hanno lambito il tema, senza peraltro che in essi sia stata dedicata espressa attenzione ai profili dogma2 Sull’uso delle categorie in questione si vedano: G. SCHERILLO, Lezioni di Diritto romano. Le cose. Parte prima. Concetto di cosa - cose extra patrimonium, Milano, Giuffrè, 1945, pp. 19 sgg.; R. ORESTANO, Il problema delle fondazioni in diritto romano, Parte Prima, Torino, Giappichelli, 1959, pp. 3 sgg.; ID., Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, Giappichelli, 1968, pp. 7 sgg.; G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto romano. Cose - contratti, a cura di L. LANTELLA, Torino, Giappichelli, 1974, pp. 6 sgg.; F. GORIA, Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato, in Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino, Giappichelli, 1976, pp. 311 sgg.; R. QUADRATO, La persona in Gaio. Il problema dello schiavo, in «Iura», 37 (1986), pp. 1 sgg.; P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 169 sgg.; ID., Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, II, Napoli, Jovene, 2001, pp. 97 sgg.; P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 10 sgg.; G. MELILLO, Personae e status in Roma antica, Napoli, Jovene, 2006, pp. 1 sgg.; A. TRISCIUOGLIO, Il corpo umano vivente dopo la nascita: osservazioni storico-comparatistiche, in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, 2, Napoli, Jovene, 2006, pp. 389 sgg.; U. VINCENTI, Categorie del diritto romano, Napoli, Jovene, 2007, pp. 11 sgg.; P.P. ONIDA, Macellazione rituale e status… cit., pp. 165 sgg. 3 Sulla rilevanza sistematica della concezione che i giuristi romani ebbero degli animali non umani si rinvia, per l’opinione di chi scrive, a P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 95 sgg.; ID., Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica, in Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, a cura di F. SINI - P.P. ONIDA, Torino, Giappichelli, 2003, pp. 73 sgg.; ID., Il guinzaglio e la museruola: animali, umani e non, alle origini di un obbligo, in «Archivio Giuridico “Filippo Serafini”», 224, 4 (2004), pp. 592 sgg.; ID., Animali non umani e natura. Una prospettiva romanistica, Sassari, Todini, 2007, pp. 6 sgg.; ID., Macellazione rituale e status… cit., pp. 150 sgg. 4 Per l’esame di tale dottrina si rinvia a P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 1 sgg.
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tici connessi allo status dell’animale non umano 4. Non stupisce, quindi, che ancora oggi nella dottrina romanistica sia pressoché dominante l’idea che nel diritto romano l’animale non umano fosse considerato una cosa, un oggetto di diritto, anziché un soggetto di diritto 5. È noto, invece, che negli ultimi decenni, nella restante dottrina giuridica, un tempo arroccata su posizioni identiche a quelle ora richiamate della dottrina romanistica, si è sostenuta con sempre maggiore convinzione l’idea, anche alla luce di alcuni aspetti della cosiddetta ‘legislazione animale’ più recente, che l’animale non umano possa essere qualificato come soggetto di diritto 6. Oggi, la questione se l’animale sia o non sia un soggetto di diritto è considerata al tal punto importante che dalla soluzione di essa si fa dipendere, in larga parte, la tutela degli animali e/o il riconoscimento dei cosiddetti diritti degli animali 7. L’una e l’altra posizione dottrinale, ‘oggettivistica’ e ‘soggettivistica’, devono essere qui vagliate con una certa attenzione, anzitutto al fine specifico di identificare le categorie giuridiche più adatte a descrivere la condizione dell’animale non umano sia nell’antichità, sia ai nostri giorni. Ma poi anche al fine più generale di compiere una operazione di precisazione concettuale sull’uso delle categorie giuridiche, utile al di là delle necessità relative all’inquadramento dogmatico dell’animale non umano. È noto che le categorie di soggetto e di oggetto di diritto, fra le altre, sono considerate nella dottrina giuridica quelle fondanti il nostro sistema giuridico 8. Un uso critico di queste categorie, Nella letteratura manualistica, la classificazione dell’animale come oggetto giuridico è praticamente unanime: così, ad esempio, M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Palermo, Palumbo, 1989, p. 379, osserva: «Il termine res, che noi traduciamo ‘cosa’, assume nelle fonti giuridiche romane significati molteplici. Più spesso vuol dire effettivamente ‘cosa’ nella sua accezione più propria di ‘oggetto materiale’ (con riferimento anche a terreni, edifici, schiavi ed animali)»; A. GUARINO, Diritto privato romano, Napoli, Jovene, 200112, p. 316: «per res (o ‘bona’, ‘beni’ ) furono intesi: in senso stretto, le entità materiali e gli animali subumani; in senso lato, anche gli schiavi». 6 Si vedano con rinvii alla dottrina meno recente: C.M. MAZZONI, I diritti degli animali: gli animali sono cose o soggetti del diritto, in Per un codice… cit., pp. 111 sgg.; F. MARINELLI, L’animale d’affezione, in Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi danni, a cura di P. CENDON, III, Padova, CEDAM, 2005, pp. 1991 sgg. 7 Per un quadro d’insieme si veda P. CAVALIERI, La questione animale... cit., passim. Si veda, però, per una analisi critica di tale relazione F. VIOLA, Tra giustizia e diritto, in L. GALLENI - F. VIOLA - F. CONIGLIARO, Animali e persone… cit., pp. 99 sgg. 8 Per la letteratura in argomento si rinvia alle principali voci enciclopediche in materia: V. FROSINI, Soggetto del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, XVII, Torino, UTET, 1970, pp. 813 sgg.; D. MESSINETTI, Oggetto dei diritti, in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 808 sgg.; S. COTTA, Soggetto di diritto, in Enciclopedia del diritto, XLII, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 1213 sgg.; P. GALLO, Soggetto di diritto, in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, XVIII, Torino, UTET, 1998, pp. 577 sgg. 5
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quando ancora non si giunga, come forse bisognerebbe fare, a rifiutarle del tutto, si rende dunque indispensabile per rappresentare correttamente altre situazioni giuridiche 9. Possiamo dire, sin da ora, che né l’una posizione dottrinale, ‘oggettivistica’, né l’altra, ‘soggettivistica’, ci sembrano cogliere adeguatamente l’attenzione che l’antichità ha mostrato nei confronti degli animali non umani. Colui che oggi si accosti allo studio della condizione animale, senza pregiudizi dogmatici connessi all’impiego delle categorie moderne di soggetto e di oggetto di diritto, può trovare nel diritto romano una chiave di lettura ‘diversa’ e più utile delle relazioni tra uomo e altri esseri animati. Proprio mentre in dottrina si va affermando una idea, che a molti appare una ‘invenzione’ recente – la tesi di un diritto comune a uomini ed altri esseri animati – e che invece trova nella filosofia greca e nel diritto romano le sue prime affermazioni 10. Si va diffondendo, inoltre, la tesi che il diritto non debba essere inteso più come una creazione riservata ai soli esseri umani, ma come uno strumento essenziale di costruzione di relazioni equilibrate fra essi e il resto dell’ambiente 11. Sulla base di tali presupposti, sia la impostazione ‘oggettivistica’, sia la impostazione ‘soggettivistica’ appaiono frutto di una concezione (banalmente) antropocentrica del diritto che oggi sempre più spesso è correttamente ripudiata in dottrina 12. Nelle pagine seguenti ci proponiamo di mostrare che l’uso delle categorie di soggetto e di oggetto di diritto non sono adeguate a descrivere la condizione animale 13. In tal senso, emblematica è la riflessione scientifica relativa alla condizione giuridica del servus, su cui si veda infra in questo paragrafo. 10 Per la dottrina in questione si rinvia alla nt. 1. 11 Nell’ampia letteratura al riguardo si veda, per una sintesi attenta allo status giuridico degli animali non umani, F. RESCIGNO, I diritti degli animali… cit., pp. 1 sgg. 12 Per il rifiuto dell’antropocentrismo si veda il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, del 19 settembre 2003, su “Macellazioni rituali e sofferenza animale”, in www.governo.it/bioetica/pdf/55.pdf. 13 D’altra parte, di recente in dottrina sono andate affermandosi tesi che andrebbero maggiormente apprezzate, in cui la questione della tutela delle situazioni giuridiche, anche con riferimento agli animali non umani, è affrontata in una chiave non necessariamente legata alla dicotomia soggetto-oggetto di diritto ma, semmai, alla articolazione fra i due poli del valore e della soggettività. Si veda per questo approccio scientifico L. LOMBARDI VALLAURI, Abitare pleromaticamente la terra, in Il meritevole di tutela. Studi per una ricerca coordinata da L. LOMBARDI VALLAURI, Milano, Giuffrè, 1990, pp. VII ss., il quale, ponendo in rilievo la necessità di tutelare la vita «se possibile, indivisibilmente», rileva che «la brutale oggettivazione, reificazione, mortificazione che i procedimenti industriali di allevamento, macellazione, lavorazione perpetrano sugli animali-massa, sugli animali-macchina loro sottoposti falsifica violentemente la realtà. Dalla simbiosi non certo paritetica, ma certo simpatetica, partecipativa, che ha accomunato uomini e animali nei millenni pre-moderni, si è passati, attraverso l’industrialismo concentrazionario, a uno smisurato rapporto persona-cosa, 9
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Ma ci prefiggiamo, soprattutto, di mostrare che attraverso il confronto con il mondo animale la giurisprudenza romana giunse ad una visione complessiva del diritto, che oggi potremmo definire biocentrica, in cui l’uomo, pur continuando ad essere parte essenziale di quel diritto, e, perciò, maggiormente responsabile nei confronti dell’ambiente in cui vive, non è l’unica parte. 1) L’elasticità della sistematica gaiana e giustinianea fra personae, res e actiones La distinzione tra res e personae non è una contrapposizione fra partizioni rigide, prive di contatto reciproco. Il valore elastico di tale sistematica 14 si rinviene, anzitutto, nella classificazione del servus sia all’interno delle res, sia all’interno delle personae 15. Le quali, quindi, non ci appaiono che come prospettive diverse dalle quali guardare lo stesso ente. soggetto-oggetto, che a sua volta legittima erroneamente, nell’immaginale umano, la negazione della soggettività animale». 14 Sulla elasticità della distinzione gaiana fra personae e res si veda G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 7 sgg. 15 Gai. 1,48: Sequitur de iure personarum alia divisio. Nam quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri subiectae sunt; 1,51: Ac prius dispiciamus de iis qui in aliena potestate sunt. 1,52: In potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris gentium est; nam apud omnes peraeque gentes animadvertere possumus dominis in servos vitae necisque potestatem esse; et quodcumque per servum adquiritur, id domino adquiritur; 2,13: Corporales hae <sunt> quae tangi possunt, velut fundus homo vestis aurum argentum et denique aliae res innumerabiles. Una critica alla tendenza della dottrina a negare la soggettività giuridica del servus si trova in P. CATALANO, Diritto e persone… cit., pp. 163 sgg., il quale mette in rilievo che l’affermazione secondo cui il servus non è un soggetto di diritto non è condivisibile sia perché trascura di considerare la partecipazione di esso al ius, sia perché si basa su un presupposto metodologico errato in quanto impiega una nozione «estranea alle fonti» e «inadatta» a cogliere il «dato storico»; ID., Diritto, soggetti, oggetti… cit., pp. 97 sgg., il quale, pur ritenendo che vi possano essere contesti in cui l’uso delle categorie di soggetto possa rivelarsi utile o addirittura necessario, come nel caso della condizione del servo o del nascituro, osserva che le «questioni circa la ‘soggettività’» di essi «sono scientificamente mal poste». Con riferimento alla sistematica è importante ricordare l’osservazione di F. GORIA, Schiavi, sistematica delle persone… cit., p. 333, secondo cui: «Non esistendo la mediazione formale della capacità giuridica che occultasse, riportandole in un mondo di concetti astratti, le reali differenze sociali tra gli uomini, si comprende come le classificazioni giuridiche traducessero immediatamente e direttamente certi tipi di rapporti sociali». Con riferimento alla categoria della personalità giuridica S. TAFARO, La pubertà a Roma. Profili giuridici, Bari, Cacucci, 1993, p. 11, ritiene che la concezione moderna ad essa sottostante ha finito col coartare l’esperienza antica entro uno schema che non corrisponde alla complessità del passato e ha determinato una «omogeneizzazione» della realtà giuridica romana e una «sottovalutazione» dell’articolazione del sistema giuridico romano imperniato attorno alla considerazione dell’essere umano.
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La qualificazione giuridica del servus attraverso l’impiego delle categorie moderne di oggetto e di soggetto di diritto non consente di cogliere il significato della distinzione, propria della giurisprudenza romana, fra personae e res. A differenza di quanto accade per la rigida contrapposizione moderna fra il mondo dei soggetti e degli oggetti, fra i quali non esiste pressoché possibilità di comunicazione, nel senso che ciò che è soggetto non è può essere allo stesso tempo oggetto e viceversa 16, nella sistematica romana il medesimo ente – l’uomo – è considerato allo stesso tempo persona e res. La distinzione antica, dunque, a differenza della contrapposizione moderna, è una distinzione fra partizioni per così dire aperte. La qualificazione del servus come oggetto, sulla base della sua classificazione nelle fonti giuridiche romane fra le res, non permette inoltre di comprendere, sul piano dogmatico, il ruolo di esso come parte di negozi giuridici 17 o come destinatario di una tutela giuridico-religiosa 18. La riduzione del servo, come quella dell’animale non umano, al rango degli oggetti è realizzata, evidentemente, sulla base della erronea equivalenza fra la nozione di res e quella di cosa-oggetto di diritto 19. Allo stesso modo, con riferimento specifico alla qualificazione dell’animale non umano come res, si deve ritenere che la giurisprudenza romana non formuli un giudizio di valore. La qualificazione giuridica, inoltre, soprattutto quando avviene, come nel caso della Sulla rigidità della contrapposizione tra soggetto e oggetto di diritto si rinvia per tutti a: R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche»… cit., p. 134, il quale parla di «frontiera invalicabile tra il mondo dei ‘soggetti’ e quello degli ‘oggetti’ di diritto»; P. CATALANO, Diritto, soggetti, oggetti… cit., pp. 108 sgg., il quale, sulla scia dell’Orestano, rileva che «l’accettazione della ‘frontiera’ fra ‘soggetti’ e ‘oggetti’ deforma l’interpretazione delle fonti romane e, aggiungo, la rende inutile o addirittura controproducente per una critica (storico-dogmatica) del diritto positivo odierno». 17 Sulla capacità del servus di realizzare attività negoziale si vedano: I. B UTI, Studi sulla capacità patrimoniale dei «servi», Napoli, Jovene, 1976, pp. 73 ssg.; O. ROBLEDA, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, Roma, Università Gregoriana editrice, 1976, pp. 70 ssg.; A. DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo ‘manager’ in Roma antica (II sec. a.C. - II sec. d.C.), Milano, Giuffrè, 1984, pp. 63 ssg.; F. REDUZZI MEROLA, «Servo parere». Studi sulla condizione giuridica degli schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, Napoli, Jovene, 1990, pp. 23 ssg. 18 Sulla capacità del servus sotto il profilo giuridico-religioso si veda O. ROBLEDA, Il diritto degli schiavi…, pp. 88 ssg. 19 Cfr. E. STOLFI, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano, LED, 2001, pp. 395 ss., il quale a proposito del servus parla di una «reificazione imperfetta», rilevando che “la disciplina delle forme e dei limiti in cui il servus può attivarsi in modo giuridicamente rilevante (sino ad accumulare ricchezze e divenire titolare di altri schiavi), e delle procedure e conseguenze del suo (ri)divenire pienamente uomo, quasi tradisce lo sforzo e l’artificiosità della sua riduzione, sub specie iuris, a cosa, a un’entità che è pur sempre persona, ma apparentemente non differisce dalle altre res mancipi». 16
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distinzione fra personae, res e actiones in funzione sistematica, non può essere considerata meccanicamente la causa di un trattamento deteriore né, al contrario, la causa di una tutela adeguata. Voler trarre, quindi, dalla qualificazione dell’animale come res la conclusione che esso versi in una condizione deteriore è errato, come è errato voler trarre dalla affermazione che l’animale sia un soggetto di diritto la conseguenza che esso sia in una condizione di reale tutela 20. La considerazione moderna dell’animale come cosa non può essere ricondotta alla concezione romana dell’animale come res, quasi che fra le due categorie vi sia perfetta equivalenza. Nella sistematica gaiana è anzitutto presente un «riferimento soggettivo e oggettivo nei termini “persona” e “res”» 21 che invece manca, si direbbe per definizione, alla contrapposizione rigida tra il mondo dei soggetti e delle cose-oggetto di diritto. La comparsa di un concetto tecnico di res, in una valenza che sia pure in senso elastico può essere considerata in chiave ‘oggettiva’, attraverso uno sviluppo storico che conduce da una situazione di «indifferenziazione» dell’arcaico potere del pater familias che si riferiva al medesimo tempo a personae e a res, evidenzia una tendenziale distinzione della condizione giuridica dei liberi non solo rispetto ai servi, ma naturalmente pure rispetto alle res inerti 22. Concezione questa che, come è noto, si riflette nell’età arcaica in numerosi elementi, i quali sono più evidenti quanto più si risalga indietro nel tempo 23, fino a Tale erronea considerazione sembra invece alla base del pur interessante lavoro di F. R ESCII diritti degli animali… cit., pp. 1 sgg., la quale contrappone a torto, già a partire dal titolo, la considerazione antica dell’animale come res alla qualificazione dogmatica moderna dell’animale come soggetto. 21 Così G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 6 sgg., il quale ritiene che «non si possa vedere nei primi due libri di Gaio una trattazione delle persone e delle cose nel senso di soggetti e di oggetti di diritto, come le intendiamo noi; se anche si può parlare di un riferimento soggettivo e di un riferimento oggettivo, ciò va inteso in senso elastico». 22 Fondamentali al riguardo gli studi di G. GROSSO, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino, Giappichelli, 19672, pp. 143 sgg.; ID., Schemi giuridici e società nella storia del diritto privato romano. Dall’epoca arcaica alla giurisprudenza classica: diritti reali e obbligazioni, Torino, Giappichelli, 1970, pp. 133 sgg.; ID., Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 10 sgg. 23 È noto che nell’età arcaica la condizione giuridica dei servi non si discostava molto da quella in cui versavano i filii familias, come è pure noto che la stessa vindicatio, nell’ambito delle legis actiones, si riferiva tanto a beni inanimati quanto a filii, servi e animali non umani. Sul punto si veda per tutti G. GROSSO, Schemi giuridici e società… cit., pp. 53 sgg.; ID., Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 7 sgg., il quale riconduce la «oscillazione» relativa alla classificazione del servus fra le personae e le res alle «vicende della schiavitù in Roma, dall’antica società agricola, a base potestativa, in cui la potestà sugli schiavi non differiva nel contenuto da quella sui figli, alla società mercantile, a base schiavistica, centrata sullo sfruttamento del lavoro servile». 20
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indurre parte della dottrina romanistica e civilistica a individuare anche nell’uomo libero una res 24. Per queste ragioni è dunque essenziale evitare assimilazioni fra la distinzione antica, elastica, articolata sulle partizioni personae e res e la distinzione moderna, rigida, fondata sulla contrapposizione tra soggetto e oggetto di diritto. Soprattutto bisogna opporsi alla tendenza diffusa in dottrina di utilizzare indifferentemente una qualificazione dogmatica al posto dell’altra 25. La categoria del soggetto di diritto non è affatto corrispondente a quella di persona, come la categoria di cosa-oggetto di diritto non è corrispondente a quella di res 26. Non vi è dubbio che una qualche connessione sul piano storico vi sia, in particolare fra la coppia persona-soggetto di diritto e la coppia res-cosa 27. Tuttavia, negli ultimi anni, nella dottrina romanistica più sensibile all’uso appropriato di tali categorie si è posta in rilievo la necessità di fare «pulizia concettuale» con riferimento alla distinzione moderna fra soggetto e oggetto di diritto 28. Se, da un lato, nel termine persona, che nel linguaggio giuridico romano indica concretamente l’uomo 29, bisogna evitare di intravedere un antecedente della nozione di soggetto di diritto, dall’altro, nella classificazione antica dell’animale non umano come res non si può individuare il medesimo rilievo dogmatico della classificazione moderna dell’animale come cosa/oggetto. A tacere d’altro, la classificazione dell’animale non umano come res non impedisce che la giurisprudenza romana possa pure prestare attenzione alla condizione dell’animale come essere vivo. 24 Si vedano per questa dottrina: V. S CIALOJA, Teoria della proprietà nel diritto romano, Roma, A. Sampaolesi, 1928, pp. 31 sgg.; G. SCHERILLO, Lezioni di Diritto romano… cit., pp. 22 sgg.; R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche»… cit., p. 134. Contra, però, G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 16 sgg. Per le implicazioni dogmatiche della questione si vedano: P. CATALANO, Diritto, soggetti, oggetti… cit., pp. 109 sgg.; A. TRISCIUOGLIO, Il corpo umano… cit., pp. 389 sgg. 25 Sulla non equivalenza tra res e oggetto di diritto, con riferimento alla condizione animale, si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 95 sgg. Più in generale si vedano: Y. THOMAS, Res, chose et patrimoine (Note sur le rapport sujet-objet en droit romain, in Archives de philosophie du droit, 25 (1980), pp. 413 sgg.; A. TRISCIUOGLIO, Il corpo umano… cit., pp. 389 sgg. 26 Per i rinvii alla dottrina si veda da ultimo A. TRISCIUOGLIO, Il corpo umano… cit., pp. 389 sgg. 27 Per la relazione tra le nozioni di persona e di soggetto di diritto si veda per tutti R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche»… cit., pp. 7 sgg. Per la relazione tra le nozioni di res e di cosa si vedano: G. ASTUTI, Cosa (Diritto romano e intermedio), in Enciclopedia del diritto, XI, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 1 sgg.; S. PUGLIATTI, Cosa (Teoria generale), ibidem, pp. 19 sgg. 28 Cfr. P. CATALANO, Diritto, soggetti, oggetti… cit., pp. 97 sgg., il quale ritiene a ragione che «la pulizia concettuale vada condotta fino alla radice, eliminando gli stessi termini ‘oggetto’ e ‘soggetto’». 29 Sull’uso concreto delle nozioni di persona e di homo si veda P. CATALANO, Diritto e persone… cit., pp. 167 sgg.
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L’elasticità della distinzione fra personae e res consente alla giurisprudenza romana di attribuire rilevanza giuridica anche al comportamento dell’animale non umano 30, in particolare facendo riferimento alla natura di esso, cioè alle qualità essenziali che l’essere animato (umano e non) possiede in quanto dotato di vita propria. Un esempio significativo al riguardo è la subordinazione della concessione dell’actio de pauperie, prevista per il danneggiamento inferto da un quadrupede, alla valutazione che il comportamento di esso sia o no contra naturam, espressione questa che, comunque la si voglia intendere, richiama la necessità di una considerazione delle caratteristiche essenziali dell’animale in quanto essere vivente 31. Più in generale si può osservare che anche le classificazioni zoologiche, a rilevanza giuridica, sono elaborate in modo da far emergere le qualità naturali dell’animale non umano come essere vivo 32. Si può, quindi, affermare che nella disciplina giuridica relativa agli esseri non umani emerge una attenzione da parte della giurisprudenza romana per il valore della vita animale. Sul piano sistematico, questa stessa impostazione si rinviene nella enunciazione del diritto naturale, formulata dal giurista Ulpiano nel III secolo d.C., con la quale i compilatori giustinianei aprono il Digesto. In tale enunciazione, sulla quale ritorneremo 33, il diritto naturale è definito come diritto che la natura insegna agli animali, umani e non, Sulla rilevanza giuridica del comportamento animale si rinvia a P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 399 sgg. 31 Si veda infra par. 3. Per le fonti si vedano anzitutto: D. 9,1,1 pr. (Ulp. 18 ad ed.): Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari id quod nocuit, id est id animal quod noxiam commisit, aut aestimationem noxiae offerre. D. 9,1,1,3 (Ulp. 18 ad ed.): Ait praetor ‘pauperiem fecisse’. pauperies est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu caret. D. 9,1,1,13 (Ulp. 18 ad ed.): Plane si ante litem contestatam decesserit animal, extincta erit actio. D. 9,1,1,14 (Ulp. 18 ad ed.): Noxae autem dedere est animal tradere vivum. demum si commune plurium sit animal, adversus singulos erit in solidum noxalis actio, sicuti in homine. Fragm. Augustodun. 4,83: Et non solum si totum corpus det liberatur, sed etiam si partem aliquam corporis. Denique tractatur de capillis et unguibus an partes corporis sint. Quidam enim dicunt <ea additamenta corporis esse; sunt enim> foris posita. Animal mortuum vero dedi non potest. Per la dottrina sull’actio de pauperie si vedano da ultimo, con ampi riferimenti alla letteratura meno recente: M.V. GIANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio de pauperie. Dalle XII Tavole ad Ulpiano, Napoli, Jovene, 1995; M. POLOJAC, Actio de pauperie - domestic and wild animals?, in Règle et pratique du droit dans les réalités juridiques de l’antiquité. Atti della 51ª Sessione della SIHDA Crotone-Messina 16-20 settembre 1997, a cura di I. PIRO, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, pp. 463 sgg.; EAD., L’actio de pauperie ed altri mezzi processuali nel caso di danneggiamento provocato dall’animale nel diritto romano, in «Ius antiquum», 8 (2001), pp. 81 sgg.; P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 449 sgg. 32 In tema di classificazioni animali si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 161 sgg. 33 Sulla concezione del ius naturale si veda infra, par. 4. 30
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e sono indicate situazioni giuridiche, quali l’educazione dei figli o la congiunzione tra maschio e femmina, comuni a tutti gli esseri animati 34. Si tratta, pertanto, di una concezione che presenta più elementi in comune che di distacco con la concezione dell’animale come soggetto di diritto, soprattutto per quanto riguarda la idea di una generale e simpatetica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati. Ma alla cui comprensione, ancora una volta, la prospettiva ‘soggettivistica’ è inutile e anzi dannosa, in quanto riduce il problema della condizione animale a termini speculari a quella stessa impostazione ‘oggettivistica’ avversata 35. 2) La classificazione dell’animale non umano nell’ambito delle res La classificazione dell’animale non umano nell’ambito delle res è ricorrente nelle fonti giuridiche romane 36. Tenuto conto che ci proponiamo di mettere qui in risalto gli aspetti dogmatici relativi a tale classificazione, prenderemo il via dalla distinzione fra le res mancipi e le res nec mancipi, nella quale emerge in maniera elastica un concetto tecnico di res, peraltro non contrapposto rigidamente alla persona 37. In questa distinzione, fondamentale nel diritto romano dell’età arcaica in quanto relativa alla circolazione delle res e agli atti giuridici ritenuti idonei a consentirne il trasferimento, il valore funzionale di determinati beni (fundi ed aedes su suolo italico, servi, animalia quae collo dorsove domantur, servitù rustiche 38), necessari per la produzione agro-pastorale o in quanto forza lavoro o in quanto capitale, giustificava la inclusione di essi nel novero delle res mancipi. Gaio definisce, non a caso, le res mancipi come le res pretiosiores, mettendone in risalto l’utilità nella economia dell’età arcaica 39. Nella distinzione fra le res mancipi e le res nec mancipi erano ricompresi esseri animati, umani, in condizione servile, e non umani. Nella classificazione emergeva già la necessità di espungere dall’ambito delle res l’uomo libero 40, mentre gli animali non umani
La bibliografia sul ius naturale si trova, da ultimo, in Testi e problemi del giusnaturalismo romano, a cura di D. MANTOVANI - A. SCHIAVONE, Pavia, IUSS Press, 2007. 35 Per il rifiuto di tale impostazione si veda P.P. ONIDA, Animali non umani… cit., pp. 171 sgg. 36 Si veda per l’esame delle diverse ipotesi in cui l’animale non umano è considerato res P.P. ONIDA, Animali non umani… cit., pp. 165 sgg. 37 Cfr. G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 59 sgg. 38 Gai. 2,14a. 39 Gai. 1,192. 40 Cfr. G. GROSSO, Problemi sistematici nel diritto… cit., pp. 12 sgg. 34
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erano classificati o nel novero delle res mancipi o nel novero delle res nec mancipi, tendenzialmente a seconda della loro capacità o meno di aiutare l’uomo nel lavoro. Importante, anzitutto, per la comprensione specifica del valore degli animalia quae collo dorsove domantur, buoi, cavalli, muli e asini 41, è la polemica fra le due scuole dei giureconsulti romani, quella dei Sabiniani e quella dei Proculeiani 42, circa il momento in cui tali animali dovessero essere classificati fra le res mancipi: se sin dalla nascita, come volevano i primi, o dal momento della domatura, come ritenevano i secondi 43. Ma in generale la polemica appare di grande interesse, anche sotto il profilo dogmatico, per una analisi più ampia della condizione di tutti gli animali non umani nell’antichità. Gaio, nelle Institutiones, ci fornisce il quadro della polemica: Gai. 2,15: Sed quod diximus … mancipi esse … statim ut nata sunt mancipi esse putant; Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant, quam si domita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt, tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenerint, qua domari solent. Gai. 2,16: Item ferae bestiae nec mancipi sunt velut ursi, leones, item ea animalia quae fere bestiarum numero sunt, veluti elephanti et cameli; et ideo ad rem non pertinet, quod haec animalia etiam collo dorsove domari solent; nam ne nomen quidem eorum animalium illo tempore <notum> fuit, quo constituebatur quasdam res mancipi esse, quasdam nec mancipi.
Non è qui necessario analizzare lo stato della dottrina in materia 44, la quale negli studi di Filippo Gallo 45 e di Giovanni Nicosia 46 ha raggiunto risultati illuminanti. È importante, invece, mettere in rilievo il fatto che la domatura, nella distinzione tra animali mancipi e animali nec mancipi, è il criterio classificatorio attraverso il quale i giuristi rinviano alle qualità che l’animale non umano possiede in quanto essere vivo e capace Gai. 1,120: animalia quoque quae mancipi sunt, quo in numero habentur boves, equi, muli, asini; Ulp. 19,1: quadrupedes, quae dorso collove domantur, velut boves muli equi asini. In Papiniano (Vat. Fr. 259) è utilizzata l’espressione pecora, quae collo vel dorso domarentur. 42 Sulla contrapposizione fra le due scuole si rinvia, per un quadro d’insieme, a G. FALCHI, Le controversie tra Sabiniani e Proculeiani, Milano, Giuffrè, 1981. 43 A questa regola generale i Proculeiani introdussero un temperamento: nel caso in cui l’animale fosse risultato incapace di essere addestrato, esso sarebbe stato classificato fra le res mancipi una volta raggiunta l’età in cui si era soliti addestrare uno della sua specie. 44 Per l’esame della dottrina si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 285 sgg. 45 F. GALLO, Studi sulla distinzione fra res mancipi e res nec mancipi, Torino, Giappichelli, 1958, pp. 40 sgg. 46 G. NICOSIA, Animalia quae collo dorsove domantur, in «Iura», 18 (1967), pp. 45 sgg. (= ID., Silloge. Scritti 1956-1996, I, Catania, Torre, 1998, pp. 205 sgg.); ID., Il testo di Gai. 2.15 e la sua integrazione, in «Labeo», 14 (1968), pp. 167 sgg. (= ID., Silloge. Scritti… cit., pp. 293 sgg.). 41
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di rispondere ai comandi dell’uomo. In una classificazione di grandissima rilevanza costruita sul possesso di tali qualità, emerge, quindi, nel quadro delle relazioni fra uomo e altri esseri animati, una prospettiva che non può essere certamente ridotta ad una concezione meramente ‘oggettivistica’. L’animale non umano, assieme al servus, è anzi posto in un ambito classificatorio dal quale emerge comunque la sua diversità, in quanto essere animato, rispetto ai beni inerti 47. Attraverso la prospettiva ‘oggettivistica’ non è quindi possibile comprendere appieno il significato della polemica e, soprattutto, con quel che ne consegue sul piano dogmatico, la concezione degli animali mancipi come res pretiosiores. La preziosità alla quale Gaio fa qui riferimento evidenzia non solo un nesso con l’importanza economica e con il prestigio sociale che a Roma si riconosceva soprattutto alle specie da lavoro, ma presuppone anche un rinvio al possesso effettivo nell’animale di specifiche qualità naturali 48. Il possesso di tali qualità doveva essere verificato individualmente, per ciascun capo, con la conseguenza che il solco tra gli animali e i beni inanimati doveva apparire profondo. Numerosi elementi, esegetici e non, depongono nel senso che la classificazione degli animali da tiro e da soma avveniva sulla base di una domatura effettiva e non della semplice attitudine di essi ad essere addestrati. Solo a prima vista l’espressione utilizzata da Gaio per indicare le specie da lavoro, animalia quae collo dorsove domari solent 49, sembrerebbe richiamare la semplice attitudine dell’animale ad essere domato, rispetto a quella impiegata in altre fonti, animalia quae collo dorsove domantur 50, che invece Anche per via della diversità degli animali non umani dalle res inanimate non sembra possibile ipotizzare una connessione troppo rigida fra i beni mancipi e l’instrumentum fundi, l’apparato di beni necessario alla attività produttiva dei fondi, come pure riteneva P. BONFANTE, Res mancipi e res nec mancipi, Roma, Tip. della Camera dei deputati, 1888-1889 (= ID., Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana. [“Res mancipi„ e “res nec mancipi„], in ID., Scritti giuridici varii, II, Proprietà e servitù, Torino, UTET, 1926, p. 116, da cui si cita); ID., Corso di diritto romano, II, La proprietà, parte I, rist. corretta a cura di G. BONFANTE - G. CRIFÒ, Milano, Giuffrè, 1966, pp. 204; 216. Sulla connessione si vedano per tutti: G. NICOSIA, Animalia quae collo… cit., pp. 61 sgg. e nt. 50 (= ID., Silloge. Scritti… cit., pp. 228 sgg. e nt. 50); M.V. G IANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio… cit., pp. 138 sgg.; M.A. LIGIOS, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’instrumentum fundi tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., Napoli, Jovene, 1996, pp. 31 sgg.; M.V. GIANGRIECO PESSI, L’interpretatio prudentium nell’evoluzione dell’actio de pauperie: res mancipi e res nec mancipi, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli, Jovene, 1997, pp. 178 sgg. 48 Pone in rilievo, in maniera esemplare, questo aspetto F. GALLO, Studi sulla distinzione… cit., pp. 48 sgg. 49 L’espressione ricorre in Gai. 2,16. 50 Si veda supra nt. 41. 47
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parrebbe alludere alla necessità che l’animale fosse davvero domato. È evidente che lo stesso Gaio dà per scontata la necessità della effettiva domatura quando chiarisce i termini della contrapposizione fra le due scuole: Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant, quam si domita sunt 51. Più in generale, sempre in tema di animali da tiro e da soma, si consideri che, nella età arcaica, le condizioni economiche del Lazio antico, in cui gli allevamenti di animali erano spesso allo stato brado 52, favorivano la circostanza che solo alcuni capi fossero addestrati, in modo che essi andavano acquisendo un valore e una considerazione sociale e giuridica ben superiore rispetto a quella dei capi non addestrati. Questi dati esegetici acquistano un rilievo particolare quando si consideri, per l’età arcaica, il quadro vivo delle relazioni fra uomo e altri esseri animati. Sono molte per questa età le attestazioni della importanza sociale degli animali non umani 53. Ma per limitarci a quelle relative agli animali da tiro e da soma si considerino, anzitutto, le fonti che per essi attestano la concessione di un riposo sacrale: Cat., agr. 138: Boves feriis coniungere licet. haec licet facere: arvehant ligna, fabalia, frumentum, quod conditurus erit. Mulis, equis, asinis feriae nullae, nisi si in familia sunt. Colum., 2,21: M. Porcius Cato mulis, equis, asinis nullas esse ferias ait, idemque boves permittit coniungere lignorum et frumentorum advehendorum causa. Nos apud pontifices legimus fereis tantum denicalibus mulos iungere non licere, ceteris licere.
Il particolare apprezzamento sociale e giuridico degli animali da tiro e da soma è attestato da quelle fonti che ricordano come il bue fosse considerato socius dell’uomo e fosse oggetto di un divieto di uccisione, entro il quadro di una economia agro-pastorale in cui il lavoro quotidiano permetteva il sorgere di relazioni simpatetiche fra l’uomo e l’animale da lavoro 54. Gai. 2,15. Sulla esistenza di animali allevati allo stato brado si veda in particolare Varr., rust. 2,1,5; 2,6,3. 53 Si veda per tutti P. FEDELI, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo, Sellerio, 1990, pp. 106 sgg. 54 Varr., rust. 2,5,3: Hic socius hominum in rustico opere et Cereris minister, ab hoc antiqui manus ita abstineri voluerunt, ut capite sanxerint, siquis occidisset; Colum., 6 praef.: Nec dubium quin, ut ait Varro, ceteras pecudes bos honore superare debeat, praesertim et in Italia, quae ab hoc nuncupationem traxisse creditur, quod olim Graeci tauros italos vocabant, et in ea urbe, cuius moenibus condendis mas et femina boves aratro terminum signaverunt, vel, ut antiquiora repetam, quod idem Atticis Athenis Cereris et Triptolemi fertur minister, quod inter fulgentissima sidera particeps caeli sit, quod denique laboriosissimus adhuc hominis socius in agricultura, cuius tanta fuit apud antiquos veneratio, ut tam capital esset bovem necuisse quam civem; Plin., nat. 8,45,70: Socium enim laboris agrique culturae habemus hoc animal, tantae apud priores curae, ut sit inter 51 52
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L’animale, quindi, è classificato all’interno delle res mancipi in quanto ente idoneo ad essere il centro di una valutazione giuridica, la quale va al di là di quella che è possibile svolgere su un oggetto inerte 55. La considerazione dell’animale come res (mancipi) non determinava un appiattimento della sua natura al rango delle altre res inerti, ma al contrario richiamava il giurista alla valutazione di una qualità specifica di un essere vivente. Quando invece, nella tarda repubblica, andarono affermandosi grandi aziende ‘capitalistiche’, in cui l’allevamento delle specie da lavoro non era più finalizzato alla nascita di esemplari da impiegare nelle fatiche, ma da destinare alla produzione di carne, l’interesse per la valutazione delle qualità possedute dal singolo animale in quanto adatto al lavoro passò in secondo piano 56. L’animale da lavoro non fu quindi più oggetto di una valutazione individuale in quanto essere vivente. Ed ecco qui emergere una diversa prospettiva che diremmo non ‘oggettivistica’, ma incentrata sull’animale morto, in quanto ora ciò che veniva in rilievo era una produzione destinata in conclusione alla macellazione 57. exempla damnatus a P<opulo> R<omano> die dicta, qui concubino procaci rure omassum edisse se negante occiderat bovem, actusque in exilium tamquam colono suo interempto. Si veda F. GALLO, Studi sulla distinzione… cit., pp. 50 sgg. 55 Si tenga presente anche Dionys., 1,33, in cui si descrive la festa chiamata Consualia, durante la quale cavalli e muli erano distratti dal lavoro e ornati di fiori. Le fonti in tema di riposo sacrale, unitamente alle regole medico-religiose finalizzate alla cura degli animali non umani (Cat., agr. 7073; 83; 131-132; Varr., rust. 2,1,21-23; Colum., 6,4), sono una attestazione importante del loro valore sociale, che non può essere letto in una chiave meramente ‘capitalistica’, ma si comprende, invece, entro un quadro di relazioni anche affettive nel lavoro quotidiano. 56 Si veda G. NICOSIA, Animalia quae collo… cit., p. 102 nt. 161 (= ID., Silloge. Scritti… cit., p. 285 nt. 161), il quale rileva che la «mutata considerazione degli animali da tiro e da soma si inserisce in questi profondi rivolgimenti economico-sociali, che avevano sempre più fatto sparire l’antica figura dell’agricoltore romano tradizionale, il quale viveva a contatto con la terra e con gli animali che (in numero limitato) su di essa allevava, risiedeva sul fondo e lo coltivava (o ne dirigeva la coltivazione) personalmente, e in collaborazione con la propria familia (anche servorum). Quello che in definitiva si era infranto era il primitivo rapporto affettivo (e a suo modo poetico) che legava l’uomo alla terra». 57 F. GALLO, Studi sulla distinzione… cit., pp. 21; 49 sgg., il quale osserva che le condizioni economico-sociali dei primi stanziamenti nel Lazio avvalorano l’ipotesi che la «distinzione in esame si è formata nel periodo di transizione dall’economia pastorale a quella agricola, e cioè nel periodo durante il quale l’agricoltura (che era da un lato favorita, come abbiamo detto, dalla progressiva stabilizzazione delle sedi e dal continuo aumentare della popolazione, e che consentiva, dall’altro lato, attraverso uno sfruttamento più intensivo delle risorse del suolo, di soddisfare in modo più adeguato i crescenti bisogni della popolazione) è passata dall’originaria posizione sussidiaria ad una posizione di preminenza, nei confronti della pastorizia (che doveva per altro verso apparire sempre meno rispondente alle nuove esigenze)».
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Il criterio della nascita per la classificazione degli animali da tiro e da soma nell’ambito delle res mancipi dovette rispondere a questi mutamenti economici e sociali 58. I Sabiniani, facendo perno sulla nascita come criterio della classificazione, mostravano di recepire istanze volte a considerare gli animali non umani non più per le qualità possedute da vivi, ma per quelle che potevano possedere una volta abbattuti e destinati alla alimentazione. Prima ancora della posizione dei Sabiniani si dovette però registrare un intervento dei Proculeiani volto a consentire l’ingresso nella classificazione, attraverso un temperamento alla regola generale, non più in ragione della effettiva capacità di coadiuvare l’uomo nel lavoro, ma eccezionalmente in ragione anche del raggiungimento della età in cui un esemplare da lavoro era solitamente addestrato 59. La ‘preziosità’ dei beni mancipi non era, naturalmente, connessa al valore venale dell’animale ma al suo valore strumentale. Si comprende, in tal modo, la ragione per la quale erano esclusi dal novero delle res mancipi altri animali molto importanti sotto il profilo del loro valore venale, ma insuscettibili di essere impiegati nel lavoro avuto riguardo alle condizioni del Lazio antico 60. La tassatività del catalogo delle res mancipi, espressione della importanza di tali beni, giustifica la non inclusione in esso di altri animali – elefanti e cammelli – pur se astrattamente idonei allo svolgimento di lavori 61. La spiegazione fornita da Gaio in merito alla non estensione della classificazione degli animalia quae collo dorsove domantur anche ad elefanti e cammelli, cioè il fatto che questi ultimi non erano conosciuti quando andò formandosi la distinzione fra le res mancipi e le res nec mancipi, appare certo meno banale di quanto a volte sia stato ritenuto in dottrina. Il giureconsulto, attraverso tale spiegazione, non fa altro che ricondurre la tassatività dell’elenco delle res mancipi alla preziosità dei beni di produzione propri di una società agro-pastorale quale quella delle origini, elenco che proprio a causa delle particolari qualità degli animali da tiro e da soma non vi era ragione di estende-
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Cfr. F. GALLO, Studi sulla distinzione… cit., pp. 56 sgg. Cfr. G. NICOSIA, Animalia quae collo… cit., pp. 103 sgg. (= ID., Silloge. Scritti… cit., pp. 285
sgg.). Sulla inidoneità al lavoro, nella economia agraria romana, di specie animali diverse da quelle tradizionalmente classificate fra le res mancipi si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 332 sgg. 61 Cfr. A. GUARINO, Elefanti che imbarazzano, in Daube noster. Essays in Legal History for David Daube, ed by A. WATSON, Edinburgh-London, Scottish Academic Press, 1974, pp. 119 sgg. ([= Pagine di diritto romano, II, Napoli, Jovene, 1993, pp. 328 sgg., da cui si cita]). 60
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re ad altre specie, neppure quando mutarono le forme economiche espressione di quella stessa classificazione 62. L’impiego stesso della mancipatio, come negozio traslativo della proprietà sugli animali da tiro e da soma e sul resto delle res mancipi, si giustificava in funzione del riconoscimento giuridico e sociale della preziosità di tali beni, in modo da potersi escludere l’idea che il rito fosse in origine avvertito come un impiccio. Certamente, man mano che l’economia romana si caratterizzava anche per il sorgere di grandi allevamenti, espressione della decadenza della importanza delle res mancipi fu il sorgere di esigenze diverse, dettate dalla prassi commerciale volta a consentire con facilità le vendite di animali nei mercati. In questo contesto, volto a riconoscere l’animale non umano come essere vicino all’uomo in forza di qualità che esso possiede da vivo, bisogna evitare di accondiscendere non solo all’uso della categoria di cosa-oggetto di diritto, ma anche bisogna sottrarsi alla tentazione di impiegare la categoria di persona o di soggetto di diritto. La tesi della «personificazione» degli animali da tiro e da soma era stata già prospettata dal De Visscher 63 e ripresa dal Franciosi 64, in forza della considerazione che il potere del paterfamilias, il mancipium, dovesse essere inteso come una sorta d’imperium domestico – puissance de commandement –, del quale le persone libere, i servi e gli animali da tiro e da soma avrebbero rappresentato gli elementi personali, mentre fondi e servitù avrebbero costituito l’ambito territoriale 65. Tale tesi, però, che pure ha il merito di non ridurre la Cfr. F. GALLO, Studi sulla distinzione… cit., p. 55. F. DE VISSCHER, Mancipium et res mancipi, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 2 (1936), pp. 295 sgg. (= ID., Nouvelles études de droit romain public et privé, Milano, Giuffrè, 1949, pp. 227 sgg.). 64 G. FRANCIOSI, “Res mancipi” e “res nec mancipi”, in «Labeo», 5 (1959), p. 382. 65 Si veda F. DE VISSCHER, Mancipium et res mancipi… cit., pp. 295 sgg. (= ID., Nouvelles études… cit., pp. 227 sgg.). La tesi del De Visscher non incontrò il favore di F. GALLO, Studi sulla distinzione… cit., p. 52 nt. 65, il quale sostenne con vigore che non si potesse parlare degli animali non umani come soggetti di diritto, in quanto essi erano classificati dalla giurisprudenza romana fra le res, mentre il fatto che gli animali da tiro e da soma godessero di una particolare considerazione sia sotto il profilo sociale, sia sotto il profilo religioso, sarebbe derivato dalla circostanza che essi erano largamente impiegati nei lavori. In realtà, come si vede, la questione era analizzata attraverso l’impiego di categorie antropocentriche che impedivano a tali illustri romanisti di individuare i punti di contatto fra le due, solo apparentemente, contrastanti opinioni e rendevano difficile inquadrare lo status animale sia entro una prospettiva ‘soggettivistica’, sia entro una prospettiva ‘oggettivistica’. Il fatto che l’animale non umano fosse impiegato nel lavoro era certamente alla base di un suo riconoscimento sociale e religioso, il quale però conferma l’importanza, sul piano giuridico, della preziosità delle res mancipi entro le quali erano classificati gli animalia quae collo dorsove domantur. 62
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condizione dell’animale a quella di un semplice ‘oggetto’, non può essere accolta. Essa risente, come la impostazione ‘oggettivistica’, del vizio connesso ad una abnorme estensione di categorie giuridiche costruite per l’uomo e, quindi, pur sempre di un pregiudizio antropocentrico, che impedisce la comprensione della posizione del tutto particolare degli animali non umani. 3) I rimedi contro il danneggiamento derivante dal comportamento animale Nel sistema giuridico-religioso romano la partecipazione degli animali non umani al diritto si esprime, con particolare evidenza, nel danneggiamento derivante dal comportamento dell’animale non umano 66. La disciplina in questione si caratterizza, sin dall’antichità, per una molteplicità di soluzioni, in un quadro dal quale traspaiono profonde analogie con il tema del danneggiamento derivante dal comportamento dell’uomo. Sappiamo, anzitutto, da Festo che Numa avrebbe previsto la sacertà non solo dell’uomo, ma anche del bue aratore che avesse travolto la pietra di confine 67. Proprio quel bue da lavoro che era considerato, nell’antichità, un essere sacro, a tal punto che la sua uccisione era punita con la morte dell’autore dell’illecito 68. Le XII Tavole, inoltre, documentano l’esistenza di un’apposita azione – l’actio de pauperie – finalizzata alla tutela di colui che avesse subito un danneggiamento a seguito di un comportamento innaturale da parte di un quadrupede. Di fronte a questa ipotesi, il proprietario era posto nell’alternativa di dover effettuare la noxae deditio dell’animale, cioè la consegna di esso alla vittima del danneggiamento, o di pagare una somma di denaro a titolo di risarcimento 69.
Sul tema della responsabilità derivante dal comportamento animale si veda P.P. ONIDA, Il guinzaglio… cit., pp. 577 sgg.; ID., Macellazione rituale e status… cit., pp. 147 sgg. 67 Paul. Fest., verb. sign. sv. Termino (Lindsay, 505): Termino sacra faciebant, quod in eius tutela fines agrorum esse putabant. denique Numa Pompilius statuit, eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse. Si deve poi richiamare: Dionys., 2,74,3: e„ de\ tij ¢fan…seien À metaqe…h toÝj Órouj 66
ƒerÕn ™nomoqšthsen eà ™inai toà qeoà tÕn toÚtwn ti diaprax£menon, †na tù boulomšnJ kte…nein aÙtÕn æj ƒerÒsulon ¼ te ¢sf£leia kaˆ tÕ kaqarù mi£smatoj eà ™inai prosÍ.
Varr., rust. 2,5,4; Cic., nat. deor. 2,63,154; Val. Max., 8,1,8; Plin., nat. 8,180. Cfr. P. VOCI, Diritto sacro romano in età arcaica, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 19, 1953, pp. 59; 68 (= ID., Scritti di diritto romano, I, Padova, CEDAM, 1985, pp. 226 sgg.); P. DE FRANCISCI, Primordia civitatis, Roma, Apollinaris, 1959, p. 260. 69 Per le fonti si veda supra nt. 31. 68
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Le origini dell’actio de pauperie sono da ricondurre alle esigenze tipiche di una economia agro-pastorale, qual era quella romana dell’età arcaica, alle quali dovevano altresì sopperire anche quei rimedi processuali attestati sempre nelle XII Tavole: basti pensare all’azione relativa al taglio di alberi altrui, all’azione per il pascolo abusivo o a quella contro la distruzione delle messi 70. Con riferimento all’actio de pauperie nella dottrina romanistica si ritiene, sebbene la cosa sia poi dibattuta nei suoi termini più specifici, che tra il sistema delle cosiddette azioni nossali, vale a dire di quelle azioni previste per il danneggiamento inferto dai filii familias e dai servi, e quello dell’actio de pauperie vi fosse una affinità sostanziale 71. In dottrina, anche sulla base di questa affinità, si è sostenuto la tesi di una vera e propria «responsabilità giuridica» degli animali non umani 72. La tesi della personalità giuridica e della imputabilità degli animali non umani fu sostenuta, fra gli altri, dal Mommsen, il quale la riconduceva ai caratteri propri della economia romana antica, entro un sistema di prescrizioni familiari e di punizione domestica 73. In Italia la tesi fu ripresa con vigore dal Branca, il quale riteneva che la «identità di struttura» tra noxa e pauperies deponesse a favore di una comune origine fra le azioni previste per tali ipotesi. Essa incontrò anche feroci reazioni, tra le quali si possono qui ricordare quella opposta dal Del Giudice, il quale liquidava la questione della condanna di animali non umani come frutto di «aberrazioni umane collettive» 74. In effetti, a favore della tesi di una responsabilità giuridica dell’animale non umano sembrano deporre quelle norme che subordinano l’esonero della responsabilità a carico del pater familias/dominus all’onere Cfr. M.V. GIANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio… cit., pp. 183 sgg. Per l’analisi specifica di tali problemi si rinvia a M.V. GIANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio… cit., pp. 211 sgg. 72 Sul tema della responsabilità giuridica degli animali non umani, per un primo esame, si vedano: B. B IONDI, Actiones noxales, in «Annali del Seminario Giuridico della R. Università di Palermo», 10 (1925), p. 2 nt. 5; U. R OBBE, L’actio de pauperie, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 7 (1932), pp. 328 sgg.; G. BRANCA, Danno temuto e danno da cose inanimate, Padova, CEDAM, 1937, pp. 296 sgg.; F. DE VISSCHER, La régime romain de la noxalité. De la vengeance collective a la responsabilité individuelle, Bruxelles, A. De Visscher, 1947, pp. 227 sgg.; F. ZUCCOTTI, “Furor Haereticorum”. Studi sul trattamento giuridico della follia e sulla persecuzione della eterodossia religiosa nella legislazione del tardo impero romano, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 410 sgg.; M.V. GIANGRIECO PESSI , Ricerche sull’actio… cit., pp. 13 sgg.; P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 472 sg g. 73 TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, Duncker & Humblot, 1899, pp. 66 sgg. 74 P. DEL GIUDICE, I processi e le pene degli animali. Resultati di uno studio recente in Germania, in Pel cinquantesimo anno d’insegnamento di Enrico Pessina, II, Studi di diritto penale, Napoli, A. Trani, 1899, pp. 369 sgg. 70
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di consegnare vivo, alla vittima del danneggiamento, l’animale che aveva provocato il danno 75. È importante osservare che non ogni danno determinava l’obbligo di consegnare l’animale non umano (vivo), ma solo quello che fosse stato riconducibile ad un suo comportamento commesso «contro natura» 76. In forza del principio della naturalità del danneggiamento si poteva evitare di addebitare al proprietario le conseguenze di quel comportamento animale che, in un mondo agro-pastorale, appariva perfettamente corrispondente alla realtà essenziale delle cose. Attraverso il parametro della naturalità o meno del comportamento animale si introduceva un sistema di tutela, che potremmo definire differenziato sia per il riferimento generale alle specie animali, sia per il riferimento specifico alle circostanze concrete del danneggiamento, volto ad assicurare, nelle relazioni fra uomini e animali non umani, una soluzione il più possibile equa. Quanto al problema, assai dibattuto in dottrina, della identificazione delle specie animali in relazione alle quali era prevista l’actio de pauperie, fu con ogni probabilità in riferimento ai quadrupedi da tiro e da soma che si pose il problema di tutelare la vittima di un danneggiamento causato dal comportamento di un animale non umano 77. Tale tesi trova un sostegno sia nel fatto che nella formula relativa all’azione suddetta ricorreva il termine quadrupes, con il quale si indicavano, anzitutto, gli animali da tiro e da soma 78, sia nel fatto che gli esempi di danneggiamento, sanzionati dall’actio de pauperie e riportati nei Digesta giustinianei, si riferiscono tutti a tali animali. Pare d’altro canto
D. 9,1,1,14 (Ulp. 18 ad ed.), su cui si veda supra nt. 31. D. 9,1,1,7 (Ulp. 18 ad ed.): Et generaliter haec actio locum habet, quotiens contra naturam fera mota pauperiem dedit: ideoque si equus dolore concitatus calce petierit, cessare istam actionem, sed eum, qui equum percusserit aut vulneraverit, in factum magis quam lege Aquilia teneri, utique ideo, quia non ipse suo corpore damnum dedit. at si, cum equum permulsisset quis vel palpatus esset, calce eum percusserit, erit actioni locus. Inst. 4,9 pr.: Animalium nomine, quae ratione carent, si quidem lascivia aut fervore aut feritate pauperiem fecerint, noxalis actio lege duodecim tabularum prodita est (quae animalia si noxae dedantur, proficiunt reo ad liberationem, quia ita lex duodecim tabularum scripta est): puta si equus calcitrosus calce percusserit aut bos cornu petere solitus petierit. haec autem actio in his, quae contra naturam moventur, locum habet: ceterum si genitalis sit feritas, cessat. denique si ursus fugit a domino et sic nocuit, non potest quondam dominus conveniri, quia desinit dominus esse, ubi fera evasit. pauperies autem est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuriam fecisse dici, quod sensu caret. haec quod ad noxalem actionem pertinet. 77 Lo stato della questione è analizzato in M.V. G IANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio… cit., pp. 116 sgg. 78 P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 213 sgg. 75
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condivisibile la tesi secondo cui l’actio de pauperie non potesse trovare applicazione per gli animali feroci, anche se addomesticati, dal momento che un danno in tal caso non doveva apparire contra naturam 79. Come è noto, l’actio de pauperie non era l’unico rimedio previsto nel caso di danneggiamento inferto dall’animale non umano. Appartengono sempre alle medesime necessità pratiche anche gli strumenti giuridici assicurati dalla lex Pesolania de cane e dall’edictum de feris. Mentre con la lex Pesolania de cane, da collocare fra il III secolo e il II secolo a.C. 80, si mirava ad estendere alle aggressioni da parte di cani il regime già previsto dall’actio de pauperie 81, con l’editto de feris 82 si perseguiva l’obiettivo di garantire la sicurezza nelle strade, che dovevano essere poco sicure a causa del vezzo, diffusosi a Roma in modo particolare dopo le guerre annibaliche, di tenere animali feroci 83. L’editto vietaCfr. in senso analogo U. ROBBE, L’actio de pauperie cit., pp. 352 sgg. Paul. Sent. 1,15,1: Si quadrupes pauperiem fecerit damnumve dederit quidve depasta sit, in dominum actio datur, ut aut damni aestimationem subeat aut quadrupedem dedat: quod etiam lege Pesolania de cane cavetur. LRB. 13,1: Si animal cuiuscumque damnum intulerit, aut estimationem damni dominus solvat, aut animal cedat; quod etiam de cane et bipede placuit, observari, secundum speciem Pauli sententiarum libro primo sub titulo: Si quadrupes pauperiem fecerit. Paul. Sent. Int. 1,15,1: Si alienum animal cuicumque damnum intulerit aut alicuius fructus laeserit, dominus eius aut aestimationem damni reddat aut ipsum animal tradat. Quod etiam de cane similiter est statutum. 81 Sulla lex Pesolania, da ultimo, si vedano: E. C AIAZZO, Lex Pesolania de cane, in «Index», 28 (2000), pp. 287 sgg.; F.A.D. RAGONI, Actio legis Aquiliae, actio de pauperie, edictum de feris: responsabilità per danno cagionato da cani, in «Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana», 6 (2007) (= http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/ Ragoni-Responsabilit-danno-cagionato-da-cani.htm.), su cui, però, si vedano le riserve critiche di F. ZUCCOTTI, I cani e il diritto romano (Vivagni VIII), in «Rivista di Diritto Romano» 8 (2008), pp. 1 sgg. (= http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano08ZuccottiVivagni.pdf). 82 D. 21,1,40,1 (Ulp. 2 ad ed. aedil. curul.): Deinde aiunt aediles: ‘ne quis canem, verrem vel minorem aprum, lupum, ursum, pantheram, leonem’. D. 21,1,42 (Ulp. 2 ad ed. aedil. curul.): ‘qua vulgo iter fiet, ita habuisse velit, ut cuiquam nocere damnumve dare possit. si adversus ea factum erit et homo liber ex ea re perierit, <solidi> ducenti, si nocitum homini libero esse dicetur, quanti bonum aequum iudici videbitur, condemnetur, ceterarum rerum, quanti damnum datum factumve sit, dupli’. Inst. 4,9,1: Ceterum sciendum est aedilicio edicto prohiberi nos canem verrem aprum ursum leonem ibi habere, qua vulgo iter fit: et si adversus ea factum erit et nocitum homini libero esse dicetur, quod bonum et aequum iudici videtur, tanti dominus condemnetur, ceterarum rerum, quanti damnum datum sit, dupli. praeter has autem aedilicias actiones et de pauperie locum habebit: numquam enim actiones praesertim poenales de eadem re concurrentes alia aliam consumit. 83 La clausola dell’editto è stata così ricostruita da O. LENEL, Das Edictum perpetuum, Leipzig, Tauchnitz, 19273, rist. an. Aalen, Scientia Verlag, 1985, p. 566: Deinde aiunt aediles: Ne quis canem, 79
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va di tenere animali ritenuti “potenzialmente pericolosi”, quali cani, maiali, cinghiali, lupi, orsi, pantere e leoni, in un luogo di pubblico passaggio, al fine di evitare che essi potessero nuocere 84. Altre estensioni furono poi previste attraverso specifiche azioni, cosiddette utili, in particolare per il caso di danneggiamento derivante dai bipedi da cortile 85. A partire dal III secolo a.C., con la lex Aquilia, si avvia un processo in cui, pur sempre nell’ottica di un riconoscimento dell’affinità tra uomo e ‘altri’ esseri animati, si tende a considerare l’animale non (solo) in quanto essere vivente, ma (anche) come elemento patrimoniale. Nel primo ‘articolo’ della lex Aquilia (D. 9,2,2 pr. [Gai. 7 ad ed. prov.]; Gai. 3,210; Inst. 4,3 pr.) si stabiliva l’obbligo, a carico di colui che avesse ucciso uno schiavo o un quadrupede da tiro e da soma, di pagare al proprietario il massimo valore raggiunto dal bene nel corso dell’anno. Nel terzo ‘articolo’ della lex Aquilia (D. 9,2,27,5 Ulp. 18 ad ed.) si disciplinava il ferimento di uno schiavo o di un quadrupede da tiro e da soma, il ferimento o l’uccisione di altri quadrupedi, come il cane, o di un animale feroce, come l’orso o il leone, stabilendo che il danneggiatore fosse tenuto in base al maggior valore che il bene avesse avuto nei trenta giorni prima dell’evento 86. verrem [vel minorem], aprum, lupum, ursum, pantheram, leonem, qua volgo iter fiet, ita habuisse velit, ut cuiquam nocere damnumve dare possit. si adversus ea factum erit et homo liber ex ea re perierit, sestertiorum ducentorum milium, si nocitum homini libero esse dicetur, quanti bonum aequum iudici videbitur, condemnetur, ceterarum rerum, quanti damnum datum factumve sit, dupli. 84 Sull’editto edilizio de feris si vedano: V. SCIALOJA, Nota critica sul testo dell’editto edilizio ‘de feris’, in «Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano», 13 (1900), pp. 75 sgg. (= ID., Studi giuridici, II, Diritto romano, seconda parte, Roma, ARE, 1934, pp. 142 sgg.); G. IMPALLOMENI, L’editto degli edili curuli, Padova, CEDAM, 1955, pp. 87 sgg.; L. RODRÍGUEZ-ENNES, Delimitación conceptual del ilícito edilicio ‘de feris’, in «Iura», 41 (1990), pp. 53 sgg.; ID., Estudio sobre el “edictum de feris”, Madrid, Universidad Complutense, 1992; ID., Los actos ilícitos de derecho honorario, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al profesor José Luis Murga Gener, Madrid, Editorial Centro de Estudios Ramón Areces, 1994, pp. 907 sgg.; M.V. GIANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio… cit., pp. 154 sgg. (ivi ulteriori ragguagli bibliografici); E. LOZANO CORBÍ, La tenencia de animales peligrosos en lugares de público paso, en el Derecho Romano, y su protección edilicia, in Actas del II congreso iberoamericano de Derecho Romano, Murcia, Universidad de Murcia, 1998, pp. 191 sgg.; E. CAIAZZO, Lex Pesolania… cit., pp. 289 sgg. 85 D. 9,1,4 (Paul. 22 ad ed.): Haec actio utilis competit et si non quadrupes, sed aliud animal pauperiem fecit. Sul tema si vedano: E. V ALIÑO, Actiones utiles, Pamplona, Edic. Universidad de Navarra, 1974, pp. 416 sgg.; M.V. GIANGRIECO PESSI, Ricerche sull’actio… cit., pp. 160 sgg.; EAD., L’interpretatio prudentium… cit., p. 297 nt. 33-34; E. CAIAZZO, Lex Pesolania… cit., p. 298 nt. 50. 86 Sul testo della lex Aquilia, nella letteratura più recente, si vedano: C.A. CANNATA, Sul testo originale della lex Aquilia: premesse e ricostruzioni del primo capo, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 48 (1992), pp. 194 sgg.; ID., Considerazioni sul testo e la portata originaria del secondo capo della lex Aquilia, in «Index», 22 (1994), pp. 151 sgg.; G. VALDITARA, ‘Damnum iniuria datum’, in Derecho romano de obligaciones... cit., pp. 825 sgg. (= ID., Damnum iniuria datum, Torino, 1996); C.A. CANNA-
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In sintesi, sulla base dei brevi elementi di valutazione sopra richiamati, si può osservare che la prospettiva presente nelle fonti giuridiche romane, fondata sulla analisi delle specie animali, e, attraverso tale analisi, sul comportamento animale, non impedisce la sussistenza di un quadro di affinità fra uomo e animale non umano che si carica di speciali contenuti in considerazione del ruolo che i quadrupedi da tiro e da soma ricoprivano, in particolare nell’età arcaica, all’interno del gruppo familiare. È espressione significativa di questo ruolo, come si è visto, il valore della noxae deditio, la quale costituisce, a sua volta, manifestazione di un potere del pater familias sopra uomini e animali non umani, tutti facenti parte del nucleo familiare. Emerge, qui, il riconoscimento della idoneità dell’animale non umano a determinare con il proprio comportamento modificazioni della realtà giuridica. 4) Gli animali non umani come enti del ius Nella giurisprudenza romana, con particolare riferimento al tema della partecipazione degli animali non umani al diritto, sembrano scontrarsi due grandi concezioni filosofico-giuridiche. Rinunciando a descrivere tale partecipazione in termini di dicotomia tra soggetto e oggetto di diritto, la questione può, invece, essere analizzata in termini più aderenti al dato storico come contrapposizione fra due concezioni: da un lato, la concezione simpatetica dell’animale vivo, dall’altro la concezione materialistica dell’animale morto. La prima concezione, quella più risalente, attribuibile fra gli altri a Pitagora, si caratterizza per essere alla base di un modello in cui l’animale non umano è considerato un essere simile all’uomo e quindi degno di essere tutelato e apprezzato per le qualità che esso possiede come essere vivo. La seconda, quella destinata in larga TA, Sul testo della lex Aquilia e la sua portata originaria, in La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatista. I congresso internazionale Aristec, Madrid 7-10 ottobre 1993, a cura di L. VACCA, Torino, Giappichelli, 1995, pp. 25 sgg.; C.A. CANNATA, Il terzo capo della “lex Aquilia”, in «Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano», 37-38 (1995-1996), pp. 111 sgg.; F.M. DE ROBERTIS, Damnum iniuria datum. Trattazione sulla responsabilità extra-contrattuale nel diritto romano con particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, Bari, Cacucci, 2000, pp. 15 sgg.; M. MIGLIETTA, «Servus dolo occisus». Contributo allo studio del concorso tra ‘actio legis Aquiliae’ e ‘iudicium ex lege Cornelia de sicariis’, Napoli, Jovene, 2001, passim; M.F. CURSI, Iniuria cum damno. Antigiuridicità e colpevolezza nella storia del danno aquiliano, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 167 sgg.; F.M. DE ROBERTIS, Damnum iniuria datum. La responsabilità extra-contrattuale nel diritto romano; con particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, II, Bari, Cacucci, 2002, pp. 15 sgg.; A. CORBINO, Il danno qualificato e la lex Aquilia. Corso di diritto romano, Padova, CEDAM, 2005, pp. 31 sgg.
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parte a prevalere per lungo tempo nelle scienze empirico-sperimentali, riconducibile anzitutto ad Aristotele, è invece fondamento di un modello in cui l’animale non umano è visto come un essere diverso in tutto dall’uomo, il quale può, quindi, legittimamente mangiarlo e ucciderlo per soddisfare un suo interesse 87. Come si vedrà, fra le due è la concezione pitagorica ad avere lasciato tracce di sé più significative nella giurisprudenza romana, in particolare sotto il profilo sistematico della definizione stessa del ius. In merito, quindi, alla concezione aristotelica qui basti solo rilevare che essa ha avuto una parte importante nella riduzione della condizione animale al rango delle cose inerti. Aristotele ritiene che l’uomo non è il solo animale politico 88, ma afferma anche che gli altri esseri animati non sono dotati di intelligenza e quindi non partecipano al diritto: Arist., Eth. Nic. 8,11,1161b1-3: Non v’è amicizia né legame di giustizia verso le cose prive di anima. E neppure vi sono verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo: non vi è, infatti, nulla in comune 89.
Il linguaggio, essenziale all’uomo per rivelare ciò che è utile e ciò che non è dannoso, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto 90, diviene nella filosofia aristotelica una facoltà alla base della capacità, anch’essa propria della sola specie umana, di discernere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto 91. In Pitagora, invece, alcuni aspetti fondamentali della sua filosofia, basti pensare alla credenza nella metempsicosi, alla condanna dei maltrattamenti inferti agli animali non umani, al divieto dei sacrifici cruenti e dell’alimentazione carnea, sono il presupposto di una concezione simpatetica delle relazioni fra uomo e animali non umani, la quale ha risvolti significativi anche sul piano giuridico, andando ben oltre una generica affermazione di rispettare la vita di tutti gli esseri animati: Iambl., Vita Pyth. 24,107-108: 107 Ora, queste prescrizioni concernenti l’alimentazione erano comuni a tutti; in particolare, poi, a coloro che fra i filosofi erano più inclini alla speculazione e che in questa si erano spinti più avanti vietava in modo assoluto i cibi superflui e ingiustificati: racco-
87 Sul tema della rilevanza giuridica della contrapposizione tra il modello aristotelico e il modello pitagorico, nelle relazioni fra uomo e animali non umani, si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 21 sgg.; ID., Animali non umani… cit., pp. 13 sgg. 88 Arist., Hist. an. 1,1, 488a1 ss. Si veda M. VEGETTI, Figure dell’animale in Aristotele, in Filosofi e animali nel mondo antico, a cura di S. CASTIGNONE - G. LANATA, Pisa, ETS, 1994, pp. 126 sgg. 89 La traduzione è di M. VEGETTI, Il coltello e lo stilo, Milano, Il Saggiatore, 19963, p. 42. 90 Arist., de an. 420 b 5-11. 91 Arist., Pol. 1253 a 9-18.
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mandava di non cibarsi mai delle carni di un essere vivente, di non bere assolutamente vino, di non sacrificare agli dei animali, di non fare loro in alcun modo del male, rispettando con la massima attenzione le norme della giustizia anche nei loro confronti. 108 Quanto a lui, visse proprio in questo modo, evitando di cibarsi degli animali e venerando gli altari sui quali non si facevano sacrifici cruenti, adoperandosi affinché anche gli altri non sopprimessero gli esseri viventi di natura simile alla nostra e d’altra parte ammansendo e ammaestrando le bestie selvatiche con le parole e gli atti, lungi dal maltrattarle infliggendo loro dei castighi. Nell’ambito poi dei politici, prescriveva ai “legislatori” di astenersi dalla carne degli animali. Dal momento che era loro intenzione praticare la perfetta giustizia, era ben necessario che non recassero oltraggio agli esseri viventi con noi imparentati. Perché come avrebbero potuto persuadere gli altri a essere giusti, quando proprio loro erano preda dello spirito di prevaricazione? Un vincolo di parentela unisce gli esseri viventi e gli animali, per il fatto di avere in comune con noi la vita e di essere costituiti dei medesimi elementi, inoltre per la mescolanza da questi risultante, sono congiunti a noi da un legame di fratellanza 92.
Echi di questo diverso modo di concepire sul piano giuridico, entro una prospettiva simpatetica, le relazioni tra uomo e animale non umano sono sparsi nella filosofia greca e nella letteratura latina. Se il possesso della giustizia rappresenta per Esiodo 93, per i sofisti 94 92 Traduzione di M. Giangiulio, in Pitagora. Le opere e le testimonianze, a cura di M. GIANGIULIO, II, Milano, Mondadori, 2000, pp. 397 sgg. 93 Hes., Op. 276-279: Tale è la legge che agli uomini impose il figlio di Crono: ai pesci e alle fiere ed agli uccelli alati di mangiarsi fra loro, perché fra loro giustizia non c’è; ma agli uomini diede giustizia che è molto migliore. Traduzione di G. Arrighetti, in Esiodo, Opere e giorni, Milano, Garzanti, 19952, p. 21. Sulla contrapposizione tra dike e hybris, in Esiodo, si vedano: J.P. VERNANT, Alla tavola degli uomini. Mito di fondazione del sacrificio in Esiodo, in La cucina del sacrificio in terra greca, a cura di M. DETIENNE - J.P. VERNANT, tr. it. di C. Casagrande - G. Sissa, Torino, Boringhieri, 1982, pp. 27 sgg.; P. VIDAL-NAQUET, Il cacciatore nero. Forme di pensiero e forme di articolazione sociale nel mondo greco antico, tr. it. di F. Sircana, Roma, Editori riuniti, 1988, pp. 259 sgg.; M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 19902, pp. 29 sgg.; J.P. VERNANT, Il mito esiodeo delle razze. Tentativi di analisi strutturale, in ID., Mito e pensiero presso i greci, tr. it. di M. Romano - B. Bravo, Torino, Einaudi, 20013, pp. 15 sgg.; ID., Il mito esiodeo delle razze. Su un tentativo di messa a punto, ibidem, pp. 48 sgg.; E.H. HAVELOCK, Dike. La nascita della coscienza, tr. it. di M. Piccolomini, Roma-Bari, Laterza, 20032, pp. 237 sgg. 94 Plat., Prot. 322 B-C: [B] Gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano Città. Pertanto perivano ad opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse: l’arte che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando Città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicchè, disperdendosi nuovamente, perivano. [C] Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia. Plat., Gorg. 483 C-D: [C] Per queste ragioni il cercare di avere più degli altri viene detto ingiusto e brutto per legge, e questo essi chia-
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e poi ancora per gli stoici 95 un tratto distintivo della supremazia dell’uomo sul resto degli esseri animati, Platone ricorda il tempo in cui gli uomini si alimentavano dei prodotti naturali del suolo e potevano stabilire relazioni anche con gli altri animali 96. In nome di una generale affinità fra gli esseri viventi, Eraclito 97 ed Empedocle 98 richiamano l’empietà delle pratiche sacrificali cruente e della alimentazione carnea. Empedocle giunge anche a riconoscere una unica condizione di diritto tra gli esseri animati 99. mano fare ingiustizia. Ma mi pare che la natura stessa mostri [D] questo, ossia che è giusto che chi è migliore abbia più di chi è peggiore, e chi è più potente abbia più di chi è meno potente. E ci dimostra che è così in molti casi, e per quanto riguarda gli uomini, in tutte le Città e nelle famiglie, e negli altri animali; dimostra, cioè, che il giusto si giudica in questo modo: che il più forte domini il più debole ed abbia più di lui. Traduzione di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. REALE, Milano 20054, pp. 819 sgg.; 895. 95 Si vedano: Porph., de abst. 3,20 (= SVF II,1152); Cic., nat. deor. 2,14,37 (= SVF II,1153); leg. 1,8,25 (= SVF II,1162); Orig., Contra Celsum IV 74 Vol. I p. 343, 23 Kö. (p. 559 Del.) (= SVF II,1157). 96 Plat., Polit. 272 A-B: [A] Se, dunque, gli uomini allevati da Crono, avendo così tanto tempo libero e tanta capacità per poter dialogare non solo con gli uomini ma anche con le bestie, [C] si servivano di tutto ciò per filosofare, conversando con le bestie e fra di loro, e interrogando ogni natura per sapere se qualcuna, possedendo una sua capacità specifica, percepisse qualcosa di superiore alle altre, è facile giudicare che gli uomini di allora erano infinitamente più felici di quelli di oggi. Traduzione di C. Mazzarelli, in Platone, Tutti gli scritti… cit., p. 332. 97 Eracl., 22 B 5 DK [130,126] (Aristocr., Theos. 68 [Buresch, Klaros S. 118], Orig., Contra Celsum 7,62): Si purificano con altro sangue e insieme si contaminano, come se uno, dopo essersi immerso nel fango, si lavasse con il fango stesso. Se qualcuno degli uomini vedesse costui mentre fa questo, lo considerebbe un pazzo. E rivolgono preghiere a statue di dèi, come se uno si mettesse a conversare con le mura delle case, senza conoscere che cosa siano gli dèi e gli eroi. Traduzione di G. Reale, in I Presocratici, a cura di G. REALE, Milano, Bompiani, 2006, p. 343. 98 Emp., 31 B 136 DK (Sext. Emp., adv. math. 9,127): Dunque, i seguaci di Pitagora ed Empedocle e il resto dei filosofi italici sostengono che sussista una certa comunanza non solo tra noi esseri umani, e di noi umani con gli dèi, ma anche con gli animali privi di parola e ragione. Esiste, infatti, un unico soffio [pneuma], che si diffonde per tutto l’universo, e ci pone in comunione con quegli esseri. Pertanto, sia uccidendoli sia cibandoci delle loro carni, commetteremo un’ingiustizia e un’empietà, come se eliminassimo dei parenti. È per questo motivo che questi filosofi esortavano ad astenersi dal cibarsi degli esseri animati, e affermavano che commettono un’empietà gli uomini che «imporporano l’altare con il caldo sangue dei beati uccisi», ed Empedocle, in un qualche luogo, dice: Non cesserete dalla strage che cupa rimbomba? Non vedete che vi state divorando l’un l’altro per indifferenza al conoscere? Traduzione di I. Ramelli - A. Tonelli, in I Presocratici… cit., pp. 741 sgg. 99 Cic., rep. 3,19; Plut., De esu carn. 997 E; De soll. anim. 964,7. Cfr. M.V. BACIGALUPO, Il problema degli animali nel pensiero antico, Torino, Edizioni di Filosofia, 1965, p. 27; G. DITADI, Apologia della vita. Plutarco, ‘bestie’ logiche e rinascita dell’aurora, in Plutarco, L’intelligenza degli animali e la giustizia loro dovuta, a cura di G. DITADI, Este, Isonomia, 2000, pp. 72 sgg.
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Sappiamo da Porfirio 100, il quale trae la notizia da Ermippo di Smirne 101, che Senocrate si sarebbe rifatto alla autorità di Trittolemo, re di Eleusi e legislatore degli ateniesi, per fare riferimento al precetto relativo al divieto di nuocere agli altri esseri viventi 102. Per Teofrasto la partecipazione di tutti gli animali al diritto si fonda sul concetto di o„ke…wsij, una comune appartenenza ad un gruppo che si estende fino a tutti gli esseri animati 103. Plutarco, anche facendo espresso riferimento a Pitagora 104, afferma con particolare tensione emotiva la necessità di rispettare tutti gli esseri animati e muove una critica contro quei filosofi, da lui indicati genericamente col nome di peripateci, i quali attribuiscono all’uomo il predominio sul resto degli animali: Plut., De soll. an. 963F-964A (= SVF III, 373): Gli Stoici e i Peripatetici … [affermano] che la giustizia non potrebbe nascere e in ogni caso sarebbe vana e inesistente se tutti gli esseri viventi partecipassero della ragione: se noi risparmiassimo gli animali, o diventerebbe necessario compiere ingiustizia, oppure, se non ce ne servissimo, la vita diventerebbe piena di difficoltà fino ad essere impossibile; e in qualche modo, respingendo i vantaggi che ci derivano dalle bestie, ci ridurremo noi stessi a vivere come bestie 105.
Nella cultura latina, la diffusione della tesi che anche gli animali partecipino al diritto è attestata in particolare da Cicerone, il quale, nel De republica, ricorda che Pitagora ed Empedocle ritenevano unica la condizione giuridica di tutti gli esseri viventi e reputavano delittuosa l’azione di colui che arrecasse danno agli animali non umani 106: Porph., de abst. 4,22 (Xenocr. 252 I. P. = 98 Heinze). Fr. Gr. Hist., 328 F 96 (= fr. 84 Wehrli). 102 Si veda anche Plut., De esu carn. 996 B (= Xenocr., 53 I. P. = 99 Heinze). Cfr. M. ISNARDI PARENTE, Le ‘tu ne tueras pas’ de Xénocrate, in Histoire et Structure. A’ la mémoire de V. Goldschmidt, Études Réunies par J. B RUNSCHWIG - C. IMBERT - A. ROGER, Paris, Vrin, 1985, pp. 161 sgg.; G. SANTESE, Introduzione, in Plutarco, Il cibarsi di carne, a cura di L. INGLESE - G. SANTESE, Napoli, M. D’Auria, 1999, pp. 66 sgg. 103 Sul concetto di o„ke…wsij in Teofrasto si vedano: G. SANTESE, Introduzione… cit., pp. 75 sgg.; L. REPICI, Aristotele, Teofrasto e il problema di una giustizia verso le piante, in Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, a cura di M. MIGLIORI, Napoli, La città del sole, 2000, pp. 554 sgg. 104 Plut., De soll. an. 959F; 964F; De esu carn. 993A; Quaest. conv. VIII,8,729E. 105 Traduzione di G. Santese, in Plutarco, Il cibarsi di carne… cit., p. 36. Sulla identità dei peripatetici, ai quali genericamente allude Plutarco, si veda G. SANTESE, Animali e razionalità in Plutarco, in Filosofi e animali… cit., pp. 155 sgg. 106 Cic., off. 1,17,53-54. L’importanza di Cicerone, nella diffusione delle concezioni di favore per la condizione animale elaborate da Pitagora e da Empedocle, non può essere messa in discussione osservando che proprio tali concezioni erano da lui avversate. Si veda, a questo proposito, E. COSTA, Cicerone giureconsulto, Bologna 1927 (rist. an., Roma 1964), pp. 18 sgg., il quale, pur osservando che la «dottrina propugnata da Pitagora e proseguita da Empedocle, che dalla ricogni100
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Cic., rep. 3,18-19: 18 esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum. 19 ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas impendere iis a quibus violatum sit animal. scelus est igitur nocere bestiae, quod scelus qui velit.
Anche in un brano del De clementia di Seneca si parla di un commune ius animantium 107 e si trae da esso argomento a difesa della stessa condizione umana: Sen., clem. 1,18,2: Servis ad statuam licet confugere; cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet.
Nel sistema giuridico-religioso romano, sulla base delle premesse filosofico-giuridiche sopra richiamate, l’idea della partecipazione degli animali non umani al diritto si esprime lungo le linee direttive del ius naturale e del sacrificio cruento 108. La prima via – l’elaborazione di un diritto comune a uomini e ad animali non umani – è attestata anzitutto nella celebre enunciazione della nozione di ius naturale, formulata nel III secolo d.C. dal giureconsulto romano Ulpiano, il quale compie così una sintesi di quelle concezioni filosofiche in cui si riconosceva la partecipazione degli animali al diritto 109:
zione di una comune condizione di natura fra tutti gli esseri viventi desumeva una pur comune partecipazione di tutti questi ad un diritto precostituito dalla natura stessa, è respinta e combattuta decisamente dal Nostro …», riconosce: «Proseguita tuttavia in Roma, già al tempo del Nostro e nel secolo successivo, dai pitagorici, cotal dottrina s’infiltra pure nel pensiero di taluno fra i giuristi classici, fino a dar vita a quel concetto del ius naturale, accolto da Ulpiano, non humani generis proprium, sed omnium animalium quae in terra, quae in mari nascuntur». In generale sulla concezione degli animali in Cicerone si veda S. ROCCA, Uomini e animali in Cicerone, Genova, Compagnia dei Librai, 1998. 107 Si veda A. MANTELLO, ‘Beneficium’ servile – ‘debitum’ naturale. Sen., de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav., 2 ex post. Lab.), Milano, Giuffrè, 1979, il quale rintraccia l’ascendenza dell’idea di Seneca sulla esistenza di un commune ius animantium in «probabilissimi materiali pitagorici», anche alla luce della omnium animantium condicio iuris in Cicerone, rep. 3,18-19; ID., Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, in «Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano», 33 (1991), p. 401. 108 Si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 95 sgg.; ID., Il divieto dei sacrifici… cit., pp. 73 sgg.; ID., Animali non umani… cit., pp. 96 sgg. 109 Per alcuni precedenti della nozione ulpianea si vedano: G. CASTELLI, Intorno a una fonte greca del fr. 1 del § 3 D. 1,1, in Studi in onore di S. Perozzi, Palermo, Castiglia, 1925, pp. 53 sgg. (= ID., Scritti giuridici, a cura di E. ALBERTARIO, Milano, Hoepli, 1923, pp. 199 sgg.); A. MANTELLO, Il sogno, la parola… cit., pp. 401 sgg.
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D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.
La nozione elaborata da Ulpiano del ius naturale come ius che la natura insegna a tutti gli animali, nel riconnettersi evidentemente a tali riflessioni, si fonda sul riconoscimento della affinità esistente fra gli esseri animati. Tale nozione, in cui gli esseri non umani sono enti di riferimento del diritto, presuppone una sua valenza concreta che si evidenzia in particolare nel cenno all’ambiente in cui vivono le diverse specie animali: quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. L’esemplificazione di situazioni giuridiche fondamentali, inoltre, dall’unione tra individui di sesso maschile e femminile alla procreazione e alla educazione della prole, riscontrabili nella loro base naturale negli uomini e negli altri animali, accentua tale visione concreta 110. La seconda via – la celebrazione di sacrifici cruenti – è largamente attestata nel sistema giuridico-religioso romano in seno al quale il rito risulta centrale per la conservazione della pax deorum 111. La centralità del sacrificio cruento è una espressione fondamentale della affinità esistente fra gli uomini e gli altri esseri animati 112. Ma lo è anche la Si deve soprattutto evitare di considerare assurda la tesi di un diritto comune a uomini e ad altri animali sulla base del fatto che Ulpiano, in D. 9,1,1,3 (Ulp. 18 ad ed.), sembra negare il possesso della razionalità agli animali non umani. Cfr. C. LONGO, Note critiche a proposito della tricotomia ius naturale, gentium, civile, in «Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», 40 (1907), p. 633. Un riconoscimento del valore della enunciazione ulpianea si trova in F.C. VON SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, tr. it. di V. Scialoja, I, Appendice I, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1886, pp. 409 sgg.; C. ARNÓ, Jus naturale, in «Atti e memorie della Reale Accademia delle Scienze di Modena», serie IV, I, 1926, pp. 117 sgg.; M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 346; M.P. BACCARI, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 16 sgg.; F. SINI, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino, Giappichelli, 2001, p. 202; P. CATALANO, Diritto, soggetti, oggetti… cit., p. 116; P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 127 sgg.; S. TAFARO, Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in Rodzina I Spol eczené stwo Wczoraj i dziés, red. F. LEMPA - S. TAFARO, Bial ystok, Temida2, 2006, pp. 23 sgg.; V. MAROTTA, Iustitia, vera philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano, in Testi e problemi… cit., pp. 597 sgg. 111 Sul concetto di pax deorum, si veda da ultimo, F. SINI, Diritto e pax deorum in Roma antica, in «Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana», 5 (2006) (= http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm). 112 Sulla centralità del sacrificio a Roma si veda per tutti G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica, tr. it. di F. Jesi, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 476 sgg. Per una analisi giuridica del sacrificio è ora fondamentale F. SINI, Sua cuique civitati… cit., pp. 177 sgg. 110
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condanna del sacrificio cruento che da alcuni autori latini 113 giunge fino alle costituzioni dell’Imperatore Costantino con le quali si introducono limiti alle pratiche sacrificali soprattutto connesse alla divinazione 114. Giustiniano, riprendendo la concezione elaborata da Ulpiano di un diritto naturale comune a uomini e ad animali non umani 115, le assegna un significato centrale, all’interno del sistema giuridico romano, oltre che nei Digesta, nelle Institutiones 116: Inst. 1,2 pr.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit. nam ius istud non humani generis proprium est, sed omnium animalium, quae in caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur. hinc descendit maris atque feminae coniugatio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio et educatio: videmus etenim cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri.
L’elaborazione della nozione del ius naturale, nella scienza giuridica romana, attraverso l’attenzione per la condizione giuridica degli animali non umani, fonda per la comprensione dell’intero ius una prospettiva, la quale resta ancora oggi di fondamentale importanza. L’impostazione ulpianea, lungi da teorizzazioni astratte prive di qualsiasi riscontro nella realtà, appare degna della massima attenzione nel richiamare istituti propri della “società” degli uomini e degli animali e nel ribadire nel diritto romano l’idea dell’uomo come parte, assieme agli altri animali, del cosmo 117. 5) Osservazioni conclusive La condizione animale nell’antichità non può essere descritta né attraverso la categoria di soggetto, né può essere ridotta alla pura e semplice condizione di oggetto 118. Porph., ad Aneb., 29; Iambl., De myst. 3,13. Cfr. L. DE GIOVANNI, Costantino e il mondo pagano, Napoli 19894, pp. 54 sgg.; L. DESANTI, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas. Indovini e sanzioni nel diritto romano, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 195 sgg. nt. 52; L. DE GIOVANNI, Mondo tardoantico e formazione del ‘Diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli, Jovene, 1997, pp. 178 sgg. 114 CTh. 9,16,1 (cfr. C. 9,18,3); CTh. 9,16,2; CTh. 16,10,1, su cui P.P. ONIDA, Il divieto dei sacrifici… cit., pp. 104 sgg. 115 Cfr. P. CATALANO, Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1985, p. 762. 116 Si veda, più diffusamente, P.P. ONIDA, Animali non umani… cit., p. 6 ss. 117 Cfr. M. BRETONE, Storia del diritto… cit., pp. 344 sgg. 118 Cfr. S. ROCCA, Animali, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1984, p. 174, la quale parla di «umanizzazione». 113
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La riflessione della giurisprudenza romana, a causa del rilievo attribuito alla natura animale, non può essere considerata, come invece spesso si ritiene, il precedente dogmatico della dottrina moderna secondo cui l’animale non umano è un mero oggetto di diritto. Tale riflessione, però, non può neppure essere assimilata completamente alla dottrina, oggi assai diffusa, secondo cui l’animale non umano è un soggetto di diritto, sebbene con essa vi siano anche alcuni elementi comuni soprattutto per quanto riguarda l’affermazione di una generale e simpatetica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati. La prospettiva ‘oggettivistica’ risente di una analisi che tende erroneamente ad assimilare la condizione dell’animale non umano a quella dei beni inerti, in quanto essa, tentando di tracciare un solco netto tra le qualità degli esseri umani e quelle degli altri animali, privilegia la considerazione delle qualità che il primo possiede da morto, quasi a far dimenticare che la specie umana non è altro che una delle tante specie animali. La impostazione scientifica, che in forza di questa prospettiva ‘oggettivistica’ tende ad assimilare la condizione elastica di res a quella invece rigida di cosa e, quindi, di oggetto di diritto, compie arbitrariamente una assimilazione esattamente corrispondente, sia pure in termini speculari, a quella altrettanto arbitraria della dottrina che tenta di estendere la soggettività giuridica agli altri animali 119. Entrambe le prospettive, ‘oggettivistica’ e ‘soggettivistica’, quando applicate all’analisi delle relazioni fra uomo e altri esseri animati, riducono la questione animale al problema della negazione o della estensione della soggettività giuridica al di là della cerchia umana. Occorrerebbe, invece, essere meno ottimisti, rispetto a quanto avviene di solito in dottrina, sul fatto che dalla estensione possano derivare, in maniera meccanica, conseguenze significative sul piano della reale tutela giuridica 120. Il rifiuto di categorie dogmatiche rigide favorisce un ripensamento generale della qualità delle relazioni fra uomo e altri esseri animati, con l’obiettivo essenziale di una tutela reale di questi ultimi. Il compito fondamentale al quale oggi sono chiamati i giuristi nell’affrontare la questione animale è quello di riconoscere il valore della vita animale con una impostazione non più antropocentrica ma biocentrica. Vale a dire con una sensibilità che induca il giurista ad esprimere la consapevolezza oggi sempre più diffusa che l’uomo è solo una parte essenziale, ma non l’unica, dell’ambiente in cui vive. Per assolvere tale compito è necessario che il giurista ritorni a modelli di relazione fra uomo e altri animali non contaminati da categorie antropocentriche. L’attenzione della giurisprudenza romana per l’animale non umano in quanto essere vivente costituisce Si veda P.P. ONIDA, Studi sulla condizione… cit., pp. 3 sgg. Eccessiva fiducia sulle conseguenze della concezione dell’animale come soggetto di diritto, al contrario, sembra deporre F. RESCIGNO, I diritti degli animali… cit., pp. 1 sgg. 119
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un modello alternativo alla impostazione moderna della questione animale in termini rigidamente e banalmente antropocentrici attraverso l’impiego delle categorie rigide di soggetto e di oggetto di diritto. La descrizione della condizione giuridica animale non può invece avvenire sulla base della rigida dicotomia tra soggetto e oggetto di diritto o di quella corrispondente, almeno nella sua accezione odierna, tra persone e cose, in quanto tali categorie, esaltando la distanza tra il mondo degli uomini e quello degli altri esseri animati, pongono in ombra l’aspetto essenziale della responsabilità dei primi nei confronti dei secondi. Il riconoscimento del valore della vita animale secondo una concezione biocentrica si trova ora nella Dichiarazione universale dei diritti dell’animale, presentata a Bruxelles il 26 gennaio 1978 e proclamata a Parigi, presso l’UNESCO, il 15 ottobre 1978, all’art. 1, in cui si legge che «Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza». Si consideri, inoltre, la recezione di tale principio nel Trattato che istituisce la Unione Europea, in cui, all’art. III-121, si stabilisce che «l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e i patrimoni regionali». Si tratta di una visione delle relazioni fra gli esseri animati non più antropocentrica ma biocentrica e, dunque, rispettosa dell’equilibrio fra le diverse forme di vita.
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In verità il titolo di questa relazione è alquanto ottimistico: infatti, nonostante gli indiscutibili progressi che sono stati fatti negli ultimi decenni relativamente allo status giuridico degli animali nel nostro ordinamento e, in generale, in quelli del mondo occidentale, per attribuire agli animali non umani la qualifica di veri e propri soggetti di diritto, il cammino da percorrere è ancora lungo. Considerati da millenni delle “cose” di cui gli uomini potevano disporre a proprio piacimento alla stessa stregua, o quasi, degli oggetti inanimati, la riscossa, se così vogliamo chiamarla, degli animali nel campo giuridico è iniziata soltanto sul finire del XIX secolo, con le prime leggi di tutela per gli animali domestici. Questo atteggiamento di chiusura pressoché totale, continuato così a lungo nei confronti degli animali, dipende dal fatto che essi venivano considerati del tutto privi di ragione, governati soltanto dall’istinto e in più non disponevano del linguaggio, strumento indispensabile per formulare dei pensieri e per esprimerli. Senza la piena capacità di ragionare e di comunicare si riteneva impossibile rendersi conto di avere degli interessi, delle richieste nei confronti degli altri, per cui gli animali venivano tagliati fuori completamente dal mondo del diritto. Si tenga presente che anche le donne e gli schiavi o i membri di razze considerate inferiori sono stati visti per lungo tempo come estranei alla sfera giuridica cui appartenevano soltanto in quanto oggetti di diritti altrui o di tutela. Se dal livello giuridico passiamo a quello morale e filosofico nei confronti del trattamento riservato agli esseri non umani e delle sofferenze a loro inflitte, la situazione si presenta leggermente migliore, nel senso che lungo tutto il corso della civiltà umana ci sono stati persone e autori che hanno mostrato verso gli animali sentimenti di partecipazione e di pietà. Nel mondo classico, ad esempio, non mancarono le voci in difesa dei loro interessi e della loro rilevanza morale: pensiamo a Plutarco, I sec. d.C., con il suo Del mangiar carne, che argomenta contro i sacrifici cruenti e a favore del vegetarianismo. Nelle stele funerarie romane si leggono parole toccanti per ricordare il cane fedele,
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il cavallo, il bue compagno di fatica. Ancora prima, in Omero, si racconta di un guerriero che andò a combattere senza le sue beneamate cavalle per non sottoporle alle fatiche e ai pericoli della battaglia e per questo morì. Ma sono tutti episodi isolati e attinenti alla sfera privata i quali non incisero sull’atteggiamento dominante di tipo strettamente antropocentrico e soprattutto non ebbero riflessi sul piano giuridico. Nel diritto romano troviamo sì delle leggi che si preoccupavano del benessere di singoli animali, ma sono norme rivolte esclusivamente a garantire l’interesse del proprietario e/ o del compratore. In generale l’ideologia dominante era quella di non riconoscere nessuna rilevanza etica e giuridica agli animali non umani. L’abisso che li separava dagli esseri umani era considerato incolmabile. Bisognerà aspettare il sec. XIII quando, con Tommaso d’Aquino, si ebbe una svolta, sempre di tipo antropocentrico, ma con ricadute favorevoli agli animali: riprendendo il motto, peraltro latino, di Orazio, saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines (la crudeltà verso gli animali porta gli uomini a diventare crudeli anche verso i loro simili), Tommaso sostenne che non si devono maltrattare gli animali, ma non in quanto essi abbiano una qualche importanza morale o vi siano dei doveri nei loro confronti, bensì perché occorre evitare il pericolo che gli animi si induriscano, si abituino ad infliggere sofferenza e siano quindi spinti ad esercitarla anche verso altri esseri umani. È evidente che anche gli animali traggono qualche vantaggio da una impostazione del genere, tuttavia è altrettanto chiaro che si tratta di un beneficio indiretto, vale a dire di una ricaduta positiva di azioni motivate esclusivamente da interessi umani. Ebbene questa teoria, detta dei doveri indiretti, è stata quella più seguita nei secoli successivi, adottata anche da Kant che scrisse: «L’uomo deve mostrare bontà di cuore verso gli animali. Perché chi usa essere insensibile verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini». Un vero e proprio cambiamento si verifica, dal punto di vista etico-filosofico ma non ancora giuridico, all’inizio del ’700, quando accanto al razionalismo si fece strada l’empirismo, che metteva in primo piano le sensazioni e non più la ragione, ponendo alla base della conoscenza e delle azioni umane le impressioni sia esterne (dei cinque sensi) che interne (le passioni), e permettendo così di cogliere le somiglianze tra la natura umana e quella animale. David Hume, nel suo Trattato sulla natura umana del 1740, dice esplicitamente che anche gli animali dispongono della capacità di imparare dall’esperienza e di compiere associazioni del tutto simili a quelle della mente umana, sia pure con un grado di complessità molto minore. Le idee di bene e di male e le valutazioni morali non furono più viste come relazioni o intuizioni della ragione bensì come il prodotto delle conseguenze in termini di piacere o di pena, di felicità o di sofferenza nei soggetti che subiscono le azioni da giudicare. Ora, poiché anche gli animali soffrono in quanto sono esseri sensibili, ne segue che nel valutare buono o cattivo un certo
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tipo di comportamento occorre tener conto anche delle loro sofferenze. Si arriva così alla ormai famosa frase che Jeremy Bentham, il fondatore dell’utilitarismo, pronunciò nel 1789: «l’importante non è chiedersi se gli animali sappiano ragionare e neppure se sappiano parlare, bensì se sappiano soffrire». Gli animali diventano dunque destinatari di doveri diretti dell’uomo, e non più soltanto indiretti: doveri diretti basati sulla legge morale fondamentale, per cui è male infliggere sofferenza a chiunque sia in grado di sperimentarla. Il clima stava lentamente mutando e la cosiddetta “questione animale” cominciò a suscitare molte discussioni: all’inizio dell’Ottocento, e precisamente nel 1824, fu fondata a Londra la prima società per la protezione degli animali (Society for the Prevention of Cruelty to Animals), cui fecero seguito istituzioni analoghe sia in Europa che negli Stati Uniti: proprio in questi ultimi la locale American Society for the Prevention of Cruelty to Animals, fondata nel 1866, prese come immagine emblematica del suo logo quella di un cavallo che viene massacrato a bastonate dal vetturino; questo tipo di spettacoli infatti era molto comune a quei tempi, visto che i trasporti di persone e cose venivano effettuati con carri tirati da cavalli o asini, e non mancarono di suscitare lo sdegno soprattutto delle classi più abbienti, che godevano di un periodo di prosperità e che anelavano ad un ritorno alla natura, alla campagna, alla compagnia degli animali. In Italia la prima società per la protezione degli animali nacque a Torino nel 1871, sponsorizzata da Giuseppe Garibaldi. Intanto nel 1859 fu pubblicato On the Origin of the Species (Sull’origine delle specie) di Darwin, e l’impatto della teoria evoluzionista sul modo di considerare il rapporto uomoanimali fu molto forte. All’inizio dell’Ottocento, oltre alle società di protezione, furono finalmente varate anche le prime leggi per la tutela degli animali: sempre in Inghilterra si ebbe nel 1822 il Martin’s Act, o più propriamente il Cruel Treatment of Cattle Act, sul maltrattamento del bestiame, seguito in Francia nel 1850 dalla Loi Grammont, mentre in Italia nel Codice Penale del Granducato di Toscana del 1856 e in quello per gli Stati di Sua Maestà il Re di Sardegna del 1859 erano previste ammende per coloro che in luoghi pubblici o aperti al pubblico incrudelissero contro animali domestici. Dalla dizione “in luoghi pubblici” si evince facilmente come l’idea sottostante al provvedimento (comune peraltro anche all’altra normativa citata) non fosse tanto la difesa degli animali quanto la necessità di non offrire scene di crudeltà agli spettatori. Il che significa però che a livello giuridico ci si muoveva ancora sulla base della teoria dei doveri indiretti. Stessa cosa per l’articolo 491 del Codice Zanardelli del 1889, primo codice dell’Italia unificata, ripreso poi senza innovazioni degne di rilievo come art. 727 del Codice Rocco del 1930 e rimasto immutato fino al 1993, anno in cui tale articolo del c.p., a lungo combattuto dagli animalisti per la sua formulazione così ampiamente superata vuoi dalla realtà della ricerca
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scientifica e dai moderni sistemi di allevamento, vuoi dalle posizioni filosofiche sul rapporto uomo-animali maturate nel frattempo, fu finalmente cambiato. Prima delle modifiche del 1993 l’art. 727 puniva con una ammenda chiunque incrudelisse contro gli animali o senza necessità li sottoponesse a eccessive fatiche o torture, oppure «anche solo per fine scientifico e didattico, in luogo pubblico o esposto al pubblico, sottoponesse animali vivi ad esperimenti tali da ispirare ribrezzo»: i punti nevralgici sono rappresentati dalle locuzioni “in pubblico” e “senza necessità”. Della prima abbiamo già parlato ed è dovuta alla incredibile persistenza nel tempo della teoria dei doveri indiretti, frutto a sua volta del rifiuto di ammettere qualsiasi rilevanza morale o giuridica degli animali che non fosse quella di oggetti di dominio o di proprietà (è il cosiddetto “sciovinismo umano”). La seconda, il “senza necessità”, apriva le porte ad una varietà pressoché infinita di interpretazioni e di conseguenza ad ogni tipo di sfruttamento, indebolendo la portata di tutela dell’articolo medesimo. Nel frattempo però sia l’opinione pubblica che la sensibilità delle persone si erano andate evolvendo ulteriormente. Gli studi di una nuova disciplina, l’etologia, aventi per oggetto il comportamento animale, avevano dimostrato al di là di ogni possibile dubbio le capacità cognitive della mente degli animali, la loro abilità nell’affrontare situazioni nuove ed impreviste, nonché la trasmissione per via culturale delle conoscenze acquisite, e soprattutto la loro natura di esseri sensibili, in grado di sperimentare il piacere e il dolore, la sofferenza e la gioia. Nel 1975 Peter Singer pubblicò il libro Animal Liberation (La liberazione animale), riprendendo le posizioni di Bentham e rilanciando il dovere morale fondamentale di evitare la sofferenza non solo umana ma anche animale, libro che suscitò un’eco molto vasta. Poco dopo, nel 1983, lo statunitense Tom Regan diede alle stampe The Case for Animal Rights (I diritti animali), aprendo un altro filone, quello appunto dei diritti. Secondo Regan basarsi sui doveri morali degli uomini è un primo passo, ma non è sufficiente: occorre riuscire a dimostrare che gli animali, o quantomeno buona parte di essi, sono titolari di veri e propri diritti. Regan elabora la teoria del valore intrinseco di tutti gli esseri senzienti e sensibili, in modo particolare di quelli che siano forniti di percezioni, emozioni, memoria, credenze e quindi della capacità di condurre una vita che sia migliore o peggiore per loro e di rendersene conto: tali esseri vengono denominati soggetti di una vita. Gli uomini, ovviamente, sono il prototipo dei soggetti di una vita, ma anche molti animali, in special modo i mammiferi, presentano le medesime caratteristiche, sia pure in misura minore. Tutti i soggetti di una vita posseggono un valore intrinseco e quindi dei diritti: in primo luogo quello di condurre la loro esistenza senza interferenze e limitazioni da parte di altri soggetti, cioè degli uomini. A questi studi fu data ampia diffusione dai media, mentre aumentava progressivamente il numero degli animali da compagnia e quindi dei contatti tra animali umani e non
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umani. Nel 1978, su iniziativa di un gruppo di associazioni animaliste, fu presentata all’Unesco la Dichiarazione universale dei diritti degli animali, avente però una rilevanza esclusivamente etico-politica. Non solo, ma, circostanza di grande rilievo, la giurisprudenza si era nel frattempo posizionata molto più avanti della lettera della legge, e in numerose sentenze si trovavano riferimenti alla natura di esseri sensibili degli animali, alla loro soglia del dolore che non poteva essere superata; mentre in un progetto di legge dell’87 si stabiliva che «nessun animale può essere sottoposto a maltrattamenti o atti crudeli che comportino la violazione delle leggi naturali a livello fisiologico, psichico e ambientale». In altre parole, si andava consolidando l’idea che gli animali dovevano essere presi in considerazione per se stessi, per le loro caratteristiche, per il loro benessere e non soltanto come mezzi per l’utilità o l’educazione morale degli esseri umani. Tutto questo non poteva ad un certo punto non riflettersi anche sul piano giuridico, e nel 1993 l’art. 727 subì finalmente delle importanti modifiche, che sono state riprese, sia pure con qualche cambiamento, dall’art. 544-ter, Titolo IX bis, della Legge n.189, attualmente in vigore dal 2004, il quale recita: «Chiunque per crudeltà e senza necessità, cagiona una lesione ad un animale oppure lo sottopone a sevizie o comportamenti o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da 3 mesi a un anno o con la multa da 3000 a 15000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministri agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottoponga a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale». I combattimenti tra animali sono vietati e sanzionati con la reclusione da uno a tre anni, mentre l’arresto fino ad un anno di reclusione e l’ammenda da 1000 a 10.000 euro toccano a coloro che abbandonano animali domestici o che li tengono in condizioni «incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze». Come si vede, vi sono delle innovazioni sostanziali: è scomparsa la dizione “in pubblico” e quindi è stata abbandonata come idea fondante la teoria dei doveri indiretti. E soprattutto ci si riferisce alle “caratteristiche etologiche” ed alla natura degli animali, il che sottintende che essi non sono più considerati alla stregua di cose, bensì come esseri senzienti e sensibili, che hanno esigenze e interessi propri. Alcuni autori tedeschi hanno parlato dell’animale come di una creatura giuridica, cioè di un essere che deve venire tutelato per se stesso e non come semplice mezzo per scopi umani. Non si è arrivati certo a parlare dell’animale come soggetto di diritto, vale a dire come titolare di diritti in proprio, però chiaramente si è affermato il principio base dei doveri diretti dell’uomo nei confronti dei suoi “compagni di strada”. E inoltre il richiamo sopra ricordato alle caratteristiche etologiche e alla natura degli animali fa intravedere sullo sfondo la tendenza a riconoscere agli animali un valore in sé e quindi dei diritti; nella stessa direzione va anche la Legge del 1991 sul
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randagismo che vieta la soppressione dei cani randagi e detta le norme per la salute e la sopravvivenza dei gatti che vivono in libertà, nelle cosiddette oasi feline, sottintendendo per i primi il diritto alla vita e per i secondi quello alla libertà. Purtroppo è rimasta la dizione “senza necessità”, che fa di nuovo temere le peggiori interpretazioni, come pure il richiamo alle “gravi sofferenze” è una espressione quanto mai vaga e passibile di molti significati. Si può quindi dire che sul piano etico-filosofico si possono riscontrare quattro fasi nel modo di considerare il rapporto uomo-animale: la prima, detta dello sciovinismo umano, non riconosce agli animali nessuno status diverso da quello di mere cose, res, alla totale disponibilità dell’uomo e tutelate al massimo come oggetti di proprietà; la seconda, dei doveri indiretti, tiene conto dei loro maltrattamenti solo in quanto occasione di disagio e di influsso negativo sul carattere degli spettatori umani; la terza, dei doveri diretti, che è quella ancora prevalente, riconosce l’obbligo umano di evitare la sofferenza degli animali per loro stessi, in quanto esseri senzienti e sensibili; la quarta, infine, dei diritti, afferma l’esistenza di veri e propri diritti degli animali in quanto esseri non solo senzienti e sensibili ma anche, come dice Regan, soggetti di una vita, cioè dotati di un certo grado di autocoscienza, intelligenza, memoria, volizioni, interessi. Sul piano giuridico, le varie legislazioni che si sono succedute nel tempo sono state guidate dalle prime tre concezioni, sia pure con notevoli ritardi nel seguire il loro succedersi: e attualmente con qualche timido tentativo di concretizzare anche la quarta. Fino a questo punto sembrerebbe una storia a lieto fine, o comunque che promette per il futuro degli ulteriori sviluppi positivi: ma così non è. A parte il gravissimo problema del controllo e della applicazione delle sanzioni, problema che trattandosi solo di animali viene molto spesso considerato di scarsa importanza, se si continua la lettura delle norme del Titolo IX bis della legge n.189 si trova l’art. 19 ter delle disposizioni transitorie il quale stabilisce che le norme del Titolo IX bis non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, attività circense, giardini zoologici, nonché alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla regione competente. Il che in parole povere significa che il numero degli animali oggetto di tutela si riduce in maniera enorme. Non è limitato ai soli animali domestici, cioè di compagnia o di affezione, ma poco ci manca. In buona sostanza succede che la maggior parte dei trattamenti subiti dagli animali nel corso delle attività previste dall’art. 19 potrebbero venire considerate maltrattamenti ai sensi dell’art. 544 ter e quindi proibiti: ma le “necessità” economiche e di mercato impongono altrimenti e così si fa ricorso alle leggi speciali. Le quali leggi speciali cercano comunque di porre dei paletti alle attività economiche di cui sopra, ma si tratta in genere di paletti molto permissivi.
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Venendo ai casi specifici, vediamo che gli attuali allevamenti intensivi presentano delle forme di sfruttamento e di malessere animale quasi al di là del credibile: per cercare di migliorarne le condizioni sono molto importanti le numerose direttive e le convenzioni della Unione Europea (e antecedentemente della CEE) in materia di benessere degli animali d’allevamento. Per benessere animale si intendono alcune libertà fondamentali che dovrebbero essere garantite: 1) libertà dalla fame e dalla sete, con un facile accesso all’acqua e una dieta che mantenga in buona salute; 2) libertà di movimento, vale a dire potersi muovere senza inutili sofferenze e lesioni e disponendo di uno spazio sufficiente; 3) libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie; 4) libertà dalla paura e dall’angoscia, ottenuta assicurando condizioni e trattamenti che evitino la sofferenza mentale; 5) libertà dal disagio, e cioè disporre di ripari idonei, con condizioni di circolazione dell’aria, temperatura, polvere e illuminazione entro limiti accettabili. Tra le direttive UE (CEE) volte a promuovere tale benessere ricordiamo le più importanti: la direttiva UE dell’1/01/04 che vieta di allevare i vitelli “da carne bianca” nei cassoni di contenimento e alla catena; la direttiva CEE del ’93 che contiene norme sulla gestazione e l’allattamento delle scrofe e proibisce le cosiddette “gabbie di gestazione”, in cui le scrofe, dopo il parto, venivano tenute sdraiate e ancorate al pavimento da appositi cerchi di ferro per favorire l’allattamento dei piccoli in modo che crescessero più in fretta; il regolamento comunitario n. 1794 del 1999 prevede, a partire dal 2012, la scomparsa degli allevamenti in gabbia o in batteria delle galline ovaiole, dove esse hanno a disposizione ciascuna lo spazio equivalente ad un foglio di 540 cm. quadrati (cioè cm. 30x18, più piccolo di un foglio per scrivere a macchina); entro tale data queste batterie dovranno essere sostituite da allevamenti all’aperto o quanto meno a terra. Nel 2007 è stato riconfermato il divieto di ingozzare anatre e oche per il fois gras. Importante anche la convenzione europea per gli animali da macello, adottata a Strasburgo nel 1979 e ratificata dall’Italia nel 1985 (Legge n. 623), che regola i metodi di abbattimento prescrivendo per i solipedi (cavalli, asini, muli), ruminanti e suini lo stordimento prima della macellazione. Purtroppo è stata poi concessa la deroga per la macellazione rituale per dissanguamento, senza stordimento, molto più dolorosa per gli animali (deroga non prevista, ad esempio, dalla Svizzera). Se si pensa che in Italia, secondo le statistiche per l’anno 2005, sono stati abbattuti cinque milioni di bovini, tredici di suini, sette di ovini, ci si rende facilmente conto di come il problema della tutela di questi animali destinati a finire sulle nostre tavole sia di dimensioni molto, molto rilevanti e ben lontano dall’essere risolto. Altro problema tragico è quello dei trasporti di animali vivi destinati al macello, con viaggi che durano decine di ore, sovente senza riposo, cibo e acqua: tra la normativa recente in materia ricordiamo il regolamento UE 1/2005 e il d.lg. n.151 del 2007, ma è indispensabile una nuova disciplina complessiva.
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Sul pianeta sperimentazione animale, ovvero vivisezione, le cose non vanno molto meglio: gli animali impiegati nel 2006 risultano essere in totale 2.735.887, di cui la maggior parte topi, ratti, cavie, ma anche 2829 cani, 45 gatti, 32314 conigli, 221 cavalli, 1089 scimmie, 8097 suini (dati pubblicati sulla G.U. n.243 del 16/10/2008). La legge in vigore, d.lg. n.11 del 27 genn.1992, adeguata alla direttiva C.E.E n.86/609, è una legge tutto sommato abbastanza garantista, in quanto vieta l’uso di cani, gatti e primati, prescrive l’anestesia obbligatoria e la soppressione immediata dell’animale nei casi più invasivi e dolorosi; inoltre tende ad incoraggiare l’uso dei metodi alternativi, quelli cioè che non prevedono l’impiego di animali vivi, ma soltanto di cellule e tessuti, di simulazioni al computer, ecc., stanziando anche dei fondi per la loro implementazione. Infine prevede degli adempimenti procedurali molto dettagliati per i casi in cui gli sperimentatori richiedano delle deroghe alle regole sopra esposte. Purtroppo però le circolari applicative che sono state poi emanate su pressione delle varie istituzioni vivisezioniste hanno praticamente svuotato la normativa della maggior parte del suo potenziale di tutela degli animali da esperimento. Da segnalare la legge 12 ott. 1993, n.413, che istituisce l’obiezione di coscienza nei confronti della vivisezione a favore dei medici, dei tecnici, dei ricercatori e degli studenti. Sempre in materia di sperimentazione scientifica, ricordiamo la direttiva UE del ‘93 che prevede l’abolizione dei tests su animali vivi per provare la tossicità dei cosmetici: il termine definitivo per la sua entrata in vigore, continuamente spostato, sembrerebbe essere il 2013, ma si temono ulteriori slittamenti. Ciascuno dei punti elencati e altri, che non sono stati toccati per motivi di brevità (per esempio la caccia), meriterebbero di venire esaminati in maniera più dettagliata: qui è stato possibile indicare soltanto le linee generali e la vastità del problema. Ad una elaborazione teorica abbastanza avanzata e ad una opinione pubblica in buona misura favorevole nel complesso a forme di tutela più incisive non corrisponde una legislazione adeguata, soprattutto nel caso degli allevamenti intensivi, anche perché le riforme auspicate avrebbero un costo economico non indifferente. Ma vorrei chiudere con una nota positiva: il 13 dicembre 2008 i 27 paesi dell’Unione europea hanno firmato un nuovo trattato in cui gli animali vengono riconosciuti ufficialmente dal punto di vista giuridico come esseri senzienti: il che comporterà, si spera, un nuovo, progressivo avanzamento nella attribuzione di diritti agli animali, primo fra tutti il diritto a non essere fatti soffrire. BIBLIOGRAFIA I diritti degli animali, a cura di, S. CASTIGNONE, Bologna, Il Mulino, 1985 G. BALLARINI, L’animale tecnologico, Bologna, Calderini, 1983 L. BATTAGLIA, Etica e diritti degli animali, Bari, Laterza, 1993
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Margherita Isnardi Parente, eminente studiosa del pensiero antico oltre che animalista, in un saggio di un ventennio fa, si è soffermata sulle «radici greche di una filosofia non antropocentrica» 1, radici che hanno trovato il loro humus nella dottrina orfico-pitagorica della metempsicosi, secondo la quale l’anima, per una colpa originaria, cade in un corpo, che per lei è una prigione, ed è costretta a trasmigrare da una forma corporea all’altra fin quando non si sarà purificata. I corpi in cui si incarna possono appartenere non solo ad esseri umani, ma anche ad animali. Per tale ragione la dottrina della metempsicosi implica il divieto di uccidere gli animali, sia per cibarsene che nei sacrifici, e la condanna dei maltrattamenti loro inflitti, giacché l’anima reincarnatasi in uno di loro potrebbe essere appartenuta ad un uomo. È questo il motivo che induceva Pitagora a prendere le difese degli animali maltrattati, come ci tramanda Senofane: «Raccontano che una volta, passando accanto a un cagnolino che veniva picchiato, ebbe pietà e disse questa frase: “Fermati, non colpire: è l’anima di un uomo amico; la riconobbi udendone il lamento”» 2.
Sembra che Pitagora fosse vegetariano, anche se le testimonianze in merito non sono concordi. Diogene Laerzio, nelle Vite e dottrine dei più celebri filosofi, scrive che egli proibiM. ISNARDI PARENTE, Le radici greche di una filosofia non antropocentrica, in «Biblioteca della libertà», XXIII, 1988, pp. 73-84. 2 Cit. in DIOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Milano, Bompiani, 2005, p. 973. 1
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va di uccidere e di mangiare animali, perché questi hanno in comune con l’uomo il privilegio dell’anima 3. Nella stessa opera, tuttavia, tramanda anche testimonianze di altro genere, in base alle quali pare che egli vietasse di cibarsi solo di alcuni animali: secondo Aristosseno, ad esempio, il divieto di mangiar carne riguardava esclusivamente il bue che ara e l’ariete 4. Per quanto riguarda i sacrifici, Diogene scrive che a Delo il filosofo si prostrava soltanto davanti all’altare di Apollo Datore di Vita, perché vi si ponevano come offerte farina, orzo e focacce, senza alcuna vittima sacrificale. Egli stesso non faceva sacrifici cruenti ed imponeva di venerare esclusivamente l’altare non insozzato di sangue. In base ad altre testimonianze, tuttavia, pare che sacrificasse alcuni animali, come galli, capretti e porcellini da latte, escludendo invece gli agnelli 5. Secondo Giamblico Pitagora consentiva di cibarsi di determinati animali ai seguaci che non conducevano una vita perfettamente pura e consacrata alla conoscenza, mentre prescriveva la dieta vegetariana a coloro che eccellevano nella filosofia, ai quali era d’obbligo dar prova di purezza di vita e di giustizia: «a coloro che fra i filosofi erano più inclini alla speculazione e che in questa si erano spinti più avanti vietava in modo assoluto i cibi superflui e ingiustificati: raccomandava di non cibarsi mai delle carni di un essere vivente, di non bere assolutamente vino, di non sacrificare agli dèi animali, di non fare loro in alcun modo del male, rispettando con la massima attenzione le norme della giustizia anche nei loro confronti. Quanto a lui, visse proprio in questo modo, evitando di cibarsi degli animali e venerando gli altari sui quali non si facevano sacrifici cruenti, adoperandosi affinché anche gli altri non sopprimessero gli esseri viventi di natura simile alla nostra e d’altra parte ammansendo e ammaestrando le bestie selvatiche con le parole e gli atti, lungi dal maltrattarle infliggendo loro dei castighi» 6.
Dovevano altresì astenersi dalla carne i politici e, tra questi, in particolare i “legislatori”, cioè coloro che avevano il compito di dare le leggi: «Dal momento che era loro intenzione praticare la perfetta giustizia, era ben necessario che non recassero oltraggio agli esseri viventi con noi imparentati. Perché come avrebbero potuto persuadere gli altri a essere giusti, quando proprio loro erano preda dello spirito di prevaricazio3 Ibid., p. 953. Secondo Diogene, tuttavia, questo era solo un pretesto, in quanto «il motivo vero era di vietare di mangiare le creature animate, cercando di esercitare e di assuefare gli uomini alla semplicità di vita, in maniera che i loro cibi fossero facili a procurarsi e portassero a tavola vivande non cotte, bevendo acqua semplice. Da questa dieta deriverebbero, infatti, sia la salute del corpo sia l’acume dell’anima». 4 Ibid., p. 959. 5 Ibid., pp. 953-955. 6 GIAMBLICO, La vita pitagorica, Milano, Rizzoli, 1991, p. 253.
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ne? Un vincolo di parentela unisce gli esseri viventi, e gli animali, per il fatto di avere in comune con noi la vita e di essere costituiti dai medesimi elementi, inoltre per la mescolanza da questi risultante, sono congiunti a noi da un legame di fratellanza» 7.
Alla dottrina orfico-pitagorica della metempsicosi aderì anche Empedocle, che, per questo motivo, prese posizione contro i sacrifici animali, come si legge in un celebre frammento delle Purificazioni: «Il padre sollevato l’amato figlio, che ha mutato aspetto, lo immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo coloro che sacrificano l’implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo immolato prepara l’infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio prendendo il padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano le loro carni» 8.
La Isnardi Parente, nel citato saggio, vede nel divieto di mangiar carne fondato sulla dottrina della metempsicosi una forma di antropocentrismo, in quanto «corrisponde piuttosto a un rispetto per l’uomo decaduto, migrante nel corpo dell’animale, che non a considerazioni incentrate sull’animale in sé e per sé» e vi scorge nient’altro che «uno spirito di arcaica religiosità che fa emergere in primo piano il problema della purificazione attraverso la transizione per più forme vitali e corporee» 9. E tuttavia questa concezione, per quanto di natura prettamente religiosa, sottende una convinzione di fondo: l’esistenza di una sorta di legame che, in qualche misura, accomuna tutti gli esseri viventi. Se non vi fosse tale legame, sarebbe impossibile la trasmigrazione della anime da un corpo all’altro. La concezione della parentela universale dei viventi troverà un’espressione squisitamente filosofica – e non più religiosa – nel pensiero di Teofrasto. Questi, succeduto ad Aristotele nella direzione del Liceo, ha assunto un atteggiamento diametralmente opposto a quello del maestro in merito ai diritti degli animali. Lo Stagirita, nel primo libro della Politica, afferma che Ibid., p. 255. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari, Laterza, 1986, vol. I, pp. 417-418. Sesto Empirico testimonia come questa concezione fosse diffusa tra i filosofi italiani, soprattutto tra i pitagorici: «Pitagora ed Empedocle, e tutti gli altri filosofi italiani, dicono che noi costituiamo una comunità non solo tra noi e con gli dèi, ma anche con gli animali, poiché non vi è che un solo pneuma diffuso in tutto l’universo come sua anima e che ci fa essere uno con loro. Così, uccidendoli e mangiando la loro carne, commettiamo ingiustizia ed empietà, come se facessimo morire nostri congiunti» (SESTO EMPIRICO, Adversus physicos, I, 127-128. Debbo la citazione a Gino Ditadi, cfr. TEOFRASTO, Della pietà, a cura di G. DITADI, Este (PD), Isonomia, 2005, p. 61). 9 M. ISNARDI PARENTE, op. cit. 7 8
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«… le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi. Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti» 10.
Del tutto diversa è la concezione del rapporto uomo-animali di Teofrasto, che alla visione gerarchica degli esseri viventi di Aristotele contrappone la teoria della o„ke…wsij, vale a dire della loro universale parentela: «I bambini provenienti dalla stessa origine, ossia dallo stesso padre e dalla stessa madre, diciamo che sono apparentati per natura gli uni agli altri; inoltre diciamo che i discendenti dagli stessi nonni sono apparentati gli uni agli altri, proprio come i cittadini di una stessa città lo sono per la comunanza della terra e per le loro mutue relazioni (…) È così, penso, che noi diciamo egualmente di un Greco di fronte ad un altro Greco, di un Barbaro di fronte ad un altro Barbaro, di tutti gli uomini, gli uni di fronte agli altri, che sono parenti, parte della stessa razza per una di queste due ragioni: sia per avere gli stessi avi, sia per avere in comune il nutrimento, i costumi e la stessa razza. Similmente riteniamo che tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa stirpe originaria, perché i principi dei loro corpi sono per natura gli stessi – parlando così non mi riferisco ai primi elementi dai quali provengono anche le piante, ma penso al seme, alle carni, al genere di umori propri degli animali – e ancor più perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni. Come per i corpi, ARISTOTELE, Politica, in Opere, vol. 9, Bari, Laterza, 1983, I, 8, 1256 b, 17-23. Aristotele ha una visione gerarchica degli esseri viventi non solo per quanto riguarda il rapporto dell’uomo con gli animali, ma anche quello degli uomini tra loro, in quanto fa una netta distinzione tra uomo e donna e tra liberi e schiavi, come si legge in questo altro passo della Politica: «… gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia, (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre) costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità (…). In effetti è schiavo per natura (…) chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla: gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle impressioni. Quanto all’utilità, la differenza è minima: entrambi prestano aiuto con le forze fisiche per le necessità della vita, sia gli schiavi, sia gli animali domestici» (Ibid., I, 5, 1254 b, 11-27). Le discriminazioni verso gli animali vanno di pari passo con quelle nei confronti degli schiavi, in quanto sia gli uni che gli altri non sono altro che meri strumenti, sia pure animati: «… non v’è amicizia, né giustizia verso ciò che è inanimato. E neppure ve n’è verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo, in quanto schiavo. Nulla infatti vi è di comune tra il padrone e lo schiavo: infatti il servo è uno strumento dotato di anima, e lo strumento è uno schiavo inanimato» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, in Opere, vol. 7, Bari, Laterza, 1990, VIII, 11, 1161 b, 1-5). 10
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certi animali hanno l’anima più o meno perfetta; ma per tutti i viventi i principi sono per natura gli stessi. La parentela delle affezioni lo prova. (…) Sotto tutti i rapporti, dunque, la razza degli altri animali ci è apparentata ed è la stessa della nostra» 11.
Tra la specie umana e gli altri animali non esiste una netta linea di demarcazione, ma solo differenze di grado, giacché notevoli sono le affinità tra di loro e, soprattutto, «tutte le specie sono intelligenti» 12. La parentela che accomuna gli esseri viventi rende ripugnanti i sacrifici di animali, la cui condanna è il tema centrale di quest’opera di Teofrasto. Tali sacrifici erano sconosciuti ai primordi della storia umana, quando si offrivano agli dèi esclusivamente vegetali: «Poiché l’amore (…) e la percezione della parentela regnavano allora, nessuno commetteva assassinio, perché l’uomo stimava che gli animali gli fossero prossimi. Quando vennero a regnare Ares e il Tumulto, con tutti i conflitti e le fonti di guerre, da allora, in verità, nessuno risparmiò uno solo degli esseri che gli erano prossimi» 13.
Sono state le guerre e le carestie ad indurre all’uccisione degli animali: «gli uomini si son messi a sgozzare le vittime e ad insanguinare gli altari da quando, avendo fatto esperienza di fame e guerre, hanno immerso le loro mani nel sangue» 14. Si consumarono allora addirittura sacrifici umani, in quanto «per mancanza di nutrimento normale gli uomini furono spinti a mangiarsi tra loro» e presero l’abitudine a consacrare «a titolo di primizie, vittime prese tra loro stessi» 15. In seguito le vittime umane furono sostituite con animali. Il bisogno di uccidere per far fronte alle necessità della vita è venuto meno grazie all’abbondanza dei raccolti, per cui non vi è più alcuna giustificazione per il massacro di altri esseri viventi. Ma gli uomini non si accontentano di niente: «stanchi di nutrirsi normalmente, dimenticarono la pietà, diventarono sempre più insaziabili e non ci fu più niente che non fosse consumato e mangiato. È precisamente quanto avviene oggi ovunque (…) quando gli uomini prendono del nutrimento per alleviare lo stato di mancanza in cui necessariamente si trovano, essi cercano sempre di andare al di là della sazietà, elaborando per la loro alimentazione una quantità di vivande oltre ogni limite permesso dalla temperanza» 16.
TEOFRASTO, Della pietà, cit., pp. 259-265. Ibid., p. 264. 13 Ibid., pp. 210-212. 14 Ibid., p. 189. 15 Ibid., p. 226. 16 Ibid., p. 233.
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A causa dell’ingordigia si è diffusa l’abitudine di mangiare animali e offrirli come vittime agli dèi, ma questa, secondo Teofrasto, è cosa empia, perché si uccidono esseri viventi simili a noi 17. Al contrario, proprio perché i raccolti sono un dono divino, anzi, sono «i più belli e preziosi benefici che gli dèi ci accordano» 18, in quanto ci conservano in vita e ci assicurano un’esistenza civile, è per mezzo di essi che vanno onorati gli dèi, senza fare spargimento di sangue. I sacrifici, inoltre, sono riti sacri e proprio per questo non debbono ledere nessuno, ma «quando si sacrificano degli esseri viventi, si causa loro ben qualche torto, perché li si deruba dell’anima» 19. Potrebbe avere un senso uccidere animali malvagi, che sono spinti dall’istinto a nuocere a chi li avvicina, come serpenti e scorpioni, ma sacrificare questi animali agli dèi non sarebbe rendere loro l’onore dovuto. D’altra parte è ingiusto usare come vittime animali mansueti che non fanno male a nessuno e che, anzi, sono utili all’uomo. Purtroppo, di questi animali «non ce n’è uno dal quale ci asteniamo; in verità li massacriamo, li facciamo a pezzi con il pretesto del culto divino» 20. Ma allora, conclude Teofrasto, «se non si debbono sacrificare né questi ultimi né quelli malvagi, non è forse evidente che bisogna in ogni caso astenersi dal farlo e non sacrificare alcuno?» 21. I sacrifici agli dèi sono fatti per uno dei seguenti tre motivi: o per rendere omaggio alla loro perfezione, o perché desideriamo ricevere dei benefici, oppure per ringraziarli dei benefici già ottenuti. Ma onorare gli dèi attraverso l’uccisione di animali è un’offesa nei loro confronti: «colui che riceve l’omaggio può forse sentirsi onorato quando la nostra ingiustizia divampa nel momento stesso in cui noi consacriamo la nostra offerta? Non vedrebbe piuttosto un oltraggio in un tale atto? Ora, noi ammettiamo che se facciamo dei sacrifici, distruggendo gli animali che non commettono alcuna ingiustizia, noi commettiamo un’ingiustizia. Conseguentemente, se la ragione del sacrificio è l’omaggio, non bisogna sacrificare alcun animale» 22.
È altresì assurdo fare sacrifici cruenti per chiedere dei benefici, perché non è possibile ottenere il favore degli dèi commettendo un’azione ingiusta. Né è lecito immolare animali per ringraziarli dei benefici ottenuti, giacché non si può mostrare gratitudine a spese altrui: sarebbe come rubare ad uno per ricompensare un altro. 17 «Gli uomini non devono né sporcare gli altari degli dèi con le uccisioni né toccare un simile nutrimento, come se fosse il corpo dei loro simili» (ibid., p. 237). Teofrasto considera l’alimentazione carnea alla stregua di una forma di antropofagia. 18 Ibid., p. 199. 19 Ibidem. 20 Ibid., p. 219. 21 Ibid., p. 216. 22 Ibid., p. 217.
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I sacrifici cruenti costituiscono inoltre un cattivo esempio per i giovani: se si fa credere loro che gli dèi provino piacere per le offerte fastose di molti animali, come li si potrà educare alla temperanza? Bisogna invece insegnare loro «che gli dèi non abbisognano di queste cose, ch’essi guardano solo alla maniera d’essere di quelli che vengono a loro, e che vedono nelle rette opinioni riguardanti il divino e la realtà il sacrificio più prezioso» 23.
Teofrasto passa altresì in rassegna le abitudini sacrificali dei vari popoli ed evidenzia la contrapposizione tra gli ebrei, presso i quali erano molto diffusi i sacrifici cruenti, e gli egiziani, che, invece, li rifiutavano. Questi ultimi, «il popolo più sapiente del mondo, abitante la terra più sacra, quella fondata dal Nilo» 24, «sono così lontani dall’uccidere uno solo degli animali, ch’essi fanno, con le figure degli animali, immagini degli dèi, perché li considerano prossimi e apparentati agli dèi e agli uomini» 25. Il contrasto tra ebrei ed egiziani per quanto riguarda la concezione degli animali e, in particolare, i sacrifici di sangue si rileva anche in più di un passo delle Scritture, pure se da una prospettiva opposta rispetto a quella di Teofrasto. In Sapienza, XV, 18-19, emerge tutto il disprezzo degli ebrei per gli egiziani che «venerano gli animali più ripugnanti, che per stupidità al paragone risultano peggiori degli altri». In Esodo, VIII, 21-22 Mosè chiede al faraone il permesso di andare nel deserto per fare sacrifici, «perché quello che noi sacrifichiamo al Signore, nostro Dio(cioè gli animali), è abominio per gli Egiziani», per cui teme la lapidazione da parte loro. Tacito, nelle Historiae (V, 4), scrive che gli ebrei sacrificavano arieti «in contumeliam Ammonis», per disprezzo del dio Ammone, che aveva l’aspetto di un ariete. Con il pensiero ebraico-cristiano si ha un’inversione di tendenza per quanto concerne il rapporto uomo-animali: sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento tra l’uno e gli altri è posta una netta cesura. Gli dèi dell’antica grecità non disdegnavano di assumere l’aspetto di animali: basti pensare a Zeus, che si trasforma in toro per rapire Europa e in cigno per sedurre Leda. Il Dio della religione ebraico-cristiana, invece, vede esclusivamente nell’uomo la creatura prediletta, fatta a sua immagine e somiglianza, che egli ha posto ben al di sopra di tutte le altre creature 26, come si legge nell’ottavo Salmo: Ibid., pp. 256-257. Ibid., p. 171. 25 Ibid., p. 226. 26 «Nella sua forma occidentale – ha scritto uno storico americano – il cristianesimo è la religione più antropocentrica che il mondo abbia conosciuto (…). Nell’antichità ogni albero, ogni fonte, ogni fiume, ogni collina possedeva il proprio genius loci, il suo spirito tutelare. (…) Prima di ab23 24
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«Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, …» 27.
Nel paradiso terrestre gli animali erano assoggettati al dominio umano: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”» 28. E tuttavia l’uomo, nell’Eden, non mangiava ancora gli animali: subito dopo la creazione Dio offre ad Adamo ed Eva come cibo esclusivamente «ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme» 29. Soltanto dopo il peccato Dio permette all’uomo di nutrirsi degli animali, facendo ricadere su di loro le conseguenze di una colpa che non avevano commesso. Dopo il diluvio universale «Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del battere un albero, di scavare una montagna o di costruire uno sbarramento su un fiume, era importante conciliarsi con lo spirito del luogo (…). Distruggendo l’animismo pagano, il cristianesimo ha reso giustificabile lo sfruttamento della natura in un clima di indifferenza di sentimenti riguardo agli enti naturali» (LYNN WHITE JR., The historical roots of our ecologic crisis, in «Science», CLV, 1967. Debbo la citazione a G. DITADI, Oltre la cultura del sacrificio di sangue. Note su cristianesimo e mondo animale, in L. BATTAGLIA (a cura di), Le creature dimenticate. Per un’analisi dei rapporti tra Cristianesimo e questione animale, Cesena, Macro, 1998, pp. 25-26). 27 Salmi, VIII, 4-9. 28 Genesi, I, 26. «La Genesi – ha scritto Milan Kundera a proposito di questo passo – è stata redatta da un uomo, non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca e sul cavallo. Sì, il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose» (M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi, 1988, p. 290). 29 Genesi, I, 29
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cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue» 30.
Al Dio del Genesi erano graditi i sacrifici cruenti che Noè gli offrì alla fine del diluvio: «Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare. Il Signore ne odorò la soave fragranza …» 31. Anche nel Nuovo Testamento non si manifesta alcuna pietà per gli animali: basti pensare all’episodio dell’indemoniato, che Gesù liberò dai demoni, mandandoli nei corpi di una mandria di maiali, che per questo precipitarono da una rupe nel mare 32. All’antropocentrismo cristiano alcuni pensatori dei primi secoli dell’era volgare opposero una ferma difesa dei diritti degli animali. Uno dei primi, in ordine cronologico, Genesi, IX, 1-4. Secondo la concezione semitica il sangue è la sede del principio vitale, che viene infuso nella materia direttamente da Dio. Perciò tutto il sangue gli appartiene, in modo speciale quello dell’uomo, fatto a sua immagine. Anche in Esodo, XXIX, 10-22, si parla di sacrifici cruenti: Dio chiede a Mosè di sacrificargli giovenchi ed arieti. Alcuni di questi sacrifici dovevano essere quotidiani: «In ciascun giorno offrirai un giovenco in sacrificio per il peccato, in espiazione; (…) Per sette giorni farai il sacrificio espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e quanto toccherà l’altare sarà santo. Ecco ciò che tu offrirai sull’altare: due agnelli di un anno ogni giorno, per sempre. Offrirai uno di questi agnelli al mattino, il secondo al tramonto» (Esodo, XXIX, 36-39). 31 Genesi, VIII, 20-21. È altresì da ricordare, a proposito dell’uccisione di Abele da parte di Caino, che quest’ultimo, in quanto coltivatore del suolo, aveva offerto in sacrificio a Dio i frutti della terra, mentre il fratello, che era pastore, gli aveva immolato i primogeniti del suo gregge. Siccome «il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta», questi ne fu irritato ed arrivò a commettere il fratricidio (Genesi, IV, 1-5). Il Dio della tradizione ebraico-cristiana, quindi, predilige i sacrifici cruenti, non quelli di vegetali. 32 Matteo, 8, 28-34; Marco, 5, 1-20; Luca, 8, 26-39. «Tutto ciò – osserva Bertrand Russell a proposito di questo episodio narrato dai Vangeli – non fu molto gentile nei riguardi dei maiali, tanto più che, data la sua onnipotenza, Cristo poteva semplicemente scacciare i demoni, senza disturbare i poveri animali» (B. RUSSELL, Perché non sono cristiano, Milano, Longanesi, 1972, p. 14). Luigi Lombardi Vallauri ha scritto di recente che «il cristianesimo ufficiale, con il suo spiritualismo alla rovescia, ha legittimato l’assenza di ogni limite di pietà e di giustizia nelle pratiche della scienza vivisettrice e dell’industria della macellazione. Ha fatto della nobiltà ontologica dell’uomo non un maggiore impegno, (…) ma un privilegio» (L. LOMBARDI VALLAURI, Animali: istruzioni per il non uso, in «Argomenti di bioetica», rivista dell’Istituto Italiano di Bioetica, anno I, n. 2, dicembre 2007, pp. 157-158). È da dire che queste osservazioni valgono, come giustamente sottolinea Lombardi Vallauri, per il cristianesimo ufficiale, che trova espressione nei Vangeli canonici. Da alcuni Vangeli apocrifi, invece, emerge una concezione ben diversa del rapporto di Gesù con gli animali: nel Vangelo di pace degli Esseni, ad esempio, vi è l’esplicito divieto di ucciderli ed è prescritta una dieta rigorosamente vegetariana. 30
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è Plutarco, dei cui Moralia fanno parte tre scritti sugli animali: De esu carnium, Bruta animalia ratione uti e De sollertia animalium. Il De esu carnium ha come bersaglio polemico non tanto i cristiani quanto gli stoici, che difendevano la liceità del consumo alimentare della carne in base al principio che l’uomo non ha il dovere di rispettare esseri irrazionali, quali sono gli animali, con cui non ha alcuna affinità. Plutarco ironizza su questa concezione che, a suo avviso, è in clamoroso contrasto con il proclamato rigorismo morale degli stoici: «Cos’è infatti la loro grande tensione verso il ventre e la cucina? Perché proprio loro, che considerano effeminato il piacere e lo screditano come se non si trattasse né di un bene, né di una cosa preferita, né di qualcosa di conveniente all’uomo, si preoccupano tanto dei piaceri superflui? Certo sarebbe coerente da parte loro, visto che bandiscono aromi e manicaretti dai simposi, se provassero un’avversione anche maggiore per il sangue e per la carne. Invece, (…) essi eliminano dai banchetti le spese relative alle cose inutili e superflue, mentre non evitano la componente feroce e sanguinaria del lusso» 33.
Secondo Plutarco, l’alimentazione carnea poteva essere giustificata per gli uomini primitivi, che non conoscevano l’agricoltura e che per fame, contro natura, erano costretti a cibarsi di carne. Questa giustificazione cade per gli uomini progrediti, che possono avere dalla terra tutti i frutti necessari a sfamarsi. L’uccisione degli animali ai fini alimentari non risponde, pertanto, a nessuna necessità, ma a un mero capriccio della gola e proprio per questo è da condannare: «… io mi domando con stupore – scrive Plutarco – in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore? (…) Nulla turba comunque il nostro senso del pudore, non il fiorente aspetto di queste creature sventurate, non il fascino della loro voce armoniosa, non l’accortezza della loro mente, né la purezza del loro modo di vivere e la loro straordinaria intelligenza. Invece, per un minuscolo pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del corso dell’esistenza, per cui esso è nato ed è stato generato» 34.
L’uomo, per la sua struttura fisica, non è carnivoro: non possiede né becco ricurvo, né artigli affilati, né denti aguzzi e le sue viscere non sono in grado di digerire pasti pesanti a base di carne, come accade per altri animali, quali le pantere e i leoni, che per 33 34
PLUTARCO, Del mangiare carne, Milano, Adelphi, 2001, p. 72. Ibid., pp. 55-60.
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natura non potrebbero nutrirsi altrimenti. Per l’uomo, invece, l’alimentazione carnea è innaturale, per cui appesantisce il corpo ed ottunde l’anima. Bruta animalia ratione uti è un dialogo che si ispira all’episodio della maga Circe del X libro dell’Odissea. Dopo che ai suoi compagni è stato restituito l’aspetto umano, Odisseo, prima di partire, chiede a Circe se vi sono dei Greci tra coloro che sono stati trasformati da uomini in animali e che ora vivono presso di lei. La maga risponde positivamente ed Odisseo la prega di riconvertirli in uomini e di permettere che partano con lui. Ma è davvero sicuro – gli chiede Circe – che gli interessati vogliano riacquistare la forma umana? Per consentire di rispondere a questo interrogativo, restituisce l’uso della parola ad uno dei presenti, il cui nome, Grillo (in greco gràloj = porcello), richiama il suo aspetto. In un vivace dialogo Grillo difende la tesi della superiorità degli animali sugli uomini. L’anima dei primi, al contrario di quella umana, è per natura predisposta alla virtù: «Quale virtù (…) – si chiede Grillo – non esiste fra gli animali in misura maggiore che nell’uomo più sapiente?» 35. Basti pensare al coraggio che mostrano nei combattimenti, preferendo morire piuttosto che arrendersi: «Gli animali non supplicano, non invocano pietà, né ammettono la propria sconfitta; e un leone non è schiavo per codardia di un altro leone né un cavallo di un altro cavallo, come lo è invece un uomo di un suo simile, quando accoglie supinamente la schiavitù (…) Fra le bestie che gli uomini catturano con reti e inganni, gli esemplari ormai adulti, rifiutando il cibo e resistendo alla sete, si procurano la morte e la accolgono di buon grado invece della schiavitù» 36.
E nel coraggio le femmine non sono affatto inferiori ai maschi: basti pensare all’ardimento con cui difendono la prole. Non così le donne – e qui Grillo fa un esempio che colpisce Odisseo in prima persona: quello di Penelope, che se ne sta seduta accanto al focolare senza essere in grado di affrontare chi insidia lei e la sua casa. Il discorso fatto per il coraggio vale anche per la temperanza, che Grillo definisce come «una restrizione dei desideri e un loro ordinamento che elimina quelli estranei e superflui, regolando d’altra parte quelli necessari secondo l’opportunità e la giusta misura» 37. Anche per questa virtù gli animali sono superiori all’uomo. Per dimostrarlo fa ricorso alla distinzione epicurea tra desideri naturali e necessari (ad esempio, il mangiare e il bere), naturali e non necessari (come i desideri erotici che, pur essendo secondo natura, si possono eliminare continuando a vivere in modo soddisfacente), desideri non naturali e non necessari, come la ricerca di un tenore di vita elevato, di vesti eleganti e la cupidiPLUTARCO, Gli animali usano la ragione, Milano, Adelphi, 2001, p. 85. Ibid., p. 86. 37 Ibid., pp. 90-91.
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gia per l’oro, l’argento e, in genere, per tutto ciò che è prezioso. Questi ultimi, sconosciuti agli animali, sono tipici dell’uomo e sono la conseguenza «delle vane illusioni e del cattivo gusto che (…) affliggono» l’umanità 38. Al contrario, afferma Grillo, «nessuno di tali desideri estranei si insedia nel nostro animo; ma la vita di noi animali è governata in genere dai desideri e dai piaceri necessari, mentre con quelli non necessari ma soltanto naturali abbiamo un rapporto che non conosce sregolatezza né eccesso» 39.
Ma anche per quanto riguarda i desideri necessari gli uomini si mostrano intemperanti e viziosi, a differenza degli animali: mentre questi hanno un unico tipo di cibo, che è proprio della loro specie, gli uomini si lasciano trascinare dai piaceri della gola verso ogni forma di smoderatezza, con grave discapito per la loro salute. Dopo aver esaltato le virtù degli animali, Grillo, a conclusione del dialogo, si sofferma sulla loro intelligenza, della quale fornisce numerose prove. Parimenti dialogica è la struttura del De sollertia animalium, nel quale oggetto della discussione è se siano più intelligenti gli animali terrestri o quelli acquatici. Le testimonianze addotte dagli interlocutori come prove dell’intelligenza degli uni e degli altri servono a dimostrare che la ragione non è una prerogativa esclusivamente umana, in quanto di essa sono fornite tutte le specie viventi. Questa tesi è esposta a chiare lettere da uno degli interlocutori del dialogo, Autobulo, che è il padre di Plutarco. Se gli animali fossero provvisti delle sole sensazioni, senza intelligenza, non potrebbero in alcun modo sopravvivere: «… tutto quanto è dotato di percezione sensoriale è dotato pure di intelligenza, e (…) non esiste essere vivente che non possegga per natura opinione e ragione, così come capacità di percepire coi sensi e impulso. La natura, infatti, che giustamente sostengono faccia ogni cosa con una causa e un fine, non ha creato l’essere vivente dotato di sensibilità semplicemente per percepire quando gli accade qualcosa. Ma siccome esistono molte cose a esso convenienti e molte, al contrario, ostili, l’essere vivente non potrebbe sopravvivere neppure per poco se non avesse imparato a guardarsi dalle une e a giovarsi delle altre. Ed è proprio la sensazione a garantire a ogni essere vivente la possibilità di conoscere parimenti entrambe le alternative; per un altro verso, è impossibile che esseri incapaci per natura di ragionare, giudicare, ricordare e prestare attenzione abbiano la capacità, conseguente alla percezione di ciò che è utile, di ricercare l’utile stesso e di conseguirlo, nonché di evitare e di sfuggire ciò che è motivo di danno e di dolore. Ma a questi esseri, una volta che tu li abbia completamente privati di anticipazione, memoria, proposito, preparazione, speranza, paura, desiderio e dolore, non sono affatto utili né occhi né orecchie, anche se li posseggono (…) giacché l’esperienza di occhi e di orecchie non produce sensazioni in assenza delle facoltà razionali» 40. Ibid., p. 91. Ibid., p. 92. 40 PLUTARCO, L’intelligenza degli animali di terra e di mare, Milano, Adelphi, 2001, pp. 110-111. 38 39
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Da queste considerazioni deriva l’imperativo morale del rispetto degli animali. Se è lecito uccidere le bestie dannose ed è altrettanto lecito servirsi della collaborazione nel lavoro di quelle mansuete, che si lasciano addomesticare, è invece profondamente ingiusto togliere la vita agli animali per nutrirsene o per mero divertimento, come nel caso della caccia, quando «gli uomini si dilettano delle sofferenze degli animali e della loro morte, strappandone alcuni in modo straziante ai propri cuccioli (…). Di fatto, non commette ingiustizia chi si serve degli animali, ma chi se ne serve facendo loro del male, con disprezzo e con crudeltà» 41. Alla polemica anti-stoica di Plutarco in difesa dei diritti degli animali, si affianca, nel II secolo d.C., quella anti-cristiana del neoplatonico Celso, che ha come bersaglio la concezione antropocentrica della provvidenza divina, propria del cristianesimo. Al contrario, Celso sostiene che la divinità non ha privilegiato alcuna creatura: «Dunque l’universo non è stato fatto per l’uomo, e d’altronde nemmeno per il leone o per l’aquila o per il delfino, ma perché questo mondo, in quanto opera di dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti; a questo fine tutto è commisurato, non in vista dei rapporti reciproci, (…) ma del complesso dell’universo. E questo complesso è il solo di cui dio si preoccupa, ed esso solo non è mai abbandonato dalla provvidenza e non muta in peggio; e nemmeno accade che (…) dio (…) si adiri per via degli uomini più di quanto non faccia per via delle scimmie o dei topi» 42.
Altro tema presente nei frammenti di Celso, che accomuna il suo pensiero a quello di Plutarco, è la confutazione della dottrina stoica secondo la quale gli animali sarebbero £loga, cioè privi di ragione. Contro questa teoria egli adduce, tra gli altri, l’esempio delle formiche, che sarebbero addirittura in grado di dialšgesqai, vale a dire di dialogare 43 e di avere comportamenti etici. Queste tematiche, nel secolo successivo, avrebbero trovato l’espressione più compiuta nel De abstinentia di Porfirio, allievo di Plotino, la cui condanna dell’uccisione degli animali trova la sua fondazione teorica nel neoplatonismo, nella sua concezione ipostatica dell’essere e nella teoria dell’ascesi come ritorno dell’anima all’Uno. Secondo questa dottrina l’imperativo morale del vegetarianismo scaturisce in primo luogo dal fatto che tutti gli esseri viventi hanno l’anima, in quanto partecipano della terza ipostasi, l’Anima del Mondo, la quale penetra in ogni parte della realtà corporea, senza perdere l’unità del suo essere. Le singole anime sono tutte sue parti, per cui l’anima umana e quella Ibid., p. 125. CELSO, Il discorso vero, Milano, Adelphi, 1994, 4.99. Di questo scritto, perduto o distrutto dopo il trionfo del cristianesimo – come, del resto, anche altre opere di autori pagani – ci sono pervenuti numerosi frammenti, che consentono di ricostruire il pensiero di Celso. 43 Il verbo dialšgesqai è usato per indicare il discutere di natura filosofica. 41 42
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degli animali non si differenziano qualitativamente. In secondo luogo la scelta vegetariana è imposta anche dall’esigenza, imprescindibile per il filosofo, di adottare una dieta che lo renda adatto all’attività teoretica e che favorisca il distacco dal corpo e dalle passioni per elevarsi alla contemplazione del soprasensibile e all’assimilazione al divino. Tutto il primo libro dell’opera è dedicato alla difesa dell’alimentazione vegetariana che, proprio in quanto sobria e frugale, al contrario della carne, favorisce la vita contemplativa: «… la carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza: e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne (…) Infatti né della forza né dell’accrescimento della robustezza ha bisogno il filosofo se vuole volgere la mente alla contemplazione e non alle azioni e alle intemperanze. Nulla di strano che la maggioranza degli uomini creda che il mangiar carne contribuisce alla buona salute: perché è degli stessi credere che conservano la salute i godimenti e i piaceri erotici, i quali non hanno mai giovato a nessuno, e bisogna contentarsi se non l’hanno danneggiato» 44.
Alla condanna della dieta carnea si affianca quella de sacrifici cruenti, a cui è dedicato tutto il secondo libro del De abstinentia. Rifacendosi a Teofrasto, Porfirio ricorda come in origine i sacrifici consistessero solo nell’offerta di aromi o di vegetali, mentre l’abitudine di sacrificare animali si diffuse quando gli uomini iniziarono a fare esperienza di guerre e di carestie. Il sacrificio, per il suo carattere religioso, non dovrebbe arrecare danno a nessuno, come invece accade quando si uccide un animale, che, in tal modo, viene privato della vita e dell’anima. Gli dèi, inoltre, non apprezzano i sacrifici costosi di moti capi di bestiame, bensì quelli semplici, fatti con anima pura, giacché la divinità si compiace «quando il più divino degli elementi che è in noi [cioè l’anima] si trova in uno stato di purezza in quanto che è della stessa sua origine» 45. Nel terzo libro Porfirio, avvalendosi di argomentazioni simili a quelle di Plutarco, fa la difesa vera e propria degli animali. È sbagliato definirli irrazionali, in quanto l’esperienza PORFIRIO, Astinenza dagli animali, Milano, Bompiani, 2005, p. 125. Anche Platone, nel delineare lo Stato ideale, prevede una dieta vegetariana: i cittadini si nutriranno di olive, formaggio, cipolle e legumi, a cui potranno aggiungere pasticcini di fichi, ceci e fave, così «passeranno la vita, come è naturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo» (La Repubblica, in PLATONE, Opere complete, Bari, Laterza, 1984, II, 372 d). In tal modo si istituirà «uno Stato sano». Se invece si vuole creare uno «Stato rigonfio», in cui si consumano pasti raffinati, bisognerà prevedere la presenza di vari tipi di cacciatori, di guardiani di animali, che dovranno essere allevati in gran numero per chi li voglia mangiare, ma vi dovranno essere anche medici, perché con tale regime alimentare sarà necessario ricorrere a loro molto più di prima. Oltre alle malattie, sopraggiungerà anche la guerra, perché si sarà costretti a sottrarre ai vicini le loro terre per pascolare ed arare (cfr. ibid., II 372 e-373d). 45 Ibid., p. 161. 44
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dimostra come essi non siano privi né di ragione né di linguaggio. Noi non li comprendiamo, esattamente come non comprendiamo i nostri simili che parlano un’altra lingua: «Poiché dunque il suono emesso dalla lingua è un discorso, in qualunque modo esso sia pronunziato sia alla maniera dei barbari sia a quella dei Greci sia a quella dei cani o a quella dei buoi, gli animali che mandano un suono sono partecipi del discorso, gli uomini parlando secondo le leggi umane, gli animali secondo quelle leggi che ciascuno ha avuto dagli dèi e dalla natura. E se noi non li intendiamo, che significa questo? Ché neppure i Greci intendono la lingua degli Indiani né quelli che sono stati nutriti nell’Attica quella degli Sciti o dei Traci o dei Siri, ma allo stesso modo di un grido di gru, il suono degli uni giunge agli altri. Eppure per gli altri la loro lingua è articolata in lettere e in suoni, come anche per noi la nostra: invece non articolata in suoni e in lettere è per noi, ad esempio, la lingua dei Siri e quella dei Persiani, come per tutti la lingua degli animali» 46.
Anche gli animali potrebbero sostenere che solo loro sono in grado di parlare e che noi uomini siamo privi di ragione, perché non parliamo come loro. Oltretutto è falso che non riescano a comunicare con noi, tant’è vero che mostrano di capire quando siamo in collera o, al contrario, ben disposti verso di loro, quando li chiamiamo o quando li scacciamo. Oltre a non essere privi di linguaggio, gli animali non lo sono neanche di intelligenza, pure se in misura inferiore rispetto all’uomo. Ognuno di loro mostra di comprendere quali sono i suoi punti deboli e quelli forti, per cui protegge i primi e si avvale dei secondi per difendersi: la pantera e il leone, ad esempio, si servono delle zanne, il cavallo dello zoccolo, il bue delle corna, lo scorpione del pungiglione, il gallo dello sperone e così via. Inoltre coloro che si sentono forti vivono lontano dall’uomo, mentre i deboli cercano la sua vicinanza, come i cani, che ne condividono la casa, o gli uccelli, che fanno i nidi sui tetti. Gli animali sono dotati anche di senso morale, per cui osservano gli uni nei confronti degli altri la giustizia, come fanno le formiche, le api e le cicogne, per non parlare poi della fedeltà delle colombe verso i loro compagni. Certo, con gli uomini condividono non solo l’intelligenza e le virtù, ma anche alcuni difetti, come la gelosia e la rivalità per le femmine. E tuttavia sono immuni da uno dei peggiori vizi umani, vale a dire l’ingratitudine verso chi fa loro del bene: «Un solo vizio non hanno, il tradimento di chi gli dimostra benevolenza, ma un affetto totale è sempre in loro: e a tal punto hanno fiducia in chi gli è benevolo che lo seguono dovunque egli li conduca, anche all’uccisione e a un pericolo manifesto; e benché l’uomo li nutra non per loro ma per sé, dimostrano benevolenza per chi li possiede. Gli uomini invece non ordiscono complotti contro nessuno tanto quanto contro chi li nutre e nessuno si augurano che muoia come questo» 47.
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Ibid., p. 227. Ibid., p. 251.
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Proprio perché gli animali sono dotati di ragione e di senso morale, è ingiusto fare loro del male o, peggio ancora, togliere loro la vita. Di qui l’imperativo etico della dieta vegetariana. Le piante, infatti, non sono fornite di percezione e di ragione e per godere dei loro frutti non occorre distruggerle. Porfirio ritiene che gli animali possano essere usati per le nostre necessità, senza tuttavia fare loro del male: è lecito mungere e tosare le pecore o aggiogare i buoi, ma non è lecito andare oltre, anzi, è già molto che essi si affatichino e penino per noi. La loro uccisione, invece, è del tutto immorale: «è azione mostruosamente innaturale e orribile condurre gli animali all’uccisione e farli cuocere insozzandoci di assassinio non allo scopo di nutrirsene o di soddisfare la fame, ma per fare del proprio piacere e della propria ghiottoneria lo scopo della nostra vita» 48. È dunque necessario essere giusti non solo verso i propri simili, ma anche nei confronti degli animali. E, del resto, come si può pensare di avere dei doveri verso uomini che dimostrano di essere guidati esclusivamente dai propri appetiti, senza far uso della ragione, e che superano le bestie più feroci in crudeltà, come, ad esempio, i tiranni, capaci di assassinare finanche i propri figli o i genitori, ed invece non si pensa di avere dei doveri verso il bue aratore o verso il cane che vive nella nostra casa o verso le pecore che ci nutrono con il loro latte e ci vestono con la loro lana? 49 Al pari di Celso e contro la concezione dell’ordine cosmico degli stoici e dei cristiani, Porfirio esclude che gli animali siano stati creati per l’utilità dell’uomo. A che servirebbero, infatti, le mosche, le zanzare, i pipistrelli, gli scorpioni e le vipere? Anzi, a ben riflettere, potremmo addirittura affermare il contrario: siamo noi ad essere stati creati per l’utile dei coccodrilli, delle balene e dei serpenti, i quali uccidono gli esseri umani che gli capitano dinanzi, senza fare niente di più crudele di quanto facciamo noi con loro. Con la differenza che essi sono giustificati dalla fame e dalla necessità di procurarsi il cibo, mentre noi uccidiamo la maggior parte degli animali nei teatri e nelle cacce per puro divertimento 50. Queste tematiche furono messe al bando con il trionfo del Cristianesimo. Le opere di Celso e di Porfirio vennero proscritte e contro le loro dottrine prese posizione Agostino di Ippona che, nel De civitate Dei, respinge l’estensione del divieto di uccidere agli animali: «Qualcuno s’ingegna a estendere il precetto [non uccidere] anche alle fiere e agli animali domestici, per cui sarebbe illecita anche la loro uccisione. E perché non anche gli erbaggi e ogni vegetale conficcato nel terreno e nutrito dalle radici? Anche per questa specie di esseri, pur insensibili, si usa dire che vivono; per cui possono anche morire e persino essere uccisi con un atto violento. (…) respingiamo questi vaneggiamenti; al leggere il detto: Non ucciderai, non Ibid., p. 259. Cfr. Ibid., p. 261. 50 Cfr. Ibid., pp. 263-265.
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intendiamolo riferito alle piante, perché mancano affatto di sensibilità né agli animali privi di raziocinio, volatili o natanti, che camminano o strisciano; poiché non sono affatto associati a noi dalla ragione, un dono che non condividono con noi. Per questo nel giustissimo ordinamento della creazione la loro vita come la loro morte sono subordinate alle nostre necessità. Non resta che intendere il: Non ucciderai come detto dell’uomo, gli altri o se stesso, poiché chi uccide se stesso non uccide altro che un uomo» 51.
Per la rinascita di forme di pensiero “animalista” bisogna attendere il Rinascimento. Leonardo è senza dubbio la figura più rappresentativa dell’animalismo di questa epoca: le testimonianze pervenuteci in riguardo alla sua sollecitudine per le sofferenze degli animali, gli innumerevoli aforismi in cui ne stigmatizza il maltrattamento e l’uccisione sono emblematici della nuova sensibilità nei confronti delle altre specie viventi e, in generale, della natura. Alla temperie spirituale rinascimentale appartiene anche il pensiero di Thomas More, autore del celeberrimo De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, pubblicato nel 1516. Com’è noto, lo scritto è una specie di romanzo filosofico ed ha la forma del racconto, fatto dal protagonista, Raffaele Itlodeo, che descrive la vita felice di un’isola immaginaria, alla quale fa da contrappunto il continuo richiamo ai mali della società reale. Tra questi mali vi sono quelli collegati alle prevaricazioni dell’uomo nei confronti degli animali, alle quali More contrappone il comportamento degli Utopiani, capaci di vivere secondo i dettami della ragione naturale. Ad essa si conforma anche la loro religione, che respinge e condanna i sacrifici cruenti: «Nessun animale viene sgozzato nel sacrificio, né s’illudono che si rallegri di sangue e di stragi quella divina bontà, che ha largito la vita agli animali, appunto perché vivano» 52. Gli Utopiani non sono vegetariani, però condannano la caccia, che considerano indegna degli uomini liberi. Che piacere si può provare a sentire latrare i cani? Se ciò che attira è lo spettacolo di veder sbranare la preda sotto i propri occhi, è una cosa indegna, perché «dovrebbe piuttosto muover pietà guardare una lepricciuola fatta a pezzi da un cane, un essere debole da uno più forte, chi nella sua timidezza fugge da chi è inferocito, un povero innocente alfine da una bestia crudele. (…) il cacciatore non cerca nell’uccisione e nello squartamento di un misero animaletto che il piacere. Questa indegna voglia di contemplare il sangue (…) sorge (…) da disposizione a crudeltà, o alla fin fine nella crudeltà va a sfociare, con l’uso continuo di un piacere così selvaggio» 53. AURELIO AGOSTINO, La città di Dio, Paris, Einaudi-Gallimard, 1992, I, 20, p. 33. T. MORE, L’Utopia o la migliore forma di repubblica, Bari, Laterza, 1970, p. 145. 53 Ibid., p. 106. La sensibilità di More per le sofferenze degli animali è agli antipodi di quella di Agostino di Ippona che, al contrario, trovava divertente lo spettacolo della caccia alla lepre, come 51 52
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Nella seconda metà del XVI secolo la difesa dei diritti degli animali trova posto negli scritti di due pensatori molto diversi tra loro per impostazione teorica: Michel de Montaigne e Giordano Bruno. Quest’ultimo si ricollega alle forme più antiche del pensiero greco, facendo proprie alcune dottrine tipiche dei Presocratici, ai quali deve la visione vitalistica della natura, che concepisce come l’Uno-Tutto degli eleatici e come realtà divina e vivente. Al centro del suo pensiero vi è il concetto di Vita-materia infinita, dal cui seno tutto si origina. La filosofia di Bruno è permeata di amore per la vita e per la natura, che egli considera come tutta viva, tutta animata, per cui non esiste materia inerte. Per questa concezione egli si rifà esplicitamente al pampsichismo dell’antica filosofia greca: la vita è presente, sia pure in vari gradi, in tutta la realtà. Non c’è nulla che ne sia privo. Dire che la materia è vita significa dire che è divina. Dio non è al di sopra della materia, come nella concezione creazionista cristiana, bensì è nella materia, che è eterna ed infinita: «natura est deus in rebus», scrive il filosofo nello Spaccio de la bestia trionfante 54. Al pari di Teofrasto e di Porfirio, Bruno nutre grande ammirazione per gli antichi Egizi, ai quali era ben chiaro il concetto della divinità della materia, per cui adoravano piante ed animali: «Conoscevano que’ savii Dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche con certi ordini venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita et intelletto ...» 55. E proprio per questo essi vengono derisi dagli sciocchi: «Le insensate bestie e veri bruti si ridono de noi dèi, come adorati in bestie e piante e pietre, e de gli miei Egizzii che in questo modo ne riconoscevano; e non considerano che la divinità si mostra in tutte le cose» 56. Proprio perché una e divina è la Vita-materia, dal cui seno scaturiscono tutti gli esseri finiti, tra essi non vi sono differenze né dal punto di vista corporale né da quello spirituale: «... la Parca non solamente nel geno della materia corporale fa indifferente il corpo dell’uomo da quel de l’asino, et il corpo de gli animali dal corpo di cose stimate senz’anima, ma ancor nel geno racconta nelle Confessioni: «Non vado più al circo apposta per vedere un cane all’inseguimento di una lepre; ma se mi trovo a passare per un campo dove è in corso quel tipo di caccia, può darsi che distragga la mia attenzione da qualche grande pensiero e la attragga a sé: non mi costringe a far deviare materialmente la mia cavalcatura, ma l’inclinazione del mio cuore sì» (AURELIO AGOSTINO, Confessioni, Milano, Garzanti, 1995, p. 206). 54 Spaccio de la bestia trionfante, in G. BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. CILIBERTO, Milano, Mondadori, 2000, p. 631. 55 Ibid., pp. 632-633. 56 Ibid., p. 638. Bruno coglie qui la contrapposizione esistente tra la religione degli antichi egizi e quella ebraico-cristiana, che, invece, considera sprezzantemente la natura come «una puttana bagassa» (Ibid., p. 651).
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della materia spirituale fa rimaner indifferente l’anima asinina da l’umana, e l’anima che constituisce gli detti animali, da quella che si trova in tutte le cose ...» 57.
È da questa concezione di fondo che deriva il rispetto del filosofo per gli animali, composti della stessa materia dell’uomo – e quindi non inferiori a lui – e la condanna della loro uccisione per scopi alimentari e della caccia: «Benché come l’esser beccaio debba essere stimata un’arte et esercizio più vile che non è l’esser boia (come è messo in consuetudine in certe parti d’Alemagna), perché questa si maneggia pure in contrattar membri umani, e talvolta administrando alla giustizia: e quello ne gli membri d’una povera bestia, sempre amministrando alla disordinata gola, a cui non basta il cibo ordinato dalla natura, più conveniente alla complessione e vita dell’uomo (lascio l’altre più degne raggione da canto); cossì l’esser cacciatore è uno essercizio et arte non meno ignobile e vile che l’esser beccaio: come non ha minor raggion di bestia la salvatica fiera che il domestico e campestre animale» 58.
Nel XVI secolo il pensiero “animalista” trova una giustificazione teorica anche nella rinascita dello scetticismo, ascrivibile, oltre che alla scoperta delle opere di Sesto Empirico, a vari fattori: la crisi della cultura aristotelico-scolastica, la scissione della cristianità in seguito alla Riforma, le scoperte geografiche, che consentirono la conoscenza di nuovi popoli con costumi e scale di valori diversi da quelli europei. Furono appunto questi fattori ad indurre uomini come Michel de Montaigne al ripudio della ragione dogmatica, che si incarnava soprattutto nell’aristotelismo. Il suo scetticismo scaturisce dalla constatazione delle differenze che nello spirito umano si rinvengono nel tempo, come risulta dalle discordanti opinioni dei filosofi, e nello spazio, come testimoniano le relazioni sui popoli primitivi. Mentre Aristotele aveva teorizzato l’esistenza di un ordine gerarchico, che riguardava non solo il rapporto uomo-animali, ma anche quello degli uomini tra di loro, in base al sesso, alla condizione sociale e all’appartenenza etnica – schiavi potevano essere solo i barbari – Montaigne, al contrario, ripudia il concetto stesso di “barbaro”, ascrivibile a pregiudizi piuttosto che a fattori reali. Ciò che noi chiamiamo “barbaro” lo è soltanto perché non rientra nei nostri schemi mentali ed è lontano dalle nostre abitudini: «ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa» 59. Cabala del cavallo pegaseo, in G. BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, cit., pp. 715-716. Spaccio de la bestia trionfante, cit., p. 657. 59 M. DE MONTAIGNE, Saggi, Milano, Adelphi, 1992, vol. I, p. 272. 57
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Quando si assumono le proprie idee ed i propri costumi come criteri universali di giudizio, si cade nel dogmatismo e si presume di essere superiori sia rispetto ai propri simili, che hanno usi e consuetudini di vita diversi, che rispetto agli animali. Montaigne condanna tanto l’eurocentrismo quanto l’antropocentrismo. Egli stigmatizza il comportamento dei conquistatori europei nei confronti delle popolazioni del nuovo mondo, delle quali esalta la dignità e il coraggio: «Quando guardo l’ardore indomabile con cui tante migliaia di uomini, donne e fanciulli si offrono e si lanciano tante volte nei pericoli inevitabili per la difesa dei loro dèi e della loro libertà; la generosa ostinazione a sopportare tutte le miserie e le difficoltà e la morte, piuttosto che sottomettersi al dominio di coloro dai quali sono stati così vergognosamente ingannati, e alcuni preferendo lasciarsi venir meno per fame e per digiuno, quando son fatti prigionieri, piuttosto che accettare il cibo dalle mani dei loro nemici, così vilmente vittoriose, sono certo che, per chi li avesse attaccati alla pari, sia per armi sia per esperienza e per numero, ci sarebbe stato altrettanto pericolo, e più, che in qualsiasi altra guerra che vediamo. (…) Che progresso sarebbe stato, e che miglioramento per tutta questa fabbrica del mondo, se i nostri primi esempi e modi di fare che sono apparsi laggiù avessero indotto quei popoli all’ammirazione e all’imitazione della virtù e avessero stabilito fra essi e noi una comunione e un’intesa fraterna! Come sarebbe stato facile trarre profitto da anime così nuove, così affamate di apprendere, che avevano per la maggior parte così belle disposizioni naturali! Al contrario, noi ci siamo serviti della loro ignoranza e inesperienza per indurli più facilmente al tradimento, alla lussuria, alla cupidigia e a ogni sorta d’inumanità e di crudeltà, sull’esempio e sul modello dei nostri costumi. Chi mise mai a tal prezzo l’utilità del commercio e dei traffici? Tante città rase al suolo, tante popolazioni sterminate, tanti milioni di uomini passati a fil di spada, e la più ricca e bella parte del mondo sconvolta per il commercio delle perle e del pepe! Vili vittorie. Mai l’ambizione, mai le inimicizie pubbliche spinsero gli uomini gli uni contro gli altri a così orribili ostilità e a calamità così miserabili» 60.
Dalle critiche degli scettici antichi alle capacità conoscitive dei sensi e della ragione Montaigne è indotto a mettere in discussione la distinzione tra l’uomo e gli animali, fatta in nome della ragione e del linguaggio. L’uomo è un essere limitato, costantemente minacciato dalla morte, che è una necessità ineluttabile. Nonostante ciò, ha una smisurata presunzione, di cui sembra che la natura lo abbia dotato per consolarlo del suo stato miserevole. In realtà, egli è una creatura meschina, esposta a tutte le offese che, pur proclamandosi signora del mondo, non è padrona neanche di se stessa e non ha la facoltà di conoscere neppure la minima parte dell’universo e tanto meno di comandarla. Ed è proprio a causa di questa presunzione che si pone al di sopra degli altri esseri viventi e ritiene lecito trattarli con disprezzo: 60
Ibid., vol. II, pp. 1211-1213.
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«La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo, all’ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali (…) e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? (…) Quel difetto che impedisce la comunicazione fra esse [le bestie] e noi, perché non è tanto nostro quanto loro? Resta da stabilire di chi sia la colpa del non intenderci; poiché noi non le comprendiamo più di quanto esse comprendano noi. Per questa stessa ragione esse possono considerarci bestie, come noi le consideriamo» 61.
L’uomo arroga a sé solo il privilegio della ragione ed è incapace di vedere quanta razionalità e saggezza emerga dal comportamento degli animali: «Del resto, quale delle nostre facoltà non troviamo nelle opere degli animali? C’è forse un governo regolato con maggior ordine, distribuito in più incarichi e uffici diversi e tenuto con più fermezza di quello delle api? Questa disposizione di azioni e funzioni così ordinata, possiamo forse immaginarla condotta senza raziocinio e senza previdenza? (…) Le rondini, che vediamo al ritorno della primavera frugare tutti gli angoli delle nostre case, cercano forse senza giudizio e scelgono senza discernimento, fra mille posti, quello che è loro più comodo per alloggiarvi? E in quella bella e ammirevole tessitura dei loro nidi, gli uccelli potrebbero servirsi di una forma quadrata piuttosto che di quella rotonda, di un angolo ottuso piuttosto che di un angolo retto, se non ne conoscessero le proprietà e gli effetti? Prenderebbero forse ora dell’acqua, ora dell’argilla, se non pensassero che ciò che è duro si fa molle inumidendolo? Rivestirebbero di muschio o di piume il loro palazzo, se non prevedessero che le tenere membra dei loro piccoli vi staranno più mollemente e più comodamente? Si riparerebbero dal vento piovoso e farebbero il loro nido ad oriente, se non conoscessero la diversa natura di quei venti e non considerassero che l’uno è per loro più salutare dell’altro? Perché il ragno fa la sua tela più fitta in un punto e più larga in un altro? E si serve ora di una specie di nodo, ora di un’altra, se non ha facoltà di scegliere e di pensare e di concludere? Noi constatiamo ampiamente, nella maggior parte delle loro opere, quanta superiorità abbiano gli animali su di noi, e quanto la nostra arte sia insufficiente a imitarli. Vediamo tuttavia nelle nostre, più grossolane, le facoltà che vi impieghiamo, e che la nostra anima vi si applica con tutte le sue forze; perché non pensiamo lo stesso di loro? Perché attribuiamo a non so quale inclinazione naturale e bassa le opere che superano tutto quello che noi possiamo per natura e per arte? Nel che, senza pensarci, diamo loro un grandissimo vantaggio su di noi, ammettendo che la natura, con dolcezza mater61
Ibid., vol. I, pp. 584-585.
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na, li accompagni e li guidi quasi per mano in tutte le azioni e le circostanze della loro vita; mentre noi, essa ci abbandona al caso e alla fortuna, costringendoci a cercar con l’arte le cose necessarie alla nostra conservazione; e ci rifiuta al tempo stesso i mezzi per poter arrivare, qualunque possa essere l’educazione e lo sforzo mentale, alla naturale industriosità delle bestie; sicché la loro stupidità bruta supera in ogni circostanza tutto ciò che può essere la nostra divina intelligenza» 62.
Per questo, secondo Montaigne, «c’è più differenza fra un uomo e un altro uomo, che non fra un animale e un uomo»63. Di qui la sua profonda sensibilità per la sofferenza degli animali che lo induce a stigmatizzare i maltrattamenti loro inflitti: «Quanto a me, non ho potuto mai veder senza dispiacere inseguire e uccidere neppure una bestia innocente, che è senza difesa e dalla quale non riceviamo alcuna offesa. E quello che accade comunemente, che il cervo, sentendosi senza fiato e senza forza, non avendo più altro scampo, si rimette e si arrende a noi stessi che lo stiamo inseguendo, chiedendoci grazia con le sue lacrime, (...) questo mi è sempre sembrato uno spettacolo spiacevolissimo. Non prendo mai una bestia viva a cui non ridia la libertà. Pitagora le comprava dai pescatori e dai cacciatori per fare altrettanto (...) Le nature sanguinarie nei riguardi delle bestie rivelano una naturale inclinazione alla crudeltà. Dopo che a Roma ci si fu abituati agli spettacoli delle uccisioni degli animali, si passò agli uomini e ai gladiatori. La natura stessa, temo, ha istillato nell’uomo qualche istinto verso l’inumanità. Nessuno si diverte vedendo delle bestie giocare fra loro e accarezzarsi, tutti immancabilmente si divertono vedendole sbranarsi e squartarsi» 64.
Il XVII secolo, con il trionfo del meccanicismo cartesiano, registra una battuta d’arresto del movimento di pensiero concernente i diritti degli animali, che sono concepiti da Cartesio come macchine, come “automi” (così li definisce il filosofo), simili a degli orologi, funzionanti, al pari di questi, in virtù dei principi di inerzia e di conservazione del movimento. Per spiegare i fenomeni della vita non vi è bisogno di far ricorso ad un’anima vegetativa e ad un’anima sensitiva, come aveva sostenuto Aristotele, ma sono sufficienti le forze meccaniche che agiscono in tutto l’universo. A tale concezione meccanicistica Cartesio ritenne di trovare conferma negli studi di anatomia che si erano sviluppati fin dal Rinascimento. Egli stesso si interessava di questa scienza: per anni sezionò i più diversi animali ed aveva l’abitudine di frequentare le botteghe dei macellai e di andare in giro per i villaggi per vedere ammazzare i maiali. La teoria degli animali-macchine si contrapponeva ad alcune tesi libertine del tempo, che tendevano a ridurre la distanza tra l’uomo e l’animale, tra i quali ponevano solo differenze quantitative e non qualitative. Cyrano de Bergerac, per denunciare l’infondatezza dei pregiudizi umani nei confronti delle altre speIbid., vol. I, pp. 587-589. Ibid., vol. I, p. 604. 64 Ibid., vol. I, pp. 559-560. 62 63
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cie viventi, immagina due imperi fantastici, quello della Luna e quello del Sole, dove il rapporto uomo-animale è capovolto: gli abitanti della Luna sono quadrupedi e mettono in gabbia Cyrano, considerandolo inferiore per la sua posizione eretta; anche gli uccelli che abitano il Sole lo ingabbiano, perché pensano che una così brutta bestia, calva, senza piume e con un viso tanto diverso dal loro, sia per forza un essere inferiore, certamente privo della ragione 65. Era, questa dei libertini, una concezione che risaliva a Montaigne e che considerava gli animali come dotati di volontà, di sentimenti e di capacità razionali, sebbene in misura inferiore rispetto all’uomo. Cartesio, al contrario, ritiene che, se gli animali fossero forniti di ragione ed avessero l’anima, la manifesterebbero attraverso la parola, che è l’unico segno e la sola prova sicura del pensiero 66. Essi, invece, agiscono come automi del tutto privi di volontà, il che, scrive il filosofo, «non sembrerà affatto strano a coloro i quali, sapendo quanti diversi automi o macchine semoventi può costruire l’industria umana con l’impiego di pochissimi mezzi in confronto alle grandi quantità di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene e altre parti che compongono il corpo di ogni anima65 S. DE CYRANO DE BERGERAC, Storia comica degli Stati e Imperi del Sole, Milano, Sonzogno, 1928; IDEM, L’altro mondo ovvero Stati e Imperi della Luna, Roma, Teoria, 1982. Sulla concezione degli animali dei libertini cfr. V. BARICALLA, La psiche degli animali. Riflessioni di libertini e materialisti nel panorama della “querelle des bêtes”, in «Argomenti di bioetica», rivista dell’Istituto Italiano di Bioetica, anno I, n. 2, dicembre 2007, pp. 123 sgg.; M.T. MARCIALIS, L’animale e l’immaginario filosofico tra Sei e Settecento, in L. BATTAGLIA (a cura di), Lo specchio oscuro. Gli animali e l’immaginario degli uomini, atti del convegno internazionale del Centro di Bioetica, Genova, 16-18 novembre 1990, Torino, Satyagraha editrice, 1993, pp. 89 sgg. 66 «Poiché è cosa ben certa che non ci sono uomini così idioti e stupidi, o addirittura insensati, i quali non sappiano combinare diverse parole e comporre un discorso per farsi intendere; e che, al contrario, non c’è altro animale, per quanto perfetto e felicemente nato, che faccia similmente. E questo non accade per difetto di organi, giacché vediamo le gazze e i pappagalli profferir parole come noi, e tuttavia non poter parlare come noi, mostrando cioè di pensare quel che dicono; laddove gli uomini, che, nati sordi e muti, si trovano quanto le bestie, e più ancora, privi degli organi per parlare, sogliono inventare da se stessi alcuni segni, con cui si fanno intendere da quelli che, vivendo ordinariamente con essi, hanno modo d’imparare il loro linguaggio» (R. CARTESIO, Discorso sul metodo, Bari, Laterza, 1969, p. 118). È da dire che l’etologia contemporanea ha dimostrato l’esatto contrario: due scienziati americani, Allen e Beatrice Gardner, si sono resi conto che gli scimpanzé non riuscivano a parlare non per mancanza di intelligenza, ma perché privi di un apparato vocale in grado di riprodurre i suoni del linguaggio umano. Hanno pertanto insegnato ad una giovane scimpanzè il linguaggio dei segni usato dai sordomuti. L’animale ha appreso ben 350 segni, riuscendo a combinarli tra loro in modo da formare brevi frasi, attraverso le quali è stata anche in grado di esprimere intenzioni circa le proprie azioni future. Ha inoltre dimostrato di avere una forma di autocoscienza, in quanto, messa davanti ad uno specchio, non ha esitato a riconoscersi (cfr. in proposito, P. SINGER, Etica pratica, Napoli, Liguori, 1989, p. 99).
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le, considereranno questo corpo come una macchina che, essendo stata fatta dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio ordinata, ed ha in sé movimenti tanto più meravigliosi di quelle che mai gli uomini possono inventare» 67.
Questa concezione costituì una giustificazione teorica per la vivisezione, che fu praticata senza il benché minimo rispetto per le sofferenze degli animali, come un ignoto contemporaneo di Cartesio ci illustra nel seguente passo: «Gli scienziati (cartesiani) bastonavano i cani con la più assoluta indifferenza e si prendevano gioco di coloro che avevano compassione di queste creature pensando che sentissero dolore. Dicevano che gli animali non sono altro che degli orologi, che i lamenti con cui reagiscono alle percosse sono soltanto il rumore di una piccola molla che è stata sollecitata, e che nel loro corpo non c’è posto per sentimenti. Essi immobilizzavano quei poveri animali e li vivisezionavano per poter osservare la circolazione del sangue che era allora oggetto di vivace controversia» 68.
Contro la teoria degli animali-macchine prese posizione Voltaire nel Dizionario filosofico, dove, alla voce Bestie, sostiene che è impossibile negare agli animali l’intelligenza e i sentimenti: «Che pietà, che insipienza, aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e sentimento, che fan sempre le stesse cose allo stesso modo, che non imparano niente, non perfezionano niente ecc.! Come! Quell’uccello che fa il suo nido a semicerchio quando lo attacca a un muro; che lo fa a quarto di cerchio quando è in un angolo e a cerchio su un albero, quell’uccello fa tutto allo stesso modo? Quel cane da caccia che hai addestrato per tre mesi non ne sa, forse, adesso, più di prima? E quel canarino cui insegni un’aria, te la ripete forse subito? Non impieghi un tempo considerevole a insegnargliela? Non hai osservato che se si sbaglia, poi si corregge?» 69.
Come si possono negare l’intelligenza e il sentimento ad un cane che, avendo perduto il padrone, lo cerca inquieto dappertutto, chiamandolo con guaiti di dolore, e che, dopo averlo ritrovato, gli manifesta tutta la sua gioia con salti, mugolii e leccate? Eppure, scrive il filosofo «Dei barbari agguantano questo cane, che nel senso dell’amicizia supera in modo così straordinario l’uomo, lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per mostrarti le vene mesenteriche. Scopri in lui gli stessi organi della sensibilità che sono in te. Rispondimi, meccanicista: la natura ha dotato quest’animale di tutti gli impulsi del sentimento perché non senta? Ha forse dei nervi perché resti impassibile?» 70. R. CARTESIO, Discorso sul metodo, cit., p. 116. Debbo la citazione a Tom Regan (T. R EGAN, I diritti animali, Milano, Garzanti, 1990, p. 27). 69 VOLTAIRE, Dizionario filosofico, Milano, Garzanti, 1991, p. 56. 70 Ibid., p. 57.
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In età illuministica la difesa dei diritti degli animali trova una giustificazione teorica nel giusnaturalismo. Rousseau, nella Prefazione all’Origine della disuguaglianza, sostiene che anche gli animali partecipano alla legge naturale. Ma in che cosa consiste questa legge? Com’è noto, il giusnaturalismo moderno ha avuto origine nel XVII secolo con la pubblicazione, nel 1625, del De iure belli ac pacis di Grozio, nel quale il filosofo teorizza l’esistenza di un diritto naturale fondato sulla ragione – e quindi universale – necessario in un’epoca di conflitti religiosi, quando ormai l’universitas christiana era stata infranta in seguito alla riforma protestante e all’eclissarsi del potere universale dell’Impero 71. Rousseau modifica parzialmente il giusnaturalismo groziano, in quanto lo fonda non sulla ragione, ma sul sentimento, su un «impulso interiore della pietà», per cui un uomo «non farà mai del male a un altro uomo, e anche a nessun altro essere sensibile, eccettuato il caso legittimo in cui, essendo in gioco la sua conservazione, fosse costretto a preferire se stesso» 72. Alla legge di natura partecipano a pieno titolo anche gli animali, pure se non sono in grado di conoscerla, in quanto «essendo in qualche modo simili alla nostra natura per la sensibilità di cui sono dotati, si penserà che anch’essi debbano partecipare al diritto naturale, e che l’uomo abbia dei doveri verso di loro. Infatti sembra che, se sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, non è tanto perché esso è un essere ragionevole quanto perché è un essere sensibile – qualità che, essendo comune all’uomo e alla bestia, deve dare a questa almeno il diritto di non essere maltrattata inutilmente da quello» 73.
A distanza di alcuni decenni 74 Jeremy Bentham avrebbe difeso i diritti degli animali con argomentazioni simili, ma con un diverso fondamento teorico: l’utilitarismo, del quale il filosofo può essere considerato il fondatore. Com’è noto, Bentham sostiene che la moralità di un’azione consiste nella sua idoneità a procurare la massima felicità per il maggior numero possibile di persone. Questo è l’unico criterio atto a distinguere il bene dal male. Un comportamento è buono o cattivo a seconda che promuova o meno la felicità 75. Il Secondo Grozio, la lex naturalis, proprio perché fondata sulla ragione, esisterebbe anche se si negasse l’esistenza di Dio («etiamsi daremus, quod sine summo scelere dari nequit, non esse Deum», come si legge nei Prolegomeni dell’opera). Cfr. in proposito G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1968, pp. 93 sgg. 72 J.J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 32. 73 Ibidem. 74 L’Origine della disuguaglianza uscì nel 1754, l’Introduzione ai principi della morale e della legislazione di Bentham fu pubblicata nel 1789. 75 «Per principio di utilità – scrive Bentham – si intende quel principio che approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione» (J. BENTHAM, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino, UTET, 1998, p. 90). 71
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filosofo fa una classificazione dei piaceri ed indica i criteri per misurarli: il valore di un piacere dipende dall’intensità, dalla durata, dalla certezza, dalla prossimità, dalla capacità di produrre altri piaceri, dall’assenza di conseguenze dolorose e dall’estensione, cioè dalla sua attitudine ad estendersi al maggior numero di persone possibile. Saggio è colui che sa rinunciare ad un piacere immediato in vista di uno futuro di maggiore portata. Ma, nel calcolare la felicità che può derivare da un comportamento, bisogna tener conto non solo delle aspettative degli esseri umani, bensì anche di quelle degli animali. Egli deplora che essi «a causa del fatto che i loro interessi sono stati trascurati dall’insensibilità dei giuristi antichi, sono degradati alla classe delle cose» 76. Siccome le leggi sono frutto del timore reciproco, gli animali, meno razionali dell’uomo, non hanno avuto gli stessi mezzi per trarne vantaggio. E tuttavia egli auspica che come sono stati riconosciuti nelle colonie francesi i diritti degli uomini di colore 77, così vengano riconosciuti anche quelli degli animali: «C’è stato un giorno, mi rattrista dire che in molti luoghi non è ancora passato, in cui la maggior parte della specie umana, sotto il nome di schiavi, veniva trattata dalla legge esattamente come lo sono ancora oggi, in Inghilterra ad esempio, le razze inferiori degli animali. Può arrivare il giorno in cui il resto degli animali del creato potrà acquistare quei diritti di cui non si sarebbe mai potuto privarli, se non per mano della tirannia. I francesi hanno scoperto che il nero della pelle non è una ragione per cui un essere umano debba essere abbandonato senza rimedio al capriccio di un carnefice. Può arrivare il giorno in cui si riconoscerà che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’os sacrum sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare un essere senziente allo stesso destino? Quale attributo dovrebbe tracciare l’insuperabile confine? La facoltà della ragione, o, forse, quella del discorso? Ma un cavallo o un cane adulto è un animale incomparabilmente più razionale, e più socievole, di un neonato di un giorno o di una settimana, o anche di un mese. Ma anche ponendo che le cose stiano diversamente: a che servirebbe? La domanda da porre non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”» 78.
All’utilitarismo di Bentham si rifà uno dei maggiori esponenti del pensiero animalista contemporaneo: Peter Singer, che con Animal Liberation del 1975 ha posto le basi del dibattito attuale sui diritti degli animali 79. L’elemento centrale della sua costruzione teorica Ibid., pp. 420-421. Bentham si riferisce al Code noir di Luigi XIV, promulgato nel 1685, concernente il trattamento degli schiavi nelle Indie Occidentali francesi. Esso ne vietava l’uccisione da parte dei padroni, affidava alle autorità regie la loro protezione dai maltrattamenti e consentiva agli schiavi liberati di diventare cittadini francesi. 78 Ibid., pp. 421-422. 79 Singer addita in Bentham uno dei corifei della lotta contro lo specismo per la liberazione degli animali (cfr. P. SINGER, Liberazione animale, Milano, Mondadori, 1991, pp. 16 sgg.). 76 77
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è il concetto dell’eguale considerazione degli interessi, che prescinde dalle capacità e dalle attitudini degli individui. Il principio dell’uguaglianza, per quanto riguarda gli esseri umani, non si basa sulla loro uguaglianza di fatto, vale a dire sulla dimostrazione che il razzismo e il sessismo non hanno alcun fondamento e che gli uomini sono diversi tra loro in quanto individui e non in quanto bianchi o neri, maschi o femmine. Se pure i maschi fossero superiori per attitudini e capacità alle femmine e i bianchi ai neri, non per questo sarebbe legittimo trattarli in modo diseguale e privilegiare gli interessi degli uni a discapito di quelli degli altri. Allo stesso modo non sarebbe morale una maggiore considerazione degli interessi degli individui che hanno un più elevato quoziente di intelligenza: l’uguaglianza non si basa su intelligenza, personalità morale, razionalità, e fatti simili. Non c’è alcuna ragione logica per assumere che le differenze di capacità tra due persone giustificano una differente considerazione dei loro interessi. L’eguaglianza è un principio morale di base, non un’asserzione di fatto» 80.
Per lo stesso motivo il principio dell’eguale considerazione degli interessi non può essere limitato ai soli esseri umani, ma va esteso anche agli animali non umani. Se è vero che non è lecito sfruttare qualcuno soltanto perché non è membro della nostra razza, né è lecito trascurare gli interessi di qualcuno perché è meno intelligente di un altro, è altrettanto vero che non sono giustificate le prevaricazioni commesse ai danni di un individuo per il semplice motivo che non appartiene alla nostra specie: «L’inaccettabilità morale dell’inflizione di dolore a un essere non può dipendere dalla sua specie: e nemmeno l’inaccettabilità morale della sua uccisione. I fatti biologici che segnano il confine della nostra specie non hanno rilevanza morale. Privilegiare la vita di un essere solo perché membro della nostra specie ci porrebbe nella stessa posizione dei razzisti che privilegiano i membri della propria razza» 81.
Riprendendo le argomentazioni di Bentham, Singer afferma che il diritto degli animali non umani a vedere riconosciuti i propri interessi si fonda sulla loro capacità di provare piacere e dolore: «Il sistema nervoso di tutti i vertebrati, in special modo negli uccelli e nei mammiferi, è fondamentalmente simile. Le parti del sistema nervoso umano coinvolte nella sensazione di dolore sono relativamente antiche da un punto di vista evolutivo. A differenza della corteccia cerebrale, sviluppatasi solo dopo che i nostri antenati si staccarono dalla linea degli altri mammiferi, l’evoluzione del sistema nervoso di base data da antenati più lontani comuni agli altri animali “supe80 81
P. SINGER, Etica pratica, cit., p. 29. Ibid., p. 82.
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riori”. Tale parallelo anatomico rende plausibile che negli animali la capacità di sentire sia analoga alla nostra» 82.
La capacità di provare piacere o dolore è il requisito fondamentale per avere interessi: «Se un essere soffre non può esserci giustificazione morale per rifiutare di prendere in considerazione tale sofferenza. Quale che sia la natura dell’essere, il principio di eguaglianza richiede che la sua sofferenza conti quanto l’analoga sofferenza di ogni altro essere (…) Se un essere non è capace di provare dolore, o di avere esperienza di piacere o felicità, non c’è nulla da prendere in considerazione. Ecco perché il limite della sensibilità (…) è il solo confine difendibile per il tener conto degli interessi altrui. Tracciare questo confine mediante altre caratteristiche, quali l’intelligenza o la razionalità, sarebbe arbitrario» 83.
Una pietra – esemplifica Singer – non ha interesse a non essere presa a calci da un ragazzo per strada, perché non ha sensibilità; un topo, al contrario, ha interesse a non essere torturato, in quanto è capace di soffrire. Si potrebbe obiettare che il dolore provato da un topo è inferiore a quello provato da un uomo, perché questi ne ha una consapevolezza di gran lunga maggiore. Senza dubbio – osserva Singer – gli esseri umani adulti hanno capacità mentali che li portano a soffrire di più di quanto soffrirebbero gli animali nelle stesse circostanze. Se, ad esempio, si decidesse di compiere esperimenti scientifici letali o estremamente dolorosi su persone prelevate a caso nei parchi pubblici, tutti coloro che frequentano i parchi sarebbero presi dal terrore, per cui patirebbero una sofferenza addizionale rispetto agli animali non umani sottoposti ai medesimi esperimenti, giacché questi ultimi non sarebbero in grado di prevedere la cattura. E tuttavia, paradossalmente, lo stesso discorso dovrebbe valere anche per i neonati e per i ritardati mentali, che non abbiano parenti che possano soffrire per loro. Questi, essendo inconsapevoli di ciò che sta loro per accadere, si troverebbero nella medesima condizione degli animali. Pertanto alla domanda se sia giusto salvare migliaia di vite mediante un singolo esperimento su un animale Singer risponde con un’altra domanda: gli sperimentatori sarebbero disponibili ad eseguire i loro esperimenti su umani senza parenti, con danni cerebrali gravi ed irreversibili per salvare molte vite? Scimmie, cani, gatti e perfino i topi sono infatti molto più consapevoli di quanto accade loro e più sensibili al dolore degli umani cerebrolesi. La scelta degli animali al posto di questi ultimi, pertanto, è fatta esclusivamente in base ad una discriminazione specista 84. L’intento Ibid., pp. 67-68. Queste considerazioni – osserva Singer – non valgono per le piante, che non sono dotate di un sistema nervoso centrale organizzato come il nostro, per cui non vi è ragione di credere che siano capaci di provare dolore. 83 Ibid., p. 58. 84 Ibid., pp. 59 sgg. 82
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di questa argomentazione di Singer non è certo quello di sostenere che la vivisezione debba servirsi di cavie umane, ma piuttosto quello di dimostrare come il ricorso a cavie animali, per esperimenti spesso non necessari, sia fatto in base a pregiudizi non giustificabili teoricamente85. Egli afferma che «se un animale, o anche una dozzina, deve subire degli esperimenti affinché si salvino a migliaia, penso che ciò sia giusto e in accordo alla eguale considerazione degli interessi. Questa, ad ogni modo, è la risposta che deve dare un utilitarista» 86. Si tratta, tuttavia, a suo avviso, di una questione meramente ipotetica, in quanto, nella realtà, gli esperimenti non danno mai risultati così spettacolari. Anzi, sovente non servono a salvare vite, ma semplicemente a testare cosmetici o additivi alimentari. Sperimentare nuovi shampoo o prodotti di bellezza facendone stillare soluzioni concentrate negli occhi dei topi non aiuta di certo ad alleviare le sofferenze umane ed è del tutto inutile, visto che abbiamo già abbastanza shampoo sul mercato 87. Un altro ambito di sfruttamento animale è quello dell’alimentazione: la maggior parte delle persone delle moderne società urbanizzate – scrive Singer – viene a contatto con gli animali all’ora di pranzo, a tavola. Contro l’abitudine del mangiar carne il filosofo riprende le argomentazioni che già abbiamo rinvenuto in Plutarco, suffragate dai recenti studi medici sull’alimentazione. La scelta della dieta carnea è una questione di gusto e non una necessità. Potrebbero essere giustificati gli esquimesi, che vivono in un ambiente dove l’alternativa a cibarsi di animali è la morte per fame, ma non certamente i cittadini dei paesi industrializzati che hanno a disposizione una vasta gamma di alimenti, tanto più che un’imponente letteratura medica ha dimostrato come la carne non sia necessaria per la salute 88. Per questo stesso motivo è priva di fondamento l’obiezione di chi afferma che, siccome gli animali si mangiano l’un l’altro, è lecito anche a noi fare altrettanto con loro. Oltre ad essere contraddittorio servirsi degli animali come cibo ed al contempo considerarli come parametro di comportamento morale, la dif«… lo scopo del mio argomento è di elevare lo status degli animali piuttosto che di abbassare lo status di qualsivoglia gruppo umano. Non voglio affermare che umani mentalmente menomati dovrebbero essere nutriti a forza con coloranti fino a che non ne muoia la metà – sebbene ciò fornirebbe una indicazione della non-nocività per l’uomo delle sostanze sperimentate sicuramente più accurata della sperimentazione su topi o cani. Invece vorrei che la nostra convinzione, che sarebbe sbagliato trattare in questo modo umani gravemente menomati, fosse trasferita agli animali non-umani dotati di un livello analogo di autocoscienza e con analoga capacità di soffrire» (Ibid., p. 74). 86 Ibid., p. 66. 87 Ibid., p. 65. 88 Ibid., p. 62. 85
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ferenza di fondo tra l’uomo e gli animali carnivori è che questi non potrebbero sopravvivere senza nutrirsi di carne, l’uomo, invece, no 89. A questo argomento Singer ne affianca un altro, del tutto nuovo, legato alla globalizzazione dell’economia contemporanea: lo spreco di risorse necessarie per la produzione della carne. La maggior parte degli animali macellati nelle società industriali sono nutriti con cereali ed altri alimenti che potrebbero essere consumati direttamente dall’uomo, del cui valore nutritivo resta come carne solo il dieci per cento circa 90. La dieta carnea, pertanto, è un lusso riservato agli abitanti dei paesi ricchi. Agli animali usati come cibo non solo è tolta la vita, ma, nelle forme moderne di allevamento intensivo, viene imposta un’esistenza miserabile al solo fine di rendere disponibile la loro carne al prezzo più basso possibile. Per abbassare i costi di produzione li si costringe a vivere ammucchiati in condizioni intollerabili, trattandoli come semplici «trasformatori di mangime in carne» 91. Tutto ciò – afferma Singer – dimostra come vengano sacrificati interessi molto rilevanti di esseri appartenenti alle altre specie per soddisfare nostri interessi triviali. Alla pratica dell’uccisione degli animali Singer contrappone l’affermazione del diritto alla vita di tutti gli esseri capaci di provare piacere o dolore, a qualsiasi specie appartengano, in quanto, con la vita, si toglie loro anche la possibilità di godere. Sotto questo aspetto tutte le vite sono ugualmente dotate di valore: «… dal punto di vista degli esseri stessi, ciascuna vita ha lo stesso uguale valore. È forse vero che la vita di una persona può includere lo studio della filosofia mentre quella di un topo non lo può; ma i piaceri della vita di un topo sono tutto quello che un topo ha, e si può presumere che abbiano per il topo altrettanta importanza dei piaceri della vita di una persona per quella persona. Non possiamo dire che una vita ha più o meno valore dell’altra» 92.
L’altro maggiore rappresentante dell’animalismo contemporaneo è Tom Regan che, con The Case for Animal Rights del 1983, ha affrontato la questione dei diritti degli animali da una prospettiva giusnaturalistica, respingendo l’utilitarismo di Singer. A suo avviso, questa dottrina ha sì il merito di combattere ogni forma di specismo, in quanto attribuisce lo stesso valore alle esperienze di piacere e di dolore di chiunque, a prescindere dalla specie a cui appartiene, e tuttavia, pur riconoscendo che abbiamo dei doveri verso gli animali, non ha elaborato una teoria dei loro diritti, che è esattamente ciò che Regan si propone di fare. La sua, però, come egli stesso chiarisce, non vuole essere Ibid., pp. 68-69. Ibid., p. 62. 91 Ibid., p. 63. 92 Ibid., p. 93. 89 90
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esclusivamente una teoria dei diritti degli animali, ma dei diritti tout court, riguardante sia gli uomini che gli animali, in quanto «non è in alcun modo possibile sostenere la causa del riconoscimento dei diritti degli animali senza sostenere la causa dei diritti degli esseri umani (…) Essere “per gli animali” non significa essere “contro l’umanità”. Esigere che gli altri trattino giustamente gli animali significa chiedere per essi né più né meno di quel che si chiede per qualsiasi essere umano: che siano trattati con giustizia. Il movimento per i diritti degli animali non solo non si oppone al movimento per i diritti umani, ma ne fa parte. Cercare di liquidarlo come antiumano significa fare della vuota retorica» 93.
La teoria dei diritti di Regan si basa sul principio di valore inerente, secondo il quale un individuo ha diritto al rispetto in quanto ha valore in sé, è dotato, cioè, di un valore indipendente dagli interessi, dai desideri e dalle preferenze altrui. Come tale è un fine in sé e non un mero strumento o una risorsa per gli altri. Il valore inerente di un individuo, uomo o animale che sia, dipende dall’essere soggetto-di-una-vita. Con questa espressione Regan non si riferisce a tutti gli esseri viventi, ma solo a quelli dotati di autocoscienza: «Perché un individuo sia soggetto-di-una-vita (…) non basta né che sia un essere vivente, né che sia semplicemente un essere cosciente; (…) gli individui sono (…) soggetti-di-una-vita se hanno credenze e desideri, percezione, memoria, senso del futuro (anche del proprio futuro), una vita emozionale, nonché sentimenti di piacere e di dolore, interessi-preferenze e interessi-benessere, capacità di dare inizio all’azione in vista della gratificazione dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi, identità psicofisica nel tempo, e benessere individuale, nel senso che la loro esperienza di vita è per loro positiva o negativa in termini logicamente indipendenti dalla loro utilità per altri e dal loro essere oggetto di interesse per chiunque altro. Coloro che soddisfano il criterio del soggetto-di-una-vita possiedono uno specifico tipo di valore – il valore inerente – e non vanno né considerati né trattati come meri ricettacoli» 94.
Dopo aver precisato il concetto di soggetto-di-una-vita, Regan si pone una domanda cruciale: quali animali rientrano in tale concetto? Il che significa chiarire quali animali possano essere considerati autocoscienti. Stabilire la linea di demarcazione dell’autocoscienza è cosa molto difficile: certamente ne risultano dotati i mammiferi, che sono gli animali più simili all’uomo dal punto di vista fisiologico ed anatomico, ma ciò non significa che solo essi lo siano. L’esperienza dimostra, come Regan illustra con ampie argomentazioni e con dovizia di esempi 95, che i mammiferi non sono soltanto coscienti e senzienti, bensì anche autocoscienti, in quanto mostrano di avere consapevolezza di T. REGAN, I diritti animali, cit., p. 20. Ibid., pp. 331-332. 95 Si veda in proposito il capitolo secondo dal titolo La complessità della coscienza animale. 93
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sé, credenze, desideri, ricordi, percezione del futuro, emozioni e capacità di agire intenzionalmente. Essi non si limitano a reagire agli stimoli esterni, come fanno le piante, quando si volgono verso la luce, ma agiscono per soddisfare i loro bisogni, mostrando di ricordare le esperienze passate e, sulla base di queste, di essere in grado di formare dei concetti generali. Proprio perché dotati di autocoscienza e, quindi, di un’identità psico-fisica, si può parlare di “benessere” in riferimento a questi animali: anch’essi, al pari degli uomini, nel corso della loro vita, se la possono passare bene o male: «abbiamo valide ragioni per negare che benessere animale e benessere umano siano diversi tra loro per natura. Animali e umani hanno entrambi interessi-preferenze e interessi-benessere di tipo biologico, psicologico e sociale; (…) entrambi possono ricevere benefici e danni e, in quest’ultimo caso, o in virtù di ciò che si infligge loro (danni diretti) o in virtù di ciò che si nega loro (danni come deprivazioni); entrambi hanno un’esistenza caratterizzata da piacere o dolore, soddisfazione o frustrazione; e il tono generale, la qualità della loro vita, in misura maggiore o minore, è in relazione all’armoniosa soddisfazione di quelle preferenze che è loro interesse soddisfare» 96.
Tra i danni come deprivazioni il peggiore è la morte, in quanto «è la perdita suprema e irreversibile che preclude qualsiasi opportunità di soddisfazione» 97. Pertanto non solo se lenta e dolorosa, ma anche se repentina ed indolore, la morte è sempre un danno che si infligge all’animale, giacché annulla per sempre tutte le sue possibilità future di gratificazione. In quanto soggetti-di-una-vita i mammiferi sono dotati di valore inerente ed hanno proprio per questo gli stessi diritti degli esseri umani. Quello di valore inerente, infatti, è un concetto categoriale, è, cioè, qualcosa che o si ha o non si ha, il cui possesso non ammette gradi 98. Nel delineare la sua teoria dei diritti Regan fa altresì la distinzione tra agenti morali e pazienti morali. I primi sono gli individui che hanno la capacità di improntare a principi morali imparziali la determinazione delle proprie azioni, delle quali sono, pertanto, moralmente responsabili. Sono agenti morali gli esseri umani adulti e normali. Diversamente da loro, i pazienti morali risultano privi della capacità di formulare principi morali a cui attenersi nel loro agire. È questo il caso dei bambini piccoli, degli uomini adulti che presentino menomazioni o deficienze mentali e degli Ibid., p. 174. Ibid., p. 172. 98 «Il criterio del soggetto-di-una-vita (…) non asserisce né implica che coloro che lo soddisfano possiedano lo status di soggetto-di-una-vita in misura maggiore o minore in relazione al grado in cui dispongono o sono privi di certe virtù o capacità (per esempio, della capacità di dedicarsi alla matematica superiore o delle abilità che fanno tutt’uno con la genialità artistica). Un individuo o è (…) il soggetto di una vita oppure non lo è. E tutti quelli che lo sono, lo sono in ugual misura» (ibid., p. 333, i corsivi sono di Regan). 96 97
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animali. Le loro azioni possono sì risultare dannose agli altri, ma non sono mai sbagliate moralmente, giacché essi non sono in grado di assumersene la responsabilità. I pazienti morali non hanno alcun dovere: non possono fare nulla di moralmente buono o cattivo. Solo gli agenti morali hanno dei doveri, in quanto possiedono le capacità cognitive che li rendono moralmente responsabili di ciò che fanno. Il comportamento morale, pertanto, è circoscritto esclusivamente agli agenti morali: soltanto le loro azioni possono essere qualificate come giuste o ingiuste. La contrapposizione tra agenti e pazienti morali viene meno in rapporto al concetto di valore inerente: di esso, infatti, sono dotati tanto gli agenti morali quanto i pazienti morali forniti di autocoscienza, giacché sia i primi che i secondi sono soggetti-di-unavita 99. Per questo motivo sia gli uni che gli altri vanno trattati secondo il principio del rispetto così formulato da Regan: «dobbiamo trattare gli individui dotati di valore inerente in modi che rispettino il loro valore inerente» 100. Tale principio esprime una concezione egualitaria della giustizia, in quanto impone di trattare con rispetto tutti i soggetti che hanno valore inerente e non solo alcuni di loro (perché, ad esempio, forniti di particolari attitudini intellettuali o artistiche). Prendendo in prestito un’espressione di Kant, Regan scrive che tutti gli individui dotati di valore inerente non vanno mai trattati come semplici mezzi 101. Il rispetto dovuto agli animali, pertanto, non deriva da una particolare sensibilità verso di loro, ma è una questione di giustizia: «Poiché i pazienti morali possiedono un valore inerente e lo possiedono né più né meno degli agenti morali, hanno lo stesso diritto degli agenti morali a un trattamento rispettoso, e lo hanno in ugual misura (…) Trattare gli animali con rispetto non è un atto di bontà, ma di giustizia. Non sono gli “interessi sentimentali” degli agenti morali a fondare i nostri doveri di giustizia verso i bambini, gli handicappati mentali, i vecchi incapaci di intendere, nonché verso gli altri pazienti morali, animali inclusi. È il rispetto per il loro valore inerente» 102.
Nei confronti degli animali, oltre al rispetto dovuto a tutti i soggetti-di-una-vita, vi è anche il dovere dell’assistenza, vale a dire il dovere di difendere i loro diritti, visto che essi non sono in grado di farlo per conto proprio: 99 «Per strette ragioni di giustizia (…) – scrive Regan – noi dobbiamo uguale rispetto a quegli individui che possiedono uguale valore inerente, siano essi agenti o pazienti morali, e, in quest’ultimo caso, umani o animali. (…) Si ha ingiustizia, quando trattiamo gli individui dotati di tale valore in modi che non esprimono il rispetto loro dovuto (per esempio, quando li trattiamo come se il loro valore fosse riducibile alla loro utilità per gli altri)» (ibid., p. 359). 100 Ibid., p. 338. Il corsivo è di Regan. 101 Ibid., p. 339. 102 Ibid., pp. 376-377.
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«Quanto più gli individui sono inconsapevoli dei loro diritti e incapaci di difenderli, tanto più chi conosce e riconosce questi diritti deve impegnarsi a difenderli per loro. (…) Poiché il diritto di certi individui a un trattamento rispettoso è, appunto, un diritto, il mio dovere non è solo quello di evitare di trattarli ingiustamente, ma anche quello di “salvaguardare il (loro) possesso di quel diritto”, nonché di salvaguardare ciò a cui il possesso di quel diritto dà loro titolo. (…) l’impotenza degli animali nel tutelare i propri diritti fa sì che il mio dovere di difenderli sia, caso mai, più stringente, non meno» 103.
La difesa dei diritti degli animali si esplica in vari ambiti: dal rifiuto dell’alimentazione carnea a quello della caccia e della ricerca scientifica che li usa come cavie. Proprio perché gli animali sono incapaci di difendersi, non è sufficiente astenersi dai comportamenti che possono lederli: per evitare la loro uccisione ai fini alimentari, ad esempio, non basta la scelta del vegetarianismo, ma è moralmente necessario «impegnarsi a promuovere una rivoluzione dell’atteggiamento intellettuale della nostra cultura nei confronti degli animali allevati dall’uomo e del trattamento loro riservato» 104. Particolare interesse rivestono le argomentazioni di Regan in merito all’illegittimità, dal punto di vista morale, dei test tossicologici sugli animali e, in genere, del loro uso nella ricerca scientifica. Abbiamo visto come Singer, nell’ottica utilitarista dell’uguale considerazione degli interessi, li ritenga leciti nel caso in cui, sacrificando una dozzina di animali, si possano salvare migliaia di persone. Secondo Regan questa teoria è sbagliata, in quanto non è moralmente legittimo sperimentare un nuovo prodotto su soggetti che non abbiano volontariamente scelto di accollarsi i rischi dell’esperimento, per avvantaggiare altri individui. I test tossicologici sono la negazione del principio di valore inerente che compete agli animali in quanto soggetti-di-una-vita: usarli per tali esperimenti «… significa trattarli (…) come se il loro valore fosse riducibile alla loro possibile utilità per gli interessi altrui» 105. Ma questo è un diritto che l’uomo non può arrogarsi sugli altri esseri viventi: «… come umani (…) non abbiamo alcun diritto di danneggiare coercitivamente altri o di esporli al rischio di subire dei danni per minimizzare rischi che noi corriamo in conseguenza delle nostre decisioni volontarie. Ciò significherebbe violare i loro diritti, ossia fare una cosa che nessuno ha il diritto di fare» 106. Regan prevede che alla teoria dei diritti si possa muovere l’accusa di essere antiscientifica ed antiumana e, nel riconoscere questo rischio, si sofferma sulla necessità di cercare metodologie alternative all’uso degli animali (quali, ad esempio, colture di tessuti e di cellule), ricordando come i test eseguiti su di loro non sempre siano risultati Ibid., pp. 382-383. I corsivi sono di Regan. Ibid., p. 472. 105 Ibid., p. 506. 106 Ibid., p. 509.
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affidabili ed abbiano garantito l’innocuità di un farmaco per l’uomo (famoso è il caso tragico del talidomide). E tuttavia ci tiene a precisare che non è questo il «cuore morale del problema»: esso «non consiste nel fatto che la metodologia di questi esperimenti è dubbia (…) è la pratica in se stessa che dobbiamo contestare, non (…) l’affidabilità della sua metodologia attuale» 107. L’uso degli animali per i test tossicologici e, in generale, per la ricerca scientifica va vietato non perché i risultati possono rivelarsi inattendibili, ma perché, in tal modo, si violano i diritti di cui essi sono titolari in quanto soggetti dotati di un proprio valore inerente. È questo il motivo per cui servirsene per tali esperimenti è un atto moralmente non giustificabile. La teoria dei diritti degli animali di Regan riguarda solo quelli tra loro che possono essere considerati come soggetti-di-una-vita, vale a dire i mammiferi, in quanto sicuramente dotati di autocoscienza (e quindi in grado di percepire, di ricordare, di agire intenzionalmente, di avere credenze, desideri, preferenze, aspettative per il futuro, ecc.). Queste caratteristiche sono condizione sufficiente per attribuire loro in modo razionale e non arbitrario il valore inerente. Sono anche condizione necessaria? Agli esseri viventi privi di tali caratteristiche non si può applicare il concetto di valore inerente? I loro diritti non vanno tutelati? A questo interrogativo Regan risponde che è molto difficile tracciare la linea di demarcazione che delimita la presenza dell’autocoscienza, per cui è possibile che molti animali non mammiferi ne siano dotati e, quindi, che siano capaci di provare dolore: «Poiché siamo incerti circa i confini della consapevolezza, non è irragionevole invocare una linea d’azione che si ispiri a un criterio di cautela morale. Qualora adottassimo tale linea, dovremmo agire come se gli animali non mammiferi fossero consapevoli e capaci di provare dolore, tranne nei casi in cui ci fossero prove convincenti del contrario» 108.
Per tale motivo questi animali, pur non essendo soggetti-di-una-vita, vanno trattati «come se fossero soggetti a cui dobbiamo un trattamento rispettoso» 109. In epigrafe al suo libro Regan ha posto un pensiero di John Stuart Mill: «Tutti i grandi movimenti, inevitabilmente, conoscono tre stadi: il ridicolo, il dibattito, l’accoglimento». Si potrebbe dire che il movimento per i diritti degli animali abbia solo di recente superato il primo stadio e sia ben lungi dal raggiungere il terzo. La sua vittoria non è a portata di mano: essa, scrive Regan nelle riflessioni conclusive del libro, «esige nientemeno che una rivoluzione nel pensiero e nella prassi della nostra cultura. In questo moIbid., p. 514. Ibid., p. 490. 109 Ibid., p. 491. Il corsivo è di Regan. 107 108
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mento della nostra evoluzione culturale siamo ancora lontani dall’avere un concetto preciso dello status morale degli animali» 110. Le loro sofferenze ci lasciano indifferenti, talora non se ne sospetta neanche l’esistenza: i cosmetici e gli altri prodotti che usiamo quotidianamente, nelle loro confezioni accattivanti e profumate, non fanno pensare per nulla al terrore della cavia su cui sono stati testati e alla sua morte atroce. Anche il nostro linguaggio spesso è mistificante: per gli animali da compagnia, sempre più umanizzati, ci sono nomi e vezzeggiativi; per quelli da consumo, invece, c’è l’anonimato: nei nostri piatti sono solo carne e pesce, che consumiamo senza chiederci come sia vissuto l’essere che stiamo mangiando, come sia stato ucciso, quanto abbia sofferto 111. Questi animali, si chiede Luisella Battaglia, «sarebbero dunque creature di un mondo che non ci riguarda, esseri condannati al buio del silenzio perché il loro dolore non è in piena luce e non fa scandalo in quanto non si offre al nostro sguardo? O forse è il nostro sguardo che si distoglie? Ma “vediamo” davvero il loro dolore? (…) A ben riflettere, noi vediamo della realtà solo ciò che siamo disposti a vedere, mentre non vediamo spesso anche ciò che è palese. (…) Esiste una singolare selettività delle nostre capacità percettive. Gli esempi storici non mancano: basti pensare a come, per secoli, la condizione spaventosa degli schiavi o dei bambini sfruttati nelle fabbriche, all’epoca della rivoluzione industriale, fosse sotto gli occhi di tutti, ma ben pochi, potremmo dire, “avevano occhi” per vederla» 112.
Nel corso degli ultimi due secoli la schiavitù è stata abolita e le condizioni di lavoro in fabbrica – anche se limitatamente ai paesi economicamente sviluppati – non sono più quelle descritte da Marx nel primo libro del Capitale. Restano gli ultimi dannati della terra: i popoli del Terzo Mondo e gli animali, la cui causa presenta più di un punto in comune – basti pensare, per fare solo un esempio, alle sterminate estensioni di terreno nel Terzo Mondo sottratte ai loro abitanti, che potrebbero coltivarle per sfamarsi, e sfruttate dai paesi industrializzati per produrre cereali per l’alimentazione degli animali stipati negli allevamenti intensivi, destinati al macello dopo una vita miserabile 113. Ibid., p. 533. «Migliaia di milioni di uomini – ha scritto Luigi Lombardi Vallauri – vivono la schizofrenia di considerare come entità del tutto separate gli animali e la carne: gli animali in sé (quelli dei documentari) sono adorabili, gli animali di affezione sono persone di famiglia, gli animali da macello non sono animali e la carne è una sostanza che si forma al supermercato» (L. LOMBARDI VALLAURI, Animali: istruzioni per il non uso, cit., p. 161). 112 L. BATTAGLIA, Aldo Capitini. Per un’etica della cura oltre l’umano, in B. DE MORI, P. ZECCHINATO (a cura di), Lo specchio e l’altro. La cura nel rapporto uomo-animale, Milano, Mimesis, 2008, pp. 152-153. 113 «Occorre una rivoluzione nell’alimentazione dei Paesi ricchi – ha scritto tempo fa Umberto Veronesi – per dare il via concretamente e subito ad una soluzione della tragedia dei Paesi poveri, dove si soffre la fame. Noi siamo alle prese con il problema opposto: (…) la nostra dieta opulenta 110
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Creare un nuovo modello di sviluppo rispettoso dei diritti di tutti gli esseri viventi: è questa la sfida che si presenta al secolo di cui siamo agli albori.
ci fa ammalare sempre di più. (…) Io penso che l’ingiustizia alimentare sia una delle peggiori iniquità dei nostri tempi (…) I prodotti agricoli a livello mondiale sarebbero in realtà sufficienti a sfamare i sei miliardi di abitanti, se venissero equamente divisi, e soprattutto se non fossero in gran parte utilizzati per alimentare i tre miliardi di animali da allevamento. Ogni anno 150 milioni di tonnellate di cereali sono destinate a bovini, polli e ovini, con una perdita di oltre l’80% di potenzialità nutritiva; in pratica il 50% dei cereali e il 75% della soia raccolti nel mondo servono a nutrire gli animali d’allevamento. L’America meridionale, per fare posto agli allevamenti, distrugge ogni anno una parte della foresta amazzonica grande come l’Austria. Trentasei dei quaranta Paesi più poveri del mondo esportano cereali negli Stati Uniti, dove il 90% del prodotto importato è utilizzato per nutrire animali destinati al macello. Viviamo in un mondo dove un miliardo di persone non ha accesso all’acqua pulita e per produrre un chilo di carne di manzo occorrono più di trentamila litri di acqua. Già oggi non riusciamo neppure a contare quante malattie e quante morti potrebbe evitare un minor consumo di carne» (U. VERONESI, L’importanza di diventare vegetariani, in «Repubblica», 6 giugno 2008).
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MARISTELLA LA ROSA
Carte d’archivio e mondo naturale. Per una riflessione storica ed etica sul rapporto uomo-animale *
L’8 maggio del 1760 un violento acquazzone costringe un certo Gaetano Bossi a rifugiarsi in un’osteria presso Melegnano, facendogli così mancare un importante appuntamento nella capitale lombarda. Sicuramente meglio, si dirà, era andata in quel di Cremona ad un ragguardevole personaggio sforzesco nel maggio del 1468: nei paraggi «non è nebia veruna anze una serenità de ayro che fa stare allegro ognuno per forza», sicché ci si può dedicare, presumiamo di prima mattina, alle predilette cacce. Una cosa ben più straordinaria accadrà a Mazzo in Valtellina, il 2 febbraio 1750 «a circa mezz’ora di notte», al canonico Lavizzari, il quale ha la bella ventura, per un meteoro*
Prima di presentare la mia relazione, mi corre l’obbligo di una breve premessa. Nel 1995, quale funzionaria dell’Archivio di Stato di Milano, intervenni in un convegno organizzato dalla Società italiana di scienze naturali e Museo civico di storia naturale di Milano, in collaborazione con l’Archivio stesso, concernente il territorio lombardo e la ricerca storico-naturalistica dal Medio Evo all’età contemporanea (Milano, 9-10 giugno 1995). Il mio lavoro, che si soffermava anche su considerazioni di carattere etico circa il rapporto uomoanimali, non fu poi pubblicato negli atti, forse perché non del tutto in sintonia con lo spirito dell’iniziativa. Come direttrice dell’Archivio di Stato di Imperia mi interessai in seguito a più riprese del tema, con una mostra e altre pubblicazioni: San Remo Ottocento, ovvero Un angelo nella terra dei limoni, in San Remo Ottocento nei documenti della Sezione di Archivio di Stato di San Remo e nella raccolta libraria della Biblioteca civica, San Remo, Biblioteca civica, 10-22 dicembre 1997, Genova 1997 (il lavoro prende in considerazione il trattamento degli animali, soprattutto da tiro, a fronte della sensibilità zoofila degli ospiti internazionali); In margine al versamento dell’Ufficio del veterinario di confine di Ventimiglia. Note sulle fonti d’archivio per la storia sociale degli animali, in «Rassegna degli Archivi di Stato», LX (2000), 2; pp. 492-498; Gli animali figli minori della creazione. Esposizione di antichi documenti, San Remo, 26 febbraio-10 marzo 2001, a cura di M. LA ROSA. Ora, certa di avere interlocutori più interessati rispetto a quelli del 1995, ripresento qui, con l’aggiunta di un sottotitolo e con qualche piccolo ritocco, il mio intervento di allora, che riflette a tutt’oggi il mio pensiero, sia in materia tecnico-archivistica che sotto il profilo morale. La documentazione di riferimento, va da sé, è quella dell’Archivio di Stato di Milano e i cenni bibliografici sono ovviamente riferiti al panorama editoriale del tempo.
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logo dilettante quale egli è, di assistere ad un raro fenomeno di luminescenza, che non esita a definire «aurora boreale» 1. Gli episodi riportati non sembrino del tutto fuori tema. Qualche anno fa l’Unesco, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Consiglio internazionale degli Archivi avviarono uno studio di fattibilità, a cui partecipai in rappresentanza dell’Amministrazione archivistica italiana, per valutare la possibilità di trarre dalle carte d’archivio notizie su eventi atmosferici del passato, al fine di costituire una banca dati per l’individuazione di mutamenti climatici di lungo periodo, in particolare in rapporto all’“effetto serra” 2. Si richiedeva agli archivisti di cercare due tipi di dati: seriali, cioè sistematici – effemeridi, annotazioni diaristiche etc. – e puntuali, cioè sporadici, quali le informazioni del tipo sopra riportate: temporali e cieli tersi. È noto del resto che Le Roy Ladurie, per il suo ormai classico saggio Histoire du climat depuis l’an mil 3, si è basato proprio su documentazione d’archivio, e precisamente sui bandi, variamente datati di anno in anno, per le vendemmie, considerati come indicatori della più o meno tardiva maturazione dell’uva. In un mio breve lavoro, scaturito in parte da quell’esperienza 4, suddividevo le fonti per la storia del clima in tre gruppi. In primo luogo, carte non prodotte al fine di trasmettere dati meteorologici, ma dalle quali questi ultimi sono ricavabili; ne sono un buon esempio quelle citate più sopra, che segnalano occasionalmente l’acquazzone e il bel sereno. Come ovvio, questa documentazione si estende per un arco di tempo amplissimo ed è indispensabile per la ricostruzione di vicende climatiche anteriori alla nascita della meteorologia scientifica. In secondo luogo, materiali appositamente concepiti per registrare dati meteorologici e similari, quali tabelle idrometriche dei laghi e dei fiumi, rilevamenti sulla piovosità ecc., documentazione questa disponibile solo a partire dal Settecento e solo se si sono conservati gli archivi degli organi competenti o, quanto meno, gli elaborati di qualche zelante appassionato come il nostro canonico valtellinese; possiamo citare per l’Archivio di Stato di Milano il fondo Ufficio del genio civile. Infine, vere e proprie pubblicazioni scientifiche, quali calendari, effemeridi, studi, il cui reperimento è peraltro sporadico e casuale, trattandosi di materiali più bibliografici che propriamente archivistici. 1 1760 maggio 8, Milano, ARCHIVIO DI STATO DI MILANO, d’ora in poi AS MI, Acque, parte antica, cart. 483 e 1468, maggio 23, Cremona, AS MI, Archivio visconteo-sforzesco, scat. 1460. 2 Progetto definito nell’incontro di Parigi del 21 e 22 febbraio 1990. 3 Trad. it. E. LE ROY LADURIE, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille. Torino, Einaudi, 1982. 4 M. LA ROSA, Clima e meteorologia: alcune fonti archivistiche, in Gli archivi per la storia della scienza e della tecnica. Atti del convegno internazionale, Desenzano del Garda, 4-8 giugno 1991, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, 1995.
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Niente di più facile, mi sembra, che estendere a tutti gli aspetti del mondo naturale le considerazioni or ora fatte, per affermare che la documentazione archivistica ci può fornire preziose notizie non solo, se vogliamo parafrasare S. Francesco, per quanto riguarda “frate vento, et ... aere, et nubilo, et sereno”, ma anche per “frate Sole”, per “sora Luna, e le stelle”, per “frate focu” e “nostra matre terra”, insomma per “tucte le creature” del Signore. Facciamo un esempio a cominciare dalle informazioni, per così dire, indirette. Campagna intorno a Cologno monzese, poco prima del fatidico anno Mille: un bel ginestreto, vogliamo pensarlo nel pieno della sua gialla fioritura, spicca tra i querceti, le vigne e i campi a cereali del variegato paesaggio agrario lombardo alto-medievale. Il tenace vegetale, indefesso colonizzatore, simbolo, come ci ricorda Leopardi, di perseveranza e adattabilità, sta forse riguadagnando spazio alla natura di contro agli attacchi dell’uomo, certo allora non ancora così devastanti come al giorno d’oggi? L’appezzamento faceva parte dei possedimenti di S. Giovanni di Monza e noi lo ritroviamo nei graffi di una scrittura su pergamena accessibile solo ai tecnici 5. Si potrebbe tuttavia continuare. Una lista di uccelli multicolori, ahimè impagliati, destinati a rallegrare, diciamo così, la settecentesca villa di qualche nobile signore, non mancherà di ragguagliarci sull’avifauna esotica, così come la descrizione di una battuta di caccia ci potrà dire molto sull’ambiente circum-milanese del Quattrocento. Ma non manca la documentazione del secondo tipo, cioè quella ab origine volta a trasmettere dati sul mondo naturale, vuoi a fini puramente scientifici, vuoi a fini di pratica utilità. Valga un solo esempio. Intorno al 1817 il governo austriaco decide di dare vita ad una pubblicazione illustrata a carattere didascalico sulle piante velenose, per limitare i casi di intossicazione tra la popolazione. Così, sotto il patrocinio della Direzione della pubblica istruzione, si provvede a raccogliere nelle province lombarde quei dati che oggi ci informano su quali vegetali tossici allignassero ai primi dell’Ottocento sulle nostre terre, permettendoci altresì di ammirare, rappresentato su una accurata tavola, l’Aconitus napellus, dai bei fiori viola a forma di elmo, attraenti quanto ingannatori 6. Troviamo, d’altra parte, anche le fonti del terzo tipo, le pubblicazioni scientifiche vere e proprie. All’inizio del secolo XIX il Signor Huber figlio legge, forse con una Inventario dei beni di S. Giovanni di Monza in Cologno, s.d. [sec. X], AS MI, Museo diplomatico, scat. 10, documento n. 223/349. 6 AS MI, Agricoltura, parte moderna, cart. 71. L’episodio è ricordato in M. LA ROSA, L’albero della libertà. Orti botanici e agrari: uno spazio per sperimentare, in Momenti dell’età napoleonica nelle carte dell’Archivio di Stato di Milano, catalogo della mostra documentaria omonima allestita presso l’AS MI, Archivio di Stato di Milano, 1987. 5
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qualche emozione di fronte al qualificato uditorio, non si sa quanto attento, della Società di fisica e storia naturale di Ginevra, la sua memoria “Sulle formiche, uso delle loro antenne, e loro rapporto co’ pidocchi delle piante, e co’ gallinsetti”. E noi abbiamo, per così dire, la fortuna, se non proprio di ascoltare l’avvincente disquisizione dalla viva voce dell’autore, almeno di potercela leggere in santa pace, ricompresa com’è in uno spezzone di rivista milanese del 1804, capitato nella cartella 23 del fondo Miscellanea lombarda dell’Archivio di Stato di Milano. Una piccola postilla: chi ha dimestichezza con gli archivi sa che il reperimento di informazioni relative ad un certo tema avviene sovente in maniera del tutto casuale, e sono queste, forse, le scoperte emotivamente più appaganti: le notizie sul mondo naturale non fanno eccezione; tuttavia, chi si appassiona a ricerche mirate e sistematiche, nella fattispecie, non rimarrà deluso. Si potranno prendere in considerazione tanto i fondi che documentano aspetti in qualche maniera collegati con l’uso del territorio, ad esempio carte relative alla conduzione agricola, alla gestione delle acque, alla normativa sulla caccia, sulla pesca e sulla legnagione, quanto quelli che contengono riferimenti all’indagine sistematica sul mondo della natura. Tra i primi, presso l’Archivio di Stato di Milano, citerò Acque, Agricoltura, Commercio, ricco di tante informazioni sulle miniere, ma anche i tanti archivi privati o degli enti religiosi soppressi, riuniti nel Fondo di religione; tra i secondi rammenterò, oltre a Pubblica istruzione, il fondo Studi, nato, come dice nel suo “Vocabolario” Luca Peroni, il celebre e discusso creatore ottocentesco del complesso miscellaneo Atti di governo, proprio per riunire «tutto ciò che spetta alla pubblica istruzione, alle scienze, ed arti liberali (...) Accademie, Biblioteche, Musei, Gabinetti scientifici ...» 7. Ma l’aspetto che ritengo più interessante, e meno esplorato, documentabile sulle carte d’archivio è il rapporto quasi sempre indiscriminatamente appropriativo e troppo spesso predatorio dell’uomo nei confronti della natura. Nel 1812 il professor Du Pré, insegnante di botanica e agraria presso il liceo di Venezia, cerca disperatamente alcune pianticelle di Phormium tenax, pianta di origine, a quanto ricordo, australiana, che tenterebbe di acclimatare sulle spiagge con gran vantaggio, a suo dire, della Marina militare 8. Non ci è dato di sapere, per la verità, chi al progetto si sia ribellato, se il Phormium, la Marina militare o entrambe, fatto sta che ci sembra di poter affermare che la bella liliacea non ha affatto invaso i nostri litorali e se ne sta tuttora confinata, in grata prigionia, negli spazi appartati dei giardini della Riviera. Molti sanno che sorte ben diversa è toccata alla robiIn L’Archivio di Stato di Milano, manuale storico-archivistico, a cura di A.R. NATALE. I. Guide e cronache dell’Ottocento, Milano, 1976, pp. 157 e sgg. 8 1812 aprile 25, AS MI, Studi, parte moderna, cart. 1056. L’episodio è ricordato in M. LA ROSA, L’albero della libertà ..., cit. 7
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nia, che, pianta ancora rara alla fine del Settecento in Lombardia 9, proveniente com’era dalla Virginia, è oggi tra le essenze più diffuse sul nostro suolo, a detrimento delle specie autoctone. In una qualche misura, altre testimonianze documentarie di queste manomissioni, che hanno condotto i luoghi antropizzati del nostro pianeta ad una tendenziale koiné vegetale, consiste nei tanti elenchi di piante forestiere importate dagli orti botanici e agrari tra Sette e Ottocento a scopo di studio o di utilizzo 10. E torna alla memoria la Galinsoga parviflora, l’americana acclimatata da qualche orto botanico, che oggi possiamo vedere specchiarsi nei Navigli, o l’Hydrocotyle delle Mascarene, la leggiadra ombrellifera che chiazza con le sue lucide foglioline tanti tappeti erbosi di tranquilli interni milanesi. Negli archivi sono rimaste abbondanti tracce anche del progressivo espandersi della specie umana ai danni di tutte le altre specie, in particolare dopo il fatidico anno Mille. Una storia questa dello sviluppo che è sempre stata vista esclusivamente come trionfale epopea dell’uomo, come fichtiana conquista dello spirito sul non-essere della natura, e che forse andrebbe almeno in parte riscritta dal punto di vista delle creature soccombenti. La varia documentazione, in gran parte pergamenacea, che reca notizie sui ronchi e roncaglie, i grandi dissodamenti che si andarono intensificando a partire dall’undicesimo secolo, attende all’Archivio di Stato di Milano i volonterosi che abbiano il coraggio di mettere in atto questo ribaltamento di prospettiva. Del pari, gli archivi potranno svelare a chi si preoccupi di affrontare la lettura di carte quali inventari di beni, contratti di soccida o libri di conduzione aziendale con taglio interpretativo un po’ meno tradizionale, l’altissimo contributo, in termini di energia e sofferenza, che le altre specie animali, sotto forma di cibo o forza lavoro, hanno offerto alla costruzione della stessa civiltà dell’uomo. Emblematico, a questo proposito, l’uso del Ponente ligure di denominare i frantoi a trazione animale con l’espressione “a sangue”. Non è forse, letteralmente, scritta sulla pelle degli animali tanta parte della storia umana? Può accadere poi, anche se personalmente non ne ho esperienza diretta, che pieghi polverosi ci restituiscano i grotteschi e spesso crudeli episodi della equiparazione del mondo animale a quello umano nella amministrazione della giustizia: scrofe torturate e impiccate per aver dilaniato un bambino, muli condannati al rogo assieme a sodomiti dopo la mutilazione delle zampe, processi a bruchi invadenti 11. A riprova, se occorresse, che la 9 Notizie sull’introduzione della pianta in Lombardia si sono trovate presso l’AS MI. Non sono tuttavia in grado di indicarne con precisione la fonte. 10 Si veda M. LA ROSA, L’albero della libertà ..., cit. 11 Si veda E. PAYSON EVANS, Animali al rogo. Storie di processi e condanne contro gli animali dal Medioevo all’Ottocento, Roma, Editori riuniti, 1989. Il catalogo di una mostra documentaria a cura dell’Archivio di Stato di Sondrio, tenutasi tra il dicembre e il gennaio 1982-1983, La Valtellina durante il dominio grigione 1512-1797, ricorda un processo chiavennasco contro i bruchi, p. 56.
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realtà è ben impietosamente diversa dalla gentile storia della dama della Sensitiva del poeta inglese Shelley, la quale, adagiati gli insetti nocivi in un bel cesto indiano, tra fiori e fresche erbe, li porta lontano dal giardino, «whose intent,/although they did ill, was innocent». Ma, in questa prospettiva, le testimonianze più significative, almeno per la mia sensibilità, sono quelle che documentano le violenze della nostra sulle altre specie per motivi di divertimento o puro capriccio. Mi piace citare i Carmina burana, la celebre raccolta di canti goliardici medioevali: un cigno orrendamente abbrustolito lamenta la sua sorte vedendo avvicinarsi i denti dei commensali: «Un tempo abitavo il lago ...». E ancora: «Miser, miser!/modo niger/et ustus fortiter». È un’immagine veramente potente, che rammenta quadri danteschi: i dannati, la loro disperazione impotente, la nostalgia per i tempi felici. È soprattutto un’immagine che capovolge completamente il punto di vista usuale, mettendo il divoratore dal punto di vista del divorato. Punto di vista usuale, dicevo: non è forse anche il principe Sigfrido, eroe positivo del balletto “Il lago dei cigni”, un cacciatore di questi elegantissimi uccelli 12? Ritroviamo puntualmente il nostro infelice volatile, in compagnia di altri due disgraziati fratelli e di oche belle grasse, probabilmente impinguate con la barbara tecnica dell’immobilità e dell’ingozzamento forzati, imbandito su una pantagruelica tavola curtense, descritta in un documento sforzesco. Il loro simulacro ci viene incontro con quello di innumerevoli altri animali, vitelli, capretti, cinghiali, molti dei quali interi. Va da sé che essi sono tutti agghindati per essere grati non solo al palato, ma anche alla vista dei raffinati signori: «Cigni tri vestiti cum sue pelle et ornati de oro cum suoi motti ...» 13. Non meraviglia certo l’ingordigia e la futilità dei cortigiani rinascimentali, stupisce piuttosto il totale ribaltamento della prospettiva antropocentrica nei Carmina burana, e ciò, nonostante esso si collochi, va detto, entro un contesto simboleggiante le umane vicende della vita e della morte, della fortuna e della sventura. Ma non solo per nutrirsene l’uomo fa violenza agli animali e anche di ciò possiamo trovare abbondanti tracce In proposito qualche rapsodica riflessione. Il cigno compare sovente nella favolistica nordica e mitteleuropea come protagonista di struggenti vicende esistenziali e di incantesimi metamorfici; la sua figura assume talvolta carattere proverbiale: il suo candore, il suo canto di morte, la leggiadria del suo volo. Esso sembra veicolare le nostre aspirazioni e i nostri sensi di colpa. È così che l’emblematico uccello diviene ispiratore di tante creazioni artistiche: il cigno del “Lohengrin” e quello morente di Saint-Saëns, da cui il languido assolo di danza, il lago notturno, sfondo del celebre ballet blanc, e i cigni delle fiabe di Andersen. 13 Il documento è trascritto in Ludovico il Moro. La sua città e la sua corte (1480-1499), catalogo della mostra documentaria omonima allestita presso l’AS MI, Archivio di Stato di Milano, 1993, pp. 171-173. Il cibo nei suoi molteplici risvolti fantasmatici è tematizzato in P. MELDINI, Le pentole del diavolo. Cibo e eros, violenza e corruzione. Milano, Camunia, 1989. 12
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negli archivi. Un solo emblematico esempio. Un disegno sottoscritto da Luigi Canonica e Giuseppe Zanoia, steso nel pieno dell’età napoleonica, intorno al 1809, ci rappresenta il progetto di un vasto impianto, a metà tra parco e museo a cielo aperto, dove sono previsti un “serraglio” per gli uccelli dei climi caldi e, testuale, le “carceri” per le fiere 14. Una qualche nota di discordante sollecitudine nei confronti di quelli che Paolo VI chiamò con S. Francesco, se non vado errata, i nostri fratelli minori, possiamo pur tuttavia trovare presso l’Archivio di Stato di Milano in alcune cartelle di Gabinetto di Prefettura, Serie I. Da esse ricaviamo preziose informazioni sulle prime società zoofile lombarde, tra gli anni ’10 e gli anni ’30 del XX secolo, di impostazione protezionista, vegetariana, antivivisezionista 15. Movimenti, ahimè, come sovente accade ai gruppi minoritari, talvolta rissosi e ideologicamente intolleranti. Mi si consenta a questo proposito una piccola digressione; non potrò infatti studiare a fondo personalmente queste carte, come tanto avrei voluto, a motivo del mio distacco dall’Archivio di Stato di Milano e dallo stesso capoluogo lombardo, ma spero vivamente che qualcun’altro prosegua l’indagine. Ad un primo sguardo d’insieme, emerge come, accanto a filoni d’ispirazione proto-animalista, cioè di sincero interesse per la condizione e la sorte degli animali non umani, si affermino posizioni sfocate e compromissorie: ne è un esempio la confusione tra l’aspetto zoofilo e zootecnico. Emblematico in tal senso è l’assunto secondo cui una maggiore considerazione per gli animali nell’allevamento incrementa la ricchezza, nel mentre la cura dei cavalli da guerra reca beneficio all’erario. Per non parlare della schizofrenia di taluni movimenti che intendono addirittura trarre proventi da spettacoli in cui lavorano gli animali e persino da quell’incivile divertimento che è il tiro a volo. Sul tutto sembra di scorgere il tentativo del Fascismo, ma è un’istanza che proviene sovente dagli stessi associati, di inquadrare i movimenti zoofili nel regime: una corretta conduzione degli animali, ad esempio quelli da tiro, non può che produrre immagini di decoro ed ordine sociale, e ancora, la cura dei capi di bestiame è sicuramente funzionale al buon rendimento. Non sembrano mancare considerazioni di ordine pedagogico: l’educazione al rispetto degli animali ingenera buone disposizioni d’animo nei fanciulli. Insomma, sembra di poter affermare che la considerazione dell’animale è tutta e soltanto in funzione della collettività umana. Non a caso ci sembra di capire dalla lettura di questi documenti che il Fascismo, che pur guardava con un occhio di simpatia ai movimenti naturisti, e persino vegetariani, AS MI, Fondi camerali, parte moderna, cart. 46. Il documento è citato in M. LA ROSA, L’albero della libertà ... , cit. 15 Cartt. 379, 380, 381, 422. 14
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come espressione di un ideale di vita parsimonioso e spartano, fu fortemente avverso alla zoofilia di marca inglese, fondata com’era sul riconoscimento dell’altro e sulla pietà per l’essere indifeso, tacciata da sentimentalismo da donnette isteriche. E non a caso nel 1931 la presa di posizione dell’autorità è decisa e severa, seppure per certi versi comprensibile, di fronte alla propaganda anti-vaccino per le truppe in Africa orientale, da parte di un opuscolo antivivisezionista Pietà e giustizia 16. Siamo dunque ben lontani dall’attuale consapevolezza animalista dell’australiano Singer o dell’americano Regan, che, pur su basi filosofiche diverse, fondano la loro ideologia sul valore in sé dell’animale non umano, sulla sua capacità di soffrire, sul suo essere persona, giungendo a parlare per esso di ciò che per secoli è stato esclusivo appannaggio degli uomini: l’essere depositario di diritti 17. Un punto di vista di accomunamento e fratellanza che in Occidente, a differenza di quanto riscontriamo in grandi correnti del pensiero orientale, come il buddismo, è sicuramente minoritario, prerogativa di qualche “anima bella” come il poeta Shelley, di qualche esile filone culturale di impostazione francescana, ereticale o anarchica, o di talune non predominanti posizioni filosofiche, come avviene nell’ambito dell’utilitarismo di Stuart Mill; e come non citare in questo contesto i due nobili contributi tolstoiani Il primo gradino, saggio sull’etica vegetariana, e Contro la caccia? 18 AS MI, Gabinetto di Prefettura, Serie I, cart. 379. P. SINGER, Liberazione animale. Milano, Mondadori, 1991; P. SINGER (a cura di), In difesa degli animali, Roma, Lucarini, 1987; T. REGAN, I diritti animali. Milano, Garzanti, 1990. In Italia ha affrontato la problematica animalista S. CASTIGNONE, che ha curato il volume I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche. Bologna, Il Mulino, 1985. A tematiche animaliste è dedicata anche «Etica e animali», rivista edita a Milano. 18 A partire dagli anni ’70, tuttavia, le problematiche concernenti il rapporto dell’uomo con gli animali non umani, e le relative implicanze etiche, non identificabili tout court con quelle ecologiche, ancorché ad esse connesse, hanno assunto sempre maggiore rilievo nel dibattito culturale e nello stesso sentire collettivo. Si vedano a questo proposito i lavori citati alla nota 18. Sono così sorte in particolare in America, ma anche in Europa, diverse associazioni animaliste ed è fiorita una vivace pubblicistica, a carattere periodico o saggistico. A puro titolo di esempio, si rammentano alcuni interventi prodottisi in Italia in campo cattolico. Tra questi, i tentativi di BRUNA D’AGUÌ di una lettura biblica meno antropocentrica rispetto a quella usuale: Animali “mea culpa”. Gli animali nella dimensione divina. Genesi. Roma, Tipolitografia Editrice Sallustiana, s.d.; Ma, in principio, non fu così (Gli animali nella dimensione divina. Nuovo testamento). Roma, Tipolitografia Editrice Sallustiana, 1986. E ancora: N. FABBRETTI, Caro uomo. Lettere degli animali. Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni Paoline, 1988; M. CANCIANI, Nell’arca di Noè. Religioni e animali. Vigodarzere (Padova), Edizioni Carroccio, 1990. Non più che un cenno, in questa sede, alla portata in campo scientifico del mancato affermarsi in Occidente del punto di vista della considerazione interspecifica. La concezione meccanicistica di stampo cartesia16
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Ma nelle cartelle che ho esaminato non troviamo soltanto questa pur compromissoria buona disposizione per gli animali, ma anche il solito campionario degli orrori, come l’accecamento di piccioni e il tiro al passero. Tristissimo tra tutti, l’episodio dei due tori massacrati all’Arena di Milano – così un laconico bollettino della Questura – davanti a duemila persone il 1° luglio del ’23, in barba alla legge 611/1913, che vietava, e a quanto mi risulta vieta ancor oggi, spettacoli che comportino strazio di animali, e ad un articolo del codice penale. Il tutto dopo un penoso tira e molla per portare sotto i nostri cieli uno spettacolo tanto barbaro quanto estraneo alla nostra cultura 19. A noi, dopo tanti anni, non resta che rallegrarci che il degno intrattenimento non abbia attecchito nella cerchia dei navigli e che il cielo lombardo possa stendersi ancora sull’Arena bello, quando è bello, e soprattutto pacifico. Ma proprio tra queste carte a volte drammatiche troviamo pure qualcosa di cui sorridere. Un’anonima grafia, probabilmente femminile, indirizza al prefetto di Milano, il 25 maggio del 1928, un accorato appello perché i «poveri piccioni non siano maltrattati» e non si faccia mancare loro il cibo. Le povere bestiole «intirizzit[e] dal freddo, dalla fame e pauros[e]», fanno proprio pietà e sembrano cercare l’aiuto dei loro protettori 20. Ed io, a costo di essere considerata, come la vecchietta inglese, un’inguaribile sentimentalista, rassegnata ai tanti accidenti che mi vorranno lanciare le Soprintendenze per i beni architettonici, voglio chiudere queste note associandomi a questa voce gentile. Anche così, il chiuso mondo delle carte d’archivio ci parla, per il tramite di quanto più umano c’è, la scrittura, con le sue mille diverse e contraddittorie voci, dell’aperto mondo della natura.
no prevalsa nella biologia è inevitabilmente sfociata nella sperimentazione animale, praticata già dai dissettori secenteschi e sistematizzata dal francese Claude Bernard nell’Ottocento. Senza voler entrare nel merito dell’importanza delle acquisizioni scientifiche dovute all’uso dell’animale come oggetto da laboratorio, “strumento animato” per parafrasare Aristotele, mi piace citare il lavoro di due classici oppositori della sperimentazione animale, i quali adducono diverse e rilevanti motivazioni scientifiche al loro rifiuto: significative, in particolare, quelle riguardanti la non validità dell’animale come modello sperimentale rispetto all’organismo umano: H. RUESCH, Imperatrice nuda, nuova edizione ampliata con Una piccola storia editoriale, Roma, Civis, 1989 (precedenti edizioni italiane: Rizzoli, 1976 e Garzanti, 1977); P. CROCE, Vivisezione o scienza. Una scelta. Firenze, Movimento nazionale ecologico UNA, 1988. Al di là delle considerazioni scientifiche, resta comunque l’ineludibile problema delle valutazioni morali relative ad una pratica che infligge sofferenze, talvolta atroci, ad altri esseri senzienti. 19 AS MI, Gabinetto di Prefettura, Serie I, cart. 422. 20 AS MI, Gabinetto di Prefettura, Serie I, cart.379.
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Carte d’archivio e memorie di vita vissuta
Vorrei iniziare questa mia breve relazione ricordando le parole pronunciate il 4 maggio del 1958 dall’ex presidente della Repubblica prof. Luigi Einaudi e dal prof. Pasquale Villani in occasione dell’inaugurazione del Centro Culturale dell’Archivio di Stato di Salerno, di cui è rimasta la memoria in un opuscolo pubblicato per l’occasione 1. Il prof. Einaudi, nella sua lezione dal titolo Ricordi di archivio di uno studioso, ad un certo punto dice: «nell’Archivio di Stato di Salerno – a quanto apprendo dal libro del Cassese 2 – sono conservate grosse serie di protocolli notarili per periodi molto lunghi. Credo che il loro studio unitamente a quello dei libri catastali possa dare risultati notevoli» 3. Lo stesso concetto fu ribadito dal prof. Pasquale Villani che, nella sua relazione sulle Lotte per l’individualismo agrario in un comune del Mezzogiorno nel secolo XVIII, riguardante il mio paese di origine, Eboli, metteva in risalto l’importanza degli studi di carattere economico su fonti come i catasti e i protocolli notarili, che «finalmente venivano tratti dall’oblio» 4. Colpito da queste affermazioni e mosso più che altro dalla curiosità, con il supporto di due esperti ed anziani colleghi e della disponibilità nei miei riguardi del direttore di allora, iniziai ad “esplorare” i protocolli notarili del mio paese. Nel momento in cui mi resi conto che effettivamente questa fonte era una delle più importanti per conoscere la società locale nei suoi vari aspetti, la curiosità si trasformò in passione, tanto che decisi di “battere a tappeto” tutti i protocolli notarili di Eboli. Quando abbiamo deciso di organizzare una mostra ed un convegno sugli animali, avevo già a disposizione sull’argomento una ricca messe di appunti “notarili”, raccolti 1
L’attività del Centro culturale, Pubblicazioni dell’Archivio di Stato di Salerno, V, Salerno 1958. L. CASSESE (a cura di), Guida storica dell’Archivio di Stato di Salerno, Salerno, Tip. G. Reggiani, 1957. 3 L’attività del Centro culturale, cit., p. 16. 4 Ibid, p. 24.
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nel corso degli anni. Questi documenti forniscono preziose testimonianze sulla presenza di animali, sia selvatici che da allevamento e da lavoro, su un territorio abbastanza esteso come la Piana de Sele e dell’incidenza che alcuni di essi hanno avuto sullo sviluppo di questo territorio, in funzione del loro utilizzo sia per l’alimentazione, sia per il lavoro dei campi, sia per il trasporto di prodotti come il legname proveniente dal taglio degli innumerevoli boschi di frassino, ontano e querce, che abbondavano nella zona. La lettura degli atti mi ha riportato alla mente le esperienze personali avute con alcuni di questi animali, in particolare con i muli e le bufale. Ho avuto occasione di conoscere bene i primi durante il servizio militare, svolto nelle truppe alpine, e nel corso di frequenti passeggiate sui monti Picentini. Ho avuto invece contatti con le bufale in alcune fasi della mia vita lavorativa. I muli, che a volte superavano i cinque quintali di peso, dotati di una forza e di una resistenza eccezionali, erano capaci di trasportare per ore e con disinvoltura su sentieri tortuosi e con forte pendenza carichi di quasi due quintali, ma quello che più colpiva era il rapporto di amicizia che man mano s’instaurava con il conducente, l’alpino a cui veniva affidato il mulo, che durante le marce, nei momenti di maggior fatica ed in condizioni atmosferiche talora proibitive, sussurrava quasi ininterrottamente all’orecchio dell’animale, chiamandolo per nome, parole d’incoraggiamento; la stessa cosa ancora oggi fanno i boscaioli, quando il mulo trasporta la legna dal luogo di carico a quello di raccolta, che si trova più a valle, zigzagando per sentieri ripidissimi da lui stesso tracciati con il ripetuto calpestio del terreno, e, una volta scaricata la legna, risale da solo per il medesimo sentiero, chiamato dal boscaiolo. Ma il contributo più importante che il mulo ha dato all’uomo è stato quello del suo utilizzo, durante le varie carestie, per il trasporto a dorso di derrate alimentari, soprattutto grano, da zone lontane e in tempi relativamente brevi, percorrendo vecchie “mulattiere” o sentieri per la transumanza, che erano vere e proprie scorciatoie rispetto alle strade, in modo da ridurre le ore di percorrenza. Durante la carestia del 1590, ad esempio, il procuratore del duca di Eboli, per consentire l’approvvigionamento della popolazione, stipulò un contratto con due mulattieri per far «carriare con loro muli tomola sexcento de grano dallo castello dello Postiglione dentro la terra de Eboli» 5. Il bufalo è l’altro animale che ho avuto modo di conoscere, sia per motivi di lavoro, sia grazie ad una lunga tradizione familiare di impegno nell’attività di trasformazione del latte, iniziata dai miei antenati e che tuttora viene portata avanti. Durante il mio lavoro di raccoglitore di latte, svolto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ho avuto modo, giungendo alle prime luci dell’alba nella masseria di bufale al momento della 5
AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2553, a. 1590, notaio Giovan Vincenzo di Diera di Eboli.
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mungitura, di assistere ad un antico quanto affascinante rituale, che ancora oggi in alcune rarissime masserie viene praticato, cioè la chiama delle bufale per la mungitura. Ed è proprio a quest’esperienza giovanile che è andato il mio pensiero nel leggere l’Inventario d’animali bufalini consegnati dall’Eccellentissimo Duca delle Serre alli Signori Dottori Domenico Antonio e Gioacchino de Galardo e Giovanni Battista de Cristofaro 6, redatto il 18 febbraio 1701, che riporta con pignoleria i pittoreschi nomi delle bufale, la cui conoscenza era indispensabile per la gestione della mandria. Il massaro di bufale, che aveva il compito di coordinare tutte le attività inerenti al buon funzionamento della masseria, al momento della mungitura, che avveniva di solito sul far del giorno, assistito dai bufalari, chiamava le bufale con il nome che era stato loro assegnato, ripetendolo come una nenia; intanto dal branco, che nel frattempo si era radunato nel procoio, un recinto prossimo al luogo della mungitura, si staccava la bufala chiamata per essere munta. Il massaro faceva attenzione a non svuotarle interamente le mammelle, poiché il latte rimasto doveva servire per la poppata del vitello. Questo animale, che ha trovato nella Piana del Sele un habitat idoneo alle sue caratteristiche, ha favorito lo sviluppo di una fiorente attività, legata alla trasformazione del suo latte, che ancora oggi resta una delle maggiori risorse economiche di questa zona. Attività plurisecolare, suffragata da un imponente numero di documenti che quasi ininterrottamente si susseguono dal XVI secolo in poi e che riguardano contratti di fitto di masserie di bufale, con annessi inventari, nonché atti di acquisto di prodotti caseari tipici della zona, quali le provole affumicate, i butirri, i casicavalli e il caso-ricotta (nomi tramandatici dalle antiche scritture, ma ancora oggi in uso), che venivano portati a Salerno con carri e di lì a Napoli con imbarcazioni. Di altri animali, di cui vi è testimonianza nelle carte d’Archivio, non è possibile avere alcuna esperienza diretta, in quanto estinti. È questo il caso dei daini, così numerosi nella reale tenuta di Persano nella seconda metà del Settecento da sconfinare nelle terre limitrofe, distruggendo i pascoli e provocando la morte per fame di vari animali di allevamento 7. Ed ancora: alcuni toponimi – Cervati, Cervialto, Valle del Tasso, Tempa dello Storione, ecc. – rintracciati sia nei rogiti notarili che nei catasti onciario e murattiano, lasciano intuire la presenza di una fauna di cui ormai non vi è più traccia.
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AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2637, a. 1701, notaio Rocco de Antola di Eboli. 7 AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2337, a. 1773, notaio Pasquale La Francesca di Eboli.
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Appendice documentaria Eboli, 9 febbraio 1533 Il nobile Cicco de Forgione di Eboli protesta contro Jesomundo de Stefanino, doganiere della terra di Eboli, per il maltrattamento di un cavallo. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2515, a. 1533, notaio Giovanni Pietro de Forgione di Eboli. Protestatio cum requisitione facta per nobilem Cicchum de Forgiono de Ebolo, Jesomundo de Stefanino de dicta terra, dohanerio dohanam magnam terre Eboli presenti etc. et contra alios eidem socios absentes tamquam presentes (…) Die nono mensis februarij VI indictione 1533 Eboli coram Macteus de Forgione de Ebolo ad contractus judice: presentibus domno Joanne Donato de Florencia, Marco Antonio Cesario, domno Joanne Paulo de Salerno et Petro de Juliano de Ebolo testibus. (...) predicto die in nostri presentia personaliter constitutus dictus Cicchus protestat (…) contra dictum Jesomundum presentem etc. et alios eidem socios absentes tamquam presentes, in vulgari sermone modo infrascripto videlicet: magnifico Jesomundo vuj sapiti como l’altro dj mi consignastino uno cavallo scaduto alla dohana che de vuj dicitj de pilo liardo con pacto che jo li havesse facto lle spese et (...), et de pò quoncumque venia lo patrone ingello havissimo restituito al decto patrone et havendo morto dicto cavallo jo non fosse stato tenuto in cosa alcuna: et perché jo ho gubernato ben decto cavallo, et al presente li venuta una infirmità de modo ch’è cascato in terra et non se po’ ergere et stà stiso in piedi la Starcza de Eboli per tanto jo vi faczo intendere como decto cavallo stà stiso in decto loco et stà multo triste che villo debiatj andare ad piglyare et gubernarvilo ad modo vostro che Jo adesso non minde posso fruire secondo li dectj pactj, non intendo con decto cavallo intorno meterminenge più: Et accascando alcuna cosa in decto cavallo non sia impotato ad me et cossi vi notifico et requedo omni meliori modo et presente decto Jesomundo et dicente che lo decto Cicho li debia dare lo dicto cavallo sano como li lo ho dato perché ipso lo ha fatigato et carriato sterpuni et postoli piso insopportabile per questo si lo dicto cavallo sta male è per causa et defetto vostro, presente dicto Cicho et dicente ut supra: omnibus omnibus et eorum singulis etc. et requisiverunt nos et unde ad futuram rej memoria etc.
Eboli, 28 gennaio 1590 Bartolomeo de Gugliuctio e Cataldo Ferraro di Eboli promettono a don Giovanni Paolo Musso, procuratore del duca di Eboli, di trasportare con i muli, per tutto il mese di febbraio, seicento tomoli di grano dal castello di Postiglione ad Eboli. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2553, a. 1590, notaio Giovan Vincenzo di Diera di Eboli. Pro Excellente domno Joanne Paulo Musso agente et procuratore illustrissimi domni Ducis Eboli cum Bartolomeo de Gugliuctio, et Cataldo Ferraro de Ebolo in solidum. Die vigesimo octavo mensis januarii 3^ inditione 1590, Eboli. Coram Joanne Antonio Cito Iudice, presentibus magnificus domnus Lutio de Novellis, Bartolomeo de Abinente, Jacopo Anto-
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nio de Saccho, Petro de (...) et Joanne Leunardo de Petrutiis de Ebolo testibus. In predicto die in nostri presentia personaliter constituti predicti Bartolomeus, et Cataldus, sponte coram nobis cum meliori via et non vi et promisit insolidi sollepnis stipulatione dicto domno Joanne Paulo quo supra nominato presentes, de carriare con loro muli tomola sexcento de grano dallo castello dello Postiglione dentro la terra de Eboli et propri verso lo magazeno (...) de Santo Petro, et inqumenciateno da domani ad carriar et non levar mano itaque per llo mese de febraro proximo futuro hanno complite de carriar tutte lle preditte tomola seicento et versa vice predictus domnus Joannes Paulus ut supra nominato sponte promisit dare eiusdem Bartolomeo et Cataldo per la carricatura ad ragione de grana dece et mezo per qualsivoglia tomola dì per dì, servendo pagando, itachè complite faranno de carriar dette tomola secento sia integralmente ad essi Batolomeo et Cataldo sotesfarlo de detta carriatura, item fuit actum che manchandono ditti Bartolomeo et Cataldo de carriar detta quantità de grano allo tempo preditto che sia licito a lo detto Joanne Paulo quella de far carriar da altri ...
Eboli, 31 luglio 1614 Il magnifico Giovanni Giacomo de Lustria, maestro maniscalco di Eboli, dichiara di aver visitato un cavallo stornello di Decio Corcione, che presentava tracce di maltrattamenti e che era tutto strangosciato, raccomandando, per evitare la morte dell’animale, di curarlo per molti giorni con medicamenti necessari e riposo assoluto. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1614, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli Declaratio ad futuram rei memoriam fatta per magnificum Joannem Iacobum de Lustria, magistrum maniscalcum, de Ebolo ad requisitionem Joannis Corcione dittae terrae presenti. Die ultimo mensis julii 1614 Eboli coram notario Petro Vassallo de Ebolo ad contractus judice, presentibus Nicolao Antonio, et U.I.D. Jacobo Antonio de Jacobutiis, et Josephi de Campanea testibus. In predicto die, in nostri presentia, personalter constitus magnificus Joannes Iacobus de Lustria, magister maniscalcus, sponte coram nobis, et in presentia supradittis Joannis declaravit cum iuramento modo infrascripto videlicet: Come hiersera trenta del presente lo preditto Gianni li portò uno suo cavallo stornello, con llo merco de Decio Corcione, molto maltrattato con una presa sotto lli regnuni alla banna destra, tutto strangosciato, et con uno ciamoiro, quale disse che li era stato allora ritornato dallo nepote de Giuseppe Basile, mastro de atti della Corte d’Evoli; al quale Gioseppe disse esso Gioanni che ce lo havea allegato per dui di, et dopoi ci lo ha mandato cinque di dopoi, quale cavallo passa pericolo morire, che non si può faticare si bene sanasse per molti di, come per experienza si vederà, et bisogna darli medicamenti necessari, et cossì cum juramento declara omni meliori modo etc., quibus omnibus etc. et requisivit nos etc. unde.
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Eboli, 10 ottobre 1616 Daniele e Giovanni Ferraro di Eboli vendono a Giacomo de Arminia di Eboli, che acquista anche a nome dei fratelli Tommaso, Giuseppe e Carlo, una masseria di pecore composta da 1640 capi. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1616, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli Pro Jacobo de Arminia de Eboli stipulante tam pro se, pro nomine et pro parte Thome, et Josephi de Arminio eius fratrum Carlum pro quibus de rato promisit. Cum Daniele et Joanne Ferraro fratribus carnalibus dicte terre in solidum presentibus. Eodem retrodetto die decimo mensis ottobris 1616 Eboli coram Michaele delle Donne de Ebolo ad contractum iudice, presentibus Donato de Cristofaro, Joanne Paulo Musso, Berardino, Vincentio, et Andrea Sciò Sciò, Marco Pisano, Francesco Antonio Carrario, Vincentio Marra, Gaspare Sproviero, et Francesco Sciò Sciò dictae terrae testibus. De predicto die in nostri presentia personaliter constituti supradicti Danieli, et Joannes fratres carnales sponte coram nobis non vi devenerunt, et confessi fuerunt se ipsos in solidi teneri, fare (…) dari debere ditto Jacobo presente ducatos mille ducentum triginta de carolenis, et sunt reciviti pro vendictione, alienactione et consignatione medietatis massarie pecudum ientilium ipsius Iacobi, et in unum consistentis in pecudibus numero mille sexcentum quatraginta inter mares, et feminas parvas et magnas, nec non medietatis omnium canium et stiliorum dicte massarie pecudum preter de lo caccavo pro comuni et indiviso cum alia medietate cum ipsis Iacobo et fratribus ad rajonem carolenorum quindecim pro quolibet pecuda una conta tutte, quam medietatem massarie pecudum ientilium, canuum, et stiliorom ditte massarie uti inventariata (…)
Eboli, 11 marzo 1617 Andrea Gibone di Eboli promette a Francesco de Cheche di Pettorano, provincia dell’Aquila, di trasportare con quattro carri tirati da sedici buoi duecento canne di legno di ontano e frassino dal luogo detto Volta di Corrado fino alla marina. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2591, a. 1617, notaio Giuseppe Vassallo di Eboli Promissio facta per Andreas Gibone de Ebolo, Francisco de Checha de Pettorano presenti. Die undecimo mensis martii 1617 Eboli coram Petro Vassallo de Ebolo ad contractus judice, presentibus Joanne Vincentio de Rinaldo, Horatio de Malena, Joanne Antonio Corcione, Scipione de Clario, et Vincentio Morra dicte terre testibus. Et preditto die in nostri presentia personaliter constitutus supradictus Andreas coram nobis non vi promisit et convenerit predicto Francesco presenti, far tirare dalli suoi garzoni con quattro carra et sidici bovi canne docento de legne de altano et flasso dal porto della Volta de Corrado, et portarle alla marina a carricaturo de barche, quale legne portate serando nel loco predicto della marina se habiano da accandare alla predicta marina per li accandatori della Regia Zecha ad spese de esso Francisco con chè detta accandatura habbia da essere cinque palmi da avante, et da dietro quanto corre, il tutto per preczo, et a raggione de grana venti cinque la canna de dette legne pronte alla predicta marina ut supra, et lo preczo che pigliarà detto tiro promette detto Francesco dare, et
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pagare a detto Andrea, servendo pagando, ita che finito serà de fare detto tiro habbia da essere detto Andrea integramente pagato, et sotisfacto intro la terra d’Evoli in pace (…) del quale tiro detto Andrea declara averne receuta da detto Francesco docati quindeci (…) et mancando detto Andrea de fare detto tiro nelli tempi che sia lecito a detto Francesco pigliar altri a far fare lo detto tiro et servitio a tutti danni, spese et interesse de esso Andrea (…) quale tiro promette detto Andrea incominciare a farlo fare dal primo de aprile proximo, et non levar mano insino a tanto che con effetto non serando finite de cacciare, ita che per tutto detto mese de aprile siano dette legne finite de cacciare nel loco predetto della marina a carricaturo de barcha (…)
Eboli, 22 novembre 1618 Francesco di Nella protesta contro il capitano Annibale de la Calce per aver provocato la caduta in una pozzanghera, colma d’acqua, di un suo cavallo nel luogo detto Scorziello di Eboli. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2605, a. 1618, notaio Francesco Ritio di Eboli Requisitio cum protestatione fatta per Franciscus de Nella de Ebulo contra capitaneus Anibalem de la Calce absentem. Die vigesimo secundo novembris 1618, Eboli coram Ioanne Antonio Vellico ad contractus iudice, presentibus Donato Antonio de Cenna, Petro Milone, Petro Caloyra, et Cesare Vellico ditte terre testibus. Verba requisitionis et protestationis sunt: Capitaneo Aniballe perchè come sapete mercodì tridici del presente ve allogai il mio cavallo per andare a Santo Nicola territorio d’Evoli per grana venticinque, et volendono andare contro il patto all’Acquevivo passastivo per lo Scorziello, dove volendo bere il cavallo essendovo sopra di esso, si fangò, et entrò tanto dentro dello fangho che s’impollò a tempo che lo potevino fare tornare indietro con la briglia che teneva in mano per il che vi fu necessario scendere da detto cavallo, et fare tirare detto cavallo da dentro detto fangho da li bovi, quale tirato fora di detto fangho per lo travaglio che hebbe et freddo che pigliò per detta acqua, et fangho dove era impollato, per revenirlo per stare morto li facestino fare fuoco et tutto se scaldò alla schena et avendolo reportato al mastro per farlo governare da dì in dì va peggiorando et dubito che non se mora per la causa predetta pertanto ve requedo che dobbiate fare governare a vostre spese cavallo, protestandone contro di voi che stà detto cavallo a vostro risico e pericolo et del prezzo de detto cavallo quale me costò docati trentasei una con tutti altri danni (…) Il Capitano Aniballe delli Calci replica e dice che non è verosimile che esso come prattico che ha tenuto cavalli suoi propri alla stalla, et è andato in volta con il cavallo de detto Francesco havesso volute entrare in fangho per sommergere, et derropare detto cavallo mentre esso era di sopra, che tanto quanto havrebbe fatto, quanto havesse voluto variare la vita sua, che mentre detto cavallo era molto retraziato, assetato, et maltrattato vedendo l’acqua subito se diede a detta acqua, et havendo visto esso replicante che detto cavallo dentro dett’acqua avesse potuto patere usò li atti di carità in fare ogni diligenza et farlo uscire fuora, con farli fare fuoco et governarlo di mano propria et altri ben trattamenti fatti (…)
Eboli, 18 febbraio 1701 Don Giacomo de Rossi, duca di Serre, consegna ai magnifici U.I.D (utriusque iuris docto-
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res) Domenico Antonio e Gioacchino de Galardo e Giovanni Battista de Cristofaro di Eboli, una masseria, posta nel luogo detto Persano, composta di 125 bufale figliate, 113 bufale sterpe [bufale che non avevano ancora avuto figli], 64 genche terzegne [bufale di tre anni], 103 annutoli mascoli e femine [vitellini fino a tre anni maschi e femmine] e 152 assiccaticci mascoli e femine [vitelli svezzati maschi e femmine], il tutto per un valore di 7692 ducati, 2 tarì e 10 grana. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2637, a. 1701, notaio Rocco de Antola di Eboli Consignatio masserie pro U.I.D. Joanne Baptista Cristofaro, et Dominico Antonio, ac clerico Joachim Galardo ab Excellentissimo domno Duce Serrarum. Die decima octava mensis februari, none inditione millesimo septincentesimo primo in terra Serrarum, in nostri presentia constitutus Excellentissimus domnus don Iacobus de Rossi, Dux Serrarum agens ad infrascripta omnia pro se, suisque heredibus, et successoribus, ex una parte. Et magnifici U.I.D. Dominicus Antonius Galardo, Joachim, et U.I.D. Joanne Baptista de Christofaro terre Eboli, agentes similiter, et intervenientes ad infrascripta omnia, pro se ipsis, et quolibet ipsorum insolidum, eorumque heredibus, et successoribus ex parte altera. Prefate partes, et quolibet ipsarum sponte asseruerunt pariter coram nobis, sub die quarto mensis aprilis elapsi anni 1700 fuisse inter ipsas partes stipulatum instrumentum conventionis manu magnifici notarii Caroli de Blasio de Neapoli, tenori sequentis, inseretur. Et quia inter alia in detto preinteso instrumento contenta fecit conventionem in vulgari sermone, pro faciliori facti intelligentia: che detto signor Duca havesse dovuto consegnare, fare consegnare la sopradetta massaria di bufale descritta in detto preinteso istrumento a detti dottor Domenico Antonio, Gioacchimo, e dottor Giovanni Battista alli principi di novembre di detto prossimo anno nelli medesimi territori del Feudo di Persano, et a tempo di detta consegna s’havesse dovuto per futura caotela d’ambe le parti, fare prima l’inventario di tutte le quantità, e qualità d’animali bufalini, et ogni altra cosa che detti compratori riceveranno e poi nell’istesso atto obligarsi li detti compratori in forma valida per pubblico instrumento al pagamento de lo prezzo di detti animali (…) il prezzo delli suddetti animali ascende alla somma di di ducati settemila seicento novantadue, tarì due, e grana dieci (…) Inventario d’animali bufalini consegnati dall’Eccellentissimo Duca delle Serre alli Signori Dottori Domenico Antonio e Gioacchino de Galardo e Giovanni Battista de Cristofaro videlicet: Pellegrina, Aurecchie pennule, Mont’a cavallo, Bellavista, Mansolella, Cafiola, Paesana, Spetiale, Paganella, Mariola, Cannafilata, Fiore de Puglia, Tavernara, Calabrese, Apre ca’ ti è utile, Sopra a lo banco, Vottafuoco, Purposella, Cima di viento, Marinella, Bona sciorta, Belfatta, Viene matino, Coratina, Famme carizzi, Portaguadagno, Spacca la mira, Annuccia, Primoteca, Cotrumella, Piccerella, Scrivana, Jamo allo scanno, Bellorisguardo, Famme no piacere, Tocca la cascia, Quatragnola, Cannafilata, Prima dell’altri, Auza lo pede, Mitte la sella, Leccapiatti, Polisena, Negruccia, Carmosina, Bona sciorta, Nuargentata, Sciacqualatte chena, Colerica, Bellopaese, Corcia, Terragnola, Zainetta, Palommella, Tribunale, Parlavascio, Cappuccina, Carrica la nave, Belluccia, Arranca la spada, Margarita, Caratenuta, Acqua fresca, Viente di terra, Malavernata, Scavarella, Fa la cucina, Fà la nzalata, Venetia, Poche parole, Alza la testa, Famme luce, Carranella, Genovese, Corvina, Zenna con un
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occhio, Zappa la notte, Che vai facendo, Poco frutto, Sarachella, Nolovolere, Passannante, Costanza, Scassapantani, Verdeoliva, Piccirella, Poco penziero, Cerva, Maiorana, Soprana, Riposata, Porta l’entrate, Bellafigliola, Comanda massaro, Corno pizzuta, Fa la giustizia, Duchessa, Damme no vaso, Paga l’alagio, Cannia, Barbuta, Jancolella, Tira lo nzerto, Arma ncampagna, Aucellina, Scassa carrozza, Jamo a la guerra, Colonna, Votta e camina, Allegra, Vasciolella, Coppola, Jamo a trasire, Malacera, Selvaggiora, Occho zenta, Porta li guanti, Famme lo canto, Cornacchiola, Sottacoppa, Calantrella, Pelata, Pignatella, Passagiera, Bonafurtuna, Bella paruta, Ruffiana, Liardella, Fammel’imbasciata, Passlomare, Falconera, Sona l’arpa, Ciminera, Catarina, Barletta, Primavera, Pennacchiera, Corri in poppa, Roina, Amica de previte, Pesciacantosta, Riscignola, Ruzzulella, Basilicata, Antonella, Porta la cesta, Spatarella, Torre à mare, Futti la Vecchia, Perna, Muzzarella, Ciomma, Carluccia, Ferma li passi, Cocozzella, Dove si stata, Puttanella, Manca à tene, Fa la cartella, Fa la facenna, Siervi curti, Tolla, Gabba la mostra, Salernitana, Porta li frutti, Solarina, Tieni quando hai, Vipera, Zitella, Scampa morte, Capelluta, Apre la porta, Mezzacoda, Viene ti corca, Sprovera, Molinara, Nganna lo niglio, Aspettame all’urno, Paga la fida, Vota lo spito, Diana, Auza la pettola, Cuorno vascio, Porta lettere, Anna, Fa la moneta, Panettera, Bellapresenza, Bellapatrona, Guarnita, Jamo a la scola, Pecorella, Auza la vela, Amorosa, Allo giardino, Calamita, Consigliera, Napolitana, Locretia, Trema la terra, Biondicapilli, Zengara, Maruchella, Scopa lo varco, Cartabianca, Sierve lo mese, Signorella, Biancopietto, Lavi li panni, Vicenza, Malvasia, Antonia, Auza la voce, Chianuta, Gioca da largo, Curre la posta, Longa di schiena, Inchi la tina, Rosa, Quanto si bella, Biancopane, Sona la tromma, Vittoria, Chiusula, Fiore di spine, Curreme in chiano, Abbundanzia, Jamo a la marina, Montagnola, Teresa, Giuliozza, Laura, Cecatella, Guardam’atuorno.
Eboli, 25 luglio 1729 Berniero Verdone, massaro di bufale degli affittatori della difesa del Barrizzo, dichiara che negli anni 1728 e 1729, per la mancanza di fieno e per la grande siccità, sono morte più centinaia di animali, affetti anche dal morbo detto barbone. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2675, a. 1729, notaio Donato Sabiola di Eboli Eodem retropredicto die, vigesimo quinto mensis Iulii, septime inditionis, millesimo, septincentesimo, vigesimo nono, Eboli etc. de licentia ob festum Divi Iacobi Apostoli. Nella nostra presenza personalmente costituito Berniero Verdone di questa predetta terra d’Evoli, massaro di bufale, e presentemente alli servizi delli signori affittatori della difesa del Barrizzo, il quale spontaneamente, in presenza nostra, non per forza, e per ogni migliore via, cum giuramento tactis scripturis, ha dichiarato, et in veritatis testimonium hanno attestato, come sa benissimo che l’anno passato 1728 per le continue piogge per più mesi, e di quest’anno 1729 per le tante acque cadute dal cielo, la difesa del Barrizzo si è mantenuta sempre piena s’acqua, oltre il fiume Sele per andare sempre gonfio, l’ave inondata, così nell’anno 1728, come nel corrente anno, in modo tale, che l’erba si perdè tutta oltre della manganza del fieno, che per la seccita grande nella primavera di dett’anno 1728 non si ferno fieni per la providenza dell’animali, per le quale cose, non solamente non hanno fatte provole, ma anche sono morte più centenaia d’animali, oltre il morbo barbone, dico, barbone accaduto in detta defesa nel corrente mese di giugno, che son morti da ottanta annicchi, che per dette caose li suddetti affittatori hanno patito di danno più migliaia
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di docati, si come anche nella defesa de’ Ciuffi è accaduto il simile, così nell’anno mille, settecento vent’otto, come in quest’anno corrente, mille, settecento, ventinove mentre per dette malissimo annate, dico malissimo invernate le bufale ne meno sono venute prene per coprire il giusto numero la defesa del Barrizzo ...
Eboli, 24 febbraio 1766 Cosmo Cella, Tommaso e Francesco Buonocore e Crescenzo Chinese attestano che nel mese di gennaio, nella località Prato Grande, erano morti molti animali bufalini, della cui carne si erano appropriati numerosi cittadini di Eboli per sfamarsi nella cattiva stagione. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2689, a. 1766, notaio Biagio Elefante di Eboli Attestatum pro don Carmino Antonio Avossa à Cosma Cella, Thoma Bonocore, Francisco Bonocore et Crescentio Chinese. Die vigesima quarta mensis februari decime quarte inditionis, millesimo septincentesimo sexagesimo sexto eboli. Costituiti nella presenza nostra Cosmo Cella, Tomaso Buonocore, Francesco Buonocore, Crescenzo Chinese, cittadini della terra d’Evoli, li quali spontaneamente, in presenza nostra, non per forza, ò inganno alcuno, ma in ogni miglior modo, e via con giuramento, tacti etc., dichiarano, ed attestano, e fanno publica fede di verità e per cautela del signor don Carminantonio Avossa della città di Salerno, affittuario della Badia di San Pietro Apostolo di questa suddetta terra d’Evoli, che oggi spetta, ed appartiene alla venerabile Congregazione e Real Seminario della Sacra Famiglia di Giesù Cristo detta de’ Cinesi, eretta nella città di Napoli, qualmente essi costituiti sanno benissimo che sotto il giorno dell’undici del prossimo scorso mese di gennaro di questo corrente anno mille, settecento sessanta sei, per la publica voce, e fama, che in detto tempo correva, che nel Prato Grande, dell’Università d’Evoli, morivano molti animali bufalini del signor Carmiantonio Avossa, si portarono in essa difesa del Prato Grande, accompagnati con altri cittadini di detta terra d’Evoli, per provedersi della carne di bufala degli animali morti, e che nell’atto morivano di esso signor Avossa per li cattivi tempi, che correvano d’acqua, neve, e freddo, e gionti in essa difesa del Prato videro, e osservarono gran quantità d’animali morti trà annuvoli, ed rannicchi bufalini, che da essi costituiti à richiesta de’ foresi di detto signor Avossa aggiutorono à scorticare detti animali, morti, e trattenutosi lungo pezzo in essa difesa si providdero bastantemente della carne morticina sudetta, e nell’atto di partirsi dalla sudetta difesa giunsero altri loro paesani al numero vantaggioso, quali medesimamente aggiuntarono à scorticare detti animali, e providdero bastantemente ciascuno di essi della detta carne morticina, ed unitamente se ne ritirarono in Evoli, e dell’istesso modo accadde in più volte à fare detto viaggio in esso Prato Grande à providersi della carne sudetta ...
Eboli, 30 maggio 1770 Morte di Antonio Vecchione, calpestato da un cavallo, da lui selvaggiamente picchiato. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2691, a. 1770, notaio Biagio Elefante di Eboli
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Die trigesima mensis maij. Tertiae inditionis millesimo septingentesimo septuagesimo Eboli. Costituita nella presenza nostra Rosa Borriello della terra della Villa Pazzigno, al presente in questa città d’Evoli, moglie del fù Antonio Vecchione di detta terra, la quale spontaneamente in presenza nostra, non per forza, o inganno alcuno, ma in ogni miglior modo, e via con giuramento tactis, dichiara, attesta, e fa pubblica fede di verità, qualmente detto suo marito Antonio Vecchione essendo stato mandato da Matteo Coppola di S. Giovanni à Teduccio, commorante in questa suddetta città d’Evoli, nella terra di Moliterno per guida del suo cavallo, che portava un passegiere, che andava a detta terra di Moliterno con due matarazza, qual Coppola per le giornate, che vacava il detto Vecchione, si convenne alla ragione di carlini due al giorno, e le spese le faceva il detto passegiere, e li carlini due si pagavano da esso Coppola, che fu verso l’undici del mese di maggio cadente 1770, e giunto che fu nella taverna di Zuppino per causa, che detto cavallo dovea passare colà l’acqua di Zuppino suddetto, il cavallo predetto non volendo passare detta acqua, esso Vecchione con un buon legno nelle mani tirò molte bastonate al detto cavallo per farlo passare l’acqua suddetta, e non volendo passare detta acqua con replicate bastonate, il medesimo capricciandosi passò l’acqua predetta, ed il suddetto passegiere prima scavolcò e smontò da cavallo, e doppo caminato senza il passegiere suddetto, il quale andò a piedi, e gionto, che fù ad una scoscesa poco distante dalla suddetta taverna di Zuppino, fermò detto cavallo per far cavalcare il detto passegiere, esso Antonio disse: salite su il mio ginocchio dalla parte di dietro di esso cavallo, e nell’atto che il passegiere suddetto voleva cavalcare impavoritosi il detto cavallo per causa di dette bastonate, ed il detto Vecchione cadde su il terreno alla rovescia ed il cavallo suddetto colle ciampe di dietro dide sopra il pettine del detto Vecchione, causa per la quale il medesimo Vecchione doppo due ore se né morì, e fu portato nel casale di Terranova a sepellire, casale della terra di Sicignano, qual fatto di cose la medesima Rosa Borriello unitamente con Giovanni Coppola, figlio di detto Matteo Coppola, sotto li 27 di detto mese di maggio havendolo saputo la disgrazia del detto suo marito unitamente in essa Taverna di Zuppino per vedere tal fatto come passava, e li furono detti dalle Genti. Che colà dimoravano, ed osservato haveano la morte del detto defonto Antonio Vecchione d’esser seguita, nel modo e forma come sopra espressato, senza che il cavallo suddetto vi li avesse avuta causa alcuna. Quibus omnibus etc. unde etc. factum est. Presentibus : Regio ad contractus iudice magnifico Rosario Elefanti de Ebolo, testibus Orontio Capone, Michaele Angelo di Marino, et Berniero la Callosa dictae civitatis Eboli ad hoc.
Eboli, 18 gennaio 1771 I maniscalchi Nicola Elefanti e Salvatore Bernardo e Berniero La Porta, esperto d’animali, su incarico di don Giovanni Amedeo Ferrari, agente generale del principe Doria d’Angri, effettuano nel luogo detto Annunciata di Eboli il sezionamento di una vacca morta di proprietà del Duca e proveniente dalla Germania. I maniscalchi procedendo all’apertura del ventre dell’animale con l’ausilio di Gennaro Marano, esperto in quest’arte, notano tracce di sabbia di mare, quindi, passando ad esaminare la cistifellea, la milza e la vescica, osservano che la prima risulta talmente ingrossata da aver prodotto un travaso di fiele, la seconda è quasi putrida e la vescica è piena di sangue. Per questi motivi, alla fine di un vero e proprio consulto veterinario, deducono che la vacca, come
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è accaduto altre volte ad animali simili, sia morta per male di fiele e di milza a causa dell’ingerimento di acqua frammista a sabbia. AS SA, Protocolli notarili distretto di Salerno, b. 2691, a. 1771, notaio Biagio Elefante di Eboli Die decima octava mensis Januarii millesimo septincentesimo septuagesimo primo, Eboli, et proprie in domo ubi dicitur l’Annunciata, extra moenia dicte civitatis Eboli. A preghiere, ed istanze fatteci dal Dottor signor don Giovanni Amedeo Ferrari, Aggente generale in Evoli sudetto dell’Eccellentissimo Signor Principe d’Angri. Duca di detta Città, personalmente Noi infrascritto notaro, e giudice a contratti Vito Elefanti e testimoni specialmente chiamati all’infrascritto atto conficiendo Nicola Elefanti, Salvatore Bernardo maniscalchi, magnifico Antonio Gerardo, Berniero la Porta esperti d’animali, Domenico Genovese, Donato Giammarco, e Nicola Ardia massari di vacche, ci semo conferiti in detto luogo, ove abbiamo ritrovato una vacca recentemente morta, una proprio di quelle da poco tempo in qua la sudetta Eccellenza sua l’ha fatte venire dalla Germania, e vedendola così morta l’habiamo stimada di farla aprire, e farne la sezione à fine di riconoscerne il male per cui sia morta; Ed infatti avendo ordinato a Gennaro Marano anche presente nel presente atto, che l’havesse aperta, il medesimo a tenore dell’arte ha fatto l’apertura: Ed in primo abbiamo ritrovato il ventre in parte debilitato, ed dissottigliato, ed usando diligenza dentro l’istesso ventre l’abbiamo ritrovato ripieno di sottilissima arena di mare, indi abbiamo osservato il fiele esser quello troppo travasato, e gonfio, in maniera che a nostro giudizio poteva essere di peso sopra tre quarti di rotolo, e passando poi alla milza habbiamo ritrovata quasi putrida: E passando finalmente ad osservare la vissica l’habbiamo ritrovata piena di sangue, onde giudicamo, e diamo il nostro parere, che la vacca presente, come tutte l’altre, che sono morte dello stesso male, sia accaduta la morte per le sudette caggioni pervenutili dall’abbondanza di detta arena di mare forbita coll’acqua, come ancora giudicamo, che havendo ritrovato così gonfio il fiele, e guasta la milza sudetta habbiamo giudicato, siccome giudicamo, che la morte della sudetta vacca, ed altre morte di detto animale si accaduta per male di fiele, e di milza: E ciò per l’espertezza, ed esperienza, che Noi sudetti ne abbiamo degl’altri animali di simile specie; onde così l’abbiamo giudicato per quanto a Noi sudetti l’esperienza, e l’espertezza ci ha dimostrato in simili mali, e con giuramento tactis etc. così hanno testificato; Quibus omnibus etc. unde etc. factum est etc. Presentibus Regio ad contractum iudice magnifico Vito Elefanti de Ebolo, testibus magnifico Dottore fisico don Gerardo Landi, Sabbatho Vojaro, et Berniero Priore dicte civitatis Eboli ...
Eboli, 11 maggio 1773 Francesco de Sio, maestro maniscalco, e Antonio de Sio, allievo maniscalco, entrambi di Eboli, Gherardo Conella, maestro maniscalco di Salerno, Luca Sarno, capo chiuditore di siepi, Vito Scocozza, Francesco Antonio Barone, Biagio Paoletta, e Giuseppe Caggiano, tutti di Eboli, Matteo Cuccaro, Pietro Rizzo, Antonio Monaco e Rosario Rubano, chiuditore di siepi di Piaggine, e Giannatonio Balsamo, padrone di buoi di Eboli, dichiarano che in alcune difese di don Carminantonio Avossa di Salerno, rientranti nel miglio della circonferenza del Real Sito di Persano, nel quale era vietata la caccia,
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sconfinavano i daini del Real Sito, il cui numero era cresciuto a dismisura, che, divorando l’erba e le ghiande, avevano provocato la morte per fame di molti animali da allevamento, come bufale, mucche e cavalli. AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2337, a. 1773, notaio Pasquale La Francesca di Eboli Die undecima mensis maj millesimi septincentesimi septuagesimi terti Eboli. Costituti nella nostra presenza Francesco di Sio mastro maniscalco, ed Antonio di Sio discepolo di costui di questa suddetta città, e Gherardo Conella similmente mastro maniscalco della città di Salerno casato, e commorante in Evoli, e Luca Sarno capo chiuditore di siepi, Vito Scocozza, Francescantonio Barone, Biagio Paoletta, e Giuseppe Caggiano cittadini, e chiuditori di siepi in questa piana d’Evoli, e Matteo Cuccaro capo chiuditore, Pietro Rizzo, Antonio Monaco e Rosario Robano delle Piaggine sottane, al presente in Evoli e nella piana secondo il solito di ogni anno per causa di chiudere siepi, e Giannantonio Balsamo padronale di bovi similmente cittadino di Evoli, li quali sponte con giuramento asseriscono essi cittadini d’Evoli, come pratici della campagna di essa città, nella quale per vari loro affari, e secondo i di loro impieghi anno dovuto praticare, sanno perciò benissimo, come il magnifico don Carminantonio Avossa della città di Salerno da più anni, e dal presente ancora tiene in affitto varie difese per pascervi i suoi animali tutte circoscritte e contenute nel distretto, e circonferenza del miglio vietato di Persano da potersi sparare ad animali selvaggi, come sono la difesa del Macchione dell’Abbate Coccoli, delle Fiocche, della Verdesca, del Rosale de’ Coventuali d’Evoli, e l’altra di don Antonio Novella, il Prato di S. Miele, quella dell’Ospedale d’Evoli, quella del Cerro del Barone di Clario, l’altra della Mensa Arcivescovile di Salerno, chiamata lo Staglione del Duca, quella detta del Macchione di Donatantonio Martucci, altra dello stesso nome delle Monache d’Evoli, la difesa del Capitolo di Campagna denominata crestarulo, ed Acqua de Pioppi, quella di Pierfavone, e Crestarulo dei Padri Cinesi, altra denominata la Casa Rossa di don Melchiorre Guerriero di Campagna, Piana dell’Ospedale di Viviani, Chiusa di San Marco all’Acqua de Pioppi, l’Acqua d’Auzano di San Bartolomeo d’Evoli, Santa Chiarella. Essendo cresciuto a dismisura la quantità deg’animali selvaggi, o siano Daini nella Regal caccia di Persano, s’immettono da quella nelle vicine Difese contenute nel vietato miglio, nelle qquali di giorno, e di notte divorano a truppe, pascendo dell’erba, e ghiande, perlocchè è venuta a mancare agl’animali, ed industrie di detto don Carminatonio Avossa, e nel passato rigido inverno maggiormente hanno sofferto la fame gli suddetti animali, essendo state divorata l’erba, e la ghianda dalli suddetti Daini, in guisa che fu costretto portarvi paglia, e fieno con somma spesa, ad oggetto di non far dell’intutto morir gli suoi animali, e non ostante la paglia, e fieno riposti pure son morti tra animali bufalini, vaccini, e giumentini, gran quantità. Ed in occasione di esser passati più delle volte per li descritti luoghi, e Difese, anno visto morte bufale, vacche, e giumente, scorticandosi da custodi, perdendo la carne, e siccome è corsa la publica voce, si fa il conto, che esso Carminantonio abbia perduto per mancanza di detta erba tra bufale, vacche, e giumente circa il numero di quattrocento ...
Eboli, 18 luglio 1785 Alla presenza di don Marco Ferrari, agente generale del principe Doria d’Angri, viene trascritto l’epitaffio esistente presso il fiume detto Battipaglia o Tusciano, con il quale era vietata la caccia nei feudi del principe senza la sua autorizzazione scritta.
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AS SA, Protocolli notarili del distretto di Salerno, b. 2342, a. 1785, notaio Pasquale la Francesca di Eboli Epitaphium prope pontem fluminis Tosciani seu Battipaglia. A richieste fatteci per parte del sig. Marco Ferrari aggente Generale in questo Stato di Evoli per Sua Eccellenza il signore Principe d’Angri, Duca d’Evoli sudetto, ci semo di persona conferiti nel luogo detto Battipaglia tenimento d’ Evoli, ove giunti avemo rattrovato detto Signore don Marco il quale ha asserito avanti di noi per disimpegno di sua carica bisognarli copia in forma publica estratta dell’epitaffio colà esistente prossimo a quel ponte su de fiume detto Battipaglia, seu Toscano. Noi intanto conoscendo giusta la domanda per adempimento del nostro officio publico in presenza del magnifico Sabbato Pastorino Regio Giudice a contratti, dei signori don Plinio Denza dello Stato di Montecorvino, di Tomaso Ferraro d’Olevano, e di Marco Procaccio d’Evoli testimoni intervenuti al presente atto, a lettura di tutti si è proceduto all’estratta copia dell’Epitaffio sudetto quale è del tenore che segue: Carolus Dei Gratia Rex, ac Divino, favente clementia, Romanorum, Imperator sempre Augustus = Don Franciscus Maria Lanarius Miles U.I.D. Regius Consiliarius, et ad causam infrascriptam per Suam Regiam Maiestatem sive eiusdem Sacrum Regium Cosilium judex, et Commissarius specialiter Deputatus = Banno e comandamento d’ordine del Sacro Regio Consiglio, del Regio Consigliere signore don Francesco Maria Lanario commissario ad istanza dell’Illustre Don Giancarlo d’Oria Principe d’Angri, Duca d’Evoli, Conte di Capaccio, e Barone del Feudo di Lago piccolo, con il quale si ordina a tutte, e qualsivogliano persone di qualunque luogo, grado, e condizione si siano, che da oggi avanti non ardiscano, ne debbano ardire di andare a caccia nelli territori, tenimenti, e distretti delle suddette Città, e Feudi di Capaccio, Evoli, e Lago piccolo per qualsivoglia Caccia senza licenza in scriptis di detto Illustrissimo signor Principe, e ciò sotto pena di docati mille contro ogni ciascun Controveniente Fisco Regio e sotto altre pene ad arbitrio di detto Sacro Regio Consiglio, e Regio Signore Consigliere Commissario e il tutto servata la forma dell Decreti, e Provisioni spedite da detto Regio Signore Consigliere Commissario sotto li 6, e 14 febraro, 14 e 17 novembre di questo corrente anno 1730 nelle quali stà ordinato, che si ritrovino li Banni, in nome di detto Sacro Regio Consiglio, e detto Regio Signore Commissario sotto le pene sudette e che quelli si descrivino da parola a parola, e si affiggano nelle Pietre Marme per futura memoria, siccome dalli atti del Sacro Regio Consiglio presso lo scrivano Gennaro Montanini: Tanto si faccia alia et Datum Nespoli die nono mensis decembris 1730 = Januariu Montaninus scriba Sacro Regio Consilio = Banno come sopra = Con che ciò seguito detto Signore don Marco nel nome predetto per futura memoria di tutto, e quanto nell’epitaffio predetto rattrovasi notato, e descritto, e per quanto tocca l’interesse di detto Eccellentissimo Signor Principe ha richiesto noi a formarne il presente atto, nos autem unde.
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Per una storia non antropocentrica. Atti del convegno
Orlando Paciello, Il medico veterinario nel rapporto uomo-animale
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ORLANDO PACIELLO
Il medico veterinario nel rapporto uomo-animale: nuove strategie per il benessere degli animali
L’espansione della riflessione etica dalla sfera umana all’insieme dei viventi rappresenta una delle dimensioni più stimolanti e più controverse del dibattito filosofico e scientifico degli ultimi decenni. Attraverso il contrasto fra opposte visioni, le une antropocentriche, insistenti sull’assoluta peculiarità dei rapporti fra gli umani, e le altre tendenti a ridurre o cancellare le distinzioni fra le diverse specie animali, si è fatta strada l’idea che l’uomo partecipi all’universo della vita come parte della natura. In questa nuova visione del rapporto uomo-animale il medico veterinario riveste una posizione critica. Il ruolo del medico veterinario è volto al benessere degli animali e dell’uomo e questo è sancito nel giuramento professionale che egli fa al momento dell’iscrizione all’Ordine professionale della Categoria. Esso recita: «Entrando a far parte della Professione e consapevole dell’importanza dell’atto che compio, prometto solennemente di dedicare le mie competenze e le mie capacità alla protezione della salute dell’uomo, alla cura e al benessere degli animali, promuovendone il rispetto in quanto esseri senzienti; di impegnarmi nel mio continuo miglioramento, aggiornando le mie conoscenze all’evolvere della scienza; di svolgere la mia attività in piena libertà e indipendenza di giudizio, secondo scienza e coscienza, con dignità e decoro, conformemente ai principi etici e deontologici propri della Medicina Veterinaria».
I medici veterinari dedicano la loro opera professionale alla prevenzione e alla diagnosi e cura delle malattie degli animali e al loro benessere; alla conservazione e allo sviluppo funzionale del patrimonio zootecnico; alla conservazione e alla salvaguardia del patrimonio faunistico ispirata ai principi di tutela delle biodiversità, dell’ambiente e della coesistenza compatibile con l´uomo; alle attività legate alla vita degli animali familiari, da competizione sportiva ed esotici; alla promozione del rispetto degli animali e del loro benessere in quanto esseri senzienti; alla promozione di campagne di prevenzione igienico-sanitaria ed educazione per un corretto rapporto uomo-animale; alla
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protezione dell´uomo dai pericoli e danni a lui derivanti dall´ambiente in cui vivono gli animali, dalle malattie degli animali e dal consumo delle derrate o altri prodotti di origine animale; alle attività collegate alle produzioni alimentari, alla loro corretta gestione e alla valutazione dei rischi connessi. Da tutto questo si evince come l’attività del medico veterinario sia rivolta alla salvaguardia del benessere degli animali e dell’uomo ed alla loro corretta interazione. Col progressivo miglioramento della qualità della vita l’uomo ha sempre più accentuato la tendenza a considerare gli animali non solo come fonti di servizi e nutrimento, ma anche come preziosi compagni della propria esistenza, ai quali si possono rivolgere sentimenti di amore, avendo la certezza della loro capacità di ricambiarli. Negli Stati Uniti d’America vivono presso le famiglie 63 milioni di gatti e 54 milioni di cani e vengono spesi, per il loro mantenimento, 17 miliardi di dollari l’anno (cifre relative al 1995). Da un’indagine Doxa del 1996 risulta che in Italia in una famiglia su tre sono presenti animali da compagnia, di cui: 8 milioni di gatti, 6,8 milioni di cani, 12 milioni di uccelli, 6 milioni di pesci d’acquario, di tartarughe, di animali esotici, circa 33 milioni complessivamente con una spesa che dovrebbe aggirarsi intorno ai 4 miliardi di euro all’anno. Garante del rispetto delle leggi che mirano a salvaguardare il benessere degli animali, portavoce dei loro bisogni, punto di riferimento di tutti coloro che hanno a che fare con gli animali, sia di affezione che da reddito, il medico veterinario è sicuramente una figura di elezione. Lo è in particolare per quanto riguarda la definizione degli interessi specifici dell’animale in condizioni di normalità eto-fisiologica e l’indicazione delle linee di intervento in caso di alterazione dello stato di salute. In quanto tale il medico veterinario è chiamato a svolgere un ruolo centrale attraverso: - la promozione di progetti di linee guida sulle “buone pratiche in medicina veterinaria”, al fine di giungere a definire livelli standard di prestazione che tengano conto, nei diversi contesti, delle nuove potenzialità tecnologiche d’intervento e dell’importanza di evitare sofferenze e danni al paziente animale; - il riconoscimento della diversa rilevanza dei fattori in gioco nella definizione dei bisogni, in relazione alle peculiarità fisiologiche, etologiche e zooantropologiche delle diverse specie; - l’assunzione di nuovi compiti di consulenza e di sensibilizzazione nei riguardi di coloro ai quali viene affidata, a vario titolo, la cura degli animali. Tutto questo trova concretezza anche in quelli che sono il rispetto e la salvaguardia dei diritti degli animali. L’insieme codificato da disposizioni legislative dei comportamenti umani verso gli animali e delle condizioni di vita degli animali, cui corrispondono responsabilità e doveri dell’uomo (e quindi della società), costituisce i “diritti degli animali”.
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Tali diritti sono alla base di tutte le disposizioni che disciplinano il rapporto uomoanimale, sia per la tutela del benessere degli animali, sia per la loro protezione. La prima testimonianza di diritto che riguarda specificatamente gli animali è stata sancita nel 1641 nel Massachussetts. Essa afferma che «nessun uomo può esercitare alcuna tirannia o crudeltà verso gli animali tenuti dall’uomo per il proprio utilizzo» e scaturisce, da un lato, dalla vocazione animalista dei colonizzatori inglesi, dall’altro, dal contatto quotidiano con gli animali da parte dei nativi. Durante l’ultimo secolo scienziati, umanisti, zoofili, giuristi, sociologi e politici sono stati sollecitati ad affrontare il problema della tutela della vita animale nella società. Ne è scaturito un ampio dibattito mondiale dagli elevati contenuti etici, scientifici e politici, che ha condotto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale, proclamata il 15 ottobre 1978 nella sede dell’Unesco a Parigi. Anche se la Dichiarazione universale dei diritti dell’animale non ha alcun valore sul piano giuridico-legislativo, aver avvertito la necessità di confrontarsi su questo argomento rappresenta, per ogni persona e Paese, un passo avanti ed una scelta di civiltà. Infatti, negli ultimi venticinque anni, sono state emanate numerose disposizioni che confermano i diritti degli animali estendendo la disciplina legislativa ad ogni aspetto del rapporto con l’uomo e ad ogni fase dell’utilizzazione degli animali da parte dell’uomo. «Per quanto concerne gli animali non si può parlare propriamente di soggettività giuridica mancando in loro quelle doti di razionalità, di libero volere e di responsabilità che sono proprie della personalità; non si può tuttavia considerarli come cose, ma creature sensibili che fanno parte della nostra convivenza, concorrendo ad integrare la nostra collettività. Si pone, naturalmente, in corrispondenza ai diritti degli animali, una somma di doveri per gli uomini, considerati singolarmente e nella loro collettività organizzata, impersonata nello Stato». (Prof. Ernesto Eula, procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione, 1961)
L’Accordo del 6 febbraio 2003, siglato in sede di Conferenza Stato Regioni, tra il Ministero della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano e recepito con DPCM 28 febbraio 2003, definisce alcuni principi fondamentali volti a realizzare una maggiore e sempre più corretta interrelazione tra uomo e animali, assicurare in ogni circostanza il loro benessere, evitare che siano utilizzati in modo riprovevole e favorire lo sviluppo di una cultura di rispetto per la loro dignità, anche nell’ambito delle realtà terapeutiche innovative come la pet-therapy. Con la “tutela del benessere degli animali” si intende riconoscere agli animali un loro ruolo ed un loro habitat, considerandoli nostri coinquilini terrestri, ridimensionando lo sfruttamento e l’assoggettamento da parte dell’uomo. Vi sono condizioni di vita degli animali per le quali la società, la scienza ed il legislatore possono stabilire requisiti di benes-
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sere, dopo averne identificato esigenze fisiologiche ed etologiche. A tal fine è stato attivato dal Ministero della salute un Centro di referenza nazionale per il benessere animale presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna. Il 14 agosto 1991 è stata approvata dal Parlamento la legge n. 281 – legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, che ha rappresentato un elemento di forte innovazione rispetto alla precedente normativa nazionale. Tra le innovazioni introdotte dalla legge 281/91 vi è il divieto (art. 2, comma 2) della soppressione dei cani vaganti accalappiati o comunque ricoverati o detenuti presso i canili sanitari, come sino ad allora era stabilito dal Regolamento di Polizia Veterinaria (DPR n. 320 dell’8 febbraio 1954). Il principio così detto “no kill” introdotto dalla legge 281 ha rappresentato per molti anni una prerogativa unica del nostro Paese. Recentemente anche altri Paesi hanno adottato il divieto di soppressione o hanno progetti di legge in discussione per la sua adozione. La legge 189 del 20 luglio 2004 – “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate” – apporta modifiche al codice penale ed in particolare introduce, con il titolo IX bis, i “delitti contro il sentimento per gli animali”. Sono disciplinati i reati di uccisione di animali, maltrattamento di animali, combattimenti tra animali. Inoltre l’articolo 727 del codice penale è stato sostituito con il seguente: (Abbandono di animali) – «Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze». Quale è il futuro? Negli ultimi anni sono stati realizzati significativi passi avanti nella gestione comunitaria della salute degli animali. Un concetto nazionale e frammentario della lotta contro le malattie è stato sostituito gradualmente con un’armonizzazione progressiva delle misure relative alla salute degli animali e dei sistemi che permettono di controllare, diagnosticare e combattere le malattie.
Una strategia ambiziosa dell’UE per la salute degli animali (2007-2013) La strategia fornisce direttive per lo sviluppo della politica per la salute degli animali, basata su un vasto processo di consultazione delle parti interessate e su un preciso impegno per ottenere livelli elevati in questo campo. Essa faciliterà la definizione delle priorità coerenti con gli obiettivi strategici e la revisione, previo accordo, di livelli accettabili e adeguati.
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I diversi significati di cura condividono pertanto un elemento fondamentale: quello di preoccupazione per il bene di un altro. In effetti, non si può dire sensatamente di prendersi cura di qualcuno se non si è disposti a capirlo, a rispettarlo, a preoccuparsene, a impegnarsi personalmente per il suo bene, a operare per ridurre, per quanto è possibile, la sofferenza di cui possa essere preda, in particolare se l’individuo in questione non sa o non è in grado di farlo. “Cura” potrebbe quindi definirsi come la sollecitudine per la sorte di un altro individuo (affine alla “paura altruistica”, di cui scrive Hans Jonas, a parere del quale essa testimonia l’apprensione per la vulnerabilità e la fragilità di altri esseri, la preoccupazione per la loro esistenza minacciata), sorretta da una conoscenza, la più adeguata possibile, della sua realtà, delle sue esperienze, dei suoi bisogni. Il rapporto uomo/animale va salvaguardato e promosso in modo da superare il concetto di animale “strumento” e in modo da percepire nell’animale un’alterità portatrice di una specifica valenza, di una propria dignità e, in alcuni casi, di una “soggettività attiva” nel rapporto, così da contrastare le due opposte e inaccettabili prospettive dell’antropomorfismo e della reificazione. Questi obiettivi si inquadrano in un progetto più complessivo di partnership responsabile tra uomo e animale che veda nel medico veterinario un consulente globale.
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1) Doping nell’ippica: descrizione del fenomeno Il maltrattamento dei cavalli da corsa non è circoscritto al solo mondo della criminalità organizzata, ma, superando i confini della legalità, si afferma a pieno titolo anche nelle gare ufficiali, dove si registra un incremento di scommesse clandestine per un giro d’affari milionario. Un lucroso business che passa per studi veterinari, medici compiacenti, allenatori e fantini molto conosciuti e arriva agli stacanovisti della scommessa. Gli unici a pagare sono i poveri cavalli che finiscono nelle mani dell’holding dell’ippica. Cocaina in abbondanza, micidiali cocktail di anabolizzanti. E ancora: antipiretici, analgesici, antiinfiammatori, citotossici, diuretici, cortiscosteroidi ed emostatici. Perfino il Viagra, ma con una particolarità: solo alle cavalle e in dosi massicce. Un campionario farmacologico completo per arrivare a prestazioni da podio e trasformare un purosangue senza grandi prestazioni in un campione dell’ippodromo. Poche, milionarie puntate sul cavallo “bombato” che sbuca dal nulla e la vincita miliardaria è assicurata. Le sostanze proibite vengono rastrellate dai corrieri sui mercati stranieri, dalla Svizzera o dalla Germania, ma anche dagli Stati Uniti, dall’Australia, dalla Cina e dalla Romania. Una volta arrivati i prodotti, scendono in campo l’allenatore e il veterinario che programmano la “tabella” di allenamento. Un allenamento duro a base di ormoni, viagra e epo. Una cura che porterà il cavallo sul gradino più alto del podio, o, nel caso peggiore, tra i “piazzati” nelle corse dei più importanti ippodromi. E la ciliegina sulla torta arriva prima della gara con la “polvere bianca”, quella che dà la botta finale che, repentina e potente, spinge il cavallo oltre il suo limite, perfino oltre il doping. Le sostanze agiscono sul sistema nervoso ed eliminano la sensazione del dolore. E dopo la gara, la vittoria e i festeggiamenti, le conseguenze per i cavalli sono devastanti. Muscoli e tendini subiscono danni irreparabili. Il sistema nervoso viene “bruciato” dalla cocaina. E in poche settimane il cavallo passa da uno stato di forma appa-
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rentemente perfetto allo stato vegetativo. Corre con difficoltà, con i muscoli ingessati dalla superproduzione di acido lattico e dai tendini lacerati. Il calvario non è ancora concluso: l’animale cade a terra, con il cervello impazzito. E in questo mondo dell’ippica, dove doping significa scommesse e corse truccate, è ancora troppo labile il confine tra legalità e illegalità. Con un duplice risultato: - truccare le corse, facendo vincere non il cavallo più forte, ma quello più imbottito di sostanze anabolizzanti; - mandare al macello (carne equina per consumo alimentare), e di conseguenza sulle tavole degli italiani, gli animali resi inservibili da tali micidiali cocktail. Crimine tanto più efferato se si considera che, come sottolineato da Giovandomenico Lepore, procuratore capo di Napoli, la carne equina «è destinata soprattutto ai bambini». Secondo Cristiano Pasquini, veterinario che si occupa da nove anni di cavalli sportivi, quelli puliti si intende, «chi mangia carne di quel tipo può essere esposto ai tumori, provocati dagli ormoni con cui vengono trattati gli animali» o se va meglio si ritrova «con un ulcera gastroduodenale per colpa degli anti-infiammatori». Si riportano stralci di intercettazioni telefoniche rilevate nel corso di una indagine: «... Puoi fidarti di questi prodotti. È roba eccezionale. Con quelli io ci ho fatto una bomba! Ci ho curato il garretto ad un cavallo di un mio amico. Un cavallo spagnolo, un po’ atrofizzato … Minchia andava come una macchina». Ma, alla fine, a furia di bombardarli quei cavalli cedono. «Devi caricare il massimo, questo ormai le cose normali non le accusa più, servono le bombe atomiche. E quando molla lo devi prendere e uccidere …». Da tale indagine si rilevava inoltre che: da un lato si dopavano i cavalli con diuretici, dall’altro si corrompevano i fantini. Così un’associazione criminale con base a Napoli ha truccato circa 50 corse di cavalli in tutta Italia. Quindici le ordinanze di custodia cautelare emesse dal Tribunale di Napoli, su richiesta della Dda, a carico di altrettanti indagati, ai quali è stato contestato il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di truffe ai danni dello Stato, dell’Unire (Unione nazionale per l’incremento delle razze equine) e a danno degli scommettitori nei concorsi pronostici relativi alle gare. Il tutto con il placet del fantino di turno, ora dietro minacce, ora dietro promesse di soldi. Un gioco da ragazzi. Al momento opportuno, tirava le redini per rallentare la corsa e far vincere il suo complice, o, invece, affrettava i tempi dello sprint vincente. In alcuni casi erano gli stessi fantini che erano stati coinvolti nell’imbroglio ad avvicinare colleghi, costretti con minacce a rendersi disponibili alla combine, e poi retribuiti con denaro per avere seguito alla lettera “le istruzioni”. In qualche occasione, come nel caso di una Tris a Siracusa, l’imbroglio non è stato portato a termine, perché si è intro-
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messa un’organizzazione rivale (clan dei “tarantini”). Incidenti del mestiere, da mettere in conto. E quando la vittoria doveva essere sicura, ecco che arrivava il “turbo jet”, il farmaco miracoloso ricavato dal veleno del cobra. Invincibile. Tremendo. Ovviamente dosato da persone esperte. 2) Fonti normative Legge 13 dicembre 1989 n. 401 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 294 del 18 dicembre 1989) Interventi nel settore del gioco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive. Art. 1. Frode in competizioni sportive 1. Chiunque offre o promette denaro o altra utilità o vantaggio a taluno dei partecipanti ad una competizione sportiva organizzata dalle federazioni riconosciute dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), dall’Unione nazionale per l’incremento delle razze equine (UNIRE) o da altri enti sportivi riconosciuti dallo Stato e dalle associazioni ad essi aderenti, al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, ovvero compie altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo, è punito con la reclusione da un mese ad un anno e con la multa da lire cinquecentomila a lire due milioni. Nei casi di lieve entità si applica la sola pena della multa. 2. Le stesse pene si applicano al partecipante alla competizione che accetta il denaro o altra utilità o vantaggio, o ne accoglie la promessa. 3. Se il risultato della competizione è influente ai fini dello svolgimento di concorsi pronostici e scommesse regolarmente esercitati, i fatti di cui ai commi 1 e 2 sono puniti con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni.
L’art. 1 tutela la genuinità del risultato delle competizioni sportive da esso disciplinate, nel rispetto dell’alea che alle predette competizioni è correlata, è norma a più fattispecie che incrimina due distinte condotte: la prima è una forma di corruzione in ambito sportivo; la seconda è una generica frode. Occorre evidenziare il fatto che la disposizione è inserita all’interno di una legge che mira a reprimere il fenomeno dei giochi e delle scommesse clandestine: tuttavia, la dottrina più attenta ritiene che il bene – interesse tutelato dalla norma non ha carattere patrimoniale, ma va più correttamente identificato nella salvaguardia, nel campo dello sport, di quel valore fondamentale che è la “correttezza” nello svolgimento delle competizioni agonistiche. A ben pensarci, la frode stravolge il conflitto simbolico, convertendolo, paradossalmente, in un conflitto reale, in cui la vittoria conta di per sé, a prescindere dai mezzi usati per conseguirla: il fine giustifica i mezzi!
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Quindi, evidentemente, l’intervento pubblico mira a potenziare il valore socio-pedagogico, riducendo il rischio di degenerazioni. Sono entrambe a “dolo specifico”, cioè occorre la volontà, nell’agente, di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al leale e corretto svolgimento della competizione. Si evidenzia come l’ampia categoria “atti fraudolenti” sia integrata da somministrazione di sostanze dopanti, previste e vietate da appositi elenchi delle sostanze di cui a decreti ministeriali. Art. 3 Obbligo del rapporto 1. I presidenti delle federazioni sportive nazionali affiliate al Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), i presidenti degli organi di disciplina di secondo grado delle stesse federazioni e i corrispondenti organi preposti alla disciplina degli enti e delle associazioni di cui al comma 1 dell’articolo 1, che nell’esercizio o a causa delle loro funzioni hanno notizia dei reati di cui all’articolo 1, sono obbligati a farne rapporto, ai sensi delle vigenti leggi, all’autorità giudiziaria. Art. 4 Esercizio abusivo di attività di giuoco o di scommessa 1. Chiunque esercita abusivamente l’organizzazione del giuoco del lotto o di scommesse o di concorsi pronostici che la legge riserva allo Stato o ad altro ente concessionario, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Alla stessa pena soggiace chi comunque organizza scommesse o concorsi pronostici su attività sportive gestite dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), dalle organizzazioni da esso dipendenti o dall’Unione italiana per l’incremento delle razze equine (UNIRE). Chiunque abusivamente esercita l’organizzazione di pubbliche scommesse su altre competizioni di persone o animali e giuochi di abilità è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda non inferiore a lire un milione. (… omissis …) 2. Quando si tratta di concorsi, giuochi o scommesse gestiti con le modalità di cui al comma 1, e fuori dei casi di concorso in uno dei reati previsti dal medesimo, chiunque in qualsiasi modo dà pubblicità al loro esercizio è punito con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda da lire centomila a lire un milione. 4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano anche ai giuochi d’azzardo esercitati a mezzo degli apparecchi vietati dall’articolo 110 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, come modificato dalla legge 20 maggio 1965, n. 507, e come da ultimo modificato dall’articolo 1 della legge 17 dicembre 1986, n. 904. Art. 5 Pene accessorie 1. La condanna per i delitti di cui agli articoli l e 4 importa il divieto di accedere ai luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive o si accettano scommesse autorizzate ovvero si tengono giuochi d’azzardo autorizzati. 2. Alla condanna per i delitti previsti dall’art. l consegue inoltre l’applicazione della pena accessoria di cui al primo comma dell’art. 32-bis del codice penale, limitatamente agli uffici direttivi delle società sportive.
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3. Le pene accessorie di cui ai commi l e 2 non possono avere una durata inferiore a sei mesi né superiore a tre anni. Art. 8 Effetti dell’arresto in flagranza durante o in occasione di manifestazioni sportive 1. Nei casi di arresto in flagranza o di arresto eseguito a norma del commi 1-bis e 1-ter per reato commesso durante o in occasione di manifestazioni sportive, i provvedimenti di remissione in libertà conseguenti a convalida di fermo e arresto o di concessione della sospensione condizionale della pena a seguito di giudizio direttissimo possono contenere prescrizioni in ordine al divieto di accedere ai luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive. 1-bis. Oltre che nel caso di reati commessi con violenza alle persone o alle cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, per i quali è obbligatorio o facoltativo l’arresto ai sensi degli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, l’arresto è altresì consentito nel caso di reati di cui all’art. 6-bis, comma 1, e all’art. 6, commi 1 e 6, della presente legge. 1-ter. Nei casi di cui al comma 1-bis, quando non è possibile procedere immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, si considera comunque in stato di flagranza ai sensi dell’art. 382 del codice di procedura penale colui il quale, sulla base di documentazione video-fotografica o di altri elementi oggettivi dai quali emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le trentasei ore dal fatto. 1-quater. Quando l’arresto è stato eseguito per uno dei reati indicati dal comma 1-bis, l’applicazione delle misure coercitive è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c) e 280 del codice di procedura penale. Decreto ministeriale 797 del 16.10.2002 Approvazione Regolamento per il controllo delle sostanze proibite; Art. 2 Nozione È proibita la presenza, nell’organismo di un cavallo, nel giorno della corsa, della prova di qualifica o riqualifica in cui è dichiarato partente, di una qualsiasi quantità di una sostanza, di un suo isomero, di un suo metabolita, di un suo isomero, appartenente ad una delle categorie comprese nella “lista delle sostanze proibite” di cui all’allegato 1) del presente Regolamento, nonché la presenza di un indicatore scientifico che evidenzi l’avvenuta somministrazione di una sostanza proibita, il contatto o l’esposizione alla stessa. È, altresì, proibita la presenza, nel giorno in cui è effettuato il controllo, nell’organismo di un cavallo dichiarato o risultante in allenamento, di uno qualsiasi degli elementi di cui al precedente comma se non sia giustificata da prescrizione veterinaria. In ogni caso, è proibita la presenza nell’organismo di un cavallo, dichiarato o risultante in allenamento, di una qualsiasi quantità di uno steroide anabolizzante, di un suo metabolita, di un isomero di steroide anabolizzante o di un suo metabolita. Non è proibita la presenza nell’organismo del cavallo di sostanze endogene o di quelle che possono provenire dalla sua alimentazione naturale, elencate nell’allegato 2) al presente regolamento, purché rilevate sotto ai limiti stabiliti e riportati in detto allegato.
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Nessun farmaco, di qualunque specie o natura, può essere introdotto nei recinti d’isolamento, nei recinti d’insellaggio e negli spazi riservati ai prelievi senza preventiva autorizzazione del veterinario responsabile, ed è altresì vietato detenere nei medesimi luoghi qualsiasi prodotto o specialità farmaceutica, nonché siringhe, aghi ipodermici, sonde rinoesofagee e ogni altro mezzo di somministrazione, secondo le indicazioni dell’Ente. Il cavallo al quale sia stato somministrato o tentato di somministrare un farmaco, di qualunque specie o natura, anche se autorizzato dal Veterinario Responsabile, è escluso dalla corsa. Regolamento dell’ippica nazionale e della corsa TRIS art. 17 c. 17 Nel caso che un cavallo risulti positivo al controllo antidoping, verranno applicate nei confronti del proprietario e allenatore, aggravandone la misura, le sanzioni e i provvedimenti disciplinari previsti dai vigenti regolamenti per le corse.
3) Attività di contrasto da parte del NAC di Salerno Si premette che questo Nucleo Antifrodi Carabinieri opera alle dipendenze funzionali del Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e che, quindi, per effetto di tale previsione legislativa, può effettuare controlli anche in materia di “ippica”, settore di competenza dell’U.N.I.R.E. (Unione Nazionale Incremento Razze Equine), ente di diritto pubblico, posto sotto la vigilanza dello stesso Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. A partire dal mese di febbraio 2007, a seguito di episodi avvenuti presso diversi ippodromi, quali il ritiro improvviso di cavalli da parte delle scuderie, anche pochi minuti prima dell’inizio della corsa, senza giustificato motivo oppure per improvvisi malori accusati dai drivers o perché gli stessi erano oggetto di minacce, veniva svolta da parte di questo Comando un’azione mirata di prevenzione e contrasto dei fenomeni criminosi segnalati in quell’Ippodromo. Di seguito vengono riportati i dati relativi all’attività svolta da questo Nucleo nel periodo febbraio 2007/aprile 2009: • N° 187 servizi svolti presso Ippodromi, N°8 sequestri penali di sostanze farmacologiche dopanti; • N° 13 perquisizioni domiciliari, disposte dalle Procure campane; • N° 112 sequestri amministrativi di sostanze proibite; • N° 85 persone, tra drivers e allenatori, deferiti all’AG di Roma, per la violazione di cui all’art. 483 C.P. in relazione all’art. 76 D.P.R. 28.12.2000, n. 445, per avere prodotto false attestazioni all’UNIRE, al fine di ottenere il rinnovo della licenza di gentleman, allenatore/guidatore e allievi;
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• N° 11 persone, deferite all’A.G. compentente per la violazione dell’art. 1 della legge 401/89 – frode in competizioni sportive; • N° 5 persone, deferite all’A.G competente, per la violazione di cui all’art. 544 ter., del c.p. – maltrattamento di animali –; • N° 89 persone, segnalate all’UNIRE per violazione dell’art.2 DM 797/2002, per la detenzione di sostanze proibite; • N° 6 persone, deferite all’A.G. competente per la violazione degli artt. 110 C.P. e art. 4 della L. 401/89, per aver in concorso tra loro esercitato abusivamente attività di gioco e scommessa clandestina. 4) Evoluzione del reato di maltrattamento di animali Nel codice penale sardo-italiano del 1859, tra le contravvenzioni riguardanti «l’ordine pubblico», era previsto all’art. 685, n. 7, il fatto di «coloro che in luoghi pubblici incrudeliscono contro animali domestici». Con il codice penale Zanardelli del 1889, la fattispecie in esame trovava la sua collocazione nell’art. 491 – “Contravvenzioni concernenti la pubblica moralità”: «Chiunque incrudelisce verso animali o, senza necessità, li maltratta, ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive, è punito con l’ammenda sino a lire cento. Alla stessa pena soggiace colui il quale, anche per solo fine scientifico o didattico, ma fuori dei luoghi destinati all’insegnamento, sottopone animali a esperimenti tali da destare ribrezzo». La contravvenzione prevista dal codice Zanardelli cambia significativamente sede, venendo collocata tra quelle concernenti la pubblica moralità, mentre nel codice sardo era impiantata tra le contravvenzioni riguardanti l’ordine pubblico. Inoltre cade la limitazione della tutela ai soli animali domestici e rimane l’idea del luogo pubblico limitatamente agli esperimenti scientifici e didattici, con la formula «al di fuori dei luoghi destinati all’insegnamento». Nella relazione del Guardasigilli Zanardelli si sottolinea che: «Il sentimento di pietà che ha ispirato la (…) disposizione può essere offeso in ogni luogo e indipendentemente dalla natura domestica o meno dell’animale». La soppressione della specifica condizione della pubblicità si spiega per il fatto che, in molti casi, i maltrattamenti venivano commessi o in luoghi non pubblici, ma frequentati da molte persone, come stabilimenti, officine e simili, ovvero in luoghi, anche privati, ma in modo che il pubblico raccapriccio venisse destato dai lamenti o dalle strida degli animali o dalla notorietà degli atroci tormenti. Nei luoghi destinati all’insegnamento, invece, si escludeva ogni ragionevole censura. In realtà, si voleva porre un freno al proliferare di esperimenti condotti da gente non autorizzata e in luoghi non
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deputati: pare che non ci fosse studente di medicina, o quasi, che non si dedicasse ad operazioni di vivisezione in casa. Nel codice penale Rocco del 1930, il reato di maltrattamento di animali trovava la collocazione all’interno della categoria delle contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi, all’art. 727: «Chiunque incrudelisce contro gli animali o senza necessità li sottopone a eccessive fatiche o torture oppure li adopera in lavori a cui non siano adatti per malattie e per età, è punito con l’ammenda da lire cinquecento mila a tre milioni. Alla stessa pena soggiace chi, anche per solo fine scientifico o didattico, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, sottopone animali vivi a esperimenti tali da destare ribrezzo. La pena è aumentata se gli animali sono adoperati in giuochi o spettacoli pubblici, i quali importino strazio o sevizie». Nel caso previsto dalla prima parte di questo articolo, «se il colpevole è un conducente di animali, la condanna importa la sospensione dall’esercizio del mestiere, quando si tratta di un contravventore abituale o professionale».
L’art. 727 mantiene in pratica la stessa formulazione che aveva l’articolo 491 del codice Zanardelli, integrata però dalla legge 12-6-1913 n. 611 sulla protezione degli animali. Tale legge, all’articolo 1, prevedeva espressamente una serie di comportamenti «specialmente proibiti», tra cui, per esempio: atti crudeli su animali, sevizie nel trasporto del bestiame, accecamento degli uccelli, ed in genere le inutili torture per lo sfruttamento industriale di qualsiasi specie animale. All’art. 9 prevedeva le condizioni sulla base delle quali avrebbero dovuto essere attuati gli esperimenti scientifici su animali viventi. «Con questa incriminazione riguardante la polizia dei costumi si protegge il sentimento comune di umanità, che può rimanere gravemente turbato, con pericolo di dannosi riflessi sul sentimento di civile mitezza in genere, dal maltrattamento di animali: fatto che, costituendo un malo esempio, è altresì contrario alle esigenze minime dell’educazione civile» 1. Ciò che bisogna immediatamente sottolineare è che, rispetto al codice Zanardelli, nulla è cambiato in ordine all’interesse tutelato, che rimane il sentimento etico-sociale di umanità verso gli animali, che può venire turbato gravemente, con pericolo di dannosi riflessi sul sentimento di civile mitezza in genere, dal maltrattamento di animali. È evidente che non sono puniti in sé la cattiveria, il malanimo, l’inclinazione alla violenza e alla brutalità: l’esistenza e la salute dell’animale acquistano rilievo nel momento in cui si presentano funzionali al soddisfacimento dell’interesse umano a non essere “ferito” nella sua compassione verso gli animali. In ultimo si vuole evidenziare che nelle contravvenzioni concernenti la “polizia dei costumi”, insieme all’art. 727, venivano stigmatizzati reati concernenti il giuoco d’azzardo, “bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti”, “atti contrari alla 1
V. MANZINI, Istituzioni di diritto penale italiano, Milano, Giuffré, 1949, vol. II, p. 121.
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pubblica decenza. Turpiloquio”, ciò a dimostrare che, nella società civile, soggetti che si macchiavano di tali gesta, erano mal visti «in quanto l’astensione da determinati vizi e il rispetto di certi sentimenti etici, sono ritenuti necessari per la civile convivenza». La legge 22/11/93 n. 473 – recante nuove norme contro il maltrattamento degli animali – ha sostituito il testo dell’art. 727 C.P.: «Chiunque incrudelisce verso animali senza necessità o li sottopone a strazio o sevizie o a comportamenti e fatiche insopportabili per le loro caratteristiche, ovvero li adopera in giuochi, spettacoli, o lavori insostenibili per la loro natura, valutata secondo le loro caratteristiche anche etologiche, o li detiene in condizioni incompatibili con la loro natura o abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’ammenda da LIT. 2.000.000 a LIT. 10.000.000. La pena è aumentata se il fatto è commesso con mezzi particolarmente dolorosi, quale modalità del traffico, del commercio, del trasporto, dell’allevamento, della mattazione o di uno spettacolo di animali, o se causa la morte dell’animale: in questi casi la condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca degli animali oggetto del maltrattamento, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Nel caso di recidiva la condanna comporta l’interdizione dall’esercizio dell’attività di commercio, di trasporto, di allevamento, di mattazione o di spettacolo. Chiunque organizza o partecipa a spettacoli o manifestazioni che comportino strazio o sevizie per gli animali è punito con l’ammenda da LIT. 2.000.000 a LIT. 10.000.000. La condanna comporta la sospensione per almeno tre mesi della licenza inerente l’attività commerciale o di servizio e, in caso di morte degli animali o di recidiva, l’interdizione dall’esercizio dell’attività svolta. Qualora i fatti di cui ai commi precedenti siano commessi in relazione all’esercizio di scommesse clandestine la pena è aumentata della metà e la condanna comporta la sospensione della licenza di attività commerciale, di trasporto o di allevamento per almeno 12 mesi». «L’art. 727 c.p., pur se riformulato, resta sempre un reato a tutela del sentimento di comune pietà verso gli animali e non una norma direttamente finalizzata alla tutela di questi ultimi in senso stretto …» 2.
Tuttavia gli orientamenti giurisprudenziali emersi nel corso degli anni hanno evidenziato la protezione dell’animale quale autonomo essere vivente, dotato di una sensibilità psico-fisica e capace di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino la normale tollerabilità. A tal proposito si riportano di seguito, alcune massime della sentenza n. 691 del 14 marzo 1990 della Corte di Cassazione, sezione III penale: «... in via di principio il reato di cui all’art. 727 codice penale, in considerazione del tenore letterale della norma (maltrattamento) e del contenuto di essa (ove si parla non solo di sevizie, ma anche di sofferenze ed affaticamento), tutela gli animali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino una soglia di nor2
Ibidem.
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male tollerabilità. La tutela penale è dunque rivolta agli animali in considerazione della loro natura. Le utilità morali e materiali che essi procurano all’uomo devono essere assicurate nel rispetto delle leggi naturali e biologiche, fisiche e psichiche, di cui ogni animale, nella sua specie, è portatore». «Sono punibili ex art. 727 c.p. non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali (come suggerisce la parola “incrudelire”) – o che destino ripugnanza – ma anche quelle condotte ingiustificate che incidono sulla sensibilità dell’animale, producendo un dolore, pur se tali condotte non siano accompagnate dalla volontà di infierire sugli animali ma siano determinate da condizioni oggettive di abbandono od incuria». •Art. 544-bis. – (Uccisione di animali). – Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi. •Art. 544-ter. – (Maltrattamento di animali). – Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale.
Al fine di addivenire ad una puntuale definizione di “crudeltà” è bene riferirsi a quanto stabilito in merito dalla Suprema Corte: «la crudeltà è di per sé caratterizzata dalla spinta di un motivo abbietto o futile. Rientrano nella fattispecie le condotte che si rivelino espressione di particolare compiacimento o di insensibilità» (Corte di Cassazione, 19 giugno 1999, n. 9668.), con «atti concreti di crudeltà, ossia l’inflizione di gravi sofferenze fisiche senza giustificato motivo» (Corte di Cassazione, 11 ottobre 1996, n. 601). Con riferimento alla definizione del concetto di “assenza di necessità”, va detto che esso va valutato non solo alla luce di quanto disposto dagli artt. 52 e 54 del Codice Penale (che si riferiscono, rispettivamente, alla legittima difesa e allo stato di necessità), ma – anche in questo caso – alla luce di una massima della Corte di Cassazione: il concetto di necessità identifica «ogni altra situazione che induce all’uccisione o al danneggiamento dell’animale per evitare un pericolo imminente o un danno giuridicamente apprezzabile» (Corte di Cassazione, 28 febbraio 1997, n. 1010). •Art. 544-quater. – (Spettacoli o manifestazioni vietati). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in relazione all’esercizio di scommesse clandestine o al fine di trarne profitto per sé od altri ovvero se ne deriva la morte dell’animale.
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•Art. 544-quinquies. – (Divieto di combattimenti tra animali). – Chiunque promuove, organizza o dirige combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali che possono metterne in pericolo l’integrità fisica è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 50.000 a 160.000 euro. La pena è aumentata da un terzo alla metà: 1) se le predette attività sono compiute in concorso con minorenni o da persone armate; 2) se le predette attività sono promosse utilizzando video-riproduzioni o materiale di qualsiasi tipo contenente scene o immagini dei combattimenti o delle competizioni; 3) se il colpevole cura la ripresa o la registrazione in qualsiasi forma dei combattimenti o delle competizioni. Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, allevando o addestrando animali li destina sotto qualsiasi forma e anche per il tramite di terzi alla loro partecipazione ai combattimenti di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica anche ai proprietari o ai detentori degli animali impiegati nei combattimenti e nelle competizioni di cui al primo comma, se consenzienti. Chiunque, anche se non presente sul luogo del reato, fuori dei casi di concorso nel medesimo, organizza o effettua scommesse sui combattimenti e sulle competizioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro. •Art. 544-sexies. – (Confisca e pene accessorie). – Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per i delitti previsti dagli articoli 544-ter, 544-quater e 544-quinquies, è sempre ordinata la confisca dell’animale, salvo che appartenga a persona estranea al reato. •È altresì disposta la sospensione da tre mesi a tre anni dell’attività di trasporto, di commercio o di allevamento degli animali se la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta è pronunciata nei confronti di chi svolge le predette attività. In caso di recidiva è disposta l’interdizione dall’esercizio delle attività medesime. •2. All’articolo 638, primo comma, del codice penale, dopo le parole: “è punito” sono inserite le seguenti: “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. •L’articolo 727 del codice penale è sostituito dal seguente: Art. 727. – (Abbandono di animali). – Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze.
Cambia il presupposto giuridico della tutela degli animali, fino allora disciplinata dal solo art. 727 c.p., risultando ora leso il sentimento verso gli animali, e non più la sola morale umana. Il legislatore ha introdotto nel codice penale il Titolo IX bis (artt. 544 bis e sgg.), intitolato “Delitti contro il sentimento degli animali”. Il nuovo testo di legge ha un presupposto ideologico chiaro ed essenziale: l’animale è un essere vivente capace di soffrire
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e la norma è diretta verso la sua tutela specifica. Inoltre il testo della nuova normativa considera gli animali in sé; non vi sono quindi, in linea di principio, differenze tra animali d’affezione, domestici o selvatici. Pertanto chi compie un atto di crudeltà nei confronti di qualsiasi animale, o lo uccide per divertimento, compie un reato e può essere punito. A seguito di tale modifica, il maltrattamento degli animali da semplice contravvenzione diventa un delitto. Questo cambiamento comporta: - un aggravamento delle pene (da ammenda a reclusione e/o multa); - l’allungamento del periodo di prescrizione (la prescrizione per i delitti avviene dopo i sei anni, per le contravvenzioni dopo i quattro); - la necessità del dolo, anche nella forma del dolo c.d. “eventuale” (sono esclusi dalla norma i comportamenti di carattere colposo, tranne per la contravvenzione di cui all’art. 727 c.p.). Denunce e segnalazioni – Di norma il procedimento per reati contro gli animali prende avvio da una denuncia o segnalazione che può essere effettuata da un privato o da una associazione. La denuncia, infatti, è l’atto con cui un soggetto (privato o associazione) porta a conoscenza di un illecito penale la Polizia Giudiziaria o direttamente la Magistratura. Può essere presentata: - alla Procura della Repubblica - ad ogni Organo di P.G. Va peraltro ricordato che i reati introdotti dalla legge de qua sono perseguibili d’ufficio, pertanto non è necessaria una vera e propria denuncia-querela. Ne consegue che la Polizia Giudiziaria e/o l’autorità competente hanno l’obbligo di attivarsi non appena vengano a conoscenza della notizia di reato, anche se ciò avvenga in modo “informale”. Vigilanza (art.6 L.189/2004) 1. Al fine di prevenire e contrastare i reati previsti dalla presente legge, con decreto del Ministro dell’interno, sentiti il Ministro delle politiche agricole e forestali e il Ministro della salute, adottato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite le modalità di coordinamento dell’attività della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, del Corpo forestale dello Stato e dei Corpi di polizia municipale e provinciale. 2. La vigilanza sul rispetto della presente legge e delle altre norme relative alla protezione degli animali è affidata, anche con riguardo agli animali di affezione, nei limiti dei compiti attribuiti dai rispettivi decreti prefettizi di nomina, ai sensi degli articoli 55 e 57 del codice di procedura penale, alle guardie particolari giurate delle associazioni protezionistiche e zoofile riconosciute.
3. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per lo Stato e gli enti locali.
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La sentenza della Cassazione Penale, Sezione Terza, n. 44822 del 24 ottobre 2007 – depositata il 30 novembre 2007 – ben delinea, alla luce delle modifiche apportate al codice penale dalla L. 189/2004, i rapporti tra le principali norme in tema di maltrattamenti di animali. Evoluzione dell’attuale art. 638 c.p. – Uccisione o danneggiamento di animali altrui – Nel codice penale Zanardelli del 1889 tale norma era collocata nel titolo X (dei delitti contro la proprietà) – Capo VII (del danneggiamento), all’art.429: «Chiunque, senza necessità, uccide o altrimenti rende inservibili animali che appartengano ad altri è punito, a querela di parte, con la detenzione sino a tre mesi e con la multa sino a lire mille. Se il danno sia lieve, può applicarsi la sola multa sino a lire trecento. Se l’animale sia soltanto deteriorato, la pena è della detenzione sino ad un mese o della multa sino a lire trecento. Va esente da pena colui che commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno».
L’oggetto giuridico tutelato è il diritto patrimoniale di una persona sugli animali e non gli animali per se stessi. Il delitto può commettersi esclusivamente su animali di proprietà di altri. Nel codice penale Rocco del 1930 tale norma era collocata nel titolo X (dei delitti contro la proprietà) – Capo VII (del danneggiamento), all’art.638: Testo: «Uccisione o danneggiamento di animali altrui» «Chiunque senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire seicentomila. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. Non è punibile chi commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno».
Oggetto giuridico tutelato: il diritto patrimoniale di una persona sugli animali e non gli animali per se stessi. Il delitto può commettersi esclusivamente su animali di proprietà di altri. La legge n. 189 del 20 luglio 2004 “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”, modifica l’art. 638 nel modo seguente:
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Uccisione o danneggiamento di animali altrui Chiunque senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 300. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. Non è punibile chi commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno.
L’oggetto giuridico tutelato è il diritto patrimoniale di una persona sugli animali e non gli animali per se stessi. Il delitto può commettersi esclusivamente su animali di proprietà di altri, quindi, la consapevolezza dell’appartenenza di esso ad un terzo soggetto, parte offesa, è un elemento costitutivo del reato. Si vuole evidenziare che il secondo comma del presente articolo prevede la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e la procedibilità d’ufficio, se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria: quindi, per effetto del disposto di cui all’art. 280 c.p.p. (Condizioni di applicabilità delle misure coercitive) e art. 381 c.p.p. (Arresto facoltativo in flagranza) è possibile procedere alle misure cautelari e pre-cautelari. Regolamento (CE) n. 1/2005 del Consiglio, del 22 dicembre 2004, sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate che modifica le direttive 64/432/CEE e 93/119/CE e il regolamento (CE) n. 1255/97 – Questo testo disciplina il trasporto degli animali vertebrati vivi all’interno dell’Unione europea (UE), qualora il trasporto sia effettuato in relazione con una attività economica, al fine di non esporre gli animali a lesioni o a sofferenze inutili e assicurare condizioni conformi alle loro esigenze di benessere. Il regolamento rafforza la legislazione in materia di benessere degli animali durante il trasporto, identificando gli operatori e le rispettive responsabilità, introducendo modalità più severe di autorizzazione e di controllo, nonché definendo regole più restrittive per quanto riguarda il trasporto. Il nuovo regolamento, coerentemente al principio fondamentale per cui gli animali non devono essere trasportati in condizioni tali da esporli a lesioni o sofferenze inutili e che si applica ai trasporti effettuati in relazione con un’attività economica degli animali vertebrati vivi, si è reso necessario al fine di limitare il più possibile i lunghi viaggi che rappresentano la causa principale di strapazzo degli animali trasportati. Il regolamento coinvolge non solo i trasportatori propriamente detti, per i quali sono previste apposite autorizzazioni, certificazioni di idoneità e sistemi di “tracciabili-
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tà” delle loro attività, ma anche gli allevatori, i commercianti, gli operatori dei centri di raccolta, dei posti di controllo e dei macelli in quanto le operazioni di carico e scarico degli animali rappresentano altri importanti momenti di stress legati ai trasporti. Decreto legislativo 25 luglio 2007 n. 151 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 luglio 2007 n. 212) Disposizioni sanzionatorie per la violazione delle disposizioni del regolamento (CE) n. 1/ 2005 sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate. Sanzioni previste: - Amministrative pecunarie; - Accessorie (sospensione e revoca dell’autorizzazione al trasporto).
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Drago e San Giorgio (frontespizio del Terentius)
Leone di Siracusa
Aquila di Tiberio
Cavallo con palma - zecca punica
Elefante di Cesare
Galletto di Cales
Lupa e gemelli di Costantino
Polpo di Siracusa
Stella tra delfini di Siracusa
Stemma famiglia De Rosa di Campagna
Platea della chiesa parrocchiale di Atena
Platea della chiesa parrocchiale di Atena
Platea della chiesa parrocchiale di Atena
Uccisione di un luparello
Dall’Abrégé di François Holandre
Dall’Abrégé di François Holandre
Dall’Abrégé di François Holandre
Veduta dell’oasi di Persano (foto di R. Lenza)
Canneto e bosco idrofilo (foto di R. Lenza)
Lontra (foto di C. Falanga)
Moscardino (foto di R. Lenza)
Airone bianco maggiore e garzetta (foto di R. Lenza)
Spatole (foto di V. Cavaliere)
Svasso maggiore (foto di C. Falanga)
Germano reale con i piccoli (foto di R. Lenza)
Falco di palude (foto di C. Falanga)
Tartaruga palustre (foto di V. Cavaliere)
Remigio Lenza, Flora e fauna dell’oasi di Persano
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REMIGIO LENZA
Flora e fauna dell’oasi di Persano
L’Oasi WWF di Persano si trova in Campania, nei comuni di Serre e Campagna, entrambi in provincia di Salerno, e ricade nel tratto medio del corso del fiume Sele, inserito tra il litorale tirrenico che va da Salerno ad Agropoli e i monti Picentini ed Alburni. Si estende su una superficie di 110 ettari, 70 dei quali costituiti da un bacino artificiale che si origina per la presenza di una traversa fluviale indicata comunemente come “Diga di Persano”, costruita negli anni Trenta per portare l’acqua ai terreni bonificati della Piana del Sele. La Diga di Persano è costituita da una soglia fissa posta a quota 40,5 metri s.l.m., sulla quale vanno a chiudersi quattro paratoie metalliche che mantengono mediamente il livello a 46,5 m. s.l.m. L’Oasi di Persano è stata istituita nel 1980, a seguito di una convenzione tra il Consorzio di Bonifica Destra Sele, che gestisce l’area dell’invaso e la rete di distribuzione dell’acqua, e il WWF Italia, a cui è stata affidata la gestione naturalistica dell’area. È inclusa nell’Oasi di Protezione della Fauna, istituita dalla Regione Campania nel 1977, su di una superficie complessiva di circa 3400 ettari e l’intero corso del fiume Sele è inserito nella Riserva Naturale Regionale Foce Sele-Tanagro. L’Oasi è anche “Zona di Protezione Speciale” (Z.P.S.) denominata “Corso del fiume Sele-Persano” e “Zona Umida di Importanza Internazionale” (Convenzione di Ramsar) ed inoltre si trova all’interno di uno dei “Siti di Importanza Comunitaria” (S.I.C.), denominato “Medio Corso del Fiume Sele”, proposti dall’Italia all’Unione Europea nell’ambito della Rete Natura 2000, prevista dalla Direttiva “Habitat” (92/43/CEE). L’area, che è facilmente raggiungibile percorrendo l’Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, uscita Campagna (SA), è di notevole interesse naturalistico, grazie alla molteplicità e alla variabilità delle specie animali e vegetali naturali presenti, al complesso degli habitat e degli ecosistemi di cui fanno parte e alle interazioni che si instaurano tra le diverse componenti.
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Attraverso la realizzazione di zone protette come questa è possibile quindi conservare e mantenere i livelli di biodiversità di questi habitat naturali e delle specie rare o minacciate. L’Oasi di Persano, grazie alla bellezza e alla biodiversità degli habitat naturali presenti, attira ogni anno sui suoi percorsi naturalistici alcune migliaia di turisti e scolaresche, anche spinti dalla curiosità di poter osservare la lontra (Lutra lutra), simbolo dell’oasi e presente con una delle più importanti popolazioni d’Italia. 1) L’ambiente La presenza della traversa di sbarramento sul fiume Sele ha determinato, per un tratto di alcuni chilometri a monte, una rapida e significativa trasformazione del biotopo da fluviale a lacustre. L’invaso creato, infatti, rallenta di molto la corrente, diminuendone così la capacità di trasporto e favorendo la sedimentazione nel bacino. Il fondo dell’alveo a monte della traversa si è progressivamente sollevato tendendo verso una nuova configurazione in equilibrio con i mutati parametri idraulici. I sedimenti accumulatisi nel tempo hanno colmato la valle incisa dal fiume nelle preesistenti formazioni geologiche, creando un ampio fondo valle alluvionale, solcato da alvei effimeri e dal corso mutevole e dove è riconoscibile il caratteristico andamento meandriforme degli alvei di pianura, con anse in evoluzione e lanche. Il progressivo interramento del bacino ha dato vita ad estese superfici fangose a pelo d’acqua, che nei mesi estivi emergono, creando scenari estremamente suggestivi, oltre che nuove aree aperte alla colonizzazione di specie pioniere. 2) La flora a) Vegetazione erbacea Nell’ambito della vegetazione erbacea ripariale il ruolo di specie pioniera è occupato sicuramente dalla cannuccia di palude (phragmites australis), la specie più diffusa tra le comunità a vegetazioni idrofitiche presenti nella cenosi a Phragmitetum communis. Tale comunità forma nell’Oasi del WWF una fitocenosi con estensione di alcune decine di ettari, ma anche nei tratti del fiume caratterizzati da acque lentamente fluenti o stagnanti e sugli argini argillosi, che d’estate si asciugano completamente. La cannuccia di palude, inoltre, facendo perdere energia all’acqua con il fitto intreccio dei suoi fusti e trattenendo materia organica, contribuisce ulteriormente all’interrimento dei bacini,
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preparando il substrato per la colonizzazione da parte delle specie pioniere dei boschi igrofili e ripariali o delle praterie paludose, svolgendo così un ruolo chiave nell’evoluzione naturale della vegetazione acquatica. Questa fitocenosi dominata dalla cannuccia di palude comprende la salcerella (Lythrum salicaria), la menta d’acqua (Mentha aquatica), la piantaggine d’acqua (Alisma plantago-aquatica), il marrubio acquatico (Lycopus europaeus) e Typhoides o Phalaris arundinacea. Nelle radure del canneto si sviluppano sovente prati con presenze elevate di Galium palustre, Cirsium palustre, Holcus lanatus, Myosotis scorpioides, Dactylis glomerata e Cynodon dactylon. In pozze di limitata estensione e profonde poche decine di centimetri, situate all’interno del fragmiteto, in contesti in cui la cannuccia viene annualmente tagliata per consentire il passaggio dei visitatori, si rinviene la tifa (Typha angustifolia), il giglio d’acqua (Iris pseudacorus), la veronica acquatica (Veronica anagallis-aquatica), Eleocharis palustris e diverse specie di giunchi (Juncus sp.), mentre ai bordi del canneto nelle aree più prossime alle rive possiamo menzionare l’equiseto palustre (Equisetum palustre) ed il carice maggiore (Carex pendula). Dove l’acqua è stagnante, a profondità comprese tra 0,5 e 2 metri, prevalentemente al largo del fragmiteto, ritroviamo lo sparganio (Sparganium erectum) spesso in nuclei anche molto estesi (fino a 300 Mq) e monospecifici, e Scirpus lacustris (sinonimo Schoenoplectus lacustris). Tra le piante acquatiche sommerse o galleggianti, ricordiamo diverse specie di Potamogeton, la Zannichellia (Zannichellia palustris) e la lenticchia d’acqua (Lemna minor). Lungo numerosi tratti del fiume, sia su substrati ciottolosi che sabbioso-limosi e in condizioni di acque lentamente fluenti o a poche decine di centimetri di altezza rispetto al fiume, si sviluppa un fitto tappeto di Paspalum paspaloides, una graminacea che, grazie alla capacità colonizzatrice conferitale dagli stoloni, riesce a spingersi nella zona di interfaccia terra-acqua. Nei periodi di magra quest’ultima può trovarsi completamente all’asciutto, entrando così in contatto con altre specie, come il pepe d’acqua (Polygonum Hydropiper), Bidens tripartita, Echinochloa crus-galli e Xanthium strumarium. b) Vegetazione arborea Nell’ambito della vegetazione arborea, una delle tipologie vegetazionali maggiormente rappresentate si riferisce ai boschi ripariali veri e propri. Lungo la maggior parte dei corsi d’acqua italiani, questi ultimi sono ridotti oramai a fasce molto ristrette: quelli del fiume Sele sono invece uno dei rari esempi di bosco ripariale sopravvissuto alle trasformazioni antropiche subite negli ultimi decenni dal nostro paese. Tra le formazioni riparali, quelle più affrancate dall’acqua sono le cenosi a prevalenza di pioppo bianco (Populus alba), che si rinvengono sui suoli argillosi dei terrazzi alluvionali, sui quali le ondate
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di piena arrivano raramente e per brevi periodi. Le altre specie arboree presenti in queste cenosi sono l’olmo comune (Ulmus minor), il pioppo nero (Populus nigra), il pioppo tremulo (Populus tremula) e l’ontano comune (Alnus glutinosa), mentre gli arbusti più frequentemente presenti sono il sambuco (Sambucus nigra), il corniolo (Cornus sanguinea), il ligustro (Ligustrum vulgare) e il biancospino (Crataegus laevigata). Fra le erbacee ritroviamo l’edera (hedera helix), la vitalba (Clematis vitalba) e Brachypodium sylvaticum. Si possono inoltre riscontrare nello strato dominato anche isolati esemplari di robinia (Robinia pseudoacacia), di acero campestre (Acer campestre) e nocciolo (Corylus avellana). La fitocenosi più rappresentativa dell’Oasi WWF di Persano è sicuramente quella nella quale spicca come specie dominante il salice bianco (Salix alba). Questa specie si rinviene ai lati del letto del fiume Sele, dove si ha scorrimento di acqua per tutto l’anno e su substrati prevalentemente sabbiosi. Salix alba è infatti capace di tollerare le lunghe e frequenti piene che si susseguono nel corso dell’anno nel bacino artificiale dell’Oasi e spesso si trova in consociazione con Salix purpurea, Salix eleagnos e Salix triandra. L’evidente carattere pioniero di questa cenosi le è conferito dalla facile disseminazione anemocora dei semi resa palese dal gran numero di plantule di salix alba presenti nei nuclei a vegetazione erbacea di greto e dalla forte capacità di rigenerazione vegetativa di questa specie. Tra le altre specie arboree presenti possiamo ritrovare isolati esemplari di frassino maggiore e di tamerice. Lo strato arbustivo è formato soprattutto da rovo (rubus ulmifolius). Un’altra cenosi presente nell’Oasi è quella costituita da boschi misti mesofili. Si tratta di boschi a composizione floristica complessa e con specie afferenti a diverse tipologie vegetazionali che si sviluppano sui versanti dei terrazzi alluvionali olocenici, risparmiati dalle attività umane per la loro particolare morfologia e sulle strette fasce che li bordano. Qui rileviamo la presenza di caratteristiche specie come il carpino (Carpinus orientalis), il siliquastro (Cercis siliquastrum), l’orniello (Fraxinus ornus), Celtis australis, Ostrya carpinifolia, Asparagus acutifolius e Coronilla emerus. Vi è inoltre una buona presenza di leccio (Quercus ilex), cerro (Quercus cerris), Quercus pubescens, Fraxinus oxicarpa e Laurus nobilis. 3) La fauna Sebbene di ridotta estensione, 110 ettari, l’Oasi comprende una tale varietà di ambienti, acquatici e non, che consente di ospitare una ricca comunità ornitica, il che fa di essa uno dei siti di maggior valore naturalistico in Campania ed ha fatto sì che fosse inserita nell’elenco delle IBA (Important Bird Areas). Nell’Oasi sono state censite ben 186 specie di uccelli, di cui 47 nidificanti (25,27%). Tra queste, 111 non-Passeriformi, di cui 13 nidificanti (11,71%) e 75 Passeriformi, di cui 34 nidificanti (45,33%).
Remigio Lenza, Flora e fauna dell’oasi di Persano
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Questo perché l’Oasi rappresenta un importante punto di sosta e di foraggiamento durante le migrazioni, un sito di svernamento tra i principali della regione ed un sito di nidificazione per uccelli acquatici e di canneto. In inverno sono presenti molte anatre: di superficie, come i germani reali, le alzavole, i fischioni, i codoni ed i mestoloni o tuffatrici, come i moriglioni, la moretta comune e la moretta tabaccata, presenza rara ma importante. Delle anatre il totale del contingente svernante è passato da una media di 450 individui nei cinque inverni dal 1996 al 2001, a una media di 943 individui dal 2001 al 2006. Questo incremento ha interessato soprattutto le popolazioni di alzavola e germano reale. Nella stagione invernale sostano un notevole numero di folaghe e di cormorani, una popolazione di aironi cenerini e, negli ultimi anni, un numero sempre maggiore di aironi bianchi maggiori. Il cormorano ha mostrato un incremento nel corso degli anni, fino agli attuali 270300 individui svernanti, che confluiscono nell’oasi per il roosting e si distribuiscono durante il giorno lungo i fiumi Tanagro e Sele fino al mare. Persano rappresenta il principale sito di svernamento di questa specie in Campania. Con l’inizio della primavera altre specie di aironi (garzette, sgarze ciuffetto, aironi rossi, nitticore) sostano nell’oasi e si possono osservare ai bordi del canneto, immobili in attesa della preda o in volo sulle acque del fiume, mentre il tarabusino, il più piccolo degli aironi, si accinge a costruire il proprio nido nel fitto dei canneti. Nella tarda primavera e durante l’estate nelle acque del lago i protagonisti indiscussi sono le coppie di uccelli acquatici seguiti dai piccoli nati. Tra gli eventi più significativi vi è la nidificazione dello svasso maggiore che, iniziata nel 1982 con una coppia, si è sempre maggiormente consolidata nel tempo, raggiungendo negli ultimi anni una media di 20-25 coppie nidificanti. I corteggiamenti hanno inizio dall’ultima decade di febbraio, gli accoppiamenti hanno luogo in aprile, pulli al seguito sono osservabili da fine maggio. Le zone di acque basse del lago in primavera sono il luogo di sosta ideale per gli uccelli limicoli, come cavalieri d’Italia, pittime reali, combattenti, piro piro piccoli, boscherecci e culbianco; quando poi, all’abbassarsi delle acque, emergono spiagge di sabbia e ciottoli, è qui che fanno la loro comparsa i corrieri piccoli, che possono anche nidificare nell’oasi. Sempre in primavera, il segnale inconfondibile che ci conferma della favorevole posizione che riveste l’oasi di Persano nelle rotte migratorie è costituito dalle numerose formazioni di gru che solcano i cieli dell’oasi per guadagnare le vie del Nord, mentre tra le anatre, la marzaiola compie qui una sosta breve, ma fondamentale, che la porterà poi a raggiungere le aree di nidificazione delle regioni paleartiche occidentali. Tra i rallidi sono comuni la gallinella d’acqua, il porciglione, la schiribilla ed il voltolino. I prati allagati e gli spazi aperti tra i canneti sono l’habitat preferito dai beccaccini,
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che setacciano il terreno in cerca di cibo con il lungo e caratteristico becco. Altre specie caratteristiche del lago e della palude sono il tuffetto, il tarabuso, la spatola, il mignattaio ed il martin pescatore. I canneti ospitano numerosi piccoli passeriformi, come la cannaiola, il cannareccione (entrambi nidificanti con i loro caratteristici nidi a coppa), l’usignolo di fiume ed il migliarino di palude. Presenze importanti sono il pettazzurro ed il basettino. Il pendolino costruisce il suo inconfondibile nido lasciandolo appeso ad un ramo di salice. I picchi, la ghiandaia, il rigogolo, il gruccione e tantissimi piccoli passeriformi abitano, invece, i boschi e le macchie dei dintorni. L’oasi è sede di cospicui dormitori di Corvidi, vari Passeriforhami tra cui Irundinidi, come rondini, balestrucci, topini (roosts premigratori), passeri, storni, che a loro volta attirano una diversità di rapaci. Infatti, tra i rapaci sono ospiti pressoché fissi la poiana, il gheppio, il falco di palude, lo sparviere, il falco pellegrino ed il nibbio bruno; più rari invece il falco pescatore, il falco pecchiaiolo, il nibbio reale e le albanelle. I rapaci notturni sono rappresentati da barbagianni, civetta, allocco, assiolo, gufo comune e dal rarissimo gufo di palude. Altra ricchezza dell’oasi e del fiume è la fauna ittica. Le specie più comuni sono il cavedano, l’anguilla, il barbo, la tinca, la carpa e l’alborella appenninica. Vanno comunque segnalati in quanto pur non essendo autoctoni, di recente sono stati introdotti a scopo di pesca sportiva, carassi, persici sole e pesci gatto. Interessante è la presenza delle lamprede: la più diffusa è quella di fiume che, abbandonato il mare, risale il corso d’acqua dolce per raggiungervi la maturità. Anfibi e rettili sono comuni in ogni ambiente dell’oasi e sono uno degli anelli principali della complessa catena alimentare dell’ecosistema: tra i primi possiamo ricordare diverse specie di rane e di tritoni, l’ululone dal ventre giallo, il rospo comune, il rospo smeraldino e la raganella. Tra i rettili vanno segnalati la testuggine d’acqua, la natrice dal collare, la natrice tessellata, il cervone ed il biacco. È proprio tra i mammiferi presenti nell’oasi che troviamo l’animale scelto come simbolo di questo piccolo paradiso naturale: la lontra. La lontra è un carnivoro appartenente alla famiglia dei mustelidi ed occupa un vasto areale di distribuzione, che comprende l’Europa, una parte dell’Asia e del Nord-Africa. Il fiume Sele, insieme ai suoi affluenti, ospita oggi una delle più vitali popolazioni di lontra d’Italia. La tranquillità dell’Oasi e l’ambiente ottimale garantiscono, infatti, alle lontre un rifugio sicuro. Animale notturno e assai timoroso dell’uomo, frequenta di preferenza il bosco igrofilo e gli ampi canneti. Indicatore per eccellenza dello stato di salute dell’ecosistema fluviale, la lontra svolge un ruolo fondamentale nella catena alimentare. Altri mustelidi presenti sono la puzzola, il tasso, la faina e la donnola. L’Oasi di Persano ospita, inoltre, volpi, cinghiali, ricci, moscardini e nel folto dei canneti di recente è stato scoperto anche il topolino delle risaie.
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TAVOLA ROTONDA I diritti degli animali. Quale fondazione teorica per un’etica animalista?
LUISELLA BATTAGLIA Nell’ambito della riflessione bioetica una delle categorie più significative e più trascurate è forse quella di ‘vulnerabilità’, il cui significato letterale, derivato dal latino vulnerare, è “suscettibilità all’essere ferito”. In senso stretto e specifico, ‘vulnerabilità’ si riferisce a una situazione di particolare debolezza e fragilità, quella di soggetti che per età, condizione ecc., necessitano di una protezione particolare 1. In senso lato e generale, riguarda la condizione stessa di precarietà di tutti i viventi, umani e non umani, che sono esposti, nell’arco della loro esistenza, al rischio di essere feriti, e sono quindi eminentemente ‘vulnerabili’. È su questo secondo significato, dalla forte valenza etica e antropologica, che merita concentrarsi per evidenziarne le forti implicazioni per il tema della cura. Si tratta, in effetti, di un’idea innovativa che ci consente di ripensare buona parte del discorso bioetico, finora incentrato prevalentemente su principi quali l’autonomia o la giustizia. È stata in particolare la Dichiarazione di Barcellona – sottoscritta nel 1998 da ventidue studiosi europei, provenienti da diverse discipline e orizzonti filosofici, a conclusione di una ricerca di tre anni promossa dalla Commissione Europea – ad aver valorizzato la nozione di vulnerabilità, affiancandola a quelle di autonomia, integrità, dignità 2. Si tratta di 1 «“Vulnerabili” sono tutte le persone che non si trovano nella libertà di scegliere, condizionate da età, patologie importanti, condizioni culturali, particolarmente esposte a qualche forma di fragilità, esclusione e discriminazione».V. G. MARSICO, La sperimentazione umana. Diritti violati, diritti condivisi, Milano, Angeli, 2007, p. 157. 2 ‘Barcelona Declaration’ in J. D AHL RENDTORFF, P. KEMP, Basic Ethical Principle in European Bioethics and Biolaw.. I, Autonomy, Dignity, Integrity and Vulnerability. Report to the European Commission of the BIOMED. II Project “Basis Ethical Principles in Bioethics and Biolaw” 19951998, Copenhagen, Center for Ethics and Law; Barcelona, Instituto Boja de Bioetica, 2000.
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quattro idee regolatrici, utili non solo per l’analisi delle questioni cruciali della bioetica e del biodiritto ma anche per orientare il dibattito contemporaneo sulla biomedicina e le biotecnologie in un contesto normativo, nel quadro di un’etica della solidarietà, della responsabilità e della giustizia intesa come equità. La finalità sottesa alla Dichiarazione è infatti quella di incoraggiare una cittadinanza responsabile, sulla linea – si potrebbe aggiungere – della ‘democrazia conoscitiva’ auspicata da Edgar Morin, contribuendo ad una riflessione collettiva sull’impatto della cosiddetta ‘rivoluzione biologica’ sulla condizione dell’uomo, dell’ambiente e delle altre specie. Si avverte la necessità di un cambiamento di paradigmi, pur se si riconosce – sul piano dei regolamenti europei e delle Dichiarazioni internazionali, dalla Carta dei Diritti di Nizza alla Convenzione di Oviedo – la presenza di una cultura basata su valori quali il rispetto dell’altro, la non discriminazione, la protezione dell’ambiente. Valori condivisi e sufficientemente partecipati ma privi ancora di un quadro concettuale unitario su cui poter articolare politiche coerenti valide per un mondo globalizzato. D’altra parte, non si deve credere che un linguaggio comune implichi una facile soluzione dei conflitti d’interpretazione dei principi su menzionati; facilitare il dibattito non significa mascherare i contrasti legati a differenti visioni filosofiche (si pensi, per fare un solo esempio, all’ambito di applicazione del concetto di ‘altro’: quali forme di vita devono intendersi incluse in un’etica del rispetto e della cura? Solo gli umani o anche la natura e gli animali?). Sennonché, il riconoscimento della complessità relativa all’interpretazione e all’applicazione dei principi guida della Dichiarazione, lungi dall’essere un elemento di sconforto o di rammarico, dovrebbe considerarsi come uno stimolo critico per l’approfondimento concettuale e la chiarificazione analitica di nozioni, come quelle dell’etica e della bioetica, eminentemente “confuse” – per riprendere una caratteristica espressione perelmaniana 3. L’autonomia, ad esempio, appare nella Dichiarazione come un’idea regolatrice e un ideale commisurato alla finitezza umana, considerate le determinazioni biologiche e sociali, culturali e cognitive e i limiti delle capacità dei singoli individui. L’impegno è dunque di 3 Secondo Chaim Perelman, la “confusione” delle nozioni più prestigiose dell’etica e del diritto è legata alla ricchezza e alla complessità dei loro significati nella vita sociale. «È il caso, soprattutto, delle nozioni confuse, come quella di giustizia che non possono essere precisate e applicate se non scegliendo e mettendo in evidenza alcuni loro aspetti incompatibili con altri o infine di nozioni come quella di merito, il cui uso non si concepisce che in funzione della loro stessa confusione: la valutazione si riferisce, infatti, contemporaneamente al soggetto che agisce e al risultato ottenuto». C. PERELMAN, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Prefazione di Norberto Bobbio, I, Torino, Einaudi, 1966, p. 139.
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riconoscere, in quanto società democratiche, la persona umana come un essere complesso, un corpo vivente situato in un contesto culturale. L’autonomia dei minori, delle persone in coma o dei malati mentali dovrebbe pertanto definirsi e articolarsi in relazione alla responsabilità che impone a noi ‘autonomi’ la loro vulnerabilità specifica. Il secondo principio formulato dalla Dichiarazione è quello di dignità, da intendersi come «la proprietà in virtù della quale gli esseri possiedono uno statuto morale». Esistono, si afferma, interpretazioni assai differenti di tale nozione nella cultura europea: la dignità è identificata, ad esempio, sia con la capacità di agire autonomamente sia con quella di sperimentare il piacere o il dolore. Il quesito importante è se essa riguardi solo gli umani o anche gli altri esseri viventi: in effetti, la definizione della Dichiarazione appare volutamente – ritengo – tanto generica da potersi estendere anche ad altre specie. Resta la domanda: qual è la ‘proprietà’ che consente di riconoscere uno statuto morale ad un essere? È necessaria la razionalità o è sufficiente la sensibilità? E, soprattutto, chi lo stabilisce? Lo stato, la società civile, la comunità dei filosofi, degli scienziati (ammesso che esista)? Il vero problema è che in differenti periodi storici tale ‘proprietà’ è stata attribuita o negata a diversi soggetti – gli schiavi, le donne, i neonati – per le ragioni filosofiche, teologiche, ideologiche più varie e spesso più bizzarre. Senza entrare nel merito di tali questioni, nella Dichiarazione si prende atto della diversità di tali definizioni, pur se si ribadisce – e si tratta di un punto assai significativo per la costruzione di una bioetica davvero ‘globale’ – la possibilità di argomentare plausibilmente che gli esseri umani hanno dei doveri verso «la parte non umana della natura vivente». Se ne desume un’etica della responsabilità che superi dichiaratamente l’antropocentrismo della morale tradizionale. La nostra cultura dei diritti dell’uomo fa dell’integrità – il terzo principio della Dichiarazione – «la condizione dell’espressione di una vita degna, nella sua dimensione mentale e fisica, non soggetta a un intervento esterno». L’integrità riguarda la “coerenza della vita” di esseri a cui si riconosce una dignità irriducibile e a cui non si può arrecare offesa. Quando si tratta di persone umane si deve considerare l’insieme della loro vita ricordata e narrata: è dunque alla loro biografia che si dovrà fare riferimento, a quella ‘unità narrativa’ di cui ogni esistenza è espressione. Ciò che conta infatti è la vita biografica, non certo la mera vita biologica. Alcuni – si aggiunge significativamente – integrerebbero in questa definizione la ‘coerenza’ della vita animale o vegetale o della creazione dell’universo che condiziona la vita nel suo insieme. In effetti, l’integrità, diversamente declinata, è una nozione che può applicarsi anche agli altri viventi se si identifica, ad esempio, col peculiare telos cui la natura li destina.
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Ma è in particolare, come si accennava, il quarto principio, la vulnerabilità a costituire il fondamento, nella Dichiarazione, di un’etica pubblica della cura che non vuole semplicemente limitarsi alla protezione paternalistica degli incapaci ma intende costruirsi sulla premessa antropologica che tutti noi – anche se ‘autonomi’ – siamo fondamentalmente vulnerabili e quindi esposti a molteplici minacce, tra cui quella dell’indifferenza di coloro che disprezzano i diritti dei vulnerabili. Tale principio, che esprime essenzialmente l’idea della finitezza e della fragilità dell’esistenza umana, fonda, per coloro che sono capaci di autonomia, la possibilità e la necessità di ogni discorso morale e di ogni etica che faccia appello alla responsabilità e alla cura. Esso richiede non solo la non interferenza con gli altri tre principi, ma comporta specificamente anche il dovere di assistere coloro che sono incapaci di realizzare il loro potenziale umano e che vedono minacciato il loro diritto all’autonomia, all’integrità, alla dignità. Mi sembra degno della massima attenzione che nella parte conclusiva della Dichiarazione si affermi: «l’applicazione delle idee regolatrici non dovrebbe limitarsi alla sfera dell’umano; le nozioni di dignità e vulnerabilità possono egualmente essere considerate come base di riflessione per la regolamentazione concernente gli animali, le piante e l’ambiente».
In tal modo la bioetica diverrebbe effettivamente un’etica per il mondo vivente, realizzando quella vocazione cui fin dalle origini il suo stesso etimo la destinava. Si dovrebbe forse dire: “ritorna ad essere”, giacché tale era il progetto iniziale di Van Potter (l’inventore, si ricorderà, del neologismo bio-etica, da intendersi come “ponte” tra le due culture, scientifica e umanistica) il quale si riferiva esplicitamente all’etica ecologica di Aldo Leopold come eredità preziosa cui attingere 4. L’etica della cura – e qui ancora Van Potter si riferiva ad un’altra fonte essenziale, la lezione di Carol Gilligan relativa all’importanza del Caring e alla voce femminile nel discorso morale – dovrebbe considerarsi estesa oltre l’ambito umano ma come espressione di una fondamentale vocazione ‘umanistica’. Il mondo non umano vi compare a pieno titolo come interlocutore significativo dell’umano e sembra ormai costituire un partner indispensabile per il pieno dispiegamento delle nostre capacità di specie. La relazione interspecifica si configura così come prolungamento ed estensione dell’umano: l’uomo guarda oltre se stesso, si apre a mondi altri, ma per realizzare la sua stessa umanità. Soggetti e oggetti di cura: tali sono gli esseri umani, capaci insieme, uomini e donne, di dare e ricevere cura. È lo stesso mito di Cura a ricordarcelo. Come si legge nella nar4
R. VAN POTTER, Bioetica. Ponte verso il futuro, Messina, Sicania, 2000.
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razione di Igino, ciascuno di noi è figlio di Cura, quella dea che forgia l’uomo dal fango (uomo da humus) e lo possiede per tutto il tempo della sua vita, destinandolo – per riprendere le parole di Heidegger – a «quel modo d’essere che domina da cima a fondo la sua vicenda temporale nel mondo». Tra gli studiosi di bioetica, spetta in particolare a Warren Reich il merito di aver evidenziato il profondo carattere simbolico dell’idea di vulnerabilità, mostrando come essa consenta di mediare tutte quelle dimensioni dell’esperienza umana che fanno parte integrante di una visione completa dell’etica 5. A suo avviso, la “tirannia dell’autonomia”, e cioè l’enfasi eccessiva posta dagli studiosi su tale principio, è servita ad escludere sistematicamente dalla bioetica una considerazione seria delle esperienze di vulnerabilità umane. Si prenda come esempio – osserva Reich – la condizione dei bambini, le forme diverse di abuso cui sono sottoposti, la mancanza di attenzione ai loro bisogni materiali, emotivi, spirituali, le conseguenze dell’epidemia dell’A.I.D.S. in Africa che lascia dietro di sé milioni di orfani, l’assenza di cure sanitarie per la maggioranza dei minori negli U.S.A. Nella letteratura bioetica l’infanzia occupa tutto sommato una posizione marginale, proprio a causa della assoluta prevalenza del principio di autonomia che ridimensiona drasticamente la pertinenza dei problemi morali concernenti i bambini. In effetti, se si pone al centro dell’attenzione in modo assoluto ed esclusivo tale principio, tutti i soggetti non dotati di piena autonomia rischiano la marginalità, se non l’esclusione. Da qui l’importanza del linguaggio della vulnerabilità che apre il discorso morale ad una sensibilità rinnovata nei confronti di quella condizione che definisce così radicalmente la nostra vita umana 6. Reich ha senz’altro ragione nel sottolineare la portata euristica di una nozione che ha trovato – come si è visto – nella Dichiarazione di Barcellona un riconoscimento significativo, in stretta correlazione con i principi di autonomia, integrità e dignità. Qualche perplessità, invece, solleva a mio avviso la sua interpretazione per cui di fatto tali principi costituirebbero, nel loro insieme, una critica e un’alternativa ai quattro principi ‘classici’ della bioetica nordamericana: ‘autonomia’, ‘non maleficenza’, ‘beneficità’, ‘giustizia’, formulati dal filone analitico della filosofia anglo-americana, a sua volta influenzata dal pensiero illuministico-liberale. Propendo infatti a pensare che il concetto di ‘vulnerabilità’ non solo non sia alternativo a quello di ‘autonomia’ – che resta infatti nella Dichiarazione come principio bioetico fondamentale – ma ne rappresenti, per così dire, una diversa e più complessa W.T. REICH, Prendersi cura dei vulnerabili. Il punto di incontro tra etica secolare ed etica religiosa nel mondo pluralistico, Fondazione Bruno Kessler 2003. 6 Per un approfondimento critico di tale tematica, si rinvia ad A. GENSABELLA, Vulnerabilità e cura. Bioetica come esperienza del limite, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008. 5
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declinazione. Si tratta – come si è visto – di aprire il discorso liberale alla prospettiva della cura, di mostrare come, senza in alcun modo rinunciare al linguaggio dei diritti, sia possibile, e anzi necessario, tener conto della fragilità di quei ‘soggetti deboli’ – bambini, anziani, disabili – che non hanno da soli la forza o il potere di rivendicare quei diritti che pure formalmente detengono. V’è chi, come Elizabeth Wolgast, a questo riguardo ha parlato di ‘diritti sbagliati’ per sottolineare il distacco tra ciò che pomposamente si proclama nelle dichiarazioni ufficiali e la situazione di trascuratezza, se non di abbandono, in cui versano i più vulnerabili. Io preferisco parlare di ‘diritti imperfetti’ proprio per rimarcare la necessità dell’impegno etico e politico a sostegno dei soggetti deboli, col preciso obiettivo di ‘prendersi cura dei loro diritti’. Ritengo infatti che non solo non vi sia distacco e separazione rispetto alla tradizione illuministico-liberale, ma possa anzi rivelarsi una profonda compatibilità con tale filone di pensiero che si è mostrato molto attento alle ragioni dei soggetti storicamente più deboli e socialmente più vulnerabili, come le donne, i minori, gli schiavi e, per finire, gli animali stessi. Si tratta di dare voce a chi non ne ha, di promuovere le opportunità e i diritti di chi ne è privo – si pensi, per fare solo qualche esempio, a Voltaire e alla sua lotta in difesa di Calas o a Mill e al suo impegno per la causa femminista. Prendersi cura di chi è vulnerabile può significare anche lavorare per la sua autonomia. D’altra parte la ‘bella città universale’ di cui scriveva Jules Michelet – una città aperta a tutti i vulnerabili, al di là delle stesse frontiere della specie – non può considerarsi espressione e testimonianza di quello spirito dell’89 che reclamava un’universale libertà, fraternità, eguaglianza? 7 A questo punto è forse possibile precisare meglio la funzione euristica del principio di ‘vulnerabilità’che ci consente di guardare direttamente a tutte le forme di fragilità, di debolezza, di ‘suscettibilità al dolore’, umane e non umane. In effetti, la vulnerabilità è una caratteristica propria di tutti i viventi, sensibili alla sofferenza, a qualunque specie appartengano. Riconoscere tale principio significa aderire ad una visione della bioetica aperta alla considerazione globale di tutti i vulnerabili e disposta a prendersene cura per sostenerne le ragioni e difenderne i diritti. In tal senso, una ‘bioetica per i vulnerabili’ corrisponde ad una sua visione rinnovata ma fedele e assolutamente coerente alla dizione di ‘etica per il mondo vivente’. Il punto di partenza di questo percorso è un testo di A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti, che ci offre un’analisi fenomenologica della condizione umana in termini di vulnerabilità e di dipendenza per mostrare l’indispensabilità delle virtù. Cfr. L. BATTAGLIA, Alle origini dell’etica ambientale. Uomo, natura, animali in Voltaire, Michelet, Thoreau, Gandhi, Bari, Dedalo, 2002. 7
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L’Autore ravvisa innanzitutto una fondamentale relazione tra la nostra condizione animale e la nostra vulnerabilità, il che lo induce a partire dalla riaffermazione dell’animalità umana rivolgendosi ai testi di Aristotele, in particolare all’Etica Nicomachea, «se non altro – osserva – perché nessun altro filosofo ha mai preso tanto sul serio l’animalità dell’uomo» 8. Un’affermazione, a prima vista, piuttosto sorprendente. Si sostiene infatti comunemente che, quando il filosofo greco insegna che la razionalità è la caratteristica distintiva della specie umana, intende dire che si tratta di una caratteristica che separa gli uomini dalla loro animalità. Ma a parere di MacIntyre si tratta di un fraintendimento: «la phronesis, la virtù che consente di articolare la razionalità pratica, è una capacità che Aristotele (e con lui san Tommaso) attribuiva oltre che agli uomini anche ad alcune specie di animali, sulla base della loro capacità di previdenza» 9.
Occorre chiedersi naturalmente quale sia la differenza tra la phronesis che caratterizza certe specie di animali e la razionalità propria dell’uomo, una questione di indubbio rilievo nel suo coinvolgere le relazioni tra umanità e animalità, che tuttavia diversi commentatori hanno ignorato sottovalutando, in tal modo, l’importanza della nostra corporeità animale. Da qui l’affermarsi, nelle culture occidentali moderne, di un’abitudine mentale che, distogliendo la nostra attenzione da quanto ci accomuna alle altre specie, ha posto una linea di demarcazione quasi insuperabile tra noi e gli altri animali. Un vero e proprio “pregiudizio culturale” – così MacIntyre lo definisce – che si pone in contrasto sia con gli antichi modi di pensare aristotelici, sia col moderno naturalismo evoluzionista post-darwiniano. L’uomo ha certo una specificità razionale ma è anche, fondamentalmente, il proprio corpo e quindi è vulnerabile alla sofferenza e deve fare i conti, almeno in una certa parte della vita, con l’imperfezione, i limiti, la malattia. Molto spesso il nostro benessere personale e, talora, la nostra stessa sopravvivenza sono legati significativamente ad altre persone. Da qui la nostra dipendenza da altri soggetti, che si radica appunto nella nostra vulnerabilità ed esposizione alle sofferenze, e appare particolarmente evidente in due stagioni dell’esistenza: l’infanzia e la vecchiaia. In questo senso ‘vulnerabilità’ e ‘dipendenza’ appaiono centrali per caratterizzare la condizione umana, eppure, a ben vedere, la storia della filosofia occidentale non ha riservato la dovuta attenzione a tali categorie, limitandosi solo a riferimenti secondari. Allorché il malato, il sofferente, il disabile trovano posto nelle pagine di un testo di etica – è la puntuale notazione dell’auA. MACINTYRE, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, Milano, Vita e Pensiero, 2001, p. 7. 9 Ibid., p. 8. 8
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tore – è in pratica sempre nella veste di un possibile oggetto di benevolenza da parte dei veri agenti morali, i quali invece, per tutto il corso della loro vita, sono esseri perfettamente razionali, che godono di piena salute e non sono toccati da alcun problema. «In altre parole, nei libri di filosofia morale, il disabile è sempre un altro, qualcuno diverso da noi, un genere a sé stante, quale noi mai siamo stati, possiamo essere o potremmo benissimo essere nel futuro» 10. I corretti rapporti tra gli uomini – all’interno di un’antropologia più attenta al dato della ‘vulnerabilità’ – dovrebbero configurarsi come “reti di dare e di ricevere” che, informate dalle virtù, condurrebbero alla realizzazione della ‘vita buona’, da intendersi nel senso aristotelico dell’eudaimonia. Poiché, nell’analisi di MacIntyre, la famiglia come società primaria non possiede risorse sufficienti per assistere il singolo ma richiede complementi di sussidio, e lo stato nazionale si basa su rapporti di tipo utilitaristico e manipolativo, tali reti solidali potranno instaurarsi solo all’interno di comunità nelle quali sia assicurata una partecipazione attiva e motivata e un’interazione efficace tra i componenti e che siano in grado di rispondere a quel profondo bisogno di reciproco riconoscimento che è proprio del mondo delle persone. Ci si chiede allora come potrebbe mutare il profilo dell’etica – e della bioetica – una volta che si considerassero essenziali, per definire e studiare la condizione umana, – e non solo – i temi della vulnerabilità, del dolore, e quelli connessi della dipendenza. Qual è infatti il rischio dell’oblio o, se si vuole, della insufficiente tematizzazione della ‘vulnerabilità’? Non è forse quello che le abitudini mentali e i pregiudizi, che portano a negare, a dimenticare o a trascurare questi dati antropologici fondamentali conducano ad una considerazione inadeguata delle dimensioni naturali della nostra esistenza, e quindi ad un oblio della nostra stessa corporeità? MacIntyre riconosce che talune scuole filosofiche hanno cercato di porre rimedio a questa lacuna; in particolare, la filosofia femminista, in alcuni filoni, ha sottolineato l’importanza del tema del ‘prendersi cura’, sia all’interno di una visione relazionale che ridimensiona il ruolo dell’autonomia e sottolinea il significato della dipendenza, richiamandosi al rapporto tra madre e figlio come paradigma interpretativo delle relazioni morali – è il caso di Virginia Held – o proponendo, ad es. sulla linea di Martha Nussbaum, una visione della giustizia sociale e della dignità umana capace di andare oltre le frontiere del liberalismo e di integrare in sé il valore della cura. Ciò che accomuna queste differenti visioni è un’idea antropologica incentrata su un’immagine dell’uomo come essere che non può prescindere dalla ‘vulnerabilità’ e dal ‘limite’ per comprendere se stesso e gli altri e per realizzare la ‘vita buona’. Una condi10
Ibid., p. 7.
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zione che è legata fondamentalmente alla sua corporeità, e quindi al suo riconoscersi prima di tutto come ‘animale’. È questo, ad esempio, un punto su cui la Nussbaum si distacca significativamente da una prospettiva kantiana. «Per Kant – scrive in Giustizia sociale e dignità umana. – la dignità umana e la nostra capacità morale, fonte della dignità, sono radicalmente separate dal mondo naturale. L’idea che noi siamo esseri fondamentalmente divisi a metà, sia persone razionali, sia animali che abitano nel mondo della natura, condiziona fortemente la sua visione» 11.
La quale presenta, a suo avviso, aspetti problematici soprattutto per due ragioni: ignora il fatto che la nostra dignità è quella propria di una particolare specie di animali e quindi non potrebbe essere posseduta da un essere che non fosse mortale e vulnerabile; nega che l’animalità possa avere in se stessa una propria dignità e, di conseguenza, manca di considerare quegli aspetti della nostra vita naturale (desideri fisici, risposte sensoriali, emozioni) che hanno significato e valore. Come si vede, la Nussbaum sottopone a una critica serrata l’idea stessa della separazione tra umanità e animalità, un’idea che, consolidatasi nei dualismi sia platonici che cartesiani, di spirito e corpo, ci induce a svalutare non solo il mondo animale, ma la nostra stessa natura animale e la dimensione emozionale-affettiva a vantaggio di quella logico-razionale. Ma è soprattutto MacIntyre – cui va il merito di aver ripreso il dibattito sui rapporti tra la tradizione aristotelica e lo stato attuale delle conoscenze biologiche ed ecologiche – a compiere frequenti incursioni nel campo dell’etologia cognitiva, nella convinzione che l’analisi del comportamento delle cosiddette ‘specie animali intelligenti’ offra interessanti elementi di continuità per comprendere l’uomo come animale razionale. Tanto alcune specie di animali intelligenti quanto gli uomini fanno infatti riferimento ad una medesima comprensione pre-linguistica, in gran parte empatica, che non viene mai definitivamente abbandonata ma piuttosto – nell’uomo – portata a pieno compimento. Eppure – osserva ancora MacIntyre – alcuni pensatori sostengono che gli animali non umani non agiscono mai sulla base di pensieri, credenze o ragioni, affermazione questa che sembra confermare la convinzione che la nostra razionalità di esseri pensanti sia in qualche modo indipendente dalla nostra animalità. Di conseguenza, mettiamo tra parentesi con eccessiva facilità il fatto che il nostro pensare sia quello proprio di una particolare specie animale. 11
p. 36.
M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Bologna, Il Mulino, 2002,
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Ma si dà pure un’altra fondamentale relazione tra la nostra condizione animale e la nostra vulnerabilità. Una delle tesi centrali sostenute dallo studioso è che le virtù di cui abbiamo bisogno, se dobbiamo progredire dalla nostra iniziale condizione animale a quella di agenti razionali, siano le stesse che ci permettono di interagire e di dare risposta alla vulnerabilità nostra e altrui. «Esse sono le virtù di animali razionali dipendenti, la cui dipendenza, razionalità e animalità vanno comprese in reciproca relazione» 12. In tal modo viene colpito in breccia il pregiudizio culturale costituito da quelle ‘autorappresentazioni’ che inducono l’uomo a sentirsi esente dalla rischiosa condizione dell’animalità e quindi a trascurare, o a ignorare, la sua stessa vulnerabilità. Da qui la tendenza a trascurare le basi materiali e animali della moralità e della razionalità e a pensarci come esseri sottratti alle conseguenze del tempo, dimentichi che il ciclo usuale della vita umana si apre e si conclude con periodi di estrema dipendenza. Ciò ha rilevanti implicazioni sia per l’etica normativa sia per il pensiero politico. Per questo, in autori come MacIntyre e Nussbaum, la presa di distanza dalla tradizione del contratto sociale e dalla sua idea fondamentale dello scambio come rapporto improntato al reciproco vantaggio, prefigura un ulteriore orizzonte di valore della bioetica ispirato al paradigma della cura. Emerge infatti con grande evidenza il tema della vulnerabilità, una condizione che riguarda tutti i viventi giacché la ‘suscettibilità ad essere feriti’ è di ciascuno. Come potrebbe mutare dunque – per tornare alla domanda iniziale – il profilo della bioetica e la sua stessa agenda una volta che si consideri centrale tale principio? La bioetica ha finora trovato nell’autonomia il suo cardine, sulla base di una visione dell’essere umano come soggetto adulto, razionale, indipendente, autosufficiente, capace di stipulare pariteticamente contratti. Ma non si tratta di una concezione ideale, assai lusinghiera certo ma altrettanto poco realistica? Non rischia forse di oscurare o di trascurare dimensioni rilevanti della condizione umana, quali appunto la nostra vulnerabilità, secondo quanto ci narrava l’antico mito di Cura? Sulla critica alla nozione astratta e irrealistica di autonomia come indipendenza assoluta, autosufficienza totale si innesta – lo si è visto – il richiamo alla interdipendenza come condizione umana ineluttabile. Una bioetica che faccia finalmente i conti colla vulnerabilità assunta come dato centrale, colla disabilità come limite del corpo, è una bioetica finalmente capace di riconciliarci con la nostra natura animale e di accettare pienamente la dimensione corporale della nostra esistenza. Alle origini del nostro ostentato orgoglio di specie v’è probabilmente la preoccupazione di rendere intangibile la specificità umana, come se essa fosse minacciata dal riconoscimento di una somiglianza inquietante, di una vicinanza contaminante, come se 12
A. MACINTYRE, Animali razionali dipendenti...cit., p. 7.
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ci fosse bisogno di difendersi dal ricordo di una ‘animalità’ a stento abbandonata, quasi la paura di una ricaduta. Il nostro rapporto con la natura è ambivalente perché segnato dall’angoscia – la paura di regredire alla ferinità e al disordine – e insieme dalla speranza – il recupero di un’armonia perduta. E ambivalente è anche il rapporto con l’altro da noi, gli animali che, con un gioco misterioso di specchi e rimandi, ci trasmettono la nostra immagine e che seguono come un’ombra la nostra stessa storia. Il non accettare la nostra natura animale ha come conseguenza una mancata o imperfetta conoscenza di noi stessi che ci porta ad occultare gli aspetti che riteniamo indegni e a liberarcene, proiettandoli su altri che diventano oggetto del nostro disprezzo e del nostro biasimo. In tal modo manteniamo un’immagine positiva e idealizzata del nostro essere a spese di altri soggetti – appunto, i non umani – che sono caricati della negatività. Di particolare rilievo le parole di Alain secondo cui non è permesso supporre lo spirito nelle bestie giacché ogni ordine sarebbe presto minacciato se si lasciasse credere che il vitellino ama sua madre o che teme lo morte… Manifestamente uomo e animale hanno in comune il nascere e il morire, il vivere, la fame, la sete, la paura, il piacere, il dolore. Ma l’animale – si afferma – è confinato al biologico, l’uomo vive nel simbolico. Per il filosofo le opposizioni più significative sembrano giocarsi tra la materia e lo spirito, il corpo e l’anima, la natura e la ragione, l’istinto e l’intelligenza, la necessità e la libertà, il grido e la parola. Sennonché tali opposizioni – vere e proprie pietre di confine – sono in via di superamento grazie anche agli apporti dell’etologia cognitiva e della neurofisiologia comparata e attendono comunque di essere problematizzate e rivisitate. Oggi che il problema della sofferenza animale s’impone alla coscienza come una questione ineludibile per la nostra stessa umanità, è forse venuto il momento di ritrovare il senso di una filantropia, come quella plutarchea, a cui nessun dolore è estraneo. Una parentela ci unisce a tutti gli esseri viventi che abitano con noi lo stesso mondo, respirano la nostra stessa aria, comunicano con noi con sguardi e gesti: ne deriva un dovere di affetto, solidarietà e compassione. Plutarco, che celebra la dolcezza come dote in cui si coniugano moderazione e giustizia, disegna un modello di uomo benevolo e saggio la cui filantropia si estende oltre le frontiere della specie. Nell’idea di cosmopolis – casa comune di tutti gli abitanti della Terra – si delinea l’immagine di un nuovo umanesimo, capace di ritrovare le sue radici nell’humus: un umanesimo non arrogante che, anziché rinnegare la natura, veda in essa il terreno a partire dal quale l’uomo inventa la sua esistenza.
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MARINA LESSONA FASANO Approvo molto questo incontro e l’idea cardine a cui è improntato, la critica all’antropocentrismo, la spocchiosa e non giustificata teoria che da due millenni e mezzo domina la società occidentale; e approvo in genere tutte le riflessioni nelle quali ci interroghiamo circa la correttezza del nostro rapporto con gli animali con il palese intento di contrastare la generale indifferenza verso di essi, e suscitare una migliore disposizione nei loro riguardi attraverso la condanna dell’ingiusta e ingiustificata sopraffazione imposta nei millenni e delle loro difficili condizioni di vita. Per giungere a una valutazione più equanime, a un senso di maggiore giustizia e illuminata tutela. E ciò nell’ambito di quell’etica della sollecitudine, invocata spesso come traguardo del nostro agire e di una sensibilità che fa onore alla nostra epoca, perché se è forse a un livello più basso rispetto all’amore evangelico, ci sprona tuttavia all’individuazione di sofferenze e bisogni degli esseri viventi a cui non possiamo e dobbiamo sottrarci. Tramontata ormai, per le tragiche vicende del ’900, l’idea di progresso irreversibile, che tanto aveva euforizzato gli uomini di fine ’800, uno scossone è stato inferto alla ben radicata concezione antropocentrica, richiamandoci ad una riflessione più approfondita sui nostri convincimenti e comportamenti. L’affermarsi a livello filosofico dell’apprezzabile principio di responsabilità ha reso l’atmosfera spirituale più propizia ad un ripensamento sulla considerazione verso gli animali: una preoccupazione comportamentale si impone e una revisione etica viene da molte parti reclamata. Purtroppo a tutt’oggi, agli inizi del terzo millennio, non possiamo che formulare constatazioni molto amare circa la loro condizione: tra pratiche vivisettrici, allevamenti intensivi, persistenza della caccia, fenomeni di randagismo e di inselvatichimento di cani e gatti, esistenza di canili lager, disumane condizioni nei trasporti, combattimenti di animali, atteggiamenti di ottusa intolleranza ed episodi di vandalica brutalità, assenza di accorte e programmate disposizioni e azioni nei loro riguardi, ancora si può giudicare infernale la condizione degli animali nella nostra civiltà. La scienza moderna continua a teorizzare il suo dominio sulla natura e sugli animali per i suoi fini. Anche se ciò deve comportare sofferenze inaudite e insopportabili. Anche se talvolta gli esperimenti non sono assolutamente indispensabili né vengono esplicate tutte le possibilità per attenuare il dolore. Attraverso le orribili pratiche vivisettrici, devastanti fisicamente e psicologicamente, continuano ad essere immolati milioni di animali sull’altare della salute (e perfino dell’estetica), malgrado i pareri contrari di illustri scienziati e senza sforzi risolutivi per escogitare altri sistemi alternativi. L’immagine dell’animale automa rimane nell’inconscio collettivo a scagionare da colpe e responsabilità. Il criterio antropocentrico ancora è dogma nelle decisioni umane, giu-
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stifica usi e abusi. E ciò colpisce tanto più sgradevolmente, perché in contrasto con temperie spirituali di fine ’800 che sembravano annunciare un riscatto per gli animali. Se infatti l’800 è stato il secolo che ha reclamato per tutti gli uomini i diritti politici, ha abolito la schiavitù, ha dato inizio alla rivendicazioni femministe, ha anche proposto alcuni diritti per i negletti animali: nel 1822 per la prima volta dal Parlamento inglese furono emanate leggi che comminavano pene per chi si rendeva responsabile di crudeltà e sevizie verso gli animali. Molte le Società protettrici formatesi a loro favore in una temperie spirituale che attraversava l’Europa da un capo all’altro e si diffondeva nell’America del Nord e in Australia. Verso la fine dell’800 Leone Tolstoj asseriva che il primo gradino della morale era l’alimentazione vegetariana. E contemporaneamente giudicava la caccia «un atto stupido, crudele e nocivo al sentimento morale»; un atto che annulla la pietà, «una delle più preziose facoltà dell’anima umana». Parole elevate che fanno onore a Tolstoj e all’epoca in cui furono scritte, anche perché non erano pensieri isolati, ma appartenevano ad un’atmosfera spirituale di rivendicazione di diritti, che inglobava anche i dimenticati animali. Il 1892 è l’anno di pubblicazione di un luminoso libro del filosofo Hanry Salt, amico di Gandhi e nobile figura, I diritti degli animali considerati in relazione al progresso sociale, una specie di manifesto ideologico sui diritti degli animali, correlati al progresso dell’umanità, di cui vengono giudicati una tappa ineliminabile. Sulla scia di un progresso che elimina macroscopiche ingiustizie si deve procedere a ridurre le angherie perpetrate ai danni di miti e pazienti creature, gli animali. Le teorie di Darwin erano di sostegno alle rivendicazioni. Opinioni illuminate che giustificavano la fiducia nel progresso che confortò gli ultimi decenni dell’800 e che le catastrofi della prima e della seconda guerra mondiale e i totalitarismi del ’900 hanno mandato in frantumi. La seconda metà del secolo ventesimo vede, però, un rinnovato interesse per le tematiche animalistiche. La ricerca biologica, i progressi dell’etologia (si scoprono nell’animale non sospettate e tanto meno riconosciute forme di razionalità, sensibilità, etica), la sfiducia verso la razionalità e moralità dell’animale uomo, la buona condotta e l’affidabilità degli animali domestici, dimostrano che non c’è proprio ragione di tardare a riconoscere negli animali esseri che meritano rispetto e affetto, oltre che protezione. L’effetto immediato è la crescita di sensibilità su questi temi, un riesame degli atteggiamenti tradizionali. Una disposizione diversa che in passato si afferma e si diffonde verso di loro (specialmente tra i nostri giovani). Viene rivendicato il diritto degli animali a non soffrire inutilmente, il diritto più giusto e pietoso, richiesto anche per gli umani. Si impone una revisione dei comportamenti nei loro riguardi, un cambiamento di norme giuridiche, l’applicazione di nuove leggi e regolamenti. Una parte dell’opinione pubblica li auspica e li sollecita. Ma le discussioni teoriche non incidono con la necessaria rapidità sull’agire pratico.
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Per ora il problema, posto e dibattuto teoricamente, ha ricevuto alcune risposte legislative, ma è ancora assai lontano dall’essere affrontato con completezza. Nuovi valori prendono talvolta il posto di vecchie inadempienze e ottundimenti della coscienza, cambiando mentalità e atteggiamenti errati, perpetuatisi incredibilmente per anni, secoli, millenni. Tra i valori emergenti ci sembra di dover ascrivere l’animalismo: esso corrisponde senza dubbio a un valore, ma di sicuro non a un valore nuovo: non dobbiamo inventare concezioni e ideologie nuove e diverse per rendere agli animali un po’ di giustizia, ma riprendere i temi di un discorso già impostato migliaia di anni fa da alcune religioni e da grandi filosofi e poeti, e rinnovato nel corso dei secoli da altri spiriti illuminati. Per quanto riguarda gli animali, tutto quanto si doveva dire è stato sostenuto a varie riprese nei secoli, a partire da centinaia di anni prima di Cristo. La sensibilità verso di essi e la preoccupazione sulla giustezza dei nostri comportamenti non sono una conquista della sensibilità moderna, né del mondo occidentale. Se cerchiamo infatti di risalire alle origini dei presupposti che autorizzano questa nostra condotta coscientemente o distrattamente crudele verso gli animali, e andare alla ricerca delle basi filosofiche-religiose-comportamentali e dei pareri che hanno accompagnato il problema nel tempo, l’indagine riserva molte sorprese: scopriamo quanti sono stati i filosofi, gli scrittori, i poeti, i capi religiosi che dal VII-VI secolo avanti Cristo (se non prima) ai giorni nostri hanno espresso il loro pensiero a difesa delle qualità e dei diritti degli animali, con un messaggio di ragionevolezza e pietà, quanto sia stato giudicato immorale il predominio esercitato nei loro riguardi senza se e senza ma, rafforzatosi nel tempo, soprattutto grazie al dogma dell’antropocentrismo. Per fare un esempio su quale risposta ci viene dal passato circa la ragione, la memoria, il sentimento negli animali, cioè il grande problema della loro coscienza, basta accostare due opinioni lontane nel tempo. Nel maggio del 1983 a Vienna furono dedicati tre giorni di studi ad un compendio del pensiero di Karl Popper; tra i primi argomenti fu posto il grande problema della coscienza degli animali, che Popper giudicò importante e di evidente soluzione, ritenendo senza ombra di dubbio che gli animali hanno una coscienza. Ma questa risposta in forma efficace ed incisiva l’aveva già data Omero circa tremila anni prima, tanto nell’Odissea con il famoso episodio del cane Argo, quanto nell’Iliade, con quello dei cavalli di Achille. Al riconoscimento delle facoltà intellettive e affettive degli animali convinti consensi erano venuti dal grande poeta, che tributa un indimenticabile attestato alla fedeltà e intelligenza del cane e alle sue capacità mnemoniche, quando fa riconoscere Ulisse, al suo ritorno ad Itaca dopo tanti anni d’assenza, soltanto dal vecchio cane Argo, che identifica il padrone sotto l’aspetto di mendicante, e subito dopo si accascia morto per l’emozione e la gioia. Ed anche nella poetica vicenda dei cavalli di
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Achille, Xanto e Balio, che piangono la morte di Patroclo, ucciso da Ettore, Omero attribuisce ai fieri, vivaci e scattanti quadrupedi intelligenza, comprensione degli eventi, capacità di sentimento e di sofferenza. Lacrime di dolore, di affetto e di rimpianto cadono giù dalle loro palpebre, mentre piangono desolati la morte di Patroclo, che hanno visto soccombere sotto i colpi di Ettore; oppressi dal dispiacere, piegano le teste e le belle criniere fino a terra, e restano immobili, rifiutando di muoversi, malgrado gli incitamenti, le parole dolci e le minacce del loro auriga Automedonte a cui sono affidati. A conferma che la cultura in genere e la letteratura e la poesia in particolare contengono una risposta convincente a molti nostri interrogativi. Voci consenzienti alle capacità degli animali e preoccupate della loro sorte non sono mancate in filosofi, scrittori, poeti, capi religiosi, che dal VII-VI secolo avanti Cristo ai giorni nostri hanno espresso il loro pensiero con un messaggio di ragionevolezza e pietà. Voci innumerevoli, accorate, radicali, tanto che un moderno animalista non potrebbe trovare opinioni più decise di quelle avanzate da Omero, Zoroastro, Pitagora, Plutarco, Lucrezio,Virgilio, Porfirio. Un sostanziale rispetto per tutte le forme di vita è stato condiviso in molti popoli antichi da molte religioni primitive e animiste. La considerazione verso di essi trova lontane origini sia nelle religioni asiatiche e nelle civiltà pagane che nella cultura dell’Egitto e della Grecia antica. Per neolitici, egiziani, indiani, persiani, greci, pagani, la convivenza con gli animali era migliore di quanto sia stata in epoche successive. Ad essi si guardava con un senso di appartenenza, si riconosceva un’individualità non contrapposta all’uomo, si concedevano alcuni diritti, ne veniva disapprovata o proibita l’uccisione, contestati i sacrifici espiatori. La parola “sacrificio” etimologicamente proviene dall’espressione sacrum facere, compiere un atto che non provochi spargimento di sangue. In origine si offrivano alle divinità primizie della terra, si bruciavano arbusti odorosi, si dedicavano aromi. I precetti della religione indiana accomunavano nello stesso sentimento di carità e compassione uomini ed animali; per Budda entrambi dovevano essere beneficati senza distinzione. L’induismo ne limitava i sacrifici, il buddismo li disapprovava, il giainismo li proibiva. Nell’Iran di Zaratustra la volontà divina, espressa nel testo sacro denominato Avesta, prescriveva di non sacrificare gli animali, dotati tutti di un’anima. Meno sorprende che la sapienza greca contemplasse con giusto equilibrio questo diseredato genere. Tra le prescrizioni morali di Eleusi vi era la raccomandazione di «non essere crudeli con le bestie». Una parte della filosofia greca, dal sesto secolo a.C. al terzo d.C., ha sostenuto la parità fra gli animali e gli uomini, dando vita ad un’ampia trattatistica in loro favore, sfortunatamente andata in gran parte perduta. I profondi e brillanti filosofi presocratici con cui la filosofia greca ha raggiunto punte di pensiero assai elevate, sono tutti schierati a favore degli animali e tutti compatti nel-
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l’affermare il senso di appartenenza e di parentela tra gli esseri viventi, piante comprese. Empedocle di Agrigento riprova l’uccisione di animali, così come quella di altri uomini. Tra le due specie non c’è differenza ed «è una gran vergogna spargere il sangue e divorare le belle membra degli animali ai quali è stata violentemente tolta la vita». Teofrasto, il discepolo di Aristotele, nel trattato Della pietà sostiene che animali e uomini appartengono alla stessa stirpe, sono imparentati tra loro, simili per organi e bisogni, e non è giustificata l’uccisione degli uni da parte degli altri. Giusto e legittimo uccidere gli animali pericolosi, nocivi e malvagi per natura, ma uguale trattamento si dovrebbe adottare per gli uomini, perché anche tra essi non mancano quelli cattivi e dannosi. Per arrivare a Plutarco per il quale gli uomini hanno il diritto di combattere le bestie feroci per difendersi, di servirsi degli animali per la loro utilità, ma non di trattarli male, torturarli, ucciderli. Vietati, quindi, gli spettacoli cruenti, la caccia, la pesca e anche l’uccisione di animali per fornire cibo all’uomo. Per mostrare come certe volte l’abitudine ottunde ogni capacità di ragionare e sentire, tanto che «facciamo caso più ai fatti che avvengono contro la consuetudine che a quelli contro natura», Plutarco chiarisce quanto sia immotivata l’usanza di cibarsi di esseri che fino a poco prima erano vivi, un atto che in lui desta una vera ripugnanza. La colpa più grave è la sua non necessità e, quindi, la sua inopportunità, perché l’uomo è nato per essere vegetariano, non è animale carnivoro, come si vede dalla sua struttura fisica, priva di artigli e di zanne e, quindi, non adatta a uccidere e sbranare gli animali. Per di più la carne non è un cibo adatto a lui, gli comunica umori pesanti. I giuristi romani si ispirarono al principio secondo il quale le sevizie inflitte agli animali erano un esercizio di crudeltà che poteva ritorcersi verso gli uomini (tesi riproposta da moltissimi filosofi tra cui Locke, Kant ecc. e contestata da Schopenhauer, che la giudica troppo antropocentrica). Ultime voci appassionate a favore degli animali, di cui erano vantate l’intelligenza, l’operosità e difesi alcuni diritti, sono stati Celso e Porfirio. Quest’ultimo nella sua difesa degli animali, dopo averne rilevato razionalità e qualità morali, aggiunge che se talvolta sono aggressivi, lo fanno per difesa; noi ci comporteremmo peggio al posto loro; infatti gli animali non tradiscono mai chi si dimostra loro amico, non diventano mai nemici di chi li ha trattati bene. Voci soverchiate da coloro che li avversavano. Dopo Porfirio, il nulla. Nessuno osa più difendere gli animali. L’imperatore Costantino minacciò la condanna a morte per chi veniva trovato in possesso delle opere di Porfirio. Scompare anche la considerevole trattatistica a loro favore. Come mai questo cambiamento? Bisogna purtroppo ammettere che nella tradizione greca vi sono state anche altre alternative ideologiche: una radice antianimalista di origine stoica ha avuto enorme, duratura ed ingiusta fortuna. Agli stoici si deve l’elabo-
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razione di una teoria filosofica, l’antropocentrismo, che ha dominato e domina il mondo occidentale, recando enorme danno agli animali e stimolando il senso di disappartenenza tra uomini e animali; ideologia che, malgrado sia stata aspramente contestata dai più acuti pensatori, è ancora alla base del pensiero occidentale. Convinti com’erano che l’uomo fosse l’essere più perfetto della creazione, e anzi che ne fosse il fine, gli stoici svalutarono le altre specie e giudicarono legittimo il dominio assoluto dell’uomo su di esse. E per dare forza alle loro opinioni ed eliminare eventuali obiezioni alla violenza esercitata sugli animali, essi sostennero un concetto palesemente arbitrario (e, quindi, falso), cioè che gli animali sono privi di ragione e perfino di sensazioni! Idea improponibile, che tuttavia ha avuto molta fortuna e si è imposta, perché favorisce ogni tipo di predominio (e di sfruttamento) dell’uomo sull’animale. La religione cristiana fece sua l’ideologia antropocentrica degli stoici che esaltava l’uomo e sviliva le altre specie animali. All’ideologia antropocentrica e soprattutto alla improponibile ed esecrabile affermazione dell’animale che non prova sensazioni fisiche e psichiche, bisogna far risalire l’atteggiamento di indifferenza, e conseguentemente di sfruttamento e vessazione senza limiti, che passò nella tradizione cristiana (e poi nella musulmana) e finì col prevalere nella civiltà occidentale. Cartesio, sostenitore un millennio dopo della tesi dell’animale-macchina, diede nuova linfa all’antianimalismo, malgrado che i suoi argomenti, palesemente arbitrari, venissero tenacemente criticati da grandi pensatori. Tesi, quelle degli Stoici e di Cartesio, che hanno raccolto immenso e ingiustificato consenso, perché favoriscono la vanità e l’interesse degli uomini. Del resto anche la schiavitù e la disparità di diritti tra gli uomini hanno avuto vita lunga (ed esistono ancora in alcuni paesi). Per non parlare della disparità di diritti tra uomo e donna… Sublimato l’uomo, ne è scaturita l’arrogante concezione che a lui sia tutto concesso nei riguardi delle altre specie. La patristica cristiana fu prevalentemente su questa linea. Specialmente a partire dal terzo secolo in poi, dopo il contrasto tra il medio-platonico Celso e il cristiano Origene, per il quale gli animali sono al servizio dell’uomo. Tesi che prevalse e di cui furono accesi sostenitori ardenti apostoli della fede come S. Paolo e S. Tommaso. Dal quarto secolo d.C. inizia la frattura completa tra uomini ed animali. L’uomo viene esaltato e l’animale svilito, pura materialità senza ragione e anima, l’uomo ha natura divina, l’animale naturale. Frattura che si accentua nei secoli seguenti. A tal punto che se ad alcuni cristiani ripugnava mangiare carne di animali, ciò era condannato severamente dalle autorità ecclesiastiche. Con provvedimenti di alcuni Concilii si intimava di aderire a questo cibo, come ad esempio quello di Braga del 567, che minacciava l’anatema su chi si fosse astenuto dal mangiare le carni che Dio aveva regalato all’uomo per nutrirsi. Incomincia un periodo in cui la considerazione per gli animali è nulla o negativa.
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È con il risveglio economico e culturale posteriore alla fine del primo millennio, con l’umanesimo, la conoscenza degli autori classici greci e latini favorevoli agli animali, il naturalismo, l’empirismo, l’illuminismo, i progressi scientifici, che la vecchia atmosfera europea viene investita da soffi di cambiamenti e revisioni ideologiche e incomincia a maturare una mentalità diversa, coeva a una rimozione di pregiudizi. Le scoperte di Copernico e Galileo mettono in crisi l’ideologia geocentrica e alcune convinzioni legate ad essa. Alla concezione di un universo finito con la terra al centro, subentra quella di un universo infinito con una pluralità di sistemi. Inizia il tramonto di un dogma vecchio e (sembrava) incrollabile: la concezione antropocentrica dell’uomo signore e padrone della natura. La critica all’arroganza dell’uomo è serrata; nel dibattito filosofico si presentano posizioni diversificate in cui la differenza tra i vari generi incomincia a ridursi o sparire. I progressi della biologia danno base scientifica a quanti avevano sempre sostenuto la parentela tra di essi. Viene rivalutato il mondo naturale disprezzato nel medioevo; la condizione degli animali si ripropone a menti aperte e meditative. Perché non rivedere la concezione sulla loro anima? La loro difesa esplode nel Rinascimento, quando Erasmo da Rotterdam sosterrà che gli animali si servono della ragione meglio degli uomini (tesi anticipata dall’italiano Rorario, la cui opera rimase a lungo sconosciuta). Da allora gli appassionati difensori della loro causa saranno moltissimi e illustri, da Leonardo a Shakespeare, da Montaigne a Hume, da Tommaso Moro a Giordano Bruno, da Voltaire a Schopenhauer. Alcune parole di Schopenhauer, «Non pietà, ma giustizia si deve agli animali», sintetizzano in certo modo le convinzioni degli animalisti sull’argomento. Molti filosofi e pensatori, tra le menti più acute e più refrattarie ai pregiudizi, difendono gli animali, ne disapprovano i maltrattamenti e l’uccisione, affermano che anche l’animale ha l’anima. Sono gli stessi che condannano con veemenza lo sterminio delle popolazioni indigene americane da parte dei conquistatori europei, giustificato spesso in Europa, perché inflitto a popoli barbari e non cristiani. Un vero rinascimento spirituale, che si apre ad una più giusta disposizione e ad una ritrovata pietà per le sfortunate bestie. Miracolo dell’arte che fu la cifra precipua del periodo aureo che va sotto il nome di Rinascimento? Il miracolo spirituale vi fu, ma fu culturale e tecnico, dovuto all’influenza dei grandi filosofi, poeti, scrittori del mondo greco-latino, tradotti dal greco in latino e diffusi nella cultura europea grazie all’invenzione della stampa. E di conseguenza un’immissione nella mentalità del tempo di una ventata di idee vecchie, perché attinte alla trattatistica in difesa degli animali anteriore di due millenni, ma nuove nello spirito, perché attestanti una diversa e assai più tollerante disposizione. Idee che si diffusero in Occidente e trovarono subitanea accoglienza tra le menti più aperte all’evidenza e alla ragionevolezza e tra i cuori più sensibili alla giustizia e alla
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pietà. Tra essi c’è il grande Leonardo da Vinci, che ha per gli animali parole radicali e veritiere: «L’uomo ha grande discorso del quale la più parte è vano e falso, li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero, e meglio è la piccola certezza che la gran bugia». Erasmo da Rotterdam non accetta l’opinione che vuole l’animale irragionevole. Anzi, in un confronto uomo-animale è l’uomo ad avere la peggio. Secondo alcuni, bellum, guerra, proviene da bellua, belva, perché è da belve e non da uomini impegnarsi in uno sterminio reciproco. Niente di più sbagliato: «Gli animali vivono per lo più concordemente e socievolmente all’interno della propria specie, si muovono in gruppo, si difendono e si aiutano reciprocamente. Per l’uomo, invece, non c’è essere più pericoloso del proprio simile». Gli animali aggrediscono per necessità, perché spinti dalla fame, perché braccati, per proteggere i loro cuccioli, gli uomini, invece, per i motivi più futili. E pur di farsi guerra tra loro, inventano armi diaboliche. Piattaforma comune di pensiero è la critica all’ingannevole e arrogante antropocentrismo. Risolutamente contrario ad esso, sensibile e indipendente di idee, Michel de Montaigne giudica una «frenesia» la boria dell’uomo che, pur essendo un essere fragile e sventurato, «si paragona a Dio (…) e si divide dalla folla delle altre creature», lasciando in disparte «gli animali suoi confratelli (…) È possibile immaginare niente di così ridicolo che questa miserabile e debole creatura, neppure padrona di sé, esposta alle ingiurie di tutte le cose», in situazione di precarietà e di pericolo, si auto-proclami «padrona e dominatrice dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla?». Quanto a lui, è pronto a «mettersi sotto i piedi l’orgoglio e l’umana superbia», dimostrare che la ragione umana «è deficiente e cieca» e gli animali sono molto simili a noi, anzi ci sono superiori nella maggior parte delle loro opere, che non riusciamo ad imitare. Gli animali hanno qualità morali: sono spesso solidali, compassionevoli, clementi, magnanimi, grati. Per Giordano Bruno l’anima o spirito del mondo è una sola, ma nel tempo si è diversificata secondo le circostanze, i corpi e organi che ha vivificato. Il divino è dovunque, i volti delle creature animali sono frammenti dell’immagine di Dio, la cui essenza è anche in essi. L’anima dell’uomo non differisce da quella di ogni altro essere vivente, «è medesima in essenza specifica e generica con quella delle mosche, ostreche marine e piante». Essa si unisce «secondo il fato, providenza, ordine o fortuna», ora a un corpo, ora a un altro, conformandosi ad esso e, secondo la diversa complessione e articolazione, ha vari gradi di capacità e perfezione. E così quello spirito che era nel ragno, congiunto all’uomo, «acquista altra intelligenza, altri instrumenti, attitudini ed atti». L’uomo non è superiore agli altri esseri, anzi talvolta è inferiore anche ad esseri più piccoli. Gli uccelli, per esempio, non hanno nessuno che insegni loro a volare, a cercare il vitto, eppure imparano tutto da sé. Pur non dotato di una «saggezza maggiore (…) l’uomo
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è incorso in una sorte migliore, avendo avuto il dono della mano», con la quale costruisce tanti strumenti che lo rendono superiore agli animali; che avrebbe fatto mai se avesse avuto due zampe al posto delle mani? Inoltre ha la capacità di comunicare in modo complesso e articolato attraverso il linguaggio. Quali risultati avrebbe ottenuto senza di esso? Ci sarebbero state tante dottrine, tante invenzioni? Volendo definire la nostra specie, essa risulta «un genere confuso e misto, dotato di parola e di ingegno, sotto la cui guida muove le mani». Tommaso Campanella concepisce il mondo come un grande organismo, in cui esiste animazione e comunicazione fra le varie componenti attraverso simpatie e affinità reciproche. E così «le stelle mandandosi la luce l’una dall’altre si manifestano i loro secreti (…) Il pezzo di legno posto sul fuoco strilla e piagne manifestamente perché è disfatto; le piante durante l’estate per soverchio calore sono squallide, smorte, con le chiome abbassate, come afflitti animali, e sopraggiungendo una pioggia o abbeverandole, subito rinverdiscono (…) e mostrano sentimento di allegrezza e di ristoro». Per non parlare degli animali che hanno senso, memoria, indubbie capacità di ragionamento (argomentano con astuzia, perché quando vanno a caccia, lasciano la via lunga per la breve e si mettono nel punto dove deve passare la preda) e apprendimento (i cavalli imparano i salti, le scimmie i giochi, le api «si ricordano di tornare a casa loro»). Alla sensibilità dei grandi poeti non sfuggono le tragedie che si consumano nel mondo, sia che riguardino un misero esserino, sia un rappresentante dell’orgoglioso genere umano. Non ci sorprende perciò che il genio di William Shakespeare si sia fermato a considerare la sofferenza di un meschino insetto e ad affermare che il povero animale schiacciato dal nostro piede prova una sofferenza fisica e un’angoscia tanto intensa quanto quella di un gigante che sta per morire. Ogni essere vivente ha identica sensibilità, indipendentemente dalla sua specie o grandezza. John Locke accetta il punto di vista tradizionale sulla legittimità del dominio dell’uomo sugli animali, ma ne concepisce una interpretazione diversa, equilibrata e foriera di sviluppi positivi, dalla quale il dominio risulta molto ridimensionato. L’uomo ha sì un rapporto privilegiato con Dio, ma fino a un certo punto: Dio rimane il padrone del mondo, l’uomo ha solo il ruolo di locatario; ha in uso la terra, la natura, ma deve rendere conto di ciò che gli viene affidato e del suo operato. Il suo comportamento deve rispondere a criteri di necessità e opportunità, non di arrogante arbitrio. Locke ribalta il discorso dell’eccellenza: l’uomo deve mostrarla comportandosi meglio degli altri esseri, non in modo dispotico e arbitrario. Verso gli animali valgono le stesse regole: un diritto di uso, non di sfruttamento indiscriminato. Ad essi bisogna riconoscere capacità di sentire e di comprendere, memoria, discernimento, anche se in misura inferiore agli uomini. Non hanno diritti pari agli uomini, ma non sono cose, non vanno maltrattati, ed è giustificato provare amore per loro. L’uomo deve avere senso di responsabilità verso di essi,
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preoccupazione di evitarne le sofferenze, inculcarla nei bambini. Atteggiamento assai educativo, perché ne sviluppa uno analogo verso gli uomini. Le tesi di Locke sono importanti per il buon senso, la clemenza e l’equilibrio. L’uomo può essere ancora signore, tutore, sovrano costituzionale del regno della natura, ma non più despota e tiranno come per il passato; può servirsi degli animali e anche ucciderli per cibarsene o per difendersi, ma la sua volontà deve avere dei limiti nel senso di responsabilità. Il pensiero di Locke contiene notevoli e condivisibili aperture concettuali e farà avanzare la causa degli animali nell’opinione pubblica del mondo occidentale. In un’atmosfera che iniziava a schiudersi a una considerazione più equilibrata ed oggettiva, piomba la mai abbastanza esecrata teoria cartesiana, che non mancò (e non manca ancora) di arrecare tutto il danno possibile ai derelitti animali. Cartesio annulla la concezione di Aristotele circa un’anima sensitiva in essi, cioè circa la capacità di avere sensazioni, e quindi di soffrire. Come giustificare, infatti, tutte le sofferenze che venivano loro inflitte? Tanto più che l’animale, indenne dal peccato originale, non doveva espiare con il dolore alcunché? Ed ecco la teoria degli animali-automi, che hanno, come le macchine, reazioni di cui offrono manifestazioni, senza avvertirle come sensazioni, così come un orologio non ha sensibilità per lo spostamento delle lancette o il rumore della suoneria. Gli animali non sono che macchine. Per quanto inverosimile e contestatissima da illustri filosofi e gente comune, l’interpretazione di Cartesio non mancò di esercitare una enorme e nefasta influenza, e rese ancora più tragica la sorte delle disgraziate bestie. Anche perché agli antichi e spietati sfruttatori e carnefici stava aggiungendosi un altro implacabile persecutore, la Scienza: poiché molte scoperte scientifiche, scaturite dalle rivoluzioni di concetti e di metodi in vari settori, richiedevano conferme e verifiche, gli animali apparvero subito le naturali cavie di ogni esperimento. Come sempre, dovevano “servire”. Se infatti la mentalità religiosa e laica del mondo occidentale non includeva nessuno scrupolo morale nei loro confronti, ma li relegava nell’ambito dei mezzi, al servizio dell’uomo, ancor più ciò si verificherà con l’etica scientifica. D’altra parte l’Occidente, tranne lodevoli eccezioni, ha sempre trovato legittima l’etica del dominio. Ed è cominciato così da alcuni secoli, con determinazione e insensibilità, senza rigido controllo di effettiva ed estrema necessità, uno spaventoso eccidio di bestie inoffensive e pacifiche, dopo torture implicanti dolori insopportabili. Eccidio ancora ben lontano dall’estinguersi, mentre la consapevolezza di compiere azioni di efferata crudeltà avrebbe dovuto (e dovrebbe tuttora) inoculare un doveroso assillo nella ricerca di mezzi alternativi facendo da tempo cessare o riducendo enormemente simili orrori. Sull’altare della Scienza vengono sacrificate tuttora attraverso una morte atroce e solitaria centinaia di milioni di vittime incolpevoli. La teoria di Cartesio ancora serpeggia
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nell’opinione generale e nell’animo di tanti vivisettori, quasi a narcotizzare ogni residuo di pietà. A questo punto, non i poveri animali, ma la maggior parte degli uomini appaiono macchine demoniache, senza razionalità e senza coscienza, pronte alla credulità e alla crudeltà, all’interesse e all’ipocrisia. Dopo la rivoluzione scientifica del ’600 e ’700, attenzione non marginale è stata riservata al mondo animale. Nel Settecento illuministico viene spesso contestata la sistematica e ininterrotta sopraffazione esercitata a loro danno e da Jeremy Bentham è avanzata nel 1789 una richiesta di parità tra gli esseri viventi. Nel XIX secolo una temperie spirituale ad essi favorevole si diffondeva nel mondo occidentale. Moltissimi i pensatori solleciti verso di loro e critici dei pregiudizi nei loro confronti, come Giacomo Leopardi che a più riprese deride la vanagloriosa teoria antropocentrica, il prodotto della sconfinata presunzione umana. Nel Dialogo di un folletto e uno gnomo Leopardi immagina che il mondo continui ad esistere, malgrado sia diventato privo di esseri umani (diventerà mai realtà?), e che tanto il folletto che lo gnomo non solo rimangano del tutto indifferenti a tanto evento, ma anzi si rallegrino che quei «furfanti degli uomini» siano scomparsi, e non possano più disturbarli con la loro prepotente invadenza. Se mai, desidererebbero «che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Per non parlare del trattamento inflitto agli animali, che sarebbero stati creati «espressamente per uso loro», al punto che, secondo il filosofo stoico Crisippo, i porci non sarebbero che «dei pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini» e, per non farli imputridire, «conditi colle anime invece di sale». Mentre c’è da pensare che se «Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile». E non solo della terra si ritenevano padroni; addirittura «s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende». Ne Il Copernico Leopardi ripropone la critica alla superbia arrogante degli uomini, che li ha indotti a reputarsi «più che primi e più che principalissimi tra le creature terrestri (…) in dispetto della evidenza delle cose», e a ritenere di occupare il centro dell’universo, sicuri che il sole si scomodasse per girare intorno alla terra, «correndo alla disperata così grande e grosso com’è intorno a un granellino di sabbia (…) in un continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono su un pugno di fango». Fin da giovanissimo Leopardi aveva mostrato intenerita attenzione al mondo degli animali. Dai numerosissimi casi di bestie ammaestrate (perfino le pulci!) che avevano dimostrato a volte tali «incredibili abilità da non essere credute possibili se non ci fos-
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sero stati testimoni diretti», trae conferma non solo dell’intelligenza, ma della possibilità di progressi nell’apprendere (l’assuefazione) da parte degli animali. Essi pensano e ragionano; non solo hanno «uso sufficientissimo di ragione», ma anche «pur senza prescrizione di religione o legge», spirito associativo sviluppato «quanto basta ai loro bisogni o comodi» (come dimostrano le formiche, le api, i castori). Lo esercitano, ad esempio, quando si spostano in gruppo (le gru nei viaggi, le scimmie che attraversano i fiumi allacciandosi tra loro), «per rendere più profittevoli le forze individuali ». Se si deve intendere perfetta una società in cui gli appartenenti non nuocciono gli uni agli altri se non accidentalmente e raramente, «questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in società». Quanto diversi dagli uomini, il cui scopo è quello di «soverchiare o di nuocere in qualunque modo altri»; unica specie «che distrugga e consumi regolarmente se stessa». Conclusione? «La ragione umana, di cui facciamo tanta pompa sopra gli animali e nel cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, è miserabile». Tanto «che le grandi scoperte per lo più non sono altro che scoperte di grandi errori». Gli animali hanno anche qualità morali superiori agli uomini. Sono molto meno aggressivi; raramente si «uccidono tra loro e sempre sotto l’impulso di una passione momentanea e soverchiante», mentre gli uomini sono capaci di eliminarsi a migliaia in poco tempo, con fredda determinazione, per ordini che vengono dall’alto, senza nemmeno conoscere il nemico o avere motivo di odiarlo. Al pari di quella dell’uomo, la vita di ogni essere vivente è infelice. Leopardi ha presente la sofferenza delle piante, non può non notare la caducità della vita vegetale. Ma la vita dell’animale è forse la peggiore (come sostiene anche Hans Jonas): alla violenza della natura si aggiunge quella dell’uomo, spesso gratuita. Nell’epoca moderna la disposizione verso gli animali migliora nell’opinione generale, ma più nella discussione teorica e nel sentimento di singole persone che nella applicazione pratica, che registra assai limitate misure di protezione. Le tragiche vicende del ’900 non lasciano spazio ad illuminate azioni di tutela. La radicalità delle asserzioni di molti pensatori tuttavia è di sprone ad un auspicabile cambiamento di indirizzo. Guido Morselli stigmatizza (anche se in un contesto paradossale e futuribile, e in forma ironica) la scarsa considerazione nei loro confronti. «Come si giustifica che a noi uomini spetti il libero arbitrio e, quasi non bastasse, la grazia santificante? Perché mai alle creature dello stesso autore, appartenenti ai cosiddetti regni animali e vegetali, non spetta in sorte altro che la lotta per la vita, con quanto vi è in essa di oscuro e di atroce? (...) Perché tanta diversità di trattamento? (…) L’uomo è nato ieri, anche se gli riconosciamo un milione di anni o pressappoco. Quando l’uomo è
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nato, la Terra era già popolata, e da centinaia di milioni anni, da miriadi di creature, molte delle quali evolutissime, e tutte fornite di sensibilità, cioè capaci di soffrire. E difatti la sofferenza infieriva in esse, era la dimensione tipica dell’esistenza sulla Terra. La fame, il terrore, la lotta senza scampo (…) Perché i teologi non hanno pensato sinora a giustificare, nelle loro ben costrutte teodicee, questo male essenziale che travagliava il Creato? Innumerevoli secoli prima del cosiddetto peccato d’origine? Ho detto travagliava. Ma devo aggiungere travaglia, perché fame, paura, guerre senza quartiere, sotto la superficie brillante della Natura oggi come sempre sono la realtà disperata del mondo animale, dello stesso mondo vegetale». Non sono molti i pensatori che hanno auspicato una forma di riscatto anche per le specie vegetali e animali e colto con bioetico senso di giustizia la tragicità di una sorte così derelitta. Tra gli autori contemporanei disposti a ribaltare vecchi e ingiusti modi di pensare e di procedere, come la pretesa dell’uomo di sfruttare e massacrare a suo arbitrio animali indifesi (tra le meno discusse e le più assolute), si segnala con parole decisive lo scrittore cecoslovacco Milan Kundera: «Il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde (…) Subito, all’inizio della Genesi, è scritto che Dio creò l’uomo per affidargli il dominio sugli uccelli, sui pesci e sugli animali terrestri. Naturalmente, la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca o sul cavallo». Il miglioramento del rapporto con gli animali è per lui a fondamento imprenscindibile di un avanzamento della spiritualità umana, perché «la vera bontà dell’uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza. Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in profondità da sfuggire al nostro sguardo), è il rapporto con coloro che sono alla sua mercé: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri». Solo dal comportamento verso «chi è alla nostra mercé» scaturisce la prova della moralità di una persona; negli altri casi «non potremo mai stabilire con certezza fino a che punto i nostri rapporti con gli altri sono il risultato dei nostri sentimenti, del nostro amore, del nostro non amore, della nostra bontà o del nostro rancore, e fino a che punto sono condizionati dal rapporto di forza con gli individui». Ed è certamente confortante ritrovare nel tempo pensieri di giusta considerazione e di affettuosa sensibilità nei riguardi degli animali, grazie a pensatori che hanno avuto proprio questo modo di sentire, menti aperte a ciò che è giusto e evidente, cuori sensibili alla sofferenza e alla pietà, persone che non debbono aspettare che un modo di pensare sia condiviso dai più, per trovarlo giusto e vero. Questa ricerca di risposte ra-
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gionevoli e convincenti è un compito necessario e liberatorio nei confronti dei conformismi culturali che influenzano le nostre opinioni, ha una funzione indispensabile per la formazione di un punto di vista personale ampio e approfondito. Si deve consolidare così la nostra capacità di riflettere e di scegliere, cioè la capacità di giudizio, l’attività più elevata intellettualmente. È col resistere alla stupidità, secondo George Orwell, che si diventa uomini. L’attitudine a porsi domande, a esternare dubbi, a riflettere e meditare, a cercare risposte, anche su argomenti che ci sembravano chiariti una volta per tutte, è la parte migliore dell’uomo per Stuart Mill, «la fonte di tutto ciò che è rispettabile in lui, sia come essere intellettuale che come essere morale, è precisamente la possibilità di correggere i propri errori» 13.
Molti dei brani citati sono tratti dal libro di M. LESSONA FASANO, Le orme dell’amore. Il rispetto degli animali nei grandi pensatori, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. 13
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LUCIA FRANCESCA MENNA La zooantropologia è quella disciplina che studia la relazione uomo-animale, non solo nella modalità nella quale si stabilisce, ma soprattutto per le ripercussioni che questa relazione può avere per la salute dell’uomo. Questa disciplina richiede un forte salto culturale in quanto necessita di un’osservazione dell’animale senza “giudizio” riconoscendone la differenza, riconoscendolo come altro con le sue caratteristiche di comportamento e di linguaggio. Con questa disciplina in realtà si sta codificando quanto è sempre avvenuto nella storia dell’uomo. La novità sta nell’osservare ciò che avviene nell’uomo quando entra in contatto con un animale in una relazione di scambio ed utilizzare questa risorsa per il suo benessere. Infatti non tutte le relazioni sono zoo-antropologiche, basterebbe guardare un documentario naturalistico o avere un cane in casa per avere una relazione zoo-antropologica, allora dove sta la differenza? La differenza sta nell’entrare in relazione, scoprire gli effetti di tale contatto, quali dinamiche entrano in gioco ma – e soprattutto – che tutto questo avvenga nel riconoscimento dell’animale come altro individuo diverso da me. Questa visione porta con sé un cambiamento radicale del concetto di salute, in primo luogo, ed anche di approccio all’individuo ed all’essere vivente. Per quanto riguarda il concetto di salute, se pensiamo all’Ordinamento Sanitario Nazionale, ci accorgiamo di quanto sia antropocentrico, per salute, infatti, si pensa esclusivamente alla salute dell’essere umano, l’attenzione è esclusivamente rivolta a quella, però questo concetto entra in una sottile contraddizione quando si analizza come l’OMS definisce la salute: «È uno stato di benessere fisico mentale e sociale». In questa definizione si intravede anche se vagamente un concetto di ecosistema, cioè benessere dell’uomo all’interno di un sistema inteso come ambiente nel quale è in equilibrio. Quindi si sta affacciando l’idea di benessere per tutti gli organismi viventi del pianeta sapendo che ogni individuo entra in una relazione di scambio trofico con gli altri e quindi non si può assicurare la salute se non ci si preoccupa di tutti gli esseri viventi. Questa visione della salute non mette più l’uomo al centro del pianeta, che poi è stata la visione che ha creato il disastro che è sotto gli occhi di tutti, ma lo vede in una relazione dinamica con tutto il resto. In tal modo si sta facendo intravedere anche un superamento culturale nei confronti del tradizionale approccio epistemologico della medicina, che passa da una visione riduzionista ad una olistica. Gli ultimi dati riportano un forte incremento dell’utilizzo delle medicine alternative, che vedono l’uomo all’interno di un ecosistema in scambio con il resto. La zoo-antropologia si allinea con questa visione della medicina perché richiede un salto culturale notevole, dal concetto di animale con utile, da tutti in punti di vista,
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anche affettivo (prendersi un cane per solitudine, per assenza di figli, ecc.), a quello di altro individuo con cui entrare in relazione accettandone anche i disagi. Questo richiede quindi l’osservazione prima di tutto della specie animale e delle sue caratteristiche etologiche, e poi l’osservazione dell’animale come singolo individuo con le sue caratteristiche individuali. Dietro tutto ciò vi è un insieme di discipline che vanno dalle neuroscienze all’etologia applicata, alla clinica medica e comportamentale. Tutto questo genera una grande confusione di ruoli essendo ancora materie in corso d’opera. La relazione si stabilisce in tutti gli ambiti e può essere utilizzata in moltissimi settori, dalle attività assistite alla didattica, alla semeiotica, alla sanità pubblica. Un discorso più approfondito meriterebbe il tema della sanità pubblica e della modalità di gestione degli animali sinantropi ancora e troppo spesso considerati infestanti. Questi animali, liberi nelle nostre città, svolgono una funzione importantissima, una sorta di attività assistita spontanea perché stimolano molte dimensioni della relazione, arrivando, così, ad alleviare spesso le persone disagiate. Dovrebbe riconsiderasi, quindi, l’approccio al randagismo: troppo spesso l’animale libero è un animale abbandonato e quindi mal nutrito e non controllato dal punto di vista sanitario. Credo che osservando anche etologicamente questi animali, e non considerandoli, perché senza padroni, animali pericolosi, gli organi preposti potrebbero valutare maggiormente la figura del cane di quartiere e anche dal punto di vista economico delle persone che se ne prendono cura. In questo modo anche gli animali, al pari delle piante, entrerebbero a fare parte della comunità urbana ed ad essere considerati per il ruolo sociale importantissimo che svolgono.
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GIUSEPPE REALE È certamente una domanda singolare l’invito a riflettere sulla rilevanza etica della condizione animale e sulla possibilità di offrirne una fondazione teoretica. D’altra parte, è sempre più diffusa la duplice percezione sia della generale criticità di poter giungere a prospettive etiche condivise e universalmente comunicabili, che la possibilità stessa di ritrovare una dimensione ultimamente fondativa dei percorsi analitici dispiegati dalla ragione umana. Interrogarsi su tali aspetti, quindi, non richiede unicamente una viva, per quanto apprezzabile, sensibilità ecologica capace di custodire e di cogliere tutte le dimensioni e le espressioni che contrassegnano la vitalità naturale, ma in esordio è necessario essere edotti che la questione non è esclusiva, ma sollecita anche nodi ad oggi irrisolvibili in un’univoca prospettiva. Queste iniziali considerazioni probabilmente aiuteranno a leggere questo contributo più nell’ottica della ricerca e sotto il registro della domanda che come una prospettiva del tutto determinata. D’altronde, il tema stesso del convegno invitandoci a riconsiderare la storia in un risvolto non esclusivamente antropocentrico, si pone un obiettivo ambizioso; eppure, non può che auspicarlo partendo criticamente da questa acquisizione moderna ed occidentale alla ricerca di nuove latitudini di un pensiero che non abbia più bisogno di accentrarsi sull’agire sacrificale come forma valoriale dell’etica. In fondo, l’analisi stessa di una diversa percezione della relazione tra uomini e animali si inscrive in questo quadro di complessità, che non può essere considerato solo come critica di una presunta “debolezza” della riflessione purtroppo sostituitasi alle certezze fondative, ma piuttosto come una realtà trasversalmente in movimento, che sotto il segno dell’auspicio e dell’esplorazione va alla ricerca di una diversa interpretazione del vissuto umano e delle sfide a cui esso è esposto. La questione ecologica e la singolarità dell’impegno a sviluppare un sapere bioetico in prospettiva animalista possono a buon diritto essere entrambe considerate come un aspetto di un più ampio sforzo a formulare un nuovo linguaggio di senso, capace di lasciarsi sfidare dalla pluriforme espressione della diversità senza doverla immediatamente ascrivere nel perimetro delle classificazioni teoretiche. Bisognerà considerare che proprio interrogandoci su una questione apparentemente parziale, ci si sta ponendo dinanzi ad una trama più ampia e complessa, il cui ordito andrà esaminato, sapendo che analizzando una singolarità circoscritta si sta ridiscutendo una totalità più ampia. La difficoltà, quindi, non nasce solo dalla prospettiva suggeritaci da un’auspicata etica animalista, ma dall’odierna possibilità di porsi in un’ottica teoreticamente fondativa a cui poter e dover ispirare un agire moralmente condiviso. In fondo, una bioetica in prospettiva animalista non potrà che svilupparsi e proporsi come una forma di critica della modernità
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e di dibattito a partire dalle sue sfide 14. Il giudizio su di una realtà in ampia trasformazione e molte volte l’assenza di ardire utopico nelle categorie della politica e della cultura contemporanea inducono a rivolgersi ai saperi tradizionali, capaci di offrire sintesi identitarie alla prova del tempo, da cui sembrano essere usciti indenni dal logorio linguistico; anzi, proprio questo sguardo alla memoria custodita e tramandata, li propone come particolarmente capaci a lasciarsi interpretare anche da domande e sensibilità solo apparentemente lontane. In tal senso, hanno particolare rilievo i saperi religiosi, che con i loro testi sacri, le loro secolari pratiche rituali sembrano cristallizzare il movimento della storia al di là della sua inesorabile mutevolezza. Rispetto ai nostri temi si evince che il rapporto tra animali e religioni è avvertito in modo non univoco e in maniera assolutamente contrastante, passando dal senso di estraneità alla sua assoluta familiarità, oscillando tra la raffigurazione della stessa divinità e quella riprovevole della malvagità umana 15. Questa frequenza tematica, tuttavia, soprattutto nel caso delle Scritture bibliche, non ha sospinto verso la diffusa formulazione di un’esplicita teologia degli animali, che resta ancora sullo sfondo di quella che emerge come la questione centrale della salvezza e della sua rivelazione all’uomo, nella cui luce resta da comprendere e determinare la singolare dignità degli animali. Nel racconto jahwista della creazione (Gen 2,4b-25), più antico della versione secondo la tradizione sacerdotale (Gen 1,1-2,4a), la creazione degli animali viene collocata dal redattore subito dopo la narrazione dell’origine umana, poiché «non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gen 2,18) 16. Il Signore Dio plasmerà ogni sorta di bestie selvatiche e di uccelli del cielo e li condurrà all’uomo per vedere in che modo li avrebbe chiamati: «in qualunque modo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (Gen 2,19). Vi è un ruolo, quindi, speciale dell’animale rispetto all’ordine della creazione, in cui viene a rompere la condizione di solitudine dell’uomo, quindi riconoscendogli un ruolo di eccellenza rispetto a tutti gli altri esseri inanimati, tanto da condividere il medesimo appellativo di “essere vivente” (animam viventem – Gen 2, 7.19). 14 Si veda il numero monografico della rivista «Argomenti di bioetica», I (2007) 2, promossa dall’Istituto Italiano di Bioetica, che a cura di L. BATTAGLIA affronta il tema Dignità. La nuova frontiera dell’animalismo. 15 Cfr. A. SCHIMMEL, Animali e religione, in H. WALDENFELS (a cura di), Nuovo Dizionario delle Religioni, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1993, pp. 32-35; si veda anche il numero monografico della rivista «Credere oggi», XXVII (2007) 6, dedicato a I santi e gli animali. 16 Cfr. A. SACCHI, Animali, in P. ROSSANO, G. RAVASI, A. GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ciniselllo Balsamo, Edizioni Paoline, 1998, pp. 75-83.
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Nel testo genesiaco secondo la tradizione sacerdotale (Gen 1,1-2,4a) nella diversità del racconto emerge anche qui l’uguale somiglianza dell’animale con l’uomo, anche se in una condizione nettamente inferiore, che lo discosta dal rapporto esclusivo di immagine somigliante che vi è tra Dio e la creatura umana (Gen 1,27) 17. Tuttavia, l’uomo non ha alcuna facoltà di ucciderli e di cibarsi della loro carne, così come agli stessi animali è fatta proibizione: «Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne» (Gen 1, 29-30; Sal 8,5-9; 104,10-26). Fino al diluvio (Gen 9,2-3), dunque, animali e uomo sono entrambi vegetariani e anche successivamente Dio proibisce all’uomo di mangiare carne contenente sangue (Gen 9,4), che è sede della vita e può essere usata solo a fini cultuali, così da sottolineare il potere di Dio su ogni forma vivente 18. È importante notare, tuttavia, che anche nella ri-creazione che nasce dalla fine del diluvio (Gen 6,5-9,27) si contempla un nuovo ordine del mondo, in cui la benedizione di Dio viene estesa agli animali: «con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche. Con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra» (Gen 9, 10-11). La relazione tra l’uomo e gli animali si inscrive, dunque, nel quadro della più generale storia della salvezza, dal cui racconto biblico emerge che «l’animale è soggetto all’uomo e svolge un ruolo positivo nei suoi confronti solo se egli a sua volta è sottomesso a Dio; altrimenti l’animale si erge contro di lui per distruggerlo. Lo scontro tra gli animali e l’uomo è dunque uno dei tanti segni che evidenziano la presenza del pecP. EICHER (ed.), I concetti fondamentali della teologia, vol. 1 A-D, Brescia, Editrice Queriniana, 2008, p. 81: «Il dominium terrae di Gen 1,26-28 fu senza dubbio interpretato nella storia della ricezione negativamente nel senso di dominio. Se questa sia una interpretazione pertinente di tale passo biblico e se la traduzione di rdh = ‘regnare, governare, dominare’ sia giusta, è cosa di cui si discute in maniera controversa. Ad eccezione di un unico passo dell’Antico Testamento (Gl 4,13), con rdh si intende un dominio nel senso positivo del termine e precisamente secondo l’immagine del re quale ‘buon’ pastore, immagine ampiamente diffusa nell’antico Oriente. Tale interpretazione è avallata anche dal termine accadico redu (= ‘spingere’, ‘guidare’). Il dominium terrae di Gen 1,26-28 può, pertanto, essere interpretato in maniera corrispondente: non come dominio arbitrario e dispotico, bensì come un dominio coscienzioso, responsabile, come il compito di un pastore (…)». 18 Gen 9, 4: «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue. Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello». 17
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cato nel mondo» 19. Da queste considerazioni si comprende quale posto importante occupino gli animali nel piano della creazione e dell’alleanza tra il Signore ed il suo popolo; non vi ritroviamo, in verità, indicazioni dettagliate, ma i testi biblici suggeriscono un rapporto di rispetto tra uomo e animale ispirato ad una costante ricerca di armonia integrale, che dal giardino delle origini si proietta, al di là del dramma del peccato, verso la pienezza escatologica della storia. In modo particolare, si osserva come i testi giuridici del Primo Testamento «lasciano trasparire un atteggiamento indubbiamente pieno di simpatia verso gli animali e possono essere considerati come le prime prescrizioni su scala mondiale in favore della protezione degli animali» 20. In Es 20,8-11 si è invitati a santificare il giorno del sabato in onore del Signore, sospendendo qualsiasi lavoro incluso il proprio bestiame; in Dt 22,6-7 si danno indicazioni, nell’ambito di prescrizioni diverse, su cosa fare nel caso di ritrovamento su di un albero o per terra di «un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta a covare gli uccellini o le uova»; in Dt 22,10 si proibisce la possibilità di arare « con un bue e un asino aggiogati insieme»; in Dt 25,4 si prescrive l’uso della museruola al bue nel corso della trebbiatura; in Pr 12,10 la cura del bestiame viene indicata come condizione e prova della giustizia di un uomo. Queste prescrizioni di cura per gli animali traducono sul piano giuridico la consapevolezza, come già si è detto, della loro singolare appartenenza al patto di alleanza con Dio, che salva «uomini e bestie» (Sal 36, 6-10). Come profetizza Osea, nel tempo in cui «arco e spada e guerra eliminerò dal paese», il Signore farà per loro «un’alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo» (Os 2,20; Gen 9,8a; Ez 34,25); gli fa eco Giobbe (Gb 5,22-23) che preannuncia un patto di pace con le bestie selvatiche, delle quali non bisognerà più temere. Gli animali sono oggetto di ammirazione (Ger 8,7), come quando Giobbe invita a scorgere la sapienza divina interrogando pure «le bestie, perché ti ammaestrino, gli uccelli del cielo, perché ti informino, o i rettili della terra, perché ti istruiscano, o i pesci del mare perché te lo faccian sapere» che la mano del Signore ha fatto ogni cosa (Gb 12,711); o anche si legga l’invito alla saggezza nel libro dei Proverbi, in cui il pigro è invitato a guardare la formica: «essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone, eppure d’estate si provvede il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo» (Pr 6,6-11; cf 30,24-28). Nel tempo messianico della pienezza della pace anche gli animali ne godranno: «il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello 19 20
Ibid., 78. P. EICHER (ed.), I concetti fondamentali della teologia, cit., p. 80.
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e il leoncello pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi» (Is 11,6-8; cfr. 32,15-20; 65,23-25). Questo sarà il tempo in cui sulla strada spianata, sulla Via santa su cui cammineranno i redenti «non ci sarà più il leone, nessuna bestia feroce la percorrerà» (Is 35,8-10). Un punto centrale della riflessione biblica è la tensione costante a oltrepassare il muro di separazione tra Dio e l’uomo, scissione e frattura che ha separato e violato rapporti di una originaria corrispondenza (cfr. Gen 3,1-24); l’articolazione di questo rapporto di nuova religio coincide con la progressiva rivelazione di una fedeltà monoteistica, ovvero unica e singolare, a cui i testimoni di questo evento vengono via via chiamati. La storia di Abramo è non solo l’inizio a cui collegare il cammino del popolo eletto di Israele, ma anche il nuovo inizio di un rapporto esclusivo tra un uomo e il suo Signore (cfr. Gen 12,1-9). Sotto il segno del patto di un’alleanza ritrovata, il cammino di Israele sembra essere contrassegnato non solo dalla liberazione dal politeismo divino, ma anche dalla necessità di articolare questo rapporto sacrale secondo la logica esclusiva del sacrificio. Il celebre racconto del sacrificio dell’unico figlio di Abramo, Isacco, risponde totalmente a questo bisogno di liberare l’uomo dalla necessità di sacrificare quel suo unico figlio, poiché «il Signore stesso vi provvederà» (Gen 22,1-19). Il cammino progressivo del popolo di Israele, di cui i testi del Primo Testamento offrono una viva testimonianza, è indirizzato verso una fedeltà monoteistica nella piena consapevolezza, che sarà il suo Signore a stipulare il patto dell’alleanza; si può ritenere che la fedeltà monoteistica implichi non solo una liberazione dall’affollamento dei culti pagani, ma anche e più un sovvertimento del rapporto magico, rituale e strumentale nei confronti della divinità; questo comporterà una progressiva interiorizzazione del culto sacrificale, in un rapporto tra uomo e Dio di totale coappartenenza. Questa tensione trova nell’interpretazione dell’insegnamento del Nazareno un’ulteriore accentuazione. Nei testi evangelici, infatti, Gesù di Nazaret si identifica in una condizione di totale affidamento al Padre proprio vivendo una totale sostituzione come agnello sacrificale di una nuova Pasqua, che inaugura una nuova alleanza. Pure in questo caso è Dio stesso a provvedere per il sacrificio, liberando anche dalla necessità di immolare animali, poiché il sacrificio pasquale accade – secondo la teologia cristiana – come atto interiore del Figlio al Padre nel medesimo Spirito della Divinità che così manifesta la sua essenza d’Amore. Il sacrificio di Gesù squarcia simbolicamente e definitivamente il velo del Tempio gerosolimitano da cima a fondo (cfr. Mt 27,51), dall’alto in basso (cfr. Mc 15, 38), nel mezzo (cfr. Lc 23,48), inaugurando quel tempo in cui «né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei.
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Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Gv 4, 21-24). Questa rivelazione fatta da Gesù ad una donna per giunta samaritana, non ad un giudeo osservante, acquista il valore di una profonda universalizzazione, che apre ogni uomo alla novità di una religione e di un culto della propria vita offerto nello Spirito della verità. Infatti, il tempo della nuova Pasqua è tutto sotto il segno eucaristico della condivisione, piuttosto che del sacrificio animale; la comunione fraterna è il segno della sacralità pasquale ed il preannunzio di un nuovo inizio (cfr. Lc 24,13-35), in cui il Signore è riconosciuto nel segno dello spezzare il pane. Certamente una teologia degli animali è compito ancora tutto da assumere in un’ottica di tematizzazione più ampia della responsabilità ecologica, ma insieme a questa rinnovata sensibilità per il futuro del pianeta e della specie umana, le sollecitazioni ed il confronto con le sfide di una bioetica animalista aiuteranno a cogliere una dimensione essenziale e più interiore del messaggio cristiano, riscoprendo quella dimensione esclusiva ed evangelica dell’affidamento alla Divinità scoperta come paternità provvidente: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre. Non contate forse voi più di loro?» (Mt 6,26).
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MICHELE SCOTTO DI SANTOLO La fondazione teorica di un’etica animalista rientra nel problema generale della fondazione dell’etica tout court. Con la maggiore difficoltà rappresentata dal fatto che, mentre nel discorso etico della tradizione per lo meno sussiste un consenso generale sul fatto che l’etica sia scritta per gli uomini e concerna altri uomini, quella animalista si propone di accogliere al suo interno l’animale: l’altro – ed il diverso – per antonomasia. In un brano famoso, Horkheimer e Adorno scrivono: «L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da tutti gli antenati del pensiero borghese – antichi ebrei, stoici e padri della Chiesa –, e poi attraverso il Medioevo e l’età moderna, che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale. Essa è ammessa anche oggi» 21.
Risulta infatti di difficile confutazione uno dei concetti-chiave del pensiero dei due Autori, cioè quello che, soprattutto nell’epoca moderna, il lavoro della ragione – della ragione strumentale – sia consistito nel suo imporsi per divenire maestra e padrona della natura. Di questo processo, momento determinante doveva esserne il ridurre pervicacemente tutto l’inumano a materia bruta, res extensa senza ragione né anima (e quindi senza diritti) di cui il demiurgo umano poteva servirsi come meglio gli aggradasse, anche per gli scopi più futili, senza scrupoli né rimorsi. Ma l’animale, ragionevole ed irragionevole, visu oculi sensibile ed intelligente, ma (forse) non responsabile, ha rappresentato da sempre il cuneo che poteva far saltare questa operazione. Ed allora non filosofia, ma ideologia sugli animali; operazione strenuamente normalizzatrice, che ha mirato a stendere gli animali – anche quelli più vicini e simili a noi, come i grandi mammiferi e le scimmie antropomorfe – sul letto di Procuste delle res. Però la ragione ha una vis propria, e questa operazione è stata pagata con incongruenze, contraddizioni, veri e propri paradossi teoretici ed etici. Forse non è casuale che i primi accenni ad una visione differente della realtà e della condizione animale siano apparsi nell’illuminismo e nell’empirismo anglosassone, ovverosia in quelle correnti filosofiche che si erano proposte di guardare al reale con occhio più obiettivo e pragmatico. Da allora, dalla A Vindication of the Rights of Brutes 22 (1792) con cui il filosofo inglese Thomas Taylor intendeva fare del sarcasmo sulla Vindication of the M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 19974, p. 263. A Vindication of the Rights of Brutes, pubblicato anonimo a Londra nel 1792, ma in realtà opera del filosofo Thomas Taylor. Ripubblicato da: Scholars Facsimiles and Reprints, Gainsville (Florida), 1966. 21
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Rights of Women 23 di Mary Wollstonecraft – affermando che se le donne avevano diritti, non si capiva proprio perché non potessero averli pure gli animali! – molta acqua è passata sotto i ponti, e nel secolo scorso si è arrivati al delinearsi di una vera e propria filosofia animalista. Di una filosofia cioè, che ha conferito all’animale un posto centrale tra i propri interessi, ritenendolo degno di autonoma considerazione speculativa, e non limitandosi a pensarlo a margine di altre questioni reputate più importanti. Ed è una filosofia che – inutile dirlo – si è vista costretta ad assumere un atteggiamento assai severo verso la quasi intera nostra tradizione culturale; e l’idea che questa aveva elaborato degli animali non-umani. Parlare di filosofia animalista significa automaticamente fare i nomi del filosofo australiano Peter Singer e dell’americano Tom Regan, che ne sono stati non solo i padri fondatori ed i massimi esponenti, ma le quasi-icone viventi. Essi – il primo alla luce della propria impostazione utilitarista; il secondo giusnaturalista – cercano di fondare filosoficamente l’esigenza di un miglior trattamento per gli animali. Entrambi questi pensatori strutturano le loro riflessioni sul tema della realtà animale essenzialmente come un’etica pratica 24, che rifiuta per principio qualsiasi questione metafisica e/o ontologica. Risulta impossibile disconoscere i meriti che questi due pensatori hanno avuto nell’elaborazione e nella diffusione di un pensiero animalista: per la prima volta si è dovuto prendere atto del fatto che la difesa degli animali aveva dalla propria solide argomentazioni squisitamente e fondatamente filosofiche, e non era la filosofia degli animalisti, teoria estemporanea di un gruppo di stravaganti individui che cercavano ex eventu di fornire una base teoretica a quella che era essenzialmente una loro sensibilità particolare. Ma se la fondazione teorica di un’etica animalista non può prescindere dalle teorie dei due filosofi succitati, lo sviluppo successivo della riflessione sulla questione ha mostrato chiaramente che non può neppure arrestarsi ad essi. La visione utilitarista di Singer, oltre ad altri rilievi che potrebbero esserle posti (tipo quello di focalizzare la sua attenzione sulla sofferenza, trascurando sostanzialmente di considerare i danni, obiettivi ma non accompagnati da sofferenza), s’impatta con l’obiezione generale cui va incontro qualsiasi filosofia utilitarista. Ovverosia quegli infiniti casi in cui non viene posto in atto un comportamento che pure avrebbe una sua indiscussa utilità, per il M. WOLLSTONECRAFT, A Vindication of the Rights of Women, with Strictures an Political and Moral Subjects, London, 1792. 24 Ciò non solo in Singer, che farà di questo concetto il titolo di un suo libro; per sua esplicita affermazione, anche le considerazioni di Regan sono una teoria morale nel senso sopra indicato. 23
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semplice fatto che non viene considerato eticamente lecito. Oggi, ad esempio, in Occidente non si ritiene possibile ricorrere alla tortura per ottenere da un prigioniero informazioni che pure potrebbero essere vantaggiose, magari per salvare delle vite umane. E ciò essenzialmente perché si riconosce che ogni individuo (umano…) possiede dei diritti intangibili. È stato scritto giustamente che tali diritti costituiscono proprio la barriera dall’essere asserviti all’utile, per quanto rilevante, altrui. Sul versante opposto, il giusnaturalismo di Regan presta il fianco ad obiezioni antitetiche, ma ugualmente gravi. Com’è noto, il filosofo americano afferma che per lo meno alcune categorie di animali siano da ritenersi soggetti-di-una-vita analogamente agli esseri umani, e che pertanto anche ad essi vadano riconosciuti diritti fondamentali inalienabili. Tale concezione va incontro a due difficoltà: postula che l’attribuzione di diritti fondamentali a tutti gli esseri umani sia pacifica ed universalmente riconosciuta (mentre essa risulta di fatto inesistente – se non incomprensibile – in vaste aree del pianeta) e soprattutto presenta una fortissima coloritura antropomorfica, per cui la tutela è graduata in crescendo rispetto ad una sempre maggiore analogia con caratteristiche e facoltà possedute dagli uomini, finendo col perdere sostanzialmente di vista la specificità dell’essere animale non-umano che invece dovrebbe essere essa stessa in primis salvaguardata, rispettata e, conseguentemente, tutelata. Una nuova prospettiva filosofica, che potrebbe in qualche nodo consentire di uscire dagli empasse, opposti ma speculari, delle teorie di Singer e Regan, potrebbe essere rappresentata dall’“etica delle capacità”, elaborata negli ultimi decenni del secolo scorso da Amartya Sen, economista indiano premio Nobel nel 1988, e dalla filosofa americana Martha Nussbaum. Per i due studiosi è da considerarsi “capacità” tutto ciò che gli esseri umani sono realmente in grado di fare, avendo come modello l’idea intuitiva di una vita che sia consona alla dignità di un essere umano. Secondo tale teoria normativa, le scelte pubbliche hanno il compito principale di favorire la realizzazione di tali capacità, agevolando ciò che può condurre al loro pieno sviluppo. Ma di capacità si può naturalmente parlare non solo a proposito degli esseri umani, ma anche degli animali non umani, per cui appare legittima un’estensione della teoria in senso interspecifico. Martha Nussbaum, a tale proposito, ritiene che il possesso di varie capacità conferisce agli animali uno statuto etico, e che quindi si possano avere vere e proprie lesioni alla loro dignità, e non solo maltrattamenti o crudeltà. Allo stato attuale quindi, l’“etica delle capacità” appare come la migliore fondazione teorica per un’etica animalista.
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I RELATORI
MICHELA ANGELLOTTI, laureata in conservazione dei beni culturali, indirizzo beni storico-artistici, presso l’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è socia e componente del consiglio direttivo del Gruppo archeologico salernitano. Ha collaborato con l’Archivio di Stato di Salerno per la ricerca archivistica e l’allestimento di mostre e curato alcune pubblicazioni scientifiche. LUISELLA BATTAGLIA è professore ordinario di Filosofia morale e Bioetica presso l’Università degli studi di Genova e docente di Bioetica presso l’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli. Dirige l’Istituto italiano di bioetica. Fa parte del comitato scientifico delle riviste «Pluriverso», «Filosofia & questioni pubbliche», «Quaderni di Bioetica», «Janus». Dal 1999 è membro del Comitato nazionale di bioetica. Tra i suoi scritti: Sociologia e morale in Eugène Dupréel, 1977; Appunti per una sociologia della morale, 1981; Il dilemma della modernità, 1994; Etica e diritti degli animali, 1997; Dimensioni della bioetica, 1999; Alle origini dell’etica ambientale. Uomo, natura, animali in Voltaire, Michelet, Thoreau, Gandhi, 2002. Ha curato inoltre i volumi: Etica e ambiente, 1992; Lo specchio oscuro, 1993; Filosofia ed ecologia, 1994; Le creature dimenticate, 1998; Etica e animali, 1998. RENATA CANTILENA è professore ordinario di Numismatica greca e romana presso l’Università degli studi di Salerno. Dal 1982 al 1992 ha ricoperto la carica di direttore e di responsabile delle raccolte monetali del Museo archeologico nazionale di Napoli, coordinando le attività espositive e di ricerca dell’Istituto e partecipando all’organizzazione scientifica di numerose mostre in Italia e all’estero. È autrice di vari saggi ed opere su aspetti della produzione e della circolazione monetaria in città o comunità del Mezzogiorno (Cuma, Napoli, centri sannitici, Pompei, Paestum, Velia, Siracusa) in epoca greca e romana, su argomenti di museologia, sul collezionismo di monete antiche e sull’iconografia monetale.
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SILVANA CASTIGNONE è professore emerito di Filosofia del diritto presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Genova. Fra i suoi lavori più recenti: Diritto, linguaggio, realtà, 1995; Nuovi diritti e nuovi soggetti. Appunti di bioetica e biodiritto, 1996; Povere bestie. I diritti degli animali, 1997; Il danno esistenziale per la morte dell’animale d’affezione, 2000; Con voce di donna in difesa dell’ambiente. L’ecofemminismo, 2008; Introduzione alla filosofia del diritto (nuova edizione riveduta e ampliata), 2009. VINCENZO FERRARA, laureato in giurisprudenza e in scienze della sicurezza, con master in criminologia ed investigazione, è comandante del Nucleo Antifrodi Carabinieri di Salerno, reparto competente nel contrasto alle frodi comunitarie per l’Italia del Sud. È cultore di diritto penale presso l’Università degli studi di Salerno. MARISTELLA LA ROSA, archivista di Stato, tra il 1990 e il 2004 ha diretto gli Archivi di Stato di Sondrio e di Imperia. Nell’arco della sua attività di servizio ha curato numerose mostre documentarie e pubblicazioni, in particolare: Archivio di Stato di Imperia e Sezioni di San Remo e Ventimiglia, coordinamento scientifico e testi di M. LA ROSA, Roma 2003 (Archivi italiani, 17). Fin dal 1995 ha introdotto tematiche animaliste nelle sue ricerche. Attualmente vive a San Remo, dove si occupa di indagini storico-documentarie, con l’intento di unire al rigore scientifico l’interesse letterario e divulgativo. REMIGIO LENZA, laureato in scienze e tecnologie agrarie presso la Facoltà di agraria dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, con una tesi sperimentale sull’Analisi ecologica del fenomeno migratorio nella rondine (Hirundo rustica), dal 1985 è socio ed attivista del WWF Italia – Fondo mondiale per la natura – sezione “Valle del Sele”. Dal 1990 ricopre il ruolo di direttore dell’Oasi WWF di Persano (SA), in qualità di esperto in flora e fauna, occupandosi della gestione naturalistica di una delle più importanti aree protette del WWF Italia. MARINA LESSONA FASANO, docente di materie letterarie nei Ginnasi e nei Licei, giornalista pubblicista, ha collaborato a vari giornali, riviste culturali e programmi della RAI. Ha tenuto corsi interdisciplinari di arte e letteratura presso l’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli e seminari di letteratura italiana, letteratura comparata, bioetica presso le Università di Salerno e di Foggia. Ha pubblicato, tra l’altro, Le orme dell’amore. Il rispetto degli animali nei grandi pensatori, Soveria Mannelli, Rubbettino. Nel dicembre 2004 all’Università del Sannio di Benevento le è stata dedicata la manifestazione Percorsi simbolici e senso dell’umano nell’opera di Marina Lessona Fasano. È molto impegnata nel settore animalista ed è stata inserita tra i membri dell’Albo dei benemeriti della
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Fondazione Mondo Animale. Da trenta anni si batte per una sensibilizzazione ad un più civile rapporto con gli animali attraverso interventi critici e concreti, recuperando le testimonianze di scrittori sull’argomento e promuovendo varie iniziative in loro difesa. LUCIA FRANCESCA MENNA, laureata in medicina veterinaria presso l’Università degli studi “Federico II” di Napoli, è titolare dell’insegnamento di Igiene veterinaria presso la medesima università e dirige la Scuola di specializzazione in Tecnologia e patologia delle specie avicole, del coniglio e della selvaggina. Ha svolto attività di ricerca e seminari presso università straniere. Dall’agosto 2004 è la responsabile scientifica di un progetto di antropozoologia didattica nell’ambito dei programmi di educazione sanitaria del Comune di Napoli per le scuole medie statali. Dall’ottobre 2005 a tutt’oggi è la responsabile scientifica del progetto di Zooantropologia didattica presso l’Istituto comprensivo G. Fiorelli di Napoli. Dal settembre 2008 è coordinatrice del modulo professionalizzante in Zooantropologia per il V anno del corso di laurea in Medicina veterinaria. Dallo stesso anno è responsabile scientifica di un progetto di attività assistite con animali presso la struttura geriatrica “Colonia Geremicca” di Napoli. È autrice di numerose pubblicazioni scientifiche. PIETRO PAOLO ONIDA, laureato in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Sassari, con una tesi sulla condizione giuridica degli animali non umani in Roma antica, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in diritto romano e diritti dell’antichità a Torino, con una tesi sulla rilevanza giuridica delle classificazioni e del comportamento degli animali non umani. Professore associato di Istituzioni di diritto romano presso l’Università di Sassari dal 2003, ha pubblicato sul tema una monografia (Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002) e numerosi articoli. ORLANDO PACIELLO, laureato in medicina veterinaria presso l’Università degli studi “Federico II” di Napoli, è ricercatore confermato di Patologia generale e Anatomia patologica veterinaria presso il Dipartimento di patologia e sanità animale della Facoltà di medicina veterinaria della medesima Università. È docente presso corsi di laurea, scuole di specializzazione e corsi di perfezionamento attivi nelle Università di Napoli e di Catanzaro. Ha rapporti di collaborazione scientifica con numerosi enti di ricerca nazionali ed internazionali ed è autore di oltre cento pubblicazioni scientifiche. GIUSEPPE REALE ha conseguito il baccalaureato in Teologia presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale – Sez. S. Tommaso d’Aquino e la specializzazione in Teologia fondamentale presso la Pontificia Università gregoriana a Roma. Dall’anno
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accademico 2007/2008 è professore assistente di Filosofia della religione presso l’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli. Dall’anno accademico 2008/2009 è cultore della materia presso la cattedra di bioetica della Facoltà di giurisprudenza della II Università di Napoli. È autore di diversi studi sul rapporto tra filosofia e teologia. Collabora come docente invitato dall’Università Partenope e dall’Istituto Politeia di Napoli a programmi di studio relativi alla gestione e valorizzazione dei beni culturali, in particolare ecclesiastici. MICHELE SCOTTO DI SANTOLO, laureato in filosofia presso l’Università degli studi “Federico II” di Napoli, con una tesi sul pensiero animalista contemporaneo, esercita l’attività di insegnante e quella di redattore di articoli e saggi. Attualmente ricopre l’incarico di commissario straordinario della Sezione provinciale di Napoli dell’Ente nazionale protezione animali (ENPA).
Indice dei nomi
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INDICE DEI NOMI
Abenante, D.M. 55 Abenante, V. 55 Adelmo di Mamesbury 93 Adorno, T.W. 326 Adriano, imperatore romano 118 Agnese (sant’) 94 Agostino (sant’) di Ippona 92, 216-18 Agrippina 112 Aguzzi, A. 71 Albertario, E. 185 Alciato 96 Alessandro Magno, imperatore 114-5, 145 Alfano I, arcivescovo di Salerno 149 Aliberti, C. 3, 54 Alighieri, D. 93 Ambrogio (sant’) 94 Amendola, E.P. 31 Anassila, tiranno di Reggio 148 Andersen, H.C. 90-1, 244 Angellotti, M. 131, 149 Anguissola, G. 99 Annibale 109, 115, 142 Antola (de), R. 6, 26, 251, 257 Antonino Pio, imperatore romano 109, 116, 143 Antonio abate (sant’) 94 Apice (d’), P. 68 Ariosto, L. 93 Aristosseno 202 Aristotele 148, 182, 203-4, 219, 222, 247, 308, 313 Arminia (de), C. 255 Arminia (de), G. 25, 255 Arminia (de), T. 255
Arnó, C. 186 Arrighetti, G. 182 Ascione, I. 131 Astuti, G. 166 Augusto 118 Avossa, C. 261 Baccari, M.P. 186 Bacigalupo, M.V. 183 Bacone, F. 94 Ballarini, G. 198 Balsamo, G. 261 Barbone, A. 28 Baricalla, V. 223 Barone, F.A. 261 Barone, R. 3, 36 Basile, G. 91-2, 98 Battaglia, L. 87, 132, 135, 159, 198, 208, 223, 236, 293, 298, 321 Battista, M. 66 Baudelaire, C. 95 Bembo, P. 83 Bentham, J. 134, 193-4, 225-7, 314 Berardinelli (de), N., 44 Bernard, C. 247 Bernardo, S. 61, 67, 260 Bianchi, A. 98 Bilotti, F. 105 Bilotti, P.E. 75, 105-6, 140 Bingen (von), H. 99 Biondi, B. 176 Blasi, V. 73 Bloch, M. 136
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Per una storia non antropocentrica
Bobbio, N. 294 Boemondo Borsa 150 Bonelli, V. 82 Bonfante, P. 170 Borges, J.L. 93 Borriello, A. 44, 66 Bossi, G. 239 Bottigliero, M. 150 Bozzola, A.M. 99 Branca, G. 176 Bravo, B. 182 Breghino, P. 26 Bretone, M. 186-7 Bruno, G. 131 Bruno, V. 102 Brunschwig, J. 184 Bruun, P.M. 122 Bulgakov, M.A. 95 Buonocore, F. 259 Buonocore, T. 259 Buonomo, P. 67 Buti, I. 164 Cabassi, E. 62 Cacchi, G. 77 Caggiano, G. 261 Cagiati, M. 106 Cagno, S. 199 Caiazza, D. 60 Caiazza, E. 60 Caiazzo, E. 178-9 Cairoli, B. 12 Calabrese, A. 8-9 Calce (de la), A. 44, 256 Calciati, R. 122 Campagnia, G. 44 Campanaro, C. 199 Canciani, M. 246 Caniart, A. 95 Cannata, C.A. 179-80 Canonica, L. 245 Cantilena, R. 107, 109, 111, 115, 118, 120, 131, 137
Capaccio, G.C. 93, 96 Carafa, G., arcivescovo di Salerno 149 Caravita, P. 82 Cardalesi, P. 131 Carlino, G.I. 96 Carlo III di Borbone, re di Napoli 47 Carrano, G. 99-100 Carrano, U. 100-1 Cartesio, R. 222-4, 309, 313 Casagrande, C. 182 Casolaro, R. 101 Cassese, L. 105, 249 Cassola, C. 95 Castelli, G. 185 Castignone, S. 7, 131, 159, 181, 191, 199, 246 Catalano, P. 160, 163-4, 166, 186-7 Cavalieri, P. 159, 161, 199 Cella, C. 259 Celso 213, 216, 308-9 Cendon, P. 161 Cesare 115-6, 145 Cheche (de), F. 26, 255 Chinese, C. 259 Ciancio, R. 55 Cicerone 184 Ciliberto, M. 218 Cioffi, M. 3, 127 Cioran, E.M. 136 Clastres, P. 88 Collodi, C. 98 Colmano (san) 94 Columella, 138 Commodo, imperatore romano 113 Conella, G. 261 Conigliaro, F. 159, 161 Contino, R. 3 Copernico, N. 310 Corbino, A. 180 Corcione, D. 66, 253 Corcione, O. 26 Cortazar, J. 93 Cosco, G. 71 Costa, E. 184
Indice dei nomi
Costantino, imperatore romano 118-9, 187, 308 Cotta, S. 161 Crawford, M.H. 122 Crifò, G. 170 Crisippo 314 Cristofaro (de), G.B. 26, 251, 257 Crivellari, G. 11 Croccia, G. 56 Croce, B. 75 Croce, P. 247 Ctesia, storico greco 155 Cuccaro, M. 261 Cursi, M.F. 180 Cyrano de Bergerac (de), S. 223 D’Aguì, B. 246 D’Osma, P. 48 Dahl Rendtorff, J. 293 Daniele, F. 106 Darwin, C. 134, 193, 305 De Angelis, F. G. 82 De Capua, F., arcivescovo di Salerno 149 De Francisci, P. 175 De Giovanni, L. 187 De Mori, B. 159, 236 De Negri, F. IX De Robertis, F.M. 180 De Rosa, T. 84-5 De Sio, A. 261 De Sio, F. 261 De Visscher, F. 174, 176 De Vita, V. 55 Del Giudice, P. 176 Dentoni Litta, F. 103 Dentoni Litta, R. 3, 105 Depretis, A. 12 Desanti, L. 187 Desiderio, abate 149, 152 Detienne, M. 182 Di Porto, A. 164 Di Simone, G. 78 Di Somma, E. 3 Diera (di), G. V. 250, 252
335
Diodati, L. 106 Diogene Laerzio 201-2 Dionigi, tiranno di Siracusa 141 Ditadi, G. 135, 183, 203, 208 Domiziano 118 Doria, G., principe d’Angri 10, 57 Drago, I. 98 Dumézil, G. 186 Durante, A. 23 Eckhel, J.H. 106 Efendi, ambasciatore turco 47 Eicher, P. 322-3 Einaudi, L. 249 Elefante, B. 45, 67, 61, 259, 261 Elefante, N. 61, 67, 260 Elisabetta, regina d’Inghilterra 48 Empedocle 183-4, 203, 308 Eraclito 183 Erasmo da Rotterdam 83, 311 Ermippo di Smirne 184 Esiodo 182 Esopo 90-1 Eula, E. 267 Fabbretti, N. 246 Falchi, G. 169 Fanzago, C. 149 Faorzi, R. 98 Farina, M. 39 Farina, M. senior 45-6 Fassò, G. 225 Faustina II, imperatrice romana 111 Fedeli, P. 171 Fedro 91, 95 Fenza (de), S.A. 7, 28 Ferdinando IV di Borbone, re delle Due Sicilie 108 Ferrara, V. 131, 135, 271 Ferrari, G.A. 67, 260 Ferrari, M. 57, 262 Ferraro, C. 252 Ferraro, D. 25, 255
336
Per una storia non antropocentrica
Ferraro, G. 25, 255 Forgione (de), G.P. 8, 44, 252 Forgione (de), C. 43, 252 Foscari, G. 13 Francesco (san) d’Assisi 94, 241, 245 Franciosi, G. 174 Frangipane, C. 152 Freud, S. 88 Frosini, V. 161 Gaio 168-71, 173 Galardo (de), D.A. 26, 251, 257 Galardo (de), G. 26, 251, 256 Galdo, A. 28 Galdo, B. 28 Galdo, R. 27 Galileo 94, 310 Galimberti, U. 88 Galleni, L. 159, 161 Gallieno 108 Gallo (san) 94 Gallo, A. 84-5 Gallo, F. 169-70, 172-4 Gallo, P. 161 Gallotta, A. 3, 50 Gallotta, A. senior 50, 131 Gallotta, L. 31, 50 Gandhi 305 Garavelli, P. 159 Gardner, A. 223 Gardner, B. 223 Garibaldi, G. 11, 59, 103, 193 Garrucci, R. 106 Genovese, M. 28 Gensabella, A. 297 Gentile, A. 3 Gerardo (san) 94 Giamblico 202 Giangiulio, M. 182 Giangrieco Pessi, M.V. 167, 170, 176-7, 179 Gibone, A. 26, 255 Gilligan, C. 296 Giolito de’ Ferrari, G. 80
Giordano Bruno 216, 310-1 Giordano di Capua 150 Giordano, E. 69 Girlanda, A. 321 Girolamo (san) 94 Gisulfo II, principe longobardo 149 Giustiniano 189 Goria, F. 160, 163 Gould, S. J. 89 Granito, E. 3, 13, 131, 136, 201 Grazi, V. 11-2, 59 Graziano Camillucci, E. 99 Grimm, fratelli J. e W. 91 Grosso, G. 160, 163, 165-6, 168 Grozio, U. 225 Guarino, A. 161, 173 Guelfi Camajani, P. 84 Gugliuctio (de), B. 252 Guida, F. 13 Guisana, moglie di Landolfo Butrumile 156 Hammurabi, re babilonese 138 Havelock, E.H. 182 Heidegger, M. 297 Holandre, F. 94, 98 Horkheimer, M. 326 Hume, D. 192, 310 Iaccio, P. 31 Imbert, C. 184 Impallomeni, G. 179 Inglese, L. 184 Innella, F. 3 Ippoliti, G. 64-5, 69 Isaia (profeta) 94 Isnardi Parente, M. 184, 201, 203 Jesi, F. 186 Jonas, H. 135, 269, 315 Josse (de), R. 106 Kafka, F. 90 Kant, I. 192, 301, 308
Indice dei nomi
Kemp, P. 293 Kundera, M. 208, 316 La Fontaine (de), J. 91 La Francesca, P. 10, 54, 57, 251, 262-3 La Porta, B. 67, 260 La Rosa, M. 131, 239-3, 245 Lanata, G. 159, 181 Landi, C. 106 Landolfo 156 Langella, A. 3 Langella, G. 70 Langella, L. 69-70 Lantella, L. 160 Laurito, C. 56 Le Roy Ladurie, E. 240 Lemmi, R. 99 Lempa, F. 186 Lenel, O. 178 Lenza, R. 131, 287 Leonardo da Vinci 217, 310-1 Leone, vescovo di Ostia 77 Leopardi, G. 314 Lepore, G. 272 Lessona Fasano, M. 132, 304, 317 Levi, C. 95 Liechtenstein, P. 75 Linneo, C. 94, 98 Lista, G. 65, 69 Liuzzo, G. 62 Livio 118 Locke, J. 308, 312-3 Lombardi Vallauri, L. 162, 209, 236 London, J. 95, 99 Longhi, T. 77 Longo, C. 186 Lozano Corbí, E. 179 Lucarini, O. 99 Lucrezio 25, 307 Lustria (de), G.G. 61, 66, 253 MacIntyre, A. 298-302 Magliani, A. 11-2, 59
337
Magnan, D. 106 Majorino, D. 28 Manfré, G. 80 Manganelli, G. 91 Mann, T. 95 Mannucci, A. 157, 199 Mantello, A. 185 Mantovani, D. 168 Manuzio, A. 76, 79, 83-4 Manuzio, P. 83-4 Manzini, V. 278 Manzione, F. 3, 25-6, 43, 54, 57, 66-7, 103, 131, 249 Manzo, M. 3, 22 Maraini, D. 101 Marano, G. 67, 260 Marcialis, M.T. 223 Marco Aurelio, imperatore romano 111, 113 Marinelli, F. 161 Marmo, M. 55 Marotta, V. 186 Marrone, M. 161 Marsico, G. 293 Martorelli, G. 101 Marx, K. 236 Mattingly, H. 122 Mauro, C. 28 Mazzarelli, C. 183 Mazzoni, C.M. 161 Meldini, P. 244 Mele, D. 7, 27 Melillo, G. 160 Melville, H. 94, 99 Menna, L.F. 132, 318 Mensa, G. 44 Meola, T. 3, 32 Messinetti, D. 161 Midgley, M. 199 Miglietta, M. 180 Migliori, M. 184 Mionnet, T. 106 Mommsen, T. 176 Monaco, A. 261
338
Per una storia non antropocentrica
Montaigne (de), M. 5, 218-20, 222, 310-1 More, T. 217, 310 Mori, N. 71 Morin, E. 294 Mørkholm, O. 122 Mormile, C. 95 Morrone, N. 55 Morselli, G. 315 Müller, J. 75 Murat, G. 10, 59, 62-3 Musso, G.P. 252 Naglieri, F. 70 Napoli, L. 3 Natale, A.R. 242 Nella (de), F. 44, 256 Nerone, imperatore romano 113 Nesi Sirgiovanni, S. 159 Nibbio, D. 75 Nicosia, G. 169-70, 172-3 Nobile, U. 103 Nussbaum, M. 300-2, 328 Omero 91, 93, 192, 307 Onida, P.P. 131, 159-60, 166-70, 173, 176-7, 181, 185-8 Orazio 192 Orestano, R. 160, 164, 166 Origene 309 Orwell, G. 317 Ovidio 89, 138 Pace, A. 96 Paci, G. 80 Paciello, O. 131, 265 Paglia, M., arcivescovo di Salerno 149 Palamone, G. 55 Palma (di), P. 66 Paoletta, B. 261 Paolo (san) 309 Paolo V (papa) 77 Paolo VI (papa) 245 Pascal, B. 87
Pascoli, G. 57 Pasquini, C. 272 Pasteur, L. 8 Payson Evans, E. 243 Pellegrino, C.A. 28 Penna, P. 44 Perelman, C. 294 Peroni, L. 242 Perrault, C. 91-2 Perri, F. 158 Petito, R. 44 Pianz, J.D. 47 Piccolomini, M. 182 Pier Damiani (san) 152 Pillon, A. 159 Piro, I. 167 Pirro, re dell’Epiro 115, 139, 145 Pisapia, C. 29 Pitagora 180-1, 183-4, 201-2, 307 Pizza, N. 28 Platone 87, 183, 214 Plinio 139, 151, 154 Plotino 213 Plutarco 139, 183-4, 191, 210-3, 229, 303, 307-8 Pocar, V. 159, 199 Pollo, S. 132 Pollux (Polluce) 138 Polojac, M. 167 Pontano, G. 77 Popper, K.R. 306 Porfirio 184, 214, 216, 218, 307-8 Prota, B. 28 Pucciarelli, D. 8, 45 Pugliatti, S. 166 Punzo, G. 67 Quadrato, R. 160 Ragoni, F.A.D. 178 Ramelli, I. 183 Ravasi, G. 321 Rè, G. 44 Reale, Gio. 183
Indice dei nomi
Reale, Giu. 132, 320 Reduzzi Merola, F. 164 Regan, T. VIII, 134, 159, 194, 199, 224, 230-5, 246, 327-8 Reich, W. 297 Repici, L. 184 Rescigno, F. 159, 162, 165, 189 Riboli, T. 11, 59 Ricciardi, G. 66-7 Riccio, G. 106 Ricotti, C. 48 Rini, R. 159 Rispoli, N. 82 Rispoli, V. 82 Ritio, F. 44 Rizzo, P. 261 Robbe, U. 176, 178 Roberto il Guiscardo 149-50, 156 Robleda, O. 164 Rocca, S. 185, 187 Rocco (san) 94 Rodríguez-Ennes, L. 179 Roger, A. 184 Romano, M. 182 Rorario, G. 310 Rossano, P. 321 Rossi (de), G. 26, 256 Rossi, C., arcivescovo di Salerno 150 Rouille, G. 78 Rousseau, J.J. 133, 225 Rubano, R. 261 Ruesch, H. 247 Ruggero Borsa 150 Ruggiero, G.N. 75 Ruscelli, G. 82 Rusconi, G. 79 Russell, B. 209 Russo, D.A. 28 Russo, F. 44 Russo, G. 199 Rutter, N.K. 122 Sabatino, C. 7, 27, 44, 66
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Sabiola, D. 258 Sacchi, A. 321 Salt, H. 305 Salzano, A. 29 Sambon, J. 106 Sanchez de Luna, I., arcivescovo di Salerno 149 Santese, G. 184 Santoloci, M. 199 Sarno, L. 261 Savigny (von), F.C. 186 Scaglione, F. 75 Scardovi, P. 102 Scarsato, I.F. 94 Scherillo, G. 160, 166 Schiavino, M.T. 3, 75-6, 84, 95, 100, 106 Schiavone, A. 168 Schimmel, A. 321 Schopenhauer, A. 308, 310 Schrevel, C. 80 Schulze, J. H. 106 Scialoja, V. 166, 179, 186 Scocozza, V. 261 Scotto di Santolo, M. 132, 326 Sen, A. 328 Seneca 185 Senocrate 184 Senofane 148, 201 Sessa, Gio. Bat. 81 Sessa, Gio. Ber. 81 Sesto Empirico 203, 219 Sgrilli, R. 98 Shakespeare, W. 310, 312 Shelley, P.B. 246 Siani, P. 28 Siano, F. 29 Sichelgaita 149 Simonide 148 Singer, I.B. 95 Singer, P. 7, 134-5, 159, 194, 199, 223, 225-30, 234, 246, 327-28 Sini, F. 160, 186 Sircana, F. 182 Sissa, G. 182
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Per una storia non antropocentrica
Sole, A. 3, 65 Stefanino (de), J. 43, 252 Stolfi, E. 164 Storchi, M.L. 131 Stuart Mill, J. 235, 246, 317 Sutherland, C.H.V. 122 Sydenham, E. 122 Tacito 207 Tafaro, S. 163, 186 Tallacchini, M. 159, 199 Taylor, T. 326 Teofrasto 135, 184, 203-7, 214, 218, 308 Thomas, Y. 166 Tibaldi Chiesa, M. 90, 98 Tiberio, imperatore romano 108, 142 Tocco, F. 68 Tolomeo II, re di Egitto 110 Tolstoj, L. 95, 305 Tommaso d’Aquino 192, 309 Tonelli, A. 183 Tonetti, L. 3, 41 Tonutti, S. 12, 199 Traiano, imperatore romano 113 Travaglini, F. 199 Trisciuoglio, A. 160, 166 Trittolemo, re di Eleusi 184 Troiano, G. 44 Trombetta, L. 29 Ulpiano 167, 185-7 Vacca, L. 180 Vairo, P. 78 Valditara, G. 179 Valiño, E. 179 Van Potter, R. 296
Varrone 139 Vassallo, G. 8, 26, 61, 66, 253, 255 Vecchione, A. 45, 259 Vegetti, M. 181-2 Vento, S. 105 Verdone, B. 258 Verga, G. 8, 43 Vernant, J.P. 182 Veronesi, U. 236 Vescovi, E. 101 Vespasiano 118 Vidal-Naquet, P. 182 Villani, P. 249 Vincenti, U. 160 Viola, F. 159, 161 Virgilio 307 Viscatale, F. 27-8 Vittorio Emanuele III, re d’Italia 113 Voci, P. 175 Voltaire 224, 298, 310 Watson, A. 173 White, L.Jr. 208 Winter, A. 11, 59 Wolf, P.G. 99 Wolgast, E. 298 Wollstonecraft, M. 327 Zambon, F. 88, 93 Zampini, M. 90, 98 Zanardelli, G. 273 Zanoia, G. 245 Zecchinato, P. 235 Zenaro, D. 82 Zoroastro 307 Zuccotti, F. 176, 178
Indice dei nomi
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Per una storia non antropocentrica
Finito di stampare nel mese di marzo 2010 dalla Tipografia Top Print di Cava de’ Tirreni (SA)